F. D'ALESSI - Letteratura latina - Parte II,1 - Il periodo classico
F. D'ALESSI
Letteratura latina
Parte II,1 : Il periodo classico
Agosto 2002
F. D’Alessi © 2002
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F. D'ALESSI - Letteratura latina - Parte II,1 - Il periodo classico
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II - Il periodo classico
L'età di Cesare
Quadro storico
VERSO LA GALLIA TRANSALPINA - I TEUTONI E I CIMBRI - CAMPI RAUDII (123-101 a. C.)
CONQUISTA DELLA GALLIA NARBONESE - I CIMBRI E I TEUTONI - BATTAGLIA DI NORCIA - MARCO
GIUNIO SFILANO NELLA GALLIA TRANSALPINA - GUERRA CONTRO I TIGURINI - RIVOLTA DEI
TETTOSAGI - QUINTO SERVILIO CEPIONE ESPUGNA TOLOSA - BATTAGLIA DI ARAUSIO PUNIZIONE DI CEPIONE - MARIO NELLA PROVINCIA NARBONESE - I TEUTONI E GLI AMBRONI
SCONFITTI AD AQUAE SEXTIAE - CATULO SULLE ALPI - MARIO SCONFIGGE I CIMBRI AI CAMPI
RAUDII - TRIONFO DI MARIO
---------------------------------------------------------------------------------CONQUISTA DELLA PROVINCIA NARBONESE
Abbiamo visto come nell'anno 125 i Massilioti (dell'antichissima Massalia - od. Marsiglia), assaliti dai Salluvi,
chiamassero in proprio soccorso i Romani. Colse quell'occasione per accorrere in loro aiuto il console
MARCO FULVIO FLACCO, lieto di potersi allontanare da Roma dopo lo scacco subito dalle sue rogazioni in
favore dei Latini e degli Italici.
Massalia era antica e fedele alleata dei Romani ed a questi interessava mantenersela amica perché
rappresentava una sentinella che vigilava le mosse delle popolazioni celtiche che aveva alle spalle, e
costituiva un punto d'appoggio e di rifornimento delle armate veleggianti tra 1' Italia e la Spagna.
FULVIO FLACCO combatté felicemente contro i Salluvi, li sconfisse e, ritornato a Roma, trionfò su di loro.
Successe a lui al comando dell'esercito in quella guerra CAJO SESTIO, il quale riportò segnalate vittorie sui
Salluvi, li sottomise e a nord-ovest di Massalia costruì una fortezza, che da lui prese il nome "Aquae Sextiae"
(anno 123 a.C.)
Ma con la sottomissione dei Salluvi la guerra nella Gallia Transalpina non ebbe proprio termine, anzi era
l'inizio di tante e tante altre guerre contro altre tribù galliche, ligure e alpine (Allobrogi, Arverni, Salii, Voconzi
ecc.).
I Romani volevano aprirsi una comunicazione terrestre con le loro province spagnole lungo il litorale del
"Sinus Gallicus" o attraverso la valle del Rodano. In quest'ultima regione Annibale aveva tracciato la via
quando dalla Spagna si era recato in Italia, attraverso le Api.
Il territorio era abitato da fierissime popolazioni galliche fra le quali erano potenti gli Allobrogi. Presso di
questi si era rifugiato TUTOMOTULO, re dei Salluvi, e Roma approfittò del rifiuto opposto di consegnare,
l'ospite per dichiarare la guerra agli Allobrogi.
La guerra però non fu soltanto combattuta dalle armi degli Allobrogi e quelle della repubblica.
Roma sapendo che gli Allobrogi erano nemici degli Edui, che abitavano fra 1'Arar e il Liger, si procurò
accortamente il loro aiuto. A loro volta gli Allobrogi riuscirono a procurarsi l'alleanza di una fortissima
popolazione celtica, quella degli Arverni, che erano stanziati a sud degli Edui e che non vedevano di buon
occhio la comparsa dei Romani nella Gallia Transalpina.
BITUITO, re degli Arverni, mandò a dire a Roma di non occuparsi di Tutomotulo, che era una questione
interna del popolo che abitava al di là delle Alpi. Ma avendo ottenuta una risposta negativa allora armò un
poderoso esercito di duecentomila uomini e marciò nel 119 contro le legioni del console CNEO DOMIZIO
ENOBARBO.
Si narra che Bituito, vedendo le poche truppe romane, esclamò che quelle non erano sufficienti nemmeno a
sfamare una sola volta i suoi cani.
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La battaglia tra gli Arverni e i Romani avvenne nelle vicinanze del villaggio di Vindalio (oggi Aigues) e ai
barbari che combattevano ancora come i barbari, nonostante la grande superiorità numerica gli toccò una
sanguinosa sconfitta e messi in fuga.
Rimanevano gli Allobrogi. Contro di questi, che erano stati rinforzati dagli Arverni comandati personalmente
da Bituito, dopo la battaglia di Vindalio, andò il console LUCIO FABIO MASSIMO EMILIANO, che incontrò
ed attaccò il nemico sulle rive dell'Isara (Isère) (anno 120 a.C.)
Allobrogi ed Arverni furono completamente disfatti e subirono perdite gravissime: centomila barbari
trovarono la morte sul campo di battaglia e nelle acque del fiume.
Il fiero re BITUITO, invitato dal console ad un convegno, fu fatto prigioniero e inviato a Roma. Il Senato
Romano - e questo va a suo onore - biasimò la condotta di Domizio, ma invece di rimandare libero il
prigioniero che il tradimento aveva fatto cadere in potere dei Romani, lo fece chiudere nella rocca di Alba,
dove il re di un territorio immenso, nell'angusta prigione non tardò a morire.
Dopo queste due strepitose vittorie romane, gli Allobrogi, persero la loro libertà e gli Arverni buona parte del
loro territorio.
La regione conquistata dai legionari, compresa tra il mare e le Cevenne, la foce del Rodano e il lago
Lemano, fu dichiarata provincia romana con il nome di Gallia Braccata, dalle brache che i Galli erano soliti
vestire, o Gallia Narbonese dalla città di Narbona, che divenne capitale della nuova provincia e che nel 118
fu costituita in colonia romana col nome di Narbo Martius.
I CIMBRI E I TEUTONI
Conquistata la Provincia Narbonese, nel 115, dal Rodano ai Pirenei fu costruita una via che in onore del
vincitore degli Arverni prese il nome di Domizia.
Due anni dopo i Romani facevano la conoscenza di due popoli barbari che tante preoccupazioni e sconfitte
dovevano causare alla repubblica: i Cimbri e i Teutoni.
Alcuni, fino a pochi anni fa, credevano che fossero popolazioni di stirpe celtica, ma oggi, è fuori di dubbio
che si tratti di popoli di razza germanica.
I Cimbri erano popolazioni germaniche che negli anni precedenti avevano abbandonato la regione baltica del
Chersoneso Cimbrico (od. Jutland sett.) ed avevano invaso con altre tribù celtiche e germaniche (amboni,
taurini, e in particolare i Teutoni, stanziati nella Germania settentrionale) la regione danubiana occidentale.
Erano di statura gigantesca; avevano facce angolose, aspetto truce e capelli biondastri; portavano armature
di ferro, lunghe lance a duplice punta, elmi adorni di lunghi cimieri e spade pesanti; la loro ferocia era
terribile e strani i costumi; erano soliti andare alla guerra accompagnati dalle loro donne che spesso
prendevano parte alle battaglie e si mostravano non meno valorose e crudeli degli uomini.
Sospinti forse da altri popoli o dal bisogno di trovare terre più fertili e più ricche, i Cimbri e i Teutoni
cercarono prima di invadere il territorio dei Belgi, ma, avendo questi difeso valorosamente i propri confini, si
riversarono (correva l'anno 113 a.C.), a mezzogiorno nelle terre dei Boi Germanici. Tendevano verso i
territori dove già qualche anno prima erano giunti i Romani. Infatti, nel 116, un esercito della repubblica,
capitanato dal console MARCO EMILIO SCAURO, era penetrato nella Carnia (o Norico, od. Austria centrale)
e aveva ottenuto delle vittorie che al console avevano fruttato il trionfo a Roma nel 115 a.C.
Non ebbe invece la stessa fortuna l'anno dopo, nel 114, il console C. PORCIO CATONE, quando invase le
terre degli Scordisci, popolazione di stirpe celtica, comprendenti anche elementi Traci ed Illiri, che abitavano
l'odierna Serbia settentrionale, stanziati tra i corsi inferiori della Moravia e della Sava cioè nelle attuali regioni
limitrofe della Bosnia e dell' Ungheria.
Catone subì una cocente sconfitta.
Nel 113 i Taurisci, che abitavano nel nord della Carnia e che due anni prima, tramite di EMILIO SCAURO,
avevano stretto amicizia con Roma, assaliti dai Cimbri e dai Teutoni, invocarono l'aiuto del console CNEO
PAPIRIO CARBONE che si trovava con le sue truppe nei pressi di quella regione.
Carbone corse in loro aiuto, ma la sorte delle armi gli fu nettamente contraria; ingaggiata la battaglia con i
Cimbri, presso Noreia, nel Norico, fu sconfitto; dovette ringraziare una pioggia torrenziale che
improvvisamente si era scatenata durante la battaglia, se la sconfitta non si mutò in completo disastro.
I Cimbri e i Teutoni potevano senza difficoltà penetrare in Italia per i valichi delle Alpi Carniche e Giulie, ma
osarono poche volte, tanta era la fama della potenza di Roma e dei suoi eserciti che incuteva rispetto agli
stessi vinti.
Tuttavia, i Cimbri, diventati più pacifici, chiesero ripetutamente ai romani, terre del Norico, su cui insediarsi
stabilmente e dedicarsi all'agricoltura (dimostrando così il loro mutato carattere non più nomade).
I Barbari si rivolsero ad occidente e per tre anni consecutivi le regioni della Gallia furono percorse dai Cimbri
e dai Teutoni, imitati poi dagli Elvezi.
Ed ecco che i barbari, che avevano avuto a che fare già con i Romani di là dalle Alpi orientali, si vennero a
trovare nuovamente a contatto delle legioni della repubblica oltre le Alpi settentrionali ed occidentali. Questi
barbari ora non chiedevano più, ma pretendevano nientemeno che Roma cedesse loro dei territori, ma in
compenso offrivano aiuto all'esercito romano.
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Nel 109 essi comunicarono le loro pretese al console MARCO GIUNIO SILVANO, ma questi anziché trattare
con i barbari, marciò contro di loro. Disgraziatamente le sue legioni sopraffatte dal numero furono sconfitte.
I Cimbri allora si rivolsero direttamente al Senato, al quale spedirono ambasciatori; ma neppure questo
accettò le loro proposte.
Si deve credere che i Cimbri e i Teutoni non si sentissero abbastanza forti o temessero di esser battuti se,
pur avendo avuto ragione, con le armi, di SILANO, non osarono invadere la Provincia Narbonese.
Più audaci di loro furono gli Elvetici Tigurini che diedero molestie al territorio della provincia provocando nel
647 1' intervento del console C. CASSIO LONGINO; il quale, nei primi scontri con gli Elvetici, che erano
comandati dal loro re DIVICONE, ebbe lui il sopravvento, ma, lasciatosi imprudentemente attirare in
un'insidia mentre li inseguiva, fu sconfitto ed ucciso.
I superstiti del suo esercito per aver libera la ritirata dovettero sottostare a patti vergognosi..
Alla sconfitta di Longino si aggiunse la rivolta dei TETTOSAGI che erano popoli della Provincia Nabornese, il
cui presidio romano fu fatto prigioniero.
A prendere il posto del defunto Longino e a domare la rivolta che prendeva proporzioni maggiori, il Senato
spedì nel 106 a.C. il console QUINTO SERVILIO CEPIONE, il nobile che aveva abolita la legge giudiziaria di
Gracco.
Cepione marciò su Tolosa, capitale dei Tettosagi, la conquistò per tradimento, con particolare durezza trattò
poi gli abitanti, seguito da un furioso saccheggio della città; il tempio di questa fu spogliato e gli ingenti tesori
contenuti furono inviati a Massaia con una carovana. Ma lungo la via, la scorta fu assalita da una banda di
ladroni, la carovana fu sterminata e i tesori finirono nelle loro mani.
Erano ricomparsi nel frattempo i Cimbri e i Teutoni, e il Senato, non credendo sufficienti le truppe della
Narbonese ad arrestare l'avanzata dei barbari, inviò sul Rodano un altro esercito al comando del console del
105 a.C.,CNEO MANLIO MASSIMO.
Ma il provvedimento preso per custodire con maggiore probabilità di successo le frontiere della provincia non
ottenne i risultati che il Senato sperava.
Si rinnovò nella Gallia Transalpina, per colpa dei capi militari, il malumore che, alcuni secoli prima -sotto le
mura di Vejo- la gelosia dei tribuni aveva causato alle armi romane.
Non correvano buoni rapporti tra CEPIONE e MANLIO; il primo non aveva visto di buon occhio l'arrivo del
secondo. Invece di unire le loro forze ed agire d'accordo contro i minacciosi nemici della loro patria i due
consoli, mirando al proprio interesse, erano gelosi l'uno dell'altro e ciascuno tentava di conseguire prima
dell'altro la vittoria.
La vittoria però non poteva arridere alle armi romane guidate da simili uomini in lotta tra loro. La sconfitta fu
gravissima. Il primo ad essere sorpreso e battuto dai barbari fu il legato MARCO AURELIO SCAURO che fu
fatto prigioniero ed ucciso, poi fu la volta di CEPIONE e di MANLIO. Il primo si era accampato sul Rodano
presso Arausio (Orange) e assalito da forze nemiche superiori alle sue, gli toccò una drammatica disfatta;
seguita da quella del collega non meno disastrosa.
Ottantamila soldati Romani lasciarono la vita in quella duplice sconfitta e pochissimi furono i superstiti, ma i
due consoli si salvarono.
La notizia del grave rovescio più che dolore provocò in Roma immenso sdegno, essendosi facilmente saputa
la causa della sconfitta, dovuta principalmente al proconsole CEPIONE. I senatori cercarono di calmare l'ira
del popolo, ma furono impotenti. Il popolo vedeva in SERVILIO CEPIONE, oltre che il responsabile del
massacro, l'uomo politico ostinatamente avverso alla plebe, l' iniquo magistrato che aveva ridato al Senato
l'autorità giudiziaria. Fu perciò inesorabile contro di lui. I tribuni proposero che a Cepione fosse tolto l'imperio
e di confiscargli i beni e l'assemblea popolare approvò unanimemente la proposta dei suoi rappresentanti.
Né la punizione si limitò a questo; dietro proposta del tribuno L. APPULEIO SATURNINO, fu decretato che
Cepione fosse scacciato dal Senato.
Condannato alla pena capitale, era riuscito a salvarsi fuggendo da Roma.
Per la seconda volta dopo la morte dei Gracchi erano esemplarmente punite le inique colpe dei grandi e per
la seconda in seno al popolo rinascevano le virtù dell'antica Roma e si ergeva minacciosa e tonante la voce
della dignità romana ignominiosamente offesa dall'oligarchia imbelle (il curioso è che a fomentare la plebe
(cioè a strumentalizzarla) era proprio l'oligarchia.
(queste manovre, le leggeremo nel prossimo capitolo).
MARIO NELLA PROVINCIA NARBONESE
Placato lo sdegno del popolo, si pensò a evitare il pericolo di un'invasione barbarica dalla parte delle Alpi.
Non mancavano a Roma valenti generali. C'era CECILIO METELLO, che godeva gran fama di condottiero, e
tutti sapevano come aveva bene operato nella guerra di Giugurta. Ma Cecilio Metello era un nobile e non
spirava buon vento per i nobili in quel tempo a Roma. Il popolo aveva ripreso animo; era stato il primo ad
alzare la voce contro i responsabili delle sconfitte nella Transalpina; aveva invocata ed ottenuta la punizione
di Cepione; e voleva decidere il popolo la direzione della guerra.
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Né al Senato e ai grandi, del resto, dispiaceva che la responsabilità di avvenimenti che si prevedevano di
estrema importanza pesasse tutta sulle spalle del popolo. Fu per questo, senza dubbio, che non protestò
quando si pensò di affidare a MARIO la direzione della guerra nella Provincia Narbonese con l'incarico di
console. E motivi di protesta in verità non ne mancavano: per legge, infatti, non poteva esser rieletto console
un cittadino se non dopo dieci anni del suo precedente consolato; inoltre il candidato non era eleggibile se
non si presentava all'assemblea dei comizi. Quindi Mario non si trovava ad avere i requisiti richiesti dalle
leggi; nel periodo delle elezioni egli era in Africa a dare assetto -come abbiamo già visto in altre pagine- alla
Numidia, e non erano trascorsi tre anni dal suo precedente consolato.
Il Senato lasciò tuttavia violare le leggi e CAJO MARIO, durante la sua assenza da Roma, fu dai comizi
eletto console per l'anno 103 e scelto al governo della guerra.
Doppio compito aveva Mario: ricondurre all'obbedienza i Tettosagi e fronteggiare Teutoni e Cimbri. Quando
però lui giunse nella Provincia Narbonese questi ultimi nemici si erano allontanati. Ancora una volta
rifiutavano di approfittare della loro vittoria, non spingendosi oltre né tanto meno si mettevano sulla via
d'Italia. I Teutoni si erano inoltrati verso la Gallia belgica, e i Cimbri si erano diretti verso la Spagna, dove
però dovevano incontrare un ostacolo insormontabile nella decisa ed efficace resistenza dei Celtiberi e delle
milizie di FULVIO FIACCO.
Rimaneva soltanto da domare la ribellione dei Tettosagi che erano sorti di nuovo in armi dopo il disastro di
Arausio.
Ai Tettosagi pensò LUCIO CORNELLO SILLA che era nell'esercito di Mario con il grado di luogotenente e
che in brevissimo tempo sottomise i ribelli catturando il loro capo Copillo.
Giungendo nella Gallia Transalpina, CAJO MARIO si era accampato sul Rodano alla confluenza dell'Isara.
Approfittando della lontananza dei Cimbri e dei Teutoni, per rendere più facile e rapido il trasporto delle
vettovaglie, che sulla, via fluviale presentava molte difficoltà a causa della sabbia depositata sulla foce del
Rodano, fece scavare un canale che fu chiamato fossa mariana; poi, domata la rivolta dei Tettosagi, per far
sì che le truppe non s'infiacchissero nell'ozio, le mantenne in continuo esercizio, abituandole a marce
faticose e a duri lavori.
In previsione di un ritorno dei barbari, apportò all'esercito delle importantissime riforme, rese necessarie
dalla maniera di combattere dei Cimbri e dei Teutoni.
Siccome gli assalti di questi barbari erano impetuosi, ma di breve durata, lo schieramento in "manipoli"
disposti con larghi intervalli per dar campo ai "veliti" di manovrarvi era dannoso non presentando un fronte
saldo e compatto. Ad ovviare agli inconvenienti dello schieramento, Mario divise la legione in dieci coorti di
seicento uomini ciascuna, formate di "astati, principi, trari, veliti". Ogni coorte pertanto veniva ad essere una
piccola legione e come per consacrarne l'unità Mario la dotò di un'aquila d'argento.
Portò inoltre miglioramenti nel modo di portare il bagaglio, fornì le truppe di speciali giavellotti e diede a
ciascun soldato uno scudo rotondo e più leggiero.
Nel 103, essendo morto il console L. Aurelio Oreste, Mario, poiché la frontiera era sicura per l'assenza dei
barbari, andò a Roma a presiedere i comizi consolare e fu riconfermato console per la terza volta.
Durante il terzo consolato di Mario, Cimbri e Teutoni ricomparvero alle frontiere risoluti questa volta di
passare le Alpi e calare in Italia.
I Cimbri, provenienti dalla Spagna, si diressero prima nella regione degli Elvezi, poi nella Rezia e infine su
quel territorio che già conoscevano bene, cioè nel Norico allo scopo di passare nella Gallia Cisalpina per la
valle dell'Adige; i Teutoni, che scendevano invece dal paese dei Belgi, puntarono invece sulla Provincia
Narbonese per penetrare in Italia dai valichi delle Alpi Marittime. A questi ultimi si erano uniti gli Ambroni.
Le orde degli Ambroni e dei Teutoni procedevano separatamente a breve distanza l'una dall'altra e
andavano stuzzicando a battaglia i Romani.
Mario però evitava sempre il grande scontro. Nell'intento di abituare le sue truppe al contatto di quei
fierissimi barbari, egli prendeva tempo e rimaneva saldamente chiuso nel suo campo. Tre volte questo fu
impetuosamente attaccato dal nemico, ma tutte le volte i suoi assalti furono spezzati dalla risoluta difesa dei
legionari.
Allora i barbari si convinsero che i Romani non osavano misurarsi in campo aperto e decisero di proseguire
nella loro avanzata.
Passando davanti all'accampamento di Mario, beffeggiavano i Romani chiamandoli vili e per schernirli
maggiormente chiedevano, che se volevano inviare notizie alle loro mogli che si sarebbero presa cura dì
portarle loro stessi a Roma.
Mario lasciò che Ambroni e Teutoni passassero, poi levò il campo e li seguì cautamente fino ad Aquae
Sextiae (odierna Aix en Provence) e qui si fermò sopra un'altura che dominava gli accampamenti degli
Ambroni, aspettando il momento opportuno per assalirli.
Gli Ambroni non si prendevano nessuna cura dei Romani, considerandoli ormai codardi ed incapaci di
un'azione risoluta.
Quando Mario vide che si erano sparsi nel piano, ordinò alle sue legioni di assalirli. I Romani calarono nella
pianura ed il loro attacco fu così fulmineo ed impetuoso, che gli Ambroni colti così di sorpresa non ebbero
nemmeno il tempo di disporsi secondo un criterio e più che una battaglia fu un macello.
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Quelli che erano scampati alla strage si asserragliarono nell'accampamento e qui opposero una fiera
resistenza. Anche le donne presero parte al combattimento e contesero a palmo a palmo il terreno, insieme
con i loro uomini, lottando con una ferocia di belve.
Alla fine il campo fu assalito con pari violenza e fu completato lo sterminio di questi primi nemici; ma
rimanevano i Teutoni che si trovavano a non molta distanza. Per non farsi sorprendere da questi ultimi, il
console ritirò le sue truppe nell'altura dalla quale era disceso, e lì passò la notte.
Durante questa, si sentì il rumore di un esercito in marcia: erano i Teutoni che avanzavano; ma resi prudenti
dalla sconfitta dei compagni, non osarono attaccare le legioni romane e rimasero per due giorni al piano,
aspettando ma questa volta ben organizzati e ben disposti, che il nemico scendesse a ingaggiare battaglia.
Sperava Mario di poter cogliere anche questa volta i barbari alla sprovvista, ma, vedendo che i Teutoni
vigilavano ed erano sempre pronti a riceverli, stanco di attendere, schierò il suo esercito sull'altura quindi
inviò la cavalleria a stuzzicarli con 1' ordine che, dopo la prima scaramuccia, di simulare la fuga in modo da
trascinarseli dietro nel luogo dove lui aveva preparato la trappola.
I barbari caddero nell'insidia; assaliti dai cavalieri, resistettero all'urto; avendo poi questi girato le spalle e
credendo di averli messi in fuga, si diedero ad inseguirli disordinatamente su per le pendici dell'altura.
In cima c'era MARIO con il suo esercito, mentre in un bosco più a valle si era nascosto M. MARCELLO con
tremila soldati scelti, che doveva prima lasciarli passare, poi piombare alle spalle del nemico a battaglia
ingaggiata.
Il piano funzionò come il generale romano aveva previsto. Le sue truppe iniziarono facilmente a respingere
dall'altura i barbari, fu ingaggiata la "finta" battaglia, ma a quel punto dal bosco uscirono gli uomini di
Marcello attaccando alle spalle i nemici, e sbaragliati prima questi, calarono tutti insieme impetuosamente
nella pianura contro il resto dei Teutoni che si difesero accanitamente, ma, incapaci di tener testa a lungo a
schiere così bene ordinate e così forti, furono alla fine sbaragliati anche questi nel loro campo.
Durante la battaglia, vedendo che le cose volgevano male per i suoi, TEUTOBODO, re dei Teutoni, si era
dato alla fuga; ma i suoi stessi uomini, sdegnati dalla viltà del loro capo, lo inseguirono, lo presero e lo
consegnarono ai Romani.
Gli storici sono discordi sulle cifre delle perdite subite dagli Ambroni e dai Teutoni nelle due memorabili
battaglie. Dovettero senza dubbio essere enormi ed è da considerarsi inferiore a quella vera la cifra
trasmessaci da Plutarco, il quale fa ascendere il numero dei barbari morti a centomila.
Fu così grande la strage dei nemici che il luogo dove si svolsero le battaglie conservò per lungo tempo il
nome di "campi putridi", da cui forse ha origine il nome di Pourrières con cui oggi è chiamato un villaggio che
sorge in quella località.
Rimanevano i Cimbri. Contro di loro il Senato aveva mandato l'esercito guidato dal console collega di Mario,
CAJO LUTAZIO CATULO, che si era messo in marcia per incontrarli nei valichi dell'Alto Adige.
Questo secondo esercito non ebbe però la fortuna delle legioni comandate da Mario. Mentre queste
combattevano contro gli Ambroni ed i Teutoni e li sconfiggevano ad Aquae Sextiae, quelle altre erano messe
in rotta dai Cimbri, forti di oltre duecentomila uomini, comandati dai capi tribù BOIORICE, LUGIO,
CLAUDICO e CESORIGE.
LUTAZIO CATULO tentò di arrestare sull'Adige l'avanzata dei barbari, ma non vi riuscì e fu costretto per non
subire altre e più dolorose perdite a ritirarsi sulla riva destra del Po, lasciando in balia del nemico tutta la
Gallia Transpadana; dal territorio Adige veronese, fino alla Lombardia.
Fortunatamente i Cimbri non tentarono di andare a sud e passare il fiume Po: verso est c'era una vasta
pianura si estendeva davanti a loro, ricca e fertile; il cui clima non era rigido come quello dei paesi del nord
da dove provenivano. Probabilmente non miravano a Roma, ma desideravano solo una nuova terra che
avrebbe offerto abbondanza di prede e di raccolti; e non vi era regione migliore come quella dove ora si
trovavano (od. Verona, Brescia, Milano, Novara). I Cimbri rimasero dunque a svernare nella Transpadana
nell'inverno del 102-101.
Forse uno dei motivi che li consigliò a non proseguire nell'avanzata fu la notizia della strage dei loro
compagni, che, senza dubbio, presto dovette giungere all'orecchio. Scrive PLUTARCO che i Cimbri non
seppero della sconfitta di Aquae Sextiae che nell'estate seguente, quando s'incontrarono con MARIO e
videro il re Teutobodo prigioniero; ma è da escludersi, e difficile accettare l'idea che i Cimbri rimanessero
all'oscuro di un avvenimento così importante svoltosi in una regione così vicina a quella dove essi si
trovavano, che, di fatto, era caduta da qualche tempo nelle loro mani (Elvezia, Rezia, Norico, e alta valle
dell'Adige).
Dunque, è più credibile, che l'eco della disfatta giunse ai Cimbri, come rapidamente giunse a MARIO la
notizia delle sconfitte del suo collega CATULO, e lo stesso vincitore di Aquae Sextiae lasciò il territorio del
Rodano e si affrettò ad andare in soccorso del console, rifugiatosi -come abbiamo detto- sulla riva destra del
Po.
Valicate le Alpi Marittime e attraversato il paese dei Liguri, Mario si congiunse a Catulo nella primavera del
101 a.C.
Saccheggiato intanto il territorio invaso, i Cimbri, forse da Milano o da Novara, avevano ripreso la marcia
verso l'odierno Piemonte con lo scopo di farvi altre prede o di passare a monte del Po, dove in minori erano
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le difficoltà. Ma la terribile orda non era la sola a marciare; Mario con le sue truppe, che, unite a quelle del
collega, non superavano i cinquantamila uomini, era passato sulla sinistra del fiume e seguiva lentamente e
prudentemente i barbari aspettando un'occasione propizia per battersi.
La grande battaglia avvenne il 30 luglio del 101 presso Vercelli, in una località che poi prese il nome di
"Campi raudii".
I Cimbri erano una moltitudine infinita oltre che terribile, che dava l'impressione che avrebbe schiacciato al
primo urto le legioni di Roma che la fronteggiava; dietro l'orda della cavalleria e delle fanterie dei barbari su
carri da battaglia, simili a quelli usati dai Galli, vi erano le donne cimbre con i loro figlioletti, pronte a
soccorrere i loro uomini in caso di bisogno e a piombare sul nemico rotto per rendere maggiore lo sbaraglio.
L'esercito di Mario era schierato con le poche truppe di Lutazio Catulo al centro e i veterani delle Aquae
Sextiae alle ali.
I primi ad assalire furono i Cimbri, che con orribili urli si lanciarono contro i legionari; ma il loro poderoso ma
disordinato urto, s'infranse sul compatto fronte romano, che, respinto questo primo assalto, passò
all'offensiva con audace determinazione. La battaglia fu aspra, lunga e feroce; i barbari nonostante quattro
volte superiori di numero, alla fine, subirono una sconfitta disastrosa, mentre per i romani fu una vittoria
memorabile.
Circondate dai legionari, le donne barbare - si narra - implorarono i vincitori di risparmiarle, inutilmente, e
allora per non cadere in mano dei nemici, con le armi che avevano usato combattendo contro i Romani
uccisero i propri figli e con le stesse armi si diedero la morte.
Centocinquantamila Cimbri furono uccisi in quella giornata e fra loro BOIORICE e LUGIO ; gli altri due capi,
CLAUDICO e CESORIGE, furono fatti prigionieri, insieme con altri sessantamila uomini.
Mario aveva salvato 1'Italia dalla più terribile delle invasioni.
La notizia della vittoria, giunta a Roma, suscitò un entusiasmo indescrivibile. I1 Senato, quantunque nemico
di Mario, lo proclamò, dopo Romolo e Camillo, terzo fondatore di Roma e gli decretò due trionfi, uno sui
Teutoni e gli Ambroni, un altro sui Cimbri.
Mario però n'accettò uno solo e volle con sé negli onori del trionfo anche Catulo.
A perpetuare il ricordo delle grandi vittorie con il bottino sottratto ai nemici CATULO innalzò un portico e
CAJO MARIO un tempio all'Onore e alla Virtù, che purtroppo in quei tempi di corruzione, non fu frequentato
che da pochi.
Proprio per quest'ultimo motivo, mentre MARIO e CATULO nel 104 a.C., iniziavano a combattere e a
fermare le invasioni barbare, nell'Italia alleata e nella stessa Roma, senza onore e senza virtù, trionfava la
demagogia e iniziava una seconda guerra servile e quella rivolta agli stessi alleati di Roma.
I fatti li troviamo nella prossima puntata……periodo dall'anno 104 all'anno 88 a.C. > > >
Fonti, Bibliografia, Testi, Citazioni:
TITO LIVIO - STORIE (ab Urbe condita)
POLIBIO - STORIE
APPIANO - BELL. CIV. STORIA ROMANA
DIONE CASSIO - STORIA ROMANA
PAOLO GIUDICI - STORIA D'ITALIA
UTET - CRONOLOGIA UNIVERSALE
I. CAZZANIGA , ST. LETT. LATINA,
+ altri, in Biblioteca dell'Autore
LA GUERRA GIUGURTINA - METELLO - CAIO MARIO - SILLA (118-105 a. C.)
LA NUMIDIA DOPO LA MORTE DI MASSINISSA - GIUGURTA - ASSASSINIO DI JEMPSALE USURPAZIONI DI GIUGURTA - L'ORO DEL RE DI NUMIDIA - CALPURNIO BESTIA - GIUGURTA
DAVANTI IL POPOLO ROMANO - ASSASSINIO DI MASSIVA - VERGOGNOSA CONDOTTA DI AULO
POSTUMIO - LA ROGAZIONE MAMILIA - QUINTO CECILIO METELLO IN AFRICA - IMPRESE DI
METELLO - CAIO MARIO - SUO PRIMO CONSOLATO -- CAIO MARIO E LA GUERRA GIUGURTINA SILLA - TRIONFO DI MARIO E MORTE DI GIUGURTA
--------------------------------------------------------------------------------------------------------LE CONDIZIONI DELLA NUMIDIA E L'ORO DI GIUGURTA
La critica situazione romana, da Caio Gracco dopo il suo assassinio, lasciata in mano all'oligarchia, non
prometteva certo un periodo di pace, la guerra civile era inevitabile; quando sarebbe scoppiata non si
sapeva, ma che ci sarebbe stata, tutti n'erano certi.
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F. D'ALESSI - Letteratura latina - Parte II,1 - Il periodo classico
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A ritardarla contribuì la "pericolosa minaccia" dei nemici esterni.
Una delle guerre che ritardarono lo scoppio della guerra civile, fu quella combattuta in Numidia, che prese il
nome di guerra "giugurtina" che dal nome del suo re, GIUGURTA.
Il regno della Numidia si stendeva dalle Sirti alla Mauritania. Morto nel 149 MASSINISSA, il reame era stato
diviso fra i suoi tre figli, MICIPSA, GULUSSA e MASTANABALO. Essendo questi ultimi due, morti senza figli
legittimi, il regno era passato tutto sotto lo scettro del primo, che come il padre aveva mantenuto l'amicizia
con Roma (che due anni si scatenò contro Cartagine con Scipione l'Emiliano 147-146 a.C.)
MICIPSA aveva due figli, Aderbale e Jempsale, d'animo debole il primo, fiero e tenace il secondo, ma
essendo entrambi giovanissimi, negli ultimi anni della sua vita il padre adottò il nipote GIUGURTA, figlio
illegittimo di Mastanabalo, uomo bellicoso ed energico, e insieme con i suoi figli lo istituì erede del regno,
con l'obbligo che avrebbero regnato in comune e in pieno accordo.
Ma GIUGURTA, rispetto agli altri due, era ambiziosissimo e d'animo corrotto; all'assedio di Numanzia aveva
combattuto a fianco di Scipione Emiliano; contava non poche amicizie a Roma e conosceva quanto grande
fosse la corruzione dei dominatori del mondo.
Morto poi MICIPSA nel 118, la concordia fra i tre eredi durò pochissimo tempo. JEMPSALE, considerando il
cugino come un intruso, reclamò che il regno doveva essere diviso solo in due e non in tre parti; Giugurta,
fingendo di voler trattare con il cugino, lo invitò a casa sua e lo fece assassinare.
La stessa sorte sarebbe toccata ad ARDEBALE se questi non fosse fuggito in tempo nei possedimenti
romani d'Africa, da dove poi si recò a Roma a chiedere aiuti contro l'usurpatore.
Fu anticipato però da GIUGURTA, il quale, sapendo quanto Roma era venale, vi aveva inviato alcuni suoi
uomini di fiducia che con molti e ricchi doni avevano guadagnato alla causa del re usurpatore gli uomini più
influenti della metropoli.
Il Senato per questo motivo, accolse freddamente ADERBALE ed anziché difendere i diritti calpestati del
giovane figlio di MICIPSA, a parole lo illuse con vane promesse, poi inviò in Africa dieci commissari con
l'ordine di dividere la Numidia fra ADERBALE e GIUGURTA.
Alla testa della commissione era il consolare L. OPIMIO, il vincitore di Fregelle, uomo avido e senza scrupoli,
il quale accettò i doni offertigli dallo scaltro Giugurta e, diviso il regno, gli assegnò la parte migliore.
Non contento di questa divisione, Giugurta volle spogliare il cugino della parte che gli era toccata e, siccome
questi mostrava di essere deciso a difendere con le armi il suo dominio, Giugurta convinto di poter osare
impunemente, mosse contro Aderbale con un forte esercito e lo sconfisse.
ADERBALE riuscì a rifugiarsi a Cirta (odierna Costantina) e mentre allestiva i preparativi per resistere,
inviava a Roma ambasciatori chiedendo urgenti soccorsi.
Ma anche questa volta, anziché un esercito che ponesse termine alle prepotenze dell'usurpatore numida, il
Senatore inviò in Africa una deputazione capitanata dal senatore MARCO EMILIO SCAURO; ma questa non
ottenne alcun risultato, non sappiamo se per la sua incapacità o perché anche lui "comprato" con l'oro di
Giugurta; infatti, appena ripartiti dall'Africa i commissari, intensificò l'assedio di Cirta.
La guerra tra i due cugini danneggiava non poco gli interessi di molti commercianti italici e romani ormai
stabiliti in quella città, i quali consigliarono Aderbale di cedere la piazzaforte al nemico e di rimettersi alla
giustizia di Roma e tanto dissero e fecero, che l'ingenuo giovane, ricevuta dal cugino la promessa di aver
salva la vita, aprì le porte al nemico.
GIUGURTA però non mantenne le promesse fatte; appena entrato a Cirta (112 a.C.) fece uccidere Aderbale
e saccheggiare la città. Caddero nella strage compiuta dalle sue truppe oltre che i partigiani del figlio di
Micipsa, anche i commercianti italici e romani che avevano consigliato la resa.
Il Senato non si sarebbe mosso a vendicarli se non si fosse a Roma levata alta la voce il tribuno CAJO
MEMMIO, campione della democrazia, accusando i grandi che vendevano ad un re barbaro la dignità di
Roma e invitando il popolo ad insorgere contro il governo corrotto della repubblica.
Preoccupato il Senato dalle parole del Tribuno e dal contegno minaccioso del popolo, si decise a dichiarare
guerra a GIUGURTA.
Un esercito fu allestito per inviarlo in Africa. Lo comandava il console CALPURNIO BESTIA, prode capitano,
ma uomo avido e corrotto, accompagnato dal senatore MARCO EMILIO SCAURO. L'esito della spedizione
sarebbe stato favorevole a Roma se Calpurnio Bestia avesse avuto di mira l'interesse della patria e il trionfo
della giustizia.
Parecchie città della Numidia erano stato occupate dall'esercito romano quando GIUGURTA, vistosi a mal
partito, ritenne opportuno far tacere le armi e far parlare l'oro.
Una volta aveva sostenuto, con un maligno e sarcastico giudizio, che con l'oro si poteva comprare Roma,
solo se ci fosse stato uno che l'avesse voluta; con l'oro lui aveva già corrotto senatori e commissari, e con
l'oro cercò questa volta di allontanare dal suo regno i legionari. E vi riuscì. CALPURNIO BESTIA si lasciò
facilmente "comperare", sospese le operazioni di guerra e, per mezzo di Scauro, concluse con Giugurta un
trattato con il quale il re numida entrava in possesso delle province usurpate invece di essere punito delle
colpe commesse (anno 111 a.C.).
Contro la vergognosa condotta del console e del Senato, che stava per ratificare il trattato, protestò
indignato il tribuno MEMMIO, e persuase il popolo a votare un ordine del giorno con il quale si stabiliva di
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aprire un'inchiesta sulla strage di Cirta e di inviare in Africa il PRETORE LUCIO CASSIO LONGINO, stimato
per la sua integrità, per poi condurre a Roma Giugurta affinché costui rispondesse di tutte le accuse che gli
erano mosse e con lui rendessero conto Calpurnio Bestia e il consolare Scauro, responsabili di un trattato
dove l'ombra del sospetto che era stato comperato dall'oro del re di Numidia era piuttosto una certezza.
Rassicurato da Longino che non gli sarebbe stato fatto alcun male, Giugurta ubbidì all'ingiunzione del popolo
romano e giunse a Roma, ma, qui, ritenne opportuno procurarsi gli appoggi necessari, distribuendo a piene
mani il suo oro tra i nobili e con del denaro si "comprò" un tribuno, CAJO BEBIO, rappresentante della
fazione oligarchica.
Appena Giugurta comparve davanti l'assemblea, il popolo gridò di metterlo a morte; MEMMIO però impose
silenzio alla folla affermando che "non era giusto punire un uomo prima di giudicarlo", poi si rivolse al re
Numida, e dopo avergli rimproverato le infamie che aveva commesso, gli promise il perdono se rivelava i
nomi di coloro che si erano lasciati corrompere dal suo oro. Per Memmio, questa era la questione principale.
A soccorso di Giugurta andò (il "comprato") C. BEBIO, che gli impose di tacere; e così il processo fu
scandalosamente interrotto fra l'indignazione e le proteste del popolo.
Furono queste proteste che costrinsero il Senato, allo scopo di soffocare lo scandalo, a riesaminare il trattato
concluso da CALPURNIO BESTIA e di accettare la proposta d'annullamento avanzata dal nuovo console
SPURIO POSTUMIO ALBINO.
Ma anche lui non era uomo migliore degli altri. Avido di denari pure lui, sperava solo di trarre profitto da un
mutamento nelle cose di Numidia e siccome conosceva un certo MASSIVA, figlio naturale di Gulussa, il
quale allora si trovava a Roma e tramava per avere lui il regno se, come prevedeva- era sottratto a Giugurta,
Postumio Albino, propose che proprio a Massiva fosse dato il regno della Numidia.
Giugurta seppe parare il colpo. L'imprudente Massiva, che si riteneva sicuro dal diabolico cugino, solo
perché era dentro le mura ospitali di Roma, tratto in un tranello da BOMILCARE, segretario del re numida, fu
assassinato.
Giugurta poi fuggì da Roma. Si narra che, uscendo dalla città, egli rivolgesse alla corrotta metropoli il
seguente saluto: "Addio, Roma venale: tu perirai appena troverai un compratore".
Q. CECILIO METELLO IN AFRICA
Questa nuova atrocità, commessa dal crudele sovrano, nella stessa Roma non poteva rimanere impunita.
Il Senato dichiarò di nuovo la guerra a Giugurta e nel 110 inviò in Africa un forte esercito al comando del
console POSTUMIO ALBINO, il patrocinatore di Massiva.
Un'impresa così difficile non poteva essere affidata a mani peggiori. Oltre che privo d'esperienza militare lui
era bramoso di ricchezze. Infatti, condusse una guerra piuttosto insulsa e sospetta per l'esito; presso la
fortezza di Sethul, invece di attaccarla, si arrese a Giugurta. Indubbiamente anche lui non rimase insensibile
alle offerte del corruttore re numida.
Peggio di lui poi operò il fratello AULO POSTUMIO che gli successe nel comando quando dovette lasciar
l'Africa per andare a presiedere a Roma i comizi consolari.
Ancora più avido del fratello, Aulo marciò pure lui sulla fortezza di Suthul, in cui sapeva che si ritrovavano i
tesori del re, mettendola sotto assedio. Anche questa volta l'oro di Giugurta fece prodigi. Gli ufficiali di
Postumio furono facilmente comprati dal monarca africano e l'esercito, attirato in un'insidia, fu di notte
assalito dalle truppe di Giugurta e sbaragliato.
Alla sconfitta non mancò di aggiungersi la vergogna: rimasto con poche e malridotte schiere in balia del
nemico, Aulo Postumio non esitò ad accettare le proposte di pace di Giugurta che gli impose di rinnovare il
trattato di Calpurnio Bestia, di passare con i superstiti dell'esercito sotto il giogo e di impegnarsi ad
abbandonare la Numidia (109 a.C.).
Quando giunse la notizia della sconfitta e dell'onta che aveva patito l'esercito, l'indignazione a Roma fu
enorme; tutti avevano ben capito cos'era avvenuto in Africa. Il popolo si levò a tumulto e il tribuno C.
MAMILIO LIMETANO chiese e pretese, di processare tutti coloro che avevano tradito il mandato loro affidato
dalla repubblica ed avevano disonorato il nome romano.
Cercarono i grandi di opporsi alla rogazione del tribuno, temendo che il processo rivelasse altri nomi di
persone compromesse, ma il popolo si fece più minaccioso, e molti nobili, temendo il peggio, si salvarono
con la fuga. Compromesso più degli altri, il senatore EMILIO SCAURO finse di condividere l'indignazione del
popolo e per salvare la propria posizione chiese d'essere lui il giudice dei colpevoli. Era il colmo!
A quel punto il Senato temendo il peggio, non si oppose più alla rogazione mamilia, e fu fatto il processo. Ne
uscirono condannati all'esilio i consolari CALPURNIO BESTIA, C. CATONE, SPURO ALBINO, L. OPIMIO e
il pontefice C. GALBA, poi siccome il popolo reclamava pure che la guerra in Numidia fosse condotta
seriamente e con energia, il Senato annullò il vergognoso trattato di Postumio e affidò il comando
dell'esercito al console QUINTO CECILIO METELLO, valente capitano e cittadino integerrimo, nobile di
nascita ma di lunghe vedute e non ostile alla causa del popolo in cui egli vedeva esser riposti la forza e
l'avvenire della repubblica.
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Sceso in Africa nel 109 a.C., (coadiuvato da un valido ben presto Metello mostrò a Roma che non aveva
scelto male il generale di quella guerra. Credeva Giugurta che il nuovo capo fosse uno dei tanti uomini
corrotti che abbondavano nella metropoli d'Italia e ovviamente volle usare con lui la stessa tattica che gli era
riuscita con gli altri.
Appena Metello giunse in Africa, il re numida si affrettò a mandargli ambasciatori con ricchi doni, proposte di
pace e offerte d'amicizia; il console respinse sdegnosamente ogni cosa e cercò a sua volta, imitando l'astuto
nemico, di corrompergli gli ufficiali.
Capitano molto esperto e nel medesimo tempo di grande prudenza, Metello avanzò nel territorio numidico
con estrema circospezione per non cadere nelle insidie di cui per fama sapeva che Giugurta era maestro.
Il primo successo lo colse a Vacca, importante città, abitata da numerosi commercianti italici, e riuscì ad
impadronirsene. Qui il console lasciò un notevole presidio, poi marciò risolutamente contro Giugurta e,
giunto con lui a battaglia sulle rive del Muthul, lo sconfisse. Non furono queste le sole vittorie di Metello.
Proseguendo nella sua marcia, costrinse alla resa altre città nemiche nonostante le astuzie, gli assalti
improvvisi, la resistenza ostinata del nemico e la difficoltà dei luoghi.
Posto l'assedio a Zama, METELLO riuscì a corrompere BOMILCARE e a quel punto Giugurta fu costretto a
chiedere la pace. Il console pose però durissime condizioni: pagamento di duecentomila libbre d'argento e
consegna di tutti gli elefanti, dei disertori, di quasi tutti i cavalli e buona parte delle armi.
Giugurta accettò e la pace sarebbe stata conclusa se Metello non avesse preteso, dopo, la resa a
discrezione del numida. Questi rifiutò, rispondendogli che lo scettro era assai meno grave delle catene, e la
guerra ricominciò più aspra di prima.
Ma anche nella ripresa del conflitto la sorte premiò il valore delle legioni romane per l'accortezza e la perizia
di Metello; la ricca città di Tala assalita con una forte determinatezza cadde in potere del console e Giugurta
fu costretto a riparare nel territorio dei Getuli, dove chiese ed ottenne dal suocero BOCCO, re della
Mauritania, l'appoggio del suo esercito per riuscire a riconquistare il regno che ormai stava perdendo.
METELLO si trovava accampato presso Cirta (108 a.C.) e qui marciavano gli eserciti dei due re africani
quando inaspettata gli giunse da Roma la notizia che il popolo romano aveva conferito il comando
dell'esercito e affidata la direzione della guerra d'Africa ad un altro capitano. Un suo subalterno che gli aveva
concesso il permesso per recarsi a Roma per tentare di farsi nominare console.
Quella sostituzione suonava come un'offesa gravissima per Metello che tutt'altro trattamento meritava per
avere fino allora condotta felicemente quasi al termine la guerra giugurtina. Pieno di sdegno e non volendo
compromettere con una battaglia, di cui non poteva prevedere l'esito, l'opera sua, Metello avviò trattative con
Bocco, poi, lasciato interamente il comando delle truppe al suo luogotenente P. RUTILIO RUFO, ritornò a
Roma, dove il Senato, in riparazione del torto che era stato fatto al valoroso capitano, gli decretò il trionfo e
gli conferì il titolo di Numidico.
CAIO MARIO
Il capitano destinato a sostituire Metello nel comando dell'esercito d'Africa era CAIO MARIO. Nato da oscura
famiglia a Cereate, piccolo villaggio presso Arpino, aveva trascorso la prima giovinezza nella campagna,
facendo l'agricoltore. Abituato alle più dure fatiche, di costumi semplici, sobrio e morigerato, Mario non
pareva un uomo nato in tempi di tanta corruzione. Disprezzava il denaro e rimproverava il lusso e la vita
disordinata e corrotta dei suoi contemporanei; ammiratore degli antichi Romani, stigmatizzava aspramente
tutti coloro che seguivano le mode straniere, dicendo essere ridicolo un popolo che imitava gli usi ed
apprendeva la lingua dei suoi schiavi. Era di carattere fiero e rude; non seguiva alcuna corrente politica per il
suo spirito d'indipendenza, ma non nascondeva la simpatia per il popolo sano e forte ed era fieramente
avverso alla nobiltà scioperata, oziosa, degenere, prepotente ed avida ed ai sacerdoti che considerava
indegni ministri della religione dei padri.
Aveva partecipato all'assedio di Numanzia facendosi notare per l'amore alla disciplina, lo sprezzo dei pericoli
e la grande bravura. Un aruspice uticense aveva detto di lui che sarebbe divenuto un uomo illustre e potente
e Scipione Emiliano, che lo aveva avuto sotto di sé nell'esercito di Spagna, aveva altamente lodato i meriti
del giovane soldato dicendo che soltanto Mario era degno di succedergli nel consolato.
Con l'aiuto di Quinto Cecilio Metello, CAJO MARIO era stato, nel 119, creato tribuno della plebe e trovandosi
in tale carica si era acquistato improvvisamente il favore del popolo proponendo una legge che vietasse alle
persone di sollecitare agli ingressi dell'assemblea i suffragi dagli elettori. Quelle La rogazione aveva
suscitato l'ira dei nobili e il console Aurello Cotta lo aveva citato davanti ai senatori per dare spiegazioni
intorno a quella proposta, che era come a voler mettere in dubbio il comportamento degli eletti. CAJO
MARIO era comparso nella Curia più in veste d'accusatore che d'accusato e in quella circostanza il suo
contegno fu così risoluto che la legge da lui proposta era stata approvata.
Se fosse stato meno rigido, la sua carriera politica sarebbe stata più rapida; Mario però non amava
sacrificare alla popolarità le sue convinzioni ed ai successi che potevano ottenersi con la demagogia,
preferiva le disapprovazioni pur di non venir meno ai suoi principi. Così una volta egli impedì che fosse fatta
una distribuzione gratuita di grano al popolo, affermando coraggiosamente che non con l'elemosina andava
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combattuta la miseria ma col dare lavoro. Un uomo che non sollecitava favori, che non piegava mai la testa,
che non si prestava ad alcun compromesso, che non veniva a patti con la propria coscienza, che per la sua
imparzialità e rigidità si era messo in urto con le fazioni non poteva con facilità salire a quegli alti gradi di cui
Scipione lo aveva proclamato degno.
Uscito dalla carica di tribuno, CAIO MARIO si era visto rifiutare l'edilità curule e solo dopo tre anni, nel 115,
era riuscito a farsi eleggere pretore.
Mandato in Spagna dal Senato, aveva saputo con tale fermezza governare la Provincia Ulteriore che
METELLO, chiamato al governo della guerra numidica, lo aveva voluto con sé con il grado di luogotenente.
Mario aveva corrisposto alla fiducia che Metello aveva riposta in lui ed era stato il più prezioso collaboratore
del console; infatti, con la sua sagacia e col suo valore era stato il principale artefice della vittoria del Muthul,
dei successi di Zama e della conquista di non poche città del reame di Giugurta.
La consapevolezza della propria capacità e la fortuna da cui erano state coronate le sue imprese avevano
fatto nascere in lui l'ambizione. Ammirava senza dubbio le qualità di Metello, ma era dell'avviso che se
avesse avuto lui il comando dell'esercito con maggior celerità avrebbe condotta a termine la guerra.
Bramoso di diventare console, alla fine del 108 aveva chiesto a Metello una licenza per recarsi a Roma per
presentarsi ai comizi delle elezioni consolari.
METELLO, superbo come tutti i nobili e un tantino geloso del suo subalterno, gli aveva rifiutato il congedo,
attirandosi l'odio di Mario; questi però non si era dato per vinto e a furia d'insistere aveva ottenuto il
desiderato permesso. Ma affinché Mario non avesse il tempo di procurarsi i voti lo aveva lasciato partire solo
dodici giorni prima dei comizi.
Nonostante l'esiguità del tempo messo a sua disposizione e l'ostilità dei nobili, MARIO, molto noto a Roma
per la fama delle sue imprese africane, ebbe i suffragi unanimi del popolo cui egli aveva promesso che se
avesse avuto il governo della guerra l'avrebbe presto e vittoriosamente condotta a termine.
Nominato console per l'anno 107, contro la volontà del Senato che per quell'anno aveva già confermato
Metello nel comando dell'esercito di Numidia, i comizi avevano conferito a Mario la direzione delle operazioni
militari contro Giugurta.
Dopo la sua elezione Mario aveva rivolto al popolo un'orazione fiera e sdegnosa, piena d'aspri rimproveri
contro la nobiltà smidollata ed oziosa che gli rinfacciava l'oscurità della nascita e la modesta fortuna ed alla
quale egli rimproverava la viltà e l'infamia. "Imbelli, mangiati dall'orgoglio e rosi dalla superbia, i nobili si
credono superiori agli altri e vantano a sazietà i loro inutili titoli e le glorie degli avi. Ma essi, nella vanità della
loro stoltezza non vedono che la nobiltà risiede solamente nella virtù e non sanno che si deve stimare
migliore quell'uomo che, con le sue opere lodevoli, si fa autore della propria fama, piuttosto che colui il quale
insozza nell'ozio e nei vizi la gloria degli antenati. Seguano pure i nobili il malvagio genio che li guida;
trascorrano la gioventù e la vecchiaia nelle intemperanze dei conviti. Altro essi non possono fare perché in
tale stato sono ridotti che solo in questi bagordi essi possono appagare la loro volgare libidine. Non tolgano
però il premio della virtù ai figli del popolo. Questi, tenendo in vil conto le mollezze e le effeminate eleganze,
preferiscono le fatiche e la polvere delle battaglie e meglio di loro sanno governare e difendere la patria".
C'era tutto un programma politico nella breve e rude orazione di MARIO e il popolo, di cui lui aveva
abbracciato il partito, aveva salutato in lui il suo campione.
FINE DELLA GUERRA GIUGURTINA
Prima di recarsi in Africa, CAJO MARIO raccolse una gran quantità di vettovaglie e riunì sotto le sue insegne
numerose milizie. Per la prima volta chiamò sotto le armi oltre che i cittadini iscritti nelle classi, come sempre
si era sempre fatto, i proletari, allo scopo di acquistarsi maggiormente il favore del popolo facendolo
partecipe degli utili del bottino e alleviandone la miseria con la paga. Un grosso contingente di uomini e di
cavalli lo fornirono i Latini e gli alleati italici.
Terminati i preparativi di guerra, alla fine della primavera del 107 a.C., Mario partì per l'Africa e, ricevuto dal
luogotenente RUTILIO RUFO l'esercito di Metello, iniziò le Operazioni contro GIUGURTA e ROCCO.
Senza dubbio il suo predecessore (Metello) aveva fatto molto, ma non poco rimaneva da fare a Mario dopo
che il sovrano di Numidia aveva ricevuto gli aiuti del re della Mauritania suo suocero. La guerra si
presentava piena di difficoltà e Mario mise in opera tutta la sua strategia, tutta la sua consumata perizia e il
suo valore personale.
Sapeva di essere console, capo e soldato insieme; non aveva l'alterigia di un nobile e i suoi modi erano tali
che l'esercito, il quale lo teneva in altissimo conto di generale, gli divenne affezionatissimo, seguendolo
ciecamente nelle imprese più rischiose.
Era instancabile e spietatamente energico. Piombava improvvisamente contro il nemico, ne sventava le
insidie, lo cacciava dalle più difficili posizioni, conquistava paesi e città, preceduto dalla fama di uomo
invincibile, incendiava le messi, distruggeva villaggi, era il terrore del nemico al quale non concedeva un
giorno di tregua.
Nessun ostacolo lo arrestava, nessuna sfavorevole circostanza lo scoraggiava. La fortezza di Capsa,
reputata imprendibile per la posizione in cui si trovava, fu da lui risolutamente assalita, costretta alla resa,
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conquistata; sorpreso una sera dal nemico mentre marciava con il suo esercito fu circondato sopra un'altura
e, quando Giugurta credeva di averlo messo in trappola, Mario si lanciò con i suoi uomini con tale impeto
contro le truppe africane che fu lui a mettere in difficoltà gli altri, che poi trovarono scampo nella fuga.
Militava nelle file del suo esercito con il grado di questore un giovane di appena trent'anni che doveva
diventare il suo più grande avversario: LUCIO CORNELIO SILLA.
Quest'uomo discendeva da un ramo dell'illustre casa Cornelia ridotto in tristi condizioni finanziarie. Silla,
seguendo l'esempio dei suoi padri, aveva trascorso la giovinezza fra le cortigiane e i conviti; la famosa
cortigiana NICOPOLI, innamoratissima di lui, alla sua morte lo aveva lasciato erede dei suoi beni. Silla
amava il lusso, l'eleganza e le raffinatezze; si profumava ed inanellava le chiome; vestiva secondo la moda
greca, si dilettava degli studi latini ed ellenici. Fornito di vivace ingegno, non aveva voluto metterlo a profitto
per migliorare la sua condizione, né l'astuzia, nella quale era insuperabile, che però non aveva mai messo a
servizio della sua ambizione.
A trent'anni soltanto, versando in critiche condizioni economiche, si era deciso a conquistarsi una posizione
ed aiutato dal nome, dalle aderenze e dai parenti, nel 107, aveva ottenuta facilmente la carica di questore.
Non poteva un uomo che aveva un simile passato essere bene accolto ad un generale come Mario, ma Silla
fin dal primo giorno che era stato assegnato all'esercito d'Africa si era mostrato così attivo, volenteroso ed
intelligente, e aveva poi fornito tante prove di coraggio e di saldezza che era entrato nelle buone grazie del
console.
Si trovava Mario con il suo esercito accampato nelle vicinanze di Cirta che era una delle pochissime città
non ancora conquistate. Qui fu combattuta tra i Romani e i due re collegati la battaglia decisiva, e si dovette
al valore manifestato dal questore Silla se non riuscì fatale alle armi di Roma.
Sorpreso dal nemico, l'esercito romano si trovava in una situazione difficile, quando a renderla più grave
comparve Giugurta, il quale, brandendo una spada insanguinata, andava gridando che aveva con quella
ucciso Mario.
Quella notizia fece crescere la baldanza degli Africani ma provocò lo sgomento nelle schiere consolari, le
quali, assalite duramente, tentennarono, e già i Mauri stavano per avvolgere un'ala dell'esercito romano e
l'avrebbero sbaragliata se LUCIO CORNELIO SILLA non fosse prontamente intervenuto. Con una forte
schiera piombò sul fianco dei Mauri ed arrestò con tutto l'impeto, l'urto nemico. L'intervento di Silla diede
tempo a MARIO di accorrere con il resto delle truppe e rinfrancare con la sua presenza l'animo dei Romani, i
quali, visto vivo il loro generale, cominciarono a combattere con tanta rinnovata energia, sconfissero il
nemico procurandogli delle gravissime perdite, oltre che averlo messo in fuga.
Cirta, abbandonata dagli Africani, cadde così in potere del console.
La disfatta degli due alleati fu così grande che BOCCO giunse nella determinazione di abbandonare al suo
destino il genero e inviò ambasciatori a MARIO per chiedere subito la pace.
Il re Bocco però voleva come premio la Numidia; MARIO gli concesse solo una tregua e inviò messi a Roma
con le proposte del re; ma dal Senato fu risposto che la repubblica non poteva dare pace ed amicizia se
prima Bocco non dimostrava con qualche utile servigio di meritarsela.
BOCCO capì che gli si chiedeva la testa di Giugurta e fece sapere a Mario che desiderava incontrarsi con un
ufficiale romano. La scelta cadde sul questore SILLA; e lui in compagnia di Voluce, figlio di Bocco, attraversò
gli accampamenti nemici, si recò presso il re della Mauritania e portò a compimento la delicatissima missione
che gli era stata affidata.
E la seppe così bene fare la sua missione che con la sua eloquenza, persuase il barbaro re a tradire il
genero che, attirato in un tranello, GIUGURTA fu catturato e consegnato a SILLA in catene.
