VANITY SEGNALIBRO
CANE PAZZO
• LA TRISTE STORIA DI BUSTER •
«QUATTRO ANNI FA MI TROVAI
IN UNA RELAZIONE VIOLENTA.
ERO COPERTA DI CICATRICI.
LUI ERA LUNATICO, IMPREVEDIBILE.
EPPURE, A DISPETTO DI TUTTO,
LO AMAVO. NON ERA MIO MARITO,
NON ERA IL MIO FIDANZATO. NON
ERA NEPPURE UN ESSERE UMANO».
IL RACCONTO CHE STATE
PER LEGGERE VI PORTERÀ VIA
UN PO’ DI TEMPO, MA NE VALE
LA PENA. PRIMO, PERCHÉ
È OPERA DI UNA TRA LE PIÙ
BRAVE SCRITTRICI AMERICANE.
SECONDO, PERCHÉ VI FARÀ
ENTRARE IN UNA LOVE
STORY, VERA E DIFFICILE,
CHE NON POTRÀ NON
COMMUOVERVI UN PO’
DI
CAT H L E E N S C H I N E
Autrice di «La lettera d’amore»
23.03.2006 VANITY FAIR
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Q
uattro anni fa mi trovai coinvolta in quella che, a detta di
tutti i miei amici, di tutti i miei
cari, era una relazione violenta. Ero coperta di graffi e cicatrici. Quando il mio figlio
maggiore tornava a casa dal
college veniva accolto con scenate di rumorosa, minacciosa aggressività. Il figlio minore, che ancora viveva in
famiglia, provava a mediare, ma la sua gentilezza veniva quasi sempre ricambiata con l’aggressività. Mia madre, terrorizzata, si rifiutava di mettere piede in casa
mia. Nessuno, in effetti, veniva più a farci visita. E non
eravamo più benvenuti a casa di nessuno. La più breve
passeggiata intorno all’isolato nascondeva la minaccia
di una rissa. Di notte, dentro il letto, sentivo il calore del
suo corpo vicino al mio e cercavo di non muovermi. Non
volevo provocarlo perché lui era lunatico, imprevedibile. Ma sentivo, nei suoi confronti, un senso di responsabilità. E, a dispetto di tutto, lo amavo.
Non sto parlando di mio marito: con quello mi ero appena lasciata. Non era nemmeno un nuovo fidanzato
(in effetti avevo fatto una di quelle scoperte inattese della mezza età, e convivevo con una donna). Il mio compagno ingombrante, distruttivo, disperato e struggente
non era neppure un essere umano. Era un cane. O, come continuavano a ripetermi amici e familiari, era «solo un cane».
La prima volta che lo avevamo visto, ci era sembrato un
tenero cagnolino di due anni o poco più. Un giorno di
primavera, lui era l’ultimo di una fila di cani in gabbia
in un negozio di Los Angeles. Tutti randagi in attesa di
adozione, tutti occupati ad abbaiare, guaire e lanciarsi contro le maglie di ferro della rete. Lui, però, non abbaiava né guaiva. Se ne stava dritto, docile, la testa inclinata in attesa, scodinzolante. Quando lo avevo preso in
braccio, aveva avuto un sussulto di gioia e si era tuffato
felice a leccare il mio volto, facendomi provare un’ondata di intenso, inatteso, istantaneo amore.
«Perché vuoi un cane?», mia madre mi aveva chiesto. «Lo
so perché. Perché tuo figlio sta per andare all’università». Mi aveva guardato con commiserazione. «Quando
sei andata tu al college, mi sono presa un geranio».
Buster - questo il nome che gli avevamo dato - era un bastardino dalle gambe storte, il pelo corto dal colore insignificante, il torace forte da bulldog, la coda troppo lunga per il corpo, le orecchie una ritta e l’altra floscia. Gli
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occhi grandi e ansiosi di un chihuahua, il muso grinzoso
di un carlino e le ferite di guerra di un pastore tedesco.
Addentava i giocattoli e li strattonava con la forza di un
pit bull. Era stato abbandonato al canile municipale di
Los Angeles, dove i cani più grandi gli rubavano il cibo.
Era arrivato a poche ore dall’eutanasia quando un’associazione di volontari gli aveva trovato una sistemazione.
Erano venuti ad accertarsi che casa nostra fosse accettabile per lui. Nessuno si chiese, però, se la convivenza sarebbe stata accettabile per noi. Forse i volontari, vedendo come si era lasciato abbracciare e baciare, si erano illusi che tutto in lui fosse normale. Forse erano confusi, o
magari solo disperati.
