1
LA CAPITANATA
Rivista semestrale della Biblioteca Provinciale di Foggia
Direttore: Franco Mercurio
Redazione e amministrazione: «la Capitanata», viale Michelangelo 1, 71121 Foggia
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“LA MAGNA CAPITANA”
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Erba curvata dal vento (… grano, canneti della costa o delle zone paludose…) e il terso cielo stellato sono
elementi simbolicamente connotativi del nostro territorio. La dicitura A.D. 2000, insieme alla scritta ex-libris mutuata da Michele Vocino, rappresentano la volontà di tenere sempre presente il collegamento tra passato, presente
e futuro senza soluzione di continuità. Questo ex-libris che d’ora in poi caratterizzerà i documenti posseduti dalla
Biblioteca Provinciale, è stato per noi elaborato da “Red Hot - laboratorio di idee e comunicazione d’impresa” e
da loro gentilmente donato.
Red Hot: Gianluca Fiano, Saverio Mazzone, Andrea Pacilli e Lorenzo Trigiani. Manfredonia, a.d. 2000.
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LA CAPITANATA
RASSEGNA
DI VITA E DI STUDI
DELLA PROVINCIA
DI FOGGIA
_______________
27
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Giugno 2012
4
Indice
Saggi
p.
11
Non solo rogiti. Curiosità notarili in Capitanata
di Pasquale di Cicco
25
L’attività enologica a San Severo tra ‘800 e ‘900
di Vittorio Russi
51
Il volto femminile del brigantaggio. Per una lettura di genere
del fenomeno
di Michele Galante
73
Inventari familiari foggiani del Settecento (I parte)
di Federica Elisabetta Triggiani
99
La basilica della SS. Trinità di Venosa dalla Tarda Antichità
al Medioevo (II parte)
di Giacomo Cirsone
143
Un corporativismo sfocato. Sguardo dalla periferia a “Il corporativismo
fascista di Alessio Gagliardi”
di Francesco Altamura
151
Guglielmo de Parisio. Un esempio di successione feudale in Capitanata
nella transizione svevo–angioina
di Alessandro de Troia
159
Per una breve riflessione disincantata sull’Unità d’Italia
di Leonardo Aucello
165
La “Storia della città di Lucera” fu scritta veramente da Giambattista
d’Amelj?
di Dionisio Morlacco
5
p.
171
Rinascimento cristiano in prospettiva umanistica. La diocesi di Lucera
nel Quattrocento.
di Gaetano Schiraldi
187
Il Real Collegio di Lucera (1807-1820)
di Federica Albano
In memoria dei nostri
231
Ricordo di Pasquale Soccio: attualità di un maestro
di Damiano Nocilla
241
Al momento giusto. Ricordando Benito Mundi
di Francesco Giuliani
249
Gennaro Arbore
(1931-2012)
di Guido Pensato e Saverio Russo
245
In ricordo di Gaetano Matrella
di Gaetano Cristino
247
L’eredità morale di Gaetano Matrella
di Geppe Inserra
261
Diario di un’amicizia con Gaetano Matrella
di Franco Galasso
267
Gaetano Spirito tra passione civile e tensione morale
di Maurizio De Tullio
271
Gaetano Spirito, la storia nella fotografia
di Michele dell’Anno
273
All’amico Gaetano Spirito
di Pasquale di Cicco
275
Per ricordare Gaetano Spirito
di Michele Ferri
6
p.
281
Il mio ricordo di Gaetano Spirito
di Loris Castriota Skanderbegh
Recensioni
285
Michele de Filippo. Oglio di cranio umano. Magia, medicina
e religiosità nella tradizione popolare garganica
di Michele Ferri
293
Lévi-Strauss C. Lezioni giapponesi. Tre riflessioni su antropologia
e modernità
di Paolo Iagulli
Gli autori
7
8
Saggi
10
Pasquale di Cicco
Non solo rogiti. Curiosità notarili in Capitanata
di Pasquale di Cicco
Diversamente dai protocolli dei notai degli ultimi secoli, i quali contengono
solo gli atti rogati durante l’attività professionale degli stessi, quelli dei notai dei
secoli precedenti (XVI-XVIII, in particolare) spesso destinano qualche loro pagina
bianca ai contenuti più eterogenei1.
Per non dire delle invocazioni verbali o simboliche alla divinità che spessissimo compaiono sui frontespizi delle raccolte di atti2 e dei motti e massime ora
ripetuti ora mutati in essi nel tempo.3 Molti anni fa potei pubblicare su questa stessa rivista un’interessante cronaca di Bovino degli anni 1600-1638 dovuta al notaio
del luogo Cesare Faratro e registrata sulle carte di parecchi suoi protocolli, una
cronaca pregevole non solo per le tante note riferite ad avvenimenti e personaggi,
ma anche per i frequenti ragguagli sull’andamento delle stagioni, le manifestazioni atmosferiche ed i loro effetti sulle campagne, i prezzi dei generi alimentari, le
carestie4. E, da segnalare, il Faratro scriveva queste cose non per sua memoria, ma
destinandole dichiaratamente ad un futuro lettore.
Assieme ai protocolli anche qualche formulario notarile, con il suo contenu-
1
Le raccolte più antiche degli atti notarili redatti in Capitanata si conservano nell’Archivio di Stato di
Foggia, Sezione di Lucera. Si dividono in due serie: la prima include i protocolli formati anteriormente al
1 gennaio 1800, la seconda quelli antecedenti al 1 gennaio 1853. A Lucera sono conservati anche i repertori
notarili ed i libretti dei giudici a contratti.
Nel presente lavoro, eccettuate le note in cui si fa espresso richiamo alla serie II dei protocolli o ai repertori, tutte le altre rinviano alla serie I.
2
Ad es., Domine in nomine tuo salvum me fac et in virtute tua libera me ( Nicola Cavallucci e Donato
Taliento di Foggia); Adsit principiis Virgo Beata meis (Francesco Mitola di Candela); Signatum est supra nos
lumen vultus tui, Domine (Nicola Specchio di Cerignola); Sit nomen Domini benedictum ex nunc et usque in
seculum (Giuseppe de Angelis di Foggia); O sine principio Princeps qui solis ab ortu solis ad occasum diceris
omnipotens accipe principium medium finem libelli, concedas deprecor et miserere mei (Antonio de Ianinis di
Savignano e Francesco dello Russo di Foggia); Hoc schediasma, favente Deo, feliciter egi / Plurima conficiam,
te Deus, oro, sivas (Giuseppe Montanaro di Bovino); Chrismon istoriato (Pietrantonio Rosso di Troia).
3
Ad es., Primus amor celi nostre spes prime salutis, prime dabis faciles ad mea plectra modos (Michele e Pietro Taliento di Foggia); Sermone eo debemus uti, qui magis notus est nobis (Pietro Taliento); Iusti sunt omnes
sermones mei, non est in eis pravum quid, neque perversum (Giuseppe Antonio Fucci di Foggia ); Veritas de
terra orta est et iustitia de celo prospexit; Quid iuvat homini maiora sequerere; Iucundus homo qui ambulat
in lege Domini et disponit sermones suos in iudicio; Qui altam facit domum suam querit ruinam, et qui evitat
discere incidit in mala (Sebastiano Andreana di Foggia).
4
Cfr. Una cronaca bovinese del Seicento, in «La Capitanata, Rassegna di vita e di studi della Provincia di
Foggia», anno XXIII, gennaio-giugno ’85-’86, parte I, pp. 53-91.
11
Non solo rogiti. Curiosità notarili in Capitanata
to rigorosamente tecnico fatto di minute di atti e di istruzioni e consigli per coloro
che intendevano esercitare il notariato, offre pagine che tramandano, ad es., qualche verso bucolico, o l’elenco dei “tuoni” musicali, o un consiglio “per quando una
persona le esce sangue dal naso”, o le prescrizioni mediche per il notaio e la moglie,
o altre curiosità, come quella riguardante l’imeneo fra “la cane” Fontana ed il cane
Sbafanto “di pelo negro cirrato” celebratosi a Foggia il 19 dicembre 16885.
Negli anni 70 del Novecento, in vista della redazione e pubblicazione di un
atlante documentario e dell’organizzazione di una Mostra nazionale sul Notariato, mi fu chiesto di ricercare e reperire “atti significativi sulla storia e l’evoluzione
attraverso i secoli del Notariato”.
Fu quella l’occasione per un diligente spoglio dei protocolli e dei repertori
notarili conservati a Lucera, e su un totale di 11000 pezzi ne furono controllati
quasi 7000.
Da essi si evinsero dati che consentirono fra l’altro di risolvere definitivamente alcuni punti sino ad allora controversi fra gli studiosi6.
Ma l’indagine fu utile anche per stabilire che il notaio cronista, quale il Faratro, non era una figura unica o insolita nel panorama notarile dauno. Se ne individuarono infatti diverse altre nei secoli XVI-XVIII.
La prima è quella di Annibale de Stranges di Troia che dà notizia del governo
cittadino del 15447. Seguono quella di Dilettoso Ascolese di Lucera, il quale annota
che nel giorno della beata Caterina vergine, il 25 novembre della XIII indizione,
il marchese del Vasto Aimone prese possesso della città di Napoli in nome di re
Filippo8, e quella di Giancamillo Pugilli di Bovino, dal quale si viene informati
della scomunica comminata ad alcuni sacerdoti di Orsara per essersi rifiutati di
confessare certi fedeli9.
Anche Eusebio Pucci di Troia elenca i nomi del governatore, degli eletti cittadini, nonché di alcune altre autorità all’inizio del suo protocollo del 1606, ma quello
che scrive subito dopo induce a ritenere che il suo intento non fosse solo quello di
tramandare ai posteri la composizione degli amministratori civici troiani10.
5
Cfr. il mio I formulari notarili conservati nell’Archivio di Stato di Foggia (secc. XVII- XVIII), in «Archivi
per la storia», a. 1993, n. 1-2, pp. 111-148.
6
I protocolli del 1582 di Pietrantonio Rosso (n. 40) e di Giovanni Cesarani di Lucera (n.133) chiarirono
che la riforma gregoriana del calendario venne subito attuata in Capitanata; e moltissimi altri protocolli
portarono ad escludere che in questa terra fosse stata mai usato un sistema di computo del tempo diverso da
quello detto stile bizantino, per il quale l’anno iniziava l’1 settembre.
7
Protocollo 6 (anni 1543-1570).
8
Prot. 48 (1544).
9
Prot. 191 (1585).
10
Dopo l’elenco delle varie autorità si legge: «Et ego predictus Notarius multa passus sum in hoc anno a
dictis de Regimine in materia administrationis, contra omne iuris debitum per quatraginta dies fui carceratus
in civitate Troiae, et ipsi etiam carcerati, habilitati sub fideiussione ducatorum quinque mille ad omnem ordinem Sacri Consilii vel Regiae Audientiae, sed postea omnes liberi evasimus et ego tamquam inocens facti
prout dominus Deus docuit dicens ‘Da mihi vindictam et ego retribuam’, sic feci et non amplius processit
inquisitio contra ipsos de Regimine». In altro suo protocollo accenna alla nascita e morte del figlio Giacomo
Antonio (n. 259, anni 1596-1598).
12
Pasquale di Cicco
A Giulio Capuano, anch’egli di Troia, si deve la notizia di un “Prodigio memorando” durato più giorni, qui parzialmente riportato, stante la lunghezza:
«Hoggi martedì 16 dicembre 1631 dopo il Vespro ha fioccato cenere asciutta
per dentro questa Città di Troia, e per la campagnia, la notte poi ha seguitato in
grande abundanza piovendosi acqua e cenere in lota, et al suono di campane le genti
sono state tutte in piedi, retirati nelle chiese a fare orationi e sono stati lampi, e tuoni
di gran spavento, e la notte oscurissima, e l’oscurità è durata insino alle 16 hore a che
s’è visto dì, venendo la luce da mezzo giorno, dico un poco d’aria lucente, e dentro le
case si sono tenuti li lumi per vedere, e con le luci a tavola s’è mangiato… e venendo
il venerdì è fatto giorno ad hora solita, e s’è fatta processione sollennissima con cacciarsi fuora il Santissimo Sacramento… si son fatte più processioni, prediche et altri
orationi… che credevamo soffondere e morire di paura, per l’aria non si sono visti
nissuna sorte d’ucelli, ne anco li cani caminare per la città… Dette cenere sono state
sopra la terra di tre dita e più, li tetti e muraglie negri, e nel caminare teniva sotto li
piedi e come un astrico… Per detta cenere sono morti infiniti animali baccine, havendo brugiato l’herbe, e coperta la terra, che non è uscita sino al corrente mese di
marzo, e tuttavia ne vanno morendo. De più ha caggionato male aria, e tutti ferite per
minima che sia stata, e che sia, è stata, et è mortale cqui in Troia11».
Altro notaio con aspirazioni di cronista è Angelo Giannini di Torremaggiore, che dedica un foglio del suo unico protocollo pervenutoci ad una breve informazione sulla rivolta scoppiata nella sua città nel 1647, «come anche per tutto
il Regno la quale durò pochissimo atteso che la maestà del Re nostro signore oppremì l’orgoglio di capi popoli malidetti”, sulla carestia dell’anno successivo “che
il grano valse a carlini trenta, trenta cinque et quaranta il tomolo”, sulla peste del
1656 “incominciata a Torremaggiore a dì 20 ottobre di detto anno et la causa è stato Cesare Madalena di Vultorino marito d’Ipolita Lanciano … detto Cesare se ne
stava in detta terra di Vultorino dove era la peste … et portò molte robbe rapinate
da quella delli poveri defonti … et la peste s’è attaccata qui che altrimenti stavamo
bene»12.
Nel Settecento il notaio che più di ogni altro collega utilizzò i suoi protocolli
per registrarvi fatti di cronaca locale e non del suo tempo fu Giuseppe Montanaro,
che rogò a Bovino dal 1692 al 1715.
Così si servì di quello dell’anno 1700, nel quale alcune pagine in forbito latino ragguagliano sugli onori funebri resi al vicario generale della diocesi bovinese,
Francesco Montanaro, morto all’età di 72 anni, suo parente13, e di quello del 1703,
11
Prot. 387 (1606-1637). Il drammatico avvenimento, dovuto all’eruzione del Vesuvio, é diffusamente
ricordato da due storici locali, quali Vincenzo Stefanelli (Memorie storiche della città di Troia, Napoli [1878])
e Nicola Beccia (Cronistoria di Troja, dal 1584 al 1900, Lucera, 1917).
12
Prot. 829 (1651-1652).
13
Prot. 1279.
13
Non solo rogiti. Curiosità notarili in Capitanata
per informare della morte del proprio suocero («Octavo idus octobris duodecimae
inditionis, die mavortis hora vero nona, dum Aurora ab Oriente Solis ortum suis
indicabat fere calcaribus, Atropos vitae stamen amputavit uxoris meae patris magnifici Iosephi Montanarii optimi medici vulnerarii huius civitatis Bibini, quo in
loco multos variis languoribus affectos, sua cum laude summa, Deo tamen annuente, pristinae tradidit saluti, pleuritis eum aggressae, febrisque maligna, decurrentem
annum septimum et sexagesimum, quinque dierum spatio, veram ad patriam in
Domino evolavit. M.DCC.III»)14.
Diverse pagine del suo protocollo del 1706 – allora il Montanaro era a capo
del governo cittadino – sono dedicate ad una dettagliata narrazione della “fiera
contesa” fra i sacerdoti semplici e chierici del luogo e la collegiata di Deliceto per
ragioni di precedenza in occasione della processione di S. Marco africano, poco
prima della riunione del sinodo («M’è parso ad futuram rei memoriam del sortito
lasciarne un ricordo, quale ho stimato profittevole e geniale, e servirà a successori
di guida a non far fare per l’avvenire pregiudizio alcuno a questi nostri reverendi
sacerdoti semplici e chierici da detta collegiata, mentre vi sono più decreti a pretendere questo, col quale confirma i passati nel presente sinodo, e li mantiene nel loro
principio possesso, et ho scritto la pura verirà del fatto senza diminuire, aggiungere, o adulterare cosa ver’una, essendovi intervenuto personalmente a principio
usque ad ultimum in detto sinodo, invitato da Monsignor Vescovo con l’altri de
Regimine ecc. Vale amice lector»)15.
Altre pagine dello stesso volume, dopo una breve premessa in cui il notaio
chiarisce che, preso da molti affari, «non mai m’è avanzato qualche tempo, e poco
mi son dilettato di notare alcuni successi occorsi ne i nostri tempi”, riguardano il
“successo più notabile”, quello dell’incombente carestia, causa la prolungata siccità, con ulivi ed erba seccati e morte di animali. Partono “asprissime processioni
di penitenza” da Bovino, Troia, Orsara “al soccorso della nostra Padrona Maria di
Valverde”. Nel paese prediche ogni sera, e più confessioni e comunioni generali, “
infine per i luoghi di Puglia il sangue de penitenti andava a lavina; si sono serrate
tutte le fosse, e granai in ogni luogo, e non si sapeva dove ricorrere per grano et
orzo, benché il prezzo del pane si manteneva, e non molto s’era alterato».
Ma, finalmente spedita «la grazia dalla Camara del Supremo Tribunale a tanti nostri preghieri, per mezzo della Madre di Dio, e signori Avvocati”, si ebbe una
pioggia continua per due giorni e due notti e “le piante in un subbito per ubbidire
al volere del loro Creatore ferno pompa del loro essere, et in pochi giorni vennero
a perfettione, e si fe’ in quest’anno miracolosamente una racccolta abbondante di
grano con piena fuor del solito …».
Per concludere: «Pensi continuamente, o lettore e curioso, che il Signore ne i
14
15
Prot. 1282.
Prot. 1284.
14
Pasquale di Cicco
precipiti più vicini ci porge la sua santissima mano in nostro aggiuto; vivi felice».
Ed altre notizie si rinvengono in altre tre raccolte di atti di questo notaio. In
quella del 1707 si legge «Giunse finalmente per la gratia di Dio quello universalmente sospirato giorno di ritornare la nostra capitale di Napoli sotto il felicissimo
dominio della venerata augustissima Casa d’Austria a cui sempre havea consegnato
l’intimo del suo cuore, seguendo il suo antico e nobile genio. Il giovedì dunque
delli sette di luglio di questo corrente anno 1707 ad hore dodeci principiorno ad
entrare i valorosi tedeschi in Napoli, i quali in nome di Carlo III d’Austria nostro
legitimo signore e padrone ne pigliorno il possesso con ogni pace e quiete, e senza
niuno disturbo, et il popolo di Napoli con giubilo, et allegrezza universale uscì
all’incontro alle gloriose armi, con rami verdegianti nelle mani, a dare il benvenuto,
con gridare ad alta voce “viva viva l’invittissimo e sempre glorioso Carlo III nostro
tanto aspettato monarca dell’ augustissima e potentissima Casa d’Austria”, le grida
e strilla del quale popolo assorbivano l’aria, con manifestare quanto mal volentieri
soffriva il giogo de Francesi; con le quali invittissime armi tra li molti commandanti
cavalieri tedesci e generali, vi venne il generalissimo conte di Daun con il conte
Giorgio Adamo di Martinitz cavaliere dell’ordine del Toson d’oro, e ministro del
Conseglio di Stato imperiale come plenipotentiario con facoltà di viceré del serenissimo re Carlo.
Tutte le castella di Napoli tra due in tre giorni si arresero, Gaeta però si difese alla gagliarda per molti giorni, mentre ivi s’era andato a salvare il viceré antecedente del fu Filippo quinto, hoggi duca d’Anciò, nominato il marchese di Vigliena
Ascalone, con molti ministri togati, e cavalieri.
Numero dei viceré di Napoli dal possesso di Carlo III.
Primo viceré. Il conte Giorgio Adamo di Martinitz
Secondo viceré. Il conte Daun generalissimo, per interim
Terzo viceré. L’eccellentissimo cardinal Grimani, morto in Napoli
con dolori di fianco a 27 settembre 1710
Quarto viceré. Il conte Carlo Borromeo a Milano
Quinto viceré. Il principe conte Daun (ritornato)”16
In quella del 1710-1711 appare la “Descrittione lagrimevole del danno generale patito alle vigne, non meno di questa città, che della Puglia, Montagne e
luoghi marittimi convicini, dall’abbattaria di grandini scaricati in quest’anno 1711
nel dì primo settembre, giorno di martedì, verso l’hore diecinove, non meno di
peso ciasched’uno d’essi, che di 4 e mezza libra, non mai ricordevoli da più vecchi
del nostro secolo … l’imbrici tutti sopra delle case e chiese ridussero in minutissimi
16
Prot. 1285. Anche Nicola Clemente di Foggia (1706-1725) dedica all’avvenimento una succinta nota
marginale nel suo volume del 1707 (n. 1664), scrivendo: «Notatur qualiter ex die septimo mensis iulii introscripti anni millesimi septingentesimi septimi incipit regnatio serenissimi domini nostri domini Caroli III de
Austria Dei gratia regis Hispanarum, Neapolis etc».
15
Non solo rogiti. Curiosità notarili in Capitanata
pezzi, flagellarono tutti i vetri delle vitriate, e diedero la morte a buona parte de
volatili … tutte quelle genti, che fuora dell’abitato stavano gustorono con le ferite
in testa duri colpi di morte, ubique luctus, ubique pavor, in modo che quel giorno
parve assomigliante al giorno dell’universal Giudizio …17».
Nel protocollo del 1712-1713 il notaio riserva ben tre pagine alla narrazione
della moria di animali grossi, durata nove mesi, «con farne in ogni paese abitato
sterminio grande, havendo dato il primo assalto nella gran città di Milano non
restandono quasi memoria d’essi colà, da dove passò per tutte le parti del Regno
col sbarco d’alcune cuoia infette … si calcula le perdite per tutto il Regno ascendono a più milioni, el magior crepacuore, che non vi si ritrovava medicina in terra,
che al lor male havesse giovato, quandunque i più periti e versati miniscalchi del
Regno, e dottori fisici si fosser ingegnati a ponere in campo le cure più peregrine
…». Ed anche questa narrazione si conclude con l’indicazione del motivo per cui
essa appare nel protocollo: «Io termino il mio discorso c’ho inteso ponere in carta
per sodisfare a curiosi leggitori, et a quelli, che hanno a cuore le notizie de passati
avvenimenti. Vivi felice18».
Nello stesso protocollo, nella parte interna della prima copertina, si vede poi
registrata quest’altra notizia: «A 27 febraro 1712 ad hore 18 2/4 in Orsara s’appiccò Gioacchino Calabrese di questa terra, per haver nel suo ultimo delitto rubbato
ducati 30 a Giuseppe Patruno di Corato garzone di Domenico Falcione, che teneva bottega legata in Orsara di pizzicarolo, e poi ammazzarlo con colpi d’accetta,
e cortella al passo di pescorognone seu l’accortatora. Condannato a morte dalla
Corte d’Orsara e dalla Corte Auditorale di 2e istanze del stato di Bovino, concesso
il mastro di Giustizia dal Tribunale della Regia Udienza di Lucera, et Monsignor
Cavaliere Vescovo di Troia fu uno dei convertenti, che al tal effetto si portò di
persona in Orsara».
In un volume contenente gli atti rogati nell’anno 1691 dal notaio Giovanni
Iavarani di Ascoli Satriano (1610-1690) si rinviene un’annotazione riguardante il
“fierissimo tremuoto” che il 20 marzo 1731 squassò in particolare la città di Foggia
e «durò un anno continuo con fierissime scosse, talmente che li luoghi si rendevano
dissabitati; tutto ciò si fa noto a nostri posteri per futura memoria, acciò imparino
a viver bene. Amen19».
Angelo Bonassisa di Deliceto (1724-1762) annota che “nell’anno 1733 giorno di sabato ad ore 14 a 29 novembre fu un pessimo terremoto che rovinò molte
terre in alcuni luoghi di S. Nicola della Baronia”, e che “nell’anno 1743 è uscito alla
17
Prot. 1288.
Prot. 1289. Anche il notaio Giuseppe Antonio Palumbo di S. Severo (1681-1736) segna un ricordo della
mortalità di animali avvenuta nel 1712 (prot. 1212).
19
Prot. 447. Autore di questa annotazione fu però il notaio Giovanni Berardino de Rusitia la cui scheda
non si conserva a Lucera.
18
16
Pasquale di Cicco
luce il Figliuolo della nostra Regal Regina in Napoli a 13 giugno giorno di martedì
ad ore tre della notte, e si chiama Filippo, Antonio, Francesco Saverio Nepomuceno e Aniello”.20
Crisanto de Iuliis, originario di Castiglione d’Abruzzo (1733-1763), informa
che il 19 aprile 1734 si portò in Bovino il Viceré con tutto il Collaterale e vi tenne
riunioni, che il 25 successivo giunse al ponte di Bovino l’esercito spagnolo il quale
poi a Bitonto si scontrò vittoriosamente con le truppe tedesche “con la perdita di
molta gente dell’una e dell’altra parte”.
Aggiunge che il 6 gennaio 1735 il Re venne a Torre Guevara, vi si trattenne
per cinque giorni con il suo seguito di 2000 persone, tutti a spese di don Innico
Guevara e poi partì per la Sicilia. Durante la sua permanenza a Bovino nominò
aiutante reale il figlio di don Innico, don Carlo, di anni 19; e successivamente con
speciale cedola dell’8 giugno don Innico Guevara fu fatto duca di Bovino e Giovanni Guevara conte di Savignano. Conclude informando che il 6 giugno la contessa diede alla luce un bambino, tenuto al battesimo dal duca suo avo.21
In un protocollo seicentesco del notaio Francesco Antonio Riccio di S. Agata si trova una drammatica descrizione delle conseguenze della terribile carestia
che afflisse il regno fra il 1763 e il 1764 e che conviene qui riportare per intero:
«L’anno 1763, per tutto il mese di giugno 1764 fu una penuria generale per
tutto il Regno di Napoli d’ogni sorte di vivere, che principiò dal mese di settembre
ad avanzare li prezzi si del grano, come dell’orzo, fave ed altro legume, come di
oglio, di salame, di formaggio, ed ogni altra cosa, come anche del vino e li grani
arrivarono a docati vent’uno il sacco, e nemmeno se ne potea avere, l’orgio a docati nove il sacco, anche le fave a docati quindici il sacco, il grano d’india a docati
dodici il sacco, l’oglio a carlini cinque l’ambola, il formaggio a carlini due il rotolo,
il salame a carlini tre il rotolo, il vino a grana quattro la carrafa, la povera gente
era atterrita, e gridando pane, mangiano code di cipolle per satularsi, erbe grude, e
cotte senza sale, e senza oglio, aveano fatto il colorato a color verde, e puzzavano
vive, di poi ci fu una mortalità generale, e morivano, e poveri e ricchi, a tal segno
che si trovavano in mezzo alle strade, e campagne, il fomite libidinoso si era perduto affatto, li mariti cacciavano le moglie, le moglie alli mariti, i figli alli patri, e le
madri una contro l’altro, furti pubblici, furti domestici, levate onore zitelle per una
quarta di pane onde resta a a voi il considerare».22
Come il Riccio, anche Domenico Antonio Mallone di S. Giovanni Rotondo
(1718-1774) si cura di farci sapere (Discant et sciant futura secula) che «nella passata raccolta d’ogni genere dei viveri poca quantità se ne raccolse, e perciò i popoli,
20
Prot. 2387 e 2395 (1733 e 1743).
Prot. 2721.
22
Prot. 543 bis. Poiché il Riccio rogò dal 1620 al 1675, questa notizia leggibile nel suo protocollo è presumibilmente dovuta a qualche notaio che ereditò la sua scheda.
21
17
Non solo rogiti. Curiosità notarili in Capitanata
dal tempo di essa, principiarono a patire della fame. Nell’Apruzzo, Calabria, Leccia, Martina, Terra di Lavoro spopularono i Casali, parte delle città e terre per la
morte degli abitanti, e quelli rimasti, tutti fuggiti a migliara nelle città della Puglia.
Il principio della nuova raccolta si peggiorò a Gennaro 1764 a segno tale che a
Marzo, Aprile e Maggio li grani si vendevano fin a ducati dodeci il tomolo, senza
poterne avere, ed in questa nostra padria appena si poteva avere il pane di mala
qualità a grana diece il rotolo, ma loto ed acqua.
Nelle città della Puglia si vendeva il pane per cancello, e si partiva ad oncia.
In Napoli si sentì vendere una palata d’oncia 24, carlini dodeci, e tenendo ivi un
mio nepote allo studio comprava una palata d’oncie 18, carlini cinque sei e sette
l’una dalli Lazzari e vi era scarsezza d’ogni vevere, una testa di cipolla grana tre
e quattro, dove l’abitanti ne morirono a migliara senza numero; li confessori assolvevano da lontano li moribondi per essere la febbre attaccaticcia né gli amici
visitavano, ciascheduno pensava al proprio individuo.
Il popolo di questa terra riversò da me, cercando aggiuto per la fame con
urli e stridi. Io, spirato da Dio, mandai il Dottore Emanuele mio figlio in Foggia
e da Freda e Foschino ebbe de carra cinque dei grani a docati sei il tomolo, questi
venduti dai Governanti si riparò quanto si poté.
Dio libera gli altri abitanti del Mondo di simile castigo, il quale né con la
bocca, né con la penna si puote descrivere e narrare. Amen. Morirono ottantaquattromila persone».23
E nel protocollo del 1766 scrive: «In quest’anno vi è stato buona raccolta
di vettovaglie e di tutto, ma li grani sono andati a carlini quattordici e quindici il
tomolo, a causa che li Governanti sono stati giovani idioti ed ignoranti, cui è stato
un Governatore del Rotello di Casa Finis, uomo senza anima ed iniquo, ed iniquissimi sono stati li suoi compagni, nonostante che erano cittadini di S. Giovanni
Rotondo».24
Fabio Olivella, che stipulò a Celenza negli anni 1766-1791, registra sul foglio di guardia di un suo protocollo, “per futura memoria”, la notizia del passaggio
per il paese di Pasquale di Tato, omocidiario e ladro di strada, arrestato e diretto
sotto buona scorta all’estremo supplizio nel luogo natale di Limosani.25
Leonardo Giuliani senior di San Severo (1753-1806) fornisce alcune informazioni sulla chiesa parrocchiale di S. Severino, anticamente chiesa matrice, derivandole dal libro degli statuti di essa, formati nel 1716 per ordine del cardinale fra
Vincenzo Maria Orsini arcivescovo di Benevento.26
Possono essere visti come una sorta di cronisti, sia pure sui generis, i tanti
23
Prot. 2201-2202 (1764-1765).
Prot. 2203-2205 (1766-1768).
25
Prot. 4659 (1791).
26
Prot. 43 della serie II.
24
18
Pasquale di Cicco
notai che con le raccolte di atti ci consegnano anche dati tutti privati, quali quelli
relativi alla propria salute, ai loro matrimoni, alle nascite che li hanno felicitati,
ai battesimi (con nomi dei padrini, dei parroci, delle “vammane”), alle malattie e
morti dei figli, delle proprie mogli, ecc.
Si ricordano per il Cinquecento i notai Ascanio Nigro,27 Giovanni Donato
Giarnera28 e Stefano Buccino di Ascoli,29 per il Seicento Giulio Capuano di Troia30 e Francesco Antonio Zoilo di Candela,31 per il Settecento Giuliano Villani32 e
Tommaso Vincitorio33 di S. Marco in Lamis, Angelo Bonassisa di Deliceto,34 Carlo
Ricci di Torremaggiore,35 Cataldo Longhi di Monte S. Angelo,36 Nicola Sanna di
Foggia.37
Le migliaia di protocolli conservati nella Sezione lucerina non fanno fare la
conoscenza del solo notaio intento a tramandare ai posteri, assieme agli atti stipulati, anche informazioni di vario genere che, come si è visto, possono andare
da quelle che rivestono un interesse generale a quelle che presentano un semplice
interesse locale, o a quelle addirittura di tipo privato, familiare.
Ma è possibile incontrarvi spesso notai con aspirazioni e tendenze artistiche,
che vengono manifestate dalla presenza nei volumi di grandi lettere iniziali fiorite,
arricchite per di più con figure umane, con immagini di animali anche fantastici,
talvolta a colori.
L’iniziale che di solito il notaio si diletta di abbellire con disegni vari è la lettera
H con cui si avvia il testo, presente sul frontespizio del protocollo “Hic est liber seu
prothocollus mei notarii …” o anche la L di liber, ma qualcuno va oltre ed illeggiadrisce tutte le lettere iniziali dell’indice onomastico che correda il volume, qualche
altro persino tutte le iniziali presenti sul frontespizio, e non si limita ad esse.
Belle iniziali con arabeschi schizzate a penna possono ammirarsi nei volumi di Angelo Cicella senior (rogò negli anni 1729-1741), Michele Taliento senior
27
Prot. 226-229: nascite, morti, matrimoni di componenti della famiglia Venini e per notizie sulla famiglia
Nigro.
28
Prot. 147-149 (1588-1595): figli avuti con la moglie Sigismina Buccato.
29
Prot. 1443 (1729-1730): malattia del figlio Francesco.
30
Prot. 388 e 389 (1608 e 1611): figli avuti con la moglie Cornelia Lembo, uno dei quali diverrà sacerdote
nel 1635 e l’anno seguente sarà nominato economo in S. Pietro.
31
Prot. 477 (1613): figli avuti con la moglie Margarita Tasca (la chiusa di quasi tutte le molte registrazioni,
ben 12, è costituita da una formula beneaugurante del tipo “Prego Dio li dia lunga vita, timoroso de Dio, et
che sia homo da bene, et habia bona fortuna accompagnato dalla scientia”) e per morte di alcuni di essi.
32
Prot. 3775 (1773): decesso della moglie Teresa d’Augello, figlia del dr. fisico Michele, “assistita in punto
di morte dal sacerdote don Arcangelo Sassano, con l’infermità sofferta di 28 giorni di febbre continua maligna”.
33
Prot. 4097 (1733): doti matrimoniali assegnate alle figlie Veneranda e Arcangela.
34
Prot. 2385 (1730): suo matrimonio con Maddalena Botticelli e i tre figli.
35
Prot. 3939 e 3941 (1767 e 1775): figli avuti con la moglie Gaetana Zampitto.
36
Prot. 145 (1785): sua nascita e battesimo.
37
Prot. 224 e 225 (1784 e 1785): suo stato di salute.
19
Non solo rogiti. Curiosità notarili in Capitanata
(1730-1772), Domenicantonio Grieci (1731-1753), Carlantonio Ricca (1731-1774),
Gervasio Pacileo (1749-1779), Saverio della Martora (1755-1808), tutti di Foggia,
Donato Augello di S. Marco in Lamis (1743-1794), Domenico Teodoro Prencipe
(1717-1765) e Pasquale Gonzales (1752-1773) di Manfredonia, Nicola Bernarducci
(1752-1787) e Pasquale Liguori (1789-1843) di Troia.
Esse consistono per lo più in fregi, volute, ghirigori, festoni, mascheroni,
accompagnati da volti maschili, barbuti o glabri, da puttini, cornucopie, soli umanizzati, da raffigurazioni di animali, di solito uccelli o qualche cagnolino, da fiori
e rami fronzuti.
Le immagini dei disegni, pur varie nei diversi protocolli di uno stesso notaio, riproducono ripetitivamente analoghi schemi tipologici ed ideativi. Tutte le
H del notaio Taliento presentano, ad es., a sinistra, un volto di uomo, mentre le L
si diversificano per il fatto che quelle di data più remota risultano sormontate dal
disegno di un uccello, quelle di data più recente mostrano il volto di un fumatore
di pipa, immagine che verrà adottata anche dal notaio Grieci.
Sicuramente le H più interessanti sono quelle del menzionato notaio Montanaro, dalla grande struttura tutta figurativa, riproducente ora due animali immaginari dalla folta criniera che si fronteggiano,38 ora una signorile coppia, dai volti
ben delineati, riccamente vestita, in cui la donna esibisce seni scoperti e l’uomo
indossa un cappello piumato, si appoggia ad un bastone e con la sinistra regge una
spada,39 ora due pellegrini che “ Vanno in Roma” per il giubileo, come recita una
sottostante scritta,40 ora due leoni incoronati che sorreggono uno stemma con più
partizioni, al di sopra del quale si scorge una corona regale,41 ora ancora due selvaggi seminudi, ampiamente barbuti e capelluti, tenenti due torrioni dalla cupola
orientaleggiante, e tra i quali è uno scudo sannitico con un leone rampante sul
campo, sormontato da un angelo,42 ed ora infine l’immagine di un’aquila bicipite,
simbolo della casa d’Austria.43
E nel variegato panorama curiale dauno ci si imbatte anche qualche volta
in notai che amano utilizzare le proprie raccolte di atti per registrarvi delle vere e
proprie curiosità, come una ricetta per fare un certo tipo di pane o una diagnosi
medica, oppure sonetti, canzoni ed altro.
Così Cesare Spatari di S. Severo (1589-1614) trascrive negli anni 1589-91
due lettere di Francesco della Stalla a Virgilio Romano (la prima da Serra, la
seconda da S. Severo, ambedue datate 1584) ed una terza fra tali Silverio e Mar-
38
Prot. 1277 (1698).
Prot. 1278 (1699). A colori.
40
Prot. 1279 (1700). A colori.
41
Prot. 1281 (1702). A colori.
42
Prot. 1282 (1703).
43
Prot. 1285 (1707).
39
20
Pasquale di Cicco
cello, anch’essa da S. Severo e datata 1584, tutte in versione latina e volgare.44
E Giovanni Donato Giarnera di Ascoli Satriano (1578-1610) riporta un Sonetto in thealogo alla morte («Morte che fai? Nol vedi, mieto, et che/ l’humana
gente, et non risguardi ad chi?/ no ch’è colui che mi ha mandato, e qui/ volse che
perdonasse manco ad sse/…”) nonché le parole utili “quando vole la donna partorire (“Infans, veni foras quia Christus te vocat, sicut vocavit Laczarum de monumento, ita te voco”) e “per secundare” (“Qui dicunt exnascite exnascite usque ad
fundamentum in ea»).45
In altri due protocolli appaiono una seicentesca curiosa Tabula Salamonis
arcana scientiae habentis per conoscere “quando serrà buona annata” ed un sonetto coevo, ugualmente curioso ed ugualmente interessante, i cui versi sono frammezzati dall’immagine di una croce che riempie l’intera pagina e nel cui corpo
disegni vari concorrono a dare nesso e significato ai versi medesimi.46
Potito Nicola Bascianello di Candela (1707-1713) ci tramanda una sua accorata esclamazione (“Mors quam amara est memoria tua”), accompagnandola con il
disegno di un drappo recante un teschio.47
Al notaio Montanaro si va debitori per averci fatto pervenire un lunga e
gustosa «Canzonetta di buono augurio per lo triunfo de Carlo III re di Spagna,
che Dio guarda” (“Diasilla, diasilla / pe cetate, e p’ogne villa/ d’allegrezza ogn’uno
strilla/ Già lo tiempo non s’è perzo/ trionfato ha Carlo Terzo/ si addavero, e no pe
scherzo/…»).48
Francesco Antonio Rucido di Lucera (1726-1786) ritiene necessario trascrivere gli Atti di fede, speranza e carità.49
Michele Ferrandina di Vieste (1743-1788) ci fa leggere in un suo repertorio
sia una minuziosa “ricetta per fare il pane schiavonesco all’uso di Corato”, sia il
seguente sonetto, intitolato Il demonio agli ex Gesuiti: «Morto Clemente all’empia
Società/ il diavolo prese tosto a dir così/ Teneri figli miei vedete già/ quanto per voi
mi adopro e notte e dì/ Or sappiate che in man vi tornerà/ tutto ciò ch’il destin a
voi rapì/ che la Compagnia risorgerà/ ad onta di colui che l’abbolì/ Non, cari figli,
non temete più./ Seguite pure ad uccidere Papi e Re/ ch’io sempre vi darò forza, e
virtù/ Ed al vostro sudor, ampia mercé/ sarà il venir voi tutti qua giù/ eternamente
ad abitar con me».50
44
Prot. 248 (1589-1591).
Prot. 147-149 (1588-1595).
46
Purtroppo di ambedue le “curiosità” è andata smarrita la segnatura archivistica e per ora, rimanendo esse
adespote, è giocoforza contentarsi delle loro fotocopie.
47
Prot. 1672 (1707).
48
Prot. 1285 (1707).
49
Prot. 2453 ( 1726-1728).
50
Repertorio n. 89.
45
21
Non solo rogiti. Curiosità notarili in Capitanata
Giuliano Villani di S. Marco in Lamis (1750-1782) trascrive in un suo volume
alcuni sonetti, dai titoli Clemente XIV, morto avvelenato, parla all’ingrata Roma.
1774; Della felice memoria di Clemente XI; In isdegno del Potente di Prussia, e Sovrano nelle sanguinolenti guerre per la perdita del suo generale Sceverin Conte.51
In un volume del notaio Michele Tommaso Gonzales di Manfredonia (17161745) si rinviene un piccolo schizzo a penna con il prospetto dell’antica basilica di
S. Maria di Siponto.52
Michele Ritella di Biccari (1758-1808) fornisce informazioni sulla morte di
papa Pio VI e riporta un “Epitaphium/ a Josepho Marotto Secretario Sanctissimi/
in arca mortalitatis eius inscriptum”.53
Angelo Margiotta di Foggia (1763-64) ci fa conoscere un’ultima diagnosi e
cura medica del male che affligge Domenico Maria Margiotta e che è stato sino ad
allora variamente interpretato dai dottori («Multiplices morborum affectiones que
in te observantur manifestant te affectu hypocondriaco cum subversione ventriculo laborare, nam vitiata prima coctione et chyli distributione et enervato tono
et tensione fibrarum viscerum cibaria diuturniorem moram in primis viis trahunt
et quasi arescunt, unde ortum habent particulae nitrosae et acidae quae ventriculi
membranas dilacerant, qua propter oportet iuvare prima coctionem firmare viscera
et depurare sanguinem ne fiant fixationes et irritationes; pro his assequendis tibi sis
usus longo tempore succorum depuratorum acetosae, boraginis cichorei melissae
plantaginis et absynti, mutatio aeris tibi adiutorium erit … balnea laudo, sed infirmitas tua est plus mentis quam corporis quia turbat te timor mortis. Esto alacri
animo. Vale»),54 mentre Giuseppe Sarcina di Casaltrinità (1787-1822) ci offre il
disegno a colori di un fanciullo.55
E pongo termine a questa carrellata di “sconfinamenti notarili extracuriali”,
per così dire, riportando integralmente quanto si legge sul primo foglio del protocollo del 1778 del notaio Giuliani senior di S. Severo.
Ritratto di Gesù Cristo
Vi è nella libraria del Re di Francia una descrizione in lingua araba della persona di Gesù Cristo nostro signore, che E. Lentolo governatore della Giudea
inviò al Senato Romano, allorché il nome di Gesù Cristo cominciò a spandersi nel mondo, di cui la traduzione parola per parola è la seguente.
E. Lentolo al Senato. Egli è qualche tempo, che vi è nella Giudea un uomo
di una virtù singolare, il quale si chiama Gesù Cristo; i barbari lo credono
51
Prot. 3777 (1765-1768).
Prot. 1982-1983 (1730-1731).
53
Serie II, prot. 315 (1799). Lo stesso notaio, nel prot. 302 del 1786, dà alcune notizie sul convento dei
Minori Osservanti di Biccari.
54
Repertorio n. 92 bis.
55
Serie II, prot. 2493 (1811).
52
22
Pasquale di Cicco
profeta, ma i suoi seguaci l’adorano come disceso da dei immortali. Egli risuscita i morti, e guarisce tutte le sorta di malattia colla sua parola oppure col
toccamento.
Egli è d’una statura grande e ben formata. Egli ha l’aria, ossia la presenza
dolce e venerabile. I suoi capelli sono d’un colore che non si saprebbe a’
quali appuntino compararli, o rassomigliarli cadendo fin sotto gli orecchi, e
spandendosi sopra le sue spalle con molta grazia, e leggiadria, divisi sopra la
sommità della testa alla maniera che li portano i Nazzareni. La sua fronte è
unita, ed ampia, i suoi occhi sono brillanti, vivi, chiari, e sereni. Le sue narici,
e la sua bocca sono formate con una ammirabile semitria, e le sue guance
sono segnate d’un amabile rossore e verecondia. La sua barba è folta, e d’un
colore che corrisponde a quello dei suoi capelli, scendendo un poco sotto al
mento, e dividendosi nel mezzo, forma presso a poco la figura d’una forchetta. Egli riprende con maestà. Esorta con dolcezza, o che egli parla, o che egli
operi, il tutto fa con gentilezza, e con gravità.
Niuno l’ha veduto mai ridere, ma è stato veduto piangere spesso. Egli è assai
moderato, assai modesto, assai savio; egli è finalmente un uomo, che per la
sua eccellente beltà, e per le sue divine perfezioni soprapassa tutti i figliuoli
delli uomini.
Certifico io qui sottoscritto che la presente è stata estratta da un’altra consimile esibitami da un personaggio troppo rispettabile e venerando, che have
avuta la sorta di averla in Roma, e per la memoria, ed intelligenza de posteri
l’ho voluta qui annotare, affinché abbiano vieppiù mottivo di amare, e servir
Gesù Cristo sia lodato.
Ed in fede col proprio segno ho segnato.
(Tabellionato)
Giuliani.56
56
Serie II, prot. 47 (1778).
23
24
Vittorio Russi
L’attività enologica a San Severo tra ‘800 e ‘900
di Vittorio Russi
Capitolo I
I primordi
Recenti scoperte archeologiche ci dimostrano quanto sia antica la produzione di vino nella Daunia e le fotografie aeree evidenziano tracce di vigneti di età
romana anche nei dintorni di San Severo, come presso la masseria Scoppa, dove le
viti risultano impiantate col sistema ad alberello, in file di buche scavate nella ‘crusta’, metodo ancora usato da noi fino ai primi decenni del ‘900.
Per l’epoca medioevale abbiamo scarse notizie sull’esistenza di vigneti.
Nell’aprile del 1116 l’abate Adenolfo di S. Pietro di Terra Maggiore (odierna Torremaggiore) promulga gli statuti rurali che regolano i rapporti con gli abitanti del
nostro territorio, dipendenti da quel monastero benedettino. Tra l’altro, vi è stabilito che non si paga la ‘piazza’ per esportare il vino fuori dai confini, ma chiunque
possiede una vigna deve dare ai monaci sei quartare di vino per ogni pezza.1
Particolarmente interessante è anche un documento redatto in San Severo
nell’aprile del 1301, nel quale il giudice Roberto de Barrachia e il notaio Guglielmo
Fasanellus riportano un lungo elenco di nostri concittadini, i quali, insieme ad alcuni abitanti dei vicini casali di Torremaggiore e Plantiliano, rivendicano dei crediti
verso il figlio di Carlo II d’Angiò, Filippo principe di Taranto, per la fornitura di
varie derrate in occasione di un suo soggiorno nella zona.2 Nella descrizione dei
prodotti ceduti e del loro costo, si possono distinguere tre diversi tipi di vino; oltre
a quello più comune, denominato pro tinello, c’è una qualità definita de miliori,
mentre più costoso appare il vino pro militibus, evidentemente destinato ai soldati
di scorta.
Esaminando questo elenco di quasi duecento nominativi, si nota che la
maggior parte dei fornitori fa parte di un ceto medio, con numerosi artigiani, due
1
2
Francesco DE AMBROSIO, Memorie storiche della città di Sansevero in Capitanata, Napoli, 1875, p. 31.
Pietro EGIDI, Codice diplomatico dei Saraceni di Lucera, Napoli, 1917, pp. 236-241.
25
L’attività enologica a San Severo tra ‘800 e ‘900
mercanti, uno speziario, quattro giudici, un notaio, tre diaconi e un arciprete. Le
quantità vendute si aggirano in media sulle tre-quattro salme, divise in quartare,
ma troviamo anche un magister Franciscus che ha fornito de miliori vino salm. 14
et quart. 14.3 È evidente che in questo periodo, come nei quattro secoli successivi,
i vigneti sono pochi e il vino venduto rappresenta, con qualche eccezione, un surplus di quello prodotto per uso familiare. Nell’elenco figura in due casi accanto al
nome l’appellativo di mercator, ma non sappiamo se si tratta specificatamente di
commercianti di vino.
In un documento riguardante le decime spettanti nel 1535 alla parrocchia di
S. Severino troviamo elencati 76 vigneti, situati per la maggior parte nelle località
Carrobba e Belvedere; si tratta di piccoli appezzamenti, per i quali vengono pagate
somme esigue, in genere uno o due tarì, ma si distingue un Salvatore De Maio tassato per tre ducati.4 Inoltre, nello stesso elenco compaiono ventinove parrocchiani,
diversi dai primi, che debbono dare in totale alla chiesa 217 ‘cannate’ di vino.5 Non
abbiamo i dati riguardanti le altre tre parrocchie, S. Nicola, S. Maria e S. Giovanni,
ma la situazione non doveva essere molto diversa.
Quando, verso la fine del XVI secolo, San Severo diviene feudo della famiglia
Di Sangro, molte famiglie ragguardevoli preferiscono abbandonare la città per altri
centri della Capitanata liberi da vincoli feudali, come Foggia, Manfredonia e particolarmente Lucera, dove vengono trasferiti i tribunali della Regia Udienza Provinciale.
Ciò determina anche una drastica diminuzione di quel ceto di professionisti e medi
proprietari terrieri che avrebbe potuto maggiormente dedicarsi a colture alternative
a quella cerealicola, prerogativa dei latifondi nobiliari ed ecclesiastici.
Le usurpazioni riducono poi gradualmente l’estensione del demanio comu6
nale , mentre buona parte del nostro territorio è da tempo assoggettata alla Regia
Dogana delle Pecore e adibita quasi esclusivamente al pascolo delle greggi dei pastori transumanti; rimane, così, ben poco spazio per i vigneti. Inoltre, il disastroso
terremoto del 30 luglio 1627 e l’epidemia di peste del 1656 decimano la popolazione e rendono ancora più precaria l’economia della nostra città.
Solo dopo la compilazione del Catasto onciario, voluto da Carlo III di Borbone verso la metà del XVIII secolo, conosciamo qualcosa in più sulla coltivazione
della vite in agro di San Severo. In questo registro fiscale, ora in corso di pubblicazione, sono menzionati circa duecento vigneti suddivisi su una superficie di poco
più di cento ettari, ma solo due fondi superano le 25 pezze.7
3
Non sappiamo a quanti litri corrisponde una salma di quest’epoca; successivamente in Capitanata equivale a
circa 175 litri, ma fino all’unità d’Italia le misure differiscono da un luogo all’altro, anche nella stessa regione.
4
Nella monetazione dell’epoca, un ducato equivaleva a cinque tarì.
5
Roberto PASQUANDREA, Chiesa di San Severino Abate e sue grance in San Severo,Foggia, 2009, pp. 94-99.
6
Michele TESTA, La liquidazione dei demani civici della città di Sansevero, S. Severo, 1901.
7
In Capitanata l’unità di misura della superficie agraria era la versura, equivalente ad ettari 1,2345. Una
versura di vigneto era suddivisa in 16 pezze ed ogni pezza comprendeva circa 900 viti.
26
Vittorio Russi
Non conosciamo i vitigni dell’epoca e i sanseveresi non sono ancora i provetti viticoltori di oggi, così noti anche fuori della Capitanata, ma i sistemi di vinificazione e conservazione del vino rimangono a lungo rudimentali e ciò determina una scarsa qualità del prodotto, come si apprende da una pubblicazione del
canonico Gaetano De Lucretiis.8 Le premesse ci sono, ma manca l’esperienza e
dobbiamo attendere più di un secolo perché l’attività enologica a San Severo possa
migliorare ed espandersi.
L’800 è il secolo dei grandi cambiamenti, a partire dall’occupazione francese
del Regno di Napoli (1806-1815), durante la quale vengono emanate leggi importantissime, come l’eversione della feudalità e l’istituzione dei Comuni, come oggi li
conosciamo, che ci liberano dai tanti vincoli che ostacolavano lo sviluppo dell’economia locale. Dopo l’abolizione della Dogana delle Pecore, che soprintendeva a
tutto il sistema di tratturi, di ‘locazioni’ e di ‘poste’, si rendono disponibili le grandi estensioni di terre del Tavoliere. Nella concessione di questi fondi usufruiscono
del diritto di prelazione i proprietari di greggi che da tempo inviano dal Molise e
dall’Abruzzo i loro animali a svernare nei pascoli di Capitanata e per tale motivo
non assistiamo a sostanziali cambiamenti fino alla seconda metà del XIX secolo.
Con il declino della pastorizia transumante, molte ‘poste’ vengono trasformate in
masserie e i terreni messi a coltura.
Ricordiamo, inoltre, la soppressione di una buona parte dei ricchi ordini
monastici, detentori di vasti possedimenti terrieri che vengono ceduti per lo più
alle poche famiglie agiate che dispongono dei capitali necessari; ma, anche se alcuni di questi tenimenti vengono successivamente suddivisi e rivenduti, permane la
difficoltà a reperire appezzamenti da trasformare in vigneti. Una maggiore disponibilità di terre, in lotti più piccoli, si ha dopo il 1866 per la vendita dei fondi degli
ultimi enti ecclesiastici e ne usufruiscono in particolare gli stessi contadini che da
tempo li tengono in fitto. Tutto ciò determina una lenta ma costante diffusione
di colture alternative a quella del grano, particolarmente nei dintorni della città,
perchè l’inconsistenza della viabilità rurale rende quasi impossibile raggiungere le
campagne per lunghi periodi dell’anno. Solo con la sistemazione della rete stradale9
e la costruzione della ferrovia adriatica, si aprono nuove prospettive per l’esportazione dei nostri prodotti verso le regioni settentrionali.
8
Gaetano DE LUCRETIIS, Trattato della piantagione delle viti e delle cause della disposizione dè vini a corrompersi e inacidirsi nella Puglia daunia, Napoli, 1791.
9
Vittorio RUSSI, Il sistema stradale del territorio di San Severo fino agli anni ’50 del XX secolo, Quaderni
Storici di Capitanata, 2, San Severo, 2010, pp. 91-108.
27
L’attività enologica a San Severo tra ‘800 e ‘900
Ingressi di vecchie cantine del centro storico
28
Vittorio Russi
Capitolo II
L’espansione dei vigneti a S. Severo nell’800.
L’avventura del vino sanseverese inizia in conseguenza di un avvenimento
drammatico che colpisce l’economia della Francia, la nazione che già nell’ottocento
detiene il primato nella produzione e commercializzazione dei vini. L’importazione
di viti selvatiche dall’America determina, purtroppo, anche l’introduzione in Europa
di parassiti che causano nuove malattie delle piante, come l’oidio, che viene poi curata con lo zolfo; ma è la fillossera, che si diffonde agli inizi degli anni ’60, a devastare
i vigneti francesi. Per molti anni non si trova un rimedio efficace e i commercianti
francesi, per non perdere la loro clientela, sono costretti ad importare vini da altre
nazioni, come la Spagna, la Grecia e l’Italia. Già con il trattato commerciale italofrancese del 1863 aumentano le nostre esportazioni vinicole, ma solo dopo qualche
anno si assiste ad un notevole incremento di vigne a San Severo. Il passaggio dal
pascolo e dalle colture cerealicole ai vigneti inizia invece in grande stile a Cerignola
già nel 1864, quando la famiglia Pavoncelli realizza per esperimento sessanta ettari di
vigneti ‘alla latina’; poi concede in miglioria circa 2500 ettari a contadini del barese,
detti versuriesi, con contratti della durata massima di trent’anni. Nel 1893, sempre a
Cerignola, il duca de La Rochefoucauld impianta 3000 ettari di vigneti. Questi grandi tenimenti giungono fino a Posta S. Cassiano, determinando lo sviluppo del nuovo
centro di S. Ferdinando di Puglia, mentre le uve vengono lavorate in stabilimenti vinicoli situati direttamente nelle aziende agricole, come Torre Giulia e Torre Quarto,
che producono in prevalenza vini rossi e rosati.10
A San Severo la situazione è completamente diversa, perchè i grandi proprietari terrieri dimostrano uno scarso spirito imprenditoriale e preferiscono continuare a piantare grano, un’attività molto meno impegnativa; i piccoli agricoltori
mancano invece di mezzi economici per la realizzazione di nuovi vigneti, che diventano produttivi solo dopo circa tre anni, e spesso sono costretti ad indebitarsi.
La nostra viticoltura non raggiungerà mai aspetti estensivi come a Cerignola, ma
col tempo si forma a San Severo una classe di piccoli e medi proprietari terrieri
che dispongono di una propria cantina, che diviene così numerosa da non avere
raffronti in tutta la Capitanata.
Dal Gervasio11 apprendiamo che verso il 1871 i nostri vigneti raggiungono
una estensione di 1234 ettari, con una produzione che si aggira sui 45.000 ettolitri
di vino, dei quali 17.000 sono destinati al consumo interno e il rimanente da commercializzare nei centri vicini.12 Anche il De Ambrosio, qualche anno dopo, ripor-
10
D. ANTONACCI, I vitigni dei vini di Puglia, Bari, 2004, p. 79.
Vincenzo GERVASIO, Appunti cronologici da servire per una storia della città di Sansevero, Firenze, 1871,
pp. 51-53.
12
Da notare la bassa resa, che in media supera di poco i 36 ettolitri di vino per ettaro.
11
29
L’attività enologica a San Severo tra ‘800 e ‘900
ta all’incirca gli stessi dati 13, ma la qualità del prodotto continua ad essere scadente,
sia per qualità che per gradazione.
I vigneti si estendono sempre più, per la prospettiva di grossi guadagni, e
dopo una decina di anni superano già i 1700 ettari, ma i nuovi e spesso improvvisati viticoltori-vinificatori sono scarsamente istruiti e per lo più privi anche delle
nozioni tecniche di base, così a spese del Comune vengono fatte pubblicare dal
sindaco Filippo d’Alfonso le lezioni di enologia tenute nella nostra città nell’agosto del 1881 dal prof. Giuseppe Frojo.14 In queste conferenze il relatore fa presente
innanzitutto come sia errato il nostro sistema di impiantare tante varietà di uve in
uno stesso vigneto, il che rende difficile la commercializzazione di vini che per ogni
annata presentano caratteristiche diverse; inoltre, fa notare di aver trovato in San
Severo cantine inadeguate e botti mal costruite. Suggerisce poi i metodi corretti di
vinificazione e di conservazione del vino e trova lodevole l’iniziativa del municipio
di promuovere l’impianto di una Cantina Sperimentale, che verrà realizzata l’anno
successivo a spese della Provincia.
Al comune di San Severo viene concesso anche un aiuto finanziario per
quattro anni, a condizione che detta Cantina si presti alla confezione di vini con
uve provenienti da località diverse della Capitanata, adottando metodi scientifici di
vinificazione, e che pubblichi in un bollettino i risultati ottenuti.15 La nostra Cantina Sperimentale, derivata da quella già esistente a Barletta, è diretta da Domenico
Frojo e viene istallata nei locali del soppresso convento dei Cappuccini, dove dal
1884 il vino prodotto si vende al pubblico sia sfuso che imbottigliato.16
In questi anni sono presenti a San Severo varie associazioni di agricoltori,
sorte per lo più ad iniziativa di personaggi che le utilizzano per le loro lotte politiche, spesso con contrapposizioni fra gli interessi dei grandi proprietari terrieri e
quelli dei piccoli viticoltori.
Nel frattempo i francesi trovano il sistema di ovviare alla fillossera, innestando i vitigni locali su nuovi ceppi di viti americane resistenti al parassita, anche
se in questo modo importano un’altra malattia delle piante, la peronospora. Nel
1888 viene ricusato l’accordo commerciale tra la Francia e l’Italia e i francesi introducono disposizioni protezionistiche a sostegno della loro politica economica.
La nostra viticoltura subisce così una prima forte crisi; il prezzo del vino ribassa
fortemente e nel 1889 si svolgono nella nostra città manifestazioni di braccianti e
piccoli agricoltori ridotti alla miseria.
Si cercano nuovi mercati esteri e si arriva ai trattati commerciali del 1892 con
13
F. DE AMBROSIO, cit., p. 174.
Conferenze enologiche dettate in Sansevero per incarico del Ministero di Agricoltura Industria e Commercio dal prof. Giuseppe Frojo. Raccolte dall’avv. Domenico De Girolamo, Napoli, 1881.
15
Verbale del Consiglio Comunale di San Severo del 27/6/1882. D. Frojo, Relazione sui lavori della Cantina Sperimentale di Sansevero dal settembre 1882 all’agosto 1883, Barletta, 1884.
16
Verbale del Consiglio Comunale di San Severo del 23/6/1884.
14
30
Vittorio Russi
Cantina tradizionale
la Svizzera e la Germania, oltre a quello decennale e ben più importante con l’Austria-Ungheria, dettato anche da ragioni politiche in contrapposizione alla Francia.
Segue poi, nel 1895, un accordo tra il governo italiano e quello austro-ungarico con
nuove disposizioni che regolano il commercio del vino con dazi ridotti, ma non
mancano polemiche, particolarmente da parte ungherese, per le qualità piuttosto
scadenti dei vini italiani, mentre i nostri esportatori si lamentano per la meticolosità dei doganieri austriaci alla frontiera.17
A San Severo le esportazioni aumentano anche per le tariffe agevolate del
trasporto ferroviario concesse dal governo e riguardano sia i vini rossi, detti di
‘mezzo taglio’, che i bianchi di gradazione non molto elevata, che diventano ben
presto prevalenti. Si produce anche un vino bianco più pregiato, ottenuto dal Bombino insieme a Malvasia o Mostosa, che alcuni grossi commercianti pubblicizzano
nei loro listini internazionali come ‘Wein weiss von Sansevero’ e che in parte viene
utilizzato in Piemonte come base per la produzione di vermouth.18 Si esporta an17
18
La Sicilia Vinicola e il Corriere Vinicolo, 27 luglio 1895.
Umberto PILLA-Vittorio RUSSI, San Severo nei secoli, S. Severo, 1984, p. 205.
31
L’attività enologica a San Severo tra ‘800 e ‘900
che un’uva bianca da tavola, spedita per ferrovia in contenitori di vimini verso la
Germania e l’Austria, dove è chiamata Gold traube (Grappolo d’oro).
Da noi c’è, però, anche il problema della forte produzione di vinaccia e di
sottoprodotti della vinificazione, che vengono ceduti a bassissimo prezzo a piccoli
distillatori in buona parte originari del napoletano. Ricordiamo che già in una carta
topografica del 1883 è indicato un C. Lambicco su via S. Bernardino, forse quello
di Amodio, e che nel 1890 Luigi Colio ha una distilleria nell’attuale via L. Mucci.
Per ovviare a tale situazione, nel 1891 viene costituita la Società Cooperativa
dei Viticoltori, ad opera di Michele Colio, Filippo La Cecilia e Giuseppe De Lucretiis, e con i finanziamenti della Banca di San Severo si arriva all’istallazione di
una moderna distilleria lungo via Principe di Piemonte, l’attuale via Don Minzoni.
È una iniziativa che ottiene ben presto ampi consensi per i numerosi ed ottimi
prodotti, come un cognac invecchiato per lunghi anni in botti di rovere e il Casteldrione, un liquore aromatico che vince numerosi premi in Italia e all’estero.19
Già dagli ultimi decenni del XIX secolo i nuovi palazzi dei ricchi agricoltori presentano invariabilmente uno scantinato vasto come l’intero stabile, anche
se non sempre viene destinato prevalentemente all’attività enologica. Un esempio interessante di adattamento di una struttura preesistente è quello del palazzo
settecentesco Del Pozzo, sul corso Vittorio Emanuele II, acquisito nell’800 dalla
famiglia Cavalieri; qui, per utilizzare in maniera più razionale la profonda cantina
che si sviluppa su due livelli, viene predisposto nel 1897 un ingresso all’angolo di
via M. Fraccacreta.
Non mancano in quest’epoca grosse strutture adibite espressamente ad uso
enologico. Un esempio lo troviamo nel periodico sanseverese Alba del gennaio del
189920, dove compare una offerta di vendita o affitto di una cantina di proprietà di
Prospero Fania, situata alla periferia di San Severo, dalla parte di Torremaggiore.
Questa cantina è formata da sei vani a pianterreno e nove sotterranei ed è provvista
di sette pigiatoi, quattro torchi ‘nuovo sistema’ e 42 botti per complessive 10.000
cannate, equivalenti ad oltre 1100 ettolitri, una notevole capacità per quest’epoca.
Non sappiamo come e quando lo stabile viene ceduto, ma il Fania continua nella
sua attività vitivinicola e lo ritroviamo tra i protagonisti delle vicende che sconvolgono l’economia cittadina agli inizi del nuovo secolo. Probabilmente la sua cantina
è la stessa nota successivamente come Damiani, sita lungo l’attuale via Checchia
Rispoli, ad angolo con via Carmicelli, e recentemente demolita.
19
Vittorio RUSSI, La società Cooperativa Viticoltori San Severo, in «La Capitanata 24», Foggia, 20l0, pp.
127-142..
20
‘Alba’, anno 3°, San Severo, 22 luglio 1900.
32
Vittorio Russi
Capitolo III
La crisi del 1904.
Nel luglio del 1900 il sindaco di Foggia comunica al collega di San Severo
che nel suo territorio non vi sono stati casi di fillossera, contrariamente alle voci
diffuse in quei giorni. In realtà, già da qualche anno questa infezione è presente
in Capitanata, anche se in zone ancora limitate, e dovrebbe preoccupare i nostri
viticoltori, i quali, fidando nelle rigide misure di prevenzione attuate dalle autorità,
rimandano ancora il reimpianto dei vigneti col sistema francese. Per il momento si
pensa piuttosto all’aumento del prezzo del vino, determinato dai danni causati in
molte zone dalla peronospora.
Intanto, mentre in alcune nazioni, come la Svizzera e la Germania, ai nostri
vini vengono preferiti quelli provenienti dalla Spagna, dalla Grecia e dalla Turchia,
perché di più alta gradazione, nel 1902 decade il trattato commerciale con l’Austria-Ungheria. Secondo la tesi austriaca, avendo l’Italia firmato un altro accordo
provvisorio, nel quale non sono considerate le clausole di favore precedentemente
concesse, deve accettare le nuove disposizioni, che contemplano per le importazioni dei vini bianchi italiani un minimo di 13 gradi alcolici e il 23 per mille di
estratto secco. Gli accordi scadono il 31 dicembre 1903, ma le diminuite esportazioni determinano forti giacenze di vino invenduto e da noi si teme per la prossima
vendemmia, non essendoci in città sufficienti cantine per immagazzinare anche la
nuova produzione. Si arriva così alla crisi del 1904, che diviene subito argomento
di lotta politica in previsione delle elezioni nazionali per la XXII Legislatura, che
si terranno in novembre. Tra i candidati del Collegio di San Severo c’è Raffaele
Fraccacreta, il quale imposta la sua propaganda particolarmente in favore dei piccoli proprietari, i quali non dispongono di attrezzature e di risorse finanziarie per
superare questa congiuntura negativa.
Il 13 gennaio viene convocato in sessione straordinaria il consiglio comunale
di San Severo, per deliberare su un ‘Voto al governo per la rinnovazione del Trattato di Commercio con l’Austria Ungheria’. Qualche giorno dopo il Fraccacreta
tiene un acceso discorso in una affollatissima piazza Castello; le autorità temono
disordini e inviano un forte contingente di forza pubblica, ma la popolazione rimane calma. L’oratore espone la difficile situazione che si prospetta, data l’impossibilità per i nostri vini di rispettare i parametri richiesti dall’Austria, e si chiede dove
finiranno i 100.000 ettolitri del nostro vino bianco che venivano esportati ogni
anno nei soli mesi fra ottobre e dicembre. La soluzione proposta è quella di indurre
il governo austriaco, come quelli della Germania e della Svizzera, ad inserire nei
nuovi trattati commerciali con l’Italia un trattamento speciale per i nostri vini.21
21
Raffaele FRACCACRETA, Discorso pronunciato al gran comizio pugliese, per un trattamento di favore dei
nostri vini nel trattato di commercio con l’Austria-Ungheria, tenuto in Sansevero il giorno 17 gennaio 1904,
Sansevero, Tipi De Girolamo.
33
L’attività enologica a San Severo tra ‘800 e ‘900
I socialisti sanseveresi si dissociano dalle dichiarazioni di Raffaele Fraccacreta e, in un loro comizio del 24 gennaio, Ernesto Mandes e Leone Mucci esprimono
l’opinione che l’unica soluzione realistica è quella di sviluppare il commercio del
vino con l’abolizione dei dazi interni e di quelli alle frontiere e con altre agevolazioni governative sul costo dei trasporti ferroviari.
Già dall’inizio dell’anno, per iniziativa della Società dei Viticoltori di San
Severo, si è formato un comitato permanente per risolvere la crisi; vi fanno parte
oltre cinquanta eminenti cittadini, che troviamo elencati nel primo numero di saggio del giornale «Pro-Sansevero-Organo degli interessi vinicoli pugliesi».22 Il ministro dell’agricoltura, Luigi Rava, e quello delle finanze, Luigi Luzzatti, in attesa di
altri provvedimenti, propongono di predisporre a San Severo un grande deposito
comunale per immagazzinare il surplus di 120.000 ettolitri di vino che si prevede
per la prossima vendemmia e per la cui realizzazione lo stato contribuirà per metà
della spesa.
La crisi investe anche altre zone vinicole e il ministro Luttazzi presenta al
parlamento delle proposte a favore del settore enologico italiano; si giunge così
22
Ringraziamo la dott.ssa Maria Rosaria Tritto, dell’Archivio di Stato di Foggia, per aver messo a nostra
disposizione i documenti utilizzati per la sua relazione su La crisi vinicola di San Severo del 1904, pubblicata
negli Atti del 24° Convegno Nazionale sulla Preistoria-Protostoria-Storia della Daunia, San Severo, 2004,
pp. 305-314.
34
Vittorio Russi
all’approvazione della legge n. 377 dell’11 luglio 1904, con la quale viene stanziata
la somma di 300.000 lire per aiutare i piccoli produttori nell’acquisto delle botti indispensabili per la conservazione del prodotto e altre 700.000 lire per promuovere
la costituzione di cantine sociali, coma già è stato fatto in Francia.
Il 24 settembre viene finalmente approvato un nuovo accordo con l’AustriaUngheria, che si impegna ad importare 450.000 ettolitri di vino bianco italiano,
abbassando il limite della gradazione alcolica a undici e mezzo e quello dell’estratto secco al ventuno per mille, ma quest’ultimo parametro è ancora troppo alto per
noi, poiché i vini sanseveresi raramente superano il diciannove per mille.
In attesa di trovare una soluzione si ritarda l’inizio della vendemmia, ma la
situazione diviene drammatica e la giunta comunale sembra impotente davanti a
questa crisi. Si sollecita il governo perché invii con urgenza 1400 botti e un buon
numero di carri ferroviari provvisti di serbatoi per il trasporto, ma queste richieste vengono esaudite solo parzialmente23 e con ritardo, per cui molta uva rimane
sulle piante. La maggior parte dei nostri piccoli viticoltori è abituata a vendere
direttamente il prodotto grezzo appena fermentato, perciò manca di recipienti per
conservare il vino e per non perdere il prodotto è costretta a cederlo a basso prezzo
agli speculatori.
Il prefetto di Foggia, allarmato dalla situazione, ordina al sindaco di San Severo, Gaetano Croce, di provvedere a reperire locali e attrezzature, per cui vengono acquistate a spese del comune 150 botti, probabilmente a Barletta, e si mettono
a disposizione i locali dell’ex convento di S. Bernardino; ma, le iniziative intraprese
non sono sufficienti e la maggior parte del vino si guasta. Il problema non è solo
nostro e non rimane altra soluzione per il governo che concedere la distillazione
agevolata del prodotto invenduto; purtroppo, questo tipo di provvedimento è solo
il primo di una lunga serie che caratterizzerà le crisi future.
A San Severo il deposito vinicolo comunale non viene più attuato e la delusione per le mancate promesse governative provoca un diffuso malcontento, che si
riflette in una fotografia del gennaio 1905 che ci mostra un busto del ministro Luigi
Luttazzi modellato con la neve e accompagnato da un cartello satirico.24
23
Il modulo predisposto dal governo per la concessione delle botti è firmato dal ministro di Agricoltura,
Industria e Commercio, Rava, e vi sono indicate le norme per ottenere in concessione i vasi vinari per un periodo di dieci mesi. Le botti vuote vengono depositate nel cosidetto ‘orto di Luigione’, nell’area di proprietà
comunale dove ora sorge l’ edificio scolastico E. De Amicis.
24
Il ‘monumento’, di buona fattura, appare situato su un piedistallo nell’ex chiostro del palazzo Celestini.
Il testo è il seguente: A Gigione Luzzatti - patrigno affettuoso - questo monumento niveo - fugace come le
sue promesse - Sansevero riconoscente - pone - III. I. a.d. MCMV.
35
L’attività enologica a San Severo tra ‘800 e ‘900
Monumento di neve al ministro Luigi
Luzzatti
Capitolo IV
Il vino a S. Severo fino alla seconda guerra mondiale.
Dopo la crisi del 1904 la situazione non migliora, così Antonio Faralla,
presidente della Federazione dei Piccoli Viticoltori, nel gennaio del 1908 invita
le rappresentanze delle varie associazioni cittadine ad una riunione presso la sede
dell’associazione, in largo S. Antonio Abate, per chiedere, tra l’altro, che il governo
conceda un impianto di distillazione e che venga attuata una cantina sociale. Ma
anche queste richieste rimangono senza esito.
Nei convulsi avvenimenti di questi primi anni del secolo, troviamo qualche
notizia sull’esistenza di cantine di una certa entità, come quella di Checchia verso porta Foggia, e dell’attività di commercianti del nord, come i fratelli Corvi, di
Lodi, i quali hanno un deposito presso la stazione ferroviaria. Ma il primo stabilimento vinicolo di cui abbiamo notizia diretta è quello di Raffaele Fraccacreta, che
compare in alcune fotografie scattate in periodo di vendemmia e che mostrano i
carretti che trasportano l’uva nei tipici tinelli, mentre lungo la strada è depositato
un gran numero di botti con il marchio R. F. Questa azienda è situata lungo l’attuale via Checchia Rispoli, nel sito del successivo mulino Casillo.
36
Vittorio Russi
Stabilimento di Raffaele Fraccacreta
In questo periodo la fillossera dilaga nel nostro tenimento e costringe gli
agricoltori a sostituire i vigneti tradizionali con quelli innestati col sistema francese. Da un punto di vista tecnico non ci sono difficoltà, in quanto dagli inizi del ‘900
sono stati costituiti dei consorzi per la difesa della viticoltura, che hanno promosso
studi per sperimentare i vari tipi di vitigni; il vero problema sono i costi notevoli,
che non tutti possono affrontare, e in alcuni casi intervengono in aiuto i due istituti
di credito locali, anche se le loro possibilità sono ormai al limite. Si diffondono
così da noi i vigneti a filari e mentre per le uve bianche la preferenza va al Bombino, quelle rosse tradizionali vengono gradatamente sostituite dal Montepulciano,
spesso associato al Sangiovese perché di maggiore produttività, anche se la qualità
dei suoi vini da noi è meno pregiata.
La Società dei Viticoltori, che ormai conta un centinaio di soci ed è la terza
per importanza in Capitanata, nel 1910 distilla 25.550 ettolitri di vino, proveniente
dalle eccedenze per le abbondanti vendemmie degli anni precedenti, e oltre 5.300
quintali di vinacce.25 Purtroppo, una nuova legge impone alle distillerie di depo25
Angelo FRACCACRETA, Le forme del progresso economico in Capitanata, Napoli, 1912, nota a p. 81.
37
L’attività enologica a San Severo tra ‘800 e ‘900
sitare in banca notevoli somme come cauzione per la tassa sui distillati e la nostra
cooperativa, già a corto di liquidità per la grande quantità di prodotto immagazzinato, è costretta a ricorrere ad altri fidi presso la locale Banca Popolare. Nel 1911 i
dirigenti della Società fanno redigere un inventario completo dei beni dell’azienda,
per dimostrare agli azionisti e ai creditori la reale situazione finanziaria; in questo
elenco troviamo più di cinquecento fusti, di cui la metà sono botti di rovere destinate all’invecchiamento dei liquori. Per la costruzione e la manutenzione di questi
recipienti è stato fatto venire appositamente da Pomigliano D’Arco il bottaio Antonio Terracciano, il quale poi continua l’attività artigianale nella nostra città con i
figli Giovanni e Felice.26
Malgrado le crisi ricorrenti, verso il 1910 la superficie coltivata a vigneti
supera i 9000 ettari e il basso prezzo dei nostri vini attira i commercianti forestieri, i quali predispongono magazzini nei pressi della stazione ferroviaria o allestiscono delle proprie cantine per vinificare le uve acquistate sul posto. Già dalla
fine dell’800 sono presenti a San Severo commercianti barlettani, come Emanuele
De Feo, i quali dispongono di buoni vini neri ma scarseggiano di bianchi. I nostri
prodotti vengono inviati per ferrovia a Barletta, un importante e antico centro
vinicolo favorito dalla presenza del porto, dal quale partono i battelli diretti particolarmente a Trieste, che in quest’epoca è il più importante scalo marittimo
dell’impero austriaco.
Da Barletta arrivano anche i costruttori di botti, come i Sernia, Galante,
Soricaro, Iacobazzi; sono abili artigiani che svolgono spesso anche un ruolo di
mediatori e alcuni finiscono per intraprendere una propria attività vinicola. È
interessante notare come questa categoria continui ad adottare per anni le norme e le tariffe stabilite dalla Lega tra Bottai Barlettani. Della stessa città è anche
Giuseppe Sguera, il quale ritira da noi vino bianco per conto della ditta Tauber
di Praga; poi si trasferisce a San Severo agli inizi del secolo e lavora in collaborazione con il De Feo, aprendo successivamente uno stabilimento vicino alla
stazione.
Nel frattempo, Raffaele Fraccacreta, divenuto nel 1909 deputato al Parlamento, riesce ad ottenere molte facilitazioni per lo scalo ferroviario e per treni
merci straordinari che trasportano i nostri prodotti verso il nord; si giunge così a
spedire fino a 900 ettolitri di vino al giorno.
I trasferimenti dalle cantine verso la ferrovia avvengono a mezzo carretti,
che possono trasportare al massimo tre botti alla volta, ed è evidente che la vicinanza degli stabilimenti alla stazione diventa molto importante; per tale motivo si
sviluppa in questa zona un vero e proprio quartiere industriale. Lo stesso Fraccacreta costruisce verso il 1912 un grosso stabilimento in via Principe di Piemonte
26
Vittorio RUSSI, La Società Cooperativa cit.
38
Vittorio Russi
(odierna via Don Minzoni), mentre la ditta Folonari di Brescia si è già insediata
sulla strada vicinale Principato, subito al di là della ferrovia, con un binario di raccordo per i propri vagoni cisterna.27
Non tutti trasferiscono la propria attività presso la stazione e ricordiamo, tra
gli altri, Alfonso La Cecilia, il quale ha esposto vini e spumanti alla mostra campionaria di Roma del 1909 e continua a lavorare in via S. Bernardino, accanto alla
distilleria di Giuseppe Amodio.
Ormai, anche i piccoli viticoltori comprendono che non possono continuare a svendere le uve agli stabilimenti e ai commercianti, così provvedono ad
allestire delle proprie cantine, situate per lo più sotto casa. Le attrezzature sono
ridotte all’essenziale e consistono in un pigiatoio di legno (palmento) montato
su cavalletti, un torchio a mano, botti di modeste dimensioni, qualche tino e
pochi altri accessori; ciò rende possibile immagazzinare il vino ed attendere il
momento più propizio per la vendita.28 Questi locali, caratterizzati da un vano a
pianterreno e da uno scantinato sottostante, spesso ricavato ex novo sotto edifici
ottocenteschi, si diffondono a centinaia in tutta la città e rappresentano una peculiarità che distingue San Severo dagli altri centri vinicoli pugliesi.29 Ma, anche
le cantine più grandi non dispongono ancora di energia elettrica e la lavorazione
rimane quella tradizionale.
Questo particolare momento dell’enologia sanseverese subisce una drastica
contrazione a partire dal 1914, per lo scoppio della prima guerra mondiale. Non
sono solamente gli avvenimenti bellici a determinare una nuova crisi nella nostra
economia, ma è la disfatta di quelle nazioni che hanno rappresentato per lungo
tempo la nostra migliore clientela a far precipitare le esportazioni di vino. Le conseguenze non tardano a farsi sentire e già agli inizi della guerra chiude la distilleria
della società Santolini-Compagnone, sulla strada per S. Marco in Lamis, di fianco
all’odierno campo sportivo.
Numerose notizie sul dopoguerra le ricaviamo dall’Annuario Vinicolo Italiano edito nel 192230, nel quale è riportata per San Severo una lista di 81 nominativi riguardanti attività varie nel campo vinicolo. Inoltre, vi troviamo un elenco
27
Folonari arriva a disporre in Puglia di stabilimenti anche a Barletta, Locorotondo, Squinzano e Galati-
na.
28
Dino ORSI, C’era una volta…la cantina, S. Severo 1992. Id., C’era una volta…San Severo, Foggia, 2004,
pp. 21-56.
29
Lo scrivente ha in corso un lavoro di schedatura di queste attività enologiche e una prima raccolta sintetica di dati, riguardante quaranta stabilimenti ed oltre quattrocento cantine private, è a disposizione di quanti
desiderano approfondire l’argomento.
30
Primo Annuario Generale Vinicolo Italiano Illustrato, Torino, anno II, 1921-1922, pagg. 626, 631, 808.
Abbiamo potuto consultare questo volume per la cortesia dell’amico Gino Biccari, al quale siamo anche grati
per le notizie e le fotografie d’epoca sulle attività enologiche a San Severo.
39
L’attività enologica a San Severo tra ‘800 e ‘900
specifico di produttori-esportatori di vino31 ed un altro di mediatori.32
Dai dati esposti non si può dedurre l’effettivo peso in questo periodo del
comparto enologico sull’economia sanseverese, ma gli inserti pubblicitari inseriti
nel volume indicano come diversi commercianti esportano sia il vino che l’olio
d’oliva. Una specialità locale sono i ‘filtrati dolci bianchi’, pubblicizzati da Orazio Gentile; Alfonso Mancini (con stabilimento in via Torremaggiore); Giovanni
Pennacchia e, particolarmente, da Luigi Checola, il quale li produce in un ‘Grande
stabilimento moderno elettrico’.
Dopo il 1922, chiude il deposito al n. 35 del viale della Stazione di Sebastiano Visaggio, commerciante in ‘uva, mosto, vini, olive fresche e prodotti del suolo.
Specialità vini bianchi verdolini e color carta. Rosso, tipo Montepulciano e Sansevero’. Cessa anche l’attività dello stabilimento della ditta svizzera Eggiman & C.,
sito nei pressi dello scalo merci della ferrovia; mentre non disponiamo di dati su
altri commercianti forestieri, come Pietro Longo (di Milano?), il quale aveva un
magazzino nella zona del palazzo Giancola, accanto alla stazione.
Intanto, Raffaele Fraccacreta si trasferisce a Roma e vende il suo stabilimento ai Fratelli Fossati, della provincia di Verona, ma anche questa ditta cessa
ben presto la sua attività. In questo periodo burrascoso ricordiamo un cambio di
gestione per una cantina già di Gervasio e poi di Carlo Russo, sita all’angolo di
via Galvani con via Pacinotti, che passa verso il 1924 a Gioacchino Aquilano, il
quale riesce a superare i momenti più critici. Abbiamo, però, anche notizia di vini
di qualità, come quelli imbottigliati dai fratelli Alfredo e Luigi D’Alfonso e offerti
al principe Umberto di Savoia in occasione della sua venuta a San Severo nel 1923,
per l’inaugurazione dell’edificio scolastico presso la villa comunale.
Successivamente, il mutato clima politico favorisce le nostre esportazioni
verso la Germania e la situazione generale tende un po’ a migliorare. Così vediamo
come Michele Florio, il quale già nel 1922 risulta produttore, nel 1927 imbottiglia
vino Montepulciano e filtrato dolce nella sua cantina di via Calabria.
A sua volta, Michele Rizzi, che spediva uva da tavola verso il nord e aveva
lavorato con Eggiman, incrementa la sua attività ampliando nel 1928 lo stabilimento sull’attuale via Don Minzoni. Per conto di Rizzi, il bottaio Alessandro Sernia
costruisce poi dieci grandi botti, della capacità di centinaia di ettolitri, ricavate sul
posto da tronchi di rovere fatti venire appositamente dalla Slovenia e imbarcate al
porto di Pola.
31
Cassano Matteo, Castelli dott. Giovanni, Checola Luigi, Di Troia Luigi, Di Troia Vincenzo e Figli, Florio Michele fu Antonio, Fraccacreta Raffaele, Irmici Michele,La Cecilia Alfonso, La Cecilia Filippo, Mollica
Leonardo e Figlio, Mucci Leonardo, Nardella Raffaele, Petruzzellis Luigi, Russi Ernesto, Visaggio Sebastiano. Castelli e Petruzzellis compaiono due volte, non sappiamo se per errore di stampa o per omonimia.
32
Checola Luigi, Garofalo Nicola, Iacobacci Luigi, La Cecilia Alfonso, La Cecilia Michele, Mancini Alfonso, Pagliafora Raffaele, Pennacchia Giovanni, Rizzi Michele, Sguera Giuseppe.
40
Vittorio Russi
Etichette del 1927
Per rilanciare i nostri vini sui mercati italiani e stranieri, viene riaperta nel
1930 a San Severo la Cantina Sperimentale, come sezione staccata di quella di Barletta. Questo ente, diretto dall’enotecnico Ugo Stramezza, è aperto al pubblico ed
è provvisto di un laboratorio di analisi abilitato al rilascio di certificazioni valide
per le transazioni commerciali. La nostra cantina sperimentale arriva a produrre in
un anno fino a cento ettolitri di ottimo vino, che ottiene attestati e premi in mostre
e concorsi anche all’estero, e persegue una attività scientifica e promozionale che
porta nel 1932 al riconoscimento del vino tipico ‘San Severo bianco’, ai sensi della
Legge 10/7/1930 n. 1164.33
In questo periodo chiude, purtroppo, la gloriosa Società dei Viticoltori e la
città non solo perde una rilevante attività economica, ma soprattutto una distilleria
che tanta parte ha avuto nella salvaguardia del nostro settore vinicolo. Rimangono
tanti piccoli distillatori, in gran parte originari di S. Antimo, nel napoletano, coadiuvati da raccoglitori di vinaccia, feccia e altri sottoprodotti della vinificazione.
Una importante iniziativa è invece la costituzione, nel settembre del 1932,
della ‘Società Civile per Azioni Anonima tra Viticoltori Produttori Vini di San Severo’, diretta da Antonio La Monaca e con sede presso la Federazione Agricoltori,
in corso Umberto I. Il proposito è quello di aprire uno stabilimento vinicolo in
33
Vittorio RUSSI, La cantina sperimentale di San Severo, in «La Gazzetta di San Severo», 27 ottobre 2001.
41
L’attività enologica a San Severo tra ‘800 e ‘900
concorrenza con quelli dei commercianti, che tendono a tenere bassi i prezzi delle
uve e dei vini; ma gli inizi non sono facili e per la prima vendemmia si è costretti a prendere in fitto varie cantine, con una produzione di 7000 ettolitri di vino,
parzialmente venduti l’anno successivo a Giovanni Zitoli. Nel 1934 aumenta il
numero dei soci e cambia la denominazione in ‘Cantina Sociale Cooperativa di San
Severo’, la prima nel suo genere in Capitanata. L’enologo è Michele Irmici e si vinifica nello stabilimento di Alfonso La Cecilia, su via S. Bernardino, che poi viene
acquistato; si utilizzano pigiatrici elettriche e presse idrauliche, che permettono di
lavorare circa 300 quintali di uva al giorno.34
In questi anni, Camillo Scaler, di Gressoney Saint Jean (Aosta), il quale teneva in fitto la cantina Damiani, alla periferia della città verso Torremaggiore, acquista l’ex stabilimento di Raffaele Fraccacreta, in via Principe di Piemonte (ora
via Don Minzoni), che viene poi ampliato dal figlio Stefano e diviene un punto di
riferimento per i nostri viticoltori per la serietà e la puntualità ‘svizzera’ dimostrata
nei rapporti commerciali. Altre grossa cantina di quest’epoca è quella del barlettano Giovanni Iacobazzi, che si insedia nei locali dell’ex Società Ing. Vallecchi-Autolinee del Gargano, in via Galvani, e lavora per conto della ditta Bolla di Verona.
Non sappiamo, invece, quando abbia cessato l’attività la cantina e distilleria di Vito
Pappalepore, sita all’angolo di via Don Minzoni col viale della Stazione, demolita
per far posto alla clinica del dott. Troiano.35
Quasi di fronte a Pappalepore c’è Raffaele Nardella, già attivo nel 1922 e del
quale conosciamo la pubblicità riguardante i suoi vini bianchi; questa cantina viene
acquisita poi da Ernesto Meola, già dipendente di Michele Florio. Anche Raffaele
Orlando, originario del beneventano e agente dei Fratelli Pasqua di Verona, nel 1937
apre un suo stabilimento in fondo a via Marsala, da dove è possibile utilizzare la
tramvia San Severo- Torremaggiore come collegamento ferroviario con la stazione.
Un’altra attività in fase di espansione è quella di Giuseppe Sguera e del figlio
Oronzo; il loro stabilimento si trova in via Pacinotti e confina con una vecchia distilleria che nel 1939 viene modernizzata dalla Società Italiana Spiriti (S.I.S.), anche
questa collegata con la ferrovia.
Tra i tanti commercianti e mediatori ricordiamo Gaetano Sebastiani, agente
della ditta Vedova Bini di Castelfranco Emilia, il quale nel 1933 prende in fitto
la cantina di Carlo De Lucretiis, sita su via Fortore. Una figura caratteristica di
questo periodo è Stefano Stien, un mediatore divenuto anche rappresentante della
ditta svizzera Blenk, specializzata nel noleggio di carri ferroviari per il trasporto di
vino; Stien si dedica poi anche alla produzione di gassose, sponsorizzate con gare
ciclistiche.
34
Per i dati riguardanti la Cantina Sociale ringraziamo il rag. Mario Cota, già direttore amministrativo
della cooperativa.
35
La clinica è la stessa poi gestita dal dott. Giulio Cerulli, direttore dell’ospedale Teresa Masselli.
42
Vittorio Russi
Il vino si vende per lo più sfuso ed uno degli spacci più noti è quello di Gioacchino Maghernino coadiuvato dai figli Alfredo e Antonio; quest’ultimo nel 1938
ottiene in una mostra il primo premio per un vino bianco di 15 gradi!
Molte di queste attività rallentano e poi si bloccano dopo il 1940; così chiude
l’azienda di Felice Sonoro, con uno stabilimento vinicolo abbinato ad un oleificio
(Vinolio) in via Sicilia. Durante il periodo bellico, la Cantina Sociale si dota di un
grosso motore a scoppio per azionare parte dei nuovi macchinari; continua invece
normalmente la produzione nelle piccole cantine con le attrezzature tradizionali,
per le quali non è necessaria l’energia elettrica.
Gli eventi della seconda guerra mondiale toccano marginalmente il nostro
territorio, ma per lungo tempo cessa ogni rapporto con le ditte del nord. Verso la
fine del 1943 il nostro vino subisce un aumento di prezzo inaspettato, determinato
dalla vicinanza del fronte di guerra e dalla interruzione dei trasporti a lunga distanza, che impediscono ai commercianti dei centri vicini di rifornirsi adeguatamente.
Molti nostri viticoltori tendono a conservare il loro prodotto nella prospettiva di
futuri grossi guadagni e alcuni speculatori ne approfittano per introdurre in città
vini di scarsa qualità; l’illusione però dura poco e i prezzi crollano.36
Gli stabilimenti vinicoli stentano a riprendere il lavoro per la scarsità di
energia elettrica ed Ernesto Meola si ingegna a collegare una pigiatrice ad una locomobile a vapore del tipo usato per la trebbiatura; per pressare la vinaccia ci sono
invece i torchi idraulici azionati a mano. Lo stesso sistema viene adottato in altri
stabilimenti, come quello di Scaler, dove la locomobile viene successivamente utilizzata per produrre il vapore necessario alla manutenzione delle botti.
Capitolo V
Il secondo dopoguerra
Nel 1945 la guerra è finita, ma siamo ancora lontani da un ritorno alla normalità e alcuni commercianti più intraprendenti, come il giovane Michele Meola,
tentano di riprendere i contatti commerciali con la Campania. In attesa del ripristino della linea ferroviaria si cominciano ad inviare verso Napoli le botti di vino
con i carretti; si costituiscono così delle vere e proprie carovane, sia per utilizzare
i cavalli in gruppo per superare le salite più ripide, come quella di Ariano Irpino,
che per scoraggiare i malviventi che impongono pedaggi ai commercianti di passaggio.
36
Relazione presentata a S. E. il generale Cotronei Prefetto della Provincia di Foggia dal Commissario
Prefettizio Arduino Fraccacreta sull’opera svolta dall’Amministrazione Comunale dal 1° ottobre 1943 al 30
settembre 1944, San Severo, 1944, p. 2.
43
L’attività enologica a San Severo tra ‘800 e ‘900
Intanto a San Severo si riorganizza la Cantina Sperimentale, diretta dal
1947 dal dott. Ennio Gervasio, e opera per qualche anno una società fra produttori e commercianti di prodotti locali denominata O. C. I. (Organizzazione
Commerciale e Industriale), che ha sede nello stabilimento di Oronzo Sguera e
della quale fanno parte per il settore vinicolo anche Adelchi Cicerale, Domenico Laudadio, Giovanni Iacobazzi e Vincenzo Zitoli. In questo periodo è attiva
anche la distilleria di Matteo e Pasquale Colio, in via Solferino, che però ha una
vita piuttosto breve.
Nel 1947, il tenimento dell’Istituto Agrario Michele Di Sangro, che si estende verso la contrada Zamarra, viene suddiviso in 1223 quote assegnate a braccianti
agricoli; questi piccoli appezzamenti vengono poi trasformati prevalentemente in
vigneti, utilizzando portainnesti selezionati per quel particolare tipo di terreno.
Intanto la Cantina Sociale, che i sanseveresi chiamano ‘il Cantinone’, aumenta la propria ricettività affittando parte dell’adiacente ex stabilimento di Francesco
Presutto, che poi viene incorporato; si progetta anche una distilleria cooperativa,
che non viene però attuata, mentre nel 1949 si stabilisce di acquistare un moderno
impianto di imbottigliamento.
Fra le tante iniziative che si sviluppano tra gli anni ’40 e ’50, ricordiamo lo
stabilimento di Roberto Mottola, napoletano, il quale per vinificare l’uva di oltre
duecento ettari di vigneti che la famiglia possiede in contrada Falciglia, si insedia
nei pressi del viale della Stazione, non lontano dalle cantine dei fratelli Pennacchia
e di Giuseppe Soricaro. Altro caso è quello di Vincenzo Di Troia, il quale dopo
aver tenuto in fitto l’ex Vinolio, entra nella società I.V.O. (Industria Vinicola Olearia); la sede, che si trovava sull’attuale viale Matteotti, viene ceduta nel 1954 ai
fratelli Fabrizi, commercianti originari di Pratola Peligna.