Così ebbe fine la guerra giugurtina, che era durata sei anni, ed era stata piena di eventi lieti e tristi,
vergognosi e gloriosi; aveva visto l'esercito della più potente nazione del mondo passare sotto il giogo fra
gl'insulti di quei barbari tante volte sconfitti; aveva visto generali ed ufficiali ed ambasciatori romani comprati
ignobilmente dall'oro numidico; aveva svelato la corruzione della nobiltà romana e suscitato lo sdegno del
popolo; aveva assistito alla lotta sorda tra Metello e Mario; aveva visto sorgere la fortuna di due uomini che
tanta gloria e tanti dolori dovevano procurare alla loro patria; ma alla fine aveva visto tramontare la stella del
più astuto e del più spregiudicato re barbaro e svolgersi la trama del più nero tradimento.
Di questo regno la parte migliore fu unita alla provincia romana, la parte occidentale fu, secondo i patti,
ceduta a Bocco, la parte orientale assegnata a Gauda, cugino di Giugurta, il resto fu diviso tra Jempsale e
Jarba, nipoti di Massinissa.
Alla fine del 105, MARIO fece ritorno a Roma e il primo del gennaio del 104 celebrò il suo trionfo cui
partecipò SILLA. Per l'occasione fu coniata una medaglia commemorativa. Grandioso fu il trionfo. Carico di
catene e in compagnia dei figli, Giugurta seguì il carro del vincitore, ben esposto agli insulti del popolo che
sfogò il suo sdegno ricoprendo di insulti colui che aveva gettato il fango sul nome romano; poi il vinto re fu
buttato dentro in una buia cella nel terribile carcere Tulliano.
Si narra che gli avidi custodi si impossessarono dei suoi vestiti, poi gli mozzarono le orecchie per
impadronirsi degli orecchini pendenti tempestati di ricchissime gemme; e si narra pure che, entrando così
seminudo nel carcere, Giugurta esclamasse "Per Ercole! Questo bagno è molto freddo".
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F. D'ALESSI - Letteratura latina - Parte II,1 - Il periodo classico
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Oltre al freddo di gennaio, lo lasciarono pure a digiuno; una settimana dopo, l'ex re della Numidia moriva di
fame.
Lasciamo per il momento, il trionfo sulla Numidia dell'anno 104, e torniamo indietro di qualche anno, nella
Gallia Transalpina, che era -quella allora conosciuta- un importante territorio per le legioni romane che
volevano procurarsi una via terrestre verso la Spagna. E una delle più importanti era quell'aerea che inizia
dalla costa del Mediterraneo, da Massilia (Marsiglia) fino all'alto Rodano. Una via tracciata e già collaudata
da Annibale e dal fratello Asdrubale, quando dalla Spagna si erano recati in Italia, varcando poi le Alpi.
Erano territori con fierissime popolazioni celtiche (dette poi galliche) che cominciavano a non vedere di buon
occhio la comparsa dei Romani nei loro territori.
Ma i Romani in questo territorio, ci andarono quando una delle popolazioni, i Massilioti, assaliti dai Salluvi, i
primi chiesero aiuto proprio ai Romani.
Questo non poteva bastare ai Romani; ma nel territorio non c'erano solo Massilioti e Salluvi, c'erano altre
popolazioni, come gli Allobrogi, gli Averni, i Teutoni e i Cimbri.
Quindi dopo l'Africa, la Grecia, l'Illiria, e la Spagna, Roma si concentra e inizia la conquista della Gallia
Transalpina.
Ed è nella prossima puntata che parleremo di queste campagne militari, ripartendo da alcuni anni
indietro..…il periodo dall'anno 123 al 101 a.C. > > >
Fonti, Bibliografia, Testi, Citazioni:
TITO LIVIO - STORIE (ab Urbe condita)
POLIBIO - STORIE
APPIANO - BELL. CIV. STORIA ROMANA
DIONE CASSIO - STORIA ROMANA
PAOLO GIUDICI - STORIA D'ITALIA
UTET - CRONOLOGIA UNIVERSALE
I. CAZZANIGA , ST. LETT. LATINA,
+ altri, in Biblioteca dell'Autore
GUERRE CONTRO I GERMANI 113 - 101 a.C.
GERMANI CONTRO ROMANI
" Atto Primo "
( MARIO RESPINGE L'INVASIONE DI UN NUOVO POPOLO )
Anno 113 a.C. - In questo anno a Roma erano consoli Cecilio Metello e Papirio Carbone. Quest'ultimo, era
partito per il Norico (odierna Austria Centrale) dove da alcuni anni i Galli Carnei, invadevano e minacciavano
i confini. Ma presso Noreia, l'esercito romano guidato da Papirio Carbone fu sconfitto da un nuovo nemico,
una popolazione che pochi anni prima aveva abbandonata la zona baltica del Chersoneso (odierno Jutland)
e assieme ad altre tribù già stanziate nella odierna Germania settentrionale, era scesa nella regione
danubiana occidentale.
Fu quello di Papirio Carbone uno scontro-incontro epocale.
--------------------------------di Giovanni Aruta
Verso la fine del secondo secolo a.C. Roma era già una potenza di rilievo nel Mediterraneo. Dopo aver vinto
la sua epica lotta contro Cartagine, distruggendola completamente, aveva esteso la sua influenza in Oriente,
occupando la Grecia e parte dell'Asia Minore. La penisola iberica era sotto il saldo dominio di Roma così
come la Gallia Meridionale e parte dell'Africa del nord.
Ma, proprio quando le classi dirigenti romane iniziavano ad accarezzare l'idea di espandere l'influenza
romana oltralpe e precisamente nel vasto territorio delle Gallie settentrionali, iniziarono a giungere notizie
allarmanti circa lo spostamento verso sud di masse di popoli provenienti dalle terre poco ospitali ed
inesplorate del nord. Queste voci, in un primo momento riportate dai mercanti che provenivano dalle zone
comprese fra il Reno e l'Elba, trovarono conferma nei rapporti preoccupati che iniziarono a giungere dagli
avamposti posizionati all'estremo nord dei domini romani.
La situazione iniziò a divenire più chiara verso il 113 Avanti Cristo: infatti quell'anno una massa enorme di
esseri umani, che portava al seguito tutto ciò che aveva stipato in carri, iniziò ad avvicinarsi lentamente al
confine settentrionale della Repubblica. Gli informatori descrivevano questa spaventosa migrazione con toni
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assai poco rassicuranti. I loro rapporti parlavano della cifra incredibile (per quei tempi) di un milione di esseri
umani, dei quali 300.000 atti alle armi. Coloro che avevano potuto vederli riferivano con apprensione che
erano tutti alti oltre 1 metro ed ottanta centimetri, una statura che appariva gigantesca ai Romani che
all'epoca raramente superavano il metro e sessanta.
Questi guerrieri erano talmente forti e terribili in battaglia che nessuno dei popoli che avevano incontrato sul
loro cammino era riuscito a resistere loro in battaglia. I pochi scampati alle stragi da essi perpetrati riferivano
con terrore che i guerrieri germanici erano dotati di una forza sovraumana (fattore fondamentale in un'epoca
in cui il combattimento avveniva corpo a corpo e pertanto era basato in gran parte sullo scontro fisico) ed
erano coraggiosi a tal punto da andare in battaglia senza indossare alcuna protezione incuranti di offrire il
petto nudo al nemico.
Erano armati di lunghe spade e giavellotti e soltanto i nobili si ricoprivano il capo con elmi raffiguranti le fauci
spalancate di belve per incutere terrore agli avversari. Si trattava di uomini che non avevano alcuna paura
della morte, anzi ritenevano più onorevole perire in battaglia piuttosto che morire lentamente di vecchiaia.
Questa massa umana vagava distruggendo e depredando tutto ciò che trovava sulla propria strada e non
risparmiava neanche i prigionieri che venivano sacrificati in gran numero alle loro divinità ed il cui sangue
veniva utilizzato dalle donne anziane per trarne presagi sugli accadimenti futuri.
Si trattava dei CIMBRI che nel proprio cammino, come ci riferisce lo storico Appiano, avevano travolto la
tribù dei Taurisci, nelle vicinanze di Noreia (località situata nell'odierna Stiria). A quel punto vennero però in
contatto con le legioni del console Papirio Carbone il quale aveva in animo di respingerli. Pertanto marciò
contro di loro accusandoli di aver attaccato i Taurisci all'epoca tribù alleata dei Romani. I Cimbri inviarono al
console un'ambasceria con il compito di spiegargli che non erano a conoscenza dell'alleanza di Roma con i
Taurisci offrendosi di non molestarli più in futuro. Il console, riferisce Appiano, accolse con favore gli
ambasciatori ed anzi si offrì di fornire loro delle guide che li conducessero verso nuovi fertili territori dove
avrebbero potuto stabilirsi ponendo così fine alle loro peregrinazione (lo storico romano riferisce che i Cimbri
si erano infatti mossi dalle loro terre perchè erano state invase dal mare). Egli però in gran segreto aveva
istruito le guide affinchè attirassero i Cimbri in una trappola dove egli li avrebbe attaccati di sorpresa con le
sue legioni (avendo seguito una via più breve) annientandoli.
Ma l'esito della battaglia fu sfavorevole ai Romani. Benchè colti mentre erano intenti a riposare, i barbari
seppero riprendersi rapidamente dalla sorpresa. Ben presto i legionari vennero ridotti a mal partito e fu
soltanto grazie all'intervento di un furioso temporale, con tanto di tuoni e fulmini, che parte dell'esercito
romano potè sottrarsi all'annientamento. Le truppe del console comunque, riferisce Appiano, fuggirono
disordinatamente e soltanto dopo alcuni giorni i superstiti di quella sfortunata battaglia poterono essere
riuniti. Il piano elaborato da Papirio Carbone era dunque fallito miseramente. Per fortuna di Roma i Cimbri
non valicarono subito le Alpi perchè così facendo avrebbero fatto irruzione nella pianura padana dove non vi
erano eserciti romani pronti a contrastarli. Essi invece, anzichè proseguire nel loro cammino verso sud, si
diressero verso occidente, nel territorio degli Elvezi (l'odierna Svizzera) in direzione del fiume Meno.
La ragione di questo improvviso cambio di direzione è ignota agli storici ma la maggior parte di essi ritiene
che fu proprio durante questa ennesima migrazione che si unirono ad un'altra popolazione proveniente,
come loro, dalle remote terre del nord (precisamente da quello che è oggi lo Schleswig - Holstein): i Teutoni.
Questi ultimi avevano per lungo tempo occupato un territorio vicino a quello dei Cimbri, poi, probabilmente
per le stesse ragioni, se ne erano allontanati ed avevano iniziato anch'essi una lunga peregrinazione. Le
forze dei Cimbri e dei Teutoni, unite, costituivano una potenza formidabile e la vista di una così grande
massa in cammino da sola era più che sufficiente a spaventare qualsiasi popolo o tribù che volesse opporsi
al loro passaggio. Dove passava questa spaventosa moltitudine di uomini, donne, carri ed animali non
cresceva più l'erba, non si vedevano più animali al pascolo, venivano sistematicamente svuotati i granai e
saccheggiate le stalle. Gli Elvezi non opposero alcuna resistenza ed anche i Sequani dovettero piegarsi al
volere dei nuovi arrivati concedendo loro terre ed il diritto di passaggio sul loro territorio. Ma, ad un certo
punto, la massa umana, su zattere ed imbarcazioni di ogni tipo, attraversò il fiume Reno e, attraverso la
Borgogna, raggiunse Besancon venendo così a diretto contatto con gli Allobrogi, popolazione alleata di
Roma.
Accadde così che, come era avvenuto per i Taurisci, anche stavolta Roma fu costretta ad intervenire in
difesa di una popolazione di lei alleata che veniva minacciata da questa marea barbara. Del resto se i Cimbri
ed i Teutoni avessero conquistato il territorio degli Allobrogi si sarebbero minacciosamente avvicinati alle
Alpi: si sarebbe così ripresentato il pericolo di una loro irruzione nella penisola italica.
Si mosse così ad affrontarli un esercito a capo del quale era il console Marco Giunio Silano. Quando i due
schieramenti vennero a contatto i barbari inviarono una delegazione al console che recava con sè una
proposta: se i Romani avessero loro concesso di insediarsi in territori fertili e sufficienti a sfamare quella
moltitudine non solo i Cimbri ed i Teutoni non avrebbero più costituito alcun pericolo per Roma ma
avrebbero anche aiutato quest'ultima con la forza delle loro armi se ve ne fosse stato bisogno. Il console
rispose che non poteva impegnarsi e propose di inviare una delegazione a Roma a trattare con il Senato.
Quest'ultimo ebbe a ricevere una folta ambasceria di Germani ma i colloqui non ebbero esito positivo. I
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senatori romani invitarono i Cimbri ed i Teutoni a cercare terre in Spagna; ciò in quanto nella penisola italica
e nei territori della gallia meridionale sotto il dominio di Roma non c'era spazio per i nuovi venuti.
Pertanto gli inviati tornarono presso i loro popoli e chiesero al console Silano come dovevano regolarsi dopo
il fallimento delle trattative. Il console pensò si assalirli di sorpresa ma l'esito di questa mossa si risolse in
una nuova sconfitta dei Romani. Anzi questa volta la batosta fu più grave perchè lo scontro che ne seguì si
concluse con il completo annientamento delle truppe di Silano, ben quattro legioni. Successivamente, per
altri quattro anni, quella moltitudine errante devastò la Francia meridionale fino a quando, dopo svariate
peregrinazioni, prese a marciare verso sud con un obiettivo ben preciso: la penisola italica. Intanto i Romani
avevano iniziato a tenere nella dovuta considerazione quel formidabile nemico. Occorreva assolutamente
impedirgli di attraversare il fiume Rodano, considerato come una sorta di linea del Piave, e pertanto tre forti
eserciti erano stati dislocati in loco per respingere ogni attacco di quei terribili barbari. Al comando di queste
tre formazioni erano: il proconsole Servilio Cepione, la cui forza era attestata sulla riva occidentale, il console
Mallio Massimo che aveva la responsabilità dell'esercito dislocato sulla riva orientale. Più a nord est erano
invece accampate le legioni del console Aurelio Scauro, nei pressi di Vienna. La marea barbara, a quel
punto, fece una conversione ad est e travolse rapidamente le forze di Scauro al quale i suoi colleghi non
poterono o non vollero prestare alcun aiuto.
A quel punto era chiaro che per battere quella massa così ingente di nemici era necessario che i due eserciti
romani ancora in campo avrebbero dovuto unire le forze a loro disposizione. Ma tra i due comandanti romani
vi era una rivalità insanabile: in particolare il proconsole Servilio Cepione non intendeva obbedire agli ordini
del console Massimo (come pure sarebbe stato tenuto a fare essendo quest'ultimo un suo superiore) e
neanche le insistenze degli ufficiali furono in grado di fargli mutare idea. Un incontro tra i due comandanti si
concluse senza alcun esito in quanto vi fu una discussione aspra durante la quale i contendenti si
insultarono a vicenda. Venne allora inviata dal Senato un'ambasceria allo scopo di creare a tutti i costi un
comando unitario. Il Senato sembrò riuscire a raggiungere il suo intento ma questo successo fu più
apparente che reale. Infatti, nonostante l'intervento senatorio, i due comandanti romani continuarono a farsi
la guerra fra loro. Così, al momento dello scontro, nel campo romano il comando era tutt'altro che unico e ciò
ebbe conseguenze fatali.
La battaglia si scatenò ad Arausio il 6 ottobre del 105 Avanti Cristo. Cepione, temendo che l'altro
comandante romano volesse usurpargli la gloria di battere i barbari, mosse per primo all'attacco appena
spuntò l'alba e subito i suoi legionari si trovarono a mal partito costretti ad indietreggiare dalla furia del
nemico. Massimo si decise a correre in suo aiuto nella tarda mattinata quando ormai era troppo tardi. Fu
così che Roma fu nuovamente sconfitta e, questa volta, la batosta fu più grave delle precedenti: due grandi
eserciti vennero annientati e nelle mani dei barbari rimase un enorme bottino. Racconta Orosio nelle sue
"Historiae" che i vincitori non ebbero alcuna pietà dei vinti ed addirittura distrussero, cosa mai accaduta, tutto
ciò che cadde nelle loro mani; i prigionieri vennero sacrificati al dio Wotan. Quando la notizia della nuova
tremenda sconfitta giunse a Roma si scatenò il panico: dai tempi di Annibale la città eterna non subiva simili
disfatte. La situazione era aggravata dal fatto che, nell'immediato, non vi erano altri eserciti disponibili con i
quali guarnire i passi alpini. Roma era ormai senza difesa di fronte a quei barbari che potevano irrompere di
lì a breve prima che si potesse organizzare una valida resistenza.
L'ira dei senatori e del popolo romano si abbattè su Cepione che venne sottoposto ad un pubblico processo
e privato delle sue cariche. Iln suo patrimonio fu confiscato e alla fine venne gettato in carcere. Anche
Massimo fu allontanato dal comando in quanto si era comunque rivelato incapace di fronteggiare il nemico.
Ma la fortuna era dalla parte di Roma: quei barbari che sembravano invincibili, incredibilmente, non
varcarono subito le Alpi per conquistare l'ormai indifesa penisola italica. Il Senato ebbe così il tempo di
scegliere colui che avrebbe risollevato le sorti di Roma: CAIO MARIO.
CAIO MARIO era una persona di umili origini in quanto non proveniva dalle file dell'aristocrazia senatoria.
Egli si era distinto nelle campagne militari in Africa dove aveva condotto una lunga guerra vittoriosa contro i
Numidi guidati da un formidabile capo, Giugurta. Quest'ultimo dopo una dura e sanguinosa lotta era stato
sconfitto e portato a Roma in catene quale prova visibile del trionfo di Roma. Mario aveva dunque dimostrato
grande capacità nell'arte militare, cosa sempre molto apprezzata nel mondo romano, ma non era questa la
sua unica virtù: aveva infatti la fama di uomo incorruttibile e di persona che odiava gli intrighi, qualità molto
rare nella classe dirigente romana dell'epoca. Il suo carattere era alquanto riservato, viveva in modo parco e
si rifiutava di pagare somme favolose per allestire banchetti. Mario aveva sposato una donna di nobili origini,
sorella del padre di Cesare, del quale era dunque uno zio acquisito. Cesare in seguito disse che lo zio era
stato per lui un esempio di vita e suo maestro. Avendo dimostrato grande valore come capo militare Mario
venne nominato per due volte console, malgrado la legge lo proibisse, e per prima cosa si adoperò con tutte
le sue energie per allestire un grande esercito che potesse competere con quei barbari che sembravano
invincibili. A questo scopo arruolò gente di tutte le classi sociali: iniziò poi ad amalgamare questo esercito
eterogeneo intorno al nucleo dei suoi veterani reduci della guerra d'Africa.
Nell'occasione Mario si rivelò un grande innovatore perchè eliminò le vecchie distinzioni basate sul censo e
sulla classe sociale di provenienza che all'epoca ancora contraddistinguevano l'organizzazione militare
romana. Sappiamo poi che gli eserciti romani sono passati alla storia per la disciplina ed il perfetto
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F. D'ALESSI - Letteratura latina - Parte II,1 - Il periodo classico
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addestramento (la parola "exercitum" deriva da "esercizio"), e ciò era quanto mai vero per l'esercito che
venne allestito da Mario. Egli sottopose le sue legioni ad un addestramento faticosissimo perchè sapeva che
soltanto in questo modo avrebbe potuto compensare la minore forza fisica dei suoi uomini rispetto a quei
giganteschi barbari. Fece costruire un canale che congiungeva il Rodano con il mare evitando così che le
navi restassero bloccate nel delta sabbioso del fiume. Le esercitazioni e la costruzione di quest'opera
assorbirono l'attività delle legioni per tutto il 104 e per parte del 103 Avanti Cristo fino a quando non giunse la
notizia che i barbari si erano mossi verso sud partendo dalla Francia settentrionale. Mario, con il suo
esercito, era pronto ad affrontarli con il suo esercito avendo posto l'accampamento tra i fiumi Rodano ed
Isere dai quali poteva agevolmente controllare i valichi del Monginevro e del Piccolo San Bernardo.
In quel momento i Cimbri ed i Teutoni, dopo aver vagato a lungo e raccolto un grosso bottino, avevano
deciso di dare l'assalto alla penisola italica. Non sappiamo per quale motivo ebbero a dividersi (forse perchè
era impossibile rifornire di vettovaglie un'unica colonna formata da tutte e due le tribù o magari perchè
pensavano che sarebbe stato più utile strategicamente attaccare Roma da due lati): i Cimbri infatti
attraversarono il fiume Reno e proseguirono il loro cammino in direzione delle Alpi Orientali mentre i Teutoni
si diressero verso il Rodano con l'obiettivo di valicare le Alpi Occidentali, proprio dove Mario era ad attenderli
con il suo esercito. I barbari, giunti in vista dell'esercito nemico, cercarono di attirare Mario in una battaglia
campale senza esito.
Allora, dopo aver piantato il loro accampamento di carri legati uno all'altro mossero all'attacco del campo
fortificato romano (che Mario aveva intelligentemente posto in posizione sopraelevata) ma furono respinti in
una serie di scontri sanguinosi. A quel punto i barbari, vista l'inutilità dei loro sforzi, ripresero la marcia
passando con i loro carri davanti alle fortificazioni dei romani. Narra Plutarco che il lungo convoglio sfilò per
sei giorni consecutivi senza che Mario desse l'ordine di attaccare, con grande disappunto dei suoi soldati,
che pensavano che fosse quello il momento propizio perchè il lungo convoglio nemico era lento e difficile da
manovrare. Ai suoi ufficiali che lo esortavano a dare battaglia egli replicava duramente che il momento era
cruciale per la storia di Roma e pertanto non poteva permettersi di correre il minimo rischio.
Dopo che il nemico si era allontanato Mario tolse il suo campo e, essendo più veloce, lo superò: ad Aquae
Sextiae (l'odierna Aix en Provence), pose il suo nuovo accampamento in posizione dominante in cima al
colle Montaiuguet, pretendendo che fosse costruito in perfetta regola così da resistere a qualsiasi attacco. A
quel punto Mario si scontrò con l'avanguardia dei barbari, composta dalla tribù degli Ambroni, che in quel
momento stava concedendosi un momento di riposo nei pressi del fiume Arc. In breve si accese un duro
scontro nel quale alle truppe di Mario si unirono contingenti di liguri che si batterono con particolare valore in
quanto la loro terra era immediatamente minacciata da quei barbari. I Romani ebbero la meglio ma, quando
si ritirarono nel loro accampamento, si resero conto di avere sconfitto soltanto una piccola parte dei loro
nemici. I Teutoni, giunti sul luogo dello scontro, non assalirono immediatamente l'accampamento romano ma
seppellirono con solenni cerimonie funebri i corpi degli ambroni uccisi.
Dopo qualche giorno, anche perchè provocati da alcune sortite della cavalleria romana, con indomabile
energia si dettero all'assalto dell'accampamento romano. Ma essendo quest'ultimo situato in collina
dovevano combattere in salita e quindi in una situazione di evidente svantaggio tattico con conseguente
grande dispendio di energie. I Teutoni vennero accolti da una selva di frecce e di giavellotti e furono così
respinti disordinatamente verso la pianura. Intanto Mario aveva dato ordine a tremila legionari scelti al
comando del legato Marcello di prendere posizione alle spalle del nemico e l'apparizione inaspettata di
questo contingente di uomini freschi aumentò la confusione e lo scoramento dei Teutoni. I Germani erano
irresistibili nei loro assalti ma non avevano alcuna capacità di organizzare una difesa efficace quando si
trovavano in difficoltà. Ebbe così inizio una vera e propria battaglia di annientamento che durò due giorni.
Al termine soltanto il re Teutobodo e pochi seguaci riuscirono a sfuggire al massacro rifugiandosi presso la
tribù dei Sequani. Questi ultimi però non avevano alcuna intenzione di venire in urto con Roma. Inoltre
probabilmente non provavano alcuna simpatia per i Teutoni che in passato avevano saccheggiato i loro
territori. Così decisero di consegnare il capo barbaro ai romani al quale venne riservato il triste destino di
rallegrare il popolo romano negli spettacoli circensi. Caio Mario festeggiò la vittoria facendo sacrifici agli dei
mentre i suoi soldati si dividevano il bottino.
La festa non durò molto perchè dall'Italia giunsero notizie allarmanti: i Cimbri avevano attraversato le Alpi
Orientali ed avevano fatto irruzione nella penisola italica. Un nuovo terribile pericolo minacciava Roma! A
guardia del Brennero era stato posto un esercito comandato dal console Catulo, che, alla vista della
moltitudine ostile, decise di ritirarsi perchè non si sentiva abbastanza forte da sfidare quel nuovo formidabile
nemico.
I Cimbri riuscirono così a penetrare nel nord Italia e Roma era di nuovo in pericolo. Mario intanto, con le sue
legioni, dopo lo scontro vittorioso di Aquae Sextiae, venne frettolosamente richiamato in Italia per
fronteggiare questa nuova minaccia. I Cimbri, raggiunti dall'esercito di Mario, inviarono al campo romano
un'ambasceria con la quale chiedevano a Roma di prendere atto del fatto compiuto e di assegnare loro delle
terre nel nord della penisola. Essi, per rendere più convincente la loro richiesta, dissero che se Roma avesse
rifiutato la loro proposta avrebbero unito le loro forze a quelle dei Teutoni diventando così invincibili. Mario
rispose che "non dovevano preoccuparsi dei loro "fratelli" Teutoni ... infatti a questi ultimi Roma aveva
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assegnato tutta la terra di cui avevano bisogno ..... tale assegnazione era valida per l'eternità". I Cimbri, di
fronte a queste frasi di scherno, si irrigidirono ed affermarono che il console romano avrebbe avuto a pentirsi
della sua arroganza allorchè i Teutoni sarebbero apparsi sul campo di battaglia. Per tutta risposta Mario
disse che i loro fratelli erano già lì e fece condurre i capi dei Teutoni (fra i quali era Teutobodo) in catene. A
quel punto Boiorix, re dei Cimbri, si adirò ed il giorno successivo invitò i romani a scegliere il momento ed il
luogo della battaglia. Mario rispose che i Romani non seguivano i consigli del nemico su quando e dove
attaccare battaglia.
Ma poi ci ripensò e così propose che lo scontro avvenisse nella piana dei Campi Raudi vicino Vercellae
(l'odierna Vercelli). L'abile condottiero romano aveva scelto con cura il campo di battaglia: in quel caldo
mattino del 30 giugno del 101 Avanti Cristo i barbari furono costretti a combattere con il sole che accecava
negli occhi. Inoltre i loro movimenti erano gravemente ostacolati dal vento che soffiava contro di loro
sollevando enormi nuvole di polvere. Naturalmente Mario ben conosceva questa situazione e possiamo
senz'altro affermare che la sua abilità nello scegliere il campo di battaglia fu pari a quella di Annibale nella
battaglia di Canne.
Non sappiamo molto dello svolgimento della battaglia ma è certo che la cavalleria romana, più numerosa e
meglio organizzata, ebbe rapidamente la meglio su quella barbara la cui confusa ritirata compromise la
situazione delle formazioni di fanteria dei Cimbri che ancora resistevano efficacemente. Ad un certo punto
Mario riuscì, con una manovra avvolgente, ad accerchiare il nemico. A quel punto ebbe inizio una vera e
propria battaglia di annientamento che portò i Romani a diretto contatto con l'accampamento di carri dove
erano rimaste le donne che, come consuetudine nelle schiere barbariche, erano abituare ad esortare i loro
uomini durante le battaglie. Le sventurate, vistesi perdute, chiesero di poter essere risparmiate e di entrare a
far parte delle vestali. Mario rifiutò, la dura legge della guerra e del bottino non permetteva eccezioni a quei
tempi, e così a molte donne non rimase altra scelta che darsi la morte insieme ai loro congiunti per evitare di
finire in schiavitù. Narra, Orosio, che venne anche trovata una donna che si era impiccata unitamente ai suoi
due figlioletti. Boirix e tutti gli altri principi dei Cimbri morirono nella battaglia.
Con le vittorie contro i Cimbri ed i Teutoni Mario aveva salvato Roma. Nella città vennero celebrate grandi
feste per lo scampato pericolo e furono fatti imponenti sacrifici agli dei. A Mario venne tributato un magnifino
trionfo: il condottiero sfilò su un grande carro vestito di una tunica rossa tenendo nella mano destra un
ramoscello d'alloro ed in qulla sinistra lo scettro d'avorio. Uno schiavo dietro di lui reggeva la corono d'oro di
Giove sul suo capo e gli gridava "ricordati che sei solo un uomo".
Il corteo trionfale era preceduto dai capi barbari catturati fra i quali vi era Tuetobodo, re dei Teutoni. Si era
così concluso il primo atto dello scontro fra due grandi civiltà, quella romana, destinata in breve tempo a
dominare gran parte del mondo conosciuto, e quella germanica che sebben più giovane ed acerba, era però
indomita e coraggiosa. Grazie a queste doti in futuro si sarebbe resa protagonista di scontri epici con Roma
Imperiale. Ma, prima di allora, un re barbaro, Ariovisto, incrociò nuovamente la spada con le legioni romane.
Lo scontro questa volta avvenne in Alsazia e, questa volta, le armi di Roma erano guidate da colui che molti
storici considerano essere stato "il più grande fra i mortali": Caio Giulio Cesare.
Abbiamo fin qui riepilogato alcuni anni, ma proseguiamo nei RIASSUNTI dei vari periodi
Giovanni Aruta
Fonti e bibliografia:
S. Fischer - Fabian - I Germani
LA SECONDA GUERRA SERVILE, DEGLI ALLEATI ITALICI - LA CITTADINANZA (104-88 a. C.).
LA SECONDA GUERRA SERVILE IN CAMPANIA E IN SICILIA - SALVIO ED ATENIONE - IL TRIONFO
DELLA DEMAGOGIA - SATURNINO E GLAUCIA - SESTO CONSOLATO DI MARIO - ASSASSINIO DI L.
NONIO E C. MEMMIO - MORTE DI SATURNINO E GLAUCIA - M. LIVIO DRUSO- LA GUERRA DEGLI
ALLEATI - CORFINIO CAPITALE D'ITALIA - STRAGE DI ASCOLI - GLI ITALICI CONQUISTANO LE
COLONIE ROMANE - PAPIO MUTILO E POMPEDIO SILONE - BATTAGLIA DEL TOLENO - MARIO E
SILLA NELLA GUERRA CONTRO GLI ALLEATI - LA CITTADINANZA ROMANA AGLI ITALICI FEDELI POMPEO STRABONE SCONFIGGE GLI ALLEATI AD ASCOLI - MORTE DI PAPIO MUTILO E DI
POMPEDIO SILONE- Q. METELLO IL PIO
--------------------------------------------------------------------------------------------------LA SECONDA GUERRA SERVILE
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Nello stesso anno 104 a.C., quando CAIO MARIO, otteneva il suo secondo consolato, e si preparava per
andare a ridurre all'obbedienza i Tettosagi ed alla frontiera della Provincia Narbonese allenava le sue truppe
per le future battaglie contro i barbari, scoppiava in Italia la seconda guerra servile.
La scintilla partì dalla rivolta dall'Italia centrale: TITO VEZZIO, cavaliere campano, avendo ucciso i suoi
creditori, armò i propri schiavi e, fortificatosi in una località facile ad esser difesa, riuscì a radunare circa
tremila e cinquecento schiavi della Campania.
Contro di lui fu inviato il pretore QUINTO LICINIO LUCULLO al quale riuscì a corrompere uno degli uomini di
Vezzio e di procurare a quest'ultimo la morte.
Ma se facile fu la repressione della rivolta degli schiavi in Campania, lunga e difficile fu la guerra che la
repubblica dovette sostenere per domare gli insorti della Sicilia.
Aveva il re NICOMEDE di Bitinia protestato presso la repubblica perché i "pubblicani" reclutavano nel suo
regno uomini liberi con promesse di lavoro e di guadagni in Italia, ma poi condotti nelle province, i malcapitati
li vendevano come schiavi.
Questa protesta aveva provocato un decreto del Senato con il quale s'ingiungeva ai governatori di rimettere
in libertà tutti coloro che nel modo suddetto erano stati ridotti in schiavitù.
PUBLIO LICINIO NERA, pretore della Sicilia, in ottemperanza all'ordine senatoriale restituì in pochissimo
tempo la libertà a circa ottocento schiavi; ma poi, tormentato e intimorito dalle minacce dei padroni oppure
comprato con l'oro da questi, interruppe bruscamente l'opera di giustizia che aveva così bene iniziata.
Questo fatto fu la causa della rivolta che doveva durare fino al 101 a.C. Molti schiavi che vivevano a
Siracusa fuggirono nel bosco sacro agli dei Palici, altri d'altri paesi li raggiunsero dopo avere ucciso i loro
padroni. Sull'isola si precipitò con le milizie per sottometterli il pretore LICINIO NERVA e, non potendo avere
ragione della loro resistenza, ricorse al tradimento.
Si mise d'accordo con un certo C. TITINIO soprannominato "Gadeo", il quale, condannato a morte per certi
suoi delitti, si era ridotto a vivere alla macchia. Con un manipolo di banditi TITINIO unitosi agli schiavi,
carpita la loro fiducia, eletto perfino loro capo, introdusse nelle fortificazioni dei ribelli i soldati del pretore.
Molti degli schiavi furono uccisi, altri trovarono la morte anziché lo scampo nella fuga, ed altri i più miti, ridotti
al precedente stato.
Ma la rivolta domata a Siracusa, scoppiò poi più terribile in altri luoghi. Numerosi schiavi si radunarono e si
fortificarono sul monte Capriano (oggi Rifesi, presso Bivona). Contro di loro NERVA mandò il solito TITINIO
con alcune schiere alle quali furono aggiunti seicento soldati del presidio di Enna, ma nella battaglia che ne
seguì questi ebbero la peggio: buona, parte rimase uccisa, i superstiti abbandonate le armi fuggirono.
Ovviamente aumentò, dopo questo successo, il numero e l'audacia dei ribelli, che elessero come loro capo
un certo SALVIO, suonatore di piffero. Questi riuscì a raccogliere intorno a sé circa ventimila schiavi,
organizzò una cavalleria numerosa, raccolse armi e bestiame, poi con il suo esercito marciò alla volta della
città di Murganzia.
Sorgeva questa sulla sommità di un monte. SALVIO, lasciati alla base i bagagli sotto la custodia di pochi
uomini, salì con il grosso dei suoi sulla cima e cinse d'assedio la città, in soccorso della quale corse NERVA
con un esercito il cui numero si fa ascendere a centomila uomini.
NERVA ebbe prima facilmente ragione dell'esiguo numero di ribelli rimasti a custodire il campo, poi iniziò
l'ascesa delle pendici del monte per prendere alle spalle gli assedianti; ma la strada irta com'era, per
giungere alla sommità non era facile, e i ribelli favoriti dalla posizione dominante, assalirono con tale impeto i
Romani da ricacciarli e sbaragliarli prima che raggiungessero la cima.
SALVIO però aveva ordinato di non uccidere chi abbandonava le armi. Questo spiega lo scarso numero dei
soldati romani uccisi o fatti prigionieri; infatti, nell'attacco, solo seicento uomini di Nerva lasciarono la vita e
quattromila furono catturati; ma le loro armi e i bagagli caddero tutti in potere dei ribelli. Questa vittoria
clamorosa procacciò a SALVIO la fama di prode guerriero e di uomo clemente, aumentando così il numero
dei suoi seguaci.
Respinti i Romani, i ribelli continuarono l'assedio di Murganzia. In questa città a molti schiavi, i padroni
avevano promesso la libertà se contribuivano ad aiutarli a respingere gli assedianti. E quelli si comportarono
così valorosamente che i rivoltosi furono respinti; ma quando chiesero il premio ai padroni, questi per ordine
di NERVIA, rifiutarono di mantenere la promessa. Gli schiavi, sdegnati, abbandonarono la città ed andarono
ad accrescere l'esercito di ribelli di SALVIO.
Mentre i ribelli si affermavano nella Sicilia orientale scoppiava minacciosa la rivolta nella parte occidentale
dell'isola.
Presso Segesta duecento schiavi, fuggiti dai loro padroni, elessero capo un certo ATENIONE, astrologo ed
indovino, un uomo possente, fortissimo e di gran coraggio, il quale in meno di una settimana raccolse una
schiera di mille uomini.
Il numero dei ribelli cresceva di giorno in giorno; e agli schiavi che sotto di lui accorrevano numerosi da ogni
parte, Atenione dava le armi soltanto a coloro che sapevano maneggiarle: gli altri li mandava nei campi con
l'ordine di non disertarli ma di lavorarli, che nella lotta, il cibo era importante quanto le armi.
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Aumentando il numero, quando raccolse e riuscì ad allestire un esercito di oltre diecimila uomini, decise
d'impadronirsi di Lilibeo (Marsala), ma presentando l'impresa delle grandi difficoltà, disse ai suoi che aveva
letto negli astri che un grave disastro sarebbe caduto loro addosso se insistevano nell'assediare la città.
E fu davvero profeta. Era intento a ritirarsi di notte quando approdarono sulla costa molte navi romane
cariche di soldati ausiliari al comando di GOMONE. Questi, accortosi dei ribelli, assalì la retroguardia e la
fece a pezzi.
Allora ATENIONE si unì a SALVIO e insieme assalirono ed espugnarono Triocala (presso Caltabellotta). Ma
le gelosie se c'erano a Roma, non mancavano nemmeno fra i ribelli; infatti, SALVIO geloso dei successi di
ATENIONE, non sappiamo con quale pretesto e accusa, lo fece mettere in catene, poi si proclamò re con il
nome di TRIFONE; elesse Triocala a capitale e sua residenza e la fece cingere di mura e di fossati.
La rivolta intanto si era estesa in tutta l'isola, a quel punto il Senato richiamò NERVA e inviò in Sicilia nel 103
a.C. il propretore LICINIO LUCULLO con un esercito di diciassettemila uomini.
Uniti al suo esercito i soldati che erano già nell'isola, LUCULLO marciò contro Triocala. SALVIO allora mise
in libertà ATENIONE di cui conosceva il valore e la perizia nella strategia di guerra.
Voleva il primo chiudersi in città ed aspettarvi i Romani, ma l'astrologo consigliò di assalire le truppe del
propretore in aperta campagna. Presa questa decisione, l'esercito ribelle, forte di quarantamila uomini, si
mosse contro i Romani ed entrò in battaglia presso Scirtea.
La mischia fu furiosa e grandi prove di valore fornì ATENIONE. Ferito per ben due volte alle ginocchia
continuò a combattere; ferito una terza volta, cadde al suolo e si salvò fingendosi morto. Ma i suoi,
credendolo morto, abbandonarono la battaglia e fuggirono a serrarsi nuovamente nella fortificata Triocala,
dove poi con il favore della notte si rifugiò il ferito ATENIONE.
L'avvilimento dei ribelli per la sconfitta patita a Scirtea era però piuttosto sentito, che se LUCULLO in quel
momento avesse subito assalito Triocala gli sarebbe stato facile impadronirsene; invece lui indugiò nove
giorni e questo tempo fu prezioso per gli schiavi, che, rianimatisi, riuscirono a consolidare la resistenza e
anche con sortite a respingere il propretore infliggendogli gravi perdite.
Allora il Senato visti gli insuccessi, richiamò a Roma pure lui, e inviò in Sicilia nel 102 a.C., CAIO SERVILIO;
ma questi -peggio del suo predecessore- condusse fiaccamente la guerra contro Atenione, il quale, essendo
morto Salvio, aveva assunto il supremo comando e faceva continue e audaci scorrerie nell'isola spingendosi
perfino a Messena (Messina).
La repubblica, nel successivo anno 101, si vide costretta ad inviare nell'isola il console MANIO AQUILIO, un
prode guerriero che aveva combattuto alle dipendenze di Mario in qualità di luogotenente.
Ed infatti, AQUILIO finalmente riuscì con grande energia a domare la rivolta.
Ingaggiata la battaglia con i ribelli, inflisse loro una tremenda e decisiva sconfitta. Mentre era in corso la
mischia con tutta la violenza, AQUILIO e ATENIONE, si trovarono uno di fronte all'altro e si misurarono con
le armi, fornendo entrambi una gran prova di bravura e di coraggio. Ma ad un certo punto dopo un accanito
combattimento, ferendosi a vicenda, la peggio toccò al capo degl'insorti; un colpo fatale raggiunse Atenione
e rimase stecchito al suolo; Aquilio, sebbene gravemente ferito, continuò la lotta nella quale gli schiavi
furono poi sbaragliati.
Diecimila ribelli superstiti si ritirarono nelle loro fortezze, si difesero a lungo disperatamente, ma nei ripetuti
attacchi, uccisi uno dopo l'altro, rimasero soltanto in mille, guidati da un certo SATIRO, ma che ben presto
circondati furono catturati poi spediti a Roma per alimentare di carne umana le fiere del circo.
Per non essere sbranati dagli artigli delle belve e fornire con il loro martirio un gradito spettacolo ai Romani i
mille schiavi si uccisero l'un l'altro e SATIRO, rimasto ultimo, cadde, trafiggendosi, sui cadaveri dei
compagni.
La seconda guerra servile finì insomma male, e finì così, con un suicidio-sacrificio collettivo.
IL TRIONFO DELLA DEMAGOGIA
Ma mentre infuriava in Sicilia la seconda guerra servile, non taceva in Roma la lotta delle fazioni, che non
era inferiore a quella servile, anche se condotta con altre armi.
Ma se i nobili e ricchi continuavano a battersi per il trionfo dell'oligarchia, nemmeno il partito del popolo non
era più animato da sani principi, né aveva più sani ideali, per il cui conseguimento, prima TIBERIO poi CAIO
GRACCO avevano fatto sacrificio della propria vita.
Privo di guide disinteressate e sicure il popolo era divenuto cieco strumento di uomini malvagi che
pensavano solo all'interesse personale; della plebe che erano capaci di strumentalizzare molto bene (e lo
abbiamo visto con CAIO Gracco) si servivano per acquistare le più alte cariche e con queste il potere.
La demagogia trionfava e fra quelli che guidavano le sorti del popolo, due uomini primeggiavano; per
l'ingenuo e ignorante popolo che a loro due dava il suo voto, erano poi proprio quelli che agivano per la loro
rovina.
Erano questi L. APPULEJO SATURNINO e SERVILIO GLAUCIA.
Saturnino apparteneva a nobile famiglia ed aveva iniziato la sua carriera politica parteggiando per
l'oligarchia. Uomo ambiziosissimo, era arrivato molto giovane alla carica di questore e a quella di
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provveditore dei pubblici magazzini di grano di Ostia; sostituito in quest'ufficio per ordine del Senato da M.
EMILIO SCAURO, Saturnino si era (abilmente) messo nelle file del partito democratico e nel 103 era riuscito
a farsi eleggere tribuno della plebe.
Per nuocere al partito contrario aveva nello stesso anno presentato e fatta approvare dai comizi, una legge
contro coloro che in qualsiasi modo offendevano la maestà del popolo romano, legge che per la prima volta
era stata applicata a danno di SERVILIO CEPIONE (per la disfatta ignobile nella provincia Narbonese, che
abbiamo già narrata nel precedente riassunto).
Il tribuno L. NORBANO lo aveva citato in giudizio, accusandolo di avere sottratto al tempio di Tolosa i tesori;
aveva sollevato il popolo contro due tribuni che erano sorti in difesa dell'accusato e li aveva fatti cacciare a
sassate. CEPIONE, radiato dal senato, condannato alla pena capitale, era poi riuscito a salvarsi fuggendo
da Roma.
Nell'intento di entrare nelle grazie di Mario, SATURNINO, nell'anno del suo primo tribunato, aveva proposto
che per legge (lex Appuleya de coloniis deducendis) si assegnassero cento jugeri di terreno in Africa a
ciascun soldato che aveva combattuto contro Giugurta, e per meglio ingraziarsi la stima del grande capitano
(che però odiava) ne aveva strenuamente sostenuta la candidatura al terzo consolato.
Il suo collega SERVILIO GLAUCIA era stato tribuno della plebe per la prima volta nel 112 ed aveva iniziato
la lotta contro il Senato rendendo più rigide le leggi "de repetundis" con la concessione della cittadinanza a
quei latini che accusando di concussione un senatore, portavano le prove.
Ambizioso e spregiudicato come pochi, Glaucia si era messo d'accordo con Saturnino e insieme con lui si
era dato ad una vita di turpi ricatti nei confronti dei loro stessi colleghi di alto censo, servendosi
dell'ascendente che avevano saputo acquistarsi sul popolo e non rifuggendo da qualsiasi violenza.
Fra le altre cose, a scopo di sfruttamento politico, aveva indotto un certo M. EQUIZIO, liberto, a spacciarsi
figlio di Tiberio Gracco, e poiché Metello Numidico, che allora esercitava la censura, non aveva voluto
iscrivere il liberto simulatore nella lista dei cittadini, Glaucia e Saturnino avevano sollevato il popolo contro il
censore obbligandolo a cercar riparo nel Campidoglio.
Quando Mario ritornò a Roma carico di gloria per le vittorie riportate sui Cimbri e sui Teutoni il partito del
popolo era in balia di Saturnino e di Glaucia.
Non era cessato l'odio del grande capitano contro i grandi, né la sua ambizione era stata soddisfatta dal
magnifico trionfo. Anche se console cinque volte, MARIO era stato costretto a passare tutti e cinque gli anni
del suo consolato nelle province, guerreggiando contro nemici esterni, e non aveva potuto, a Roma, com'era
suo desiderio, fiaccare le prepotenze e umiliare la corruzione, la viltà e la cupidigia dei grandi. Mario non
poteva certo rassegnarsi, dopo tanti onori, a rientrare nel silenzio della vita privata. Se aveva il valore non
aveva l'animo degli antichi dittatori romani che dopo le guerre vittoriose tornavano nella quiete dei loro
campi; il demone della politica lo aveva invaso, né voleva lasciare la sua vittima.
Il vincitore di Aquae Sextiae e dei Campi Raudii chiese per la sesta volta il consolato, e il Senato che negli
anni della guerra contro i barbari - per utile necessità- non si era opposto all'elezione dell'illustre condottiero,
cessato il pericolo, gli contrappose come candidato CECILIO METELLO il Numidico, che così si prese la
rivincita quando il suo sottoposto in Africa, non solo gli aveva sottratto il consolato, ma si era visto pure
sostituito al comando dell'esercito nella guerra contro Giugurta.
MARIO, combattuto dall'oligarchia, cercò degli alleati nel partito popolare e li trovò in SATURNINO e
GLAUCIA, dei quali il primo aspirava ad esser per la seconda volta tribuno, il secondo pretore. I tre
riuscirono eletti, ma Saturnino per ottenere il tribunato dovette ricorrere alla violenza. Essendo stato eletto
dai comizi un certo L. NONIO candidato dei patrizi, Saturnino lo fece assassinare e il giorno dopo, riunita
l'assemblea, si fece proclamare tribuno (100 a.C.).
Ottenuta la carica, Saturnino richiamò in vigore la "legge frumentaria" di Tiberio Gracco allo scopo di
ingraziarsi maggiormente il favore del popolo, inoltre, consigliato forse da Mario che voleva favorire i suoi
veterani, propose la distribuzione delle terre della Gallia Cisalpina, sottratte ai Cimbri e dichiarate agro
pubblico, a cittadini romani e soci italici e, infine, che i senatori s' impegnassero con giuramento di dare
esecuzione alla legge entro cinque giorni dall'approvazione sotto pena della multa di venti talenti.
La rogazione di Saturnino trovò fierissima opposizione nel popolo romano, che non voleva che gli italici
entrassero a far parte nella distribuzione dell'agro, ed insieme al popolo trovò pure la protesta dei senatori.
Quest'ultimi, approfittando abilmente del tumulto che era sorto e di alcuni tuoni annunciatori di un improvviso
temporale, volevano che l'assemblea si sciogliesse e la discussione rimandata.
Ma SATURNINO tenne duro e, abituato alle violenze, provocò una sassaiola dei suoi partigiani. La legge fu
approvata e i senatori sebbene riluttanti giurarono. Solo METELLO il Numidico si rifiutò e dovette prendere la
via dell'esilio.
Ma questo sistema delle violenze non poteva durare a lungo; lo stesso Mario ne era nauseato; lui per la
dirittura del suo carattere non avrebbe certamente fatto lega con Saturnino e Glaucia se avesse sospettato
che erano degli ipocriti furfanti. D'altra parte fra il vincitore dei Cimbri e gli assassini di L. Nonio non esisteva
identità di vedute e di intenti, i due demagoghi miravano soltanto a soddisfare la propria ambizione e a
questo solo scopo avevano sposata la causa democratica; MARIO invece voleva schiacciare l'aristocrazia e
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risollevare le sorti del popolo (ma questo il popolo, ignorante com'era, facile ai pomposi discorsi, non capiva.
Come non aveva capito Tiberio e Caio Gracco).
Ben presto si accorsero Saturnino e Glaucia che Mario non li avrebbe per l'avvenire seguiti nella via che si
erano tracciata e decisero non solo di agire senza di lui, ma contro di lui.
Stabilirono pertanto che SATURNINO avrebbe domandato il tribunato per la terza volta e GLAUCIA il
consolato. Per meglio riuscire i due demagoghi indussero M. EQUIZIO, il preteso figlio di Tiberio, a chiedere
il tribunato e il popolo, in cui era sempre viva la memoria del primo Gracco, nelle elezioni tribunizie del 99
a.C., permisero con i propri voti di far eleggere EQUIZIO e SATURNINO.
Non andarono altrettanto bene le cose nelle elezioni consolari dell'anno 100 a.C.. I grandi erano scesi nella
lotta con il proposito di contrastare fieramente l'elezione di SERVILIO GLAUCIA e di far trionfare i propri
candidati: M. ANTONIO, oratore illustre e vincitore dei pirati della Cilicia, e C. MEMMIO che dal partito
popolare democratico era passato all'aristocratico.
A loro volta APPULEJO SATURNINO e GLAUCIA, erano risoluti ad ottenere la vittoria a qualunque costo e
poiché per raggiungere lo scopo, come altre volte avevano fatto ricorrere alla violenza era il mezzo più utile,
si erano recati ai comizi con una banda di partigiani armati.
Le elezioni ebbero un inizio calmo e regolare. Tutto faceva prevedere il trionfo dei candidati della nobiltà. M.
ANTONIO aveva già riportato la maggioranza dei voti e C. MEMMIO era sul punto di riuscire eletto essendo
rimasto vincitore nel primo scrutinio, quando ad un preciso segnale, la banda di Saturnino e Glaucia irruppe
nell'assemblea e, al cospetto del popolo sgomento da tanta audacia, trucidò a pugnalate il povero MEMMIO.
Ma l'assassinio di Memmio non poteva questa volta rimanere impunito come quello di Nonio.
Mario, avendo il Senato decretato che i due ribaldi, responsabili del delitto, fossero assicurati alla giustizia,
armò il popolo e, seguito dai Cavalieri e dai Senatori, assalì il Campidoglio dove con i loro partigiani
Saturnino e Glaucia si erano trincerati.
Ma la loro resistenza durò poco; molti dei ribelli si arresero a discrezione e i due demagoghi, vista persa ogni
speranza, si rifugiarono nel tempio di Giove. Il luogo per esser sacro non poteva essere violato e allora gli
assalitori per costringere Saturnino e Glaucia a capitolare tagliarono l'acquedotto.
I due assediati allora implorarono la salvezza da Mario e questi generosamente riuscì a sottrarli ad una fine
orrenda facendo chiudere i suoi due antichi compagni nella Curia Ostilia.
Qui però rimasero ben poco perché i cittadini, furiosi, presero d'assalto la Curia, riuscirono a salire sul tetto
e, scoperchiatolo, lanciarono contro i prigionieri una pioggia di tegole uccidendoli con la lapidazione.
La morte di Saturnino e Glaucia segnò l'inizio della riscossa dei grandi, che cominciarono con il richiamare
dall'esilio METELLO. Si oppose al ritorno del Numidico il tribuno della plebe PUBLIO DECIO, ma, uscito di
carica, citato in giudizio, fu da alcuni violenti, ucciso prima ancora di essere processato o condannato.
Tre tribuni nell'arco di pochi anni erano caduti vittime delle violenze e prima di loro, i due Gracchi e Fulvio
Flacco avevano perso la vita nelle competizioni politiche.
L'imperio della legge è tramontato. CECILIO METELLO ritorna a Roma e vi è accolto dai nobili con il trionfo
di un vincitore. CAIO MARIO, ottenuti pieni poteri dal Senato, ristabilisce l'ordine, ma poi scaduto il suo
mandato, caduto in disgrazia dei suoi antichi amici del partito democratico ed essendo tenuto in sospetto
dagli oligarchici, abbandona dopo sei anni di consolato la vita pubblica, e se ne va in Asia. I nobili hanno
vinto; ma la repubblica più che nelle loro mani è in potere della violenza. Inizia nella città un nuovo periodo di
reazione oligarchica e di persecuzioni contro la fazione democratica.
La dominatrice del mondo continuerà ad esser preda delle violenze che causeranno la fine delle libertà
repubblicane.
La guerra civile -lo abbiamo visto nei precedenti riassunti- era già stata dichiarata da qualche tempo, ma era
stata solo rimandata lo scoppio.
L'incendio si sarebbe sviluppato più rapidamente se non fossero intervenute le guerre contro Giugurta, i
Teutoni e i Cimbri a rallentarne il corso; un'altra guerra, dolorosa e ingloriosa insieme, sopirà per pochi anni
gli odi e le lotte intestine; ma queste torneranno ad ardere più furiose e plebe e nobiltà saranno
inesorabilmente travolte dalla loro stessa brama di potere alla comparsa di uomini che non per dare nelle
mani d'un partito l'imperio ma per metterlo nelle proprie, brandiranno le armi.
I sostenitori di questi -che altri chiamano tiranni- sostengono che l'autorità assoluta (assolutista, dittatoriale,
totalitaria) per rimettere ordine il paese, è il male necessario. E' che questo male nei prossimi duemila anni, il
problema dell'ordine non lo risolveranno mai, e la stessa violenza repressiva - che è l'arma più usata dagli
assolutisti- spesse volte travolgerà loro stessi.
M. LIVIO DRUSO
Negli anni che seguirono alla morte di SATURNINO e GLAUCIA la città non fu, è vero, funestata da altre
violenze e godette di un po' di calma. Ma questa era quella calma, con l'aria piena di elettricità, che di solito
precede le tempeste. Perduravano i rancori tra il popolo e la nobiltà, e a questi risentimenti era tornata ad
aggiungersi la vecchia rivalità tra il Senato e i Cavalieri, sopitasi durante la lotta contro i due demagoghi,
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quando comparve sulla scena della vita politica un uomo che cerca di salvare la repubblica conciliando gli
interessi in contrasto e rappacificando i ceti.
Si chiama M. LIVIO DRUSO. Discende da famiglia patrizia ed è figlio di quel Druso che si adoperò in favore
dell'aristocrazia per far perdere la popolarità a CAIO GRACCO.
LIVIO DRUSO è giovane ed audace, non ha brama di comando, condanna l'ambizione dei nobili e la
venalità dei plebei e sogna per la patria un avvenire con tutti i cittadini di Roma sani, operosi e in concorso
fra loro per farla diventare ancora più grande.
Il suo ingegno, la sua fierezza, la sua nascita gli fanno ottenere il tribunato e lui si mette subito all'opera con
tutto l'impegno per eliminare le cause di dissidio tra i vari ceti della cittadinanza.
Causa di contrasto tra i Senatori e i Cavalieri, è innanzitutto il governo della giustizia. CAIO GRACCO, nel
suo primo tribunato, con la legge giudiziaria, questo governo lo aveva diviso fra i due ceti; e nel secondo
tribunato lo aveva affidato esclusivamente ai Cavalieri. Nel 106 il console SERVILIO CEPIONE aveva
rimesso i tribunali nelle mani dei Senatori, ma a questi li aveva muovamente sottratti SERVILIO GLAUCIA.
LIVIO DRUSO nel 91 a.C., propone che sia rimessa in vita la legge giudiziaria di Gracco nella sua prima
forma, che cioè il governo della giustizia sia diviso fra trecento Senatori e trecento Cavalieri e per
compensare questi ultimi propone inoltre che trecento Cavalieri accedano al Senato. Per impedire poi che la
demagogia torni ad impadronirsi delle redini della repubblica, chiede che i processi contro i cittadini sospetti
di corruzione devono essere affidati ad una apposta commissione, e allo scopo di rendere bene accetta al
popolo la legge giudiziaria, propone una legge "frumentaria", di cui non conosciamo il tenore, e una "agraria"
con la quale si stabilisce di mandare colonie nella Campania e nella Sicilia.
LIVIO DRUSO però non raggiunge lo scopo che si è prefisso; non l'accordo ma la supremazia dei tre ceti,
ognuna gelosa dell'altra, vuole che il tribuno non si guadagni con la sua opera il favore del popolo e dei
cavalieri; in più si aliena le simpatie del Senato, il quale, fa applicare la legge "Cecilia-Didia" che proibisce di
riunire in una sola legge due materie ("de duabus rebus una lege non coniungendis"); e così, con questo
cavillo, dichiara nulle le leggi di Livio Druso. Sono così salvi gli interessi dei Cavalieri (i ricchi commercianti) e
quelli dei nobili (latifondisti).
Fallito il tentativo di comporre i dissidi, che mantengono in agitazione la vita di Roma, il tribuno cerca di
giovare alla repubblica facendosi campione della causa degli alleati italici, i quali ormai da due secoli
concorrono con il loro valore e con il proprio sacrificio alla grandezza di Roma e giustamente si credono
perciò meritevoli dei medesimi diritti politici dei cittadini Romani.
M. LIVIO DRUSO propone che sia concessa agli Italici la cittadinanza romana; e di colpo si guadagna le
simpatie di tutti gli alleati della penisola, che, lieti di aver trovato un così illustre patrocinatore, giurano di
sostenerlo e difenderlo con i propri beni e se necessario anche con il proprio sangue.
Ma le gelosie di questa simpatia sono in agguato, e il ferro di un sicario assassino tronca improvvisamente
una vita dedicata al bene di Roma e d'Italia. Un giorno, mentre il tribuno tornava dal foro accompagnato da
un gruppo di suoi sostenitori, una mano ignota lo colpisce con una pugnalata alle spalle e lo distende morto
ai piedi della statua del padre.
LA GUERRA DEGLI ALLEATI
La morte di LIVIO DRUSO, dovuta senza alcun dubbio alla sua ultima proposta di legge, inasprì gli Italici, i
quali, avendo visto fallire tutte le loro speranze -e lo avevano promesso- si decisero, brandirono le armi e
iniziarono quella sanguinosa guerra che costò la vita a trecentomila italiani e che, chiamata da alcuni storici
"guerra italica", da altri "guerra marsica" e da altri ancora "guerra sociale", doveva durare ben quattro anni.
Non tutti i popoli d'Italia presero parte all'insurrezione; i Galli, gli Etruschi, gli Umbri e i Latini si mantennero
fedeli a Roma, ma i rimanenti popoli della penisola, Marsi, Peligni, Piceni, Vestini, Marrucini, Frentani,
Sanniti, Apuli, Campani e Bruzi, inalberarono il vessillo della rivolta.
Poiché Roma non voleva accogliere nel suo seno come suoi cittadini gli alleati, questi si proposero di
staccarsi dalla superba città e di formare uno stato a parte.
A capitale della nuova repubblica fu scelta Corfinio, città dei Peligni, situata sulle rive del fiume Pescara,
quindi nelle regioni abitate dai Marsi, dai Marrucini, dai Vestini e dai Sanniti, e le fu posto il nome di Italia o
Vitelia.
Nella nuova capitale, antagonista di Roma, fu costruito un grandissimo foro ed una Curia per i senatori che
raggiunsero il numero di cinquecento e furono scelti fra le persone più ragguardevoli delle popolazioni
alleate. Il Senato nominò dodici pretori e creò due consoli nelle persone del sannita C. PAPIO MUTILO e del
marso QUINTO POMPEDIO SILONE, amico del morto Druso ed anima della rivoluzione. Fu anche coniata
una moneta nuova con impresso un toro che schiaccia una lupa.
Roma di fronte al gravissimo pericolo che la minacciava corse sollecitamente ai ripari. Cessarono, gli odi di
parte, si rafforzarono le mura, e temendo un assedio della città, si fece venire dalle province e specialmente
dalla Sicilia grandissima quantità di vettovaglie, si chiamarono alle armi i cittadini, ed alle legioni romane
furono aggiunte altre legioni composte di soldati della Gallia, della Grecia, della Numidia e dell'Asia. Il
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governo della guerra fu affidato ai consoli dell'anno 90 a.C., LUCIO GIULIO CESARE e PUBLIO RUTILIO
LUPO, che furono assistiti da CAIO MARIO e CORNELIO SILLA.
Il primo conflitto scoppiò ad Ascoli nello stesso anno 90; i locali erano in procinto di ribellarsi. A sorvegliare le
mosse dei ribelli, i preparativi segreti e le loro intenzioni, era stato mandato nel Piceno QUINTO SERVILIO.