E
Ero cresciuta leggendo le storie eroiche dei collie, quelli dei romanzi per ragazzi. Ed erano collie i cani dal pelo infeltrito che facevano compagnia a me e a mio fratello nelle scorribande della nostra infanzia. Sarebbero
stati pronti a saltare alla gola dei nostri assalitori, come
Buff e Lad, gli eroi dei miei libri? A vagare per mesi, cibandosi di sole bestie selvatiche, mentre cercavano me,
la loro padroncina smarrita? Probabilmente no. Nella
realtà, erano bravi soprattutto a inseguire i bambini nel
prato della scuola, durante la ricreazione. O a perdersi,
fino a quando qualcuno, dalla città vicina, ce li riportava a casa, e loro ci salutavano con l’allegria semplice di
chi sa di avere combinato un pasticcio, ma sa anche che
verrà perdonato.
Questo, per me, erano i cani. Fino a un pomeriggio in
cui - avrò avuto otto anni - mi trovai a casa, inspiegabilmente sola, attaccata alla tv a guardare il programma
del Mickey Mouse Club. Laurie, l’ennesimo collie di famiglia, mi spinse il muso sulla faccia. La cacciai via. Lei
tornò alla carica, uggiolando. La ignorai. Mi speronò la
spalla, mi leccò la faccia, spinse ancora, abbaiò, iniziò a
correre freneticamente tra me e la porta, fino a quando
mi alzai con riluttanza e la seguii verso il corridoio. E lì
vidi le fiamme e il fumo che, partite dalla mia camera da
letto, stavano per invadere tutto l’appartamento. Ancora
qualche minuto e sarei rimasta intrappolata. Il mio collie dalle zampe tozze mi aveva salvato la vita.
La devozione verso un cane che ti ha salvato la vita non
è un sentimento difficile da capire. Ma come spieghi la
devozione verso un cane che non è il migliore amico dell’uomo? Che non è fedele e generoso? C’è un manuale di
addestramento intitolato I cani cattivi non esistono. Ma che
cosa succede quando un cane è davvero cattivo, e il suo
padrone sei tu? Quando un cane cattivo capita in sorte a
un padrone buono? Quando un animale sfida ogni possibilità di terapia, si rifiuta di essere salvato?
La prima sera che Buster passò a casa nostra, gli versammo la cena - tutti contenti - nella sua ciotola, sul pavimento della cucina. Lui corse e ficcò il muso nel cibo
biologico, cibo che sarebbe stato buono anche per un
essere umano. Ci fermammo a guardarlo, fieri di averlo
salvato da una vita difficile. C’è qualcosa di molto gratificante nell’accogliere una creatura che nessun altro vuole: un barlume delizioso di superiorità morale, il piacere forte e sorprendente della generosità. Forse c’era
un orgoglio un po’ troppo spavaldo nel modo in cui la
mia compagna e io lo guardavamo. Ma se rivedo la scena e ripenso a noi due, la coppia che apre il suo ménage per accogliere un cane disgraziato, l’unico sentimento che provo è la tenerezza. Non avevamo idea di quello che ci aspettava.
Improvvisamente, Buster rizzò la testolina da chihuahua
e scagliò il muso da carlino verso la sua stessa coda.
Scoprì le zanne da pit bull - tutto questo successe nell’arco di pochi secondi - e poi, ringhiando selvaggiamente,
come se un altro cane avesse minacciato di rubargli il cibo, iniziò a modersi la coda, il fianco, la zampa. Un turbinio di morsi e digrignare di denti. Una rissa, la più furiosa che avessi mai visto, e il nemico era lui stesso.
Più tardi, quella sera, Buster saltò sul mio letto, si infilò sotto le coperte, posò la testa sul cuscino come un
ometto e si addormentò. Ma verso le tre di notte mi svegliai, terrorizzata. Un ringhio profondo e furioso vibrava a due centimetri dalla mia faccia. Buster, gli occhi fuori dalle orbite, dava la caccia a qualcosa che non c’era.
Dormire con lui, scoprii ben presto, era come andare a
letto con un reduce del Vietnam gravemente traumatizzato. Il suo sonno era affollato di demoni. La prima
volta che lo lasciammo solo in casa, rientrando appena
mezz’ora dopo lo trovammo ansimante, con la bava alla
bocca, intento a leccarsi le ferite che si era appena procurato, su un divano coperto di sangue.