Ancora per qualche decennio gli impianti di lavorazione rimangono piuttosto sommari, consistendo per lo più in uno o due torchi continui e qualche pressa
idraulica; per le uve nere si istallano anche pigiodiraspatrici e sgrondatori, ma la
qualità del prodotto non è eccelsa e, con qualche eccezione, i nostri rimangono pur
sempre vini da taglio.
Spesso i proprietari di questi stabilimenti, al pari dei numerosi commercianti
paesani e forestieri, acquistano il prodotto dei piccoli viticoltori, i quali però non
dispongono di pompe e per travasare il vino dalla loro cantina ai grandi serbatoi
dei compratori intervengono i ‘brentatori’, operai specializzati che prendono il
nome dal barile da 50 litri utilizzato per questo lavoro, la brenta (in dialetto mantegna). Questi brentatori si sono costituiti già prima della guerra in una specie di
cooperativa, che poi si è divisa in tre ‘compagnie’, aderenti ad altrettanti sindacati
di diversa connotazione politica.37
37
Vittorio RUSSI, I ‘Carrea-mantegne’ a San Severo, in «Quaderni dell’Orsa», S. Severo, dicembre 2008,
pp. 38-40.
44
Vittorio Russi
Agli inizi degli gli anni ’50 il bum economico è ancora lontano e intere famiglie emigrano verso le zone industriali del nord, particolarmente a Milano e
Torino. Comincia a scarseggiare la mano d’opera stagionale e nel periodo della
vendemmia si spostano a San Severo operai dei paesi vicini, particolarmente del
Gargano, che spesso si trasferiscono qui definitivamente.
A questo problema si sopperisce meccanizzando anche le cantine private e
si inizia con semplici pigiatrici a rulli o con un tipo di pigiatrice-pressatrice della
locale officina Vernola; per spremere le vinacce rimangono i tradizionali grandi
torchi a mano, qualche volta sostituiti da presse idrauliche costruite anche da nostri artigiani. Le botti, di difficile e costosa manutenzione, vengono gradatamente
sostituite dalle vasche in cemento, raramente in uso prima della guerra e munite
dapprima di portelle in legno e poi di quelle metalliche.
Questa opera di rinnovamento inizia con i viticoltori più importanti, i quali
dispongono di grandi cantine private affidate ad esperti del mestiere, come i Vezzano, cantinieri di professione; ma, a parte la Cantina Sociale, nessuno stabilimento
dispone di un enologo fisso.
Nel frattempo altri imprenditori forestieri si insediano in San Severo,
come Giuseppe Gavioli di Bomporto (Modena), il quale nel 1953 acquista
l’azienda di Aquilano in via Galvani, e Valente Petternella, di Legnago (Verona), che qualche anno dopo apre uno stabilimento in via Aspromonte. Di Verona è anche la ditta Bolla, che si insedia in un vecchio deposito già appartenuto
a Michele Rizzi, su via S. Bernardino, costituendo la società V.I.S., della quale
fanno parte anche i fratelli Fabrizi. Il molisano Andrea Berardo inizia la sua
attività nei pressi dell’azienda di Raffaele Orlando in via Marsala, mentre i Di
Capua trasferiscono la loro attività di commercianti da Torremaggiore a San
Severo, dove costituiscono vari depositi e poi cominciano a vinificare in proprio. Alcune cantine lavorano per conto di forestieri, come quella di Antonio
Florio, affittata a Tommaso Alberti di Imola, mentre Antonio Bottino produce
vino per Pietro Masucco di Chiavari (Genova), il quale poi lo imbottiglia con
la denominazione ‘San Severo’.
In questa fase di grande espansione del settore enologico, vediamo nascere
due nuove importanti entità. La prima è l’Enopolio del Consorzio Agrario, sorto
verso il 1955 su via G. Fortunato e diretto dall’enotecnico Leonardo Villotta; l’altra è la Cooperativa Agricola della Riforma Fondiaria, che si avvia nel 1957 prendendo in fitto varie cantine. Intanto la Cantina Sociale si espande ulteriormente,
acquistando dapprima una parte del deposito di Bolla e poi, nel 1958, la cantina
di Vincenzo Di Troia, sul lato verso via Garigliano, raggiungendo ben presto una
capacità ricettiva di 80.000 quintali di uva.
In questi anni vediamo anche sorgere un’azienda che ottiene ben presto vasti
consensi per la qualità dei suoi prodotti. È quella di Ludovico D’Alfonso De Sordo, che inizia verso il 1957 la sua attività nei locali di un’ex fabbrica di liquirizia, su
45
L’attività enologica a San Severo tra ‘800 e ‘900
corso L. Mucci, imbottigliando quattro diversi tipi di vini che vengono invecchiati
in un antico scantinato situato sotto il municipio; una novità per San Severo è la
produzione di spumante col metodo Charmat.
Nel 1955 la Cantina Sociale rinnova l’impianto di imbottigliamento, ma in
questi anni sono presenti in San Severo anche piccoli imbottigliatori di vini comuni
da pasto. Tra i tanti ricordiamo Vincenzo Cassano, Luigi La Cecilia, Ciro Mezzina, Attilio Olivieri, Vincenzo Prattichizzo, Giandomenico Tata, preceduti da una
società fra Giovanni Ciannilli, Giovanni Stampanone e Alfredo Tata.
In questa sintetica carrellata sul dopoguerra non possiamo tralasciare alcune attività collaterali a quella enologica, come la raccolta di sottoprodotti della
vinificazione ( vinaccia, feccia, tartaro, vini guasti e torchiati). Questo lavoro, per
il quale si distinguono particolarmente i fratelli Colio, viene svolto per conto di
varie piccole distillerie, come quelle di Gabriele, Ceparano, De Blasio e Pedata,
che in questo periodo producono solo alcool grezzo, che inviano a Barletta per la
raffinazione. La vecchia distilleria Fusco, su via Checchia Rispoli, passa al napoletano Abele Palma ed è la prima a San Severo ad essere corredata da un impianto
di rettificazione.
46
Vittorio Russi
Capitolo VI
Luci ed ombre
Agli inizi degli anni ‘60 le prospettive nel settore vinicolo non appaiono
favorevoli, per una stasi del mercato a livello nazionale che determina una notevole giacenza di prodotto invenduto; per agevolare il settore, il governo emana
nell’agosto del 1960 un provvedimento per una parziale distillazione agevolata,
disposizione che verrà rinnovata successivamente.
Per superare questa emergenza, alcune nostre aziende tendono ad ampliare
la loro capienza, come fa la Cantina Sociale, che nel 1962 raggiunge i 250 associati
e ritira oltre 200.000 quintali di uva. Anche molti piccoli viticoltori cercano di aumentare la capacità delle loro cantine, ma nel contempo tendono a semplificare il
lavoro di vinificazione utilizzando dei veloci torchi continui, che però peggiorano
la qualità dei vini.
Una iniziativa particolare è la sperimentazione di un sistema di trasporto su
rimorchio di interi carri cisterna tra le cantine e la stazione ferroviaria, appaltato
dalla ditta Grassi; ma l’esperimento viene interrotto per il notevole peso ed ingombro dei vagoni.
Verso il 1968 si riesce ad ottenere un notevole finanziamento statale per la
costruzione sulla strada per Torremaggiore di una centrale di accantonamento, destinata a stoccare le eccedenze di vino delle cooperative di Puglia, Lucania e Molise, particolarmente per quello destinato alla distillazione agevolata38; ciò allevia
in qualche modo la difficile situazione, ma i veri problemi rimangono in buona
parte irrisolti. Si cerca anche di promuovere una modernizzazione del settore con i
finanziamenti della Cassa per il Mezzogiorno, che non sempre, però, vengono utilizzati correttamente e portano ad una proliferazione di iniziative destinate spesso
a durare ben poco.
Un esempio è l’Enopolio dell’Istituto Michele Di Sangro, sorto nel 1963 alla
periferia meridionale della città e già in crisi dopo pochi anni. La costituzione di
questa nuova cantina non ha altro effetto che quello di costringere i quotisti che
hanno in concessione i terreni della Zamarra a pagare in natura il canone, dirottando così l’uva che prima veniva conferita alla Cantina Sociale e alla cooperativa
della Riforma Fondiaria. Quest’ultima, che teneva in fitto la cantina Pisante in
via Perseo, edifica nel 1964 nel piazzale di S. Bernardino un proprio stabilimento,
con una capacità iniziale di quasi 30.000 ettolitri. L’anno successivo, le strutture
della Riforma Fondiaria di Puglia, Lucania e Molise, e quelle dei Consorzi Agrari provinciali, con Decreto ministeriale dell’8 giugno 1965 vengono autorizzate
ad attuare l’ammasso volontario di vini non superiori a 10° alcolici e idonei alla
38
La centrale aveva una capacità di 99.000 hl, con 256 vasche in cemento disposte su tre livelli, di cui uno
interrato. Successivamente, il complesso è stato anche dato in fitto a stabilimenti privati.
47
L’attività enologica a San Severo tra ‘800 e ‘900
distillazione agevolata. Il provvedimento tende a togliere dal mercato i prodotti
più scadenti, ma non è con questi decreti-tampone che si inducono i viticoltori a
produrre meno uva e di migliore qualità.
In questi anni non mancano nuove iniziative, come quella di Aldo Pugliese,
il quale prende in fitto la cantina dei fratelli Pennacchia, sul viale della Stazione, ed imbottiglia con l’etichetta ‘Fattoria Pira’. I vini prodotti nella cantina di
Salvatore Gagliardi vengono commercializzati sotto la denominazione di ‘Cinelli
Irma’, mentre i fratelli Giuseppe ed Italo Sguera provano ad imbottigliare anche
vini bianchi frizzanti.
Alcuni stabilimenti vengono ampliati, come quello di Vincenzo Zitoli, in
via Marconi, mentre Vincenzo Di Troia si trasferisce dietro il campo sportivo, nei
locali dove Vittorio Farolfi lavorava i sottoprodotti vinicoli, e trasforma i vecchi
capannoni in uno stabilimento vinicolo, istallando tra l’altro sei contenitori metallici da 3500 ettolitri l’uno, una novità per San Severo.
Sorgono anche nuove cantine, come quelle di Giovanni Ciannilli, su corso
G. Di Vittorio; Antonio Rotondo, su corso L. Mucci; Michele Meola, su via G.
Marconi; Michele Laudaddio, in via Celenza, e tante altre. Intanto a Torremaggiore viene costituita la Cooperativa Agricola Fortore, che immagazzina ingenti
quantitativi di uve che prima venivano portate a San Severo.
Con tutte queste nuove attività, il problema delle giacenze di vino si inverte
nelle annate di scarso raccolto, come per la gelata del 1969, e alcune aziende che
imbottigliano, come la Cantina Sociale, si trovano in serie difficoltà.
Gli anni ’60 si concludono con una tappa importante per la nostra economia:
È il riconoscimento della Denominazione di Origine Controllata del vino ‘San Severo bianco, rosso o rosato’, ottenuto col decreto del Presidente della Repubblica
del 19 aprile 1968. Tra i migliori vini D.O.C. prodotti nel nostro territorio ci sono
quelli dell’azienda D’Alfonso Del Sordo, che in questo periodo passa in gestione
da Ludovico al fratello Antonio.
Durante il corso dei successivi anni ’70 le cooperative attirano sempre più
i piccoli viticoltori, particolarmente per gli acconti che vengono versati ai soci al
momento del conferimento delle uve, e ciò comporta l’abbandono di centinaia di
cantine private. C’è anche da osservare che molti agricoltori hanno trasformato i
vigneti a filari in tendoni per la produzione di uva Regina, vinificando solo occasionalmente l’uva da tavola invenduta. In questo periodo le aziende viticole del
nostro territorio sono oltre 4.000.39
A cura del Comune di San Severo viene anche istituito un mercato settimanale del vino, con recapito presso l’Hotel Dauno, in via Carso, dove si incontrano
commercianti, mediatori e produttori; è una buona iniziativa, ma non dura a lungo.
39
Per i dati statistici su i nostri vigneti e le produzioni degli anni ’70 vedi Michele DELL’AQUILA, La viticoltura ed il vino della zona San Severo, Foggia, 1978, pp. 30-36.
48
Vittorio Russi
Mentre si riduce progressivamente il numero degli stabilimenti vinicoli, alcune aziende, come quella di Scaler, sostituiscono i vecchi macchinari con attrezzature più moderne, come i torchi orizzontali Vaslin; altre si dedicano quasi unicamente alla produzione di mosti muti, ottenuti anche da uve di basso contenuto
zuccherino e da scarti di uva da tavola e che vengono venduti a basso prezzo ad
aziende del nord Italia. Questa evoluzione del settore enologico si accentua dopo
l’esperienza negativa della distillazione agevolata del surplus del 1974, quando
sono stati prodotti oltre 800.000 ettolitri di vino, quasi il doppio della produzione
media di questi anni.
Ormai quasi tutte le aziende forestiere hanno abbandonato San Severo,
come Folonari, il cui stabilimento viene dato in fitto ad Aldo Pugliese. Si incrementa invece la società di Emilio e Antonio Di Capua, che si istalla nel 1973 nei
locali del fallito Enopolio dell’Istituto M. Di Sangro e poi acquista lo stabilimento
di Vincenzo Di Troia, della capacità di 30.000 ettolitri.
In questo periodo si trasferisce nella tenuta di Coppanetta, in contrada S.
Antonino, la cantina di Antonio D’Alfonso Del Sordo; è il primo esempio per San
Severo di una azienda vinicola sita nell’ambito dei suoi vigneti, che in questo caso
si estendono per circa ottanta ettari. Altra iniziativa simile è quella di Nicola Antonacci, il quale fa edificare in contrada Giacchesio uno stabilimento per vinificare
le uve prodotte dall’azienda Vitinova.
Dopo l’annata negativa del 1977, alcuni soci dissidenti della Cantina Sociale fondano nell’anno successivo un’altra cooperativa, con sede nell’ex Enopolio
dell’Istituto M. Di Sangro. Con la denominazione di Società Cooperativa Torretta Zamarra, la nuova azienda subito si espande, ma dopo qualche anno deve
superare delle serie difficoltà finanziarie; poi si riprende e negli anni ’80 si dota di
nuove attrezzature e triplica la sua capienza. La stessa politica viene seguita anche
dalla Cantina Sociale e dalla Cooperativa Agricola della Riforma Fondiaria. È la
conseguenza del vuoto determinato dalla scomparsa di tanti stabilimenti, come
l’Enopolio del Consorzio Agrario, che cessa la sua attività nel 1980, mentre l’anno
successivo chiude anche Scaler, la più nota delle grosse cantine di San Severo.
La situazione rimane pressoché invariata per gli anni successivi, contraddistinti dai continui ampliamenti delle cooperative, che istallano grandi serbatoi
metallici, anche refrigerati, che presentano il vantaggio di occupare uno spazio limitato. Ma, le spese per le attrezzature e le tecnologie sempre più sofisticate determinano forti indebitamenti che, aggiunti a vecchi problemi, causano verso il 1994
la chiusura della Cooperativa della Riforma Fondiaria; altri operatori del settore ne
seguono la sorte o sono costretti a ridimensionare l’attività. Non è un caso, perciò,
se proprio in questi anni la Cantina Sociale Cooperativa viene pubblicizzata come
L’Antica Cantina; in effetti è la più vecchia azienda vinicola sanseverese ancora
esistente.
In questo ultimo scorcio del secolo arriva il più recente riconoscimento per
49
L’attività enologica a San Severo tra ‘800 e ‘900
i nostri vini di qualità; è l’attribuzione dell’Indicazione Geografica Tipica (I.G.T.)
‘Daunia’, con Decreto del Ministero delle Risorse Agricole del 20 luglio 1996.
Siamo ormai alla fine di questo rapido excursus sull’enologia a San Severo tra
l’800 e il ‘900 e non possiamo chiudere l’argomento senza esprimere alcune considerazioni sul futuro della più importante attività economica della nostra città.
Se ancora oggi alcune ditte seguitano ad acquistare le nostre uve a basso prezzo e a produrre grandi quantità di vini da spedire al nord, il motivo è da ricercarsi
anche in quelle aziende agricole dove si continuano a coltivare vitigni ad alta resa
ma di scarsa qualità. I nostri agricoltori non vengono sufficientemente incentivati
a cambiare metodo, ma dovrebbero anche ricordarsi dei sacrifici dei loro antenati,
costretti agli inizi del secolo scorso a rinnovare i vigneti distrutti dalla fillossera.
Negli ultimi anni qualcosa però è cambiata in meglio anche nelle stesse cooperative, che pur essendo costrette a ritirare uve di diverse provenienze, operano
ora una maggiore selezione e utilizzando nuove tecniche enologiche riescono a
produrre vini di sempre migliore qualità.
Nel contempo, un rinnovato interesse a livello nazionale verso il buon vino,
ha determinato anche da noi la formazione di associazioni, come la Daunia Enoica, che promuovono una maggiore conoscenza di questa bevanda, organizzando
corsi di degustazione e concorsi per le produzioni amatoriali. Ciò ha portato molti
consumatori ad affinare i gusti e a cercare prodotti di pregio; sono sorte di conseguenza nuove iniziative per ottenere vini e spumanti di qualità40, partendo da
vigneti specializzati.
È forse solo un inizio, ma fa ben sperare per il futuro.
40
Un notevole successo a livello nazionale hanno raggiunto gli ottimi spumanti D’Araprì, prodotti col
metodo classico.
50
Michele Galante
Il volto femminile del brigantaggio
Per una lettura di genere del fenomeno
di Michele Galante
La ricorrenza del 150° anniversario dell’Unità d’Italia è stata l’occasione per
una riconsiderazione del ruolo che le donne hanno avuto e del contributo che
hanno apportato alla costruzione dello Stato nazionale italiano. E così, dopo le
omissioni e il silenzio di decenni, sono stati pubblicati studi1 e organizzate mostre
che hanno evidenziato la funzione che le donne di diversa estrazione sociale hanno ricoperto nel processo risorgimentale con le loro idee, i loro progetti, il loro
impegno, talvolta diretto, nelle cospirazioni e, persino, nelle lotte vere e proprie,
generalmente con funzioni di organizzatrici o di infermiere. Queste donne, spesso
eroine invisibili, dopo l’unificazione, passarono a ruoli di impegno sociale a beneficio di altre donne e dell’infanzia, per il riscatto sociale delle classi disagiate, per
l’organizzazione e la promozione dell’educazione.
Così nella pubblicistica recente hanno potuto trovare collocazione più
adeguata personaggi femminili come Anita Ribeiro Garibaldi, Cristina Trivulzio
di Belgioioso, animatrice delle cinque giornate di Milano, Virginia Oldoini, conosciuta come la contessa di Castiglione, giornaliste straniere come Jessie White
Mario, corrispondente del Daily News e Margaret Fuller, inviata del New York
Tribune, poetesse come Giannina Milli o Giulia Molino Colombini. O ancora, per
venire a territori a noi più vicini, la pugliese Antonietta De Pace, gallipolina, figlia
di un grande banchiere che prese parte a Napoli sia ai moti del 1848 che a quelli del
1860, oppure la lucana Laura Battista, poetessa e scrittrice, a dimostrazione che il
Mezzogiorno non fu estraneo al processo unitario e che non lo subì.
Non diversamente fu per quel fenomeno di opposizione all’unificazione che
toccò quasi esclusivamente il Mezzogiorno: il brigantaggio.
La presenza femminile nelle vicende del brigantaggio fu di parecchio superiore a quella dell’intera vicenda risorgimentale. Negli eventi briganteschi le prota-
1
Tra gli altri è da menzionare il volume di Bruna BERTOLO, Donne del Risorgimento. Le eroine invisibili
dell’Unità, Torino, Ananke, 2010. Utile è anche il volume 22 degli Annali Einaudi, dedicato al Risorgimento,
uscito nel 2007.
51
Il volto femminile del brigantaggio. Per una lettura di genere del fenomeno
goniste furono molto di più. Nelle guerre risorgimentali combattevano gli eserciti
formati da soldati professionisti o dalle guardie nazionali, nel brigantaggio gli attori erano i popolani, le famiglie.
Finora da parte degli studiosi è stato posto l’accento sulle donne protagoniste, che hanno partecipato direttamente o indirettamente alle ‘gesta’ dei briganti,
sul loro aspetto mitico, romanzesco. Si è insistito nella trattazione delle donne
combattenti, delle brigantesse o anche delle donne dei briganti con contributi anche interessanti e rilevanti.2 Si è invece trascurato un’altra faccia del rapporto donne
e brigantaggio riguardante le donne che non sono state brigantesse né hanno avuto
rapporti con i briganti: ci riferiamo sia alle vittime nelle diverse accezioni, sia a
quelle donne che cooperarono con lo Stato alla sconfitta del fenomeno. Con queste
brevi note vogliamo affrontare complessivamente il tema della presenza femminile
all’interno della vicenda del brigantaggio.
A seconda del ruolo avuto e della funzione svolta possiamo dividere schematicamente le donne in sette categorie:
donne protagoniste del “grande brigantaggio”;
brigantesse combattenti;
donne dei briganti: complici, drude, manutengole, conniventi e conviventi.
donne vittime: ammazzate, stuprate, violentate, sequestrate, estorte;
donne nemiche o avversarie dei briganti;
donne risarcite per la perdita del marito o del figlio;
donne collaboratrici di giustizia;
A) Donne protagoniste del “grande brigantaggio”
Alle rivolte legittimiste, che si svilupparono in tutto il Mezzogiorno tra la
seconda metà del 1860 e la fine del 1861, il periodo del cosiddetto “grande brigantaggio”, partecipò un numero relativamente alto di donne, oltre che contadini, braccianti, pastori e artigiani del Centro e del Sud. “Tante donne che trovarono il coraggio di
alzare il pugno contro un esercito che avrebbe dovuto presentarsi come garante di
una rivoluzione sociale e invece si mostrò garante di una rivoluzione borghese”.3
2
Le due ultime indagini che hanno notevolmente ampliato la conoscenza di questi aspetti sono quelle di
Maurizio RESTIVO, Donne, drude, brigante. Mezzogiorno femminile rivoluzionario nel decennio postunitario.
Prefazione di Turi Vasile; introduzione di Francesco D’Episcopo; nota critica di Stella Di Tullio D’Elisiis.
Trapani, Di Girolamo, 2005, condotto però su un numero limitato di donne, e Valentino ROMANO, Brigantesse. Donne guerrigliere contro la conquista del Sud (1860-1870), Napoli, Controcorrente, 2007 che,
partendo dalle carte possedute dagli Archivi di Stato, ha dato un quadro abbastanza ricco della presenza
femminile nella vicenda del brigantaggio.
3
Raffaele NIGRO, Introduzione a Valentino ROMANO, Brigantesse, cit., p. 20.
52
Michele Galante
C’è, però, differenza di ruolo e di comportamento tra le donne del “grande
brigantaggio” e quelle della seconda fase. Nel primo caso erano tutte popolane che
partecipavano direttamente agli assalti e alle depredazioni, pagando direttamente
in prima persona; nel secondo caso erano per lo più delle subalterne, che avevano
rotto ogni vincolo familiare e affrontavano il loro viaggio verso la libertà.
Alla sollevazione di Bovino del 19-20 agosto 1860, con la quale si rivendicavano le terre di proprietà pubblica, parteciparono numerose donne. Due di
esse, Maddalena Bucci e Carolina Trivisani, furono incriminate e condannate a sei
anni.4
Per i fatti di Accadia del 21 ottobre 1860 furono condannate Concetta Russo, moglie di Giovanni Conversano, fratello di un esponente borbonico implicato
nell’omicidio di due esponenti liberali, e Maria Botticella.
A Cagnano Varano alla sommossa del 21 ottobre 1860 che impedì lo svolgimento del plebiscito presero parte numerose donne.
Tra i rivoltosi che furono sottoposti a processo e condannati alla Gran Corte
Criminale di Lucera, risultavano tra gli altri Giovanna di Maggio fu Michele, che
subì una condanna pesantissima (trenta anni di ferri), e Anna Maria Petracca fu
Nunzio, condannata insieme ad altri venti elementi «per reati di eccitamento a
mano armata alla guerra civile fra gli abitanti di una stessa popolazione, armandoli
e inducendoli ad armarsi gli uni contro gli altri nel fine di abbattere il governo, di
devastazione, di incendio di casa abitata, di strage di saccheggio, di omicidio consumato, accompagnato da violenza politica».5
Nel corso dello stesso processo furono assolte altre cinque donne per insufficienza di prove, tra le quali Rosa Crosta fu Leonardo, Maria Donataccio fu
Leonardo e Rosa Polignone di Cataldo.
Nella stessa giornata della rivolta di Cagnano Varano, a San Giovanni Rotondo si verificarono acutissimi scontri che portarono ad una vera e propria strage
con la morte di ventiquattro ‘galantuomini’. Tra gli arrestati e condannati figuravano Rosa Intorcia, moglie del custode del carcere, e Maria Giovanna Longo che,
come recitava l’atto di accusa, «anziché donne in quelle nefande giornate come
furie infernali comparvero ad eccitare al sangue, alle stragi, alle rapine e a godersi
ferocemente di quel tremendo spettacolo (cioè l’assassinio dei galantuomini)».6
Nei moti di San Severo del 2 e 3 gennaio 1861 si segnalarono due donne
che assolsero a ruoli e funzioni diverse e furono, ancorché schierate su sponde
opposte, protagoniste di quella convulsa fase. La prima, Angela Maria Berardi,
4
Nemo Candido D’AMELIO, Quel lontano 1860. Foggia, Editrice Daunia Agricola, 1989, p. 115.
ARCHIVIO DI STATO DI FOGGIA (d’ora in poi A.S.F.), Comune di Cagnano Varano, f. 339, anno
1860, vol. 3.
6
Sentenza ed atto di accusa per la causa a carico di Celestino Andini ed altri di San Giovanni Rotondo.
Trani, 1865, p. 62.
5
53
Il volto femminile del brigantaggio. Per una lettura di genere del fenomeno
inserviente del carcere, sebbene brutalmente picchiata dagli insorti, trovò il coraggio di fermare uno sconsiderato che, insieme al resto dei ribelli, era penetrato
all’interno del carcere pronto per ammazzare una guardia carceraria. La seconda,
Anna Lufino, fu Felice, soprannominata Mancino, contadina di anni 42, concorse ad uccidere il sergente della Guardia Nazionale Domenico Sparavilla, e fu poi
assolta per non aver commesso il fatto dopo un processo che potremmo definire
‘aggiustato’.7
A Vieste tra i rivoltosi del 5 gennaio 1861 figurava la raccoglitrice (= ostetrica)
Marianna Novelli, mentre fra i tre arrestati risultava una donna, Cesarea D’Onofrio, di 70 anni, un’età molto avanzata per l’epoca.
Nella rivolta di San Marco in Lamis del 2 giugno 1861, scoppiata durante la
prima festa dello Statuto, furono tante le donne, soprattutto parenti dei briganti, a
lottare in prima fila e a rendersi protagoniste delle vicende delittuose, come annotò
con un certo stupore lo stesso pubblico ministero.8 Donne che subirono anche gli
arresti e furono liberate sotto la pressione popolare dopo alcune settimane.
Un’analoga partecipazione di donne alle manifestazioni antiunitarie può
essere riscontrata anche in altri comuni. A Casalnuovo Monterotaro il 12 luglio
dello stesso anno numerosi briganti invasero il comune alla testa di una grande
folla compiendo saccheggi e atti di violenza a danno di chiunque fosse segnalato
come profittatore del nuovo regime contro i contadini. Delle ottantanove persone
arrestate e processate numerose furono le donne.9
Non diversamente si svolsero gli avvenimenti di Vieste del 27 luglio, anche
se il numero delle donne poste sotto processo fu poco rilevante.
Tra le donne coinvolte figuravano Michelina Mafrolla, accusata di devastazione e involamento di cose mobili, denaro e granaglie; Maria Giuseppa Mandriola
e Antonia Travasi, detta Torsetta, per delitti di complicità in alcuni omicidi, Rosa
Medina e altre per complicità varie, Maria Michela Vescera per complicità e piccole
razzie e Leonarda Armiento.10
Saltuariamente le forze di polizia segnalavano la partecipazione di donne
7
Giuseppe CLEMENTE- Matteo CASSA, La Capitanata nella crisi dell’unificazione e il processo per i fatti di
San Severo del 2-3 gennaio 1861, in Atti dell’11° convegno nazionale sulla preistoria, protostoria e storia della
Daunia, San Severo, Gerni, 1989, pp. 341 e ss.
8
Sentenza e atto di accusa per i fatti criminosi accaduti in San Marco in Lamis e Rignano Garganico nei
primi giorni di giugno 1861, Trani, 1864. Tra le donne che si segnalarono per azioni delittuose figuravano Maria Teresa Sfirro, madre del brigante Polignone, che saliva per le case a fare bottino; Emanuela Del Sambro,
sorella del brigante che cercava di scovare dove erano le guardie mobili; Teresa Pignatelli, che voleva ad ogni
costo far fucilare la guardia mobile Selvaggi; Vittoria Cappelli, di Rignano, la quale seguì i briganti somministrando le munizioni e strepitando per avere un fucile, onde combattere anch’essa contro la truppa. Cfr.
Antonio CAPPELLI, Rignano Garganico nelle vicende storiche della Daunia antica, s.l., 1998, p. 184.
9
ARCHIVIO DI STATO DI FOGGIA –SEZIONE di Lucera (d’ora in poi S.A.S.L.), Processi davanti la
Corte d’Assise- fascio 13, incarto 68 (a.1862).
10
Marco DELLA MALVA, Vieste e la Daunia nel Risorgimento, Foggia, Leone, 1984.
54
Michele Galante
semplici a iniziative antiunitarie di tipo individuale, anche se non strettamente brigantesche.
A Motta Montecorvino il 9 novembre 1860 Beatrice Ciaburri, moglie di
Matteo Petitti, al passaggio dei militi fece partire da un archibugio dei colpi, ferendo il cavallo su cui si trovava il comandante della Guardia Nazionale, capitano
Gaetano de Peppo di Lucera.11
Sempre a San Marco in Lamis il 26 marzo 1861 verso le ore due di notte (corrispondenti alle 21) fu fermata, arrestata e consegnata al giudice regio Angela Maria
Guerrieri che, alla testa di circa cinquanta ragazzi di ambo i sessi, pubblicamente
nella piazza tentava una rivolta con delle grida sediziose di
«viva Francesco II”, con l’idea di saccheggiare come si era estrinsecata nei
giorni precedenti, soggiungendo a diversi popolani che vedeva aggruppati
per propri affari di massacrare i galantuomini e spogliandoli come venne praticato a San Giovanni Rotondo….Da più mesi la stessa pubblicamente insinuava il basso popolo alla rivoluzione e ieri sera si sarebbe dato effetto se una
forte partita di guardie nazionali non fosse accorso e dissipato il popolaccio.
Si è passata l’arrestata al potere giudiziario con i lumi necessari per istruirsi
un regolare processo».12
Non ci è dato sapere quale condanna abbia subìto la Guerrieri per mancanza
del relativo fascicolo processuale.
L’opposizione politica al nuovo regime si manifestò non soltanto con le armi
o con la rivolta, ma anche in modo pacifico. A Roseto Valfortore una maestra, Teodora Lanza, si rifiutò di prestare giuramento di fedeltà al nuovo regime di Vittorio
Emanuele II.13 Ma si trattò di un caso assolutamente sporadico.
A fronte di donne che impugnarono la bandiera antiunitaria, non mancarono altre che si schierarono a favore del nuovo regime o che combatterono contro
i rivoltosi e i briganti. A Sava, nel tarantino, due giovani donne, Maria Concetta
Spagnolo e Rosa Provenzano, entrambe di estrazione certamente non contadina,
manifestarono tutto il loro entusiasmo per l’arrivo dei piemontesi.14 Durante gli
avvenimenti di Ischitella dell’8 settembre 1861, nel corso dei quali i briganti tentarono di assaltare la cittadina garganica, si distinse tra gli altri Marianna Ventrella,
sorella della Guardia Nazionale Giuseppe.15
11
Michele MARCANTONIO, Le reazioni in Capitanata: 1860, San Bartolomeo in Galdo, Grafica Passaro &
Spallone, 1979, p. 52.
12
Pasquale SOCCIO, Unità e brigantaggio in una città della Puglia. Napoli, ESI, 1969, p. 126.
13
Michele MARCANTONIO, Sangue e unità: 1860…Lucera, Catapano, 1972, p. 52.
14
Gaetano PICHIERRI, Resistenza antiunitaria nel Tarantino, Manduria, Lacaita, 1988, p.25.
15
Marco DELLA MALVA, Vieste e la Daunia nel Risorgimento, cit., p. 146.
55
Il volto femminile del brigantaggio. Per una lettura di genere del fenomeno
B) Brigantesse – Donne combattenti
Allorché verso la fine del 1861 la repressione delle autorità governative si
fece feroce e spietata costringendo le bande di briganti ad abbandonare i comuni e
a mettere da parte la tattica dell’invasione dei paesi, qualcosa mutò anche nel comportamento delle donne.
Le bande dei briganti si andarono strutturando su un terreno eminentemente militare, con un’organizzazione agile, pronta a sfidare le truppe piemontesi attraverso la tecnica della guerriglia e non dello scontro frontale.
In questo mutamento all’interno delle bande ci fu sempre meno posto per le
donne, anche per ragioni culturali, e per gesti individuali.
Il brigantaggio non solo in Capitanata, ma anche in altre zone del Mezzogiorno, si presentava come un’organizzazione tipicamente maschile.
Le donne non vi erano o vi avevano un ruolo di supporto, certe volte di sostegno, ma sempre subalterno, giacché esse non giunsero quasi mai a responsabilità
di un qualche livello all’interno delle diverse bande organizzate.
La connotazione maschile delle bande armate era del tutto prevalente dal
momento che, come avviene all’interno delle altre organizzazioni criminali anche
recenti come la mafia o la ‘ndrangheta, non veniva accettata a livello operativo e
dirigenziale la presenza delle donne in quanto incompatibile con il loro codice
culturale.
Un codice fondato sul primato della forza, della violenza fisica e morale,
sulla salvaguardia dell’onore, non poteva tollerare che a livelli di responsabilità potessero accedere esseri considerati naturalmente inferiori e inaffidabili nel mestiere
di depredare e uccidere.16
Nel mondo dei briganti l’uomo aveva un diritto esclusivo di vita e di morte,
sulla donna: sia essa moglie, figlia, sorella, madre, amante.
La donna, per diritto naturale, era considerata dominio dell’uomo, esclusiva
proprietà privata.
«In una società contadina, nella quale l’uomo nasceva – in profonda miseria
e abiezione – senza diritti e senza proprietà, l’unico diritto che poteva esercitare e l’unica proprietà che poteva rivendicare erano quelli ricadenti sulle
proprie donne».17
Questo codice tipico di organizzazioni a spiccato carattere criminale e a forte impronta contadina o rurale è ben diverso da quello di altre organizzazioni criminali a prevalente carattere urbano e a forte connotazione politica quali le Brigate
16
17
Giovanni FALCONE, La mafia tra criminalità e cultura, in «Meridiana», 1989, n. 5, p. 206.
Enzo CICONTE, ‘Ndrangheta dall’Unità ad oggi. Roma-Bari, Laterza, 1993, p. 17.
56
Michele Galante
Rosse degli anni Settanta del Novecento, che al contrario accettavano ai massimi
livelli l’apporto delle donne.
Tornando al brigantaggio, si può dire sulla scorta di alcuni elementi di analisi e
di documenti di archivio che la presenza femminile sia stata abbastanza minoritaria.
Questa peculiarità emerge con evidenza da alcuni dati.
Da un elenco di briganti redatti dalle autorità di Terra d’Otranto composto
di 84 nominativi non figura nessuna donna, ma questo non esclude che vi siano
state manutengole o drude attive.18
In Capitanata il numero delle donne schedate come attrici del brigantaggio
risulta essere di 35 su un totale di 1459 briganti o presunti tali, pari al 2,5%.19 Di
queste 13 appartenevano al distretto brigantesco del Subappennino Meridionale,
13 a quello del Subappennino Settentrionale e 9 a quello garganico.
In questa parte della Puglia la presenza e l’apporto delle donne erano più
marcati nelle bande che scorazzavano nel Subappennino Meridionale al confine
con la Basilicata e con l’Irpinia. Donne schedate e condannate si trovavano ad Anzano di Puglia, Rocchetta Sant’Antonio (all’epoca appartenenti alla provincia di
Avellino), a Bisaccia, ma anche a Sant’Agata di Puglia e Candela.
Sempre in questo territorio l’elenco delle persone dedite al brigantaggio stilato dalla prefettura di Foggia nel 1863 annoverava su 509 nominativi appena otto
donne (pari all’1,6%), provenienti quasi tutte dall’area del Subappennino Dauno.
Soltanto una donna – tale Maria Vaira – aveva origini garganiche, risiedendo a
Monte Sant’ Angelo.20
Le province pugliesi in generale fecero registrare una presenza inferiore di
donne rispetto alla Calabria e alla Basilicata, alla Campania o al Basso Lazio.
Nell’elenco dei briganti stilato dal prefetto Guicciardi nella provincia di Cosenza figuravano soltanto tre donne (Serafina Zappa di Falconara Albanese, Anna
Maria Madeo e Filomena Gagliardi, entrambe di Longobucco). La percentuale delle donne che per quelle dedite al brigantaggio rappresentava lo 0,41% del totale,
tendeva a salire per le complici fino a toccare il 12,66%.
Sulla scorta di questi elementi si è parlato con qualche forzatura di dimorfismo sessuale del brigantaggio.21
18
Gaetano PICHIERRI, Resistenza antiunitaria nel Tarantino, cit, pp. 164-166. Nel Tarantino erano parte
organica di bande Filomena Cianciarulo, druda di Nicola Masini e Maria Rosa Marinelli, druda del brigante
Casalnuovo (ivi, p. 94).
19
Giuseppe CLEMENTE (a cura di), Il brigantaggio in Capitanata. Fonti documentarie e anagrafe, Presentazione di Raffaele Colapietra, Roma, Archivio Guido Izzi, 1999.
20
A.S.F., Prefettura di Foggia. Elenco delle persone dedite al brigantaggio.1863. Le altre sette donne erano
Ciccone Maria Giuseppa, di Biccari, Cornelia Anna Maria, lavoratrice di Larino, Di Chiella Maria Vincenza,
contadina di Serracapriola, Giuliani Rosa, meretrice di Candela, Montella Michaella, detta Faccenda, di Candela, Panivisci Teresa, la Porcara, di Bovino, Recchia Anna, domestica di Tufara.
21
Francesco GAUDIOSO, Indagine sul brigantaggio nella Calabria cosentina (1860-1863), in «Archivio storico per le province napoletane», terza serie, a. XXII, n. CI, 1983, pp. 174-175.
57
Il volto femminile del brigantaggio. Per una lettura di genere del fenomeno
A San Marco in Lamis, definita dalle autorità provinciali di Capitanata, “culla” e “fucina” di briganti, nell’Archivio comunale, fino all’aprile 1863 risultava un
numero complessivo di 109 briganti, dei quali cinque erano donne.22
All’interno della banda di Giuseppe Schiavone, noto brigante nativo di
Sant’Agata di Puglia, che operò prevalentemente nelle zone del Subappennino
Dauno confinanti con la Basilicata, vi erano appena cinque donne, che possono
essere considerate brigantesse, combattenti a tutti gli effetti. Una presenza non
disprezzabile per quei tempi, in cui la funzione della donna era relegata esclusivamente all’interno della famiglia.
Alcuni studiosi hanno voluto vedere in queste donne le antesignane di un
femminismo contadino, quasi che esse avessero voluto sottrarsi alla loro dura condizione subalterna23.
Certamente qualche ragazza insofferente e coraggiosa vide nella vita con le
bande un’occasione per sfuggire ad un destino segnato dalla miseria e dalla subordinazione, ma la stragrande maggioranza di esse spariva nei boschi per sfuggire
all’arresto e sottrarsi alle rappresaglie delle autorità militari.
Infatti tra le misure che tendevano a fare il vuoto attorno ai briganti era previsto l’arresto dei familiari, e le donne – le madri, le mogli, le figlie, le sorelle e le
amanti – non sfuggivano a questa regola.
Anzi, la parentela con i briganti costituiva di per sé, in un sistema parentale
fitto, cementato da solidi legami materiali e morali (una morale diversa e primitiva,
ma non per questo meno sentita), un indizio di reato.
Il generale Pallavicini nelle sue Istruzioni invitava i subalterni a “far pesare
su di loro (i parenti dei briganti) tutto il rigore dell’autorità militare, arrestandoli
tutti sollecitamente senza distinzione di sesso”.24
In questo modo molte madri furono condannate perché colpevoli di avere
portato un po’ di cibo ai figli latitanti in campagna e quasi tutte le donne componenti della famiglia dei briganti conobbero il carcere soltanto perché considerate
naturali alleati dei briganti in quanto dividevano con loro il frutto delle rapine, dei
ricatti, degli assassini.
Così le donne sotto l’incalzare della brutale e cieca repressione finivano per
ingrossare le file del brigantaggio, preferendo alla reclusione in un umido e puzzolente carcere, la vita libera e rischiosa delle bande, accanto ai propri uomini, e se
c’era da fare a schioppettate, non si tiravano indietro.
Queste donne passionali e fedeli non volevano essere semplici mogli di briganti, ma delle vere e proprie brigantesse, in grado di sparare, accoltellare, uccide-
22
ARCHIVIO COMUNALE DI SAN MARCO IN LAMIS, Brigantaggio, fasc.2.
Cfr. il saggio di Franca Maria TRAPANI, Le Brigantesse, Roma, Canesi, 1968 e il romanzo di Maria Rosa
CUTRUFELLI, La briganta, Milano, Frassinelli, 2005. .
24
Roberto MARTUCCI, Emergenza e tutela dell’ordine pubblico nell’Italia liberale, Bologna, il Mulino,
1980, p. 196.
23
58
Michele Galante
re. Donne impegnate in rapine, sequestri di persone, furti di animali e in scontri a
fuoco con l’esercito dei piemontesi e con la Guardia Nazionale. Avevano armi e
spesso vestivano abiti maschili.
«Non volevano insomma, essere inferiori all’uomo neanche nella violenza e
nella brutalità. Non volevano essere considerate soltanto ‘concubine’ e mantenute dei briganti, ovvero ‘drude’, perché condividevano gli stessi disagi e le
stesse difficoltà dei maschi, vivevano anch’esse da disperate i trapazzi di una
vita disperata e offrivano il loro contributo e il loro sostegno nelle scorrerie
delle bande».25
Antesignana di queste donne fu Francesca La Gamba, nativa di Palmi (Rc),
filandiera, molto attiva nel decennio francese degli inizi dell’Ottocento.
Altro precedente illustre di donna combattente dello stesso periodo è quello
di Niccolina Licciardi, calabrese, compagna del brigante Francesco Moscato, detto
il Bizzarro, a cui decapitò la testa, dopo che questi le aveva ucciso il figlio piccolissimo sbattendolo sulle rocce. La Licciardi ottenne dal governatore di Catanzaro la
taglia di mille ducati.26
Soltanto poche donne divennero eroine o combattenti famose o capibanda.
In questa sede segnaliamo le vicende di alcune donne che sono un po’ il paradigma
di un percorso spesso tragico.
Il caso più noto e conosciuto è quello di Marianna Olivierio, detta Ciccilla
o Maria, forse la più celebre fuorilegge di tutto il Mezzogiorno, della quale scrisse
anche Alessandro Dumas.
Ciccilla era la moglie del famoso brigante della Sila Pietro Monaco. Ben fatta, con i capelli chiari che annodava in lunghe trecce sulla nuca, aveva lineamenti
gentili. Quando Pietro diventò un fuorilegge non lo seguì, rimase a casa dove di
tanto in tanto l’uomo tornava per pochi giorni o soltanto ore. Talvolta invece era la
moglie che andava a raggiungerlo in qualche pagliaio tra i boschi.
Datasi al brigantaggio per necessità in quanto ricercata per avere ucciso la
sorella che pare avesse avuto una relazione amorosa con il marito, Ciccilla cominciò a battere le campagne, divenendo capobanda a seguito della morte del marito
avvenuta in un conflitto a fuoco. In qualità di capobanda scorazzò per diversi mesi
la parte centrosettentrionale della Calabria, fino a quando l’11 febbraio 1864 non
fu arrestata nei pressi di Caccuri, nel Crotonese. Non ci sono notizie univoche e
certe sulla sua sorte: secondo alcuni fu condannata a morte, pena tramutata poi in
ergastolo, secondo altri a quindici anni di reclusione.
25
Salvatore SCARPINO, Indietro, Savoia! Briganti del Sud, Milano, Camunia, 1988, p. 68.
Giordano Bruno GUERRI, Il sangue del Sud. Antistoria del Risorgimento e del Brigantaggio, Milano,
Mondadori, 2010, pp. 166-167.
26
59
Il volto femminile del brigantaggio. Per una lettura di genere del fenomeno
Un’altra donna che si distinse per ardimento e coraggio fu Filomena Pennacchio, nata a San Sossio Baronia, circondario di Sant’Angelo dei Lombardi (e
non a Casalvecchio di Puglia come si è sempre detto). «Donna di carnagione olivastra, gli occhi scintillanti, la chioma nera e crespata, le ciglia folte, il naso aquilino, le labbra prominenti, il profilo greco» (De Witt), sposata a un cancelliere
di Foggia, oltremodo geloso, dopo un ennesimo litigio col marito estrasse dai
capelli un lungo spillone e lo conficcò in gola, uccidendolo. Dopo l’omicidio si
diede alla macchia e incontrò il brigante Michele Caruso del quale si innamorò.
La sua vicenda è emblematica del percorso tortuoso intrapreso da alcune donne.
Protagonista sia di rocambolesche vicende brigantesche che di intense passioni
amorose, fu amante dei due famosi banditi Carmine Crocco e Giuseppe Caruso,
tanto da guastare i rapporti tra i due e da inserire elementi di rivalità e di contrasto
nella vita delle bande. Di lei si invaghì successivamente Giuseppe Schiavone, che
l’associò nelle sue numerosissime azioni criminali e che per lei lasciò Rosa Giuliani. Lo stesso Schiavone, prima di morire fucilato, per vedere per l’ultima volta la
sua bella Filomena, fu costretto a svelarne il nascondiglio, rendendo così possibile
l’arresto.
Interessanti sono i casi di altre tre donne. Michelina Di Cesare, nata a Caspoli, frazione di Mignano, in provincia di Caserta, il 28 ottobre 1841, sposata con
Rocco Tanga, a venti anni restò vedova. Diventata l’amante del brigante Francesco
Guerra si aggregò alla sua banda combattendo insieme alle altre bande di Giacomo
Ciccone, Alessandro Pace e Michele Marino che imperversavano tra i due Principati citra (Salerno) e ultra (Avellino e gran parte della provincia di Benevento,
ad eccezione della città, che apparteneva allo Stato pontificio). Di Cesare fu una
brigantessa a tutti gli effetti, in quanto vestita di abiti maschili girava armata come
gli altri briganti. Fu uccisa nel mese di agosto del 1868 dalle truppe del generale
Pallavicini grazie ad una delazione del fratello. Il suo corpo, dopo la morte, fu
denudato e oltraggiato.
Generosa Cardamone, calabrese, nata nel 1845, fu amante del brigante Pietro Bianchi, che agiva nel catanzarese e sulla Sila. Partecipò direttamente ad azioni
brigantesche “vestita da uomo e armata di fucile”. Catturata insieme al suo uomo
nel marzo 1867, fu condannata a quattro anni di reclusione e tre di sorveglianza
speciale.
Serafina Ciminelli, di Francavilla in Sinni (Potenza), fu compagna d’amore,
di ideali e di avventure del capo-brigante Antonio Franco, che seminò terrore nel
territorio lagonegrese. Quest’ultimo fu arrestato e fucilato in seguito ad una delazione nel dicembre 1865, mentre Serafina, condannata a quindici anni di carcere,
morì per setticemia nel carcere di Potenza.
Il fenomeno delle brigantesse combattenti fu più diffuso e sviluppato in Calabria e in Campania, mentre in Puglia e in Capitanata si ebbe una partecipazio60
Michele Galante
ne minore, certamente non consistente. Le uniche due donne che parteciparono a
pieno titolo ad azioni brigantesche furono Filomena Pennacchio, che agiva con la
banda di Agostino Sacchitiello e di Giuseppe Schiavone nel Subappennino meridionale, e di Anna Felicia Recchia, nativa di Tufara (Av), impegnata in attività delittuose (sequestri di persona, uccisioni di animali, incendi e furti, estorsioni, saccheggi) con la banda di Pasquale Recchia, detto Pasqualillo, nella zona di Volturara
Appula – San Bartolomeo in Galdo - San Marco La Catola - Celenza Valfortore .
Di essa tuttavia ignoriamo il percorso finale.
Sempre in Puglia vi furono altre ragazze che si distinsero per le loro gesta
brigantesche, anche se non lasciarono tracce significative.
Una di queste fu Rosa Martinelli, nativa di Ceglie Messapica, che ebbe una
breve esperienza come brigantessa e amante al seguito del brigante Francesco Monaco, ma che ben presto si consegnò ai carabinieri.
I responsabili dell’ordine pubblico e della lotta al brigantaggio, oltre che la
pubblicistica, hanno fornito uno stereotipo delle donne coinvolte nel fenomeno,
dipinte quasi sempre come donne sanguinarie, spietate, audaci, capaci di atti di
estrema efferatezza, senza cuore e senza femminilità, assetate di sangue e di sesso,
sfrenate e libidinose. Insieme alla ferocia, al disprezzo e al terrore convivevano,
però, anche sentimenti teneri e nella loro scelta agivano anche seri motivi affettivi. Anzi, si poteva essere arrestate per favoreggiamento del brigantaggio semplicemente per amore, per un intenso legame affettivo, come capitò ad Addolorata
Fumarola, una bella massaia di Martina Franca, che nutriva una predilezione per il
brigante Cosimo Mazzeo, detto Pizzichicchio.27
Un’altra storia di sincero amore fu quella di Maria Capitanio, figlia di un ricco proprietario di San Vittore, in provincia di Frosinone, che, appena quindicenne si innamorò del brigante Agostino Luongo, unendosi successivamente alla sua
banda. Dopo la morte del suo uomo, fu catturata. Assolta attraverso un processo
farsa, preferì morire, ingoiando frammenti di vetro, che sopravvivere all’amante.
Le brigantesse partecipavano a pieno titolo alle azioni, agli assalti che le bande compivano, dai più semplici ai più audaci.
Al furto di una valigia postale contenente documenti processuali avvenuto
in territorio di San Paolo Civitate da parte di un gruppo di briganti, presero parte
anche Maria De Biase, Maria Vincenza Di Chiello e Antonia Maria Ruberti.
Caterina Turco con componenti della banda di Gravina rubò pecore e capre
nel territorio di Serracapriola a danno di alcuni pastori abruzzesi.
Spesso vi erano compiti non meno rischiosi e delicati di cui venivano investiti le donne. Sempre Maria Capitanio partecipò direttamente ad una azione spinosa
27
Gaetano PICHIERRI, Resistenza antiunitaria nel tarantino, cit., p. 124.
61
Il volto femminile del brigantaggio. Per una lettura di genere del fenomeno
come la gestione di un sequestro di persona come vivandiera e carceriera di un
ricco possidente preso in ostaggio.
C) Donne complici: fiancheggiatrici, conviventi e conniventi
Il ruolo delle donne era molto importante sotto il profilo logistico, giacché
molte di loro concorrevano ad assicurare i collegamenti con i briganti, a rifornire di viveri i loro uomini, oppure venivano utilizzate, intente ai lavori campestri,
come vedette e come informatrici negli incroci strategici o nei punti obbligati di
passaggio per segnalare l’arrivo delle truppe e deviare le colonne mobili dai loro
itinerari.28 Diverse donne agivano da spie in servizio permanente effettivo, pronte
ad indicare i luoghi occupati dalle truppe e i loro movimenti.
Nei momenti di più feroce repressione le donne portavano aiuto ai briganti,
oppure prestavano ricovero o nascondevano in luoghi più o meno sicuri i loro uomini. In tal modo esse si facevano complici o manutengole, vale a dire fiancheggiatrici.
Il manutengolismo, invero, era un atto di amore continuo verso i propri
parenti datisi alla campagna da parte di madri, mogli, sorelle che si mettevano per
strade di montagna e di collina con una notizia dentro la testa e con pane e vino
sulle spalle. Vere e proprie fiancheggiatrici. Persone che trovavano il coraggio di
uscire di casa, sfidare i rigori della legge, affrontare il buio, vincere la paura e sfidare la sorte. Donne che sapevano che i loro uomini prima o poi sarebbero incappati
in una pallottola o nel tradimento di qualcuno. Ci furono donne che amarono i
loro uomini al punto da imbracciare un fucile, cavalcare un cavallo e difenderli
sulle montagne fino alla morte.
Gran parte delle donne che furono vittime del brigantaggio in conflitti armati o subirono arresti per manutengolismo, erano o familiari dei briganti o loro
‘drude’.
Queste ultime potevano essere fisse o temporanee, vivevano al seguito dei
briganti e li seguivano nelle loro perigliose avventure condividendone la vita raminga, i disagi fisici e tutti i pericoli connessi alla figura e alla vita del brigante,
trovando spesso la morte nei conflitti a fuoco che opponevano le forze della repressione statale alle bande brigantesche.
Le ‘drude’ erano per lo più sempre fedeli ai loro uomini e pativano la loro
stessa sorte e le loro stesse sofferenze.
Così Filomena Devito, di Grassano, druda del fratello di Ninco Nanco, fu
arrestata nel corso di un’operazione militare contro quella banda il 3 marzo 1863,
mentre negli stessi giorni la Guardia Nazionale feriva e faceva prigioniera la druda
28
Luigi TUCCARI, Memoria sugli aspetti tecnico-operativi della lotta al brigantaggio dopo l’Unità, in «Archivio storico per le province napoletane», terza serie, a. XXII, Vn. CI, 1983, p. 338.
62
Michele Galante
di Ninco Nanco, Maria Lucia Di Nella, che poi subì una condanna a dieci anni di
carcere.29
Limitandoci al territorio della Capitanata, tra le donne di briganti diventate
esse stesse famose, ci furono oltre a Filomena Pennacchio, Giuseppina Vitale, druda del Sacchitiello e Maria Giovanna Tito, moglie di Carmine Crocco.
Filomena Ciccaglione, Mariannina Aligieri, Maria Luisa Ruscitti furono
amanti di Michele Caruso, detto Occhioscarsciato, famoso cavallaro di Torremaggiore.
Vittoria Cursio, detta Sempliciotti, druda del famoso Angelo Maria Del
Sambro, detto lu Zambre, capo indiscusso della banda garganica, fu arrestata lo
stesso giorno in cui trovò la morte il capo.
Angela Maria Cusmai, fu per qualche tempo amante del brigante di Monte
Sant’Angelo Luigi Palumbo, detto il Principe.30
I briganti avevano con loro più donne, poiché era un vanto e un pregio diventare la druda di un brigante. Un medico garganico, Pasquale La Porta, nei suoi
Ricordi del brigantaggio garganico, annotò amaramente che la «prostituzione veniva fatta dagli stessi genitori, dai fratelli stessi che vendevano le impuberi figlie e
sorelle e dai mariti che offrivano le mogli alla protezione e all’oro brigantesco.»31
Sulle donne spesso esercitavano un particolare richiamo, più che la vita avventurosa e le gesta dei briganti, la profusione di danaro e la mostra dei gioielli, fila
d’oro, anelli e altri oggetti preziosi che i briganti saccheggiavano nel corso dei loro
raid, passandoli alle drude, che potevano così farne sfoggio. Rosa Martinelli soggiacque alle avances del brigante Francesco Monaco non soltanto per le minacce
ricevute, ma anche per la generosa offerta di 114 piastre e di diversi monili d’oro. Il
brigante irpino Vincenzo Barone ricambiava l’amore della sua donna, Luisa Mollo,
facendole dono in ogni occasione dei preziosi che depredava alle vittime delle sue
scorrerie.32
Ma molto spesso le ‘drude’ erano soltanto delle miserabili e infelici prostitute di campagna, senza doni né protezioni, delle quali i briganti si disfacevano
abbastanza facilmente senza pericolo e senza rimpianto.
29
Giuseppe BOURELLY, Il brigantaggio politico dal 1860 al 1865 nelle zone di Melfi e Lacedonia, Venosa,
Osanna, 1987.
30
Gennaro SCARAMUZZO, Borbonici, liberali e briganti: Vico del Gargano all’alba dell’Unità, Lucera,
Catapano, 1976, p. 109
31
Pasquale LA PORTA, Ricordi del brigantaggio garganico., San Marco in Lamis, Quaderni del Sud, 1995,
p. 44.
32
Valentino ROMANO, Brigantesse, cit., pp. 133-135.
63
Il volto femminile del brigantaggio. Per una lettura di genere del fenomeno
D) Donne vittime della violenza dello Stato e dei briganti
Le donne pagarono un doppio, pesante tributo nei tremendi mesi della lotta
al brigantaggio. Lo pagarono allo Stato subendo la mannaia della repressione degli
apparati militari o della Guardia Nazionale, sovente senza riguardo alcuno per la
loro dignità di persone, per i princìpi di legalità e di garanzia della libertà personale.
La rabbia dell’apparato repressivo del nuovo Stato dei Savoia si scaricava
con insulti e offese sulle donne, colpevoli unicamente di simpatizzare per i manifestanti borbonici o ritenute l’anello debole della catena brigantesca, e perciò
facilmente ricattabili.
Così il maggiore Viglione, comandate dei “Cacciatori del Gargano”, oltraggiò con frasi ingiuriose, oltre i manifestanti, anche le loro mogli e le loro figlie, accusandole di essere delle meretrici borboniche, per essere scese in piazza a Poggio
Imperiale in provincia di Foggia. 33
La repressione statale si abbatteva facilmente anche sulle donne, senza tanti
scrupoli per lo stato di diritto. Le sorelle Eleonora e Teresa Pelosi, proprietarie di
una trattoria a Torremaggiore, furono denunciate per aver svelato con ritardo fatti
di loro conoscenza.
Rosa De Cera e Teresa Resta, anch’esse di Torremaggiore, furono accusate
senza alcuna prova di associazionismo alle bande del brigante Cerito, Matteo Bartoletta, alias Ponza, e altri.
Arcangela Poppa di Biccari venne accusata di connivenza con i briganti, così
come Angela Falcone, Leonarda Ionata, Angela Maria Falcone, ree di connivenza
con i briganti di Monte Sant’ Angelo34. E spesso alla denuncia seguiva anche la
carcerazione.
Le donne pagarono un prezzo salatissimo anche nei conflitti armati, pur
essendo esse sostanzialmente estranee ai teatri di guerra.
Secondo Carlo Alianello furono quaranta le donne che caddero in battaglia
sotto il fuoco della repressione, che nel quinquennio 1860-1865 fu particolarmente
brutale, facendo inorridire molti sostenitori della causa unitaria. 35
L’operato dei tribunali militari non conosceva pietà, e per le donne delle
bande non c’era riguardo. Se in generale le pene erano più miti per le donne, tuttavia anche per loro scattava la pena di morte.
In Capitanata Maria Antonia Altini, originaria di Castelbaronia, fu fucilata
a Sant’Agata di Puglia il 7 agosto 1862.
33
Giovanni SAITTO, Fatti e briganti della nostra terra. Foggia, Bastogi, 1995, p. 21.
S.A.S.L., Processi davanti la Corte d’Assise, B 29, p. 211, citato in G. CLEMENTE (a cura di), Il brigantaggio in Capitanata, cit., p. 78, scheda 169.
35
Carlo ALIANELLO, La conquista del Sud. Milano, Rusconi, 1979.
34
64
Michele Galante
Giovanna Carozza fu uccisa nel carcere di Lucera nell’ottobre 1861.
Andrea Cilla, di San Paolo Civitate, fu fucilata a Torremaggiore il 20 maggio
1862.
Maria Maraffino, di San Fele di Lucania, fu fucilata quando aveva venti anni
nel 1862, mentre Filomena Gabbamonte cadde all’età di ventuno anni.36
Maria Giuseppa Santoro di Peschici fu prima condannata a morte per attività antigovernativa e successivamente graziata per l’intercessione di influenti personalità del centro garganico.37
A Vieste, nei già ricordati moti del luglio 1861, la popolana Leonida Azzarone fu uccisa sul terrazzo dalla Guardia Nazionale durante uno scontro a fuoco.
Stessa sorte toccò a Lucia Taronna di Mattinata e Mattea Prencipe di Monte Sant’
Angelo, che erano state attive protagoniste della rivolta.38
Donne ammazzate
Ma le donne pagarono un altro tributo anche alla violenza dei briganti, che
non era meno barbara e disumana di quella dei militari piemontesi o della Guardia
Nazionale.
Il 19 settembre 1862 furono derubati e assassinati da trenta briganti a cavallo
gli sposi Luigi Stanislao Fusco di Frasso (Bn) e Carolina Cinelli di Morrone, che in
carrozza viaggiavano per recarsi a Frasso. Il truce reato fu consumato sul ponte del
Tammaro nel piano di Sepino. Il giorno successivo le spoglie di quei miseri barbaramente dilaniati vennero raccolte in bare e tumulate nel locale cimitero.39
Carolina Pontonio, meretrice di San Marco in Lamis, venne ammazzata in
contrada Vado dell’Occhio il 7 agosto 1862 da Luigi Vigilante.
Frequenti erano anche i casi di violenza gratuita, che avevano il solo scopo di
intimidire per poi asservire. La banda di Michele Caruso il 18 ottobre 1863 trucidò
una donna inoffensiva presso la masseria Reggente vicino Lucera.
Sovente le donne trovavano la morte non in combattimento, ma a causa delle rivalità interne alle stesse bande dei briganti che si nutrivano di una subcultura
36
Pietro VARUOLO, Il volto del brigante. Avvenimenti briganteschi in Basilicata. 1860-1877, Galatina,
Congedo, 1985.
37
Tommaso NARDELLA, Una pagina inedita di storia garganica. Peschici e Cagnano nella crisi dell’unificazione nazionale, in III Convegno Storico-IV convegno storico demologico, Tradizione, Arti e Società nella
montagna garganica, Rodi, Centro rodiano di cultura Uriatinon, 1985, p. 160.
38
Luigi GATTA, Mattinata tra ‘800 e ‘900: frazione di Monte Sant’Angelo. Vol. I. L’Ottocento, Foggia,
Claudio Grenzi, 1996, pp.134-135.
39
www.brigantaggio.net
65
Il volto femminile del brigantaggio. Per una lettura di genere del fenomeno
piena di pregiudizi verso le donne, considerate inaffidabili e, come tali, pericolose
per loro.
A San Marco in Lamis il 19 giugno 1862 furono uccise dai briganti quattro
drude, mentre altre sette furono ammazzate il 28 giugno, giorno in cui fu arrestato
il capobanda Del Sambro, detto Lu Zambre, perché ritenevano la compagnia di tali
donne l’origine della loro rovina.40
Sempre in quello stesso giorno furono arrestate Vittoria Cursio, detta Sempliciotti, druda di Del Sambro; Annantonia Ciavarella e Maria Michela Stoduto,
mogli dei cugini Vincitorio, componenti della banda Del Sambro. 41
Con l’uccisione del capobanda garganico, si sviluppò una lotta senza quartiere all’interno dei diversi clan, che portò ad un regolamento di conti di inaudita
ferocia che non risparmiava la vita dei loro sodali.
La vedova del brigante Cosimello, da San Giovanni Rotondo, che si accompagnava al fratello di Recchiomozzo, fu buttata viva dagli stessi componenti della
banda Del Sambro nella ‘grava‘ di Zazzano l’8 agosto 1862.42
Donne stuprate e violentate
Come in tutte le guerre, e ancor più in quelle civili, le violenze e gli stupri
non venivano risparmiati dai rappresentanti dello Stato. A Pontelandolfo numerose donne furono violentate dai soldati piemontesi. Una ragazza di sedici anni,
legata a un palo in una stalla, venne oltraggiata da dieci bersaglieri davanti agli
occhi del padre e poi uccisa.43
Oltre che della repressione e della violenza dello Stato, le donne furono vittime della violenza fisica, della brutalità e del terrore dei briganti.
A Venosa, ritornando dal luogo dove si svolgeva la fiera, i briganti si portarono dietro la moglie di una Guardia Nazionale, certa Cristina Ferranda, e la
violentarono. Non meno orribile fu il destino di una ragazza sedicenne – Maddalena Marchetti – del comune di Rapolla (Potenza), sulla quale la banda Sacchetto
consumò uno stupro violento e collettivo.
Il 17 febbraio 1864 briganti della banda Tasca sorpresero la contadina Maria
Friego mentre attendeva ai lavori dei campi, la stuprarono e la uccisero barbaramente.
Una sorte pressoché analoga subì il 10 agosto 1864 Angela Maria Leopardi
di Ripacandida, la quale fu aggredita dal bandito Tortora mentre era intenta al
lavoro nella fornace di Michele Leopardi in contrada Concenaro di quel comune.
40
Pasquale LA PORTA, Ricordi del brigantaggio garganico, cit., p. 44.
Pasquale SOCCIO, Unità e brigantaggio, cit., p. 225.
42
Ibidem, p. 218 e p. 222.
43
Giordano Bruno GUERRI, Il sangue del Sud, cit., p. 147.
41
66
Michele Galante
Con due colpi di fucile la uccise barbaramente, dopo averle chiesto dove si trovava
suo marito.44
A Casalvecchio di Puglia Angela Marchionne il 20 giugno 1862 fu stuprata e
derubata di 60 piastre da Celestino Orsogna e altri cinque briganti.
Rosaria Conca, Benedetta Ritucci e Pasqualina Tanzitti di Carlantino furono oggetto di “stupri violenti” da parte della banda Scaglione.
Uno stupro in danno di Luisa Morisco e Arcangela Sarno fu tentato in territorio di Ordona da appartenenti alle bande di Giuseppe Caruso e Giuseppe Schiavone.
A Trepuzzi, nel Salento, Angela Greco fu violentata alla presenza del marito.
Talvolta un barlume di umanità finiva per prevalere sulla ferocia del brigante. In Lucania una donna quindicenne – Antonietta Laratro – che trasportava il
proprio cavallo in una masseria, fu rapita violentemente dal bandito Donato Tortora che, fortunatamente per lei, le risparmiò altre forme di violenza ed anzi la vestì
con un gonnellino di seta nera e pantaloni e la ornò di gioielli. 45
Donne estorte e danneggiate
Lo scopo dei briganti era di accumulare ricchezze in modo da accrescere la
loro potenza economica e militare, ma anche di provvedere al pieno sostentamento di tutti i componenti delle bande e delle loro famiglie per rafforzare il legame
associativo sancito col giuramento prestato, evitando defezioni, fughe e tradimenti
in caso di difficoltà economiche. Oltre alle azioni criminose vere e proprie che
consistevano in assalti alle masserie e agli armenti, la via meno rischiosa era quella
delle estorsioni al fine di ottenere danaro, vestiti, generi alimentari e animali (pecore, asini e cavalli) assolutamente importanti nell’economia agricola o necessarie
alla loro guerriglia contro l’esercito piemontese in modo da avere animali sempre
riposati e freschi. Queste azioni venivano messe in atto prevalentemente contro i
signori, senza grande pericolo, attraverso ‘messaggeri’ fidati. Una pratica che non
risparmiava nemmeno le donne. Nel luglio 1862 fu consumata un’azione delittuosa estorsiva a danno di Angela Caputo e Lucia Cipollone di Casalnuovo Monterotaro46.
Nel territorio di Sant’Agata di Puglia furono uccisi da parte della banda
Crocco-Sacchitiello quarantacinque montoni e quindici pecore che appartenevano
a Lucia Cataldo di Vallata.
44
Giuseppe BOURELLY, Il brigantaggio politico dal 1860 al 1865, cit., p. 259.
Ibidem, p. 258.
46
S.A.S.L., Processi davanti la Corte d’Assise, B 27, fs. 185/3, citato in G. CLEMENTE (a cura di), Il brigantaggio in Capitanata, cit., p. 90, scheda 216.
45
67
Il volto femminile del brigantaggio. Per una lettura di genere del fenomeno
A Vieste il 3 agosto 1863 il brigante montanaro Luigi Palumbo compì un
furto di 149 pecore ed anche un’estorsione a danno di Mariantonia Medina47.
Ad Anna Maria, Giuseppa Filomena e Maria Luigia Ripalta Ranozzi vennero ammazzati animali e incendiati attrezzi agricoli per un danno complessivo di
2.247 ducati nella masseria Canestrello Grande del tenimento di Candela da parte
di Carmine Crocco e della sua banda.
Donne sequestrate a scopo di estorsione
Le estorsioni più brutali, ma anche le più redditizie per le bande dei briganti,
erano quelle fatte attraverso i sequestri di persona. Una pratica che nel territorio
della Capitanata era esercitata soprattutto nelle zone del Subappennino meridionale e settentrionale, mentre era scarsamente presente nelle balze del Gargano. Le
vittime non erano soltanto i figli di grandi proprietari o i galantuomini, ma anche le
donne. Teresa Stanisci di Ascoli Satriano, moglie del fattore Francesco D’Andrea,
fu sequestrata da elementi della banda Schiavone - Petrozzi48.
Antonia Forca fu sequestrata per due giorni il 13 giugno 1863 in contrada
Canestrelle del comune di Candela da elementi della banda di Antonio Tasca.
Maria Donata Cornacchia venne sequestrata insieme a Raffaele Bonvino di
Pietramontecorvino49.
Chiara Ferrecchia subì il sequestro col figlio Pietro Perna nel luglio 1862 a
Casalnuovo Monterotaro con estorsione di danaro, vino, dieci anelli d’oro, formaggi e camicie da parte della banda di Benedetto Celenza.
E) Donne nemiche o avversarie che denunciano
Tra le tante vittime delle violenze brigantesche ci fu anche chi si rifiutò di
accettare uno stato di sopraffazione e trovò il coraggio di denunciare gli atti di
violenza, come fece Angela Casalino, vedova di Francesco Ciccone, di Monte
Sant’Angelo, nei confronti della famiglia dei banditi Ciuffreda, accusati di delinquere contro le persone e la proprietà50.
47
S.A.S.L., Processi davanti la Corte d’Assise, B 38, fs. 299, citato in G. CLEMENTE (a cura di), Il brigantaggio in Capitanata, cit., p. 126, scheda 357.
48
S.A.S.L., Processi davanti la Corte d’Assise, B 11, fs. 54/21, citato in G. CLEMENTE (a cura di), Il brigantaggio in Capitanata, cit., p. 62, scheda 109.
49
S.A.S.L., Processi davanti la Corte d’Assise, B 31, fs. 224, citato in G. CLEMENTE (a cura di), Il brigantaggio in Capitanata, cit., p. 91, scheda 220.
50
S.A.S.L., Processi davanti la Corte d’Assise, B 38, fs. 288, citato in G. CLEMENTE (a cura di), Il brigantaggio in Capitanata, cit., p. 127, scheda 360.
68
Michele Galante
F) Donne vittime, risarcite dalla Commissione provinciale per la repressione
del brigantaggio
Nella difficilissima e ostica campagna promossa dal nuovo stato unitario per
debellare il brigantaggio, a partire dal 1863 furono poste in atto una serie di misure
e di provvedimenti volti a rendere meno iniqua e pesante la condizione delle famiglie dei caduti per mano dei briganti e a guadagnare consenso alla causa unitaria
attraverso la concessione di sussidi, vitalizi e pensioni a favore delle famiglie dei
caduti o il conferimento di ricompense a quanti (familiari e non) si adoperavano
per convincere i briganti a costituirsi presso le autorità. A questo compito vennero
preposte le Commissioni provinciali per la repressione del brigantaggio, che sulla
base dell’istruttoria svolta da apposite commissioni comunali, provvedevano ad
erogare questi benefici, la cui consistenza variava in ragione del danno subito o
della collaborazione data.
In Capitanata fu concesso un sussidio di 700 lire a Raffaela Trazza di Lucera,
vedova del guardiano Luigi Nigro di Ariano Irpino, barbaramente trucidato dai
briganti nel luglio 1862 per essersi rifiutato di portare biglietti di ricatto scritti dal
capobanda Gabriele Galardi.51
Un sussidio di mille lire fu dato a Isabella Iuso, il cui marito, Giovanni De
Finis, luogotenente della Guardia nazionale di Alberona, era stato ucciso in combattimento dagli uomini di Michele Caruso.
La Commissione provinciale per la repressione del brigantaggio di Foggia
nella seduta del 14 luglio 1863 deliberò di concedere una pensione a Lucia Nardella, madre di Antonio Schiena, agrimensore di San Marco in Lamis, ammazzato il
7 maggio 1862 in contrada Puzzella, agro di Rignano Garganico, dalla banda Del
Sambro.52
L’analoga Commissione di Benevento accordò un sussidio di 250 lire e una
pensione annua di 360 lire a Gabriella Marcarelli di Paduli, il cui marito Antonio
d’Alessandro, sottotenente della Guardia Nazionale, cadde nel giorno 20 febbraio
1863 sotto i colpi della banda Schiavone, lasciandola in uno stato miserabile, gravida e con nove figli quasi tutti di tenera età.53
Il 16 settembre 1863 Mariantonia Orlando, madre di cinque figlie e seconda
moglie di Angelo Calvitto, sarto liberale, ammazzato con un pugnale da Antonio
Tamburro e Silvestro Ciavarella l’8 ottobre 1860, ottenne un indennizzo di 350 lire
per le vittime dei briganti. Una proposta di vitalizio fu avanzata anche per la madre
del Calvitto, Maria Vincenza Giuliani.
51
ASF, Intendenza, Governo e Prefettura, b. 47.
Verbali redatti dalla Commissione per la mercede dovuta a diversi cittadini di San Marco in Lamis / a
cura di Tommaso Nardella, San Marco in Lamis, Quaderni del Sud, 2003, p. 18.
53
Luisa SANGIUOLO, Il brigantaggio nella provincia di Benevento. Benevento, De Martini, 1995, p. 154.
52
69
Il volto femminile del brigantaggio. Per una lettura di genere del fenomeno
Maria Felicia Rendina, madre di cinque figli e vedova di Tommaso Ciavarella, ucciso dal brigante Alessandro Cursio, si vide accogliere la domanda di indennizzo da parte della Commissione per la mercede di San Marco in Lamis nella
seduta tenutasi 12 novembre 1864.54
Nella stessa seduta la Commissione Comunale, dopo averla in un primo
tempo rigettata, accolse la richiesta di Angela Giuliani e del marito Angelo De
Filippis, tendente ad ottenere l’ indennizzo per la morte del fratello Angelo Maria,
ammazzato dalle truppe perché ritenuto erroneamente brigante.
Maria Teresa Tolfa, madre di Francesco Nardella ucciso il 2 giugno 1861,
vide respinta la sua richiesta di sussidio, che invece fu accordata alla di lui moglie
Angela Marucchelli.
Altre donne parteciparono dalla parte dello Stato alla lotta contro il brigantaggio, senza essere né pentite né drude. Tra di esse va segnalata Gaetana D’Apolito,
da San Marco in Lamis, la quale ebbe in premio 300 lire da parte della Commissione provinciale per la repressione del brigantaggio per aver indicato, insieme ad altri
due elementi della squadriglia di Carlo De Carolis attraverso un’imboscata, il luogo
(contrada Lavorelli) dove si annidava con la sua banda il famoso e temuto brigante
Angelo Raffaele Villani, detto Recchiomozzo, che in quella circostanza trovò la morte, insieme ai briganti Andreone e Lanzone,55 dopo un durissimo scontro a fuoco.
G) Donne collaboratrici di giustizia o pentite
Spesso furono le donne ad essere oggetto di pressione da parte degli apparati
repressivi dello Stato che le inducevano a dissociarsi dalle bande brigantesche con
l’obiettivo di scompaginarle e a collaborare attraverso sconti di pena o promesse
di danaro. Questa collaborazione tendeva a rompere il muro dell’omertà per avere
notizie dei nascondigli dei briganti e per indurre i propri familiari a costituirsi.
Filomena Ciccaglione, che era stata amante di Michele Caruso, uno dei più
temuti e feroci briganti meridionali, che agì nelle zone al confine tra la Capitanata
Nord, il Molise e il Sannio, concorse con altri soggetti a preparare il tranello che
condusse all’arresto del capobanda nel comune di Molinara, nei pressi di Benevento.56 Come ricompensa ebbe una pensione di quaranta ducati all’anno.
Pellegrina Caputo, druda di Peschici, gobba, dietro promessa di una grossa
somma, concorse con un tranello a far uccidere un brigante della banda di Giuseppe Patetta, detto il Generale.57
54
Verbali redatti dalla Commissione per la mercede dovuta a diversi cittadini di San Marco in Lamis, a cura
di Tommaso Nardella, cit., p. 30.
55
Pasquale SOCCIO, Unità e brigantaggio, cit., p. 272.
56
Luisa SANGIUOLO, Il brigantaggio nella provincia di Benevento, cit., p. 198-202.
57
Tommaso NARDELLA, Una pagina inedita di storia garganica, cit., pp. 162-163.
70
Michele Galante
Maria Rachele Cursio e Maria Teresa Palumbieri, rispettivamente moglie e
madre del brigante Giovanni Tarolla, ottennero un premio di 300 lire per avere
entrambe cooperato alla presentazione dello stesso.
Un sussidio di 100 lire fu assegnato a una persona che volle rimanere incognita per essersi adoperata per la presentazione di Celestino Antini, avvenuta in
San Marco in Lamis il 23 giugno 1863.
Mezzi diversi venivano usati per favorire e alimentare il fenomeno della dissociazione e del pentitismo. Nei confronti di chi prendeva le distanze e abbandonava il campo era applicata senza risparmio la legislazione premiale.
Ma non era solo la promessa di danaro o di sconti di pena a far scattare la
voglia di collaborare con lo Stato. A queste motivazioni se ne accompagnavano
anche altre, come la gelosia o la voglia di vendetta per torti subiti o il ricatto delle
forze dell’ordine.
Il capobanda Giuseppe Schiavone fu catturato in località Porta Vassallo,
presso Candela, grazie alla complicità di Rosa Giuliani, una giovane e bella donna
che era stata per qualche tempo la sua druda favorita.
La Giuliani, forse per gelosia, in quanto si vedeva posposta ad altre donne,
o per la speranza di lucrare un po’ di soldi, si decise a collaborare con il generale
Pallavicini, permettendo la riuscita dell’operazione.
La stessa Filomena Pennacchio, una delle donne dedite al brigantaggio che
maggiormente si era distinta per coraggio e determinazione e che per tanto tempo
era stata una fedele compagna dello stesso Schiavone, dopo che questi venne fucilato, consapevole forse dell’imminente fine del brigantaggio, tradì la causa per cui
aveva combattuto per tanto tempo in modo dignitoso e collaborò con le truppe
piemontesi, rendendo possibile l’arresto di un altro capobrigante che agiva al confine tra la Capitanata e l’Irpinia: Agostino Sacchitiello.
Insieme a lui furono catturati a Lacedonia nel palazzo dei signori Rago, che
avevano fama di essere liberalissimi, ma che in realtà erano complici dei briganti, il
bandito Pasquale Gentile nonché Giuseppina Vitale, druda del Sacchitiello e Maria
Giovanna Tito, moglie di Carmine Crocco.58
La Pennacchio, dopo essere stata arrestata, fu processata per numerose azioni delittuose e condannata il 30 giugno 1865 a soli venti anni. La pena fu ridotta negli anni successivi prima a nove e poi a sette anni.59 Dopo aver scontato per intero
la pena, nel 1872 uscì dal carcere tornando ad una vita anonima.
La storia delle donne durante la “sporca guerra”60 del brigantaggio è stata
essenzialmente storia di abusi e di violenze quotidiane, che venivano esercitati a
58
Giuseppe BOURELLY, Il brigantaggio politico dal 1860 al 1865, cit., p. 263.
Valentino ROMANO, Brigantesse, cit., p. 161.
60
Del brigantaggio come “sporca guerra” si trovano tracce in modo particolare in Salvatore SCARPINO,
Indietro, Savoia! Briganti del Sud, cit., p. 67.
59
71
Il volto femminile del brigantaggio. Per una lettura di genere del fenomeno
diverso titolo e in diverse forme. È stata storia fatta per lo più di silenziose sofferenze sopportate con forza di dignità, di desideri di rivolta repressi, di tante vittime
innocenti, solo raramente di attrici, di tentativi di affrancamento dalla subalternità
familiare, di prime prove di emancipazione e di rifiuto di un ruolo di rassegnazione
e di sudditanza.
Sarebbe una forzatura parlare delle donne del brigantaggio come una sorta
di antesignane del femminismo.
Si dovette attendere ancora diverso tempo perché maturasse la consapevolezza del proprio ruolo e si affermasse un protagonismo femminile diretto nelle
vicende politiche, sociali e di costume.
E tuttavia anche in questa contingenza storica venne gettato un seme prezioso destinato a germogliare.
72
Federica Elisabetta Triggiani
Inventari familiari foggiani del Settecento (I parte)
di Federica Elisabetta Triggiani
Premessa
Lo studio delle fonti documentarie costituisce un momento imprescindibile per
l’impostazione di qualsiasi tipo di indagine storica metodologicamente ineccepibile.
Uno dei punti di riferimento fondamentali per la ricerca è senz’altro rappresentato dall’Archivio di stato.
In esso si trovano, tra altri documenti, anche gli inventari dei beni, mobili e
immobili, veri e propri atti notarili privati che rivestono un ruolo di primo piano
nella ricerca storica perché redatti da un pubblico ufficiale, il notaio, che essendo
depositario della publica fides, era considerato da tutti il garante della veridicità di
ogni sorta di contratto.
Il suo compito era quello di redigere atti di cui curava la trascrizione nei
propri registri, garantendone la conservazione e la certezza dell’autenticità.
Gli inventari di patrimonio sono stati ‘scoperti’ come fonte documentaria, in
Italia, da una generazione di storici vissuti tra la fine dell ‘800 e i primi del Novecento.
Essi ben presto rappresentarono uno strumento insolito per un modo nuovo
di fare storia, che non fosse più soltanto storia delle vicende politiche e diplomatiche di un popolo. Sono proprio questi i documenti di cui mi sono avvalsa nel mio
lavoro di tesi.
Esaminando decine di protocolli ingialliti dal tempo e decifrando con fatica
grafie corsive e abbreviazioni in uso in quell’epoca, ho provato a tracciare un quadro
della vita di Foggia nel XVIII secolo, non per raccontare storie di re, imperatori, papi
o eroi, ma solo per scoprire una ‘piccola storia’, di persone comuni, una storia intessuta di cose ed eventi quotidiani; una storia raccontata direttamente dagli oggetti che
a volte sembrano volerci narrare la vita passata più e meglio di tante parole.
Attraverso l’analisi dei beni mobili rinvenuti nelle documentazioni notarili,
cercherò di mettere in evidenza gli stili di vita, i gusti prevalenti e le abitudini di
consumo della società foggiana del ‘700, prendendo in considerazione tutti gli atti
notarili consultati, qualunque sia la classe sociale del soggetto stipulante.
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Inventari familiari foggiani del Settecento (I parte)
Gli inventari da me presi a campione sono una quindicina. Essi appartengono a famiglie più o meno agiate vissute a Foggia in quel periodo e che rappresentano uno spaccato della storia cittadina dell’epoca.
Tra essi vi è il barone Potito Saggese, l’ allora Governatore della Dogana
Antonio Belli, il ricco commerciante Leonardo Mazza e poi il capitano Felice Tortorelli, l’avvocato Nicola Tortorelli, il dottor Francesco Barone ed ancora mastri,
bottegai e un ortolano.
Informazioni generali sulle famiglie esaminate
Il primo notaio preso in esame è Carlantonio Ricca di Foggia e gli anni in cui
roga comprendono il periodo tra il 1751 e il 1764.
Tra le sue carte si ritrova l’inventario dei beni ereditari di Giuseppe Mastrogiacomo, richiesto dai figli e datato 22 novembre 1752. L’atto non fornisce indicazioni riguardo il tipo di mestiere svolto, ma l’inventario di una vigna fa pensare che
si occupasse del proprio terreno.
Il 10 giugno 1754 viene redatto l’inventario dei beni ereditari di Angelo Ramundi, ortolano, deceduto tre giorni prima all’età di sessantatrè anni.
L’11 agosto 1756 viene compilato l’inventario del barone di Roseto Potito
Saggese, deceduto il 2 agosto 1755 all’età di cinquantatrè anni. Fornirò in seguito
notizie più approfondite su questa famiglia.
Il 15 aprile 1760 viene stilato l’inventario di Francesco Del Prete, su richiesta
di un pubblico negoziante tutore e curatore pro tempore dei figli.
L’8 gennaio 1761 viene compilato l’inventario del Presidente della Dogana
Antonio Belli, deceduto il quattro dello stesso mese. Esso viene effettuato nella
camera al quarto piano del Palazzo Doganale.
Il 10 ottobre 1764 viene steso l’inventario di Nicola Andrea di Peppo,. Un
inventario di bottega fa pensare che il signor di Peppo si occupasse della vendita di
tessuti e capi d’abbigliamento.
Il secondo notaio esaminato è Gervasio Pacileo di Foggia.
L’11 marzo 1756 viene redatto l’inventario di patrimonio di Giuseppe de
Benedictis su richiesta dei due figli, istituiti entrambi eredi.
Il 28 novembre 1756 viene richiesto l’inventario dei beni appartenuti al
commerciante Leonardo Mazza, deceduto il 2 gennaio 1755 all’età di sessantasei anni. Quest’ultimo è l’unico inventario che per l’ingente quantità di beni,
viene redatto in più giorni. Per quanto concerne la sua occupazione sappiamo
che il signor Mazza fondò una società mercantile con il socio Francesco Filiasi;1
1
Saverio RUSSO, Alla volta del Tavoliere. Mobilità di uomini e fortune nella «Puglia piana» di età
moderna, Foggia, Claudio Grenzi Editore, 2007, p. 89.
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Federica Elisabetta Triggiani
venne inoltre effettuato anche l’inventario del «fondaco di negozio».2
Il 30 aprile 1764 viene redatto l’inventario di patrimonio del mastro Michele
Mucella su richiesta della moglie Raffaela Zirillo.
Il 18 luglio 1764 viene stilato l’inventario di patrimonio del signor Filippo
Totta, deceduto il quattordici giugno dello stesso anno.
Dal notaio Saverio Ciccone di Foggia, abbiamo esaminato l’unico inventario
patrimoniale esistente in quegli anni.
Il 23 febbraio 1763 si scrive l’inventario di patrimonio di Pasquale Cognetti,
sarto, deceduto all’età di quarantuno anni.
L’ultimo notaio preso in esame è Domenico Greci di Foggia.
Il 2 maggio 1750 viene steso l’inventario di patrimonio di don Ignazio Conte, originario di Napoli.
Il 31 luglio 1750, su richiesta fatta dagli eredi universali, ossia i fratelli Bonaventura e Pietro Antonio Barone, si ritrova l’inventario dei beni di Francesco Barone. Alcune fonti ci informano che egli è «[…] nato nel 1698. Agli inizi degli anni ’20
del ‘700 si trasferisce a Foggia dove, in qualità di dottore fisico, esercita la professione
medica – alcuni documenti notarili lo descrivono in questa veste – e da subito inizia
la costruzione di una notevole proprietà immobiliare».3 L’inventario dei beni immobili è ricco di case, fondaci, stalle e forni, la maggior parte dati in affitto.
Il 1 dicembre 1751 viene compilato l’inventario di patrimonio del capitano
Felice Tortorelli su richiesta della moglie Anna Scafati e del fratello Nicola Tortorelli. Della sua carriera sappiamo che egli fu fra i reggimentari cittadini e «2° eletto
dal 1720 al 1722».4
Il 30 giugno 1752, infine, viene redatto l’inventario del dottor Nicola Tortorelli, letterato e giureconsulto.5 Viene reso noto che il dottor Tortorelli muore senza lasciare testamento. Della sua famiglia si parlerà ampiamente nel capitolo 1.3.
Introduzione. Gli inventari patrimoniali
«Indagatori della vita privata, dei costumi e del costume».6 Così Pietro Egidi
definiva la moltitudine di studiosi che per primi scoprirono l’importanza di avva-
2
Archivio di Stato di Foggia. Sezione di Lucera [d’ora in poi S.A.S.L.], Atti dei notai, serie I, notaio
G.Pacileo, prot. 3714, ff. 170-180.
3
Stefano D’ATRI, Tra Salerno e Foggia: la famiglia Barone nel primo Settecento, in Saverio Russo (a cura
di), La Capitanata in età moderna, Foggia, Grenzi, 2004, p. 124.
4
Carmine DE LEO, Palazzi e famiglie dell’antica Foggia, Foggia, Consorzio costruttori, 1995, p. 183.
5
Per ulteriori approfondimenti si consultino i due manoscritti di Nicola Tortorelli presenti ne I Manoscritti della Biblioteca Provinciale di Foggia, Pasquale Di Cicco (a cura di), Foggia, Provincia di Foggia, 1977,
nn. 68-69.
6
Pietro EGIDI, La storia Medievale, Roma, Fondazione Leonardo per la cultura italiana, 1922, p. 67.
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Inventari familiari foggiani del Settecento (I parte)
lersi degli inventari dei beni come strumento insolito di fare storia, perché «anche
le cose piccole hanno sempre la loro importanza, ma nella storia, dove i grandi fatti
sono il risultato di piccoli elementi, le cose minute sono talora il tutto».7
È proprio grazie a questi inventari che è possibile conoscere ciò che le famiglie possedevano nelle loro abitazioni.
Si tratta principalmente di inventari post mortem, di testamenti, doti e donazioni.
In Italia le prime ricerche storiche collegate alla consultazione degli atti notarili si diffondono con l’emergere dell’interesse per la storia sociale e la vita materiale verso la fine dell’Ottocento. Nel Napoletano si occupò di queste ricerche
Riccardo Bevere, che pubblicò inventari di immediato interesse antiquario, utilizzandoli, in seguito, per importanti saggi dedicati alle province napoletane a partire
dal dodicesimo secolo.8
Un singolo inventario non costituisce in sé un elemento tipico. Risulta tale
solo quando viene messo a confronto con altri inventari, divenendo quindi elemento di una serie, documento rappresentativo di una realtà sociale.
Fu nel secondo dopoguerra che lo studio di atti notarili si diffuse in tutta
Europa.
Molti studiosi, come i francesi Braudel e Braudillard, effettuarono una serie
di studi sulla cultura materiale, concetto strettamente collegato al tema dei consumi e quindi inevitabilmente al rapporto che si viene a creare tra l’uomo e gli oggetti
che lo circondano. Braudel, in particolar modo, lega tale cultura «ai gesti ripetitivi,
alle storie silenziose e quasi obliate degli uomini, a realtà di lunga durata, il cui peso
fu immenso e il rumore appena percettibile».9
Gli inventari post mortem costituiscono dunque una risorsa fondamentale se
si vuole approfondire fin nel dettaglio la diffusione di nuovi beni di consumo. Essi,
tra i vari tipi di elenchi di beni, sono ritenuti i più ricchi di informazioni.
Lo scopo principale di questi inventari, palesemente rivelato nelle pagine
introduttive di ognuno di essi, era quello di tutelare l’erede da eventuali richieste
di creditori intenzionati a rivalersi sul patrimonio ed evitare quindi che l’eredità
stessa fosse «piuttosto dannosa che utile»,10 precisazione presente all’interno di
ogni documento analizzato.
Le famiglie più facoltose hanno lasciato spesso archivi privati, mentre appartenenti al ceto medio hanno sentito il bisogno di rivolgersi ad un notaio. Si è
autoesclusa da questa pratica tutta quella parte di popolazione più povera, anche se
«talvolta vi entrano di riflesso, magari rivelandosi in maniera più o meno chiara ad
7
Ettore GALLI, La casa di abitazione a Pavia e nelle campagne nei secoli XIV e XV, in «Bollettino della
Società pavese di storia e patria», I (1901 giugno, volume 1, fascicolo 2), pp. 155-156.
8
Cfr. Maria Serena MAZZI, Gli inventari dei beni. Storia di oggetti e storia di uomini, in «Società e storia»,
III (1980), n°7, pp. 203-204.
9
Fernand BRAUDEL, Capitalismo e civiltà materiale: secoli XVI e XVIII, Torino, Einaudi, 1977, p. XXI.
10
S.A.S.L, Atti dei notai, serie I, Pacileo, prot. 3714, ff. 170-180.
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Federica Elisabetta Triggiani
una lettura contro-luce del documento».11 Ciò dimostra che «l’inventario è un atto
da ricchi o perlomeno da benestanti».12
Si deve considerare inoltre che l’atto notarile aveva un suo prezzo: a Parigi
ad esempio intorno al 1780 esso si aggirava intorno alle 30-40 lire, «equivalente
[…] a più di 20 giornate di lavoro».13
In definitiva un inventario censisce una proprietà dando un’idea statica del
patrimonio, in quanto non lascia filtrare nulla che abbia a che fare con il rapporto
affettivo tra proprietario e proprietà.
Per entrare in contatto con gli usi e costumi delle famiglie interessate, l’inventario risulta essere il documento più completo perché ci offre un dettagliato
elenco non solo di oggetti di valore, ma di tutto ciò che si possedeva, anche di suppellettili ritenute a volte non degne di essere citate in altri documenti.
Esso ci introduce nella vita di persone sconosciute, senza descriverci la loro
condizione sociale, ma anche senza alcuna notizia su come quegli oggetti siano
entrati in loro possesso e quali trasformazioni abbiano subito.
Ci porta direttamente nelle loro camere da letto e saloni, permettendo di
giudicare lo stato di conservazione ed il valore di beni materiali spesso presenti
nella famiglia da generazioni.
Alcuni notai rendono descrizioni piuttosto dettagliate della collocazione dei
beni mobili all’interno delle varie stanze, dei particolari materiali, tessuti e colori.
Altri, invece, risultano più vaghi; tutti, comunque, enumerano con precisione tali
beni specificando se si tratti di robbe vecchie o nuove: questa è una delle prime
caratteristiche che differenzia un inventario post mortem da un inventario dotale.
Gli oggetti di vita quotidiana hanno da sempre interessato e affascinato molte correnti artistiche.
Le raccolte museografiche italiane mettono in luce gli atteggiamenti e le ragioni che determinano la nascita dell’interesse per gli oggetti della vita quotidiana dei
popoli italiani, cioè per la ‘cultura materiale’, che oggi è al centro di grandi e piccoli
musei della civiltà e del mondo contadino diffusi in tutte le regioni d’Italia.
La pittura, ad esempio, è ricca di soggetti di interni e di vita domestica. Un
esempio concreto ci viene offerto dall’iconografia olandese del diciassettesimo secolo. Il repertorio pittorico di Vermeer è un incessante ricorrere ad oggetti a lui molto
familiari, gli stessi che si ritroveranno nel suo inventario post mortem. Dipingere la
vita borghese nella sua semplicità e quotidianità era intimamente realistico.
Anche la letteratura è ricca di ‘poetica degli oggetti’ che si oppone ad una
11
Pasquale CORSI, Arredi domestici e vita quotidiana, in Terra e uomini nel Mezzogiorno normanno svevo,
Atti delle settime giornate normanno-sveve (Bari, 15-17 ottobre 1985), Bari, Edizioni Dedalo, 1985, p. 84 .
12
Daniel ROCHE, Il popolo di Parigi. Cultura popolare e civiltà materiale alla vigilia della Rivoluzione,
Bologna, Il Mulino, 2000, p.79.
13
Ivi, p. 80.