Avendo questi saputo che gli Ascolani stavano per inviare a Corfinio un certo numero di uomini, come tutti gli
altri alleati avevano fatto, Servilio insieme con il suo luogotenente FRONTEJO, si recò ad Ascoli
Qui, trovato il popolo riunito in un teatro, parlò con molta severità alla folla minacciando in nome di Roma
delle esemplari punizioni.
Il discorso molto inopportuno del proconsole, anziché incutere timore negli animi degli Ascolani suscitò lo
sdegno del popolo che, corse a brandire le armi, si scagliò contro Servilio e Frotejo e li uccise entrambi. Né
loro due furono le prime vittime della guerra perché la medesima sorte subirono tutti i Romani stabiliti in
quella città, ne fecero strage.
Il conflitto di Ascoli fu il segnale non più di una lotta ma una vera dichiarazione di guerra, e in pochissimo
tempo i pretori italici, che nel frattempo si trovavano nelle varie regioni per fare preparativi di guerra, furono
in grado di iniziare le ostilità alla testa di eserciti che ascendevano alla forza complessiva di centomila
uomini.
All'annunzio che le ostilità erano scoppiate, Roma ebbe due partiti; chi si commosse e chi imprecò contro
coloro che erano stati la causa della rivolta; il tribuno QUINTO VARIO propose la nomina di una
commissione per ricercare i responsabili e punirli.
Gli alleati ribelli cercarono di evitare la guerra e inviarono ambasciatori a Roma a chiedere per l'ultima volta
che fossero accordati a loro i diritti di cittadinanza, ma il Senato rifiutò di dare udienza ai messi e così quella
guerra che, di fatto, era stata già dichiarata ad Ascoli, divenne ufficiale.
Data la vastità del teatro delle operazioni, la repubblica divise in due parti il territorio degli insorti. Al console
RUTILIO LUPO diede il compito di ridurre all'obbedienza i Piceni, i Vestini, i Peligni, i Sabini e i Marsi, a
LUCIO GIULIO CESARE affidò l'incarico di combattere i Sanniti, i Campani e gli altri popoli dell'Italia
meridionale. A fronteggiare il primo fu scelto dagli alleati ribelli, il marso POMPEDIO SILONE, a tener testa
al secondo il sannita PAPIO MUTILO.
Le prime a trovarsi esposte alle offese degli insorti furono le colonie romane, specialmente Esernia; questa
era la più importante perché dominava la via che conduceva dalla Campania nel Sannio.
La colonia fu assalita da un corpo dell'esercito ribelle capitanato da P. VEZIO SCATONE, e contro di lui si
affrettò a muovere LUCIO GIULIO CESARE; ma la sorte favorì le armi degli insorti e presso Esernia i
Romani subirono una grave sconfitta.
La colonia di Esernia continuò a difendersi accanitamente e solo sul finire del 90, rimasta priva di viveri e
senza speranza di soccorsi, fu costretta a capitolare.
Alla resa di Esernia seguì quella delle altre colonie e così Venafro, Nola, Salerno, Stabia, Ercolano, Pompei
e Literno caddero in potere degli insorti. Eguale sorte toccò a Grumento, Venosa e Canusio prese dalle
truppe di GIUDACILIO e di LAMPONIO che operavano nell'Apulia e nella Lucania.
PAPIO MUTILO, sapendo che con i Romani militava un fortissimo corpo di Numidi, fece condurre nel campo
il figlio di Giugurta, di nome OGINTO, il quale riuscì a far passare agli insorti un gran numero di suoi
connazionali, e Giulio Cesare per evitare ulteriori diserzioni fu costretto ad allontanarsi e mettere gli
accampamenti presso Teano.
Non meno lieti furono gli inizi della guerra per i Romani nella parte settentrionale. MARIO aveva consigliato
RUTILIO LUPO di non tentare una battaglia campale con il nemico; ma il console, volendo portare soccorso
ad Ascoli minacciata dalle truppe di Pompeo Strabone, passò il fiume Toleno (affluente del Velino) e marciò
contro i Marsi con l'esercito diviso in due parti.
La battaglia avvenne l'11 giugno del 90 a.C. e si risolse in una tragica sconfitta per le armi romane. Prime ad
essere attaccate e sbaragliate furono le due legioni del luogotenente PERPENNA; poi il grosso dell'esercito
cadde in un'insidia, perse nella battaglia ottomila uomini e lo stesso console.
MARIO che era a valle, venne a sapere della sconfitta di RUTILIO alla vista di numerosissimi cadaveri
galleggianti nel fiume. Non potendo portare soccorso all'esercito battuto, condusse le sue truppe contro il
campo nemico che era rimasto indifeso e se ne impadronì.
Al posto di Rutilio il Senato nominò MARIO e CEPIONE con uguale autorità; ma quest'ultimo non tenne a
lungo il comando. Impaziente di condurre a termine la guerra, assalì gli accampamenti di POMPEDIO
SILONE e, al pari del defunto console, commise anche lui l'errore e cadde in un'imboscata tesagli dal
nemico, che fece una strage di Romani uccidendo lo stesso CEPIONE.
Il comando, passò allora tutto nelle mani di MARIO, e con lui le sorti delle armi romane si risollevarono. Lui
non aveva la fretta di Rutilio e di Cepione e aspettava, com'era suo costume, l'occasione propizia per
misurarsi con i ribelli.
Di lui si narra che, avendolo POMPEDIO SILONE provocato a battaglia con il ricordargli di scendere in
campo per confermare con i fatti la fama di gran capitano che aveva, rispondesse di provarsi lui, che tale si
riteneva, di costringerlo a combattere contro la sua volontà.
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Quando però lo ritenne opportuno, e che era giunta l'occasione che cercava, Mario assalì energicamente i
nemici, li sconfisse ed uccise ERIO ASINIO, capo dei Marrucini. Né questa fu la sola disfatta che Mario
inflisse ai ribelli. Poco tempo dopo, assalì i Marsi, ruppe le file, che poi inseguiti lui da una parte SILLA
dall'altra, subirono durante la disastrosa fuga più di seimila morti.
Le vittorie di MARIO furono poi seguite da altri importanti successi degli eserciti romani nella Campania e nel
Piceno. Nella Campania, trovandosi Acerria assediata da Papio Mutilo, CAIO GIULIO CESARE iniziò la
battaglia contro gli insorti e, risolutamente affrontati di fronte con le fanterie e di fianco con la cavalleria, li
sgominò meritandosi il titolo di "imperator".
Per la prima volta si sente dare quest'appellativo dentro l'esercito romano.
Nel Piceno, POMPEO STRABONE, assediato a Fermo, assalì improvvisamente le truppe nemiche
comandate da T. LAFRANIO e, soccorso da SERVIO SULPICIO reduce vittorioso dal paese dei Peligni,
sconfisse prima ribelli con una strage, poi uccise il loro stesso capo.
Ma le vittorie dei Romani non erano state fin qui decisive. Il nemico era ancora forte e l'insurrezione
minacciava di estendersi nell'Umbria, nell'Etruria e nella Cisalpina. Bisognava colpire subito il centro, il cuore
che animava la rivolta.
LA CITTADINANZA ROMANA AGLI ITALICI
Allo scopo di evitare che i paesi rimasti fedeli avrebbero fatto causa comune con gli insorti, sul finire sempre
dell'anno 90 a.C. il console CAIO GIULIO CESARE propose una singolare legge (e che se votata prima
avrebbe evitato tante stragi) che fu subito approvata; "si concedeva la cittadinanza romana" a tutti quegli
alleati italici che non avevano brandito le armi contro Roma e poco tempo dopo, dietro proposta dei tribuni
M. PLAUZIO SILVANO e C. PAPIRIO CARBONE, la cittadinanza fu estesa a tutti quegli stranieri domiciliati
in città italiane che ne facessero domanda entro sessanta giorni dall'approvazione della legge. ("Legge
Plauzia-Pairia").
Ma allo scopo di impedire che i vecchi cittadini romani fossero sopraffatti dal grande numero dei nuovi, nei
comizi, gli Italici e gli stranieri furono iscritti nelle ultime otto tribù.
Nella Gallia Transpadana, proposta dal console Cn. POMPEO STRABONE, nel 89 a.C. fu concesso alle
città il diritto latino. Non solo fu causa della risoluzione della spinosa questione sociale, allontanando il
pericolo in cui Roma si trovava, ma fece anche comporre il dissidio tra Senatori e Cavalieri per mezzo di una
legge presentata dal tribuno M. PLAUZIO con la quale si stabilì che ogni tribù scegliesse quindici giudici
senza distinzione di ceto.
Nel terzo anno di guerra le operazioni contro i ribelli furono condotte con maggiore energia dai consoli
dell'anno 89 a.C., POMPEO STRABONE e FURIO CATONE.
STRABONE impedì che VEZIO SCATONE passasse dal Piceno nell'Umbria e nell'Etruria, e lo costrinse ad
accettare battaglia presso Ascoli.
Fu la battaglia più sanguinosa e più grande di tutta la guerra. Il console aveva al suo comando
settantacinquemila uomini, di sessantamila soldati disponevano invece i nemici comandati da VEZIO e da
GIUDACILIO. Prima di entrare in contatto con le armi, si tentò dall'una e dall'altra, parte di raggiungere un
accordo, ma non vi si riuscì nonostante una vecchia amicizia che legava il console a Scatone.
Gli insorti dopo un accanito combattimento furono sconfitti e VEZIO, essendo stato fatto prigioniero, si fece
uccidere da uno schiavo che poi si tolse la vitaidò pure lui. GIUDACILIO con i pochi superstiti si chiuse ad
Ascoli e fece prodigi di valore tentando più volte, ma invano, con disperate sortite di rompere il cerchio
dell'assedio. Perduta infine la speranza di salvare la città, stremata dalla fame, riempì il tempio delle cose più
preziose e, fatto appiccare il fuoco, si buttò tra le fiamme. Ascoli capitolò e fu messa a sacco dai vincitori che
in breve tempo vinsero definitivamente tutto il Piceno.
Non meno felicemente per i Romani si svolsero le operazioni guerresche nell'Apulia sotto la direzione del
pretore CAIO COSCONIO. Questi sull'Aufido mise in rotta un esercito sannitico comandato da MARIO
EGNAZIO precipitatosi in aiuto degli Apuli, ne uccise il comandante e costrinse i pochi superstiti a riparare a
Canusio, dove poi li assediò.
Peggio invece andarono le cose in un primo tempo nella regione dei Marsi, dove il compito di domare i ribelli
era stato affidato a FURIO CATONE. In una battaglia presso il lago Fucino, i Romani furono sconfitti dai
ribelli e il console perdette la vita.
A rialzar la sorte dei Romani in questa regione, misero tutto il loro impegno i luogotenenti QUINTO
METELLO e CAIO CINNA, che alla fine ebbero ragione dei Marsi e li ridussero all'obbedienza.
Anche i Peligni e i Vestini furono sgominati e nel 88 la capitale dell'Italia ribelle, Corfinio, investita
dall'esercito di POMPEO STRABONE, fu costretta alla resa e occupata.
La guerra dopo Corfinio, si ridusse nella Campania e nel Sannio.
Prima ad esser domata fu la Campania e il merito fu tutto del pretore CORNELIO SILLA, il quale, penetratovi
con un forte esercito, sconfisse le truppe di L. CLUENZIO e ne uccise il capo; poi si spinse nel Sannio,
assalì alle spalle l'esercito di PAPIO MUTILO che cercava di arginare l'avanzata del pretore ma da questi fu
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sgominato completamente. Papio, ferito a morte, fu trasportato ad Esernia, che dopo la caduta anche
Boviano, rimase l'ultimo centro della fiera resistenza dei ribelli Sanniti.
Dei capi degli alleati italici restava in vita soltanto POMPEDIO SILONE;
lui tentò di riacciuffare la fortuna che aveva vicino nel primo anno della guerra, e con le truppe superstiti di
tante accanite battaglie, con i cittadini e con gli schiavi, mise su un esercito di circa cinquantamila uomini.
Era l'ultimo disperato sforzo della rivoluzione. Silone si rivolse contro la capitale del Sannio già occupata dai
Romani, Boviano, e riuscì pure ad impadronirsene, poi marciò verso l'Apulia.
Ma la fortuna che per un attimo si era mostrata favorevole agli ostinati ribelli volse a loro le spalle a Venosa.
Il pretore Q. METELLO PIO, figlio del "Numidico" (poi console nell'80 a.C.), lo aspettava al varco. La
battaglia fu tremenda e gl'Italici fecero anche prodigi di valore, nondimeno furono terribilmente sconfitti e lo
stesso POMPEDIO SILONE fini eroicamente la sua vita.
La guerra poteva considerarsi finita. Qualche nucleo di ribelli resistette ancora per qualche tempo nella
Lucania e nella Campania, poi anche Nola fu presa e ritornò la tranquillità su tutti i teatri delle ribellioni.
Trecentomila Italiani erano caduti in quattro anni di lotte sanguinose, ma non erano caduti invano. La
superba Roma aveva già piegato il capo e concesso - come si è detto - la cittadinanza agli Italici.
Quest'atto, purtroppo tardivo, di saggia politica, aveva salvato Roma, ma non salvò le libertà repubblicane.
Queste non potevano vivere che in un organismo non corrotto, mentre il corpo della gloriosa repubblica era
invece quello di un malato, destinato a subire ancora gli strazi delle intestine discordie e a ritrovare infine il
vigore per l'inflessibile volontà di un padrone.
Paradossalmente con quella che alcuni storici hanno chiamato "guerra italica", con delle regioni che
volevano staccarsi da Roma, alla fine di questa, concessa finalmente la cittadinanza, si assiste al rapido
dissolvimento delle autonomie, anche culturali, delle popolazioni etrusche e di molte regioni piccole, medie e
grandi, della penisola che d'ora in avanti chiameremo italiche; cadono in disuso le lingue o in alcune i dialetti
locali, sostituiti dal latino, che solo da questo momento comincia ad assumere il carattere di lingua italiana (o
meglio panitaliana) e, ben presto, con le recenti e poi con le nuove conquiste fuori la penisola, anche di
lingua internazionale, all'inizio pari al greco, ma ben presto messo in disparte.
In quel grande mare dove si parlava il Punico (fenicio- che scompare del tutto), l'Etrusco e il Greco, chiamato
Mediterraneo, diventa ora un "lago romano" dove si parla più soltanto una sola lingua: il latino.
Ma a Roma non basta né il mare, né le sue coste. Sta guardando da qualche tempo oltre le Alpi, e per
difendere i suoi primi domini d'Oriente, appena uscita dalla "guerra sociale", sta iniziando una nuova guerra
in Asia.
Guerre e conquiste, che gli ambiziosi condottieri con le loro vittorie, ottengono non solo come in passato la
gloria militare con i trionfi, ma fra di loro, già ipotecano la guida politica della Repubblica, per farla diventare
un proprio Impero.
Come vedremo dai successivi fatti, queste guerre e questi antagonismi (con due protagonisti: MARIO e
SILLA) iniziano con il prossimo riassunto……è il periodo che va dall'anno 88 al 78 a.C. > > >
Fonti, Bibliografia, Testi, Citazioni:
TITO LIVIO - STORIE (ab Urbe condita)
POLIBIO - STORIE
APPIANO - BELL. CIV. STORIA ROMANA
DIONE CASSIO - STORIA ROMANA
PAOLO GIUDICI - STORIA D'ITALIA
UTET - CRONOLOGIA UNIVERSALE
I. CAZZANIGA , ST. LETT. LATINA,
+ altri, in Biblioteca dell'Autore
LA GUERRA MITRIDATICA - DITTATURA DI SILLA (86-78 a. C.).
SILLA IN GRECIA - ASSEDIO DI ATENE E DEL PIREO - BATTAGLIE DI CHERONEA E DI ORCOMENO FINE DELLA GUERRA MITRIDATICA E SUICIDIO DI FIMBRIA - ASSETTO DELL'ASIA - RITORNO DI
SILLA IN ITALIA - MORTE DI CINNA - CNEO POMPEO - SILLA A CAPUA E A TEANO - BATTAGLIE DI
SACRIPORTO, CHIUSI E SPOLETO - ASSEDIO DI PRENESTE - SILLA BATTE I SANNITI E I LUCANI
SOTTO LE MURA DI ROMA - LE STRAGI SILLANE - LE TAVOLE DI PROSCRIZIONE - DITTATURA DI
SILLA - TRIONFO DELL'ARISTOCRAZIA - MORTE E FUNERALI DI SILLA
LA GUERRA MITRIDATICA
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Quando CORNELIO SILLA -ripartito da Roma nell'87, sbarcò nell'Epiro non aveva al suo comando che
trentamila uomini, mentre Mitridate disponeva di un esercito di oltre duecentocinquantamila fanti e
quarantamila cavalli, di una flotta di trecento navi e poteva contare sugli aiuti non indifferenti della Grecia
ribelle.
A rendere più difficile l'impresa di Silla si aggiungeva la minaccia di L. Valerio Flacco spedito da Cinna contro
di lui l'anno dopo (86).
Appena sbarcato, Silla intimò a Mitridate di sgombrare i territori d'Asia occupati e ritirare le truppe dalla
Grecia, ma non avendo il re del Ponto ubbidito, marciò a marce forzate verso la Beozia dove si trovavano
già le forze nemiche, comandate da ARCHELAO ed ARISTIONE.
SILLA raggiunse i nemici al passo di Cheronea e, sconfitti entrambi i due eserciti, costrinse ARCHELAO a
rifugiarsi al Pireo, mentre ARISTIONE ad Atene, dove corse ad assediarli.
Nei primi giorni dell'assedio la fortuna non favorì i Romani, i cui assalti furono respinti; ma Silla non era uomo
da lasciarsi sgomentare da pochi insuccessi e dalla fiera resistenza dei difensori di Atene, intensificò le
operazioni e cominciò a bombardare le mura della città con potentissimi arieti per formare una breccia nelle
stesse.
Gli Ateniesi resistettero valorosamente finché ebbero vettovaglie, poi queste cominciarono a mancare e la
fame e le malattie, immancabili conseguenze di un lungo assedio, costrinsero gli abitanti a capitolare.
SILLA entrò ad Atene il primo marzo dell'86 a.C. abbandonando la città conquistata al saccheggio delle
truppe. Nulla fu rispettato e i ricchi tesori dei templi furono distribuiti alle soldatesche. Racconta Plutarco che
il vincitore, ridendo, durante i saccheggi diceva ai suoi: "Poiché gli dèi fanno le spese del mio esercito sono
sicuro del felice esito della guerra".
Era invece piuttosto preoccupato dalle notizie d'Italia. Aveva saputo che Cinna non aveva mantenuto fede al
giuramento, che il sangue dei suoi seguaci aveva bagnato le vie di Roma, e che Flacco era stato messo al
comando dell'esercito e che gli veniva contro.
SILLA si trovava senza navi, senza aiuti dalla patria, senza rifornimenti, senza denari con cui pagare i suoi
soldati, contro il fortissimo esercito di Mitridate cui ora si aggiungeva quello che dall'Italia gli si mandava
contro per debellarlo.
In questo frattempo giungeva in Grecia un esercito asiatico forte di centomila fanti e diecimila cavalli al
comando di TASSILE, generale di MITRIDATE. Archelao corse ad unirsi con il nuovo esercito ed abbandonò
il Pireo agli assedianti che lo diedero alle fiamme.
Temendo l'arrivo di Flacco, Silla decise di affrontare le truppe di Tassile e vi marciò contro mentre queste
erano accampate nella pianura del Cefisso, presso Cheronea.
Il generale romano non disponeva che di quarantamila soldati, essendosi aggiunte a quelli condotti dall'Italia
le guarnigioni della Tessaglia, ma non esitò ad attaccare un nemico per tre volte superiore e fu tale l'impeto
con cui i legionari assalirono gli asiatici che questi sbaragliati dovettero ripiegare e cercare un rifugio nel
campo. Ma ARCHELAO che aveva chiuso le porte allo scopo di far combattere più valorosamente i suoi,
permise a Silla una vittoria più grande, incalzato il nemico fin presso le porte, non potendo questo entrare nel
campo lo fece a pezzi.
Intanto sbarcava nell'Epiro FULVIO FLACCO. Non aveva con sé numerose truppe; comandava soltanto due
legioni e con queste era una follia sperare di sottomettere Silla che non ne aveva tante ma erano tuttavia
quasi otto; Flacco inoltre sperava che l'esercito sillano, appreso il decreto dei consoli, abbandonato Silla si
sarebbero uniti a lui senza combattere.
Le sue speranze andarono deluso: i due eserciti s'incontrarono presso Melitea e anziché le truppe di Silla fu
l'avanguardia di Flacco che disertò e passò nelle file avversarie.
Allora FLACCO, per impedire al grosso dei suoi di imitare quell'esempio, si allontanò dirigendosi verso il
Bosforo, ma a Bisanzio le sue truppe, che non lo amavano né lo stimavano, gli si voltarono contro e CAJO
FLAVIO FIMBRIA, accusandolo di eccessiva arrendevolezza e per non aver assolto il compito affidatogli, lo
uccise e assunse il comando dell'esercito.
Intanto alla notizia della sconfitta di Cheronea, MITRIDATE fece preparativi per un'altra spedizione e nell'85
a.C. inviò in Grecia un esercito di ottantamila uomini comandato da DORILAO.
Ma non ebbe miglior fortuna di Archelao e di Tassile, nella battaglia che ingaggiò contro i Romani nella
stessa pianura del Cefisso, presso Orcomeno, nonostante alcuni successi nei primi scontri e per poco anche
nell'ultimo.
Infatti, sotto l'urto impetuoso della cavalleria asiatica le fanterie romane stavano cedendo, quando SILLA,
balzato da cavallo, afferrò un'insegna e, andando incontro ai suoi che ripiegavano, cominciò
sarcasticamente a urlare "Romani! Se vi salvate e poi vi chiederanno dove avete abbandonato il vostro
generale, rispondete ad Orcomeno".
Vergognandosi del loro contegno dopo quel rimprovero sferzante del loro capo, i legionari rivolsero i petti
contro il nemico che incalzava e tornarono con tutta l'energia e l'impegno, all'assalto, che permise in pochi
minuti di rovesciare la critica situazione in cui si erano cacciati.
A quest'altra più determinata offensiva delle legioni, la cavalleria di DORILAO prima vacillò, poi iniziò a
sbandarsi, infine a volgere le spalle; a quel punto i romani diedero addosso alla fanteria asiatica, in piena
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confusione perché quasi travolta dalla propria cavalleria in ritirata; incalzati poi dalle truppe di Silla l'intero
esercito nemico fu travolto e messo in piena rotta.
Di quella guerra fu questa l'ultima battaglia combattuta in Grecia.
La fortuna, non solo aveva abbandonato Mitridate in Europa, ma gli si rivolse pure contro in Asia; infatti,
molte delle città che gli avevano aperte le porte accogliendolo come liberatore, si erano accorte che il suo
governo era peggiore di quello dei Romani e allarmate dalle vittorie di questi ultimi, fecero spontaneamente
atto di sottomissione alla Repubblica.
Intanto la guerra dall'Europa era portata in Asia. LUCULLO, con una flotta messa insieme nei porti della
Siria, dopo avere conquistate Colofone e Chio, poneva sotto assedio Samo; mentre FIMBRIA, sconfitto a
Miletopoli sulle coste della Frigia il figlio di Mitridate, ora marciava su Pergamo.
Mitridate perse la speranza di uscir vincitore dalla guerra e cercò di salvare il suo regno avviando trattative di
pace con SILLA.
Questi si dichiarò pronto a conceder la pace al re del Ponto alle seguenti condizioni:
Mitridate doveva sgomberare dai territori che aveva invaso; restituire i prigionieri, consegnare i disertori;
cedere una flotta di ottanta navi; pagare come indennità duemila talenti.
Nel sentire i patti così esosi che gli erano imposti è fama che il re esclamasse "E che mi lasci allora?" - "La
destra con la quale tu firmasti ad Efeso il decreto che costò la vita a centomila Romani" - rispose Silla.
Mitridate si disse disposto ad accettare le condizioni ma non la cessione delle navi e della Paflagonia, ma
Silla tenne duro e al re del Ponto non rimase che accettare le condizioni. Le trattative furono condotte a
Delo, seguita poi dalla cosiddetta "pace di Dardano" (anno 85 a.C.) restaurando così la situazione anteriore
all'inizio della guerra, con la rinuncia di Mitridate alle conquiste in Europa ed in Asia.
Conclusa la pace con Mitridate, SILLA marciò contro FIMBRIA che si era accampato nei pressi di Pergamo;
ma la battaglia fra i due eserciti romani non avvenne: i legionari di Fimbria, all'avvicinarsi delle truppe sillane
fecero causa comune con loro e l'assassino di Flacco, ormai abbandonato dai suoi, non avendo più scampo,
si uccise.
Silla rimase in Asia fino alla primavera dell'84 a.C. Premiò le città rimaste fedeli alla repubblica, fra cui Rodi
con la restituzione dei territori sottratti al tempo dell'ultima guerra macedonica, ma punì severamente quelle
che si erano date a re del Ponto. Queste furono condannate al pagamento di un'indennità di guerra di
ventimila talenti. Tutti coloro che avevano sostenuto Mitridate e si erano distinti nelle stragi contro i Romani
furono uccisi.
Dato un assetto all'Asia, Silla lasciò una parte delle legioni (comprese quelle di Fimbria) al suo luogotenente
L. LICINIO MURENA, e con le altre che gli erano fedelissime e decise di prendere la via del ritorno.
DITTATURA DI LUCIO CORNELIO SILLA
Prima di partire da Patrasso per l'Italia, SILLA scrisse al Senato, annunciandogli le vittorie ottenute in Asia, la
pace imposta a Mitridate e il suo ritorno. Si lamentava però delle offese recate alla sua famiglia e ai suoi
amici e terminava esprimendo il proposito di rimettere l'ordine a Roma, assicurando che non avrebbe fatto
alcun male ai "buoni" cittadini.
Giunta a Roma la lettera, i "cattivi" capirono benissimo che cosa li aspettava se tornava Silla; e così il partito
che era al potere si preparò alla difesa. Si raccolsero soldati dal Sannio, dall'Etruria e dalla Lucania e si
formò un esercito di circa duecentomila uomini. Ma questa gente per lo più costretta ad ubbidire erano
elementi eterogenei e indisciplinati, con i quali non si sarebbe potuto tener testa ai "professionisti" delle
agguerrite e fedeli legioni di Silla.
CINNA, sempre al consolato, nell'inverno del 84, condusse quell'esercito raffazzonato, ad Ancona per
prendere il mare e recarsi incontro al rivale, ma le truppe si rifiutarono d'intraprendere una navigazione in
quella stagione e, poiché il console voleva obbligarle ad imbarcarsi, si ribellarono e l'uccisero.
Il suo collega console GNEO PAPIRIO CARBONE, reso prudente dalla sorte toccata al collega, promise
all'esercito che sarebbe rimasto in Italia e lo trasferì ad Arimino (Rimini).
Dopo la sospensione di quattro anni, tornarono ad esserci le elezioni consolari, e all'inizio dell'anno 83,
furono eletti L. CORNELIO SCIPIONE e CAJO NORBANO, e mentre Carbone si recava nella Cisalpina in
qualità di proconsole, i due neoletti si prepararono ad ostacolare il ritorno del vincitore di Mitridate.
SILLA, intanto, sbarcato indisturbato a Brindisi, assicurò la popolazione delle sue intenzioni amichevoli ed
impedì alle truppe ogni atto ostile. Fu per l'esemplare contegno del suo esercito, che le città dell'Apulia gli
aprirono le porte e così il generale riuscì senza incontrare ostacoli procedere verso Roma.
Durante il cammino, le sue schiere s'ingrossarono di volontari italici cui egli prometteva la cittadinanza e di
partigiani suoi sostenitori, elementi che Mario e Cinna avevano costretto ad andare in esilio.
Dalla Liguria, Silla fu raggiunto dal figlio del "Numidico", Q. METELLO PIO; con lui vi erano alcuni che
militavano nel partito della democrazia: L. FILIPPO, Q. LUCREZIO OFELLA e il senatore P. CETEGO. Un
buon contingente di truppe le condusse CNEO POMPEO, il giovane figlio di Strabone che era passato al
partito aristocratico perché i democratici lo avevano minacciato di confiscargli gli averi se non restituiva il
bottino che - secondo loro - il padre aveva sottratto per sé ad Ascoli. Il giovane Pompeo lungo il percorso
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aveva sconfitto alcune truppe inviate del pretore L. GIUNIO DAMASIPPO. Quando si unì, Silla lo accolse
simpaticamente chiamandolo "imperator".
A contrastare invece il passo a Silla si presentarono nella Campania i due neo consoli SCIPIONE e
NORBANO. Il primo mise il campo presso Teano, il secondo nelle vicinanze di Capua.
SILLA iniziò ingaggiando battaglia con Norbano, lo attaccò, lo sconfisse gli uccise settemila uomini e lo
costrinse a rifugiarsi a Capua; poi marciò su Teano e offrì una tregua con un armistizio a Scipione, e questi
accettò per avere tempo di chiedere consigli a Norbano e Sertorio, ma quando ricevette il consiglio di
rompere l'armistizio, fu abbandonato dalle sue legioni che fraternizzarono con quelle di Silla e, deposto il
consolato, se ne andò volontario esilio a Marsiglia.
SILLA aveva ottenuto senza dubbio dei notevoli successi, ma Roma era ancora lontana e il nemico ancor
forte.
Nell'anno 82 a.C, il consolato fu conferito a PAPIRIO CARBONE e a MARIO (detto il "Giovane"), figlio del
vincitore dei Cimbri. I due, inviato SERTORIO nella Spagna Citeriore, accolsero numerosi soldati nella Gallia
Cisalpina e nell'Etruria e si prepararono a dare battaglia a Silla; il primo a nord, il secondo a sud di Roma.
Contro PAPIRIO CARBONE furono mandati POMPEO e METELLO. Questi sull'Esino sbaragliarono ALBIO
CARINA, luogotenente di Carbone; mentre contro Mario andò lo stesso Silla, che si scontrò con il figlio del
suo grande nemico nella pianura di Sacriporto, tra Signia e Preneste.
La battaglia fu impetuosa, ma si risolse con una grande vittoria dei Sillani per la diserzione di sette coorti,
seguita dalla fuga dell'intero esercito verso Preneste. In quel combattimento più di ventimila soldati di Mario
furono uccisi.
Mario, da Preneste ordinò al pretore DAMASIPPO che si trovava a Roma di uscire dalla città, essendo ormai
aperta a Silla la via, e di uccidere, prima di allontanarsi, tutti coloro che si sospettava parteggiassero per
l'oligarchia.
Damasippo eseguì fedelmente l'ordine e, radunato il Senato, fece trucidare i senatori sillani fra cui P.
ANTISTIO, L. DOMIZIO, C. PAPIRIO CARBONE e il pontefice massimo MUZIO SCEVOLA.
SILLA, lasciato il suo luogotenente LUCREZIO OFELLA a continuare
l'assedio di Preneste, con le sue truppe occupò facilmente Roma, poi marciò su Chiusi dove si trovava il
console CARBONE.
I due eserciti ingaggiarono battaglia per una giornata intera, ma senza che uno sopraffacesse l'altro; tuttavia
CARBONE, reso baldanzoso e già soddisfatto da questo risultato -quello di aver fermato Silla- inviò in
soccorso del collega parte delle sue truppe al comando del suo luogotenente, il quale però a Spoleto,
incontratosi con POMPEO, fu sconfitto senza così riuscire ad unirsi al collega.
Ma a parte questo successo, le speranze degli avversari di Silla furono ugualmente rialzate da un soccorso
insperato: circa settantamila di Sanniti e Lucani avevano già brandito le armi, e guidati da PONZIO
TELESINO, M. LAMPONIO e GUTTA, avanzavano verso il nord.
Per impedire che questo esercito si unisse a Mario, SILLA si disimpegnò nell'assedio da Chiusi e scese
verso il mezzogiorno occupando la stretta di Valmontone.
Rimasto libero, CARBONE puntò verso il Piceno, ma a Faenza lo aspettava un'infausta disfatta per merito
delle truppe di METELLO.
Sfiduciato e abbandonato da alcuni suoi ufficiali, il console abbandonò il teatro di guerra e partì per l'Africa,
lasciando a Chiusi parte dell'esercito allo sbando, e che, assalito da Pompeo, fu quasi interamente distrutto.
Solo alcune schiere, guidate dal luogotenente CANINATE, riuscirono a salvarsi e presero al via del sud per
congiungersi con Mario e con gli Italici.
Questi ultimi, non riuscendo più a giungere a Preneste, puntarono audacemente e segretamente su Roma
che sapevano difesa da poche truppe sillane comandate da APPIO CLAUDIO. Dopo aver marciato tutta una
notte, giunsero all'alba davanti alla porta Collina.
Mostrando ai suoi uomini la città è fama che PONZIO TELESINO esclamasse
"Ecco il covo dei lupi ! E finché non sarà distrutto mai ci sarà libertà per noi".
Poi ordinò di iniziare l'assalto.
Roma quel giorno (era 1° novembre dell'82 a.C.) sarebbe stata conquistata dai suoi secolari nemici se un
pugno di uomini risoluti che ne costituivano il presidio non avessero messo in atto un'audace e vigorosa
sortita, che se non ebbe esito fortunato riuscì -tenendo impegnati i nemici tutto il giorno - a permettere a Silla
di giungere in soccorso della città.
Sebbene la drammatica giornata era già giunta al termine, l'animoso generale ingaggiò battaglia con i
Sanniti e i Lucani. Ma stanchi dal frettoloso viaggio, le truppe sillane non furono favorite dalla sorte nei primi
scontri. L'ala sinistra, assalita impetuosamente e cominciò a piegare. Si narra che Silla -quest'ala la
comandava proprio lui- addolorato dalla rotta dei suoi, rivolgesse ad Apollo queste parole "Perché mi hai
elevato a tanta altezza se dovevi poi abbandonarmi sotto le mura della mia città?"
Ma non tutto era perduto. L'ala destra, infatti, comandata da MARCO CRASSO, rimase ferma e ben
compatta davanti all'impeto dei nemici, poi, passata al contrattacco, si abbatté così violentemente sui Sanniti
che in pochi attimi furono sbaragliati; poi il colpo di grazia quando nel furioso scontro PONZIO TELESINO fu
ucciso. Staccata subito la sua testa, impalata su una picca, fatta girare per il campo di battaglia tolse ogni
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F. D'ALESSI - Letteratura latina - Parte II,1 - Il periodo classico
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speranza ai suoi uomini; poi fu subito mandata a Preneste a sgomentare le truppe impegnate contro il
luogotenente di Silla LUCREZIO OFELLA.
Abbandonati dagli uomini, CANINATE, MARCIO e DAMASIPPO caddero prigionieri e, condotti a Roma,
furono subito giustiziati nel Campo Marzio.
Questa battaglia fu decisiva per le sorti della guerra ed ebbe come conseguenza la resa di Preneste. Il
console MARIO e il figlio di PONZIO cercarono di fuggire attraverso un sotterraneo, ma, essendo riuscito
vano il loro tentativo, per non cadere nelle mani dei nemici, si uccisero.
Caduta Preneste, Silla assunse il nome di "felix"; poi diede sfogo alle sue vendette. Dà corso a repressioni
sanguinose del partito democratico e degli Italici ribelli ed ampie proscrizioni per eliminare gli avversari; tra i
pochi che osano tenergli testa, si distingue un giovane 18 enne, CAIO GIULIO CESARE.
Nessuno di coloro che avevano parteggiato per MARIO e per CINNA e avevano osteggiato con la parola o
con le armi i suoi disegni, doveva aver salva la vita in Roma e fuori Roma. A Preneste non rimasero che le
donne e i fanciulli. Cinquemila prigionieri sanniti condotti a Roma furono ferocemente trucidati. Silla si
trovava nel tempio di Bellona dove aveva convocato il Senato, quando, mentre esponeva il suo programma,
giunsero gli urli strazianti dei poveri Sanniti in massa sgozzati. Un palese turbamento invase gli animi dei
senatori e Silla, per calmarli disse loro che coloro i quali gridavano erano solo alcuni ribelli che lui faceva
punire, e continuò la sua orazione.
Tutto questo, non era che il preludio dell'immane carneficina che doveva insanguinare Roma e l'Italia, tali da
far impallidire le stragi mariane.
Prima la soldataglia inferocita e i sicari del vincitore si sparsero per la città trucidando barbaramente; poi, su
consiglio di Metello, fu stabilito che i nomi di quelli che dovevano esser messi a morte si scrivessero su certe
"tavole" che furono chiamate di "proscrizione", e che ogni giorno erano appese nel foro.
Già c'erano gli spietati pugnali dei sicari di Silla che giravano le vie, le case, le campagne in cerca di prede,
poi le tavole con i nomi istigarono molti vili cittadini a diventare giustizieri, allettati solo dalle taglie di
dodicimila denari posta sul capo d'ogni proscritto; Così fecero concorrenza agli assassini di professione.
Migliaia di malcapitati che magari riparandosi erano riusciti a sfuggire ai sicari caddero sotto mani assassine
insospettabili di conoscenti, amici e anche parenti. E migliaia di teste recise (condizione per incassare il
premio) diventarono i trofei che andarono adornare i rostri.
Fra gli uccisi vi furono quindici ex consoli, quaranta senatori e milleseicento cavalieri.
Gli immensi averi dei proscritti furono confiscati e dichiarati proprietà dello stato e proprio per quest'allettante
motivo furono prima d'ogni altro presi di mira i cittadini più ricchi, e finiti questi ci si accontentò anche di quelli
solo appena appena benestanti. Un liberto di Silla, di nome CRISOGONO, si appropriò i beni di un certo
SESTO ROSCIO AMERINO che ascendevano a sei milioni di sesterzi e fu poi il bersaglio delle invettive del
giovane M. TULLIO CICERONE, che, con vero sprezzo del pericolo al quale si esponeva, osò tacciare di
vile, di ladro e d'assassino il liberto.
Altra prova d'audacia fu data dal giovane 18 enne CAIO GIULIO CESARE il quale rifiutò di ripudiare la
propria moglie, che era una figlia di CINNA, contravvenendo agli ordini di Silla che aveva decretato che
fossero -pena di morte ai trasgressori- ripudiate tutte le mogli appartenenti a famiglie sostenitrici di Mario.
CESARE rientrò fra i trasgressori e fu condannato a morte; gli salvò la vita l'intercessione di una favorita del
tiranno, e Silla malvolentieri concesse la grazia, ma si narra che esclamò: "nell'uomo cui risparmio la vita, io
vedo molti Marii".
Non soltanto sui beni e sulle persone degli avversari si sfogarono le vendette dei sillani e che durarono dal
dicembre del 82 al giugno del 80. Tutto ciò che ricordava l'esacrato Mario, i monumenti innalzati in onore
delle vittorie su Giugurta e i Cimbri, fu abbattuto. Neppure i sepolcri furono rispettati: la tomba di MARIO fu
scoperchiata e le sue ossa gettate nel Tevere. FIMBRIA, che anni prima, aveva proposto di sacrificare una
vittima umana sull'ara del vincitore dei Teutoni, trovò un emulo in LUCIO SERGIO CATILINA (proprio lui il
famoso!) che prima accompagnò a frustate MARCO GRADITIANO nipote adottivo di MARIO, fino alla tomba
di LUTAZIO CATULO, poi su questa gli cavò gli occhi, gli mozzò la lingua, le orecchie e le mani, infine fra gli
spasimi lo trucidarono trasformando le sue membra in brandelli sanguinolenti.
Il suo corpo, orrendamente mutilato, fu portato davanti a SILLA ed essendo, alla vista di quel corpo, svenuto
un cittadino, il ferocissimo Catilina, per completare l'opera, gli tagliò la testa.
Non soltanto a Roma proseguirono gli orrori che abbiamo descritto, ma anche in molti altri luoghi d'Italia. Nel
Sannio, più che altrove infuriò la ferocia di Silla e dei suoi partigiani; città floridissime come Telesia, Esernia
e Boviano furono ridotte a squallidi villaggi; paesi e campagne furono saccheggiati, famiglie intere decimate
o costrette andare in esilio; le loro terre furono sottratte e distribuite ai soldati. Ventitre legioni, secondo
alcuni scrittori, quarantasette secondo altri, costituirono le prime colonie militari cui è affidata la difesa e la
romanizzazione dell'Italia.
Dovendosi eleggere i nuovi consoli, Silla chiese la dittatura e gli fu conferita con un nuovo sistema; fu in
pratica proclamato dal Senato l'interregno e creato nello stesso anno 82, interrè L. VALERIO FLACCO, il
quale, convocate le centurie, fece approvare una legge che nominava Silla dittatore con potere costituente, a
tempo indeterminato, e con il compito di fare leggi e riordinare lo Stato.
Così Silla divenne legalmente (!) il padrone assoluto di Roma.
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Nel riordinare la repubblica ebbe di mira prima di tutto l'avvilimento della plebe e l'esaltazione
dell'aristocrazia. Secoli di storia, di lotte e di sacrifici furono a un tratto cancellati. Con la legge intorno al
potere tribunizio il tribunato plebeo perse la sua indipendenza e l'autorità. Ai tribuni fu sottratto il diritto di
convocare il popolo e di parlare nelle assemblee; fu chiusa la via degli uffici curuli e fu strappato il "jus
auxilii", il diritto cioè di difendere la plebe, di modo che a questi magistrati, dove prima era riposta tutta la
forza del popolo, non rimase che una meschina mansione, quella di patrocinare gl'interessi dei singoli. Con
la legge sui magistrati fu stabilito, rimettendo in vigore un plebiscito di tre secoli e mezzo prima, che non si
poteva ricoprire la medesima magistratura se prima non erano trascorsi dieci anni, che non poteva essere
creato pretore chi non aveva prima ricoperta la questura e console chi non era stato prima pretore; infine fu
fissata l'età minima nella quale si poteva conseguire la magistratura: 30 anni per la questura, 40 per la
pretura e 43 per il consolato.
Con altre leggi si stabilì che i consoli e i pretori dovevano restare a Roma per tutto il tempo della loro
magistratura esercitandovi soltanto il potere civile e che soltanto dopo potevano esser mandati, in qualità di
proconsoli e propretori, nelle province ad esercitarvi il potere militare; fu inoltre disposto che non potevano
allontanarsi dalle province senza il permesso del Senato né far guerra e stipulare trattati; e comminata la
pena di morte per i trasgressori.
Fu abolita la legge di M. Plauzio riguardante il potere giudiziario e questo fu attribuito al Senato. Ma il Senato
non fu più come una volta, un'assemblea esclusivamente composta di aristocratici. Silla creò un organo ligio
alla propria volontà e vi mise trecento cavalieri da lui stesso scelti ed approvati poi dai comizi.
Silla pensò anche alle questioni religiose, pur non essendo in fama di uomo pio; il tempio di Giove
Capitolino, che era stato distrutto dall'incendio qualche anno prima, fu ricostruito e, allo scopo di erigerne
uno che superasse tutti gli altri, fece trasportare da Atene a Roma le colonne del tempio di Giove Olimpio.
Mentre riordinava a modo suo la repubblica, SILLA non trascurava i nemici che si erano rinforzati nelle
province dove o vi erano già o erano aumentati di numero con i tanti esuli.
Contro QUINTO SERTORIO che si trovava nella Spagna Citeriore inviò i pretori C. ANNIO LOSCO e C.
VALERIO FLACCO, che nell'81, costrinsero il ribelle e rifugiarsi nella Mauritania; contro MARCO
PERPENNA, che era in Sicilia e CNEO-DOMIZIO ENOBARBO che in Africa aveva tirato dalla sua parte,
Jarba, re della Numidia, inviò con centoventi navi e sei legioni POMPEO, il quale prima in Sicilia mise in fuga
Perpenna, poi sbarcò in Africa e qui, sconfitto e fatto prigioniero ENOBARBO, che fu messo a morte, depose
dal trono JARBA dando lo scettro della Numidia a JEMPSALE amico di Roma.
Nell'anno 80 a.C. l'Italia e le province erano completamente ridotte sotto il potere assoluto di SILLA che, pur
conservando la dittatura, si fece eleggere console con CECILIO METELLO il PIO, e per premiare il suo più
fedele seguace, POMPEO, che reduce dall'Africa, chiedeva il trionfo, lo concesse, promulgando una legge
speciale.
Così il giovane guerriero (aveva allora 26 anni) che tanta parte doveva avere negli avvenimenti futuri della
repubblica, pur non essendo senatore (ricordiamo che solo ai senatori era consentito trionfare - riuscì a
celebrare, il 12 marzo 80 a.C, il trionfo, al cospetto di Silla che lo salutò "Magnus".
Adunatisi i comizi del 79 a.C., il Dittatore si volle riconfermarlo al consolato, ma Silla rifiutò e furono eletti P.
SERVILIO VEZIO (o Vatia) ed APPIO CLAUDIO PULCRO, sue creature; e quando questi entrarono in carica
lui depose la carica di dittatore.
SILLA, aveva quasi 60 anni, era forse stanco, tuttavia, rinunciando alla dittatura, lui non cessava di essere il
padrone della repubblica. Innumerevoli erano (ora !) i suoi partigiani, distrutta era la potenza popolare e
ripristinata l'autorità del Senato; in mano ai suoi seguaci c'erano tutte le magistrature; ma ciò che costituiva
la sua vera forza erano i centoventimila fedelissimi veterani che vivevano in ogni parte d'Italia e i diecimila
uomini che aveva liberato dalla schiavitù, e che da lui avevano ricevuto la cittadinanza romana e il nome.
Presentatosi al popolo, SILLA depose le insegne dittatoriali e disse
"Romani ! Vi restituisco l'illimitata autorità che mi avete conferito. Governatevi con le leggi vostre. Se poi c'è
qualcuno in mezzo a voi che vuole che io renda conto delle mie azioni, eccomi pronto!".
Si ritirò in una sua villa a Puteoli (Cuma), e qui trascorse gli ultimi mesi della sua vita negli studi, ma forse
pure abusando dei piaceri. Scriveva i suoi "Commentari", ma quando deponeva la penna, si svagava
pescando e cacciando o, insieme con Metrobio, con il comico Roscio e con il buffone Sorice, si dava a
quelle orge voluttuose che dovevano portarlo alla tomba.
Morì all'età di sessanta anni nel 78 a.C.
La sua salma da Puteoli fu trasportata a Roma in una lettiga d'oro e le sue esequie furono degne di un
imperatore. La bara era adorna da duemila corone inviate dalle città d'Italia e seguita dai consoli, dagli altri
magistrati, dalle vestali, dai senatori, dai cavalieri e dalle legioni.
Il cadavere fu sepolto nel Campo Marzio, dove soltanto i Re erano stati inumati, e sulla tomba fu posta una
lapide con l'epitaffio dettato dallo stesso Silla: "Nessuno lo superò nel beneficiare gli amici e nel danneggiare
i nemici".
Poi Roma prese il lutto e le matrone vestirono le nere gramaglie che portarono per un anno intero.
Con la sua morte terminava anche quel periodo che seguì la guerra civile, fra MARIO e SILLA e che segnò il
trapasso dalla repubblica all'impero e fu caratterizzato da lotte civili fra democratici e gli aristocratici, i cui
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interessi furono rappresentati da uomini politici forti e ambiziosi, ma soprattutto da gloriosi generali che
tentarono di impadronirsi del potere con l'appoggio dei loro eserciti.
Il primo di questi è GNEO POMPEO
e gli avvenimenti di questi anni li raccontiamo nel prossimo capitolo…il periodo dall'anno 78 al 63 a.C. > > >
Fonti, Bibliografia, Testi, Citazioni:
TITO LIVIO - STORIE (ab Urbe condita)
POLIBIO - STORIE
APPIANO - BELL. CIV. STORIA ROMANA
DIONE CASSIO - STORIA ROMANA
PAOLO GIUDICI - STORIA D'ITALIA
UTET - CRONOLOGIA UNIVERSALE
I. CAZZANIGA , ST. LETT. LATINA,
+ altri, in Biblioteca dell'Autore
POMPEO DITTATORE - RIVOLTA DI SPARTACO - PROCESSO VERRE (78-63 a. C.)
LA RIBELLIONE DI EMILIO LEPIDO E GIUNIO BRUTO - Q. SERTORIO - POMPEO IN ISPAGNA -BATTAGLIE DEL SUCRONE - ASSASSINIO DI SERTORIO - ASSETTO DELLA SPAGNA E RITORNO DI
POMPEO IN ITALIA - I GLADIATORI - LA TERZA GUERRA SERVILE - SPARTACO - M. LICINIO CRASSO
CONTRO GLI SCHIAVI RIBELLI -MORTE DI SPARTACO - FINE DELLA GUERRA SERVILE - POMPEO
MAGNO CONSOLE - PROCESSO CONTRO VERRE - LA PIRATERIA NEL MEDITERRANEO - POMPEO
E LA GUERRA CONTRO I PIRATI - LA SECONDA GUERRA MITRIDATICA - VITTORIE DI LUCULLO IN
ASIA - POMPEO AL GOVERNO DELLA GUERRA CONTRO MITRIDATE - POMPEO IN SIRIA E IN
PALESTINA - MORTE DI MITRIDATE - ASSETTO DELL'ASIA
-------------------------------------------------------------------------------------------DOPO LA MORTE DI SILLA
Nel precedente riassunto - periodo della fine della guerra civile - la dittatura di SILLA aveva consolidato il
potere degli aristocratici e fatto alcune riforme delle istituzioni, ma sia con lui in vita, sia dopo la sua morte,
l'ordinamento repubblicano appariva fragile.
L'edificio di SILLA, come tutti quelli costruiti a base di violenze e per favorire una sola fazione, durò intatto
finché visse l'uomo che l'edificio l'aveva innalzato.
Il periodo di MARIO e SILLA, con la terribile guerra civile non aveva prodotto nulla di nuovo nella
Repubblica; né il popolo che l'aveva combattuta e subita era migliorato nelle sue condizioni; in effetti, non fu
una guerra di popolo, ma una guerra di potere di due uomini forti, militari, che entrambi volevano dominare la
propria politica- mentre il "popolo" strumentalizzato, dava il voto entusiastico ad uno poi lo dava all'altro,
sempre con l'ammaliatrice demagogia di entrambi, e che poi per i due astuti soggetti, si scannava senza
capire chi dei due faceva veramente il suo interesse.
I diversi fattori che iniziano a manifestarsi nella crisi della repubblica in questo periodo, prima mariano e
sillano (che abbiamo letto nel precedente capitolo), e ora pompeano (in questo capitolo e nel successivo)
erano diversi: due di questi fattori, erano la rapidità e l'estensione delle conquiste e la profonda
trasformazione della società.
Ma legati a questi due fattori, il più importante era il terzo: e questo era l'incapacità del partito al governo, sia
quello di Mario come quello di Silla, e ora quello di Pompeo, di comprendere le nuove esigenze della
popolazione e di estendere il potere a nuovi strati sociali, così diversi da quando era nata la Repubblica
quattro secoli prima.
SILLA come abbiamo visto, politicamente anche lui incapace, essendo un uomo forte, consolidò solo il
potere degli aristocratici, che però solo con la forza divenne forte; ma come abbiamo detto all'inizio, era un
potere fragile.
Se all'orizzonte, come nel partito aristocratico, sarebbe comparso in quello democratico, un altrettanto uomo
forte, il primo non essendo numericamente forte, ed avendo sempre bisogno di un esercito composto dal
popolo, e con generali provenienti dal popolo, era evidente che sarebbe entrato in crisi; né bastava fare come in precedenza- della facile demagogia. La società come abbiamo detto era profondamente cambiata.
Generali e popolo, per quanto quest'ultimo ignorante (ma da qualche tempo più attento ad ascoltare i propri
generali, che con loro vivono, soffrono, e combattono a fianco) erano coscienti di essere la colonna portante
di quell'impero sempre più grande, oltre che molto complesso per gestirlo.
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Le nuove esigenze le avevano comprese più in fretta alla base che non al vertice.
Primo a levar la voce contro l'opera del dittatore fu M. EMILIO LEPIDO, che apparteneva ad una delle più
antiche e nobili famiglie romane e, parteggiando per Silla, si era arricchito con i beni dei cittadini proscritti e
con le ruberie commesse in Sicilia dove lui era stato pretore.
LEPIDO, uomo avido ed ambizioso, spregiudicato e privo di salde convinzioni politiche, sapeva che non gli
era possibile conquistare una posizione predominante in seno all'oligarchia per le mire del giovane
POMPEO, che da tutti, da qualche tempo, era considerato, per le sue qualità e le sue aderenze, l'uomo
destinato ad ottenere il primato della repubblica, così, il nobile LEPIDO bramoso com'era di sconfinato
potere, pensò di guadagnarsi (tornando nuovamente e ingenuamente ad usare pure lui la vecchia
demagogia) le simpatie del popolo e di raggiungere la meta vagheggiata formando un partito d'opposizione.
Un perfetto trasformista, che tradiva il suo censo, e nello stesso tempo pur di prendere voti tradiva il popolo
che glieli dava.
LEPIDO essendo stato, nel 78 a.C., assunto al consolato insieme con QUINTO LUTAZIO CATULO,
cominciò ad attaccare l'opera di Silla (le riforme costituzionali) presentando alcune rogazioni, con le quali, fra
l'altro, proponeva di richiamare i cittadini esiliati, ridare loro i beni confiscati e restituire ai tribuni della plebe
le antiche attribuzioni di cui erano stati spogliati; insomma bella e buona demagogia.
CATULO, console suo collega, si oppose ai disegni di legge che perciò rimasero tali, ma il demagogo
EMILIO LEPIDO diventò il paladino di coloro che erano stati danneggiati dagli ordinamenti sillani, e il
malcontento che prima covava solo, sapendo che ora avevano un protettore, scoppiò minaccioso in alcune
regioni d'Italia, specie nell'Etruria dove, cacciati i soldati dalle terre a loro assegnate dal dittatore, queste
furono riconsegnate ai legittimi proprietari.
Di questi gravi incidenti avrebbe senza dubbio approfittato LEPIDO se il Senato non avesse provveduto ad
allontanare il console dall'Italia.
LEPIDO fu mandato nella Provincia Narbonese, mentre LUTAZIO in Etruria con pieni poteri per reprimere la
sedizione; prima però dovettero prestare giuramento che nulla avrebbero fatto l'uno a danno dell'altro o
contro il Senato e la repubblica.
Ma fu un gravissimo errore del Senato l'aver dato al console turbolento il comando di un esercito, perché
LEPIDO, giunto nella provincia Narbonese, si dichiarò ribelle, e raccolti intorno a sé tutti i malcontenti e i
superstiti della fazione mariana, marciò verso l'Etruria per farvi trionfare la rivolta e dettare leggi al Senato (è
dopo quello di Silla, il secondo caso quello di un generale che minaccia con il proprio esercito Roma; ma non
sarà questo l'ultimo, anzi sarà la regola).
Roma cercò di rimediare al mal fatto e tentò di richiamare il console con il pretesto dei comizi consolari che
da Lepido dovevano esser presieduti.
Dopo aver già commesso due sciocchezze, il Senato ne commetteva un'altra; dimostrando proprio che era
ingenuo e che seguitava a non capire, né il popolo né i generali. E una cosa importante non aveva capito:
che da quando MARIO nel 107 aveva messo in atto una riforma militare, erano state modificate le basi del
reclutamento dell'esercito; cioè era aperto anche ai proletari nullatenenti. Una riforma resa necessaria per il
declino dei piccoli contadini che prima costituivano -fino allora- il nerbo dell'esercito.
E in parallelo, c'era stato -per indolenza, per la nuova vita più godereccia- il declino dei cavalieri (che erano
commercianti, medi proprietari, neo ricchi) nelle cui file una volta si formavano i quadri dell'esercito, mentre
invece ora, erano indolenti ad entrarci, era cioè fastidioso.
Da qualche tempo -pagato dallo stato- si era instaurato il professionismo militare, che aveva non solo
migliorato l'efficienza bellica alla base, ma da questa ora uscivano gli stessi quadri dell'esercito. E che
proprio per questo motivo i capi militari riuscivano -ovviamente chi aveva capacità e carisma- a instaurare
con gli uomini a loro per lungo tempo sottoposti, rapporti affettivi; e se prima i mercenari erano disponibili al
soldo di quel capo che offriva condizioni migliori, ora erano disponibili a schierarsi con quel generale che
dimostrava di avere e poi diventava un capo politico.
Come Silla che tornando dall'Oriente, si era portato dietro i suoi 120mila fedelissimi; e questo lo aveva reso
potente sia dentro l'esercito e, con il terrore di usarlo contro i suoi avversari, potente anche politicamente.
Ma torniamo a LEPIDO, che davanti alla ingenua richiesta del Senato, non cadde nel tranello e, rimasto in
armi, chiese che gli fosse riconfermato il consolato, richiamati gli esuli e ridati ai tribuni gli antichi diritti.
Di fronte al contegno di Lepido, il Senato ricorse alle misure straordinarie creando interrè APPIO CLAUDIO e
proconsole CATULO, affidando loro ampi poteri per domare la ribellione suscitata in Italia da M. Emilio
Lepido. Si tornava di nuovo ad uno scontro fra generali romani.
Correva l'anno 77 a.C. e due erano le regioni nelle quali si era estesa la ribellione: nell'Emilia dove si trovava
LEPIDO e nella Gallia Cisalpina, dove un luogotenente di Lepido, l'ex tribuno M. GIUNIO BRUTO, era
andato per cercare sostenitori e sollevare quelle popolazioni contro Roma.
In quest'ultima CATULO mandò come suo legato CNEO POMPEO. Questi con un buon nerbo di soldati si
presentò nella Cisalpina e mise sotto assedio Mutina (Modena) dove BRUTO si era chiuso. Il luogotenente
di Lepido, ridotto a mal partito, propose la capitolazione a patto di avere salva la vita, e Pompeo promise; ma
poi presa in potere la città, condusse a Reggio il ribelle e lo fece uccidere.
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Contro LEPIDO che era giunto fino al ponte Milvo e sul Gianicolo, andò lo stesso CATULO, il quale,
ingaggiata la battaglia, lo mise in fuga; inseguito e poi raggiunto a Cosa nella costa etrusca, lo attaccò
ancora per sbaragliarlo del tutto e ci riuscì.
LEPIDO però non cadde nelle mani del proconsole. Riuscito a fuggire s'imbarcò per la Sardegna sperando
poi di passare in Spagna; ma i suoi progetti furono troncati dalla morte che lo colse poco dopo il suo arrivo
nell'isola.
La ribellione poteva dirsi domata. Rimaneva soltanto con poche schiere SCIPIONE, figlio di Lepido, che
dopo la sconfitta di ponte Milvo era andato a chiudersi ad Alba. Ma non vi rimase a lungo. Assediato da
LUTAZIO CATULO dopo la partenza del padre dalla penisola, dovette capitolare e subì la stessa sorte di
Bruto: fu giustiziato.
Q. SERTORIO E CN. POMPEO IN SPAGNA
L'Italia nell'anno 77 era pacificata, ma nella Spagna, fin dall'82 a.C. era ricomparso SERTORIO.
Cacciato nel '82 quando Silla era entrato vincitore a Roma, il fuggiasco con un gruppetto di fedeli anti-sillani,
aveva da allora condotto una vita avventurosa, cui lo portava il suo temperamento passionale e irrequieto.
Approdato in Africa, n'era stato respinto da quelle diffidenti popolazioni; andato nelle Baleari con lo scopo di
diventarne il signore ben presto anche lì dovette riprendere il mare; infine aveva concepito di veleggiare
verso le cosiddette poco conosciute Isole Fortunate (Canarie) e di fondare su una di queste un proprio stato.
Ma i suoi compagni, meno audaci di lui, non avevano voluto seguirlo in quest'impresa che -per quei tempiritenevano troppo rischiosa e perfino immaginaria l'esistenza di quelle isole, ed allora Quinto Sertorio aveva
rivolto le prore verso la Mauritania.
Qui aveva avuto più fortuna. Gli abitanti della regione, male sopportando il tirannico governo del loro Re,
erano insorti contro di lui e quando comparve SERTORIO lo avevano proclamato loro capitano, costituendo
l'esule un piccolo dominio a Tingis (od. Tangeri)
SERTORIO aveva dato prove di grande perizia e di non meno grande valore sbaragliando le truppe del re e
perfino un piccolo esercito romano, al comando di Pacceco, giunto in soccorso del sovrano. Sertorio
nell'estrema costa occidentali mediterranea, si era guadagnato tanta fama che era stato poi chiamato in
Spagna dai ribelli Lusitani per guidarli contro le armi della repubblica.