E così, quando Buster venne a vivere da noi, iniziò anche la nostra battaglia per salvarlo.
N
Nell’anno e mezzo che seguì, tentammo di tutto. Gli facemmo i raggi alle zampe, alla spina dorsale, alla coda. Gli facemmo le analisi per ricercare ogni forma conosciuta di verme o parassita. Provammo a sottoporlo a
una dieta ipoallergenica a base di carne di cervo e pata-
te dolci. Ci rivolgemmo a un chiropratico e a un esperto
di agopuntura. Sperimentammo i massaggi del metodo
BodyWorks e della scuola Feldenkrais. Tentai di calmarlo con spray idratanti, prodotti di erboristeria, formule aromaterapiche. Provai ad andare su Internet e a fare su Google la ricerca «cane e automutilazione», e tutto
quello che trovavo erano articoli di veterinaria sui cani
che si graffiano. Magari fosse questo il problema, pensavo. Riprovai con «cane e disturbo ossessivo-compulsivo»,
ed entrai in contatto con esperti di comportamento animale in tutti gli angoli del Paese. Guardavo in tv il programma Emergency Vets, nella speranza di trovare qualche indizio che mi aiutasse a capire il comportamento di
Buster. Guardavo anche Animal Precinct, e non so raccontare la frustrazione che provavo nel vedere tutte le storie
vere di quei cani randagi, affamati, pieni di cicatrici, che
appena trovavano un padrone lo ripagavano con affetto
smisurato, obbedienza e montagne di coccole per i bambini di casa. Un solo tentativo non facemmo: non ci rivolgemmo a un medium. Ma nelle notti più difficili persino quella sembrava una strada praticabile.
Non potevamo lasciare Buster solo a casa. Ma se lo portavamo in macchina con noi, si scagliava in continuazione contro i finestrini nel tentativo di azzannare ogni ciclista, motociclista o pattinatore che ci passava davanti.
Se pioveva, dichiarava guerra ai tergicristalli. I custodi
dei parcheggi si ritraevano quando io abbassavo il finestrino per pagare mentre la mia compagna teneva ferma
a fatica la pallottola ringhiante. Quando gli davamo da
mangiare dovevamo stargli letteralmente sopra, tenerlo
stretto tra le gambe, nel tentativo di rassicurarlo, di fargli capire che nessuno era in agguato pronto a rubargli il
cibo. Nemmeno quello bastava, però, e ben presto prendemmo l’abitudine di nutrirlo a mano, un boccone alla volta. Buster spesso mordeva quella mano. Mordeva
la mano che gli dava da mangiare, quella che lo lavava,
quella che lo accarezzava. Ogni volta, dopo averci aggredito, uggiolava e ci leccava, come fosse pentito. Se gli
dicevi la parola magica, kisses, ti si lanciava addosso e ti
lavava la faccia con la lingua. Se fischiavi ululava con te,
in modo comico. Aveva il terrore degli uomini - soprattutto quelli con i cappelli e, cosa particolarmente imbarazzante, quelli di colore - ma lo spaventavano anche le
donne e i bambini. Odiava gli altri cani.
Se ti mettevi a leggere, sdraiato sul divano, Buster ti si
spaparanzava addosso. In quei brevi momenti di pace,
mi dicevo che era proprio un bel cane. Aveva messo su
peso. La schiena era muscolosa, il pelo lucido. E io osa-
vo sperare. Ma durava poco. Un giorno, la nostra vicina
di casa fece per accarezzarlo e lui la azzannò, ferendole la mano. Lei fu incredibilmente ragionevole, avrebbe
potuto farci causa e nemmeno ci pensò. Noi però eravamo pieni di angoscia e di vergogna.
L’ennesimo veterinario ipotizzò che il comportamento
di Buster fosse la conseguenza del cimurro di cui aveva
sofferto da cucciolo. «Non ne sono certo», disse. «Ma di
una cosa sono sicuro. Il vostro è un cane estremamente
aggressivo, e quasi sempre i cani che mordono tendono
a continuare a farlo. Fossi in voi, lo farei abbattere».
Proprio il giorno in cui per la prima volta qualcuno mi
consigliò di sopprimere Buster, trovai nella sala d’aspetto la pubblicità di un’addestratrice della zona. Cinimon
- questo il suo nome - raccontava di avere salvato centinaia di cani, compresi i pit bull più cattivi. La chiamai
la sera stessa.