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Inventari familiari foggiani del Settecento (I parte)
‘poetica della parola’. Si pensi al correlativo oggettivo di Eugenio Montale, in cui
l’oggetto diventa simbolo di una condizione interiore o esistenziale, che verrà poi
ripreso in parte da Vittorio Sereni, caposcuola della ‘linea lombarda’, poeta la cui
lirica si nutre della quotidianità e degli oggetti della casa.
Il crepuscolarismo aveva però già avvertito con le poesie di Guido Gozzano
la paura di non poter più scrivere versi in una società come quella moderna, borghese, sentita come estranea ad ogni sorta di discorso poetico, concentrata com’è
sull’utile, sul guadagno, sull’artificialità.
Il fare poesia, infatti, andava contro le ‘buone cose di pessimo gusto’ della
normale vita borghese.
Per conformarsi con l’ordine borghese bisognava scegliere linguaggi e oggetti quotidiani, che diventano l’unico modo di sopravvivenza di una poesia, in
netto contrasto con il suo contesto.
Gli oggetti sono quindi presenti nella nostra vita da secoli e hanno assunto
significati variegati, essendo stati utilizzati di volta in volta con scopi e finalità diversi, ora per legare delle persone, ora per innalzare barriere.
Studiare gli oggetti e i beni di consumo attraverso la loro presenza nelle famiglie è uno dei modi per evitare un approccio prettamente materialistico. Sorge
quindi una domanda: gli oggetti hanno un’anima?
La letteratura, la storiografia e l’archeologia confermano il fatto che essi
sembrano raccontare la vita passata più di tante parole.
Forse proprio quest’ ‘anima’ ha spinto molti storici ed antropologi ad interessarsi allo studio di fenomeni sociali attraverso l’osservazione dei beni materiali,
definiti da Mary Douglas accessori rituali il cui compito è di fissare significati altrimenti instabili e sfuggenti.
Studiare la storia significa spesso operare una scelta: scegliere cioè se interessarsi alla storia degli imperatori, delle grandi guerre e degli uomini illustri, oppure
dedicarsi alla microstoria, ossia alla storia delle piccole cose. Sono due alternative
altrettanto valide di fare storia e non bisogna cadere nell’errore di credere che la
seconda non fornisca dati importanti: al contrario, essa dà spessore e veridicità al
modus vivendi privato.
Indubbia è l’alta qualità di queste ricerche, che si dividono tra scelte qualitative o statistico-quantitative, le quali, comunque, costituiscono una nuova proposta di accesso al passato, un diverso tentativo di scavare nell’abisso della storia.
Trovarsi di fronte a faldoni di documenti ingialliti, a volte ormai logori ed
illeggibili, ha lo stesso effetto di quando ci si ritrova in una camera oscura: bisogna
riportare alla luce e sviluppare vecchie foto di famiglia nelle quali qualche zona
resta inevitabilmente in ombra.
«Talvolta, tuttavia, contro tutte le attese, nelle maglie delle fonti sono rimasti
per così dire impigliati, per secoli, minimi particolari di gesti quotidiani asso-
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Federica Elisabetta Triggiani
lutamente banali, di norma destinati ad essere rapidamente dimenticati anche
da coloro che li compirono [...]».14
La storia di famiglie, dei consumi, dell’arredamento e dell’abbigliamento
servirà a tracciare alcune linee sulle quali si reggeva la struttura economica urbana
del diciottesimo secolo, indagata direttamente dall’interno delle abitazioni.
I Capitolo
Foggia nella seconda metà del Settecento
1.1. Situazione storica
Il 1700 si apre con la guerra di successione spagnola e si chiude con la rivoluzione francese. Nei primi anni l’Italia è in balia di potenze straniere che ne ambiscono il dominio, ma dopo la guerra di successione polacca, Il Regno di Napoli
torna ad avere una sua dinastia indipendente con don Carlos di Borbone.
Soprattutto a Napoli la nuova famiglia reale incentiva realizzazioni innovative nell’edilizia pubblica, con il restauro di storici palazzi, teatri e porti.
Foggia costituiva un’importante periferia di Napoli, tanto da aver assimilato
la stessa cultura e lo stesso decoro.
Nel 1468, ancora sotto il dominio degli aragonesi, divenne sede della Dogana
che regolamentava la transumanza. Nasceva, così, una istituzione che condizionerà
per ben quattro secoli gran parte della Capitanata e non solo.
La pratica della transumanza consentì alla città di Foggia di diventare crocevia di mercati e di fiere legate principalmente alla pastorizia.
L’economia locale resta nelle mani di «nobili napoletani e grandi feudatari,
allevatori e ricchi concessionari abruzzesi»,15 della classe media, formata da artigiani, mercanti, ma soprattutto professionisti come avvocati, medici o funzionari
pubblici.
Non bisogna però dimenticare che cresceva a dismisura anche il ceto povero, il quale non riusciva a trovare spazio né nelle campagne, né nel nuovo assetto
cittadino.
Per quanto riguarda l’architettura di Foggia prima del ‘700, purtroppo oggi
non restano molte testimonianze. Il 20 marzo 1731 un violento sisma scosse la
Campania, l’Irpinia e la Puglia. Non rimase in piedi alcuna chiesa, crollarono forni
e mulini e dai pozzi risalì talmente tanta acqua da allagare tutti i terreni circostanti:
crollò quasi un terzo delle costruzioni di Foggia e si contarono mille morti.
14
Raffaella SARTI, Vita di casa: abitare, mangiare, vestire nell’Europa moderna, Roma-Bari, Laterza,
1990, p. 8.
15
Ugo JARUSSI, Foggia. Genesi urbanistica, vicende storiche e carattere della città, Bari, Adda, 1975, p. 17.
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Inventari familiari foggiani del Settecento (I parte)
Negli anni che seguirono il disastroso evento tellurico, la città cercò di risollevarsi e nacquero diverse tipologie di abitazioni.
1.2. Le strade e i palazzi
Foggia antica ha il suo cuore nell’attuale via Arpi, caratterizzata dall’intreccio di varie vie e vicoli che ospitavano al loro interno sia la popolazione dedita alle
arti e ai mestieri, che alcune famiglie gentilizie.
Le famiglie erano solite abitare dove potevano professare la propria arte e
quindi il centro della città si caratterizza per la presenza di abitanti di un certo ceto
sociale.16
Le famiglie che abitavano nelle case palaziate, terminologia utilizzata spesso
nell’elenco di beni immobili, si fregiavano a volte di un titolo nobiliare acquisito
per censo o per meriti speciali, soppiantando gli antichi casati.
Un’antica piantina di Foggia del 1748 ci mostra come la città si sia lentamente
allargata anche ‘fuori le mura’ con la costruzione di chiese, formando nuovi quartieri che prendono il nome di Capo la Terra, Capo la Città, Piano della Croce.17
Le case palazzate erano quelle dei gran signori, tutte le altre non superavano
il primo piano o consistevano nel solo terraneo.
Ad esempio la casa del mastro Michele Mucella viene definita «una baracca sita
per la strada de Cappuccini di rimpetto al palazzo della signora D. Anna Tanni giusti
li confini».18 Le baracche erano infatti abitazioni a pian terreno, spesso consistenti in
grotte, e che già per la denominazione fa immaginare l’umiltà e la semplicità.
1.3. Palazzi ancora esistenti
Fortunatamente alcuni di questi palazzi si possono ancora ammirare, come
per esempio quelli del barone Potito Saggese e della famiglia Tortorelli.
La famiglia Saggese era originaria di Ravello e si era trasferita a Foggia alla
fine del XVI secolo con il notaio Giovanni Andrea.
Palazzo Saggese situato «avanti questa Madre Chiesa» diede il nome anche
alla piazzetta antistante detta appunto ‘Largo del Barone Saggese’; attualmente il
palazzo ha perduto l’assetto originario in quanto è stato più volte modificato, anche se fortunatamente se ne conservano disegni e piantine.
L’edificio si estendeva con un solo piano superiore e vi si accedeva attraverso
quattro portoni, due più piccoli ai lati e due più grandi centrali e sopra di essi si
aprivano quattro balconi.
16
Cfr. Saverio RUSSO, L’articolazione socio-professionale tra Sette e Ottocento, in S. Russo (a cura di), Storia
di Foggia in età moderna, Bari, Edipuglia, 1992, p.170.
17
Vincenzo SALVATO, Foggia. Città, territorio e genti, Foggia, Claudio Grenzi, 2005, cartina XXXII.
18
Ivi, Pacileo , prot. 3722, ff. 102-104.
80
Federica Elisabetta Triggiani
«Il palazzo si componeva di camere, saletta, cucina, grotta, dispensa, stalla,
rimessa, portone e due fondaci […]».19
Attualmente il palazzo risulta diviso a metà: alla prima parte è stato aggiunto
un secondo piano e la grandezza dei quattro portoni risulta identica.
Palazzo Tortorelli, passato come proprietà al dottor Nicola Tortorelli, come
si apprende dal Catasto onciario del 1741, è situato nell’attuale via Le Maestre,
ossia una delle zone più antiche di Foggia. Il suddetto documento ci parla di più
camere, grotte, stalle e rimesse ma l’inventario fornisce notizie più precise. L’abitazione viene divisa in undici camere, tra cui una galleria ed una cucina e si parla di
un solo piano superiore.
Ancora oggi si possono osservare quattro ingressi, con un portone più grande degli altri e tre balconi, quello centrale più lungo degli altri in quanto comprende
due aperture. All’interno del portone maggiore vi è un cortile su cui si affacciano
quattro finestre e attraverso una scalinata in pietra si sale al piano superiore.
II Capitolo
Gli interni
2.1. Il significato degli oggetti
Dagli inventari post mortem, che saranno oggetto di un’analisi approfondita,
emerge chiaramente come ogni possessore di beni intesseva con i propri oggetti un
rapporto diversificato e speciale, a seconda delle proprie esigenze.
Il rapporto cambia anche in base al tipo di oggetti e alle rispettive funzioni:
essi possono appartenere alla sfera dell’utile oppure possono assumere un significato
speciale per chi li possiede, trasformandosi «da cose – oggetti dotati appunto di
utilità – in semiofori – oggetti dotati di significato».20
Secondo Pomian i semiofori sono «oggetti ritenuti portatori di particolari
significati da una determinata società e pertanto creati o esposti in modo da rivolgersi
allo sguardo o in modo esclusivo o anche conservando una funzione pratica».21 Il
significato degli oggetti può cambiare a seconda del gusto e delle usanze di una
certa epoca, per poi tornare a far parte della sfera dell’uso e dell’utile.
Gli oggetti più adatti per natura a caricarsi di un significato sono da sempre
quelli più preziosi: gioielli, argenti, collezioni di libri, di quadri, ma anche vestiti e
stoffe preziose.
Essi costituiscono un «insieme di cose tendenzialmente inalienabili e una
riserva di ricchezza da mobilitare in casi extra-ordinari».22
19
DE LEO, Palazzi e Famiglie dell’antica Foggia, cit., p. 175.
AGO, Il gusto delle cose, cit., pp. XVI-XVII.
21
Krzysztof POMIAN, Che cos’è la storia, Milano, Mondadori, 2001, p. 113.
22
AGO, Il gusto delle cose, cit., p. 225.
20
81
Inventari familiari foggiani del Settecento (I parte)
Le abitazioni foggiane si rivelano ricche di biblioteche, di gioielli sia da
uomo che da donna, tessuti pregiati, argenti e molti soprammobili, statuette e un
numero esorbitante di quadri.
L’importanza che questi beni hanno per i proprietari si chiarifica
maggiormente quando si incontrano, all’interno degli inventari, delle annotazioni
che aiutano lo studioso a comprendere il rapporto con i loro oggetti.
Per esempio, nell’elenco dei quadri appartenuti a Leonardo Mazza, il
notaio ci tiene a specificare che alcuni «sono pegni della casa dei figli del quondam
Leonardo Miani»,23 mentre altri sei «sono di Giambattista Marena dati in pegno per
ventotto ducati».24 Di diversa natura sono i pegni che si riscontrano nell’inventario
di Nicola Tortorelli, cioè «una cantuscia di drappo ricco involto in una tovaglia
bianca, pegno di Giuseppe Granieri; un guardapiede d’amuerro ricamato d’oro e
fiori al naturale, quali sono pegni datoci da Felice Mancino».25
I vestiti, la biancheria e i gioielli sono quindi «tesori […] da conservare per
tutta la vita e da lasciare poi ai propri eredi».26 Se nel momento del bisogno essi
vengono ‘sbloccati’ dall’essere oggetti inalienabili e ceduti temporaneamente al
posto di somme di denaro, non è detto che, una volta ritornati in loro possesso, i
rispettivi proprietari non decidano di tenerli di nuovo sotto ‘protezione’.
Il mastro Michele Mucella dimostra di non tenere particolarmente
all’arredamento della casa, ma si circonda di oggetti di valore economico importante,
da cui non si è separato proprio perché considerati ‘significativamente’ preziosi.
Come infatti sostiene Renata Ago, «c’è differenza tra i candelabri d’argento che
illuminano i salotti delle élites nobili, e gli oggetti preziosi che vengono tenuti ben
chiusi nell’angolo più sicuro della casa, e chi infine ne utilizza il valore di mercato
in periodi di strettezze familiari».27
2.2. Le stanze
Dopo aver analizzato il tessuto urbano di Foggia nella prima metà del ‘700,
e aver individuato le tipologie abitative più diffuse in essa, cercheremo di scoprire
come sono suddivisi gli ambienti nel loro interno28 grazie allo studio degli inventari.
Infatti se alcuni di essi offrono scarse informazioni sia per quanto riguarda
gli oggetti che per quanto riguarda la descrizione degli interni, altri riportano nel
dettaglio la divisione delle stanze, il mobilio presente in ognuna di esse, a volte
con relativa spiegazione della funzione; a volte ci si addentra in scanzie, armadi e
23
S.A.S.L., Atti dei notai, serie I, Pacileo, prot. 3714, ff. 170-180.
Ibidem.
25
S.A.S.L., Atti dei notai, serie I, Greci, prot. 2610, ff. 119t-123.
26
AGO, Il gusto delle cose, cit., p. XVIII.
27
Paolo MACRY, Ottocento. Famiglia, elites e patrimoni a Napoli, Torino, Einaudi, 1988, p. 115.
28
Ivi, p. XIII: «[…] la formazione di una società civile passa anche e forse soprattutto per le stanze della
vita domestica».
24
82
Federica Elisabetta Triggiani
scrivanie per elencare il contenuto di beni conservati gelosamente nei tiratoj con
tanto di mascatura e chiave.
Per quanto riguarda gli inventari da me presi in considerazione (una
quindicina) ho notato una lacuna che non sempre è presente in altri inventari
italiani o stranieri: in nessuno di questi documenti è stato possibile riscontrare
il prezzo di valutazione di ogni oggetto, se si eccettua qualche accenno ad alcuni
pezzi d’argento.
Questa carenza di informazione di certo non aiuta a determinare il valore
dei beni e quindi lo stato socio-economico della famiglia; per cercare di sopperire a
questo vuoto sarà necessario non sottovalutare le accezioni attribuite ai vari oggetti
sul relativo stato di conservazione, ossia se essi siano usati o novegni, laceri o integri,
e soprattutto valutare la variegata gamma di tessuti e materiali. A questo riguardo
Paolo Macry afferma: «tracce della cultura della famiglia trapelano dagli arredi, la
quantità e la qualità degli oggetti, la loro distribuzione tra i locali di casa».29
Entrando direttamente nelle abitazioni ci si accorge subito delle differenze
tra le case palazzate e le semplici abitazioni costituite da uno, massimo due vani.
Nelle case più modeste si è costretti a svolgere funzioni diverse nella stessa
stanza, ossia si è costretti a ricevere ospiti nella stanza in cui è collocato il letto,
come ad esempio risulta dall’inventario di Francesco del Prete. Non è fornita la
locazione della casa, ma vi è descritta la divisione interna che consiste in due sole
camere: nella prima sono presenti lettiere, canterani, materassi e cuscini pieni di
lana, lenzuola e coperte imbottite.
La presenza di tornaletto, cortine di pizzo con frange, denota la volontà di
rendere la zona notte più raffinata e accogliente, forse perché quella stessa stanza
dovrà necessariamente accogliere anche gli ospiti.
La seconda camera con tramezzo di legno, anche se non specificato,
risulta essere la zona adibita a cucina con tutti i suoi utensili, ma non può passare
inosservata la presenza di due materassi ed una coperta.
Nei casi in cui invece l’abitazione risulta divisa in più camere, il documento
si arricchisce di termini quali sala, studio, anticamera, camerino, cammera da
dormire, gallaria, cucina.
Nulla di diverso dalle nostre abitazioni moderne ed è quindi facile intuire
l’importanza che già all’epoca si attribuiva alla divisione degli ambienti: i locali di
servizio, come appunto le cucine e le dispense, erano separate dalla zona giorno
grazie alla gallaria, ossia il corridoio su cui si affacciavano le diverse porte, tra
cui quelle dei locali adibiti all’accoglienza di persone estranee alla famiglia,
particolarmente ricchi di accorgimenti estetici, di oggetti inusuali e particolari.
In queste stanze in cui avvenivano probabilmente incontri sociali, risulta
evidente l’intenzione di mostrare lusso e decoro.
29 Ivi, p. 109.
83
Inventari familiari foggiani del Settecento (I parte)
Vedremo in seguito che è proprio in queste camere che è possibile ammirare
la maggior parte degli strumenti scientifici, collezioni e soprattutto libri.
La seguente tabella mostra i diversi ambienti presenti nelle case.
Tab.1 Tipi di stanze presenti
negli inventari
LOCALI
QUANTITÀ
Alcova
Anticamera
Camera
Camera da letto
Camerino
Cucina
Galleria
Retrocamera
Sala
Studio
6
7
30
8
2
9
1
1
6
2
Risulta molto comune la definizione generica di camera e in quel caso
cercare di capire di che tipo di ambiente si tratti bisogna attentamente analizzare
gli oggetti e i mobili contenuti in esso.
I beni mobili rinvenuti all’interno delle sale descritte sono quasi sempre gli
stessi: quadri, sedie e cassapanche.
Risulta molto più completo l’arredamento presente nelle anticamere,
come quello che troviamo in casa del capitano Felice Tortorelli: tre buffettini30
indorati, uno di pietra, un canapè, undici sedie, tre specchi, quattro lumieri e vari
quadri. Nella sua seconda anticamera è presente anche un braciere ed un bureau
veneziano.
Questa disposizione risulta essere la più comune, tanto da far pensare che
questa zona fosse adibita all’intrattenimento di ospiti o degli stessi familiari.
Segue all’anticamera il cuore di ogni abitazione: la camera da letto. Oltre a
rappresentare il luogo più intimo, lontano dagli ambienti di rappresentanza, esso
svolgeva anche la funzione di «stanza dei segreti».31
Se si guarda oltre l’elenco dei mobili che caratterizzano un po’ tutte le
cammere da dormire, sia quelle più modeste che le più sfarzose, molti notai ci
30
31
Buffetta: credenza per riporre argento o stoviglie; in altri casi è intesa come tavolo.
MACRY, Ottocento, cit., p. 119.
84
Federica Elisabetta Triggiani
permettono di aprire i cassetti di bureau, canterani e scrivanie e di svelarci oggetti
che i proprietari tenevano gelosamente custoditi. Don Ignazio Conte, ad esempio,
ci mostra in uno dei «tiratoi segreti» di uno dei due «burò»32 diverse fedi di credito,
oncie d’oro e in un cassettino diversi gioielli.
Renata Ago, per quanto riguarda la presenza della cucina negli inventari
di Roma del ‘600, nota che «è solo nelle abitazioni più grandi, per esempio, che
compare con una certa regolarità la cucina, nominata un’unica volta nel caso di
quelle più piccole».33 Nonostante sia diverso il periodo ed il luogo, la situazione
riscontrata è la stessa.
L’ambiente denominato cucina è infatti rinvenibile esclusivamente in
abitazioni che superano le tre stanze. Al suo interno, oltre ai più disparati utensili
che si avrà modo di analizzare in seguito, l’arredamento comune consiste in
brascieri,34 boffettole, boffettoni, stipi, e, nel caso del dottor Nicola Tortorelli,
anche in un letto per la serva. Inoltre la presenza di capofuochi35 nella cucina del
commerciante Leonardo Mazza e di un porta fuoco in quella di Felice Tortorelli
fanno pensare all’esistenza di un caminetto. Nelle altre cucine esistenti sono citati
solo bracieri e quindi forse essi erano, per cucinare, l’alternativa al camino.
Ancora, nella cucina di Felice Tortorelli, è interessante trovare elencata tra i
vari utensili una lopa, ossia l’arnese per recuperare il secchio caduto nel pozzo. Che
esso fosse presente all’interno della casa palazzata ce lo conferma l’inventario stesso
quando ne descrive le varie zone: «una rimessa, pozzo d’acqua sorgente e picciolo
giardinetto per uso di casa».36 Possedere l’acqua nel proprio stabile sopperiva alla
mancanza di acqua corrente, favorendo l’igiene della famiglie ed apportando un
comfort che non era sicuramente alla portata di tutti.
Dopo questa descrizione dei diversi locali presenti nelle abitazioni
settecentesche foggiane e di alcuni mobili che ne specificano la differenziazione
funzionale, è opportuno indagare fino in fondo quali erano le loro fatture e come
essi si presentavano nelle diverse case.
2.3. Il mobilio
Qual è lo stile e il gusto preponderante nella scelta dei mobili in Italia,
soprattutto nel regno di Napoli, all’inizio del Settecento?
Non è semplice inquadrare le influenze che giungono nel nostro Paese in
quegli anni, ma di sicuro un ruolo importante è giocato dalle guerre di successione
e dall’interesse che suscitano nazioni come la Francia e l’Inghilterra.
32
S.A.S.L., Atti dei notai, serie I, Greci, prot. 2608, ff. 190-193.
AGO, Il gusto delle cose, cit., p. 60.
34
Braciere: recipiente di rame o altro metallo, da tenervi le braci per riscaldarsi.
35
Capofuochi: alari.
36
S.A.S.L., Atti dei notai, serie I, notaio Greci, prot. 2609, ff. 258t-262.
33
85
Inventari familiari foggiani del Settecento (I parte)
In particolar modo saranno il Barocchetto e il Rococò ad essere assimilati
dall’arte italiana, anche se questa influenza sarà percepita in modo non omogeneo
dalle diverse zone della penisola, con un netto assorbiment o dell’influsso
delle potenze straniere da parte di regioni settentrionali, mentre nelle regioni
meridionali «le voci inglesi e francesi vengono maggiormente imbrigliate e
sfumate sia dall’ascendente Barocco sia dal Barocchetto […]».37
I mobili napoletani risultano infatti un vero e proprio mix di materiali
barocchi come l’avorio, la madreperla e la tartaruga, ed una predilezione per la
decorazione d orata.
Attraverso gli inventari possiamo verificare puntualmente questi dati e
desumere il gusto delle nostre famiglie, le differenze di stile e la qualità dei mobili
presenti nelle varie tipologie di abitazioni.
Tab.2 Numero di mobili presenti negli inventari
TIPO DI MOBILE
Bauli
Buffetti
Bureau
Canterani
Cassabanchi
Casse
Cassoni
Culle
Inginocchiatoi
Lavamani
Letti
Lettiere
Placche
QUANTITÀ
26
62
11
11
24
30
5
1
2
1
35
7
18
TIPO DI MOBILE
Sedie e sedini
Sofà
Stipi e stipetti
Studioli
Tavoli
Tavoli da gioco
Tavolini
Scrittoi
QUANTITÀ
291
7
6
15
2
1
2
1
Al primo posto il mobilio più comune nelle varie case risulta essere la
sedia: la ritroviamo in quasi tutti i tipi di stanze e in quasi tutte le abitazioni.
Il loro numero supera spesso quello degli appartenenti alla stessa famiglia e ciò
sta ad indicare la loro funzione, non solo estetica, ma di accoglienza di eventuali
ospiti.
La sedia è uno dei mobili più antichi e nel susseguirsi dei secoli ha
subìto diverse modifiche. Solo dalla metà del Cinquecento si iniziò a realizzare
37
Guido WENNENES, Mobili italiani nel 1700, Milano, Leonardo, 1991, p. 9.
86
Federica Elisabetta Triggiani
sgabelli imbottiti e seggioloni decorati con indorature e intagli.
Nel Settecento, secolo per eccellenza di scambi sociali, compaiono le prime
poltrone ed i primi divani e i sedili appaiono come «la vivente testimonianza dei
virtuosismi scultorei dell’intagliatore».38
Le sedute si differenziavano non solo per le decorazioni ma anche per l’uso
a cui erano adibite.
I cassabanchi, o cassapanche, potevano essere con appoggiatoio, come
quelli posseduti da Nicola Tortorelli, o senza, ed il legno utilizzato per la loro
composizione varia dall’abete al faggio. Come risulta dall’esame degli inventari
in nessuna abitazione è fatta menzione di poltrone, mentre in rari casi si parla di
sofà o canapè.
Questo tipo di seduta nasce nel Seicento come evoluzione delle cassapanche,
ma è nel Settecento che viene rifinito ed assume svariate forme e dimensioni.
È documentata la presenza di canapè nell’anticamera del capitano Felice
Tortorelli, nella galleria del dottor Nicola Tortorelli, nella camera da letto di Don
Ignazio Conte, nello studio di Don Filippo Totta e nell’anticamera del presidente
della Dogana Antonio Belli (in quest’ultimo caso unitamente ad un sofà di pelle
presente nella camera da letto).
L’unico inventario a fornirci indicazioni precise sulla fattura di questi
divani è quello del signor Conte: «canapè d’oro pelle rossa con finimento a torno
indorato misturato» e «un canapè d’oro pelle rosso con braccie ed altri finimenti
indorati misturati».39
La collocazione di questi divani è varia, a seconda delle proprie abitudini o
necessità, ma risultano presenti sempre in ambienti di una certa rilevanza.
L’abbondante elencazione delle sedie richiede invece un maggiore
approfondimento, perché esse si differenziano a seconda della lavorazione a cui
sono sottoposte.
Questa è solo una delle possibili
Tab.3 Tipologie di sedie
distinzioni tra le sedie descritte dei
MATERIALI
QUANTITÀ
documenti. Le 173 sedie di paglia si
differenziano a loro volta in base alla
Paglia
173
lavorazione subita e per la grandezza.
Noce
38
La maggior parte di esse sono descritte
Vacchetta
4
come indorate e nel caso di Ignazio
Conte come «dieci sedie di paglia,
Tessuto
22
quattro incarnate con oro misturato
Pelle
7
e sei alla chinese» e, ancora, «tre
Generico
47
sedini vecchi di noce con sopraveste
38
39
Ivi, p. 27.
S.A.S.L., Atti dei notai , serie I, Greci, prot. 2608, ff. 190-193.
87
Inventari familiari foggiani del Settecento (I parte)
di felba40 torchina»;41 mentre in casa di Francesco Barone sono dislocate «sedie
senza appoggio di damasco cremisi con loro telai di noce numero dodici».42
Questa descrizione introduce un’ulteriore differenziazione delle sedute, in
quanto a volte viene specificato se si tratta di sedie d’appoggio, senza appoggio o
da sedere. Un’ultima caratteristica di questi ‘mobili sostenitori’ è costituita dalla
loro dimensione, che in linea di massima non viene specificata, ma in alcuni casi
esse sono definite come grandi o mezzane. I colori che le caratterizzano sono il
bianco, il verde ed il rosso.
Nella camera da letto del presidente Antonio Belli viene ritrovata una «sedia
di commodo coperta di pelle con suo vaso di rame»,43 caso unico negli inventari
analizzati, probabilmente utilizzata a causa dell’infermità che lo costrinse a lungo
a letto (come ci viene reso noto dall’inventario stesso).
Quando si passa alla descrizione delle camere da letto, alcova o camere in
genere, «il notaio comincia di solito il suo inventario con la descrizione del mobile
prezioso fra tutti, il letto […]. Il lusso è nell’uso della seta preziosa per la sua
decorazione, non negli elementi costitutivi […]».44
Il riscontro di questa affermazione negli inventari esaminati risulta
positivo.
Daniel Roche afferma che «il letto è importante per il suo valore non meno
che per la sua funzione e i suoi significati»,45 in quanto esso risulta funzionale
per la protezione dal freddo e per il riposo ed è inoltre «[…] simbolo del rifugio
coniugale, l’estrema trincea dell’intimità, il solo luogo in cui […] si possa parlare
di vita privata».46
Non è possibile risalire al valore monetario di questo mobile perché
mancano, come già detto, negli inventari esaminati, le stime e quindi risulta
difficoltoso accertare fino in fondo le eventuali differenze di qualità nei diversi
strati sociali.
Esso strutturalmente viene descritto alla stessa maniera in ogni inventario:
nelle stanze del commerciante Leonardo Mazza sono presenti quattro letti tra cui
«un letto grande con due materassi di lana, lenzuoli, quattro cuscini e scanni di
ferro» e «un letto più piccolo con scanni di legno».47
Ugualmente la descrizione del letto di Francesco Barone consiste in «scanni
40
Felba (felpa): stoffa o drappo, e propriamente di seta, simile al velluto, ma con i peli più lunghi e meno
fitti.
41
S.A.S.L., Atti dei notai , serie I, Greci, prot. 2608, ff. 190-193.
Ivi, ff. 349-352.
43
Ivi, Ricca, prot. 2642, ff. 22t-23.
44
Henri e Geneviève BRESC, La casa del « borgese». Materiali per una etnografia storica della Sicilia, in
«Quaderni storici», XI (1976), n. 31, p. 112.
45
ROCHE, Il popolo di Parigi, cit., p. 176.
46
Ivi, p. 174.
47
S.A.S.L, Atti dei notai, serie I, Pacileo, prot. 3714, ff. 170-180.
42
88
Federica Elisabetta Triggiani
di ferro para due; tavole per lettiere numero tredici; piedistalli di legno numero
quattro».48
Il mastro Michele Mucella possiede invece due letti di cui «un letto intiero
con piedistalli di ferro con matarazzo e saccone; una lettiera con piedistalli di
legno».49 Il saccone qui ritrovato è l’unico esemplare presente negli inventari
ed esso poteva servire per diversi scopi: «si metteva forse sotto il materasso per
isolarlo meglio o era un materasso di rinforzo per una lettiera improvvisata?».50
Da questi tre casi concreti si può evincere che la struttura portante del letto
fosse simile in ogni abitazione e cioè si trattava di cavalletti di legno o di ferro su
cui si appoggiavano diverse tavole affiancate l’una alle altre.
La lettiera si differenzia dal letto semplice in quanto è provvista di un’alta
testiera con una cornice massiccia sporgente, tanto da dominare tutta la stanza.
Ma la sua presenza all’interno di questi inventari fa pensare che sia «[…] il termine
tecnicamente e semanticamente pertinente con cui nell’inventario è designata
l’intelaiatura o armatura del letto […]».51
Ma il valore di questo mobile sostenitore è nell’uso di tende e coperte per la
sua decorazione. Nel secolo precedente si era diffuso in Francia un tipo di letto
da parata costituito da un baldacchino non più sostenuto da colonne, ma fissato al
muro, con lunghi e preziosi drappi che ne coprivano la struttura.
Nelle camere del Presidente Belli si ritrovano infatti trabacche, trabacchini52
e cortinaggi53 di tela di persia o damascati con coperte simili ed ormeggi di ferro e
nella camera di Leonardo Mazza il letto appare dotato di «tornaletto54 di portanova
giallo vecchio e cortina bianca di tela e pizzilli; un lettino con padiglioncino di
portanova giallo con ossatura di ferro».55
Dall’analisi effettuata sui vari inventari non risulta in nessuno di essi
la presenza di armadi: al giorno d’oggi non si potrebbe fare a meno di questo
contenitore per tutti i nostri indumenti che è al tempo stesso un importante
arredo per le camere da letto. Sorge spontanea una domanda: famiglie agiate e
meno agiate dove conservavano i loro abiti e le loro biancherie?
L’armadio ha origini antichissime ed ha subìto negli anni numerose
evoluzioni ma, essendo abbastanza ingombrante, nel Settecento viene sostituito
con mobili più contenuti ed aggraziati come il canterano, le casse, i cassoni e i bauli,
tutti adatti a preservare abiti e biancheria dalla polvere e da sguardi indiscreti. La
48
Ivi, Greci, prot. n°2608, ff. 190-193.
Ivi, Pacileo, prot. n°3722, ff. 102-104.
50
BRESC, La casa del « borgese », cit., p. 113.
51
GALASSO, L’altra Europa, cit., p. 297.
52
Trabacca: cortina da letto per baldacchino.
53
Cortinaggio: l’insieme delle tende del letto.
54
Tornaletto: striscia di tessuto destinata ad essere fissata ai letti a scopo decorativo.
55
S.A.S.L., Atti dei notai, serie I, Pacileo, prot. 3722, ff. 102-104.
49
89
Inventari familiari foggiani del Settecento (I parte)
cassa dotale, ad esempio, costituiva il fulcro del corredo che per anni le giovani
donne avevano confezionato: con essa si accedeva alla casa del marito.
Casse, cassette e cassoni si differenziano tra loro principalmente per la
dimensione e forma e per le decorazioni, che variavano a seconda della funzione
da svolgere e dello stato sociale del possessore. Il baule è «il mobile ‘mobile’ per
natura e fa prevalere l’ammucchiamento sulla logica delle cose disposte l’una
sull’altra e in ordine».56 Essi, dove è specificato, appaiono foderati di velluto rosso
o verde o di vacchetta.57
Il loro largo utilizzo è dovuto certamente alla necessità di trasportare
vestiario, fungendo quasi da odierne valigie. Sono spesso dotati di serratura con
chiave in quanto in esse spesso erano custodite anche gioielli ed argenteria.
A volte si ritrovano anche casse piene di grano, di ceri votivi o tavolette di
cioccolata.
Ma analizziamo la loro presenza all’interno delle nostre famiglie.
L’ortolano Angelo Ramundo possiede cinque casse di noce, definite usate,
in cui si possono ritrovare «un cappello novegno, una tovaglia di seta usata, un
paro di schiavette d’oro senza perle».58
Molto più ordinata e differenziata è invece la descrizione di questi mobili
contenitori nelle famiglie aristocratiche.
In casa del dottor Nicola Tortorelli ogni componente della famiglia dispone
del proprio baule per conservarvi tutti gli oggetti personali; sono poi elencati
anche due bauli da viaggio, uno vuoto e l’altro più grande contenente abiti di tutti
i fratelli Tortorelli. Non mancano però anche nella nobile famiglia cassette per
riporre tabacchiere, vari oggettini d’argento e casse d’abete per vari utilizzi.
Il dottor Francesco Barone utilizza «un baullo serrato con chiave in cui
si sono ritrovate le argenterie e gioje»,59 un baule per conservare la biancheria
e un cassone per gli indumenti. Gli esempi potrebbero proseguire numerosi,
ma tutti confermerebbero che le famiglie settecentesche preferivano disporre
di questi contenitori per custodire i propri oggetti personali, carte e ricordi
di famiglia probabilmente perché, in caso d’emergenza, era più semplice lo
spostamento.
L’unica alternativa all’armadio è rappresentata dal canterano, ossia
l’antico cassettone formato da più cassetti sovrapposti. Si diffonde nell’Italia
settentrionale già a partire dal XVI secolo, ma conosce larga diffusione nei due
secoli successivi.
La tabella 2 riporta la presenza di soli undici canterani, di cui non conosciamo
con esattezza il materiale e la forma, benché a volte siano elencati i numeri dei
56
ROCHE, Il popolo di Parigi, cit., p. 199.
Vacchetta: cuoio vaccino.
58
S.A.S.L., Atti dei notai, serie I, Ricca, prot. 2635, ff. 310-311.
59
Ivi, Greci, prot. 2608, ff. 190-193.
57
90
Federica Elisabetta Triggiani
cassetti e la loro grandezza. Il notaio A. Ricca ci descrive così quelli di Francesco
del Prete: «un paio di cantarani con tre tiraturi grandi per ognuno e uno piccolo
al di sopra, nei laterali stipi con robbe, ambedue lavorati e guarniti con le maniche
di metallo».60
Lo stato di conservazione, spesso specificato, dei mobili presenti in questi
atti notarili, rende l’idea di quanto gli uomini siano legati affettivamente agli
oggetti. Nell’80% dei casi alla descrizione del mobile segue l’aggettivo vecchio
o usato, presente non solo nelle abitazioni meno fastose, ma anche in quelle di
una certa importanza. Ecco alcuni esempi: «una boffettola d’abete vecchia, due
stipi di abete vecchi, uno grande e uno piccolo»,61 «un cantarano di noce usato
con cornici negre».62 L’arredo definito nuovo è meno frequente, ma nel caso di
Leonardo Mazza si apprende anche il periodo di acquisto di «due cantarani nuovi
(comprati da pochi giorni)».63
2.4. Mobili speciali
Tutte le case esaminate risultano arredate con mobili standard che
differiscono solo nella qualità e nel disegno, a seconda dei gusti e delle possibilità
economiche.
In alcune famiglie, però, si trovano alcuni mobili più ricercati che, come ci
mostra la tabella 2, sono appannaggio di una cerchia molto ristretta.
Nell’abitazione del capitano Felice Tortorelli sono presenti mobili poco
diffusi negli altri inventari. Ad esempio, in due camere da letto compaiono «un
inginocchiatoio e dentro i tiraturi robe per ripezzare e un appennituro di vestiti»,64
mentre il presidente Antonio Belli è l’unico a vantare «due tavolini che si aprono
da gioco».65
L’infanzia, nella società foggiana di quell’epoca, non sembra essere tenuta
particolarmente in considerazione, sia per quanto riguarda i mobili, che per
i giocattoli. Questa lacuna è stata notata anche da Renata Ago nella Roma del
Seicento, dove non si era «ancora elaborato una cultura materiale che assegni un
posto particolare all’infanzia».66
Le culle elencate sono solo due: una presente nella camera da letto di
Filippo Totta, e «una naca ingessata con estremità indorate per i figlioli dentro la
60
Ivi, Ricca, prot. 2641, ff. 199t-205.
S.A.S.L., Atti dei notai, serie I, Greci, prot. 2610, ff. 119t-123.
62
Ivi, Pacileo, prot. 3714, ff. 170-180.
63
Ibidem.
64
Ivi, Greci, prot. 2609, ff. 258t-262.
65
Ivi, Ricca, prot. 2642, ff. 22t-23.
66
AGO, Il gusto delle cose, cit., pp. 66-67.
61
91
Inventari familiari foggiani del Settecento (I parte)
quale c’è un matarazzetto ed un coscino pieni di lana usata, una cultra piccola»67
appartenuta a Nicola Andrea di Peppo.
Anche il capitano Felice Tortorelli al momento della sua morte lasciava
bambini piccoli, ma l’inventario ci nomina solo un «tamburino per creatura»,68 così
come l’unico esempio di giochi per bambine sono «varie caraffine vuote e casette
da gioco per ragazze»69 utilizzate dalle figlie di Leonardo Mazza.
Attraverso il mobilio è possibile analizzare anche il tipo di vita familiare che
si conduceva, ossia se si svolgevano lavori casalinghi particolari.
Unico esempio di mobile non prettamente domestico ci è fornito dai
documenti relativi ai beni di Giuseppe Mastrogiacomo, il quale, alla sua morte,
possedeva in casa «un bancone con bilancia»70 che egli utilizzava probabilmente
per vendere ciò che produceva la sua vigna.
2.5. La cucina ed i suoi utensili
Come si è già detto nel paragrafo 2.2, nella realtà foggiana del XVIII secolo,
la cucina risultava essere un ambiente presente esclusivamente nelle abitazioni più
grandi.
La tabella 1 ci conferma che essa è menzionata in nove inventari su quindici;
ma anche laddove non è specificata una stanza apposita per cucinare i cibi, tutti gli
inventari studiati riportano utensili da cucina.
Tutti sono, quindi, in grado di cucinare in casa: solo nel caso di Giuseppe
Mastrogiacomo si deduce che egli cucini non nella sua abitazione in città, ma nella
casa posseduta nel «quadrone delle vigne di questa città».71 Ciò che differisce è
il modo di cucinare le pietanze: conoscere il materiale degli utensili e il tipo di
pentole e padelle è fondamentale per poter ipotizzare in che modo si cucinava a
quei tempi.
67
S.A.S.L., Atti dei notai, serie I, Ricca, prot. 2645, ff. 471t-474.
S.A.S.L., Atti dei notai, serie I, Greci, prot. 2609, ff. 258t-262.
69
Ivi, Pacileo, prot. 3714, ff. 170-180.
70
Ivi, Ricca, prot. 2633, ff. 791-793.
71
Ibidem.
68
92
Federica Elisabetta Triggiani
Tab. 4 . Utensili da cucina presenti negli inventari esaminati
UTENSILI
Caldare
Barchiglie
Cacciacarne
Capofuochi
Colatoio
Cioccolatiere
Conche e bacili
Coperchi
Fornello
Frizzole
Graticole
Grattacacio
Mortai
Polsonetti
Schiumarole
Spiedi
Stufarole e pignatte
Tielle
Treppiedi
Trombone
QUANTITÀ
MATERIALE
25
10
2
3
1
7
16
26
1
25
8
8
9
12
3
12
6
35
26
4
rame
—
ferro
ferro
rame
rame
rame
rame
ferro
rame/ferro
ferro
rame
bronzo/pietra
rame
ferro
ferro
—
rame
ferro
stagno/rame
Le caldare sono lo strumento da cucina più diffuso, utilizzato per bollire
l’acqua o preparare il brodo e «[…] che, quando sono grandi, possono servire
anche per fare il bucato o lavare i piatti […]».72 Anche lì dove non è specificata la
presenza di un camino, l’esistenza di attrezzi come spiedi e graticole ne suggerisce
l’esistenza, così come il supporto del treppiedi per poggiarvi le stoviglie.
I restanti tegami, padelle e mortai, testimoniano un modo di cucinare
abbastanza vario: si cuoceva, si friggeva e si bolliva.
L’unico troccolo d’ottone, ritrovato nell’inventario di N. Andrea di Peppo,
testimonia l’usanza di lavorare la pasta in casa, così come il fazzatore e il tavoliere
l’arte di preparare il pane.
Nicola Tortorelli è l’unico a possedere un «fornello di ferro»,73 mentre il
72
73
AGO, Il gusto delle cose, cit., p. 88.
S.A.S.L., Atti dei notai, serie I, Greci, prot. 2610, ff. 119t-123.
93
Inventari familiari foggiani del Settecento (I parte)
capitano Tortorelli ci offre un’approfondita analisi del tipo di cibo cucinato grazie
alle «quattro tielle, una per pizza, una grandetta e l’altra più piccola; una frezzola
grande e due più piccole per le uova».74 La più completa attrezzatura da cucina si
trova nell’inventario di N. Andrea di Peppo, il quale, oltre a utensili più comuni,
possiede «una stufarola di rame usata; un ruoto grande di rame usato; una cocchiara
di rame usata per maccaroni; una cocchiara grande di ferro usata; una cioccolatera
di rame usata; un mortale di marmo con suo pistello di legno usato; un cacciacarne
di ferro usata; due grattacascio di ramiera usate».75
La cioccolatiera, utilizzata solo da poche famiglie di cui si sono analizzati gli
inventari, è uno degli elementi che ci porta a distinguere tra utensili per cibo atto a
soddisfare il fabbisogno giornaliero e quelli per uso di semplice piacere. Il materiale
utilizzato per le stoviglie e i vari attrezzi doveva essere importante se in almeno due
casi si è eseguito il calcolo del peso dell’intero rame da cucina: «caldare, pradelle,
marmitte, stufarole, cioccolatiere, polso netti, braciere, conche, lambicchetto,
coperchi, scaldaletto, il tutto al peso di 120 libbre con ferri annessi»;76 «rame di
buona condizione lavorata per uso cucina, 163 libre e altro rame di inferiore
condizione di 94,5 libre».77
Ma passiamo ad analizzare il vasellame in cui le pietanze dovevano essere
servite, escludendo tutti gli utensili d’argento che saranno esaminati in seguito.
Tabella 5. Vasellame da cucina
OGGETTO
QUANTITÀ
MATERIALE
12
11
8
2
119
6
1
cristallo
vetro
porcellana
Cristallo/porcellana
Porcellana/faenza/stagno
ottone
stagno
Bicchieri
Caraffe
Chicchere
Giare
Piatti
Vasi da scaldare
Zuppiera
La numerosa presenza di piatti non deve tranne in inganno: solo poche
famiglie possiedono un elevato numero di pezzi di porcellana o faenza in cui
servire le pietanze, mentre la maggior parte ne sono prive. Ad esempio, conservati
74
Ivi, prot. 2609, ff. 258t-262.
Ivi, Ricca, prot. 2645, ff. 471t-474.
76
Ivi, Pacileo, prot. 3714, ff. 170-180.
77
Ivi, Ricca, prot. 2642, ff. 22t-23.
75
94
Federica Elisabetta Triggiani
in un apposito stipo, di Peppo possiede «due bicchieri di cristallo senza piedi, due
detti mezzani con piedi, due detti di cristallo senza piedi, due detti di cristallo
senza piedi per uso d’acquavita»,78 così come sono sue dodici caraffe e ben 58 piatti
tra grandi e piccoli. Antonio Belli non sembra utilizzare piatti se non tre tazze
da brodo e un elevato numero di tazzine da caffè e da thé. Così anche le posate,
escluse quelle d’argento, sembrano inesistenti.
Questa carenza era già stata notata anche a Roma nel corso del ‘600: «solo 7
donne su 30 possiedono piatti, scodelle o altro vasellame in cui disporre le vivande
e solo 20 persone in tutto, su più di 70, possiedono coltelli e cucchiai da cucina».79
Un’altra similitudine con il mondo romano di quegli anni è la presenza
negli inventari foggiani di un elevatissimo numero di posate d’argento, possedute
da quasi tutti gli intestatari degli inventari: se ne contano circa 344 tra forchette,
cucchiai, coltelli e cucchiaini da caffè e sorbetto.
Inoltre ci si chiede come si faceva a bere, data la mancanza di bicchieri: forse
nelle tazze o direttamente dalle caraffe?
È difficile pensare che si tratti di una semplice svista dei notai o che essi non
abbiano ritenuto quegli oggetti degni di essere citati.
Eppure queste lacune esistono come testimoniato in Sicilia:
la ceramica d’uso comune viene sacrificata: non sempre sono citate le cannate
de terra che l’archeologia mostra e sa di universale diffusione. I notai fermano la loro attenzione sui piatti, scodelle, salsiere o rinfrescatoi di mursia, cioè
di ceramica pregiata. Non si sa neanche se si usano i poveri bicchieri di corna, frequenti nell’800, e raramente si citano le tafarie, grandi piatti di legno,
eccezionalmente di rame, o i taglieri di legno, grandi e piccoli, o i vernicata,
specie di catini di legno.80
78
Ivi, prot. 2645, ff. 471t-474.
AGO, Il gusto delle cose, cit., p. 91.
80
BRESC, La casa del «borgese», cit., pp. 118-119.
79
95
Inventari familiari foggiani del Settecento (I parte)
(da Salvato, Foggia, cit., cartina XXX)
96
Federica Elisabetta Triggiani
Palazzo Saggese alla fine dell’Ottocento
Pianta del palazzo Saggese. Sezione Archivio di Stato – Lucera. Corte d’Assise, F 79, n. 3,
anno 1888.
97
98
Giacomo Cirsone
La basilica della SS. Trinità di Venosa
dalla Tarda Antichità all’Età Moderna (II parte)
di Giacomo Cirsone
La fase prenormanna (metà X - XI secolo)
Dal Chronicon Cavense, si apprende la notizia, riferita all’anno 942, di Gisulfo, principe di Salerno, il quale su richiesta del proprio congiunto Indulfo, fece
costruire un monastero, presso la chiesa della SS. Trinità di Venosa.1 Sebbene la
testimonianza del Chronicon sia di dubbia attendibilità,2 in quanto potrebbe avere
alla base dei documenti autentici utilizzati nella falsificazione di F. M. Pratilli, essa
sembra però trovare un qualche riscontro a livello archeologico3 [Fig. 1].
Un elemento a supporto di tale fondazione a metà del X secolo, o perlomeno
dell’esistenza di un monastero in tale data, è il rinvenimento all’interno della Trinità di una serie di setti murari, i quali poggiano direttamente sulla pavimentazione
musiva di VI secolo, o sulla preparazione di questa; i muri, eretti in pietre e ciottoli
legati da una malta di colore biancastro, delimitavano una serie di ambienti, con
probabile funzione abitativa, collegati tra loro da passaggi; in alcuni punti i paramenti erano rivestiti con un intonaco recante tracce di decorazione.4 In uno dei
1
Nel Chronicon Cavense si legge: Gisulfus princeps cepit estruere monasterium Sanctae Trinitatis in Venusiu ad preces Indulfi comitis, consanguinei sui, qui postea factus est ibi monachus (cfr. Hubert HOUBEN, Il monachesimo in Basilicata dalle origini al secolo XX, in Giovanni LUNARDI, Hubert HOUBEN, Giovanni SPINELLI
(a cura di), Monasticon Italiae. III. Puglia e Basilicata, Cesena, Abbazia di Santa Maria del Monte, 1986a, p.
202). La critica definisce il passo come una falsificazione settecentesca operata dal Pratilli (cfr. anche Louis
Robert MÉNAGER, Les fondations monastiques de Robert Guiscard, Duc de Pouille et de Calabre, in «Quellen
und Forschungen aus Italienischen Archiven und Bibliotheken», XXXIX, 1959, p. 36; Geremia Dario MEZZINA, Radiografia di un monumento: la chiesa della SS. Trinità in Venosa, Bari, Simone, 1977, p. 33).
2
Cfr. MÉNAGER 1959, p. 36; HOUBEN 1986a, p. 202.
3
Cfr. MÉNAGER 1959, p. 36; Hubert HOUBEN, Il ‘libro del capitolo’ del monastero della SS. Trinità di Venosa (Cod. Casin. 334): una testimonianza del Mezzogiorno normanno, Galatina, Congedo, 1984, p. 22.
4
Cfr. Mariarosaria SALVATORE, Il restauro architettonico e l’archeologia: Venosa, SS. Trinità, in Luigi
BUBBICO, Francesco CAPUTO, Attilio MAURANO (a cura di), Monasteri italogreci e benedettini in Basilicata,
Matera, La Tipografica, 1996, I, p. 46; Mariarosaria SALVATORE, Appendice. Il complesso episcopale della SS.
Trinità: un esempio di stratificazione urbana tra tardoantico e altomedioevo, in Maria Luisa MARCHI, Mariarosaria SALVATORE, Venosa. Forma e Urbanistica (Le città antiche in Italia, 5), Roma, L’Erma di Bretschneider, 1997b, p. 151.
99
La basilica della SS. Trinità di Venosa dalla Tarda Antichità all’Età Moderna (II parte)
Figura 1. SS. Trinità. Elaborazione eseguita con il programma Autocad 2007 delle strutture
della SS. Trinità: in verde le strutture della fase longobarda (VII - X secolo); in blu invece le
strutture pertinenti alla fase prenormanna (metà X - XI secolo), con gli ambienti ricavati nella navata centrale, il cantiere per la fusione per campana, e la torre di facciata (campanile?),
nell’angolo SE della chiesa (elaborazione Cad G. CIRSONE).
muri è stato reimpiegato un frammento di capitello angolare marmoreo, scolpito
con una testina umana tra volute ed elementi vegetali, datato tra il X e l’XI secolo.5
Questi ambienti potrebbero essere interpretati come cellae, destinate ad alloggiare
un numero limitato di monaci6 [Fig. 4].
Sul mosaico paleocristiano si riscontrano fasi di occupazione e di frequentazione caratterizzate da lenti di cenere, e lacune nella pavimentazione parzialmente
restaurate con laterizi interi o frammentari, resti organici e sassi.7 La schola canto-
5
Cfr. SALVATORE 1997b, in MARCHI, SALVATORE 1997, pp. 151-152.
Forse il numero di monaci che è possibile immaginare risiedessero in questi ambienti, è quello di venti,
pari al numero di religiosi presenti nel cenobio all’arrivo dell’abate Berengario alla fine dell’XI secolo (cfr.
HOUBEN 1986b, p. 27; Hubert HOUBEN, Le istituzioni monastiche italo-greche e benedettine, in Cosimo Damiano FONSECA, Gioia BERTELLI (a cura di), 2. Il Medioevo, Roma 2006, in Storia della Basilicata [= Gabriele
DE ROSA, Antonio CESTARO (a cura di), Storia della Basilicata, 4 voll., Roma-Bari, Laterza, 1999-2006], p.
367). Sulla relazione degli ambienti con il monastero, cfr. Mariarosaria SALVATORE, Venosa, SS. Trinità-Incompiuta, in Itinerari del Sacro in Terra Lucana, in «Basilicata Regione Notizie», Anno 1999 (n. 2), XXIV, 92,
Potenza, Regione Basilicata, 1999b, p. 132; Corrado BOZZONI, Edilizia religiosa e civile dall’Alto Medioevo
ai Normanni, in Cosimo Damiano FONSECA, Gioia BERTELLI (a cura di), 2. Il Medioevo, Roma 2006, in Storia
della Basilicata (vedi), pp. 567-568.
7
Cfr. SALVATORE 1996, p. 46; SALVATORE 1997b, in MARCHI, SALVATORE 1997, pp. 151-152; SALVATORE 1999b,
p. 132.
6
100
Giacomo Cirsone
rum viene dismessa, non essendo più
funzionale per la liturgia, e la parte
anteriore del recinto viene tagliata
dai muri degli ambienti dei quali si è
accennato; rimangono però in uso e
praticabili la cripta a corridoio, una
parte limitata del settore W della navata centrale e le navate laterali (in
queste ultime è ancora in situ la pavimentazione in opus spicatum).8
Nell’angolo SE della chiesa,
in appoggio alla facciata paleocristiana, viene edificata una torre,
forse un campanile, in asse con la
porta della navata laterale destra;
questa struttura, poi rasata fino
alla quota del successivo piano pavimentale medievale del prolungamento della navata destra, si appoggia al nucleo longobardo della Figura 2. SS. Trinità. Strutture della torre di
Foresteria9 [Figg. 1, 2].
facciata dell’angolo SE della chiesa: si notano le
Connesso con l’edificazione murature rasate alla medesima quota ed oblidella torre di facciata è l’impianto di terate dalle strutture del prolungamento delle
una serie di strutture per la lavora- navate destra e centrale (foto G. CIRSONE).
zione del metallo; tra queste, la più
importante è un cantiere per la fusione di una campana, realizzato tagliando i
piani di calpestio degli ambienti sopra descritti; nella navata centrale sono state
individuate due grandi fosse, databili entrambe all’XI secolo,10 in una delle qua-
8
In questo stato di cose, l’ordinaria attività liturgica doveva essere notevolmente ridimensionata, tanto più
se si considera che gli ambienti costruiti sulla pavimentazione musiva tardoantica dovevano rappresentare un
ingombro a livello visivo, che impediva di vedere l’abside e la zona dell’altare.
9
Cfr. Mariarosaria SALVATORE, Trinità: il complesso paleocristiano, in Mariarosaria SALVATORE (a cura di),
Venosa: un parco archeologico e un museo. Come e perché, Taranto, Scorpione, 1984b, p. 76; SALVATORE 1996,
p. 46, nota 9; SALVATORE 1999b, p. 133; Rosa VILLANI, Età angioina. XIV secolo. La chiesa della SS. Trinità
a Venosa, in Pittura murale in Basilicata. Dal Tardo Antico alla prima metà del ‘500, Potenza, Consiglio
Regionale della Basilicata, 1999, p. 50.
10
M. Salvatore menziona il rinvenimento di due follari bizantini di XI secolo, ma la sua ipotesi di datazione
arriva fino al XII (cfr. SALVATORE 1997b, in MARCHI, SALVATORE 1997, p. 152, nota 11). In questa sede si ritiene
più plausibile il primo termine cronologico, in quanto è proprio nell’XI secolo che si pone mano alla stesura
di una nuova pavimentazione in tutta la chiesa, con la conseguente obliterazione sia del cantiere per la fusione
di campana, sia dei setti murari (cfr. infra). Sulla forma per campana, cfr. anche Angelo BOTTINI, L’attività
archeologica in Basilicata - 1989, in La Magna Grecia e il lontano Occidente, Atti del XXIX Convegno di
Studi sulla Magna Grecia (Taranto, 6-11 ottobre 1989), Taranto, Istituto per la Storia e l’Archelogia della
Magna Grecia, 1990, p. 569.
101
La basilica della SS. Trinità di Venosa dalla Tarda Antichità all’Età Moderna (II parte)
li è stato rinvenuto in situ il ‘maschio’, di forma troncoconica, ovvero l’anima
in argilla refrattaria sulla quale viene poi effettuata la colatura del metallo fuso;
questa struttura, che si allarga alla base con un anello in terra refrattaria, poggia
al di sopra di una fornace in mattoni.11 Alla base di questa struttura sono stati
rinvenuti i frammenti del mantello o ‘femmina’, la controforma esterna spaccata
per estrarne la campana dopo la fusione12 [Fig. 3].
Figura 3. SS. Trinità. Cantiere per la fusione di una campana: sono visibili il ‘maschio’ in argilla
refrattaria, che poggia su una fornace in mattoni, dotata di canale di alimentazione; il cantiere
si impianta all’interno di una fossa che taglia le strutture d’età romana (foto G. CIRSONE).
Sul fondo della fossa contenente il maschio, che taglia le preesistenti strutture
romane, si trovano due fornaci realizzate sul terreno vergine, costituite da due muretti
paralleli legati da argilla, utilizzate per la cottura della forma e del mantello13 [Fig. 4].
11
Cfr. SALVATORE 1997b, in MARCHI, SALVATORE 1997, p. 153. Sulla superficie del ‘maschio’ sono visibili
tracce di bronzo infiltratesi durante la colatura.
12
Cfr. SALVATORE 1997b, in MARCHI, SALVATORE 1997, p. 153.
13
Cfr. SALVATORE 1997b, in MARCHI, SALVATORE 1997, p. 153. I confronti si individuano ancora una volta
in area daunia a Canosa di Puglia, dove nel Battistero di San Giovanni, all’interno e nell’area della vasca battesimale sono state indagate due fosse per la fusione di campane, databili la più antica al XII e la seconda tra
la seconda metà del XII ed il XIII secolo, messe in relazione con l’attività di Rogerius Melfie Campanarum,
operante nella città agli inizi del XII secolo (cfr. Enrico GIANNICHEDDA et alii, Attività fusoria medievale a
Canosa (BA), in «Archeologia Medievale», XXXII, 2005, Firenze, CLUSF, 2005, pp. 159-163, 167-169). Altri
confronti sono in citum, p. 157, nota 2, con bibliografia relativa.
102
Giacomo Cirsone
Associate al cantiere
per campana sono anche alcune strutture secondarie; intorno alla fossa contenente la
forma per campana è stato indagato un focolare dalla forma allungata, realizzato con
laterizi con tracce di esposizione ad elevate temperature, e residui di bronzo sulla
superficie; l’area del focolare
è stata poi obliterata da uno
strato di argilla.14
Nei pressi del focolare si collocano due fossette
Figura 4. SS. Trinità. Area interessata dall’impianto del
emisferiche, del diametro cantiere per la fusione di una campana, nella navata cendi 45-50 cm, sul fondo delle trale della chiesa, al momento dello scavo. Sono visibili
quali è stato rinvenuto uno anche i setti murari attribuibili a vani abitativi (cellae?),
strato di metallo, forse piom- edificati alla quota del mosaico paleocristiano o sulla sua
preparazione (da MARCHI, SALVATORE 1997).
bo, obliterato da riempimenti di cenere, carbone e scorie
di bronzo; queste due fosse sono interpretabili come crogiuoli per la fusione del
bronzo, o comunque connesse con la lavorazione del metallo.15
Il rinvenimento della forma per campane e delle strutture del cantiere ci fornisce informazioni sul processo produttivo, e trova una conferma nel De campanis
fundendis, un trattato scritto nel XII secolo da Teofilo.16 Il rinvenimento di due
14
Cfr. SALVATORE 1997b, in MARCHI, SALVATORE 1997, p. 152
Impianti artigianali per la lavorazione del metallo, ferro in particolare, sono attestati anche nelle domus
in rovina nell’area del Parco Archeologico, per le quali cfr. Mariarosaria SALVATORE, Venosa tra tardoantico e
altomedioevo, tra destrutturazione e riorganizzazione urbana, in Mariarosaria SALVATORE (a cura di), Il Museo Archeologico Nazionale di Venosa, Matera, IEM, 1991a, p. 59. Cfr. SALVATORE 1997b, in MARCHI, SALVATORE 1997, p. 152. Simili strutture sono state rinvenute nel sito di Faragola, dove tra VII e IX secolo si insedia
sui resti della villa tardoantica, un villaggio altomedievale nel quale si installano impianti per la lavorazione
del ferro e del bronzo (cfr. Giuliano VOLPE et alii, Faragola (Ascoli Satriano). Una residenza aristocratica
tardoantica e un ‘villaggio’ altomedievale nella valle del Carapelle: primi dati, in «Insulae Diomedeae», IV,
Foggia, Simone, 2005, p. 282). La presenza di grumi di ferro in un ambiente della domus tardoantica indagata
nell’area del complesso di San Pietro a Canosa di Puglia, ha indotto a ipotizzare anche per questo sito la presenza di una fonderia tra VII ed VIII secolo (cfr. Giuliano VOLPE et alii, Il complesso sabiniano di San Pietro
a Canosa, in Rosa Maria BONACASA, Emma VITALE (a cura di), La cristianizzazione in Italia fra Tardoantico
e Altomedioevo, Atti del IX Congresso Nazionale di Archeologia Cristiana (Agrigento, 20-25 novembre
2004), II, Palermo, C. Saladino Ed., 2007, p. 1130).
16
Cfr. SALVATORE 1997b, in MARCHI, SALVATORE 1997, p. 153.
15
103
La basilica della SS. Trinità di Venosa dalla Tarda Antichità all’Età Moderna (II parte)
fosse per campana anche a Canosa di Puglia,17 e la presenza di un artigiano lucano,
Rogerius Melfie Campanarum, che firma le porte bronzee della cattedrale canosina,
lasciano ipotizzare anche per Venosa la presenza di maestranze itineranti specializzate nella produzione di questo tipo di manufatti, al servizio dei poteri locali.18
Tutte queste strutture, conclusa la fase di lavorazione, furono in seguito
obliterate da un battuto in calce, che aveva la funzione di riportare i piani di calpestio alla quota della preparazione del mosaico paleocristiano.19
In questa fase continua anche l’uso funerario con l’impianto di una tomba a
fossa, la tomba 24, che taglia il mosaico paleocristiano, databile su base stratigrafica tra
il X e l’XI secolo; da questa sepoltura proviene una coppia di orecchini in bronzo.20
La fase normanna (seconda metà XI – fine XII secolo)
L’arrivo dei Normanni nell’Italia meridionale ridisegna gli equilibri tra i vari
Stati che si contendevano il controllo del territorio; da una parte i Longobardi di
Salerno, Benevento e Capua, dall’altra i Bizantini che ancora detenevano il potere
sul catapanato di Puglia; su entrambi incombeva inoltre l’incubo delle scorrerie
saracene.21 Il conferimento a Guglielmo ‘Bracciodiferro’, nel 1043, della contea di
Melfi, formalmente ancora longobarda, segna il definitivo insediamento dei Normanni nel Meridione, e l’inizio di una veloce espansione territoriale, fatta di un’accorta politica di alleanze sia con il Papato che con i Longobardi, e di prove di forza
sui campi di battaglia.22
A Guglielmo successero in breve tempo Drogone nel 1046,23 ed Umfredo
nel 1051;24 proprio questi ultimi due duchi normanni sono importanti ai fini di
quanto trattato; è con essi infatti che si possono far iniziare i lavori di ampliamento
e rifacimento della SS. Trinità, la quale, sotto Roberto il Guiscardo, nominato a
Melfi duca di Puglia, Calabria e Sicilia nel 1059 da Niccolò II, divenne il mausoleo
della prima generazione degli Altavilla.25
17
Cfr. supra, nota 13.
Cfr. GIANNICHEDDA et alii 2005, p. 169.
19
Cfr. SALVATORE 1996, p. 46.
20
Cfr. Mariarosaria SALVATORE, Le sepolture, in Mariarosaria SALVATORE (a cura di), Il Museo Archeologico
Nazionale di Venosa, Matera, IEM, 1991c, p. 292.
21
Cfr. Federico BOENZI, Raffaele GIURA LONGO, La Basilicata. I tempi, gli uomini, l’ambiente, Molfetta
1994, p. 97.
22
Cfr. BOENZI, GIURA LONGO 1994, p. 98.
23
Cfr. MÉNAGER 1959, pp. 36-40.
24
Cfr. MÉNAGER 1959, pp. 40-41.
25
Cfr. MÉNAGER 1959, p. 37; SALVATORE 1984b, p. 78; BOENZI, GIURA LONGO 1994, pp. 98-99; SALVATORE
1997b, in MARCHI, SALVATORE 1997, p. 154. Sulle tombe normanne nella SS. Trinità, cfr. HOUBEN 1984, pp. 3133; HOUBEN 1986b, pp. 25-27; sul Concilio di Melfi, cfr. Johannes Dominicus MANSI, Sacrorum Conciliorum
Nova et Amplissima Collectio, tomo XIX, Graz 1960, coll. 919-920.
18
104
Giacomo Cirsone
L’importanza assunta dalla SS. Trinità, che in un documento del 1053 risulta
essere foras muros civitatis Venusie, ma comunque prope muros,26 si esplica con
la trasformazione da cattedrale in abbaziale nel 1059, alla presenza di Niccolò II.27
L’abbazia della SS. Trinità conoscerà da ora in poi un periodo di grande prosperità, favorita dall’azione dei suoi abati e dal favore accordato dai Normanni,
divenendo una delle abbazie più potenti e ricche di tutta l’Italia meridionale.28
Figura 5. SS. Trinità. Elaborazione eseguita in Autocad 2007 delle strutture della SS. Trinità:
in verde la fase longobarda (VII-X secolo); in viola le strutture inedite pertinenti alla fase
normanna (metà XI-XII secolo) (elaborazione Cad G. CIRSONE).
Secondo i documenti,29 Drogone, avendo ottenuto Venosa nella spartizione delle terre meridionali nel 1042, promosse dei lavori di restauro della chiesa
26
Cfr. MÉNAGER 1959, p. 37, nota 63, che riporta un frammento di un atto di Umfredo in cui si menziona
il monasterium S. Trinitatis foris muros civitatis Venusine quod noster germanus, dominus Drogo comes comitum et dux ducum, constituere fecit; cfr. anche SALVATORE 1991a, p. 58.
27
Sullo spostamento della cattedrale al capo opposto della città di Venosa, cfr. supra. Riguardo la consacrazione si legge in un documento del 1059 che Nicolaus II sollemniter dedicat monasterium S. Trinitatis
exstructum a Drogone comite, restaurari coeptum ab Ingilberto abbatem ad eiusdem et Morandi episcopi
Venusini preces XVI Kal. Sept. (cfr. KEHR 1962, IX, p. 492).
28
Cfr. SALVATORE 1984b, p. 76; SALVATORE 1991a, p. 62; SALVATORE 1997b, in MARCHI, SALVATORE 1997, pp. 153-154.
29
In una bolla di Niccolò II del 1059, si legge infatti monasterium sancte Trinitatis de veteri civitate Venusia labore estructum a Dregone comite, restaurari ceptum; si deduce quindi la preesistenza del monastero, per
il quale occorreva una fondazione ex novo o una rifondazione (cfr. Paulus Fridolinus KEHR, Samnium, Apulia, Lucania, in Italia Pontificia [=Paulus Fridolinus KEHR, Italia Pontificia, sive, Repertorium privilegiorum
et litterarum a Romanis pontificibus ante annum MCLXXXXVIII Italiae ecclesiis monasteriis civitatibus
singulisque personis concessorum, Berolini 1906-1975], Berolini, apud Weidmannos, 1962, IX, p. 492; cfr.
SALVATORE 1996, p. 47).
105
La basilica della SS. Trinità di Venosa dalla Tarda Antichità all’Età Moderna (II parte)
e del monastero, condotti a
termine alla sua morte nel
1051, dall’abate Ingilberto
(1046/51-1066).30 È probabile
che ai lavori commissionati da
Drogone si possano attribuire
buona parte delle strutture che
si rinvengono in cresta ancor
oggi sul piazzale antistante la
chiesa31 [Fig. 5].
La facciata paleocristiana, mantenuta nella sua integrità strutturale per tutta l’età
longobarda, viene parzialmente demolita in corrispondenza
della navata centrale e di quella
Figura 6. SS. Trinità. Restituzione grafica dei resti di destra, che vengono prolungapavimentazione in opus tessellatum, rinvenuti nella na- te per una lunghezza di due
vata sinistra (da SALVATORE 1996b).
campate; lo spazio così creatosi viene scandito dalla posa in
opera di un nuovo pilastro in muratura, in asse con quelli dell’età paleocristiana.32
Il prolungamento delle navate comporta anche l’abbattimento e l’obliterazione della preesistente torre di facciata, evento databile quindi intorno alla metà
dell’XI secolo.
L’interno della chiesa viene modificato: i setti murari, attribuibili alla fase prenormanna, vengono rasati alla medesima quota ed obliterati da un battuto di calce,
datato da una moneta di Enrico II (1046-1056).33 Il piano pavimentale viene rialzato
di circa 60 cm rispetto alla quota paleocristiana, e si assiste alla posa in opera di un
30
Cfr. SALVATORE 1984b, p. 76. Ingilberto non è più attestato dopo il 1066, anno probabile della sua morte,
per cui i lavori possono essere stati divisi in due tranches, tra il 1046 ed il 1051 per iniziativa di Drogone, e tra
il 1051 ed il 1066 sotto il governo abaziale di Ingilberto (cfr. VILLANI 1999, p. 49, nota 1). Su Ingilberto, cfr.
HOUBEN 1984, pp. 27-29; HOUBEN 1986b, pp. 24-27).
31
Cfr. infra; SALVATORE 1991a, p. 62. Le strutture riportate nella Fig. 5 non sembrano essere state sottoposte
ad indagini archeologiche, tanto più che negli archivi del Centro Operativo Misto della Sovrintendenza Archeologica per la Basilicata, non si è trovata alcuna traccia di rilievi o piante di queste strutture, che pertanto
risultano essere inedite e si presentano qui per la prima volta. I rilievi di tali strutture sono stati effettuati in
collaborazione con i Dott. Raffaele Fanelli e Paolo Maulucci, specializzandi in archeologia presso l’Università di Foggia, che qui si ringraziano.
32
Cfr. SALVATORE 1984b, p. 76; SALVATORE 1997b, in MARCHI, SALVATORE 1997, p. 153. In entrambe queste
pubblicazioni si fa riferimento al prolungamento della sola navata centrale, ma dai sopralluoghi compiuti a
seguito dei rilievi, risultano rapporti stratigrafici tra le murature ancora in elevato che smentiscono questa
affermazione (cfr. infra).
33
Cfr. SALVATORE 1991a, p. 62.
106
Giacomo Cirsone
Figura 7. SS. Trinità. Particolari della pavimentazione in opus tessellatum, rinvenuta nella
navata sinistra, recanti motivi geometrici; in alto: motivo con elementi che formano cerchi
crocesignati; motivo a quadrati disposti diagonalmente; in basso: motivo a quadrati con vertici tangenti divisi in quattro quadrati più piccoli a colori alternati; motivo a rombi con quadrati inscritti diagonalmente (foto G. CIRSONE).
nuovo pavimento in opus tessellatum, che si compone di vari pannelli accostati, con
motivi geometrici recanti quadrati collegati per i vertici (ciascuno all’interno diviso
in quattro quadrati di colore diverso), rombi con quadrati inscritti diagonalmente, o
quattro quadrati disposti a formare cerchi crocesignati.34 I colori utilizzati sono il bian34
Sul pavimento in opus tessellatum, cfr. SALVATORE 1984b, p. 76; SALVATORE 1996, p. 50, nota 28; Mariarosaria SALVATORE, I mosaici nell’area del complesso episcopale della SS. Trinità a Venosa, in Atti del IV
Colloquio dell’Associazione Italiana per lo Studio e la Conservazione del Mosaico (Palermo, 9-13 dicembre
1996), Ravenna, Edizioni del Girasole, 1997, pp. 481-482. Per i confronti, tutti di ambito pugliese, databili tra
il X-XI secolo ed il XII, cfr. Gioia BERTELLI, Rivestimenti pavimentali in Puglia nell’alto Medioevo, in Carolina GELAO (a cura di), Studi in onore di Michele D’Elia. Archeologia, Arte, Restauro e Tutela, Archivistica,
Matera, IEM, 1996, pp. 75-84. Ad oggi l’esempio più antico di tessellatum con motivo recante quadrati che
formano cerchi crocesignati, è quello che si trova nel cortile centrale dell’atrio sabiniano, nel complesso di
San Giovanni a Canosa di Puglia (cfr. Roberta GIULIANI, Danilo LEONE, Indagini archeologiche nell’area di
Piano San Giovanni a Canosa: il complesso paleocristiano e le trasformazioni altomedievali, in «Vetera
Christianorum», XLII, 2005, Bari, Edipuglia, 2005, p. 158; Marisa CORRENTE et alii, Edilizia paleocristiana
nell’area di Piano San Giovanni a Canosa di Puglia, in Rosa Maria BONACASA CARRA, Emma VITALE (a cura
di), La cristianizzazione in Italia fra Tardoantico e Altomedioevo, Atti del IX Congresso Nazionale di Archeologia Cristiana (Agrigento, 20-25 novembre 2004), II, Palermo, C. Saladino Ed., 2007, pp. 87-91).
107
La basilica della SS. Trinità di Venosa dalla Tarda Antichità all’Età Moderna (II parte)
co crema, il rosso, l’ocra,
il verde oliva ed il grigio,
per ottenere i quali sono
stati utilizzati materiali
lapidei naturali reperiti in
loco35 [Figg. 6-7].
Il passaggio tra le
navate laterali e quella
centrale viene marcato
con la posa in opera di
Figura 8. SS. Trinità. Esterno della chiesa, con le strutture di basoli negli interassi dei
fondazione della torre di facciata in asse con la navata sinistra pilastri.36
dell’edificio (foto G. CIRSONE).
Passando a descrivere le strutture rinvenute nell’area esterna antistante la chiesa,
si deve anzitutto porre in rilievo la presenza
di una seconda torre di facciata, collocata
perfettamente in asse con l’ingresso alla navata sinistra dell’edificio; questa torre, che
è stata indagata archeologicamente, si individua in fondazione nell’angolo NW della
chiesa [Fig. 8].
I sopralluoghi effettuati per i rilievi
delle strutture hanno posto in evidenza un
rapporto di appoggio delle murature della
torre rispetto a quelle del prolungamento
delle navate centrale e sinistra; questo particolare indica che la torre fu costruita rispettando il preesistente muro N del prolungamento, ma sempre nel corso dell’XI secolo
come indicano cinque follari bizantini rinvenuti nel terreno di riempimento della torre37 [Fig. 9].
Figura 9. SS. Trinità. Fondazioni del
muro E della torre di facciata in asse
con la navata sinistra; nella fotografia
si nota il rapporto di appoggio tra le
murature della torre e quelle del prolungamento delle navate centrale e destra (foto G. CIRSONE).
35
Rispettivamente pietra calcarea per il bianco, selce per il verde oliva, carparo (lo strato più superficiale
dei banchi di calcarenite, detta localmente ‘tufo’ o ‘cappellaccio’) per il grigio; per il rosso e l’ocra si utilizzano invece i mattoni in cotto, tanto abbondanti nella zona circostante la chiesa, oltre ai mattoncini che componevano il pavimento paleocristiano in spicatum delle navate laterali (cfr. SALVATORE 1997a, p. 482).
36
Cfr. SALVATORE 1984b, p. 78. M. Salvatore menziona anche la presenza di un pavimento in opus spicatum,
in mattoncini di cotto, anch’esso delimitato da una cornice di basoli, e per il quale la studiosa pone un rapporto di contemporaneità con il tessellatum (cfr. citum, p. 78).
37
Cfr. SALVATORE 1996, p. 46, nota 9.
108
Giacomo Cirsone
Lo spazio interno della torre è scandito da una
serie di massicci pilastri angolari, che danno al vano una
forma a croce greca; il lato E
dell’ambiente presenta una
particolarità costruttiva, con
un contrafforte che originariamente doveva sostenere
una scalinata (profferlo),
ipotesi avvalorata dalla presenza di una porta con stipiti
in blocchi di pietra squadrati
Figura 10. SS. Trinità. Lato E della torre di facciata: si no[Fig. 10].
La presenza di una tano il contrafforte di sostegno per la scalinata (profferlo),
e la porta con gli stipiti in pietra; sullo sfondo in secondo
buca pontaia induce a pen- piano, il moderno portone di legno che chiude l’ingresso
sare che l’ambiente fosse in alla navata sinistra della chiesa (foto G. CIRSONE).
qualche modo praticabile, e
coperto da un travatura associata ad un tavolato ligneo, che fungeva da pavimento
per il livello superiore; un elemento a
favore di questa ipotesi è la presenza
di una soglia marmorea sul lato W
della torre, quasi alla quota dell’attuale piano di campagna, e di una risega,
che corre lungo tutto il perimetro interno dell’ambiente38 [Fig. 11].
Ad W della torre si individua
una muratura di orientamento N-S,
parallela ad un’altra muratura di pari
orientamento ma di lunghezza magFigura 11. SS. Trinità. Lato W della torre di giore; queste due murature, che dai
facciata: si notano la soglia marmorea dell’ingresso, posta quasi alla quota dell’attuale pia- rapporti stratigrafici murari si appogno di campagna, e la risega, particolarmente giano all’avancorpo che contiene la
visibile sui pilastri angolari (foto G. CIRSONE).
scala della Foresteria,39 costituiscono
38
Questa torre è l’unica delle strutture esterne ad essere edita in bibliografia, comparendo su un numero
limitato di piante edite, per le quali cfr. SALVATORE 1996, p. 44, fig. B, dove viene attribuita alla fase altomedievale (X-XI secolo); SALVATORE 1997b, in MARCHI, SALVATORE 1997, p. 154, fig. 179B, in cui la torre è datata
all’altomedioevo, tra X e XI secolo (per un errore di stampa l’immagine risulta rovesciata); BOZZONI 2006,
p. 568, fig. 1B, dove si notano i rapporti di posteriorità della torre rispetto al prolungamento delle navate
centrale e destra, ma non se ne indica la datazione.
39
Cfr. infra.
109
La basilica della SS. Trinità di Venosa dalla Tarda Antichità all’Età Moderna (II parte)
Figura 12. SS. Trinità. Strutture della cappella annessa all’edificio di culto: in primo piano il presbiterio,
con il muro curvilineo ed il muro di divisione dell’aula liturgica (foto G. CIRSONE).
al muro absidato, potrebbe essere interpretato come un vano di servizio, forse una sacrestia, o comunque un vano connesso con
le funzioni liturgiche41 [Figg. 12-13].
La presenza di un blocco lapideo collocato a ridosso della parte centrale del muro
W della cappella, potrebbe essere l’indizio
di un probabile ingresso all’aula di culto.
Tra la cappella e la parte longobarda
della Foresteria, viene edificato una sorta
di avancorpo monumentale, oggi definito
atrio, che comprende anche una scala che
conduce al piano superiore della Foresteria. Secondo un’ipotesi di I. Herklotz,42
questo avancorpo, la cui costruzione an-
i due muri perimetrali di quella
che sembrerebbe potersi ritenere una cappella a navata unica,40
delimitata sul lato N da una muratura ad andamento curvilineo,
da interpretare come muro absidale; la zona presbiterale doveva
essere separata dal resto dell’aula
liturgica (quadratum populi) da
un muro di orientamento E-W,
all’estremità E del quale un’apertura dava accesso alla zona absidale e ad un piccolo vano quadrangolare. Quest’ultimo, i cui
muri si appoggiano alla torre ed
Figura 13. SS. Trinità. Angolo NW: 1.
Cappella (quadratum populi); 2. Zona
absidale; 3. Vano di servizio (sacrestia?);
4. Torre di facciata prenormanna (elaborazione Cad G. CIRSONE).
40
Sulla scorta di Richard KRAUTHEIMER, Architettura paleocristiana e bizantina, Torino, Einaudi, 1986, si
potrebbe avanzare l’ipotesi che si tratti di un παρεκκλησιον, ovvero una ‘cappella addossata a un fianco di
una chiesa, al nartece, o a entrambi’ (cfr. KRAUTHEIMER 1986, p. 497).
41
La presenza di una cappella presso edifici ecclesiastici di grandi dimensioni, non è insolita, essendo
attestata in Capitanata, in un altro contesto d’età normanna, a Montecorvino (FG), dove ritroviamo una
cappella costruita sul fianco della cattedrale (si ringrazia per la notizia il Dott. Marco Maruotti, specializzando in archeologia presso l’Università di Foggia); delle indagini condotte negli ultimi anni a Montecorvino
dall’Università di Foggia, è stata data comunicazione nel V Congresso Nazionale di Archeologia Medievale,
tenutosi a Manfredonia (FG).
42
Cfr. Ingo HERKLOTZ, Die Sogennante Foresteria der Abteikirche zu Venosa, in Cosimo Damiano FONSECA (a cura di), Roberto il Guiscardo tra Europa, Oriente e Mezzogiorno, Atti del Convegno di Studio
promosso dall’Università degli Studi della Basilicata in occasione del IX centenario della morte di Roberto il
Guiscardo (Potenza, Melfi, Venosa, 19-23 ottobre 1985), Galatina, Congedo, 1990, pp. 257-258.
110
Giacomo Cirsone
drebbe collocata sotto il regime abbaziale di Berengario
(1066-1096), monaco proveniente dal monastero francese
di Saint-Evroul-sur-Houche,43
avrebbe costituito per un certo
periodo la facciata monumentale della chiesa, articolata su
due livelli, con il piano terra in
cui si aprivano tre archi, ed il
piano superiore sistemato con
un loggiato ad archetti ciechi;
per la costruzione del loggiato furono reimpiegati alcuni
pezzi scultorei d’età romana,
insieme a due blocchi recanti figure antropomorfe, forse
angeli44 [Figg. 14-15].
Figura 14. SS. Trinità. Particolare con il piano superiore
sistemato con un loggiato ad archetti; si noti il reimpiego di pezzi scultorei d’età romana (foto G. CIRSONE).
Figura 15. Schema ricostruttivo della facciata monumentale
dell’avancorpo. Sono visibili i due
livelli, con il piano terra ad archi,
ed il piano superiore sistemato a
loggiato con archetti ciechi; Herklotz ipotizza che la facciata non sia
stata portata a termine, o che in
alternativa sia stata tagliata in un
secondo momento (da HERKLOTZ
1990).
43
Cfr. su Berengario, MÉNAGER 1959, pp. 44-47; KEHR 1962, IX, p. 493; Pier Paolo PAOLINI, Venosa: la SS.
Trinità e il battistero, in Studi Lucani, Atti del II Convegno Nazionale di Storiografia Lucana (Montalbano
Ionico, Matera, 10-14 settembre 1970), Galatina, Congedo, 1976, p. 325; Corrado BOZZONI, Saggi di architettura medievale. La Trinità di Venosa. Il Duomo di Atri, Roma, Istituto di Fondamenti dell’Architettura,
1979, pp. 16-17; HOUBEN 1984, pp. 29-31; HOUBEN 1986a, p. 202; Hubert HOUBEN, Una grande abbazia nel
Mezzogiorno medioevale: la SS. Trinità di Venosa, in «Bollettino Storico della Basilicata», 2, 1986, Roma,
Edizioni di Storia e Letteratura, 1986, p. 27; HOUBEN 2006, p. 367.
44
Cfr. Corrado BOZZONI, Considerazioni sulla costruzione della chiesa della SS. Trinità di Venosa, in «Bollettino del Centro Studi per la Storia dell’Architettura», Roma, Centro Studi per la Storia dell’Architettura,
1976, p. 98. Si segnalano in particolare una base votiva, reimpiegata per sostenere uno degli archetti, e la
cornice marcapiano resa con triglifi e metope di spoglio.
111
La basilica della SS. Trinità di Venosa dalla Tarda Antichità all’Età Moderna (II parte)
Figura 16. SS. Trinità. Particolare della scala che
conduce alla Foresteria; sulla sinistra si vede parte del loggiato ad archetti (foto G. CIRSONE).
La facciata ad archi dell’avancorpo o atrio, viene in un secondo
momento parzialmente obliterata dalla costruzione della scala che
conduce al piano superiore della
Foresteria, probabilmente nel decennio 1070-108045 [Fig. 16].
A NW della cappella, in prossimità dell’attuale muro di recinzione dell’area della chiesa,46 emerge in
cresta una serie di strutture in allineamento, con orientamento E-W:
si tratta di quattro pilastri quadrangolari e un muretto, costruiti in pietra e legati da malta; all’estremità
orientale della serie, in prossimità
della strada, si vede un altro brano
di muratura con orientamento lievemente divergente da quello dei pilastri; a livello di ipotesi queste strutture si potrebbero interpretare come
i resti di un portico, probabilmente
con copertura lignea, ma solo ulteriori indagini archeologiche potranno fare luce in merito47 [Fig. 17].
Di fronte al muro W della cappella si vedono emergere dal terreno Figura 19. SS. Trinità. Serie di pilastri quadranaltre due strutture, rispettivamente golari individuati sul piazzale esterno della
un altro pilastro quadrangolare, ed chiesa; sullo sfondo si vede il muro in pietre con
un muretto dall’andamento curvi- orientamento lievemente divergente da quello
dei pilastri (foto G. CIRSONE).
lineo; se il pilastro potrebbe essere
messo in relazione con la fila di pilastri precedentemente descritta, nulla si può dire invece del muretto curvo, che si individua solo per pochi centimetri; anche in questo caso sarebbero necessarie nuove
45
Cfr. VILLANI 1999, p. 49.
Dal punto di vista giuridico, la chiesa della SS. Trinità non rientra nel Parco Archeologico, ed è separata
da quest’ultimo da un muretto di recinzione; la custodia dell’edificio è affidata, già dal 1969, all’Ordine dei
Padri Trinitari, che qui si ringraziano, nella persona di Padre Angelo Cipolloni, per la disponibilità mostrata
durante i rilievi all’interno della chiesa e sul piazzale antistante.
47
Durante i sopralluoghi effettuati per il rilievo delle strutture del piazzale, sono state rinvenute, nei pressi
di una sepoltura terragna non scavata, alcune tessere di pasta vitrea di colore azzurro e verde.
46
112
Giacomo Cirsone
indagini archeologiche per chiarire
meglio la sistemazione dell’area esterna alla chiesa in questa fase [Fig. 18].
Va osservato che la successione
da N a S della cappella, dell’avancorpo
e della Foresteria, formava un fronte monumentale unico per chiunque
passasse lungo la strada antistante,
il cui tracciato riprende quello della
Via Appia; a ridosso di questo grande fronte unico, si stagliavano la mole Figura 18. SS. Trinità. Strutture del piazzale
della torre e quella della chiesa, e l’im- antistante la basilica: nella parte N si nota la
patto visivo doveva colpire non poco fila di pilastri E-W, insieme al lacerto murario
di orientamento lievemente divergente; a S si
l’osservatore.
invece una struttura curva ed un altro
La presenza di un portico po- vedono
pilastro, forse pertinente ai precedenti (elabotrebbe essere correlata sia con la pre- razione Cad G. CIRSONE).
senza di pellegrini, che utilizzavano le
strutture ed i corpi di fabbrica annessi alla chiesa per la sosta, analogamente a quanto accade in altre chiese di pellegrinaggio europee48, sia con l’attività quotidiana
dei monaci benedettini.49 La presenza di un braccio porticato dall’andamento così
Figura 19. SS. Trinità. La
foto mostra la facciata attuale della chiesa, ripresa da
NW dal lato N della S. S.
168 (foto G. CIRSONE).
48
Sui confronti della Trinità con le grandi chiese di pellegrinaggio europee, in particolare con edifici di
matrice normanna, cfr. BOZZONI 1979, p. 27; SALVATORE 1996, p. 52. Una relazione tra la SS. Trinità di Venosa
e i grandi santuari e le chiese di pellegrinaggio europei viene posta anche da R. BORDENACHE, in riferimento
però alla Foresteria, che lo studioso data tra il XII ed il XIII secolo (cfr. Riccardo BORDENACHE, La SS. Trinità
di Venosa. Scambi ed influssi architettonici ai tempi dei Normanni in Italia, in «Ephemeris Dacoromana»,
VII, 1937, Roma, Libreria di Scienze e Lettere, 1937, pp. 72-76).
49
Cfr. PAOLINI 1976, p. 325.
113
La basilica della SS. Trinità di Venosa dalla Tarda Antichità all’Età Moderna (II parte)
irregolare potrebbe essere messa in relazione con l’adattamento alle condizioni
morfologiche dell’area del piazzale, che vede una accentuata pendenza verso NW
in direzione della Strada Statale 168 [Fig. 19].
È utile ricordare che proprio nell’XI secolo, il monaco Geroldo di Montecassino scrive, traducendola da un originale in greco, una Passio SS. Senatoris,
Viatoris, Cassiodori et Dominatae, indirizzandola al pontefice Vittore III,50 con
l’intento di far approvare il culto di questi santi anche tra i Latini oltre che tra i
Greci.51 Committenti di quest’opera dovevano essere coloro che detenevano le reliquie di quei martiri, ed in particolare Roberto il Guiscardo o Ruggero Borsa, per
i quali si conoscono i rapporti con il monastero fondato da San Benedetto.52
Alla fine del secolo, tra il 1080 ed il 1096, nell’abbazia venosina fu depositata
anche una reliquia di San Nicola, rubata a Bari dal monaco Stefano, cantore del monastero di San Nicola di Angers, il quale fu costretto, a causa di una malattia, a nascondersi a Venosa; la vicenda evidenzia i rapporti intercorrenti tra il Mezzogiorno
normanno e la Francia, in entrambe le direzioni, da Nord a Sud e viceversa.53
50
Vittore III (1086-1087), al secolo Desiderio, abate di Montecassino, rispose al monaco con una lettera,
citata da Jacopo Cenna, nella quale raccomandava la massima diffusione del culto dei santi Senatore, Viatore,
Cassiodoro e della loro madre Dominata, in tutta la Puglia. Della lettera comunque non esistono prove documentali ed inoltre sussistono dubbi sulla validità delle fonti del Cenna (cfr. KEHR 1962, IX, p. 492; Hubert
HOUBEN, La «Passio SS. Senatoris, Viatoris, Cassiodori et Dominatae»: un esempio per traduzioni dal greco in
latino a Montecassino nel sec. XI, in Hubert HOUBEN (a cura di), Tra Roma e Palermo. Aspetti e momenti del
Mezzogiorno Medioevale, Galatina, Congedo, 1989, p. 143, nota 30). Su Desiderio, cfr. Pietro DALENA, L’età
dell’abate Desiderio, in «Bollettino Storico della Basilicata», Anno IV, 4, 1988, Roma, Edizioni di Storia e
Letteratura, 1988, pp. 129-138; su Vittore III, cfr. anche Johannes Dominicus MANSI, Sacrorum Conciliorum
Nova et Amplissima Collectio, tomo XX, Graz 1960, coll. 629-636.
51
Cfr. HOUBEN 1989, p. 142.
52
Cfr. HOUBEN 1989, pp. 142-144.
53
Cfr. Orderici Vitalis Historia Ecclesiastica, III, 218-220: Eodem tempore Stephanus cantor coenobii quod
Fulco senior comes apud Andegaviam urbem in honore sancti Nicholai construxerat Apuliam abiit, et per
licentia domni Natalis abbatis sui monachile scema ex industria dimisit. Deinde ut clericus Bari abitavit, magnamque familiaritatem ac postmodum potestatem inter edituos basilicae sancti pontificis optinuit. Tandem
conspecta facultate brachium sancti Nicholai quod apte argento tectum erat, et extra mausoleum ad signandum populum servabatur furtim arripuit, et in Gallias aufugere patriamque suam cenobiumque suum tanto
thesauro ditare sategit. Verum quia mox ut tale latrocinium sibi factum Barenses compererunt, longe lateque
veredarios suos ad confines suos et amicos atque patronos miserunt, omnesque tramites quibus itur in Franciam
sollicite tutari ne fur huiuscemodi elongaretur conati sunt. Stephanus Venusiam divertit, inique timidus latere
volens hiemavit, et serenum ver expectans egrotare coepit. Deinde deficiente sibi censu necessario, captus est
pro victu distrahere argentum de sancto brachio. Interea per totam Italiam et Siciliam fama volitavit, quod
a Gallis surreptum esset brachium beati Nicholai. Denique dum de tali furto crebra locutio populos moveret,
et a quibusdam Venusiensibus famulisque monachorum argentea tectura visa et cognita esset, et in conventu
monastico rumor huiusmodi perstreperet, Erembertus impiger coenobita cum famulis monasterii ad exmonachum languentem accurrit, subitoque frendens impetu brachium sancti Nicholai ac si eidem commendasset
atrociter exposcit. At ille deprehensum se videt, et in tanto turbine nescius quo se verteret, pallidus et tremens
per urgenti monacho preciosum pignum exhibet. Quod ille cum ingenti gaudio recipit et mox ad cenobium
sanctae Trinitatis monachi seu cunctis civibus Deum laudantibus devehit, inique sanctus Nicholaus usque hodie pignora sua fideliter poscentibus in multis necessitatibus mirifice succurrit. Prefatus autem Erembertus erat
natione Normannus, ante conversionem miles strenuus, postmodum vero monachus in ordine fervidus.
114
Giacomo Cirsone
Figura 20. Complesso della SS. Trinità. In rosso è rappresentata la ‘chiesa vecchia’, nella fase
normanna (metà XI-XII secolo); in arancio sono riportate le strutture della cosiddetta Incompiuta, i cui lavori iniziarono alla fine dell’XI secolo, per poi essere sospesi; in giallo la
seconda fase dei lavori che vide il posizionamento di cinque colonne e di un piliere polistilo
nella navata S (da Basilicata e Calabria 2005; elaborazione grafica G. CIRSONE).
Durante il regime abbaziale di Berengario, sotto il quale il numero dei monaci fu portato da venti a cento,54 furono iniziati i lavori per la costruzione della
cosiddetta ‘Incompiuta’, un monumentale esempio della diffusione di idee e modelli di derivazione francese nel Meridione d’Italia55 [Fig 20].
All’età normanna risale una prima fase dei lavori, che prevedeva la costruzione del perimetro esterno, del transetto sporgente, e la sistemazione dell’area del
coro con la posa in opera dei pilastri del deambulatorium;56 il coro, che trova stretti
confronti con quelli delle cattedrali di Acerenza ed Aversa,57 è del tipo a deambula-
Orderico Vitale menziona anche un altro episodio, analogo al precedente, avente per protagonista il nobile
Cristoforo, che dopo aver rubato una costola del santo, si rifugia malato a Venosa, dove si fa monaco della SS.
Trinità (Idem, 218). Cfr. anche HOUBEN 1984, pp. 35-36; Hubert HOUBEN, Melfi, Venosa, in Itinerari e centri
urbani nel Mezzogiorno normanno-svevo, Atti delle Decime Giornate Normanno-Sveve (Bari, 21-24 ottobre 1991), Bari, Edipuglia, 1993, pp. 322-323; SALVATORE 1997b, in MARCHI, SALVATORE 1997, p. 147, nota 3.
