Ricchi di martiri
Che ci dice la vicenda dei certosini di Farneta
“
io non
mi vergogno
del vangelo
“
Luigi Accattoli
E
ra: «Se veniamo uccisi voi dite che è stato a causa della carità» il titolo che avevo proposto per un
libretto su un fatto di significato cristiano della Seconda guerra mondiale, che nel sottotitolo segnalavo come
«storia mirabile e sconosciuta dei certosini di Farneta fucilati dai tedeschi
nel 1944». Il titolo non è stato accettato, come capita, ma il libro l’hanno
preso ed esce ora: La strage di Farneta. Storia sconosciuta dei dodici certosini fucilati dai tedeschi nel 1944 (Rubbettino, Soveria Mannelli – CZ 2014,
pp. 138, € 12).
Mi era già capitato di farmi certosino per tre giorni allo scopo di intervistare il priore di Serra San Bruno in prospettiva della visita di papa
Benedetto, avvenuta poi il 9 ottobre
2011. Ne era venuto il volumetto Solo
dinanzi all’Unico. Colloquio con il Priore della Certosa di Serra San Bruno
(Rubbettino, Soveria Mannelli – CZ
2011, pp. 140, € 12; cf. Regno-att.
18,2011,647).
Ho indossato
la cappa del postulante
Ho ripetuto l’esperienza dei tre
giorni in Certosa, stavolta a Farne-
ta (Lucca), per indagare sul martirio di quei monaci incredibilmente trascurato – nella Chiesa – fino a
oggi. Ho cenato alle 18, sono andato
a dormire – in una stanza della Foresteria interna – alle 19.30 mettendo la sveglia alle 23. Alle 23.25 ho indossato la cappa nera dei postulanti e ho percorso vialetti, salito gradini, costeggiato celle per arrivare alla
chiesa conventuale, guidato dal padre bibliotecario che era il mio tutor
in quei giorni. Al centro del coro dei
monaci era inginocchiato il sacrista,
immobile nel buio, con le due mani
sulla corda della campana. Dalla postura orante del monaco sacrista imparavo come possa divenire liturgia
il tiro delle campane.
Alle 23.30 i rintocchi del Mattutino avviavano i canti del Primo notturno. Straordinario equilibrio della
riforma liturgica certosina: ha introdotto la comunione sotto le due specie, la concelebrazione, le letture in
italiano; ma ha conservato il latino
della salmodia, quel loro recto tono
simile al gregoriano, la messa solitaria di ogni monaco sacerdote. Chi ha
detto che non vi può essere osmosi
tra vecchio e nuovo ordo? Il rito certosino ora unisce la vitalità del nuovo alla solennità dell’antico. Un modello per la riconciliazione tra le due
forme del Rito romano auspicata da
papa Benedetto, che le invitava ad
«arricchirsi a vicenda» (Regno-doc.
15,2007,457ss).
Oltre alla cappa del postulante, che a Serra non avevo indossato,
dal priore di Farneta ho avuto un’altra sorpresa: mi ha invitato a parlare
ai 21 confratelli con i quali due volte ho cantato il Mattutino e due volte sono stato alla Messa conventuale. Mi hanno chiesto una conversazione su papa Francesco e mi hanno
fatto le domande che già avevo raccolto nelle varie conferenze, ma senza i toni polemici che sempre spun-
tano in esse. Ho visitato – prima di
prendere congedo – i vecchi ambienti di lavoro dei conversi: stalle e fienili, lavatoio per le pecore, pollaio,
frantoio, mulino, cantina, distilleria,
forgia, forno. Le pecore che scendono e risalgono dalla vasca, prima e
dopo la tosatura: guardando com’era fatta mi pareva non solo di vedere
il passaggio del gregge, ma di sentire i graffi della forbice sul groppone.
Ho trovato questi ambienti più interessanti della biblioteca e dell’archivio, della sartoria e della cucina, che
pure ho visto, sempre domandando.
La pazienza dei certosini provoca
all’inchiesta.
Alla ricerca di un fatto
primario e sconosciuto
A Serra San Bruno ero stato felice ascoltando il padre priore che mi
confidava come tutto il Vangelo per
lui si riassuma nelle parole «misericordia, compassione, tenerezza» e
che questo egli l’affermava non per
dottrina ma per esperienza, sollecitando una maggiore apertura di tutti
«all’inedito e al non sperimentato».
Avevo avuto consolazione ad ascoltare quelle parole che oggi Francesco pone ad antifona della sua predicazione. A Farneta ho avuto un’analoga consolazione dalla scoperta che le calde insistenze del nuovo
papa a «uscire» possono essere intese nel giusto senso anche da chi fisicamente non esce mai, ma da eremita vive immerso nella Catholica e si
prostra nella notte sulla terra rotonda a nome di tutti.
Nel libretto che ho intessuto con i
materiali raccolti a Farneta racconto
un fatto primario e sconosciuto della
reazione italiana all’occupazione tedesca, forse il più corposo dal punto di vista cristiano: dodici monaci
fucilati perché nascondono nel monastero un centinaio di ricercati dai
Il Regno -
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Quel memorabile
ottavario del martirio
Straordinari aspetti simbolici arricchiscono la vicenda. I dodici vengono da sei nazioni, hanno varie età,
portano con sé singolari esperienze. Tre sono di lingua tedesca ma
ciò non vale a salvarli dall’ordine del
«fuoco!» dato in tedesco. Uno era
stato vescovo in Venezuela, ne era
stato cacciato da un dittatore e i nazisti lo prendono per una spia americana. Un altro è spagnolo e in patria
otto anni prima si era avventurosamente salvato da un analogo assalto
alla Certosa di Montalegre portato
dai rivoluzionari rossi: come se fosse
destino, suo e dei certosini che fuggono il mondo, di provocare la furia
d’ogni milizia violatrice della dignità dell’uomo. Qui in verità è il titolo del loro martirio: hanno sfamato e
nascosto chi era minacciato, hanno
avuto pietà quando la pietà era bandita.