Era una bionda abbronzata: piercing sulla lingua, shorts sfrangiati di jeans, ombelico scoperto, anfibi. Quando
arrivò a casa nostra ci parlò a lungo, ignorando Buster,
fino a quando fu lui ad avvicinarla, e poi trattandolo
con dolcezza infinita. Ci spiegò che dovevamo imparare a dominarlo, ora che era entrato a far parte «del nostro branco». Ci suggerì di tenerlo chiuso in una gabbia
di notte, e di costringerlo a guadagnarsi il cibo di cui
era più ghiotto: niente di particolare, bastava il segnale,
bastava che lui facesse qualcosa in cambio, anche semplicemente mettersi seduto quando glielo chiedevamo.
Cinimon era piena di ottimismo ed entusiasmo e guardandola - così sana, così tipicamente californiana - vedevo in lei la speranza di una salvezza per il mio cane.
Forse il veterinario aveva ragione a dire che avremmo
dovuto abbatterlo, ma forse Buster era l’eccezione alla
regola. Forse Cinimon lo avrebbe redento. Io ci credevo,
lei ci credeva. Il problema era convincere Buster.
Prendersi cura di lui era diventato un lavoro a tempo
pieno. Anzi, era diventato tutta la nostra vita. Andavo a
letto, ogni sera, preoccupata per Buster. Aveva fatto abbastanza esercizio fisico, era abbastanza stanco da riuscire a crollare per un po’? O ne aveva fatto troppo, e il rischio era che si fosse fatto male, che avesse ulteriormente compromesso le sue già precarie condizioni fisiche?
Avrebbe dormito fino a mattina o si sarebbe svegliato
per fare la guerra ai suoi demoni interiori e, preso dalla furia, azzannare il mio polpaccio? Come lo avrei fermato se avesse iniziato a girare su se stesso, maciullandosi la coda? Avevo fatto tutto l’umanamente possibile per
aiutarlo? Che cosa sarebbe successo se l’indomani aves-
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zio va in giro in bicicletta portando al guinzaglio due levrieri dalle gambe snelle, uno italiano e uno afghano.
C’è persino un piccolo schnauzer cieco che gira da solo
sul marciapiede, senza guinzaglio né sorveglianza. Un
ragazzo è chiaramente innamorato del suo golden retriever. Un quarantenne single vive con la madre e tre
bastardini. E un uomo delle pulizie, muscoloso e tatuato dalla testa ai piedi, piange ancora la morte recente del suo pastore tedesco. C’è una signora dai capelli bianchi che cammina appoggiandosi al bastone e fa
conversazione con una forte cadenza irlandese mentre
Waldo, il suo Boston terrier, aspetta paziente. E una vecchietta dall’accento tedesco porta a spasso il suo pechinese, Lord Byron, quattro volte al giorno, anche quando il tempo è bruttissimo; è una sopravvissuta all’Olocausto, una persona la cui fiducia nella bontà del genere
umano, nonostante tutto, è così radicata che a volte mi
fermo davanti all’entrata del suo palazzo, sperando che
esca proprio in quel momento.
Non conosco i nomi dei miei vicini, ma so come si chiamano i loro cani. Non esco a cena con i miei vicini, non
vado al cinema con loro, ma so con certezza che li incontrerò una o due volte nel corso della giornata. I cani dell’isolato corrono insieme verso una pozzanghera di pipì, intrecciano i guinzagli, mentre sopra di loro i padroni - che ci sia l’afa estiva, il vento o la neve - parlano della
città, di famiglia, figli, malattie, e ovviamente dei loro cani, prima di salutarsi e di raccogliere con un sacchetto di
plastica la cacca appena depositata sul marciapiede.
L’isolato è come una piccolissima città, ed è stato Buster
a farmi conoscere i suoi abitanti. Lui aggrediva vecchiette e passeggini. Loro - tutti - avevano consigli da darmi,
ma soprattutto comprensione e solidarietà. Quando vedevo arrivare Waldo o Lord Byron i miei occhi si riempivano di lacrime di sollievo perché sapevo che le loro padrone - donne che hanno conosciuto la povertà e le peggiori cattiverie del mondo - mi avrebbero incoraggiato a
non perdere la speranza.