54
Cfr. MÉNAGER 1959, p. 46; HOUBEN 1986b, p. 27; HOUBEN 1993, p. 322.
55
Cfr. BORDENACHE 1937, pp. 41, 43-47; BOZZONI 1976, p. 98; BOZZONI 1979, pp. 32-36; PAOLINI 1976, pp.
325-326; Emile BERTAUX, I monumenti medievali della regione del Vulture, Venosa, Osanna, 19912 (prima
edizione 1903), pp. 50, 54; Basilicata e Calabria (Collana ‘La Biblioteca di Repubblica’), Milano, Gruppo
Editoriale Repubblica, 2005, p. 237.
56
Probabilmente da assegnare all’ultimo ventennio dell’XI secolo, secondo il BOZZONI (cfr. BOZZONI
1976, p. 100). BOZZONI ritiene anche di poter assegnare la SS. Trinità ad un progetto unitario elaborato
nell’ultimo trentennio del XII secolo, tra il 1170 ed il 1180 (BOZZONI 1979, p. 50); contra, cfr. HOUBEN
1993, p. 322, nota 55.
57
Cfr. BORDENACHE 1937, pp. 55-61.
115
La basilica della SS. Trinità di Venosa dalla Tarda Antichità all’Età Moderna (II parte)
torio con cappelle radiali (carolle),58 derivato, attraverso la mediazione benedettina,
dai modelli normanni e della Francia settentrionale, diffusisi poi nella regione della
Loira e nelle aree collegate con la presenza normanna, quali l’Inghilterra e l’Italia
meridionale.59
Allo stato attuale delle ricerche, si può dire che le mura perimetrali, il coro
ed il transetto sporgente, possano essere datati, su base stilistica ed icnografica tra
la fine dell’XI e gli inizi del XII secolo60 [Fig. 21].
A questo momento
può essere datato anche il
fitto strato di scaglie di lavorazione, rinvenuto al di sotto
dell’attuale piano di calpestio,
e che va ad obliterare la serie
di sepolture d’età tardoantica
e altomedievale.61
Nel 1096, viene eletto
abate Pietro I (1096-1108), già
prepositus del monastero di
Aquevelle, una piccola dipenFigura 21. Venosa, ‘Incompiuta’. Nella fotografia si nodenza dell’abbazia venosina,
tano il coro con le tre cappelle radiali, ed i pilastri del
situata presso l’omonimo cacapocroce (foto G. CIRSONE).
stello donato da Roberto il
Guiscardo nel 1063; sotto di
lui, elogiato dalle fonti per il suo zelo e le qualità morali esercitate nell’amministrazione
del monastero, continuarono le donazioni all’abbazia venosina da parte della nobiltà
normanna; Pietro I è probabilmente l’ultimo abate di origine normanna.62
Alla sua morte avvenuta tra il 1108 ed il 1114, i monaci della SS. Trinità
elessero Ugo o Ugone, che in precedenza aveva amministrato i possedimenti di
Corletum, nel territorio di Ascoli Satriano (FG);63 le fonti danno di lui un giudizio
58
Il termine carolle, derivato dal francese medievale e riferito ai deambulatori absidali in uso nelle chiese
d’età carolingia, si ritrova in BORDENACHE 1937, p. 44, nota 3.
59
Cfr. BOZZONI 1979, pp. 34-42; SALVATORE 1999b, p. 136.
60
Cfr. BOZZONI 1976, p. 100.
61
Cfr. Giuliana TOCCO, L’attività archeologica nella Basilicata settentrionale, in Metaponto, Atti del XIII
Convegno di Studi sulla Magna Grecia (Taranto, 14-19 ottobre 1973), Napoli, L’arte tipografica, 1974, p. 472;
la Tocco menziona anche il rinvenimento, in un saggio di scavo condotto nel transetto dell’Incompiuta, di
parte di un piccolo ambiente con tracce di mosaico.
62
Per le fonti su Pietro I, cfr. MÉNAGER 1959, pp. 48-49; BOZZONI 1979, p. 17; HOUBEN 1984, pp. 37-39;
HOUBEN 1986b, pp. 28-29; HOUBEN 2006, p. 368.
63
Su Corleto, cfr. Paolo MAULUCCI, Materiali per una carta archeologica del territorio di Ascoli Satriano,
Tesi di laurea di I livello in Archeologia dei Paesaggi discussa presso l’Università degli Studi di Foggia, A. A.
2004/2005, Lucera 2006, pp. 44-47, 93-94.
116
Giacomo Cirsone
negativo, rimproverandogli la dissipazione dei beni del monastero; per far fronte
alla situazione, i monaci si rivolsero al pontefice Innocenzo II (1130-1143), il quale, ordinata un’inchiesta per accertare le accuse, ordinò all’abate di recarsi a Roma
per discolparsi. Ugo, contravvenendo agli ordini papali, si rifugiò in Calabria, e
fu deposto e scomunicato dal pontefice che invitò i monaci ad eleggere un nuovo
abate.64
Alla base della deposizione di Ugo, sotto il quale si avvia un processo di
declino economico per l’abbazia,65 stavano anche ragioni di natura politica; innanzitutto l’anarchia feudale seguita alla morte del Guiscardo, durante il governo del
figlio e successore Ruggero Borsa (1085-1111);66 è anche possibile pensare che la
politica personale di Ruggero II in Calabria e Sicilia, abbia provocato una sorta
di scissione tra la SS. Trinità di Venosa e le abbazie consorelle di Sant’Eufemia e
Mileto,67 e il conseguente isolamento del cenobio venosino.68
Non è da escludere che l’esilio di Ugo e di altri monaci in Calabria, possa
essere messo in relazione con la lotta allora in corso tra il pontefice legittimo Innocenzo II, sostenuto da alcuni baroni normanni e dal ribelle Tancredi di Conversano, e l’antipapa Anacleto II, sostenuto invece da Ruggero II;69 Ugo e i suoi
avrebbero abbandonato la Trinità di Venosa verso il 1134, per tornarvi solo nel
1141, perché avevano riconosciuto la validità dell’elezione di Anacleto II.70
Dopo la destituzione e l’esilio di Ugo, i monaci del cenobio venosino elessero Graziano, sostenitore di Tancredi di Conversano e di Innocenzo II, attestato
nel 1131 come abate noviter electus, ed in seguito nominato vescovo di Venosa
dopo il 1137. Il nuovo abate non riuscì però a migliorare le condizioni economiche
del monastero, caduto intorno al 1140 in uno stato di decadenza sia spirituale che
economica.71
Dopo la Pace di Mignano del 1139, con la quale Ruggero II e Innocenzo II
si riconciliarono,72 ha inizio un nuovo periodo di splendore per l’abbazia della SS.
64
Cfr. sull’abate Ugo, MÉNAGER 1959, pp. 49-51; BOZZONI 1979, pp. 17-18; HOUBEN 1984, pp. 39-42; HOU1986b, p. 29; HOUBEN 2006, p. 368.
65
Cfr. MÉNAGER 1959, p. 50; HOUBEN 1993, p. 327; HOUBEN 2006, p. 368.
66
Cfr. BORDENACHE 1937, p. 17; MÉNAGER 1959, p. 50; BOZZONI 1979, p. 18.
67
Sulle abbazie calabresi di Sant’Eufemia e di Mileto, cfr. MÉNAGER 1959, pp. 4-22, 58-59.
68
Cfr. MÉNAGER 1959, p. 50; BOZZONI 1979, p. 18.
69
Cfr. HOUBEN 1986b, p. 30, nota 62; HOUBEN 1993, p. 327. Nel 1133, Ruggero II assedia e distrugge la città
di Venosa, per punirla dell’appoggio dato a Tancredi di Conversano; non è chiaro se l’evento avesse avuto
ripercussioni sull’abbazia della SS. Trinità (cfr. HOUBEN 1984, p. 42; SALVATORE 1991a, p. 63; BOENZI, GIURA
LONGO 1994, p. 101; HOUBEN 1993, p. 324, nota 63; SALVATORE 1999b, p. 134; HOUBEN 2006, p. 368).
70
Cfr. BORDENACHE 1937, p. 17; BOZZONI 1976, p. 99; HOUBEN 1986b, p. 30, nota 62.
71
Cfr. sull’abate Graziano, BOZZONI 1976, p. 99; BOZZONI 1979, p. 18; HOUBEN 1984, p. 41, nota 123; HOUBEN 1986b, pp. 29-30; HOUBEN 2006, p. 368.
72
Cfr. HOUBEN 1986b, p. 31.
BEN
117
La basilica della SS. Trinità di Venosa dalla Tarda Antichità all’Età Moderna (II parte)
Figura 22. Venosa, Incompiuta. Sulla sinistra si nota il piliere polistilo privo del capitello, cui seguono le cinque colonne poste in opera nella sola navata meridionale (foto Raffaele FANELLI).
Trinità di Venosa;73 il riconfermato Rex Siciliae ed il papa si accordarono al fine di
dare un nuovo abate al cenobio venosino, nella persona di Pietro II Divinacello
(1140-1156), proveniente dall’abbazia della SS. Trinità di Cava de’ Tirreni, mandato a Venosa insieme ad altri dodici monaci cavensi;74 sotto il suo regime abbaziale,
fu introdotta la regola benedettina in uso nel cenobio cavense (quest’ultimo facente
parte della congregazione benedettina di Cluny),75 ed i possedimenti dell’abbazia
aumentarono grazie a nuove donazioni.76
Il nuovo abate riformò la vita monastica e diede impulso all’attività culturale
dello scriptorium del monastero; egli stesso fu autore delle Vitae quatuor priorum
abbatum Cavensium Alferii, Leonis, Petri et Constabilis, per lungo tempo
attribuite invece all’abate Ugo;77 recentemente la critica gli ha assegnato anche
la stesura del Commentario al Libro dei Re, già attribuito a Gregorio Magno.78
73
Cfr. BOZZONI 1976, p. 99; HOUBEN 1986b, pp. 32-33; BERTAUX 19912, p. 49; HOUBEN 2006, p. 368.
Su Pietro II Divinacello, cfr. MÉNAGER 1959, pp. 51-52; BOZZONI 1979, p. 18; HOUBEN 1984, p. 43; HOUBEN 1993, p. 327; SALVATORE 1996, p. 47; HOUBEN 2006, pp. 368-369.
75
Cfr. HOUBEN 1993, p. 327.
76
Cfr. HOUBEN 1984, p. 43; SALVATORE 1999b, p. 134; HOUBEN 2006, p. 369.
77
Cfr. BOZZONI 1979, p. 17, e nota 18 a p. 69; HOUBEN 1986b, p. 29, nota 56, e p. 31; HOUBEN 2006, p.
369.
78
Cfr. HOUBEN 2006, p. 369.
74
118
Giacomo Cirsone
Dallo scriptorium di Venosa uscì anche un nuovo Libro del Capitolo, contenente
la regola benedettina, le omelie per l’ufficio dell’Ora Prima, un Martirologio ed un
Necrologio, con la registrazione dei defunti da commemorare durante la liturgia;79
il Libro del Capitolo si è consevato in un codice (Cod. Casin. 334), conservato
presso l’abbazia di Montecassino.80
È nell’ambito di questa temperie spirituale, culturale ed economica, che si
può collocare la ripresa dei lavori nel cantiere dell’Incompiuta, con la posa in opera
delle cinque colonne e del piliere polistilo nella navata meridionale della chiesa;
della fila di colonne, eretta su un lungo muro di fondazione, una non presenta il
capitello, così come per il piliere polistilo81 [Figg. 20, giallo].
Testimonianza della rinnovata ricchezza del monastero venosino è data dal
Catalogus Baronum, scritto tra il 1150 ed il 1152, ed aggiornato fino al 1168, per
registrare le forze militari a disposizione del re nel Ducato di Puglia e nel Principato di Capua; in esso si legge che in occasione di una magna expeditio, l’abbazia era
in grado di fornire 30 cavalieri (milites), 230 soldati (servientes), più il consueto ma
imprecisato numero di soldati (solitos servientes), forniti alla Curia Regis dalla città
di Ascoli Satriano (FG), che per metà era in possesso della SS. Trinità di Venosa.82
Il periodo di rinnovata prosperità durò poco per l’abbazia; alla morte di Pietro II nel 1156, fu eletto Nicola I (1156-1157), il cui regime abbaziale durò appena
un anno.83
Alla morte di Nicola I, la carica di abate della SS. Trinità venne conferita a
personaggi influenti presso la corte di Palermo; il primo a ricoprire tale carica, su
sollecitazione di Guglielmo I il Malo (1154-1166), fu il monaco cavense Costantino (1158-1167), fratello del potente vicecancelliere del regno Matteo d’Aiello;
il nuovo abate portò il cenobio venosino sull’orlo di una grave crisi economica e
spirituale, tanto che molti monaci abbandonarono l’abbazia.84
Per risollevare le sorti del cenobio occorreva riavviare la vita monastica riformandola; a tale scopo il re Guglielmo II il Buono (1166-1189), e il Papa Alessandro
III (1159-1181), imposero ai monaci l’elezione del monaco Egidio (1168-1181),
79
Cfr. HOUBEN 1984; HOUBEN 1986a, p. 202; HOUBEN 1986b, p. 32, nota 71; HOUBEN 2006, p. 369.
Uno studio approfondito sul Libro del Capitolo della SS. Trinità di Venosa è HOUBEN 1984, al quale si
rimanda.
81
Cfr. BORDENACHE 1937, p. 40; BOZZONI 1976, p. 100; PAOLINI 1976, p. 326; BOZZONI 1979, pp. 42-44;
HOUBEN 2006, p. 368.
82
Catalogus Baronum, 408, p. 73: Abbas predicte Sancte Trinitatis de Venusio obtulit pro tota terra et tenimento suo milites triginta et servientes ducentos triginta pro auxilio magne expeditionis et solitos servientes
quos Curia solita est habere de medietate Asculi que est predicte ecclesie. Cfr. BOZZONI 1979, pp. 18-19; HOUBEN 1984, pp. 44, 163; HOUBEN 1986a, p. 202; HOUBEN 2006, pp. 368-369.
83
Cfr. su Nicola I, HOUBEN 1984, p. 63; HOUBEN 1986b, pp. 33, 121-122; HOUBEN 2006, p. 369.
84
Sull’abate Costantino, cfr. MÉNAGER 1959, pp. 52-53; KEHR 1962, IX, p. 494; BOZZONI 1976, p. 99; BOZZONI 1979, p. 18; HOUBEN 1984, p. 44; HOUBEN 1986b, pp. 33-34; HOUBEN 1993, p. 327; HOUBEN 2006, p.
369.
80
119
La basilica della SS. Trinità di Venosa dalla Tarda Antichità all’Età Moderna (II parte)
di origine spagnola, facente parte dell’entourage della regina madre Margherita
di Navarra; Egidio era stato cellerario presso l’abbazia cistercense di Fossanova,
da dove portò alcuni monaci; grazie alle sue conoscenze, divenne un personaggio
importante presso la corte regia di Messina, dove è attestato nel 1168.85 In quello
stesso anno Egidio sembra essere stato nominato anche abate di Montecassino, ma
fu quasi subito deposto e rimandato a Venosa da Papa Alessandro III; una possibile
spiegazione a questo evento, secondo H. Houben, andrebbe ricercata nella reazione pontificia alle pressioni esercitate dalla regina Margherita, reggente per conto
del minorenne Guglielmo II il Buono, e dal cancelliere Stefano di Perche, nella
nomina di Egidio prima ad abate di Venosa e poi di Montecassino, senza la preventiva autorizzazione papale; a queste manovre non dovevano essere estranei i baroni
del regno che non vedevano di buon occhio l’eccessivo favoritismo di stranieri da
parte della regina (spagnola) e del cancelliere (di origine francese).86 In ogni caso
a Venosa, Egidio si prodigò per accrescere i beni del monastero, ordinando forse
anche la redazione di un cartulario e di una cronaca, e si preoccupò del benessere
dei monaci a lui affidati.87
Successore di Egidio, sarebbe stato Nicola II, menzionato solo nel
Martyrologium Venusinum.88 È invece più probabile pensare che la sede abbaziale
fosse rimasta vacante per alcuni anni, essendo attestato nelle fonti un Giovanni
rector et cappellanus della SS. Trinità, cui era affidata l’amministrazione del cenobio
in attesa dell’elezione di un nuovo abate.89
Durante un’assemblea di baroni e prelati del regno, convocata a Barletta nel
1182 da Guglielmo II, un legato pontificio di Alessandro III, chiese ed ottenne che
fosse investito della carica di abate di Venosa, il rector Beneventanus Giovanni di
Strumi; quest’ultimo era stato antipapa con il nome di Callisto III (1167-1178), e
a seguito degli accordi raggiunti con la Pace di Venezia del 1177, aveva rinunciato
alle sue pretese sul soglio di Pietro in cambio di un’abbazia, promessa mantenuta
da Alessandro III con la concessione della SS. Trinità di Venosa. Giovanni non è
più attestato dopo il 1183.90 Seguì un periodo di vacanza durante il quale l’abbazia
fu rappresentata da un rector et cappellanus, anch’egli di nome Giovanni, attestato
nel 1184.91
85
Sull’abate Egidio e sulla sua influenza a corte, cfr. MÉNAGER 1959, pp. 53-54; KEHR 1962, IX, p. 494;
BOZZONI 1976, p. 99; BOZZONI 1979, pp. 18-19; HOUBEN 1984, pp. 45-47; HOUBEN 1986b, pp. 35-37; HOUBEN
1993, p. 327; HOUBEN 2006, pp. 369-370.
86
Cfr. MÉNAGER 1959, p. 54; BOZZONI 1979, p. 18 e nota 24 a p. 70; HOUBEN 1984, p. 45, nota 146; HOUBEN
1986b, pp. 35-36; HOUBEN 2006, p. 369.
87
Cfr. HOUBEN 1986b, p. 36; HOUBEN 2006, p. 370.
88
Cfr. MÉNAGER 1959, p. 54; KEHR 1962, IX, p. 494; contra HOUBEN 1984, p. 47, nota 160, e pp. 121-122.
89
Cfr. KEHR 1962, IX, p. 494; HOUBEN 1984, p. 45, nota 149, e p. 47; HOUBEN 1986b, pp. 37-38.
90
Sull’abate Giovanni, cfr. HOUBEN 1986b, pp. 38-39; HOUBEN 1993, p. 327; HOUBEN 2006, p. 370.
91
Cfr. HOUBEN 1986b, p. 39; HOUBEN 2006, p. 370.
120
Giacomo Cirsone
La scelta dei monaci ricadde su Pietro III (1187-1192?), che era stato priore
della chiesa del S. Sepolcro di Brindisi, e che è menzionato in un diploma del re
Tancredi di Lecce;92 sotto il suo regime abbaziale continuarono le donazioni a favore della SS. Trinità, ma l’abbazia si trovò coinvolta nelle vicende che seguirono
la morte di Guglielmo II, morto senza eredi maschi; l’unica erede era Costanza
d’Altavilla, moglie dell’imperatore Enrico VI di Svevia (1191-1197), il quale scese nel Sud della penisola nel 1191 e nel 1194, rivendicando per sé la corona di
Sicilia; i baroni meridionali opposero all’imperatore il conte Tancredi di Lecce
(1189-1194), nipote di Gugliemo II il Buono, ultimo re normanno, scelta che fu
avvallata dal Papa Clemente III (1187-1191), ed ebbe l’appoggio anche dell’abate
di Venosa.93
Il XII secolo, con il passaggio dalla dominazione normanna a quella sveva,
si chiude così con uno stato di decadenza per l’abbazia della SS. Trinità, con i suoi
abati interessati più alle entrate economiche derivanti dai possedimenti del monastero, che all’aspetto spirituale, e ciò doveva riflettersi anche sullo stato materiale
del cenobio, con la definitiva sospensione del cantiere dell’Incompiuta e la rovina
degli altri corpi di fabbrica annessi al complesso monastico.94
La fase svevo-angioina (fine XII – metà XV secolo)
La discesa di Enrico VI di Svevia nel Mezzogiorno segna la fine del dominio
normanno, in un clima di lotte tra il ‘partito nazionale’ normanno che sosteneva
Tancredi di Lecce, ed i Tedeschi; sceso in Italia una prima volta nel 1191, l’imperatore nel tentativo di soffocare la rivolta dei nobili normanni, punì la SS. Trinità
di Venosa per la sua fedeltà a Tancredi, distruggendone il ricco feudo di Corleto
presso Ascoli Satriano (FG); tre anni più tardi, nel 1194, durante la seconda campagna militare che lo portò sul trono di Palermo, l’imperatore tolse l’autonomia
92
Sull’abate Pietro III, cfr. MÉNAGER 1959, pp. 54-56; KEHR 1962, IX, p. 494; BOZZONI 1979, p. 19; HOUBEN
1984, pp. 47-48; HOUBEN 1986b, pp. 39-40; HOUBEN 2006, pp. 370.
93
Il figlio di Tancredi, Guglielmo III, regnò, sotto la reggenza della madre Sibilla di Medania, dal febbraio
al dicembre del 1194; imprigionato insieme alla madre, fu poi accecato ed evirato per ordine di Enrico VI.
Cfr. MÉNAGER 1959, p. 55; BOZZONI 1976, p. 99; BOZZONI 1979, p. 19; HOUBEN 1984, p. 48; HOUBEN 1986b,
p. 41; HOUBEN 2006, p. 370.
94
In questa sede si propone una datazione generica alla fase normanna anche per una serie di strutture
che si trovano sotto il piano pavimentale del cosiddetto ‘atrio’; si tratta di una sorta di cunicolo o corridoio,
parzialmente ipogeo, al quale si accede passando al di sotto di un archetto a tutto sesto per mezzo di una scaletta ripida realizzata con materiale lapideo di recupero; il paramento murario dell’arco ricorda quello usato
per la Foresteria, con una cortina di blocchetti lapidei; il cunicolo, della lunghezza di 2-2.5 m circa, risulta
voltato a botte e termina contro una parete, nella quale sembra essere stata ricavata una nicchia rettangolare
(forse l’accesso ancora interrato alla prosecuzione del corridoio?). Allo stato attuale delle conoscenze non è
comunque possibile definire la funzione di tale dispositivo, il quale non figura in nessuna pianta edita e non
viene menzionato nella vasta bibliografia sulla Trinità.
121
La basilica della SS. Trinità di Venosa dalla Tarda Antichità all’Età Moderna (II parte)
al cenobio venosino, affidato in procura al suo fedele alleato Atenulfo, decano di
Montecassino.95
La perdita dell’autonomia, probabilmente limitata al breve regno di Enrico
VI, segna l’ingresso della SS. Trinità nell’orbita cassinese, e l’inizio di un lento declino che si protrarrà per tutto il XIII secolo.96
Per i primi decenni del XIII secolo, coincidenti in buona parte con il regno
di Federico II di Svevia (1198-1250), non si hanno notizie certe sulle sorti della SS.
Trinità, a causa delle difficoltà interne e dei contrasti con la gerarchia episcopale;
occorre attendere il 1236, quando Gregorio IX (1227-1241) depose l’abate venosino Gregorio, accusato dai suoi monaci di aver dissipato i beni dell’abbazia vivendo
lussuriosamente fuori dal monastero, e portando il cenobio in uno stato di degrado economico e spirituale.97 Nello stesso anno il pontefice non diede il proprio
assenso al nuovo priore, invitando i monaci ad una seconda elezione; nel 1237 fu
eletto il monaco Leone, che però fu ucciso poco tempo dopo, probabilmente da
alcuni confratelli, tra i quali un certo Jacobus de Alpharano;98 il pontefice, dopo
un’inchiesta, ordinò una nuova elezione entro tre mesi, ma non si riuscì a trovare
un monaco idoneo a ricoprire tale carica, ed è quindi probabile che si sia avuto un
periodo di sede vacante, durato almeno fino al 1252.99
In questo anno viene finalmente eletto abate un monaco della SS. Trinità,
Giovanni da Gaudiano, il quale, chiedendo la consacrazione al pontefice Innocenzo IV (1243-1254), si lamentava di non poter raggiungere Roma a causa della
povertà del cenobio venosino.100
Gli anni dei regni di Corrado IV (1250-1254), Manfredi (1258-1266) e di
Corradino V (1254-1268), non ci offrono notizie ulteriori che possano far luce
sulle sorti della SS. Trinità, forse a causa delle condizioni politiche del Regno di
Sicilia, che vedevano contrapporsi gli ultimi esponenti della Casa di Hoenstaufen,
95
Cfr. MÉNAGER 1959, pp. 55-56; KEHR 1962, IX, p. 490; BOZZONI 1976, p. 99; BOZZONI 1979, p. 19; HOU1984, pp. 48-49; HOUBEN 1986a, p. 202; HOUBEN 1986b, p. 40; SALVATORE 1996, p. 47; SALVATORE 1999b,
p. 134; BOZZONI 2006, p. 370.
96
Cfr. MÉNAGER 1959, p. 56; BOZZONI 1976, p. 99; BOZZONI 1979, p. 19; HOUBEN 1984, pp. 49-52, nota 195,
nella quale è riportato il passo della bolla del 22 settembre 1297, con cui Bonifacio VIII concedeva l’abbazia della SS. Trinità di Venosa all’Ordine Ospedaliero di San Giovanni di Gerusalemme, adeo per incuriam
et improvidam, ac inordinatam administrationem abbatum et monachorum ipsius; HOUBEN 1986a, p. 202;
HOUBEN 1986b, pp. 41-42; BERTAUX 19912, p. 54; SALVATORE 1999b, p. 134; BOZZONI 2006, p. 370.
97
Cfr. KEHR 1962, IX, p. 491: Gregorius IX P.P. a. 1236 Gregorium tunc abbatem luxuriose viventem, qui
bona monasterii dissipavit, deposuit […]; BOZZONI 1979, p. 19; HOUBEN 1984, p. 49; HOUBEN 1986b, p. 42;
SALVATORE 1996, p. 47; SALVATORE 1999b, p. 134; BOZZONI 2006, p. 370.
98
Cfr. KEHR 1962, IX, p. 491: […] cuius successor, Leo prior a. 1237 a Jacobo de Alpharano occisus est; BOZZONI 1979, pp. 19-20; HOUBEN 1984, p. 50, nota 179; HOUBEN 1986b, p. 42.
99
Cfr. BOZZONI 1979, p. 20, nota 31 a p. 71; HOUBEN 1984, p. 50.
100
Cfr. KEHR 1962, IX, p. 491: Johannes de Gaudiano abbas a. 1252 electus propter paupertatem monasterii
benedictionem a Rapullano episcopo recipere petiit; BOZZONI 1979, p. 20; HOUBEN 1984, pp. 50-52; HOUBEN
1986b, p. 42.
BEN
122
Giacomo Cirsone
Figura 23. SS. Trinità. Elaborazione eseguita con il programma Autocad 2007 delle strutture
della SS. Trinità: in verde le strutture della fase longobarda (VII - X secolo); in viola invece le
strutture inedite pertinenti alla fase normanna (metà XI - XII secolo); in giallo sono indicati
gli interventi della fase svevo-angioina, databili tra la fine del XII e la metà del XIV secolo
(elaborazione Cad G. CIRSONE).
agli Angiò, chiamati in Italia dal Papa Urbano IV (1261-1264), e sostenuti dal suo
successore Clemente IV (1265-1268).101
Durante l’epoca sveva, e a seguito dell’abbandono definitivo del cantiere
dell’Incompiuta, le ristrettezze economiche in cui versava l’abbazia, spinsero gli
abati a rimettere mano alla ‘Chiesa Vecchia’, con una serie di lavori di restauro
e consolidamento riguardanti principalmente la sistemazione delle navate e della
cripta102 [Fig. 23].
All’interno della chiesa, viene posto in opera un nuovo pavimento in mattoni di cotto, poggiato direttamente sull’opus tesselatum della fase normanna; il
piano di calpestio della chiesa viene rialzato di ulteriori 20 cm rispetto alla quota
paleocristiana.103
Sullo stesso tessellato normanno furono posti in opera tre grandi archi a
sesto acuto trasversali nella navata centrale, insieme ai relativi archi di controspinta a tutto sesto nelle navate laterali; queste strutture si appoggiano dal punto di
101
Cfr. BOZZONI 1979, p. 20. HOUBEN 1984, p. 51. Sul passaggio dagli Svevi agli Angiò in Basilicata, cfr.
BOENZI, GIURA LONGO 1994, pp. 103-109.
102
Cfr. BOZZONI 1976, p. 99; MEZZINA 1977, p. 46; BOZZONI 1979, p. 20; SALVATORE 1984b, p. 78; SALVATORE
1996, p. 50; SALVATORE 1997b, in MARCHI, SALVATORE 1997, p. 154; SALVATORE 1999b, p. 135; VILLANI 1999, p.
50; HOUBEN 2006, p. 370.
103
Cfr. SALVATORE 1984b, p. 78; SALVATORE 1996, p. 50; SALVATORE 1999b, p. 135; VILLANI 1999, p. 50.
123
La basilica della SS. Trinità di Venosa dalla Tarda Antichità all’Età Moderna (II parte)
Figura 24. SS. Trinità. Immagine della navata centrale con i tre grandi archi trasversali a sesto
acuto, che si appoggiano ai pilastri della fase paleocristiana (foto G. CIRSONE).
Figura 25. SS. Trinità. Immagini delle navate laterali con gli archi di controspinta a tutto
sesto; a destra si notino i sepolcri di Alberada di Buonalbergo, prima moglie di Roberto il Guiscardo, ed in secondo piano il sepolcro quattrocentesco della famiglia Acciaiuoli nella navata
N (foto G. CIRSONE).
124
Giacomo Cirsone
Figura 26. SS. Trinità. Immagini della cripta medievale: si nota il pavimento in mattoni di
cotto (foto G. CIRSONE).
vista stratigrafico ai pilastri d’epoca paleocristiana, e ad essi si appoggia la nuova
pavimentazione in mattoni di cotto, di modulo più grande rispetto a quelli del periodo paleocristiano.104 L’inserimento di questi archi modifica la spazialità interna
dell’edificio, spezzando la prospettiva con il punto di fuga incentrato sull’abside, ereditato dalla fase tardoantica, dividendo la navata centrale e quelle laterali in
quattro campate105 [Figg. 24-25].
È probabile che in questo periodo sia stata ampliata la cripta a corridoio
paleocristiana, per tutta la lunghezza del transetto; le scale laterali furono rifatte
in prossimità dei muri perimetrali della chiesa, ed il pavimento fu sistemato con
una stesura di mattoni di cotto, analogamente a quanto fatto per le navate della
chiesa; la copertura viene rifatta ponendo in opera delle volte sorrette da piedritti106 [Figg. 26-28].
Un termine cronologico per questi lavori viene fornito da un affresco re-
104
Sulla pavimentazione paleocristiana in opus spicatum, cfr. supra. Sugli archi nelle navate cfr. BORDENA1937, p. 26; MEZZINA 1977, pp. 74-75, in cui si riporta la definizione data dal Lenormant, che qualificava
gli archi ‘di tipo moresco’; SALVATORE 1984b, p. 78; SALVATORE 1996, p. 50; SALVATORE 1997b, in MARCHI,
SALVATORE 1997, p. 154; SALVATORE 1999b, p. 135; VILLANI 1999, p. 50; Basilicata e Calabria 2005, p. 236. Gli
archi delle navatelle si appoggiano ai muri perimetrali N e S della chiesa.
105
Cfr. MEZZINA 1977, p. 75; SALVATORE 1984b, p. 78; SALVATORE 1996, p. 50; SALVATORE 1997b, in MARCHI,
SALVATORE 1997, p. 154; SALVATORE 1999b, p. 135.
106
Cfr. MEZZINA 1977, pp. 108-109; SALVATORE 1984b, p. 78; SALVATORE 1996, p. 50; SALVATORE 1999b, p.
135; VILLANI 1999, p. 50; Basilicata e Calabria 2005, p. 236; BOZZONI 2006, p. 566.
CHE
125
La basilica della SS. Trinità di Venosa dalla Tarda Antichità all’Età Moderna (II parte)
Figura 27. SS. Trinità. Cripta medievale: a sinistra,
altare a blocco; in alto banchine in muratura lungo
le pareti, funzionali alla sosta per la preghiera dei
fedeli (foto G. CIRSONE).
Figura 28. SS. Trinità. Scale di accesso N e S alla cripta medievale, collocate ai lati estremi del
presbiterio, in prossimità dei muri perimetrali della chiesa (foto G. CIRSONE).
126
Giacomo Cirsone
Figura 29. SS. Trinità. Cripta medievale: affresco raffigurante una Crocifissione, realizzato al
di sopra dell’altare a blocco, datato al XIII secolo (foto G. CIRSONE).
cante una Crocifissione, con al centro il Cristo sulla croce, a sinistra la Madonna e
a destra la Maddalena; l’affresco è realizzato nella nicchia al di sopra dell’altare a
blocco della cripta, ed è databile al XIII secolo107 [Fig. 29].
Ai lati di questo affresco, se ne trovano altri due, recanti San Pietro a sinistra, raffigurato con le chiavi,108 e San Giacomo il Maggiore a destra;109 entrambi sono coevi alla
Crocifissione e sembrano formare con quest’ultima una sorta di trittico110 [Fig. 30].
107
Cfr. SALVATORE 1984b, p. 78; Basilicata. Potenza, Matera, il Pollino, la Magna Grecia, il Vulture, le coste
tirrenica e jonica (Guide d’Italia del Touring Club Italiano), Milano, Touring Club Italiano, 2004, p. 88;
Basilicata e Calabria 2005, p. 236.
108
S. Pietro rappresenta il collegamento con il centro propulsore della cristianità, Roma, e potrebbe essere
riferito alla rinnovata concordia tra il trono di Napoli, saldamente in mano angioina, ed il Papato. In Puglia
si riscontrano molte chiese di centri minori nelle quali l’intitolazione a S. Pietro si accompagna al titolo di arcipretura nullius dioecesis del centro abitato, implicante la diretta soggezione alla Santa Sede: cfr. ad esempio
la Chiesa Madre di Cerignola (FG).
109
È anche possibile che possa trattarsi di Giacomo il Minore, Apostolo e protovescovo di Gerusalemme,
città capitale dell’omonimo regno, la cui corona era passata agli Angiò in quanto sovrani del Regno di Sicilia,
e successori di Federico II; indizi potrebbero essere il pastorale portato nella mano sinistra e la mano destra
benedicente ‘alla latina’, che più si addicono ad una figura vescovile. Meno probabile, ma non da escludere, è
l’ipotesi che si tratti di Giacomo il Maggiore, santo che richiama gli interessi dell’Ordine di Malta in Oriente
e nei grandi centri di pellegrinaggio come quello spagnolo di Santiago de Compostela, intitolato proprio a
questo Apostolo; questa seconda ipotesi sposterebbe la cronologia relativa dell’affresco agli ultimissimi anni
del XIII secolo, in concomitanza con l’arrivo degli Ospedalieri.
110
Cfr. Basilicata 2004, p. 88, dove si fornisce una datazione al XIV e XV secolo; Basilicata e Calabria 2005,
dove invece la cronologia viene spostata al XV secolo; in questa sede si propende per una datazione al XIII
secolo, o al più tardi all’inizio del XIV per gli affreschi più antichi, realizzati in concomitanza con i lavori di
ristrutturazione della chiesa.
127
La basilica della SS. Trinità di Venosa dalla Tarda Antichità all’Età Moderna (II parte)
Figura 30. SS. Trinità. Cripta medievale: affreschi raffiguranti i SS. Pietro a sinistra, e Giacomo il Maggiore a destra (foto G. CIRSONE).
Altri brani di affreschi degni di nota sono il gruppo con la Madonna con
Bambino e santi, il S. Antonio Abate ed un’altra Crocifissione purtroppo mutila
della parte superiore111 [Figg. 31-33].
Figura 31. SS. Trinità. Cripta medievale: affresco raffigurante la Madonna con il Bambino
in grembo; a sinistra una figura femminile con un piccolo animale in braccio (Maria di Cleofa?); a destra invece, l’Arcangelo Michele, una figura femminile che porta una capsella (Maria Maddalena?), ed un vescovo. In basso, a destra della figura femminile con la capsella, si
vede una figurina femminile di piccole dimensioni, da identificare con l’anonima committente
dell’affresco (foto G. CIRSONE).
111
Cfr. Basilicata 2004, p. 88; Basilicata e Calabria 2005, p. 236.
128
Giacomo Cirsone
Sembra interessante notare la presenza
nell’affresco dell’anonima committente dell’opera, ritratta in proporzioni minori, in una posizione gerarchicamente inferiore, alla destra della
figura femminile con i capelli biondi e la capsella;
si potrebbe pensare che si tratti di una persona
dalle considerevoli possibilità economiche, forse appartenente alla piccola nobiltà locale o al
ceto dei notabili, o ancora alla piccola borghesia
emergente; non sussistono comunque elementi
utili a stabilirne l’identità [Fig. 32].
La figura femminile con i capelli biondi e
la capsella è forse da identificare con la Maddalena (?); a livello di ipotesi di lavoro si potrebbe
invece identificare la seconda figura femminile
sulla sinistra della composizione con Maria di
Cleofa, stabilendo così un ponte tematico con
l’affresco della Crocifissione [Fig. 33].
Figura 32. Cripta medievale. Particolare dell’affresco della Madonna
con Bambino e Santi: nella fotografia è visibile il ritratto della committente raffigurata in proporzioni
minori ed in atteggiamento di preghiera (foto G. CIRSONE).
Figura 33. Cripta medievale. Particolare dell’affresco della Madonna con Bambino e Santi:
a sinistra una figura femminile da identificare con Maria di Cleofa (?), e a destra, una figura
con i capelli biondi recante una capsella, da identificare con Maria Maddalena (?) (foto G.
CIRSONE).
129
La basilica della SS. Trinità di Venosa dalla Tarda Antichità all’Età Moderna (II parte)
Il fulcro della composizione sembra comunque essere l’Arcangelo Michele
al centro, con la lancia nella mano destra,
il libro nella sinistra ed il diavolo in forma di drago sotto i piedi112 [Fig. 34].
Un particolare interessante che
caratterizza questo ed altri affreschi di
questa fase è la fattura delle aureole,
realizzate nell’intonaco fresco, con incavi
atti ad accogliere decorazioni in smalti
colorati o in tesserine di mosaico; questo
particolare rivela un certo gusto per la
ricercatezza da parte della committenza
ed una certa maestria nell’esecuzione da
parte delle maestranze.
Dopo il silenzio delle fonti nei primi decenni del dominio svevo, le prime
Figura 34. Particolare dell’affresco della
Madonna con Bambino e Santi: è visibile
l’Arcangelo Michele con la lancia ed il libro,
che schiaccia sotto i piedi il diavolo in forma
di drago (foto G. CIRSONE).
Figura 35. SS. Trinità. Cripta medievale: affreschi raffiguranti S. Antonio Abate a destra, e il
gruppo della Crocifissione a sinistra (foto G. CIRSONE).
112
La presenza di S. Michele tra i santi raffigurati nella cripta si spiega facilmente se si pensa agli interventi di abbellimento e restauro promossi dai sovrani angioini nel santuario micaelico di Monte Sant’Angelo (FG) sul Gargano,
meta di pellegrinaggio sin dal V secolo. Il culto del santo in grotta viene imitato in scala minore a Venosa, con lo
svolgimento delle pratiche devozionali in un vano semipogeo quale è la cripta, parzialmente scavata nella roccia.
130
Giacomo Cirsone
Figura 36. SS. Trinità. Transetto: archi a sesto acuto d’età angioina (foto G. CIRSONE).
notizie sulla SS. Trinità risalgono al 1267, quando Riccardo Paolino prior claustralis di Venosa, ottiene la trascrizione nella cancelleria regia di due diplomi
emessi all’epoca di Ruggero Borsa; negli anni seguenti sono attestate, nei registri angioini, richieste da parte dei monaci per affermare i diritti dell’abbazia sui beni posseduti, in genere seguite dal riconoscimento dell’autorità regia che
provvide alla loro tutela. Nel 1268, viene nominato abate il priore dell’abbazia di
Montepeloso, il cui nome però non è noto.113
Nel 1270, è attestato in due diplomi regi di Carlo I d’Angiò (1266-1285), un
electus et conventus monasterii sancte Trinitatis de Venusio, da identificare con il
Ruggero, electus monasterii sancte Trinitatis de Venusio, attestato l’anno successivo. Successore di Ruggero fu Angelo, preposito del monastero di Banzi, eletto
nel 1272 ed in carica fino a tutto l’anno successivo, dato che agli inizi del 1274 è
attestato il priore claustrale Guglielmo alla guida del monastero.114
Una breve battuta di arresto alla decadenza del cenobio venosino si ha con
la consacrazione, durante il Concilio di Lione del 1274, di Nicola III (1274-1279),
abate di Montescaglioso, da parte di Papa Gregorio X (1271-1276); il nuovo abate
113
114
Cfr. BOZZONI 1979, p. 20; HOUBEN 1984, p. 50; HOUBEN 2006, p. 370.
Cfr. HOUBEN 1984, p. 51.
131
La basilica della SS. Trinità di Venosa dalla Tarda Antichità all’Età Moderna (II parte)
Figura 37. SS. Trinità. ‘Atrio’: portale d’accesso alla chiesa, opera del Magister Palmerius,
realizzato con elementi di riutilizzo e decorato
con motivi arabeggianti, sotto il regime abbaziale di Barnaba nel 1287 (foto G. CIRSONE).
si adoperò per migliorare la situazione
economica del monastero, ottenendo
numerosi documenti in favore dell’abbazia.115
Un secondo lotto di lavori
sulla SS. Trinità, riguardanti anche la
Foresteria, si potrebbero collocare
in questo momento di temporanea
rifioritura economica per l’abbazia;
nella chiesa si procede alla sistemazione
del transetto, con la costruzione di
due grandi archi a sesto acuto, che
scandiscono ora in tre campate questa
parte della chiesa; gli archi si appoggiano
ai pilastri paleocristiani all’estremità
W, mentre ad E sfruttano due poderose
paraste, appoggiate alla parete di fondo
della chiesa, le quali vanno a tagliare la
volta della cripta, rendendone difficile
l’accesso dalle scale laterali116 [Fig. 36].
Figura 38. SS. Trinità. Affresco raffigurante
Sant’Apollonia, dipinto nel corso del XIII secolo, sul secondo pilastro di destra della navata centrale; l’affresco è stato successivamente
obliterato dalla costruzione di una muratura
più tarda. Sull’altra faccia del pilastro si vede
l’affresco dell’Angelo Gabriele o Angelo Annunciante, databile alla metà del ‘300 (foto
G. CIRSONE).
115
Cfr. HOUBEN 1984, p. 51; SALVATORE 1996, p. 47, nota 19, dove però la consacrazione di Nicola III viene
anticipata al 1268.
116
Cfr. BORDENACHE 1937, p. 26; MEZZINA 1977, pp. 98-99; SALVATORE 1984b, p. 78; SALVATORE 1996, p. 50;
SALVATORE 1999b, p. 135; VILLANI 1999, p. 50.
132
Giacomo Cirsone
Figura 39. Venosa. Il palazzetto della Foresteria nella sua forma attuale d’età angioina; sono
visibili le arcate del pianoterra, le due finestre bifore del lato W, e la trifora del lato N (foto
G. CIRSONE).
È probabile che a questo momento vada datata la parziale dismissione della
cripta, rimasta in uso pressoché ininterrottamente dall’età paleocristiana, e restaurata appena qualche decennio prima.117
Nel 1287, viene costruito il portale d’ispirazione arabeggiante che da accesso
alla chiesa dal cosiddetto ‘atrio’, opera firmata dal Magister Palmerius, realizzata
sotto il regime abbaziale di Barnaba, secondo l’iscrizione dedicatoria, utilizzando
frammenti scultorei di recupero118 [Fig. 37].
Al XIII secolo si data la realizzazione, sul secondo pilastro destro della navata centrale, dell’affresco raffigurante S. Apollonia;119 di poco successivo è invece
l’affresco raffigurante S. Donato, dipinto sul secondo pilastro di sinistra, e datato
tra la fine del XIII e l’inizio del XIV secolo120 [Fig. 38].
117
Cfr. supra; cfr. anche MEZZINA 1977, p. 99; SALVATORE 1996, p. 50; SALVATORE 1999b, p. 135.
Cfr. BORDENACHE 1937, p. 32, e figg. 15, 16; BOZZONI 1976, p. 99; MEZZINA 1977, pp. 65-68; BOZZONI
1979, p. 20, nota 35 alle pp. 71-72; HOUBEN 1984a, p. 52; SALVATORE 1984b, p. 78; BERTAUX 19912, pp. 51-52;
SALVATORE 1996, p. 50; SALVATORE 1999b, p. 135; VILLANI 1999, p. 49; Basilicata 2004, p. 87; Basilicata e Calabria 2005, p. 236.
119
Cfr. Basilicata 2004, p. 88. In questa sede si fa menzione anche di un affresco in stile bizantino, forse raffigurante la Madre di Dio, se è giusta la lettura delle lettere greche poste a destra della figura, in cui si legge Μη[τηρ]
θ[εο]υ; l’affresco non sembra essere menzionato nella vasta bibliografia sulla SS. Trinità, ed è stato obliterato successivamente dalla costruzione di uno degli archi della navata centrale, analogamente alla S. Apollonia.
120
Cfr. MEZZINA 1977, pp. 91-92; Basilicata 2004, p. 88.
118
133
La basilica della SS. Trinità di Venosa dalla Tarda Antichità all’Età Moderna (II parte)
Figura 40. Venosa. Foresteria: a sinistra il lato E dell’edificio; a destra l’arco del pianoterra e
la finestra trifora del primo piano (foto G. CIRSONE).
I lavori di maggiore entità ebbero ad oggetto la Foresteria, il cui nucleo longobardo, sostanzialmente ancora intatto, viene ampliato sul lato W; è in questo momento
che il palazzetto assume la forma visibile ancora oggi; vengono aperte le finestre bifore
e la trifora nei saloni al primo piano, e si prolunga il pianoterra porticato, con l’aggiunta
di poderosi pilastri quadrangolari in muratura; nei muri del piano terra si aprono strette finestre ‘a bocca di lupo’, le quali lasciano passare poca luce, conferendo ai paramenti
murari in cortina di blocchetti lapidei una maggiore plasticità121 [Figg. 39-41].
Sul lato meridionale, dei due archi della fase longobarda, viene tamponato
quello di sinistra, mentre una parete continua, nella quale si apre solo una piccola
porta a tutto sesto, contraddistingue l’ampliamento svevo-angioino della Foresteria;
al piano superiore, si aprono una bifora (di restauro), accanto alla quale si trova una
piccola monofora arcuata, ed una coppia di finestre monofore arcuate (anch’esse
frutto dei restauri del 1932), di dimensioni maggiori della precedente122 [Fig. 42].
Nel 1291, dopo la morte di Barnaba, da una bolla di Papa Niccolò IV
121
Cfr. Edoardo GALLI, Danni e restauri a monumenti della zona del Vulture, in «Bollettino d’Arte del
Ministero dell’Educazione Nazionale», XXVI, Roma, Ministero dell’Educazione Nazionale, 1933, p. 334;
BORDENACHE 1937, p. 75; MEZZINA 1977, pp. 55-56; SALVATORE 1984b, p. 78; SALVATORE 1996, p. 48; SALVATORE 1999b, p. 134; Basilicata 2004, p. 87; Basilicata e Calabria 2005, p. 235; BOZZONI 2006, p. 570.
122
Cfr. GALLI 1933, pp. 333-334; BORDENACHE 1937, pp. 74-75; MEZZINA 1977, pp. 55-56, 70-71; SALVATORE
1984b, p. 78; SALVATORE 1996, pp. 48-49; SALVATORE 1999b, p. 134.
134
Giacomo Cirsone
(1288-1292),apprendiamo
dell’elezione di Francesco, abate di Sant’Eutizio, presso Norcia, il quale però morì prima di
aver ottenuto la consacrazione
ad abate di Venosa.123
L’atto finale della presenza benedettina a Venosa si compie con la bolla del 22/09/1297,
con la quale Papa Bonifacio VIII
(1294-1303) soppresse l’abbazia,
consegnandola, insieme ai suoi
ancora cospicui beni, all’Ordine
Ospedaliero di San Giovanni di Figura 41. Foresteria. Pianoterra porticato: sono visibili le cortine murarie in blocchetti lapidei dei piGerusalemme, a causa del forte lastri; sulla parete di fondo, corrispondente al lato N
stato di degrado in cui era caduto dell’edificio, si apre la finestra ‘a bocca di lupo’; atil cenobio venosino; più che per la tualmente, il piano terra della Foresteria è stato adidecadenza economica, si trattò di bito a Lapidarium della chiesa, ed in esso sono esposti
un atto volto ad assicurare nuo- elementi lapidei scolpiti provenienti dall’area della
chiesa, o rinvenuti durante gli scavi e i restauri degli
vi cespiti economici ad uno degli anni ’80 e ’90 del XX secolo (foto G. CIRSONE).
Ordini Religioso-Militari più influenti della Cristianità, a seguito della perdita dei possedimenti in Terra Santa dopo la
riconquista turca, al termine della
IX Crociata (1269-1291).124
Il XIV e la prima metà
del XV secolo, corrispondenti
in larga parte al periodo della
dominazione angioina sull’Italia
Figura 42. Venosa. Foresteria: lato
S dell’edificio; in basso al centro la
porta arcuata, e sulla destra uno
degli archi del pianoterra; in alto la
bifora restaurata negli anni ’30, e le
monofore aperte nella facciata dopo
gli stessi restauri (foto G. CIRSONE).
123
Cfr. HOUBEN 1984, p. 52.
Cfr. BORDENACHE 1937, p. 17; BOZZONI 1976, p. 99; PAOLINI 1976, p. 327; MEZZINA 1977, p. 46; BOZZONI
1979, pp. 20-21; HOUBEN 1984, p. 52, nota 195; SALVATORE 1984b, p. 78; HOUBEN 1986a, p. 202; HOUBEN 1986b,
p. 42; BERTAUX 19912, pp. 49-50, dove però la bolla di Bonifacio VIII è datata erroneamente al 1292; SALVATORE
1996, p. 47; SALVATORE 1999b, p. 134; VILLANI 1999, p. 50; Basilicata e Calabria 2005, p. 235; HOUBEN 2006, p.
370. Sulla bolla di Bonifacio VIII, cfr. KEHR 1962, IX, p. 491, che dice Non immerito itaque Bonifatius VIII a.
1297 monasterium s. Trinitatis cum omnibus eius membris ac bonis magistro et fratribus hospitalis s. Johannis
Hierosolimitani concessit et incorporavit, qui ibi baliatum instituerunt tempore Napoleonis I suppressum.
124
135
La basilica della SS. Trinità di Venosa dalla Tarda Antichità all’Età Moderna (II parte)
Figura 43. Incompiuta. Portale del lato meridionale della chiesa, realizzato o completato dai
Cavalieri di San Giovanni di Gerusalemme nel XIV secolo (foto Raffaele FANELLI).
meridionale, non vedono grossi interventi sulla chiesa della SS. Trinità; lungo il
lato meridionale dell’Incompiuta fu realizzato o portato a compimento il portale
sormontato da un arco semicircolare lunato, recante un bassorilievo della ‘mano
di Dio’ entro il nimbo, ed un’iscrizione benaugurale; sulla chiave di volta dell’arco
entro un tondo, l’immagine dell’Agnus Dei, simbolo dei Cavalieri di San Giovanni
di Gerusalemme125 [Fig. 43].
La Foresteria non fu abbandonata, anzi per un certo periodo divenne la residenza dei dignitari e dei luogotenenti dell’Ordine, almeno fino a quando non
venne costruito il Palazzo del Balì, all’interno del centro storico di Venosa.126
L’interno della chiesa è interessato dall’avvio di un programma decorativo,
che vede la realizzazione di affreschi sui pilastri della chiesa, ed anche nella cripta,
della quale segnano l’ultima fase d’uso.
Al XIV secolo si data l’affresco raffigurante Santa Caterina d’Alessandria,
realizzato sul terzo pilastro di destra della navata centrale; la santa è ritratta con i
125
Cfr. Riccardo BORDENACHE, Due monumenti dell’Italia meridionale. I. L’avanzo di una chiesetta a
croce greca in Castro. II. La cappella romanica della Foresteria nell’Abbazia di Venosa, in «Bollettino d’Arte
del Ministero dell’Educazione Nazionale», XXVII, Roma, Ministero dell’Educazione Nazionale, 1933, p.
39, fig. 29; MEZZINA 1977, p. 136; BOZZONI 1979, p. 63, note 161-162 a p. 99; SALVATORE 1996, p. 52; SALVATORE
1999b, p. 136; Basilicata 2004, p. 87; Basilicata e Calabria 2005, p. 236.
126
Cfr. BOZZONI 1979, pp. 20-21, nota 39 alle pp. 72-73; BOZZONI 2006, p. 570.
136
Giacomo Cirsone
capelli biondi cinti da una corona, e
con indosso un abito bianco recante
una veletta sotto il mento ed un motivo esagonale sul petto, il tutto entro
una cornice di composizione geometrica, che sembra richiamare motivi decorativi di origine cosmatesca;
l’attribuzione e la datazione dell’affresco hanno diviso la critica a lungo:
B. Berenson ne assegnò la paternità
a Roberto d’Oderisio da Benevento,
attivo alla metà del XIV secolo; F.
Bologna, invece, attribuì l’affresco
al cosiddetto ‘Maestro della Bible
Moralisée di Parigi’, che lavorò alla
cappella della famiglia Pipino in S.
Pietro a Maiella a Napoli; concorde
con questa ipotesi è A. Grelle Iusco,
la quale associava ad un’unica mano
l’affresco della santa e quelli della Figura 44. SS. Trinità. Affresco raffigurante
Deposizione o Cristo di Pietà (col- Santa Caterina d’Alessandria, collocato sul prilocato immediatamente al di sotto) mo pilastro di sinistra della navata centrale, e
databile alla metà del ‘300; immediatamente al
e dell’Angelo Gabriele o Angelo An- di sotto della santa è visibile l’affresco della Denunciante127 [Fig. 44].
posizione o Cristo di Pietà, anch’esso del XIV
Differente è la posizione di A. secolo (foto G. CIRSONE).
Prandi, il quale sulla base di confronti stilistici, data la S. Caterina, la Deposizione e il Santo Vescovo o San Nicola,
effigiato accanto ai primi due, alla prima metà del XV secolo.128
L’affresco dell’Angelo Gabriele, probabilmente parte di un’Annunciazione
non conservatasi, si trova sul secondo pilastro di destra della navata centrale; l’angelo, con indosso un abito a riquadri scuri, è ritratto di profilo nell’atto di benedire, con l’incarnato delicato e le mani esili e raffinate129 [vedi Fig. 39].
L’affresco della Deposizione o Cristo di Pietà si trova immediatamente al di
sotto della S. Caterina, e mostra, entro una cornice rettangolare a fasce di colore diverso, i busti del Cristo che emerge dal sepolcro aperto, della Madonna a sinistra con
127
Cfr. MEZZINA 1977, pp. 84-85; BERTAUX 19912, p. 53, che definì l’affresco ‘come un’apparizione inaspettata di grazia e di bellezza toscana’; VILLANI 1999, pp. 51-52; Basilicata 2004, p. 88; Basilicata e Calabria
2005, p. 236.
128
Cfr. VILLANI 1999, p. 52.
129
Cfr. MEZZINA 1977, p. 91; VILLANI 1999, p. 51; Basilicata 2004, p. 88.
137
La basilica della SS. Trinità di Venosa dalla Tarda Antichità all’Età Moderna (II parte)
Figura 45. SS. Trinità. A sinistra affresco del Santo Vescovo o San Nicola; a destra affresco
della Madonna con Bambino (foto G. CIRSONE).
il viso sofferente e le mani protese verso il Figlio, e S. Giovanni, ritratto con un abito
verde ed un manto chiaro, nell’atto di strapparsi le vesti dal dolore130 [vedi Fig. 44].
Coevo ai precedenti è anche l’affresco del Santo Vescovo o S. Nicola, ritratto
sullo stesso pilastro della S. Caterina; la figura è frontale e ieratica, con la mano
destra che benedice ‘alla latina’, e la sinistra che regge il pastorale; il santo indossa i
segni dell’ordine episcopale, la dalmatica, il pallium, la pianeta e la mitra.131
Un po’ più tarda è invece una Madonna con Bambino, effigiata sul primo
pilastro di destra della navata centrale; Maria, dalla carnagione rosea e con gli occhi
castani, indossa una veste ed un velo marroni bordati di bianco; il Bambino invece
sta in piedi sulle ginocchia della Madre, con indosso un abito trapunto di stelle e lo
sguardo rivolto verso il viso di Lei132 [Fig. 45].
Probabilmente al XIV secolo si può datare una Madonna in trono con Bambino e Santo Vescovo, fatta eseguire dal priore Felice Berardi, secondo quanto dice
l’iscrizione soprastante; l’affresco è molto rovinato, ma si distinguono ancora la
Madonna, seduta su un trono con il Bambino nudo e nimbato in piedi sulle ginoc130
Cfr. MEZZINA 1977, pp. 85-86; VILLANI 1999, p. 51; Basilicata 2004, p. 88; Basilicata e Calabria 2005, p.
236.
131
132
Cfr. MEZZINA 1977, p. 84; VILLANI 1999, p. 52.
Cfr. MEZZINA 1977, p. 93; VILLANI 1999, p. 52.
138
Giacomo Cirsone
Figura 47. SS. Trinità. ‘Atrio’ della chiesa
vecchia: affresco raffigurante S. Cristoforo
con Gesù Bambino (foto G. CIRSONE).
Figura 46. SS. Trinità. Affresco raffigurante
la Madonna in trono con Bambino e Santo
Vescovo, fatta eseguire dal priore Felice Berardi (foto G. CIRSONE).
chia della Vergine; a sinistra si nota un personaggio maschile nimbato con i paramenti episcopali, ed è probabile che anche sul lato destro ci fosse una figura simile
a fare da pendent alla composizione; a causa del pessimo stato di conservazione,
l’affresco è ridotto quasi allo stato di sinopia133 [Fig. 46].
Il programma decorativo della chiesa, intrapreso nel secolo precedente, continua anche nel XV secolo, con la realizzazione di nuovi affreschi negli spazi e sulle
superfici ancora liberi.134
Nel cosiddetto ‘atrio’ della chiesa, alla sinistra del portale del Magister Palmerius, viene realizzato un affresco raffigurante S. Cristoforo con in braccio Gesù
Bambino, che doveva avere funzione di buon augurio per il viaggio di ritorno dei
pellegrini (pro reditu)135 [Fig. 47].
133
Cfr. MEZZINA 1977, p. 93.
Cfr. MEZZINA 1977, p. 82; BERTAUX 19912, p. 53.
135
Pellegrinaggi, seppure in forma minore, dovettero continuare ancora a lungo, soprattutto se si tiene presente
che dal 1313, è attestata in una lettera di Roberto I d’Angiò (1309-1343) al balivo della SS. Trinità, una fiera che si
svolgeva il giorno dell’Ottava di Pentecoste, giorno in cui ricorre la festa della SS. Trinità; la fiera si teneva ex antiqua consuetudine ante fores Ecclesie Sancte Trinitatis domus hospitalis, cioè davanti alla Foresteria, ancora fino a
qualche decennio fa’, attirando pellegrini anche da aree lontane come Abruzzo e Calabria (cfr. BORDENACHE 1937,
p. 72; MEZZINA 1977, p. 71); sul San Cristoforo, cfr. MEZZINA 1977, pp. 81-82; Basilicata e Calabria 2005, p. 87.
134
139
La basilica della SS. Trinità di Venosa dalla Tarda Antichità all’Età Moderna (II parte)
Figura 48. SS. Trinità. Cripta medievale: brano di affresco raffigurante San Giorgio che uccide il drago, databile al XV secolo (foto G. CIRSONE).
L’uso, o almeno la praticabilità della cripta, devono essere continuati almeno
per alcuni decenni ancora nel XV secolo, data la presenza di un brano di affresco
frammentario raffigurante S. Giorgio che uccide il drago; il soggetto scelto, ritratto
in armatura da cavaliere, si addice perfettamente ai nuovi detentori della chiesa,
dato che il santo è patrono della cavalleria per antica tradizione. Non sembra possibile prolungare ulteriormente l’uso della cripta oltre la realizzazione di questo
affresco, che quindi si deve considerare dismessa completamente [Fig. 48].
All’interno della chiesa è attribuibile al XV secolo una serie di affreschi, raffiguranti una Madonna con Bambino, sul primo pilastro di sinistra della navata
centrale, ed il gruppo di affreschi raffiguranti S. Paolo, S. Stefano, S. Vito e S. Antuono, attribuiti per tangenze stilistiche dalla critica alla stessa mano136 [Fig. 49].
L’affresco di S. Vito, per la posa, la delicatezza del tratto ed il banco di colore
giallo alla base della figura, richiama il fondo dorato visibile dietro le gambe del S.
Giorgio effigiato all’interno della cripta, e ciò fa propendere per una realizzazione
per lo meno coeva, se non attribuibile ad una stessa mano; un elemento ulteriore a
favore di questa ipotesi è la somiglianza tra la decorazione ad arabesco sul drappo
che fa da sfondo all’adiacente affresco di S. Antuono, e la decorazione a motivi vegetali che si trova sull’arco della cripta, adiacente al S. Giorgio [vedi Figg. 48-49].
136
Sulla Madonna con Bambino, cfr. MEZZINA 1977, pp. 83-84. Sugli affreschi dei santi, cfr. MEZZINA 1977,
pp. 82-83, 86-87, 93; VILLANI 1999, p. 51; Basilicata 2004, p. 88.
140
Giacomo Cirsone
Figura 49. SS. Trinità. Affreschi di XV secolo: in alto a sinistra, San Paolo; a destra Santo Stefano; in basso, San Vito a sinistra e Sant’Antuono a destra; questi ultimi due affreschi hanno
subito un distacco conservativo per esigenze di restauro (foto G. CIRSONE).
141
142
Francesco Altamura
Un corporativismo sfocato. Sguardo dalla periferia
a Il corporativismo fascista di Alessio Gagliardi
di Francesco Altamura
Avvicinarsi alla pubblicazione di Alessio Gagliardi per la collana Quadrante
della Laterza1 attraverso la lente degli studi sulla dimensione locale del fascismo,
eleggendo quale contesto atto a testare la tenuta della proposta interpretativa quello definito da categorie interne a una prospettiva analitica focalizzata sui rapporti
dialettici che intercorrono tra centro e periferia e innervano le articolazioni dello
Stato totalitario, prefigura la possibilità di scandagliare un vasto terreno concettuale in cui troviamo saldate le finalità dichiarate della ricerca, le premesse teoriche da
cui questa muove, la preferenza accordata ad alcune fonti piuttosto che ad altre.
Introducendo il lavoro, l’autore definisce la sua «una ricostruzione volutamente incentrata sul funzionamento generale del sistema più che sulle ricadute
minute»2, ed è rimanendo all’interno di questo campo visuale, privilegiando l’osservazione di ingranaggi e meccanismi così da non perder di vista le evoluzioni e i mutamenti nella fisionomia istituzionale, che appare plausibile avviare una
discussione in merito ai gangli dell’architettura corporativa considerati nevralgici
dall’autore, ai passaggi da questi ritenuti periodizzanti nell’incessante processo di
autoriforma di organi e apparati, ai soggetti i cui nuclei documentari sono parsi
significativi ai fini dell’indagine condotta.
Se nel primo capitolo Gagliardi provvede a collocare il dibattito italiano sul
corporativismo nella temperie culturale di un’Europa postbellica in cui si consuma,
guidata massimamente da giuristi, la riflessione sui limiti manifesti delle forme statuali dell’epoca liberale, uscite stravolte dalle tensioni prodotte nelle società nazionali dalla instaurazione delle economie di guerra, e nel secondo vengono ripercorse
- assimilato l’impareggiabile apporto conoscitivo fornito da Alberto Aquarone - le
tappe de L’organizzazione dello stato totalitario3 con riguardo alle forme associative
di lavoratori e imprenditori, è soprattutto dal terzo capitolo che giungono al pettine
1
2
3
Alessio GAGLIARDI, Il corporativismo fascista, Roma-Bari, Laterza, 2010.
GAGLIARDI, Il corporativismo fascista, cit., p. IX.
Alberto AQUARONE, L’organizzazione dello Stato totalitario, Torino, Einaudi, 2003³.
143
“Il corporativismo fascista di Alessio Gagliardi”
i nodi dal cui scioglimento poter dipanare una riflessione su questioni quali la disponibilità delle fonti documentarie, l’esplicitazione dei presupposti interpretativi
della ricerca, i problemi connessi alla periodizzazione delle vicende analizzate.
Una prima serie di osservazioni è indotta dalla scelta dell’autore di limitarsi
a liquidare in nota un contributo, quello di Domenico Preti4, rimasto ineguagliato
nella sua capacità di restituire, con elevato grado di dettaglio, i caratteri dell’intelaiatura istituzionale delineatasi con la legge 3 aprile 1926 sulla disciplina giuridica
dei rapporti di lavoro, e cassato da Gagliardi, con analisi lapidaria, come «lettura
del sindacalismo fascista incentrata sulla sola dimensione repressiva»5. Diversamente, la sollecitazione di Preti a «penetrare più a fondo i problemi della struttura
organizzativa» delle istituzioni corporative, soffermando l’attenzione su «criteri
di selezione del personale, consistenza ed organigrammi, “rotazioni”, stipendi, bilanci delle singole organizzazioni»6 indicava una prospettiva di lavoro che potesse
recuperare, sulla base di un esame delle risorse materiali (finanziarie, immobiliari)
e immateriali (esperienza dei quadri dirigenti, preparazione di quelli periferici) a
disposizione degli organismi sindacali, l’effettiva consistenza degli spazi di agibilità politica e di operatività di cui questi riuscivano a disporre nel confronto con
la controparte padronale, tanto nel campo della contrattazione collettiva, quanto
in quelli relativi al rispetto dei patti di lavoro, all’applicazione della legislazione
sociale, alla gestione degli enti mutualistici. Elementi che Gagliardi trascura di indagare, restringendo il proprio campo di osservazione sulle dinamiche relazionali
intercorrenti tra la dirigenza sindacale, il Consiglio nazionale delle corporazioni e,
al suo interno, il Comitato corporativo centrale, per questa via scegliendo di testare l’incidenza del sindacato nel solo ambito dell’attività istituzionale condotta da
soggetti dimostratisi marginali nello sviluppo dei processi decisionali, renitenti ad
avvalersi delle attribuzioni normative loro affidate e scarsamente tenuti in considerazione quando anche si limitarono all’esercizio di funzioni consultive7.
Una seconda serie di osservazioni, inerente il vaglio dei soggetti istituzionali
rilevanti ai fini della ricerca, concerne l’individuazione dei nuclei documentari disponibili. Nel testo di Gagliardi tale connessione non viene approfondita8, sebbene
la produzione storiografica sul corporativismo risulti pesantemente condizionata,
4
Domenico PRETI, Per una storia del sindacalismo fascista negli anni Trenta, in ID., Economia e istituzioni
nello stato fascista, Roma, Editori Riuniti, 1980.
5
GAGLIARDI, Il corporativismo fascista, cit., p. 168.
6
PRETI, Per una storia del sindacalismo fascista negli anni Trenta, cit., p. 263.
7
«Tutta la politica economica svolta in quegli anni cruciali dal fascismo venne predisposta ed attuata prescindendo completamente dalle discussioni e dal parere del consiglio nazionale delle corporazioni, che per
esempio non fu neppure interpellato quando si trattò di creare organismi dell’importanza dell’IRI o dell’Istituto mobiliare italiano». AQUARONE, L’organizzazione dello Stato totalitario, cit., p. 193.
8
Le sole considerazioni riservate al tema si esauriscono nella constatazione della «lacunosità delle fonti
a disposizione dello storico (sono infatti andati persi molti archivi degli organi corporativi, del ministero
delle Corporazioni e dei sindacati fascisti)». GAGLIARDI, Il corporativismo fascista, cit., p. XII.
144
Francesco Altamura
tanto nella traiettoria tracciata dai sentieri maggiormente battuti dagli storici quanto
nei ritardi accumulati complessivamente negli studi, dalle vicende relative alla dispersione degli archivi del ministero delle Corporazioni avvenuta durante il secondo
conflitto mondiale9. La preminenza accordata da Gagliardi prima alla dialettica interna al Consiglio nazionale delle corporazioni, poi alle discussioni condotte in seno
ad alcune delle corporazioni varate nel 1934, non può che risentire di questi vuoti e
rinviare alla difficoltà ampiamente riconosciuta di individuare complessi documentari che riescano a colmarli. Relegando però sullo sfondo questi nodi problematici,
che restano ben ai margini della trattazione, l’effetto prodotto è di elevare a paradigmi interpretativi quelle che possono a ragione considerarsi opzioni di ricerca la cui
incrinatura ineluttabilmente riflette le crepe archivistiche che si aprono sotto i piedi
dello studioso che intenda inoltratosi nei territori della ricerca sul corporativismo.
È in relazione a queste difficoltà oggettive che gli studi locali sul fascismo, in
primo luogo capitalizzando la mole di documenti prodotta dagli apparati periferici
dello Stato, che, nel caso degli studi sulle istituzioni corporative e sui sindacati
fascisti, rimane scarsamente esplorata, possono concorrere a determinare un avanzamento significativo dello stato delle conoscenze. Su base provinciale, infatti, plurimi sono agli attori istituzionali la cui documentazione racchiude un potenziale
conoscitivo tuttora poco scandagliato: per quanto concerne i fondi documentari
delle prefetture, oltre le relazioni periodiche riflettenti la situazione sindacale e i
fascicoli personali di dirigenti e quadri periferici delle unioni provinciali - tipologie, queste, conservate nei carteggi di gabinetto -, materiale riguardante la gestione
finanziaria degli organismi sindacali sono presenti nelle serie amministrative. Ancora, la parte più propriamente politica del materiale conservato nei fondi delle
federazioni provinciali del PNF illumina le relazioni che a livello locale si istaurano
tra gerarchie del partito, gruppi padronali e burocrazie sindacali, mentre le serie
archivistiche degli ispettorati corporativi, oltre a conservare copia dei contratti
collettivi stipulati, costituiscono fonte preziosa per appurare la reale applicazione
della legislazione sul lavoro in materia previdenziale e assistenziale. Infine, i complessi documentari prodotti dai consigli provinciali dell’economia corporativa, che
raccolgono tipologie plurime di atti e carteggi riflettenti l’andamento complessivo
dell’economia in provincia, rappresentano un punto d’osservazione privilegiato del
processo con cui progressivamente le articolazioni statali si prestano a esercitare in
periferia funzioni di controllo, coordinamento e mediazione in ambito produttivo,
con un’accelerazione sostanziale coincidente con la svolta autarchica.
9
Per un quadro delle dispersioni riguardanti i corpi documentari prodotti dalle direzioni generali del ministero e dagli organi centrali delle confederazioni sindacali: Ferdinando CORDOVA, Le origini dei sindacati
fascisti, Torino, Einaudi, 1974, p. 89; PRETI, Per una storia del sindacalismo fascista negli anni Trenta, cit., pp.
262-3; le considerazioni di Tranfaglia contenute in Louis R. FRANCK, Il corporativismo e l’economia dell’Italia fascista, a cura di Nicola TRANFAGLIA, Torino, Bollati Boringhieri, 1990, p. X; Gianpasquale SANTOMASSIMO, La terza via fascista. Il mito del corporativismo, Roma, Carocci, 2006, p. 101.
145
“Il corporativismo fascista di Alessio Gagliardi”
Chiaramente, le sollecitazioni a riservare la dovuta attenzione alla documentazione prodotta dagli enti periferici dello Stato non sono disgiunte dalla consapevolezza che la premessa per il conseguimento di reali progressi sul fronte delle
acquisizioni conoscitive è che le ricerche locali non siano condotte in condizione
di isolamento, ma possano avvalersi di strumenti di raccordo e di condivisione che,
come già Marco Palla suggeriva in un saggio del 1991, contemplino anche «la possibilità di costituire vere e proprie banche dati, cronologie, apparati sinottici»10. La
necessità di capitalizzare l’elevato grado di dettaglio che caratterizza gli studi locali
sul fascismo risponde alla duplice convinzione che automatismi e meccanismi su
cui si impernia il regime totalitario di massa sono proficuamente descrivibili dalla
periferia, e che, proprio servendosi di un tale punto d’osservazione, è possibile
approntare modelli di funzionamento che ambiscano ad avere validità euristica di
carattere generale, anche, ovviamente, per quel che concerne gli studi sull’ordinamento corporativo. È facendo ritorno, su questi presupposti, al lavoro di Gagliardi, che ci sembra di poterne cogliere le sfocature che attengono alla formulazione
di un paradigma interpretativo carente di elementi di riscontro che lo aggancino
al funzionamento concreto degli istituti e degli organismi presi in esame. Venuto
meno questo nesso, l’autore si ritrova a esprimere giudizi e valutazioni che al più
paiono riflettere le aspirazioni espresse dalla burocrazia ministeriale.
Accade, ad esempio, che agli ispettorati corporativi venga attribuita la capacità di «esercitare un pieno controllo sull’effettiva applicazione degli accordi
[di lavoro] e sull’intera attività dei sindacati»11, piuttosto improbabile considerata
l’assoluta inadeguatezza degli organici di fronte al proliferare degli adempimenti
derivanti dall’espandersi della legislazione in materia previdenziale12. Ancora, con
10
Marco PALLA, La presenza del fascismo. Geografia e storia quantitativa, in «Italia contemporanea», 1991,
n. 194, p. 399.
11
GAGLIARDI, Il corporativismo fascista, cit., p. 51.
12
Per quanto riguarda la situazione in Puglia e Lucania con riferimento ai rapporti di lavoro in agricoltura,
con soli tre ispettori incaricati di reprimere le infrazioni su di un territorio che ricade sotto la giurisdizione di
ben sette unioni provinciali, non è da meravigliarsi che il Circolo dell’Ispettorato di Bari, dapprima, nel gennaio
1940, comunichi al ministero l’ineluttabile riduzione, nella conduzione dell’attività di vigilanza, delle ispezioni
ordinarie (cui si cerca di sopperire incrementando gli accertamenti straordinari), e alcuni mesi dopo, in luglio,
denunci la strutturale inadeguatezza dei propri organici nell’assolvimento della mole di lavoro connessa agli
incarichi istituzionali attribuitigli: «le relazioni tra l’ufficio e le organizzazioni sindacali sono normali nella
forma ma non nella sostanza. Infatti quelle tra l’ufficio e le Unioni dei Lavoratori non sono soddisfacenti: causa
principale e forse unica di questa situazione è la insufficiente attrezzatura di questo ufficio per cui pratiche
effettivamente urgenti o considerate tali dalle Unioni dei Lavoratori vengono trattate con grande ritardo e dopo
ripetuti solleciti. […] Le Unioni - pressate dai lavoratori inquadrati - […] insistono per ottenere l’immediato
intervento di questo Ispettorato in tutti i casi - purtroppo troppo frequenti - di infrazione alle leggi sul lavoro ed
in modo speciale ai contratti collettivi. In effetti è avvenuto che in un momento in cui, per ovvie ragioni, sarebbe
necessario intensificare la vigilanza sulla applicazione delle leggi sul lavoro e dei contratti collettivi, e mentre il
numero delle disposizioni di legge e di contratto riguardo l’assistenza dei lavoratori e delle loro famiglie aumenta quasi giornalmente, il personale ispettivo è diminuito». Archivio di Stato di Bari, Ispettorato Provinciale del
Lavoro, b. 23 «Relazioni mensili sulla situazione economica della regione (1937 - 1944)».
146
Francesco Altamura
riguardo alla volontà di un ricambio della dirigenza sindacale, manifestata sul finire
degli anni Venti dal ministro Bottai, la rilevanza attribuita dall’autore all’istituzione di scuole sindacali incardinate nelle facoltà giuridiche dei maggiori atenei13 non
è suffragata da un accertamento dei dati relativi alle iscrizioni registrate presso
tali corsi, che, ad esempio, per quanto riguarda l’Università di Bari - unica, con
Napoli, nel Mezzogiorno peninsulare, ad aver istituito una Scuola di Perfezionamento in Studi Corporativi -, furono disertati dai fiduciari sindacali, destando l’insoddisfazione delle gerarchie locali del PNF. D’altra parte, da un esame dei
quadri dirigenti provinciali espressi dalla Confederazione Agricoltura in Puglia
e Lucania, facilmente si rileva come ancora nella seconda metà degli anni Trenta
quelli tra i dirigenti che, con alle spalle un percorso di formazione universitario,
non avevano, per ragioni anagrafiche, esperienze pregresse rispetto alla trafila condotta nella burocrazia sindacale fascista, erano vere mosche bianche14, rimanendo
ancora affidata l’ossatura periferica della Confederazione a ‘diciannovisti’, ex legionari fiumani, sindacalisti di formazione corridoniana o con trascorsi socialisti,
personale insomma il cui battesimo politico si era consumato a cavallo del primo
conflitto mondiale.
La difficoltà a proporre un’analisi delle riforme varate in campo sindacale
che ne valuti la ricezione e l’effettiva applicazione da parte degli apparati ministeriali, emerge anche in relazione alle considerazioni espresse in merito alla riforma
degli uffici di collocamento del 1934: Gagliardi, che focalizza l’attenzione sullo
scontro tra PNF e dirigenza sindacale per il controllo di questi organismi15, trascura
le ricadute concrete del nuovo ordinamento, che, con l’istituzione di un ufficio
unico di collocamento per provincia, lavora a sottrarre autonomia operativa ai segretari delle unioni dei lavoratori, costretti a cedere prerogative di controllo sulla
periferia dell’organizzazione ad una catena di comando che, passando per la figura
del collocatore unico provinciale, risponde ora direttamente al prefetto16.
Un’ultima serie di osservazioni va riservata a quello che sembra configurarsi
quale fattore di deformazione prospettica non secondario nel determinare alcune
sfasature di periodizzazione: la preminenza riservata da Gagliardi all’analisi delle
relazioni industriali, tradotta in un’attenzione pressoché esclusiva per l’organizza13
GAGLIARDI, Il corporativismo fascista, cit., p. 64.
Si tratta di Mambrino Zaccaria, classe 1906, dottore in scienze agrarie, nel novembre 1935 designato
segretario dell’Unione provinciale di Potenza; di Antonio Giannelli, classe 1904, dottore in scienze economiche e commerciali, cui nel 1940 è affidata la segreteria dell’Unione di Matera; di Daniele Prinzi, classe 1903,
dottore in scienze agrarie, segretario dell’Unione di Taranto tra l’ottobre del 1938 e il giugno 1941, nel dopoguerra Direttore Generale della Sezione Speciale per la Riforma Fondiaria in Puglia, Lucania e Molise.
15
GAGLIARDI, Il corporativismo fascista, cit., p. 102.
16
Indirettamente, a riprova dello spostamento di competenze concretatosi con la riforma del 1934, sta
il giudizio unanimemente negativo, espresso dai prefetti di Puglia e Lucania nel 1938, in merito all’ipotesi,
formulata dal ministero delle Corporazioni e poi condotta in porto, di affidare alle unioni provinciali dei
lavoratori i servizi di collocamento della mano d’opera, sopprimendo gli uffici unici provinciali.
14
147
“Il corporativismo fascista di Alessio Gagliardi”
zione degli interessi in tale settore, non lascia spazio ad un esame dei rapporti di
lavoro in agricoltura. Ne risulta alterata la realtà dei rapporti di produzione tra le
due guerre, con particolare effetto distorsivo per quel che attiene il Mezzogiorno:
se nel paragrafo su Politiche sociali e legislazione de lavoro è collocata all’inizio
degli anni Trenta la svolta per cui nel settore previdenziale e assistenziale «le rappresentanze dei lavoratori trovarono una nuova ragion d’essere nella costruzione
di un sistema di tutele più avanzato»17, la realtà del comparto agricolo attesta che
fu necessario attendere il 1936 per la costituzione delle casse mutua malattia provinciali e il 1937 per l’erogazione degli assegni famigliari di disoccupazione, con
prestazioni che in entrambi i casi nelle regioni meridionali risultarono gravemente
compromesse prima dalla strategia padronale di evasione contributiva, poi dall’ingresso del Paese in guerra. Fuorvianti anche alcune considerazioni espresse a margine dell’istituzione dell’Infail nel 1933: «l’ammissione alla tutela dei soli lavoratori
dell’industria, privata e pubblica, e l’esclusione dei lavoratori agricoli o dei trasporti
derivava - secondo l’autore - dal dato oggettivo che la quasi totalità degli infortuni
si concentrava nell’industria»18. Semmai, per inverso, un indice della pesante condizione di subalternità in cui il regime sospingeva milioni di lavoratori della terra
è dato dalla scelta dell’establishment corporativo di non opporsi, almeno fino alla
metà degli anni Trenta, alla sistematica deregolamentazione dei rapporti di lavoro
efficacemente perseguita dal padronato, cui era concesso di disporre liberamente
della manodopera senza che la burocrazia ministeriale riuscisse a esercitare tipiche
funzioni statuali di controllo della legalità riguardanti la tutela del lavoro e il rispetto della legislazione assistenziale e previdenziale. Di qui, anche, la mancanza di
apparati idonei e di risorse adeguate ad esperire funzioni ispettive nelle campagne,
abbandonate ad una individualizzazione feroce dei rapporti di lavoro.
È da rilevare infine come la preminenza accordata, nell’economia complessiva del lavoro, al nodo delle politiche industriali, diventi ancor più marcata quando
l’autore volge l’attenzione alla riconfigurazione degli assetti produttivi conseguenti alla svolta autarchica: ne restano del tutto espunte però le tensioni cui pure il
comparto agricolo è sottoposto. Queste, ricomposte sul versante padronale con
la costituzione dei consorzi agrari obbligatori nei quali è ribadita ed esasperata la
subalternità di piccoli e medi coltivatori alla grande proprietà, precipitano in una
crisi irreversibile col fallimento della politica degli ammassi. Attorno a questa infatti si aggrovigliano frizioni che, esacerbatesi negli anni del conflitto, sanciscono
al contempo l’ineluttabilità di una fuoriuscita liberista, il riemergere prepotente
della conflittualità sociale, il collasso degli istituti preposti a imbrigliare le economie locali in funzione dello sforzo bellico: sull’onda del rialzo dei salari dovuto alla
carenza di braccia per le partenze al fronte, i produttori, se da un lato, con la pre17
18
GAGLIARDI, Il corporativismo fascista, cit., p. 98
GAGLIARDI, Il corporativismo fascista, cit., p. 97
148
Francesco Altamura
cettazione forzosa della manodopera, invocano la presenza dello Stato, dall’altro
lo rifuggono, non trovando convenienti i conferimenti da effettuare agli ammassi
a prezzi calmierati; le derrate, così imboscate, alimentano un mercato nero progressivamente più pervasivo, senza che gli apparati preposti riescano a reprimere
infrazioni divenute norma. I contorni dell’eclissi di quello che Santomassimo ha
definito il “mito del corporativismo” ricalcano dunque, nelle provincie del Mezzogiorno, quelli del manifesto fallimento dei piani autarchici in agricoltura, la cui
storia si inscrive nell’inesorabile sgretolarsi, sotto i colpi delle contingenze belliche, dell’edificio corporativo.
149
150
Alessandro de Troia
Guglielmo de Parisio. Un esempio di successione feudale
in Capitanata nella transizione svevo-angioina
di Alessandro De Troia
Sono molti anni ormai che diversi studiosi del periodo medievale si occupano delle vicende susseguitesi in Capitanata e a Lucera, riportando alla luce
frammenti di storia locale andati dimenticati offrendo al territorio una importante
rivalutazione di tale epoca storica. Nello specifico, Lucera ha ricevuto particolari
attenzioni dovute alla famosa colonia di Saraceni trasferiti nel Tavoliere da Federico II di Svevia dal 1223.1
Poco si è scritto, invece, sui personaggi e i fatti facenti parte della microstoria
locale, probabilmente a causa delle numerose lacune documentarie del periodo federiciano. Proprio per tale motivo, si è creato un cono d’ombra anche su una serie
di insediamenti limitrofi a Lucera di cui scarse sono state le notizie storiche raccolte per il periodo svevo.2 Fortunatamente, l’immensa mole documentaria costituita
dai registri angioini3 permette di ricostruire, seppur in maniera frammentaria, non
solo le vicende del primo periodo angioino, ma anche tutto il momento di transizione dall’ultimo svevo a Carlo I, consentendo, a chi fosse interessato, di riscoprire
il quadro generale e particolare di tutta una serie di avvenimenti e notizie rimaste
segnate nei diplomi.
In questo scritto si vuole mostrare come, attraverso l’analisi della documen-
1
Tra i più completi e puntuali: PIETRO EGIDI, La colonia saracena di Lucera e la sua distruzione, Napoli,
1912 e JULIE TAYLOR, Muslims in medieval Italy. The Colony at Lucera, Lexington Books, 2005
2
È il caso, per citarne alcuni, di Castelnuovo della Daunia (vedi PASQUALE CORSI, Castelnuovo della Daunia nel Medioevo, Regione Puglia, 1999, da ora sigl. Castelnuovo), Pietramontecorvino, Montecorvino (vedi
SALVATORE SAVASTIO, Notizie stanche sull’antico città di Montecorvino di Puglia e sul borgo di Serritella,
Pozzuoli, 1940), Alberona (vedi GAETANO SCHIRALDI, Storia di Alberona, dalle origini al XIX secolo, 2008),
San Marco la Catola (leggo addirittura sul sito del Comune che “molto incerte sono le vicende che caratterizzano il paese nell’epoca sveva, non si hanno documenti o altre testimonianze che provino il casato allora
vigente”) e tanti altri luoghi (si rimanda a Capitanata Medievale, a cura di MARIA STELLA CALÓ MARIANI,
Claudio Grenzi Editore, Foggia, 1998 e a GHISLAINE NOYÉ, JEAN MARIE MARTIN, La Capitanata nella storia
del Mezzogiorno medievale, Società di Storia Patria Bari, 1991).
3
I registri della cancelleria angioina ricostruiti da Riccardo Filangieri con la collaborazione degli Archivisti
napoletani. Napoli, Accademia Pontaniana, 1950 - (da ora sigl. Registri della cancelleria).
151
Guglielmo de Parisio. Un esempio di successione feudale in Capitanata
tazione superstite del periodo svevo e primo angioino, si possa iniziare un serio
percorso di studi volto alla messa in luce di aspetti finora poco considerati. In
particolare si vogliono ripercorrere gli equilibri feudali della Capitanata durante
il XIII Secolo e presentare un esempio dell’impiego della documentazione rimasta
inesplorata, poiché intrecciata tra atti locali meno noti e testimonianze più approfondite. È il caso di Guglielmo de Parisio, di cui molti si sono occupati,4 senza mai
però riuscire a delineare un quadro completo di questo personaggio protagonista
della storia locale pugliese. Il contesto storico nel quale si inserisce è rappresentato
dal periodo in cui Corradino di Svevia, sceso nel Regnum durante l’autunno del
1267, rivendica la corona di Re di Sicilia detenuta da Carlo I d’Angiò, incoronato a
Roma nel giorno dell’Epifania del 1266 e vincitore su Manfredi di Svevia a seguito
della Battaglia di Benevento avvenuta il 26 febbraio del 1266.
Il primo documento, datato 5 aprile 1268, in cui Guglielmo è presente, è
la bolla di scomunica diretta a Corradino e ai suoi fautores redatta da Papa Clemente IV,5 non ultimo tra i numerosi anatemi lanciati contro i filo svevi.6 Willhelm de Parisius è definito complice dello svevo, nonché alla testa della ribellione
dei Saraceni di Lucera, così come è confermato in uno stralcio della cancelleria
angioina.7 La rivolta prese piede in tutto il Regno di Sicilia mentre Carlo era in
Toscana8 per tessere rapporti con la fazione guelfa. I Saraceni di Lucera, che in
un primo momento avevano fatto buon viso a cattivo gioco nei confronti dell’angioino, consegnando dodici ostaggi e rimettendosi alla sua clemenza, decisero di
rinnovare la loro fedeltà per la causa ghibellina, mettendo a ferro e fuoco il circondario costringendo il Re a precipitarsi nelle sue terre.9 Il 20 maggio 1268 Carlo iniziò l’assedio alla colonia musulmana, ponendovi fine il 12 giugno, quando
deciderà di portarsi verso Corradino per la battaglia di Tagliacozzo, scontro che
decreterà le sorti dell’odierna Italia meridionale il 26 agosto 1268.10 Alla notizia
della sconfitta, nonché della cattura di Corradino, le forze ribelli, con alta proba4
Il primo ad occuparsene fu il Del Giudice nel suo Codice Diplomatico (GIUSEPPE DEL GIUDICE, Codice
Diplomatico del Regno di Carlo I e II d’Angiò – Volume 2 parte 1, Napoli, 1869, da ora sigl. Codice Diplomatico) in una nota di un documento relativo alla cattura dei ribelli in terra d’Otranto (vedi pag. 315, nota
(a) ). Di seguito si elencano altri studi che accennano a Guglielmo de Parisio: PIER FAUSTO PALUMBO,
Terra d’Otranto tra gli Svevi e gli Angioini in« Archivio Storico Pugliese» XI 1958, pag. 79, nota 3 PIER FAUSTO PALUMBO, Manfredi Maletta gran camerario del Regno di Sicilia. Con regesto degli atti (1255-1310), Le
Edizioni del Lavoro, 1980, pag. 139 EDUARDO GEMMINNI, La Luceria Saracenorum ed i luoghi della memoria:
il “Castrum Sancti Iacobi” in Luceriae Historia, www.ilfrizzo.it, 2007
5
Monumenta Germaniae Historica. Epistolae saeculi XIII e regestis pontificum (da ora sigl. MGH. Epistolae) 3, pag. 698
6
Idem, pag. 714 in cui compare nuovamente Guglielmo de Parisio
7
“Quondam Guillelmus de Parisio proditor cum Saracenis Luceriae”. G. Del Giudice, Codice Diplomatico 2.1, pag. 42
8
Codice Diplomatico 2.1, pag. 83
9
Codice Diplomatico 1, pag. 304
10
Codice Diplomatico 2.1, pag. 152
152
Alessandro de Troia
bilità, subirono un duro colpo psicologico poiché videro svanire l’emblema della
lotta contro il Papato e l’invasore angioino. A Lucera la ribellione continuò per
i 12 mesi successivi, stremati dalla fame i saraceni e gli ultimi ghibellini rimasti si
consegnarono al Re intorno al 27 agosto 1269.11 È ipotizzabile, però, che i capi
della rivolta intrapresero la via del mare, forse verso Brindisi o Gallipoli, così
come riporta il Liber Regiminum Padue,12 secondo cui il «dominus Gulielmus
Paris13 aufugit, et apud Brundusium galeam est ingressus, cupiens ire in Greciam.
Denique rediit, et captus fuit suspensus». La conferma della cattura e della successiva esecuzione capitale è inserita in diversi documenti della curia angioina.
Nel resoconto di Gualterius de Summarosa,14 giustiziere di Terra d’Otranto, apprendiamo che dall’8 luglio 1268 fino al 15 ottobre 1269, si susseguirono la presa
dei ribelli fuggiti e la caduta di Gallipoli - che avvenne l’8 maggio 1269 - con numerose notizie sui beni ricavati tra cui armi, vestiti, suppellettili e altro trovati in
mano ai proditores. Tra questi, il primo ad essere segnalato è proprio Guglielmo
de Parisio, di cui Carlo avrà notizia della morte non prima del gennaio 1269,15
in concomitanza alla sua confessione ritenuta dall’angioino tanto importante da
comunicarne l’avvenuta ricezione al giustiziere di Terra d’Otranto.16 Presumibilmente il malcapitato, per sfuggire ai supplizi o in preda al dolore, riferì fatti
interessanti circa la ribellione nel Regno. Intanto, Carlo inviava mandati a tutti i
giustizieri, al fine di raccogliere e incamerare tutti i beni posseduti dai traditori.
Secondo tali registri,17 Guglielmo deteneva territori in Capitanata e Basilicata che
11
Codice Diplomatico 3, pag. 124, nota 1. Sull’argomento chi scrive ha intenzione di esaudire il desiderio
di Del Giudice di una monografia relativa ai due assedi della città di Lucera ad opera di Carlo I inserendo
anche spunti di archeologia sperimentale coadiuvato da Michele Giardino, laureando in Archeologia presso
l’università di Foggia. Allo stato dell’arte sono stati raccolti oltre 300 tra documenti, stralci di cronache e
trascrizioni di regesti che saranno la base di partenza per un accurato studio sull’argomento.
12
Liber Regiminum Padue, in Rerum Italicarum Scriptores, VIII, Città di Castello, 1904, pag. 330 APPENDICE III
13
A mio avviso nella sua dissertazione Pier Fausto Palumbo individua a ragion veduta nel “Gulielmus
Pacis” della cronaca il Guglielmo de Parisio pugliese.
14
Codice Diplomatico 2.1, pag. 311
15
Idem, pag. 315 su cui torneremo più avanti: «Karolus etc. Universis justitiariis. Secretis. Bajulis. Magistris Juratis. Juratis. Judicibus aliisque officialibus per Regnum Sicilie constitutes. Fidelibus suis etc. Cum nos
Civitates Castra villas ac omnes terras quas quondam Guillelmus de Parisio proditor noster in Regno nostro
tenuit et possedit, cum hominibus vassallis possessionibus ac omnibus juribus et pertinentiis suis Nobili viro
Johanni Britando militia dilecto Consiliario familiari et fideli nostro suisque heredibus utriusque sexus de speciali gratia duximus concedendas fidelitati vestre firmiter precipiendo mandamus quatenus ad requisitionem
Gerardi donemarie militis procuratoris ejusdem Johannis Britandi. Victualia animalia et alia hujusmodi bona
mobilia se seque moventia predictarum terrarium que per privatas detinentur personas. Inquirere et capere et
predicto Gerardo ipsius Johannis nomine cui Johanni ea concessimus assignare curetis. Proviso quod ad ea que
de bonis hujusmodi massariis nostris applicata jam sunt aut nostris procuratoribus assignata manus ullatenus
extendatis. Datum Fogie XXIX. Januarii XII Indictionis».
16
“Noveris preterea quod recepimus confessionem Guillelmi de Parisio, proditoris nostri, quam olim sub
sigillo tuo nostre Curie destinasti […]”. Registri della cancelleria I, p. 313
17
Codice Diplomatico 2.1, pag. 322-323, Registri della cancelleria I, pag. 230
153
Guglielmo de Parisio. Un esempio di successione feudale in Capitanata
furono tutti donati, alla sua morte, a Johanni Britando18 ‘familiare’ del Re. E
proprio dall’analisi delle annotazioni contenute nei registri si evincono notizie
molto interessanti. Del Britando sappiamo che discese in Italia con l’angioino
e fu incaricato Vicario generali in Tuscia19 nonché Comestabulus del Regno,20
fino al 1270 quando fu chiamato da Carlo I a partire con lui verso Tunisi. Dei
diversi documenti che ne descrivono le gesta, ci interessa riportare due concessioni ricevute dal Britaud: la prima riguarda pro terra Castelluci, casale Sancti
Petri, Dragonara, Sancto Iuliano, Sancto Marco, Lapetra, Cantulana et Casalorda in Capitanata,21 mentre la seconda riguardante Dragonelle, Castellucii et aliarum terrarum.22 A questo punto possiamo ripercorrere il passaggio
feudale della zona a nord-ovest di Capitanata idealmente identificata come un
poligono aventi vertici individuati tra San Severo(FG) (escluso) a nord-est,
Lucera(FG) (escluso) a sud-est, San Marco la Catola (CB) a sud-ovest San Giuliano di Puglia(CB) a nord-est. Si può affermare senza ombra di dubbio che
Guglielmo de Parisio era feudatario di tutta la zona e lo conferma una lettera di
Papa Alessandro IV indirizzata ad un Ruggero de Parisio,23 che ritengo essere
il padre, o comunque, uno stretto familiare di Guglielmo. Riporto di seguito
l’intero documento:24
Napoli, 8 Maggio 1255
Nobili viro Rogerio de Parisio, fideli nostro, salutem
Matris ecclesie multa benignitas illum circa filios servat pietatis affectum,
ut et hiis etc. usque: non repellat. Attendentes igitur quod ad devotionem
ipsius ecclesie de tua salute sollicitus rediisti, dulci ac suavi eius dominio
humiliter te summittens, ac propter hoc recipientes te in nostram et apostolice sedis gratiam tibique omnes iniurias et offensas, quas nobis et eidem
sedi ac ecclesie intulisti, totaliter remittentes, quia volumus te in huiusmodi
devotione congruis firmare favoribus et condignis gratiis confovere, tuis
supplicationibus inclinati, castrum Castellutii de Scalvis et casale sancti Petri de Castellucio, que iure successionis te obtinere proponis, et concessiones de Dragonaria et casali Plantilliani et de castris sancti Iuliani et Petre
18
Così come stabilito nel documento riportato nella nota 15.