Sertorio aveva accettato l'offerta del comando. Abbandonata Tangeri, si mise a capo di una spedizione e
assalita audacemente una piccola flotta romana che incrociava alle Colonne d'Ercole (od. Gibilterra) agli
ordini dell'ammiraglio COTTA, Sertorio era riuscito ad approdare nella Spagna e qui, raccolto un rilevante
contingente di soldati, in parte di Lusitani in parte da esuli romani anti-sillani, aveva sconfitto al fiume Beti il
propretore LUCIO FUFIDIO; poi, diviso in due il suo esercito, una parte l'aveva tenuta con sé marciando
contro Q. METELLO PIO sconfiggendolo e costringendolo nel corso dell'anno 79 a.C. ad abbandonare la
Lusitania; l'altra l'aveva affidata al suo luogotenente L. IRTULEIO, che l'anno successivo, pure lui
sconfiggeva le legioni romane del propretore DOMIZIO CALVINO e del pretore L. MALLIO.
Era l'anno 78 a.C., lo stesso anno che a Cuma moriva SILLA, che lasciava insoluti alcuni problemi all'interno
e all'esterno. Ma oltre questi si scatenava la lotta al potere; un potere simile al suo che tutti bramavano,
capaci e incapaci.
In breve, dall'82 al 78, mentre in Italia era avvenuta la grande repressione sillana, l'avventuriero SERTORIO
si era impadronito con le armi di tutta la Spagna, e nella situazione non proprio limpida in cui si trovava
Roma, era animato dal proposito di fare della penisola iberica una repubblica modellata su quella romana
dei tempi migliori e di trapiantarvi i costumi, la lingua, la religione e la civiltà della patria.
SERTORIO in effetti, era riuscito a guadagnarsi la simpatia e la stima degli Ispani con la giustizia del suo
governo, con il fascino della sua eloquenza, la generosità del suo animo e la grande perizia nelle cose di
guerra; aveva, infatti, formato un esercito numeroso, capace di misurarsi con successo con le migliori legioni
romane ed aveva scelto OSCA come capitale del nuovo stato, istituendovi un Senato di trecento romani ed
una scuola di latino e greco per i giovani spagnoli.
Nel 77 a.C., tali erano le condizioni della Spagna. Dopo avere sconfitto Lepido in Etruria, con Cartulo e
Pompeo, il Senato romano decise di affrontare la questione Spagna, di combattere il ribelle Sartorio, di
ricondurre all'obbedienza la penisola iberica.
Nonostante la riluttanza del Senato che vedeva un futuro pericolo la forza dell'oligarchia nel giovane
POMPEO, questi, pur contando appena ventinove anni e non avendo mai ricoperta alcuna magistratura, per
la protezione di L. MARCIO FILIPPO e per la sua fama di abile e fortunato condottiero, gli fu affidato
l'incarico di combattere -coadiuvato da METELLO PIO- il ribelle QUINTO SERTORIO.
Nello stesso anno 77 a.C., consoli erano DECIMO GIUNIO BRUTO e MAMERCO EMILIO LEPIDO
LIVIANO, il giovane condottiero CNEO POMPEO e il suo aiutante, con un esercito di trentamila fanti e mille
cavalli, partì dall'Italia per la Spagna.
Passò tutta l'estate di quell'anno nella Provincia Narbonese per ridurre all'obbedienza alcune tribù che si
erano ribellate alla repubblica. Diviso in due l'esercito con Metello, i rimanenti mesi dell'anno furono coronati
da alcuni successi; gli Elvii e gli Arecomici furono domati e molte opere di difesa furono fatte sul territorio, fra
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le quali degna di menzione la strada del Monginevro per mettere in immediato collegamento le due regioni ai
piedi delle Alpi.
Nell'autunno Pompeo, si spinse in avanti, attraversò i Pirenei, entrò nella Spagna e, favorito da alcune
popolazioni che si erano ribellate a Sertorio, marciò contro di lui con i due eserciti, uno, guidato da lui stesso,
l'altro comandato da Metello.
Minacciato da due eserciti romani oltre che dai ribelli, SERTORIO rimase a domare la rivolta e, affidato al
questore IRTULEJO l'incarico di fronteggiare Metello nella provincia Ulteriore, mandò contro Pompeo il
luogotenente M. PERPERNA.
Una prima azione - nel corso del nuovo anno 76 a.C.- condotta da ERENNIO, dell'esercito di PERPERNA,
ebbe esito infelice; ma più tardi al Sucrone, presso Valenza, POMPEO fu sconfitto dallo stesso SERTORIO
e costretto a ripassare l'Ebro.
Più fortunato fu il suo collega METELLO. Presso Italica, assalito da IRTULEJO, il romano lo sconfisse
procurandogli moltissime perdite. Ritiratosi in Lusitania, l'anno dopo (75 a.C.) Irtulejo marciò nuovamente
contro Metello e gli diede battaglia a Segovia; ma neppure questa volta né le sue armi né lui avevano la
fortuna dalla loro parte; il suo esercito fu sbaragliato e lo stesso IRTULEJO perse la vita.
Risoluto a congiungere le sue forze a quelle del collega, POMPEO riprese l'offensiva e si scontrò con il
nemico ancora presso il fiume Mucrone; sperava di riportare una vittoria, ma l'ala destra che lui stesso
comandava fu rotta e la giornata avrebbe segnato un disastro per i pompeiani se la sinistra, guidata da
AFRANIO, non si fosse magnificamente battuta contro le truppe del ribelle. La battaglia ebbe un esito
incerto, ma non disastroso per Pompeo che alla fine riuscì a passare e ad unirsi a METELLO PIO.
Nel corso dell'anno 74 a.C., sebbene uniti i due generali romani non furono favoriti dalla sorte; SERTORIO
diverse volte ingaggiò con loro battaglia e li sconfisse; Pompeo a quel punto non avendo mai ricevuti rinforzi,
dovette minacciare il Senato che avrebbe fatto causa comune con il ribelle e di marciare con lui contro
Roma, se non gli inviavano rinforzi.
I rinforzi furono inviati nel corso dell'anno 73, ma Pompeo non se ne avvantaggiò, anzi, fu battuto, e poi
costretto a mettere i suoi quartieri d'inverno dell'anno 73-72, nella Gallia.
SERTORIO era di nuovo padrone della Spagna e forse si sarebbe anche consolidato maggiormente se
avesse dato ascolto fin dall'anno 74 a.C., a MITRIDATE, il quale, in procinto di muover nuovamente guerra
alla Repubblica, aveva offerto l'alleanza a SERTORIO per conquistare i territori romani d'Asia con promessa
di fornirgli tremila talenti e quaranta navi. Più che l'aiuto materiale, la mossa di Mitridate, avrebbe impegnato
Roma su due fronti.
SERTORIO al re del Ponto aveva risposto "Io non desidero diventare potente a danno della Repubblica.
Prenda Mitridate la Bitinia e la Cappadocia, ma non un pezzo di quella terra che i trattati non consentono. Io,
romano, combatto e vinco non per ridurre ma per accrescere i domini di Roma".
Questa onestà verso la Patria, gli fu fatale; mentre i disonesti non erano solo fuori ma dentro il suo
medesimo esercito.
La guerra di Pompeo contro Sertorio durava ormai da quattro anni, e chi sa quanto sarebbe ancora durata
se l'invidia e il tradimento non avessero tolto di mezzo Sertorio.
Molti dei fuorusciti che militavano sotto le sue insegne, dimenticavano le sue indubbie capacità, gli
invidiavano il comando e attribuivano solo alla fortuna i suoi successi. Fra questi PERPERNA era uno di
quelli che più di ogni altro smaniava di spodestarlo.
Mirando a questo scopo, cercò di mantenere viva l'invidia degli altri ufficiali non meno ambiziosi di lui, e di
rivoltargli contro gli Ispani. Ma non essendogli questi tentativi riusciti, ricorse al tradimento.
Si trovava SERTORIO, nel corso dell'anno 72 a.C., accampato presso Osca, quando un giorno,
PERPERNA, giunse nel suo quartier generale e gli annunciò, mentendo, di avere riportato una grande
vittoria sull'esercito di Pompeo, e per festeggiare l'avvenimento lo invitò ad un banchetto.
Sertorio, nulla sospettando, partecipò ma durante la cena, assalito improvvisamente, fu trucidato da alcuni
sicari del vile Perperna.
Fu tale il dolore dei soldati ispanici della guardia di Sertorio che, avendo questi giurato di restargli sempre
fedeli e di morire con lui, alcuni si uccisero sul cadavere del grande capitano, altri attesero solo l'occasione
buona per sbarazzarsi di lui.
Morto Sertorio, PERPERNA volle prendere il comando supremo dell'esercito, ma i soldati iniziarono a
ribellarsi, a non volerlo riconoscere loro capo, e molti si ammutinarono, rivolgendosi contro di lui.
Ad approfittare di questa grave crisi interna fu POMPEO che bene informato di cosa stava accadendo nel
campo del suo nemico, ritenne che era giunto il momento di agire. Con le sue truppe piombò
sull'accampamento, privo di un vero capo e quindi di disciplina, e non gli fu difficile averne ragione.
Sperando di salvare la vita, Perperna consegnò a Pompeo alcune lettere che molti senatori romani avevano
scritto a Sertorio invitandolo a scendere in Italia con il suo esercito, ma Pompeo, che era di animo generoso,
non le volle nemmeno leggere, le bruciò, poi punì la vigliaccheria di Perperna facendolo giustiziare.
La Spagna, dopo la fine di SERTORIO, in pochi mesi fu facilmente ridotta all'obbedienza. Più a lungo
resistettero le città di Usarna, Clunia e Calaguni, ma alla fine furono costrette a cedere, e anche a queste fu
sottratta l'autonomia.
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Pompeo, ridotta la Spagna sotto la sovranità di Roma, vi rimase per tutto l'anno 72 a.C. per riordinare le due
province, la Citeriore e la Superiore. Allo scopo di procurare alla repubblica delle preziose amicizie e rendere
più durevole la sottomissione della penisola, in forza di una legge -quell'anno stesso proposta dai consoli L.
GELLIO PUPLICOLA e CNEO CORNELIO LENTULO- conferì la cittadinanza romana alle persone più
autorevoli della Spagna, affidando loro importanti cariche; quindi, dato assetto ad ogni cosa, POMPEO e
METELLO tornarono in Italia, dove nel corso dello stesso anno 72, era scoppiata una minacciosa rivolta di
schiavi.
SPARTACO E LA TERZA GUERRA SERVILE
Uno degli spettacoli che maggiormente dilettavano i Romani erano i combattimenti che nel circo avvenivano
tra le belve, o tra belve e schiavi, o esclusivamente tra questi ultimi.
La passione per la lotta tra belve era nata dopo la prima guerra punica. Acquisti di belve da inviare nella
capitale li facevano già i mercanti, poi i generali vittoriosi nelle loro spedizioni in Africa e in Asia, oltre che
schiavi e bottino, iniziarono a portare a Roma un gran numero di fiere; oppure conoscendo questa passione
dei Romani, erano gli stessi re tributari a inviare nella capitale gli animali
Metello aveva fatto portare a Roma centocinquanta elefanti; Scauro un considerevole numero di leoni e di
pantere, Pompeo seicento leoni e quattrocento pantere.
I combattimenti tra schiavi, introdotti - a quanto pare - a Roma dall'Etruria
nel secolo V come rito funebre, presero in breve gran voga e si diffusero in Italia come divertimenti insieme
alle corse e ai giuochi giunti dopo la conquista dell'Illiria, dalla Grecia (Sconfitti i pirati Illiri, per riconoscenza i
Romani furono invitati ai giochi; e lì scoprirono le Olimpiadi).
Era tanta la passione dei Romani per queste lotte che gli edili, per acquistarsi il favore popolare, spendevano
somme grandissime per finanziare e patrocinare questi combattimenti.
I gladiatori (da "gladium" spada) erano di solito schiavi o condannati, ma potevano essere anche liberti o
uomini liberi i quali per una certa somma erano arruolati da un mercante detto "lanista" che ritraeva da loro
lauti guadagni fornendoli all'"editor" (od. manager) a colui cioè che voleva allestire uno spettacolo di
gladiatori.
Come i soldati novellini, appena arruolati i gladiatori prendevano il nome di "tironi", dopo un certo numero di
anni si chiamavano "veterani" e all'atto del congedo ricevevano una spada di legno ("rudis") e erano detti
"rudiarii". Fra questi ultimi erano reclutati gli istruttori: i "doctores".
Gli spettacoli avvenivano nelle ore pomeridiane nel circo e mandavano in visibilio gli spettatori che
ammiravano l'agilità, la destrezza, il coraggio e la resistenza dei combattenti, li incitavano alla lotta e
scommettevano tra loro sui risultati finali.
Quando un gladiatore, stremato di forze e sanguinante, stava per soccombere, alzava un dito verso l'"editor"
come per chiedergli la grazia e se questa gli era concessa altrettanto faceva chi presiedeva ai giuochi; tutto
dipendeva dalla simpatia che vincitore o vinto erano capaci di trasmettere agli spettatori; e quindi qualche
volta chi presiedeva i giochi volgeva in basso il pollice ("pollice verso") se voleva che il gladiatore morisse.
Scuole per gladiatori esistevano nelle principali città d'Italia e tra queste la più importante era quella che
LENTULO BARBATO teneva a Capua (una città ricca, opulenta e godereccia più di Roma, per i numerosi
neo ricchi sorti con i commerci, i cantieri, le produzioni varie).
La domanda si fece più alta, la passione contagiò Roma e le altre città, i "tironi" non bastavano mai, ma negli
ultimi anni di conquiste, l'abbondanza di prigionieri-schiavi fornì abbondante materia prima ai "lanisti", agli
"editor", e alle "scuole", come quella di Capua.
E proprio da questa scuola partì la scintilla della rivolta e l'iniziatore fu un gladiatore di nome SPARTACO,
che era di origine Trace.
Spartaco era un selvatico, forte e abile; era stato un soldato della repubblica, ma insofferente alla disciplina
aveva disertato ed era vissuto "libero" per qualche tempo alla macchia; ma poi fu catturato, ed era stato
venduto come schiavo a Lentulo.
Di natura libera, se era insofferente all'esercito, figuriamoci poi nella schiavitù; così persuase i suoi compagni
che era meglio morire combattendo contro gli oppressori che dare la vita uccidendosi l'un l'altro inalberò il
vessillo della rivolta e fuggì con loro dalla scuola.
SPARTACO si era rifugiato alle pendici del Vesuvio; e qui, sparsasi la voce altri schiavi accorsero e si
unirono a lui; in breve il piccolo manipolo divenne una moltitudine numerosa. Ovviamente loro capo fu
proclamato Spartaco.
Contro di loro fu mandato il pretore P. VARINIO GLABRO che circondò con le sue truppe il monte; ma gli
insorti, che sapevano a qual sorte erano destinati se si arrendevano, si calarono audacemente dalle rocce
ed assaliti impetuosamente i Romani li sconfissero.
Altri schiavi si unirono a Spartaco che lasciato il Vesuvio, scese in Lucania, dove lo stesso pretore
incalzandoli andò a combatterli, ma anche questa volta la fortuna fu degli schiavi che, dopo la seconda
clamorosa vittoria, con i nuovi seguaci, raggiunsero il numero di centoventimila; si impadronirono di quasi
tutta la Campania, della Lucania e del Bruzio, attribuirono il titolo di pretore dell'Italia meridionale a Spartaco
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e divisero quello che era ormai un potente esercito, in tre corpi al cui comando furono messi CRISSO,
GIANNICO ed OCNOMAO.
Sebbene numeroso e reso ardito dalle prime vittorie, l'esercito dei ribelli conteneva in sé i germi che
dovevano condurlo alla rovina. La mancanza di disciplina, di un capo, di una strategia. Di diverse nazioni
erano gli schiavi e scarsa, di conseguenza, la disciplina dell'esercito e dei vari capi. Uno di questi, CRISSO,
non volendo sottostare a Spartaco, si allontanò con ventimila Celti ed andò ad accamparsi presso il monte
Gargano, dove però presto fu annientato dal pretore Q. ANNIO.
Contro gli altri ribelli Roma mandò i consoli L. GELLIO e CNEO CORNELIO LENTULO (71 a.C.), ma due
volte furono sconfitti da Spartaco.
Voleva questi marciare verso il nord e valicare le Alpi per mettersi al sicuro dalle truppe romane fuori del
territorio della repubblica, ma i suoi uomini, indisciplinati ed ubriacati dai fortunati successi vollero rimanere
in Italia e aumentò così tanto la loro arroganza che, in occasione dei funerali di Crisso, obbligarono trecento
prigionieri romani a combattere da gladiatori per divertirsi pure loro con gli stessi spettacoli dove prima erano
loro le vittime.
Vedendo che i suoi non volevano assicurarsi la libertà oltre le Alpi, Spartaco concepì il disegno di sollevare
gli schiavi di Sicilia e si diresse non a nord ma a sud verso l'altra estremità della penisola.
Lo tallonava prudentemente il pretore M. LICINIO CRASSO, il quale alla testa di nove legioni, era stato
mandato dal Senato in sostituzione dei due inetti consoli a combattere i ribelli
CRASSO, quando vide gli schiavi all'estrema punta di Reggio, pensò di chiuderli in quell'angusto luogo della
penisola e fece scavare un fossato e costruire un muro da un mare all'altro.
SPARTACO lasciò fare e si mise in trattative con i pirati per avere le navi che portassero il suo esercito
nell'isola, ma i pirati, avuto il denaro pattuito, da veri pirati, se n'andarono e il capo degli insorti solo allora
comprese in quale difficile condizione si trovava; cioè in trappola.
Animati più dalla disperazione che dal coraggio, i ribelli decisero di aprirsi la via con le armi, e approfittando
di una notte buia e tempestosa, assalirono con inaudita violenza le difese al vallo romano, le superarono e si
portarono in Lucania, mettendo il rotta il questore TREMELLIO SCROFA e il luogotenente QUINZIO.
Resi spavaldi da queste vittorie gli schiavi chiesero di marciare su Roma, ma Spartaco, che era un prudente
capitano, si oppose e tentò di avviare trattative con il nemico; agire in un altro modo in quella situazione non
era ormai più possibile.
I Romani però non vollero scendere a patti con gli schiavi e ormai sicuri dell'esito finale, intensificarono le
operazioni di guerra, che dovevano terminare con la definitiva disfatta dei ribelli.
La decisiva battaglia fra l'esercito di CRASSO e quello di SPARTACO avvenne nella valle degli Irpini, sul
Sele. Spartaco presagiva la sconfitta e prima d'ingaggiare il combattimento uccise il proprio cavallo, dicendo
a chi gliene domandava il perché che ne avrebbe avuti degli altri se avesse vinto e non ne avrebbe avuto più
bisogno se fosse rimasto ucciso. Poi diede il segnale della battaglia e si slanciò a piedi tra le file nemiche,
battendosi disperatamente.
Ferito gravemente, cadde sulle ginocchia, ma continuò a combattere da eroe fino a quando gli rimase la
forza per tenere in mano la spada.
La rotta degli schiavi quel giorno fu completa. La maggior parte furono uccisi, seimila schiavi furono fatti
prigionieri e crocifissi lungo la via Appia che conduce da Capua a Roma e circa cinquemila ribelli riuscirono a
fuggire.
Giungeva intanto Pompeo, che reduce dalla Spagna, era stato subito inviato dal Senato in soccorso del
pretore. Ma dell'opera sua non c'era più bisogno. Tuttavia l'ambizioso Capitano non volle ritornare a Roma
senza aver fatto qualcosa; così inseguì i cinquemila insorti superstiti e, ingaggiato con loro la battaglia, li
catturò quasi tutti per poi anche lui crocifiggerli.
La guerra si era già conclusa vittoriosa, grazie all'opera di Crasso; ma il vanitoso Pompeo volle attribuire a
se stesso il merito e, annunciando al Senato il proprio successo, scriveva di avere estirpate in Asia le radici
della rivolta.
POMPEO MAGNO CONSOLE
POMPEO -lo abbiamo letto in questo e nei precedenti capitoli- aveva avuto una gran parte nella guerra civile
in Italia, aveva comandato vittoriosamente eserciti in Sicilia, in Africa e in Spagna, ma non aveva occupato
nessuna carica civile. Poco curandosi della legge di Silla "de magistratibus", la quale prescriveva per i
consoli l'età minima di 43 anni ed escludeva da quella carica chi non aveva rivestita la questura e la pretura,
Pompeo chiese il consolato per l'anno 70 a.C. e poiché gli oligarchi lo avversavano egli si schierò con la
democrazia, sostenendo nei suoi discorsi la restituzione delle antiche attribuzioni al tribunato della plebe.
Ma non si fermò solo ai discorsi, di ritorno dalla guerra servile, si era accampato con l'esercito suo e quello
del suo collega Crasso alle porte della capitale; e questa che sembrava ed era una minaccia per Roma, gli
permise di prendere accordi, anzi imporre la duplice elezione seppur privi di requisiti.
Infatti, POMPEO per l'anno 70 a.C. fu eletto console assieme a LICINIO CRASS. Mantenne pure le
promesse fatte al popolo, presentando a nome suo e del collega una rogazione che, approvata, prese il
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nome di "lex Pompeia-Zicinia de tribunicia protestate" con la quale furono restituiti ai tribuni gli antichi diritti,
oltre a cancellare i provvedimenti sillani contrari alla classe dei cavalieri.
POMPEO pone così fine alla reazione conservatrice sillana restaurando gran parte degli ordinamenti
democratici aboliti da Silla.
IL PROCESSO VERRE- CICERONE ACCUSA
Da allora Pompeo divenne il campione della parte popolare.
Incoraggiato dal successo della prima rogazione e dal favore che si era guadagnato, volle pure riformare la
legge giudiziaria di Silla.
A quest'impresa si accinse sia per diminuire la potenza dell'oligarchia sia per mettere fine ad un intollerabile
stato di cose, le cui irregolarità erano proprio in quei mesi messe a nudo da un clamoroso processo che si
stava svolgendo a carico di VERRE.
Costui Governatore della Sicilia, si era arricchito al tempo delle lotte tra Mario e Silla, trafugando prima la
cassa dell'esercito mariano, poi acquistando molte terre confiscate o estorte in quel caos di vendette
promosse da Silla.
Recatosi poi come legato nella Cilicia, si era reso anche lì famoso per la sua avidità e le sue ruberie; aveva
spogliato di statue e di oggetti preziosi i templi di Tenedo, di Chio, di Delo e di Alicarnasso; si era
impadronito della migliore nave di Mileto; aveva condannato a morte a Lampsaco il padre e il fratello d'una
fanciulla, che lui voleva violare.
Eletto pretore, gli era stato affidato il governo della Sicilia e lo aveva tenuto dal 73 al 70 a.C., commettendo
iniquità tali che avrebbero fatto impallidire quelle già commesse in Cilicia. Per denaro aveva venduto la
grazia ai condannati, aveva fatto mercimonio delle cariche, inasprite le imposte a suo vantaggio, spogliati i
templi e le case, di tutte le migliore cose pregevoli che contenevano e aveva perfino derubato il re di Siria di
passaggio da Siracusa. Aveva accumulato un patrimonio che superava il valore di quarantacinque milioni di
sesterzi d'oro.
I Siciliani avevano reclamato giustizia dalla repubblica e CICERONE, che era stato sull'isola nel 75 come
questore a Lilibeo (Marsala) per la sua condotta si era guadagnato la stima di quelle popolazioni; e queste
ora si erano messe nelle sue mani; lui aveva ascoltato la loro voce ed aveva accettato di essere il loro
patrocinatore.
A difensore di VERRE era stato scelto QUINTO ORTENSIO, il principe degli oratori romani. Gli ottimati
cercarono con tutti i mezzi, anche con gli illeciti, di salvare Verre, e tentarono di affidare il patrocinio dei
Siciliani a CECILIO, questore che però dalle voci risultava essere un complice delle malefatte di Verre in
Sicilia. Cicerone mostrò al Senato i rischi in cui si metteva la potestà giudiziaria ed ottenne lui il patrocinio.
CICERONE si recò in Sicilia dove raccolse infinite prove delle ribalderie di Verre e quando, tornato in Roma,
nell'"actio prima in Verrem", enumerò le prove che era riuscito a procurarsi, ORTENSIO, vista la causa
perduta, rinunciò alla difesa e Verre se ne andò in esilio.
Ma CICERONE, non si ritenne soddisfatto e in cinque famose orazioni (De praetura urbana, De jurisdictione
Siciliensi, De frumentis, De signis, De suppliciis) mise a nudo le malvagie e squallide opere dell'accusato e,
prendendo spunto dalla dichiarazione di Verre che "nel primo anno aveva rubato per sé, nel secondo per gli
avvocati e nel terzo pei giudici", si scagliò contro gli ottimati, dicendo fra l'altro: "Poiché vi sono uomini che
non hanno vergogna della loro infamia e persistono ad opprimere con i loro malvagi giudizi, io sarò nemico
ed accusatore implacabile di tutti quei perversi che discreditano la repubblica con il far credere che un ricco,
quantunque colpevole, non possa mai essere condannato".
VERRE fu condannato all'esilio e al pagamento di quarantacinque milioni di sesterzi.
Il processo contro Verre spinse POMPEO a consigliare AURELIO COTTA a presentare la rogazione in cui
era proposta la riforma della legge giudiziaria e così i tribunali furono affidati ad un corpo di giudici formato di
senatori, di cavalieri e di "tribuni aerarii" questi ultimi erano ricchi plebei che avevano l'incarico di riscuotere i
tributi e di pagare il soldo alle milizie.
Altra legge che finì di distruggere l'edificio di Silla fu il ristabilimento della censura.
L'avvenire di Pompeo era assicurato; il popolo lo chiamava suo liberatore e ne ammirava la modestia. Verso
la fine del suo consolato i censori passarono nel foro in rassegna l'ordine equestre, com'era consuetudine.
Pompeo, sebbene console, si presentò senza pompa, tenendo per mano il suo cavallo e quando i censori,
secondo l'uso, giunti vicino a lui, gli domandarono se "aveva servito nell'esercito tutte le volte che la
repubblica aveva reclamato i suoi servizi", egli rispose: "Sì, e non ho mai avuto altro capo che me stesso".
Questa risposta non depone in favore della modestia del console e in verità Pompeo era ambiziosissimo ed
astutamente si fingeva modesto per raggiungere meglio i suoi fini.
Lui avrebbe potuto assumere, quando uscì dalla carica, il governo di una provincia, ma non volle
allontanarsi. Roma era il cuore e il cervello dello stato e a Roma si decidevano le sorti della Repubblica e
degli uomini; per la qual cosa Pompeo rimase a Roma, aspettando che la patria, bisognosa di una mente e
di un braccio, gli porgesse l'occasione di riprendere, più forte di prima, il potere che ora per opportunità
politica lasciava.
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POMPEO E LA PIRATERIA
L'occasione non poteva tardare a presentarsi: l'Asia e il Mediterraneo dovevano offrirgliela e la pirateria e
Mitridate dovevano farlo diventare l'uomo più potente della Repubblica.
Il Mediterraneo era infestato da corsari d'Africa, d'Asia e d' Europa che la fine della potenza marinara della
Grecia, di Cartagine, della Sicilia, della Siria e dell'Asia Minore e le guerra civili ed esterne di Roma avevano
moltiplicati e resi audacissimi.
Secondo Plutarco mille navi corsare percorrevano continuamente i mari. Quattrocento città erano state
saccheggiate, il commercio tra l'Oriente e l'Occidente era stato gravemente danneggiato; su tutte le coste i
pirati si erano costruite torri d'osservazione che permettevano a loro di spadroneggiare con sicurezza il
Mediterraneo, che ricordiamo a quel tempo la maggior parte dei navigli navigava costeggiando.
Il loro covo principale era l'isola di Creta e di là si spingevano nei porti della Grecia e d'Italia distruggendo e
predando. La loro audacia era giunta a tal punto che nel 74, sfidando la flotta del pretore MARCO
ANTONIO, avevano messo a sacco il porto di Gaeta e quello di Ostia, portandosi via le migliore fanciulle e i
figli dei ricchi per poi ricattarli.
Roma da qualche tempo aveva cercato di disinfestare i mari da questi ladroni e rendere sicure le vie di
comunicazione con le sue province. Già nel 79 aveva mandato contro i pirati il proconsole P. SERVILLO
VEZIO. Questi per tre anni li aveva affrontati, li aveva spazzati dalla costa della Cilicia e li aveva
sanguinosamente sconfitti ad Isauro sul Tauro, meritandosi il titolo di "Isaurico". Ma la pirateria era molto
diffusa e quindi non era stata distrutta, anzi vi era quella nuova, e quella vecchia aveva rialzato il capo,
portando le sue audacie azione fin dentro il mar Tirreno; e a Cidonia a Creta aveva sconfitto il pretore
ANTONIO mandato dalla Repubblica contro i corsari.
Miglior fortuna aveva avuta Q. CECILIO METELLO che nel 68 aveva snidato i pirati da Creta,
guadagnandosi il titolo di "Cretico"; ma le sue vittorie non avevano abbattuta la pirateria, la quale era risorta
più potente di prima e, infestando i mari d'Italia, minacciava ora seriamente di affamare Roma impedendo i
rifornimenti di grano dalla Sicilia e dalla Sardegna.
Fu per metter fine a questa situazione, che il tribuno AULO GABINIO presentò una rogazione, con la quale
proponeva che per combattere e debellare la pirateria si scegliesse un capitano fra i consolari e gli si desse
il comando assoluto su tutto il Mediterraneo. Il duce prescelto doveva avere il totale governo delle operazioni
per tre anni, la facoltà di prelevare dalle casse dello stato somme non superiori ai seimila talenti, di reclutare
truppe di terra e di mare, di allestire fino a duecento navi e poteva eleggere quindici luogotenenti che lo
avrebbero coadiuvato nell'impresa.
Correva l'anno 67 a.C. La legge proposta dal tribuno era ottima per lo scopo che si prefiggeva ma
pericolosissima alla libertà repubblicana, e poiché era evidente che, se approvata, la scelta sarebbe caduta
su Pompeo, i suoi poteri avevano la forza di configurarsi in una vera e propria dittatura sui mari; e gli
oligarchi temevano che il futuro "navarco" prima o poi, avrebbe nuociuto non tanto alla libertà della
repubblica quanto al loro partito; fu dunque durissima l'opposizione che fece alla proposta di Gabinio.
A nulla valsero le orazioni di LUTAZIO CATULO e QUINTO ORTENSIO, a nulla le dichiarazioni esplicite di
CALPURNIO PISONE. Il tribuno TREBELLIO che aveva opposto il veto lo ritirò di fronte al contegno
minaccioso del popolo e lo stesso fece L. ROSCIO OTTONE, il quale aveva proposto che invece di un solo
navarca se ne eleggessero due: la legge, coraggiosamente difesa da GIULIO CESARE, fu approvata.
A capo supremo della guerra fu chiamato POMPEO, che ottenne più di quanto la proposta di legge gli
accordava. Gli si diede infatti, la facoltà di crearsi ventiquattro luogotenenti, di armare fino a cinquecento
navi, di reclutare centoventimila fanti e cinquecento cavalli e di prelevare dall'erario tutto il denaro che gli
occorreva senza limiti.
Pompeo nella non facile impresa ci mise energia e impegno straordinari: divise il Mediterraneo in tredici
zone; ad ognuna delle quali sistemò un luogotenente ed assegnò una squadra navale e un contingente di
truppe, poi lui iniziò le operazioni di guerra vere e proprie con il movimento.
In quaranta giorni liberò dai pirati le coste della Sicilia, della Sardegna, e dell'Africa; rivoltosi al Mediterraneo
orientale ripulì quelle della Grecia e costrinse i pirati a rifugiarsi nella Cilicia. Qui tentarono di resistere, ma,
bloccati al promontorio Coracesio, nel golfo di Adalia, capitolarono.
La guerra non durò che ottantanove giorni. Secondo Strabone mille e trecento furono le navi catturate e poi
incendiate da Pompeo, ventimila i prigionieri fatti a Coracesio; che Pompeo non condusse a Roma come
schiavi; li fornì di attrezzi agricoli e diede loro il territorio della città di Soli, distrutta dal re Tigrane d'Armenia e
riedificata dai nuovi coloni col nome di Pompeopoli.
SECONDA GUERRA MITRIDATICA
Era appena finita -nel 67 a.C.- la guerra contro i pirati quando il tribuno MANILIO propose che si affidasse a
POMPEO il governo della seconda guerra mitridatica. Come leggeremo più avanti, il re d'Armenia, TIGRANE
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aveva nuovamente invaso la Cappadocia cacciando il re ARIOBARZANE, mentre MITRIDATE VI aveva
ripreso possesso del Ponto.
Anche questa volta si opposero gli oligarchi; ma infine la "rogazione manilia" fu approvata (66 a.C.) ed a
Pompeo concesso il comando supremo nelle operazioni in Asia con pieni poteri.
La guerra mitridatica si trascinava da un pezzo.
Era morto nel 74 a.C. il re Nicomede III, lasciando Roma erede della Paflagonia e della Bitinia; ma essendo
la repubblica impegnata in Spagna contro Sertorio, MITRIDATE aveva invaso il regno del defunto re e l'Asia
romana, riducendo in poco tempo in suo potere i vasti territori di cui si era reso padrone al tempo delle lotte
tra Mario e Silla che poi quest'ultimo costrinse a lasciare.
Contro MITRIDATE Roma aveva -nel 73-72 a.C.- mandato il console M. AURELIO COTTA con circa
trentamila uomini ma i Romani, mentre si preparavano ad invadere il Ponto dalla parte della Frigia, erano
stati assaliti e battuti a Calcedone.
A Cotta era poi andato in soccorso l'altro console L. LICINIO LUCULLO (famoso poi per altri motivi) e,
mentre il primo occupava la Bitinia, lui marciava sicuro contro Mitridate che stringeva d'assedio Cizico; lo
costringeva ad allontanarsi, lo sbaragliava sull'Esepo nella Misia e conquistava la Paflagonia.
L'anno dopo, nel 71 a.C. ancora LUCULLO aveva a Cabira, sul Lico, messo in grave difficoltà un esercito di
Mitridate forte di quarantamila fanti e quattromila cavalli ed aveva costretto il re del Ponto ad abbandonare il
regno e a rifugiarsi presso il genero TIGRANE II che regnava sull'Armenia, sulla Mesopotania, sulla Siria e
su alcune regioni della Cilicia e della Cappadocia.
Sposata la causa del suocero, TIGRANE aveva messo in campo un esercito di centocinquantamila fanti e
seimila cavalli. Ma LUCULLO che disponeva soli dodicimila fanti e tremila cavalli per nulla impressionato,
non aveva esitato nel corso dell'anno 70 a.C. a passare l'Eufrate e a marciare su Tigranocerta, la capitale
dell'Armenia.
Qui fu combattuta nel 69 a.C. una memorabile battaglia. Da un'altura alla sinistra del Niceforio, affluente del
Tigri, LUCULLO con uno splendido piano strategico, prima aveva attirato sull'altura e poi respinto la
cavalleria nemica, poi, era piombato a valle sul grosso dell'esercito asiatico, e lo aveva non solo sconfitto ma
letteralmente annientato, uccidendo centomila uomini.
Tigranocerta indifesa era poi caduta in potere di LUCULLO e con la capitale dell'Armenia era caduta buona
parte della Siria.
Nel corso del 70 a.C., LUCULLO prosegue e discende verso la Mesopotamia occupando Nisibi, mentre
TIGRANE e MITRIDATE cercano di ritirarsi nell'antica capitale del regno Armeno Artaxata. Lucullo entra in
contatto con i nemici nei pressi del fiume Arsaniate, ma i nemici si sganciano dalla battaglia preferendo non
ingaggiarla.
A quel punto LUCULLO si propone di continuare una guerra di conquista verso Oriente, e all'inizio dell'anno
68 a.C. il proconsole, saputo che MITRIDATE aveva raccolto in Armenia un esercito di centomila soldati, con
la stessa determinazione e coraggio dimostrato a Tigranocerta, decise di muovere contro di lui; ma i suoi
legionari, intolleranti della rigida disciplina del loro capitano, che proibiva i saccheggi e non voleva concedere
un istante di riposo alle truppe, sobillati dai democratici, i quali mal sopportavano che per tanti anni il
governo della guerra fosse tenuto da un ottimate, giunti sul fiume Arsaniate, si erano ammutinati ed avevano
costretto LUCULLO a tornare indietro. Ne aveva approfittato il nemico avanzando e battendo a Ziela il
luogotenente LUCIO VALERIO FLACCO, così Mitridate era riuscito a riconquistare il Ponto.
Questa sconfitta romana -che non era tale- aveva tuttavia provocato a Roma, la rogazione di MANILIO e il
richiamo di LUCULLO, capitano degno di migliore sorte, ma che l'infida politica, facendogli perdere il frutto
delle prime grandi vittorie e togliendogli il comando, sacrificavano alle beghe di un partito ed alla smodata
ambizione d'un uomo.
Ottenuto così POMPEO il governo della guerra mitridatica, LUCULLO fece ritorno in Italia e si ritirò nelle sue
magnifiche ville di Baja, dove trascorse la sua vita tra il fasto più grande procurandogli fama maggiore di
quella che non avevano saputo dargli le sue imprese -come abbiamo visto- gloriose.
POMPEO con un esercito di sessantamila uomini, nel corso dell'anno 66 a.C., passò in Asia e si accinse a
quell'impresa che doveva costargli poca fatica e procurargli straordinaria fama.
Ma mentre si tratteneva in Oriente, a Roma altri tentavano di strappare alla nobiltà il governo della
Repubblica, e fra tutti -come vedremo più avanti- LUCIO SERGIO CATILINA, nobile lui stesso, ma pessimo
soggetto ed aspirante alla tirannide, soprattutto allo scopo di far rifiorire le sostanze dissipate dai debiti
contratti nella sua vita dissoluta.
POMPEO giunto in Oriente, nel corso dell'anno 66 a.C., prima di muovere contro il nemico strinse alleanza
coi Parti allo scopo di divider le forze di TIGRANE e di MITRIDATE. Infatti FRAATE III, re dei Parti, invase la
piccola Armenia e, impegnando Tigrane, gli impedì di soccorrere il suocero, il quale, rimasto solo, pensò di
scendere a patti con Pompeo. Ma quando il duce romano gli fece sapere che per ottener pace avrebbe
dovuto darsi senza condizioni, decise di continuare la guerra.
La fortuna non lo aiutò: sul fiume Lico, il suo esercito, che contava una trentina di migliaia di soldati, fu
sconfitto e MITRIDATE scampò rifugiandosi nell'Armenia presso Tigrane. Ma questi non volle questa volta
concedergli asilo al suocero e gli pose anzi una taglia di cento talenti costringendolo a fuggire nella Colchide,
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poi l'anno seguente, nel regno del Bosforo Cimmerio, governato da suo figlio e che tenta di spodestarlo (vedi
più avanti).
Sbarazzatosi per il momento di Mitridate, Pompeo marciò verso l'Arasse contro Tigrane, il quale, avendo
resistito valorosamente ai Parti, aveva costretto Fraate a ritirarsi.
Lungo la via, POMPEO, ebbe la lieta sorpresa d'incontrare alcuni ambasciatori inviati da Tigrane per
chiedere la pace e questa fu concessa a condizione che il re d'Armenia pagasse seimila talenti e restituisse i
territori tolti ai Seleucidi. Avendo Tigrane accettato, Pompeo lo dichiarò alleato di Roma, indi si volse di
nuovo verso Mitridate.
Correva l'anno 65 quando Pompeo iniziò la marcia alla volta del Caucaso contro le popolazioni degli Iberi e
Albani, per rafforzare l'egemonia romana nella regione. Presso il fiume Kur fu assalito dagli Alani del re
Oroize, che sconfisse; nella Georgia, l'anno dopo -nel 64 a.C.- gli Iberi gli sbarrano il passo, ma nelle
vicinanze di Tiflis furono battuti e il loro re ARTOSE dovette dare in ostaggio i suoi figli al vincitore.
Pompeo aveva ripresa la marcia verso la Colchide quando la notizia che gli Alani avevano ripreso le armi lo
fece ritornare indietro. Sul fiume Alasan si scontrò con seimila Alani condotti da COSE, fratello di OROIZE, e
li sbaragliò, poi si diresse verso il Ponto e, penetratovi, lo ridusse in suo potere. Ponto e Bitinia POMPEO le
proclama province Romane.
Dal Ponto, Pompeo si recò nella Siria, giunge ad Antiochia e deposto il re ANTIOCO XIII, costituisce la
provincia romana di Siria.
Poi nel corso dell'anno 63 a.C. scende in Palestina, dove IRCANO ed ARISTOBULO II figli del re GIANNEO,
si contendevano il regno della Giudea. Pompeo penetrò a Gerusalemme e, deposto Aristobulo, che fece
mettere in catene, mise sul trono IRCANO non come re ma etnarca e sommo sacerdote, sotto il protettorato
di Roma, imponendogli di pagare un tributo annuo e di riconoscerne la sovranità.
Mentre Pompeo si trovava nella Palestina moriva all'età di sessantotto anni MITRIDATE. Questo tenace
nemico di Roma, battuto da Pompeo e abbandonato dal genero, era andato nel regno del Bosforo sul cui
trono era il figlio MACARE, il quale, spodestato dal padre, si era poi suicidato. Venuto a capo delle truppe,
Mitridate aveva concepito il disegno di trascinare le popolazioni barbariche del Danubio contro Roma, ma
l'altro figlio FARNACE, non rimase a guardare né a suicidarsi come il fratello, ma si proclamò re e prese in
mano l'esercito iniziò a dare la caccia al padre . Era la fine per il feroce sovrano che aveva cominciato la sua
carriera spargendo il sangue dei suoi congiunti (madre, sorelle, fratelli, mogli, cognati, amanti e messo in
prigione sei figli) ed ora toccava a lui morire dalla mano di un congiunto. All'annunzio della rivolta del figlio,
messo in trappola e perduta ogni speranza di riscossa e di salvezza, aveva bevuto un potentissimo veleno, e
poiché la morte tardava a venire, si era fatto uccidere da uno schiavo.
Con la morte di Mitridate la pace tornava nell'Asia e la repubblica usciva dalla non breve guerra accresciuta
di potenza e di territorio.
Pompeo s'affrettò a recarsi nel Ponto e poiché Farnace fece atto di sottomissione lo lasciò sul trono del
regno del Bosforo, dichiarandolo alleato di Roma. La salma di Mitridate per ordine di Pompeo fu
onorevolmente sepolta a Sinope accanto alle tombe degli antenati.
Erano trascorsi nove anni dalla morte (In Spagna) di Sertorio e Pompeo poteva vantarsi di aver portato in
questo breve periodo di tempo, le aquile romane vittoriose, dall'Atlantico all'Eufrate e dal Mar Rosso alla
Palestina, di avere debellati i pirati, di avere sottomesso a Roma potenti sovrani asiatici, di avere ridotto a
province la Bitinia con il Ponto e la Siria e di avere ingrandite le province d'Asia e di Cilicia.
In Oriente la mente di Pompeo aveva fatto questo bilancio, poi si rivolse a Roma, dove il potente duce, si
apprestava a ritornare, sicuro di esercitarvi, come un tempo Silla, il suo imperio.
Era l'anno 62 a.C., rientrerà a Roma nel 61
(di questo trionfo parleremo ancora nel prossimo e nel successivo capitolo)
Ma -come abbiamo su accennato- nuovi eventi a Roma si erano maturati durante la sua assenza, che
dovevano buttare all'aria i suoi progetti; e nuovi uomini ambiziosi come e più di lui, avrebbe ora trovato a
Roma; e questi volevano dividere il potere che POMPEO avrebbe voluto tutto per sé.
Infatti, due anni prima del suo rientro a Roma, nel 63 a.C., la Repubblica visse uno dei suoi momenti più
critici in conseguenza di una congiura che prevedeva l'assassinio dei consoli, per sovvertire l'ordine costituito
e abbattere il predominio della classe senatoria.
I tre personaggi che faranno parlare di sé per secoli e secoli sono CATILINA, CICERONE E CESARE
E prima del rientro di Pompeo, dobbiamo iniziare a parlare proprio di CESARE tornando indietro di qualche
anno cioè dalla sua nascita. E' il periodo dall'anno 63 al 62 a.C. > > >
Fonti, Bibliografia, Testi, Citazioni:
TITO LIVIO - STORIE (ab Urbe condita)
POLIBIO - STORIE
APPIANO - BELL. CIV. STORIA ROMANA
DIONE CASSIO - STORIA ROMANA
PAOLO GIUDICI - STORIA D'ITALIA
UTET - CRONOLOGIA UNIVERSALE
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I. CAZZANIGA , ST. LETT. LATINA,
+ altri, in Biblioteca dell'Autore
CICERONE - CATILINA - LA CONGIURA (ANNI 63-62 a. C.)
CAIO GIULIO CESARE - SUE IMPRESE IN ORIENTE - CESARE EDILE CURULE - JUDEX QUAESTIONIS
DE SICARIIS - LA ROGAZIONE SERVILIA AGRARIA - M. TULLIO CICERONE; SUO CONSOLATO PROCESSO DI C. RABIRIO - CESARE PONTEFICE MASSIMO - L. SERGIO CATILINA - SUA CONGIURA
- LA PRIMA CATILINARIA - CATILINA PARTE DA ROMA - ARRESTO DI CONGIURATI - PROCESSO E
CONDANNA DEI COMPAGNI DI CATILINA - FINE DEL CONSOLATO DI CICERONE - BATTAGLIA DI
PISTOIA E MORTE DI CATILINA - ACCUSE CONTRO CESARE
-------------------------------------------------------------------------------------------CAIO GIULIO CESARE
Nell'anno 61 a.C., POMPEO dopo la guerra in Asia, che aveva voluto a tutti i costi comandare, esautorando
CATULLO, si apprestava a ritornare a Roma, sicuro dopo i tanti successi, di esercitarvi, il suo imperio, come
e più di SILLA.
Ma nel corso dei suoi quattro anni con lui assente, a Roma molte cose erano cambiate; i suoi progetti -e lui
non lo sapeva ancora- non erano più validi, e nuovi uomini ambiziosi, come e più di lui, avrebbe trovato ora a
Roma; e questi volevano dividere il potere che POMPEO bramava da qualche tempo tutto per sé.
Già due anni prima del suo rientro a Roma, nel 63 a.C., la Repubblica visse uno dei suoi momenti più critici
in conseguenza di una congiura che prevedeva l'assassinio dei consoli, per sovvertire l'ordine costituito e
abbattere il predominio della classe senatoria.
Prima, durante e dopo quegli avvenimenti, a Roma erano emersi personaggi che faranno molto parlare di
sé; i principali sono tre:
Uno di questi è CAIO GIULIO CESARE. Nato a Roma il 12 luglio del 100 a.C.
Cesare discende da antica famiglia patrizia; ma non gli bastano l'antichità e nobiltà della nascita di cui
possono vantarsi molti altri in Roma; più tardi, come per convincere i suoi concittadini che lui ha diritto
all'imperio, recitando dalla tribuna del foro il panegirico di sua zia Giulia, moglie di Mario, sosterrà che la sua
stirpe è di re e di dèi.
"La materna progenie di mia zia Giulia uscì dai Re e la paterna è congiunta agli Dei immortali. Da Anco
Marcio difatti discesero i Marcii di cui la madre di lei portava il nome e da Venere i Giulii alla cui gente
appartiene la nostra famiglia".
Sua madre Aurelia era una donna di nobili sensi e di costumi severi e i più celebrati maestri sono gli
educatori della sua prima giovinezza.
A quattordici anni Cesare é innalzato alla dignità di Flamine Diale; a sedici gli muore il padre già pretore; a
diciassette, sposa CORNELIA, figlia di Cinna, e non ne conta ancora diciannove quando audacemente si
rifiuta di obbedire a Silla di ripudiare la moglie.
Silla aveva decretato che fossero (pena di morte ai trasgressori) ripudiate tutte le mogli appartenenti a
famiglie sostenitrici di Mario, e la famiglia di Cinna era stata la più partigiana di tutte. CESARE dunque
rifiutandosi, era uno dei trasgressori e fu condannato a morte; gli salvò la vita l'intercessione di una favorita
del tiranno, e Silla malvolentieri concesse la grazia, ma si narra che esclamò: "nell'uomo cui risparmio la vita,
io vedo molti Marii". E fu un buon profeta.
Scampato a stento alla collera del feroce dittatore, Cesare segue il pretore M. MINUCIO TERMO in Oriente;
è mandato in missione presso Nicomede, re di Bitinia; partecipa all'assedio di Mitilene, fornendo prove di
non comune valore.
Passato agli ordini del proconsole SERVILIO, prende parte alla guerra contro i pirati della Cilicia; appreso
nell'anno 78 a.C. che Silla era morto, ritorna a Roma perché lui sa che qui è il miglior terreno dove si
possono coltivare le ambizioni; e il 22 enne Cesare è ambizioso; desidera emulare i suoi antenati, sogna la
gloria e sa che Roma e il potere non sono una preda difficile per chi abbia ingegno ed audacia, valore e
costanza.
Giulio Cesare è fornito a dovizia di tutte queste qualità e di molte altre ancora. Di audacia e valore ha fornito
prove non dubbie al tempo delle stragi sillane e del suo soggiorno in Asia; di ingegno nelle missioni presso
Nicomede; di tenacia in tutti i momenti della sua vita.
Inoltre è vigoroso di corpo ed i suoi occhi neri e vivacissimi sono pieni di fascino e la sua parola è facile,
armoniosa, convincente; il suo vestire ricercato e la sua borsa sempre aperta. E' l'idolo delle donne e l'idolo
del popolo; e l'amore delle donne e la simpatia del popolo Cesare le metterà saggiamente a profitto per
raggiungere il potere.
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Va, dunque a Roma. Qui l'oligarchia vi esercita tuttavia la potenza restituitale da Silla, ma il malcontento
contro gli ordinamenti del defunto dittatore è diffuso e già qualcuno ha iniziato ad attaccarlo.
LEPIDO, che conosce un po' dell'animo di Cesare, lo vorrebbe con sé; ma Cesare capisce che i tempi non
sono ancora maturi per una controrivoluzione, e che Lepido non è l'uomo capace di farla; sa che prima di
tentar le vie difficili della politica è necessario acquistarsi popolarità; ed anziché favorire Lepido cerca di farsi
conoscere movendo accuse contro i personaggi tenuti in grande considerazione.
Il primo ad esser preso di mira dal giovane ventiduenne è Cn. CORNELIO DOLABELLA, che è accusato di
abusi durante il suo governo della Macedonia. Dolabella è assolto ma il nome dell'audace accusatore è sulle
bocche di tutti.
Il secondo è CAJO ANTONIO IBRIDA, che Cesare accusa di aver saccheggiato alcuni luoghi della Grecia,
comandando un corpo di cavalleria durante il ritorno di Silla dall'Asia. Anche Ibrida è assolto, ma la
popolarità del giovane, che non teme di schierarsi contro certi potenti amici di Silla, aumenta e Cesare,
scrisse Svetonio, è messo nel numero dei più grandi avvocati del tempo.
Due anni dopo, nel 76 a.C. GIULIO CESARE lascia Roma diretto a Rodi dove intende di perfezionarsi
nell'eloquenza alla scuola di Apollonio Molone. Ma, durante il tragitto, è catturato da una delle tante scorrerie
sui mari, dai pirati e rimane prigioniero trentotto giorni. Si narra che i pirati, chiesti venti talenti per il riscatto,
lui, sdegnato per l'esiguità della somma, né offrì cinquanta.
Libero, raggiunge finalmente Rodi, ma vi resta poco; suo zio, il console AURELIO COTTA, combatte in Asia,
e in Asia è spinto Cesare dall'amore per le avventure e dalla sua irrequietezza. Messo a capo di alcune
schiere, Cesare penetra nella Frigia e vi sconfigge Eumachio, luogotenente di Mitridate.
Ora inizia la carriera politico-militare di Cesare. E' eletto tribuno militare e pontefice e nel 68 a.C., fatto
questore, va col pretore ANTISTIO VETERE nella Spagna Ulteriore, dove conquista le simpatie degli Ispani
per la sua equità.
Ha appena trentadue anni. Nel pronunciare l'elogio funebre della zia
Giulia (laudano Juliae), afferma: "È nel mio sangue la veneranda maestà dei re che tanto potere hanno fra
gli uomini e la santità degli dèi da cui dipendono gli stessi re".
Visitando il celebre tempio di Cadice, al cospetto della statua di Alessandro il Macedone piange ed esclama:
"Alla mia età quest'uomo aveva conquistato il mondo ed io non sono che un semplice questore !"
Nel 67 a.C., dopo un anno di dimora in Spagna, GIULIO CESARE ritorna a Roma. La città risuona da ogni
parte, del nome di Pompeo, il guerriero idolatrato dai democratici ed accanitamente avversato dagli ottimati.
Cesare comprende che per conseguire il potere, sia necessario, in un primo tempo, schierarsi dalla parte del
più potente e, poiché il Senato si oppone con tutto le sue forze alla rogazione del tribuno GABINIO sulla
guerra dei pirati, difende strenuamente la proposta e si assicura l'amicizia e l'appoggio di Pompeo.
Ma, lontano Pompeo, gli ottimati prendono il sopravvento sui democratici rimasti senza capo.
Cesare non prende parte alle competizioni politiche, ma tiene d'occhio tutto e tutti, e intanto pensa a sé e
riesce a farsi nominare edile curule. È la carica che più d'ogni altra può conciliare il favore del popolo ed egli
accortamente n'approfitta. Il popolo vuol godere e vedere, e Cesare, come edile, abbellisce la città, fa
lastricare quel tratto della via Appia che da Roma conduce ad Albano, adorna di statue il Comizio, il Foro, il
Campidoglio e le Basiliche, fa costruire portici, offre lauti conviti al popolo, profonde nei pubblici giuochi
somme enormi e raccoglie per gli spettacoli fino a trecentoventiquattro coppie di gladiatori.
Il popolo applaude. Mai s' è visto un edile più abile, dinamico e più fastoso di Cesare, né se ne vedrà in
seguito uno più audace di lui. Fa di notte e di nascosto collocare sul colle Capitolino la statua di Mario e i
trofei riportati su Giugurta, sui Cimbri e sui Teutoni, di modo che i senatori sgomenti possono ammirare
l'effigie del loro più grande nemico sul colle sacro alla Patria; mentre il popolo gioisce contemplando la statua
del grande guerriero nato dal seno della plebe, e forse capisce chi è stato ad osare tanto, e come loro lo
capiscono anche gli avversari.
Cesare entra ora decisamente nella lotta, e non a torto LUTAZIO CATULO dà il grido d'allarme, sostenendo
che Cesare non più in segreto ma apertamente assale la repubblica.
Smessa l'edilità curule, Cesare si trova gravato da ingenti debiti e per rifarsi chiede che gli sia affidato
l'incarico di ridurre in provincia romana l'Egitto, il quale si voleva che fosse stato lasciato in eredità a Roma
da Tolomeo Alessandro I o da Tolomeo Alessandro II e che allora era in potere di Tolomeo Aulete, ma per
consiglio di Catulo il Senato respinge la domanda.
Allora Cesare si fa eleggere presidente del tribunale che giudica i malfattori. Lo scopo per il quale l'ex edile
ha voluto tale ufficio è evidente: crescere ancora in prestigio presso il popolo purgando la città dei numerosi
autori di furti ed assassini e sferrare un fierissimo colpo ai protetti di Silla e perciò degli oligarchi.
Appena. entrato nella nuova carica infatti, Cesare sferra l'offensiva contro tutti coloro che erano stati gli
esecutori feroci delle vendette del dittatore per i quali Silla aveva decretato l'impunità.
Non contento di quest'offensiva, fa proporre dal tribuno PUBLIO SERVILIO RULLO una legge che sembra
voglia esclusivamente favorire il popolo ed invece mira a restringere l'autorità dei magistrati e a conferire a
pochi uomini un immenso potere.
È la "lex Servilia agraria". Il tribuno propone che sia venduta grandissima parte dell'agro pubblico d'Italia e
delle province e sia gravata di una forte gabella la parte invenduta, che con le somme ricavate dalla vendita
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e dalla gabella si acquistino in Italia terre da distribuire in proprietà ai cittadini poveri, che per curare
l'esecuzione della legge, infine, siano eletti dieci commissari i quali durino in carica cinque anni.
Questi avranno il compito di vendere, comprare e distribuire le terre, di giudicare le vertenze sorte dalle
suddette operazioni, di fondare colonie nelle regioni d'Italia e collocare cinquemila coloni romani in
Campania, e di chieder conto ai generali delle prede e delle somme non versate all'erario. Inoltre i
commissari hanno l'"obbligo di risiedere a Roma" e non hanno "facoltà di chieder conto del bottino fatto da
Pompeo".
Quest'ultima disposizione, astutamente suggerita da Cesare, mira a non sollevare le opposizioni dei
pompeiani, ma la penultima ha lo scopo evidente di escludere Pompeo, che è assente, dalla commissione
dei decemviri.
La "legge Servilia" presenta indubbiamente dei vantaggi per lo stato e per il popolo perché si propone di
rifare il pubblico patrimonio sperperato dai sillani e d'impiegare una moltitudine di disoccupati pericolosi alla
sicurezza della repubblica; ma rappresenta un pericolo grave per la libertà repubblicana e per gli ottimati
perché tende a riunire nelle mani dei dieci uomini muniti di ampi poteri le più delicate funzioni dello stato.
Data l'insidia che la rogazione Servilia nasconde ed essendo nota l'ambizione dell'uomo che evidentemente
l'ha ispirata e strenuamente ora l'appoggia, non desta meraviglia se del disegno di legge non voglia rilevare
l'utilità un uomo, il quale, preoccupato soltanto del pericolo che essa minaccia, sorge a combattere
accanitamente la proposta del tribuno.
Quest'uomo è Marco Tullio Cicerone.
MARCO TULLIO CICERONE
CICERONE nasce il 3 gennaio 106, ad Arpino, come il grande Mario, ed è coetaneo di Pompeo Non è di
nobile, ma di agiata famiglia; ha compiuto a Roma i suoi studi e fra gli altri maestri ha avuto il famoso
giureconsulto QUINTO MUCIO SCEVOLA. Ha combattuto, durante la guerra degli Alleati, agli ordini di
Pompeo Strabone, contro i Marsi; terminata la guerra, ha ripreso i suoi studi sotto MOLONE di Rodi, FILONE
di Larissa e DIODATO, e ha fatto le sue prime esperienze nella carriera letteraria, scrivendo un poema in
onore di Mario, traducendo i "Fenomeni" di Arato, "l'Economico" di Senofonte e alcuni dialoghi di Platone e
componendo il trattato "De inventione". A 26 anni, nell'81 ha esordito nel foro, difendendo un certo PUBLIO
QUINZIO (pro Quintio) e l'anno dopo ha conquistato di colpo la notorietà, assumendo arditamente la difesa
di SESTO ROSCIO AMERINO ("pro Roscio Amerino") accusato di parricidio da Erucio e dal malvagio
Crisogono, liberto e sicario di Silla.
Recatosi poco dopo in Oriente, perfeziona i suoi studi ad Atene sotto l'accademico ANTIOCO di Ascalona, il
retore DEMETRIO SIRO e gli epicurei ZENONE e FEDRO e a Rodi alla scuola di MOLONE. Tornato in
Roma nel 77 a.C ha imparato la mimica presso il celebre attore ROSCIO ed ha preso in moglie TERENZIA;
eletto questore nel 76, si è distinto in questa carica a Lilibeo (Marsala); eletto edile nel 71 e pretore nel 67, è
salito in gran fama per le orazioni pronunciate (nel 70) contro VERRE (il disonesto governatore della Sicilia)
e in difesa di FONTEJO e di CECINA, nel 66 per aver sostenuto validamente con la sua eloquenza la legge
Manilia "de imperio Cnei Pompei"; e nel 63 è stato eletto console, riuscendo a battere L. SERGIO CATILINA.
Quest'ultimo si era presentato alle elezioni con un programma di audaci riforme, quali la cancellazione dei
debiti (lui ne aveva una montagna), la revisione dei sistemi giudiziari, una ridistribuzione della ricchezza.
Cicerone, come avvocato, è il difensore fedele dei Cavalieri al cui ceto appartiene, e come uomo politico
vagheggia la conciliazione tra il ceto senatorio e l'equestre, tra la nobiltà del sangue e… quella del denaro.
Lui è dunque avverso alla parte democratica e nella legge agraria proposta da SERVILIO RULLO non vede
una legge che tende a rialzare le sorti economiche del popolo e, insieme, dello stato, ma una manovra
politica fatta dai "populares" solo per strappare agli avversari il potere, quel potere che Cicerone vuole in
mano alla parte moderata dei nobili e dei cavalieri.
Appunto per questo che nel gennaio del 63 con tre orazioni fiere e serrate ("de lege agraria") si scaglia
contro la rogazione Servilia mostrando quale grave pericolo costituisca per la Repubblica una magistratura
straordinaria e così potente come quella proposta da Rullo, e dimostrando quanto sia dannoso all'economia
dello stato comperare nuove terre invece di distribuire l'agro pubblico già esistente.