Buster, purtroppo, non migliorava. Provai a chiamare un esperto che mi era stato raccomandato dal New
York Animal Hospital. Mi convinse a comprare lo Snoot
Loop, un aggeggio «rieducativo» di sua invenzione,
una specie di museruola che si stringe in modo doloroso quando il cane tira il guinzaglio. Risultato: se ne andò dopo aver riscosso centinaia di dollari e, pochi giorni dopo, Buster aveva sul muso una piaga sanguinolenta. Fra me e Janet, la mia compagna, erano intanto iniziate le discussioni. Litigavamo sul da farsi. Esiliate dal
se attaccato i figli del vicino? La mia assicurazione avrebbe coperto i danni? Avevo davvero sbagliato a non farlo abbattere subito?
La mattina si accoccolava sul mio petto, russando leggermente, il respiro dolce a solleticarmi il mento.
Sembrava un cucciolo indifeso e inoffensivo. Poco dopo,
si svegliava e strapazzava i suoi giocattoli, sbatacchiandoli con violenza qua e là, come fa un gatto con il topo.
Quando vedeva arrivare il portalettere correva verso la
porta finestra, schiantandosi sul vetro, e poi si mordeva
le zampe, la coda, e se ero nei paraggi mordeva anche
me. Un attimo dopo gli ordinavo di mettersi buono a sedere e lui obbediva, e mi guardava con aria innocente.
Ecco, era innocente, e questa era la cosa più difficile per
me da accettare. Era un cane cattivo, e distruttivo, è vero, ma era anche innocente come un neonato, spaventato lui stesso dalla sua aggressività, terrorizzato da ogni
persona o cosa in movimento.
Cinimon suggerì il Prozac. Nei mesi che seguirono, dopo aver consultato tre veterinari, due psicologi e uno
psichiatra, provammo a mescolare calmanti e antidepressivi di ogni tipo alla sua pappa. Le poche volte in
cui il farmaco funzionava, l’effetto era solo temporaneo.
Alla fine il comportamento violento tornava, e ogni volta era più distruttivo.
I
In settembre ci trasferimmo di nuovo a New York.
Sull’aeroplano, vidi il signore davanti a me che armeggiava con gli auricolari per eliminare quella che gli sembrava un’interferenza dell’impianto audio. Su e giù per
la cabina, altri passeggeri si voltavano, chiedendosi che
cosa fosse quel ringhio profondo e continuo. Veniva da
sotto il mio sedile, dove si stava svolgendo una furiosa
battaglia unilaterale che sarebbe durata per tutte le cinque ore della trasvolata. Dopo l’atterraggio, appoggiai
la gabbia sul pavimento del terminal, in attesa dei bagagli. Sentii un grido. Mi girai e vidi la gabbia che ruotava
strisciando (e ringhiando) per terra.
Circa un milione di cani vivono a New York. Una trentina sono quelli del mio isolato dell’Upper West Side.
Abbiamo una lavanderia a gettoni, due tintorie, due
chiese, due dentisti, un ristorante malese, un supermercato coreano, una panetteria e un negozio che vende orrende giacche in finta pelle. Il barbone che vive sul sagrato della chiesa luterana non ha un cane. Ma la coppia di gay che abita nella casa di fianco alla mia ha due
beagle. Una signora porta a spasso un bellissimo West
Highland terrier, ex campione di concorsi canini. Un ti-
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mondo normale, esasperate, stanche, finimmo per mettere in pratica la saggezza degli antenati: provammo a
picchiare Buster con un giornale arrotolato quando iniziavano i suoi raptus di violenza. Non funzionò neppure quello.
U
Un giorno, lo portai al recinto per cani di Riverside
Park. Potevo lasciarlo libero lì dentro solo quando era
vuoto e non c’erano altri animali da attaccare. Era un
giorno di autunno, cielo grigio e foglie morte per terra. Mi sedetti su una panchina e lo guardai. Ero reduce
da una disastrosa festa del Ringraziamento a casa di mia
zia, nel Massachusetts. Avevo portato Buster con me - a
chi avrei mai potuto lasciarlo? - e, per evitare incidenti,
mi era stata riservata una stanza con un vistoso cartello «attenti al cane» sulla porta. Ero stata tesissima, e vigile, per tre giorni e infatti, incredibilmente, il momento di ripartire era arrivato senza tragedie. Proprio quando avevo già caricato la macchina, e stavo dando gli ultimi baci di saluto, il mio nipote di due anni si era messo
a correre verso di noi, Buster gli era saltato addosso ed
ero riuscita miracolosamente a separarli quando ancora
aveva fra i denti solo un pezzo di pannolone. Il bambino urlava, terrorizzato, e i miei familiari mi squadravano con uno sguardo di rimprovero.