Codice Diplomatico 2.2, pag. 34
20
CAMILLO MINIERI RICCIO, Cenni storici intorno i Grandi Uffizii del Regno di Sicilia duranti il regno di
Carlo I d’Angiò, Napoli, 1872, pag. 6. Per la figura del Comestabulus si veda Idem, pagina 3.
21
Registri della cancelleria IV, pag. 54
22
Idem, pag. 68
23
Spero, in altra sede, di riuscire a presentare l’intera documentazione relativa a questo Barone di Capitanata al tempo di Federico II e Manfredi. Anche in questo caso, la documentazione permette di analizzarne la
figura e i possedimenti inserendolo nel contesto storico della zona. Inoltre questo de Parisio non va confuso
con il ramo siciliano della famiglia (vedi ad esempio J. L. A. Huillard-Brèholles, Historia Diplomatica Friderici II, Tomo 2 parte 1, Parigi, 1852-61, pag. 466).
24
MGH, Epistolae, p. 355
19
154
Alessandro de Troia
Montis Corvini a condam Fr. Olim Romanorum imperatore, venditionem
quoque et concessionem de castro Clusanum a nobili muliere Gemma consanguinea tua, nec non et concessionem de castro sancti Marci de Catula a
condam Conrado predicti Fr. Filio, et de casalibus Casalorde et Bisselleti a
nobili viro Manfredo tunc principe Tarentino, tunc pro regni Sicilie balio
se gerente, dudum tibi factas – non obstantibus quod dicti Fr. , Conradus
et Manfredus erant tunc temporis vinculo excommunicationis astricti, quodque alias facultatem conferendi vel concedendi taliter non hababant – ad
instar felicis recordationis I . pape predecessoris nostri [tibi et heredibus
tuis] de fratrum nostrorum consilio auctoritate apostolica confirmamus
etc. usque: communimus. Et ut tua devotio erga nos et eandem ecclesiam
magis crescat, castra et casalia predicta tibi tuisque sub debitis et consuetis
servitiis concedimus de gratia speciali, ita quod castra et casalia predicta
cum hominibus infeudatis et non infeudatis, silvis, pascuis, terris cultis et
incultis, quis aquarumque descursibus, et cum omnibus iuribus, iurisdictionibus et pertinentiis eorundem tu dictique heredes immediate a Romana
ecclesia, nullum alium preter ipsam recognoscentes exinde superiorem vel
dominum, perpetuo teneatis. Ut autem huiusmodi gratiam reputes gratiorem, scire te volumus, quod nos et eadem ecclesia te et heredes ipsos in
possessione predictorum castrorum et casalium manutenebimus, et contra
omnes, qui vos super premissis molestaverint, impetierint vel turbaverint,
defensione vobis adesse curabimus oportuna, et si aliquem ius in prefatis
castris et casalibus habere constiterit, sibi de convenienti concambio in regno Sicilie studebimus providere. Nulli etc. nostre confirmationis et concessionis etc.
Dat. Neapoli per manum Guillelmi magistri scolarum Parmensium sancte
Romane ecclesie vicecancellarii, VIII Kalendas Maii, indictione XIII, inearmationis Dominice MCCLV. Pontificatus vero domini Alexandri pape IV
anno I.
Il documento è datato al 1255 e, sebbene sia di circa quindici anni anteriore
rispetto ai fatti descritti in precedenza, il riepilogo effettuato nei confronti di Ruggero diventa fondamentale per collegare il passaggio delle terre dalla famiglia de
Parisio ai familiares di Carlo. È evidente, infatti, come tra i dieci luoghi elencati
nella lettera papale otto di questi vengano assegnati a Johanni Britando, provisio
delle terre possedute dal defunto Guglielmo de Parisio (vedi tabella). Con molta
probabilità, le terre rimanenti furono donate ad altri provenzali, ma in questa sede
si preferisce tralasciare questo aspetto.25
25
Registri della cancelleria III, p. 123
155
Guglielmo de Parisio. Un esempio di successione feudale in Capitanata
De Parisio
Britando
Riepilogo di Alessandro IV26 Locazione
Corrispondenza
Petre Montis Corvini
Pietramontecorvino (FG)
X
Castellutti de Sclavis
Castelnuovo della Daunia
(FG)
X
Sancti Petri de Castellucio
Casalvecchio di Puglia (FG)27
X
Casalorde
Casalorda,
a sud di San Severo (FG)
X
Dragonaria
Dragonara,
a ovest di San Severo (FG)
X
Casali Plantilliani
Plantilliano,
a nord ovest di Lucera (FG)
Castris Sancti Iuliani
San Giuliano di Puglia (CB)
Castri Clusanum28
Chiusano,
in località Gambatesa (CB)
Bisselleti
Visciglieto,
a nord est di Lucera (FG)
X
Sancti Marci de Catul
San Marco la Catola (FG)
X
X
I feudi detenuti dai De Parisio vengono trasferiti a Iohanni Britando dopo la morte di
Guglielmo
262728
26
Non vengono riportati tutti i castra, casalia e terre ricevute in donazione da entrambi ma solo quelli che
ci permettono di analizzare il filo rosso della situazione feudale nella zona descritta. Ad esempio, il Britando
ottiene anche le terre del “domino Gastine Aliani et Guardie”.
27
Castelnuovo, nel capitolo 3. Le testimonianze
28
MARIA TERESA LEMBO, I feudi di Clusanum e Vipera, in Archeomolise n.4, 2010, pag. 44
156
Alessandro de Troia
La zona individuata nello studio con indicazione delle località citate
Ruggero sembra inoltre feudatario anche per Fiorentino con una donazione attestata nei registri di Innocenzo IV, e datata 1254,29 probabilmente ricevuta
a seguito dei suoi servigi durante le dispute tra il papato e Manfredi.30 Sulle terre
di Castelluccio de’ Sclavis (oggi Castelnuovo della Daunia) e Pietramontecorvino
possiamo risalire fino alla fine del XII secolo e agli inizi del XIII grazie al Catalogus Baronum,31 dove compaiono due Ruggero: il primo32 connestabile per il conte
di Civitate delle terre, e il secondo,33 sempre con lo stesso onere, riferibile al barone
della lettera di Alessandro IV e probabilmente figlio del primo. A Castelnuovo, in
particolare, nel palazzo comunale è presente un’epigrafe,34 di cui ho trovato poche
notizie, recante accenni alla famiglia de Parisio (vedi foto).
29
MGH, Epistolae, p. 303
Come tutti i baroni del Regno aveva molto più a cuore i suoi possedimenti piuttosto che le sorti delle
sue genti. Le gesta di Federico II Imperatore e dei Suoi Figli Corrado e Manfredi, Nicolò Jamsilla, Ciolfi,
2007, p-194-195
31
ERRICO CUOZZO, Catalogus baronum. Commentario, Fonti per la storia d’Italia, 101**, Roma 1984
32
Idem, §391
33
Idem, §1414
34
Secondo lo studio di Corsi, Castelnuovo apparteneva ai de Parisio intorno al 1155 e il 1167 - anno in
cui veniva redatta la prima parte del Catalogus Baronum n.d.a. - quindi si potrebbe risalire anche al periodo
normanno indagando sui documenti riferiti a Castelnuovo.
30
157
Guglielmo de Parisio. Un esempio di successione feudale in Capitanata
L’epigrafe presente all’interno del cortile del palazzo comunale di Castelnuovo della Daunia.
Mutila e danneggiata si riferisce al figlio di Roberto de Parisio che fece erigere l’edificio.
Possiamo concludere auspicando un approfondimento sulla zona delineata
avendo mostrato come esista un substrato di documentazione, ancora da analizzare e da integrare con i regesti e le carte locali, favorendo la riscoperta degli insediamenti medievali di Capitanata rimasti in ombra.
158
Leonardo Aucello
Per una breve riflessione disincantanta sull’Unità d’Italia
di Leonardo P. Aucello
Nel 1824, dopo il fallimento dei primi Moti carbonari del 1820-21, il poeta
Giacomo Leopardi, nella solitudine del natio borgo selvaggio recanatese, completava l’opera Discorso sopra lo stato presente dei costumi degl’italiani. In essa, in
maniera molto lucida, l’autore confermava l’amara riflessione sull’incapacità degli
italiani a diventare una società coesa, una nazione unica e indipendente, ma, soprattutto, un popolo che, dalle Alpi alla Sicilia, riuscisse a formare una sola civiltà
e un solo modo di vivere e di pensare. Circa mezzo secolo dopo, il decano dei critici letterari, Francesco De Sanctis, nella sua monumentale Storia della Letteratura
Italiana, parlando della poetica di Leopardi, definì il grande recanatese come un
“padre della patria”, proprio perché egli fu il primo in assoluto che riuscì a fornire
un quadro chiaro e convincente sulla situazione politica di quel tempo attraverso
l’analisi realistica sul sentimento nazionale degli italiani di allora che, puta caso,
incarna molto quello del popolo italiano di oggi.
Nel Discorso sopra ricordato, Leopardi sostiene che gli italiani della sua epoca sapevano vedere le cose anche con uno spirito quasi filosofico, ma, purtroppo,
mancava in loro, e manca, forse, tuttora, l’idea di Stato, di Nazione, di popolo
unito e compatto, di rispetto delle istituzioni e di chi ci rappresenta: egli notava,
insomma, quasi una indifferenza, una diffidenza, un modo disincantato verso le
norme statutarie governative; e a motivo di ciò, a suo modo di vedere, difficilmente, il popolo italiano avrebbe mai potuto addivenire a una concreta forma di coesistenza e pensiero unico. Non ci sono, a mio modesto parere, parole più profetiche
di quelle leopardiane.
Infatti, dopo le affermazioni calzanti e un tantino provocatorie del poeta
di Recanati, diversi politici risorgimentali hanno ovunque nutrito una idea pessimistica, alla stregua di quella del Leopardi – ecco perché definito “padre della
patria” da De Sanctis – poiché molti di loro non credevano che si sarebbe potuta
avverare una identità nazionale sotto tutti i punti di vista, in virtù, soprattutto,
della millenaria divisione politica, sociale, culturale ed economica delle varie zone
del territorio italiano costituito da piccoli Stati autonomi, in cui la lingua ufficiale
di ognuno di essi, non corrispondeva a quella dei grandi poeti, a cominciare dal
vulgare toscano di Dante, cioè la lingua italiana colta di sempre, per continuare
159
Per una breve riflessione disincantata sull’Unità d’Italia
con il Petrarca, l’Ariosto, l’Alfieri, per arrivare fino al Foscolo, bensì all’idioma
popolare di una singola regione, e, quindi, di un singolo Stato. Se si pensa che i Re
della dinastia borbonica, a partire da Ferdinando I, soprannominato dai napoletani
come il Re Lazzarone, a motivo del suo goliardico carattere popolaresco, parlavano correttamente soltanto il dialetto napoletano. Stessa cosa si può ammettere per
duchi e principi sparsi per l’Italia che parlavano e dialogavano nella sola lingua del
proprio territorio di sovranità.
Per una civiltà così frammentata era difficile allora concepire una italianità
comune a tutti i popoli presenti nella Penisola. Tanto è vero che in uno dei capitoli
dell’opera autobiografica di Massimo D’Azeglio, primo ministro prima di Cavour
del Regno Sabaudo, e genero di Manzoni in quanto marito della figlia più grande,
Giulia, intitolata I miei ricordi e pubblicata nel 1867, riportò la frase che sarebbe
rimasta celebre nel tempo che diceva: «Fatta l’Italia bisogna fare gli italiani». Non
c’è stata affermazione che, per la sua valenza premonitrice, non abbia avuto tanto successo nei decenni successivi, fino ai giorni nostri, in quanto non solo viene
spesso ricordata da studiosi, giornalisti e politici, ma anche perché, secondo tanti,
in verità nessuno finora è riuscito “a fare gli italiani”, cioè a considerarli uniti, fiduciosi e credenti nei confronti dello Stato e delle sue prerogative.
Ci aveva tentato persino Mussolini, durante il ventennio del Regime, dal
1922 al 1943, ma la sua italianità appariva prevalentemente come una forma propagandistica del suo governo, infarcita più di una pedanteria ritualistica da cerimonia
di partito piuttosto che di una volontà possibile e concreta di unificare l’animo
nazionale del popolo che lui guidava e su cui direttamente comandava, seppure
non fossero ammessi pubblicamente, durante l’era fascista, termini stranieri; tanto
è vero che il Duce italianizzò persino il nome di alcuni paesi in francese e in tedesco
presenti nella Valle d’Aosta e nel Trentino Alto Adige.
Lo stesso Cavour, pur essendo un unitarista convinto dal punto di vista
politico-amministrativo, era, invece, molto perplesso che mai si sarebbe portata
a compimento una civiltà nazionale dal punto di vista sociale e culturale: infatti, a
motivo di questa sua perplessità, spinse e convinse, tuttavia, anche se all’inizio era
piuttosto contrario, Garibaldi a preparare una Spedizione nel Mezzogiorno d’Italia, che è passata alla storia come la “Spedizione dei Mille”, per annettere allo Stato
piemontese le popolazioni meridionali in cui più che una unità di vedute ci sarebbe
stata una piemontesizzazione della politica e dello sviluppo economico e sociale
del resto dell’Italia, specialmente del Mezzogiorno.
Quindi molto impegno e fede nell’unità amministrativa, ma poca in quella di
unione civile e culturale delle diverse estrazioni sociali e territoriali dell’Italia.
Tanto è vero che i primi governi del Regno d’Italia, meglio conosciuti come
i governi della destra cavouriana, imposero alle popolazioni centro-meridionali
delle prospettive diverse da quelle attese, a partire dalla imposizione del pagamento
delle tasse, fino allora sconosciuta, basti ricordare la tassa sul macinato, per conti160
Leonardo Aucello
nuare con l’obbligo della leva militare, solo per citarne qualcuna delle iniziative del
nascente assetto istituzionale.
Molti ricorderanno, certamente, il passo del romanzo de I Malavoglia di
Giovanni Verga quando Padron ‘Ntoni era molto rammaricato dal fatto che uno
dei nipoti doveva partire per militare e che poi morirà nella battaglia navale di
Lissa, nel 1866, durante la Terza guerra di Indipendenza. Questo suo rammarico
il vecchio capofamiglia lo confidava al farmacista del paese, il quale, essendo di
provata fede repubblicana più che monarchico-sabauda, in quanto seguace delle
idee mazziniane, esclamò che se si fosse realizzato il disegno politico repubblicano
sarebbe stato immediatamente eliminato l’obbligo della Leva. E Padron ‘Ntoni, di
rimando, subito sbottò, nella vaga speranza che il nipote non partisse per la guerra,
dicendo: «E facciamola subito questa repubblica!»
I governi della destra storica che promulgarono quelle leggi molto restrittive
per le popolazioni del Sud, tanto che, dopo appena qualche anno dall’Unità d’Italia, iniziò il secolare esodo migratorio verso paesi lontani, prima verso l’America
del Sud, poi verso quella del Nord con le nascenti città metropolitane atlantiche,
poi, durante il fascismo verso l’Australia, e, infine, verso l’Europa stessa, badarono
esclusivamente a saldare il debito di guerra contratto dal Regno di Piemonte per
organizzare le guerre e le battaglie per raggiungere l’Unità nazionale.
Si racconta che un Deputano del Regno, proveniente da uno dei Collegi elettorali della Campania, un certo Liborio Romano, che era stato ministro sotto l’ultimo Re Borbone, Francesco II, popolarmente noto come Franceschiello, dichiarò
che Torino, la prima capitale italiana, aveva estorto alla Cassa di Sconto di Napoli,
conosciuta come Banco Partenopeo, presente nella città partenopea da più di due
secoli, circa 80 milioni di lire di allora e nel bilancio preventivo nazionale aveva
ridistribuito alle popolazioni del Sud solo 39 milioni, tenendo per sé i rimanenti
40 milioni di lire circa. Ciò vuol dire che il nuovo Stato incamerava molto dal Sud,
ma restituendone in finanziamenti e strutture molto meno di ciò che incassava. E
allora si potrebbe considerare questo atteggiamento dei primi governi del nuovo
Regno unitario come una vera truffa ai danni della gente meridionale?
C’erano esigenze non solo di finanziamento delle casse dello Stato, ma vi
era ancora l’urgenza di completare lo Stato unitario con la liberazione dello Stato
Pontificio, e, quindi, con Roma capitale, del Veneto nelle mani dell’Austria, come
pure delle città di Trento e Trieste con le rispettive regioni, la cui opera di completamento è avvenuta solo con la vittoria nel 1918 della Prima guerra mondiale.
Le province del Sud, nei primi decenni postunitari, sono state in un certo
qual modo sfruttate e bistrattate rispetto al resto dell’Italia, per quanto ci siano
state iniziative di recupero di queste terre e delle loro popolazioni dopo una quinquennale guerra civile, dal 1861 al 1866, tra “briganti” e fedeli del vecchio regno nel
Sud, conosciuta come “Guerra al brigantaggio”. Importante, in tal senso, resta storicamente l’inchiesta commissionata dallo stesso Governo nazionale, meglio cono161
Per una breve riflessione disincantata sull’Unità d’Italia
sciuta come l’Inchiesta in Sicilia, sulla conclamata questione meridionale, del 1877,
effettuata da due professori universitari di scienze finanziarie e ministri del Regno,
Leopoldo Franchetti e Sidney Sonnino, in cui si cercò di capire e conoscere meglio
la condizione sociale, culturale, giuridica, economica e civile della gente del Sud e
delle tradizioni e vicende storico-popolari, la quale veniva considerata, purtroppo, alla stregua di certe popolazioni indigene africane. Nelle pagine di un’ampia
disamina dell’inchiesta si legge, tra l’altro: «Qui non è l’Italia ma sembra di essere
in Africa!». Allo stesso modo aveva scritto nella citata autobiografia il piemontese
D’Azeglio: «Unirsi con i napoletani è come andare a letto con i lebbrosi».
L’Unità nazionale per i meridionali è stata dunque più una guerra di conquista che una scelta voluta e preparata. L’ha preparata e realizzata Cavour, con
l’appoggio e l’egida del Re Sabaudo, Vittorio Emanuele II, che seppur titubante e
contrastante verso tale iniziativa, in definitiva, l’ha poi organizzata direttamente
con Garibaldi, come è stato ricordato. Ma, fatte salve tutte le valutazioni sia positive che negative possibili, ciò non vuol dire che l’Unità d’Italia non andava compiuta. Forse è stata, come si è detto, più una piemontesizzazione del Sud che un
riscatto sociale e politico vero e proprio, attraverso la strategia di una annessione
piuttosto sbrigativa, ma ciò non vuol dire che l’Italia non andava unita. E se oltre
che a fare l’Italia andavano, giustamente, fatti anche gli italiani, per citare ancora
D’Azeglio, per quanto si ritorni a parlare di grande differenza di civiltà, tradizione e organizzazione tra le Regioni settentrionali e meridionali, non significa che
in centocinquant’anni di storia unitaria non si siano compiuti dei grossi passi in
avanti. Tutt’altro!
La scolarizzazione collettiva, l’uso e la scoperta delle televisione e dei massmedia in generale, lo spostamento per motivi di studio e di lavoro da un punto
all’altro dello Stivale, lo sviluppo abbastanza avanzato del turismo artistico, balneare e religioso, hanno permesso che si potesse predisporre una fusione più organica
delle diverse parti d’Italia. È anche vero che il Sud è colpito dalla secolare piaga delle
mafie, fenomeno presente in Sicilia già dal 1500, ossia dal periodo dell’occupazione
spagnola; la stessa data, più o meno, è confermata per la camorra napoletana e il
caporalato in buona parte della struttura agricola del Sud, contro cui uno dei primi
a combattere questo fenomeno ancestrale di strapotere sulle masse contadine, è
stato proprio un pugliese che risponde al nome di Giuseppe Di Vittorio, originario
di Cerignola, che, nelle terre di Capitanata, agli inizi del Novecento, incominciò a
unire e sensibilizzare gruppi politico-sindacali di giornalieri e salariati nei latifondi
meridionali.
Oggi c’è un rigurgito antiunitario da parte di certi gruppi e schieramenti
politici come i rappresentanti della Lega Nord. Proprio questi ultimi tendono, secondo molti, attraverso nuove forme di finanza pubblica come il Federalismo di
tipo economico-fiscale, a una vera e propria divisione dello Stato unitario, con una
eventuale, successiva secessione politico-amministrativa; tanto è vero che essi non
162
Leonardo Aucello
si riconoscono nell’inno nazionale di Mameli e si definiscono non popolo nazionale italiano ma territoriale padano: per cui la loro patria vera non è l’Italia ma la
Padania, la quale, da semplice dimensione locale del Nord, diventa per costoro
emblema di un nascente, ipotetico nuovo Stato ed emblema, innanzitutto, di una
diversità politico-culturale dal resto della Nazione, soprattutto dal Sud, secondo
loro, arretrato e corrotto. Infatti, non riconoscendo la festa del 150esimo dell’Unità, del 17 marzo, non solo hanno istituito, per controbilanciarla a quella nazionale,
la festa lombarda delle “Cinque giornate di Milano” antiaustriache, ma, nel contempo, hanno giustificato tendenze culturali e strategiche di pura invenzione, organizzando a Sentana, alle porte di Torino, paese natale del Conte Cavour, primo
presidente del Consiglio del Regno d’Italia, un convegno su Cavour federalista, che
è una pura bufala e invenzione in quanto Cavour federalista non lo fu mai, come è
stato qui ricordato, ma ha rivestito a pieno i panni dell’unitarista convinto.
Federalista, durante il Risorgimento, fu, prevalentemente, il milanese Carlo
Cattaneo, che non credeva nella formula dell’Italia unita. Il pensiero del Cattaneo,
attraverso lo studioso e fondatore della Lega Nord, Gianfranco Miglio, è stato
preso a pretesto dai leghisti per testimoniare che l’unificazione nazionale è stata un
grande sbaglio, dimenticando, però, che l’Unità d’Italia è stata imposta dal Nord e
subìta dal Sud con successive forme di sfruttamento a vario livello: ed oggi si tenta
in tutti i modi di imporre la concezione che il Sud sia solo una palla al piede per il
resto dell’Italia.
Finora le popolazioni meridionali sono servite solo per il funzionamento
dell’organizzazione della macchina statale: basti osservare che la maggior parte
di infermieri, postini, ferrovieri, professori, medici, dirigenti dei ministeri, forze
dell’ordine, magistrati ecc, proveniva da gente istruita e non del Sud; ora che tali
funzioni vengono ricoperte anche da persone residenti al Nord, l’opera meritoria
dei meridionali non ha più una valenza importante. Allora, per chiudere, viene da
porsi una sola domanda: se centocinquant’anni fa il Nord ha colonizzato il Meridione, ora perché lo stesso Settentrione se ne vuole disfare con il pretesto assurdo
dell’inefficienza della gente del Sud? Fino a quando ha fatto comodo a costoro,
essi hanno voluto e spinto il Sud verso certe scelte e certe politiche, ora che alcuni
vantaggi non tornano più ci si vuol liberare per sempre del Mezzogiorno senza
capire, che, storicamente, se l’Italia dovesse dividersi di nuovo avrebbe un effetto
fallimentare per tutti, e, puta caso, prevalentemente per il Nord. L’ha ricordato
di recente anche il Presidente della Repubblica, l’onorevole Giorgio Napolitano
che ha affermato: «Uniti tutto si può, divisi è solo una sconfitta per tutti, nessuno
escluso».
163
164
Dionisio Morlacco
La “Storia della città di Lucera” fu scritta veramente
da Giambattista d’Amelj?
di Dionisio Morlacco
I cultori delle patrie memorie, amanti di questa ‘gentile città del Tavoliere
di Puglia’, hanno ripetutamente dimostrato, con un sentimento orgoglioso e forte,
l’appassionato interesse che coltivano per il plurimillenario retaggio di civiltà, per
la memoria dei suoi monumenti e delle sue tradizioni, esaltando in uno con gli antichi fasti e con gli splendori della Luceria romana i fermenti novatori della Lucera
sveva, periodi ampiamente celebrati, di contro al quasi perdurante silenzio sulle
vicende riguardanti gli altri secoli. Fu per questa constatazione, forse, che Pasquale
Soccio, in una riunione dei soci della Sezione di Lucera, Troia e Subappennino
Dauno della Società di Storia Patria per la Puglia, esprimeva l’idea che la storia di
Lucera andrebbe riscritta, o rivisitata, dopo aver compulsato con maggiore acume i
documenti già noti e ricercato più a fondo negli archivi in cerca di altri documenti,
al fine di delineare un profilo più marcato dei momenti storici meno indagati. E ciò
perché, al di là della pregevole e insostituibile Lucera del Gifuni - e degli altri suoi
incomparabili scritti -, non si può dire che esista una storia di Lucera veramente
completa, o doviziosamente aggiornata. La pur tanto nota e letta Storia della Città
di Lucera di Giambattista d’Amelj, poiché si ferma al XVII sec., trascura i due
grandi secoli del sette/ottocento, così determinanti per l’avvenire del Mezzogiorno
e della stessa Lucera: il settecento col suo fervore di pensiero e di attività; l’ottocento con le sue varie tensioni, la lunga e appassionante vicenda patria.
Scritta «non sempre con molto criterio» dall’autore o «da chi ebbe l’incarico
di compilare il libro che va sotto il suo nome», la Storia dameljana si presta ad alcune considerazioni che riguardano, appunto, la sua genesi e la sua paternità.
La citata affermazione del professore Pietro Revoire,1 cui fa il paio l’osservazione del Gifuni: vi fanno (nella Storia del d’Amelj) ‘difetto il procedimento metodologico e la critica’, si legano alle riflessioni nelle quali ci siamo spesso intrattenuti. Chi intraprende la narrazione storica di una città, di solito progetta di arrivare,
col suo racconto, fino ai suoi giorni, o a un tempo a lui più vicino e, comunque, ra-
1
Pietro REVOIRE, Lucera sotto la dominazione angioina, Ed. V. Vecchi, Trani 1901.
165
La “Storia della città di Lucera” fu scritta veramente da Giambattista d’Amelj?
ramente si ferma a secoli di distanza, trascurando periodi di notevole valore e significato. D’Amelj, invece, chiude la sua narrazione al 1692, con la sentenza definitiva
- e per Lucera favorevole - sulla lunga controversia dell’infeudamento della città al
conte Mattia Galasso: «Qui diamo fine al nostro dire su i fatti d’istoria risguardanti
peculiarmente Lucera, dapoiché… non abbiamo cose a riferire che avessero per noi
un interesse cittadino, perocché le grandi cose succedute in tal periodo di tempo
in ordine alle istituzioni politiche, amministrative, e giudiziarie, appartengono alla
storia generale di queste provincie meridionali d’Italia».2 Ebbene il Barone d’Amelj (Napoli 1817-Lucera 1891), che trascorse gran parte della sua vita a Lucera, della
quale fu Sindaco (1846/50), ma fu anche Presidente della Deputazione Provinciale
di Capitanata, avrebbe potuto quanto meno accennare ai momenti e agli aspetti più
salienti e più significativi di quei due secoli, nei quali si ritrovano pure fatti e ‘cose’
non da poco, cioè argomenti non privi di interesse cittadino, che rientrano a pieno
titolo nella storia di una città per connotarla.
Pur riconoscendo il sostanziale e grande valore della Storia dameljana, vien
fatto tuttavia di chiedersi: come mai uno scrittore, che nella sua opera si appalesa
ben documentato e corredato di molte ed autorevoli fonti, non abbia dato altre
prove ‘assaggi’ del suo interesse letterario e storico e non abbia fatto precedere
il suo importante lavoro da altri scritti, come di solito avviene ma, invece, si sia
limitato a stendere un’opera, che di per sé lascia ben supporre altri scritti preparatori, in veste di saggi e di articoli? Come mai d’Amelj non abbia partecipato più
palesemente alla vita culturale della città, con scritti, ad esempio, sui giornali o in
opuscoli, visto che era detentore di preziosi documenti, ricchi di notizie storiche
‘peregrine’ da portare a conoscenza? Interrogativi a cui non dà risposte neppure
l’aspra polemica, ovvero l’acceso contrasto con Benvenuto Colasanto - altro storico di Lucera - che trascese in pubblica denunzia, riguardante alcuni capitoli (quattro) della storia dameljana, ciò che evidentemente è all’origine del citato pensiero
del Rivoire; contrasto che costituisce l’humus di queste riflessioni e che stimola
congetture e ipotesi, piuttosto che diradarle.
D’Amelj, che aveva sposato Enrichetta Bonghi, discendente dei dotti Lombardi, alla cui morte sposò tal Vincenza Perna, e questa al decesso di lui sposò
il cav. Mazza di Foggia, andò a risiedere nel loro vasto ed austero palazzo e vi
ereditò, tra l’altro, anche la ricchissima biblioteca, nella quale rinvenne tanti e tali
documenti e scritti, soprattutto inediti, cui pose mano, concependo ‘la cara idea’
di «compilare una storia di questa antica ed illustre città di Lucera, dal momento
che dovizioso possessor si vide di molti e svariati documenti sì in istampa e sì manoscritti della illustre famiglia Lombardi, elementi ricchissimi di storia patria», ai
quali, come egli scrive, aggiunse il sostegno di altri testi procurati presso distinti
cittadini. «Aggravato assaissimo dal peso di compilar questa grande opera, dopo
2
Giambattista D’AMELJ, Storia della Città di Lucera, Tip. S. Scepi, Lucera 1861, p. 295.
166
Dionisio Morlacco
che molto ebbi dì e notti sudato - sino a logorarne la salute - a formarne delle svariatissime materie il concetto integro e l’ordine successivo, rivolsi il pensiero ad un
ajuto. In opere letterarie sempre si suole, pria che rendersi di ragion pubblica, richieder l’altrui esame e giudizio». E dietro consiglio si rivolse al Rev.do Benvenuto
Colasanto (Lucera, 1824-1896), che accolse la proposta «con singolar compiacenza, come cosa che oltre ogni aspettazione il suo amor proprio lusingava». Ed ecco
che, per assolvere l’incarico, Colasanto cominciò a frequentare la casa del d’Amelj,
il quale gli squadernò tutto il materiale storico raccolto, a cui Colasanto doveva
dare «semplicemente una forma di dire e un ordinamento, che dopo comune discussione faceva tornar migliore e più conveniente. E in legger egli le molteplici e
varie notizie storiche, a lui del tutto sconosciute, ne faceva le grandi meraviglie,
sempre curioso delle fonti, onde attinte le avessi». Per agevolare e rendere più celere il lavoro del Colasanto, gli fu concesso di portare a casa molti documenti della
famiglia Lombardi e i «quattro articoli già nelle mie bozze insieme in gran parte
discussi e ordinati, e ciò al fine ch’ei ne ingentilisse ancor più la elocuzione, e qualche lieve riforma ancora, ove fosse uopo, vi recasse». Insomma la ‘materia storica’,
cioè la narrazione del d’Amelj, doveva acquistare miglior forma espressiva con
l’intervento del Colasanto, il quale era già avvertito di non modificarne la ‘sostanza’. Ma avvenne che Colasanto cominciò a farsi vedere sempre più raramente nella
casa del d’Amelj, giustificandosi con gli impegni del suo magistero. Al che il Barone chiese la restituzione dei ‘lavori fatti’ e dei ‘preziosi manoscritti di famiglia’.
Epperò a ‘una cotale indifferenza del Signor Colasanto’ d’Amelj entrò in sospetto
che volesse servirsi per proprio conto dell’opera sua e dei manoscritti, traendone
notizie storiche non altrove reperibili, dato che «in Lucera niuno in tanta copia ne
abbia e di quel pregio». Documenti a stampa e manoscritti «de’ vecchi Lombardi,
i quali documenti gran lume gittano anche nella oscurità de’ tempi primi e favolosi dell’origine di Lucera, e dei medii». Dei più interessanti dei quali ‘libri, opere,
manoscritti e documenti’, consultati per compilare la sua Storia, d’Amelj stese un
elenco, che affidò al notaio Luigi Maria Nigro, Presidente della Camera Notarile
di Capitanata, e rese pubblico, invitando Colasanto a fare la stessa cosa: «Voi dal
vostro lato, procedendo da onesto uomo e scrittore, far dovete altrettanto de’ vostri»; in tal modo il pubblico si sarebbe reso conto che le notizie del d’Amelj e del
Colasanto erano le stesse, attinte dalle opere dei Lombardi; e se anche Colasanto
avesse prodotto «qualche carta, quale ch’essa fosse stata da lui scritta», si sarebbe
notato che era ‘copia dei documenti’ del d’Amelj, ovvero dei suoi capitoli. Dei
quattro ‘articoli’ che, secondo Colasanto, costituivano il 1°, 2°, 3° e 4° capitolo
della Storia del d’Amelj, secondo questi, invece, costituivano il 1°, 2°, 5° e 6° capitolo, pertanto al Colasanto mancavano il 3° e il 4° capitolo, che «son contenuti in
un grosso volume scritto dal dotto uomo D. Domenico Lombardi, e che pria anche
è stato tra le vostre mani». In essi Lombardi narrava «appunto, gli avvenimenti di
que’ tempi che fanno il gran vuoto della Storia Lucerina».
167
La “Storia della città di Lucera” fu scritta veramente da Giambattista d’Amelj?
L’appello del d’Amelj, indirizzato al pubblico, terminava con la promessa di
pubblicare la storia completa in ogni sua parte di Lucera, laddove quella del Colasanto sarebbe apparsa monca, appunto, per la mancanza dei due capitoli, «salvo
se nel tempo che il sopraccennato volume del Signor Lombardi è stato in poter
vostro, non abbiate usato il fino accorgimento di ricavarne le più interessanti e
peregrine notizie in quel pregevolissimo lavoro racchiuse». In un secondo appello
d’Amelj ripeteva che se Colasanto possedeva elementi storici, certamente li aveva
copiati ed estratti dalle opere, dai manoscritti e dalle bozze sue.
Quale fu la risposta del Colasanto all’accusa del d’Amelj? Disse che, in verità, era stato lui (Colasanto) che alla notizia della imminente pubblicazione della
Storia dameljana - cosa che si apprestava a fare anche lui - aveva accusato di plagio il Barone: «Pertanto fo noto al pubblico, che Giambattista d’Amelj conserva i
quattro articoli miei sulla Storia di Lucera, e protesto di adire il maestrato competente per difendere i diritti di letteraria proprietà, anche con testimoniali prove».
Confortato da un ammonimento del Profeta Malachia: ‘per la legge della verità’
anche il sacerdote è chiamato a ‘sostenere e difendere la verità’, si era poi convinto
alla pubblica denunzia. Orbene la verità, secondo lui, era che, «lungi dal ledere i
meriti dei Lombardi, poteva ben affermare che nei loro scritti vi erano pochi documenti a tutti noti, gratuiti asserti, tradizioni, iscrizioni copiate da monche lapidi,
nonché elezioni di Vicarii Capitolari, e di Sindaci, notizie di tremuoti, e di altri
avvenimenti, che non potevano somministrare materiale ad una Storia». In Lucera,
poi, non erano stati solo i Lombardi a possedere tali documenti, perché molti altri
cittadini ne possedevano, dei quali egli si era servito, perché mai aveva deposto il
pensiero di compilare la Patria Storia.
In un successivo e più ampio appello rivolto al pubblico Colasanto, «con
quella pacatezza d’animo che richiede il carattere di Sacerdote, e con quella gravità
che accompagna maisempre la espressione della verità», precisava che, invitato dal
d’Amelj a collaborare alla compilazione della Storia, dopo aver constatato lo scarso
apporto dei documenti dei Lombardi, si ‘era determinato di non tenere l’invito’ ed
aveva deciso di recedere dall’impegno, «e di riprendere lo storico lavoro patrio, a
cui da gran pezza era intento: quando obbligato da lui con calde e ripetute istanze
gl’indettai quattro Articoli della Storia Lucerina», riguardanti i primi popoli d’Italia, le notizie sull’Apulia, la ‘postura’ di Lucera, il mito di Diomede, l’origine del
nome Lucera, l’età preromana e romana, fino ai primi vescovi lucerini. Contrariamente, poi, a quanto cercava di far credere il Barone d’Amelj, egli confermava
l’ordine progressivo dei quattro capitoli e dichiarava di non essere «nella necessità
di depositare presso un Notaio documenti manoscritti, mentre ogni uomo erudito
possiede gl’indicati libri da cui ho attinto i documenti per compilare la Storia di
Lucera, che metto a stampa». «L’ardente bramosia di dissuadere il pubblico dall’associarsi alla mia opera, continuava Colasanto, era evidente frutto dell’invidia». Infine, sulla insistente precisazione del d’Amelj che il suo compito era solo di dare
168
Dionisio Morlacco
miglior forma alla sua Storia, con una punta polemica scriveva: «Tu affermi, Signor
d’Amelj, nell’Appello al Pubblico, che io dava a’ quattro Articoli ‘la forma di dire’.
Sì, io dava la forma. La quale a detta d’un moderno Filosofo ha in sé incarnato il
concetto, ossia il giudizio, che si esplica nelle idee, che ne sono gli elementi; ondeché la forma non versa sulla espressione, ma sulle idee o sulla loro connessione. Un
lavoro di forma sì, ma soprattutto di logica, per il quale io ricusava di frapporvi gli
elementi da te porti, come stranii alla mia composizione, e di lieve momento. La
Storia, non intendo parlare di me, è lavoro di chi ha lume di critica, filosofia per
conghietture e giudizi, scienza politica per bene intendere e spiegare gli ordinamenti degli Stati, le leggi e le istituzioni, e soprattutto ha metodo e valor letterario
per coordinare le parti e vestirle dello stile più conveniente». Compito, secondo il
Colasanto, non secondario, né da poco.
Come finì la vertenza non si sa; si può supporre che, sbolliti il risentimento
e lo sdegno da entrambe le parti, tutto restò affidato al giudizio dei lettori delle due
Storie, pubblicate nel 1861, cioè la Storia della Città di Lucera del d’Amelj dalla
Tipografia Salvatore Scepi di Lucera, mentre della Storia di Lucera del Colasanto
(che in aggiunta avrebbe portato un canto in ottava rima intitolato Lucera liberata
dai Saraceni), non si sa fin dove essa giungeva con la narrazione, né se essa effettivamente fu pubblicata per intera, perché, affidata al tipografo Raffaello Migliaccio
di Salerno, essa doveva apparire in fascicoli quindicinali, dei quali abbiamo avuto
la ventura di rinvenire solo il primo fascicolo, di complessive 28 pagine, contenente
due capitoli riguardanti la Fondazione di Lucera e il Nome di Lucera, preceduti da
due citazioni - tratte dalla Storia Universale di Bredow e dal Discorso sulla Storia
universale di Cesare Cantù - e da una Prefazione dell’autore, con qualche notizia
biografica: Dottore in Sacra Teologia, Licenziato in Filosofia, già Professore di Filosofia e Matematica nel Seminario di Bovino, Socio dell’Accademia delle Scienze
di Tolentino e fra gli Arcadi di Roma (col nome di) Teagene Colofonio. In 4a di
copertina reca l’avviso che l’opera sarebbe risultata di un solo volume in 8°, grande
di circa 60 fogli di stampa da 8 pagine cadauno, e sarebbe stata pubblicata, appunto,
in fascicoli quindicinali del costo di 15 grana ciascuno. Oltre al Canto, sarebbe stata corredata da tre tavole riproducenti le antiche monete di Lucera, da una pianta
della città e da una del Castello.
Di quest’opera - di cui si ignora se nel 1861 apparve per intera, in fascicoli - Colasanto, nel 1894, affidò la pubblicazione allo stesso Salvatore Scepi, col
significativo titolo di Storia dell’antica Lucera, la cui narrazione si estende dalle
origini a Carlo II d’Angiò. Rispetto ai due capitoli apparsi nel 1861, va detto che
l’autore apportò solo modifiche formali al testo. Dalla lettura di questi due capitoli
- compresi tra i quattro contesi dai due scrittori -, non si rileva una stretta analogia
descrittiva con la Storia del d’Amelj, mentre le notizie storiche riportate, oltreché
nel d’Amelj, si ritrovano in altri lavori inediti, di studiosi lucerini, quali Rocco del
Preite, Carlo Corrado, Vincenzo del Pozzo, Emmanuele Cavalli. Più chiara risul169
La “Storia della città di Lucera” fu scritta veramente da Giambattista d’Amelj?
ta, invece, la diversa connotazione espressiva: più ampia e discorsiva nel d’Amelj,
più fluida ed essenziale nel Colasanto, il cui libro, però, Pietro Egidi ritenne ‘assai
mediocre’.
Quale allora la conclusione di queste riflessioni? La Storia del d’Amelj in
gran parte, se non tutta, è tratta dai manoscritti dei Lombardi: d’Amelj colse l’occasione di trovarsi tra le mani quegli scritti e volle approntare una storia di Lucera
sotto il suo nome - del resto, nell’elenco delle opere consultate figurano non pochi
manoscritti che illustrano i diversi periodi storici della città -; la narrazione si ferma
al XVII sec. perché là, evidentemente, si arrestava la descrizione dei Lombardi salvo le aggiunte inserite qua e là nel testo, ma soprattutto nelle note, da parte del
d’Amelj o del collaboratore (se ve ne fu un altro dopo l’abbandono del Colasanto);
l’aggiornato elenco dei vescovi lucerini, fino al presule Jannuzzi, e le illustrazioni-;
la necessità di un ajuto, che conferisse alla materia unità discorsiva, lascia supporre, appunto, che d’Amelj non avesse quella frequenza e quella dimestichezza con
la scrittura storica, tale da rassicurarlo nell’esposizione precisa e cronologica dei
fatti.
Per quanto riguarda Colasanto, certamente anch’egli attinse dai documenti
dei Lombardi, per arricchire la sua opera, ed è probabile anche che, dopo l’uscita
della Storia del d’Amelj, decidesse di sospendere del tutto la pubblicazione della
sua in fascicoli, ciò che conforterebbe, in qualche modo, l’accusa del d’Amelj.
170
Gaetano Schiraldi
Rinascimento cristiano in prospettiva umanistica.
La diocesi di Lucera nel Quattrocento.
di Gaetano Schiraldi
Il Quattrocento è un periodo quasi buio per quanto concerne l’approfondimento della storia della diocesi di Lucera.1 Le notizie a disposizione
degli studiosi, infatti, sono pochissime, tanto frammentarie e difficilmente
rintracciabili a causa della scarsità delle fonti.
Siamo nel periodo in cui si va affermando l’Umanesimo2 e parlarne vuol dire
far riferimento a un “risorgimento” degli studi classici, alla loro diffusione nella cultura e nella riflessione del nascente mondo moderno. È l’epoca delle humanae litterae, in cui ampio spazio ebbero gli studia humanitatis, di ciceroniana memoria.
Pensiamo alla diffusione di opere classiche di poeti, storici, geografi, quali Cicerone,
Livio, Strabone. Non è da tralasciare l’ampia diffusione degli scritti dei Padri della
Chiesa e della pubblicazione della Bibbia: ora potevano essere alla portata di tutti
grazie alla nascita della stampa, un mezzo che ha reso più facile l’accessibilità a questi
scritti. È chiaro, però, che la lettura di queste opere risultava essere ancora privilegio
di un èlites, poiché esse erano composte in lingua greca o latina. Largo spazio ebbero
anche le varie traduzioni. A questo limite si aggiungeva un altro: acquistare un libro
era un’operazione, a livello economico, molto costosa. Quindi la conoscenza di queste opere si ritrovava ad essere ancora una volta minata da questo ulteriore ostacolo.
L’umanesimo diede inizio alla riconquista di conoscenze che si traducessero
in una concreta attività dello spirito, tesa al raggiungimento della realizzazione
dell’intera persona umana, mediante una coerenza di pensiero e la contemplazione
della bellezza, con l’ausilio della moralità e della dottrina.
Tale dottrina di rinascita umanistica si andava affermando e diffondendo,
grazie anche al prezioso contributo di alcuni vescovi. È il tempo in cui la diocesi
1
Per approfondimenti particolari sulle origini della diocesi di Lucera cf. G. SCHIRALDI, La diocesi di Lucera:
genesi ed evoluzione della presenza cristiana, in «La Capitanata», 20 (2006), pp. 253-266; per uno sguardo alla
stessa diocesi nel periodo medievale rimandiamo a G. SCHIRALDI, La comunità cristiana di Lucera nell’alto e
basso Medioevo: primi appunti per una storia, in «La Capitanata», XLVII (2009), pp. 55-69.
2
Per ulteriori informazioni su questo argomento cf. G. VOIGHT, Il Risorgimento dell’antichità classica,
Firenze, 1888-1889; J. BURCKHARDT, La civiltà del Rinascimento in Italia, Firenze, 1921.
171
Rinascimento cristiano in prospettiva umanistica. La diocesi di Lucera nel Quattrocento
lucerina cominciava ad avere delle mutazioni geografiche; momento in cui si cominciano ad avvertire i sintomi della necessità di urgenti riforme della chiesa che
videro protagonisti di grande portata umana, di profondo slancio di santità di vita
e di ricchezza ed altezza d’ingegno.
Giovanni Vici da Stronconio, O.F.M: un riformatore amante della Chiesa e il
Convento del SS. Salvatore di Lucera.
Nel primo decennio del XV secolo si staglia a Lucera la figura del beato
Giovanni Vici da Stroncone (Terni), francescano minore.3
Entrò nell’Ordine francescano minoritico nel 1373, ricevuto dal beato Paoluccio Trinci (o Trincio; 1309-1391) da Foligno nel convento di San Francesco
di Stroncone, e subito, dopo essersi formato alla sua scuola, ne condivise le idee
e gli ideali per una riforma della Chiesa e dell’Ordine francescano, mediante l’osservanza rigida della regola senza mitigazioni o dispense. Sono note le condizioni
della Chiesa e degli ordini religiosi in questo periodo, per cui la figura del beato
Giovanni si colloca tra coloro che si adoperarono per la reformatio ad intra e ad
extra della Chiesa. Quando il Trinci si ritirò nel romitorio di San Bartolomeo di
Brogliano, sito sui monti di Foligno, il Vici lo seguì e lo coadiuvò nell’attualizzazione di questa nuova forma di vita.
L’annalista francescano Luca Wadding così scrive del nostro Beato: «Uomo
perfetto, dotto e fecondo oratore, ardente fautore della regolare osservanza […]
per purezza di vita ed efficace eloquenza fu da tutti rispettato ed amato […] chiaro
per virtù, miracoli e spirito di profezia».4 Marco da Lisbona scrive: «molto divoto,
sufficiente, ornato di virtù e perfezione, zelantissimo della povertà e osservanza
regolare, che egli aumentò molto nei frati col suo esempio e governo».5
Nel 1403 papa Bonifacio IX autorizzava Giovanni Vici ad accogliere nella
nuova forma di vita due cenobi, uno in Umbria e l’altro in Toscana.6
Quattro anni dopo, il 13 settembre, in una bolla pontificia,7 Giovanni figura
come Commissario Generale degli Osservanti, designato per la fondazione di cinque
loci devoti, tra cui il convento del SS. Salvatore di Lucera, detta nella documento
3
Per ulteriori approfondimenti sul Beato si rimanda a D. FORTE, Testimonianze Francescane nella Puglia
Dauna, San Severo, 1967, pp. 91-99; cf. anche D. FORTE, Lucera francescana, Lucera, 1981, pp. 23-43; Lucera
terra di santi e di Beati, Lucera, 1984, pp. 12-13; La presenza francescana a Lucera, Lucera, 2008, pp. 24-52.
Ulteriori ed interessanti notizie sono conservate in «Archivio Cancelleria Vescovile di Lucera» (=ACVL),
Cartella Santi e Beati.
4
L. WADDING, Annales Minorum, IX, p. 108.
5
MARCO DA LISBONA, Croniche degli Ordini istituiti dal P. S. Francesco, Napoli, 1680, p. 11.
6
L. WADDING, Annales, IX, p. 598.
7
D. FORTE, Testimonianze francescane nella Puglia Dauna, San Severo, 1967, p. 93.
172
Gaetano Schiraldi
pontificio Nocera dei Saraceni.8 A tal proposito, il cronista Marco da Lisbona riferisce che il primo luogo che il Beato accettò per l’attuazione della nuova regola di vita
fu proprio quello del SS. Salvatore di Lucera nella provincia di Sant’Angelo.9
Le fonti di storia lucerina narrano che il beato Giovanni fondò nel 1407 la
chiesa del SS. Salvatore, lavori che dovettero cominciare già qualche anno prima della
data citata, in quanto lo stesso Vici nel 1406, secondo una tradizione locale, pare abbia portato a Lucera due lastre di pietra dalla vicina città di Castel Fiorentino, luogo
della morte dell’imperatore Federico II (13.XII.1250): una prima lastra da adattare a
mensa d’altare per la cattedrale e l’altra per la erigenda chiesa del SS. Salvatore.10
Accanto alla chiesetta, con un cospicuo contributo del popolo, Giovanni
Vici cominciò la costruzione del convento del SS. Salvatore che fu portato a termine solo anni dopo, grazie ad un lascito di un nobil uomo lucerino e di fra Tommaso
da Firenze, vicario provinciale dell’Ordine minoritico. A tal proposito, Marco da
Lisbona riferisce che il nostro Beato, prima di morire ebbe a dire, circa il completamento dei lavori del convento e della chiesa del Salvatore: «Questo luogo non si
compirà, se non per la morte d’un uomo molto nobile e ricco cittadino», riferendosi chiaramente al generoso lascito di quel nobile lucerino.
Varie fonti storiche locali sostengono che la chiesa del SS. Salvatore fu edificata sulle fondamenta di una precedente chiesa avente lo stesso titolo e posta nel
casale medievale del Santissimo Salvatore. Sono concordi le varie fonti di storia lucerina sul far sorgere la citata chiesa del Salvatore sui ruderi di un tempio dedicato
alla dea Minerva. Nella cristianizzazione dei luoghi pagani il luogo sacro dedicato
alla dea della guerra e della vittoria Minerva, fu dedicato al Santissimo Salvatore, il
vittorioso per eccellenza nella guerra col peccato e con la morte. A conferma della
presenza di un tempio dedicato alla dea Minerva, si porta il dato secondo cui in
epoca romana in prossimità del convento vi era il foro, il comiziale e le terme.
Del lavoro apostolico del Vici scrisse il Wadding: «Molti antichi cenobi ridusse prudentemente alla sua norma di vita, altri pacificamente, anche se stentatamente, costruì dalle fondamenta».11
Il beato Giovanni Vici morì a Lucera nel 1418 e fu sepolto nella chiesa del SS.
Salvatore prima nel coro, poi sotto l’altare maggiore.12
8
D. CRESI, S. Francesco e i suoi Ordini, Firenze, 1955, p. 106.
MARCO DA LISBONA, Croniche, p. 37.
10
L. WADDING, Annales, X, p. 6; XI, p. 157 sostiene che al suo tempo le due lastre erano ancora utilizzate
come mense d’altare.
11
L. WADDING, Annales, IX, p. 108.
12
Marco da Lisbona scrive che il trasferimento delle reliquie del Beato dal coro all’altare maggiore della
chiesa SS. Salvatore avvenne «dopo alcuni anni» dalla sua morte («Dopo alcuni anni volendo i frati cavare nel
coro, per abbassarlo alquanto, ritrovarono l’ossa del Venerabile Fra Giovanni bellissime e con grande loro
meraviglia videro fra le altre membra il cuore conservato dalla corruzione, il quale assieme con le altre ossa fu
conservato sotto l’altare maggiore, come convenivasi per memoria di esso santo religioso»); mentre Arcangelo da Montesarchio riferisce che la traslazione ebbe luogo «un secolo dopo la morte del Servo di Dio» (p.
316), quindi orientativamente nel 1518.
9
173
Rinascimento cristiano in prospettiva umanistica. La diocesi di Lucera nel Quattrocento
Il Gonzaga13 nel 1603, e il Mattielli14 nel 1683, riferiscono che il corpo del
Beato era ancora conservato sotto l’altare maggiore della chiesa.
Il Borezzi riferisce che al suo tempo nella chiesa del SS. Salvatore erano visibili al sepolcro del beato Giovanni «doni e tavole votive per i frequenti miracoli
che opera».15
Nel 1710, sotto l’episcopato lucerino di Domenico Morelli (1688-1716), si
procedette all’inspectio sepulcri del Beato; nella cassa furono trovati integri il cuore
e le ossa. Lo stesso annalista Wadding narra che al momento dell’inspectio un’anziana donna posò il suo rosario sulle ossa del Beato e in un secondo tempo, dopo
aver toccato con la corona gli occhi di un cieco, questi rimase immediatamente
risanato, riacquistando totalmente la vista.16 Molti altri furono i miracoli operati a
favore di coloro che furono presenti all’atto dell’inspectio. Le reliquie, poi, furono
sistemate in un’urna di pietra e collocate nella stessa chiesa in cornu Evangelii.17
Nel 1830, mentre era provinciale Giuseppe Antonio da S. Nicandro, le reliquie
furono murate in un pilastro a sinistra, nella navata laterale e fu murata la seguente
epigrafe:
LAPIS QVEM ASPICIS LECTOR
HUC TRANSLATA CONTINET
OSSA
B. JOANNIS A STRONCONIO
SANCTITATE VITÆ CONDITA
OLIM
IN CORNV EVANGELII
REFORMATAM GUBERNANTE
PROVINCIAM
F. JOSEPHO ANTONIO A S. NICANDRO
AD. MDCCCXXX
Nel 1970, invece, Dionisio Rendina, O.F.M., fece traslare le reliquie nel
pilastro opposto della stessa navata laterale. L’evento è ricordato dalla seguente
epigrafe:18
13
F. GONZAGA, De origine Seraphicae Religionis Franciscanae, Venetiis, 1603, p. 488.
T. NARDELLA, La Capitanata in una relazione di visita canonica di fine Seicento, in «Rassegna di Studi
Dauni», III (1976), n. 1, p. 90.
15
ACVL, Cartella Santi e Beati.
16
L. WADDING, Annales, X, p. 6; XI, p. 157.
17
ARCANGELO DA MONTESARCHIO, Cronistoria della riformata Provincia di S. Angelo in Puglia, Napoli,
1732, p. 258.
18
L’epigrafe è riportata anche in D. MORLACCO, Itinerari epigrafici nelle chiese di Lucera. San Pasquale, in
«Il Centro», 31.I.2003, p. 10.
14
174
Gaetano Schiraldi
Qui riposano
i resti venerati del beato Giovanni Vici
Fondatore di questa chiesa e convento + 1418
O beato Giovanni, su questa sponda fiorita, al cospetto di degradanti
colli e dell’immane maniero di Federico, tu volesti questo
umile convento che fosse asilo di preghiera e pace; e qui, dove
solo rimane eco di potenza e di gloria ormai finite, tu dormi nella
pace di Dio raccogliendo non ammirazioni caduche e vane ma
benedizioni e preci.
Intercedi per noi, o grande figlio del poverello, onde in questa
illustre città, tua di elezione, arda sempre la fiamma per i figli di
S. Francesco, il dolce stigmatizzato.
P. Dionisio Rendina 1.7.1970
I primi passi del convento lucerino non furono affatto rosei, anzi il vicario
provinciale Giacomo da Sessa Aurunca ne ordinò la chiusura, provvedimento revocato nel 1441 da fra Giovanni da Capestrano (1386-1456), futuro Santo.
Nel corso del XV secolo vissero nel convento del SS. Salvatore altri fraticelli
che si distinsero per santità di vita.
Verso il 1460, nello stesso convento morì fra Angeluccio da Pesche d’Isernia
e ivi riposano i suoi resti mortali. Il Pacichelli lo definisce: «hortolano, e fortunato
compagno di S. Bernardin da Siena».19 Una pia leggenda lo dipinge come un uomo di
intensa vita di preghiera, di vera semplicità francescana. Si racconta di lui che sovente, mentre si trovava a zappare nell’orto, immerso in un profondo clima di orazione,
la zappa rimaneva in alto sospesa, come fosse appesa ad un ramo. Quando risiedette
nel convento di Vasto un uomo gli andò a chiedere di pregare per la moglie che stava
morendo in atto di partorire. Il fraticello si raccolse un attimo in preghiera e disse
all’uomo: «Ritornate, figlio, a vostra casa, chè vostra moglie ha partorito un bambino». L’uomo tornando a casa trovò il neonato e sua moglie che godevano di buona
salute. Dello stesso fraticello si racconta che andò a far visita, per ordine del superiore, alla contessa d’Ariano, devotissima di san Francesco. Fra Angeluccio, entrando
nella stanza udì suonare una bella melodia e, pensando alle armonie celesti, laddove
continuamente si portava con la mente ed il cuore, cadde in estasi: il suo corpo si
elevò in alto, tanto che con la testa toccava il soffitto della camera.20
Visse pure in questo convento fra Rufino da Ferrazzano, uomo e frate di
grande pietà. Si narra che tanto era forte il suo spirito di orazione che dal suo cuore
19
Il Regno di Napoli in prospettiva diviso in dodeci Provincie. Opera postuma divisa in tre parti dell’Abate
Giovanni Battista Pacichelli, in «Puglia Dauna», I (1993), p. 94.
20
MARCO DA LISBONA, Croniche, parte III, pp. 492-493.
175
Rinascimento cristiano in prospettiva umanistica. La diocesi di Lucera nel Quattrocento
si sprigionavano vere e proprie fiamme di fuoco. Un giorno si videro sul tetto della
chiesa delle fiamme. Alcuni vicini, pensando ad un incendio corsero ad avvertire i
frati. Questi, giunti in fretta e preoccupati in chiesa videro il Servo di Dio, fra Rufino rapito in estasi ed una fiamma che usciva dal suo cuore, illuminando di intensa
luce l’intera chiesa.21
Nello stesso periodo morirono nel convento del SS. Salvatore altri fraticelli
di santa vita: fra Roberto da Rodi, fra Gregorio e fra Bernardo da Faenza,22 «tutti
uomini santi, degni di memoria»; padre Bernardino da Lucera, vicario provinciale,
morto nel 1496, che «fu uomo di gran santità, a cui Dio rivelò il giorno e l’ora di
sua morte»; fra Francesco da Lucera.23
La Diocesi di Tertiveri annessa alla diocesi lucerina (a. 1410)
I Bizantini avevano ormai conquistato la Capitanata e detto dominio segnava un’ulteriore estensione della supremazia greca nell’Italia Meridionale. Ciò
suscitava preoccupazione nell’animo del pontefice, che assisteva alla crescente sottomissione delle chiese latine a quelle greche, dipendenti da Costantinopoli. Uno
degli autori di questa opera di annessione alla chiesa greca fu proprio il catapano
Bogiano, il quale seguì, incrementandone l’opera, le orme dell’imperatore Niceforo
Foca. Nacquero molte nuove comunità cristiane col titolo di diocesi e altrettanto
numerose furono le elargizioni di titoli arcivescovili. Si diffuse molto velocemente
il rito greco, a volte anche in modo corrotto. Nella Capitanata numerosi furono i
vescovi che officiavano in rito greco,24 tra cui quello di Tertiveri. Nel 1018 troviamo Tortibuli come sede vescovile, assieme a Fiorentino, Montecorvino, Dragonara, Civitate e Lesina.25 Il 22 gennaio 1055, papa Vittore II, da Montecassino, emana
una bolla con la quale procede all’annessione dei vescovi di Troia, Dragonara, Civitate, Montecorvino, Turtiboli, Viccari, Fiorentino, Tocco, Montemarano, Monte
di Vico alla metropolia di Benevento.26
Tre anni dopo, nell’anno 1058 Tertiveri figura tra le suffraganee dell’arcidiocesi di Benevento.27
21
L. WADDING, Annales, XIII, pp. 189-190.
Idem.
23
B. CIMARELLI, Delle Croniche dell’Ordine dei Frati Minori, Venezia, 1621, p. 506.
24
«Omnes Episcopi, greco pallio amicti, graecoque ritu benedicentes hi sunt…(segue l’enumerazione, nella
quale sono compresi i vescovo di Civitate, Lesina, Fiorentino, Dragonara, Montecorvino, Tertiveri, ecc.)»
(Beneventana Pinacoteca, lib. I, cap. ultimo, citata in S. SAVASTIO, Notizie storiche sull’antica città di Montecorvino di Puglia e sul borgo di Serritella (= SAVASTIO Notizie), Pozzuoli, 1940).
25
Beneventana Pinacoteca, lib. I, cap. ultimo, citata in SAVASTIO Notizie, p. 33.
26
DE VITA, Thesaurus, II, dissert. V, cap. 3.
27
P. CORSI, L’episcopato pugliese nel medioevo. Problemi e prospettive, in Cronotassi, iconografia ed araldica dell’episcopato pugliese, Bari, 1984, p. 31.
22
176
Gaetano Schiraldi
La serie dei vescovi della diocesi di Tertiveri risulta ancora scarsa e lacunosa.
Il primo vescovo di cui conosciamo il nome è Landolfo, un ex monaco che nel
1067 sarà deposto per simonia.28 Negli anni 1103-1104 è documentato un altro vescovo
di cui non si conosce il nome. Nel 1105, un anonimo vescovo di Tertiveri prende parte
alle feste di accoglienza delle reliquie dei santi patroni della città di Troia, assieme al
vescovo di Bovino.29 Dall’aprile del 1142 all’anno 1147 è vescovo di Tertiveri un certo
Stefano. Segue un altro vescovo anonimo che ricoprì tale incarico dal 26 marzo 1194 al
12 maggio dello stesso anno. Questo stesso vescovo fu sospeso per aver ordinato dei
chierici nella vicina Foggia, mentre era in corso una scomunica.30
Un altro presule anonimo lo ritroviamo dal 24 maggio 1215 all’8 maggio 1216.
Segue un altro ignoto attestato il 28 gennaio 1219, di cui ignoriamo il termine
del mandato episcopale. L’esistenza di questo vescovo ci è fornita dalla consultazione delle pergamene della cattedrale di Troia, in cui si legge che papa Onorio III
ordinò ai vescovi di Lucera e Tertiveri di prendere provvedimenti circa gli abitanti
di Foggia, i quali continuavano a disobbedire al vescovo di Troia, all’arcivescovo di
Capua e al vescovo di Catania, cancelliere del Regno.31
Un altro vescovo anonimo è attestato il 2 ottobre 1227; un altro terminò il
suo mandato il 16 ottobre 1236, anno in cui venne traslato alla sede di Fiorentino.32 Il trasferimento di questo vescovo tertibulense è documentato dal Vendola:
«Lecte tue fraternitatis littere ac dilectorum filiorum… arcidiacono et capituli Florentinensis ecclesie petitio nobis exhibitacontinebant quod cum ipsa ecclesia pastoris
solatio destituita ipsi convenientes in unum sicut moris est Spiritus Sancti gratia
invocata venerabilem fratrem nostrum Tortibulensem episcopum in pastorem et
patrem unanimiter et concorditer postulant nobis per nuntios suo set litteras humiliter supplicantes ut postulationem tandem admittere de benignitate sedis apostolice
curaremus. Ipsorum igitur supplicationibus, studiis postulantium et postulati meritis
veritate sollecite inquisita, si postulationem ipsam inveneris de persona idonea ca28
P. F. KEHR, Italia pontificia sive repertorium privilegiorum et litterarum a Romanis Pontificibus – IX,
Samnium. Apulia, Lucania, a cura di W. HOLTZMANN, IX, Berlino, 1962, p. 148, n. 1; cf. anche J. M. MARTIN,
Troia e il suo territorio nell’XI secolo, trad. a cura di E. AQUILINO, Foggia, 1990, p. 26.
29
A. MARINO, I protagonisti ed i luoghi della “Santa Gesta”, in M. R. DONNINI, I Principi di Troia. La luce
di cinque santi sul cammino di un popolo, Troia, 2005, p. 70.
30
«Celestino III annuncia al Capitolo di Troia che ha confermato la scomunica dei Foggiani, i quali hanno
molestato il vescovo di Bovino venuto a ricevere la loro obbedienza alla cattedrale di Troia, e che egli ha
sospeso il vescovo di Tertiveri che ha ordinato dei chierici a Foggia» (J. M. MARTIN, Le carte di Troia, trad. a
cura di E. AQUILINO, Troia 1996, p. 119). La bolla fu emanata il 26 marzo 1194 dal Laterano; l’Aceto (Troia sagra, XVIII sec., ms. dell’Archivio Capitolare di Troia) attribuisce erroneamente tale bolla a papa Clemente.
31
«Onorio III incarica i vescovi di Lucera e di Tertiveri di occuparsi dei Foggiano, poiché il vescovo di Troia
si è lamentato che essi non rispettano le decisioni dell’arcivescovo di Capua e del vescovo di Catania, Cancelliere del Regno» (J. M. MARTIN, Le carte, p.127). La bolla è stata emanata il 28 gennaio 1219 dal Laterano.
32
D. VENDOLA, Documenti tratti dai registri vaticani (da Innocenzo III a Nicola IV), I, Trani, 1940, pp.
178-179, doc. 205. L’approvazione della traslazione fu confermata il 16 ottobre 1236 da Rieti, da papa Gregorio IX.
177
Rinascimento cristiano in prospettiva umanistica. La diocesi di Lucera nel Quattrocento
nonice celebratam, auctoritate nostra tandem admittens ei, absoluto a vinculo quo
ecclesie Tortibulensi tenetur, transeunti ad dictam Florentinensis ecclesie obedentiam et reverentiam debitam exhibiri. Alloquia ea rite repulsa facies iamdicte ecclesie electionem canonicam de persona idonea provideri, contradictores etc. Datum
Reate XVII Kal. Novembris, anno decimo».33
Il 16 novembre 1254 il monaco cistercense Stefano, di Fiorentino, divenne
vescovo di Tertiveri. La sua nomina fu confermata da Innocenzo IV il 16 novembre
1254, da Napoli.34 La bolla, riportata dal Vendola, così recita: «Fratri Stephano de
Fermentino electo Turtibulensi. Porrecta nobis ex parte tua petitio continebat quod
cum olim Turtibulensis ecclesia tanto tempore vacavisset quod ad dilectum filium
[Capuferrum] Beneventanum electum loci metropolitanum erat ipsius ecclesie provisio devoluta, idem electus volens de persona idonea ipsi ecclesie providere te, tunc
monachum monasterii Fosse Nove, cisterciensis ordinis, ecclesie smemorate prefecit
auctoritate metropolitica in episcopum et pastorem mandans tibi a tuis subditis obedientiam et reverentiam debitam exhiberi prout in patentibus litteris eiusdem electi
confectis exinde plenius continetur. Tuis igitur precibus inclinati quod ab eodem electo
super hoc factum est ratum habentes et gratum illud auctoritate apostolica confirmamus. Nulli etc. Datum Neapoli XVI Kal. decembris, anno decimo secondo».35
Segue il vescovo Bartolomeo attestato nell’anno 1282; Egidio, monaco di
Fossanova, nel 1286; Marcellino nel 1289; il frate minore, Nicola, nel 1290, il quale
terminò il suo mandato nel 1317. Nel 1310 il vescovo di Tertiveri, assieme al capitolo e al clero, pagava la decima alla Camera Apostolica.36 La somma consisteva in
4 once d’oro e 12 tarì.
Il 1 febbraio 1331 un anonimo vescovo di Tertiveri partecipa con i vescovi
di Fiorentino, Montecorvino, Dragonara e Volturara al Concilium Beneventanum,
indetto dall’arcivescovo di Benevento Monaldo Monaldeschi.37
33
Idem, pp. 178-179, doc. 205.
Idem, p. 236, doc. 308.
35
Idem.
36
D. VENDOLA, Rationes decimarum Italiae nei secoli XIII e XIV. Apulia, Lucania, Calabria, Città del
Vaticano, 1939, p. 24. «Episcopus capitulum et clerus turtibulensis quorum redditus et proventus valent in
universo unc. IV solverunt tar. XII».
37
Idem, pp. 366-367. In questo Concilio furono stilati ed approvati ben 72 capitoli, di cui 12 sono andati
perduti. In questa sede, inoltre, si discusse della collazione dei benefici ecclesiastici, dell’obbligo della residenza dei parroci nelle parrocchie, del divieto di alienare i beni della chiesa, delle norme circa il versamento
delle decime, della disciplina e dell’abito degli ecclesiastici, della regolamentazione del precetto pasquale e
dell’obbligo di soddisfare il precetto pasquale nella propria parrocchia. Si codificò, inoltre, la regolamentazione delle formalità prematrimoniali. In sede di Concilio si proclamò la scomunica per le operazioni simoniache; l’invalidamento del conferimento di benefici da parte di un’autorità competente sotto minaccia dei
signori laici; la scomunica per chi avesse intralciato la legittima e libera collazione dei benefici; entro un mese,
infatti, i notai avrebbero dovuto comunicare ai vescovi, o ai loro vicari, i nomi dei testatori, degli eredi o degli
esecutori testamentari. Inoltre, si decise la scomunica per i detentori di beni ecclesiastici della chiesa metropolitana di S. Bartolomeo o che li avessero destinati ad altre mense vescovili della provincia ecclesiastica (A.
LAURO, Concilio di Benevento (1331), «Dizionario dei Concili», I, Tivoli, 1963, p. 160).
34
178
Gaetano Schiraldi
Il vescovo Giovanni, commorante in Avignone, è attestato nella sede di Tertiveri nell’anno 1350. Segue un certo vescovo Pietro. Il 2 marzo 1366 viene eletto il
vescovo Giordano, il quale era stato traslato da Symbolien. Morirà nel 1367.
Il 15 maggio 1367 veniva eletto vescovo di Tertiveri il domenicano beneventano, Bartolomeo.
L’antipapa Clemente VII (+1394)38 eleggeva, in data a noi non pervenuta, il
vescovo Zenobio. Terminerà il suo mandato nell’anno 1383, anno in cui fu traslato
alla sede di Cesena.
L’11 marzo 1383 alla sede di Tertiveri viene eletto, dal suddetto antipapa, il
frate minore, Giovanni Dardelli; terminerà il suo mandato nell’anno 1403. Nello
stesso anno viene traslato da Bovino a Tertiveri il vescovo Antonio, frate minore.
Il 20 giugno 1409 viene nominato vescovo di Tertiveri, il vescovo Bartolomeo de Sperella, dei frati minori, traslato dalla sede di Lesina. Terminerà il suo
mandato il 31 agosto 1425.
In questo stesso anno la chiesa di Tertiveri, ormai di modeste dimensioni sia
territorialmente che demograficamente, fu soppressa e annessa alla vicina diocesi
di Lucera.39 Il vescovo di Lucera d’ora in poi sarà titolare della sede di Tertiveri.
Questo titolo fu mantenuto fino al termine del Concilio Ecumenico Vaticano II.
L’ultimo vescovo che ne portò il titolo fu mons. Domenico Vendola (1941-1963).
Annessione temporanea della diocesi di Civitate a Lucera (aa. 1439-1473)
Nel 1439 fu annessa alla diocesi di Lucera la vicina diocesi di Civitate.
Sede episcopale dal secolo XI fu coinvolta nello stesso vortice che stabilì la
sorte delle altre cittadine di fondazione bizantina come Tertiveri, Montecorvino,
Dragonara e Fiorentino.
Il vescovo di Civitate estendeva la sua giurisdizione anche su San Severo e
Torremaggiore.
La sede vescovile di Civitate il 9 marzo 1580, per bolla di Gregorio XIII, fu
soppressa e trasferita nella città di San Severo.40
38
L’antipapa Clemente VII (Roberto di Ginevra) fu eletto ad Anagni nel 1378 da un gruppo di cardinali
francesi, nemici del papa Urbani VI. Ebbe la sua sede in Avignone, provocando lo scisma d’occidente (Clemente, «Nuovissima Enciclopedia Generale De Agostini», III, Novara, 1991, p. 322).
39
Mons. Savastio (Notizie, p. 20), sulla scia dell’Ughelli (Italia sacra, VIII, p. 357) e di Eubel (Hierarchia
catholica, p. 504) sostiene che la cattedra vescovile di Tertiveri fu annessa a quella di Lucera nel 1403.
40
Sulla diocesi di Civitate cf. Sancti Severi et Civitatis origines ecclesiasticae eorumque Episcoporum census
et ordo, in G.C. ROSSI, Synodus Severopolitanata a Joanne Camillo Rossi episcopo an 1826 celebrata, Napoli,
1826. Per uno sguardo alla cronotassi episcoporum della diocesi di Civitate cf. Cronotassi, iconografia ed araldica
dell’episcopato pugliese, Bari, 1984, pp. 161-162.
179
Rinascimento cristiano in prospettiva umanistica. La diocesi di Lucera nel Quattrocento
Cronotassi episcoporum Luceriae
Agli inizi del XV secolo per la sede episcopale di Lucera, come abbiamo già
accennato nel precedente studio sulla diocesi nel periodo dell’alto e basso medioevo, si ritrovano nominati ben due vescovi: Bassistachio de Formica, inviato dal
papa alla sede di Lucera l’8 novembre 1396, nato a Termoli e morto verso il 1422, e
Nicola Antonio, eletto vescovo di Lucera dall’antipapa il 04 luglio 1394, nato a San
Pietro de Ahla, dell’Ordine dei Predicatori, traslato alla sede di Salpi il 22 aprile
1422.
Vincenzo Di Sabato sostiene che dal 1414 al 1422 fu vescovo di Lucera un
certo Francesco che al termine del suo episcopato fu trasferito in altra sede.41
Il 22 aprile 1422 fu nominato vescovo di Lucera Bassistachio de Formica,
probabilmente nipote del precedente. Dottore in utroque jure, durante il suo episcopato caldeggiò l’edificazione della cappella di Santa Maddalena con strumento
del 4 marzo 1422, sotto il regno di Ladislao.42 Morì a Roma nel 1450.
Alla sua morte fu scelto per Lucera il napoletano Antonio Angelo, eletto il
5 maggio 1450, la cui nomina fu revocata il 1 luglio dello stesso anno, quando fu
trasferito alla sede episcopale di Potenza.
Lo stesso Di Sabato asserisce che dal 18 giugno 1440 fu vescovo di Lucera
Giacomo, il quale resse la cattedra fino al 3 settembre 1443, data della sua traslazione alla sede di Orvieto.43 Sempre dalla stessa fonte pare che il suo successore fu
un certo Bartolomeo, domenicano morto nel 1450.44
Segue nella lista Ladislao Dentice: domenicano per Cronotassi,45cisterciense
per D’Amely.46 Cavaliere napoletano appartenente al sedile Capuano, ebbe la sede
di Lucera prima in commenda, poi come titolo. Nel 1477, grazie al suo zelo e a
quello di un gruppo di nobili lucerini, previo regio assenso, assegnò alle monache
benedettine il locale della vecchia Dogana, restaurato, modificato ed unito alla preesistente sede.47 Morì nel 1478 e fu sepolto nell’abbazia di Santa Maria de Ferraria,
nella diocesi di Chieti.
41
V. DI SABATO, Storia ed arte nelle chiese e conventi di Lucera, Foggia, 1971, p. 632.
Idem.
43
Idem.
44
Idem.
45
Cronotassi, p. 212.
46
G. D’AMELY, Storia, p. 301. Il D’Amely sostiene che il Dentice sia stato Primo Abate Commendatario dell’Ordine dei Cistercensi.
47
F. DI IORIO, La cittadella dello spirito. La chiesa e il monastero di Santa caterina nella storia di Lucera, Foggia, 2007, p. 25.
42
180
Gaetano Schiraldi
Pietro Ranzano: umanista e vescovo di Lucera
Nella seconda metà del XV secolo, nella storia della città di Lucera, emerge
in maniera forte e in tutta la sua portata una figura di vescovo che ha offerto un
valente contributo e alla chiesa, e alla cultura del tempo. Il personaggio cui si fa
riferimento è l’umanista Pietro Ranzano.48
Nacque a Palermo nel 1428 da nobile famiglia ed iniziò giovanissimo, sotto
la spinta del padre, gli studi presso le Università toscane dove ebbe come maestro
Antonio Cassarino di Noto.
Nel 1444 entrò nell’Ordine dei Domenicani presso il convento san Domenico di Palermo.49 Nel registro delle professioni del convento di san Domenico di
Palermo di lui si legge: «Fr. Petrus de Ranzano est filius conventus et fuit magister
in theologia, factus est Episcopus Lucerinus». Proseguì gli studi a Firenze e Perugia,
mentre a Pistoia ebbe la fortuna di conoscere il beato Lorenzo Ripafratta da Pisa,
a quel tempo ormai in età avanzata. Per sette anni fu suo maestro, come egli stesso
dice, fr. Battista da Fabriano, uno dei più dotti filosofi e teologi del suo tempo. Alla
sua scuola si formò nella dialettica, nella filosofia morale e nella teologia. Nello
studio teologico a Firenze ebbe come maestro fr. Leonardo da Perugia, che diverrà
in seguito maestro generale dell’Ordine dei Predicatori. Nel 1449 il Ranzano aveva
conseguito il grado di Baccelliere, per cui era già stato ordinato sacerdote nonostante la sua giovane età, infatti, nel mese di maggio dello stesso anno, nel convento
di S. Domenico a Palermo occupava il posto dopo i maestri di teologia.
Pare che il Ranzano abbia insegnato a Roma negli anni 1449-1451 e a Napoli
negli anni 1452-1453.
Eletto, l’8 aprile 1455, papa Callisto III, il Ranzano ebbe da subito un ruolo
fondamentale nella politica riformatrice di questo papa. Molto s’impegnò per la
48
Per altri approfondimenti sul Ranzano cf. F.A. TERMINI, Pietro Ranzano umanista palermitano del secolo XV,
Palermo, 1915; cf. anche M.A. CONIGLIONE, O.P., La Provinia Domenicana di Sicilia. Notizie storiche documentate,
Catania, 1937.
49
Il Coniglione ritiene che il Ranzano abbia fatto ingresso nell’Ordine in un tempo precedente al 1444, addirittura in un’età non ancora canonicamente consentita (CONIGLIONE, La provincia Domenicana, p. 29n.). A tal
proposito il Coniglione afferma che: «L’essere stato compagno di studi di fr. Mariano da Bitonto a Perugia nel
1442-1443(Perusii adolescens una cum eo liberalibus disciplinis operam dedi studio pertinacissimo, ita ut brevi
cunctos in eo conturbernio iuvenes superavissemus-Annales, III, fol. 382); l’essere stato affezionato più che un
figliolo al celebre P. Enrico Lugardi, Palermitano, suo maestro (Annales, III, fol. 10), il quale nel 1440 insegnava
a Firenze col grado di maestro degli studi; il trovarsi in Firenze nel tempo che Eugenio IV abitava in S. Maria
Novella e tante altre circostanze favorevoli m’inducono a credere che il Ranzano abbia preso l’abito Domenicano
in S. Marco di Firenze per il Convento di S. Domenico di Palermo, come era avvenuto per il B. Pietro Geremia. Il
trovarsi poi nel 1444 in Catania ed essere presente a vedere coi propri occhi quanto accadde nella eruzione dell’Etna, come si è accennato altrove, e raccontarne a vivi colori l’episodio del B. Pietro Geremia, che arresta la lava nel
suo corso per mezzo del velo di S. Agata; il trovarvisi anche nel 1445 per incontrarsi con Giovanni Filingieri, che
gli dette a leggere un suo lavoro su “La guerra del Sultano a Cipro”, sono argomento insieme ad altre circostanze,
che il Ranzano era allora religioso domenicano da qualche anno».
181
Rinascimento cristiano in prospettiva umanistica. La diocesi di Lucera nel Quattrocento
canonizzazione del domenicano Vincenzo Ferreri. Lo stesso papa lo scelse come
collaboratore di Marziale Auribelli, maestro generale dell’Ordine domenicano,
nella formazione del processo e nella stesura della vita del Servo di Dio. Eletto
Provinciale ed inviato in Sicilia, si impegnò per la diffusione del culto a san Vincenzo Ferreri. La vita di questi composta dal Ranzano fu approvata nel 1456, durante
una delle sessioni del Capitolo Generale di Mompellier. Durante il suo governo
da Ministro Provinciale, svolto per ben due quadrienni (1455-1459; 1463-1467),
dimostrò fattivamente quanto sia stata proficua la sua amicizia con il beato Pietro
Geremia e con altri riformatori dell’osservanza in terra italiana. Volle la realizzazione di un centro studi nel convento di Palermo per la formazione dei futuri religiosi dell’Ordine; aprì un altro convento a Messina per creare e favorire in maniera
più piena l’osservanza. Favorì ed incoraggiò il Vicario degli osservanti a conformare il loro progetto per l’osservanza su quello del convento di san Domenico di
Palermo.
Tra il primo quadriennio di provincialato e il secondo (1459-1463), il Ranzano cominciò a comporre gli Annales omnium temporum, che giunsero a ben otto
volumi.
Il Ranzano svolse, pure, le mansioni di nunzio e di commissario per la crociata contro i turchi, il che gli permise di viaggiare per la Sicilia, accompagnato dal
salvacondotto del Vicerè. Il suo incarico consisteva nel predicare e diffondere le
motivazioni da sostenere contro i turchi e nel raccogliere il denaro per l’impresa.
In molti luoghi poterono sperimentare l’autorevolezza della sua persona.
Tra le tante caratteristiche che risplendevano in Pietro Ranzano figurava
quella dell’eloquenza. Da molti testi appare la sua passione per la predicazione. La
sua parola fu vibrante in occasione delle esequie del cardinale Domenico Capranica (1458), di Maffeo Veggio nello stesso anno, del vescovo Francesco Toletano
(1479), del re d’Ungheria Mattia Corvino (Budapest 1490).
Alla fine del 1469 fu convocato da Ferdinando d’Aragona, re di Napoli, il
quale gli affidò l’educazione religiosa e culturale del figlio Giovanni50, che diverrà
cardinale. Di fatto fu proprio il cardinale Giovanni d’Aragona che presentò il nome
del Ranzano a papa Sisto IV e a caldeggiare la sua nomina. Era, infatti, il mese di
settembre del 1476, quando Pietro Ranzano fu eletto vescovo di Lucera.51
Durante l’episcopato lucerino fu coadiuvato dal suo omonimo nipote che
ricopriva la carica di vicario.52
50
P. RANZANO, Annales, III, fol. 416. Lo Schifaldo scriveva nel 1486: «Hic enim theologiae professor clarus
oratoriae facultati atque poeticae ita insudavit ut in oratorem et poetam celebrem evaserit, cuius eloquentiae fama
impulsus Ferdinandus…» (Coniglione, La Provincia Domenicana, p. 176).
51
Cronotassi, iconografia ed araldica dell’episcopato Pugliese (Bari, 1984, p. 212) pone la nomina del Ranzano
al 5 ottobre 1476.
52
Nell’Archivio dell’Ordine domenicano (IV, 9, fol. 130) così si legge: «Fr. Petrus de Ranciano conventus panormitani potest esse Vicarius Episcopi Lucerini».
182
Gaetano Schiraldi
Poche righe per rendersi conto in maniera tangibile dell’essere di Pietro
ranzano: uno scrittore, uno storico, un poeta, un annalista, in parole povere: un
umanista! Lo Schifaldo scrisse di lui: «Scripsit enim, sed ad hunc usque diem non
dum ediderit Annales memorabilium rerum quae tempestate sua ad hunc diem
et tandem ad extermum suae vitae memoratu digna acciderint, romano profecto
atque emendatissimo stilo et qualem talis historia exigit».53
Abbiamo già accennato che tra le opere del Ranzano figurano anche gli Annales omnium temporum, un’opera divisa in otto volumi, mancante del quarto, e in
cinquanta libri. Stando alla testimonianza di Leandro Alberti, che ebbe la possibilità di consultarli per le notizie geografiche e topografiche, gli scritti erano divisi in
quattro grossi volumi. Infatti, egli così scrive: «Volumina IV grandiora de omnibus
scientiis tam pratici quam speculativis, de Geographia etiam Historia stylo suavi et
compto».54
Negli Annales del Ranzano sono raccolte le seguenti opere:55 Epitome rerum Hungaricarum cum appendice edita a Joanne Sambuco, la Vita S. Vincentii
Ferrerii, il De auctore primordiis et progressu felicis urbis Panormi, l’Epistola
quae est veluti praefatio quaedam ad ea, quae scripta ab ipso (Ranzano) sunt de
vita beati Vincentii confessoris, In beatae Barbarae virginis et martiris vitam
et martirium ad Philippum Perdicarium clasissimum iure consultum praefatio,
l’Officium S. Vincentii Ferrerii confessoris, il Martirium beati Antonii (da Rivoli) lombardi ord. Praed.; ricordiamo anora l’Hymnus ad laudem crucis Iesu
Christi, il De nova geografia, il De poenitentia, le Orazioni ed epistole. Stralci
di scritti del Ranzano sono riportati nell’Appendice del volume pubblicato dal
Termini.56
Per la storia della città di Lucera il Ranzano compose il De laudibus Lucerina civitatis, un’opera lodata anche dal Pacciuchelli.57
Nel suo episcopato lucerino si adoperò instancabilmente per la riforma del
clero, del capitolo e nell’abbellimento della chiesa cattedrale.
L’unica testimonianza diretta del suo episcopato ci è data da una bolla da lui
sottoscritta il 30 gennaio 1486, in cui si appresta a nominare il canonico Coluccio
da San Martino rettore della Cappella di San Giovanni Battista, sita nella cattedrale
di Lucera.58
Sull’antico coro dei canonici, «ex lapidibus constructus»,59 fece incidere que53
Idem, p. 176.
L. ALBERTI, Descrittione di tutta l’Italia, Venezia, 1551, p. 207.
55
Per le relative edizioni a stampa degli scritti del Ranzano cf. CONIGLIONE, pp. 183-184.
56
TERMINI, pp. 151-190.
57
G. PACICHELLI, Il Regno di Napoli in prospettiva diviso in dodeci provincie, III, Napoli, 1703, p. 106.
58
A. PETRUCCI, I più antichi documenti originali del Comune di Lucera (1232-1496) [Codice Diplomatico Pugliese XXXIII], Castellana Grotte, 1994, pp. 230-231, doc. 63.
59
G. GIFUNI, Origini del ferragosto lucerino, Lucera, 1933, p. 83n.
54
183
Rinascimento cristiano in prospettiva umanistica. La diocesi di Lucera nel Quattrocento
ste parole: «Quae data prima mihi sponsa es. Luceria, salve: non potero vivens
immemor esse tui».60
Inoltre, «a un lato del corridoio di quello che termina all’entrata di alto verso l’antico altare di S. Maria, pose il noto epitaffio: Petrus Ranzanus-Jesu Christi
servus panormitanus theologus-hoc opus beati Maria Virgini-dicavit anno salutis
MCCCCXCI».61
Per la cattedrale fece realizzare un nuovo organo da usare nelle liturgie vescovili. Il del Preite asserisce che al suo tempo nella sacrestia della cattedrale vi era
una immagine del vescovo Ranzano, «figurata ginocchioni, che tiene l’organo fra
le mani».62 Lo stesso scrittore seicentesco riferisce un racconto allegorico per descrivere la nobiltà della figura del Ranzano. Egli, riferendosi al salmo 50, esposto
da Cassiodoro, scrive: «Organus itaque est quasi turris quidam diversis fistulis fabbricata quibus flatum follium vox copiosissima destinet, et ut eum modulato decora
componat linguis quibusdam ligneis ab interiori onte costruit suas disciplinabiter
magistrorum digiti reprimentes grandifonum efficiant e suavissimam cantilenam.
Nel nostro lodatissimo Ranzano i mantici erano i sensi canori, le canne denotavano l’intellettive e volitive potenze, i tasti dimostravano gli effetti dell’animo, dagli
accidenti mondani, e diversi per mezzo dei sensi, che suppliscono invece di mantici
all’intelletto, ed alla volontà si elevano spiriti flautosi di umano risentimento, ma
rivolgendosi la maestra ragione sopra i tasti dei designati affetti, con la mano destra
della contemplazione delle cose eterne e con la man sinistra del giudice delle transitorie, e variamente movendo le speditissime dita che sono i puri discorsi, viene così
leggiadramente a reprimere ed a disporre quel veemente suono delle passioni nascenti, che ne cava fuori una sì dolce armonia, che avanza di gran lunga quella degli
organi, che veggiamo, anzi di qualsivoglia altro più sonoro e più soave istrumento,
tanto più eccellente quanto è superiore lo spirituale al temporale al corruttibile, il
sempiterno, ed il celeste al terreno; Oh! santo organo di virtù, la tua sì rara e continua melodia era ascoltata dagl’Angeli, temuta dai Demoni, ammirata dagli uomini,
ed era gratificata da Dio, e goduta pienamente da tutto il Paradiso».63
Alla sua morte, avvenuta nel 1492, fu sepolto avanti all’altare maggiore della
cappella dell’Episcopio di Lucera.64
60
Idem.
DEL PREITE, p. 133.
62
Idem.
63
Idem, pp. 134-135.
64
Idem, p. 134.
61
184
Gaetano Schiraldi
Continuazione della Cronotassi dei vescovi di Lucera.
In seguito alla morte di Pietro Ranzano, il 2 dicembre 1493, fu traslato a
Lucera dalla diocesi di Minori, il vescovo Giambattista Contestabile, nato a Benevento. Morto nel 1496.
Gli successe lo spagnolo Antonio Torres (o de Torres), dell’Ordine di San
Girolamo, eletto a Lucera il 07 novembre 1496. Nella lettera di nomina del Torres,
sottoscritta da papa Alessandro VI, si invitava il novello vescovo a recarsi a Roma
per allietare il papa con il suono del violino.65 Resse la diocesi fino al 17 maggio
1497, data del suo trasferimento alla sede di Sutri.
Nella stessa data fu eletto vescovo di Lucera Raffaele Rocca, canonico di
Gerona in Spagna. Ricoprì l’incarico fino alla sua traslazione alla sede di Capri,
avvenuta il 21 ottobre 1500.
65
ARCHIVIO CAPITOLARE LUCERA, Indice delle Carte e dei privilegi, fol. 97; cf. anche DI SABATO, Storia
ed arte, pp. 632-633.
185
186
Federica Albano
Il Real Collegio di Lucera (1807-1820)
di Federica Albano
1. Il contesto normativo
Questo studio si propone di approfondire la storia del Real Collegio di
Lucera dalla sua fondazione nel decennio francese fino al successivo periodo della
restaurazione borbonica.
Prima, però, per meglio comprendere questa istituzione e le finalità che si
proponeva, è opportuno approfondire il contesto normativo in materia di pubblica
istruzione che caratterizzò il Regno di Napoli nei primi dell’Ottocento. Infatti,
durante il Decennio francese si registrarono i rilevanti cambiamenti sul piano
legislativo, tra i quali si inserirono anche gli interventi in tema di istruzione.
Inizialmente il governo francese ne affidò la piena responsabilità al Ministero
dell’Interno, sottraendola così alla confusione di poteri a cui era soggetta nell’antico
regime. Da una indagine condotta dal governo per valutare il quadro generale delle
scuole del regno, risultò che le Scuole Normali,1 rarissime, dipendevano dalla
beneficenza pubblica e l’istruzione superiore era affidata agli ordini religiosi.
L’attività di governo si concentrò sull’istruzione primaria che appariva più
debole.2
Nell’agosto del 1806 fu emanato un decreto nel quale si obbligavano ‹‹tutte
le città, terre e luoghi del regno a mantenere un maestro che insegnasse i primi
1
Le Scuole Normali furono istituite per volontà dei Borboni nel 1784, quando si manifestò l’intenzione
di aprire queste scuole sull’esempio di quanto era avvenuto in altri contesti italiani. L’insegnamento era impostato secondo i dettami del cosiddetto metodo normale. Questo, ideato da Johann Felbiger, era una tecnica
di insegnamento basata su norme predefinite ed uguali per tutti. Nel 1789 due ordinanze formalizzarono
l’apertura di Scuole Normali pubbliche prima nella capitale e poi nel resto del paese. La fondazione di queste
scuole si prefisse di alfabetizzare il grosso della popolazione. La didattica era suddivisa in quattro classi: in
prima e seconda, oltre al catechismo, si imparava a leggere, scrivere e far di conto; in terza si familiarizzava
con applicazioni pratiche quali la compilazione di lettere e ricevute; la quarta era riservata all’istruzione
tecnico-professionale poiché comprendeva, secondo le vocazioni territoriali, lo studio dell’agricoltura, della
nautica oppure del commercio. Cfr. M. Lupo, Tra le provvide cure di sua Maestà. Stato e scuola nel Mezzogiorno tra Settecento e Ottocento, Bologna, Il Mulino, 2005, pp. 37-39.
2
LUPO, Tra le provvide cure di sua Maestà, pp. 61-62.
187
Il Real Collegio di Lucera (1807-1820)
rudimenti e la dottrina cristiana ai fanciulli››,3 ossia ad aprire una scuola primaria
maschile ed una femminile dove si insegnassero l’alfabeto e la dottrina cristiana.
Le spese per il mantenimento degli insegnanti andavano a carico della finanza
comunale. Con questo provvedimento si superava la vecchia logica perdente di
affidare l’istruzione primaria ai monasteri. Vennero individuati gli edifici che
avrebbero ospitato le scuole primarie e furono individuate anche le modalità di
nomina dei maestri, ossia per atto regio su proposta del Decurionato.
L’istruzione superiore venne regolamentata nel maggio 1807. Fu stabilito di
aprire due collegi pubblici a Napoli ed uno in ciascuna provincia.
Ad ogni istituto spettava una dotazione finanziaria governativa a cui si
assommavano le rette. A capo di ogni istituto venne posto un rettore coadiuvato da
un vicerettore e da un economo. L’ordinamento didattico comprendeva quattordici
discipline di cui nove obbligatorie (italiano, latino, greco, retorica, matematica,
filosofia, storia, geografia e fisica) e cinque facoltative (francese, calligrafia, disegno,
scherma e ballo). Gli alunni, infine, furono suddivisi in esterni e convittori: i primi
frequentavano semplicemente le lezioni, i secondi vivevano negli istituti per tutta
la durata del corso di studi.
Nel comparto dell’istruzione tecnico-professionale, mentre si riformavano
le scuole esistenti (Scuole Nautiche di Sorrento e Convitto di San Giuseppe a
Chiaia), fu decretata l’apertura, a Nola, di una Scuola di Arti e Mestieri.