La legge di Servilio cade, ma Cesare non si dà per vinto. Non potendo con l'astuzia carpire il potere, tenta di
screditare l'autorità del Senato, di abbatterla, adoperandosi a far condannare quei decreti eccezionali per
mezzo dei quali è solito violare le leggi per soffocare la voce della plebe.
Il tribuno T. ATIO LABIENO, prestandosi al giuoco di Cesare, accusa di "perduellione" (alto tradimento
contro lo stato) il senatore C. RABIRIO per avere questi, al tempo della sommossa di L. Appulejo Saturnino,
spinto il Senato a conferire al console poteri eccezionali contro l'agitatore plebeo.
A giudicare il senatore, il pretore urbano nomina duumviri L. GIULIO CESARE e C. GIULIO CESARE.
Rabirio è condannato alla pena capitale. L'infelice vecchio si appella al popolo e i senatori tentano ogni
mezzo per salvarlo. Vi riescono grazie all'opera del pretore QUINTO METELLO CELERE e di CICERONE.
Già le centurie che dovevano decidere erano riunite e gli animi di tutti non erano, in verità, inclini alla
clemenza, quando il vessillo che era posto sul Gianicolo improvvisamente fu rimosso. In altri tempi, con il
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togliere il vessillo dal colle si annunziava che il territorio di Roma era invaso dal nemico e si invitava il popolo
a correre in difesa della città.
Pur sapendo che nessun nemico era alle porte di Roma, i comizi in rispetto alla tradizione sono sciolti e il
processo contro Rabirio va in fumo, differito .
LABIENO chiederà più tardi che il senatore sia condannato ad una multa, ma Cicerone che lo difende con
tanta eloquenza ("pro Cajo Rabirio") fa terminare il processo con l'assoluzione di Rabirio.
Cicerone ha inflitto due successivi scacchi a Cesare, ma questi ha saputo agire così enigmaticamente che
non ne risente alcun danno. Intanto la sua popolarità aumenta di giorno in giorno e quando muore QUINTO
METELLO il Pio e resta vacante la carica di pontefice massimo, il popolo, sebbene vi aspirino il principe del
Senato, Lutazio Catulo, e P. Servilio Vezio l'Isaurico, la conferisce a Cesare.
E' l'ascesa lenta ma sicura dell'uomo che sarà domani l'arbitro dei destini della Repubblica. Forse
quest'ascesa poteva prendere un ritmo più celere se un avvenimento di capitale importanza non avesse
contribuito a mantenere la figura di Cicerone in primo piano nella vita di Roma.
E questo avvenimento è la congiura di Catilina.
LA CONGIURA DI CATILINA
LUCIO SERGIO CATILINA discendeva da un'antichissima famiglia patrizia, il cui capostipite -lui diceva- era
un compagno di Enea. Vantava tra i suoi antenati un Sergio Silo che, ferito ventisette volte nelle guerre
contro Cartagine, nonostante privo di un braccio, aveva continuato a impugnare la spada per mezzo di uno
speciale apparecchio costruito per lui apposta.
Secondo il ritratto che ne fa Sallustio, sapeva sopportare la fame, la sete, il freddo ed il sonno; era di animo
audace, scaltro, ricco di risorse, capace di simulare in ogni circostanza, bramoso dell'amore altrui e prodigo
del proprio; molto eloquente, poco giudizioso e sempre assorto in progetti irrealizzabili.
Qualcuno ha cercato di mettere in una luce migliore Catilina accusando di esagerazione gli storici antichi,
ma nessuno è riuscito a dimostrare che lui operando fosse mosso veramente da nobili sentimenti.
A Catilina certo non mancavano buone qualità, ma queste erano di gran lunga inferiori a quelle cattive. Di lui
si ricordava che era stato l'amante della figlia, che aveva assassinato il fratello, che aveva ucciso il figlio, per
riuscire ad avere una sua donna, e che era solito bere insieme con i suoi seguaci il sangue delle vittime
umane.
Forse tutto queste malignità non sono vere, ma il barbaro assassinio di Marco Graditiano è però sufficiente
per mostrarci di quale animo malvagio fosse dotato Catilina.
Al tempo delle persecuzioni sillane, parteggiando per il grande avversario di Mario, aveva -con le confischesaputo procacciarsi una vistosa fortuna, ma ben presto l'aveva dilapidata nei piaceri e nelle crapule e
assillato dai creditori si era, nel 67, fatto eleggere pretore e l'anno seguente era riuscito ad avere il governo
della provincia d'Africa a danno delle cui popolazioni si era arricchito. Ritornato in Roma nel 65, si era
presentato candidato alle elezioni consolari, ma la sua candidatura non era stata accettata.
Uomo senza scrupoli, avrebbe voluto vendicarsi sopprimendo i due consoli eletti, AURELIO COTTA e
MANLIO TORQUATO; non essendogli riuscito il colpo, aveva deciso di ripresentare la sua candidatura per
l'anno 64, ma vi era stato impedito da un processo intentatogli da Publio Claudio Pulcro per concussione; si
era poi salvato corrompendo con l'oro l'accusatore e procurandosi la difesa del console Torquato.
Né questo era stato il solo processo cui era andato incontro. Accusato dell'assassinio di GRATIDIANO da L.
Lucceio presso il tribunale presieduto da Cesare, era stato assolto.
Catilina non si era perso d'animo e nelle elezioni del 63 si era ripresentato insieme con C. ANTONIO
IBRIDA, ma il suo programma sui debiti (che abbiamo già su accennato) e sul richiamo dei proscritti sillani e
il suo stesso passato di nequizie e di violenze gli avevano fatto contrapporre dai patrizi e dai cavalieri
CICERONE, (appoggiato dall'"uomo nuovo" di Arpino), il quale, eletto console con lo stesso ANTONIO
IBRIDA, si era abilmente assicurata la fedeltà del collega promettendogli il governo della Macedonia.
Ogni altro uomo, dopo tanti insuccessi, non avrebbe più tentato di ottenere il consolato; CATILINA invece
volle insistere e per riuscirvi cominciò un abile ed assiduo lavorio di trame con il quale sperava di formarsi un
fortissimo partito.
Roma, l'Italia e le province erano piene di malcontenti. Vi erano i proscritti sillani che bramavano di ritornar
dall'esilio e riavere i propri beni, vi erano coloro che, arricchitisi sotto Silla, avevano -come lui- sciupato poi
nelle crapule la loro fortuna; vi erano patrizi e cavalieri, uomini dissoluti, spiantati, ambiziosi, carichi di debiti,
condannati per delitti infamanti.
Catilina seppe con astute promesse attrarli tutti a sé, servendosi per i suoi scopi di alcune donne, specie di
quelle che, come Sempronia, erano di animo perverso e di costumi depravati.
Avvicinandosi le elezioni per l'anno successivo (il 62 a.C.), una moltitudine di elettori di Catilina era
convenuta a Roma specialmente dall'Apulia, dall'Etruria e dal Piceno.
Il tristo patrizio -dopo la sconfitta- era questa volta sicuro di riuscire. Ma ad attraversargli la via ci fu ancora
Cicerone. Il console fece approvare una sua proposta di legge (lex Tullia de ambitra) con la quale si
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inasprivano le pene stabilite contro i brogli elettorali, poi fece differire i comizi consolari all'ottobre sempre del
63.
A prender questo provvedimento l'avevano indotto non solo la presenza a Roma della turba favorevole a
Catilina, ma anche le confidenze di una donna di nome Fulvia.
FULVIA era amica di Cicerone ed amante di un certo Curio, intimo di Catilina. Da Curio Fulvia aveva
appreso che Catilina, risoluto a raggiungere i suoi scopi, tramava una congiura, il cui centro d'azione era a
Fiesole. Il fine che la congiura si proponeva, era, di sopprimere Cicerone, assassinare buona parte degli
oligarghi e impadronirsi a viva forza del potere. Alle confidenze di Fulvia si erano aggiunte le lettere di M.
MARCELLO e di METELLO SCIPIONE che avvertivano della congiura Cicerone.
Questi provvide alla sua sicurezza personale uscendo da casa armato di corazza e scortato da numerosi
amici; a quella della repubblica cercò di provvedere radunando il Senato e proponendo che fossero prese
misure speciali; ma il Senato, sebbene fosse convinto della trama ordita da Catilina dal contegno minaccioso
di costui e dalle stringenti argomentazioni del console, non volle ricorrere ai provvedimenti straordinari.
Le elezioni avvennero di lì a poco e furono eletti consoli per l'anno 62 due nemici di Catilina: L. LICINIO
MURENA e DECIO GIUNIO SILANO. Le elezioni veramente non furono fatte con tutta legalità e pare che
Murena commettesse dei brogli per riuscire eletto. Contro di lui e contro le elezioni insorsero SERVIO
SULPICIO e CATONE il giovane, riproponendo i comizi; ma le loro proteste e le loro accuse furono vane e
MURENA, difeso da Cicerone ("pro Murena"), fu assolto dalle accuse.
Inasprito dall'ultimo scacco elettorale, LUCIO SERGIO CATILINA decise di ricorrere alla violenza armata;
mandò CAJO GIULIO in Apulia a prepararvi la rivolta, SETTIMIO nel Piceno, e commise a CAJO MANLIO,
uomo molto ricco e centurione di Silla, di reclutare armati nell'Etruria e di capeggiare lui gl'insorti.
Tutti questi maneggi non rimasero segreti: Fulvia informò Cicerone che la rivolta doveva scoppiare il 27
ottobre, giorno in cui si celebravano i ludi in commemorazione della vittoria di Silla su Mitridate.
Di fronte all'imminenza del pericolo, il 21 di quello stesso mese, MARCO TULLIO CICERONE convocò
d'urgenza il Senato. Le prove dei tristi disegni di Catilina mancavano, e anche questa volta il Senato diede
ampi poteri ai consoli affinché provvedessero alla sicurezza della Repubblica.
Furono mandati Q. MARCIO REGE e Q. METELLO CRETICO in Etruria con un buon contingente di truppe;
nel Piceno fu inviato il pretore Q. METELLO CELERE; nella Campania il pretore Q. POMPEO RUFO; alle
porte e sulle mura di Roma furono dislocate numerose guardie, altri soldati posti attorno alla Curia e nei
punti strategici della città e fu pubblicato un bando con il quale si promettevano premi vistosi a quei cittadini
che denunziavano i cospiratori, oltre ad assicurare l'impunità ai congiurati che rivelavano i loro complici.
Roma fu angosciata all'annunzio della misteriosa congiura: i templi si gremirono di donne imploranti l'aiuto
dei Numi, i timorosi di sventure fuggirono o si nascosero, i ricchi misero al sicuro i loro tesori.
Giunse il fatidico 27 ottobre, ma non scoppiò nessuna rivolta, grazie alle energiche misure preventivamente
adottate da Cicerone.
Catilina però non aveva abbandonato l'idea della sommossa, l'aveva semplicemente differita, dinanzi ai
provvedimenti del Senato.
Il 5 novembre di quello stesso anno, convocò nella casa di MARCO PORCIO LECA i capi della congiura,
espose loro il piano d'azione ed affidò a ciascuno la parte che doveva sostenere. Ai due congiurati, C.
CORNELIO e L. VARGUNTEIO, fu affidato l'incarico di uccidere Cicerone.
Ma anche di questa riunione segreta, Cicerone ebbe notizia dall'amica Fulvia. Occorreva uscire
sollecitamente da una situazione che poteva cagionare la rovina dello stato; era necessario non più che si
vigilasse e si prendessero altre misure di sicurezza, ma che si troncassero le radici della congiura arrestando
e processando i colpevoli prima del misfatto..
Cicerone non indugiò molto, agì subito. Fra i tanti lui solo si rendeva esattamente conto della gravità della
situazione e lui solo era deciso ad agire con suprema energia.
Convocò pertanto nel tempio di Giove Statore il Senato il 7 novembre. Il tempio era gremito di senatori
nell'attesa che il console rivelasse quello che aveva annunciato, i "gravi fatti", quando Catilina comparve
nell'assemblea.
S'ignorano i motivi che spinsero Catilina a presentarsi nell'adunanza senatoria. Vogliono alcuni, che agì così
per allontanare i sospetti fingendo sicurezza; vogliono altri che Catilina mirava con la sua presenza a
disarmare l'ostilità dei senatori nemici e a convincere della sua innocenza i dubbiosi; altri ancora hanno
voluto vedere nella comparsa del capo della congiura un gesto di spavalderia e di provocazione. E forse
tutte queste cose insieme spinsero Catilina a presenziare alla famosa seduta.
Il modo con cui fu accolto gli fece capire subito di quale considerazione godeva presso i suoi colleghi. Difatti,
appena entrò nel tempio un mormorio d'indignazione si levò e tutti si scostarono da lui come se temessero di
essere contagiati da un appestato.
CATILINA non si sgomentò a quell'accoglienza e a testa alta sostenne audacemente lo sguardo sdegnoso
che i senatori gli rivolgevano.
Cicerone, incoraggiato dal contegno della Curia e sdegnato pure lui dall'arrivo dell'impudente patrizio, si
scagliò contro di lui con le roventi parole di quell'aspro ammonimento che con il nome di "prima catilinaria"
costituisce l'atto d'accusa del celebre oratore e fiero patriota a carico del sanguinario e malvagio agitatore.
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"E fino a quando abuserai, o Catilina, della nostra pazienza? Come! Non le guardie che vigilano intorno alla
Curia, non la milizia della città, non il timore del popolo né il concorso dei cittadini probi né l'indignazione
degli sguardi t'impressionano? Non comprendi che tutti i tuoi disegni sono noti? Il Senato sa ogni cosa; ogni
cosa ho io scoperto, ogni tua mossa io conosco. Ho saputo e denunziato l'insurrezione di Manlio in Etruria;
ed ho avvertito che tu avevi deciso di assassinare i principali ottimati.
Tu volevi sorprendere Preneste, ma sei stato prevenuto da me perché ad ogni passo ti segue la mia
vigilanza. Due notti or sono, nell'adunanza in casa di Leca, dividesti fra i tuoi soci l'Italia, assegnasti a
ciascuno la sua parte nell'incendio di Roma, annunciasti che era giunto per te il tempo di partire per il campo
di Manlio, annunciasti che avevi tardato perché io ero ancora vivo e mandasti due cavalieri perché mi
trucidassero. Io tutto ho saputo e mi sono circondato di più vigili custodi. Rinunzia, Catilina, ai tuoi disegni di
rovina e d'incendio e parti, allontanati dalla città che gli dèi invece proteggono dalle tue insidie. Parti ! La
patria che tu hai contaminato di tanti delitti te lo comanda !".
Catilina partì protestando la sua innocenza e scagliando oscure minacce contro il suo accusatore; lasciò
Roma dove gli era ormai impossibile rimanere e si diresse alla volta dell'Etruria, verso il campo di Manlio,
rivestito delle insegne consolari.
Il giorno dopo Cicerone con la "seconda catilinaria" informava il popolo della congiura, minacciava i soci di
Catilina rimasti in città e tranquillizzava la cittadinanza assicurandola che il governo avrebbe tutelato la
repubblica e fatte rispettare le leggi.
Ma Cicerone non sapeva in verità come comportarsi. Da buon avvocato capiva che per mettere sotto
processo i congiurati occorrevano delle prove inconfutabili; e le prove mancavano.
Si narra che il caso l'aiutò. CATILINA, partendo aveva lasciato in città per sorvegliare le mosse dei consoli e
del Senato e per capeggiare la rivolta, il pretore P. LENTULO SURA, CETEGO e ANTONIO. Vi erano a quel
tempo a Roma alcuni ambasciatori degli Allobrogi, giunti per protestare sul malgoverno del loro paese,
assistiti da Q. FABIO SANGA.
LENTULO imprudentemente tentò di fare entrare nella congiura i legati stranieri, i quali prima accettarono,
poi, impauriti o pentiti, si rivolsero per consiglio a Sanga, che subito fece avvertire del fatto Cicerone. Questi
ordinò ai legati di fingere di volere accettare le indicazioni dei congiurati e di farsele dare solo con precise
indicazioni scritte. Lentulo cadde nel tranello e diede agli Allobrogi uno scritto firmato da lui e dagli altri capi e
una lettera per Catilina.
Avuti questi preziosi documenti i legati finsero di partire, ma, giunti al ponte Milvo, furono fermati, perquisiti e
arrestati. Durante la notte, Cicerone mandò a chiamare i congiurati e quando essi furono in sua presenza li
dichiarò in arresto, poi sguinzagliò guardie nelle case dei cospiratori, dove fu rinvenuta una considerevole
quantità d'armi.
Avute le prove della congiura, il giorno dopo (3 dicembre) Cicerone convocò il Senato nel tempio della
Concordia, custodito da buon numero di milizie, espose i fatti di cui era venuto a conoscenza, riferì la
deposizione dei legati, mostrò gli scritti e interrogò ad uno ad uno, alla presenza dei senatori, i congiurati, i
quali prima negarono, poi finirono con il confessare ogni cosa dichiarandosi autori degli scritti.
Il senatore L. AURELIO COTTA propose che il console fosse pubblicamente ringraziato per aver salvato la
patria e che s'iniziassero con grande solennità le supplicazioni agli dei. La proposta fu accettata
unanimemente e Q. LUTAZIO CATULO, principe del Senato, nominò CICERONE "padre della patria", e
SCRIBONIO CURIONE chiamò apoteosi quel suo consolato.
P. LENTULO SURA fu privato della pretura e insieme con gli altri congiurati fu tenuto in prigione nell'attesa
del processo.
In un'arringa ("terza catilinaria") al popolo, Cicerone informò la cittadinanza degli avvenimenti, annunziando
anche di avere accertata la piena responsabilità dei congiurati.
Il 5 dicembre avvenne nello stesso tempio della Concordia una memorabile adunanza per decidere la sorte
degli arrestati che erano cinque: LEUTULO, CETEGO, GABINIO, STATILIO e CEPARIO.
Cicerone, temendo dei disordini, aveva preso le misure necessarie, messo forti guardie alle porte e sulle
mura della città, fatto circondare il tempio da una forte schiera di cavalieri e il Campidoglio dalle milizie,
inoltre aveva messo intorno al foro numerosi soldati.
La seduta fu tempestosa nonostante lo scarso numero dei senatori intervenuti.
Il primo a dare il voto fu il console designato DECIO GIUNIO SILANO, il quale propose per gli accusati la
pena capitale, imitato da tutti i consolari presenti.
Invece CAIO GIULIO CESARE, che era pretore designato, pronunciò una vibrante orazione, in cui
protestando contro il Senato che si arrogava quel diritto che invece spettava al popolo, di condannare a
morte dei cittadini romani; proponeva che i colpevoli fossero puniti con la prigionia e con la confisca dei beni;
che la loro riabilitazione non potesse esser proposta né al Senato né al popolo e infine di dichiarare
dichiarato nemico dello stato chi ardiva contravvenire a questa condanna.
L'orazione di Cesare ebbe l'approvazione di molti; QUINTO, fratello di Cicerone, si dichiarò favorevole alla
proposta di Cesare e lo stesso SILANO precisò che nella sua dichiarazione di voto con l'espressione da lui
usata di "extremo supplicio" intendeva parlare di "esilio".
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Quel giorno e a quel punto, i cinque congiurati avrebbero avuto certamente salva la vita se non si levavano a
parlare CICERONE e CATONE il giovane, chiedendo per gli accusati la pena di morte. Quest'ultimo anzi
propose che alla pena capitale fosse aggiunta la confisca dei beni.
Allora GIULIO CESARE scattò in piedi e si scagliò contro i due oppositori, accusandoli di ferocia, e invitò i
tribuni affinché mettessero il veto e si appellassero al giudizio del popolo.
Alle fiere parole di Cesare nacque un pandemonio; i tribuni non osarono protestare, i senatori cominciarono
a vociferare; pesanti ingiurie furono scagliate e i cavalieri che erano a guardia penetrarono nel tempio con le
spade sguainate ed avrebbero ucciso Cesare se alcuni senatori non avessero impedito che la violenza
degenerasse in atti criminali.
Tornata la calma, l'aggiunta di Catone non fu accettata, e comminata la pena capitale per gli accusati.
La difesa dei congiurati fatta quel giorno fece sospettare che GIULIO CESARE fosse partecipe della
congiura, né i sospetti erano senza fondamento. Non aveva Cesare assolto Catilina dall'accusa d'assassinio
di M. Gratidiano? Ma le prove della sua complicità mancavano e lo stesso Cicerone, che, più tardi, doveva
condividere i sospetti, non volle ascoltare Q. CATULO e C. PISONE che lo consigliavano di coinvolgere pure
Cesare nel processo.
La sentenza di morte ebbe immediata esecuzione. Il giorno stesso della condanna i cinque congiurati furono
tradotti nel carcere Tulliano, presente Cicerone.
Questi, uscito nel foro dopo l'esecuzione, annunziò al popolo la morte dei condannati con le rituali parole:
"Vissero !".
Propagatasi la notizia, la gente si accalcò intorno al console e gli fece una calorosa dimostrazione
salutandolo salvatore della patria.
CICERONE trionfava; ma il suo trionfo fu amareggiato dai rimproveri che non pochi gli rivolsero per la
condotta tenuta nel reprimere la congiura. Fra gli altri il tribuno METELLO NEPOTE, quando Cicerone,
terminato l'anno del suo consolato, si apprestava a rivolgere al popolo un'arringa con il proposito, certo, di
enumerare i suoi meriti, gli vietò di dire altre parole oltre quelle d'uso che pronunziavano i consoli uscenti, il
giuramento cioè di nulla aver fatto contro le leggi dello stato.
Cicerone si limitò al giuramento, ma seppe fare l'apoteosi del suo consolato giurando di aver salvato la
Repubblica.
Con la punizione di Lentulo e dei suoi compagni la congiura aveva inferto un durissimo colpo all'opposizione,
ma il pericolo non era del tutto cessato.
LA BATTAGLIA DI PISTOIA
Restava CATILINA con un esercito di ventimila uomini non abituati però alla guerra e anche male armati;
aveva il suo quartiere generale nell'Etruria; di là tentò di passare nella Gallia Cisalpina. Ma i valichi
dell'Appennino erano controllati dal pretore METELLO CELERE accorso con molte truppe dal Piceno,
mentre la via di Roma era sbarrata dall'esercito del proconsole ANTONIO IBRIDA.
Catilina, non si sa perché, preferì affrontare quest'ultimo e, sceso nelle campagne di Pistoia, il 5 gennaio del
62 a.C., ingaggiò un'impari battaglia con le truppe di M. PETREIO, luogotenente del proconsole ANTONIO.
La battaglia si svolse a Campotizzoro e durò più del previsto; le forze governative dovettero ricorrere
all'impiego straordinario dei pretoriani che, infastiditi da un coinvolgimento che non avevano messo in conto,
si gettarono nella mischia con inaudita ferocia. All'esercito dei congiurati, ben presto fu preclusa ogni via di
salvezza; si batté con il coraggio della disperazione difendendo a palmo a palmo il campo di battaglia, ma la
sorte era già segnata, non vi era più nessuna via di scampo e alla fine le truppe della Repubblica li
annientarono e uccisero lo stesso CATILINA.
Catilina fu trovato in mezzo ad un mucchio di cadaveri, che ancora respirava, accanto all'aquila d'argento
che aveva avuto come insegna nella guerra contro i Cimbri. Il generale Antonio, che comandava le
operazioni, non ebbe il fegato di farlo curare per portarlo di fronte a un tribunale, e ordinò che venisse
decapitato, ancora cosciente. Poi il lugubre trofeo fu inviato a Roma.
"Dopo la battaglia - scrive Sallustio - si poté constatare quanta audacia e quanta energia regnassero fra i
soldati di Catilina: ognuno di essi copriva dopo morto, con il proprio corpo, il posto che, vivo, aveva tenuto in
battaglia".
(*) (Campotizzoro è una località che si trova nell'attuale SS che porta alla zona sciistica dell'Abetone. Ma
sembra che Catilina non fu ucciso li, ma molto piu' a nord , e piu' precisamente in localita' Cutigliano , a
pochissimi chilometri dalla località sciistica suddetta. Nel centro di Pistoia, tuttavia, esiste tutt'oggi una via
che porta ancora il suo nome: <via tomba di Catilina>, e si trova vicino all'ospedale del Ceppo, e porta nella
stupenda piazza Duomo. Tuttavia, -se ricordo bene, perchè sono anni che non ci passo-, a Cutigliano, c'è un
antico cippo che ricorda dove fu ucciso Catilina.) (Ndr.)
La congiura di Catilina ebbe poi uno strascico quando nei processi che furono celebrati l'anno dopo, furono
sottoposti a giudizio alcuni suoi seguaci: L. VARGUNTEJO, C. CORNELIO, M. PORCIO LECA, SERVIO e
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PUBLIO CORNELIO SILLA. Quest'ultimo ottenne la difesa di Cicerone consacrata nell'orazione "pro P.
Sulla".
Tutti questi erano stati accusati da L. VEZZIO di violenza contro la Repubblica. Vezzio - e Cicerone si era
servito di lui come spia, accusò anche GIULIO CESARE davanti al questore NOVIO NEGRO mentre Q.
CURIO lo accusava al Senato.
Si tentava con queste accuse, già suscitate da CATULO e da PISONE, di abbattere la potenza di Cesare
che cominciava già a preoccupare molti; ma non ottennero i risultati che i promotori si ripromettevano, anzi
su Vezzio e su Novio cadde la punizione: il primo per calunnia fu messo in prigione e la stessa sorte subì il
secondo per alcuni intrallazzi.
Quando l'anno 61 terminava, con il trionfo del "salvatore della patria", a Roma la situazione non era per nulla
tranquilla. Perché tutti i fatti che abbiamo sopra narrati, avvenivano durante l'assenza dell'ambizioso uomo
che si trovava da circa quattro anni impegnato nella guerra in Oriente.
Terminata questa con una pace, con la creazione di nuove province, e un riassetto dell'intero territorio
romano in Oriente, POMPEO, proprio alla fine del 61 si apprestava a fare ritorno a Roma. Otterrà subito i
desiderati Fasti trionfali (parleremo di questo e d'altro nel prossimo capitolo) ma subito dopo, è sdegnato per
l'ingratitudine riservatagli per aver lui -questa l'accusa- fatto e disfatto in Oriente, regni, province, territori,
distribuito terre ai suoi veterani del suo "fedelissimo esercito"; profondamente amareggiato, entra in forte
contrasto con l'oligarchia senatoria che non ratifica i suoi provvedimenti, e si avvicina ad un altro uomo
sdegnato della vita politica romana, e che proprio per questo si è fatto molti nemici, e che fino ad ora ha
controllato la sua insofferenza: è GIULIO CESARE, che da qualche tempo, per agire, cercava un appoggio;
e quello di POMPEO non è solo un sostegno morale, ma e un appoggio militare, lui ha, infatti, un potente
esercito!
Dunque CESARE è pronto a trarre profitto dalle circostanze.
Sfruttare abilmente le ambizioni di Crasso, il nobile che aveva sconfitto Spartaco, e il malcontento di
Pompeo.
I successivi fatti del dopo 61, sono nel prossimo capitolo……il periodo dall'anno 61 al 57 a.C. > > >
Fonti, Bibliografia, Testi, Citazioni:
TITO LIVIO - STORIE (ab Urbe condita)
POLIBIO - STORIE
APPIANO - BELL. CIV. STORIA ROMANA
DIONE CASSIO - STORIA ROMANA
PAOLO GIUDICI - STORIA D'ITALIA
UTET - CRONOLOGIA UNIVERSALE
I. CAZZANIGA , ST. LETT. LATINA,
+ altri, in Biblioteca dell'Autore
RIASSUNTO ANNO 63 a.C.
L'enigmatico personaggio dell'antica Roma che contese duramente il potere al conservatore Cicerone.
Aristocratico, secondo certi storici, Catilina si battè per la plebe.
CATILINA FECE QUALCOSA DI SINISTRA?
di FERRUCCIO GATTUSO
Catilina, cronaca o storia? "Vae victis". Guai ai vinti. Non c'è dubbio che l'ineluttabile regola che la Storia fa
calare sul capo dei vinti, trovi eccellente conferma nei confronti di Lucio Sergio Catilina.
I punti di vista su questo affascinante personaggio - nitido nella nostra memoria per ciò che ha
rappresentato, ma assolutamente sfocato come uomo reale, vissuto nella Roma del tempo - sono comunque
variegati, segno che la figura di Catilina merita comunque un approccio di rispetto.
Sì, perché una delle tante questioni che riguardano il personaggio solleva proprio il dubbio se esso
appartenga alla cronaca o alla storia di Roma. Se, in definitiva, la sua impresa abbia costituito una reale e
letale minaccia per l'ordine costituito della Repubblica romana (come sembrano sostenere le immortali
pagine di Cicerone, Sallustio, Plutarco) o se, al contrario, la congiura di Catilina sia un marginale episodio riconducibile entro i confini di ininfluenti ribellioni, come quella del gladiatore Spartaco - la cui
sovraesposizione trae origine proprio dalle strumentali esagerazioni dei grandi scrittori classici. Questa, ad
esempio, è la tesi di un illustre storico come Jerome Carcopino, che afferma: "Assegnare alla congiura di
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Catilina un posto nella storia romana equivalente a quello che giustamente occupano nella letteratura i
capolavori di Sallustio e le Catilinarie, sarebbe veramente farle troppo onore".
Non la pensano così altri osservatori storici che vi hanno visto - a seconda del lato dal quale si vogliano
vedere le sue azioni - rispettivamente l'inventore del colpo di stato, un romantico idealista rivoluzionario, un
altrettanto romantico idealista reazionario, o, più probabilmente, un prevedibile (per quel tempo)
personaggio, sicuramente carismatico, il cui unico scopo era raggiungere la fetta di potere che gli spettava,
che pretendeva come appartenente ad una delle più prestigiose famiglie di Roma, e che gli veniva
ripetutamente negata da un'oligarchia timorosa dei suoi slanci e del suo ascendente sulla plebe.
QUANTO E' ATTUALE CATILINA?
Nella valutazione del personaggio, Catilina non ha avuto un ruolo secondario, in questo secolo, l'approccio
ideologico. Sinistra e destra si sono infatti divise (anche tra le proprie file) nello stigmatizzare e nel rivalutare
questo affascinante patrizio romano. Se opinion leader come Gramsci (nei Quaderni del carcere, ndr)
sembrano averne preso parzialmente le difese, un'altra sinistra, per paradosso gramscianamente "egemone"
- condizionandone, la percezione scolastica che oggi si ha del personaggio - lo ha sempre dipinto con colori
oscuri, sicuramente in modo meno favorevole rispetto alla coppia "rivoluzionaria" dei fratelli Gracchi.
Allo stesso modo la destra vi ha visto un pericoloso sovvertitore dell'ordine o un sognatore tradizionalista,
una sorta di superuomo nietzschiano votato alla riconquista di un mondo perduto.
Sempre coscienti di ricorrere ad una semplificazione "novecentesca", a noi sembra di vedere in Lucio Sergio
Catilina un "rivoluzionario di destra": una complessa figura, cioè, animata egualmente da bassi istinti (sete di
potere) e alti propositi (idealistica sete di cambiamento), il cui materiale desiderio di rivincita nei confronti
dell'oligarchia a un certo punto della congiura si è completato con un genuino slancio romantico che - da
patrizio illuminato quale era - cercava di combinare riforme sociali ed economiche "progressiste" a progetti
nostalgici "conservatori" (nel senso anglosassone del termine, quindi piuttosto tradizionalisti, tesi ad un
recupero dei valori di un'austerità delle origini).
Quel che è certo - e che uno scrittore come Pietro Zullino mette chiaramente in evidenza - è il fatto che,
oggi, dire Catilina significa dire disordine, trame oscure, mentre dire Cesare significa dire "cesarismo", cioè
un regime saldamente ancorato alla figura di un uomo solo, carismatico e potente, "il cesarismo di
Napoleone, di Stalin, di Mussolini". Eppure, riprendendo sempre le parole di Zullino, "fra i due termini in
apparenza così distanti, c'è un collegamento sottile: è difficile diventare Cesare, se prima non si è stati
Catilina; ma chi resta Catilina e non va oltre, quasi sempre è un Cesare mancato.
Il nostro uomo guidò un'insurrezione socialista contro lo Stato romano e fu sconfitto. Pochi anni più tardi al
governo andò Cesare, un altro esponente della sinistra d'allora [i populares, ndr], il cui genio politico doveva
trasformare però la repubblica nella più celebre monarchia imperiale di tutti i tempi. Fra i due, Cesare è il
vincitore, e Catilina il perdente. […] Anche Catilina, se avesse vinto, sarebbe stato costretto dalle circostanze
a trasformarsi in un tiranno; se non l'avesse fatto, non sarebbe durato. Ma la storia è una grande
semplificatrice; fa perdere i Catilina, e fa vincere direttamente i Cesari". Sempre proseguendo su questo
territorio Zullino ci porta al paragone con il rapporto tra Trockij e Stalin, indubbiamente suggestivo, ma
decisamente personale.
In conclusione, ci sentiamo di poter dire che Catilina non fu sicuramente un personaggio minore, ma la sua
impresa venne vista, dal potere costituito, come una minaccia mortale. Certo Marco Tullio Cicerone, il
grande nemico di Catilina - per svariati motivi che illustreremo - visse la vicenda, e il rapporto con Catilina, in
modo assoluto sin dai primi vagiti rivoluzionari del personaggio, ma la dimostrazione che la congiura di
Catilina avesse raggiunto livelli di pericolosità indubbi è l'onorificenza che il Senato romano avrebbe
concesso a Cicerone, e cioè il titolo di "Padre della Patria". Grande onore per aver sventato un grande
pericolo.
Guai ai vinti, quindi. Ma risparmiando a Catilina l'oltraggio della mediocrità.
Catilina, il patrizio Lucio Sergio Catilina nasce a Roma nell'anno 645 dalla fondazione dell'Urbe, per noi il
108 a.C. dal senatore Lucio Sergio Silo e da Belliena. Il padre, deponendolo sulla terra di casa e recitando la
formula di riconoscimento di paternità, lo accettava come figlio e lo deputava al riscatto del perduto prestigio
del casato. La gens Sergia era infatti una delle cento famiglie che, a quanto sosteneva la leggenda, aveva
contribuito alla fondazione di Roma. Un'altra leggenda, ancor più "impegnativa", ricordava ai romani che i
Sergi discendessero dal mitico Sergesto, compagno di Enea.
Da tempo, almeno un secolo, i Sergi vivevano ai margini della Roma che conta. L'ultimo esponente della
famiglia ad ottenere un ruolo influente era stato il pretore Marco Sergio, distintosi nella seconda guerra
punica, per due volte prigioniero di Annibale, e per altrettante volte sfuggitogli, incrollabile guerriero che
collezionò sul proprio corpo - assicurano le cronache del tempo - ventitré ferite in battaglia, e che continuò a
combattere anche privo della mano destra, ricorrendo ad una protesi di ferro che usava come insegna per
guidare i suoi uomini all'attacco.
Un altro Marco Sergio - trecentocinquanta anni prima era stato tra i realizzatori delle Dodici Tavole, leggi
arcaiche che fungevano da carta costituzionale della Repubblica. Con queste premesse, la sete di rivincita
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dei Sergi appare una conseguenza inevitabile, tenuto conto soprattutto dell'importanza che l'onore (etico e
guerresco) e l'influenza politica rivestivano nell'antica Roma.
Il culto della memoria e dei simboli nella casa Sergia furono senza dubbio alla base della formazione del
giovane Catilina: nella propria abitazione Lucio Sergio tributava onori all'insegna militare di una delle legioni
di Mario, impiegata nella guerra contro i Cimbri e i Teutoni, e quando marcerà con il suo improvvisato
esercito nel Fiesolano, prima della battaglia cruciale, si farà precedere da questa e da altre insegne, nella
guisa dei consoli in carica, a simboleggiare ciò che gli sarebbe spettato di diritto, ma che gli era stato negato.
Risulta evidente, quindi, che sin da giovane il nobile romano avrebbe cercato di partecipare alla vita politica
e militare dell'Urbe.
Come già detto, del ritratto dell'uomo Catilina si sa ben poco. Di lui si conserva, più che un immagine,
un'icona e cioè la rappresentazione nell'affresco di Cesare Maccari nella Sala del Senato a Palazzo
Madama. Splendidamente fiero, corrucciato, terrificante e nobile al centro dell'assemblea, (vedi immagine
inizio pagine) tenuto a distanza dagli altri senatori. Indubbiamente, un (forse involontario) riconoscimento alla
grandezza romantica e disperata del personaggio.
Quel poco che si sa di lui lo si ricava dagli scritti di Cicerone e Sallustio: sguardo truce, penetrante, corpo
aitante (Catilina è infatti un soprannome che alludeva alla sua resistenza fisica, ndr) e alto, magrissimo, viso
scarno fino all'eccesso, capelli scuri. Insomma, quello che il pubblico femminile di oggi chiamerebbe un "bel
tenebroso", e che anche allora - stando al successo che il suo movimento politico riscosse nelle file delle
donne - non doveva proprio risultare sgradito alle signore.
"Giovanissimo - scrive Massimo Fini - aveva sedotto più di una nobile vergine sfidando le ire delle loro
potenti familiae e la morale della buona società romana. La sua fama di tombeur de femmes era tale che nel
73 fu accusato da Publio Clodio di aver violato una vestale, sacrilegio e reato gravissimi per i quali la donna
veniva sepolta viva e il seduttore ucciso a nerbate. […] Processato, fu assolto […] In realtà Catilina dopo le
seconde nozze con la bellissima, ricca ed appassionata Aurelia Orestilla […] aveva messo la testa a posto
[…]". Ovviamente ci sono motivi più consistenti per i quali il progetto riformatore di Catilina poteva incontrare
i favori, oltre che della plebe, anche delle donne.
Dell'infanzia di Catilina e della sua formazione intellettuale si sa pochissimo, ma quel che si può supporre è
che Lucio Sergio visse sempre un difficile rapporto con i propri simili, prediligendo la solitudine, sebbene in
famiglia potesse godere di un'esistenza prodiga di affetto. La prima apparizione nelle fonti antiche di Catilina
risale all'anno 89, ai tempi della guerra marsica o sociale, di quel conflitto cioè che opponeva Roma alle
popolazioni italiche, decise a chiedere più diritti e, soprattutto, l'agognata cittadinanza romana.
Il ventenne Catilina è alloggiato nella tenda pretoria del generale Strabone, ed è vicino di branda di due
altrettanto giovani commilitoni, diciottenni, destinati a fulgidi destini: Cicerone e Pompeo. Durante questa
esperienza bellica, Catilina ha modo di formarsi come soldato (efficiente e crudele) all'eccellente scuola di
Strabone, più abile ma meno fortunato di condottieri come Mario e Silla, e di confrontare la propria
personalità con quella, radicalmente opposta, di Cicerone. Non solo i caratteri, ma anche l'estrazione
sociale, divergevano: istintivo, coraggioso, scontroso e di sangue nobile Catilina; intelligente e riflessivo,
pavido, abile nel procacciarsi i favori dei potenti, e di estrazione borghese Cicerone. Due uomini nati per non
comprendersi.
Nell'88, Catilina passa agli ordini di Silla - in quell'anno console - e segue il suo generale in Asia, nella guerra
contro Mitridate, re del Ponto. Ai suoi ordini, senza dubbio, il giovane Lucio Sergio potrà affinare la sua già
naturale dote di soldato e sicario. Mentre Silla è lontano da Roma, però, il tribuno della plebe Sulpicio Rufo
riesce a far approvare una legge che priva Silla del comando e lo affida a Mario, in quel momento a riposo
come privato cittadino. È la guerra civile - tra optimates e populares - che vedrà Catilina fedele esecutore di
omicidi e repressioni nelle file sillane. Silla, sostenuto anche da Pompeo Rufo, tornò improvvisamente a
Roma, la conquistò e diede inizio - per la prima volta nella storia - alle prescrizioni. Imposto al Senato il
Senatus consultum ultimum, provvedimento d'emergenza che dichiarava i suoi nemici hostes, cioè Nemici
della Patria, il dittatore si scatenò contro gli avversari: Mario fuggì da Roma, molti dei suoi sostenitori
vennero eliminati.
L'operazione "di pulizia" non era riuscita, però, se dopo cinque anni di guerra mitridatica Silla dovette tornare
a Roma, dove nel frattempo il redivivo Mario e i suoi uomini avevano preparato per i sillani in città la stessa
poco filantropica sorte subita anni prima. Mario muore nell'86, resta console Cornelio Cinna, che cerca di
scatenare i suoi generali contro il ritorno a Roma di Silla. Nella decisiva battaglia a Porta Collina, nell'82,
Catilina si segnala con Crasso come eccellente comandante, rivelandosi determinante per la vittoria.
La Lex Valeria, promulgata da un Senato ormai prostrato al Silla, nomina il generale dittatore a tempo
indeterminato, violando apertamente la costituzione repubblicana, che prevedeva un anno per il consolato e
soli sei mesi per la dittatura d'emergenza. In questa Roma assoggettata, Catilina - zelante nelle persecuzioni
che avevano causato la morte di 90 senatori, 15 consolari e 2600 cavalieri (gli equites, la borghesia
capitalista) - non poteva che raccogliere i suoi frutti. Quando poi cambia il vento politico, Lucio Sergio passa
indenne i processi: il fatto ha del clamoroso se si pensa allo "stile" di Catilina in quelle terribili fasi (ad
esempio, aveva trucidato suo cognato Mario Gratidiano - tra l'altro, zio di Cicerone - gli aveva mozzato la
testa e l'aveva portata nel Foro, ai piedi di Silla, attraversando a cavallo tutta Roma).
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Gli anni settanta si rivelano proficui per l'ancora giovane Catilina, che si getta anima e corpo nella politica:
nel 78 è questore, nel 74 legato in Macedonia, nel 70 edile, nel 68 pretore, nel 67 governatore in Africa.
Catilina ottiene queste cariche al primo anno possibile per l'età, e in anni in cui corre politicamente isolato,
senza cioè i favori dei sillani, ormai caduti in disgrazia. Solo, quindi, né tra gli optimates (dai quali si stava
progressivamente distaccando anche "mentalmente") né tra i populares (che sente ancora lontani).
La situazione sociale nella Repubblica era radicalmente mutata negli anni delle guerre civili. La plebe - nella
quale vanno compresi dai cittadini più umili e poveri ai piccoli imprenditori e negozianti - aveva guadagnato
una posizione più determinante e avanzava maggiori diritti. La riforma dell'arruolamento militare voluta da
Mario aveva allargato le fila dei combattenti: la decadenza demografica nella penisola italica e quella dei
contadini proprietari avevano palesato la necessità di includere nelle legioni anche i nullatenenti. Oltretutto,
le enormi ricchezze affluite in Roma dalla sconfitta di Cartagine (202 a.C.) in poi erano finite nelle mani di
pochi, i soliti aristocratici, che avrebbero impiegato quelle somme per acquistare terreni dai piccoli
possidenti, creando enormi latifondi.
I piccoli proprietari, infatti, tenuti a partecipare come soldati nelle lunghe campagne militari, non potevano
permettersi di assoldare qualcuno che curasse la terra, cosicché pagavano il salato conto al ritorno a casa,
diventando preda dei latifondisti e finendo per abbandonare la campagna e andare ad ingrossare le fila del
proletariato urbano. Il proletariato romano e italico, inoltre, accedeva all'esercito e, una volta combattuto,
avanzava le richieste di ricompensa tipiche dei veterani: un appezzamento fertile, un capitale per investire su
di esso, la cittadinanza romana. Il circolo vizioso, così si chiudeva. Decenni prima, anche i cavalieri avevano
guadagnato posizioni nelle alte sfere della Repubblica: erano dilagati nei tribunali, ganglio vitale del potere
romano. Presto, però, questa classe si era legata a stretto filo con la nobiltà nel difendere i privilegi di pochi.
La società italico-romana, quindi, non sopportava più che la gestione del potere restasse nelle mani di
un'oligarchia.
È in questa cornice politico-sociale che Lucio Sergio Catilina, nel anno 66, decide di correre per il consolato
del 65. Ha 42 anni. Ad opporsi alla sua discesa in campo è l'intera casta oligarchica guidata da un'abile
"difensore d'ufficio": Marco Tullio Cicerone.
Come già detto Cicerone aveva una personalità profondamente diversa da quella di Catilina. Due anni più
giovane di lui, Marco Tullio rientrava in gioventù nel perfetto cliché dello studente primo della classe,
diligente, ossequioso verso i professori e immancabilmente preso in giro dai compagni. Certo non lo aiutava
il suo nome, la cui origine derivava dalla particolarità di un avo, il cui naso sfoggiava una grossa
escrescenza simile ad un cecio (cicer). Avvocato di straordinario talento, grande scrittore e abilissimo
oratore, Cicerone esordisce nel Foro nell'81 con una piccola causa civile, ma già l'anno seguente ha
l'occasione di attirare l'attenzione su di sé: l'avvocato difende il giovane Sesto Roscio contro il potentissimo
sillano Crisogono, per una storia di soldi e supposto parricidio. Dal momento che nessuno osava difendere
Roscio, temendo rappresaglie, l'ambizione - per una volta superiore alla pavidità - convinse Cicerone ad
accettare la difesa del giovane.
Ovviamente, vinse la causa. "Fu l'unico atto di coraggio della sua vita - scrive caustico Massimo Fini - E
infatti gliene venne una tal paura postuma che fece circolare la voce che era malato e aveva bisogno di cure,
partendo immediatamente per la Grecia. Voleva mettere il mare e un buon numero di chilometri fra sé e il
dittatore. Ritornò a Roma solo nel 77, dopo la morte di Silla".
Non v'è dubbio che, nella Roma post-sillana, Cicerone sarebbe stato estremamente prudente nei confronti
dei suoi avversari, cioè i populares. Nel frattempo, si sposa. "La moglie Terenzia - scrive ancora Fini - era
ricca, avida, gretta, bigotta, arcigna, energica, una virago che dominò sempre il debole e irresoluto marito e
che, nonostante lui la chiamasse suavissima atque optatissima (dolcissima e desideratissima), gli rese la vita
impossibile. La ripudierà trent'anni dopo per questioni di quattrini".
L'ambizione porta Cicerone a tentare, oltre alla carriera forense, quella politica. Sarà rapida, grazie al suo
grande talento e a dispetto dell'assoluta mancanza di padrini. I padrini, comunque, Cicerone non faticherà a
procurarseli. Dapprincipio, Marco Tullio punterà sui populares, che ricordavano la sua difesa di Roscio
contro Crisogono.
Membro della borghesia, desideroso di avvicinarsi alla "gente che conta" - e cioè gli aristocratici - il suo
matrimonio strategico con il partito della plebe aveva ben poche probabilità di durare. L'illustre avvocato mal
si vedeva con il popolo, che usava apostrofare come "la feccia di Romolo". Dopo un breve periodo di
transizione nel quale pensò di costituire una sorta di partito "centrista" (Fini la definisce una mossa
"protodemocristiana") che puntasse a difendere gli interessi degli equites (la borghesia degli affari in
ascesa), la sua classe, Cicerone avrebbe ricevuto nel 64 l'offerta di correre al consolato per gli aristocratici, e
non si sarebbe di certo fatto pregare. Il suo consolato avrebbe rispettato fedelmente le consegne dei
mandanti, opponendo sovietici niet a qualsiasi riforma, in primis quella agraria, per una parziale
redistribuzione delle terre e cercando di difendere anche il minimo privilegio di casta (arrivò a pronunciare,
lui console - scrive Fini - un'orazione perché a teatro fossero mantenute ai cavalieri quattordici file di posti
riservati").
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Cicerone e Catilina non potevano che avere un'idea assolutamente contrapposta di cosa fosse e dovesse
essere Roma. Uomo di diritto e di mediazione il primo, uomo impulsivo e d'azione il secondo. Sicuramente
più adatto alla realtà del suo tempo Cicerone, drammaticamente distaccato dalla realtà, e ancorato ad una
visione romantica della guerriera Roma delle origini Catilina.
Eppure, come scriverà l'autorevole storico Mommsen, sarà "il più vile degli uomini di Stato romani" a
sconfiggere l'ardimentoso Catilina.
Prima di ordire la sua famosa congiura, Catilina tentò per ben tre volte l'accesso al consolato. Le prime due
venne sconfitto con trucchi e brogli, la terza legittimamente, ma fu quella che, come si dice, fece traboccare
il vaso.
Come detto, nel 66, Catilina corre per la prima volta alla carica di console. La sua candidatura è l'autentica
novità della campagna elettorale: tutto sembrava deciso, con le candidature di Lucio Torquato e Lucio Cotta
per l'aristocrazia, e di Publio Autronio e Publio Cornelio Silla per i democratici. Nomine decisamente incolori,
che non conquistavano la fantasia popolare. La decisione di Catilina, che tornava dopo aver operato da
governatore in Africa, scombinò i piani delle due fazioni, creando malumori. Era ovvio che non ci sarebbe
stata partita, considerata la fama e il carisma di Catilina.
Furono diverse le strade che gli aristocratici tentarono per fermare Catilina. Le principali furono due: un
pretesto tecnico ed uno giudiziario. Quello tecnico consisteva in un cavillo temporale: la domanda del nuovo
candidato era stata depositata in ritardo. La soluzione giudiziaria prevedeva il divieto alla candidatura in
seguito alle accuse che un certo Publio Clodio aveva mosso contro Catilina in merito a supposte concussioni
durante il governatorato in Africa.
L'accusa verteva sulla concussione non alle popolazioni locali - consuetudine dei governatori romani - ma
nei confronti dei cittadini romani lì insediati. La legge - ovviamente - escludeva che potesse candidarsi ad
una magistratura dello Stato chiunque fosse sotto processo.
Catilina emerse innocente dal processo, difeso da Ortensio, ma a quel punto la chance consolare era
perduta. Per di più, nel mezzo del processo - quando i termini ultimi per la candidatura erano definitivamente
scaduti - Publio Clodio ritirò addirittura la propria denuncia.
Catilina non era uomo facile ad arrendersi, e lo dimostrò nel giugno dell'anno 64, quando ripresentò la
propria candidatura per le elezioni del 63. Ma…
(1 - continua) > >
di FERRUCCIO GATTUSO
IL PRIMO TRIUMVIRATO - PUBLIO CLODIO - CICERONE (61-57 a. C.)
POLITICA DI CESARE - ROGAZIONE DI METELLO NEPOTE - CATONE - PUBLIO CLODIO - I MISTERI
DELLA BONA DEA - RIPUDIO DI POMPEA - II PROCESSO CONTRO CLODIO - CESARE PARTE PER LA
SPAGNA - RITORNO E TRIONFO DI POMPEO - CONDIZIONI POLITICHE DI ROMA - LEGA TRA
CESARE, CRASSO E POMPEO - IL PRIMO CONSOLATO DI CESARE - LA LOTTA PER LA LEGGE
AGRARIA - LEGGI DI CESARE - IL TRIBUNATO DI PUBLIO CLODIO - ESILIO DI CICERONE - CATONE A
CIPRO - POMPEO E IL SENATO - VIOLENZE DI CLODIO - ANNIO MILONE - RITORNO TRIONFALE DI
CICERONE
------------------------------------------------------------------------------------------I MISTERI DELLA BONA DEA
Dopo il precedente capitolo, ritorniamo all'anno 61 a.C., quando POMPEO dall'Oriente si sta preparando dopo quattro anni di assenza- a rientrare a Roma. Dove vive un altro uomo, sdegnato della vita politica
romana, e proprio per questo si è fatto molti nemici. Vorrebbe agire, ma fino ad ora ha controllato la sua
impazienza. Lui è GIULIO CESARE, che da qualche tempo, per agire, cerca un appoggio; e quello di
POMPEO potrebbe rappresentare non solo un sostegno morale, ma anche un appoggio militare, perché
Pompeo ha, infatti, un potente e fedele esercito!
Dunque, CESARE è pronto a trarre profitto dalle circostanze. Sfruttare abilmente le ambizioni di CRASSO, il
nobile che aveva sconfitto Spartaco, e procurarsi l'amicizia di Pompeo.
Andiamo indietro di qualche mese, prima del rientro a Roma di Pompeo
La situazione in cui si é venuto a trovare GIULIO CESARE dopo la congiura di Catilina, è delicatissima. Ha
molti nemici a Roma, fra cui i più influenti sono LUTAZIO CATULO, LUCULLO e CATONE.
GIULIO CESARE è ancora giovane, è appena alla fine degli anni trenta; da poco è stato eletto tribuno, è un
oratore vigoroso, ed è stimato dal popolo per la sua proverbiale onestà e per la repubblicana fierezza.
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Ma Cesare ha anche lui molte amicizie, fra le quali conta ora quella di CICERONE, e gode di grande
popolarità. Cesare non si tiene in disparte nella vita politica; ma agisce molto prudentemente, osserva
uomini e cose e si tiene pronto a trarre profitto dalle circostanze. Roma è piena d'intrighi; le passioni
infuriano, il libertinaggio imperversa, il denaro domina sovrano, l'onestà è un mito. Gli uomini che si
contendono il potere non hanno statura di dominatori e di loro Cesare non si preoccupa, ma c'è un uomo,
lontano dal"Italia, che rappresenta un'incognita assillante per Cesare. Quest'uomo è POMPEO, il generale
fortunato, il capo della democrazia, l'ambizioso guerriero che dispone di un forte esercito di fedelissimi
veterani e di un enorme bottino e che ora, vinto Mitridate e ingranditi i domini romani d'Asia, si accinge al
ritorno. Che farà Pompeo? È una domanda cui Cesare non sa dare una risposta; ma capisce però che non è
prudente schierarsi contro di lui e che invece è ottima politica renderselo maggiormente amico.
Per raggiungere questo scopo, il giorno stesso in cui assume la carica di pretore, chiede ed ottiene che
l'incarico di ricostruire il tempio di Giove Capitolino, distrutto nell'83 a.C., sia revocato a Catulo e affidato a
Pompeo, consiglia Q. CECILIO METELLO NEPOTE, luogotenente di Pompeo nelle guerre contro i pirati e
contro Mitridate ed ora tribuno, di proporre che Pompeo, sebbene assente, sia eletto console e poiché
questa rogazione è respinta, Cesare lo induce a chiedere che Pompeo sia subito chiamato in Italia per
ristabilire l'ordine a Roma.
Qui risalta in tutta la finezza l'accorgimento di Cesare. Apparentemente egli aiuta Pompeo a diventare arbitro
della Repubblica e ne ritrarrà vantaggi se Pompeo riuscirà a conquistare e mantenere il potere, ma in
sostanza gli rende un cattivo servizio perché una dittatura di Pompeo, non giustificata dagli avvenimenti,
sarà fatalmente seguita da una reazione, dalla quale Cesare -in quel momento preciso- saprà trarre
immensa utilità.
La proposta di METELLO è respinta, ma il tribuno la sottopone ai comizi e nel giorno della votazione si
presenta all'assemblea con CESARE spalleggiato da una turba di servi armati.
La seduta è tumultuosa. CATONE, seduto tra Cesare e Metello, prima che la discussione inizi oppone il suo
veto. METELLO vuole che il suo disegno sia letto e ordina a uno scriba di darne lettura; ma Catone glielo
impedisce e, poiché si accinge Metello stesso a leggerlo, gli strappa di mano le tavolette.
Allora il tumulto scoppia violento; volano sassi e luccicano spade nel foro; CATONE è circondato e assalito
dai servi di Cesare e di Metello e a stento il console MURENA gli salva la vita coprendolo prima con la toga
e conducendolo poi nel tempio di Castore.
Essendo gli animi eccitatissimi, il Senato affida mandato ai consoli che salvaguardino l'ordine con severe
misure eccezionali e i consoli sospendono METELLO e CESARE dalla carica che ricoprono invitandoli
all'esilio.
METELLO obbedisce e sdegnato lascia Roma e si reca da Pompeo, mentre CESARE rimane in carica, poi,
per non esser costretto ad ubbidire, abbandona lui stesso la pretura con una studiata mossa. Infatti, la stima
di cui gode è così tanta, che il popolo gli manifesta una grande e chiassosa dimostrazione di simpatia e il
Senato, temendo disordini da quel romoreggiare, lo rimette nella carica.
CESARE sa di poter contare sul favore del popolo, pur tuttavia continua nella sua politica di accorgimenti,
evita di prendere, quando può, degli atteggiamenti decisi, di urtare la suscettibilità dei potenti e di mettersi in
rotta con i ricchi. Anche quando la pace della sua casa e l'onore della sua famiglia sono compromessi, egli
non esita a sacrificar l'una e l'altro all'altare della politica pur di non crearsi inimicizie che possono intralciargli
la via. Così, fedele al programma che si è imposto, non inveisce contro CLODIO, causa di un grave
scandalo che lo colpisce negli affetti familiari, ma gli si finge amico e più tardi se ne serve per i suoi fini.
PUBLIO CLODIO PULCRO è un giovane patrizio di depravati costumi, che si dice abbia avuti impuri contatti
carnali con le quattro sue sorelle, è amico di Cicerone che ha sostenuto al tempo della congiura di Catilina
ed è stato tra quelli che volevano trucidare Cesare quando questi nella Curia difendeva i cinque congiurati.
CLODIO è giovane senza scrupoli, pieno di debiti, spasimante impenitente e innamorato di POMPEA, che è
la moglie di Cesare. Sono i primi giorni del dicembre e le vestali e le matrone romane sono riunite nella casa
di Cesare dove con Pompea sacrificano alla Bona Dea, genio tutelare della fecondità muliebre, con
cerimonie oscene alle quali nessun uomo può assistere.
CLODIO, bramando forse d'essere presente alla celebrazione di quei misteri religiosi spinti, o desiderando di
trovarsi con Pompea, si traveste da suonatrice d'arpa e riesce a penetrare non conosciuto nella casa di
Cesare. Ma la fortuna che da principio favorisce l'audacia del giovane libertino ad un tratto l'abbandona. Una
schiava di Cesare di nome Aura s'insospettisce alla vista di questa donna dall'incedere poco femminile e le
rivolge la parola; Clodio, costretto a rispondere, rivela con la voce il suo sesso. La schiava dà l'allarme e le
matrone e le vestali, sospese le sacre cerimonie, accorrono e sdegnate scacciano l'audace profanatore dei
misteri.
Lo scandalo è ben presto conosciuto da tutta la città; i pontefici massimi ordinano di rinnovare i misteri alla
Bona Dea e Clodio è denunciato ai magistrati.
CESARE che ha tutto l'interesse di soffocare lo scandalo e nel medesimo tempo di tutelare il suo onore e a
non urtarsi con Clodio, saputo il fatto, ripudia Pompea, ma davanti ai giudici sostiene l'innocenza della
moglie e del giovane e poiché i magistrati non sanno spiegarsi quelle dichiarazioni dopo il ripudio, Cesare
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dichiara di avere ripudiata Pompea non perché abbia creduto alla sua colpa, ma perché sulla propria moglie
non devo cadere neppure l'ombra del sospetto.
Malgrado questa singolare dichiarazione, il processo continua. Molti cittadini depongono contro Clodio,
rivangando le turpitudini del suo passato. Clodio si difende affermando che il giorno in cui si sacrificava alla
Bona Dea lui era assente da Roma e chiama come testimonio Cicerone. Il famoso oratore si presenta ai
giudici. Vorrebbe salvare l'amico di un tempo, ma la moglie, gelosa di una sorella di Clodio, gli ha imposto di
dire la verità e Cicerone, per amore della pace domestica, afferma di aver visto il giovane a Roma il giorno
stesso dei sacrifici.
A CLODIO non resta che una sola via di salvezza: corrompere i giudici. CRASSO, il creso romano, presta il
denaro e dei cinquantasei giudici trentuno, sono comprati con l'oro, votano in favore dell'accusato che é
assolto.
CESARE, rovinato economicamente, lasciando la pretura, ottiene dal Senato il governo della Spagna
Ulteriore; ma i suoi numerosi creditori si oppongono alla sua partenza.
Come di Clodio, così di Cesare il salvatore è Crasso. Il ricchissimo patrizio ha buon naso e sa che il governo
di una provincia di solito compie il miracolo di saldare ogni debito. Si fa perciò mallevadore di Cesare per
l'enorme somma di ottocentocinquanta talenti pari a cinque milioni di lire, facendo un ottimo affare finanziario
e guadagnandosi l'animo di un uomo che sa destinato ad un potente avvenire. Ne del resto potrà più
abbandonarlo dopo aver puntato su di lui questa cifra enorme.
E, infatti, dal giorno della sua partenza per la Spagna ha inizio la fortuna di Cesare.