Ora, seduta sulla panchina, lo guardavo. Mio fratello e
la mia cognata praticamente non mi rivolgevano la parola. Mia madre pensava che fossi pazza. Mio nipote sarebbe cresciuto nel terrore dei cani. Janet e io litigavamo in continuazione. I miei figli erano esasperati. Ed
ecco Buster che correva avanti e indietro per prendere
la palla che gli tiravo. Il muso allegro, un orecchio dritto e uno penzolante. A vederlo così, sembrava normalissimo, e il problema era proprio questo. La gente lo trovava adorabile, faceva per accarezzarlo, e nel giro di un
secondo lui si irrigidiva, ringhiava e partiva all’attacco.
Appena qualcuno si avvicinava, io lanciavo un avvertimento. Le prime volte dicevo qualcosa come «È un animale un po’ imprevedibile, ha paura degli estranei». Ma
siccome non funzionava, ormai avevo imparato a essere
più diretta: «Morde».
«Morde» fu ciò che dissi, in quel momento, a una ragazza che era entrata nel recinto con il suo cucciolo. Poi mi
alzai, misi il guinzaglio a Buster e feci per portarlo via.
Ma lei prese in braccio il cagnolino, si sedette e mi disse di non preoccuparmi. Era gentile, comprensiva, e io
ci cascai. Cercai di fermarmi, ma inutilmente. Come mi
era capitato tante volte, di fronte a completi estranei,
iniziai a raccontare la storia di Buster. Sentivo nella mia
voce il panico, l’isteria, la disperazione. Era la voce che
avevo sentito tante volte, nei parchi giochi, dai genitori
disperati perché i figli fanno i capricci, picchiano gli altri bambini, o rubano i giocattoli, o vanno male a scuola. Ma c’era qualcosa di più, qualcosa di peggiore. Il tono alto e sgradevole, la velocità frenetica, l’insistenza sui
dettagli erano quelli dei discorsi dei pazzi. Mi ascoltavo
e sentivo parlare una malata di mente.
A
Ancora una volta un veterinario mi consigliò di far abbattere Buster. «Il suo cane», mi disse il Dottor Raclyn,
uno che non si arrende facilmente, uno di cui mi fidavo,
«è profondamente e irrimediabilmente disturbato». Ma
una sera, mentre rientravo a casa dopo una passeggiata
al parco, feci conoscenza con una inquilina del condominio. Virginia Hoffmann di mestiere si occupava proprio di cani difficili. Mi spiegò che aveva iniziato a interessarsi del settore quando le era stato regalato un cucciolo con grossi problemi di comportamento. A furia di
documentarsi, si era appassionata, aveva lasciato il suo
lavoro e si era dedicata a tempo pieno alla riabilitazione dei cani. Pensai: ecco qualcuno che mi capisce, e che
forse può aiutarmi. Volevo dare a Buster un’ultima chance, e lei, pur non offrendo alcuna garanzia, si impegnò a
provarci seriamente, per un periodo di sei mesi. Sapevo
che il mio non sarebbe mai stato un cane normale. Ma
forse potevo ridurre la sua sofferenza, portarla a un livello sopportabile per lui e per noi.
«Ho trovato un addestratore per Buster», annunciai a
mia madre. E lei: «Chi è, un domatore di leoni?».
Virginia, con il suo modo di porsi così ordinato, diretto
e tranquillo, aveva su di me un effetto calmante, e forse
lo avrebbe avuto anche su Buster. Le chiesi di venire trequattro volte a settimana.
Janet all’epoca passava molto tempo a Los Angeles,
così io potevo dedicare al cane la maggior parte della giornata. Mi avvicinavo a lui facendo penzolare un
guanto, e se non lo azzannava lo premiavo con un giocattolo. Che gli permettevo, poi, di portare fuori: con
la bocca già occupata, sarebbe stato più difficile per
lui mordere. Imparò a rispondere ai comandi «tocca»
e «lascia». Obbediva se gli ordinavo di andare a cuccia, di mettersi a sedere, di sdraiarsi, di saltare dentro un cerchio da hula-hoop. Tutti questi esercizi miravano agli stessi obiettivi: dargli qualcosa a cui pensare per dimenticare la paura; dargli fiducia; dargli una
maggiore consapevolezza del suo corpo deforme; dare
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a me autorità e potere di controllo.