I provvedimenti per l’Università non apportarono variazioni di rilievo al
precedente assetto. Le facoltà rimasero quelle stabilite nella vecchia riforma:
Giurisprudenza, Medicina, Filosofia, Teologia, Lettere e Scienze Naturali. Anche
la sede rimase immutata a Napoli. Il governo, infine, utilizzando le risorse ricavate
dalla vendita dei beni dei monasteri soppressi, aveva promosso una serie di
iniziative culturali: la ristrutturazione del Museo Mineralogico e dell’Osservatorio
Astronomico, l’aumento delle disponibilità finanziarie per l’Orto Botanico, la
fondazione della Società d’Incoraggiamento e la ripresa degli scavi di Pompei.4
Nel maggio 1808 Giuseppe Bonaparte lasciava Napoli per il trono di Spagna.
Il suo successore, Gioacchino Murat, ereditava uno stato ed un’amministrazione
profondamente riformati, anche se alcune riforme stentavano a tradursi in pratica.
Sul piano dell’istruzione il governo cercò di attuare un piano di intervento
complessivo. Per questo obiettivo fu istituita una Commissione, cui presero parte
anche uomini strettamente legati al governo come Vincenzo Cuoco, con l’incarico
di formulare un progetto di riforma della scuola pubblica che guardasse sia agli
ordinamenti francesi, sia alle specifiche necessità del paese.
Il primo atto della Commissione fu quello di avviare un’indagine per
verificare gli effetti del decreto, emanato nel 1806, sull’istruzione primaria.
3
A. M. RAO (a cura di), Cultura e lavoro intellettuale: istituzioni, saperi e professioni nel Decennio francese.
Atti del primo seminario di studi sul Decennio francese (1806-1815), Napoli, Giannini Editore, 2009, p. 206.
4
LUPO, Tra le provvide cure di sua Maestà, pp. 61-67.
188
Federica Albano
Il quadro generale che emerse sembrava confortante: infatti nella città di
Napoli le scuole primarie aperte durante il biennio giuseppino funzionavano,
sebbene si rilevassero delle disfunzioni. La cosa si complicava, invece, nelle
province del regno. I problemi che pregiudicavano l’applicazione della normativa
e l’effettivo funzionamento delle scuole erano individuati nella scarsità dei mezzi
finanziari, dal momento che i comuni disponevano unicamente delle risorse, assai
variabili, provenienti dalla tassazione.
L’altra motivazione, addotta dalla maggioranza degli amministratori, era la
necessità, da parte delle famiglie, di impiegare i bambini nelle attività lavorative a
causa della precarietà dei bilanci familiari.
La stessa normativa, in alcuni casi, rischiava di trasformarsi in un impedimento
alla diffusione delle scuole primarie. La scelta di far ricadere sui comuni l’onere dei
finanziamenti generava degli equivoci: infatti molte amministrazioni ritennero di
poter liberamente decidere se aprire o meno le scuole.
Nel settembre del 1810 venne emanato un nuovo decreto per l’istruzione
primaria che conteneva diverse innovazioni rispetto alla normativa del 1806.
La novità più significativa fu che l’istruzione primaria diventò esplicitamente
obbligatoria: tutti i bambini dovevano frequentare la scuola, i comuni erano tenuti
a compilare una lista dei potenziali alunni, ai maestri, infine, spettava la verifica
delle presenze. I comuni vennero obbligati a fornire locali e materiali scolastici.
Per alleggerire la finanza locale, inoltre, i costi dell’istruzione primaria vennero in
parte trasferiti sulle famiglie con l’istituzione di una tassa mensile.
Alcune tra queste norme provocarono delle polemiche: infatti i commissari,
e specialmente Cuoco, ritenevano che la tassa scolastica avrebbe ulteriormente
depresso la frequenza.
Ogni controversia fu sciolta dall’emanazione del fondamentale atto del
Decennio in ambito scolastico: il Decreto Organico per la Pubblica Istruzione del
1811. Per la prima volta nella storia del Regno, la materia veniva trattata nel suo
complesso. Riguardo all’istruzione primaria, il Decreto, pur confermando quanto
stabilito nel 1810, disponeva il ritorno alla gratuità.
Un’attenzione particolare venne dedicata all’istruzione superiore. Questa,
interamente riorganizzata, fu suddivisa in tre gradi. Il primo comprendeva le
cosiddette scuole secondarie, che i comuni potevano facoltativamente aprire a
proprie spese, ed i seminari diocesani, posti alle dipendenze dei vescovi. Il secondo
grado era formato dai collegi. Il terzo da licei dotati di convitto. Per i collegi e i licei
venne dettagliato l’ordinamento didattico. Nei collegi dovevano istituirsi cattedre
di grammatica, retorica, filosofia e matematica. Per i licei, diciassette in totale, oltre
alle cattedre presenti nei collegi, si prevedevano anche insegnamenti universitari;
difatti ciascun liceo doveva specializzarsi in una delle facoltà universitarie in modo
che gli alunni potessero raggiungere Napoli solo per sostenere l’esame finale.
Anche l’Università venne riformata. La facoltà di Scienze Naturali, grazie alla
creazione di un corso di laurea in matematica, fu trasformata in facoltà di Scienze
189
Il Real Collegio di Lucera (1807-1820)
Fisico-Matematiche. Furono stabiliti tre gradi dottorali: approvazione, licenza e
laurea. Il provvedimento più significativo fu quello che pose fine alle ingerenze dei
Collegi dei Dottori e riconobbe all’Università l’esclusivo diritto di rilasciare gli
attestati di laurea e, soprattutto, quello di riscuotere i relativi proventi.
Il Decreto Organico creò anche una struttura amministrativa e di
controllo che doveva garantire il buon funzionamento del sistema scolastico
pubblico: al vertice di tale struttura vi era la Direzione Generale di Pubblica
Istruzione, il cui direttore rispondeva al ministro dell’Interno, e in ciascuna
provincia operava un Giurì d’esame, incaricato di informare la Direzione sulla
situazione locale.5
I Borbone, al loro ritorno nel 1815, accolsero varie riforme economicoamministrative attuate durante il periodo francese. La vicenda degli ordinamenti
scolastici fu solo in parte differente da quella delle altre innovazioni introdotte
dal Decennio: le incertezze iniziali, infatti, furono assai meno accentuate e
si manifestarono unicamente nel comparto dell’istruzione primaria. Tutti i
fondamentali provvedimenti di carattere generale vennero da subito confermati,
sia pure con qualche modifica. Il sistema scolastico pubblico continuò a dipendere
esclusivamente dal Ministero dell’Interno, nel cui seno si conservò anche l’organismo
amministrativo preposto. Tale organismo venne costituito da una Commissione di
Istruzione Pubblica, presieduta da Ludovico Loffredo principe di Cardito (agosto
1815). Sei mesi dopo (febbraio 1816) si riconobbe la necessità di una struttura di
controllo a carattere centralizzato, la quale, aboliti i Giurì, venne formata da un
gruppo di dodici funzionari governativi, nucleo originario del futuro corpo degli
Ispettori Generali della Pubblica Istruzione.6
Anche la fisionomia dell’istruzione superiore ed universitaria rimase identica
a quella delineata nel Decreto del 1811. L’amministrazione borbonica, inoltre,
attuò una serie di interventi che miravano a colmare alcune lacune della normativa
francese.
Le scuole secondarie, il cui ordinamento era rimasto alquanto vago durante
il Decennio, diventarono spesso dei luoghi specializzati nell’insegnamento
dell’agronomia, come accade, per esempio, alle scuole aperte nel 1817 ad Acerra
(Terra di Lavoro), Chieti (Abruzzo citra), Riccia, Morcone, Trivento, Agnone,
Larino, Campobasso, Isernia, Guglionesi, Frosolone, Civitacampomarano
(Molise), Putignano (Terra di Bari), Cosenza (Calabria citra), Catanzaro (Calabria
ultra II), Avellino (Principato ultra), Lucera e Foggia (Capitanata).7
Collegi e licei beneficiarono di interventi che razionalizzarono la
gestione finanziaria, aumentarono il numero delle cattedre, crearono nuove
5
Ivi, pp. 69-79.
Ivi, pp.87-88.
7
Ivi, p. 88. Si veda, a questo riguardo, R. De Lorenzo, Società economiche e istruzione agraria nell’Ottocento
meridionale, Milano, 1998.
6
190
Federica Albano
sedi e ne riarticolarono la distribuzione territoriale. Durante il periodo francese
diversi istituti tra quelli previsti non erano entrati in funzione poiché i progetti
eccedevano le possibilità organizzative, ma soprattutto finanziarie, del governo.
L’amministrazione borbonica, preso atto di ciò, sospese anzitutto la concessione di
piazze franche sino alla compilazione degli Stati Discussi, il documento contabile
che certificava il pareggio tra entrate ed uscite (ottobre 1815). Qualche mese
dopo (febbraio 1816) venne emanata una serie di norme tanto dettagliate quanto
innovative.
Gli Statuti per i Reali Licei del Regno di Napoli stabilirono che ciascun liceo,
al pari dell’Università, potesse rilasciare, previo esame, i primi due gradi dottorali:
approvazione e licenza. L’ordinamento didattico venne ampliato, per conseguenza,
sino a trentadue discipline: catechismo; grammatica, lingua e letteratura italiana;
grammatica, lingua e letteratura latina; grammatica, lingua e letteratura greca;
filosofia; storia sacra e verità della religione cattolica; storia profana; mitologia;
storia naturale; geografia; aritmetica pratica; matematica sintetica; matematica
analitica; fisica matematica; chimica; farmacia; diritto di natura; diritto del Regno;
procedura civile; diritto criminale; procedura criminale; anatomia; fisiologia;
chirurgia teoretica e pratica; ostetricia; medicina dogmatica; medicina pratica;
francese; calligrafia; disegno; ballo; scherma.
Queste disposizioni, inserendosi nel solco tracciato durante il Decennio,
favorivano la trasformazione dei licei in altrettante università di provincia. Sempre
negli Statuti, poi, si precisarono i testi da adottare, gli orari delle lezioni, la durata
del corso e le modalità per lo svolgimento degli esami di profitto. A capo di ciascun
liceo rimase il rettore, affiancato da un vicerettore, un economo, un contabile ed
un prefetto d’ordine. La responsabilità amministrativa andò ad un Consiglio
di Amministrazione composto dall’intendente della provincia, dal rettore, dal
contabile e da due proprietari locali. Ad ogni liceo, infine, rimase annesso un
convitto cui, come in precedenza, si poteva accedere sia pagando una retta, sia
beneficiando degli usuali aiuti governativi: mezze o intere piazze franche.8
I collegi, oggetto di disposizioni altrettanto minuziose, potevano dotarsi o
meno di convitto. Nel primo caso la normativa ricalcava quella dei licei. Le cattedre,
tuttavia, rimasero in numero minore: catechismo; grammatica, lingua e letteratura
latina; grammatica, lingua e letteratura italiana; grammatica, lingua e letteratura
greca; filosofia; diritto di natura; verità della religione cattolica; matematica; fisica;
francese; calligrafia; disegno.
Nei collegi senza convitto, dove si applicavano per quanto possibile le
disposizioni sinora elencate, erano previste soltanto cattedre di catechismo, italiano,
latino e greco. Nei mesi successivi il quadro fu completato da provvedimenti che
stabilirono l’apertura di nuovo collegio a Campobasso (marzo 1816), il trasferimento
8
Ivi, pp. 89-90.
191
Il Real Collegio di Lucera (1807-1820)
dei collegi di Sulmona ed Avigliano rispettivamente a L’Aquila (marzo 1816) e
Potenza (maggio 1816) e la trasformazione in licei dei collegi di Bari ed Aquila, che
si aggiungevano così a quelli di Napoli, Salerno e Catanzaro (gennaio 1817).9
Le riforme del Decennio furono accolte, con qualche integrazione, anche
riguardo all’Università. Il diritto di rilasciare i gradi dottorali venne confermato.
La stessa cosa accadde per la presenza, accanto alla laurea, dell’approvazione e
della licenza. Nel marzo 1816 la normativa venne perfezionata dall’emanazione
degli Statuti per la Regia Università degli Studi del Regno di Napoli. Le facoltà
rimasero le medesime stabilite nel Decreto Organico, mentre il numero delle
cattedre fu aumentato a cinquantatré. Un anno dopo, infine, vennero fissate le
norme concorsuali per l’assegnazione delle cattedre.10
Nel comparto dell’istruzione primaria l’accettazione delle riforme fu
meno lineare. A pochi giorni dall’insediamento, Cardito trasmetteva al ministro
dell’Interno, Tommasi, una dichiarazione programmatica che invitava a recepire le
riforme scolastiche messe in atto durante il Decennio: l’istruzione, ed in particolare
quella primaria, doveva rimanere sotto il controllo del governo. Ma qualche mese
dopo sosteneva una tesi diversa: la scuola primaria andava affidata ai parroci
perché, data la capillarità delle parrocchie, non esisteva altro modo per assicurare
un’istruzione fondata sui precetti della religione ed accessibile ad ogni comunità.
Facendo dei parroci altrettanti maestri, inoltre, si sarebbe risolto il problema del
personale.
Nel maggio 1816 fu emanato un Regolamento per le scuole primarie che
accoglieva le tesi di Cardito. L’istruzione primaria, il cui finanziamento rimaneva a
carico dei comuni, fu posta alla dipendenza delle curie; tutti i maestri laici andavano
licenziati; le scuole dovevano aprirsi nelle parrocchie; ai vescovi spettava il compito
di indicare, scegliendoli tra i parroci di ciascuna diocesi, i nuovi dipendenti.
Si trattava di norme in palese contrasto con lo spirito che aveva animato
il periodo francese. Il Regolamento del 1816 rafforzava anzitutto l’obbligatorietà
dell’istruzione primaria e rappresentava un atto di transizione, concepito quando
ancora dominavano i contrasti tra murattiani e legittimisti. Il suo destino, del resto,
era quello di venire progressivamente sconfessato. I poteri pubblici non intendevano
rinunciare alle proprie funzioni di sorveglianza, tanto è vero che, nel giugno 1816,
vennero nominati dei delegati provvisori alla pubblica istruzione primaria, con
l’incarico di informare le Intendenze circa l’operato dei parroci-maestri. Sul finire
dello stesso anno 1816, inoltre, fu varata una struttura di sorveglianza che faceva
capo alla Commissione. Si trattava del Corpo degli Ispettori Scolastici, i quali erano
suddivisi in distrettuali e circondariali. Questi funzionari, cui vennero riconosciuti
ampi poteri, rivestivano un ruolo delicato: garantire, raccordando centro e
periferia, l’applicazione della normativa in un comparto, la scuola primaria, dove
9
Ivi, p. 90.
Ivi, pp. 90-91.
10
192
Federica Albano
la diffusione territoriale implicava spesso una perdita di controllo da parte delle
autorità centrali.11
Nell’anno 1819 i tempi erano maturi per un intervento radicale. Nel
dicembre dello stesso anno, infatti, venne emanato un Rescritto nel quale, oltre
a sancire l’introduzione delle scuole lancasteriane,12 si stabilì che l’istruzione
primaria tornasse sotto il pieno controllo dei poteri pubblici. Il Rescritto, infatti,
era esplicito su un punto: la scelta dei maestri, e per conseguenza la responsabilità
sulle scuole primarie, spettava alla Commissione Cardito.13
2. La fondazione del Collegio
Il Real Collegio di Lucera (come si è visto) trae la sua origine dalla legge
del 30 maggio 1807 per la fondazione dei collegi nella capitale e nelle province del
Regno, emanata da Giuseppe Napoleone. Era scritto nell’art. I:
Saranno stabiliti due collegi reali per la provincia di Napoli, ed uno per
ognuna delle province del nostro Regno nelle città, che destineremo, diretti alla
educazione ed istruzione della gioventù nelle scienze ed arti liberali.14
Già prima che la legge fosse emanata, era stato deciso che sede del Real
Collegio per la provincia di Capitanata sarebbe stata Lucera.
Precedente a questo provvedimento, e in qualche modo connesso, fu la legge
sulla soppressione degli ordini religiosi delle regole di S. Bernardo e di S. Benedetto
e le loro diverse famiglie, emanata il 13 febbraio 1807 da Giuseppe Napoleone.
Anche l’ordine dei Celestini di Lucera fu abolito e i loro beni, come quelli delle
altre corporazioni soppresse, riuniti al Demanio della Corona.15
Con il successivo decreto del 29 marzo dello stesso anno firmato a Trani,
11
Ivi, pp. 91-95.
Le scuole lancasteriane sembrarono essere il modo più efficace per aumentare l’offerta di istruzione
primaria. Sviluppato in Inghilterra da Samuel Bell e Joseph Lancaster, il metodo lancasteriano (o monitorale)
comprimeva i costi della scolarizzazione: le classi, infatti, venivano suddivise in gruppi di lavoro, ciascuno
affidato ad un alunno tra i più preparati (monitore) e ciò consentiva, impiegando un solo maestro, di istruire
un centinaio di bambini per classe. L’introduzione a Napoli del metodo lancasteriano fu dovuta all’abate Antonio Scoppa, il quale, dopo averlo appreso in Francia, chiese di poterlo sperimentare nel Regno. La richiesta
venne accolta e la Commissione autorizzò l’apertura di una scuola affidata allo stesso Scoppa (agosto 1817).
Poiché i risultati erano incoraggianti, la Commissione decise di favorire ulteriormente l’iniziativa. Nel febbraio 1819, infatti, il già ricordato Rescritto ufficializzava l’adozione del metodo. Cfr. Ivi, pp. 107-108.
13
Ivi, pp. 96-97.
14
A. SALANDRA, Il Convitto Nazionale di Lucera. Discorso pronunciato il 30 maggio 1907 in occasione del
primo centenario della fondazione dell’Istituto da Antonio Salandra, in Liceo ginnasio “R. Bonghi” di Lucera,
Lucera, Editrice Catapano, 1975, p. 30.
15
Liceo ginnasio “R. Bonghi” di Lucera, p. 13.
12
193
Il Real Collegio di Lucera (1807-1820)
Giuseppe Napoleone destinava a uso di un collegio da istituirsi il monastero dei
Celestini, il che proverebbe che il collegio di Lucera fu uno dei primi a sorgere nel
Regno: ‹‹Il Convento soppresso dei Celestini di Lucera è destinato a collegio che
sarà stabilito in quella città››.16
Per ogni collegio fu stabilita una dotazione di ducati 6000 proveniente dalle
rendite dei beni delle corporazioni religiose soppresse e da altre fonti.
La dotazione per il collegio di Lucera fu stabilita con decreto firmato a
Napoli da Giuseppe Napoleone il 26 novembre 1807 in ducati 6009,22.17
Visto il rapporto del Ministro di Finanza;
Visto l’art. 5 della nostra legge de’ 30 maggio corrente anno;
Abbiamo decretato e decretiamo quanto segue:
Art. 1. Le seguenti rendite e frutti capitali di nostra pertinenza esistenti nella
Provincia di Capitanata, sono addetti alla dotazione del Collegio di Lucera.18
Seguiva una elencazione in cui si precisavano le ‹‹rendite››, i ‹‹frutti››, i
‹‹capitali›› che formavano la dotazione e che si trovavano a Sant’Agata, a Trevico,
a Troia, a San Bartolomeo in Galdo, a Monte Sant’Angelo, a Manfredonia, a San
Severo, a Varano, a Biccari e a Lucera.19
Tab. 1 - Casa di S. Agata
Censi in S. Agata da diversi
ducati 39,32
Capitali in detto luogo da diversi
45,49
Censi in Accadia
0,85
Capitali in Trevico
1,80
Censi in S. Agata in grano tom. 82, che a duc. 2 sono
In orzo tom. 20, che a gr. 90 sono
164,00
18,00
In Troia per censo sopra territorio della grancia di S.
Bartolomeo
145,00
Totale
414,46
16
V. ARCINETTI, Monografia del Convitto nazionale di Lucera dal 1807 al 1884, Foggia, Stab. Tipo-litografico Pollice, 1884, p. 14.
17
Ibidem.
18
Ivi, p. 41.
19
Liceo ginnasio “R. Bonghi” di Lucera, p. 13.
194
Federica Albano
Tab. 2 - Casa di Monte Sant’Angelo
Censo del marchese Celentani per la masseria in
Ramatola
Censo dell’Annunciata di Sulmona per una simile in
annue tomola 108 di grano, che a d. 2 sono
In orzo tomola 48, che a gr. 90 sono
Censi in Monte da diversi
Totale
ducati 1.340,00
216,00
43,20
108,95
1.708,15
Tab. 3 - Casa di Manfredonia
Censo per l’osteria di Manfredonia
Censo per la mezzana da pascolo in Bolzano
Censi in Manfredonia enfiteutici, e redimibili da
diversi
Totale
ducati 78,00
90,00
150,00
318,00
Tab. 4 - Casa di San Severo
Censo per la mezzana detta Claves in San Severo
Censo per la mezzana detta S. Giusto la Padula
Censo del Marchese Cimaglia per lo territorio detto
Quatrone S. Nazzaro in San Severo
Censo per la masseria grande detta S. Giovanni in
Pane, annui
Censi in San Severo enfiteutici, redimibili da diversi
Totale
ducati 270,00
40,00
20,00
1.892,00
358,71
2.580,71
Tab. 5 - Casa di Ripalta
Censi in Varano da diversi
ducati 51,00
Tab. 6 - Casa di Lucera
Censi enfiteutici, e redimibili in Lucera da diversi
ducati 86,90
Tab. 7 - Allodiali in Biccari
Rendite in capitali annui
ducati 150,00
Tab. 8 - Ex Monte Borbonico
Dal sig. Benedetto del Sordo per rendite di capitali
195
ducati 700,00
Il Real Collegio di Lucera (1807-1820)
A questo elenco seguivano altri tre articoli che così recitavano:
Art. 2. Dal giorno della pubblicazione del presente decreto, le dette rendite
e frutti capitali cesseranno di far parte dell’amministrazione de’ demani, e saranno
regolati a norma dell’art. 6 della precitata legge; e l’arretrato sarà percepito a
profitto del Collegio.
Art. 3. Le carte, i titoli relativi al diritto di proprietà delle sopraccennate
rendite saranno trasmessi alla Commissione amministrativa del detto Collegio.
Art. 4. Il nostro Ministro delle Finanze, e quello dell’Interno sono incaricati,
ciascuno per ciò che lo concerne, della esecuzione del presente Decreto.20
Con Rescritto del Ministero delle Finanze, firmato il 25 novembre 1808, la
dotazione salì poi a ducati 6319,2221.
Il Real Collegio di Lucera fu successivamente riconfermato da Gioacchino
Murat con il decreto del 28 aprile 1813.
Per la cronaca, riguardo alla dotazione, Gioacchino Napoleone, con decreto
del 12 novembre 1810, aggregando al Tavoliere della Puglia alcune terre delle case
religiose precedentemente indicate, la ridusse di ducati 1815, però pochi anni dopo,
l’11 ottobre 1814, tenne a riconfermare la precedente somma.
Il Real Collegio di Lucera fu aperto sul finire del 1807. Con decreto firmato
a Napoli il 22 dicembre 1807, al Real Collegio fu assegnato il Rettore, il ViceRettore e l’Economo, mentre con altro decreto, firmato a Persano il 20 gennaio
1808, erano nominati amministratori due proprietari lucerini, Giuseppe Arietta e
Francesco Scoppa.22
La stessa legge del 30 maggio 1807 che istituì i Collegi, provvide anche
alla fondazione delle “piazze franche”, intere o a metà, ossia posti gratuiti o
semigratuiti riservati ad alunni particolarmente meritevoli sia della scuola primaria
che secondaria, e ai figli di militari e di impiegati civili del Regno, in gratificazione
dei servizi fedelmente prestati.23
Di tale beneficio usufruivano sia i giovani di Capitanata che quelli provenienti
da altre province giustificando, pertanto, l’affermazione che la città fu in passato
un centro di studi non solo per la Capitanata, ma anche per l’Abruzzo e il Molise,
il resto della Puglia, la Campania, la Basilicata e la Calabria.24
Con decreto dell’8 marzo 1808 furono assegnati al Real Collegio di
20
ARCINETTI, Monografia del Convitto nazionale di Lucera dal 1807 al 1884, pp. 41-44.
Ivi, p. 14.
22
Liceo ginnasio “R. Bonghi” di Lucera, p. 14.
23
Convitto Nazionale “Ruggero Bonghi” in Lucera. Monografia (dal 1807 al 1909), Lucera, Stamperia
Editrice Frattarolo, 1911, p. 1.
24
Liceo ginnasio “R. Bonghi” di Lucera, p.15.
21
196
Federica Albano
Lucera otto ‹‹alunni regi›› a posto gratuito e cinque a posto semigratuito.25
Tutta l’articolazione amministrativa, organizzativa e didattica dei Collegi
del Regno era stata regolamentata con la legge del 30 maggio 1807.
Antonio Salandra, nel discorso pronunciato in occasione del primo centenario
della fondazione dell’istituto, definì la legge del 1807 e il regolamento, che le era
annesso, come ‹‹documenti pieni di civile sapienza e del più illuminato criterio
pedagogico che i tempi consentissero››.26
Gioacchino Murat continuò, sulle orme del suo predecessore, l’azione
innovatrice specialmente nel settore dell’istruzione pubblica e fu per suo volere
che venne emanato, il 29 novembre 1811, un decreto organico con cui si istituivano
i Licei nel Regno e uno di questi nella Capitanata, vale a dire a Lucera, ma tal
decreto non ebbe effetto in questa provincia.
Le leggi promulgate dai Napoleonidi nel campo dell’istruzione furono
definite, dal Preside-Rettore Vittorio Arcinetti anni dopo, ‹‹buone e animate da
spiriti liberali e dal desiderio di vedere educata la gioventù meglio che nei tempi
precedenti›› e, anche se furono lontane dall’essere considerate perfette, ‹‹scioglievano
l’istruzione dal dominio vescovile, avvezzando così i cittadini a considerarla come
istituzione al tutto dipendente dal Governo civile››.27
Un altro interessante provvedimento che interessò il Real Collegio di
Lucera fu quello del 18 luglio 1810 con il quale Gioacchino Murat stabilì che tutti
i libri rinvenuti nei soppressi conventi degli ordini possidenti venissero concessi
al Collegio lucerino, la cui Commissione Amministrativa doveva stabilire quali
erano le opere “utili” e quelle “inutili e inservibili”. Queste ultime dovevano
essere vendute e con il ricavato, sentito il parere del Rettore e del corpo docente
del Collegio, si dovevano comprare altri libri conformi al ‹‹genere d’istruzione in
cui devono esercitarsi i giovinetti ed i loro istruttori››.
Successivamente l’attento e solerte Rettore, cav. Lombardi, il 6 febbraio
1812 chiedeva anche di ottenere tutti i libri delle eliminate case religiose degli
Alcantarini, dei Cappuccini, degli Osservanti e dei Riformati, e, dopo una
specifica richiesta avanzata a Zurlo, anche i volumi delle biblioteche degli ordini
mendicanti andarono ad arricchire quella già prestigiosa del Real Collegio di
Lucera.28
La restaurazione del regno borbonico nel 1815 non comportò evidenti
cambiamenti; infatti, con un apposito decreto del 6 Novembre 1816, emanato a
Portici, vennero confermate le dotazioni precedentemente concesse:
25
ARCINETTI, Monografia del Convitto nazionale di Lucera dal 1807 al 1884, pp. 14-15.
SALANDRA, Il Convitto Nazionale di Lucera, in Liceo ginnasio “R. Bonghi” di Lucera, p. 31.
27
ARCINETTI, Monografia del Convitto nazionale di Lucera dal 1807 al 1884, p. 15.
28
G. CLEMENTE, Libri e frati. Le biblioteche dei conventi della Capitanata soppressi nel decennio francese
(1806-1815), in ‹‹La Capitanata. Rassegna di vita e di studi della provincia di Foggia››, A. XXXIV (1997), n.
5, p. 261.
26
197
Il Real Collegio di Lucera (1807-1820)
Art. 1 – Le concessioni dei fondi rustici ed urbani, dei censi, capitali ed
iscrizioni sul Gran Libro, di cui […] il Collegio di Lucera trovasi attualmente in
possesso, in forza dei Decreti ed altre determinazioni di sopra enunciate, restano
pienamente confermate, come se fossero state da noi fatte a beneficio dell’indicato
Stabilimento: sanando con la pienezza della nostra potestà ogni vizio o nullità che
in dette dotazioni e concessioni fosse caduto, tanto per la forma, quanto per lo
mancamento di facoltà dei concedenti.29
La dotazione del Collegio di Lucera era stata ridotta da ducati 6.319,22 a
5.500,77, sia a causa di censi e canoni perduti durante lo stesso periodo francese
che a seguito delle nuove leggi fiscali borboniche, opposte a quelle eversive
sulla feudalità. Di qui la variazione complessiva della dotazione. Poiché detta
somma fu subito riconosciuta insufficiente, con legge organica del 12 dicembre
1816, tutte le province del Regno furono obbligate, mediante sovrimposte, a
concorrere alle spese secondo le necessità degli Istituti, come risultavano dagli
‹‹stati-discussi››. Al titolo IV n° 160 della citata legge sono elencate, infatti,
le spese comuni a tutte le province, precisando che si tratta delle ‹‹spese della
istruzione pubblica, escluse quelle della prima dotazione, già stabilita, dei Licei
e Collegi, e quelle della R. Università di Napoli e delle scuole primarie››.30 Poco
dopo si stabiliva:
sarà supplito alle spese comuni col prodotto di una imposta addizionale alla
contribuzione diretta, che sarà fissata in ogni anno colla legge sulla ripartizione
della stessa contribuzione, proporzionatamente allo stato dei bisogni che verrà
presentato dal Ministro dell’Interno.31
Dal 1816 al Collegio di Lucera fu assegnato un supplemento, che variò da
900 ducati a 4500, fissati poi, definitivamente nel 1853, in ducati 2365,25.32
La legislazione relativa alla pubblica istruzione, oltre alle variazioni inerenti
le dotazioni finanziarie dei Reali Licei e Collegi, indirizzò la sua azione anche nei
confronti delle prescrizioni presenti nello Statuto, tra le quali minuziose erano
quelle religiose.
Ciò che emerge da tutti i provvedimenti adottati fino ad ora nell’ambito
della pubblica istruzione è la preoccupazione del nuovo regime di potenziare
l’aspetto religioso nella formazione dei giovani, e anche la volontà di dare
maggiore rigore agli esami sia dei professori che degli alunni, oltre che di
29
Liceo ginnasio “R. Bonghi” di Lucera, p. 16.
Ivi, pp. 16-17.
31
Ivi, p.17.
32
Ibidem.
30
198
Federica Albano
accentrare il più possibile l’impalcatura amministrativa di tutte le scuole.33
Proprio in questo periodo il Real Collegio di Lucera fu arricchito
dall’istituzione della cattedra di Diritto e Procedura civile. Già nel gennaio del
1819, parallelamente alla richiesta della scuola di agricoltura, il Sindaco, Onofrio
Bonghi, e il Decurionato avevano avanzato istanza al Sovrano per l’istituzione nel
Regio Collegio di una cattedra di diritto e procedura civile, in considerazione del
fatto che la città di Lucera era sede del Tribunale di Capitanata.
Dopo l’autorizzazione data dal presidente della Commissione di Pubblica
Istruzione, il Decurionato, in data 28 febbraio 1819, deliberava, per l’istituzione
della suddetta cattedra, di prelevare il denaro necessario a pagare il compenso
spettante all’insegnante di questa nuova disciplina, circa 15 ducati al mese,
‹‹sopra il fondo delle imprevvidenze [in quello] esercizio del 1819 e nello stato
di variazione per il 1820››.34 Successivamente il ministro Donato Tommasi, con
lettera dell’8 dicembre dello stesso anno, comunicava all’Intendente di Capitanata
che il Sovrano approvava l’istituzione di tale cattedra a carico del comune di
Lucera.
Il Real Collegio, grazie anche alla volontà delle istituzioni cittadine di
allora, che spinsero affinché venisse istituita questa cattedra, acquisiva maggior
importanza.
3. Storia del monastero dei Celestini in cui fu ospitato il Real Collegio di Lucera
Il primo nucleo del monastero, in cui fu ospitato il Collegio, deve ritenersi
la Chiesa di San Bartolomeo, fatta erigere nel 1300 da Giovanni Pipino da Barletta,
per sciogliere, si dice, un voto fatto durante la strage dei Saraceni, in un momento
di grave pericolo.35 Prima della battaglia, infatti, Pipino promise a Dio che, riuscito
vincitore, avrebbe innalzato un tempio a S. Bartolomeo.
Il 24 agosto del 1300, festa del santo, le milizie cristiane vinsero sotto la
guida del condottiero barlettano in un’area della città disabitata e adibita a pascolo,
definita la “zona verde”, che iniziava dalla Porta della Resistenza36 e in cui erano
frequenti le irruzioni dei saraceni.37
Pipino mantenne la promessa e fece erigere, proprio in quella zona, oltre alla
33
M. D’AMBROSIO, Collegio-Liceo e Università in Capitanata, 1807-1862, Foggia, a cura dell’Ufficio stampa del Comune di Foggia, 1970, pp. 81-83.
34
Ivi, pp. 94-96.
35
D. MORLACCO, I palazzi di Lucera, Lucera, Edizioni Il Centro, 1984, p. 27.
36
La Porta della Resistenza si trovava in fondo alla attuale via IV Novembre e fu così chiamata perché i
saraceni, irrompendo per la porta occidentale delle mura, trovarono resistenze nelle milizie lucerine.
37
V. DI SABATO, L’ordine Celestino in Lucera dal 1300 al 1808, Lucera, Catapano Editrice, 1980, p. 10.
199
Il Real Collegio di Lucera (1807-1820)
cappella, un grande monastero, con pietre provenienti forse dal Tempio di Cerere.38
Il monastero fu preso in consegna dall’ordine religioso dei Padri Celestini, detti
anche fratelli dello Spirito Santo, nella prima decade del secolo XIV.
Era un’opera monumentale con prospetto lungo 58,80 metri e con
una profondità di 110,50 metri con “gentile chiostro” interno entro il quale
lussureggiavano aiuole verdi ricche di piante e fiori, dotato anche di un ampio
cortile dove i Padri e gli studenti facevano ricreazione nel tempo libero.39
I Padri celestini non furono quindi i fondatori, ma donatari di Pipino, il
quale, nella costruzione dell’edificio, probabilmente si servì del mastro Nicola
Ravello da Foggia, costruttore del Duomo, e dell’architetto d’Angicourt.
Pipino fu benefico verso l’Ordine. Si era già incontrato con esso e ne era
divenuto amico in occasione dell’edificazione della chiesa e del convento di
Collemaggio de L’Aquila, costruiti a spese del re Carlo d’Angiò per desiderio
dell’eremita Celestino V, al secolo Pietro da Morrone.
I Celestini, che iniziarono la vita monastica a Lucera, furono direttamente
educati dal loro fondatore Celestino V nei diversi monasteri abruzzesi e compresero
e praticarono lo spirito di carità, di preghiera e lo studio profondo della sacra
Scrittura, delle opere dei Padri della Chiesa.40
I Celestini furono forniti di laute prebende e rimasero a Lucera sino al 1807.
Difatti dai documenti di archivio risulta che furono beneficiari di case, del feudo di
Ripalta, sito nel territorio lucerino, e di altri beni ad essi lasciati per testamento da
Giovanni Pipino e da suo figlio Nicola.41
Dallo studio della sacra Scrittura e delle opere dei Santi Padri Pietro da
Morrone trasse fuori il suo programma ascetico di cui già a tempo opportuno
aveva stilato decreti, ammonizioni e regolamenti. L’ordine portava l’impronta
del suo fondatore che, eletto papa ed incoronato il 29 agosto 1294 nella
chiesa di Collemaggio de L’Aquila, fece il “gran rifiuto”, al dire del poeta
fiorentino.42
I Padri celestini nel monastero di S. Bartolomeo di Lucera esercitarono per
cinque secoli non solo il semplice apostolato religioso, ma anche attività formative
sulla classicità per i giovani desiderosi di aprirsi ai vasti orizzonti culturali.43
I Padri celestini, che seguivano il motto di S. Benedetto “Ora et labora”,
38
Morlacco, I palazzi di Lucera, p. 28.
L’attuale prospetto dell’edificio non è quello originario: l’atrio che si trova all’ingresso, infatti, in origine
mancava. Tra la porta della Cappella e il fabbricato successivo vi era un’ansa che, insieme con l’area prospiciente, costituiva il Largo Real Collegio, nel quale si aprivano sia la porta della Chiesa che quella di accesso
al Collegio. Con la costruzione dell’atrio, il prospetto, di stile classicheggiante, divenne più ampio e austero,
e le porte rimasero all’interno.
40
DI SABATO, L’ordine Celestino in Lucera dal 1300 al 1808, p. 10.
41
V. DI SABATO, Storia ed arte nelle chiese e conventi di Lucera, Foggia, 1971, pp. 311-312.
42
DI SABATO, L’ordine Celestino in Lucera dal 1300 al 1808, pp. 11-15.
43
Ivi, p.18.
39
200
Federica Albano
oltre ai lavori nei campi, si occupavano anche del lavoro intellettuale, preferito
dai più intelligenti e proclivi allo studio delle materie ecclesiastiche e letterarie,
nella propria biblioteca personale o comunitaria, e impartirono l’insegnamento
di materie scolastiche ai giovani esterni e agli studenti del collegio filosofico e
teologico del monastero dal 1706 al 1764.
La vita amministrativa nei primi tempi era sporadica, ma divenne nel tempo
più frequente e complessa perché i monaci, oltre a portare avanti i beni comunitari,
acquistavano beni o prestavano capitali ai cittadini che li chiedevano, per cui il
monastero divenne una vera e propria agenzia di credito. Questa non fu solo
prerogativa dei Padri celestini, ma anche di tutti gli ordini religiosi e in misura
minore anche dalle parrocchie.44
Lucera nel passato fu un centro di studi classici, filosofici e teologici impartiti
in quasi tutti i numerosi conventi da Padri ben preparati. Nei locali destinati agli
studenti si raccoglieva l’élite della aristocrazia lucerina per dialogare su discipline
teologiche sotto la guida di qualche Padre idoneo alle interrogazioni e alle risposte
su dubbi di verità scientifiche e religiose.
Risultano inquadrati in questo apostolato i conventi del Carmelo, di S.
Francesco, di S. Domenico e dei Padri Celestini, e anche i conventi dei Padri Minori
della Pietà e del Salvatore.
Il monastero dei Padri celestini, il più dotto degli ordini religiosi di Lucera, il
più disposto a tale apostolato per la sontuosità e disponibilità di locali, per desiderio
e autorizzazione della casa generalizia, aprì il collegio nel 1706 e lo conservò sempre
integro ed efficiente sino al 1764, come si deduce dalla presenza nel monastero di
Padri laureati in morale e dogmatica con qualifica di lettori e di numerosi studenti,
che, a differenza di quelli dell’Ordine domenicano, potevano partecipare al rogito
degli atti notarili.45
Del monastero il luogo più sacro era la chiesa in cui si svolgevano le funzioni
religiose, momento centrale della vita monastica.
L’attuale chiesa, o meglio cappella, a sinistra dell’atrio del collegio Ruggiero
Bonghi era anticamente parlatorio o casa del custode e verso la fine del secolo
XVIII fu trasformata in un luogo sacro.
L’antica cappella invece si trovava in fondo, a sinistra dell’ampio cortile con
porta di entrata su via Cassitto (quasi di fronte alla Rampa). La chiesa poi divenne
sempre meno frequentata per cui i Padri decisero di demolirla, anche perché era
loro scomoda: per accedervi dovevano uscire all’aperto e attraversare i giardini
interni al monastero in tutte le stagioni. Quindi per motivi contingenti fu deciso
l’abbattimento della chiesa.
Del resto questa chiesa aveva i suoi pregi artistici, suggeriti dai Padri che
l’avevano costruita, in sintonia con il monastero maestoso nella sua mirabile
44
45
Ivi, pp. 19-20.
Ivi, pp. 21-22.
201
Il Real Collegio di Lucera (1807-1820)
costruzione, e risaltavano in essa cappelle gentilizie, costruite a spese di privati, la
cui esistenza fu registrata in atti notarili.46
In Lucera nel secolo XVIII ci fu un’intensa attività edilizia. Furono costruiti
i migliori edifici sacri e civili ad uno o a due piani, quali la chiesa del Carmelo e il
tribunale, composti in gran parte di pietre grosse del castello.
Anche i Padri, per necessità suggerite dalla pratica pastorale, abbandonata
la vecchia chiesa, staccarono le lastre di marmo colorato a varie tinte dagli altari
delle cappelle gentilizie e le portarono nella nuova. Luminosa, ornata di cornici
barocche ben si addiceva ad essere luogo sacro, per cui il 5 settembre 1728 si rogò
un atto notarile al quale presenziarono, davanti al notaio d’Alessandro, Paolo
Buono muratore di questa città, il magnifico Vincenzo Lombardo, regio giudice ai
contratti, Gennaro Pardo, Francesco Matino e Gennaro Corumano.
Nel 1725 erano iniziati i lavori e, quando furono ultimati, vi si trasportarono
le lastre di marmo dalla vecchia chiesa con cui si ricomposero gli altari della Natività
e della Maddalena che ben presto furono ornati con splendide tele. Con la nuova
riforma liturgica furono eliminati gli altari e non si sa dove furono poste le lastre
marmoree.47
Nella chiesa si trova, tutt’ora, una splendida galleria di quadri e di
pregiatissime tele. Così del Solimena, secondo la comune attribuzione, sono una
Visione di San Benedetto e della sua scuola un’Adorazione dei pastori; ci sono anche
un Martirio di San Bartolomeo e una eccezionale Trinità, che fa pensare alla mano
di Luca Giordano. Una leggiadra Madonna e San Gregorio è attribuita al Sanfelice,
mentre per un Noli me tangere è stata supposta la mano del De Mura. Girolamo
Cenatiempo dipinse nel 1714 la bella tela raffigurante Sant’Agostino, Santa Chiara
e San Tommaso.48
Nell’antica e nuova chiesa si celebravano le liturgie nei giorni feriali e nei
giorni festivi nei quali non mancava sfarzosità di addobbi, specialmente nella
festa del patrono San Bartolomeo. Per giunta, i Padri celestini attiravano la dotta
nobiltà del tempo alla loro chiesa insignita del titolo di “Reale” dagli Aragonesi. Vi
partecipavano personalità lucerine e forestiere, sia civili che militari.49
Nella nuova chiesa, ‹‹ornata di drappi e damaschi di regia munificenza si
celebrava anche il Compleanno dei Sovrani borbonici, col concorso di autorità
civili e militari con le loro insegne››.50
Nel vecchio e nuovo tempio si svolsero funzioni solenni cui partecipavano
impiegati della regia Udienza e la nobiltà lucerina. Si ricordano gli imponenti
funerali in morte di Anna d’Austria, moglie di Filippo II re di Spagna, verso la fine
46
Ivi, pp. 24-25.
Ivi, pp. 25-27.
48
G. TRINCUCCI, Lucera. Storia e volti nel tempo, Lucera, Catapano editrice, 1981, p. 102.
49
DI SABATO, L’ordine Celestino in Lucera dal 1300 al 1808, p. 27.
50
MORLACCO, I palazzi di Lucera, p. 28.
47
202
Federica Albano
del ‘500, e in morte di Luisa d’Orleans, nipote del re Luigi XIV, sposa di Carlo II
re di Spagna.51
Attorno al convento ruotavano anche attività economiche rilevanti per la
popolazione locale, come quelle creditizie.
I Padri si dedicavano anche all’amministrazione attiva del monastero
attraverso la concessione di prestiti e la stipula di fitti, enfiteusi, donazioni,
vendite, permute ed acquisti di terreni di piccola e di grande estensione e di case e
di botteghe. Tutte forme giuridiche di amministrazione quasi identiche al nostro
secolo, ad eccezione di alcune estromesse dal codice quale l’enfiteusi,52 o cambiate
di nome quali i mutui oggi denominati prestiti o cambiali o depositi.53
I Padri Celestini rimasero nel loro monastero fino al 1807, quando il re
Giuseppe Napoleone, soppressi gli ordini religiosi, vi istituì (come si è detto) il
Collegio di Lucera.
Una buona parte dei beni furono venduti e rimasero solo quelli incamerati
dallo Stato, come risulta dal documento di seguito pubblicato.
Molti beni appartenenti all’ordine, infatti, non risultano nelle voci dei beni
incamerati per ordine del governo napoleonico. Si può senz’altro dire con certezza
che il monastero, avuto sentore dell’incameramento dei beni, preferì venderli
preventivamente.54
I beni dei Padri Celestini acquisiti dallo Stato in forza della soppressione
furono: 430 versure di masserie, 7.30 di terreno seminativo, vigneti di versure 49.40
più pezze 120; un uliveto di versure 1.36, un giardino di 2 versure e un orto di 6.30,
varie case del valore di ducati 6383; alcune botteghe del valore di ducati 3795, una
taverna del valore di ducati 2250; un palazzo del valore di ducati 1125,9; fosse del
valore di ducati 710; 32 leghe d’argento del valore di ducati 440,66; in tutto per un
totale di versure 497,16 e ducati 73019.55
Riporto qui di seguito lo stato delle rendite dei Celestini di Lucera soppressi
il 13 ottobre 1809.56
51
DI SABATO, L’ordine Celestino in Lucera dal 1300 al 1808, p. 27.
L’enfiteusi, oggi in disuso, era il contratto con il quale si cedeva ad altri il dominio utile in perpetuo o per
un lungo periodo mediante pagamento di un annuo canone che si definiva livello. Ivi, p. 35.
53
Ivi, pp. 32-34.
54
Ivi, pp. 48-53.
55
DI SABATO, Storia ed arte nelle chiese e conventi di Lucera, p. 312.
56
DI SABATO, L’ordine Celestino in Lucera dal 1300 al 1808, p. 55.
52
203
Il Real Collegio di Lucera (1807-1820)
Tab. 9
Denominazione dei fondi
Appartenenza
Sito o
contrada
Valore
approssimativo
Estensione
in versure
Natura dei
fondi
Rendita
annuale
Masseria
Casarsa
Argenti
censiti
Alla casa
soppressa
Tenim.
S. Severo
ducati 12.000
100
seminativo
560.00
simile
Napoli
censiti
17.21
Case
simile
Lucera
“
5.480
affittate
364.50
Botteghe
simile
Lucera
“
2.640
affittate
176.00
Fosse per
generi
alimentari
simile
Lucera
560
affittate
28.00
“
ducati 20.680
1.145.71
4. Il bilancio del Real Collegio
L’aspetto che qui si esamina è il progetto di bilancio per l’anno 1813, rinvenuto
tra la documentazione inerente al Real Collegio di Lucera, presente nell’Archivio
di Stato di Foggia.
Si è scelto di analizzare il bilancio di previsione dell’anno 1813, perché ci fornisce
una indicazione sullo stato economico del Real Collegio in “itinere”, cioè in un periodo
distante cronologicamente dalla sua fondazione, quando l’istituto poteva difettare sul
piano organizzativo e non aver ancora intrapreso la sua attività a pieno regime.
Il progetto di spesa era una sorta di registro contabile che, una volta redatto
e approvato dalla Commissione amministrativa del Collegio, veniva sottoposto al
giudizio e alla revisione del Giurì di Contabilità per apportare eventuali correzioni
prima dell’approvazione definitiva.
In primo luogo è opportuno anche esaminare la rendita, cioè la platea dei beni
che erano nelle disponibilità del Collegio, sia dal punto di vista quantitativo che
qualitativo. A tale proposito una valutazione globale del patrimonio dell’istituto,
quale emerge dallo studio degli inventari, consente di affermare che le entrate
provenivano soprattutto da beni immobili e, solo in misura minore, da beni mobili.
La rendita alcune volte era espressa in ducati e altre, soprattutto nel decennio
francese, in lire francesi.57
57
Un ducato equivaleva a 4,25 lire francesi.
204
Federica Albano
Il progetto di bilancio si costituiva principalmente delle voci di entrata e di
quelle di uscita, a loro volta ulteriormente suddivise in capitoli.
Nei cespiti d’entrata era inventariata la rendita ordinaria che corrispondeva
alle rendite assegnate al Collegio al momento della sua fondazione.58
Quello che nel documento viene portato in evidenza è che, innanzitutto,
la rendita non corrispondeva più esattamente a quella assegnata al Collegio al
momento della sua fondazione, e che il suo ammontare per l’anno 1813, di l.
20.546,20, era leggermente inferiore rispetto a quella dell’anno precedente che si
quantificava in l. 20.987,36.
Questa diminuzione d’introito era dovuta, per una parte del totale, ‹‹per causa
di partite affrancate ed ammortizzate››59 le quali nel documento venivano specificate
in modo dettagliato nelle singole voci. Difatti molti terreni e beni immobili erano
rientrati a far parte dei beni del demanio e non erano più contemplati tra i cespiti
che formavano la rendita dell’istituto.
Non costituivano più le entrate del Collegio: la rendita dovuta dall’Università
di S. Agata ‹‹per i territori e piani de’ Valloni e per una versura di terra a Casalicchio››;
il canone dovuto dai Padri Carmelitani di Monte Sant’Angelo ‹‹sopra la terra detta di
Casiglia››; il censo dovuto dai Padri Carmelitani di S. Francesco di Monte ‹‹per una
vigna di tomoli 7 nel luogo detto della Quarantana, con cisterna ed alberi di ulive››;
non rientravano più le annualità dovute dai monasteri dei Celestini di Campobasso
e Guglionesi; il censo sulla metà del giardino alle porte di Siponto dovuto dai
Padri Domenicani di Manfredonia e quello sull’altra metà dovuto dall’Ospedale
di Manfredonia; un censo su un territorio in località S. Lazzaro dovuto sempre
dallo stesso Ospedale; un altro sui territori nella località denominata ‹‹le Paglieti››
dovuto dal comune di Manfredonia ed infine il censo dovuto dall’Orfanotrofio
di Lucera in aggiunta a quello dovuto dal Conservatorio delle Orfane della stessa
città, per un totale complessivo di l. 126,89.
La restante somma di l. 314,27 era giustificata sostenendo che ‹‹questa
differenza dipende dalla valutazione diversa delle derrate che si riscuotono in
natura dal Collegio››.60
Sotto la voce di rendita straordinaria erano elencate le somme incamerate per il
pagamento dell’intera pensione o intera “piazza franca” per sette alunni e il pagamento
di una mezza pensione per un solo alunno per una somma complessiva di l. 3.168.
L’altra voce dei cespiti d’entrata era costituita dalla voce degli ‹‹arretrati di
rendita›› risalenti ancora all’anno 1812, dovute rispettivamente dal Comune di S.
Agata per censi e capitali in danaro e in generi, dal Comune di Accadia, da quello
di Manfredonia, di Monte Sant’Angelo, di S. Severo, di Ripalta e di Lucera sempre
58
Archivio di Stato di Foggia (d’ora in avanti ASFg), Intendenza di Capitanata, Conti del Real Collegio di
Lucera, Appendice, fascio 1, fascicolo 3.
59
Ibidem.
60
Ibidem.
205
Il Real Collegio di Lucera (1807-1820)
per la stessa motivazione per una somma totale da versare ancora nelle casse del
Collegio di l. 7.631,10.
Dopo le entrate erano registrate ed elencate le spese che erano definite con
l’espressione di ‹‹Pesi e Spese››.61
Al primo capitolo di questa voce erano annotate le ‹‹contribuzioni dirette››
relative al pagamento della tassa denominata ‹‹fondiaria›› sul locale del Collegio di
l. 402,12, rimasta identica rispetto a quella del precedente anno.
Sotto la voce di ‹‹spesa ordinaria›› erano elencate le spese di amministrazione
per l’acquisto di tutto il materiale necessario per la cancelleria, quale carta, penne,
inchiostro e libri. Veniva tra l’altro fatto notare come i costi relativi a questa voce di
spesa fossero aumentati rispetto al precedente anno proprio a causa dell’aumento del
prezzo della carta e anche per una motivazione ben più importante. Infatti nel 1813
erano state emanate, da parte dello Stato, nuove direttive riguardo alla conduzione dei
collegi reali e questo aveva portato a una serie di novità, come in questo caso nuove
disposizioni per la contabilità che richiedevano un maggiore scambio epistolare e
l’aumento delle pratiche burocratiche, con un maggiore consumo di carta.
Al secondo capitolo della voce di spesa ordinaria erano elencate le somme versate
per gli stipendi di coloro i quali erano impegnati nella effettiva amministrazione del
Collegio come il Rettore, il Vicerettore, l’Economo e il Razionale fiscale, ed anche di
coloro i quali si occupavano di svolgere altre mansioni all’interno dell’istituto, come
un ‹‹prefetto di camerata››, un ‹‹coco››, un dispensiere, che aveva anche il compito
di ‹‹refettoriere››, un cameriere, due facchini che assolvevano a tutte le esigenze, il
‹‹tamburro›› ed infine un notaio a titolo di onorario.62
Alle spese precedenti si sommavano i costi, che erano inquadrati in una voce
a sé stante, relativi al compenso spettante ai professori che, da come si rileva dai
documenti, erano in numero di quattro.
La cosa da notare è che alla diversa importanza delle discipline impartite
corrispondeva una differente retribuzione: coloro i quali attendevano all’insegnamento di filosofia e matematica e di retorica e lingua greca percepivano un compenso maggiore, quantificato in l. 906,75, coloro che attendevano, invece, all’insegnamento di discipline quali la lingua latina superiore e inferiore percepivano un
compenso inferiore (l. 711,75).
Il costo complessivo delle retribuzioni di tutti gli impiegati del Collegio era
di l. 8.209,63. Inoltre è da tener presente che per tutti questi era previsto il vitto
e l’alloggio all’interno del Collegio, tranne, come viene espressamente dichiarato,
per il Razionale fiscale.63
Ad accrescere le uscite vi erano anche i costi per il mantenimento
dell’infermeria, per i vari medicamenti necessari e per il compenso spettante a coloro
che vi lavoravano. Si evince che il personale dell’infermeria era composto da un
61
Ibidem.
Ibidem.
63
Ibidem.
62
206
Federica Albano
medico, a cui spettava una retribuzione maggiore, un ‹‹cerusico››, un ‹‹salassatore››
e un infermiere, per un totale complessivo di l. 580,13.
Seguiva poi la voce di spesa riguardante il vitto. Dal registro di spesa emerge
che erano trentacinque in tutto coloro ai quali spettava di diritto il consumo del
pasto quotidiano all’interno dell’istituto. Difatti, oltre ai ventuno alunni, l’accesso
alla mensa spettava anche a quattordici persone impiegate nel Collegio. Il costo
previsto si aggirava intorno agli ottantotto centesimi di lire al giorno per ognuna
delle ‹‹bocche consumatrici››.
Questo aspetto del vitto era rigorosamente disciplinato dalla tabella, inserita
nel regolamento dei Collegi Reali, stabilita con il decreto del 20 maggio 1812 per i
convittori; per gli inservienti c’erano le istruzioni del settembre del 1811.
Si faceva presente al Giurì di contabilità che i prezzi dei viveri, ma anche
della legna e del carbone necessari per la cucina, erano nettamente lievitati rispetto
all’anno in cui era stato varato il decreto e questo aveva influito anche sulla quantità
dei pasti assegnati ai convittori. Difatti non era stato possibile consumare, da parte
di quest’ultimi, il ‹‹quarto piatto caldo›› nei giorni assegnati, così come previsto
dalla tabella del regolamento, e neanche in occasione delle festività religiose del
Natale e della Pasqua.
Inoltre si richiedeva l’assegnazione di un fondo speciale necessario per la
preparazione del pasto della “merenda” riservata ai soli convittori che, seppur
prevista dal regolamento, non era stato possibile servire con i soli 88 centesimi di
lire giornalieri.
Importanti erano anche le voci di spesa per il culto, aspetto fondamentale
nella crescita spirituale dell’alunno, che si percepisce proprio dalla presenza
dominante nella giornata del collegiale. Questi costi erano costituiti dal compenso
annuo, definito ‹‹gratificazione››, spettante ai due Padri confessori e dalla somma
necessaria per l’acquisto di cera, olio, ma anche del necessario per le celebrare le
liturgie nella Cappella del Collegio (vino, ostie), in aggiunta anche ai costi per i
paramenti sacri e per l’eventuale acquisto di suppellettili.
Infine erano elencate le spese varie che corrispondevano all’acquisto di
beni di varia natura come l’olio e il cotone per i lumi, il carbone occorrente come
combustibile per il fuoco della cucina e per i ‹‹braceri››, utilizzati come riscaldamento
nella stagione invernale, le spese di lavanderia e i costi per l’urgente acquisto di nuova
biancheria, di suppellettili, di tre letti e di coperte. In aggiunta si faceva presente
come l’olio, utilizzato anche come combustibile per i lumi, nell’ultimo anno aveva
subito un rincaro ‹‹alterato a più di un quarto››, facendo lievitare le spese a l. 450.
Per quest’ultima voce di spesa, riguardante l’acquisto di biancheria,
suppellettili e mobili, si sottolineava come non era stata prevista nel registro dei
conti dell’anno precedente perché appunto non necessaria. Faceva seguito un
inventario di beni materiali esistenti al momento nel Collegio presenti già l’anno
precedente, ma del tutto inadeguati alle necessità dei convittori.64
64
Ibidem.
207
Il Real Collegio di Lucera (1807-1820)
Oltre a questo si faceva presente anche l’urgente bisogno di acquisto di utensili
e stoviglie per la cucina, anch’esse del tutto insufficienti alle necessità dei collegiali.
Infine si annotavano le spese ‹‹straordinarie ed imprevedute››, come i costi
per la ristrutturazione dei locali del Collegio, tra l’altro previsti anche nel registro di
spesa dell’anno precedente, e una somma di denaro per qualsiasi necessità imprevista,
anche se veniva precisato che la Commissione Amministrativa del Collegio non
poteva disporre liberamente di queste somme di denaro se prima ‹‹non ne abbia
ottenuta l’approvazione ministeriale in ragione dell’urgenza del bisogno››.65
Bilancio del Real Collegio di Lucera per l’anno 1813
Rendite
Rendita ordinaria
l. 20.546,20
Rendita straordinaria
l.
3.168,00
Arretrati di rendita
l.
7.631,10
Contribuzioni dirette
l.
402,12
Spesa ordinaria
l.
120,00
Stipendiati e Professori
l.
8.209,63
Spese e stipendi per l’infermeria
l.
580,13
Spese per il vitto
l. 11.242,00
Spese di culto
l.
252,80
Spese varie
l.
1.970,33
Spese di riparazione del Collegio
l.
500,00
Spese straordinarie ed imprevedute
l.
8.185,52
Pesi e Spese
Successivamente si è analizzato il progetto di bilancio dell’anno 1817,
quindi nel pieno del periodo della seconda restaurazione borbonica, proprio per
valutare, nella gestione contabile dell’istituto, gli eventuali cambiamenti rispetto ai
precedenti periodi.
Si evidenzia subito come la stessa struttura del progetto di bilancio aveva
subito una leggera trasformazione nelle denominazioni.66
Nello ‹‹stato di carico›› erano registrati ed elencati tutti i cespiti d’entrata
suddivisi in articoli.
Al primo articolo della voce di rendita ordinaria, denominato ‹‹Beni fondi››,
65
Ibidem.
ASFg, Intendenza di Capitanata Pubblica Istruzione, Real Collegio di Lucera, fascio 58, fascicolo
1253.
66
208
Federica Albano
erano riportate le entrate provenienti da ‹‹canoni e capitali››, rispettivamente dalla
‹‹casa di S. Severo››, da quella di S. Agata, di Monte Sant’Angelo e di Lucera. Quindi
non compaiono più, come nei progetti di bilancio del passato, i canoni provenienti
dal comune di Accadia, di Manfredonia e di Ripalta.
Al secondo articolo, denominato ‹‹pensioni degli alunni››, erano riportate
le somme incamerate per il pagamento dell’intera “piazza franca” per diciannove
collegiali.
Proseguendo all’articolo terzo erano elencate le entrate provenienti da ‹‹fondi
diversi››, invece all’articolo quarto quelli provenienti dai ‹‹fondi provinciali››.
Infine nell’ultimo articolo, il quinto, erano trascritti gli ‹‹arretrati di
rendita››.67
Stato di carico
Beni Fondi (canoni e capitali)
ducati 4.547,48
Pensioni degli alunni
1.392,00
Fondi diversi
226,43
Fondi provinciali
1.906,00
Arretrati
218,00
Dopo le entrate erano registrate le voci di spesa definite con l’espressione
‹‹conto di cassa››.68
Al primo capitolo di questa voce erano annotate le ‹‹contribuzioni dirette››
di ducati 116,55 relative al pagamento della tassa, denominata ‹‹fondiaria››, su tutti
i beni del Collegio, e anche le spese per i ‹‹censi›› di duc. 18,23, oltre che quelle di
amministrazione, di appena duc. 30.
Sempre di seguito erano elencate le spese necessarie per pagare gli stipendi
degli impiegati nell’amministrazione del Collegio, come il Rettore, il Vicerettore,
l’Economo, il Contabile e il Notaio, ma anche di quanti svolgevano altre mansioni
all’interno dell’istituto. Difatti l’aspetto che subito risalta all’attenzione è che era
notevolmente accresciuta, rispetto al passato, la dotazione di personale, costituita
da: un prefetto d’ordine, due prefetti di camerata, due camerieri, due facchini, un
dispensiere, un cuoco e un portinaio.
Alle spese precedenti si aggiungevano i compensi spettanti al corpo docente
che, da come risulta dai documenti, era costituito da cinque professori e quattro
maestri esterni (calligrafia, disegno, lingua francese e scienza).
Il costo complessivo delle retribuzioni di tutti gli impiegati del Collegio era
di 2.700 ducati.
67
68
Ibidem.
Ibidem.
209
Il Real Collegio di Lucera (1807-1820)
Ad accrescere le uscite vi erano i costi per il mantenimento dell’infermeria,
dalle spese per l’acquisto dei medicamenti, a quelle per il pagamento del compenso
spettante al personale sanitario, costituito da un medico ordinario, un chirurgo, un
salassatore ed un infermiere, per un totale complessivo di 128 ducati.
Sempre di seguito erano riportate le spese per il vitto.
Dal registro di spesa emerge che erano quarantasei in tutto, tra alunni,
impiegati ed inservienti del Collegio, coloro ai quali spettava di diritto il consumo
del pasto quotidiano all’interno dell’istituto. Si riscontra inoltre come continuava
ad essere in vigore la tabella del vitto, inserita nel regolamento dei Licei e Collegi
Reali, che disciplinava in modo rigoroso i pasti dei collegiali. Il costo complessivo
era di 2.829,19 ducati.
Erano riportate anche tra le voci di spesa i costi per il culto, costituiti dal
compenso annuo, definito ‹‹gratificazione››, spettante ai due confessori, padre
Raffaele Nocelli e padre Ludovico da Lucera, e dalla somma per l’acquisto di cera,
vino e ostie necessarie per la celebrazione delle liturgie nella cappella dell’istituto.
Poi di seguito erano elencate le spese varie che corrispondevano all’acquisto
di beni di varia natura, come l’olio e il cotone per i lumi. Sempre sotto questa voce
era riportata anche la spesa sostenuta per fornire l’istituto di nuove dotazioni come
‹‹macchine scientifiche›› impiegate nelle lezioni di fisica.
Infine si annotavano le voci di spesa ‹‹straordinarie››, i costi relativi alla
manutenzione dei locali dell’istituto e per sostenere oneri ‹‹diversi››.69
Conto di cassa
Fondiaria
ducati
116,55
Censi
18,23
Spese di amministrazione
30,00
Stipendi
2.700,00
Spese d’infermeria
128,00
Spese di vitto
2.829,19
Spese di culto
52,00
Spese varie
444,40
Spese straordinarie
131,36
Manutenzione locali
100,00
Spese diverse
362,76
69
Ibidem.
210
Federica Albano
5. Amministratori e professori
Per quanto riguarda l’amministrazione dei Collegi del Regno si provvide
a dotare ciascun istituto di una propria amministrazione interna: a capo venne
posto un Rettore, a cui era affidata la direzione interna; a lui era affiancato un
Vicerettore, che lo sostituiva in caso di assenza, e un Economo per la gestione degli
affari amministrativi e finanziari.
Per ciascuno di loro era stato stabilito il seguente compenso: per il Rettore
oscillava da un minimo di 15 a un massimo di 20 ducati (l. 63,75 a l. 85,00) al mese;
il Vicerettore percepiva da 10 a 15 ducati (l. 42,50 a l. 63,75), l’Economo da 10 a 15
ducati mensili.70
Anche nel Real Collegio di Lucera per il suo corretto funzionamento
furono nominati, con il decreto regio del 22 novembre 1807, Gregorio Aratri,
nella funzione di Rettore, Emanuele Maffei, come Vicerettore, e Vito D’Abbundo,
come Economo.71
I Rettori che si susseguirono dal 1807 al 1815 nel Collegio di Lucera furono:
Gregorio Aratri a partire dal 22 novembre 1807, l’abate Filippo Confalone dal 11
gennaio 1809, il sac. Francesco P. Lombardo dal 5 ottobre 1811e il sac. Nicola De
Mattheis dal 5 luglio 1815.72
Il Rettore e i due proprietari del luogo dove sorgeva il Collegio dal 1808 ne
amministravano i beni, e a questa Commissione l’Economo doveva rendere conto
di tutte le entrate e di tutte le spese.
Al fine di garantire il corretto e ordinato funzionamento organizzativo
interno, ogni diciotto alunni il Collegio nominava un prefetto, scelto dall’Intendente
della Provincia su proposta del Rettore. Al prefetto era affidato il compito di
controllare il buon ordine nelle camere da studio e da letto e nei passeggi, mentre
spettava agli insegnanti controllare l’ordine all’interno della scuola.
L’istruzione era impartita da sette professori interni che beneficiavano del
vitto e dell’alloggio nell’istituto e di uno stipendio da stabilirsi, entro il limite
massimo di ducati 15 (l. 63,75). Questi insegnavano varie discipline: il greco, il
latino, l’italiano, l’archeologia classica, le matematiche, la filosofia, in particolare la
logica, la metafisica e l’etica, la geografia e gli elementi di fisica.
Era affidato ad altri cinque professori interni l’insegnamento della lingua
francese, della calligrafia, del disegno, della scherma e del ballo. Potevano esserci
anche insegnanti di scienze e di belle arti, su richiesta degli alunni e a loro spese.
L’onorario degli insegnanti esterni variava da 7 a 10 ducati (da l. 29,75 a l.
42,50) il mese.
Nei Collegi, in cui il Rettore o il Vicerettore non fosse un religioso,
70
ARCINETTI, Monografia del Convitto nazionale di Lucera dal 1807 al 1884, p. 38.
Collegio-Liceo e Università in Capitanata, 1807-1862, pp. 15-16.
72
Ivi, p. 333.
71
D’AMBROSIO,
211
Il Real Collegio di Lucera (1807-1820)
si aggiungeva ai professori interni un catechista con il compito di spiegare il
catechismo approvato dal Governo.73
Docenti e superiori, accettando il loro incarico, si assumevano un obbligo
quasi sacro, rendendosi responsabili dell’educazione dei propri discenti di fronte al
Sovrano e allo Stato. Difatti (si legge in un documento) ‹‹quando un uomo onesto
accetta simili uffizi, contrae un sacro, ma difficile obbligo››.74
L’aspetto da notare ed evidenziare è che nel regolamento annesso alla legge
del maggio 1807, che provvedeva a istituire i Collegi del Regno, veniva indicato
anche lo scopo principale a cui doveva mirare l’educazione dei giovani collegiali.
Questo era individuato nello sviluppo del corpo e dello spirito e nella necessità di
infondere nei cuori dei giovani il sentimento di religione, della patria e della carità.
La legge del maggio 1807, infatti, così precisava:
L’amore della patria sia la passione dominante nel cuore dei giovani; dall’amore
della patria nasce la fortezza dell’animo, e senz’amor di patria svaniscono tutte le virtù.75
Nel regolamento veniva definito, tra l’altro, anche il metodo d’educazione a
cui dovevano attenersi gli insegnanti:
Non si può educare praticamente senza conoscere i temperamenti e le
inclinazioni dei giovani. Sarà così più facile svolgerne le facoltà intellettuali. Per
questo è necessario eccitare l’attenzione, “microscopio d’ogni umano sapere”. Ne
seguiranno dei giudizi e dai giudizi i ragionamenti. Ma non si dimentichi il costume,
che comprende le facoltà morali. Senza costume non vi è onore. Conoscano i
giovani la legge morale anche dall’esempio degli educatori.76
Si sottolineava anche l’importanza della attività fisica e dello sviluppo del
corpo nell’educazione dei giovani; difatti si incoraggiava ad esercitare ‹‹il corpo col
ballo, con la scherma, col giocare alle palle, al biliardo, al mezzo pallone››.77
Si può fondatamente pensare che ai nuovi ideali portati dalla Francia si siano
aggiunti i suggerimenti educativi e pedagogici del ‹‹grande vicino››78 a Lucera, cioè
del molisano Vincenzo Cuoco, autore poi del Rapporto al re Gioacchino Murat e
del Progetto di Decreto per l’ordinamento della Pubblica Istruzione del Regno di
Napoli.79
73
ARCINETTI, Monografia del Convitto nazionale di Lucera dal 1807 al 1884, p. 38.
Ivi, p. 39.
75
Ibidem.
76
Ibidem.
77
Ibidem.
78
Liceo ginnasio “R. Bonghi” di Lucera, p.15.
79
Ibidem.
74
212
Federica Albano
L’oneroso compito a cui gli insegnanti erano chiamati era quello di formare
l’uomo e il cittadino di domani. E, sempre indirizzandosi agli insegnanti, il
regolamento proseguiva nel dar loro delle linee guida sul comportamento che
si confaceva ad un educatore del Real Collegio e, addentrandosi in questioni
prettamente pedagogiche, anche il tipo di rapporto da instaurare con gli alunni:
Rammentino gli educatori che essi debbono formare l’uomo e il cittadino.
Sfuggano, insegnando, sia la bassezza di una mera pratica e sia le sterili astrazioni.
Non si stanchino di studiare e istruiscano con ogni attenzione. Non si sgomentino
degli ostacoli, si guadagnino la stima degli alunni con l’onestà e col sapere. Imitino
la condotta e i sentimenti di un padre; siano sempre affabili senza debolezza,
esatti senza vanità: mostrino a tutti benevolenza e affetto. Se il maestro non vuole
render vana l’opera sua, assecondi i temperamenti degli alunni; e rammenti che i
talenti non sono uguali negli alunni e a seconda dei medesimi egli sappia cambiar
di condotta.80
In aggiunta, il Rettore era tenuto ad approntare una relazione mensile,
secondo le relazioni del Vicerettore e dei Prefetti, sul temperamento, l’inclinazione,
l’attitudine e il costume di ciascun collegiale.81
Per quanto riguarda il caso specifico del Real Collegio di Lucera, dalle scarne
notizie che emergono dai documenti conservati nell’Archivio di Stato di Foggia si
può tracciare una breve cronistoria riguardante la gestione interna e le nomine
degli insegnanti.
Al rettore Aratri subentrò, con il decreto del 11 gennaio 1809, l’abate Filippo
Confalone.
Questo, nella funzione di nuovo Rettore del Collegio di Lucera, rispondendo
all’invito rivoltogli dal consigliere di Stato barone Nolli, intendente della provincia
di Capitanata, con lettera dell’11 marzo 1809 proponeva i professori e i maestri per
la funzionalità del Collegio stesso.82
Da questa stessa lettera si ricavano le modalità di assunzione degli insegnanti
del Collegio: difatti era il Rettore a presentare all’intendente della Provincia i nomi
di una serie di possibili candidati con allegate tutte le loro credenziali (un arcaico
curriculum), ed era infine l’Intendente a procedere, dopo una eventuale scelta tra
più candidati, all’approvazione definitiva e quindi all’assunzione.
Inoltre, quello che affiora è la grande cura e le scrupolose ricerche del Rettore,
prima di procedere all’assunzione di un insegnante, e la grande attenzione per ‹‹la
condotta morale e le sublimi cognizioni››,83 garantiti dai numerosi attestati che i
80
ARCINETTI, Monografia del Convitto nazionale di Lucera dal 1807 al 1884, p. 39.
Ivi, p. 40.
82
D’AMBROSIO, Collegio-Liceo e Università in Capitanata, pp. 24-26.
83
Ibidem.
81
213
Il Real Collegio di Lucera (1807-1820)
professori erano tenuti a presentare, e dalle assicurazioni da parte dei superiori degli
ordini religiosi di appartenenza, dei vescovi e dei sindaci dei comuni di provenienza.
La linea che prevaleva al tempo, in materia di assunzioni, era che, in mancanza
di un’abbondante schiera di educatori laici, si cercava di valorizzare i religiosi e gli
ecclesiastici, pur di incrementare l’apparato scolastico a tutti i livelli.84
Per il Collegio di Lucera si giunse così al decreto del 28 marzo 1809 di
Gioacchino Napoleone, con il quale vennero nominati lo scolopo Paolo Aquila,
e il domenicano Raffaele Birago, rispettivamente professori di matematica e di
filosofia nel Real Collegio di Lucera.85
Nella lettera del 30 maggio 1809 lo stesso Rettore sottolineava al Ministero
dell’Interno ‹‹la necessità assoluta di Lettori›› e caldeggiava la nomina alla prima
cattedra di lingua latina (o piccola umanità) del lettore Emanuele Lucarelli.86
Così, con il decreto del 10 luglio 1808, il religioso Agostino Emanuele
Lucarelli fu nominato professore della prima classe della lingua latina del Real
Collegio di Lucera.87
Negli anni successivi proseguivano intanto i decreti di nomina di nuovi
professori e, con quello del 18 ottobre 1810, veniva nominato professore di lingua
latina superiore e di lingua greca Domenico Mallardo.
Si giunse solo con il decreto del 22 giugno 1811 alla nomina del primo
maestro di calligrafia, tanto auspicata e caldeggiata dall’Intendente, nella persona
di Gennaro Lettieri.
Successivamente venne nominato, con il decreto regio del 5 ottobre 1811, il
nuovo rettore del Collegio nella persona di Francesco P. Lombardo. E continuavano
la nomine di nuovi professori, come il sac. Giuseppe Pazienza, professore di
grammatica superiore e di elementi di lingua greca, il sac. Marco Gatti, professore
di retorica, umanità ed elementi lingua greca.88
Nel periodo della seconda restaurazione borbonica la pubblica istruzione
fu investita da un’opera di riorganizzazione che interessò in modo particolare la
procedura di selezione e nomina di nuovi insegnanti per le cattedre vuote di Licei,
Collegi e scuole secondarie di tutte le province del Regno.
L’assunzione dei nuovi insegnanti non avveniva più, come nel passato regime
napoleonico, per approvazione reale, ma per concorso, in modo da effettuare una
selezione ed avere ‹‹professori meritevoli››.
Questo si evince dalla lettera, datata 28 ottobre 1815, del Principe di Cardito
con cui, in qualità di presidente della Commissione di Pubblica Istruzione,
informava l’Intendente di Capitanata, Giacomo Farina.89
84
Ivi, p. 42.
Ivi, pp. 24-26.
86
Ivi, pp. 26-28.
87
Ivi, pp. 28-29.
88
Ivi, pp. 37-38.
89
D’AMBROSIO, Collegio-Liceo e Università in Capitanata, pp. 65-66.
85
214
Federica Albano
Nella missiva si sottolineava inoltre come, in aggiunta alle conoscenze nelle
rispettive discipline che venivano valutate attraverso il concorso, l’altro elemento
fondamentale sul quale fondare una scelta era costituito dalla ‹‹buona condotta
morale e religiosa››90 degli aspiranti insegnanti, tenuti a presentare una valida
documentazione che attestasse tali qualità.
Nel seguito della lettera il principe di Cardito esponeva in modo dettagliato
il ‹‹Piano per provvedersi le cattedre vuote nei Licei e scuole secondarie nelle
Province del Regno››.91
Difatti, sempre nel Consiglio tenutosi l’11 ottobre 1815, la Commissione
aveva elaborato le modalità di esecuzione del concorso e tutto l’iter burocratico
da seguire. La procedura prevedeva che fosse l’Intendente della provincia in cui
si registrava la vacanza di una cattedra ad indire il concorso, dopo aver ricevuto
la relativa autorizzazione da parte della Commissione di Pubblica Istruzione.
Quest’ultimo, a sua volta, inviava all’Intendente il plico sigillato contenente
i quesiti d’esame, che veniva aperto nel giorno prestabilito del concorso alla
presenza dell’Intendente stesso, di altre autorità, quali il Sindaco del capoluogo
della Provincia e due esaminatori, scelti tra i letterati, oltre che degli eventuali
concorrenti. La fase successiva prevedeva la compilazione di due verbali
d’esame, di cui uno contenente la trascrizione delle domande poste oralmente
e le relative risposte del concorrente e l’altro gli elaborati dei partecipanti con
la risoluzione dei quesiti compilati dai concorrenti stessi. Entrambi i verbali
erano poi inviati alla Commissione di P.I. che emetteva il giudizio definitivo e
decretava il vincitore.
Era stato stabilito che i concorsi si sarebbero dovuti tenere sia nella città di
Napoli che nella stessa provincia in cui c’era bisogno di un insegnante, in modo da
facilitare l’accesso a più concorrenti.92
Sempre di seguito, nella lettera era elencato lo ‹‹stato delle materie››,93 ossia le
discipline sulle quali era impostato l’esame e i possibili quesiti per ognuna di queste,
oltre che l’indicazione degli autori e dei testi. In totale le materie erano sette, come le
classi costituenti il corso di studi collegiali: grammatica italiana, grammatica latina
inferiore, grammatica latina superiore, umanità, retorica, filosofia e matematica
elementare; infine, matematica e fisica.94
Nel caso specifico del Real Collegio di Lucera per quanto riguarda
l’amministrazione interna dell’istituto non si segnalarono significative novità,
tranne la nomina a rettore, con decreto regio datato 5 luglio 1815, del sac. Nicola
90
Ibidem.
Ibidem.
92
Ivi, pp. 66-69.
93
Ibidem.
94
Ivi, pp. 69-71.
91
215
Il Real Collegio di Lucera (1807-1820)
De Matteis,95 e successivamente l’avvicendamento, nella stessa carica, del can.
Giulio Quarrardi, con decreto del 4 giugno 1818.96
Dei cambiamenti ci furono, invece, nella nomina degli insegnanti, come del
resto in tutte le province del Regno.
Il primo concorso ad essere bandito nell’istituto lucerino fu quello per la
cattedra di grammatica inferiore. Difatti nel novembre 1815 il presidente della
Commissione di Pubblica Istruzione dava l’autorizzazione all’Intendente di
Capitanata ad indire il concorso e diffondere il bando in tutta la Capitanata ed
inviava il plico contenente i quesiti da svolgere.97
Intanto il Rettore del Collegio, da parte sua, rendeva noto il compenso
spettante all’eventuale vincitore del concorso che, così come si legge da un
documento d’archivio, era costituito da ‹‹duc. 14 al mese, soggetti però alle ritenute
del 2 e 5%, come si praticava per quello di qualunque impiegato››, ed inoltre
sottolineava come si continuava a garantire anche ‹‹l’alloggio, il vitto, l’olio per
il candeliere e il letto››98 all’interno del Collegio. Evidenziava inoltre la maggiore
importanza di questa disciplina rispetto alle altre, e quindi di conseguenza la cura
maggiore da prestare nella scelta dell’insegnante, proprio perché ‹‹ha per oggetto
la prima istituzione da darsi ai giovanetti. Affidandosi ad una mano poco perita, le
tenere piante non verrebbero ben coltivate, e si perderebbe ogni speranza del loro
felice sviluppo e riuscita››.99
Il concorso si tenne nel dicembre dello stesso anno e, fra i vari concorrenti
accorsi da tutta la provincia e dopo un lungo periodo di giudizio, nel febbraio del
1816 venne nominato come nuovo insegnante di grammatica inferiore il professore
Giovanni Bredice, di S. Marco la Catola, ma ‹‹dimorante in Foggia››.100
Inoltre dalla documentazione presente in archivio si rilevano, per l’anno
1819, i nomi e il numero esatto dei professori e dei maestri che svolgevano il loro
lavoro nel Collegio di Lucera. Si ha notizia, infatti, di un totale di sei professori,
titolari di cattedra, e di due maestri quali: Nicola Tecce (fisica e analisi), Raffaele
Birago (filosofia e sintesi), Raffaele Seguino (retorica e lingua greca), Giuseppe
Pazienza (umanità sublime), Francesco Tasca (grammatica latina), Pasquale
Colucci (italiano) e i maesti Nicola Volpe (disegno) e Gabriele de Santis
(calligrafia).101
Tra il maggio e l’agosto del 1820 si svolse un altro concorso nel Collegio
lucerino per la cattedra di “lingua latina sublime”. Fu decretato vincitore del
95
Ivi, p. 64.
Ivi, p. 97.
97
Ivi, pp. 77-78.
98
Ibidem.
99
Ivi, p. 78-79.
100
Ivi, p. 80.
101
Ivi, pp. 98-99.
96
216
Federica Albano
concorso il sac. Anastasio Antonucci, il quale in data 10 settembre dello stesso
anno riceveva la nomina ufficiale.102
In quegli anni il Real Collegio di Lucera si arricchiva (come si è detto)
di un’altra importante cattedra, quella di diritto e procedura civile. E sul finire
dell’anno 1819 venne anche bandito il relativo concorso, tenutosi nel febbraio
del 1820, contemporaneamente a Napoli presso l’Università e a Foggia presso
il Palazzo dell’Intendente. L’unico candidato che fece domanda fu il professore
Giovanni Battista Pepe di Lucera che risultò, ovviamente, vincitore.
Così con decreto del 24 aprile dello stesso anno il professor Pepe venne
nominato insegnante di diritto e procedura civile nel Real Collegio di Lucera anche
se poi il corso ebbe inizio solo nel mese di novembre.103
La particolarità degna di nota è la formula di giuramento che il professore
pronunciò il giorno della sua nomina dinanzi all’autorità dell’Intendente. Difatti
il dichiarante, sotto giuramento, doveva affermare la sua non appartenenza o la
rinuncia a qualsiasi tipo di società segreta.
Si può constatare come questo risenta del clima politico del tempo, ossia
della grande diffusione delle società segrete anche negli ambienti di formazione,
potenziali sovvertitrici dell’ordine pubblico e destabilizzatrici del regime da poco
restaurato da Ferdinando I. Riporto qui di seguito la formula del giuramento:
Io G. B. Pepe nominato da S. M. con R. decreto del 24 aprile prof. di diritto e
procedura civile nel R. Collegio di Lucera, prometto e giuro fedeltà ed ubbidienza
a Re Ferdinando I, e pronta ed esatta esecuzione degli ordini suoi….
Prometto e giuro di non appartenere a nessuna società segreta di qualsivoglia
titolo, oggetto e denominazione, e nel caso che io appartenessi a qualcheduna di
tali società prometto e giuro di rinunziarvi da questo momento e di non farne mai
più parte, così Iddio mi aiuti.104
6. Alunni e scolari
La stessa legge del 30 maggio 1807, che istituì i Collegi Reali del Regno,
provvide anche alla regolamentazione di tutta l’articolazione organizzativa degli
stessi, compresa l’ammissione degli alunni.
Fu stabilito che i Collegi potevano essere frequentati da ‹‹alunni›› interni e
da ‹‹scolari›› esterni.
Per quanto riguarda gli alunni interni si provvide anche, con la stessa
legge, alla fondazione delle “piazze franche” intere o a metà, ossia posti gratuiti o
102
Ivi, pp. 111-112.
Ivi, pp. 94-105.
104
Ivi, pp. 106-107.
103
217
Il Real Collegio di Lucera (1807-1820)
semigratuiti, riservate ad alunni particolarmente meritevoli sia della scuola primaria
che secondaria, e ai figli di militari e di impiegati civili del Regno, in gratificazione
dei servizi fedelmente prestati.
Gli alunni interni erano nominati dal Governo e non potevano superare il
numero di cinquanta in ogni Collegio. In tutti i Collegi delle province del Regno la
retta stabilita era di 8 ducati (l. 34,00) al mese; quindi gli alunni interni o pagavano
la retta per intero o potevano usufruire, in base a determinate condizioni, dei posti
gratuiti e semigratuiti.
Gli scolari esterni, invece, erano ammessi dai Rettori, a condizione che
fossero di “buoni costumi e inclinati allo studio”, e frequentavano gratuitamente
le scuole.
Per gli alunni interni erano inoltre stabiliti dei limiti di età; infatti non
potevano essere ammessi nei Collegi prima degli otto anni compiuti, né dopo i
quattordici anni, e oltre i diciotto anni non potevano continuare a restare in
Collegio.105
Quest’ultimi poi erano sottoposti a una serie di regole ben precise: avevano
l’obbligo di alloggiare in camere separate, non erano loro permessi giochi con le
carte e con il denaro ed erano obbligati a rispettare e a partecipare a tutti gli atti
religiosi.
Inoltre, era loro imposto di indossare una uniforme costituita da: abito blu a
coda con paramaniche e collaretto di colore celeste, con bottoni gialli con la scritta
Real Collegio di Lucera, calzoni corti blu con fibbia, sottoveste bianca, stivaletti
neri, e in testa un cappello a punta con coccarda. Nella stagione estiva era lecito
indossare una sottoveste e calzone corto di “lanchina”.106
Riguardo il corredo dei collegiali si richiedeva l’assoluta uniformità: panno
e tela dovevano essere del Regno. Era anche vietato ogni lusso per non destare una
emulazione che ben presto sarebbe degenerata in superbia e invidia, divenendo
anche dannosa per l’economia della famiglia.107
Nulla era lasciato al caso: addirittura anche le punizioni erano previste e
precisamente definite dal regolamento, e si differenziavano tra alunni interni
e scolari esterni. Gli alunni interni erano puniti con le seguenti pene: ‹‹maggior
durata del travaglio; travaglio straordinario; privazione della passeggiata e della
ricreazione; detenzione; prigionia che solo il Rettore poteva ordinare››.108
Gli scolari esterni, invece, potevano essere espulsi per rapporto dei professori
e in caso di quattro assenze consecutive senza giusta causa.
Alla fine del corso di studi vi era la solenne cerimonia della distribuzione
105
ARCINETTI, Monografia del Convitto nazionale di Lucera dal 1807 al 1884, pp. 37-38.
Tela speciale mista di lino e cotone; da “lanché” e “anchina” dal francese nankin. Ivi, p. 38.
107
Ivi, p. 40.
108
Ivi, p. 38.
106
218
Federica Albano
dei premi, nella quale il Rettore presentava all’Intendente della Provincia l’elenco
dei collegiali meritevoli di entrare in uno degli istituti destinati a contribuire
ulteriormente alla formazione dei giovani e a dar loro “l’ultimo grado di perfezione”
in quell’ambito nel quale i giovani erano indirizzati dalle loro attitudini o anche
dalla volontà dei parenti. Questi istituti erano: i Seminari sottoposti all’autorità
governativa; la Scuola Militare di Caserta; la Scuola Politecnica di Napoli (marina,
artiglieria, genio militare e civile); la Scuola di Belle Arti in Napoli; il Convitto per
gli studi legali e il Convitto per gli studi di medicina e chirurgia, anche quest’ultimi
in Napoli.109
Passando ora ad esaminare il caso specifico del Real Collegio di Lucera,
mi soffermerò soprattutto ad analizzare la componente degli alunni, presente in
questo istituto, nei primi due anni della sua attività.
Dalla documentazione relativa a questo istituto, conservata presso l’Archivio
di Stato di Foggia, si evince che già nel gennaio del 1808 iniziarono le prime
assegnazioni di alunni.
Il primo alunno ad essere ammesso con decreto regio, nel gennaio del 1808,
e ad usufruire dell’intera “piazza franca” fu N. Thomay, figlio di un colonnello,
comandante del Castelnuovo di Napoli, meglio conosciuto come il Maschio
Angioino.110
Con il decreto dell’8 marzo 1808 furono assegnati al Real Collegio di Lucera
otto ‹‹alunni regi›› a posto gratuito e cinque a posto semigratuito e nello stesso
decreto, in aggiunta, veniva specificata la motivazione della loro ammissione,
cosa che risulta estremamente utile nella comprensione dei meccanismi allora in
vigore. Gli alunni ad essere ammessi a posto gratuito furono: Catello Bianchi,
proveniente dalla cittadina di Campolieto, orfano di padre, capitano di artiglieria,
morto con il fratello nella campagna militare del 1799; Giuseppe Blasio, di San
Lupo, orfano di padre, morto nel “servire lo stato” nel 1807; Liberato de Cesare,
della città di Pratola, Domenico di Gennaro, di Casacalenda, Michele Lupinacci,
di Cosenza, tutti e tre orfani di padre a causa della campagna militare del 1799;
Gabriele Paolella, di Napoli, orfano di padre ucciso nel 1808; ed infine Gabriele
de Santis di S. Paolo e Gennaro Simeone di Napoli, entrambi orfani dei loro
padri, uccisi nel 1799.111
Coloro i quali che, invece, furono ammessi a posto semigratuito furono:
Domenico Coletti, proveniente dalla città di Atri, orfano del padre morto nella
campagna militare del 1799; Gaetano Coletti, anch’esso di Atri, orfano di padre
e appartenente a famiglia povera e numerosa; Giuseppe Forte, di Teramo, la cui
famiglia perse i propri beni in seguito al saccheggio avvenuto nel 1799; ed infine
109
Ibidem.
ASFg, Intendenza di Capitanata Pubblica Istruzione, Real Collegio di Lucera, fascio 53, fascicolo
1051.
111
Ibidem.
110
219
Il Real Collegio di Lucera (1807-1820)
Pietro Sacchi e Guglielmo Sacchi di Amantea, entrambi orfani dei loro padri e, in
aggiunta, privati dei loro beni durante il saccheggio da parte dei nemici.112
Come si può notare da questo elenco di nomi di collegiali, e soprattutto dalla
motivazione della loro ammissione al Real Collegio di Lucera, questi erano in gran
parte orfani, figli di militari o danneggiati dalle guerre le cui famiglie avevano subito
la perdita o il saccheggio di beni o, ancora, erano figli di alti ufficiali dell’esercito
che, per una sorta di compensazione per gli alti compiti resi, ricevevano come
beneficio dal re in persona la possibilità di perfezionare la loro educazione nei
Collegi Reali.113
Successivamente con decreto regio, del maggio dello stesso anno, furono
ammessi altri due collegiali: Salvatore Colucci, proveniente dalla città di Fondi,
figlio di un Capitano dell’esercito del 1° Reggimento di fanteria leggera, ammesso
a posto gratuito, e Francesco Micchitelli, ammesso, invece, a posto semigratuito e
proveniente da Teramo, la cui famiglia aveva subito dei danni nella campagna del
1799.114
In alcuni casi erano i genitori che inviavano delle lettere o delle vere e proprie
suppliche, al re in persona o all’Intendente, per chiedere l’ammissione dei loro figli
ai Collegi Reali. In esse presentavano e sottolineavano la loro situazione familiare
precaria a causa dei danni subiti in seguito alle guerre, come il saccheggio o la
perdita di beni o peggio per la morte in battaglia del capofamiglia che pregiudicava
quindi la possibilità di sostentamento di tutti i figli.
Nel momento in cui la loro richiesta fosse stata accettata, come si evince da
alcune lettere dell’Intendente, avrebbero dovuto presentare una documentazione, una
sorta di curriculum, che comprendeva: il certificato di battesimo, notizie riguardanti
i loro costumi e la loro preparazione scolastica, infine, informazioni in merito alle
famiglie di appartenenza, ossia se queste fossero in possesso dei mezzi sufficienti
a garantire ai loro figli tutto l’occorrente e il denaro necessario per far fronte alle
piccole spese mensili per l’acquisto di libri, scarpe, per la lavanderia ed altro.
Nel maggio del 1808 il Real Collegio di Lucera non era ancora in funzione,
come risulta da una lettera inviata dal Ministero dell’Interno all’Intendente di
Capitanata, in cui si spiegava che l’alunno Gabriele Paolella, ammesso nel Collegio
con decreto di marzo, veniva trasferito al Collegio di Napoli, adducendo come
motivazione proprio la non ancora effettiva apertura di quello di Lucera. In
aggiunta veniva deciso che il posto gratuito che era stato concesso all’alunno nel
Collegio di Lucera doveva essere garantito anche in quello di Napoli, con i fondi
prelevati dalla dotazione del collegio lucerino.115
112
Ibidem.
ARCINETTI, Monografia del Convitto nazionale di Lucera dal 1807 al 1884, pp. 14-15.
114
ASFg, Intendenza di Capitanata Pubblica Istruzione, Real Collegio di Lucera, fascio 53, fascicolo
1051.
115
Ibidem.
113
220
Federica Albano
Ci furono nello stesso anno anche i trasferimenti di altri due alunni in altri
Collegi di cui però sono ignote le motivazioni: l’alunno Thomay, di cui non si
conosce la sede in cui fu trasferito, e l’alunno Giuseppe Forte trasferito nel Collegio
di Sulmona, con il beneficio di un posto gratuito.
Intanto, sempre nel maggio dello stesso anno, proseguivano, con decreto regio,
le ammissioni al Real Collegio di Lucera: l’alunno Michele Cerulli, proveniente dalla
città di Carbonara, orfano del padre morto in servizio nel 1807 in qualità di Capitano
della guardia provinciale, fu ammesso a posto gratuito, mentre fu concesso di usufruire
del posto semigratuito ai fratelli Antonio Maria e Luigi Marinelli di Ripalimosani,
orfani del loro padre morto nella campagna del 1799, e ai fratelli Gabriele e Carlo
Prezio, della città di Dipignano, anch’essi orfani di padre.
Nel dicembre del 1808 si aggiungevano, con decreto regio di cui, però, non
venne esplicitata la motivazione della loro ammissione, gli ultimi due collegiali:
l’alunno Michelangelo Vinaldi, proveniente dalla città di Campobasso, a cui fu
concesso di usufruire di un posto gratuito, e l’alunno Nicola Spasiano che beneficiò,
invece, di un posto semigratuito.116
Innanzitutto l’aspetto che emerge dai registri degli iscritti al Real Collegio
è la mancanza, come invece era contemplato dal regolamento generale, di scolari
esterni. Difatti furono ammessi soltanto gli alunni interni e solo con decreto regio
e non ci furono, invece, ammissioni da parte del Rettore, come era previsto per gli
scolari esterni.
Si evidenzia inoltre che il numero di posti gratuiti messi a disposizione era
equivalente al numero dei posti semigratuiti. Il criterio in base al quale furono
concessi questi posti gratuiti o semigratuiti non è del tutto chiaro, anche se si può
escludere verosimilmente quello economico: difatti coloro che usufruirono di
posti semigratuiti non erano meno svantaggiati di quelli che usufruirono di posti
gratuiti, come si può notare nel caso, emblematico, dell’alunno Coletti Gaetano,
in cui, nell’esporre la situazione familiare, viene espressamente dichiarato che
era orfano di padre e per di più appartenente a famiglia povera e numerosa. Al
Coletti fu concesso non un posto gratuito, come poteva essere appropriato alla sua
situazione economica, ma solo uno semigratuito.
Affrontiamo ora la questione relativa alla provenienza geografica degli alunni
che hanno svolto la loro formazione nel Real Collegio di Lucera nell’anno 1808.
La fonte pressoché unica, da cui è possibile ricavare i dati per svolgere
questo tipo di indagine, sono sempre gli elenchi degli alunni che annualmente ogni
Collegio era tenuto a compilare, conservati presso l’Archivio di Stato di Foggia, e
i decreti reali che stabilivano l’assegnazione degli alunni.