IL PRIMO TRIUMVIRATO
Mentre questi fatti si svolgono a Roma, Pompeo lascia l'Asia diretto in Italia. Giunto a Brindisi verso la fine
del 62, per meglio mascherare le sue brame di potere licenzia l'esercito e se ne ritorna a Roma come
semplice cittadino.
Il popolo, saputo il suo arrivo, gli va incontro e lo conduce in città con grandi manifestazioni di gioia e
Pompeo si lusinga di aver la cittadinanza dalla sua parte, ma ben presto si accorge che a Roma, durante la
sua lunga assenza (4 anni), molte cose sono avvenute che gli hanno tolto gran parte del favore di cui
godeva.
Il Senato non è più quello che lui ha lasciato. La vittoria su Catilina e il consolato di Cicerone (nel '63 a.C.) lo
hanno rialzato in potenza; e gli uomini più in vista ora non sono animati per lui da sentimenti amichevoli.
CICERONE, che non ha ricevuto gli elogi desiderati per l'opera svolta durante il suo consolato, non mantiene
con POMPEO i cordiali rapporti di una volta; CATONE, che sospetta gli ambiziosi suoi progetti, gli è avverso;
LUCULLO, che è stato da lui spodestato dalla direzione della guerra mitridatica, lo odia a morte; il ripudio di
MUCIA gli ha reso nemico il cognato Metello Celere; e CESARE, che è uno dei pochi sui quali ancora
Pompeo potrebbe contare, è ora lontano.
L'opera che Pompeo ha recentemente compiuta in Oriente, rischia di sfasciarsi, se il popolo e il Senato non
sanzionano i provvedimenti che lui ha preso in Asia e se ai soldati i quali, sebbene licenziati, rappresentano
la sua forza, non saprà o non potrà fare ottenere una distribuzione di terre.
POMPEO cerca di riguadagnare il terreno perduto. Gli è necessario che al consolato sia assunto almeno
uno dei suoi amici e nelle elezioni impiega un'ingente somma per fare eleggere L. AFRANIO, già suo
luogotenente in Asia.
AFRANIO è eletto console e Pompeo chiede ed ottiene il trionfo che è celebrato il 29 e il 30 settembre del 61
a.C. con una pompa che solo quello di Emilio Paolo può eguagliare.
Tavole su cui sono scritti i nomi dei paesi asiatici indicano ai Romani che si assiepano al passaggio del
corteo magnifico, le conquiste di Pompeo; ingenti. sono le somme e ricchissimi gli oggetti che il popolo,
ammirato, vede sfilare davanti a sé: ventimila talenti, pari a oltre centoquindici milioni di lire, un gigantesco
busto in oro di Mitridate, la dattilioteca del re del Ponto, vasi d'oro e d'argento, numerosissime pietre
preziose, trentatrè corone di perle, tre statue d'oro raffiguranti Marte, Apollo e Minerva, un bozzetto d'oro
rappresentante una montagna adorna di frutti, di cervi, di leoni e di tralci di vite. Numerosi e illustri sono i
prigionieri che precedono il conquistatore: i capi dei pirati,
ARISTOBULO re dei Giudei, la sorella di Mitridate con cinque figli, la moglie del re d'Armenia, il figlio di
Tigrane con la sposa e la figlia Viene infine, seguito da fanti, da cavalieri e dalle insegne delle legioni, sopra
un carro tempestato di pietre preziose, POMPEO, trionfatore per la terza volta.
Dopo il trionfo e con l'appoggio del console AFRANIO, Pompeo propone che siano ratificati i provvedimenti
presi in Asia; ma LUCULLO solleva delle difficoltà e il Senato, lieto di contrastare l'opera di Pompeo,
rimanda ad altro tempo l'esame dei provvedimenti stessi. Allora Pompeo domanda che i suoi soldati, entrino
in possesso di appezzamenti di terre, ma il Senato si mostra ostile. Pompeo si ostina, e fa presentare dal
Tribuno L. FLAVIO la sua domanda. Il tribuno presenta il successivo anno (60 a.C.) una proposta di legge
con cui chiede che le terre, prima comprate in forza della legge Sempronia e poi vendute, siano ricomperate
e distribuite fra i veterani; che l'agro pubblico di Volterra e di Arezzo sia ripartito fra i cittadini poveri e che per
l'applicazione della legge siano impiegate le rendite di cinque anni delle province d'Asia.
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CICERONE sostiene la rogazione Flavia, ma l'eloquenza del celebre oratore è vana di fronte all'autorità del
console METELLO CELERE (collega console di Afranio) che con un pretesto fa sospendere i comizi.
L'azione arbitraria del console irrita il tribuno che lo fa tradurre in carcere, dove Metello convoca il Senato e
poiché i senatori non possono entrare nella prigione dalla porta che è custodita da Flavio, vi penetrano da
una breccia appositamente praticata in un muro.
Stanno a questo punto le cose quando dalla Spagna torna GIULIO CESARE; torna con molto denaro e con il
titolo d'"imperator"; il primo gli sarà più che sufficiente per pagare i creditori, il secondo gli è stato dato dalle
legioni e confermato dal Senato per le sue vittorie contro i Lusitani; torna in fretta senza neppure aspettare
l'arrivo del suo successore perché vuole essere a Roma prima della convocazione dei comizi consolari e
presentarsi candidato per l'anno 59 a.C.
A lui gli appartiene per diritto il trionfo e rimane perciò fuori della città aspettando che il Senato gli notifichi il
giorno della cerimonia, ma l'attesa si prolunga e le elezioni si avvicinano e CESARE, trovandosi fuori Roma,
non può porre la sua candidatura in ossequio alle leggi.
CESARE chiede che sia dispensato dalla formalità di vestire la toga bianca e il Senato si riunisce per
decidere, ma CATONE impedisce all'assemblea di pronunciarsi parlando contro la petizione di Cesare fino al
tramonto, e Cesare a quel punto rinuncia al trionfo e, deposte le armi e le insegne, entra in città, accolto con
vivissima simpatia dal popolo che al munifico edile di un tempo e al campione intelligente della democrazia
riconosce ora altri meriti, quello delle vittorie ispaniche e quello della modestia.
Cesare si rende esatto conto delle condizioni politiche della città e si accorge che questo è il momento di
agire per raggiungere i suoi scopi. La schiera dei suoi nemici ha perso i capi più temibili: Catulo è morto
all'inizio dell'anno e Lucullo, stanco della politica, si è ritirato in campagna a godersi le immense ricchezze.
Rimangono, è vero, Cicerone e Catone, ma il primo è un astro oramai tramontato e il secondo, pur godendo
grande stima, non ha tale tempra da nuocergli un gran che.
Invece vi sono a Roma due uomini con cui egli è in eccellenti rapporti: CRASSO e POMPEO, il primo
enormemente ricco, il secondo famoso per le sue imprese militari. Politicamente Crasso non è un tipo di
uomo di cui si possa temere la rivalità bramando egli più l'aumento e l'impiego delle sue ricchezze che gli
onori; POMPEO invece è molto ambizioso e può costituire un serio pericolo; ma ora lui è terribilmente
avversato dagli ottimati e non gode la piena fiducia del popolo che comincia a sospettare di lui ed avendo
perciò bisogno di aiuto non può essere per il momento un rivale di chi lo toglierà dall'imbarazzo.
CESARE pensa che l'oro dell'uno e la fama dell'altro potrebbero essergli d'immenso aiuto nella via in cui sta
per mettersi. Egli non può offrire agli altri due che la sua popolarità e il suo genio; ma non di quello che può
offrire egli si preoccupa, bensì di ciò che Crasso e Pompeo possono dargli, perché nella sua mente questi
due sono destinati a fargli da sgabello per salire in alto e ad essere abbattuti dopo che l'avranno aiutato a
impadronirsi del potere e a sbaragliare l'oligarchia.
Una sola difficoltà ostacola la lega che Cesare vagheggia e ritiene necessaria ai suoi scopi: il rancore che
contro Pompeo nutre Crasso, il quale non ha dimenticato che l'ambizioso generale ha tolto a lui la gloria
della vittoria nella guerra contro gli schiavi, ma Cesare è un tale uomo da superare difficoltà ben più grandi e
si mette subito all'opera, e riesce a far sparire gli odi convincendo i due amici che, se divisi, si indeboliranno
a vicenda in una lotta sterile, mentre se uniti formeranno una forza irresistibile, che darà loro il primato.
La Repubblica è così grande che dentro ci sarà posto abbastanza per le ambizioni di tre uomini e che non
sarà una piccola cosa la parte di potere che a ciascuno di loro tre toccherà.
Ed ecco, per opera di Cesare, sorgere segretamente la lega che passerà alla storia col nome di "primo
triumvirato". Ha programmi e scopi ben definiti; capeggiare la democrazia per fiaccare definitivamente la
potenza degli ottimati; colpire poi la democrazia vittoriosa togliendole la repubblicana libertà e instaurare un
triarcato assoluto.
Dal giorno in cui si costituisce la lega fra i tre uomini, nella libera terra di Roma si depone il seme da cui
germoglierà la pianta gigantesca dell'impero.
IL PRIMO CONSOLATO DI CESARE
Nelle elezioni consolari di quell'anno (59 a.C.), CESARE è sicuro della riuscita; ma lui vuole una vittoria
completa, vuole per collega uno della sua parte e tale che possa essergli ligio in ogni atto.
Scende pertanto nella lotta con L. Lucceio suo amico, uomo ricchissimo e privo di eccessive ambizioni. Ma
la candidatura di quest'ultimo è duramente osteggiata dagli ottimati, i quali gli oppongono M. CALPURNIO
BIBULO, già edile e pretore insieme con CESARE, e per assicurarne l'elezione spendono molto denaro,
inducendo il severo Catone a fare altrettanto per riuscire a competere.
CESARE e BIBULO risultano eletti e non appena i nuovi consoli entrano in carica, inizia accanita la lotta del
primo contro gli ottimati.
Uno dei patti del triumvirato contempla l'assegno delle terre ai veterani di Pompeo; uno dei mezzi con cui
Cesare può accrescere la propria autorità presso il popolo è la distribuzione dell'agro pubblico ai cittadini
bisognosi.
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CESARE che non ha dimenticato lo scacco subito dalla rogazione ispirata a Servilio Rullo, e che deve
mantenere i patti stabiliti con Pompeo, presenta un disegno di legge agraria. Chiede che ai veterani di
Pompeo ed ai cittadini poveri sia ripartita la parte libera dell'agro pubblico e che se questa non è sufficiente
si comprino terre con le rendite delle province asiatiche; chiede inoltre che i terreni distribuiti siano
inalienabili per un ventennio e che la legge sia eseguita da una commissione di venti membri da cui sia
escluso il rogante.
Cesare sottopone il suo disegno di legge al Senato, ma l'ostilità che esso incontra è grandissima.
Contro la rogazione parla CATONE, adottando il metodo che altra volta gli è riuscito, impedendo cioè con un
lungo discorso che l'assemblea prenda una decisione. Cesare però non tollera ostruzionismi di sorta e,
indignato, ordina che il suo ostinato oppositore sia messo in prigione. Questo provvedimento commuove il
Senato; molti senatori solidali si alzano e seguono Catone che, obbedendo, sta per uscire dalla Curia, e a
Cesare, che cerca di trattenerli, M. PETREIO dice sdegnosamente che preferisce stare con Catone nel
carcere che non con Cesare nella Curia.
Cesare libera Catone e decide di portare la legge davanti ai comizi. BIBULO, pubblicamente interpellato dal
collega, risponde che durante il suo consolato non vuole novità, ma CRASSO afferma che appoggia la
rogazione e Pompeo assicura, che se gli avversari per impedire che la legge sia votata impugneranno la
spada lui imbraccerà lo scudo.
Oramai gli animi sono così tesi che senza dubbio si ricorrerà alla violenza per fare approvare la legge
agraria. Bibulo fa un ultimo tentativo mettendo di mezzo la religione. Avverte il collega, che nel giorno dei
comizi lui guarderà il cielo, richiamando Cesare ad una disposizione che proibisce di discutere su pubblici
affari quando Giove tuona o manda pioggia o un magistrato dichiara di guardare se piove o balena.
Ma è il secolo del naturalismo di Lucrezio e la religione non fa più presa sugli animi.
I comizi sono riuniti e il foro è pieno di veterani di Pompeo e di clienti dei triumviri armati.
Si prevede una giornata tempestosa. Ed ecco che appare BIBULO insieme con tre tribuni della plebe che
parteggiano per il Senato. Il console, dalla scalinata del tempio di Castore e Polluce arringa la folla parlando
contro la rogazione di Cesare, ma è interrotto dalle grida dei partigiani dei triumviri e, poiché il console vuol
continuare, una turba di faziosi l'assale e lo precipita dalla scala. Grondante sangue, a stento può Bibulo
ripararsi dalla furia degli avversari nel tempio di Giove Statore.
Non intimorito dalla sorte toccata al console, CATONE sale per ben due volte alla tribuna dei rostri per
parlare al popolo, ma tutte e due le volte, è strappato dalla ringhiera.
Sedato il tumulto, si procede alla votazione ed è approvata la legge, che alcuni mesi dopo sarà integrata da
un'altra che stabilirà la ripartizione dell'agro campano fra i cittadini poveri che siano padri di tre o più figli.
Il giorno dopo Bibulo chiede al Senato che sia abrogata la legge adducendo il pretesto che è stata votata
senza gli auspici religiosi, ma il Senato, reso prudente dal contegno risoluto del popolo, respinge la richiesta
e giura di osservare la legge. Solo CATONE si rifiuta e dichiara di preferire l'esilio, ma CICERONE lo
scongiura di non partire, dicendogli che se lui può fare a meno di Roma, Roma non può fare a meno di lui; lo
pregano insistentemente gli amici e sono tali e tante le preghiere che il fiero patrizio alla fine cede e giura
anche lui, sebbene a malincuore, osservanza alla legge.
Dopo questa vittoria Cesare è l'arbitro della Repubblica; Bibulo, ritiratosi in casa sua, non prende più parte
agli affari dello stato e i Romani dicono motteggiando che i consoli della Repubblica sono GIULIO &
CESARE.
Cesare ora può governare a suo piacere senza il concorso del Senato. Gli basta il popolo e il popolo, non
sapendo che volontariamente si è creato un padrone da cui non potrà più liberarsi, approva volta per volta
tutte le proposte di Cesare.
Molte sono le leggi che Cesare presenta all'approvazione dei comizi: con la "lex Judia de rege Alexandriae"
fa riconoscere sovrano d'Egitto ed alleato di Roma TOLOMEO AULETE; con la "lex Judia de publicanis
asianis" fa dare agli appaltatori delle rendite d'Asia un terzo della somma dovuta allo stato, amicandosi il
ceto dei cavalieri al quale i "pubblicani" appartengono; con la "ex Julia de actis Cnei Pompei" fa sanzionare i
provvedimenti presi da Pompeo nell'Asia; con la "lex Julia de pecuniis repetundis" fa decretare che un
proconsole non può tenere il governo di una provincia più di un biennio e un propretore più di un anno.
Nonostante le precise disposizioni di quest'ultima legge, CESARE fa proporre dal tribuno P. VATINIO che gli
sia affidato per l'anno seguente il governo della Gallia Cisalpina e dell'Illiria con tre legioni per la durata di
cinque anni.
Il popolo, come il solito, approva la legge e il Senato di sua iniziativa, non si sa bene perché, aggiunge il
governo della Provincia Narbonese con una legione.
Lo stesso Vatinio, per consiglio di Cesare, propone che siano inviati a Como cinquemila coloni latini.
Avvicinandosi la fine del suo consolato dell'anno 58 a.C., CESARE pensa di rendere duratura la sua opera e
la sua autorità proponendo a CRASSO e a POMPEO che nelle elezioni consolari e nelle tribunizie si
facciano risultare persone di loro fiducia.
Siccome PUBLIO CLODIO aspira al tribunato, ma non può coprire una carica che spetta ai plebei essendo
patrizio, Cesare escogita uno stratagemma, lo fa adottare dalla famiglia del plebeo P. FONTEIO, indi
appoggia la candidatura dell'uomo che è stato l'amante di Pompea e lo fa uscire eletto.
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Consoli per l'anno 58 a.C. sono AULO GABINIO, amico di Pompeo e CALPURNIO PISONE, suocero di
Cesare. E Catone amaramente esclama: "Eccoti, o Repubblica, divenuta mezzana di matrimoni. Doni di
nozze saranno i consolati e il governo delle province!".
Catone non esagera. Non è quello di Cesare con la figlia di Pisone il solo matrimonio politico: GIULIA, la
bella e giovane figlia di Cesare, ha sposato POMPEO.
ESILIO E RITORNO DI CICERONE
Alla fine del 57 a.C. Cesare esce dalla città e rimane alle porte di Roma un paio di mesi in attesa di partire
per la Gallia.
Nel nuovo anno consolare campeggia la figura di PUBLIO CLODIO, che inizia il suo tribunato secondo le
istruzioni ricevute dai triumviri. Clodio è un fedele esecutore degli ordini di Cesare, ma è anche un ambizioso
e mentre impiega la sua attività a servizio del triumvirato si prepara astutamente il terreno per raggiungere
un'elevata posizione politica.
Mirando ad acquistare il favore della turba forense, fa approvare una sua legge framentaria che stabilisce
distribuzioni gratuite di grano al popolo; per evitare i soliti ostruzionismi dei magistrati vieta a questi con una
legge "de jure et tempore legum rogandarum" di osservare il cielo e prender gli auspici per i giorni destinati
ai comizi e, allo scopo di assicurarsi l'ingresso nel Senato, con la legge "de censoria nozione" vieta ai
censori di escludere dal Senato chi è stato rivestito di una magistratura e chi non è stato condannato con
unanimità di voti. Dopo aver fatto approvare dalle tribù queste leggi, CLODIO rivolge la sua opera contro i
suoi nemici personali e contro gli uomini che più duramente avversano il triumvirato.
Due illustri personaggi sono presi specialmente di mira: CICERONE e CATONE; il primo (lo abbiamo visto)
ha deposto contro Clodio nel processo per lo scandalo durante i misteri della Bona Dea; il secondo è troppo
fastidioso per la sua severità e la sua eloquenza, messe a servizio dell'oligarchia.
Nel febbraio del 56 Clodio presenta un disegno di legge ("de capite civis romani") in cui propone che sia
condannato all'esilio quel magistrato che applichi la pena capitale contro un cittadino romano senza
l'approvazione del popolo.
La legge ha effetto retroattivo ed è facile capire che è rivolta contro CICERONE.
Il grande oratore è assalito da un forte sgomento; il coraggio civile che sempre lo ha sostenuto ora gli viene
a mancare di fronte ad una legge fatta apposta per colpirlo. Egli si veste a lutto, si mostra al popolo, prega gli
amici, i cavalieri, i senatori, i consoli. Ma i consoli sono troppo legati a Clodio il quale a Gabinio ha fatto
ottenere il governo della Siria e a Pisone quello della Macedonia. I senatori e i cavalieri, in verità, si
interessano di lui, ma niente riescono ad ottenere. Solo CESARE e POMPEO possono aiutarlo, ma al primo
è inutile rivolgersi perché in un'assemblea tenutasi alle porte della città ha
biasimato l'uccisione dei compagni di Catilina e non poteva non biasimarla lui che aveva proposto una più
mite condanna; Cicerone ricorre dunque al secondo, ma POMPEO non si fa trovare in casa e ciò significa
chiaramente che non vuole o non può interessarsi dell'avvocato di Arpino.
Allora Cicerone segue il consiglio di Catone che lo esorta ad allontanarsi dalla città e, messa sul
Campidoglio una statua di Minerva, se ne va in volontario esilio.
Appresa la partenza del suo nemico, CLODIO propone un'altra legge, conseguenza logica della prima, con
la quale condanna CICERONE a vivere lontano da Roma almeno quattrocento miglia e alla pena capitale
chiunque lo ospiti a distanza minore dei limiti stabiliti. Cicerone si reca così a Tessalonica
Ma questo non è tutto. Clodio prima occupa, poi fa incendiare la sua casa sul Palatino e sul terreno dove
sorgeva fa erigere un tempio alla libertà; i beni dell'oratore sono confiscati e messi all'incanto, ma sebbene
con un prezzo di vendita bassissimo, nessuno - e questo è titolo di lode per i Romani - li vuole comperare.
Ora è la volta di CATONE. Nello stesso febbraio, CLODIO fa approvare una legge con la quale chiede che
l'isola di Cipro sia dichiarata proprietà della Repubblica e sia sottratta a Tolomeo fratello del re d'Egitto, in
virtù di un testamento, con il quale il re Alessandro lasciava l'isola in eredità a Roma.
Approvata la legge e deliberata l'occupazione di Cipro, si affida l'impresa a Catone che in ossequio alle leggi,
pur non desiderando allontanarsi da Roma, ubbidisce e parte.
La vittoria di CLODIO è completa. Ubriacato dai facili successi e spinto dall'ambizione e dall'audacia a tentar
nuove cose, ora che CESARE è lontano cerca di mettere a proprio profitto la situazione cui è pervenuto con
l'appoggio del triunvirato.
CLODIO non vuole più essere una creatura dei triumviri e, poiché uno è in Gallia e dei due rimasti a Roma,
solo Pompeo è il più pericoloso, contro questo rivolge la sua attività,
Per recare infamia a Pompeo libera dalla prigionia TIGRANE, figlio del re d'Armenia, e lo aiuta a fuggire, e
siccome il pretore L. Flavio che l'aveva in custodia insegue il fuggiasco, Clodio gli manda contro sulla via
Appia una banda armata che obbliga il pretore a tornare indietro.
Iniziata così la lotta contro Pompeo, Clodio la continua con grande vivacità tentando perfino di fare uccidere
da uno schiavo il triumviro; il quale costretto a difendersi dagli attacchi del prepotente tribuno si accosta al
partito degli ottimati, pur rimanendo fedele ai due compagni.
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Effetto di questo riavvicinamento sono le pratiche fatte da Pompeo per il richiamo di Cicerone e i risultati
delle elezioni consolare. Le prime non hanno esito felice. L. NINNIO con otto tribuni presentano una
rogazione al Senato proponendo la revoca della condanna di Cicerone; ma sia l'una sia l'altra volta Clodio
oppone il suo veto.
Le elezioni però alle magistrature per l'anno dopo (57 a.C.) riescono favorevoli al Senato e a Pompeo: infatti,
sono eletti consoli P. CORNELIO LENTULO SPINTERO del partito degli ottimati e Q. CECILIO METELLO
NEPOTE, sostenitore di Pompeo; ottengono la pretura amici dei senatori, eccetto APPIO CLAUDIO fratello
di Clodio; lo stesso dicasi dei nuovi tribuni tra i quali è eletto T. ANNIO MILONE, creatura del Senato e uomo
violento e senza scrupoli.
Al principio del 56 il nuovo console Cornelio Lentulo chiede al Senato che Cicerone sia richiamato dall'esilio
ma un tribuno amico di Clodio si oppone. Un tribuno della parte degli ottimati di nome Q. FABRIZIO fa sua la
proposta del console e decide di sottoporla al giudizio delle tribù nell'assemblea del 25 gennaio. Per meglio
appoggiare, la sua rogazione e per resistere alle violenze degli avversari, si reca al foro con una schiera di
gente armata, ma CLODIO e CLAUDIO vi hanno piazzato una banda più numerosa e nel conflitto che segue
i primi hanno la peggio.
Questa lotta è solo il preludio d'altre violenze. CLODIO appicca l'incendio al tempio delle Ninfe per
distruggere gli atti censori; accusato da Milone di violenza, con la violenza si sottrae al giudizio e provoca
con il suo contegno la reazione di Milone, il quale, per non lasciarsi sopraffare, assolda una numerosa banda
di faziosi con cui dichiara di voler proteggere il Senato, dalle prepotenze del suo nemico.
Il Senato allora convoca i comizi per il 4 agosto 56 a.C. e invita a parteciparvi tutti i cittadini romani che
risiedono nella penisola e per proteggerli dalle violenze comminano pene severissime contro i disturbatori
dell'ordine pubblico.
Questi energici provvedimenti fanno sì che l'assemblea si svolga senza incidenti e con un concorso enorme
di cittadini che si pronunciano all'unanimità per il ritorno di Cicerone.
Da diciotto mesi il celebre oratore si trova lontano dalla patria. Partito da Brindisi nell'aprile dell'anno prima
ha cercato rifugio in Sicilia e, non avendolo ottenuto; si è recato prima a Tessalonica poi a Durazzo. Sono
stati mesi dolorosissimi per l'illustre uomo, che ha sofferto molto per la lontananza da Roma, dalla sposa, dai
figli, dal fratello esposti alle ingiurie dei nemici.
"Cicerone - scrive Plutarco - passava la maggior parte del tempo nel più grande dolore, quasi nella
disperazione, intento a guardare verso l'Italia come potrebbe fare un amante infelice". Quando gli giunge la
notizia della decisione del Senato, sicuro del voto favorevole dei comizi, senza perdere tempo, lascia la terra
straniera e fa vela verso l'Italia. A Brindisi, dove sbarca il 5 agosto, con la figlia Tullia, recatasi ad incontrarlo,
trova una grande accoglienza ed apprende che un milione ed ottocentomila cittadini hanno votato per il suo
ritorno. È questo il giorno più felice dell'esule. Accompagnato da una numerosissima scorta, prende il
cammino per Roma. Nelle città dove passa le popolazioni festanti l'acclamano; il suo è un viaggio trionfale.
Il 4 settembre CICERONE fa il suo ingresso a Roma per la porta Capena. Al suo passaggio fitte ali di popolo
plaudono freneticamente; le scalinate dei templi sono gremite di gente che saluta e urla la sua gioia nel
rivedere l'illustre patriota; il foro è tutto un oceano di teste. È così enorme la calca che i littori debbono aprire
il passo all'oratore fino al Campidoglio dove ad aspettarlo sono magistrati, senatori e cavalieri.
Il 5 e il 6 settembre CICERONE davanti al Senato e al popolo pronuncia due magnifiche orazioni "post
reditum"; poi con un'orazione "de domo sua ad pontifices" chiede che gli sia restituita l'area dove sorgeva la
sua casa e subito ottiene più di quel che domanda perché il Senato decreta che la casa gli sia ricostruita a
spese della Repubblica e gli sono concessi settecentocinquantamila sesterzi in risarcimento dei danni patiti.
Più tardi CLODIO cercherà di amareggiare il ritorno del suo acerrimo nemico, molestando gli operai intenti a
ricostruire la casa di Cicerone, facendolo insultare ed aggredire nelle vie di Roma dai suoi sgherri,
insinuando che i mali della città attribuiti dagli aruspici all'ira divina sono causati dalla profanazione del
tempio della Libertà; più tardi CICERONE inveirà contro Clodio nell'orazione "De haruspicum responsis",
nella difesa di Sestio ("pro Sextio"), nell'orazione contro il clodiano Vatinio ("in Vatinium testem") e sfogherà
tutta la sua acredine contro Clodia, sorella del suo nemico e amante del poeta Catullo, nella concitata
orazione "pro M. Coelio".
Ora però il gran CICERONE non vive che del suo trionfo, non ricorda che le accoglienze della patria, non
sogna che nuovi allori, desidera solo essere utile al suo paese e forse, soddisfatto e convinto, ripete in
segreto le parole pronunciate circa tre lustri prima
"cedano le armi alla toga e gli allori della guerra si genuflettano davanti ai. trofei dell'eloquenza".
Cicerone è dunque grato a Pompeo, e ora lo sostiene, perché il triumvirato con Pompeo stesso, sta
entrando in crisi. Il ricco CRASSO, si era tenuto e si tiene ancora in disparte dal potere, ma ha ottimi rapporti
con CLODIO, che come abbiamo visto, sta facendo di tutto per screditare e abbattere POMPEO.
Tutto questo mentre il terzo triumviro, GIULIO CESARE, nella Gallia, sta cogliendo successi a ripetizione,
sta preparando con il suo devoto esercito, la sua fortuna.
Gli è quindi utile la crisi dei due suoi colleghi, gli è utile Clodio che li sta mettendo contro, e gli sono utili
diversi senatori e cavalieri, che iniziano ad avere molte simpatie per l'eroe della Gallia.
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Passiamo dunque al prossimo capitolo, che é pieno di eventi politici e siamo alla vigilia della GUERRA
CIVILE…il periodo dall'anno 57 al 49 a.C. > > >
Fonti, Bibliografia, Testi, Citazioni:
TITO LIVIO - STORIE (ab Urbe condita)
POLIBIO - STORIE
APPIANO - BELL. CIV. STORIA ROMANA
DIONE CASSIO - STORIA ROMANA
PAOLO GIUDICI - STORIA D'ITALIA
UTET - CRONOLOGIA UNIVERSALE
I. CAZZANIGA , ST. LETT. LATINA,
+ altri, in Biblioteca dell'Autore
LA CONQUISTA DELLA GALLIA - SUL RENO - VERCINGETORIGE (58-50 a. C.)
LA GALLIA TRANSALPINA - CAUSE DELLA GUERRA GALLICA - ARIOVISTO E I GALLI - MIGRAZIONE
DEGLI ELVEZI - CESARE NELLA TRANSALPINA - VITTORIA ROMANA A BIBRACTE - SCONFITTA DI
ARIOVISTO - RIVOLTA DEI BELGI - CESARE SOTTOMETTE LA GALLIA BELGICA - BATTAGLIA DELLA
SAMARA - RIVOLTA DELL'ARMORICA - I TENCTERI E GLI USIPETI - PRIMO PASSAGGIO DEL RENO CESARE OLTRE LA MANICA - SECONDA SPEDIZIONE IN BRITANNIA - AMBIORIGE - SECONDO
PASSAGGIO DEL RENO - VERCINGETORIGE - TATTICA DEI GALLI - ASSEDIO E PRESA DI AVARICO LABIENO - ASSEDIO DI ALESIA - ARRIVO DI VERGASILLAUNO - BATTAGLIA DI ALESIA - RESA DI
VERCINGETORIGE - FINE DELLA GUERRA GALLICA
-------------------------------------------------------------------------------------------LA GALLIA - PRIME VITTORIE SUGLI ELVEZI E SUI GERMANI
Prima di narrare gli anni di quella guerra civile che sta scatenando CESARE e POMPEO, è necessario
tornare indietro e raccontare le vicende gloriose e drammatiche, di un'altra guerra, senza la quale Cesare
non avrebbe acquistato quel prestigio e quella forza che dovevano farlo diventare padrone della Repubblica.
La guerra della conquista della Gallia.
Questa guerra è quella che procurò a Roma il dominio della Gallia Transalpina.
La regione che va sotto questo nome era limitata ad occidente e a settentrione dall'Oceanus Atlanticus,
dall'Oceanus Britannicus e dal Fretum Gallicum; ad oriente dal corso del Reno e dalle Alpi occidentali; a
mezzogiorno dalla catena dei Pirenei e dal Sinus Gallieus, comprendeva la Francia, la Svizzera, il Belgio e i
paesi Bassi ed era abitata dalle tre grandi famiglie dei Celti, dei Belgi e degli Aquitani.
Una parte di questa regione, confinante con l'Aquitania, i Pirenei, il "Mare Internum" le Alpi, 1'Helvetia e la
Gallia Celtica, era già in potere dei Romani e costituiva la Provincia Narbonese; tutto il resto era libero.
Numerosi e frequenti erano i rapporti tra i Romani della provincia e la Gallia indipendente, rapporti di
commercio soprattutto, perché il paese era ricco e l'agricoltura vi era sviluppata e comode erano le vie di
comunicazione, specie le fluviali, né le popolazioni erano prive di una certa civiltà. Queste, infatti, vivevano in
villaggi e in città murate, già esercitavano un attivo commercio con le isole britanniche; la loro costituzione
politica era abbastanza progredita e la religione, sebbene non disdegnasse i sacrifici umani, era regolata da
leggi ed amministrata da sacerdoti, i DRUIDI, che formavano una casta potentissima.
I motivi che indussero CESARE a chiedere il governo della Gallia non si devono ricercare, come alcuni
storici hanno fatto, nel proposito di procacciarsi denaro, uomini e gloria, coefficienti principali semmai delle
successive lotte per il primato nella Repubblica. Cesare da un canto voleva un governo che non l'obbligasse
a rimaner troppo lontano da Roma, la cui vita politica intendeva diligentemente sorvegliare; dall'altro, per
essere lui già stato due volte nella Spagna, aveva avuto notizie, dai commercianti della Narbonese, della
ricca regione gallica ed aveva capito quanto più importante di quello della penisola iberica fosse il possesso
della vicina Gallia.
I motivi che spinsero Roma a permettere a CESARE la conquista della Transalpina vanno invece ricercati
nella necessità di render sicure le frontiere della Provincia Narbonese e, per quanto ne dica il contrario
qualche storico, di parare la minaccia gravissima delle popolazioni germaniche.
Cesare ritardò solo di qualche secolo, l'invasione in Italia dei "barbari". Già con i Cimbri - e lo abbiamo visto
nelle precedenti puntate- il pericolo di un insediamento nella pianura Padana, dalla Carnia fino a Vercelli, era
già reale.
Dopo la disfatta ai Campi Raduni dei Cimbri, pochi anni dopo, iniziarono altri tentativi a sud di valicare le
Alpi, ad ovest di passare il Reno, ad est di passare il Danubio; e le migrazioni da nord verso sud non solo
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erano numerose, ma erano imponenti, interi popoli si muovevano da una regione all'altra, cercando pascolo
brado, insediamenti fertili, climi migliori.
Abbiamo detto sopra che nella Gallia Transalpina, era già in potere dei Romani la Provincia Narbonese. Ma
proprio le frontiere della Narbonese, da qualche tempo correvano il pericolo di essere oltrepassate dagli
Elvezi che stavano iniziando una migrazione in massa.
Anche gli Elvezi, erano un'antica popolazione celtica stanziata tra l'odierna Svizzera e la Germania. Erano
divisi in tante tribù, una delle quali si era unita ai Cimbri durante la loro invasione nel 111 a.C. (anni in cui
erano riusciti ad occupare territori dalla valle del Rodano fino al Norico e Carnia).
Ma in questi anni, la minaccia più consistente, sia per gli stessi Elvezi, sia per la Narbonese era
rappresentata dai Germanici e dal contegno di un loro principe svevo di nome ARIOVISTO.
Ecco quali erano le condizioni della Transalpina quando Cesare assunse il governo della Provincia
Narbonese, della Cisalpina e dell' Illiria. Gli Arverni e i Sequani, cui gli Edui ostacolavano la navigazione sul
Liger e sull'Arar si erano alleati contro il comune nemico ed avevano chiesto l'aiuto del re svevo Ariovisto,
che intervenuto nel 61, aveva sconfitto gli Edui, ma in compenso aveva reclamato un terzo del territorio dei
Sequani, i quali rifiutarono; poi di fronte alla minaccia dell'invadente popolo germanico si erano rappacificati
con gli Edui ed avevano con questi ultimi deciso di far guerra ad Ariovisto.
Ma sull'Arar ai due alleati toccò una grave sconfitta, ed impotenti a fronteggiare 1'imponente invasione sveva
avevano inviato a Roma il loro re DIVIZIACO ad invocare il soccorso della Repubblica.
Anche gli Elvezi, che abitavano la zona già accennata sopra, impauriti dalla vicinanza degli Svevi dopo
quelle vittorie sugli Edui e Sequani, avevano deciso di lasciare il proprio paese e, bruciati quattrocento
villaggi, si accingevano ad emigrare nel territorio dei Santoni, attraversando le terre degli Allobrogi
appartenenti alla Narbonese.
Roma, alla notizia dell'emigrazione degli Elvezi, il cui numero ascendeva a trecentosessantottomila persone
di cui novantaduemila in grado di combattere, accolse la domanda di Diviziaco. Fu forse per questa
situazione minacciosa alle frontiere della provincia gallica che il Senato diede il governo a Cesare, oltre la
Cisalpina e l'Illiria, con l'aggiunta di una legione.
Quando Cesare si recò nella Narbonese non disponeva che di questa sola legione e gli Elvezi si erano
radunati alle rive del lago Lemano per iniziare da quel punto non una guerra ma la loro migrazione nei
territori ancora liberi. E chiesero a Cesare che lasciasse loro libero il passo attraverso il territorio degli
Allobrogi. Cesare, che si trovava accampato presso Genava (Ginevra), astutamente si riservò di dare una
risposta, ma solo dopo quindici giorni.
In questo tempo approfittò per costruire tra il lago e il Giura una consistente trincea della lunghezza di
ventotto chilometri.
Gli Elvezi tentarono in più punti di oltrepassare quell'ostacolo, ma riuscirono vani i loro sforzi, ed allora
stabilirono di recarsi nel territorio da loro prescelto a nuova sede attraverso il paese dei Sequani, i quali,
pregati da DUMNORIGE, fratello di DIVIZIACO re degli Edui, accordarono il permesso.
CESARE, incoraggiato dal contegno degli Edui, che erano ostili agli Elvezi, inseguì questi ultimi e li
raggiunse presso Trévoux. Il grosso dei nemici aveva già passato 1'Arar. Cesare assalì la retroguardia e la
sconfisse, poi con sorprendente celerità passò il fiume e si diede a seguire gli altri. Rimasto però senza
vettovaglie, deviò verso il territorio degli Edui per procurarsene e gli Elvezi, credendo che i Romani si erano
dati alla fuga, li seguirono.
Cesare, giunto a Bibracte, prese posizione sul colle di Beuvray e qui, schierati gli uomini a battaglia, attese il
nemico che non tardò a comparire.
Gli Elvezi non si aspettavano di trovare i Romani preparati e, accolti da un nugolo di frecce, prima si
scompigliarono, poi quando Cesare piombò con le sue truppe al piano e la battaglia diventò furiosa. Il
combattimento durò dal mezzogiorno alla sera e terminò con la completa vittoria dei Romani.
Le famiglie dei morti ed i superstiti furono obbligati a ritornare nel territorio che avevano abbandonato, tra i
laghi di Ginevra e Costanza, il Giura e le Alpi (dove da allora continueranno a viverci).
Scomparso, dopo la giornata di Bibracte, il pericolo elvetico, Cesare rivolse la sua attività a frenare i
progressi degli Svevi e a limitare la loro potenza. A far questo lo spingevano i capi delle tribù celtiche che nei
Romani vedevano dei liberatori.
GIULIO CESARE, che finora lui e le sue truppe non hanno mai incontrato i Germani, invitò per mezzo di
ambasciatori ARIOVISTO ad un colloquio per discutere della questione e sistemazione della Gallia; ma il
principe svevo che non conosceva ancora la forza delle armi della Repubblica e contava molto sulle sue
dopo i successi riportati sugli Edui e i Sequani, rispose altezzosamente che se il capo dei Romani aveva
bisogno di lui di andare a trovarlo; inoltre aggiungeva che non riusciva a comprendere perché Roma voleva
occuparsi delle cose della Gallia e dei Germani, e che le questioni interne del loro paese le risolvevano da
soli; insomma di non ingerirsi in altrui affari.
A questa risposta Cesare, che già aveva concepito il disegno di conquistare il paese, ordinò ad Ariovisto di
restituire agli Edui gli ostaggi e di non far venire di qua dal Reno altre orde germaniche; ma, come era da
aspettarsi, Ariovisto sfidò i Romani a misurarsi con lui e ad imporgli, se ne avevano il coraggio, con le armi
quelle condizioni.
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Cesare per nulla intimorito, non perse tempo ed alla testa delle sue legioni marciò verso il Reno. Appreso
che il nemico avanzava in direzione di Vesonzio (od. Besancon), capitale dei Sequani, situata sul fiume
Dubis, anticipò Ariovisto e, nell'agosto del 58, occupò la città, prima che vi giungessero le avanguardie
germaniche dall'altra sponda del Reno.
La campagna di CESARE contro gli Svevi cominciava felicemente. Ad un tratto però lo scoraggiamento
s'impadronì del suo esercito. Giungevano le prime notizie chi veramente erano i Germani; i Celti che
avevano avuto a che fare con loro descrivevano l'alta statura degli Svevi, il loro aspetto truce, la loro forza
immensa, la ferocia del loro animo. Fu tanto lo spavento nelle file dei legionari che se in quel momento
fossero comparse le orde di Ariovisto nessuno dei Romani sarebbe rimasto a far fronte ai barbari.
Cesare seppe spazzar via dagli animi dei suoi soldati la paura e far rinascere il coraggio e suscitare la voglia
di battersi. Radunati tutti i centurioni, li rimproverò aspramente, così come solo lui sapeva rimproverare, poi
disse loro che se le altre truppe si fossero rifiutate di seguirlo egli sarebbe andato avanti lo stesso con la sola
X Legione, che era la sua guardia fedele, indomita ed invincibile (composta quasi tutta da Venedi (della
Venezia e dell'Istria), popolo fiero e possente. Queste lodi del generale commossero i soldati della X
Legione, i quali espressero a Cesare per mezzo dei loro ufficiali la propria gratitudine e gli fecero sapere che
erano pronti a seguirlo ovunque. Umiliati dal contegno dei loro commilitoni, gli altri frustrati soldati vollero
emularli e chiedendo scusa a Cesare, si dichiararono disposti a marciare contro i Germani.
Messosi in cammino, dopo una settimana l'esercito giunse nelle vicinanze del Reno. Alla vista delle legioni
ARIOVISTO perse la spavalderia che gli aveva suggerite le precedenti altezzose risposte e si dichiarò
pronto ad un colloquio con il proconsole romano.
Il 2 settembre di quell'anno (58) il generale romano e il duce degli Svevi s'incontrarono sopra un'altura che
sorgeva tra i due accampamenti e CESARE che intimava allo Svevo di sgombrare la Gallia, ARIOVISTO
rispose che non avrebbe mai lasciato un territorio conquistato con le armi.
Fu allora deciso dal Romano di risolvere la questione con una battaglia. Ma Ariovisto non aveva fretta; lui
aspettava il novilunio, che doveva avvenire il 18 di quel mese, per attaccare i Romani perché le sue
sacerdotesse gli avevano assicurato che la vittoria sarebbe stata sua se non avesse dato battaglia prima
che nel cielo si mostrasse l'arco della luna.
Cesare invece lo costrinse a combattere il giorno 10, e diviso il suo esercito in due parti, una, composta di
due legioni, la mandò ad accamparsi alle spalle dei barbari, l'altra, di sei legioni, la tenne con sé pronta ad
intervenire. Ariovisto non riuscì a resistere alla tentazione di assalire la prima, ma dovette subito misurarsi
anche con l'altra sollecitamente accorsa.
La battaglia allora divenne generale e da ambo le parti si combatté con il più grande accanimento; i Germani
con la superiorità del numero riuscirono in un primo tempo a mettere in crisi l'ala sinistra romana, ma questa,
subito soccorsa dalle riserve comandate dal luogotenente PUBLIO CRASSO, figlio del triumviro, prese il
sopravvento e la giornata terminò con la completa disfatta degli Svevi, che, sbaragliati, si diedero ad una
fuga disordinata.
Pochissimi riuscirono a raggiungere la riva destra del Reno e fra questi ARIOVISTO che morì non molto
tempo dopo per le gravi ferite riportate.
Caddero in tal modo, nel primo anno di guerra, sotto il dominio di Roma, oltre che le tribù celtiche della
Gallia orientale, anche le numerose tribù germaniche che si erano stabilite alla sinistra del Reno e Cesare,
lasciato nella Gallia il luogotenente LABIENO, scese nella Cisalpina.
Qui però ben presto gli giunse la notizia che le tribù belgiche della Gallia settentrionale, temendo di cadere
sotto il dominio dei Romani, si erano alleate tra loro ed avevano messo in armi un esercito di circa
trecentomila uomini affidandone il comando a GALBA, re dei Suessioni.
I Belgi erano tra i Galli le popolazioni più bellicose, contro le quali Cimbri e Teutoni avevano invano cozzato.
Perciò Cesare formò in Italia altre due legioni e nella primavera del 57 a.C. con un esercito di sessantamila
uomini si pose in marcia contro i nuovi nemici.
LA CONQUISTA DELLA GALLIA CESARE OLTRE IL RENO E IN BRITANNIA
La nuova guerra ebbe inizio con un successo romano. I Remi (stanziati tra il Reno, la Mosa, l'Atlantico e la
Scheda) nei primi giorni del giugno del 57, sbigottiti dall'arrivo di Cesare, fecero presto atto di sottomissione
e si dichiararono disposti a fornirgli le vettovaglie necessarie.
Ma questo primo successo non rendeva meno difficile la guerra, nella quale i Romani si trovavano in
condizioni d'inferiorità numerica. Cinque volte superiore era infatti l'esercito dei confederati Belgi e Cesare si
vide costretto a chiedere l'aiuto degli Edui.
Assicuratosi il concorso del re DIVIZIACO, il generale romano se ne servì per infrangere la confederazione
nemica mandando gli Edui nel territorio dei Bellovaci. Il suo scopo fu pienamente raggiunto: i Bellovaci
infatti, appena appresero che il loro paese era stato invaso dal nemico, si staccarono dalla lega e corsero a
difendere la loro terra.
GALBA il re dei Sessioni investiva intanto con il suo esercito Bibrag, città dei Remi, e vi subiva un cruento
scacco. Gli abitanti con vigorose sortite, aiutati dalla cavalleria romana prontamente inviata da Cesare,
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respinsero il nemico infliggendogli gravi perdite. Altra e non meno sanguinosa sconfitta dei Belgi gli toccò
sull'Agona mentre tentavano di passare il fiume, e questa sconfitta suscitò in loro tale sbigottimento che la
lega si sciolse e le varie tribù belgiche rientrarono nei propri territori.
Cesare approfittò di questo fatto per combattere ad una ad una le tribù nemiche.
Il suo compito non fu difficile: maggiore resistenza di tutti opposero i Suessioni, ma, caduta Noviodonum,
loro capitale, tutto il paese fu sottomesso e costretto a consegnare le armi e numerosi ostaggi fra cui i figli
del re GALBA; gli altri, scoraggiati, non tentarono che una scarsa difesa e in pochi giorni anche il paese dei
Bellovaci e degli Ambiani consegnò le armi e diede ostaggi.
Allora Cesare rivolse il suo esercito contro i paesi del nord e dell'est; ma questi, di fronte al pericolo romano
che li minacciava, avevano formato una lega in cui erano entrati gli Atrebati, i Viromandui, i Nervi e gli
Aduatuei.
Questi ultimi discendevano dai Cimbri e dai Teutoni; rimasti sulla sinistra del Reno alla custodia dei bagagli
pesanti, si erano, dopo le due famose battaglie di Aquae Sextiae e dei Campi Raudii, rifugiati nella regione
dell'Alta Mosa e vi avevano stabilita la loro sede.
Oltre sessantamila uomini erano stati messi in arme ed erano corsi sulla riva destra della Samara per
impedire a Cesare di uscire dal paese degli Ambiani.
Il terreno si prestava agli agguati con le paludi e i colli rivestiti di folti boschi. In mezzo a queste selve si
nascosero i confederati aspettando il momento opportuno per assalire i Romani.
Era il luglio del 57 quando Cesare comparve sulle alture che sorgono alla sinistra della Samara. I Romani
affaccendati a costruire le difese dell'accampamento, non sapevano che il nemico fosse così vicino e che
stava spiandoli, di modo che quando i Nervii, gli Atrebati e i Viromandui, passato rapidamente il fiume,
piombarono sull'esercito di Cesare, questo che non si aspettava un assalto, fu colto impreparato.
Eppure i Romani non si persero d'animo e, arginata alla meglio la furia del nemico, schierarono
frettolosamente a battaglia le legioni, che in breve furono impegnate in un accanito corpo a corpo.
Nonostante l'attacco improvviso e la superiorità numerica dei barbari, i Romani non si lasciarono sopraffare
e, combattendo prima con le spade, passarono ben presto all'offensiva.
Già il centro e l'ala destra dell'esercito di Cesare hanno respinto le schiere degli Atrebati e dei Viromandui;
già la vittoria pare premiare i Romani; ma ecco, ad un tratto, giungere le masse innumerevoli dei Nervii che
premono con il peso delle loro forze l'ala sinistra; i legionari resistono abilmente, ma gli urti nemici si ripetono
sempre più forti e spezzano la resistenza dei Romani.
La XII legione è la più provata; della quarta coorte i centurioni sono stati tutti uccisi, il vessillifero è caduto e
l'insegna è passata nelle mani del nemico; pochi i centurioni delle altre coorti sono ancora vivi; e intanto i
nemici incalzano da tutte le parti.
Cesare capisce che se la sua sinistra è vinta la giornata è perduta; e invece bisogna resistere e vincere;
strappa di mano lo scudo ad un sodato, avanza intrepido tra le prime file, chiama per nome i centurioni, e
ordina ai manipoli di allargarsi e di passare al contrattacco. I soldati sono rianimati dalla voce del generale; la
X Legione vede Cesare in mezzo a loro, nella battaglia ad affrontare anche lui il pericolo, si esalta e si
precipita da un'altura giù come una valanga, e giunta al piano, con l'impeto simile a una tempesta piomba su
i Nervii. La presenza dell'eroico duce ha fatto il miracolo, l'ala sinistra è salva e i Nervii sono respinti,
sgominati, massacrati. Di sessantamila, quanti erano i barbari, solo cinquecento sopravvivono all'orrenda
strage.
Restano ancora gli Aduatuci, che, appresa la rotta e la mala sorte dei confederati, si asserragliano a
Namurcum. Giulio Cesare non perde tempo; mentre il suo legato Publio Crasso con la VIII legione combatte
nell'Armorica, lui con le altre sette marcia su Namurcum e stringe d'assedio la città.
Chiusi da ogni parte, gli Aduatuci non resistono a lungo e infine si arrendono e Cesare, cui non fa difetto la
magnanimità, questa volta si mostra invece spietato con i vinti, per punirli di aver violata la fede giurata.
Cinquantatremila Aduatuci sono pertanto venduti come schiavi. Nel frattempo Crasso ha imposto con le armi
la sovranità della Repubblica a tutte le popolazioni marittime abitanti tra la Sequana e il Liger.
A Roma la notizia che Cesare ha sottomesso la Gallia belgica e gran parte della celtica suscita grandi
entusiasmi nel popolo e il Senato decreta in onore del generale vittorioso la "supplicatio" per la durata di
quindici giorni.
L'anno dopo (56 a.C.) scoppiò di nuovo la guerra nell'Aimorica. Si trovava Cesare nell'Illiria quando gli
giunse la notizia che tutti i popoli del litorale dell'Atlantico soggiogati da Crasso si erano ribellati e i Veneti,
potente popolazione dell'Armorica, fornita di numerosissime navi, avevano fatto prigionieri i messi inviati da
Crasso a chiedere vettovaglie.
Le misure adottate dal proconsole per domare la rivolta furono rapide ed energiche
PUBLIO CRASSO fu mandato con una legione e due coorti nell'Aquitania; SABINO con tre legioni fu inviato
nell'Armorica settentrionale; DECIMO GIUNIO BRUTO con la flotta fu destinato contro i Veneti.
Le operazioni di guerra non ebbero lunga durata e furono coronate dal miglior successo. Crasso si rese
padrone dell'Aquitania fino allora rimasta indipendente e Sabino ridusse in suo potere le regioni bagnate
dalla Manica; Bruto, presso la punta chiamata oggi di S. Giacomo, diede battaglia alla flotta dei Veneti e la
sbaragliò. Essendo stati quindi espugnati i numerosi castelli della costa brettone, i Veneti si arresero e
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Cesare, che non soleva perdonare ai ribelli, li punì con estrema severità facendo uccidere i capi e vendendo
come schiavi gli abitanti della regione.
Tutta la Gallia era ormai sotto il dominio di Roma, ma gli abitanti erano animati dal desiderio di riacquistare
l'indipendenza perduta e quando seppero che un'orda di Germani, passato il Reno, era penetrata in Gallia,
pur di scuotere il giogo dei Romani si affrettarono a richiedere il loro aiuto contro le legioni di Cesare.
Questi nuovi barbari erano i Tencteri e gli Usipeti. Premuti dagli Svevi, sul finire del 56 a.C., avevano
superato il basso corso del Reno ed avevano invaso il territorio dei Menapi che essendo pochi, non avevano
saputo opporsi a quella moltitudine di Germani che contava più di mezzo milione di persone tra uomini e
donne.
Cesare non poteva rimanere impassibile di fronte a questa minacciosa invasione che ricordava quella dei
Cimbri e dei Teutoni. Prima che dilagassero verso il sud, marciò con sorprendente celerità, contro i Germani
con il proposito di dare loro battaglia e ricacciarli oltre il fiume. I barbari, che non si aspettavano di trovarsi di
fronte all'esercito romano, sorpresi ed atterriti dal suo arrivo, inviarono ambasciatori a Cesare pregandolo
che acconsentisse che si stabilissero nel territorio dei Menapii ed offrendo a Roma la loro alleanza.
Cesare però rispose loro di ripassare subito il Reno e di cercare una sede nel paese degli Ubii, i quali
avevano pure loro sollecitato l'aiuto dei Romani contro gli Svevi. Gli ambasciatori assicurarono che
avrebbero riferito ai loro capi le parole di Cesare. Senza dubbio, i barbari volevano guadagnar tempo per
prepararsi alla lotta, e aspettare il ritorno della propria cavalleria che si era recata in cerca di vettovaglie oltre
la Mosa nel paese degli Ambivariti; ma Cesare non volle esser tratto in inganno ed anziché aspettar la
risposta degli ambasciatori continuò la marcia verso il Reno ed andò ad accamparsi ad una dozzina di miglia
dagli alloggiamenti dei Germani.
Qui giunsero a trovarlo i messi dei Tencteri e degli Usipeti con la risposta dei loro capi. Si dichiaravano
disposti a recarsi nel paese degli Ubii, ma volevano esser sicuri che sarebbero stati ricevuti. Domandavano
pertanto tre giorni di tregua per avere il tempo di spedire agli Ubii un'ambasceria.
Cesare concesse un solo giorno; ma la tregua fu rotta da un corpo di cavalieri barbari, che, assalita
improvvisamente l'avanguardia romana, le causarono perdite rilevanti.
Il giorno dopo i capi dei Germani vennero da Cesare a chiedergli scusa di quell'attacco che affermavano di
non avere ordinato, però furono trattenuti come prigionieri e il proconsole piombò alla testa delle sue legioni
contro l'orda dei Teneteri e
degli Usipeti, i quali, colti alla sprovvista, non tentarono neppure di resistere. Fu una vera strage di barbari; il
loro campo facilmente conquistato; il tratto tra la Mosella e il Reno si coprì di cadaveri e le acque dei due
fiumi furono arrossate dal sangue dei Germani.
Più tardi, giunta a Roma la notizia di queste battaglie, CATONE levò alta la voce contro Cesare per aver
violata la tregua e imprigionati i capi nemici, e propose che il proconsole fosse consegnato ai superstiti di
quei due popoli!
Cesare intanto faceva costruire sul Reno, tra Bonn e Coblenza, un ponte, non lontano dalla confluenza con
la Mosella, risoluto a portar la guerra nella Germania per tenere in rispetto quei barbari ed impedire ulteriori
invasioni della Gallia.
Il ponte fu ultimato in dieci giorni e al termine, le legioni romane lo attraversarono e comparvero nel territorio
dei Sigambri.
Correva l'anno 55 a.C., ed era la prima volta che popoli civili oltrepassavano il Reno, quella paurosa barriera
che si riteneva insuperabile; e ponevano il piede nella misteriosa e temuta Germania.
Cesare sperava che i barbari l'avrebbero assalito; invece i Sigambri, al comparire delle legioni, si rifugiarono
nelle dense foreste che coprivano il loro paese; e il proconsole forse per prudenza, non volle inseguirli in
quei boschi dove non sarebbe stato facile guardarsi dalle insidie.
Diciotto giorni rimase Cesare sulla riva destra del Reno, poi ripassò il fiume e tagliò il ponte.
L'anno dopo, nel 54 a.C., il gran capitano si accinse ad un'impresa ardita, a portare cioè le sue armi oltre il
"Fretum Gallicum", nella Britannia, dove i Romani credevano che abitassero gli ultimi uomini del mondo.
Fu scritto che della Britannia, Cesare volesse fare una provincia romana e con il passaggio del Reno
intendesse iniziare la conquista della Germania. Due imprese fallite dunque. Invece le spedizioni oltre la
Manica ed oltre il Reno non furono spedizioni di conquista. Se avesse avuto l'intenzione di conquistar la
Germania noi non sapremmo spiegarci il suo ritorno effettuato senza aver prima tentato di ingaggiare
battaglia con i Sigambri.
Nella Britannia lo spingeva il proposito di punire quelle popolazioni che più di una volta avevano recato aiuto
ai Celti della Gallia e lo spingeva pure il desiderio di conoscere una regione di cui fino allora si avevano
notizie scarse ed incerte.
Cesare salpò da Itio (Boulogne) con due legioni imbarcate su ottanta navi, lasciandosi dietro la cavalleria
che doveva raggiungerlo più tardi.
Nella Britannia era atteso dalle popolazioni che, saputa la sua partenza, si erano levate in armi
raccogliendosi sui colli di Dubris per impedire lo sbarco dei Romani.
Cesare giunse alle coste britanniche nell'agosto del 54 a.C. e nonostante la fiera molestia dei nemici riuscì a
sbarcare; anzi gli isolani, dopo l'inutile tentativo fatto per impedire l'approdo, inviarono al proconsole
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proposte di pace e promisero ostaggi, poi, incoraggiati dall'esiguo numero dei legionari, ripresero le armi e
costrinsero Cesare ad aprirsi il passo con la forza.
Erano da poco state riprese le ostilità quando una furiosa tempesta distrusse parte della flotta romana e
costrinse la cavalleria che si era imbarcata a fare precipitoso ritorno ad Itio.
Minacciato Cesare dalla furia del mare di restare sull'isola privo di rifornimenti e rimasto anche senza cavalli,
decise di rimandare la progettata spedizione nell'interno a migliori tempo e, imbarcatosi non appena il mare
glielo permise, il 12 settembre fece ritorno alla costa gallica.
Prima di recarsi nella Cisalpina, Cesare ordinò ai suoi luogotenenti di allestire, durante l'inverno, una flotta di
ottocento navi e nella primavera del 54 a.C., quando tutto fu pronto, ritornò nella Transalpina.
La partenza per la Britannia avvenne nel giugno. L'esercito di Cesare si componeva di cinque legioni e
duemila cavalli. Con forze così imponenti che Cesare sbarcò senza che il nemico ostacolasse le operazioni,
poi s'inoltrò verso l'interno dove si erano ritirati gli isolani.
Ma un'improvvisa tempesta lo costrinse a ritornar sulla costa dove già quaranta delle sue navi si erano
infrante sulla scogliera. Fatti riparare i danni che numerosi navigli avevano subito, dopo circa quindici giorni il
proconsole fece ritorno sui suoi passi.
In questo frattempo gl'isolani si erano preparati a sbarrare la via agli invasori. Alle tribù della Britannia
meridionale si erano aggiunte le fortissime tribù dei Trinobanti e dei Catavellauni, che abitavano di là dalla
Tamesa (Tamigi), e il comando era stato affidato a CASIVELLAUNO, capo di quest'ultima tribù.
Invece di rivolgere i suoi sforzi sul campo nemico, Cesare forzò il passaggio del Tamigi al di sopra del luogo
in cui oggi sorge Londra e, sconfitti due volte gl'isolani, costrinse Casivellauno a chiedere la pace, a dare
ostaggi e ad impegnarsi al pagamento di un tributo annuo.
Così ebbe termine la spedizione nella Britannia. Con questa terminava pure il quinquennio del proconsolato
di Cesare. Sua figlia Giulia moriva nell'agosto di quell'anno; CRASSO era partito per la sua fatale spedizione
di Siria; POMPEO aveva stretto segreti accordi con il Senato. A Cesare era già stato prorogato per altri
cinque anni il Governo delle Gallie e, assoggettate le regioni degli Aquitani, dei Celti e dei Belgi, allontanato
con le spedizioni oltre il Reno e oltre la Manica, il pericolo d'invasioni, pensava il proconsole di rivolgere tutta
la sua attività a dare definitivo assetto alla nuova, immensa provincia che il suo genio aveva conquistata alla
patria. Era invece destino che le armi non dovessero cedere il campo alle opere feconde della pace e che
altre guerre più accanite dovessero mettere a dura prova il valore dei Romani e il genio guerriero del grande
capitano.
VERCINGETORIGE E LA RIVOLTA DEI GALLI
Nella Gallia belgica scoppia, sul finire dell'anno 54 a.C., una gravissima rivolta. I Belgi, insofferenti del giogo
straniero, approfittano del frazionamento delle forze romane per muovere alla riscossa. Inizia questa guerra
per l'indipendenza AMBIORIGE, audace e valoroso capo degli Eburoni, il quale sorprende ad Aduatuca il
campo di SABINO ed uccide il luogotenente distruggendo una legione e mezza di soldati romani.