Imparai a dividere ogni esercizio in piccole parti. Riuscii
persino a fargli mettere la museruola - cosa che normalmente odiava, e che ogni volta scatenava attacchi violentissimi - lasciandogliela addosso giusto qualche secondo, e poi ricompensandolo con un po’ di formaggio.
Pensavo a quanto sarebbe stato bello conoscere Virginia
prima ancora di diventare madre. Perché lei mi insegnò
non solo a chiedere, ma anche a osservare. Mi suggerì
di annotare in un diario la frequenza e l’intensità degli
attacchi di Buster. Quale parte del suo corpo tendeva a
mordere, in quale parte della giornata, che tempo faceva, se era digiuno o a stomaco pieno, che cosa lo provocava: un rumore, un contatto, un odore? Riuscivo a farlo
venire da me quando chiamavo, a stare fermo ad aspettarmi se uscivo dalla stanza. Era un allievo splendido,
intelligente, volenteroso. Estremamente ben addestrato, per essere un cane pazzo.
Un cane pazzo che - prevedibilmente - morse Virginia
alla prima visita, costringendomi a tirare fuori il mio
«Buster kit» di cerotti e crema antibiotica. Pur sembrando consapevole del fatto che questa nuova persona venisse per aiutarlo, non arrivò mai a sopportare più di
venti minuti di esercizi.
Buster era sempre Buster. Quando c’era Janet, la nostra
vita fuori casa si limitava ai posti dove potevamo andare
con lui. Mangiavamo solo nei ristoranti con i tavolini all’aperto, anche sotto la pioggia e nel vento gelido. E dopo che il cameriere di Señor Swanky’s si ritrovò la mano azzannata, smettemmo di fare anche quello. Le poche volte che lasciavamo il cane da solo, gli mettevamo
al collo uno di quegli «imbuti» di plastica che servono a
impedire ai cani di leccarsi le ferite, ma che nel suo caso aveva la funzione di paraocchi: non riuscendo a vedere la parte posteriore del suo corpo, non la mordeva.
Una sera, avevo portato Buster a casa di mia madre, nel
Connecticut - lei aveva accettato un po’ perché le facevo
pena, un po’ perché era l’unico modo di vedermi - e, siccome volevo andare a trovare una vecchia amica, gli misi «l’imbuto». Dieci minuti dopo, squillò il cellulare. Era
mia madre, c’era terrore nella sua voce: «Mi sono dovuta chiudere in camera. Nel soggiorno c’è il tuo cane, in
preda a una crisi». Quando arrivai da lei, Buster era un
turbinio indefinibile di schiuma e pelo. Lo avvolsi in una
coperta - era l’unico modo di avvicinarlo senza che mi
mordesse - e lo tenni stretto sul cuore, nel letto, per quattro ore, cercando di calmarlo mentre ansimava e tremava tutto. Lo abbracciavo, e piangevo.
Nemmeno il collare a imbuto bastava più. Ci fu ancora una crisi, ancora un intervento con la coperta, ancora
le ore di tremito inconsolabile. Virginia mi parlò di un
esperimento che era stato fatto sui bambini autistici: venivano fasciati in abiti molto stretti, in modo da riprendere contatto con il corpo. Scovò persino una «tuta anti-ansia», fatta per i cani, che funzionava sulla base dello
stesso principio. Se neppure quella funzionava, mi disse,
il passo successivo era obbligato: portare Buster in una
clinica veterinaria, farlo sottoporre a Tac al cervello. «Ma
lo faresti per lui», mi chiese, «o per te stessa?».
Era una buona domanda. Buster per me era diventato
una sfida che non riuscivo ad abbandonare. Era il mio
compagno, e l’enormità del suo bisogno di amore rendeva il nostro legame ancora più forte. Mi sentivo responsabile, certo: non si butta un animale perché è malato. Ma
c’entrava anche una piccola riserva di vanità, e quell’ottimismo ostinato di chi dalla vita esige un continuo e progressivo miglioramento. Volevo salvare questo cane perché, in un mondo giusto, dovevo essere in grado di salvarlo. La mia era una specie di superbia umanitaria. Il mio
cane stava male: pretendevo che guarisse.