L’hanno argomentata e pregata
quella compassione per i perseguitati: qui è un altro elemento che fa
ricca la storia. Dal 2 settembre 1944
quando la Certosa viene «rastrellata» – come annota un documento
dell’occupante tedesco – al 10 settembre quando i più tra loro vengo-
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no mitragliati, in quell’ottavario del
martirio i dodici attestano in gesti
e parole il significato dell’opera che
hanno svolto e per la quale danno
la vita. Sono prigionieri con loro 22
confratelli che sopravvivranno, alcuni contadini e dipendenti della Certosa, i tanti da loro beneficati e centinaia di altri «rastrellati» che narreranno gli sguardi, le battute di spirito, il loro modo di dividere il cibo
e la paglia, di invocare Dio, di alzare gli occhi con uguale sentimento su
ognuno che a loro si avvicinasse.
Nonostante l’oro che porta con
sé, questa vicenda è sconosciuta alla
memoria collettiva. Eppure su di
essa si sono tenuti tre processi (Firenze 1947, La Spezia 1948, La Spezia 2004) e hanno lavorato gli storici locali e i monaci che presero il posto dei fucilati nella guida della comunità: il monastero tornò alla vita
normale dopo la ritirata dei tedeschi,
con il rientro dei deportati e con l’affluenza di monaci da altre Certose. Più circostanze hanno concorso
all’oscuramento del fatto nella grande divulgazione: l’atteggiamento riservato dei certosini, la scarsa attenzione della comunità cattolica a una
realtà monastica percepita erroneamente come chiusa in sé stessa, il
conflitto interpretativo dell’evento
tra chi lo collocava nell’orizzonte della Resistenza e chi invece l’intendeva come opera di carità lontana dalla politica.
Autorizzato
dal ministro dell’ordine
La possibilità di portare oggi questo fatto al grande pubblico con una
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mi vergogno
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nazifascisti, compresi perseguitati
politici, partigiani ed ebrei. Si tratta di sei monaci sacerdoti e sei fratelli laici, fatti prigionieri dalle SS con
un’irruzione in Certosa nella notte
tra il 1° e il 2 settembre 1944, condotti prigionieri a Nocchi di Camaiore e poi a Massa, uccisi a piccoli gruppi e in diversi luoghi, due il 7
settembre e gli altri il 10 settembre.
Vengono fucilati negli stessi giorni e luoghi altri 32 catturati in Certosa, in parte perché ritenuti colpevoli di resistenza all’occupante alla
pari dei monaci, in parte selezionati
per fare numero in azioni di rappresaglia, sommati a decine di altri rastrellati in quelle giornate di ritirata delle truppe tedesche dalla Lucchesia: la Quinta Armata americana
entra in Lucca il 5 settembre e Farneta è a soli otto chilometri, in direzione Nord-ovest, poco oltre il fiume
Serchio.
narrazione breve, che è lo scopo del
mio volumetto, è dovuta al parziale superamento di quegli ostacoli. Il
primo superamento riguarda il riserbo dei certosini: a seguito della mia
esperienza di Serra San Bruno – ricordata all’inizio – ho avuto dal ministro generale dell’ordine l’autorizzazione a pubblicare la Relazione sui
martiri di Farneta che l’ordine stesso
inviò nel 1999 alla Commissione vaticana per la Commemorazione ecumenica dei testimoni della fede del
XX secolo, 7 maggio 2000 (cf. Regno-doc. 11,2000,329ss e Regno-att.
10,2000,299ss.).
Il secondo superamento – quello del conflitto interpretativo – è più
importante e più complesso a dire:
qui basterà segnalare che finalmente,
nelle pubblicazioni degli ultimi anni,
le conclusioni degli storici vengono a
coincidere, nella sostanza, con quelle degli eredi diretti dei protagonisti,
come sono consegnate alla Relazione
che dicevo.
Nei giri per conferenze mi trovo
spesso a trattare di giusti delle nazioni e di testimoni del nostro tempo, e
tra quelli che hanno testimoniato con
il sangue metto sempre i certosini di
Farneta, che chiamo «martiri della
carità e dell’aiuto agli ebrei» e sempre vengo ascoltato con meraviglia
dai tantissimi che non hanno mai inteso la loro storia. Persino in Toscana succede così e anche in ambienti
che coltivano memorie di martirio simili a questa.
Mio suggerimento
ai vescovi della Toscana
I certosini per una consuetudine
quasi millenaria – il IX centenario
dell’ordine è stato celebrato nel 2001
– non promuovono cause di canonizzazione, ma nulla osta che il riconoscimento del chiaro martirio dei dodici di Farneta sia promosso – poniamo – dai vescovi della Toscana. Colpisce che a oggi siano state quasi solo
laiche e civili le iniziative che hanno
tenuto vivo il ricordo di una vicenda
che è di Chiesa. Quest’anno – in settembre – cade il LXX di questi martiri: è un’occasione da cogliere.
www.luigiaccattoli.it
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