Imbaldanzito dal successo, Ambiorige ribella gli Aduatuci, i Menapii e i Nervi e, radunato un esercito di
sessantamila uomini, piomba sul campo di QUINTO CICERONE, fratello dell'oratore, a Charleroy sul fiume
Sabis e, non avendo potuto conquistarlo, lo mette sotto assedio.
In aiuto del suo luogotenente accorre però Cesare con soli settemila fanti e quattrocento cavalli. I Romani e i
Galli si scontrano sulle rive dell'Haine e impegnano una furiosa battaglia.
Sette volte superiore di numero è l'esercito di Ambiorige, tuttavia GIULIO CESARE infligge una dura
sconfitta al nemico, poi raduna a Samarobriva, nel paese degli Ambiani, i rappresentanti delle varie tribù
belgiche e, siccome i Senoni, i Carnuti e i Treviri rifiutano di partecipare all'assemblea, muove contro i due
primi popoli, che, impreparati, al loro apparire subito si sottomettono e consegnano la propria cavalleria e
numerosi ostaggi; poi manda contro i Treviri il luogotenente LABIENO, il quale, ingaggiata battaglia con i
ribelli sull'Ourthe, li sconfigge.
Congiuntosi con Labieno, Cesare passa per la seconda volta il Reno (53 a.C.), caccia i Germani nelle loro
selve, poi torna in Gallia, costruisce un campo trincerato sulla sinistra del fiume e si rivolge contro gli Eburoni
e con dieci legioni invade il paese di Ambiorige.
Il proconsole vuol dare un esempio ai Galli, perciò si mostra spietato con il nemico; non è più un esercito
scagliato contro un altro esercito, ma una furia distruttrice di ogni cosa; l'intero paese è messo a ferro e a
fuoco e le popolazioni sono terribilmente decimate. Ambiorige però riesce a scampare con la fuga oltre il
Reno.
Dopo la devastazione della regione degli Eburoni, Cesare riunisce a Durocortorum, nel paese dei Remi, i
rappresentanti dei vari popoli per giudicare i capi della rivolta. Accone, capo dei Senoni è condannato a
morte e giustiziato davanti all'assemblea; altri, temendo di subire la medesima sorte, scappano e sono
condannati al perpetuo esilio.
Avvicinandosi l'inverno, il proconsole colloca le legioni nei quartieri e si reca nella Cisalpina per sorvegliare la
vita politica romana delle varie fazioni.
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Ma Cesare è appena partito che i Carnuti levano il grido della ribellione e il grido con la rapidità del baleno si
propaga nel centro e nel sud della Gallia fino al paese degli Arverni con la notizia dell'eccidio di alcuni
commercianti romani avvenuto a Genabum (Orléans). Gli Arverni sono oppressi dal dispotico governo di una
oligarchia che con il consenso dei Romani ha deposto il re.
Il grido ribelle dei Carnuti ha grande risonanza fra gli Arverni, che, decisi ad abbattere il governo e liberarsi
dalla dominazione straniera, rispondono all'appello dei fratelli del nord. Anima della rivolta è un giovane
guerriero di sangue regale, chiamato VERCINGETORIGE, che in brevissimo tempo solleva la regione e,
presentatosi con un gran numero d'armati sotto le mura della capitale Gergovia (od. Clermont) se ne
impadronisce ed è proclamato re.
Tutte le popolazioni delle regioni comprese tra il corso della Senna e quello della Garonna, tra l'Atlantico e il
Liger, aderiscono a Vercingetorige, che riunisce in breve sotto il suo comando, uno sterminato esercito.
Avuta notizia della rivolta, Cesare si affretta a lasciare la Cisalpina. Recatosi nella Provincia Narbonese, la
rafforza con una guarnigione, poi nel rigore dell'inverno 52-51, attraversa con la cavalleria le Cevenne
coperte di neve, penetra improvvisamente nell'Arvernia e la devasta.
Vercingetorige si trova fra i Biturigi. Avendo saputo della comparsa del proconsole, scende in soccorso del
proprio paese, ma Cesare non lo aspetta; attraversato il territorio degli Edui che sono rimasti fedeli a Roma,
si ricongiunge con le sue legioni distribuite nei quartieri invernali dei Senoni, dei Lingoni e dei Treviri.
Ha inizio ora l'epica lotta per l'indipendenza gallica, che si risolverà in un'immane tragedia.
Vercingetorige non è un uomo comune; all'audacia e al personale valore egli accoppia la genialità del
comando. Delle sue orde fa un esercito disciplinato, raduna una numerosa cavalleria, che in poco tempo
supera negli effettivi quella romana, e invece di affrontare il nemico in campo aperto dove potrebbe subire
rotte irreparabili, adotta una tattica speciale che è quella di affamare l'esercito di Cesare incendiando gli
abitati e di fortificare e difendere le città che offrono maggiore probabilità di resistenza.
I Galli, che hanno un'infinita fiducia nel loro capo, sacrificano le loro case; tutta la Gallia centrale ed
occidentale è un vasto incendio; nel solo paese dei Biturigi, venti città ardono. Anche la grande Avarico è
destinata alle fiamme, ma gli abitanti promettono di fortificarla e difenderla fino all'ultimo ed ottengono che
non sia distrutta.
Di fronte a un nemico così numeroso e risoluto, guidato da un capo tanto prudente, Cesare prende le misure
necessarie. Alla cavalleria gallica oppone oltre che la romana, corpi di cavalieri germanici appositamente
arruolati, poi, saputo che Vercingetorige è penetrato nel territorio degli Edui e cinge d'assedio Gorgobina,
lascia ad Agedincum nel paese dei Senoni i bagagli sotto la custodia di due legioni e con le altre otto punta
verso i Carnuti.
Durante il cammino espugna Vellaunodunum; raggiunto il Liger penetra in Genabum e la distrugge per
vendicare l'eccidio dei commercianti romani, poi, passato il fiume, si dirige verso il territorio dei Biturigi,
conquista Noviodunum (Soissons) e muove contro Avarico. L'avvicinarsi di Cesare ha per effetto la
liberazione di Gorgobina. Vercingetorige difatti toglie l'assedio dalla città e marcia con le sue truppe contro
Cesare, che ha già investito da ogni parte Avarico.
Il pronto accorrere del capo dei Galli non salva però la misera città. Vercingetorige si accampa a sedici
miglia, in una posizione già forte per natura ma resa inespugnabile con numerosi trinceramenti ed assiste
all'eroica difesa di Avarico (Bourges).
Circondata dalle legioni romane, tormentata giorno e notte da potenti macchine guerresche, Agarico resiste
accanitamente al nemico e tenta più di una volta di rompere il cerchio di ferro, che la stringe, con audaci
sortite.
Ma dopo un mese di tenace difesa l'infelice città cade in mano dei Romani: Cesare, approfittando di una
furiosa tempesta, sferra un poderoso assalto e si rende padrone di Avarico, che in punizione della sua
ostinata resistenza é messa a ferro e a fuoco. Di quarantamila abitanti solo ottocento riescono a salvarsi
rifugiandosi nel vicino campo di Vercingetorige.
Nella primavera del 51. Cesare, espugnata Avarico, si reca nel territorio dei fedeli Edui, a Decezia, e
ingrossato il suo esercito con alcune schiere fornitegli da quel popolo, lo divide in due parti: una, di quattro
legioni, al comando di Labieno la manda verso Lutetia Parisiorum, sulla Sequana, con l'altra, composta di sei
legioni, penetra nell'Arvernia e si dirige sulla capitale Gergovia costeggiando l'Elaver.
Ma su Gergovia si dirige anche Vercingetorige, il quale, giunto nelle vicinanze della città, si accampa sopra
un colle e vi si fortifica.
Cesare cerca di porre termine alla guerra con un assalto di sorpresa al campo nemico, ma i Galli vigilano e
respingono con gravissime perdite gli assalitori: moltissimi Romani sono uccisi, quarantasei centurioni
perdono la vita nella battaglia, e lo stesso Cesare per poco non resta ucciso pure lui.
Pare che la fortuna abbia abbandonato il proconsole. Allo scacco presso Gergovia si aggiungono le notizie
che giungono dal paese dei Parisii, dove LABIENO, bloccato da forze superiori, si trova in difficilissime
condizioni.
Allora Cesare lascia l'Arvernia e a marce forzate si incammina verso il territorio dei Lingoni e dei Senoni per
portare aiuto al suo luogotenente. La sua partenza precipitosa, scambiata per fuga, gli procura l'abbandono
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degli Edui, rimastigli fino allora fedeli, che fanno causa comune con Vercingetorige. Questi, imbaldanzito dal
recente successo, muove verso il sud con il proposito di invadere la Provincia Narbonese.
Intanto Cesare prosegue la sua marcia verso il nord. Giunto ad Agendinco, vi trova una buona notizia:
LABIENO ha sconfitto sulla riva destra della Sequana un forte esercito di ribelli capitanato da Camulogeno e
s'incammina verso Agendinco.
Congiuntosi con le truppe del suo luogotenente, il proconsole, per mezzo dei Remi, dei Lingoni e dei Treviri
arruola numerosissimi cavalieri germanici oltre il Reno, poi scende a mezzogiorno in cerca del nemico, il
quale, appreso l'avanzarsi delle truppe romane, corre a sbarrare loro il passaggio nel territorio dei Sequani.
Ma la fortuna ora torna a favorire Cesare. Vercingetorige abbandona la tattica finora adottata e dà battaglia
in campo aperto ai Romani.
Audace è il suo piano: sbaragliare con la sua potente cavalleria le legioni nemiche e poi piombare addosso
ai Romani con tutte le sue truppe; ma non sa che l'esercito di Cesare è stato rafforzato dai cavalieri
germanici. Questi, infatti, assaliti dalla cavalleria gallica, sostengono molto bene l'urto, poi col valido
concorso dei legionari contrattaccano il nemico e, sbaragliatolo, lo mettono in fuga.
A Vercingetorige non rimane che ricorrere alla tattica di prima e intanto, per resistere, dopo la sconfitta,
ripara con l'esercito in Alesia, la città più forte della Gallia che sorge sopra un'altura nel paese dei Mandubii.
Qui giunto, l'eroico capo dei ribelli manda nei vari territori della Gallia i suoi cavalieri affinché gli portino entro
un mese aiuti di uomini e di vettovaglie, poi costruisce fuori le mura della città un campo trincerato per il suo
esercito.
Cesare si accorge che espugnare Alesia con la forza è cosa impossibile e la cinge d'assedio. Perché questo
sia più efficace circonda la città e il campo avversario con tre linee di trincee profonde, munite di robusti
argini e di ventitre torri per la lunghezza di quindici miglia; poi per guardare le spalle del suo esercito dagli
altri Galli che dovessero giungere in soccorso, circonda il proprio campo con altre trincee ed altri bastioni e
lo rende più sicuro con numerosi trabocchetti ben dissimulati, e pali uncinati infissi nel terreno.
Più di un mese viene impiegato per la costruzione di queste opere gigantesche, né i lavori procedono
indisturbati perché ogni giorno Vercingetorige fa disperate sortite dalla città per rompere il cerchio fatale in
cui i Romani lo vanno chiudendo.
E intanto passano i giorni ed i soccorsi non giungono e le vettovaglie scarseggiano. Lo spettro della fame si
erge minaccioso davanti agli assediati; questi discutono la proposta di CRITOGNATO di nutrirsi, quando i
viveri saranno terminati, delle carni della gente non idonea alle armi, e si scacciano dalla città le bocche
inutili.
Alesia è all'estremo delle sue forze quando in vista della città assediata compare l'esercito dei Galli che
giungono al soccorso. È una moltitudine immensa: ottomila cavalli e duecentoquarantamila fanti, reclutati in
tutti i paesi, eccettuato quello dei Remi. VERGASILLAUNO lo guida. Questi, da accorto capitano, occupa di
nascosto con la quarta parte del suo esercito un'altura sguarnita di trinceramento.
All'arrivo dei soccorsi, l'esercito di VERCINGETORIGE, ripreso animo, esce dal suo campo trincerato ed
assale con estrema violenza le linee nemiche, mentre la cavalleria gallica e le innumerevoli schiere
recentemente giunte si rovesciano sulle fortificazioni esterne dei Romani.
La battaglia in un attimo diventa generale; trecentomila uomini si battono con indescrivibile accanimento
sotto i bastioni, sui bordi dei fossati, presso le torri.
CESARE dall'alto di un colle guarda e dirige la battaglia. VERCINGETORIGE sta per espugnare le posizioni
romane. Allora il proconsole manda contro di lui BRUTO e FABIO con tredici coorti le quali spezzano
l'assalto del re barbaro, lo cacciano e lo inseguono su per fianchi del monte e lo costringono a ritirarsi nel
campo e nella città.
Ma ecco, a un tratto, che VERGASILLAUNO entra in azione con i sessantamila uomini che occupano
l'altura, minacciando alle spalle i Romani.
Cesare se ne accorge e manda contro il duce dei Galli LABIENO con sei coorti; ma queste non sono
sufficienti a frenare l'impeto del nemico più numeroso. Allora Cesare ordina alla sua cavalleria di assalire alle
spalle le truppe di Vergassillauno e lui, sceso dall'altura, va con una schiera di legionari nel punto dove
Labieno si batte.
Il manto purpureo del proconsole è scorto dai soldati. Cesare è in mezzo a loro, il gran capitano li guarda. La
presenza del capo è miracolosa: le coorti che già cedevano di fronte alla moltitudine nemica si rinfrancano,
resistono, poi passano al contrattacco e ributtano le truppe di Vergasillauno che, circondate dalla cavalleria,
si scompigliano e sono fatte a pezzi. La vittoria, ancora una volta, è stata di Cesare.
VERCINGETORIGE capisce che la partita è perduta, che l'immane tentativo di ridare alla sua patria
l'indipendenza è fallito. Rotte le truppe di soccorso, Alesia non potrà resistere più contro il duplice nemico:
Roma e la fame; Cesare s'impadronirà fatalmente della città, la tratterà peggio di Avarico, farà strage dei
suoi difensori.
Vercingetorige che ha dato finora un esempio superbo di valore e di costanza fornisce ora prova mirabile
della nobiltà del suo animo, veramente grande. Egli spera di salvare Alesia, gli abitanti e le schiere superstiti
del suo esercito col sacrificio della sua vita.
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Manda pertanto a Cesare ambasciatori cui viene risposto che siano consegnate le armi e i capi della rivolta,
poi l'eroico re si veste della sua splendida armatura, monta sul suo cavallo di battaglia e si reca senza
seguito al campo nemico.
Cesare siede presso le trincee fra una selva d'insegne. Accanto a lui sono i suoi luogotenenti e i centurioni.
Luccicano tutto intorno gli elmi e le spade dei legionari.
Vercingetorige si accosta al proconsole vincitore e gli consegna la spada che non ha potuto ridare alla Gallia
la libertà e prega Cesare che solo sopra di lui sfoghi la sua collera, ma sia magnanimo con i soldati vinti.
Spera l'eroe che il generale romano gli farà mozzare il capo come ad Accone; ma Cesare lo fa coprire di
catene e lo riserva come trofeo per il suo trionfo.
Con la resa di Alesia la rivolta gallica non ha termine, ma perde tutta la sua forza. La confederazione dei vari
popoli si scioglie e le tribù resistono isolatamente, ultimi fra tutti i Biturigi, i Carnuti e i Cadurci. Lo sforzo
supremo viene fatto dai Bellovaci alla testa dei quali compare AMBIORIGE tornato dai paesi d'oltrereno; ma
ad uno ad uno gli ultimi tentativi dei ribelli vengono soffocati da Cesare e nel 51, Uxellodunum, munitissima
città della Gallia meridionale, che sorgeva sull'Oltis, vinta dalla sete, è costretta ad arrendersi e i suoi abitanti
sono sottoposti al taglio della mano destra.
Così dopo otto anni, durante i quali Cesare ha dato prova delle sue geniali qualità di condottiero, la guerra
contro i Galli transalpini termina.
Trecento popoli sono stati vinti ed ottocento città sono state conquistate e le legioni vittoriose sono state
condotte oltre il Reno e la Manica.
Cesare non ha dato mai segno di debolezza ed ha condotto la guerra come un vero generale deve condurla
se vuole che la nazione contro la quale combatte sia definitivamente debellata, chiudendo cioè il cuore alla
pietà e ricorrendo senza esitazione agli incendi, ai saccheggi, alle devastazioni, alle esecuzioni capitali che
possono sembrare atti inumani di barbarie e non sono invece -così si giustificano tutti i condottieri che poi
vincono- che crudeli e improrogabili necessità di guerra.
Cesare sa che "col ferro e col fuoco" più che con la generosità si può ottenere la completa sottomissione di
un popolo incivile (quando lo è, quando non lo è "ribelle"), ma sa anche che, avvenuta la sottomissione, alle
leggi spietate della guerra debbono succedere le opere buone di una saggia politica, che serva a sanare le
piaghe, a ricostruire sulle rovine un edificio duraturo, a cattivarsi le simpatie dei sudditi.
E così CESARE opera, terminata la guerra; s'ingrazia i capi, non grava di tributi le popolazioni, dà la
cittadinanza alle persone più autorevoli, lascia intatte le istituzioni civili e rispetta gli usi, le tradizioni e la
religione di un popolo il quale, per mezzo del più grande conquistatore dell'antichità, entra nella grande vita
delle nazioni mediterranee per avervi più tardi, completamente romanizzato, funzioni di capitale importanza.
Siamo così arrivati all'anno 50 a.C. La guerra gallica ha conferito grande prestigio a Cesare, lo aveva reso
enormemente popolare e lo aveva fatto divenire il maggior esponente del partito democratico; di fatto ma
non formale.
Durante la sua lunga assenza da Roma, pur (quando lui organizzò la sua seconda spedizione in Gallia)
rinnovandogli nel 54 un altro quinquennale proconsolato, durante questo, la situazione a Roma, si era
modificata.
CRASSO era morto nel 53 contro i Parti, l'arrogante CLODIO era stato ucciso,
POMPEO si era ravvicinato al Senato, nel 52 era stato nominato console senza collega, ed aveva assunto i
pieni poteri per ristabilire l'ordine, in una città in preda al disordine da continui scontri fra i partiti rivali.
Ora terminata la guerra, a Cesare nel 49, scadeva il suo mandato in Gallia, e dunque sarebbe dovuto
tornare a Roma da privato cittadino; la prospettiva era quella di essere esposto all'attacco dei suoi nemici, e
in primo luogo, di Pompeo, che non avrebbe certo né ceduto né diviso con lui il potere.
CESARE reagisce con durezza, quando il console CLAUDIO MARCELLO propone il suo richiamo a Roma
prima del termine.
Rifiutando quest'ordine, il Senato lo dichiara nemico della Repubblica.
La misura era colma! Né poteva più aspettare ad agire.
Siamo dunque arrivati al periodo della GUERRA CIVILE, al grande scontro fra Pompeo e Cesare.…è il
periodo che va dall'anno 49 al 44 a.C. > > >
Fonti, Bibliografia, Testi, Citazioni:
TITO LIVIO - STORIE (ab Urbe condita)
POLIBIO - STORIE
APPIANO - BELL. CIV. STORIA ROMANA
DIONE CASSIO - STORIA ROMANA
PAOLO GIUDICI - STORIA D'ITALIA
UTET - CRONOLOGIA UNIVERSALE
I. CAZZANIGA , ST. LETT. LATINA,
+ altri, in Biblioteca dell'Autore
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IL SECONDO TRIUMVIRATO - LE TRAME - VIGILIA GUERRA CIVILE (57-49 a. C.)
POSIZIONE DEI TRIUMVIRI - POMPEO AL GOVERNO DELL'ANNONA - IL SENATO ALLA RISCOSSA IL CONVEGNO DI LUCCA - CRASSO E POMPEO CONSOLI - ASSEGNAZIONE DELLE PROVINCIE AI
TRIUNVIRI - PROROGA DEL GOVERNO DI CESARE - LA SPEDIZIONE DI CRASSO - LA BATTAGLIA DI
CARRE - MORTE DI CRASSO - POLITICA DI POMPEO - UCCISIONE DI PUBLIO CLODIO - ROMA
NELL'ANARCHIA - POMPEO CONSOLE UNICO - PROCESSO E CONDANNA DI ANNIO MILONE POMPEO E IL SENATO CONTRO CESARE - POLITICA CONCILIANTE DI CESARE - MARC'ANTONIO CESARE È DICHIARATO NEMICO DELLA REPUBBLICA
-----------------------------------------------------------------------------.
IL CONVEGNO DI LUCCA - CRASSO E POMPEO CONSOLI
Negli ultimi mesi dell'anno 57 a.C. e nei primi del successivo 56, il triunvirato attraversa una crisi gravissima
per la rottura dei rapporti tra CRASSO e POMPEO. La lega fra i tre uomini esiste solo di nome. In realtà
ciascuno agisce per conto proprio, secondo i suoi fini, non curandosi se la politica che adopera, contrasta
quella dei suoi compagni.
CRASSO apparentemente si tiene in disparte, pago delle sue enormi ricchezze, ma mantiene stretti rapporti
con CLODIO e forse segretamente lo spinge contro POMPEO. Questi continua la sua politica d'intesa con gli
ottimati e si avvantaggia dell'amicizia di CICERONE, il quale, grato a Pompeo che tanto si è adoperato per
farlo tornare dall'esilio, ora lo sostiene validamente.
Dei tre chi si trova in relativa migliore situazione è GIULIO CESARE. Lontano dagli intrighi e dai pettegolezzi
quotidiani di Roma, lui prepara la sua fortuna. La guerra vittoriosa che sostiene nella Gallia, gli procurano
ricchezze considerevoli oltre la devozione delle milizie; la fama delle sue imprese, accortamente da lui
annunziate con solleciti emissari, fa giganteggiare la sua figura a Roma, accrescendogli la popolarità di cui
già gode e procurandogli non poche simpatie -anche se non apertamente espresse- in seno ai senatori ed ai
cavalieri.
Una mossa sbagliata di CLODIO intanto fa aumentare il prestigio di POMPEO. Una grave carestia affligge la
città e non è possibile fare distribuzioni di grano al popolo secondo la legge frumentaria di Clodio. I prezzi del
frumento sono così alti che una moltitudine di poveri soffre la fame. Clodio per scaricarsi dalle responsabilità,
crede di potere sfruttare a favore suo e di CRASSO la difficile situazione e sparge nel popolo la voce, che la
carestia è dovuta all'incetta di grano fatta dal Senato, allo scopo di affamare il popolo. La plebaglia tumultua
e, accorsa al Campidoglio dov'è riunito il Senato, reclama minacciosamente dei solleciti provvedimenti. Dal
tumulto chi trae vantaggi non è Crasso né Clodio, ma POMPEO.
CICERONE propone che sia affidata a Pompeo l'annona e i consoli dell'anno 56, LENTULO e METELLO
presentano una rogazione con la quale propongono che a Pompeo siano dati la "potestas rei frumentariae"
per cinque anni, il titolo e l'imperio di proconsole e la facoltà di eleggersi quindici luogotenenti.
La rogazione è accettata e approvata. POMPEO però chiede di più; vuole che gli sia dato il comando di un
esercito e di una flotta e che sia messa a sua disposizione la cassa della Repubblica. Lo scopo di Pompeo è
evidente: lui mira a riottenere l'illimitata autorità che alcuni anni prima la legge Manilia gli aveva accordato;
ma questa volta non c' è la minaccia dei pirati né quella di un Mitridate che persuada il Senato; e il Senato
rifiuta.
POMPEO allora, che per i suoi fini vuole un comando di forze armate, chiede che gli sia affidato 1' incarico di
rimettere sul trono d'Egitto il re TOLOMEO AULETE, che una rivolta ha scacciato, sostituendogli la sorella
BERENICE, ma anche a questa richiesta è dal Senato rifiutata.
Questi rifiuti del Senato fanno cessare i rapporti amichevoli tra Pompeo e gli ottimati e chi da questa rottura
ci guadagna, è ora CLODIO, il quale, scagliandosi contro Pompeo, fa involontariamente il giuoco del Senato.
CLODIO è riuscito a farsi eleggere edile curule ed ha citato in giudizio davanti al popolo per violenze il suo
implacabile nemico MILONE. Quest'ultimo è difeso da POMPEO ma la plebaglia sostenitrice di Clodio gli
impedisce di parlare beffeggiandolo senza ritegno.
Gli ottimati gongolano. Il triumvirato non fa più loro paura perché non dimostra attività ed armonia di vedute e
di sentimenti. CESARE è lontano, CRASSO è un uomo politico inetto, POMPEO ha perduto il favore del
popolo.
Il Senato acquista dunque in forza e in ardire di giorno in giorno; CATONE è tornato da Cipro, portando
all'erario gran quantità di denaro, settemila talenti, pari a quaranta milioni di lire, ricavati dai beni di Tolomeo,
e (lui strenuo difensore del partito senatorio) ha ripreso la lotta. Ora le armi degli ottimati sono rivolte a
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distruggere l'opera di Cesare. Prima il tribuno RUTILIO LUPO e subito dopo CICERONE, propongono che la
legge Giulia agraria sia revocata e il Senato fissa al 15 maggio il giorno della discussione.
Cosi il Senato inizia apertamente il movimento di riscossa.
Ma CESARE non dorme e i numerosi fautori che ha in Roma vigilano. Questi lo informano sollecitamente
degli avvenimenti e Cesare, che non è ancora in grado di agire solo, fa sapere a Crasso e a Pompeo che è
necessario un abboccamento e prendere accordi per non lasciarsi sopraffare dagli oligarchi.
Di riprendere insomma l'unità, perché da soli -e questo lo aveva già detto fin dall'inizio- si è sconfitti.
Il convegno è fissato a Lucca per l'aprile del 56 a.C. All'annuncio che Cesare è così vicino a Roma, molti
amici e ammiratori del grande generale accorrono a fargli omaggio e fra questi vi sono gli opportunisti e tutti
coloro che non seguono in politica una linea di condotta ben definita.
Il convegno di Lucca è la dimostrazione della forza e del prestigio di Cesare; duecento sono i senatori che
sono andati a trovarlo, e così imponente il numero dei magistrati andati a fargli visita, che in un sol giorno
centoventi littori si trovano riuniti nella città di Lucca.
Qui CESARE rimette in efficienza il triumvirato, riconcilia Crasso con Pompeo e stabilisce il piano d'azione
che dovrà mettere e conservare nelle loro mani il potere.
L'accordo è presto raggiunto: CRASSO si impegna di far cessare la lotta che CLODIO conduce contro
POMPEO, e questi promette di fare schierare CICERONE dalla parte di Cesare. Si stabilisce che Crasso e
Pompeo chiedano per il prossimo anno il consolato e che per prender tempo allo scopo di assicurar la
riuscita dell'elezione facciano prorogare i comizi. Cesare assicura che concederà ai suoi soldati numerose
licenze perché possano recarsi a votare e per sé non chiede che una sola cosa; che gli sia lasciato per altri
cinque anni il governo delle Gallie.
Dal convegno di Lucca la posizione di Cesare esce enormemente rafforzata: gli ottimati, impressionati dal
numero dei suoi aderenti e dal prestigio che gode, desistono improvvisamente dalla lotta iniziata e il Senato
tenta di farselo amico allo scopo di isolarlo dai suoi compagni. Infatti, mette nel dimenticatoio la domanda di
revoca della legge agraria e, tacitamente accogliendo la tesi di Cicerone, il quale nella sua "oratio de
provinciis consularibus" sostiene che a Cesare si debba prorogare il governo delle Gallie, dà al generale
dieci luogotenenti e non designa nessuno per il prossimo anno al governo dell'Illiria, della Cisalpina e della
Transalpina.
Ma anche CRASSO e POMPEO naturalmente ottengono vantaggi dal convegno di Lucca. Grazie alla
sistematica opposizione di due tribuni della loro parte, riescono a non far convocare i comizi, e, terminato
l'anno consolare, viene proclamato 1' interregno.
Avvicinandosi i comizi, Crasso e Pompeo pongono la loro candidatura e, poiché al consolato aspira uno
degli ottimati, L. DOMIZIO ENOBARBO, lo fanno aggredire. Nell'imboscata gli schiavi di Domizio sono
uccisi, Catone che l'accompagna è ferito, Domizio, spaventato, si rifugia in casa e rinunzia alla lotta.
Così l'anno 55 a.C. ha i suoi nuovi consoli in CRASSO e POMPEO e creature di costoro sono i pretori, i
censori e gli edili.
A Roma ora non comandano che Pompeo e Crasso e, da lontano, Cesare.
I primi due non appena giunti al potere pensano di assicurarsi per l'anno seguente il governo delle più ricche
province. Il tribuno C. TREBONIO, loro creatura e da loro consigliato, propone al popolo che il governo della
Siria sia affidato a Crasso per cinque anni e che per altrettanti anni sia dato a Pompeo il governo della
Spagna Ulteriore e Citeriore.
Invano si oppongono CATONE e M. FAVONIO; l'oro distribuito fa approvare la legge proposta da Trebonio e
poco dopo anche la proposta fatta dai consoli di prolungare a Cesare il comando delle Gallie e dell' Illiria per
un altro quinquennio è approvata.
Ora POMPEO rivolge la sua attività ad abbattere gli altri due triumviri e a rimaner solo padrone della
Repubblica. Il suo vero rivale è CESARE, l'uomo di cui ha sposata la figlia. Occorre strappargli la popolarità
di cui gode, abbagliando il popolo con la pompa dei giochi poiché lui ora non può, come Cesare,
impressionarlo con la gloria delle imprese militari.
Costruisce un teatro capace di quarantamila persone e vi fa rappresentare grandiosi spettacoli. Né meno
grandi sono quelli che offre al circo, dove con il sangue di leoni ed elefanti in lotta fra di loro, cerca di
ingraziarsi il favore del popolo.
Ma solo questo non basta a dargli il primato. Gli ottimati costituiscono per lui una seria difficoltà, ed è
necessario superare. Avvia perciò trattative con il Senato e non gli riesce difficile di riconciliarsi.
Gli effetti di questa conciliazione si hanno nelle elezioni per le magistrature dell'anno 54 a.C. Infatti, alle
cariche più importanti della Repubblica sono assunti uomini notoriamente avversi a Cesare: al consolato L.
DOMIZIO ENOBARBO e APPIO CLAUDIO PULCRO, e alla pretura, fra gli altri, CATONE e SERVILIO
ISAURICO.
A rendere a POMPEO più agevole il conseguimento del primato contribuisce involontariamente CRASSO, il
quale prima che termini il suo consolato, desideroso d'allori militari e bramoso di maggiori ricchezze,
sconsidertamente parte per l'Asia lasciando padrone del campo l'ambizioso triumviro.
LA SPEDIZIONE DI CRASSO (anno fine 52- giugno 53 a.C.)
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CRASSO parte con il consenso di Pompeo e di Cesare, fra le disapprovazioni però delle persone di buon
senso che sanno come un simile capitano fino ad ieri vissuto di ozi e crapula, con le ricche comodità che la
sua immensa ricchezza gli permette, non sia adatto a un'impresa così difficile qual è quella cui egli si
accinge a fare.
Infatti, Crasso non va solo a prender possesso della sua provincia, ma va a guerreggiare contro i Parti, la
bellicosa nazione che ha esteso i suoi domini nella Mesopotamia ed ora minaccia la Siria e l'Armenia, e
sogna di penetrare come Alessandro nella Battriana e spingersi fino alle lontane Indie.
Ma più che dal desiderio di accrescer la potenza della Repubblica e di dare fama al suo nome, Crasso è
mosso dalle mitiche ricchezze di Seleucia.
Parte senza ascoltare il monito di Catone e i consigli degli amici, nonostante l'ostilità della folla e le
imprecazioni del tribuno ATEJO CAPITONE, che già consacra Crasso alle divinità infernali.
Gli è compagno nella spedizione il figlio PUBLIO che dalla Gallia, dove stava combattendo con Cesare,
rientra per unirsi al padre e porta con sé un corpo di fanti e di cavalli scelti; ed ha come questore il prudente
CASSIO.
Gli inizi della spedizione sono favorevoli per l'esercito romano che è forte di trentamila uomini. Sembra una
passeggiata militare anziché una guerra, infatti, molte città della Mesopotamia, aprono spontaneamente le
porte; soltanto una oppone una certa resistenza ma è presto vinta. Nelle città che si arrendono CRASSO
lascia alcuni presidi poi va a mettere i quartieri d'inverno in Siria e lì inizia il primo lucro dell'impresa,
taglieggiando avidamente le popolazioni.
In questi quartieri giungono a trovarlo gli ambasciatori di ORODE, re dei Parti. Con questi Crasso si mostra
sprezzante, dicendo loro che lui darà la riposta al re quando giungerà a Seleucia.
Ma il capo degli ambasciatori, che ha nome VAGISO, mostrando il palmo della mano, risponde "Tu entrerai
in Seleucia quando su questo palmo spunteranno i peli". (a Seleucia Crasso ci entrerà, ma vedremo più
avanti come).
Ben presto Crasso si accorge che ha a che fare con un nemico fortissimo: molte delle città conquistate sono
state assalite dai Parti e i presidi romani sgominati. Ma il triumviro che ha tanta incoscienza non si sgomenta,
lui si affida alle armi, al numero di uomini, e alla potenza di Roma.
ARTABASE, re dell'Armenia, alleato di Roma, lo raggiunge e consiglia il generale di andar contro i Parti
attraverso il suo regno promettendogli vettovaglie e un soccorso di trentamila fanti e diecimila cavalli.
CRASSO invece decide di attraversare l'ostile -come luogo e come ambiente- Mesopotamia.
Sfavorevoli sono gli auguri e funesti presagi avvertono Crasso che la spedizione sarà disastrosa. Uscendo
da un tempio, scivola e cade trascinando nella caduta il figlio Publio. Non importa; l'ordine della partenza è
ormai dato e l'esercito si mette in marcia.
Sulla sponda destra dell'Eufrate un temporale improvviso arresta l'esercito; le folgori attirate dai ferri delle
armi, cadono fra le truppe, le acque del fiume travolgono le zattere; tornata la quiete e dato il comando di
ripartire, l'aquila di una legione infissa nel suolo si volge indietro come per consigliare il ritorno; ma si va
avanti. Passato il fiume, Crasso compie i sacrifici di rito e le viscere della vittima, come per un ultimo
avvenimento, gli cadono dalle mani. Ma l'esercito di Crasso prosegue la marcia verso il suo destino.
Ed ecco che un arabo, di nome ABGARO, si presenta e si offre di guidare Crasso attraverso le steppe
desertiche della Mesopotamia fino al luogo dove -afferma lui- si trova l'esercito dei Parti. Il questore C.
CASSIO consiglia il generale di non fidarsi di quell'uomo e di seguire semmai il corso dell'Eufrate; ma
Crasso si affida stoltamente alla guida sconosciuta e l'esercito dei legionari, sempre di più allontanatosi dal
fiume, e quindi dalla preziosa acqua, inizia a inoltrarsi nel deserto.
Il cammino ovviamente è faticoso; non s'incontra un essere vivente né un piccolo corso d'acqua; il sole siamo in Giugno- è insopportabile e i soldati si trascinano, spossati dalle gravi armature, bruciati dalla calura
ed arsi dalla sete. Camminano così per alcuni giorni, in cerca di quei Parti che non si trovano mai, in luoghi
che nessuno conosce, enormemente affaticati dal cammino sulla sabbia; quando una mattina, al levare degli
accampamenti, si accorgono che l'arabo Abgaro è scomparso.
I Romani di Crasso si trovano nell'arida pianura di Carre. E ad un tratto si profilano all'orizzonte alcuni
cavalieri che avanzano rapidamente: sono le prime avvisaglie del nemico; a queste seguono nugoli infiniti di
cavalieri; l'orizzonte ne è pieno; sollevano nuvole di sabbia che si avvicinano minacciose, e in mezzo a
quella polvere iniziano a balenarsi le lucenti armi dei Parti.
Abgaro era un traditore, d'accordo con i Parti ha trascinato i Romani nel trabocchetto. Crasso ha appena il
tempo di schierare le sue legioni per la battaglia quando il cielo si oscura come il sopraggiungere improvviso
di una nube di un temporale, che però non riversa acqua, ma è una pioggia fittissima di frecce che si abbatte
sulle schiere romane.
CRASSO ordina di assalire il nemico e le legioni si muovono dietro le insegne; ma i Parti scompaiono rapidi
come sono venuti. Non è però una fuga, è il loro modo di combattere; assalgono da ogni parte con tiri
micidiali di saette che non sbagliano il segno e tutto trapassano e subito dopo si ritirano velocissimi
continuando a saettare durante la corsa.
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F. D'ALESSI - Letteratura latina - Parte II,1 - Il periodo classico
71
Contro un simile nemico che non si lascia raggiungere, che fugge il corpo a corpo e da lontano semina la
strage, il valore romano è impotente.
Crasso ordina all'esercito di fermarsi e lo dispone in quadrato; i veliti si ritirano dentro gli ordini, e gli scudi
delle prime linee formano delle barriere. Così disposti i Romani si accingono alla resistenza. I Parti non
offrono un istante di tregua, assalgono e si ritirano e le loro frecce non cessano di piovere sulle legioni di
Roma, che resistono per la disperazione.
Così trascorre buona parte di quella prima giornata. La furia del nemico non ha soste e le perdite dei Romani
sono enormi; il centro dell'immenso quadrato è pieno di morti e di feriti; le armi sono rotte, gli scudi forati, e
vivi che ancora li brandiscono sono sfiniti.
Crasso capisce che se le cose continueranno così, dell'esercito romano non un solo uomo rimarrà vivo al
termine della giornata; ordina al figlio PUBLIO con la sua cavalleria di assalire con impeto i Parti e di
rompere il cerchio che stringe l'esercito.
Publio obbedisce e la sua cavalleria fa irruzione da un lato. I Parti non possono o non vogliono sostenere
l'urto e abbandonano il campo; i cavalieri romani mandano grida di vittoria e nell'esaltazione inseguono i
nemici, ma, quando sono lontani dal grosso, cadono nella trappola tesa; una turbe innumerevole di nemici li
assalgono dai fianchi e alle spalle. Ritirarsi è impossibile; bisogna resistere nella speranza di soccorsi o
morire sul posto; ma i soccorsi non giungono, non possono giungere, e la battaglia s'impegna furiosa tra
questa eroica schiera di cavalieri romani e la turba infinita del nemico. Lotta degna di un poema ! Ma il
numero ha ragione del valore e dei Romani; dopo un lungo ed aspro combattimento, solo alcuni dei
sopravvissuti, piuttosto malconci, riescono a portare a Crasso la notizia della strage.
Anche Publio, è rimasto vivo tra i pochi, ma persa ogni speranza di salvezza, per non cadere nelle mani del
nemico si è fatto trafiggere da un compagno.
Alla notizia della morte del figlio, Crasso tenta di vendicarlo ed ordina l'assalto; ma nelle condizioni in cui
sono gli uomini, l'azione disperata fallisce e l'esercito, decimato, è costretto a tentare la sua ultima inutile e
tragica difensiva.
Per fortuna cala la notte e con le tenebre termina il combattimento.
Il questore Cassio consiglia di non aspettare il mattino perché l'esercito del surenu (generale) dei Parti è
accampato a poca distanza e un'altra battaglia da sostenere allo spuntare del nuovo giorno non è possibile
farla, sarebbe più funesta della prima.
L'esercito romano, ridotto ad un terzo, lasciati sul campo i feriti, nella notte inizia silenziosamente la ritirata e
dopo una lunghissima marcia, durante la quale molti soldati smarriscono il cammino e cadono prigionieri dei
Parti, raggiunge la città di Orfa dove si trova un modesto presidio di Romani.
Orfa non rappresenta un rifugio sicuro; la cittadinanza è ostile e il surena è ricomparso; né vi è speranza di
soccorsi, perché ARTABASE, assalito da ORODE, ha già per conto suo concluso la pace con i Parti.
Non resta che tentare di raggiungere la Siria. Crasso trova una guida e lascia Orfa. Ma pare che la
maledizione di Atejo perseguiti i soldati della Repubblica. Anche questa volta la guida è un traditore. Il
questore CASSIO che si è accorto in tempo, con cinquecento uomini, abbandona il generale prendendo
un'altra strada (sarà l'unico a salvarsi); CRASSO invece, accortosi troppo tardi dell'infedeltà della guida,
cerca con le minacce di farsi indicare la via giusta, ma non fa a tempo: i soldati del surena già gli sono
addosso e non resta che difendersi che con le armi.
La battaglia ingaggiata è tremenda, in qualche modo Crasso, con migliaia di uomini riesce a svincolarsi a
trovare un varco e a raggiungere la sommità di un'altura. Ed è la salvezza; impossibile alla terribile cavalleria
dei Parti -salvo farlo con grosse perdite- andare all'assalto di una legione trincerata sopra la cima di una
collina.
Il surena però non vuole abbandonare la sua preda e se le armi a nulla valgono può molto l'astuzia, nella
quale nel proprio ambiente sono maestri insuperabili. Propone pertanto un abboccamento per trattare la
pace; ma Crasso, oramai reso prudente dalla perfidia nemica, rifiuta. Perché - egli pensa - vogliono i Parti
trattare la pace se nulla hanno da temere da uno sparuto numero di Romani? Purtroppo questi sono stanchi,
desiderano che quella guerra disastrosa abbia termine e pregano il loro generale di andare al convegno.
CRASSO, a malincuore, con pochissimi uomini scende dall'altura e va incontro al surena. Già si trova
lontano dai suoi, nella pianura, già il capo dei Parti gli si avvicina; ma, ecco, ad un tratto, un numeroso
drappello di nemici messo in agguato lo circonda. È l'epilogo della tragedia. Il drappello romano tenta di
difendersi e si stringe attorno a Crasso, ma i suoi sforzi sono vani; la lotta è brevissima e dopo qualche
istante il corpo di Crasso, già decapitato, giace fra gli altri cadaveri dei suoi compagni.
La sua testa e le insegne romane sono portate come trofeo a Seleucia.
Nella capitale c'è dunque "entrato", e a VAGISO sul "palmo della mano non gli erano ancora spuntati peli"
La guerra è finita (giugno 53 a.C.); molti legionari, privi dei capi, si arrendono ma sono subito trucidati; altri
fuggono, una buona parte di loro è inseguita e uccisa, il resto sfugge alla cattura ma moriranno tutti di stenti
e di sete nell'ostile ambiente desertico.
Di un esercito, che contava oltre trentamila uomini, soltanto i cinquecento del questore Cassio possono
portare a Roma la notizia della disastrosa spedizione.
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VERSO LA GUERRA CIVILE
POMPEO, dopo il convegno di Lucca, ritornato Cesare in Gallia, finito l'anno del suo consolato (del 55 a.C.),
passato a guidare l'annona nel successivo anno (il 54 a.C.) con consoli Enobarbo e Pulcro), inviò nella
Spagna i suoi luogotenenti AFRANIO e PETEJO e adducendo il pretesto che il governo dell'annona (come
detto, in crisi per la carestia) gli impediva di allontanarsi dall'Italia si stabilì con le sue milizie, nelle vicinanze
di Roma.
Sua intenzione era di sorvegliare da vicino la città e le mosse degli uomini e dei partiti, d'impedire lo
svolgimento dei comizi consolari, di provocare torbidi, per poi intervenire e così, per riportare la calma, farsi
eleggere dittatore.
I comizi consolari furono abilmente impediti, ma le temute rivolte non avvennero, solo qualche insignificante
lite, e a Pompeo non riuscì a raggiungere la sperata dittatura, anche perché, avendola il tribuno L. LUCCEIO
proposta, il Senato ritenendo che non era il caso per qualche insulsa lite, si oppose e, convocate le tribù,
nell'anno 53 a.C. furono eletti consoli CNEO DOMIZIO CALVINO e VALERIO MESSALLA.
Non era questa una vittoria di Pompeo ma non era neppure una sconfitta, perché se il secondo era un amico
di Cesare il primo era un uomo devoto a Pompeo.
Ma il risultato di quest'elezione non poteva soddisfare l'ambizioso Pompeo che aveva ben altri progetti. Sua
moglie Giulia era morta nell'agosto del 54 e nel giugno del 53 moriva - come abbiamo detto- Crasso. Con la
tragica fine di quest'ultimo il triunvirato era spezzato, e con la morte di Giulia era rotto pure l'ultimo legame
che univa Pompeo a Cesare.
Pompeo, risoluto più che mai a contrastare Cesare e a mettere la repubblica nelle proprie mani, per le
successive elezioni del 52 a.C., appoggiò la candidatura di PLAUZIO IPSEO, suo questore nella guerra
mitridatica e non combatté quella di Q. METELLO SCIPIONE, figlio del Pio, e di T. ANNIO MILONE, perché
tutti e tre, più o meno con zelo, erano suoi sostenitori; ma i comizi consolari, questa volta a causa di violenti
tumulti, non poterono aver luogo né, per lo stesso motivo, si riuscì nella prima metà del gennaio del 52, a
nominare un interrè.
Un fatto di sangue, accaduto il 20 gennaio di quello stesso anno, andò ad accrescere i disordini di Roma e a
favorire inaspettatamente - ma non sappiamo fino a che punto inaspettati e se provocati da lui- i piani
diabolici di Pompeo.
Quel giorno PUBLIO CLODIO, mentre si recava a Lanuvio seguito da un drappello di gladiatori, sulla via
Appia, a due miglia da Bovillae, si incontrava con ANNIO MILONE (del partito senatorio) che tornava a
Roma scortato da numerosi schiavi.
Tra le bande dei due mortali nemici -non si sa per quale motivo- si accese una mischia e CLODIO fu
gravemente ferito; trasportato dai suoi servi nella vicina locanda di Coponio, gli uomini di Milone vi
entrarono, fu tratto il ferito a viva forza dagli schiavi, lo trascinarono fuori e barbaramente lo finirono
abbandonando il suo corpo sulla via.
Il senatore SESTIO TEDIO, trovandosi per caso in quel luogo, riconosciuto di chi era quel cadavere, lo fece
trasportare a Roma nella casa del defunto, dove la moglie Fulvia lo pianse tutta la notte.
Il giorno dopo la plebe, appresa la morte di Clodio, si levò a tumulto e, portata la salma dell'agitatore presso
la Curia, la bruciò sopra un rogo innalzato con gli scanni dei senatori. L'incendio, propagatosi alla Curia ed
all'attigua basilica Porcia, distrusse poi entrambe.
Per sedare i disordini il Senato si affrettò a nominare 1' interrè nella persona di M. EMILIO LEPIDO; ma non
fu sufficiente per calmare la plebe, sobillata dai partigiani di Clodio, i quali assalirono e devastarono la casa
di Lepido e tentarono di incendiare quella di Milone. Questi, tornato a Roma per giustificare con dei vaghi
motivi l'assassinio, inasprì 1'ira dei clodiani e suscitò nuovi e più grandi disordini.
Occorreva salvare Roma dall'anarchia e, poiché non era possibile in quelle condizioni convocare i comizi
consolari, s'imponevano dei provvedimenti eccezionali, come la dittatura. Ma questa faceva paura al Senato
dopo Silla e fu perciò accolta all'unanimità la proposta di M. BIBULO, sostenuta da CATONE, di nominare
POMPEO console unico, dandogli facoltà di scegliersi, non prima però di due mesi, un collega.
Il 27 febbraio del 52 a.C. Pompeo fu dall' interrè SERVIO SULPICIO RUFO dichiarato console "sine collega",
ed entrò in Roma risoluto a ristabilire l'ordine (era quello che Pompeo aspettava da più di un anno).
Occorreva anzitutto punire i responsabili dell'assassinio di Clodio, delle violenze commesse in città e
stringere i freni ai brogli elettorali. Per raggiungere tale scopo POMPEO presentò e fece approvare,
nonostante l'opposizione di Catone (che ora frena), due disegni di legge ("de vi e de ambito") che fissavano
a quattro giorni la durata dei processi per violenze e brogli. Alla prima legge fu data la retroattività di tre anni
e, non appena promulgata, fu citato in giudizio ANNIO MILONE, di cui Pompeo e gli ottimati, dopo che se
n'erano serviti, volevano ora sbarazzarsi come capo espiatorio.
Il processo ebbe il suo epilogo 1'8 aprile del 52 a.C.. Presiedeva il tribunale L. DOMIZIO ENOBARBO; il foro
era gremito di folla, e moltissimi erano i partigiani di Clodio. Per mantenere l'ordine pubblico, Pompeo aveva
fatto circondare la piazza dalle milizie e lui stesso assisteva al processo dalla scalinata del Tempio della
Fortuna. Numerosi furono i testi d'accusa; fra questi uno dei più accaniti fu CRISPO SALLUSTIO, cesariano,
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autore della "storia della Guerra giugurtina" e della "Congiura di Catilina", nemico di Milone perché l'anno
prima, sorpreso in adulterio con la moglie Fausta, era stato staffilato dai suoi servi.
MILONE era difeso da CICERONE, il quale aveva preparato una meravigliosa orazione, la più bella forse
delle sue arringhe ("pro Milone"). Ma l'eloquenza del grande oratore non poté essere interamente esposta.
Impressionato dal contegno ostile della folla, dalla presenza degli armati e dalle grida dei clodiani, non riuscì
a tuonare con energia dall'alto della tribuna e parve fiacco e timido.
Milone ebbe tredici voti di assoluzione e trentotto di condanna; andò in esilio a Massilia. Qui si narra che,
ricevendo copia dell'orazione del suo avvocato, esclamasse:
"Se Cicerone avesse parlato come ha scritto non mangerei qui triglie a Massilia".
Dopo i processi che stabilirono condanne a molti seguaci miloniani e a Plauzio Ipseo, POMPEO propose
una legge ("de provinciis"), che stabiliva che i consoli e i pretori non potevano assumere il governo delle
province se prima non erano trascorsi cinque anni dalla loro ultima magistratura; ma lui intanto dava il cattivo
esempio, facendosi prorogare il governo della Spagna per altri cinque anni e farsi assegnare dal pubblico
erario per le truppe ai suoi ordini, mille talenti l'anno.
In questo terzo consolato la sua ostilità a Cesare fu resa manifesta da due fatti. Poco dopo che Pompeo
entrò in carica, Cesare mostrò il desiderio di stringere con lui nuovi legami di parentela offrendogli in sposa
la propria nipote OTTAVIA, ma Pompeo rifiutò il parentado e sposò invece CORNELIA, vedova di Publio
Crasso e figlia di Q. Metello Scipione.
Allo scopo poi d'impedire che Cesare ottenesse il consolato prima che deponesse l'imperio delle Gallie (1°
marzo 49) richiamò in vigore una legge che proibiva la candidatura di chi non fosse presente a Roma; ma
siccome gli amici di Cesare protestarono, dicendo che per una legge precedente, al proconsole delle Gallie
non poteva essere applicata quella disposizione, Pompeo modificò a favore di Cesare la legge stessa; poi si
scelse (a metà anno 52) come collega il suocero METELLO SCIPIONE.
Per l'anno 51 a.C. furono eletti consoli M. CLAUDIO MARCELLO e SERVIO SULPICIO RUFO. L'elezione di
quest'ultimo, noto cesariano, mostra come Cesare -anche se lontano- vigilasse la politica romana attraverso
i suoi amici, riuscendo a far pendere dalla sua parte un piatto della bilancia. L'altro piatto pendeva in favore
di Pompeo e del Senato, che si servirono di CLAUDIO MARCELLO per iniziare più apertamente di prima le
ostilità contro Cesare.
Marcello, infatti, nell'aprile di quello stesso anno, convocato il Senato, propose, fra le altre cose, di
richiamare in anticipo Cesare dalle Gallie; ma la sua proposta cadde per l'opposizione di SULPICIO RUFO e
dei tribuni.
Marcello tornò alla carica il 30 settembre, proponendo che Cesare al 1° marzo del 49 lasciasse il comando e
che gli si proibisse di presentare in sua assenza la candidatura al consolato. Ma neppure questa volta la
proposta ebbe fortuna, perché Pompeo per coerenza non riuscì a sostenere la modifica apposta alla legge
richiamata in vigore durante l'ultimo suo consolato. In quella seduta, su proposta di Pompeo, si stabilì la data
del 1° marzo del 50 per decidere sul governo delle Gallie.
Con questa proposta Pompeo voleva mostrare di non essere mosso da animosità nei riguardi di Cesare, ma
in realtà per il trionfo dei suoi desideri e del Senato circa la deposizione del suo rivale lui faceva
assegnamento sui nuovi consoli che sperava contrari a Cesare.
E contrari ad inizio anno 50, riuscirono veramente i nuovi eletti, C. CLAUDIO MARCELLO e L. EMILIO
PAOLO; ma Cesare riuscì a comprare l'amicizia del secondo e quella del tribuno C. CURIONE e ottenere
che i suoi interessi fossero validamente tutelati. Curione, infatti, per ben due volte si oppose alle
deliberazioni che il Senato voleva prendere a danno di Cesare sostenendo animosamente che se Cesare
doveva lasciare il comando anche Pompeo doveva rassegnarlo.
Di fronte alla fiera opposizione di CURIONE, il Senato tentò allora di togliere a Cesare parte di quelle milizie
che costituivano la forza del conquistatore delle Gallie e, con il pretesto che si doveva muovere guerra
contro i Parti, ordinò che Cesare e Pompeo, cedessero una legione ciascuno.
Chi da quell' ordine ebbe una diminuzione di forze fu soltanto Cesare che, oltre dover cedere una sua
legione, dovette cedere per Pompeo quella che questi dopo il convegno di Lucca gli aveva prestato.
Cesare però, allo scopo di guadagnarsi la devozione e la simpatia delle truppe (sue e di Pompeo) che era
costretto a mandare al Senato, regalò a ciascun soldato duecentocinquanta dramme.
Profondo conoscitore degli uomini del suo secolo, Cesare se ne accaparrava l'amicizia con il denaro,
sempre pronto ad uscire in questi casi dalla sua borsa. Così aveva fatto qualche tempo prima con
CURIONE, al quale aveva pagato i numerosi debiti, e così con EMILIO PAOLO, il quale grazie ai dodici
milioni ricevuti, aveva potuto edificare la basilica che da lui prese il nome.
Nonostante gli scacchi subiti, prima che l'anno 50 terminasse, il console MARCELLO presentò due rogazioni
al Senato, proponendo con la prima il richiamo di Cesare e con la seconda, le dimissioni di Pompeo. Messe
ai voti, la prima fu approvata, la seconda respinta; però il tribuno cesariano CURIONE, che si era accorto del
gioco, chiese che delle due rogazioni di Marcello si dovesse farne una sola ed anche questa volta il colpo
fallì.
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MARCELLO era uomo di risorse e non si diede per vinto. Poiché non poteva infrangere l'opposizione di
Curione dentro la cerchia delle mura in cui questi, come tribuno, poteva esercitare la sua potestà, cercò di
superarla operando oltre le mura.
Messa in giro la voce che CESARE marciava su Roma alla testa di quattro legioni, andò poi a trovare
POMPEO fuori della città e, consegnandogli una spada, gli ordinò di assumere il comando delle due legioni
destinate alla guerra contro i Parti, di arruolare soldati in tutta 1'Italia e di far tutto quello che credeva
necessario per il bene della Repubblica.
Lo scaltro POMPEO, che certo non era estraneo a quella manovra, chiese il consenso di C. CORNELIO
LENTULO e C. CLAUDIO MARCELLO, ostili a Cesare e consoli designati per il 49 a.C., ed accettò.
L'ostinazione di Curione era stata vinta dall'astuzia. Non potendo fare altro in favore di Cesare, Curione
consigliò il popolo di non accorrere sotto le armi all'appello di Pompeo, poi, temendo per sé, lasciò
segretamente Roma e, raggiunto Cesare che intanto era giunto già a Ravenna, lo informò degli avvenimenti
e l'esortò a marciare alla testa delle truppe verso la metropoli.
L'anno 50, volgeva alla fine e CICERONE ritornava dalla Cilicia. Vi era stato mandato l'anno prima con
l'incarico di proconsole, vi aveva governato con giustizia, onestà e clemenza ed in una facile spedizione
contro i Pindenissiti era stato insignito del titolo di "imperator".
Sbarcato il 16 novembre del 50 a Brindisi, era stato messo al corrente della situazione ed aveva sperato di
potere scongiurare un conflitto armato tra i due rivali, convinto che la guerra civile avrebbe avuto per
conseguenza spargimento di tanto sangue e 1'inaugurazione della tirannide. Con questa speranza Cicerone
giungeva a Roma, dove era accolto con onori e si faceva mediatore di pace.
L'atteggiamento conciliante di Cesare gliene porgeva l'occasione. Questi infatti, respingendo i consigli di
Curione, faceva conoscere di esser pronto a lasciare al 1° marzo del 49 il governo della Gallia Transalpina e
a congedare otto legioni; ma poneva come condizione che fino alla sua designazione al secondo consolato
gli fossero lasciate due legioni e il comando della Cisalpina o dell' Illiria.
Le offerte di Cesare e la mediazione di Cicerone e d'altri a nulla valsero però e forse, se accettate, non
avrebbero ritardato che di poco lo scoppio della guerra. Forse lo stesso desiderio di conciliazione che
Cesare mostrava non era del tutto sincero; infatti, mentre lui mandava proposte concilianti, a Roma i suoi
amici, non certo di propria iniziativa, incitavano il popolo a non correre sotto le insegne di Pompeo, e si
adoperavano affinché le due legioni destinate contro i Parti fossero subito inviate in Siria e addossavano la
responsabilità dei futuri, inevitabili torbidi, all'ambizione e alla prepotenza di Pompeo.
Fra questi amici di Cesare uno dei più attivi era il tribuno MARCO ANTONIO (MARC'ANTONIO); era figlio
del pretore dello stesso nome che aveva combattuto con esito infelice contro i pirati e sconfitto a Cidonia, ed
era morto nel 71 lontano dalla patria. Sua madre era stata Giulia, la zia di Cesare, passata in seconde nozze
con quel Cornelio Lentulo, compagno di Catilina, che Cicerone aveva processato e fatto giustiziare. Bello
come persona, pieno d'ingegno, carico di debiti sebbene giovanissimo, temendo per sé perché amico di
Clodio, era andato in Grecia a studiare eloquenza; invitato poi da Gabinio, governatore della Siria, si era
recato in quella provincia a comandarvi la cavalleria romana e quando Gabinio, comperato dall'oro di
Tolomeo Aulete e favorito da Pompeo, aveva accettato di rimettere con la forza sul trono d'Egitto il re
spodestato, Antonio aveva preso parte a quest'impresa, vi si era distinto, aveva acquistata grande popolarità
fra le truppe e si era guadagnate le simpatie degli Egiziani.
Lui, infatti, essendo comandante dell'avanguardia, aveva con la presa di Pelusio aperta la via dell' Egitto
all'esercito di Gabinio ed opponendosi a Tolomeo, che voleva sfogare le sue vendette sugli abitanti ribelli, si
era procurato la stima e l'affetto delle popolazioni.
Rientrato a Roma ed aiutato da Cesare con generose offerte di danaro, si era decisamente schierato in
favore del potente congiunto e, nominato tribuno, ora si batteva accanitamente per lui.
Dopo il rifiuto del Senato alle sue proposte, Cesare ne avanzò delle altre in una lettera che consegnò a
Curione perché la recapitasse. In questa missiva il governatore delle Gallie, dopo avere accennato alle sue
importanti conquiste e ribattute infondate le accuse mossegli dagli avversari, diceva che avrebbe lasciato il
comando delle legioni e delle province se Pompeo avesse fatto lo stesso e… terminava… dicendo che, "se il
Senato avesse rifiutato queste proposte, egli avrebbe vendicato se stesso e la patria".
Questa lettera, portata al Senato il giorno stesso in cui i nuovi consoli all'inizio del 49 a.C., prendevano
possesso del loro ufficio, suscitò grande indignazione per le minacce contenute nell'ultima frase. E a questa
soltanto i senatori diedero peso, trascurando le giuste considerazioni che Cesare faceva nel resto della
lettera. Il console CORNELLO LENTULO disse che se ne avesse ricevuto 1' incarico dalla Curia avrebbe
provveduto "lui" a fare rispettare "le leggi "e le decisioni del Senato; METELLO SCIPIONE dichiarò pure lui
minaccioso, che Pompeo aspettava solo una parola del Senato per mettere a disposizione le sue milizie e il
suo esercito; poi propose che Cesare fosse dichiarato nemico della Repubblica se entro un termine stabilito
non avesse deposto il comando.
Era insomma un vero e proprio ultimatum che si dava a Cesare.
Altrimenti? Altrimenti "guerra"!
Il Senato approvò la proposta di METELLO SCIPIONE, ma i tribuni MARC'ANTONIO e Q. CASSIO
LONGINO misero il veto all'emanazione del decreto.
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Allora accadde quello che CESARE desiderava per intervenire. I partigiani di Pompeo tumultuarono e
scagliarono atroci ingiurie contro i tribuni, ed i consoli ordinarono che fossero scacciati dalla Curia.