Lo portammo a fare l’eutanasia diciotto mesi dopo che
era arrivato nelle nostre vite. Lo accarezzammo mentre
lui, in piedi sul tavolo d’acciaio del veterinario, scodinzolava e ci leccava le mani. Dopo avergli somministrato un’endovenosa di Valium, il dottor Raclyn gli iniettò
il pentobarbitone. Buster fece per gettarsi contro di lui
con un ultimo ringhio, ci guardò, scodinzolò ancora e si
accartocciò tra le nostre braccia. Era andato.
C
Ci vollero sei mesi per trovarne il coraggio, ma alla fine
decidemmo di prendere un altro cane. Volevamo un cucciolo, questa volta. Andammo ai rifugi per animali maltrattati, al canile municipale, alle associazioni animaliste.
C’erano pastori enormi dagli occhi tristi, vecchi barboncini, bull terrier entusiasti, labrador che saltavano, spaniel che tremavano. Avremmo voluto prenderli tutti. E
avremmo voluto prendere tutti i cuccioli che ci venivano
proposti, anche se le loro zampe massicce parlavano di
un futuro da giganti. Invece noi cercavamo, e non riuscivamo a trovarlo, un cucciolo che, anche da adulto, sarebbe rimasto abbastanza piccolo da poterci accompagnare
nei nostri continui viaggi coast-to-coast. A volte ci portavamo dietro anche Virginia, perché ci impedisse di innamorarci di un altro esemplare carismatico ma ingestibile. Tutti i cani più buoni e dolci che conoscevamo venivano da rifugi per animali abbandonati e maltrattati,
ma lì non trovavamo quello che faceva al caso nostro. E
così, con qualche senso di colpa, ci arrendemmo e andammo in un allevamento a Frederick, nel Maryland, a
prendere il nostro minuscolo Cairn terrier. Un cucciolo
di dieci settimane che battezzammo Hector.
Qualche mese più tardi, nella mattina più fredda dell’inverno più freddo da molti anni a questa parte, portai
Hector a Central Park. La terra era coperta di neve liscia
e gelata. Ci incamminammo verso Hearnshead Rock,
un pittoresco grumo di macigni che si tuffano nel lago.
In primavera ci crescono iris gialli; in inverno, la piccola caletta ripara i cigni dal vento. Quella mattina buia e
freddissima, il lago era quasi completamente ghiacciato.
Solo i grattacieli all’orizzonte tagliavano in due l’argento del ghiaccio e del cielo. Nell’insenatura tra le rocce,
dove restava una pozzanghera di acqua grigia, c’erano
anatre, folaghe, orchetti marini, quattrocchi. Un airone
azzurro stava in piedi, immobile come gli alberi neri, a
venti centimetri dalla riva.
Il cane e io eravamo rimasti fermi una ventina di minuti a osservare la scena quando, all’improvviso, l’airone tuffò la testa dentro l’acqua, poi ritornò in posizione eretta, un grosso pesce stretto nel becco. Lo inghiottì e noi guardammo il rigonfiamento formato dal pesce che scendeva lentamente lungo il collo elegante dell’uccello. Poi tornammo a casa camminando tra gli alberi silenziosi, guardandoci ogni tanto, come a rassicurarci a vicenda, in intima e amichevole condivisione di
quella esaltante tranquillità. Il cucciolo che ora trotterellava nella neve accanto a me, era, come Buster, «solo un
cane». Ancora non ero in grado di spiegare perché una
persona decide di possedere un cane, nonostante tutte
le grane e il dolore che questo comporta, ma, guardando Hector, almeno un vago indizio ce l’avevo.
Hector passeggia felice sulla strada dove Buster ringhiava. Saluta i vicini e gli estranei, gli uomini con i cappelli e i bambini in tuta da neve. Ama tutti e tutti lo amano.
Spesso ripenso a Buster e mi si spezza il cuore. Gli amici mi dicono: «Hai fatto tutto quello che potevi». Ma l’ho
fatto davvero? E se avessi provato il fenobarbitolo, quello che tutti i veterinari sconsigliavano? E la tutina antiansia? Se ci fossimo trasferiti in campagna? Se lo avessi
mandato da quel tipo di San Diego che porta i cani nel
bosco? Se avessi chiamato quel medium per animali?
Ma poi guardo Hector che salta su una lattina vuota di
Budweiser, grossa quasi quanto lui, e la porta orgoglioso
a casa. Che fa le feste ai bambini con l’entusiasmo di un
politico in campagna elettorale. Che porta la pace. ❏
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CANE PAZZO