116
Ibidem.
221
Il Real Collegio di Lucera (1807-1820)
Numero e provenienza degli alunni del Real Collegio di Lucera
nell’anno 1808117
Province
Numero alunni
Contado del Molise
6
Capitanata
-
Terra di Bari
-
Terra d’Otranto
-
Basilicata
-
Tre province degli Abruzzi
4
Due province delle Calabrie
5
Due Principati
3
Napoli
4
Terra di Lavoro
1
Per quanto concerne la provenienza degli alunni, osserviamo come il Real
Collegio di Lucera possieda fin dalle origini un carattere interprovinciale: difatti
su un totale di ventitré alunni si nota la prevalenza di studenti originari del vicino
Contado del Molise, ma anche delle due province della Calabria (Ulteriore e
Citeriore), subito seguite, con quattro alunni, dalle tre province degli Abruzzi
(Teramo, L’Aquila, Chieti) e a pari merito dalla, da poco istituita, provincia di
Napoli; seguono le province dei due Principati e, con appena un alunno, quella di
Terra di Lavoro.118
L’aspetto, però, che emerge da una analisi approfondita è che, nel periodo
di tempo preso in considerazione, ossia il primo anno di attività dell’istituto, vi
è una totale mancanza di alunni provenienti dalla provincia della Capitanata e,
allargando lo sguardo, anche dalle altre province pugliesi.
Quindi quello che risulta da questa istantanea è che in realtà l’istituzione
del Real Collegio sito in Lucera, almeno inizialmente per il primo anno della sua
attività, rivolgeva la sua opera di educazione ed istruzione a tutte le province del
Regno, tranne che proprio alla provincia di Capitanata, dove appunto era situato,
e anche alle altre province della regione Puglia.
Nel successivo anno di attività dell’istituto, ossia il 1809, si notano dei
cambiamenti nei documenti relativi alla componente alunni. Innanzitutto nei
decreti reali, con i quali si procedeva all’assegnazione degli alunni, si registra la
scomparsa della motivazione della loro assegnazione e dell’annotazione della città
117
118
Ibidem.
Ibidem.
222
Federica Albano
di provenienza dei futuri collegiali. Cosa che quest’ultima pregiudica non poco
la possibilità di condurre una attenta e approfondita indagine della componente
alunni, come è stato fatto per l’anno 1808.
L’altro elemento che si evidenzia, esaminando i decreti reali, riguarda
l’assegnazione delle intere o mezze “piazze franche”. Difatti questa istituzione
subisce, per quanto riguarda il 1809, un processo di semplificazione, cioè si procede
soltanto all’assegnazione di intere piazze franche.
Intanto nel Real Collegio di Lucera nell’anno 1809 si continuava con
l’assegnazione di altri collegiali che, sommati agli alunni ammessi l’anno precedente,
costituivano un numero considerevole, come appare chiaro anche da una lettera del
Ministro dell’Interno all’Intendente di Capitanata che scriveva, nel dicembre dello
stesso anno, che ‹‹nel Collegio di cotesta Provincia si è già raccolto un competente
numero di alunni››.119
Già nel gennaio ci fu la prima assegnazione a cui seguirono molte altre
durante l’intero anno.
Intanto nei primi mesi dell’anno proseguivano anche i trasferimenti: i fratelli
Guglielmo e Pietro Sacchi, a cui l’anno precedente erano stati concessi due posti
semigratuiti, beneficiarono, invece, di due posti gratuiti nel Real Collegio di Napoli;
l’alunno Francesco Micchitelli fu trasferito al Collegio di Lecce; l’alunno Antonio
Massa, il primo ad essere nominato già nel gennaio del 1809, fu trasferito in quello di
Sulmona; ed infine fece ritorno al Collegio di Lucera l’alunno Gabriele Paolella che,
l’anno precedente, era stato momentaneamente trasferito in quello di Napoli.120
Inoltre anche per l’anno 1809 non si segnalò la presenza di alcun scolaro
esterno. Proprio a quell’anno risalgono le prime assegnazioni di alunni provenienti
dalla Puglia, come risulta da un decreto regio, datato 7 ottobre 1809. Da quanto
si rileva dai documenti questi ragazzi, di Dedda e di Gennaro, già si trovavano a
piazza franca nel seminario di Ascoli, a carico della Giunta del Tavoliere come
appartenenti alle Colonie ex gesuitiche, ed ora erano in età giusta per poter accedere
al Real Collegio di Lucera.
Continuavano intanto anche le lettere di supplica di genitori che chiedevano
al Re la concessione di un posto gratuito in questo istituto per il proprio figlio. E tra
queste lettere di genitori risalta quella di un notabile lucerino, Vincenzo Candida.
Innanzitutto è degna di nota, perché è la prima lettera di un abitante della città di
Lucera a chiedere l’ingresso del proprio figlio nel Real Collegio. In questa missiva,
diretta al Re in persona, chiedeva una piazza franca per il figlio di nome Andrea di
undici anni nel Collegio della città e la possibilità ‹‹di dargli un’ottima educazione
utile allo Stato››. Importante notare come in modo particolare nella missiva del
Candida, a differenza di altre in cui si chiedeva di ottenere questo beneficio, si
sottolinea l’attaccamento suo e della sua famiglia alla causa francese e al regno da
119
120
Ibidem.
Ibidem.
223
Il Real Collegio di Lucera (1807-1820)
essi instaurato, avvalorato dall’arruolamento di suoi familiari, in particolare di due
dei suoi fratelli, nell’esercito reale, l’uno come Colonnello civico nella Provincia di
Basilicata e l’altro, tenente Colonnello, come aiutante di un generale francese.121
Per il periodo della restaurazione borbonica, invece, non si può definire con
precisione la modalità di scelta degli alunni nel Real Collegio di Lucera a causa
della mancanza di documentazione riguardante questo aspetto.
Dal modus operandi di questo nuovo regime, ossia di conferma nei confronti
di gran parte della legislazione in materia di pubblica istruzione ereditata dal
periodo precedente, si ipotizza che non ci siano stati cambiamenti nelle modalità
di scelta degli alunni nel Real Collegio, come prova, peraltro, la documentazione
appena successiva a questo periodo.
Difatti persisteva l’istituto della ‹‹piazza franca›› che, molto probabilmente,
continuava ad essere assegnata ai figli di militari e di impiegati civili del Regno,
in gratificazione dei servizi fedelmente prestati. Soprattutto questo beneficio
continuava ad essere destinato ai figli di famiglie che avevano subito delle perdite a
causa delle guerre o erano cadute in disgrazia, come si rileva dalle numerose lettere
della fine del quinquennio borbonico.122
L’aspetto, invece, su cui è necessario soffermarsi e che ha per oggetto sempre
la componente alunni, è l’esame di ammissione, che subì dei cambiamenti. In questo
quinquennio borbonico si stabilirono nuove norme dirette a dare maggiore rigore
agli esami che gli alunni di Licei e Collegi Reali e scuole superiori dovevano sostenere
per poter accedere alla scuola o per poter essere ammessi agli anni successivi.
Questi esami normalmente si tenevano nel mese di settembre, prima
dell’inizio del nuovo anno scolastico. Ma nel 1815, in concomitanza con l’instaurarsi
del nuovo regime, nel Real Collegio di Lucera si dovettero risostenere a novembre
gli esami già sostenuti a settembre.
Dal verbale d’esame si rileva che, in data 16 novembre 1815, si tenne ‹‹l’esame
di classificazione degli alunni e degli esterni››123 alla presenza delle autorità quali
l’Intendente di Capitanata, il Rettore e del resto della commissione costituita dai
professori Birago, Gatti, Pazienza e dal sostituto Ferrante.
L’esame ebbe inizio per gli alunni della classe di filosofia e matematica:
si presentarono due alunni interni e due esterni; i primi tre furono ammessi alle
lezioni di ‹‹fisica particolare e delle sezioni del cono››,124 l’altro, l’alunno Diego
Bonghi, risultò invece idoneo per le lezioni di filosofia. Anche il nuovo alunno
Vincenzo d’Alessandro, che si presentò per l’ammissione al Real Collegio, risultò
idoneo per le lezioni di filosofia.
121
Ibidem.
ASFg, Intendenza di Capitanata Pubblica Istruzione, Real Collegio di Lucera, fascio 54, fascicolo
1062.
123
D’AMBROSIO, Collegio-Liceo e Università in Capitanata, p. 72.
124
Ivi, pp. 72-73.
122
224
Federica Albano
Poi seguirono gli esami per accedere alla classe di ‹‹belle lettere e lingua
greca››125. Anche qui si presentarono due nuovi alunni, Francesco Sebastianelli
e Francesco di Biase, i quali avevano fino allora studiato l’uno nel Seminario di
San Severo e l’altro in quello di S. Bartolomeo in Galdo, ma ora chiedevano di
essere ammessi nel Real Collegio. A questi, dopo un lungo esame, fu accordato di
accedere a questa classe d’insegnamento.
Successivamente si proseguì con gli esami degli alunni che chiedevano di
accedere alla classe d’insegnamento di ‹‹grammatica superiore››. In questo caso
molti erano gli alunni, sia interni che esterni, che sostenevano questo esame, che si
svolgeva in questo modo:
Chiamati l’uno dopo l’altro, sono stati separatamente interrogati sulle parti
dell’orazione, e sintassi di Portoreale. Si è fatto dopo trasportare da tutti un tema di
italiano in latino, e spiegare la vita di Annibale di Cornelio Nepote. Dalle risposte
date alle domande, ed alle due traduzioni nel latino dall’italiano, e viceversa, si è
rilevato di essere i medesimi a tiro di passare nella grammatica superiore.126
Infine si giunse agli esami per l’ammissione alle lezioni di ‹‹grammatica
inferiore››. Anche per questa verifica ci fu un numero considerevole di scrutinati,
sia interni che esterni, e alla fine si decise ‹‹che ognuno di essi deve appartenere alla
scuola di grammatica inferiore››.127
Sempre da questi documenti si può fare anche una valutazione sulla
provenienza geografica degli alunni nell’anno 1815. Innanzitutto si evidenzia il
numero crescente di esterni (ben 14) rispetto al passato, tutti provenienti dalla città
di Lucera, sede del Collegio.
Tra coloro i quali beneficiavano di un posto gratuito all’interno dell’istituto
(18 in tutto) si registrano anche 3 alunni provenienti da Lucera. In linea generale
ciò che si riscontra rispetto al passato è il numero in costante crescita di coloro che
provenivano dalle città della Capitanata (Apricena, Castelnuovo, Orsara, Celenza).
Di conseguenza si evidenzia la netta diminuzione degli alunni che provenivano da
Napoli, uno in tutto, e dalle città delle province limitrofe della Campania (Foiano,
Circello), e da centri (Castelbottaccio, Sepino) del vicino Molise.128
Sempre a proposito degli esami sostenuti dagli alunni, dalla documentazione
d’archivio si evidenzia il resoconto di quelli avvenuti nell’anno 1819. Questi esami
furono sostenuti, come da regolamento, presso il Real Collegio di Lucera da alunni
sia interni che esterni, in data 22 e 23 settembre, alla presenza dell’Intendente e del
resto della commissione d’esame.
125
Ivi, p. 74.
Ivi, pp. 75-76.
127
Ivi, p. 76.
128
Ibidem.
126
225
Il Real Collegio di Lucera (1807-1820)
L’aspetto degno di nota è che lo svolgimento e il risultato di questa verifica
riscosse il plauso dell’Intendente stesso. Difatti dal relativo verbale d’esame emerge
che gli alunni erano complessivamente in numero di 64, di cui 20 esterni, e che in
totale i promossi furono 34 di cui 28 con la votazione “ottimo” e 6 con “bene”.
Quindi tradotto in percentuale si ebbe circa il 53% di promossi.129
Questo risultato raccolse la soddisfazione dell’Intendente che sul Giornale
dell’Intendenza di Capitanata del 26 ottobre 1819 faceva scrivere:
l’Intendente nel giorno 22 settembre si recò in Lucera per assistere agli esami
che durarono due giorni. Vi furono saggi in filologia, matematica e filosofia, e i
ragazzi della più verde età offrirono dei saggi incantevoli in esercizi di geografia, di
storia e di lingue. L’Intendente si dichiara soddisfatto del Rettore, dei maestri, del
piano degli esami e dell’andamento in genere dello Stabilimento.130
7. Organizzazione della giornata
La giornata dei collegiali era scandita dal seguente orario:
7.00 - messa.
7.30 - colazione.
7.45 - scuola.
10.15 - fine della scuola.
10.30 - disegno, ballo, lingua francese.
12.00 - pranzo.
14.00 - studio camerale.
15.15 - scuola.
17.30 - fine della scuola; visita al Sacramento.
17.45 - scherma ed altri esercizi corporali.
18.30 - rosario
19.00 - cena e studio camerale.
21.00 - riposo notturno.
L’orario variava secondo le stagioni, per cui nei mesi estivi dopo pranzo era
prevista la ricreazione e poi il riposo pomeridiano fino alle ore 14.00.
Nei giorni di vacanza si svolgevano le lezioni di storia naturale e di lingua
francese.131
Le lezioni iniziavano i primi di novembre e terminavano gli ultimi giorni di
settembre. Infatti vi era la consuetudine di dare agli alunni l’intero mese di ottobre
129
Ivi, pp. 97-98.
Ivi, p. 99.
131
Liceo ginnasio “R. Bonghi” di Lucera, pp. 15-16.
130
226
Federica Albano
come periodo di vacanza autunnale. Periodi di vacanza erano previsti per la festività
del Natale, dalla vigilia fino al giorno di Capodanno, per il carnevale, che duravano
otto giorni, ed infine per la festività della Pasqua, che iniziavano il mercoledì santo
e proseguivano fino alla domenica in Albis. Inoltre, in aggiunta alle domeniche e
alle feste civili e religiose, anche il giovedì era considerato festivo.132
Per quanto riguarda l’alimentazione, era rigorosamente disciplinata dalla
tabella del vitto, inserita nel regolamento dei Collegi Reali, stabilita con il decreto
del 20 maggio 1812 per i convittori.133
A colazione era previsto un biscotto con frutta e formaggio; il pranzo
consisteva in tre piatti caldi, frutta e pane a sufficienza e un quarto piatto nei ‹‹giorni
di magro››; ed infine per cena veniva servito un piatto caldo, un’insalata, frutta,
formaggio e pane. Tra le bevande anche il vino era previsto ed era disciplinato il suo
consumo; infatti ‹‹pochissimo vino, ai collegiali di età maggiore una mezza caraffa
(decilitri 3,5), al più tra mattina e sera, perché la puerizia ordinariamente non soffre
lo stimolo del vino, e l’adolescenza non ne ha bisogno››.134
Focalizzando l’attenzione sull’organizzazione didattica vigente all’interno
dell’istituto, risulta un dato costante: la cura per la formazione religiosa. A tale
proposito si prevedeva per i convittori la recita quotidiana dell’ufficio della Vergine
in privato e del rosario in comune. Cadenza giornaliera avevano pure la S. Messa e
l’esame di coscienza prima di andare a letto.
Anche nelle materie curricolari era previsto l’insegnamento del catechismo,
approvato dal Governo, da parte di un catechista, nel caso in cui il Rettore o il
Vicerettore non fosse un religioso.135
Per quanto concerne poi le materie curricolari, come era stato in precedenza
detto, non vi sono significative novità: l’ossatura del programma risulta infatti
costituita dal corso grammaticale-retorico, cui si affiancano elementi di greco,
di latino e d’italiano, e discipline come la filosofia, in particolare la logica, la
metafisica e l’etica, e poi ancora le matematiche, la geografia, gli elementi di fisica
e l’archeologia classica.
A queste discipline se ne aggiungevano di nuove come l’insegnamento della
lingua francese, della calligrafia, del disegno, della scherma e del ballo.
Le scienze e le belle arti erano considerate materie facoltative: per esse si
stabiliva che la retribuzione dei relativi insegnanti era a carico dei parenti dei
convittori, e non era inclusa nella retta.
Un carattere di assoluta novità rivestono invece le nuove discipline, quali il
francese e le arti cavalleresche. Il significato dell’introduzione di tali discipline nel
piano di studi è abbastanza chiaro, se si pone mente al fatto che il collegio mirava
132
ARCINETTI, Monografia del Convitto nazionale di Lucera dal 1807 al 1884, p. 40.
ASFg, Intendenza di Capitanata, Conti del Real Collegio, Appendice, fascio 1, fascicolo 3.
134
ARCINETTI, Monografia del Convitto nazionale di Lucera dal 1807 al 1884, p. 40.
135
Ivi, p. 38.
133
227
Il Real Collegio di Lucera (1807-1820)
ad un’educazione globale, capace di preparare i giovani alla conversazione, alla vita
mondana ed anche ad un addestramento fisico-atletico.
A tale proposito, lo studio del francese rifletteva il ruolo guida che la cultura
di tale paese rivestiva nell’Europa dell’Ottocento, nonché la circostanza che il
francese si era ormai affermato come l’idioma ufficiale della diplomazia. La sua
conoscenza si configurava dunque sempre più come elemento insostituibile per la
formazione dei giovani dell’élite. Ma, soprattutto, agli inizi del secolo, durante il
dominio francese, era inevitabile la conoscenza di questa lingua.
Quanto alle arti cavalleresche, esse includevano discipline diversissime come
l’uso delle armi con la scherma e la danza. Si trattava di un insieme di discipline il
cui studio è ancora una volta da mettere in rapporto con l’educazione alla socialità
e il correlativo scopo di sapersi presentare in modo elegante e decoroso, saper
controllare i propri gesti e partecipare alla vita mondana anche nei suoi aspetti
ricreativi. Le scienze cavalleresche erano dunque parte essenziale della formazione
di questi giovani.
228
In memoria dei nostri
230
Damiano Nocilla
Ricordo di Pasquale Soccio: attualità di un Maestro
di Damiano Nocilla
San Marco in Lamis, 4 Marzo 2011
Quando, or sono dieci anni, ci raggiunse la notizia della scomparsa del ‘Preside’ Pasquale Soccio, pochi hanno potuto sottrarsi ad un senso di sgomento.
Non che quell’evento potesse giungere inatteso, anche per la veneranda età
raggiunta dal Personaggio. Vi era, sì, un diffuso timore che ciò potesse accadere,
ma quell’eventualità ognuno di noi l’aveva quasi inconsciamente rimossa, perché
in Lui vedeva uno degli uomini simbolo di questa popolazione, che si caratterizza
per tenace operosità, per l’attitudine a sopportare i sacrifici, per l’intima e profonda
religiosità, per ritrosia e sobrietà.
Foggia, il Gargano e la Daunia hanno dato di sé l’immagine, che emergeva
dalle opere e dalla vita di quell’uomo dalla figura ascetica, dal portamento severo, in cui il dipendere dagli altri per i suoi problemi alla vista, non appariva una
debolezza, ma sprigionava - avresti detto! – una forza non comune, una capacità
di lottare contro le avversità, una sorprendente predisposizione ad affrontare lo
sforzo e il sacrificio.
E soprattutto tutti sentivamo che con la Sua scomparsa sarebbe venuta a
mancare a questa terra la Sua opera: e non solo quella che può ritrovarsi negli
scritti letterari, di storiografia, di filosofia, di pedagogia, ma quella di educatore, di
organizzatore di tanti eventi culturali, di giudice severo per studenti e docenti, di
consigliere per quanti volessero incamminarsi nell’ardua e accidentata via – che so
io – della ricerca scientifica o della produzione letteraria o del giornalismo.
Proprio il preside Cera nel convegno di qualche anno fa mise in rilievo come
Soccio abbia posto al centro della propria vita la cultura ‘intesa come valore insostituibile e fonte inesauribile di vitalità’: una cultura che non si esaurisse nell’accademia e nell’astratta erudizione, ma che potesse divenire ‘esercizio concreto e
operante, capace di modificare modi di essere e di agire.’
Se la sua ispirazione intellettuale e morale lo aveva indotto negli anni della
formazione ad essere inflessibile con se stesso, il suo giudizio sugli altri sarebbe
divenuto, per intima coerenza, severo e senza indulgenze - anche se non mancava
di esprimerlo con una certa bonarietà.
231
Ricordo di Pasquale Soccio: attualità di un maestro
Nella Sua attività di Preside del ‘Bonghi’ di Lucera – ne ha parlato in altre
occasioni Paolo Emilio Trastulli – Egli portò la concezione di una scuola come comunità di trasmissione reciproca di conoscenze tra preside, professori e studenti,
nella quale si chiedeva – appunto – un impegno a tempo pieno (un tempo pieno
ben lontano da quello puramente formale in cui si contano le ore e addirittura i
minuti di presenza sul luogo di lavoro, ma un tempo pieno che oserei definire ‘spirituale’, in cui ognuno doveva dedicare alla scuola ed alle diverse attività, che vi si
svolgono, tutta la propria mente e tutto il proprio cuore).
Più d’uno ha ricordato come seguisse con attenzione i propri studenti nello
sviluppo dei loro studi e della vita professionale, pretendendo senza mai enunciarlo, che essi non fossero scolari nel senso deteriore, mirabilmente descritto da Croce
in una pagina ormai famosa, che li fa simili ‘all’imitatore che fa la scimmia all’artista
ammirato, e perciò inutile, e, in quanto ripete, non può nemmeno ripetere, ma solo
guastare e sminuire e raffreddare’.
Ed è in questo contesto che si inserisce la cura estrema da Lui messa nella
cosiddetta visita didattica ai docenti, nel colloquio con gli stessi sulla metodologia
adottata nel fare lezione, nell’attività di trasmissione diretta delle proprie conoscenze agli studenti e delle proprie esperienze ai docenti. E per converso si spiega
il timore che talora attanagliava i docenti, soprattutto quelli più giovani, di fronte
alla presenza in classe di quella figura ieratica e severa, che di lì a poco ne avrebbe
giudicato preparazione, esposizione, comportamento, ars docendi.
A questo proposito mi sia consentito un personale ricordo. Nel 1995, su
invito dell’allora sindaco, Michele Galante, tenni il mio primo intervento pubblico, qui a San Marco, sul principio maggioritario nelle principali democrazie
occidentali, nel quale avrei dovuto inevitabilmente affrontare il tema dei mutamenti che la nostra forma di governo avrebbe subìto (o dovuto subire) in seguito
all’introduzione del nuovo sistema elettorale ed allo svolgimento delle elezioni
del 1994. Grande fu lo sgomento che provai quando vidi in sala seduto Pasquale Soccio, che intento seguì tutta la mia esposizione: temevo che il mio dire gli
potesse apparire confuso e – si fa per dire – poco fluido. E grande fu la mia consolazione quando egli volle complimentarsene. Nacque allora quella che potrei
definire la nostra amicizia telefonica e la sua cortese e costante attenzione verso
la mia persona.
La scuola nella quale operò come maestro elementare, agli inizi, come professore nei licei, poi, ed infine come Preside dal 1950 in poi, fu il luogo principale,
anche se non esclusivo, in cui si esercitò il ‘suo ruolo di formatore, di persona in
grado di incidere sulle coscienze, ma anche nell’ambiente circostante’, come ha
scritto Francesco Giuliani. Una scuola intesa come servizio pubblico all’intera comunità nazionale e come istituzione perfettamente integrata nella società, e nella
quale il pluralismo delle voci, che vi risuonano, deve costituire un arricchimento
ed un indispensabile elemento formativo per i discenti: è questa la scuola pubblica
232
Damiano Nocilla
di Paquale Soccio ed è questa la su insostituibilità, di cui qualcuno con troppa superficialità vorrebbe fare a meno.
Ed infatti, un’attenta considerazione della sua vita e della sua attività induce
ad affermare che l’influenza di Soccio non si esercitò soltanto sui suoi allievi diretti
o sui docenti del ‘Bonghi’ di Lucera, ma si allargò a quanti ebbero la fortuna di
conoscerlo, di poter instaurare con lui un colloquio, di aprire la propria mente ed
il proprio cuore all’ascolto della sua lezione di vita e di pensiero, di osservarne da
vicino la vita ispirata da grandi valori ideali e morali: saggezza, serietà, onestà, lealtà, laboriosità, rispetto per l’altro, amore per il creato, gentilezza d’animo, senso
dell’amicizia.
Egli è stato profondamente imbevuto della spiritualità francescana e visse
una vita che può veramente definirsi francescana, al punto da ottenere nel 1982 il
diploma di affiliazione all’Ordine del Poverello d’Assisi.
In questa Sua influenza, che dalla scuola si allarga all’intera comunità della
Daunia, sta la politicità della sua azione educativa, che è sempre stata diretta a formare, con l’insegnamento e soprattutto con l’esempio, cittadini in grado di contribuire allo sviluppo culturale, civile, economico e morale della nazione: è stato ben
detto che per Lui la scuola era ‘motore della crescita spirituale e civile’. «Il fanciullo
– sono sue parole – si fa soprattutto uomo concreto, uomo storico, e quindi non
astratto, solo se diviene cosciente cittadino partecipe della vita della Patria».
E non possiamo non domandarci con una certa punta di amarezza se questa
sua azione non possa apparire, oggi, superata, travolta come essa è da certi comportamenti pubblici e privati della classe dirigente e dalla perdita da parte della
nostra gente – distratta dalla cosiddetta videocrazia – della capacità di esprimere
indignazione. Aveva scritto a suo tempo «Assai pernicioso è l’analfabetismo, soprattutto l’analfabetismo spirituale, che si manifesta come immaturità civile, impreparazione alla vita politica».
Date queste premesse non può meravigliare il suo impegno politico diretto
negli anni che seguirono la guerra: la collaborazione con Guido De Ruggiero, la
fondazione del settimanale «L’Azione democratica», attivo negli anni 1944-1946.
Si trattava di ricostruire il paese dalle macerie della guerra ed era naturale che, in
un clima di ritrovata libertà, la sua attenzione si spostasse in direzione dell’intera
società civile, senza tuttavia perdere di vista il centro dei propri interessi, cioè la
scuola.
Ma il concreto agire educativo di Soccio non rispondeva all’estemporanea
scelta di comportamenti da adottare di fronte al manifestarsi di momentanee esigenze, quello che oggi si direbbe un movimentismo culturale, fine a se stesso e
privo di un’ispirazione ideale. Dietro la Sua lezione vi era un pensiero coerente
ed unitario, che prendendo avvio da un unico concetto, che costituisce, poi, anche
un’aspirazione, veniva svolgendosi in campo filosofico, pedagogico e storiografico; e quel concetto mi permetterei di individuare nella ‘libertà’, da lui intesa, direi
233
Ricordo di Pasquale Soccio: attualità di un maestro
crocianamente; onde la Sua concezione liberale, il Suo liberalismo poteva definirsi
metapolitico in quanto coincidente con una concezione totale del mondo e della
realtà. ‘Ideale che, infatti, era concresciuto con tutto il pensiero e il moto della
civiltà, ed era passato nei tempi moderni dalla libertà come complesso di privilegi
alla libertà come diritto di natura, e da questo astratto diritto naturale alla libertà
spirituale della personalità storicamente concreta’.
In questa sua disposizione d’animo incentrata -come avrebbe detto Croce – nell’idea ‘della dialettica ossia dello svolgimento, che, mercé la diversità o
l‘opposizione delle forze spirituali, accresce e nobilita di continuo la vita e le
conferisce il suo unico e intero significato’; nel suo intimo rifiuto di ogni atteggiamento autoritario che volesse eliminare i contrasti che nascono spontaneamente dalla vita stessa, e prescrivere nei più minimi dettagli i comportamenti da
tenere e prestabilire norme ed ordinamenti: in questa duplice predisposizione
dell’animo Suo trova spiegazione, innanzitutto, il pensiero pedagogico, che parte
proprio dall’idea antiautoritaria di dover ‘mettersi sotto i piedi’, sono parole sue,
la teoria.
Perché è proprio nella vocazione pedagogica che egli segue il suo ‘Autore’, cioè Vico. Scrisse a questo proposito Eugenio Garin ‘mentre Cartesio vedeva
nell’infanzia la radice di ogni erronea valutazione delle cose, e quindi la condannava, Vico conquista l’autonoma visione del mondo fanciullo, del primitivo, del mito
e della religione’: e come non vedere in questa ricostruzione del pensiero vichiano
una riproduzione del percorso intellettuale di Soccio?
Un percorso in cui emerge il fastidio e il rifiuto per la rigidità degli ordinamenti e dei programmi scolastici, per i vincoli burocratici e per i controlli formali
(abbiamo già detto della sua propensione a privilegiare nei propri docenti l’osservazione delle capacità di colloquio con i discenti stimolandone l’apprendimento,
più che la burocratica osservanza di orari e di circolari), per la vaghezza delle mode
pedagogiche (globalismo). Un rifiuto che – come Lui stesso ricordava – non fu
ribellione fine a se stessa, ma volontà di approfondimento, di ampliamento delle
proprie conoscenze, di dedicarsi ad una scuola ove più facile fosse il superamento
di quelle barriere tra maestri ed alunni, che inducono questi ultimi ad odiarla, e
più agevole la realizzazione di un proprio e stretto rapporto con i discenti, che Lo
portasse ad amare, soffrire, godere, vivere con essi.
Scriveva della propria esperienza di maestro elementare (ma vi si sente già
l’impostazione che darà alla propria attività di professore e preside nei licei): ‘E
ogni didattica diventa intollerabile quando si vuole che la si segua più o meno
pedissequamente, riconosciuta come buona per tutti. È risaputo che l’educazione
è arte, ora la didattica, creata apposta per far digerire educativamente un greve materiale di nozioni, converte l’arte in mestiere’.
‘Là quando c’è un maestro di vita, di vera vita, là è anche vera scuola’. I giovani vanno formati, come aveva intuito G.B. Vico ‘con un metodo didattico più
234
Damiano Nocilla
connaturale: l’arte dell’inventiva e della scienza (‘la topica’) più atta a stimolare la
fantasia giovanile’.
Un pensiero pedagogico, quindi, in cui l’individuale, il concreto, la libertà
fanno premio su tutto quanto è genericità, astrattezza, autorità. Profonda influenza ebbe in lui, sotto questo profilo, il pensiero di G. B. Vico, la cui ricostruzione ha
occupato largo spazio della sua produzione scientifica. Tanti aspetti della Sua vita e
della Sua produzione letteraria sembrano collegarsi direttamente alla sua interpretazione della filosofia vichiana. Mi permetterei di ricordare schematicamente alcuni
punti, che altri hanno già avuto ed in futuro avranno occasione di approfondire.
1) Si è già fatto cenno alla vocazione pedagogica di Vico ed alla sua precisa
corrispondenza con l’atteggiarsi dell’intera vita del Nostro, che intese sempre a
stimolare nei giovani l’arte dell’inventiva e della ricerca (la ‘topica’, come avrebbe detto Vico). ‘La provvidenza ben consigliò alle cose umane col promuovere
nell’umane genti prima la topica che la critica, siccome prima è conoscere, poi giudicare le cose’. Si tratta di un tema che può trovarsi sviluppato in quel suo lavoro
dal titolo Penso, dunque invento, in cui si rivendicano le ragioni del mito (espressione di un’antica sapienza) e della fantasia, che andrebbe collocata al primo posto
nella gerarchia delle facoltà umane.
2) Inestricabilmente connesso all’importanza della fantasia è il valore attribuito all’immagine, che non soltanto si sostituisce al concetto e alla nozione
nell’età, in cui la ragione è ancora debole; ma si inserisce tra pensiero e azione e
suscita sentimenti che la rendono più efficace degli astratti concetti. Scrive, interpretando Vico, ‘il divin piacere del conoscere e del fare non è disgiunto da quello
dell’esprimersi e del narrare’, sicché potrebbe ben dirsi che la produzione letteraria
di Soccio risponde ad una precisa gnoseologia, nella quale – è sempre lui che parla
– ‘vedere l’ordine delle idee e delle cose è scoprirne la bellezza; il piacere speculativo non è disgiunto da quello estetico’, onde ‘la scienza non va considerata se non
come bellezza della mente umana’.
Rileggendo i suoi tanti scritti, in cui si fanno rivivere immagini, sensazioni,
ricordi, luci, colori, odori dei luoghi della propria infanzia ed età matura, e rimeditando la sua poesia, non possiamo non ricavare da quelle pagine che ‘il divin piacere del fare e del conoscere, col gusto di provare (indagare, dimostrare, esporre),
sta anche nel riconoscere l’armoniosa bellezza che governa la vera scienza nelle sue
parti e nella ramificazione di tutte le discipline’.
3) E quell’estrema cura che le opere di Soccio rivelano in ordine al linguaggio, quella – se mi si permette – quasi maniacale attenzione alla scelta delle parole
più ricercate e più adatte ad esprimere i sentimenti, le sensazioni o la magia di certi
momenti, così come ad assicurare la finalità e, si direbbe, la musicalità del periodare; quel suo preventivo indagare sull’etimo dei vocaboli al fine di evitarne un
uso anche solo minimamente scorretto si ricollegano all’attenzione vichiana verso
235
Ricordo di Pasquale Soccio: attualità di un maestro
il linguaggio, al legame di quest’ultimo con la teoria del verum-factum, al posto
nevralgico che vi occupa la logica poetica.
4) Infine, è pur sempre un atteggiamento vichiano quello che lo fa rifuggire dagli specialismi esasperati, che possono indurre l’intellettuale a rinchiudersi
nell’orto di una singola disciplina, ponendosi in relazione solo con gli altri cultori
della medesima, senza aprirsi alle altre esperienze conoscitive e, quindi, alla vita.
Anche a questo proposito ritroviamo in lui l’insegnamento vichiano fattosi
esperienza vissuta, azione coerente. Scire est facere. Se per Vico la nuova scienza
apre le porte alle tante scienze umane, in quanto filosofia dell’umanità, anche per
Soccio l’esigenza di comprendere l’unità della natura umana passa per il superamento di rigide barriere tra storiografia, estetica, linguistica, antropologia, psicologia, sociologia e così via. ‘Ogni scienza umana è valida se fondata sul reciproco
riscontro della verità delle idee con la certezza dei fatti. Di qui la vincolante ricerca
del reale nella connessione tra vero e fatto’.
Ed è alla luce di queste considerazioni che va valutata l’opera storiografica
di lui, ove la ricostruzione degli eventi, dai più minuti ai più grandi, non è mai disgiunta dalla ricerca documentaria approfondita, dall’inserimento dell’evento o del
personaggio studiato nella complessa realtà culturale, economica, sociale dell’epoca sua, dall’analisi delle conseguenze del fatto sui successivi avvenimenti.
Certo anche per Soccio la storia appare come graduale sviluppo della libertà,
che può subire arresti e –perché no? – arretramenti, ma che tuttavia non s’interrompe
e non vede mai spezzarsi il suo filo rosso. Se per un momento ripensiamo al suo più
noto lavoro di storiografia, cioè Unità e brigantaggio – sul quale sarebbe opportuno
che la Fondazione adottasse in occasione del 150° anniversario dell’Unità una iniziativa intesa a ripercorrere sulle orme di quel volume i vari aspetti del brigantaggio
meridionale -, non possiamo ignorare come l’individuazione delle cause politiche ed
economiche del fenomeno appaia funzionale al rinvenimento di quale contributo abbia dato allo sviluppo della libertà del nostro paese il superamento dell’opposizione
dialettica tra le ragioni della costruzione dell’unità nazionale e quelle delle aspirazioni all’affrancamento economico e sociale delle plebi meridionali.
In quel libro sono ben presenti al meridionale Soccio i sacrifici e le vessazioni, che queste ultime hanno dovuto subire in nome della ritrovata unità della Patria,
e come in quei sacrifici abbia avuto origine la questione meridionale; così come egli
ebbe ben presente come il brigantaggio meridionale abbia avuto ispirazioni diverse, a seconda delle diverse zone in cui si sviluppò; e tuttavia la tesi di fondo, che vi
si sviluppa, tende a recuperare anche il valore della sanguinosa repressione attuata
sul brigantaggio e si anima dell’idea che, con il tempo, quelle plebi ribelli sarebbero
state recuperate all’unità nazionale e che da quest’ultima sarebbe derivata un’occasione di riscatto culturale ed economico di questa popolazione.
Tutta la sua produzione storiografica – si pensi alle ricerche sull’origine della
Sua città natale e sulla storia dei conventi di San Matteo e di Stignano – è un omag236
Damiano Nocilla
gio alla terra natìa. Il che ci introduce ad un terzo aspetto della poliedrica personalità di Soccio: l’amore per la sua terra.
Ma è anche vero che l’amore di Soccio per la sua terra, per la sua piccola Patria non va disgiunto, ma integra un più ampio sentimento di attaccamento
all’Italia, l’amore per la Patria, il senso di nazionalità, l’aspirazione alla continua
elevazione ed al progresso dell’Italia; così come i suoi sentimenti di italiano non si
disgiungono da un atteggiamento, per così dire, europeistico e cosmopolitico, che
gli veniva dall’esatta percezione che la cultura, il pensiero, la civiltà non conoscono
spazi angusti, chiusure nazionalistiche, rivendicazione di primati.
Diresti quasi che questi sentimenti s’irraggiano per centri concentrici, allargandosi progressivamente come le acque di uno stagno quando vi si getta un sasso.
San Marco, da questa città a Foggia e Lucera, luoghi in cui risiedette a lungo, e poi
all’intera Daunia per giungere sfumato e quasi inconfessato all’Italia: perché egli
fu un Italiano, orgoglioso della sua italianità, e della sua appartenenza alla nostra
Kulturnation.
Ma nessuno potrà mai accusarlo di essere un regionalista nel senso deteriore
mirabilmente descritto da Croce; di far ‘valere, nel mondo teoretico o nel mondo
pratico, le cose della propria regione, non per quel valore che veramente hanno,
ma per un altro, esagerato e falso, che arbitrariamente, per non legittimi interessi, loro si attribuisce’, per concludere: ‘Nel mondo pratico, dunque, è una delle
tante forme in cui si manifesta l’egoismo, l’avidità, la prepotenza, l’ingiustizia, la
meschinità morale.’ Nihil sub sole novi, verrebbe fatto di dire! Atteggiamenti che
trascorrono, poi, nello chauvinisme nazionale. Questo regionalismo nulla ha a che
fare con l’amor di Soccio per la propria terra, con l’attivo occuparsi delle cose del
proprio paese, della propria regione, della propria città, del proprio villaggio, che
è invece uno dei modi in cui l’uomo adempie ai propri doveri. Si può veramente
dire che gli fece parte di quella schiera di ‘nobili intelletti’, uniti in una sorta di res
publica literaria, che perseguirono e perseguono l’ideale della libertà e si sentono
accomunati al di là di ogni appartenenza nazionale o localistica.
Egli seguiva con la propria vita e con le proprie opere l’incitamento crociano
a superare l’amore per il proprio luogo natìo nell’amore per la propria Patria e,
quindi, a superare questo secondo amore per far battere il proprio cuore per l’Europa ed indirizzare ad essa i propri pensieri: nel sentimento che le piccole patrie
sarebbero state ‘non dimenticate, già, ma meglio amate’.
Ed a questo amore per la sua terra – che è un po’ anche la mia terra – egli ha
dedicato le pagine più affascinanti della sua produzione letteraria, sulla quale tanto
si è scritto e tanto si è detto. Quello che colpisce il lettore non è tanto la minuta
descrizione dell’ambiente, l’evocazione di sentimenti e ricordi, l’emergere di emozioni che traggono alimento dalla storia locale, dalla natura e dal paesaggio, dai
piccoli ricordi personali, quanto piuttosto la capacità di trarre dal tatto e dall’olfatto, dal ricordo di gusti e di immagini colti in passato (di Soccio era proverbiale
237
Ricordo di Pasquale Soccio: attualità di un maestro
l’infallibile memoria), dalle voci e dai rumori circostanti una descrizione quanto
mai fedele di paesaggi, di colori, di luci, di forme, di espressioni delle arti visive, di
spazi e prospettive, descrizione nella quale il senso del bello, della simmetria del
creato e dell’opera d’arte si sposa vichianamente alla scienza da considerare come
‘bellezza della mente umana’.
Rileggendo le pagine di Soccio sul suo Gargano e sulle valli dello Starale e di
Stignano possiamo scoprirvi quanto egli abbia coltivato quella virtù che Vico chiamerebbe ‘naturalezza’, che sta per capacità di inserimento dell’uomo nella natura.
Facoltà – commenterebbe Soccio – ossia facultas, che per Vico significa facilitas
derivante da quel facere che è proprio dell’animo, dell’impegno e della fantasia.
E credo che abbia fatto assai bene la Fondazione a collegare in un DVD le
immagini di San Marco in Lamis e dintorni alla lettura delle pagine più belle di
Gargano segreto e di Materna Terra, che a quei luoghi si riferiscono, in modo che
lo spettatore possa apprezzare nella prosa di Soccio il poetico collegamento tra la
parola e l’ambiente, la forza evocativa, l’invito a riflettere e ad assaporare le sensazioni, che quell’ambiente ci può dare, le pause e gli intervalli silenziosi, che sono
per lui un’altra forma di comunicazione, il lirismo di certe espressioni.
Nell’ultima raccolta dei suoi scritti, che Michele Galante ha curato quasi
con affetto filiale, dal titolo Pagine sul Subappennino e dintorni si coglie appieno
la sua ‘sensibilità ambientalista’, essendone tema centrale la natura e la verde pace
dei boschi e dei paesi; scritti che non mancano tuttavia di avvertire il lettore che,
spesso, accanto alle bellezze naturali non mancherà di scoprire inattesi tesori artistici, come è accaduto a me quando all’improvviso mi sono trovato di fronte alla
bellezza della piazza della Cattedrale di Bovino.
Lascerei qui parlare la splendida presentazione di Michele Galante. Queste
Pagine sul Subappennino «vogliono rappresentare uno spaccato vivo e sereno di
quella Puglia (e di quell’Italia) minore che è comunque in grado di mostrare senza
esibizionismi i suoi vantaggi, il suo bel volto, la sua anima… La lentezza di questi
luoghi e di questo mondo è contrapposta alla velocità del mondo moderno che è
ormai, insieme al profitto, l’unico parametro e l’unica misura…. Ma la velocità il
mutamento vorticoso è tempo rubato alla riflessione…..[sicché] il silenzio è un po’
la cifra di questi luoghi ….[un] silenzio che si ascolta e che può assicurarci attraverso il colloquio interiore la pace e la tranquillità e ricaricarci di energia vitale».
Ecco! Ognuno di noi, nel momento stesso in cui entra in relazione con gli
altri lascia che l’atto comunicativo si estranei da sé (è quel fenomeno che i tedeschi
designano con la parola Entfremdung), rivolgendosi agli altri, che nel momento
stesso in cui lo ricevono se ne riappropriano, lo fanno entrare nel proprio patrimonio di conoscenze, interpretandolo, in certo qual senso, alla luce di tutto il pregresso patrimonio di esperienze e di concetti.
Sicché quell’uomo, quello studioso, quello scrittore, con il quale siamo entrati in relazione, finisce per appartenerci, per essere nostro, perché vive nell’im238
Damiano Nocilla
magine che ci facciamo di lui. Quello che questa sera ho tentato di rievocare, e della
cui personalità mi sono permesso di sottoporvi solo tre aspetti (l’impegno politico,
l’aspirazione alla libertà e l’amore per la sua terra), non è che uno dei tanti Soccio
che si offrono ai molti, che a lui si sono accostati ed in futuro si accosteranno, ma
è il mio Soccio, quello che io ho saputo, nelle mie modeste possibilità, scorgere in
lui e che ho tentato di consegnare a voi, perché, recependo il mio dire, possiate costruire un ‘vostro’ Soccio, accostandovi a Lui con l’animo grato e con la devozione
che questa terra gli deve.
239
240
Francesco Giuliani
Al momento giusto
Ricordando Benito Mundi
di Francesco Giuliani
Il 5 aprile del 2011un aneurisma ha improvvisamente troncato l’esistenza di
Benito Mundi, un protagonista della cultura dauna degli ultimi decenni. Per noi,
era soprattutto un amico inseparabile, con il quale da circa un trentennio ci vedevamo quotidianamente, presenza costante in tante iniziative e avventure culturali.
Mundi aveva 76 anni (era nato il 18 dicembre 1935), ma ancora tante energie da spendere e un inguaribile ottimismo, che era alla base dei tanti progetti che
continuava a realizzare. In giro non è difficile trovare delle persone dai propositi
ambiziosi; molto meno frequenti sono, al contrario, quelli che riescono ad incidere
sulla realtà, confrontandosi con la concretezza dei fatti, e Mundi apparteneva a
questo ristretto novero.
È proprio il caso di dire che la parola “pensione” per lui non esisteva: terminato il suo lungo impegno presso la Biblioteca comunale di San Severo, alla fine
del 2002, si era subito dedicato all’emittente televisiva Tele Radio San Severo, senza
soluzione di continuità.
Mundi era figlio di un dirigente della locale stazione ferroviaria, Raffaele,
che nel febbraio del 1941, durante l’infausto periodo della seconda guerra mondiale, si era distinto per un’azione eroica, nel corso di un bombardamento aereo da
parte degli alleati. Con coraggio e abilità, il ferroviere era riuscito ad evitare danni
più gravi alla stazione di San Severo, ottenendo degli unanimi riconoscimenti.
In anni segnati dal picco del consenso verso il fascismo, Raffaele Mundi diede
al figlio un nome destinato a diventare per certi versi imbarazzante. Era una scelta
di cui il diretto interessato non fu mai entusiasta, viste anche le sue idee politiche;
né, d’altra parte, pensò mai di farsi chiamare con un altro nome, come altri, specie
all’indomani della caduta del regime. Nell’ultimo periodo, finiva immancabilmente con il ricordare che lo stesso nome di Mussolini era quello di un rivoluzionario
messicano, Benito Juárez, eroe di quella nazione. Dunque la colpa era di chi, per
l’appunto l’uomo di Predappio, aveva deviato dalla retta via.
Dopo la maturità scientifica, Mundi si era occupato di pubblicità, mostrando
le sue qualità relazionali, poi, presa la decisione di rimanere a San Severo, era approdato, negli anni Settanta, presso la Biblioteca comunale della sua città, intitolata
241
Al momento giusto. Ricordando Benito Mundi
all’illustre editore e stampatore Alessandro Minuziano, il prototipo dell’emigrante
intellettuale. Questi, infatti, aveva preso il volo dalla San Severo del Quattrocento
per diventare un nome di spicco del mondo culturale di Venezia e, soprattutto, di
Milano.
La biblioteca dauna, benché antica e prestigiosa (era stata istituita con deliberazione del Decurionato nel 1857, con il nome di Ferdinandea, in omaggio al
sovrano borbonico), negli anni Settanta era allocata in spazi davvero angusti, in via
San Benedetto. Pochissimo frequentata, in un paese dove molti si fermavano alla
quinta elementare e pochi possedevano delle discrete biblioteche familiari, aveva
ancora un regolamento che limitava il prestito librario a delle ristrette categorie
di persone. Ma i tempi nuovi incalzano, in nome della democratizzazione della
cultura.
Quando la sede, nel 1973, viene spostata in via Zannotti, occupando un’intera palazzina, sembrò davvero un grande progresso e, per qualcuno, persino un
lusso inconcepibile. Invece, in breve tempo, anche la nuova sede diventò troppo
piccola. Mundi, prima vice-direttore, poi direttore, svolge un ruolo di primo piano nella promozione di iniziative culturali, ospitando e stimolando, tra l’altro, le
periodiche riunioni che porteranno all’organizzazione degli annuali convegni di
archeologia e storia della Daunia.
La mossa successiva, però, fu quella più avveduta. Il vecchio orfanotrofio di
San Francesco aveva ormai esaurito il suo ciclo vitale e quegli ampi e suggestivi locali, siti in una posizione centralissima, erano perfetti per ospitare un grande centro
culturale. Fu così che Mundi portò i libri nella sede di San Francesco. Siamo nel
1989 e qui nasce anche l’attuale museo, non senza difficoltà di ogni genere.
Il Nostro, ad evitare ostacoli burocratici e gelosie, parlò prudentemente di
una “Mostra permanente di reperti archeologici, archivistici e libri rari”, inaugurata nel dicembre dello stesso 1989. I reperti, che coprono un arco temporale che
va dal paleolitico in poi, trovarono spazio in 18 sale, con relative vetrinette, al
primo piano. Nelle altre due sezioni, poi, vennero sistemati i faldoni appartenenti
all’Archivio Storico Comunale, di estrema importanza per la conoscenza della realtà sanseverese moderna, e alcune migliaia di libri rari, compresi degli incunaboli
e numerose cinquecentine.
Mundi aveva lavorato sodo per vari mesi e sapeva bene, come in effetti poi
è avvenuto, che nessun amministratore comunale gli avrebbe chiesto di chiudere quella mostra. L’etichetta di “museo” venne da sé, creando quello che oggi è
uno dei fiori all’occhiello della città e dell’intera provincia. I politici fecero a gara
nell’attribuirsi i meriti, ma lui, come sempre, lasciò fare, mirando al concreto sviluppo delle attività.
La biblioteca e il museo comunale si sono sviluppati con eguale dignità fino
ai primi anni del Duemila. Poi, con il pensionamento di Mundi e la creazione di
una doppia direzione, è iniziato un periodo nero, culminato con lo sfratto, del
242
Francesco Giuliani
tutto ingiustificato e degno di Attila, della biblioteca e l’indisponibilità del patrimonio librario, sistemato in scatoloni. Uno scempio, speriamo prossimo alla fine,
che Mundi non avrebbe mai permesso.
Nel lungo periodo di direzione, Benito ha ampliato notevolmente il numero
dei volumi a disposizione della collettività. Il budget della biblioteca, in verità, era
modestissimo, per non dire quasi pari allo zero. Bastava comprare qualche decina
di libri per esaurirlo, ma lui aveva capito che poteva contare su alcuni fondi librari
molto cospicui, che i proprietari, per varie ragioni, erano disposti a donare. Grazie ai suoi buoni uffici, così, la biblioteca acquisì il bellissimo Fondo Fraccacreta,
di circa 5.000 volumi, appartenuto al poeta Umberto e ai suoi familiari, oltre a
molti altri testi. Oggi la Minuziano conta oltre 80.000 volumi e altri concittadini
benemeriti attendono una sistemazione dignitosa del materiale per aggiungere altri
volumi specialistici.
Né si limitò solo all’ambito librario. Riuscì, così, ad ottenere il prezioso
archivio fotografico di Matteo Vorrasio, migliaia di foto che documentano la vita
ufficiale e quotidiana di San Severo nel secondo Novecento.
Il complesso di San Francesco, inoltre, ospitò per anni esposizioni e incontri
culturali, ottenendo dei successi attestati da migliaia di firme di visitatori, di cui
siamo stati testimoni diretti. Anche questa era una novità che avrebbe lasciato il
segno a San Severo. Mundi riusciva anche a trovare gli sponsor, con il risultato che
le iniziative non di rado finivano per non incidere sulle casse comunali. L’espressione “a costo zero” divenne, pertanto, scherzosamente familiare anche a quanti
lo aiutavano nell’organizzazione di questi incontri. Ovviamente, se c’era da spostare qualche sedia, il primo a farlo era lui, trascinando per amicizia tutti gli altri.
Inutile sottolineare che Mundi non avrebbe mai voluto lasciare il suo feudo di San
Francesco. Amava profondamente il suo lavoro, ma non per questo si profuse in
sterili rimpianti sul tempo fugace e ingannatore. Dopo l’uscita di scena e la nomina
a direttore emerito del museo e della biblioteca, per la quale fu sempre molto grato
al sindaco dell’epoca, decise di rilevare, con il fratello, l’emittente dell’Alto Tavoliere Tele Radio San Severo.
Da direttore di biblioteca e museo a direttore di televisione, insomma, il
passo fu breve. Si iscrisse all’ordine dei giornalisti di Puglia come pubblicista e conseguì una laurea di primo livello in sociologia presso l’Università di Chieti. Solo il
tempo gli ha impedito di ottenere anche la laurea magistrale.
La sede dell’emittente, poi, venne spostata in locali più ampi e confortevoli,
con dei ragguardevoli investimenti economici.
Non amava, almeno con gli amici e i conoscenti, le riflessioni amare e malinconiche e quando prendeva una decisione tirava dritto, senza esitare, cercando
però sempre il dialogo, fino alla fine.
La sua idea di giornalismo era, nello stesso tempo, singolare ed apprezzabile.
I programmi erano in gran parte legati a tematiche culturali. Ospitava lunghi dibat243
Al momento giusto. Ricordando Benito Mundi
titi su libri e mostre, riprendeva conferenze, ma si rifiutava in modo categorico di
parlare di cronaca nera. Era una delle pochissime emittenti televisive che non dava
spazio ad arresti e omicidi, che pure sono al centro della curiosità di moltissime
persone, in tutto il mondo. Di San Severo parlava quasi sempre bene, e se evidenziava dei difetti, lo faceva sempre in modo costruttivo, come un rimprovero fatto
con un buffetto affettuoso.
La televisione, si capiva, era per lui uno strumento essenzialmente educativo, con il quale continuava il suo lavoro di bibliotecario, e non aveva difficoltà ad
ammetterlo. Le valutazioni economiche venivano dopo, anche a costo di rimetterci
di persona.
Un elenco delle sue attività non è facile da stilare, specie oggi che non è più
con noi. Egli ha curato, ad esempio, alcuni volumi degli atti del Convegno sulla
preistoria, protostoria, storia della Daunia, comparendo sin dall’inizio nel comitato
organizzatore. Fu una scelta avveduta e per molti versi pioneristica, con la quale si
intendeva tra l’altro valorizzare le scoperte archeologiche avvenute nell’agro cittadino. Lui offrì una sponda istituzionale, preziosissima, specie nella fase iniziale.
Nel 2002 progetta e realizza la collana “Testimonianze”, per i tipi delle Edizioni del Rosone di Foggia, complice l’amicizia di vecchia data con Franco Marasca, prima, e con la moglie e la figlia, Falina e Marida Marasca, poi. Tutti i volumi
portano in copertina una stupenda immagine tratta dalla Historia di Milano di Bernardino Corio, stampata dall’editore sanseverese Alessandro Minuziano nel 1503.
In alto, si legge una frase molto significativa: “È bello doppo il morire vivere anchora”. La cultura offre una fuga dalla caducità, l’illusione di poter rimanere legati
a quella catena formata dagli uomini che, in ogni tempo, hanno avvertito il bisogno
di saperne di più, lasciando al prossimo la propria preziosa testimonianza.
I libri, dalla foggia antica ed elegante, hanno ospitato lavori di vari protagonisti della cultura pugliese, da Pasquale Soccio ad Alfredo Petrucci, da Michele
Vocino a Cristanziano Serricchio. Chi scrive questo articolo, poi, ha trovato stimolo per realizzare numerosi volumi di critica, da Viaggi letterari nella pianura e
Occasioni letterarie pugliesi in poi.
Ai primi 13 volumi, apparsi sotto la direzione di Mundi, si è aggiunto da
pochi mesi un quattordicesimo, a firma dello scrivente, Nel Nord della Puglia, non
a caso dedicato allo Scomparso. Un modo, questo, per non disperdere il frutto di
un lungo ed intenso lavoro.
Ma con le Edizioni del Rosone Mundi aveva anche pubblicato, nel 2002, il
ponderoso volume Incunaboli e cinquecentine della biblioteca comunale Alessandro Minuziano di San Severo, realizzato con la figlia Giuliana e con Stefano
Capone, un altro benemerito della cultura pugliese, scomparso prematuramente nel 2007. Un catalogo che mostra in modo tangibile le ricchezze librarie del
comune dell’Alto Tavoliere, rimarcando, inoltre, la necessità di preservarle.
Risalendo nel tempo, troviamo, nel 1981, un utilissimo repertorio intito244
Francesco Giuliani
lato Stampa periodica di San Severo e di Capitanata, firmato con Pietro Vocale
e Michele Pollice, che offre un quadro dei tanti giornali, allora ancora in gran
parte sconosciuti, pubblicati in provincia, specie tra fine Ottocento e inizio
Novecento, con un occhio particolare all’Alto Tavoliere.
Nel 1988 Mundi cura gli atti Angelo Fraccacreta: l’uomo e l’opera, dedicati al grande economista sanseverese, scomparso nel 1951. Nel 1989 è la
volta dei due tomi di Studi per una storia di San Severo, un insieme di saggi
scientifici sulla città dei campanili, raccolti e stampati proprio grazie alla cura e
all’impegno di Mundi. Per l’occasione, il Nostro aveva chiamato a collaborare
numerosi specialisti, tra cui vari accademici, facendo il punto sulle conoscenze
storiche sul territorio.
Il volume a cui probabilmente teneva di più, e che lo aveva impegnato a
lungo, apparso nel 2000, è Omaggio a San Severo, scritto a quattro mani con
la figlia Giuliana, un atto d’amore per la sua terra, formato da vari capitoli che
approfondiscono aspetti e momenti dell’esistenza di una collettività peculiare come quella sanseverese, dando molto spazio all’aspetto iconografico. Era
questo il libro che amava regalare agli ospiti delle sue trasmissioni televisive, ed
a giusta ragione, visto che in esso si trova un segno preciso delle sue curiosità
e della sua passione.
In Omaggio a San Severo, tra l’altro, viene riportato in apertura uno
scritto di Pasquale Soccio, il preside di San Marco in Lamis al quale Mundi era
molto legato, tanto da collaborare attivamente alla Fondazione Pasquale e Angelo Soccio, che ha la sua sede a San Marco in Lamis. Mundi ne è stato a lungo
prima vice-presidente, lavorando con il compianto prof. Michele Dell’Aquila,
poi presidente, per un triennio.
Qualche altro scritto sarà probabilmente dato alle stampe quanto prima,
completando il quadro di un’operosità sicuramente notevole, anche se il nudo
elenco di dati e fatti rischia di rendere solo in piccola parte quello che Mundi ha
rappresentato per la Capitanata.
Egli è stato per molti anni il simbolo più vivo della cultura istituzionale.
Non a caso, chiunque avesse qualche iniziativa da prendere, sapeva che poteva contare su di lui. Dal suo ufficio passavano in tanti, anche quelli che poi
ripagavano con la solita irriconoscenza. E qui ci viene in mente un’altra delle
sue frasi ricorrenti: “La gente deve spezzare il cordone della riconoscenza!”.
In tanti gli hanno chiesto dei favori, e lui ha sempre risposto con generosità.
Sapeva che il mondo va così, ma dava sempre qualcosa in più di quello che gli
veniva chiesto.
Né va dimenticato il suo impegno nell’ambito della Società di Storia Patria per la Puglia, la cui sede barese frequentava regolarmente per sbrigare le
pratiche della commissione toponomastica. Ma non amava recarsi solo a Bari.
Appena riceveva un invito per presentare i volumi della collana “Testimonian245
Al momento giusto. Ricordando Benito Mundi
ze”, prendeva insieme a noi il treno diretto a Milano o a Roma, felice di essere
uno degli ambasciatori della cultura pugliese.
Nell’ultimo anno di vita, poi, aveva assunto la direzione della rivista culturale “I quaderni dell’Orsa”. Aveva saputo delle difficoltà economiche che
avevano costretto alla sospensione delle pubblicazioni e si era subito offerto di
trovare un gruppo di sostenitori. E così è avvenuto, anche se ha fatto in tempo
a vedere solo la stampa di un numero.
Può sembrare un dettaglio, una mera curiosità, ma anche questo episodio ci sembra emblematico di una persona di rara sensibilità culturale, che
aveva ancora tante energie da spendere per la cultura della sua terra. Quando
si trattò di nominare il direttore responsabile, fummo proprio noi a fare il suo
nome e a troncare subito la discussione, e quel sorriso di ringraziamento, che
gli nasceva dal cuore, ci riempì di una viva soddisfazione. Se lo meritava.
Potremmo aggiungere a questo ricordo qualcuno dei mille bei momenti
che abbiamo trascorso insieme, seduti al tavolo dei relatori di una conferenza
o dietro la telecamera di una televisione, per non parlare delle tante occasioni
conviviali, nelle quali parlava della sua passione per la buona cucina. Ci sarebbe solo l’imbarazzo della scelta, ma abbiamo cercato di essere quanto più
possibile oggettivi, mirando a cogliere il senso e il valore di un’esistenza come
quella di Benito Mundi.
In fondo, la nostra terra ha bisogno come il pane di uomini che sappiano
unire l’entusiasmo alle qualità organizzative, e per questo motivo ci auguriamo
che il tempo anche questa volta sia, come si suol dire, galantuomo.
Finiva qui il nostro articolo, ma era destino che dovesse avere un seguito,
al quale avremmo molto volentieri rinunciato.
Dopo quel 5 aprile abbiamo avuto occasione di parlare spesso con la
figlia Giuliana.
Laureata in Lingue, aveva trovato anche lei un impiego presso la Biblioteca comunale, anche se in un ruolo inferiore rispetto a quello del padre,
e anche alle sue notevoli qualità intellettuali. Non aveva scelto la carriera di
docente, e forse in questa decisione entrava in ballo anche il suo carattere estremamente riservato, quella forma di timidezza che contrastava per certi versi
con l’esuberanza del padre.
‘Pochi possono dire di aver avuto la fortuna di conoscerla bene, e noi
non siamo in questo novero. Di certo, prendendo spunto dall’appartenenza
alla stessa sezione della Società di Storia Patria di San Severo, di cui era diventata la segretaria, abbiamo colloquiato spesso con lei, nell’ultimo periodo.
L’argomento ricorrente era, com’è facile comprendere, il padre. Ogni volta,
immancabilmente, gli occhi le brillavano e la commozione la spingeva a troncare il dialogo. Poi, a casa, trovavamo le sue mail, con le quali terminava il suo
pensiero.
246
Francesco Giuliani
‘Era una persona straordinaria, cordiale e disponibile, oltre che piena
di orgoglio per la sua solida famiglia, per quelle sue due ragazze cresciute in
modo retto e nell’amore della cultura.
Purtroppo anche Giuliana ci ha lasciati, a soli 47 anni, colpita dal solito
male del secolo, che le ha concesso solo pochissimi mesi di vita. Una mail nel
cuore dell’estate, Scusami se non mi sono fatta più sentire, ma avrai saputo che
sono a Milano per curarmi da un tumore; ci vediamo a settembre a San Severo ,
e noi che restiamo di sasso. Non ne sapevamo niente, come tanti altri, ma le
notizie giunte per altre vie non lasciavano alcuna speranza. Era solo questione
di tempo.
Le abbiamo mandato alcune mail di saluto e di augurio, alle quali ha
risposto con la solita cordialità, ma il nuovo incontro è avvenuto prima, alla
fine d’agosto, sotto un sole spietato, in un locale appartenente alla chiesa di
San Nicola, dove si sono poi svolti i funerali. Aveva con sé, oltre al rosario e al
crocifisso, una copia di Omaggio a San Severo.
‘Una delle ordinarie crudeltà della vita, che ci ha fatto pensare al papà
affettuoso e orgoglioso delle sue due figlie e delle sue due nipotine. Beato tra le
donne, amava ripetere, includendo anche la moglie pediatra, per la quale aveva
delle infinite premure.
Questo dolore è stato risparmiato a Benito, e per lui sì, non per la figlia
Giuliana, si può dire che, a conti fatti, è andato via al momento giusto.
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Al momento giusto. Ricordando Benito Mundi
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C. SERRICCHIO, Ho viaggiato con l’apostolo Tommaso, a cura di B. Mundi, Foggia, Edizioni
del Rosone, 2009.
CATALOGHI D’ARTE E OPERE VARIE A SUA CURA
A. D’AMICO – B. MUNDI (catalogo e mostra a cura di), L’ altra faccia della luna: mostra d’arte
contemporanea (San Severo, 19 ottobre – 16 novembre), San Severo, 1985;
B. MUNDI (a cura di), Mappa del colore del centro storico, San Severo, 1986;
B. MUNDI (catalogo a cura di) Ottava biennale Nazionale di Pittura 1986-1987, San Severo,
Dotoli, 1987.
248
Guido Pensato, Saverio Russo
Gennaro Arbore
(1931 – 2012)
di Guido Pensato e Saverio Russo
1. Cittadino “pro” e “contro”
In tanti hanno conosciuto Gennaro Arbore, un uomo che viveva tra la gente,
nei luoghi della sua città, della società, delle istituzioni politiche e culturali e che
ne ha attraversato le vicende per un cinquantennio e più. Lo hanno conosciuto
certamente tutti quelli che, dai più diversi punti di osservazione e di responsabilità,
a quelle vicende hanno quanto meno prestato attenzione. Perché Gennaro,
“Gennarino” per tutti, era cittadino attivo e presente. E molti di coloro che lo
frequentarono avrebbero cose da dire e da scrivere di lui; anche quelli ai quali
normalmente non si riconosce titolo per un compito del genere. È per questo
che, nel momento di farlo, ci poniamo una domanda: se Gennaro Arbore non
avesse scritto i tre libri che lo hanno impegnato negli ultimi anni della sua vita,
ci sarebbe stato spazio, tra queste pagine o altrove, per un suo ricordo, un suo
profilo? Forse no. Il che suggerisce una riflessione più generale: se è sempre giusto
e sufficiente affidare la memoria collettiva di una comunità al racconto dell’attività
di protagonisti dal profilo predefinito, a fonti e meccanismi di indagine consacrati,
ai soli luoghi canonici generalmente riconosciuti; a tutto quello, insomma, cui si fa
riferimento quando si tratta di storia o di cultura.
Si potrebbe cominciare proprio da qui e dal fatto che Gennaro Arbore non
ha fatto parte della schiera di quanti, nella provincia italiana (quella culturale,
non quella geografica) praticano precocemente e sistematicamente ex professo la
scrittura, magari godendo di una sinecura pubblica piena… di tempi morti e di
vuoti da riempire con occupazioni intellettuali. E quindi di nuovo: siamo certi che
sia sufficiente e utile, in epoca mass-mediatica e digitale, una rituale e pacificante
sacralizzazione di vicende individuali e collettive locali che parta dalla carta
stampata per approdare alla carta stampata?
Siamo certi di sapere quanto di significativo e di importante trascuriamo, perché
non diamo importanza alle piccole azioni quotidiane di uomini puntigliosamente
dediti a svolgere il proprio ruolo di cittadini partecipi, vigili e critici; e perché
non siamo in grado di riconoscerlo quel quanto, in mezzo al ciarpame pseudo249
Gennaro Arbore (1931 – 2012)
informativo prodotto e al quale siamo quotidianamente esposti, pressoché senza
difese? E sappiamo, invece, che si tratta spesso di storie – individuali o collettive –
qualificate come “minori”, a prescindere dalla loro muta esemplarità, dall’incisività
delle azioni che le hanno costruite e dalla persistenza che meriterebbero.
A lungo questo tema ha riguardato soprattutto quelle che si definivano
“classi subalterne”, i loro strumenti di comunicazione e di espressione, la loro
cultura. Da tempo è divenuto parte di quello, pressante e complesso come mai,
della potenziale, imprescindibile “futura memoria”, che si produce in luoghi
diversi, coinvolge i soggetti più disparati – una comunità indistinta che prende
voce – e si accumula e consuma in “buchi neri” imprecisati. Una possibile memoria
che di lì fa fatica ad emergere e non diviene nuovamente presente, agibile, utile e
utilizzabile. Come potrebbe, d’altra parte, farlo, soffocata com’è dalla paccottiglia
che invade il sistema informativo e dalla permanente contingente “attualità”, che
veicolano il peggio della subcultura, delle patologie psicologiche, sociologiche e
antropologiche della indistruttibile, permanente “provincia universale”.
Ma come non rilevare che, agli antipodi della tematica totalizzante
della molteplicità delle forme (e delle criticità) che possono riguardare oggi la
partecipazione e la democrazia, spesso e da più parti si dimentica che esse sono fatte
anche di persone, di presenze fisiche, di azioni visibili svolte in luoghi concreti,
materiali e simbolici, che Gennaro Arbore praticava: da cittadino. L’insieme,
insomma, delle storie ordinarie di cittadinanza consapevole, appassionata e critica
che pure continuano a svolgersi sotto i nostri occhi, in uno scenario “non virtuale”.
Un insieme che dovrebbe lasciare qualche traccia, non casuale, accidentale e
sporadica, indipendentemente, cioè, da più o meno numerosi passaggi attraverso i
“media elettrici” più disparati.
Al di là dell’apparenza, non sembri questa una digressione gratuita. Quanti
hanno avuto modo di seguirla da vicino – sul versante pubblico, essendo quello
privato pressoché inaccessibile – sanno bene quanto la vita di Gennaro Arbore
sia stata contrassegnata da una sorta di ansia permanente per la salvaguardia e
l’organizzazione delle fonti della storia locale: cartacee, ovviamente, se non altro
per ragioni anagrafiche; ma anche di dimestichezza affettiva. Libri e documenti,
biblioteche e archivi: quelli personali, familiari e privati, quelli istituzionali, collettivi
e pubblici sono stati per lui un pensiero dominante, talora una sorta di ossessione:
come quando si occupò personalmente, porta a porta, del recupero dal prestito dei
libri trasferiti dalle biblioteche dell’Isscal ai nascenti Centri Servizi Culturali. Così è
stato per tutto il tempo da lui dedicato alla formazione del suo patrimonio librario:
opuscoli e volumi, documenti originali e riprodotti; spesso rarità, non per il loro
valore strettamente bibliografico o collezionistico, ma per essere significativi per la
storia di Foggia e della Capitanata e, quindi, per gli specifici interessi del raccoglitore.
Sotto lo stesso segno vanno collocati – sono solo degli esempi emblematici di un
modo di concepire la cultura come fondata su strumenti e servizi concreti e accessibili
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Guido Pensato, Saverio Russo
a tutti – la sua totale dedizione alle biblioteche dei citati Centri, istituiti dal Formez e
dalla Società Umanitaria e dei quali fu tra i più attivi operatori a partire dai primi anni
Settanta; o il suo disinteressato impegno nel riordino delle biblioteche di qualche
importante dirigente nazionale del Partito Socialista.
Ma il gesto simbolicamente riassuntivo di quello che non fu per Gennaro
Arbore un furore di possesso da bibliofilo, ma un amore finalizzato all’uso e alla
studio e perciò da condividere, fu la decisione di donare alla biblioteca comunale
di Manfredonia un raro manoscritto acquistato sul mercato antiquario. Parliamo
del Cabreo di san Leonardo di Siponto 1634-1799, silloge di testi fondamentali per
la storia di quella città e del territorio della Capitanata in generale. Un gesto che
segnalò un tratto di generosità insolito in una realtà nella quale le istituzioni sono
solitamente destinatarie, al massimo, di ciarpame altrimenti diretto al macero; e
che troppo spesso elidono e non riescono a trasformare liberalità così alte e rare in
strategie e interventi per il rinnovamento e il potenziamento dei servizi culturali.
Se il nucleo forte del suo impegno ruotò intorno ai libri e a tutto ciò che
custodisce le fonti per la storia locale, non vi fu ambito nel quale Arbore non si
battesse per l’affermazione di una cultura civile diffusa, e della cultura tout court
quale strumento fondamentale. Un convincimento che lo aveva condotto, già negli
anni degli studi giuridici nelle università di Napoli e Urbino a mettersi alla testa
delle battaglie per il diritto allo studio e il miglioramento delle condizioni degli
studenti fuori sede. Fino al punto di depositare sulla scrivania del Rettore i pasti
della mensa.
Nella militanza nel Partito Socialista enfatizzò la sua indole protestatoria
e libertaria, che lo conduceva ad essere accanto a quanti percorrevano strade per
l’affermazione dei diritti civili della persona e della cultura. A questo ambito vanno
ricondotte anche le collaborazioni a testate come il “Messaggero”, “La Gazzetta
del Mezzogiorno”, “La Gazzetta di Foggia”, “La Stampa. La settimana di Puglia”;
e la battaglia per il divorzio, che lo vide affiancare localmente don Marco Bisceglia
e Dom Franzoni, Carlo Gentile e Peppino Normanno, “mobilitati”, tra mille
polemiche, proprio dai Centri di Servizi Culturali; e quella per la difesa e lo sviluppo
ordinato dell’assetto urbanistico della città, che si concretizzò nelle Giornate
dell’Urbanistica Dauna, con la presenza di Ludovico Quaroni e della nuova leva
di architetti locali; e inoltre: l’organizzazione, presso il Conservatorio, del primo
concerto cittadino di Matteo Salvatore e, prima ancora: il pieno coinvolgimento,
fin dalla fondazione, nelle iniziative che il Teatro Club conduceva (erano gli anni
nei quali Paolo Grassi e Strehler, Dario Fo e Franca Rame facevano circolare nel
Paese, facendo tappa anche a Foggia, un’idea di teatro come luogo dell’intelligenza
e dell’impegno civile) per una corretta gestione del Teatro “Giordano”, riaperto
– per la prima volta, dopo le distruzioni belliche – solo nel 1966 e vittima della
caparbia “maleducazione teatrale”: nella conduzione e nella fruizione. E così
via, fin quasi agli ultimi anni di vita Gennaro Arbore si ritagliò certo un ruolo
critico, antagonistico, ma contemporaneamente caratterizzato da un forte senso di
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Gennaro Arbore (1931 – 2012)
appartenenza. Quello che, in fondo, lo condusse alla decisione di farsi ricercatore
e scrittore in prima persona di tematiche di interesse locale; una sorta di approdo
per un ruolo apparentemente contraddittorio – “pro” e “contro”, impulsivo e
metodico – per il quale era conosciuto e a fronte del quale in tanti erigevano un muro
(autoassolutorio) di ipocrita e talora irridente condiscendenza. Un atteggiamento
incapace di cogliere nel complesso della vita di Gennaro Arbore i frammenti di una
storia minore forse, ma che, se letta come parte di una cronaca civile, segnalerebbe
quanto una maggiore presenza di figure “ordinarie” di militanti del senso civico e
di un intransigente e critico orgoglio dell’appartenenza, renderebbe meno rilevante
la radicale polarizzazione della gran parte della comunità verso l’estremo di una
massa di non-cittadini inconsapevoli e assenti.
Forse Gennarino avrebbe motivo per sorridere o fare dell’ironia di fronte
a queste pagine a lui dedicate. Ma considerava la vita e l’impegno per renderla
migliore cose troppo serie per fare spazio al sorriso e all’ironia, che non erano nelle
sue corde, come la vacua celebrazione di quello che ha sempre percepito come
doveri civili non eludibili.
Nei primi anni Sessanta circolò anche in Italia un film del regista
cecoslovacco Jiri Krejcik – Il principio superiore –, che affrontava e sbatteva in
faccia agli spettatori temi e interrogativi drammatici: lo scontro tra principi e mezzi
per realizzarli; la legittimità della violenza (“giusta”) contro l’oppressione: “per un
principio morale superiore non è assassinio l’uccisione del tiranno”. In quegli anni
Gennaro Arbore avviava il suo personale percorso per l’affermazione di principi
che avrebbero governato la sua vita. Senza enfasi, nella consapevolezza di farsi
guidare non da miraggi palingenetici, ma da un’idea di convivenza e di futuro da
incerare quotidianamente, attraverso una concretissima pratica esistenziale.
Chi in futuro coltiverà interessi, passioni e studi sulla città continuerà a
imbattersi in quelli di Gennaro Arbore. Queste pagine vogliono ricordare anche
la “figurina” minuta e solida di un autore e di un uomo serio e rigoroso e insieme,
forse, intimamente fragile e solitario; che non esibiva l’aplomb dell’intellettuale
engagè o del militante dei diritti civili mediaticamente telegenico. Ma sono stati
questi il terreno e l’oggetto della presenza nella vita cittadina di una figura irregolare
e appassionata, di un clochard del senso civico e della cultura.
G. P.
2. I libri
Come si è detto, Gennaro, negli anni Novanta, comincia a fare ricerca,
dapprima con un approccio di prosopografia storica, in cui l’indagine sulle
famiglie nobili o borghesi si unisce all’interesse, civilmente connotato, per la
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Guido Pensato, Saverio Russo
tutela di quanto rimaneva – a Foggia l’imperfetto è il tempo giusto in una vicenda
urbanistica in continua e confusa evoluzione - della città ottocentesca ammirata
da alcuni viaggiatori transalpini, e poi distrutta, più che dai bombardamenti del
’43, da quello stillicidio di atti di violenza edilizia, di distrazioni burocratiche,
di incuria interessata da parte dei proprietari, di scelte amministrative in favore
dell’espansione e a danno del recupero, che hanno costellato il settantennio che,
ormai, ci separa dalla guerra. Nasce così, ricercando negli archivi di Napoli, Foggia
e Lucera, nelle biblioteche pubbliche e nella sua, ormai consistente, il libro del
1995, Famiglie e dimore gentilizie di Foggia (Fasano, Schena editore).
Il lavoro che impegna maggiormente Gennaro in questi anni è, tuttavia, un
altro: è la trascrizione del catasto onciario di Foggia del 1741, microfilmato a sue
spese presso l’archivio di stato di Napoli. Quest’imponente impresa, al limite del
velleitarismo e dell’impraticabilità editoriale, come tutte le trascrizioni di fonti di
grandi dimensioni, destinate ad un pubblico di eruditi di limitata ampiezza, non
ha prodotto molto. Dopo un lungo lavoro di anni, Gennaro, pur coadiuvato da
un amico, alzò bandiera bianca, consegnando ad altri amici e a chi scrive, per le
future ricerche di studenti e non, una fotocopia dell’Onciario e una copia della
trascrizione fino ad allora realizzata. Chi scrive riuscì a convincerlo, non senza
insistenze, a dare alle stampe un pezzo del lavoro, quello relativo all’apprezzo del
territorio agricolo. Nasce così Masserie, pascoli, boschi, orti e vigneti a Foggia nel
XVIII secolo: il libro dell’apprezzo generale 1741-1748, pubblicato nella collana
della Fondazione della Banca del Monte nel 2008. Non è improbabile, comunque,
che si riesca a dare alle stampe una edizione sintetizzata del lavoro sull’Onciario
avviato da Gennaro.
Una ripresa del lavoro del ’95, ma in una direzione più esplicitamente
araldica, è Blasoni e stemmi presenti nella città di Foggia, pubblicato da Bastogi
nel 2011.
Se queste pubblicazioni restano a testimoniare concretamente il lavoro di
ricerca, svolto con modestia e generosità – più volte Gennaro ebbe a lamentarsi
di testi da lui prestati e non più restituiti, di “bozzoni” che stentava a riavere,
esperienze che spiegano forse la diffidenza nei confronti anche di chi voleva
dargli una mano in maniera disinteressata – del tutto dispersa è, purtroppo, la sua
biblioteca.
S. R.
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Gaetano Cristino
In ricordo di Gaetano Matrella
di Gaetano Cristino
La scomparsa di Gaetano Matrella ha interrotto uno dei “fili della memoria”
attraverso cui tutti quelli interessati a capire la storia del nostro territorio potevano
riallacciarsi, sicuri di trovare risposte precise. “Chiediamo a Gaetano” era infatti
la frase che più spesso poteva ricorrere in caso di dubbi su fatti e personaggi, non
solo locali, degli ultimi sessant’anni. Era stato infatti, ed ha continuato ad esserlo
sino all’ultimo, partecipe di tutte le più importanti stagioni di rinnovamento della
storia del nostro Paese e delle sue applicazioni locali.
Anche se non si considerava un “protagonista” della vita politica, nel senso, diceva, che non aveva ricoperto incarichi di rilievo nazionale, e si considerava piuttosto un “testimone” “di fatti ed avvenimenti che avevano caratterizzato
soprattutto la vita sociale, politica e culturale della Capitanata dal 1945 ai nostri
giorni” (v. Gaetano Matrella, La Capitanata dal 1948 al 1958, a cura di S. Speranza,
Manfredonia, Edizioni Sudest, 2009), tuttavia protagonista Egli era stato, perché,
al fianco di personaggi di primo piano della Democrazia Cristiana e del cattolicesimo democratico, aveva contribuito a suo modo, con gli strumenti che gli erano più
congeniali, il giornalismo in particolare, al processo di avanzamento generale della
società, dall’avamposto di Foggia, convinto più che mai che la Storia non “accade”
ma si fa, in direzione della realizzazione dei principi di libertà, giustizia e carità.
Il suo punto di riferimento costante fu infatti quel Codice di Camaldoli, i
cui enunciati furono alla base del pensiero cattolico in campo sociale ed economico
nel secondo dopoguerra e costituirono elementi per la discussione di moltissimi
articoli della Costituzione italiana. Quel testo fu alla base dell’impegno politico
e sociale di Gaetano Matrella, come di tanti altri universitari cattolici della sua
generazione (era nato nel 1924 a Foggia), nella Democrazia Cristiana, impegno
che ebbe modo di esplicarsi in maniera più consistente, anche con qualche incarico
amministrativo, soprattutto a partire dalle prime esperienze di centro-sinistra.
Il problema della posizione del cristiano in politica, a partire da quel testo, costituì un motivo continuo di riflessione per Gaetano Matrella, che spesso
assumeva posizioni non ortodosse rispetto alla linea del Partito o delle gerarchie
ecclesiastiche, giacché Egli era contro ogni integrismo. Queste considerazioni sulla
giustezza dell’impegno dei cosiddetti “democristiani di sinistra” e sulla necessità
255
In ricordo di Gaetano Matrella
per la Chiesa di tenere distinta la sfera spirituale da quella pratica, Egli le pubblicò
alcuni anni fa (G. M., Breve rassegna su una tendenza che viene da molto lontano,
in Capitanata, Anni 1998-2001, n. 6-9, pp.259-281) con una disamina lucida che
toccò anche punti chiave della traduzione politica di quell’assunto, come quello che
fu il progetto di Moro, interrotto dalla Brigate rosse, di includere e associare nella
direzione del Paese il PCI e le masse popolari che quel Partito rappresentava.
L’uomo che a partire dalla frequentazione della FUCI guidata da don Renato Luisi entra in contatto con altri giovani che costituiranno poi la classe dirigente
della DC di Capitanata, da Gustavo De Meo a Donato De Leonardis a Franco
Galasso a Carlo Forcella e che collaborerà a molti giornali, meridionalisti e di ispirazione democristiana, dirigendone anche alcuni, come “Il popolo dauno” e “Il
Progresso dauno”, porta in questo suo impegno politico anche interessi più ampi,
quasi trasponendovi una sorta di “umanesimo integrale”. Per questo i “suoi” giornali (anche graficamente impeccabili, che curava nei minimi dettagli, scegliendo
tipografie dove ancora era in funzione la linotype, perché sulla carta voleva fosse
evidente la pressione dei caratteri di piombo) furono sempre letti con attenzione
anche da parte di chi non era democristiano o, nel caso del periodico “Risveglio”,
diretto dal 1975 al 1989, da chi non era cattolico. C’era insomma sempre la possibilità, sui giornali da lui diretti o nei suoi scritti, di incrociare non solo il rigore dei
fatti ma anche i temi alti della cultura.
E sulla cultura puntava molto per il risveglio democratico della sua città natale.
In particolare sulla cultura storica. Gaetano Matrella, quelle poche volte che aveva
dettato le sue note biografiche, aveva sempre sottolineato la sua “appartenenza” a
Foggia.:“foggiano, di famiglia foggiana”. E questo orgoglio dell’appartenenza, per
risalire la china, egli ha cercato foscolianamente di suscitare fino all’ultimo con i suoi
“medaglioni” di personaggi foggiani illustri, tra cui spicca non a caso Umberto Giordano, giacché la musica fu (insieme alla matematica) l’altra grande passione di Matrella (v. Uomini illustri della città di Foggia, Foggia, Ed. Risveglio, 1991; ristampata nel
2000 per le Edizioni Grafiche 2000). E per la sua città e per la Capitanata, era sempre
pronto a mettersi a disposizione. Se posso concludere queste brevissime annotazioni,
sicuramente insufficienti a tratteggiare la ricchezza e la complessità della sua vicenda
umana, con un ricordo personale, dirò di quando, nel 2003 doveva essere inaugurata
la Galleria provinciale d’arte moderna e contemporanea a Palazzo Dogana, mentre
era Presidente il prof. Antonio Pellegrino. Nella sezione della ritrattistica di fine Ottocento volevamo documentare l’opera di un autore foggiano importante, Antonio
La Piccirella. Sapevamo che Gaetano Matrella possedeva due ritratti di suoi antenati
realizzati da La Piccirella e li chiedemmo in prestito. Fu felicissimo di farlo. E felicissimi noi che andammo a ritirare i dipinti, perché ci intrattenne in una lunga, piacevolissima conversazione che toccò André Chenièr ed Albert Einstein, Celestino Galiani
e Gaetano Caricato, la vita a Foggia nel primo Novecento, ma anche la pittura e il suo
ricordo di pittori foggiani “emigrati” che non conoscevamo.
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Geppe Inserra
L’eredità morale di Gaetano Matrella
di Geppe Inserra
Con Gaetano Matrella non è scomparso soltanto uno dei migliori giornalisti
e saggisti foggiani: assieme a lui ha cessato di battere un pezzo del cuore della città
migliore, quella che non s’arrende al cospetto di congiunture difficili ma guarda
avanti, con coraggio e responsabilità, senza rassegnarsi.
D’altra parte, per lui, la scrittura è stata sempre un mezzo, più che un fine:
uno strumento per esprimere ciò che si pensa, per far circolare idee, per contribuire a far crescere la comunità, per raccontare il suo amore, il suo attaccamento alla
nostra terra..
Il destino ha voluto che la sua esistenza terrena si concludesse soltanto qualche settimana prima che scomparisse un altro pezzo importante del cuore di Foggia, quello rossonero, cui Matrella era molto attaccato.
Per lui la squadra di calcio era un simbolo della città: chissà che penserebbe
adesso, che anche questo emblema si è estinto. Molto probabilmente, rifletterebbe
su come la perdita di simboli sia un greve fardello, perché comporta una perdita
d’identità, quella identità che ha sempre tenacemente difeso come valore, come
risorsa essenziale di futuro.
Gaetano ha dedicato la maggior parte della sua copiosa produzione pubblicistica a raccontare la città, il suo splendido passato il cui ricordo tinge ancora più
di grigio il presente. Ha dedicato due volumi alle biografie dei foggiani illustri, nella incrollabile convinzione che una città che ha dato i natali a Umberto Giordano
- di cui è stato uno dei più grandi studiosi - è una grande città. Non si è mai arreso,
convinto com’era che per risalire la china, si debba in qualche modo ricominciare
dal passato, che va raccontato e tramandato ai giovani affinché trovino l’orgoglio
della loro identità.
L’ultima volta che l’ho incontrato, l’estate di due anni fa, ci intrattenemmo
a lungo proprio su Giordano, e sulla scarsa fortuna che questo illustrissimo figlio
di Foggia ha incontrato nella sua città natale. La lirica è stata una delle sue grandi
passioni, assieme alla matematica, e tanto basta a dire quanto fossero composite ed
estese le sue conoscenze e la sua cultura.
Le chiacchierate con lui mi hanno sempre arricchito, e in in modo partico-
257
L’eredità morale di Gaetano Matrella
lare l’ultima, quella su Giordano. Riflettendo sul difficile rapporto tra il musicista
e Foggia, Gaetano ribadì la tesi che tante volte l’ho sentito sostenere: una città che
non sa valorizzare ciò che è stata, è una città che ha scarse speranze di futuro. Ma
indicò proprio nel recupero dell’orgoglio foggiano la direzione da percorrere per
risollevarsi: “Ce l’abbiamo fatta tante volte, dal terremoto del 1731 ai bombardamenti della seconda guerra mondiale. Possiamo farcela anche stavolta.”
L’eredità morale e culturale che ci lascia sta proprio in questo non arrendersi mai, un’eredità racchiusa nei suoi libri, nei suoi mille articoli, nelle annate
dei giornali che lo hanno visto direttore: il «Progresso Dauno» prima, il «Nuovo
Risveglio», poi, di cui è stato anche editore.
L’ho conosciuto sul finire degli anni Settanta, quando il giornalismo foggiano era ancora capace di grandi battaglie civili ed ideali, e riusciva a contribuire
- attraverso la dialettica ed il confronto dei diversi punti di vista - alla formazione
di quell’opinione pubblica divenuta ormai merce sempre più rara, soverchiata dalle
raffiche di comunicati stampa che si abbattono sulle redazioni, favorendo la pigrizia dei giornalisti, e dalle polemiche da ballatoio dei social network.
Ci trovammo dalla stessa parte della barricata - lui direttore del «Nuovo
Risveglio», io giovane cronista del settimanale «Capitanata Agricola Industriale»
diretto da Matteo Tatarella - nel dire no alla costruzione della cosiddetta “muraglia
cinese”: la tangenziale sopraelevata che avrebbe dovuto collegare la superstrada
Candela-Foggia con il casello autostradale di via Manfredonia, lambendo l’aeroporto Gino Lisa, gli Ospedali Riuniti e così determinando in modo irrevocabile
l’espansione urbanistica cittadina.
Ci battevamo per una trasformazione del progetto (come poi effettivamente
avvenne, almeno per quanto riguarda l’incrocio di viale degli Aviatori), a favore di
un tracciato più ragionevole, che prevedesse svincoli a raso e dunque non condizionasse lo sviluppo urbanistico della città.
Fu una vittoria a metà: la strada non è mai stata completata (confermando il
sospetto che quel progetto ciclopico fosse stato concepito per orientare il futuro
edilizio cittadino, premiando la speculazione fondiaria)ma l’espansione dell’abitato è stata caotica e disordinata.
Fu la prima di tante battaglie comuni. Fummo fianco a fianco in tante altre
memorabili sfide: per la riapertura dell’aeroporto Gino Lisa, per l’istituzione del
terzo centro universitario pugliese che vide Matrella sostenere con forza le ragioni
e l’impegno di quell’indimenticabile (ma purtroppo dimenticato) protagonista della storia dell’Università a Foggia che è stato Luigi Imperati.
Standogli a fianco tante volte in trincea, Gaetano mi ha dato una lezione
professionale di cui gli sarò sempre grato: che l’essere giornalista significa prima di
tutto avere il coraggio di dire le cose come stanno, esprimere le proprie opinioni,
impegnarsi perché tutte le opinioni possibili abbiano diritto di cittadinanza.
Quante altre volte, da allora, abbiamo raccontato insieme la città, abbiamo
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Geppe Inserra
espresso le nostre opinioni, trovandoci quasi sempre d’accordo. Qualche anno
dopo, quando lavoravo alla redazione foggiana della «Gazzetta del Mezzogiorno»,
lo ebbi come appassionato “cicerone” in una serie di articoli dedicati alla “Foggia
da salvare”.
Non amava particolarmente il quotidiano regionale, che riteneva “troppo
barese”: individuava nel difficile rapporto tra il capoluogo dauno e quello regionale, una delle cause del declino di Foggia.
Eppure si offrì con entusiasmo di accompagnarmi in quell’insolito viaggio.
Fu entusiasmante passeggiare con lui tra i vicoli del centro storico, alla scoperta
di pezzi di memoria minacciati dalla protervia edilizia: dai ruderi della Taverna
dell’Aquila, agli ipogei che allora erano grotte e basta, ai resti del Palazzo della
Pianara, alle misteriose colonne dei palazzi prospicienti la Cattedrale che Matrella
riteneva fossero vestigia del palazzo regale angioino, allo stupendo e pressoché sconosciuto bassorilievo di San Martino, incastonato sul fianco sinistro del Duomo.
Gaetano, che aveva trascorso tutta la sua infanzia tra quelle strade, conosceva la storia di ogni pietra, di ogni palazzo, di ogni iscrizione: ed era orgoglioso di
esserne figlio.
Eppure fu tutt’altro che un conservatore, politicamente parlando. Democristiano di incrollabile fede morotea, fu un appassionato sostenitore degli “equilibri
più avanzati” teorizzati dal grande statista di Maglie, e successivamente di quel
“compromesso storico” che costò la vita ad Aldo Moro, diventando la causa scatenante del rapimento e e del feroce assassinio, ad opera delle brigate rosse.
Della Democrazia Cristiana, così come del mondo cattolico, Matrella è stato
tuttavia sempre coscienza critica: la sua tenace ricerca della verità lo rendeva un
personaggio scomodo. Nella dialettica interna, a volte aspra, che caratterizzava le
correnti democristiane, fu sempre avversario dell’on. Vincenzo Russo, leader della
Dc provinciale.
Fu fondatore della Fuci (Federazione Universitari Cattolici Italiani) e protagonista della stagione in cui quel movimento offrì alla “società civile” cittadina
personaggi del calibro del giudice Magrone, dei medici Galasso, De Filippis, Cela,
Natale, e più tardi Michele Perrone, Davide Leccese, Tonino Coppola e Peppino
Normanno, questi ultimi esponenti di quel “cattocomunismo” che in un serrato
dialogo con la Democrazia Cristiana seppe produrre l’amministrazione comunale
(guidata da Pellegrino Graziani) forse più illuminata e prolifica, in termini di opere
e di servizi, che la città abbia mai avuto.
Qualche anno fa, cercammo di riprendere la riflessione politica sulla importanza dell’incontro tra i cattolici ed i progressisti, in un dibattito promosso proprio
dal «Nuovo Risveglio», e fu un altro bel momento di collaborazione, di comune
confronto. Il suo giornale era sempre aperto ad ogni discussione: era il suo modo
di contribuire al progresso civile e morale della città.
Nella storia del giornalismo foggiano, il «Nuovo Risveglio» è stato un insu259
L’eredità morale di Gaetano Matrella
perabile esempio di come la cronaca, la narrazione dei fatti non siano antitetiche
alla passione civile. Matrella mi ha insegnato che non è possibile raccontare i fatti
senza prendervi parte in qualche modo, e che la dirittura morale, l’onestà intellettuale e la passione civile sono l’anima del mestiere di giornalista.
Gaetano ha sempre pagato di tasca proprio la pubblicazione del giornale,
confidando solo sull’affetto dei lettori, così come tutti i libri che dava alle stampe.
Non ha mai chiesto abbonamenti, finanziamenti o inserti a pagamento alle pubbliche amministrazioni: è stato un mecenate sincero, così come quando ha fatto dono
di alcuni quadri di cui era proprietario alla Galleria di Arte Moderna e Contemporanea di Palazzo Dogana e delle annate del «Nuovo Risveglio» alla Biblioteca
Provinciale.
Ha vissuto fino in fondo la dimensione comunitaria della città. Adesso che
non c’è più, Foggia è veramente più sola. Più indifesa. Come succede quando in
una famiglia muore il patriarca, e se ne va il custode della memoria e delle radici,
che tramandano l’identità da una generazione all’altra.
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Franco Galasso
Diario di un’amicizia con Gaetano Matrella
di Franco Galasso
Abbiamo seguito la conclusione della esistenza di Gaetano Matrella sperando nella ripresa di un dialogo sempre vivace, spesso con punte di amorevoli battute
polemiche, portate con forza di argomenti, accompagnate da tolleranza ed ispirate
spesso da felici intuizioni.
Ci ha, anche negli ultimi istanti, salutati con il tono rassicurante di chi ha
capito: come se fosse una fine attesa e preparata da una formazione di vita di chi
conosce lo svolgersi dell’esistenza, delle sue trasformazioni, dei suoi significati,
delle sue attese.
Negli ultimi dialoghi, spesso accennati, ma di sicuro significato, traspariva
come un ottimismo fiducioso, conforme alla sua personalità.
Chi crede e pratica non può essere rattristato dall’Evento, ne conosce il profondo significato e non ne ha paura, non lo teme, ma lo attende come la fine di
un tratto solo episodico della propria esistenza. Di questa conosce gli ostacoli, le
tristezze, talvolta le gioie e i traguardi, ed è consapevole dei suoi limiti nel tempo.
Di quante persone Gaetano ha assistito al trapasso: Moro, De Meo, De Leonardis, don Renato, Forcella, personaggi che ha incontrato nella vita, fra la “gente”
che Gaetano ha amato come “il prossimo tuo”, esempi che per percorsi diversi,
naturali o drammatici, ne hanno segnato la esistenza.
Mi si chiede di parlarne, di ricordarlo, perché la sua memoria resti sia pure
con un rapido e modesto ricordo, affinchè si sappia che Gaetano Matrella “è passato” ed ha lasciato una sua memoria, modesta ed umile, come la sua vita, modesta
ed umile, ricca di amore, di ricordi, di fatti, di persone che ha conosciuto e spesso
amato ed ammirato.
Le nostre consuetudini di vita, il nostro amichevole e fraterno sodalizio è
iniziato negli anni della frequenza del Liceo Scientifico. Fu questa una nuova istituzione scolastica che sorse con la aggettivazione di “Provinciale”, perché scuola
non statale, ma promossa dall’Amministrazione Provinciale di Foggia.
Eravamo nell’immediato dopoguerra: la sconfitta, le rovine della città di
Foggia, la lenta ripresa furono fatti che segnarono la nostra vita, con trasformazioni che hanno influenzato radicalmente la nostra formazione.
Il Liceo Scientifico, dopo varie traversie di trasferimenti di sede, approdò
261
Diario di un’amicizia con Gaetano Matrella
in un palazzo della nostra città, il Palazzo Zicari, in corso Cairoli, un segno di antica aristocrazia cittadina. Ora non c’è più, abbattuto dalla furia ricostruttrice del
dopoguerra; aveva allora un valore artistico ed architettonico di cui purtroppo si è
perduta la memoria.
Tanti i ricordi di quegli anni con una frequentazione nello stesso istituto con
Gaetano, anche se le nostre classi erano diverse.
Nei ricordi vi è la personalità di qualche docente: il professor Catacchio da
Molfetta, avvocato, che ci avviò ai misteri ed al gusto della costruzione latina, insegnata nei suoi nascosti risvolti; il professor Potenza, ingegnere, che ci guidava nei
difficili sentieri di ardue soluzioni matematiche; il professor Melillo, prete dantista,
che, possessore di una memoria prodigiosa, ci aiutò a scoprire il valore “non solo
poetico” della Commedia; il professor Sernia, italianista avvincente, solido di una
notevole cultura letteraria. Il professor Vittorio de Niro d’Ajeta, di nobile origine
napoletana, raffinato nel tratto, storico brillante, di vasta e approfondita cultura; il
progessor Silvio Nobili, filosofo e notaio, eclettico personaggio, arguto e colto, che
ci avviò ai sentieri difficili della filosofia.
Si riprendeva, così, la organizzazione della scuola con grande impegno delle
istituzioni e con ottimi risultati da parte di maestri ed allievi. Oggi, 2012, il vecchio
nostro Liceo Scientifico Provinciale è il Liceo Scientifico Marconi di Foggia.
Vennero intanto gli anni della Università e della FUCI, vissuti in una comunanza di amicizie e di formazioni religiose e culturali.
Voglio ripetere un breve corsivo di un giornalista degli anni 50, Enzo Forcella: “Non sapevamo nulla di questi uomini che andavano a Messa tutti i giorni e
citavano in continuazione le encicliche e i messaggi papali. Emergevano dalle parrocchie, dai salottini della piccola borghesia di provincia… come dalle catacombe
di un mondo dimenticato”. Eravamo noi quelle modeste formiche che studiavano
e si preparavano alle vicende della vita.
La frequenza della sede della FUCI fu resa possibile dalla eredità di una sala
del Vescovado, la “Sala Manzoni”, che aveva ospitato le organizzazioni di Azione
Cattolica anche durante i difficili anni del fascismo.
Gaetano Matrella ne ha descritto la storia documentando la esemplarità delle
generazioni precedenti alla nostra che l’avevano frequentata.
Nume tutelare della FUCI era don Renato Luisi, sacerdote colto, con alta
preparazione teologica, di vedute moderne, ben inserito nella realtà nuova della
nostra società. Egli ci ha accompagnati, e lo abbiamo accompagnato, nel corso
della nostra e della sua vita: sacerdote, teologo, vescovo, missionario in Brasile,
tornato in patria malato. Fu seguito in particolare da Gaetano Matrella che ne fu
devoto figlio spirituale fino alla sua morte avvenuta nella ospitale casa di riposo
“Maria Grazia Barone”. La FUCI fu il nostro punto di riferimento. In casa di
Gaetano Matrella, in via Pannivecchi, oggi via Pietro Mascagni, leggevamo i testi
che ci fecero scoprire le nuove realtà. Maritain, autore di “Umanesimo integrale”,
262
Franco Galasso
Giogio La Pira con “Premesse alla politica” e con “Cronache sociali” che furono di
ispirazione per le nostre scelte religiose e politiche. Importante per il nostro ricordo: “Le attese della povera gente”, una serie di articoli e cronache che certamente
insieme alle altre letture hanno influenzato la nostra formazione.
La nostra associazione (la FUCI) faceva parte di una organizzazione nazionale con assistenti mai dimenticati, don Guano e don Costa, sacerdoti genovesi, i
cui scritti sono ancora oggetti di nostre letture e meditazioni.
Con Gaetano Matrella vi era perciò un comune sentire insieme a giovani
fucini, molti dei quali presero strade professionali di alto livello. Ricordiamo Giacomo La Torretta, morto prematuramente per malattia, dopo aver ottenuto la cattedra di Ostetricia e Ginecologia all’Università di Messina; Vito De Filippis, medico della scuola napoletana, fu primario di medicina a Torino ed a San Giovanni
Rotondo; Gaetano Caricato, illustre matematico, docente di matematica superiore
alla Università di Roma; Salvatore Garofalo, morto giovane, economista dell’Università di Bari, Gustavo De Meo, giovane deputato per la DC, Vincenzo Russo e
Donato De Leonardis, anch’essi deputati di molte legislature, quest’ultimo autore
di diverse opere in particolare sulla vita di Moro, Carlo Forcella, a lungo autorevole protagonista della vita della Democrazia Cristiana.
Desidero ricordare, per la memoria della nostra antica giovinezza, alcune
manifestazioni teatrali organizzate da Gaetano Matrella che preparò e diresse delle
manifestazioni teatrali rimaste nella nostra storia.
“Goliardi, che mattacchioni”, autore Ugo Piazza, fucino di Roma, era la
cronaca di uno studente liceale che “dal caro paesello sono arrivato qui, a riscaldar
le tavole dell’università”. Era Gustavo De Meo che entrando nella università si
imbatteva, fra l’altro, nel capo dei bidelli, Gaetano Matrella, che lanciava contro di
lui e i suoi colleghi, un’accorata invettiva verdiana: “O studenti, vil razza dannata,
in tal conto un bidello si tiene”.
La commedia rallegrò molte nostre serate per la sua preparazione e per le
repliche ripetute in diversi centri della provincia.
Preparazione religiosa, studio e contatto con le nuove realtà si affacciavano
alla nostra osservazione ed alle nostre considerazioni. Non si deve dimenticare che
le nostre generazioni sono passate dal fascismo alla guerra, al dopoguerra, fino alla
scoperta del valore della democrazia.
L’ingresso in politica costituì perciò la scoperta di un mondo diverso, ricco
di nuove motivazioni ideali, di problemi, di progetti, di speranze.
Ma fu determinante per una efficace presa di coscienza la conoscenza di
Aldo Moro che ci avviò ad una concreta visione della nostra posizione nei rapporti
con la società.
Storici furono gli incontri con Moro nell’Istituto delle Marcelline di Foggia
dove egli teneva le sue lezioni: giovane ed affermato docente universitario, ci avviò
alla scoperta di un umanesimo politico, sul significato della persona umana nella
263
Diario di un’amicizia con Gaetano Matrella
società, sull’esercizio della libertà nella partecipazione alla vita pubblica.
Con questo retroterra religioso e culturale, il nostro gruppo fucino si ritrovò
a partecipare alla vita politica.
L’impegno politico dei fucini come Gaetano trova perciò la sua spiegazione
in questo retroterra che egli stesso ha riassunto ed illustrato con un articolo comparso nel 2001 con il titolo “Breve rassegna su una tendenza che viene da molto
lontano”.
Un itinerario spesso tormentato che inizia dal ricordo di Romolo Murri,
battagliero sacerdote marchigiano, che intuì il compito dei cattolici nella vita pubblica dando luogo alle prime manifestazioni di partecipazione alla vita politica dei
cattolici democratici.
Diverse furono le attività politiche dei cattolici anche attraverso incontri con
movimenti neo-marxisti o con alleanze con partiti di sinistra.
Sentimmo anche noi questa irrequietudine che ci condusse a comuni visioni
con forze che indicavano nella “povera gente” l’oggetto della nostra attenzione.
I cattolici di sinistra, i “catto-comunisti”, costituirono gruppi che, tranne poche
eccezioni, entrarono a pieno titolo nella Democrazia Cristiana costituendo spesso
uno spirito critico che rendeva vivo e sincero il dibattito interno al partito.
Posso dire che Gaetano Matrella faceva parte di questi gruppi sempre con
atteggiamento critico, ma sempre attento all’equilibrio ed al rispetto.
Accettammo così di essere protagonisti, sia pure nella modestia dei nostri
ruoli, delle attività del partito.
Una delle vocazioni di Gaetano Matrella fu quella del giornalismo che concepiva come la interpretazione di eventi elaborati alla luce di ideali e di corretta
informazione.
La sua cospicua attività di giornalista si rivolse essenzialmente a giornali locali o a corrispondenze di giornali regionali.
Nel 1956 l’onorevole Donato De Leonardis gli affidò la direzione del “Popolo Dauno” che egli diresse per almeno due anni. In quel periodo, fra l’altro, si
verificò una aspra polemica in seno al Consorzio di Bonifica per la rivendicazione
degli assegnatari della riforma di partecipare alla lista dei proprietari di fondi. Battaglia che fu vinta e che aveva a capo della rappresentanza degli assegnatari Carlo
Forcella, allora dirigente dell’Ente Riforma pugliese.
Più avanti Gaetano Matrella fu chiamato alla vice direzione del “Progresso
Dauno” diretto dall’On. Gustavo De Meo. Questo incarico durò dal 1966 al 1975.
Questo settimanale di pura marca democristiana si distingueva per la correttezza
delle notizie e per l’equilibrio politico in esso sempre presente anche quando si parlava di avversari politici. Editore del Progresso Dauno era il Prof. Matteo Vigilante
che, oltre ad una scrupolosa conduzione degli aspetti economici, non certo floridi, si
imponeva per una naturale vocazione alla mediazione per cui mai il giornale, anche
per la sua influenza, poteva essere accusato di atteggiamenti settari od antipolitici.
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Franco Galasso
Dal 1975, Gaetano fu chiamato alla direzione del settimanale “Il Risveglio”
ispirato dagli ambienti cattolici ed in particolare da Mons. Renato Luisi.
Da ricordare l’articolo che Geppe Inserra ha scritto sul Quotidiano che è
certamente riassuntivo, non privo di espressioni affettuose e fraterne, della vita
giornalistica di Gaetano.
Attraverso la lettura di questi giornali, si snoda non solo la cronaca di eventi,
ma, spesso, la interpretazione di essi insieme al ricordo di persone che costituirono
l’humus della vita politica, storica, cittadina, della nostra realtà.
La sua attività giornalistica subì, come del resto la nostra attività politica,
una drammatica e brusca interruzione con l’assassinio di Aldo Moro, che segnò un
confine, non solo sentimentale, per quanti avevano ereditato gli ideali dell’uomo
che era stato e continuerà ad esserlo, protagonista della nostra storia.
Un rammarico della sua vita fu il non aver potuto dare continuità alla personale esternazione di idee, di sentimenti, di esercizio di spirito critico. Forse fu,
questa, la ragione del suo rifugiarsi nella “nicchia” dell’amicizia che coltivò con
affettuoso legame, fino alla fine.
Frequente però fu la sua collaborazione con il Quotidiano di Foggia, diretto
dall’amico Matteo Tatarella.
Mi piace riandare alla memoria di settimanali incontri, per vari anni, nella
sua casa, nel suo studio, con Armando Canè e con me, fraternamente accolti anche
dalla discreta e signorile presenza della moglie Giuseppina.
Due ore di conversazioni, di osservazioni, sempre puntuali e spesso caustiche della realtà nella quale vivevamo. Parlavamo della nostra Foggia, dei suoi problemi, e ci spingevamo a guardare agli eventi politici, ispirati sempre a quegli ideali
dei quali eravamo noi stessi interpreti e teoricamente complici.
Se volessi riassumere in pochi riferimenti la sua personalità, vorrei dire che, oltre alla sua formazione religiosa ed intellettuale, Gaetano fu prima di tutto foggiano.
Amava la sua, la nostra città, superba ed umiliata, carica di storia, fortunata e sfortunata, con noi sempre fiduciosi nella sua rinascita. Gaetano amava la Musica che
era sua compagna quotidiana, insieme alla lettura e allo studio. Le sinfonie erano
da lui ascoltate con profonde interpretazioni.
Amò la lirica ed in particolare Umberto Giordano, musicista foggiano. Era
orgoglioso di una manifestazione da lui ispirata con intelligente discrezione. Si
tratta di un gemellaggio organizzato dal Sindaco di Foggia, Petrino, e da quello di Verona, Sboarino, con la collaborazione dell’Assessore Leccese e di Enrico
Sannoner, direttore all’epoca del teatro Giordano, amico e confidente di Gaetano.
In quella occasione furono ben dodici le rappresentazioni dell’Andrea Chénier
nell’Arena di Verona, arricchite da un congresso su “Umberto Giordano ed il Verismo”. Il congresso ebbe luogo il 2-3 luglio 1986.
Riascoltava spesso Beniamino Gigli di cui conosceva a memoria le più grandi interpretazioni indicandone anche le più sottili variazioni del suo canto.
265
Diario di un’amicizia con Gaetano Matrella
Non è stato facile ripercorrere la vita di Gaetano Matrella per affidarne la
memoria al lettore che vorrà riscoprire il ricordo di personaggi ed eventi della
nostra Città.
Non di personaggi famosi abbiamo parlato, ma di una persona che ha lasciato un’impronta di storia e di cronaca di Foggia; abbiamo voluto, con affetto ed
amicizia, ricordare la vita di un uomo che è stata come la nostra vita.
Abbiamo così riscoperto legami dei quali siamo spesso dimentichi, per lo
svolgersi travolgente del tempo che induce talvolta all’indifferenza dei sentimenti.
Quando ti fermi, quando vuoi riflettere e ricordare e rivedere la tua vita insieme ad amici e sodali, risenti e rivivi forte e solida la comunanza di ideali.
La nostalgia è forse, tra i sentimenti, il più intenso.
“Frequentare la nostalgia sembra missione impossibile, ma le risorse della
nostra mente, affinate durante il viaggio della nostra vita ci confortano e rasserenano in questa frequentazione.” Così un grande neurologo, Ciro Mundi, ha detto
ritrovando nella nostalgia il conforto della separazione da un Amico.
Nostalgia di amici con cui hai condiviso la appartenenza alla “lista di attesa”
alla quale ci esortava il Cardinale Martini, percorsa da Gaetano con sincero abbandono e consapevole e sicura partecipazione.
La fede ci ha uniti con le stesse certezze e con le stesse speranze.
E per Gaetano, come la morte di Chénier:
Chénier, Maddalena È la morte!
Chénier Ella vien col sole!
Maddalena Ella vien col mattino!
Chénier Ah, viene come l’aurora!
Maddalena Col sole che la indora!
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Maurizio De Tullio
La scomparsa di un appassionato ricercatore e grande collezionista
di cartoline e immagini di storia locale
Gaetano Spirito
tra passione civile e tensione morale
di Maurizio De Tullio
Gaetano Spirito ha chiuso per sempre il suo archivio pochi mesi fa, all’alba
dei novant’anni. E lo ha fatto lavorando fino all’ultimo, nonostante una malattia
impetuosa l’avesse privato dell’uso delle gambe già da diverso tempo. Ma per uno
che di cognome faceva Spirito, quell’handicap si è rivelato solo parziale, per quanto
doloroso e frenante.
Una vita di quelle ricche la sua, di una ricchezza che non guarda al denaro
naturalmente, ma alla sostanza delle cose, a cominciare dall’amore per la famiglia,
per il proprio delicato lavoro di insegnante e – soprattutto - di ricercatore e collezionista di immagini rare.
La scheda bio-bibliografica che segue - presente anche nella sezione “Meravigliosa Capitanata”, nel sito istituzionale della nostra Biblioteca Provinciale – ha
inteso mettere insieme questi tre momenti fondamentali della vita di Gaetano Spirito. E a due giornalisti e studiosi di storia locale che lo hanno ben conosciuto –
Michele Dell’Anno e Loris Castriota Skanderbegh – abbiamo chiesto di formulare
un personale ricordo.
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Gaetano Spirito tra passione civile e tensione morale
SPIRITO GAETANO
Studioso di toponomastica, scrittore, insegnante
(Monte Sant’Angelo, 1923 – Foggia, 2012)
Figlio di un brigadiere della Polizia Municipale di Monte Sant’Angelo e di
una casalinga, era nato nella cittadina dell’Arcangelo Michele il 10 maggio 1923, ed
è morto a Foggia il 12 aprile 2012, dove viveva da oltre 50 anni.
Dopo aver conseguito la maturità e dopo il periodo bellico, durante il quale
era inquadrato nella Regia Marina, svolse la professione di insegnante elementare,
con la passione e il rigore tipici dei maestri d’un tempo, tra le scuole di Carlantino,
Orta Nova, Troia e Foggia. Nel tempo libero, però, amava coltivare la passione per la
storia locale, attraverso il recupero delle radici e dell’identità del nostro territorio.
Ed è sotto questa veste che in breve tempo ha saputo affermarsi tra cultori e
studiosi di storia locale, abbinando al piacere per la ricerca anche quello per l’archiviazione di francobolli e poi di ritagli dalla stampa locale e nazionale e, soprattutto,
di immagini.
Nonostante avesse perduto negli ultimi anni l’uso degli arti inferiori, Gaetano
Spirito non si lasciò mai vincere dalla malattia, continuando a integrare e ordinare il
suo prezioso archivio personale con la passione e la forza di volontà di sempre.
Sposato, ha avuto tre figli, nati tutti a Carlantino, dove gli era stata assegnata
dal Provveditorato agli Studi la sua prima sede di lavoro e dove aveva conosciuto, e
poi sposato, la moglie Alfonsina Iosa. All’inizio degli anni Sessanta si era trasferito
con la famiglia nel capoluogo dove ha insegnato in alcuni istituti scolastici.
Negli anni, Gaetano Spirito era riuscito a creare un enorme archivio privato,
una collezione costituita da migliaia di cartoline illustrate e fotografie originali,
moltissime anche rare, che consentono una ricostruzione toccante di com’era il
capoluogo dauno prima che venisse sconvolto dai bombardamenti della Seconda
Guerra Mondiale.
Tra il 1967 e il 1998 ha pubblicato cinque monografie, numerose dispense e stradari ed ha collaborato, con testi e soprattutto mettendo a disposizione la sua collezione privata di cartoline e fotografie, alla realizzazione di
volumi di storia locale curati da diversi studiosi foggiani.
Nel tempo libero, come già accennato, Spirito coltivava la passione per
la storia locale. Le sue prime ricerche, in questo senso, avvennero ad Orta
Nova alla quale dedicò il suo primo volume, “Dal passo Orta a Orta Nova.
Cenni storici” (1967). Tra questo testo e il monumentale “…Ieri…, Foggia…:
la storia nella fotografia” (1981) si colloca un altro lavoro di ricerca, “Foggia
e l’antico Convento dei cappuccini nella storia e nella tradizione” che reca
in appendice “La rivolta del 1647-48 e Sabato Pastore detto Il Masaniello di
Foggia”, pubblicato nel 1988.
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Maurizio De Tullio
Gaetano Spirito è stato un antesignano di quel gruppo di autori locali che,
a partire dagli ultimi decenni del secolo scorso, hanno dato vita ad una copiosa
produzione volta a recuperare le radici e l’identità del territorio.
Il suo nome è legato essenzialmente alla toponomastica cittadina, con un
volume, pubblicato nel 1998, che può essere considerato come un vero e proprio
libro di storia, nazionale e locale: «La storia di Foggia attraverso la toponomastica»
(1998), nella quale prese in esame non la toponomastica di un piccolo comune ma
un àmbito complesso e vario come è quello di Foggia, comprendente 740 toponimi
moderni ed un numero ben maggiore di quelli precedenti.
Il suo sforzo è stato tanto più encomiabile se si considera che, proprio
nell’àmbito a lui più congeniale, cioè la toponomastica cittadina, era riuscito a
valorizzare le valenze culturali, storiche, ambientali, religiose, artistiche ed etnoantropologiche di ogni via, pur con gli eccessi o le trascuratezze che opere monumentali possono comportare.
Come ricorda Nando Romano, che ne vergò la prefazione, «egli li esamina
tutti a partire dai primi elenchi comunali a noi noti: si tratta di due liste, la seconda,
del Gennaio 1820, aggiorna la prima del Dicembre 1810. Non manca poi di seguire,
sempre fra i documenti dell’Archivio di Stato di Foggia, la vicenda della ‘nomenclatura’ delle vie e della numerazione degli ingressi delle case fatta in prima istanza
dall’arch. Antonio Zammarano e poi dal di lui figlio Giuseppe e dal capomastro
Raffaele Severo, attraverso dati archivistici pur già noti ma che valeva la pena esaminare nel dettaglio. Lo Studioso ha quindi preso in esame l’elenco toponomastico
che emerge dalla carta del Mongelli, del 1839, che insieme ai miei allievi del locale
Istituto per geometri, ebbi ad indicare, nel lontano 1980, come tratto fondamentale
nel processo di formazione della toponomastica moderna della Città».
Molti foggiani hanno conosciuto il prof. Spirito in occasione della pubblicazione del suo libro “…Ieri, Foggia…: la storia nella fotografia”, edito nel 1981 a cura
dell’Amministrazione Provinciale di Foggia, che conteneva una bellissima selezione
della sua preziosa raccolta fotografica, un libro che meriterebbe la ristampa. In quel
volume, l’autore metteva a disposizione di tutti la sua ricca collezione di cartoline e
di fotografie rare. Ma proprio questa sua generosità è stata spesso contraccambiata ora col “saccheggio” del suo archivio ora con la mancata citazione o il semplice
doveroso ringraziamento da parte di coloro i quali, attraverso la sua disponibilità,
fruivano gratuitamente di un servizio o di una preziosa collaborazione.
Nonostante la maggior parte dei ricercatori locali che si rivolgevano a lui si
sia comportata in maniera scorretta – e di ciò Spirito si rammaricava, stupendosi
di come si potesse arrivare a tanto –, resterà indelebile il suo segno e l’importanza
del suo archivio che, alla sua morte, sono passati – unitamente a diverse centinaia
di volumi e documenti della sua biblioteca personale – in lascito alla Biblioteca
dei Cappuccini presso la Parrocchia dell’Immacolata di Foggia e, in buona parte,
anche all’Archivio di Stato del capoluogo.
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Gaetano Spirito tra passione civile e tensione morale
Il giornalista Geppe Inserra ricorda di Gaetano Spirito “il suo amore verso la
nostra città e verso la nostra terra, il suo rigoroso impegno di studioso, corroborato
da una rara passione civile e da una grande tensione morale. Ci lascia una bella eredità e un grande esempio. Di questa passione, di questa tensione la città ha ancora
bisogno, in uno dei momenti più difficili della sua storia”.
Alla passione per la ricerca storica, aveva unito anche quella per l’arte dello
sbalzo su rame, tanto che realizzò diverse opere con le quali prese parte a rassegne
organizzate in provincia e in Italia, ottenendo lusinghieri giudizi.
270
Michele dell’Anno
Gaetano Spirito, la storia nella fotografia
di Michele dell’Anno(*)1
La fotografia come ricerca, conservazione e diffusione del patrimonio artistico e culturale.
È questa la migliore definizione che possiamo attribuire all’opera di educatore ed insegnante compiuta da Gaetano Spirito.
Originario di Monte S.Angelo, ma foggiano di adozione, Gaetano ha il merito di aver usato come pochi nel nostro territorio la fotografia quale elemento
centrale per la ricostruzione storiografica del passato. Se tanta parte degli eventi
della nostra città e del nostro territorio non è caduta nell’oblio lo si deve alla sua
felice intuizione di raccoglitore puntiglioso del patrimonio culturale di un passato
prossimo.
Le sue immagini, le sue collezioni di cartoline, hanno conservato meglio di
qualunque altro documento la realtà di molti quartieri e costumi ormai distrutti,
sia dagli eventi bellici, che dall’incuria degli uomini.
L’ho incontrato nel 1988, nel suo studio ricco di ritagli di giornali, foto, immagini… e lui che raccontava dove aveva trovato ogni cosa, ricordando particolari
e aneddoti. Lo ritrovo nel capitolo del suo libro “Foggia e l’antico convento dei
Cappuccini” in cui parla dei terrazzani e dei crocesi, riuscendo a trasferirci, sempre
con la sua predilezione per le immagini, la visione del corteo nuziale, con tanto di
personaggi descritti meticolosamente nei costumi e nei gesti.
Insomma dei racconti che sembrano foto o meglio film. Un narratore per
immagini, un regista di una Foggia da docufilm, si direbbe oggi, e quindi un divulgatore moderno, efficace e coinvolgente.
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Pasquale di Cicco
All’amico Gaetano Spirito
di Pasquale di Cicco
Questo mio ricordo di Gaetano Spirito vuole essere una testimonianza non
sullo studioso - ad esso accennerò appena, sapendo che altri ne dirà - quanto piuttosto su qualche suo lato umano.
Ebbi modo di conoscerlo molti anni fa, quando venne nel mio ufficio per
chiedermi se fossi in grado di segnalargli la fonte di un antico stemma di Foggia, da
lui posseduto in copia. Poi nacque un’amicizia.
Già insegnante, aveva molteplici curiosità ed interessi, che spaziavano dalla ricerca storica, specie quella d’ambito foggiano, alla filatelia, alla numismatica,
all’araldica, alla toponomastica, alla fotografia, risultando anche dotato di una notevole manualità che gli consentiva, fra l’altro, l’allestimento di accurate rilegature
di libri e la confezione di ben fatte cartelle.
Ricercatore e raccoglitore infaticabile, catalogatore paziente ed ordinatissimo dei frutti delle sue ricerche e delle sue tante acquisizioni, rimaneva sempre attento ed impegnato a procurare gli strumenti per un facile uso delle stesse mediante
minuziose segnalazioni, schedature, repertori, rinvii.
Giustamente geloso delle sue raccolte, spesso però, con grande liberalità, ne
concedeva l’utilizzo a qualche richiedente, e sono molti gli studiosi che in varia
misura ne hanno beneficiato. E qualche volta si rammaricava che taluno di questi,
ricevuto il favore e pubblicato il proprio lavoro, ometteva di mostrarsi riconoscente con una doverosa menzione del contributo da lui offerto o, peggio, di restituire
quanto ricevuto in prestito, e che talaltro aveva addirittura approfittato della sua
disponibilità per sottrargli qualche volume od opuscolo o manifesto.
Amico affezionatissimo di don Michele Di Gioia, sacerdote e storico della
Chiesa foggiana, dopo la scomparsa dello stesso, mi propose di prendere con lui
l’iniziativa perché la città gli intitolasse una strada; fui naturalmente d’accordo, e le
nostre firme divennero le prime due di quelle apposte in calce alla richiesta allora
inoltrata al sindaco del tempo.
Ed ugualmente molto amico di Gennaro Arbore, in un rapporto annoso e
solido, anche se talvolta turbato e quasi litigioso, quando i due studiosi si interessavano delle stesse ricerche storiche. Così, ad es., nel caso di quella per Fiorello La
273
All’amico Gaetano Spirito
Guardia, il famoso sindaco di New York, di origini italiane, rivendicando ambedue
la titolarità della scoperta di alcuni inediti dati biografici.
Ricco di amor proprio, ognora rispettoso degli altri, non ammetteva la mancanza di rispetto nei suoi riguardi, e sul punto non transigeva. Da qui la decisione
di revocare la precedente donazione della sua notevole raccolta extralibraria, che
ufficialmente aveva già avuto per destinatario un importante istituto; e di qui la rinunzia ad una ultima e prossima pubblicazione, per la quale si era già molto speso,
incentrata su un diario delle vicissitudini di un foggiano al tempo della guerra del
’40.
Negli ultimi anni l’odioso, traumatico impoverimento fisico, e la forzata immobilità conseguente, ancor più incisivamente dei mali connessi all’età avanzata,
gli impedirono in breve tempo di continuare a coltivare gran parte dei suoi antichi
interessi, prima di sottrarlo dolorosamente ai familiari ed agli amici.
274
Michele Ferri
Per ricordare Gaetano Spirito
di Michele Ferri
Qualcuno mi suggerì di rivolgermi a Gaetano Spirito per avere informazioni
per le mie ricerche sull’antica tipografia Flaman di Monte Sant’Angelo. Gli telefonai spiegandogli il motivo della mia visita e fu subito disponibile a ricevermi. In
occasione del nostro primo incontro mi chiese che cosa facessi e mi rivolse qualche
domanda sulla mia famiglia. Appena seppe che mio padre, Antonio, era nato anche
lui a Monte Sant’Angelo, tornò con la mente indietro nel tempo e ricordò di averlo
conosciuto e che avevano frequentato le scuole elementari insieme. Mio padre era
di qualche anno appena più grande di lui, ma per un breve periodo avevano fatto
parte della stessa scolaresca e mi spiegò che talvolta a un solo insegnante erano affidati alunni di classi diverse. Poi, si sovvenne di una marachella di mio padre che,
ci tenne a sottolineare, fu prontamente punita dal maestro. Me ne parlò in modo
particolareggiato; a distanza di circa ottant’anni il curioso episodio era ancora nitido nella sua memoria.
Mi prese in simpatia, assunse un tono confidenziale, accese un’altra sigaretta
(notai che era un accanito fumatore), mi domandò se desiderassi qualcosa da bere
e chiamò il suo collaboratore, un bulgaro, se non ricordo male. Gaetano Spirito
era ormai infermo, avendo subito l’amputazione di una gamba, e aveva bisogno di
qualcuno che l’assistesse giorno e notte. Poi gli riparlai della mia ricerca sulle tipografie della Capitanata e gli domandai se potesse darmi qualche notizia di Michele
Flaman, titolare, come ho già detto, della prima tipografia di Monte Sant’Angelo,
e lui, senza rispondermi, mi chiese di porgergli un particolare faldone tra i tanti
che erano allineati in uno degli scaffali che ricoprivano le pareti del suo studiolo.
Lo aprì e ne tirò fuori un foglietto su cui era scritto: “Michele Flaman, insegnante
elementare, titolare di una tipografia a Monte Sant’Angelo, impiantata verso la fine
dell’Ottocento; suo figlio, che si chiamava Francesco come il nonno, era emigrato
in America nei primi decenni del Novecento.” Poi tirò fuori da una cartellina qualcosa che somigliava a un documento d’identità, un cartoncino con una immagine
leggermente sbiadita, era il ritratto del padre di Michele, “Francesco Flaman di
Angelo, nato a Trapani a dì 25 Maggio 1826.” Chiamò nuovamente il suo collaboratore e gli chiese di farmi una fotocopia del ritratto. Da un altro suo appunto si
ricavava che l’insegnante Michele Flaman era probabilmente morto nel 1925...
275
Per ricordare Gaetano Spirito
Potei leggere nel suo volto, un viso scarno, occhi dallo sguardo intenso e severo che a tratti si illuminavano, la sua gioia nel potermi essere di aiuto. “Ora – mi
ordinò – metti al suo posto questo faldone e prendimi quell’altro, quello in alto a
destra, appoggialo sul tavolo...” Ne estrasse uno stampato contenente un Inno in
morte di Giuseppe Garibaldi: 2 giugno 1882 sottoscritto da Michele Flaman maestro normale e in basso, a sinistra, erano riportati luogo e data di pubblicazione:
Monte S. Angelo, Giugno 1882. E anche di questo documento mi fece avere una
fotocopia.
Chissà, ci chiedemmo, se quel volantino fosse stato stampato dallo stesso
Michele Flaman nella sua tipografia. Un’ipotesi suggestiva, una questione che
tuttora è per me di estremo interesse, in quanto, se trovasse conferma, sarebbe
possibile retrodatare di circa otto anni l’impianto della prima tipografia a Monte
Sant’Angelo. Detto per inciso, la sua produzione a stampa finora documentata
risale al 1890.
Da un altro faldone venne fuori un manifesto, stampato dalla tipografia Flaman nell’ottobre del 1899, che annunciava la celebrazione della festività di Sant’Antonio Abate in Monte Sant’Angelo nella ricorrenza, come era riportato nello stesso
manifesto, del primo centenario della fondazione della Confraternita omonima.
Nel corso della visita successiva mi fece dono di qualcuna delle sue pubblicazioni, La storia di Foggia attraverso la toponomastica e la sua ricerca sui monumenti a Giuseppe Rosati nella villa comunale di Foggia. Gli chiesi il permesso
di esaminare i suoi libri, alcuni dei quali mi sembravano piuttosto rari, al fine di
compilarne le schede bibliografiche e inserirle nel repertorio, che stavo man mano
compilando, degli annali tipografici della provincia di Capitanata. Una gran parte
della sua biblioteca, cioè un migliaio di titoli (tra libri, opuscoli, riviste e periodici) era stata, qualche tempo prima, donata all’Archivio di Stato di Foggia e tutto
quello che ne rimaneva, alcune centinaia di libri, opuscoli e periodici, sarebbe stato
conferito, insieme con il suo archivio, dopo la sua morte, alla Biblioteca provinciale dei Cappuccini di Foggia.
Mentre compilavo le schede del materiale librario, mi parlava di personaggi
ed eventi di Foggia e provincia e, come spesso accadeva quando andavo a trovarlo,
tirava fuori dai faldoni del suo archivio immagini, documenti e appunti... “Guarda questa fotografia, mi disse in un’occasione, fu scattata dopo l’incendio di una
tipografia, o di una libreria, foggiana... Potrebbe risalire alla fine dell’Ottocento o
all’inizio del Novecento... Se ti interessa, posso fartene avere una copia...”
Di tanto in tanto, quando ero a Foggia, passavo a fargli visita e talvolta gli
telefonavo. Quando nessuno rispondeva al telefono, chiedevo notizie al dottor
Pasquale di Cicco, che spesso andava a trovarlo a casa o in ospedale quando era
ricoverato.
Circa due anni fa la sezione foggiana della Società di Storia patria per la
Puglia organizzò un convegno con una mostra bibliografica e documentaria per
276
Michele Ferri
ricordare Vincenzo Lanza a 150 anni dalla morte e mi fu chiesto di rivolgermi a
Gaetano Spirito per reperire del materiale iconografico. Anche in quell’occasione
egli fu prontamente disponibile e mi affidò alcune rare cartoline illustrate con il
monumento a Vincenzo Lanza ubicato nell’odierna piazza Umberto Giordano.
Ero sbalordito della sua memoria e della meticolosità con cui aveva ordinato
il suo archivio, che consiste di decine di contenitori pieni di documenti, ritagli di
giornali, piante topografiche, appunti manoscritti e dattiloscritti, illustrazioni, disegni e fotografie. Grazie alle sue ricerche egli ha raccolto i dispersi fili del passato
intrecciandoli pazientemente in modo da tessere la tela della memoria e, al pari di
ogni bravo archivista, ha ordinato, classificato, catalogato i documenti ritrovati e
infine ha messo a disposizione degli studiosi i risultati del suo lavoro.
Era particolarmente fiero della sua raccolta intitolata Immagini e testimonianze di vita e cultura foggiana, che, secondo le sue volontà, è attualmente custodita presso il Convento dell’Immacolata: un trenta faldoni, ognuno dei quali
contiene un centinaio di tavole illustrate, complete di negativi, per un totale di oltre
tremilacinquecento riproduzioni. La raccolta comprende, inoltre, indici e guide
per la consultazione, errata corrige e aggiornamenti fino all’anno 2008. E ogni volume è corredato di una versione digitale su CDRom.
Di grande interesse è la sezione archivistica riguardante il periodo che va
dall’estate del 1943 al 1946 (riguardante i bombardamenti, le distruzioni, la rinascita civile, la difficile ricostruzione), che è stata più volte utilizzata per mostre e per
pubblicazioni. Si possono citare la mostra documentaria Foggia e la Capitanata
dall’8 settembre al 25 aprile, organizzata dall’Archivio di Stato di Foggia, dalla
Fondazione Istituto “Gramsci” - Sezione di Foggia e dalla Provincia di Foggia e
la monografia Paesaggio storico di Capitanata: l’estate del 1943 a Foggia: da una
collezione di Gaetano Spirito, a cura di Lucio Masullo.
Senza venir meno ai suoi doveri di scrupoloso educatore (aveva insegnato
prima a Carlantino e in altri Comuni del Subappennino, successivamente a Orta
Nova, a Troia, a Foggia) e di genitore, Gaetano Spirito aveva anche coltivato i suoi
molteplici interessi culturali: numismatica, filatelia, cartoline illustrate, araldica,
fotografia, toponomastica, le sue ricerche archivistiche e ricostruzioni di uomini
e fatti della sua terra.
Due esempi della sua devozione alla città di Foggia, dove risiedeva dalla fine
degli anni ‘50, sono eloquentemente rappresentati dalle sue monografie: ... Ieri,
Foggia... La storia nella fotografia e La storia di Foggia attraverso la toponomastica.
Nella prima, apparsa nel 1981, sono presenti 130 tavole, ognuna delle quali
è accompagnata da una didascalia e da una succinta notizia storica; è sufficiente il
loro elenco a suscitare curiosità e interesse: Lavori del tronco ferroviario: Foggia Castellamare Adriatica; Per il tronco ferroviario: Foggia - Ancona; per Barletta e
per Bovino; I Borboni per il tronco ferroviario Foggia - Castellamare Adriatica; La
277
Per ricordare Gaetano Spirito
Locomotiva... e 40 buoi; Eroismo di ferrovieri; Molini «Rocco & La Capria»... Nella sua prefazione il canonico don Michele di Gioia osservava: “Non so se lodare di
più, nel caro amico Spirito, il suo attaccamento alla nostra città o la sua passione nel
raccogliere tante immagini e notizie riguardanti Foggia di ieri e di oggi. Nativo di
Montesantangelo e inserito nella cittadinanza di Foggia, Gaetano Spirito, indotto
forse dalle esigenze della sua missione di insegnante e di educatore, molto probabilmente, e quasi inconsciamente, si è dato alla ricerca e allo studio di quelle che
furono un tempo le cose della nostra città, parlando di Foggia, della «nostra» città
come se ne fosse cittadino dalla nascita. Premesso un panoramico quadro della
storia della città, egli ci fa passare sotto gli occhi, come in una serie di diapositive,
gli edifici, i monumenti, le piazze, le vie e tante cose che il logorio del tempo, il capriccio e l’incompetenza degli uomini hanno distrutto o inconsultamente alterato,
onde oggi si mostrano con nostalgico rimpianto e si espongono quasi a pubblica
deplorazione.”
La seconda monografia, pubblicata nel 1998, costituisce un eloquente saggio
del suo minuzioso lavoro di ricerca intorno alla toponomastica (e alla struttura
urbana) della città di Foggia. Di ogni toponimo è addirittura accertato l’anno dal
quale è presente; inoltre, i diversi toponimi, derivanti da nomi di personaggi e famiglie o derivanti da eventi storici, da riti ecclesiastici, da mestieri, da nomi di città,
paesi e contrade rurali, da attività economiche, etc., sono corredati da essenziali
annotazioni esplicative, cosicché il volume finisce con l’assumere il carattere di una
vera e propria enciclopedia e di repertorio di personaggi illustri.
Gaetano Spirito non smise mai di rivedere i suoi appunti, di controllare un
dato o una notizia, di imparare qualcosa di nuovo. Nonostante la sua grave infermità, si riprometteva, fino a qualche anno fa, di riprendere e completare qualcuno
dei suoi progetti, dei quali aveva da tempo ordinato le carte. Poi subì l’amputazione dell’altra gamba e a quel punto, forse, si diede per vinto, ma rimase lucido e
sereno fino agli ultimi giorni, continuando a dare prova della sua stoica capacità di
sopportare le sofferenze della vita e le ingiurie del tempo.
278
Michele Ferri
BIBLIOGRAFIE DI GAETANO SPIRITO
- Dal Passo Orta a Orta Nova. Cenni storici
Foggia, Tipolitografia Leone, 1967
130 pp.; ill.; 23 cm.
- Foggia e l’antico Convento dei Cappuccini nella storia e nella tradizione.
In appendice: La Rivolta del 1647/48 e Sabato Pastore detto “il Masaniello di Foggia”
S. l. [Foggia], s. n. t. [Gercap], s. d. [1986]
176 pp.; ill.; 22 cm.
- ... Ieri Foggia... La storia nella fotografia
Foggia, Amministrazione provinciale di Capitanata, Tip. Adriatica, 1981
300, [9] pp.; ill.; 130 tav.; 24 cm.
- La storia di Foggia attraverso la toponomastica
Prefazione di Nando Romano
Foggia, Bastogi Editrice Italiana, Edistampa, 1998
315 pp.; ill.; [12] tav. f. t.; [1] c. rip.; 23 cm.
- I tre monumenti a Giuseppe Rosati nella Villa Comunale di Foggia
Foggia, Edizioni Centrografico Francescano, 1999
[15] pp.; ill.; [8] tav.; 21 cm.
COLLABORAZIONI
Carlo VILLANI
Vocabolario domestico del dialetto foggiano
Edizione curata da Carmine de Leo
Poesie e ricordi di Antonio Lepore
Fotografie di Gaetano Spirito
Foggia, Editrice L’Ulivo, Tipolitografia Grafilandia, 1993
[contiene 43 fotografie e immagini]
Lucio MASULLO (a cura di)
Paesaggio storico di Capitanata: l’estate del 1943 a Foggia: da una collezione di
Gaetano Spirito
Foggia - Roma, Grafiche Gercap, 2003
[contiene 80 fotografie e immagini]
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Loris Castriota Skanderbegh
Il mio ricordo di Gaetano Spirito
di Loris Castriota Skanderbegh
Ci divideva più d’una generazione, ma ci univa la sana passione per la storia
di Foggia. Ho conosciuto Gaetano Spirito proprio grazie a questa comune “mania”
che inevitabilmente, prima o poi, fa incrociare le strade di chi si dedica alle ricerche
d’archivio sul passato del capoluogo. A casa sua mi aveva portato il comune amico
Gennarino Arbore, con il quale Spirito, a volte, si impegnava in surreali discussioni
sulla validità di questa o quell’altra testi: vulcanico e veemente il primo, flemmatico ma non meno determinato il secondo, si confrontavano con ritmi diversi e a
volte restavano ciascuno della propria idea. Spirito aveva contribuito ad alimentare
la mia passione, con la sua grande determinazione, con la voglia di continuare le
sue ricerche e di svelare piccoli “misteri” incontrati spulciando arte o recuperando
immagini d’epoca nonostante il fisico e le energie non fossero più quelli di una
volta.
Ma, in ossequio al nome, lo spirito era sempre quello di una volta. Aveva
migliaia di foto della Foggia che fu, Gaetano Spirito: documenti preziosi per ricordare scorci scomparsi della città, ma anche modi di abbigliarsi, mestieri, mezzi
di locomozione, persino abitudini di vita quotidiana, feste ed eventi. Aveva catalogato tutto e messo su carta tanti appunti provenienti dalla sua prodigiosa memoria: pur avendolo conosciuto in età avanzata – e già “aggredito” dalla malattia che pian piano l’ha portato alla tomba – aveva una grande lucidità e, pur con
qualche incertezza e talvolta lentamente, ricordava persone e avvenimenti lontani
nel tempo. Aveva pubblicato contributi importanti alle “microstorie” di Foggia:
testi utili per una “infarinatura” preziosa di conoscenza, densi di piccoli particolari
che tantissimi ignorano e che qualcuno dei più anziani ha anche dimenticato. Particolarmente significativi, a mio parere, “Ieri Foggia... la storia nella fotografia”, che
pubblicò nel 1981, e “La storia di Foggia attraverso la toponomastica” del 1998. Libri indispensabili a chi vuole farsi un’idea della vita passata di Foggia partendo dai
particolari, per desumere visioni più generali. Aveva solo un rammarico, Spirito:
dei tanti ricercatori locali che andavano a consultarlo, chiedendogli chiarimenti su
un dato argomento o foto per corredare le proprie pubblicazioni, solo pochi hanno avuto la correttezza di citare il suo aiuto e di ringraziarlo. Ma la riconoscenza,
si sa, è dote rara in questo mondo.
281
Il mio ricordo di Gaetano Spirito
Ho anche difficoltà a recuperare un’immagine di Gaetano: tentai di intervistarlo in una delle ultime apparizioni in pubblico, in occasione di una mostra
fotografica sui bombardamenti di Foggia tenuta a Palazzo Dogana, cui aveva contribuito, con il solito altruismo, prestando decine delle foto che aveva raccolto con
pazienza, in anni di instancabile attività. Per me, era il giusto tributo ad un uomo
che tanti meriti ha avuto e tanto ha fatto per favorire la divulgazione sulla storia di
Foggia, ma lui era schivo e non amava comparire. Si schermì e disse che preferiva
di no. Rispettai la sua riservatezza. Oggi, però, me ne pento: sarebbe rimasto un
documento in più, su Gaetano Spirito, la sua viva voce a testimoniare quanto è
bello dedicare la propria vita alla scoperta del passato, delle proprie radici, per poi
trasmettere con generosità le proprie scoperte agli altri.
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Recensioni
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Michele Ferri
Michele De Filippo. Oglio di cranio umano. Magia,
medicina e religiosità nella tradizione popolare garganica*
di Michele Ferri
Se si scorre l’elenco delle fonti orali documentarie utilizzate nel lavoro di
Michele De Filippo, dall’inquietante titolo Oglio di cranio umano, ci si accorge
che alcune di queste fonti risalgono agli anni Ottanta e in qualche caso ai primi
anni Settanta del Novecento. Ciò dimostra la lunga e faticosa gestazione di una
ricerca di questo genere, poiché, come afferma lo stesso autore nell’introduzione, i
materiali raccolti, specie quelli attinenti ai rimedi magico-religiosi, alle formule e ai
rituali della magia nera (malocchio, fattura, evocazione demoniaca) erano davvero
“difficili da documentare e ancor più da registrare” per le remore degli informatori
intervistati, ossia “per il blocco psicologico di chiusura contro cui questi devono
combattere per potersi aprire e per il timore che un tale atto di trasgressione può
comportare.” Non a caso, Anna Maria Tripputi, nella sua Presentazione, definisce
l’intento dell’autore “coraggioso e arduo”.
Oglio di cranio umano, oltre al gran numero di documenti, ha un pregevole
corredo fotografico, con immagini nel testo e molte altre in bianco e nero o a colori
fuori testo su tavole di carta patinata, illustranti amuleti e altri simboli apotropaici,
gli strumenti impiegati nei diversi rituali magici, fasi e momenti di processioni religiose. Vi sono, infine, le riproduzioni delle principali piante utilizzate nella farmacopea tradizionale per la cura di malattie e disturbi a carico di vari organi.
Un altro aspetto da mettere in evidenza è il ricco apparato bibliografico,
che occupa otto pagine nella parte finale del libro e che offre, anche attraverso le
note conclusive di ogni capitolo, precisi riferimenti su ogni singolo argomento per
riscontri ed eventuali approfondimenti.
D’altronde, il professor Michele De Filippo non è nuovo allo studio delle
tradizioni popolari e alcuni dei temi trattati nel libro odierno sono presenti, almeno in parte, nei suoi precedenti lavori. Mi riferisco, in particolare, al secondo
volume di Società e folclore sul Gargano, pubblicato nel 1989, in cui un capitolo era
*
Foggia, Claudio Grenzi Editore (Terzo millennio - Collana di studi della Provincia di Foggia), 2010, 458
pp.; ill.; tavv.; 24 cm.
285
Michele De Filippo. Oglio di cranio umano. Magia, medicina e religiosità nella tradizione popolare garganica
dedicato alla magia e ai riti propiziatori. Inoltre, fin dal 1972 apparve un suo contributo sui canti popolari di Monte Sant’Angelo nel primo quaderno del Centro di
Studi garganici, cui collaborarono anche altri studiosi.
Del tutto nuovo è, invece, l’ambito della ricerca sul campo nelle diverse aree
garganiche; non più solo a Monte Sant’Angelo, Manfredonia e Mattinata, luoghi
in cui l’autore ha risieduto e risiede, ma anche negli altri Comuni, come si rileva
dall’elenco delle fonti orali cui ha attinto per documentare la ricerca e corredarla di
formule augurali e propiziatorie, scongiuri, preghiere e invocazioni.
Il libro investe contemporaneamente più argomenti, come suggerisce il suo
sottotitolo: magia, medicina e religiosità nella tradizione popolare garganica; il lettore è, quindi, sollecitato da una pluralità di tematiche richiedenti riflessione e approfondimento. Al centro della ricerca mi pare che si possa collocare il tema della
malattia, la malattia fisica e quella psichica, secondo la distinzione tradizionale,
intesa come quello stato che provoca negli esseri viventi un’alterazione dell’equilibrio psico-fisico e una compromissione più o meno grave delle funzioni vitali.
L’autore introduce il tema della malattia all’inizio del terzo capitolo e non
manca di sottolineare il terribile impatto che essa solitamente aveva quando colpiva
un componente della famiglia, poiché sconvolgeva e metteva in crisi l’intero nucleo
familiare e, ricorda l’autore, talvolta la malattia era attribuita a “una sorta di punizione divina per i peccati commessi dal singolo o dalla collettività” e altre volte ancora
si riteneva che fosse stata provocata da malefici di origine umana (il malocchio, una
maledizione, una fattura). Nel primo caso, il rimedio poteva essere quello di espiare
le proprie colpe attraverso la confessione e i comuni atti penitenziali e, in alternativa
o in aggiunta, attraverso la partecipazione a processioni, novene, pellegrinaggi. Nel
secondo caso, ci si sottoponeva anche ai riti della bassa magia cerimoniale.
L’autore afferma che il ricorso alla medicina ufficiale era sporadico e che
era previsto solo per patologie gravi di natura organica. Negli altri casi, quindi,
l’ammalato e la sua famiglia facevano ricorso alla medicina popolare, che ovviamente non consisteva solo di pratiche e rimedi magico-religiosi; vi era anche l’uso
di piante medicinali, che non ha nulla di magico. A questo proposito, va fatta una
netta distinzione tra le ricette della medicina popolare che prevedono l’impiego
di piante officinali aventi proprietà terapeutiche e i rimedi magico-religiosi propri
della magia cerimoniale.
Prima di entrare nel vivo della sua ricerca, l’autore delinea una descrizione
fisica della montagna garganica, di cui è messo in risalto l’isolamento geografico,
dovuto alla sua particolare orografia, caratterizzata da enormi gradinate a strapiombo, specie nella sua parte meridionale, e dal persistere, almeno fino agli anni
Trenta del Novecento, di vaste zone paludose e malariche soprattutto a Sud e a
Ovest. Se a ciò si aggiungono le difficoltà nei collegamenti, anche per la mancanza
di strade, si comprende come il Gargano si presentasse, fino al recente passato,
come una vera e propria isola tra il mare e la piana del Tavoliere.
286
Michele Ferri
L’isolamento geografico del promontorio garganico, insieme con varie cause
storiche, politiche, economiche e sociali, ha determinato condizioni di immobilismo sociale e di arretratezza culturale.
Il Gargano si presentava, fino al Sette Ottocento, estremamente frammentato quanto alla natura della proprietà fondiaria ed era composto, come osserva l’autore, “di limitate proprietà allodiali, di difese e parchi di vaste proporzioni, di una
consistente proprietà ecclesiastica e di feudi di grandi, medie e piccole casate.”
Nel Gargano, tranne Manfredonia e Vieste, che erano università con giurisdizione regia, tutte le altre erano soggette alla giurisdizione baronale e questi
feudatari - come si richiama nel libro - erano pronti a imporre gabelle e limitazioni
di ogni tipo, che erano lesive degli interessi delle università e perfino delle prerogative regie. Anche il governo centrale, d’altro canto, era vessatorio nei riguardi delle
università, sui bilanci delle quali spesso gravavano i “donativi” imposti a favore
della famiglia reale in alcune speciali ricorrenze o esose rate di ammortamento dei
debiti contratti dal governo del Re o le spese per il mantenimento delle truppe regie
dislocate nel territorio comunale.
La popolazione era di fatto esclusa dalla rappresentanza politica o amministrativa, dal momento che “la gestione del potere locale era nelle mani delle poche
famiglie nobili, per lo più legate da vincoli di parentela, che si avvicendavano nelle
cariche comunali più importanti”.
Al fine di illustrare le condizioni di precarietà in cui vivevano le popolazioni
garganiche, l’autore cita una pagina di Giuseppe Maria Galanti, che voglio qui riportare: «Oltre le decime feudali, deve il contadino pagare le decime ecclesiastiche,
cosicché appena per lui rimane la metà del suo ricolto. Qui non finiscono gli aggravi: altri ve ne sono che interamente l’assorbiscono. Egli deve pagare i pesi dello
stato, con tasse arbitrarie sopra i beni e sopra la persona. Deve alimentare i monaci
mendicanti, che anch’essi partecipano di quel pane che deve somministrare ai suoi
figli [...]. Egli deve dar da vivere a molti esseri che non lavorano, al governatore,
all’assessore, all’agente del feudo, al suo dottore. Il suo destino è di essere sempre
oppresso e ingannato».1
La ripartizione delle terre demaniali ed ex feudali o di quelle provenienti
dalle soppressioni delle opere pie e dei conventi, nel decennio francese e nel periodo postunitario, non andò mai a vantaggio della popolazione contadina, ma favorì
sempre gli interessi degli ex feudatari o del ceto borghese, e perfino la liquidazione
del demanio della Dogana delle pecore si risolse nell’acquisizione di vaste proprietà da parte dei locati abruzzesi, proprietari delle greggi che venivano a svernare
nelle pianure del Tavoliere e negli altipiani del Gargano.
Anche nel periodo postunitario disoccupazione, miseria, carenze alimentari,
1
G. M. GALANTI, Descrizione dello stato antico ed attuale del Contado di Molise con un saggio storico sopra
la costituzione del Regno, Napoli, Società Letteraria e Tipografica 1781.
287
Michele De Filippo. Oglio di cranio umano. Magia, medicina e religiosità nella tradizione popolare garganica
assenza di servizi igienici e sanitari, gravi malattie continuarono a funestare il Gargano, al pari di altre aree depresse del Mezzogiorno e del resto del paese. La situazione peggiorò dopo il 1887, in seguito all’adozione di politiche protezionistiche a
vantaggio delle industrie del Nord e alla rottura commerciale con la Francia, verso
la quale era indirizzata una buona parte delle esportazioni agricole meridionali.
L’economista Bruno Caizzi scrisse che il protezionismo si rivelò oneroso
per i consumatori tutti e in particolare per i più poveri: «Ottenuta la protezione
industriale ed assicuratasi una posizione di incontrastato predominio economico
su tutta la penisola, il Nord offrì al Mezzogiorno il dazio sul grano. Ma poiché nel
complesso delle province meridionali solo pochi grandissimi proprietari fondiari
producevano grano in eccedenza ai bisogni domestici, di essi soltanto fu il beneficio del rialzo del prezzo del pane. E il dazio sul frumento peggiorò le condizioni
d’esistenza dei braccianti, costretti a pagare un nuovo tributo ai grandi proprietari
e peggiorò in pari tempo le condizioni di tutto il Mezzogiorno agricolo, già tenuto
a pagare tanti tributi alle industrie settentrionali».2
Bisogna però riconoscere, per amore di verità, che gli interessi industriali del
Nord trovarono un forte alleato in gran parte della classe politica meridionale, che
si distinse negativamente, oltre che per l’inconcludente retorica e il ricorrente vittimismo, per l’inconsistenza della sua attività politica e parlamentare, spesso intrisa
di personalismo, clientelismo e trasformismo, come disse, tra gli altri, Francesco
Compagna, che parlò dell’antimeridionalismo dei meridionali.3
Se nella parte introduttiva del libro l’autore si sofferma sulla realtà socioeconomica e storica del Gargano lo fa non solo per descrivere il territorio nel quale
sono nate o hanno attecchito e si sono sviluppate le tradizioni popolari costituenti
l’oggetto della ricerca, ma anche, e soprattutto, per poter stabilire un rapporto
tra ambiente socio-economico e tradizioni folcloristiche. Si pensi, per esempio, al
persistere nelle comunità garganiche, fin dall’antichità, di credenze, tabù, rituali,
formule magiche e pratiche superstiziose. Non a caso, nel secondo capitolo si parla
di paura e incertezza del domani e con ciò l’autore vuole esplicitamente suggerire
che «la miseria, la fame, le malattie, le epidemie, le guerre, i soprusi del baronato ed
il mal governo locale e centrale resero le popolazioni garganiche più insicure e disponibili a credere al soprannaturale e a manifestare la propria religiosità col porre
santini nelle fondazioni della casa, negli indumenti personali e nel corredo...»4
La parte centrale della ricerca raccoglie e passa in rassegna i rimedi della
medicina popolare, ed elenca le preparazioni terapeutiche a base di erbe, e poi i
2
B. CAIZZI, Introduzione all’Antologia della questione meridionale [1973], in Meridionalismo critico: Scritti sulla questione meridionale 1945-1973, Manduria - Bari - Roma, Piero Lacaita Editore, 1998.
3
cfr. F. COMPAGNA, Labirinto meridionale (Cultura e politica nel Mezzogiorno), Venezia, Neri Pozza Editore, 1955.
4
M. DE FILIPPO, Oglio di Cranio Umano. Magia, medicina e religiosità nella tradizione popolare garganica, Foggia, Claudio Grenzi Editore, 2010.
288
Michele Ferri
presunti rimedi ricadenti nell’ambito della magia cerimoniale usati per curare le
più disparate affezioni, dall’assenza di latte in una puerpera alla ciste sublinguale
nei bambini in tenera età, dall’erisipela (malattia infettiva e contagiosa della pelle)
all’idrofobia, da un raro disturbo psichiatrico quale la licantropia al comune mal
di pancia. Il lato inquietante di buona parte di questi rimedi consiste nel ricorso a
operatori che, a cuor leggero, mescolano il sacro con il profano, alternando a preghiere, suppliche e invocazioni religiose, la recita di scongiuri e di formule magiche
che, si riteneva, avessero il potere di produrre effetti prodigiosi e guarire, come per
incanto, il povero malcapitato.
Vi è sicuramente in questo la sopravvivenza di un pensiero magico primitivo che contemplava la possibilità di condizionare il corso degli eventi o di poter
modificare la realtà esterna ai propri voleri e desideri. La magia incantatoria,
per esempio, pretendeva (e pretende) di produrre un determinato effetto grazie
al canto o alla recitazione salmodica di formule stereotipe. La magia imitativa,
invece, si fonda sul principio simpatetico, secondo il quale il simile produce il
simile; pertanto, in periodi di siccità, il gesto dello stregone che versa acqua sul
terreno ha il fine di produrre la pioggia. In tema di malattia e medicina popolare,
si ritiene che il contatto con un corpo freddo, per esempio con una rana, avrebbe la virtù di contrastare gli stati febbrili e ripristinare la giusta temperatura nel
malato. Sia detto per inciso, per molti studiosi la pratica omeopatica si basa sul
medesimo principio.
Residui di una visione magica del reale sono presenti nelle società tribali
extraeuropee e anche, dove più dove meno, in molte comunità rurali europee (e
non solo in queste). Ma non bisogna ritenere, osservava l’antropologo Malinowski, che gli individui appartenenti a culture primitive o premoderne giungano a
confondere l’ambito della conoscenza razionale con quello della magia: «L’accensione del fuoco, l’arte di costruire canestri, la produzione di utensili di pietra, l’arte
di intrecciare corde e stuoie, la cucina e tutte le attività domestiche minori, pur
essendo estremamente importanti, non sono mai associate alla magia. Alcune di
esse diventano il centro di pratiche religiose o della mitologia, come, per esempio,
il fuoco o la cucina o gli utensili di pietra; ma la magia non è mai collegata alla loro
produzione. Il motivo di ciò è che un’abilità comune, diretta da una solida conoscenza è sufficiente per mettere l’uomo sulla strada giusta...»5
Al contrario, cito ancora Malinowski, «la magia è prevedibile e la si incontra
generalmente ogni volta che l’uomo si trova di fronte ad una lacuna incolmabile,
ad uno iato nella sua conoscenza o nei poteri di controllo concreto, e tuttavia deve
proseguire nella sua attività, ossia quando l’uomo è o, più semplicemente, si sente
5
B. MALINOWSKI, Il ruolo della magia e della religione, in D. Zadra, Sociologia della religione: testi e documenti, Milano, Hoepli, 1969 [tratto da B. Malinowski, Culture, in Encyclopaedia of the Social Sciences, vol.
IV, New York, Macmillan, 1931].
289
Michele De Filippo. Oglio di cranio umano. Magia, medicina e religiosità nella tradizione popolare garganica
abbandonato dalla sua conoscenza, disorientato dai risultati della sua esperienza,
incapace di utilizzare alcuna abilità tecnica efficace...»6
Si può spiegare così, anche nella cultura tradizionale garganica, la sopravvivenza di superstizioni e di pratiche magiche, e in particolare di rituali magicoreligiosi per la cura di malattie e malanni. Si tratta di fenomeni imputabili allo stato
d’ansia associato con la paura e l’incertezza del domani e, in una certa misura,
anche all’inesistenza, specie in tempi remoti, di strutture sanitarie e di moderne e
appropriate terapie mediche. Tuttavia, si comprende, come lo stesso Michele De
Filippo suggerisce, che il ricorso a formule e rituali magico-religiosi può solo in
parte essere giustificato con l’angoscia per l’insorgere di una malattia e per la carenza di servizi sanitari o di efficaci cure mediche.
In realtà, i pazienti che si rivolgevano al guaritore si ritenevano vittime di
sortilegi e di influenze negative e accusavano quello che l’autore definisce come
«un malessere riconducibile al malocchio e alla fattura, che si manifestava con una
condizione fisica debilitata, accompagnata da sonnolenza, spossatezza, ipocondria,
dolor di testa persistente ed insostenibile, la cui sede occupava il più delle volte la
fronte e le cavità orbitali con nausee, vertigini e vomito...».7 Il paziente è convinto
di essere vittima del malocchio, ovvero di una fascinazione, un fenomeno ben conosciuto in tutte le regioni meridionali. Ernesto De Martino, in Sud e magia, dopo
aver descritto tale stato di prostrazione, afferma quanto segue: «La fascinazione
comporta un agente fascinatore e una vittima, e quando l’agente è configurato in
forma umana, la fascinazione si determina come malocchio, cioè come influenza
maligna che procede dallo sguardo invidioso (onde il malocchio è anche chiamato
invidia), con varie sfumature che vanno dalla influenza più o meno involontaria alla
fattura deliberatamente ordita con un cerimoniale definito, e che può essere - ed è
allora particolarmente temibile - fattura a morte. L’esperienza di dominazione può
spingersi sino al punto che una personalità aberrante, e in contrasto con le norme
accettate dalla comunità, invade più o meno completamente il comportamento: il
soggetto non sarà più allora semplicemente un fascinato, ma uno spiritato, cioè un
posseduto o un ossesso, da esorcizzare».8
In questo caso, le conseguenze psicologiche di uno stato di malattia organica o comunque di una grave alterazione dell’equilibrio psico-fisico conducono a
quella che De Martino chiama la perdita della presenza, cioè una perdita parziale
o totale di identità a livello personale e comunitario. Da qui deriva la funzione
protettiva dei rituali magici nelle comunità lucane, di cui si occupò De Martino,
o nelle comunità garganiche, di cui parla Michele De Filippo. Da qui il ricorso ai
tanti mezzi di difesa preventiva, quali il cornetto o il gobbo tenuti in tasca o esibiti
6
B. MALINOWSKI, op. cit.
M. DE FILIPPO, op. cit.
8
E. DE MARTINO, Sud e magia, Milano, Feltrinelli, 1959.
7
290
Michele Ferri
come ciondoli, il ferro di cavallo sulla porta di casa, le corna di bue sul cancello della masseria o, infine, sempre con funzione apotropaica, il santino, i chiodi saldati o
legati in croce, la pietruzza prelevata dalla grotta di San Michele, etc.
Il ricorso a rituali magico-religiosi, l’impiego di strumenti apotropaici e in
genere la diffusione di tabù, credenze e pratiche superstizione segnalano la presenza di ansia e di insicurezza e indicano il persistere di immobilismo sociale e
di arretratezza culturale nella società garganica, una società che ad Eisermann e
Acquaviva era apparsa dominata dal familismo amorale, inteso come assenza di
ethos sociale, come qualcosa che antepone in ogni caso gli interessi esclusivi della propria famiglia a quelli della società, e dall’individualismo, un «atteggiamento
questo» - cito testualmente - «che si traduce in una introversione profonda, legata
ad esperienze ancestrali, al pessimismo, al sospetto, all’insicurezza vitale...»9
La prima inchiesta sociologica di Eisermann e Acquaviva partì nel 1965 e ci
si potrebbe chiedere se e in quale misura, a distanza di oltre quarant’anni, la società garganica sia oggi cambiata nei suoi caratteri culturali e nei suoi atteggiamenti sociali. Varie altre inchieste sono state condotte nell’area garganica nei decenni
successivi, in particolare nel 1978 e nel 1988, e, secondo Paola Maria Fiocco, che
condusse l’inchiesta del 1988, “certamente molte cose sono accadute nel Gargano”
e si pone lei stessa la domanda se il cambiamento intervenuto sia “significativo ai
fini della valutazione di alcuni punti chiave del comportamento morale” chiedendosi, inoltre, quali novità si fossero verificate nel comparto delle valutazioni dei
comportamenti sessuali e familiari e se si fosse prodotto un varco nelle pratiche superstiziose. La sua risposta è dubitativa poiché, nonostante i mutamenti che sono
intervenuti, non si avvertiva ancora un comportamento profondamente diverso
rispetto ai dati della prima inchiesta. Per esempio, al quesito “Si esercitano pratiche
superstiziose nella sua famiglia?” la percentuale delle risposte affermative date dal
campione degli intervistati passa dal 19,3 del 1965 al 15,8 del 1988, un dato questo
che sostanzialmente registra il persistere di tali pratiche.10 E non penso che siano
intervenuti sensibili miglioramenti negli ultimi decenni, riguardo al permanere di
pratiche e credenze superstiziose o di fenomeni quali il familismo e l’individualismo.
Mi siano consentite due considerazioni finali. La prima è che questi fenomeni persistono, è vero, nelle campagne e nelle tradizionali culture arretrate, ma sono
diffusi anche altrove. Scriveva, infatti, Alfonso Maria Di Nola nel 1993: «Per ritornare all’enigmatica persistenza delle superstizioni nella nostra epoca, dobbiamo
rilevare che ci troviamo ad attraversare un drammatico periodo di transizione da
una società prevalentemente fondata sull’irrazionale a una società che pretende di
9
G. EISERMANN e S. ACQUAVIVA, La montagna del sole. Sottosviluppo, mass-media e cambiamento sociale
nel Gargano, Milano, Edizioni di Comunità, 1971.
10
P. M. FIOCCO, Il Gargano. Un’inchiesta fra due millenni: 1965-2001, Milano, Franco Angeli, 1999.
291
Michele De Filippo. Oglio di cranio umano. Magia, medicina e religiosità nella tradizione popolare garganica
essersi formata secondo gli schemi della scienza e della ragione, che evidentemente
escluderebbero tali persistenze. Tuttavia, dalle ricerche condotte sul campo in Italia e in molti altri paesi europei risulta la insistente immagine di uno schizoidismo
culturale, poiché accanto alla mentalità di matrice empirica e scientifica sussiste
una mentalità che gli antropologi francesi designarono, già cinquant’anni fa, “magica”. [...] Il male irrazionale è più sottile e, ai giorni nostri, si insinua nella folla
anonima che vive nelle città e nelle campagne.»11
La seconda considerazione, e concludo, riguarda il familismo amorale e l’individualismo. Anche questi fenomeni, che ieri erano evidenti a livello macroscopico nelle aree meridionali, alimentati dal deprecato clientelismo politico, si diffondono, ormai, in nuove forme nell’intero paese, dove stenta a farsi strada l’idea del
merito quale fattore di crescita civile e di promozione sociale.
11
A. M. DI NOLA, Lo specchio e l’olio. Le superstizioni degli italiani, Roma - Bari, Laterza, 1993.
292
Paolo Iagulli
Lévi-Strauss Claude, Lezioni giapponesi.
Tre riflessioni su antropologia e modernità*
di Paolo Iagulli
Considerato il maggiore antropologo culturale del Novecento, Claude LéviStrauss è stato anche, probabilmente, il maggiore esponente dello strutturalismo,
un movimento filosofico e, più in generale, culturale che in particolare negli anni
sessanta e settanta del secolo scorso ha caratterizzato profondamente il panorama
intellettuale non solo francese, ma direi internazionale. Insieme al ‘padre’ di tale
movimento, il linguista de Saussure, allo psicoanalista Lacan, allo storico del pensiero Foucault e al filosofo Althusser, Lévi-Strauss ha infatti condiviso, pur nella
diversità delle discipline di riferimento, quella peculiare ‘aria di famiglia’ i cui elementi comuni hanno contribuito a delineare non solo, almeno in alcuni casi, una
nuova metodologia scientifica, ma anche una nuova visione del mondo. Rilevanti
correnti filosofiche come l’idealismo, la fenomenologia, l’esistenzialismo e il pragmatismo si sono, infatti, a un certo punto trovate di fronte a un’alternativa per certi
versi radicale. Basterebbe pensare allo statuto di ‘filosofia senza soggetto’ che lo
strutturalismo, in particolare di Levi-Strauss, ha finito con il rappresentare, certo
in ciò preceduta dalle riflessioni dei cd. maestri del sospetto, Marx e Freud.
Anche nella prospettiva teorica di Lévi-Strauss, infatti, il primato del soggetto viene sostituito dal primato della struttura: sono le ‘strutture inconsce’ che,
governando le società, determinano gli individui, i quali non agiscono, bensì sono
agìti dalle condizioni materiali (Marx) ovvero appunto, e in senso più stretto,
dall’inconscio, ‘privato’ (Freud) o ‘collettivo’ (Lévi-Strauss), la cui impostazione
sembra da questo punto di vista ricordare Jung più che Freud). Per studiare l’uomo
e la società, afferma l’antropologo francese, bisogna cogliere quegli elementi di cui
i soggetti non hanno consapevolezza, e che le società primitive sembrano poter
‘svelare’ meglio rispetto a quelle moderne. Lo studio delle prime appare dunque
funzionale all’analisi, e alla critica, delle seconde. Ché anzi, per Lévi-Strauss, in un
certo senso, la conoscenza antropologica diventa il baluardo alle derive della mo-
*
A cura di L. Scillitani, Rubbettino, Soveria Mannelli, 2010.
293
Lévi-Strauss C., Lezioni giapponesi. Tre riflessioni su antropologia e modernità
dernità. Le critiche da lui condotte circa le ‘presunzioni’ del modello occidentale
con la volontà di colonizzazione di quello orientale e il rapporto instauratosi tra
l’uomo e la natura (l’ambiente), ne sono solo due esempi. Sembra peraltro presente,
al riguardo, in Lévi-Strauss una certa vocazione profetica avente a oggetto la libertà umana come mera illusione (il soggetto moderno, apparentemente sempre più
libero, finisce in realtà spesso dominato dalla, e vittima della, natura) piuttosto che
quello snobismo intellettuale che pure gli è stato imputato da alcuni suoi critici.
Queste, in modo così sommario delineate, sono evidentemente solo alcune
delle caratteristiche della complessa riflessione filosofico-antropologica di LéviStrauss, puntualmente ricordate da Ugo Fabietti, ordinario di Antropologia culturale presso l’università degli Studi di Milano Bicocca in un incontro tenutosi a
Foggia martedì 12 aprile 2011 presso la Facoltà di Giurisprudenza. L’occasione è
stata la discussione del libro qui presentato, che ripropone in versione definitiva
quella che undici anni fa aveva costituito la prima (sia pure provvisoria) traduzione
in lingua occidentale di tre Lezioni che Lévi-Strauss aveva tenuto a Tokio tra il 15 e
16 aprile 1986 sui rapporti tra l’antropologia e la modernità; una traduzione, curata
già in quella prima versione da Lorenzo Scillitani, associato di Filosofia del diritto presso l’Università degli Studi del Molise, che appariva allora come adesso di
estremo rilievo, se si considera che questo importante contributo di Lévi-Strauss,
scomparso centenario un paio di anni fa, non è stato ancora pubblicato nell’originale francese.
Rinviando caldamente alla lettura del testo, ci si può qui, in conclusione, limitare a evidenziare che, se la modernità costituisce l’oggetto delle Lezioni dell’antropologo francese (L’anthropologie face aux problémes du monde moderne è il
loro titolo originario), l’attualità appare certamente la loro cifra caratterizzante.
Basti pensare, ad esempio, alle riflessioni dedicate, nella prima parte della seconda
Lezione, alla bioetica. Anche in questo caso lo studio delle società primitive può
avere, secondo Lévi-Strauss, la funzione di gettare una luce sulle società contemporanee; ebbene, in estrema sintesi, e limitandoci a un solo passaggio delle sue
argomentazioni, l’autore sottolinea come la tendenza degli antropologi, chiamati a
dire la loro insieme ad altri specialisti in sede di commissioni e organismi di vario
genere, sia quella, in virtù delle loro conoscenze evidentemente basate sulle società
primitive, di opporsi alla «fretta eccessiva di legiferare, di permettere questo e proibire quello» (p. 102 del testo). Nello specifico, qui Lévi-Strauss affronta il tema
delle tecniche di fecondazione assistita; ma certo il suggerimento degli antropologi,
che Lévi-Strauss sembra fare proprio, suona di una straordinaria saggezza, se solo
si pensa al modo cinicamente strumentale con cui il nostro Legislatore sta per affrontare i passaggi decisivi in ordine al disegno di legge sul cd. testamento biologico, che avrebbe l’effetto, così come si presenta attualmente, di vanificare, in realtà,
la volontà e il contenuto delle disposizioni di chi volesse a esso fare ricorso.
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Gli autori
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Gli autori
FEDERICA ALBANO, nata a Foggia nel 1986 e residente a Lucera.
Laureata in Filologia, Letterature e Storia presso la facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università degli studi di Foggia sviluppando una tesi in Storia della storiografia dell’età moderna.
FRANCESCO ALTAMURA è nato a Bari nel 1982. Collaboratore della Fondazione
Gramsci di Puglia, ha conseguito presso l’Università degli Studi di Bari il titolo di
dottore di ricerca in Storia dell’Europa Moderna e Contemporanea discutendo una
tesi sui sindacati fascisti dell’agricoltura in Puglia e Lucania.
LEONARDO P. AUCELLO è nato e vive a San Marco in Lamis, sul Gargano. Insegna Lettere nelle scuole superiori. Coltiva da anni la passione per la poesia dialettale con la pubblicazione di alcune raccolte di poesie in vernacolo garganico, tra cui
L’occhie mariole (Levante Editori, Bari, 2005). Ha pubblicato, inoltre, alcuni volumi
sulla cultura e la tradizione popolare del Gargano, come Il Palio delle messi (Levante
Editori, Bari, 1998); Il bracciante e il latifondista (Levante Editori, Bari, 2002. Alcuni
suoi Saggi sono apparsi su alcune riviste specializzate. Di recente ha dato alle stampe
il volume La donna dei piccioni – Racconti, incontri pubblici, testimonianze, articoli, recensioni e ricordi 2004-2007 (Edizioni Starale 3, San Marco in Lamis, 2008). È
iscritto da oltre venti anni all’Ordine dei Giornalisti-Pubblicisti con un ampio ventaglio di articoli di varia natura su riviste e giornali locali e regionali.
LORIS CASTRIOTA SKANDERBEGH. Nato a Foggia il 10.8.1964, è giornalista professionista e si occupa da sempre di Cultura e di Sport. Redattore del quotidiano
foggiano “l’Attacco” e direttore di testate giornalistiche online, è responsabile per
la comunicazione delle delegazioni foggiane del FAI e dell’Archeoclub e di diverse
società sportive, oltre che della Fondazione Banca del Monte. Si occupa di ricerche
sulla storia di Foggia, sull’araldica e sulla genealogia.
MICHELE DELL’ANNO è nato a Foggia il 29 luglio 1949. Laureato in Lettere
e Filosofia all’Università Cattolica di Milano, è docente di educazione musicale in
pensione, giornalista, scrittore e musicista.
Con la moglie Giustina Ruggiero ha fondato nel 1986 l’Associazione “Cultura e Ambiente” con lo scopo di recuperare e divulgare Storia, storie e tradizioni
popolari della Daunia. In duo, fisarmonica e voce, “raccontano” la storia di Foggia,
dalla religiosità popolare alla transumanza, ai cibi, agli usi e costumi, al ciclo delle feste dell’anno. È autore di varie pubblicazioni sugli stessi temi, e su personaggi del panorama musicale locale. Di grande valore documentale il volume “Con la scusa delle
297
Gli autori
canzonette…” (2007), dedicato al musicista ed editore foggiano Ottavio De Stefano.
Tra i volumi del passato “Cinema di Carta”, “Foggia un’antica traccia”, “Totò sui
muri”, “Saperi e sapori”. È tra i fondatori dell’Università del Crocese di Foggia.
ALESSANDRO DE TROIA, nato a Lucera nel 1988, laureato in Informatica per
il Management. Attualmente è iscritto alla Laurea Magistrale in Scienze di Internet.
Da sempre appassionato di storia, nel 2007 entra nell’associazione storico-culturale
Imperiales Friderici II di Foggia che si occupa di ricostruzione storica e archeologia
sperimentale con particolare riferimento al periodo duecentesco e svevo.
MAURIZIO DE TULLIO è nato nel 1958 in Brasile. È dipendente della Provincia
di Foggia, dal 1988; dal 2009 collabora alla realizzazione della “Meravigliosa Capitanata” per la Biblioteca Provinciale. Giornalista dal 1976, ha lavorato nei quotidiani
(“Qui Foggia” e “Quotidiano di Foggia”), nelle radio (“Radio Foggia 101”, “Teleradioerre” e “Radio Luna”) e nelle televisioni private (“Teleradioerre” e “Videosud”).
Ha fondato e diretto diverse testate (“Agorà”, “La Città Bazar”, “Exploit”, “il Controverso”, www.ilvademecum.it) e dalla fine del 2009 dirige la rivista “Diomede. Tra
passato e futuro”.
È autore dei volumi “Ralph De Palma. Storia dell’uomo più veloce del mondo
che veniva da Foggia” (2006) e “Dizionario Biografico di Capitanata - 1900-2008”
(2009) ed ha curato numerosi annuari e guide turistiche (“Vademecum della provincia di Foggia” 1995, 1996, 1998, 2000; “Tuttogargano” 1998 e 1999; “Daunia da
favola” 1995, “CapitanLibri” 2005 e “Made in Gargano” 2012). A breve uscirà la
nuova aggiornatissima e arricchita edizione del “Vademecum della provincia di Foggia”.
GIACOMO CIRSONE, nato a Cerignola (FG) nel 1982. Consegue la Laurea Specialistica di II Livello in Archeologia presso l’Università degli Studi di Roma “Tor
Vergata”. Attualmente frequenta i corsi della Scuola di Specializzazione in Beni Archeologici, presso l’Università degli Studi di Roma “La Sapienza”. Tra il 2002 ed il
2005, ha preso parte a numerose campagne di scavo e ricognizioni sul territorio con
l’Università di Foggia; ha seguito inoltre numerosi cantieri archeologici d’emergenza
nell’ambito dell’area urbana di Roma, ed in Basilicata ha diretto tra il 2008 ed il 2009
il cantiere di scavo tardomedievale nella Chiesa Madre “S. Maria Assunta” a Laurenzana (PZ). Ha pubblicato: Indagini archeologiche nella Chiesa Madre “S. Maria
Assunta in Laurenzana (PZ). Relazione di Scavo, 2010; Addendum. Intervento 2009,
2010 (on line sul sito www.archeologiamedievale.it).
GAETANO CRISTINO (Foggia, 1946). Operatore culturale e critico d’arte. Laureato in Giurisprudenza, ha lavorato per il Centro Studi Sociali della Società Umanitaria di Milano di cui è stato responsabile, negli anni Settanta, del Centro di Servizi
Culturali di Foggia. È stato poi responsabile, sempre a Foggia, di uno dei Centri
298
Gli autori
di Servizio e Programmazione Culturale della Regione Puglia. Per questo Ente ha
diretto, dal 1994 al 2005, l’Ufficio provinciale di Foggia del Settore Pubblica Istruzione. Ha fatto parte del Comitato Tecnico Scientifico per la valutazione delle opere
d’arte dell’Amministrazione Provinciale di Foggia. Accanto all’attività di promozione culturale e sociale ha sempre svolto attività pubblicistica su quotidiani e periodici.
È autore di numerosi saggi e monografie dedicati prevalentemente ad importanti
artisti italiani contemporanei di area meridionale. Ha curato molte mostre e rassegne
d’arte ed ha realizzato il percorso espositivo della Galleria provinciale d’arte moderna e contemporanea di Foggia, di cui è stato anche consulente scientifico. Suoi scritti
sono apparsi su importanti riviste d’arte contemporanea, tra cui “Cahiers d’art”,
“World of Art”, “Segno”, “Arte e Carte”. Ha curato per molti anni una rubrica
di segnalazioni librarie sulla rivista “Sudest quaderni”. Cura con Guido Pensato il
“Fondo Alfredo Bortoluzzi” della Fondazione Banca del Monte di Foggia. Fa parte
dell’Associazione “Spazio 55” per l’arte contemporanea.
PASQUALE DI CICCO (Maddaloni, 1930) ha diretto l’Archivio di Stato di Foggia
e la sezione di Archivio di Stato di Lucera dal 1959 al 1994.
È autore di molte pubblicazioni. Tra i suoi ultimi lavori: Il Molise e la transumanza; La Reale Società Economica di Capitanata (con Isabella di Cicco); I Consigli
provinciali e distrettuali di Capitanata (con Tiziana di Cicco); Il Giornale Patrio
Villani (1801-1860); Gli statuti inediti dei Provenzali di Volturara; Documenti di
interesse molisano nell’Archivio di Stato di Foggia. Gli atti della Suddelegazione dei
Cambi (secc. XVIII-XIX).
MICHELE FERRI, nato a Manfredonia nel 1950, è laureato in Lingue e letterature
straniere moderne. Insegna lingua e civiltà inglese al Liceo scientifico statale “Galilei”
di Manfredonia ed è stato docente a contratto per l’insegnamento di Laboratori,
seminari e lezioni di fonetica comparata presso la SSIS di Puglia. Socio ordinario
della Società di Storia patria per la Puglia e del Centro di documentazione storica di
Manfredonia, è impegnato in ricerche biografiche, bibliografiche e storico-culturali
(riguardanti, in particolare, l’editoria in Capitanata) e ha finora pubblicato vari saggi
e monografie.
MICHELE GALANTE, nato a San Marco in Lamis, vive attualmente a Foggia.
Ha svolto per molti anni una intensa attività politica come dirigente provinciale
e regionale del Pci, Pds e Ds, ricoprendo diversi incarichi pubblici: consigliere
comunale, consigliere provinciale, sindaco di San Marco in Lamis e deputato al
Parlamento nella X Legislatura.
È autore di diversi pubblicazioni tra le quali: Criminalità e illegalità in capitanata (1992), Parco nazionale del Gargano. Il difficile avvio (1996), L’eccidio
ignorato. San marco in Lamis: 8 marzo 1905 (2000), Le belle bandiere (2002), Bibliografia degli iscritti di/su Pasquale Soccio (2004), Il filo rosso di Puglia. Ritratti
di Capitanata (2007), Dalla Repubblica all’assassinio Moro. Storia elettorale di
299
Gli autori
capitanata (2009). Insieme con la sorella Grazia ha pubblicato il Dizionario del
dialetto di San Marco in Lamis (2006).
Ha inoltre al suo attivo numerosi saggi sulla storia dei partiti politici in
Capitanata e sul brigantaggio.
FRANCO GALASSO, nasce a Foggia nel 1926. Galasso è legato alla sua città con
‹‹l’amore del figlio che non dimentica».
Si laurea in Medicina a Napoli. Frequenta la scuola allievi ufficiali di Sanità a
Firenze e presta servizio da ufficiale a Bari.
Si dedica alla libera professione di medico di famiglia.
Cattolico praticante, frequenta la FUCI e i Laureati Cattolici insieme ad un
gruppo di amici, con i quali condivide gli stessi ideali, sotto la sapiente guida di un
“sacerdote luminato”, don Renato Luisi.
Democristiano sin dalla nascita dello “scudocrociato”, dedica con entusiasmo
il suo impegno politico a quel partito che, nella città di Foggia, aveva un importante
punto di riferimento nell’onorevole Aldo Moro, maestro di vita e di politica che
segna la formazione di gran parte di quella generazione.
Più volte consigliere e assessore provinciale, Franco Galasso è stato Presidente
dell’Amministrazione Provinciale di Foggia dal 1971 al 1976.
Dal 1962 al 2000, è stato più volte eletto Presidente provinciale del Coni.
FRANCESCO GIULIANI (San Severo, 1961) insegna Italiano e Latino in un liceo
ed è docente a contratto di Letteratura italiana contemporanea presso la Facoltà di
Lettere dell’Università di Foggia.
Nel corso degli anni ha dedicato, tra l’altro, lavori a Verga, a Carducci e ai
Futuristi; si è poi soffermato sui rapporti letterari tra la Puglia e il quadro nazionale,
con alcuni densi volumi, tra cui Viaggi letterari nella pianura (2002), Occasioni letterarie pugliesi (2004), Viaggi novecenteschi in terra di Puglia (2009) e Nel Nord della
Puglia (2011).
Ha curato l’edizione di testi di Umberto Fraccacreta, Mario Carli, Antonio
Beltramelli e Alfredo Petrucci.
PAOLO IAGULLI, laureato in Giurisprudenza presso l’Università degli Studi di
Roma “Tor Vergata”, e dottore di ricerca in Diritti dell’uomo presso l’Università
degli Studi di Palermo, insegna Sociologia generale e Sociologia dei processi culturali
presso l’Università degli Studi di Bari, sede di Taranto. Ha pubblicato due monografie e vari saggi e articoli su tematiche bioetiche e sociologiche.
GEPPE INSERRA, giornalista, è stato il primo addetto stampa della Provincia di
Foggia e tra i principali collaboratori del Presidente Michele Protano. Ha collaborato
con le redazioni dei quotidiani La Gazzetta del Mezzogiorno, Puglia, Qui Foggia, Il
Quotidiano di Foggia. È stato direttore editoriale di Teleradioerre e direttore respon-
300
Gli autori
sabile dei periodici Pagine, Area, La Refola. Ha pubblicato Genesi, ponte di luce (tradotto in spagnolo con il titolo Genesis, Puente de Luz), Il decennio debole: cronache
degli anni ottanta in Capitanata 1976-1981, cinque anni di progressi. Autore di diversi
documentari, tra cui I colori del tempo, Statale 17, Gargano, dalla storia alla speranza.
Docente e tutor di Giornalismo e Comunicazione presso diversi istituzioni
formative. Attualmente è dirigente dei settori Cultura, Innovazione ed informazione
della Provincia di Foggia, e direttore artistico del Festival del Cinema Indipendente
di Foggia.
DIONISIO MORLACCO, socio ordinario della Società di Storia Patria per la
Puglia, è impegnato in studi e ricerche che illustrano figure, aspetti e momenti
del vario e plurisecolare patrimonio di storia e di civiltà di Lucera, sua città natale. Nella sua ampia bibliografia, oltre alla collaborazione a giornali e riviste di
ambito locale e nazionale, si evidenzia la pubblicazione di saggi e monografie di
argomento storico e di recupero delle tradizioni cittadine, che se pur si ascrivono
al filone della cosiddetta “storia minore” (Le mura e le porte di Lucera, 1987;
Fiere e mercati a Lucera, 1988; Pozzi, cisterne e spacci per la sete di Lucera, 1991;
Bazar Tripoli, 1995, Tempo e luoghi del Padre Maestro, 2008), costituiscono pur
sempre il substrato indispensabile della grande storia, alla quale più direttamente
l’autore perviene con i suoi accurati profili dei Parlamentari lucerini (dal Regno
d’Italia alla Repubblica). Da questa passione originano gli interessanti volumi
“Dimore gentilizie e strutture urbane di Lucera” 2 voll. Ed. C. Grenzi, Foggia
2005 e 2010). La sua ultima pubblicazione è l’ampio volume intitolato “Quei
nomi di pietra” (Ed. C. Grenzi, Foggia, 2012), in cui descrive ed illustra la “Toponomastica della città di Lucera”.
DAMIANO NOCILLA. Nato a Roma nel 1942, ha studiato presso l’Università
degli Studi di Roma “La Sapienza” avendo per maestri Vezio Crisafulli, Aldo
Sandulli, Leopoldo Elia e Massimo Severo Giannini. Nel 1970 vince il concorso
come funzionario del Senato della Repubblica e percorre tutta la carriera amministrativa fino a raggiungere le funzioni di vertice prima di Vice Segretario
Generale e poi di Segretario Generale di quell’Assemblea parlamentare nel 1992,
cessando dalle stesse nel 2002.
Nel 2002 è stato nominato Consigliere di Stato.
Nel 1980 vince la Cattedra di professore ordinario di diritto costituzionale.
Dal dicembre 1982 all’ottobre 1983 è stato Capo dell’Ufficio legislativo
della Presidenza del Consiglio dei Ministri.
Negli anni 2006 e 2007 è stato Capo del Dipartimento per le riforme istituzionali della Presidenza del Consiglio dei Ministri.
Ha tenuto numerose conferenze nel corso di Convegni di studio e presso
Università e Istituzioni straniere.
301
Gli autori
È autore di varie pubblicazioni scientifiche fra le quali il volume “I cattolici e la Costituzione”; le voci “Mozione”, “Nazione”, Popolo” e “Rappresentanza politica” per l’Enciclopedia del diritto.
Ha curato l’edizione del libro di G. Jellinek “La dichiarazione dei diritti
dell’uomo e del cittadino” e della silloge degli scritti di C. Esposito “Diritto
costituzionale vivente”.
È Medaglia d’Oro per i Benemeriti della Cultura e dell’Arte.
È Cittadino Onorario del Comune di San Marco in Lamis.
GUIDO PENSATO, già direttore della Biblioteca provinciale di Foggia, componente il Direttivo nazionale dell’Associazione Italiana Biblioteche e del Consiglio
nazionale dei beni culturali, continua a coltivare interessi collegati al settore, coniugandoli, in particolare, con quelli per le storie, le abitudini e le pratiche alimentari e per l’arte contemporanea. È responsabile, con Gaetano Cristino e per conto
della Fondazione Banca del Monte, del “Fondo Alfredo Bortoluzzi”, nell’ambito
del quale cura le mostre e la collana dei “Quaderni”.
Ha curato e pubblicato, tra l’altro: Il Cabreo di San Leonardo di Siponto;
La città apparente. La cultura a Foggia tra Ottocento e Novecento (con Saverio
Russo); Il Tavoliere imbandito. La cucina della provincia di Foggia tra Gargano e
Appennino Dauno; Le carte in tavola. Alimentazione e cucina in Capitanata. Materiali (con S. Russo).
VITTORIO RUSSI è nato a Trieste nel 1938 ma vive in Capitanata, a San Severo.
Studioso di topografia storica della Daunia, ha individuato e schedato centinaia di insediamenti, dalla preistoria al medioevo, collaborando attivamente con la
Soprintendenza Archeologica.
Nel 1963 ha iniziato l’allestimento del museo di San Severo ed è stato tra i
fondatori del Centro di Studi Sanseveresi di Storia e Archeologia, la prima associazione del genere sorta in Capitanata. Nominato nel 1967 ispettore onorario della
Soprintendenza ai Beni Archeologici e della Soprintendenza ai Beni Artistici della
Puglia, ha contribuito alla salvaguardia e al restauro di chiese ed edifici di importanza storica e artistica.
Nell’ambito della topografia antica, ha collaborato con G. Alvisi, direttrice
dell’Aerofototeca Nazionale, per un lavoro sistematico sulla viabilità romana della
Daunia, e con il generale G. Schmiedt, dell’Istituto Geografico Militare Italiano,
per il rilevamento dei centri medievali fortificati. Dopo queste esperienze, ha avviato un progetto per un Atlante storico-archeologico degli insediamenti medievali abbandonati in Capitanata, ora in fase di realizzazione.
Socio di vari sodalizi culturali e membro ordinario della Società di Storia
Patria per la Puglia, collabora con la sezione di archeologia del Dipartimento di
Scienze Umane dell’Università di Foggia. Autore di alcuni libri e di numerosi sag-
302
Gli autori
gi su riviste e atti di convegni, recentemente ha iniziato ad interessarsi anche delle
attività economiche a San Severo tra l’800 e il 900.
SAVERIO RUSSO (Margherita di S. 1954), direttore del Dipartimento di studi
umanistici dell’Università di Foggia, insegna Storia moderna e Storia della storiografia dell’età moderna. Si occupa di storia economica e sociale del Mezzogiorno tra
Sette e Ottocento, e delle politiche di tutela del paesaggio e dei beni culturali.
Gaetano SCHIRALDI è nato a Lucera. Sacerdote della diocesi di Lucera-Troia
è Socio Ordinario della Società di Storia Patria per la Puglia – Sezione di Bari e
Vice-Direttore dell’Archivio Storico Diocesano della citata diocesi di Capitanata. È
autore di varie pubblicazione di carattere scientifico su Lucera ed Alberona e ha in
attivo saggi pubblicati su varie riviste pugliesi (Archivio Storico Pugliese, La Capitanata, Carte di Puglia, Fogli di Periferia) e nazionali (Arte e Fede, Archiva Ecclesiae).
È Presidente del neonato Centro Ricerche di Storia e Cultura Popolare Alberonese
e Subappenninica.
FEDERICA ELISABETTA TRIGGIANI, nata a Foggia nel 1982, ha conseguito la laurea magistrale in Filologia moderna presso l’Università degli Studi di Foggia. La sua
tesi di Laurea è stata argomento di una Conversazione sugli inventari di patrimonio
di alcune famiglie foggiane del Settecento, organizzata dall’associazione Soroptimist International di Foggia. Ha frequentato un corso di “Operatore di sostegno
per alunni disabili”, imparando la Lingua Internazionale dei Segni (LIS) e l’alfabeto
Braille. Ha inoltre conseguito un Master in “Didattica & Formazione: metodologie,
strategie e tecniche per la ricerca, l’insegnamento curriculare e di sostegno” presso
La Luspio, sede di Foggia, nel 2011. A marzo 2012 è stata convocata a Roma per
un corso professionalizzante come “Addetto Risorse Umane e amministrazione”
presso la Rebis srl.
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Finito di stampare nel mese di settembre 2012
presso il Centro Grafico S.r.l.
1a trav. Via Manfredonia - 71121 Foggia
tel. 0881/728177 • fax 0881/722719
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proviene direttamente dal sole grazie all’impianto fotovoltaico installato sul tetto dello stabilimento
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