Era quello il "casus belli". MARC'ANTONIO e CASSIO informarono il popolo dell'onta subita e insieme con
CURIONE e il tribuno M. CELIO 1' 8 gennaio del 49 lasciarono Roma e partirono per il campo di Cesare.
Il giorno dopo, il Senato si riunì fuori le mura al cospetto di POMPEO dichiarando la Repubblica in pericolo.
A Pompeo fu affidato il comando supremo delle truppe, oltre che mettere a sua disposizione il tesoro dello
stato; in tutte le parti d'Italia furono inviati commissari affinché arruolassero milizie; e fu conferito il governo
delle varie province a persone che godevano la fiducia degli ottimati e di Pompeo, escludendo i cesariani.
Iniziava così la guerra civile, che doveva segnare la fine della gloriosa Repubblica, resistita oltre quattro
secoli e mezzo, e mettere -dopo una guerra civile -nelle mani di un solo uomo quasi tutto il mondo fino allora
conosciuto.
Ma prima di narrare le vicende della guerra tra CESARE e POMPEO è necessario tornare indietro e
raccontare quelle, gloriose e drammatiche, di un'altra guerra, senza la quale GIULIO CESARE non avrebbe
acquistato quel prestigio e quella forza che dovevano farlo diventare padrone della Repubblica.
Torniamo dunque all'inizio della Guerra nella Gallia Transalpina e alle conquiste di Cesare……il periodo
dall'anno 58 al 50 a.C. > > >
Fonti, Bibliografia, Testi, Citazioni:
TITO LIVIO - STORIE (ab Urbe condita)
POLIBIO - STORIE
APPIANO - BELL. CIV. STORIA ROMANA
DIONE CASSIO - STORIA ROMANA
PAOLO GIUDICI - STORIA D'ITALIA
UTET - CRONOLOGIA UNIVERSALE
I. CAZZANIGA , ST. LETT. LATINA,
+ altri, in Biblioteca dell'Autore
RIASSUNTO ANNO 45-44 a. C. La Congiura delle Idi di Marzo
CESARE:
100 a. C. Nasce a Roma
84 a. C. - Sposa la figlia di Cinna
77 a. C. - Fa il suo esordio politico con l'orazione contro Dolabella
76 a. C. - Viaggia in Grecia per studio
68 a. C. - E' questore
65 a. C. - Viene eletto edile
62 a. C. - Diventa pretore
60 a. C. - Nasce l'accordo con Pompeo e Crasso (1° Triumvirato)
59 a. C. - Viene eletto console
58 a. C. - Inizi la 1a guerra gallica
49 a. C. - Cesare passa il Rubicone
48 a. C. - Nella battaglia di Farsala sconfigge Pompeo
47 a. C. - Nuove campagne in Africa e in Oriente
46 a. C. - Celebra il trionfo a Roma
45 a. C. - Cesare vince a Munda - E' nominato "imperator"
44 a. C. - Cesare è ucciso, trafitto da ventitrè pugnalate il 15 marzo (Idi di Marzo)
IL RITORNO DI CESARE
La vittoria di Munda, appresa a Roma nell'aprile del 45, procurò a Cesare altri onori, altri privilegi ed altri
diritti.
Cinquanta giorni di supplicazioni in ringraziamento per la vittoria furono decretati dal Senato, che stabilì
anche che a perpetuare il ricordo della giornata di Munda ogni anno, nel giorno del 21 aprile, in occasione
delle feste Palilie, fossero allestiti pubblici giochi. A Cesare si concesse di portare ovunque e sempre la
veste trionfale e i calzari rossi dei re albani; gli fu innalzata, nel tempio di Quirino, una statua con l'epigrafe
"Al Dio Invitto" ed un'altra in Campidoglio presso quelle dei re; gli fu dedicato un collegio di sacerdoti che da
lui presero il nome di "Giulivi", gli fu dato il titolo di "Liberatore" e ai suoi discendenti quello d'Imperatore e
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come a Romolo era stato innalzato un tempio così in onore di Cesare ne fu eretto uno, il quale - ironia ! - fu
intitolato alla Libertà.
Né fu tutto. Per volontà del popolo si stabili che la Repubblica donasse a Cesare una casa sul Palatino, che i
governatori delle province dipendessero da lui, che nessuno accanto a lui potesse essere rivestito dell'
imperio, che potesse creare anche i magistrati plebei e che avesse la carica di console per un decennio.
Il Senato e il popolo, che non erano più i vigili e fieri custodi della libertà repubblicana, si sceglievano un
padrone, gli conferivano illimitata autorità, mettevano nelle sue mani l'arma del comando, lo deificavano e
aprivano la porta alla monarchia.
E come se gli onori di cui lo avevano ricoperto non bastassero, lo chiamarono "Padre della Patria", diedero il
suo nome (Luglio da Julius) al mese nel quale cadeva il giorno della sua nascita che fu dichiarato festivo, gli
dedicarono statue in tutti i templi di Roma e nei municipi e fecero erigere in suo onore un terzo tempio che fu
consacrato alla Concordia.
Tornato in Roma celebrò il trionfo per le vittorie riportate nella Spagna e poiché volle associarsi i
luogotenenti Q. FABIO MASSIMO e Q. PEDIO, che con lui avevano egregiamente combattuto; così il trionfo
ebbe la durata di tre giorni.
Fu uno dei suoi errori. Il popolo applaudì, ma i pompeiani, che in Italia erano ancora molti, non perdonarono
a Cesare quel trionfo celebrato non sui barbari bensì su una parte di cittadini romani stessi.
Conveniva a Cesare, come aveva fatto dopo la guerra d'Africa, non ridestare con inutili pompe il ricordo della
sanguinosa lotta civile; lui invece si credeva troppo forte; gli onori di cui era stato ricoperto lo avevano
ubriacato consigliandolo a tutto osare, e, rinfocolati così gli odi, fece nascere nell'animo dei suoi nemici il
desiderio della vendetta.
Ma alla vendetta che avrebbe potuto abbattersi sul suo capo, Cesare non pensava; pacificate le province,
divenuto arbitro dei destini di Roma e del mondo, lui rivolgeva la mente ad imprese che solo il suo genio
poteva concepire. Roma doveva essere la signora assoluta di tutte le genti; ma non tutte obbedivano a
Roma; oltre il Reno e il Danubio vivevano numerosissimi popoli ancora liberi, che le sue legioni più di una
volta avevano vinto in battaglia e sapevano tenere in rispetto; oltre le frontiere orientali c'era un altro popolo
bellicoso che aveva sconfitto le armi della Repubblica ed ucciso Crasso, e questi erano i Parti; e c'erano
altre regioni sconfinate dove si era spinto uno dei più grandi conquistatori dell'antichità: Alessandro Magno.
Cesare vagheggiava conquiste grandiose: soggiogare i Parti, penetrare nell'Ircania, fare del Caspio un mare
romano, sottomettere la Scizia misteriosa, percorrere l'immensa Sarmazia, ed infine sgominare e
sottomettere 1'indomita Germania.
Cesare pensava di rendere più rapide e più facili le comunicazioni tra l'occidente e l'Oriente tagliando 1'
istmo di Corinto e quello di Suez, di aprire attraverso gli Appennini una grande strada militare che
congiungeva Roma con l'Adriatico, di bonificare l'Italia centrale prosciugando il lago Fucino e le paludi
Pontine per mezzo di un canale dal Tevere a Terracina, di estendere il censo a tutte le province
misurandone il vastissimo territorio.
Voleva che Roma fosse la capitale degna di quest'immenso impero, allargandola ed abbellendola. Al Campo
Marzio doveva essere sostituito il Vaticano il primo destinato a diventare un foro della metropoli con un
tempio nel mezzo. (fu il primo dei Fori Imperiali - Foro di Cesare, con il tempio di Venere Genitrice)
La vita dell'intelletto doveva pulsare tutta a Roma. Per attirarvi i dotti stranieri stabilì di concedere la
cittadinanza a tutti coloro che coltivavano ogni genere di studi; per far di Roma un centro di sapere, progettò
di costruire una grande biblioteca sul Palatino e n'affidò la direzione a TERENZIO VARRONE, uno degli
uomini più eruditi del tempo; per rendere la metropoli più bella decretò di costruire un immenso anfiteatro ai
piedi della rupe Tarpea, un tempio alla Felicità e sostituire la Curia Ostilia con un'altra che da lui doveva
prendere il nome di Curia Giulia.
Poi commise un altro errore che derivò in gran parte dalla sua natura generosa.
In guerra egli sapeva soffocare la voce del cuore ed essere spietato per assicurarsi la vittoria e l'obbedienza
dei popoli conquistati; in pace si illuse di governare con la clemenza, di fare scomparire gli odi col perdono,
di cattivarsi l'affetto dei nemici con la generosità.
Questa generosità invece era come un affronto al nemico vinto, il quale se ne sentiva umiliato e non poteva
non bramare la riscossa, non poteva cacciare la visione di Catone suicida per la libertà e di Gneo decapitato;
non poteva adattarsi a veder trionfare colui che aveva ucciso la repubblica ed ora troneggiava sulle sue
rovine.
Cesare dunque s'illuse di poter pacificare gli animi con la clemenza; ordinò che fossero richiamati i fuorusciti
pompeiani e li ammise nelle magistrature; non contento di ciò, quando nelle elezioni del dicembre del 45,
riuscirono eletti fra i pretori M. GIUNIO BRUTO e C. CASSIO LONGINO, sostenitori una volta di Pompeo,
Cesare diede loro delle cariche importanti conferendo al primo la pretura urbana, al secondo la giurisdizione
sui forestieri. Vane generosità! I nemici, beneficati, meditavano la vendetta, i vecchi repubblicani non
sapevano rassegnarsi al nuovo regime che di repubblicano aveva soltanto il nome e che nella sostanza era
prettamente monarchico.
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Mentre il malcontento dei nemici aumentava sempre di più, pur tenendosi nascosta ogni cosa nei petti, tutte
queste servili creature di Cesare pareva che facessero di tutto per mettere in cattiva luce il dominatore.
Gli avevano dedicato templi e statue, gli avevano concessi diritti e privilegi, lo avevano fatto arbitro delle
magistrature, avevano riunito nelle sue mani, tutti i poteri di cui prima andavano fieri il Senato e il popolo, lo
avevano chiamato semidio, gli avevano dato facoltà di portare la veste trionfale e i calzari dei re albani; ora
gli conferivano a vita la podestà censoria e la dittatura, estendevano per lui 1'inviolabilità tribunizia fuori le
mura di Roma, gli innalzavano un tempio con il nome di Giove Giulio, gli decretavano supplicazioni e giochi,
gli accordavano il privilegio d'indossare la veste regia.
Né questo era tutto. Tornando Cesare un giorno dalle ferie latine alcuni suoi amici lo salutarono con il titolo
di re; in occasione delle feste lupercali, al cospetto del popolo, MARC'ANTONIO gli offrì un diadema regale
ornato d'alloro. Cesare finse di rifiutarlo ed ordinò che fosse appeso nel tempio di Giove. Il popolo applaudì
la decisione di Cesare, mostrando quanto fosse ostile al titolo e alle forme regali. Cesare non trasse nessun
insegnamento dal contegno del popolo.
Avendo i suoi amici incoronato con il diadema una sua statua che sorgeva nel Campidoglio, due tribuni della
plebe, FLAVIO e MARCELLO osarono strapparlo e fecero arrestare e condurre in prigione coloro che
avevano salutato Cesare re. Qualche giorno dopo Cesare depose dalla carica i due tribuni.
Intanto si affrettavano i preparativi per la guerra contro i Parti. Si concentravano nell'Illiria, nell'Acaia e nella
Macedonia diecimila cavalli e sedici legioni. Dagli amici di Cesare fu messa in giro la voce che, consultati i
libri sibillini, vi si era trovato scritto, che solo da un re sarebbero stati vinti i Parti.
Tutto ciò faceva capire ai repubblicani ed ai pompeiani che si voleva conferire a Cesare il titolo di re nelle
province.
Re fuori, poi -questo temevano i suoi nemici- Cesare lo sarebbe divenuto prestissimo anche in Roma.
Allora decisero di vendicare la morte di Pompeo e di liberare Roma dal tiranno uccidendolo; era impossibile
abbatterlo in altro modo.
LA CONGIURA
Anima di una congiura ordita contro il dominatore fu C. CASSIO LONGINO.
Era stato costui questore - come abbiamo visto in altre pagine - con CRASSO nella disastrosa spedizione
contro i Parti; dopo la morte del triumviro aveva tenuto il governo della Siria; nel 52 era stato eletto tribuno
della plebe; dopo la giornata di Farsaglia nella quale aveva combattuto ma dalla parte di Pompeo, invece di
fuggire, lui si era sottomesso a Cesare ed era stato -bonariamente- nominato da lui luogotenente e, nel 45,
divenne governatore della Macedonia.
Geloso di BRUTO, che era stato nominato pretore urbano, carica alla quale egli aspirava, animato più dal
risentimento e da invidia che dall'amore della libertà, CASSIO seppe riunire intorno a sé i più accaniti nemici
di Cesare.
Erano fra questi LUCIO TULLIO CIMBRO, DECIMO BRUTO ALBINO, PUBLIO SERVILIO CASCA, C.
TREBONIO, LABEONE, e QUINTO LIGARIO, che, accusato nel 46 da Tuberone e difeso da Cicerone ("pro
Ligario"), era stato assolto da Cesare.
Mancava però ai congiurati un capo che per le sue virtù e il prestigio s'imponesse e conferisse al misfatto un
aspetto nobile e patriottico.
Fu scelto a capeggiar la congiura M. GIUNIO BRUTO.
Era questi filosofo, oratore, ardente patriota, nipote di CATONE, di cui aveva sposato la figlia Porcia, uomo
dai costumi severi, dal carattere fermo, di specchiata onestà di cui aveva fornito luminosa prova governando
la Gallia Cisalpina, e si pretendeva che fosse - come abbiamo detto altrove - discendente di quel Bruto che
aveva vendicato la morte di Lucrezia.
Un delitto commesso in nome della libertà, da gente capitanata dal discendente di chi aveva dato i natali alla
Repubblica non poteva non essere accetto al popolo.
E un giorno, nel febbraio del 44, sotto la statua di Bruto, il collega di Collatino, fu vista la scritta, vergata da
ignote mani: "Ah ! se tu fossi ancor vivo !" e un'altra: "Perchè sei morto ?" e sullo scanno dove di solito
sedeva il genero di Catone si lessero le seguenti parole: "Bruto, tu dormi", "Veramente tu non sei
discendente di Bruto!".
Indotto da questi perfidi e maliziosi incitamenti e convinto di servire la causa della libertà, M. GIUNIO
BRUTO dimenticò i grandissimi favori di cui Cesare l'aveva colmato, l'affetto profondo che il dittatore nutriva
per lui, ed entrò nelle file dei congiurati.
Occorreva far presto. Il 18 marzo, il giorno dopo l'anniversario di Munda, Cesare doveva partire per la guerra
contro i Parti come lui stesso aveva annunciato; il 15 di quello stesso mese doveva svolgersi un'assemblea
del Senato e si vociferava che quel giorno L. AURELIO COTTA avrebbe proposto di dare a Cesare il titolo di
re nelle province.
Fu scelto quel giorno per uccidere il tiranno.
Ma poco mancò che il disegno dei congiurati non andasse a vuoto. Qualcosa della congiura era trapelato e,
d'altro canto, degli infausti presagi si erano verificati che consigliavano Cesare a stare guardingo.
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A Capua - secondo quel che narrano Svetonio e Plutarco - si era trovata una tavola di bronzo con
un'iscrizione greca in cui era detto che un discendente di IULO sarebbe stato ucciso da uno dei suoi
prossimi. In quel mese di marzo i cavalli consacrati al passaggio del Rubicone e lasciati a pascolare in
libertà si erano rifiutati di prendere cibo. Uomini di fuoco erano stati visti muoversi per l'aria; la mano di uno
schiavo era stata avvolta da una fiamma senza che rimanesse scottata; nel corpo di una vittima offerta da
Cesare alle divinità non si era trovato il cuore; durante un altro sacrificio, l'augure Spurina aveva detto a
Cesare che un grave pericolo l'avrebbe minacciato per le idi di marzo (15 marzo); cento vittime sgozzate nei
templi di Roma per ordine di Cesare non avevano dato presagi favorevoli e Calpurnia, moglie del dittatore,
aveva una notte sognato di tenere Cesare ferito tra le braccia.
Cesare non era uomo da lasciarsi impaurire dai tristi presagi: ma il 15 marzo, pregato dalla moglie
piangente, decise di non recarsi all'assemblea del senato che doveva avvenire nella Curia Pompea. Ma
Decimo Bruto Albino, uno dei congiurati, preoccupato dell'assenza di Cesare, andò a trovarlo e lo indusse a
recarsi all'assemblea.
Cesare uscì. Appena fuori di casa uno schiavo, al cui orecchio era giunta notizia della congiura, tentò di
avvicinarlo, ma fu respinto; lungo la via il retore ARTEMIDORO di Gnido, al quale non erano ignoti i propositi
dei congiurati, gli pose un foglio in mano in cui gli rivelava la congiura in ogni suo particolare, ma Cesare,
premuto dalla folla degli amici e dai supplicanti che di solito lo seguivano nelle strade di Roma, non ebbe il
tempo di leggerlo. Giunto nella Curia, Cesare andò a sedersi nella sedia curule, mentre C. TREBONIO e
DECIMO BRUTO, per impedire a MARC'ANTONIO di soccorrere l'amico, lo attiravano fuori con il pretesto di
dirgli cose che lo riguardavano.
Allora, come tra i congiurati era stato stabilito, TULLIO CIMBRO si avvicinò al dittatore e si mise a
supplicarlo per il richiamo del fratello dall'esilio, e nel medesimo tempo si avvicinarono tutti gli altri congiurati
mostrando di interessarsi alla sorte del proscritto e di volere unire le loro suppliche a quella di Tullio.
Cesare oppose un reciso rifiuto alla richiesta di Tullio e questi, mentre i suoi compagni si stringevano ancora
di più attorno al dittatore, con una mossa improvvisa, afferrò la sua toga scoprendogli le spalle.
Cesare protestò dicendo che gli si faceva violenza, ma CASCA, tirato fuori un pugnale gli vibrò un colpo
indirizzato alla gola.
Il dittatore in quel momento stava per alzarsi e la lama dell'assassino, strisciando, produsse solo una leggera
ferita. Cesare, afferrando con una mano il braccio armato del feritore, prese con l'altra uno stilo da scrivere
per difendersi ed esclamò "Scellerato Casca ! Che fai"
Stretto come da una morsa, Casca urlò invocando l'aiuto del fratello; gli altri congiurati sguainarono le spade
e i pugnali, CASSIO ferì Cesare, al volto, mentre i senatori, sgomenti, indietreggiavano, inorriditi dal delitto
che stava per esser commesso.
Ma Cesare resisteva, dibattendosi tra i ferri che si accanivano contro di lui da ogni parte, cercando di
sfuggire alla stretta.
Ad un tratto, tra gli avversari, egli scorse M. GIUNIO BRUTO, il figlio di Servilia; l'uomo che egli amava come
un figlio, il giovane che aveva beneficato e onorato. A quella vista un grande sconforto s'impadronì di lui.
"Anche tu, figlio mio !" - esclamò con voce angosciata.
Furono le sue ultime parole. Si coprì con un lembo della toga il volto, lasciò che le lame dei congiurati lo
trafiggessero e, colpito ventitre volte, si abbatté ai piedi della statua di Pompeo, macchiandone di sangue il
piedistallo.
Quando morì, Cesare non aveva che cinquantasei anni. Se il ferro dei congiurati non lo avesse spento e
fosse vissuto un'altra decina di anni, forse diverso sarebbe stato il corso degli avvenimenti futuri e, i Parti
soggiogati, la Scizia, la Sarmazia, la Germania conquistate e impregnate di civiltà romana, sarebbero venute
a mancare quelle tremende invasioni barbariche che dovevano abbattere la potenza di Roma e ricoprire di
tenebre il mondo.
Con Cesare alcuni congiurati erano convinti di spegnere la sorgente della tirannide; ma iniziatore della
tirannide non era Cesare; la causa era che la libertà repubblicana era morta da qualche tempo e viveva solo
nell'animo di alcuni idealisti come Catone e Bruto. C'era invece a Roma la più grande anarchia, contro la
quale in questi ultimi anni Cesare tenacemente aveva operato riuscendo a ristabilire con una ferrea mano
l'ordine.
Le motivazioni di questa anarchia erano
* rivalità e invidie personali;
* ambizione a riportare il potere nelle mani della classe senatoria aristocratica;
* volontà di questa classe di mettere fine ad una politica economica che danneggiava i loro affari (produzioni
locali, prestiti a usura, gestione dei grandi commerci, alti prezzi dei loro terreni , ecc ecc.).
* brama a ripristinare le antiche libertà politiche. Ovviamente questa libertà era unicamente quella della
classe privilegiata che voleva farsi le leggi che gradiva.
Ed era illusoria quest'ultima, poiché la classe aristocratica, essa stessa non era libera, era chiusa nei suoi
interessi egoistici, e non aveva saputo in questi ultimi anni della storia di Roma, cogliere le nuove esigenze
dei tempi e soddisfare le richieste di tanta parte del popolo, ed era rimasta ostinatamente legata ad un
sistema politico che da qualche tempo non funzionava più.
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Roma si era già avviata al regime monarchico con Mario, con Silla, con Pompeo, né era possibile ormai altra
forma di governo, né si poteva desiderare di meglio che l'energico governo di un uomo il quale non
pensasse a soddisfare la propria ambizione e a regnare con il sangue e rivolgesse le cure alla grandezza e
al bene dello Stato ed alla concordia dei cittadini.
Quest'uomo era venuto; quest'uomo era Cesare il quale -lo abbiamo visto in tutti questi anni- si era tenuto
lontano dalle vendette; poi con i suoi successi militari, con la vittoria su Pompeo, con la presa del potere,
aveva beneficiato perfino i nemici politici, ma aveva fiaccato la potenza dell'oligarchia che era fuori dai tempi
e dai luoghi, lui voleva estendere e consolidare la signoria di Roma nel mondo con le armi e con le leggi e,
lasciava al popolo, che sempre aveva amato, gran parte dei propri beni.
I CESARICIDI CHI ERANO, E COME POI FINIRONO
di Giovanni Ceglia
I cesaricidi furono non più di venti, gli aderenti alla congiura un numero variabile tra i 60 e gli 80. Tra di loro,
tutti senatori, un consolare, Caio Trebonio, e numerosi pretori tra cui Cassio, Bruto e Casca.
Le motivazioni dei congiurati erano profondamente diverse, come erano diverse le loro vicende personali.
La congiura univa due diversi gruppi, uno di Pompeiani e repubblicani ed uno composto da alcuni Cesariani
mossi da ragioni personali unite forse ad un certo lealismo verso la repubblica ; la mente di questi Cesariani
delusi era Caio Trebonio, il quale aveva reconditi, se non inesistenti motivi personali per desiderare la morte
di Cesare a differenza di tutti gli altri Cesariani aderenti alla congiura.
Decimo Bruto, forse il più valido collaboratore di Cesare in Gallia dopo Labieno, determinante nella caduta di
Marsiglia, pretore nel 44 a.c., proconsole in Gallia Cisalpina nel 43, console designato nel 42, poteva essere
contrariato dall'essere escluso dallo scacchiere orientale dove il dittatore si sarebbe recato per una guerra
della durata triennale. Galba, veterano della guerra gallica, pretore nel 54 si allontanò dal dittatore per la
mancata nomina a console nel 48, proprio a vantaggio del suo nemico Servilio Isaurico, un ex Catoniano.
Minucio Basilo, combattente in Gallia, a Farsalo, pretore forse nel 45, desiderava governare una provincia.
Caio e Publio Servilio Casca aderirono probabilmente poiché si sentivano mal ricompensati dalla loro
vicinanza a Cesare.
Tillio Cimbro, tra i più noti sostenitori del regime cesariano, governatore designato della Bitinia per il 44, non
riusciva ad ottenere la revoca dell'esilio del fratello.
Caio Trebonio, console nel 45, governatore dell'Asia designato per il 44, avrebbe avuto un ruolo di primo
piano nella guerra partica che Cesare si accingeva a compiere, veterano di Alesia, principale fautore della
presa di Marsiglia, aveva avuto alcuni insuccessi contro i Pompeiani in Spagna anche se questa unica
motivazione plausibile del suo distacco dal dittatore appare debole.
Più chiare le motivazioni dei Pompeiani e dei Repubblicani, vindici di Pompeo e restauratori della repubblica.
Tra di loro, oltre a Cassio e Bruto, Rubrio Ruga, Sesto Nasone, Quinto Ligario probabilmente reduci della
battaglia di Tapso e graziati da Cesare (Ligario era stato graziato da Cesare due volte, dopo Farsalo e dopo
Tapso). L'elenco si completa con Ponzio Aquila, che manifestava aperta ostilità per le tendenze
monarcheggianti di Cesare, con Cecilio Buciliano ed un suo fratello anch'egli di nome Cecilio, Marco Spurio,
e con i Catoniani Petronio, Antistio Labeone, Turullio e Cassio Parmense.
Tra gli altri aderenti alla congiura o simpatizzanti con essa forse si annoverano Domizio Enobarbo, Cornelio
Cinna, Popilio Lenate e Sesto Pompeo omonimo del più celebre ammiraglio.
Il resto della vita di alcuni è lacunosa tranne il fatto confermato da Svetonio e Plutarco che pochi
sopravvissero a lungo e tutti furono accomunati dalla fine violenta della loro esistenza.
Svetonio, alludendo probabilmente ai soli capi della congiura, dice che non sopravvissero per più di tre anni
alle Idi di Marzo e alla notizia dei più disparati destini aggiunge, per alcuni di essi, il naufragio.
Il primo a morire fu Caio Trebonio, circa un anno dopo le Idi di Marzo, ucciso dal Cesariano Cornelio
Dolabella nella provincia di Asia,che governava per una disposizione del dittatore resa esecutiva pochi giorni
dopo la sua morte da un accordo tra Cicerone e Marco Antonio, che riteneva valide le nomine fatte dal
dittatore. Poco dopo cadeva nella guerra di Modena Ponzio Aquila e nei postumi di quel conflitto veniva
ucciso Decimo Bruto, che governava la Gallia Cisalpina beneficiando, come Trebonio, delle disposizioni di
Cesare.
Probabilmente anche Minucio Basilo muore nel 43, assassinato per cause quasi certamente estranee alle
vicende politiche.
Proscritti per volontà di Ottaviano, i Cesaricidi tentano di trovare rifugio in oriente, dove Cassio, Bruto e Tillio
Cimbro governavano rispettivamente la Siria, la Macedonia e la Bitinia ; i primi per volontà del senato a
maggioranza pompeiana che tolse quelle provincie ai Cesariani Dolabella e a Marco Antonio, il terzo era
stato designato dallo stesso Cesare e pertanto la governava da più tempo.
Servilio Casca, pretore nel 43 è il solo certo dei transfughi, dei quali non si conosce il numero. E' inoltre
incerto se tra due proscritti uccisi dai triumviri di nome Ligario figurasse il cesaricida.
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Tillio Cimbro, al comando di una flotta, tenta di disturbare gli sbarchi delle forze triumvirali assieme a Staio
Murco e a Sesto Pompeo. Poi Cimbro si ricongiunge con le legioni di Cassio e di Bruto che si schierano
nella piana di Filippi ; oltre ai tre, anche Casca è menzionato da Plutarco nelle fasi della battaglia nel campo
di Giunio Bruto. Mancando notizie certe, tuttavia da Appiano e Cassio Dione si deduce che la battaglia di
Filippi fu una ecatombe per i cesaricidi che vi presero parte. I più scelsero il suicidio, oltre naturalmente,
Cassio e Bruto, i fratelli Caio e Servilio Casca ed Antistio Labeone accomunati in questo da altri capi
repubblicani. I superstiti certi della battaglia furono tre : Petronio, Turullio e Cassio Parmense.
Petronio viene ucciso probabilmente nel 41 per ordine di Marco Antonio nella città di Efeso. Turullio e Cassio
Parmense, il secondo durante la battaglia si trovava in Asia per conto di Bruto, riescono a riparare nei
territori controllati da Sesto Pompeo, assieme al figlio di Cicerone. Dopo la disfatta di Sesto, i due cesaricidi
superstiti passano in oriente al servizio di Marco Antonio, che in opposizione ad Ottaviano ha mutato la sua
posizione verso i repubblicani, influenzato dal repubblicano Domizio Enobarbo, unico tra i presunti congiurati
ad essere stato amnistiato perché secondo Svetonio innocente. Cassio si adopera come libellista, Turullio si
occupa della costruzione della flotta del suo nuovo comandante, disboscando un bosco sacro trasformando
l' eccesso di zelo in empietà.
Dopo la sconfitta antoniana ad Azio, Turullio viene cinicamente sacrificato dall'ex triumviro ad Ottaviano, che
vindice del suo padre adottivo lo mette a morte nell'isola Greca dove aveva disboscato il bosco sacro.
In questo tempo, probabilmente ad Atene, veniva ucciso anche Cassio Parmense, ultimo dei cesaricidi a
morire. Non erano trascorsi quindici anni dalle idi di Marzo.
TORNIAMO ALLA MORTE DI CESARE
Quando si sparse per la città la notizia della morte di Cesare, Roma rimase sbigottita. Molti, amici e
sostenitori furono presi da panico, temendo le vendette, come al tempo di Mario, Silla; ora si sarebbero
scatenati i pompeiani.
Ma anche i congiurati, e i loro sostenitori, non è che stavano meglio; quanto sarebbe durato lo sbigottimento,
i timori, la commozione prima dello scoppio di una terribile guerra civile?
Gli eventi che seguirono sono narrati nel prossimo capitolo... il periodo dall'anno 44 al 43 > > >
Fonti, Bibliografia, Testi, Citazioni:
TITO LIVIO - STORIE (ab Urbe condita)
POLIBIO - STORIE
APPIANO - BELL. CIV. STORIA ROMANA
DIONE CASSIO - STORIA ROMANA
PAOLO GIUDICI - STORIA D'ITALIA
UTET - CRONOLOGIA UNIVERSALE
I. CAZZANIGA , ST. LETT. LATINA,
+ altri, in Biblioteca dell'Autore
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81
Il mimo
Riprendere quanto detto in Parte I. (con lettura critica di Bonaria) e ricollegarsi
succederà in epoca imperiale.
a quanto
Istituzione stabile nelle feste Floralia almeno dal 173 a.C.
Secondo la testimonianza di Cicerone raccolta in fam. 9,16,7, in epoca tardo repubblicana il mimo
sostituisce l’atellana come spettacolo conclusivo dopo la rappresentazione delle tragedie.
Controllare testo lettera per atteggiamento Cicerone.
Introduzione
Il mimo in età repubblicana domina la scena in età cesariana anche al posto dell’atellana.
Testi e testimonianze
Cic., fam., 9,16,7
Nunc venio ad iocationes tuas, quoniam tu secundum 'Oenomaum' Acci non, ut olim solebat, Atellanam sed,
ut nunc fit, mimum introduxisti.
Bibliografia
I frammenti del mimo in CRF Comicorum Romanorum praeter Plautum et Terentium Fragmenta,
Ribbeck 3, pp. 339-85.
Mimorum Romanorum fragmenta, ed. Bonaria M., 2 vol., Genova, 1955-1956, 180 et 250 p.
(Pubblicazioni dell'Istituto di filologia classica, 5), 19652.
Romani Mimi, ed. Bonaria M., Roma, 1965, (Poetarum Latinorum reliquiae, VI, 2): Traduzione e
commento.
Studi
F. Giancotti, Mimo e gnome, Messina-Firenze 1967.
Bettini, 1, 447-48.
Laberio Decimo
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82
Cenni biografici
Decimo Laberio, di rango equestre, visse tra il 106 a.C. e il 43 a.C..
Opere
Dei suoi mimi ci rimangono 43 titoli e 176 versi.
Orazio (sat. 1,10, 5-6) non gli vuole riconoscere dignità di poeta, mentre nel genere satirico almeno
qualche concessione fa a Lucilio.
Notato da alcuni il suo linguaggio tagliente nei confronti di Cesare.
Testi e testimonianze
Hor., sat., 1,10, 1-20
[Lucili, quam sis mendosus, teste Catone,
defensore tuo, pervincam, qui male factos
emendare parat versus, hoc lenius ille,
quo melior vir et est longe subtilior illo,
qui multum puer et loris et funibus udis
exoratus, ut esset, opem qui ferre poetis
antiquis posset contra fastidia nostra,
grammaticorum equitum doctissimus. ut redeam
illuc:]
Nempe inconposito dixi pede currere versus
Lucili. quis tam Lucili fautor inepte est,
ut non hoc fateatur? at idem, quod sale multo
urbem defricuit, charta laudatur eadem.
nec tamen hoc tribuens dederim quoque cetera;
nam sic
et Laberi mimos ut pulchra poemata mirer.
ergo non satis est risu diducere rictum
auditoris; et est quaedam tamen hic quoque
virtus.
est brevitate opus, ut currat sententia neu se
inpediat verbis lassas onerantibus auris,
et sermone opus est modo tristi, saepe iocoso,
defendente vicem modo rhetoris atque poetae,
interdum urbani, parcentis viribus atque
extenuantis eas consulto. ridiculum acri
fortius et melius magnas plerumque secat res.
illi, scripta quibus comoedia prisca viris est,
hoc stabant, hoc sunt imitandi; quos neque
pulcher
Hermogenes umquam legit neque simius iste
nil praeter Calvum et doctus cantare Catullum.
Macr., satur.2,7
[7, 1] Poc'anzi Aurelio Simmaco ed io abbiamo menzionato Laberio: se racconteremo qualche
arguzia di costui e di Publilio, riusciremo ad evitare la frivolezza di introdurre commedianti in un
banchetto e nello stesso tempo ci sembrerà di dare al trattenimento quel tono di rinomanza
assicurato dalla loro presenza. [2] Laberio era un cavaliere romano di rude franchezza di
linguaggio: Cesare gli offrì cinquecentomila sesterzi perché si presentasse sulla scena a
rappresentare di persona i mimi che scriveva. Ma la richiesta di un potente, non solo quando invita
ma anche se chiede per favore, è un obbligo; per cui Laberio attesta nel prologo di essere stato
costretto da Cesare con questi versi:
O necessità, la cui impetuosa furia avversa
molti vollero sfuggire, ma pochi riuscirono,
ove mi cacciasti quasi privo di sensi?
Quello che nessuna ambizione, nessun donativo mai,
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F. D'ALESSI - Letteratura latina - Parte II,1 - Il periodo classico
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nessun timore, nessuna forza né autorità,
poté smuovere in gioventù da dignitoso rango,
ecco che da vecchio si lasciò facilmente piegare,
per le espressioni moderate di un uomo eccelso,
da una preghiera fatta con voce pacata e carezzevolel
A chi gli stessi dèi nulla poterono negare,
come avrei potuto io, uomo, dir di no?
Io, dopo sessant'anni vissuti senza biasimo,
uscito di casa cavaliere romano,
vi ritornerò commediante. Certo oggi
vissi un giorno di più di quanto avrei dovuto.
O fortuna, smoderata nel bene così come nel male,
se ti piaceva nel fiore della gloria letteraria
infrangere la cima della mia fama,
perché, quand'ero nel pieno rigoglio delle forze,
quando potevo dar sodisfazione al popolo e a tale uomo,
non mi piegasti incurvandomi per strapparmi?
Ora mi abbatti? a che? che porto sulla scena?
bellezza d'aspetto o dignità di portamento?
virtù dell'animo o suono di voce gradevole?
come l'edera serpeggiando uccide il vigor delle piante,
così la vecchiaia mi stronca avvolgendomi d'anni:
simile a sepolcro, non ho più che il nome.
[4] Anche nell'azione scenica, ogni volta che poteva, faceva le sue vendette: rappresentava il
personaggio di un Siriano che, massacrato di sferzate, faceva l'atto di sottrarsi esclamando:
orsù Quiriti! non abbiamo più libertà;
e poco dopo aggiunse:
occorre che tema molti colui che molti temono.
[5] A queste parole tutta la gente si volse a guardare unicamente Cesare, notando che il suo
potere dispotico era sferzato da questa mordace canzonatura. In séguito a ciò egli rivolse il suo
favore a Publilio. [6] Questo Publilio era d'origine siriana: da ragazzo, presentato al patrono del suo
padrone, se ne acquistò la simpatia sia per l'arguzia e l'ingegno che per la sua bellezza. Una volta
quello, vedendo uno dei suoi schiavi affetto da idropisia che stava sdraiato sull'aia, lo sgridò
chiedendogli che cosa facesse al sole; e Publilio: o Si scalda la sua acqua ». Un'altra volta durante
una cena era sorta una discussione: quale riposo potesse riuscir molesto; ciascuno diceva la sua,
e Publilio: “I piedi gottosi ». [7] In séguito a questi e altri fatti ottenne la libertà; dopo aver seguìto
studi accurati, compose dei mimi che cominciò a rappresentare in varie città d'Italia ottenendo
enorme successo. Presentatosi a Roma in occasione dei giochi di Cesare, invitò ad una sfida tutti
quelli che avevano un contratto teatrale per le loro opere e la loro partecipazione personale:
ciascuno proponesse un argomento e a turno lo svolgesse in gara con lui. Nessuno ricusò ed egli li
vinse tutti, fra cui anche Laberio. [8] E Cesare sorridendo proclamò:
Laberio, nonostante il mio favore, fosti vinto dal Siriano;
e sùbito consegnò a Publilio la palma della vittoria e a Laberio un anello d'oro insieme con
cinquecentomila sesterzi. Mentre Laberio si ritirava, Publilio gli disse:
Con chi gareggiasti come autcre sii benigno come spettatore.
[9] Ma Laberio nella rappresentazione successiva inserì questi versi al suo nuovo mimo:
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non possono sempre tutti essere primi;
quando sei giunto al culmine della fama,
è difficile restarci e si fa più presto a cadere che a salire:
io caddi, cadrà il mio successore: la gloria è di tutti.
[10] Di Publilio si ricordano massime spiritose e molto adatte all'impiego comune. Ne ricordo le
seguenti, racchiuse ciascuna in un sol verso:
[11] Dando riceve un beneficio chi dà a persona degna.
Sopporta, non incolpare ciò che non si può mutare.
Quello a cui è lecito più del normale vuole più di quanto è lecito.
Per strada un compagno che parla è come una carrozza.
La frugalità è miseria che ha buona fama.
Pianto di erede è riso sotto la maschera.
La pazienza troppo spesso provata diventa furore.
A torto accusa Nettuno chi fa naufragio per la seconda volta.
Discutendo troppo si perde la verità.
È una parte di beneficio se ricusi subito ciò che è richiesto.
Compòrtati con l'amico pensando che può diventarti nemico.
Sopportando una vecchia ingiuria inviti ad una nuova.
Non si vince mai il pericolo senza pericolo.
Hier., chron., ol. 184
Laberius, mimorum scriptor, decimo mense post Caesaris interitum, Puteolis moritur.
Publius mimographus, natione Syrus, Romae scenam tenet
Fronto, 4,3,2
Oratorum post homines natos unus omnium M. Porcius eiusque frequens sectator C. Sallustius; poetarum
maxime Plautus, multo maxime Q. Ennius eumque studiose aemulatus L. Coelius nec non Naevius,
Lucretius, Accius etiam, Caecilius, Laberius quoque. Nam praeter hos partim scriptorum animadvertas
particulatim elegantis, Novium et Pomponium et id genus in verbis rusticanis et iocularibus ac ridiculariis,
Attam in muliebribus, Sisennam in lasciviis, Lucilium in cuiusque artis ac negotii propriis.
Tra tutti gli oratori, da che gli uomini sono al mondo, solo M. Porcio e il suo diligente seguace C.
Sallustio; tra i poeti, Plauto, soprattutti, molto di più Q. Ennio e L. Celio che si sforzò con zelo di
uguagliarlo e anche Nevio, Lucrezio e Accio, Cecilio e persino Laberio. Infatti, ad eccezione di
questi, si possono notare alcuni scrittori eleganti in particolari espressioni: Novio, Pomponio e altri
di questo tipo nel linguaggio rustico, scherzoso e buffonesco, Atta nel linguaggio femminile,
Sisenna in quello licenzioso, Lucilio in quello caratteristico di ciascun'arte o affare.
Trad. F. Portalupi, Torino, Utet, 1974.
Macr., satur., 2,7. Notizie su Laberio e frammento sull'episodio di Cesare.
Testo da PHI da ricontrollare su edizione Macrobio
necesse est multos timeat, quem multi timent
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necessitas, cuius cursus transversi impetum
voluerunt multi effugere, pauci potuerunt,
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quo me detrusit paene extremis sensibus!
quem nulla ambitio, nulla unquam largitio,
nullus timor, vis nulla, nulla auctoritas
movere potuit in iuventa de statu:
ecce in senecta ut facile labefecit loco
viri excellentis mente clemente edita
submissa placide blandiloquens oratio!
etenim ipsi di negare cui nil potuerunt,
hominem me denegare quis posset pati?
ego bis tricenis annis actis sine nota
eques Romanus e Lare egressus meo
domum revertar mimus. nimirum hoc die
uno plus vixi mihi quam vivendum fuit.
Fortuna inmoderata in bono aeque atque in malo,
si tibi erat libitum litterarum laudibus
florens cacumen nostrae famae frangere,
cur cum vigebam membris praeviridantibus,
85
satis facere populo et tali cum poteram viro
non me flexibilem concurvasti ut carperes?
nuncine me deicis? quo? quid ad scaenam
adfero?
decorem formae an dignitatem corporis,
animi virtutem an vocis iucundae sonum?
ut hedera serpens vires arboreas necat,
ita me vetustas amplexu annorum enecat:
sepulcri similis nil nisi nomen retineo.
non possunt primi esse omnes omni in tempore,
summum ad gradum cum claritatis veneris,
consistes aegre, et citius quam ascendas, cades.
cecidi ego, cadet qui sequitur, laus est publica.
(Trad. Della Corte in Ronconi Posani 2,310)
Suet., Iul. 39
Bithyniaeque principum liberi. ludis Decimus Laberius eques Romanus mimum suum egit donatusque
quingentis sestertiis et anulo aureo sessum in quattuor-decim <e> scaena per orchestram transiit.
Bibliografia
Frammenti per 756 parole e 42 titoli in O. Ribbeck, Comicorum Romanorum praeter Plautum et
Terentium Fragmenta, Leipzig, Teubner, 18732.
Titoli: Alexandra, Anna Perenna, Aquae caldae, Aries, Augur, Aulularia, Belonistria, Cacomnemon,
Cancer, Carcer, Catularius, Centonarius, Colorator, Colax, Compitalia, Cophinus, Cretensis,
Ephebus, Fullo, Gaetuli, Galli, Gemelli, Hetaera, Imago, Lacus Avernus, Late loquentes, Natal,
Necyomantia, Nuptiae, Parilicii, Paupertas, Piscator, Restio, Salinator, Saturnalia, Scylax,
Sedigitus, Sorores, Staminariae, Stricturae, Taurus, Tusca.
PHI
Studi
F. Giancotti, Mimo e gnome. Studio su Decimo Laberio e Publilio Siro, Firenze (o Messina?) 1967.
"Laberio¸ Decimo - Treccani"
Laberio Decimo. Scrittore e cavaliere romano nato verso il 106 a.C. e morto nel 43 a.C. Portò a dignità
letteraria il mimo, genere drammatico popolaresco a carattere caricaturale, che sostituì l'atellana come
rappresentazione finale nei ludi. Con la sua satira audace attaccò anche i potenti e non risparmiò nemmeno
Cesare, che per vendicarsi lo obbligò ad accettare la sfida di Publilio Siro. Dalla gara L. uscì sconfitto, ma il
dittatore fu generoso con lui, perché gli donò un milione di sesterzi e gli restituì la dignità equestre che aveva
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perduto per essersi presentato sulla scena. Dei mimi di L. restano scarsi frammenti e alcuni titoli, fra i quali
ricordiamo Cacomnemon (Lo smemorato), Fullo (Il lavandaio), Necyomantia (L'evocazione dei morti),
Staminariae (Le tessitrici). Fa parte dei frammenti, fra cui si colgono battute contro i filosofi cinici e pitagorici,
un avvertimento, conservatoci da Macrobio, indirizzato a Cesare: necesse est multos timeas quem multi
timent (è necessario che tu tema molti quello che molti temono).
Bettini, 1, 447-48.
Publilio Siro
Cenni biografici
Liberto originario dell’Oriente. Era a capo di una “compagnia di giro” dove si recitavano i suoi
lavori.
Gellio e Macrobio ci informano che vinse su Decimo Laberio nei Ludi Caesaris del 46 a.C..
Opere
Totale frammenti: Due titoli (Murmurco, Putatores) per complessive 105 parole.
Dalle opere di Publilio furono tratte molte sententiae che andarono a costituire progressivamente
una raccolta di circa 700 versi, per lo più senari giambici, già nota a S. Girolamo (epist. Ad Laetam
107,8 ) come testo utilizzato nella scuola.
Testi e testimonianze
Gell., 17,14
Sententiae ex Publili mimis selectae lepidiores.
Publilius mimos scriptitauit, dignusque habitus est, qui subpar Laberio iudicaretur. C. autem Caesarem
ita Laberii maledicentia et adrogantia offendebat, ut acceptiores et probatiores sibi esse Publilii quam Laberii
mimos praedicaret.
Huius Publilii sententiae feruntur pleraeque lepidae et ad communem sermonum usum
commendatissimae, ex quibus sunt istae singulis uersibus circumscriptae, quas libitum hercle est adscribere:
malum est consilium, quod mutari non potest.
beneficium dando accepit, qui digno dedit.
feras, non culpes, quod uitari non potest.
cui plus licet, quam par est, plus uult, quam licet.
comes facundus in uia pro uehiculo est.
frugalitas miseria est rumoris boni.
heredis fletus sub persona risus est.
furor fit laesa saepius patientia.
inprobe Neptunum accusat, qui iterum naufragium facit.
ita amicum habeas, posse ut <facile> fieri hunc inimicum
putes.
ueterem ferendo iniuriam inuites nouam.
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numquam periclum sine periclo uincitur.
nimium altercando ueritas amittitur.
pars benefici est, quod petitur si belle neges.
Hier., chron., ol. 184
Laberius, mimorum scriptor, decimo mense post Caesaris interitum, Puteolis moritur.
Publius mimographus, natione Syrus, Romae scenam tenet.
Hier., epist. Ad Laetam 107,8.
Publ., sent., 1-20
Alienum est omne quicquid optando euenit.
Ab alio expectes, alteri quod feceris.
Animus uereri qui scit, scit tuto ingredi.
Auxilia humilia firma consensus facit.
Amor animi arbitrio sumitur, non ponitur.
Aut amat aut odit mulier, nihil est tertium.
Ad tristem partem strenua est suspicio.
Ames parentem, si aequus est, si aliter, feras.
Aspicere oportet, quidquid possis perdere.
Amici uitia si feras facias tua.
Alienum aes homini ingenuo acerba est seruitus.
Absentem laedit, cum ebrio qui litigat.
Amans iratus multa mentitur sibi.
Auarus ipse miseriae causa est suae.
Amans quid cupiat scit, quid sapiat non uidet.
Amans quod suspicatur uigilans somniat.
Ad calamitatem quilibet rumor ualet.
Amor extorqueri non pote, elabi potest.
Ab amante lacrimis redimas iracundiam.
Aperte mala cum est mulier, tum demum est
bona.
Traduzione
Seneca, dial., 9,11,8
Publilius, tragicis comicisque uehementior ingeniis quotiens mimicas ineptias et uerba ad summam caueam
spectantia reliquit, inter multa alia coturno, non tantum sipario, fortiora et hoc ait:
cuiuis potest accidere quod cuiquam potest.
C'è gran parte di gente, che quando sta per navigare non pensa alla tempesta. Mai mi vergognerò di un
autore cattivo in un fatto dabbene. Publilio, più impetuoso degli ingegni degli autori tragici e comici, ogni
volta che mette da parte le sciocchezze del mimo e le parole che si rivolgono alle ultime file del teatro, fra le
molte altre sentenze più forti del coturno tragico, non solo del sipario dei mimi, dice anche questo: « A
chiunque può capitare ciò che può capitare a qualcuno ».
Trad. G. Viansino, Mondadori.
Sen., epist., 8,8
Quam multi poetae dicunt quae philosophis aut dicta sunt aut dicenda! Non attingam tragicos nec togatas
nostras habent enim hae quoque aliquid severitatis et sunt inter comoedias ac tragoedias mediae: quantum
disertissimorum versuum inter mimos iacet! quam multa Publilii non excalceatis sed coturnatis dicenda sunt!
Unum versum eius, qui ad philosophiam pertinet et ad hanc partem quae modo fuit in manibus, referam, quo
negat fortuita in nostro habenda:
alienum est omne quidquid optando evenit.
Hunc sensum a te dici non paulo melius et adstrictius memini:
non est tuum fortuna quod fecit tuum.
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In quante opere di poeti si trovano massime che hanno già detto o che dovrebbero dire i filosofi! Per
non parlare dei tragici, né delle nostre commedie togate - hanno anch'esse una certa gravità che le
pone fra la tragedia e la commedia palliata-. quanti eloquentissimi versi si trovano nei mimi!, Quante
sentenze di Publilio sono degne di stare non in un mimo. ma in una tragedia! Di lui trascriverò un solo
verso che si riferisce alla lilosofia e, in particolare, all'argomento or ora trattato. Afferma che non
dobbiamo considerare nostri i beni concessi dal caso: «Tutto ciò che ci accade secondo il nostro
desiderio, non ci appartiene». Ricordo che questo concetto è stato espresso anche meglio e più
concisamente da te: «Non è tuo ciò che la sorte ha fatto tuo».
Trad. G. Monti
Bibliografia
Totale frammenti 105 parole per due titoli (Murmurco, Putatores) in O. Ribbeck, Comicorum
Romanorum praeter Plautum et Terentium Fragmenta, Leipzig, Teubner, 18732 (Hildesheim 1962).
PHI = Mimi + Sententiae
Le sentenze sono in CRF2 .
ed. O. Friedrich, Berlin 1880 (con comm.).
ed. W. Meyer, Leipzig 1880.
ed. J. Wight Duff - A.M.Duff, Minor Latin Poems, Cambridge Mass, 19352, pp. 3-111. (non critica)
ed. H.Beckby (Die Spruche des Publilius Syrus,, Munchen 1969. (non critica)
Testo con traduzione:
Minor Latin Poets, Tr. J. W. Duff, A. M. Duff, 2 voll., Cambridge, Mass. -London, Loeb, 1934, riv.
1935, rist. 1982
Studi
Beare, I Romani a teatro, London 19633, tr. it. Roma-Bari 1986, pp. 170-82.
F. Giancotti, Mimo e gnome. Studio su Decimo Laberio e Publilio Siro, Firenze o Messina? 1967.
ICCU per Autore
Autore: Publilius : Syrus
Titolo: Die spruche des Publilius Syrus : lateinisch-deutsch / ed. Hermann Beckby
Pubblicazione: Munchen : Heimeran, 1969
Collezione: Tusculum-Bucherei
Titolo uniforme: Sententiae.
Titolo: Die SprW1I0uche des Publilius Syrus / lateinisch-deutsch, ed. by Hermann Beck by
Pubblicazione: MW1I0unchen : E. Heimeran, 1969
Collezione: Tusculum-Bucherei
Titolo: Sententiae / Publilio Siro ; a cura di Francesco Giancotti
Pubblicazione: Torino : Giappichelli, stampa 1968
Collezione: Testi universitari
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Autore: Phaedrus
Titolo: Fabulas / [Di] Fedro ; Sentencias de Syro. Traduccion directa y literal del latin por Jose Velasco y
Garcia
Pubblicazione: Buenos Aires : Editorial Glem, 1943
Nomi: Phaedrus
Publilius : Syrus
Autore: Phaedrus
Titolo: Fables de Phedre . Fables d'Avianus . Sentences de Publilius Syrus . Distiques Moraux de Denys
Caton / traduction nouvelle, avec introductions et notes par Pierre Constant
Pubblicazione: Paris : Librairie Garnier freres, stampa 1937
Collezione: Collection des classiques Garnier
Titolo uniforme: Fabulae.
Nomi: Phaedrus
Publilius : Syrus
Avianus
Autore: Rapisardi, Mario
Titolo: Pensieri e giudizi, con l'aggiunta delle Odi civili, e degli aforismi di L. A. Seneca e P. Siro : Edizione
postuma a cura di Alfio Tomaselli
Pubblicazione: Palermo : G. Pedone Lauriel, 1915 (Tip. Del Popolo, Fratelli Viaggio-Campo)
Titolo: Le sentenze di Publilio Siro / volgarizzate da Pietro Canal
Pubblicazione: padova : >s.n., 1871 (Padova : Stabilimento tip. e stereotip. alla Minerva)
Titolo: Publii Syri Mimi Sententiae / digessit recensuit illustravit Otto Friedrich ; accedunt Caecilii Balbi,
Pseudosenecae, Proverbiorum, Falso inter publilianas receptae sententiae et recognitae et numeris
adstricatae
Pubblicazione: Berolini : in aedibus T. Griebeni, 1880
Titolo: 84 sentenze / di Publio Siro ; [a cura di Guido Mazzoni]
Pubblicazione: In Livorno : dalla tipografia di Franc. Vigo, 1883
Altri titoli collegati: [Variante del titolo] Nozze Pellegrini-Marchesini
Titolo: I Mimiambi / Publio Siro ; completati e recati per la prima volta in italiano dall'avvocato Pier Ambrogio
Curti
Pubblicazione: Milano : F. Pagnoni, 1871
Note Generali: Testo orig. a fronte.
Titolo: Publili Syri Sententiae / recensuit A. Spengel
Pubblicazione: Berolini : apud Weidmannos, 11874
Titolo: Publilii Syri Sententiae / ad fidem codicum optimorum primum recensuit Eduardus Woelfflin
Pubblicazione: Lipsiae : in aedibus B. G. Teubnerim 1869
Woelfflin, Eduard
Titolo: Le sentenze / di Publilio Siro ; tradotte dal dottore Carlo-Ludovico Bertini
Pubblicazione: Saluzzo : Tipografia dei F.lli Lobetti-Bodoni, 1884
Titolo: Le sentenze / volgarizzate da P. Canal
Pubblicazione: Padova : Salmin, 1871
Note Generali: Testo lat. con trad. ital. a fronte.
ICCU per Soggetto
Autore: Schweitzer, Eveline
Titolo: Studien zu Publilius Syrus : Dissertation ... Universitat Wien / eingereicht von Eveline Schweitzer
Autore: Giancotti, Francesco
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Titolo: Ricerche sulla tradizione manoscritta delle sentenze di Publilio Siro / Francesco Giancotti
Pubblicazione: Messina ; Firenze, stampa 1963
Collezione: Biblioteca di cultura contemporanea
"Publilio Siro - Treccani"
Publilio Siro. Prigioniero di guerra portato come schiavo a Roma da Antiochia di Siria, scrisse mimi che
ebbero successo. Di lui Giulio Cesare si servì per umiliare un suo denigratore, il vecchio Decimo Laberio in
occasione dei ludi trionfali celebrati nel 45 a.C. Dei mimi di P. si ricordano due titoli: Murmurco (Il brontolone)
e Putatores (I potatori). Conserviamo inoltre una raccolta di buone sentenze, in tutto ca. 700 versi,
prevalentemente senari giambici, giunta a noi probabilmente elaborata dai grammatici.
Publilio Siro, Corso
Publilio Siro nacque ad Antiochia e venne a Roma all'incirca nell' 83 a. C. . Schiavo di origine, fu affrancato
dal padrone per il suo fervido ingegno e per le sue capacità mimiche di improvvisatore. Avviatosi alla carriera
teatrale, divenne presto istrione famoso. Passò di città in città, attraverso I'Italia, per poi fermarsi
definitivamente a Roma, dove la sua fama toccò il vertice con la vittoria sul collega Laberio.
Di Publilio rimangono due soli titoli, neppur sicuri, con piccoli frammenti; un’altra ventina di versi di incerta
appartenenza sono confluiti, ma probabilmente rimaneggiati, nella Cena di Trimalchione (c. 55).
Dai suoi mimi si ricavò fin dall'antichità un'antologia di massime morali, le Sententiae Publilii Syri, appunto.
Erano in origine circa un migliaio, per lo piú in senari giambici, ordinate alfabeticamente; sebbene la raccolta,
attraverso varie redazioni, abbia subito rimaneggiamenti, tagli ed aggiunte, sostanzialmente può ritenersi
autentica.
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Preneoteroi e neoteroi
Introduzione
[Secondo Bettini:
PreNeoteroi: Lutazio Catulo, Valerio Edituo, Porcio Licinio, Volcacio Sedigito, Mazio, Sueio, Levio,
Ostio. (Si potrebbero aggiungere Papinio e Manilio).
Neoteroi
Valerio Catone, Bibaculo, Varrone Atacino, Licinio Calvo, Anser, Ticida, Memmio, Q.Ortensio
Ortalo.
Ai neoteroi si potrebbe aggiungere Quinto Scevola, tribuno nel 54. e naturalmente Catullo.]
Il termine greco neòteroi, che indica propriamente in termini comparativi il concetto di modernità
rispetto a qualcosa che moderno non è, è usato polemicamente da Cicerone in una lettera
all’amico Attico (dell’anno ??) a indicare una serie di poeti che dimostrano gusto e sensibilità
diverse rispetto alla poesia della tradizione.
In un altro passo delle Tusculanae disputationes Cicerone utilizza un’altra espressione, “cantores
Euphorionis”, riferendola a poeti che disprezzerebbero la poesia di Ennio, in quel passo lodato
invece da Cicerone.
L’espressione, indipendentemente dal valore più o meno limitativo che si voglia dare al termine
“cantor”, fa riferimento a Euforione, un poeta greco vissuto fra il III e il II secolo a.C., la fortuna di
cui a Roma sembra avere del resto non pochi fautori fino in epoca imperiale. Cantores Euphorionis
sarebbero dunque i cultori e gli imitatori di un poeta greco e più in generale di una tendenza della
poesia greca di epoca ellenistica.
Accanto a neòteroi troviamo anche quello di poetae novi, che ribadisce il concetto di modernità e di
novità presentato da alcuni poeti.
I due concetti chiave espressi e sinteticamente riassunti da termini come questi sono quindi quello
della novità rispetto a una tradizione poetica nazionale precedente, rappresentata da autori latini, e
la sensibilità a particolari aspetti della poesia di età ellenistica.
Entrambi i concetti rientrano nella dialettica e nel confronto che caratterizzano l’incontro tra cultura
latina e greca, soprattutto dopo le conquiste romane in Oriente nel II secolo a.C.. La linea di
sviluppo del dibattito che si sviluppa a metà di quel secolo tra tendenze filoellenistiche e tendenze
conservatrici della cultura nazionale (Scipioni da una parte e Catone dall’altra) prosegue nell’età
dei Gracchi e in quella di Silla fino a trovare in epoca augustea un momento di più serena
composizione e di maggiore consapevolezza.
Tale dibattito non può non coinvolgere sempre più specificamente anche forme e generi letterari
nella misura in cui la società romana entra a contatto con nuove culture e risentendone
potenzialmente in termini di gusti e sensibilità, quindi non solo etici, ma anche estetici.
Fino all’età dei Gracchi, ad esempio, la poesia latina non conosce una vera e propria lirica, fatta
eccezione per i cantica plautini e la poesia religiosa.
Con quest’età, invece, alcuni poeti sembrano rappresentare le prime testimonianze di una poesia
caratterizzata sempre più da temi e forme più disimpegnati, lontani tanto dall’epica quanto dalla
poesia scenica, determinata da una volontà ludica di intrattenimento, ma anche di dotta
rielaborazione formale di esperienze “altre”, possibile in una società che comincia a rivendicare
l’otium letterario come esperienza individuale, da condividire con un pubblico ristretto di amici che
nutrono analoga sensibilità.
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In questa linea di sviluppo è possibile identificare, anche per ragioni biografiche, un primo gruppo
di poeti, vissuti grosso modo tra la metà del II secolo e i primi due decenni del I secolo, e un
secondo gruppo, rappresentato da poeti che vivono tra l’età di Silla e quella di Cesare.
Artificiosa o meno che sia, questa divisione è stata in qualche modo sancita anche attraverso
l’attribuzione all’uno e all’altro gruppo di termini quali poetae novi o neoterici (o neoteroi) e, per
ragioni distintive, preneoterici.
I poetae novi vengono identificati soprattutto con Gaio Elvio Cinna, Gaio Licinio Calvo, Gaio
Valerio Catullo, ma le loro esperienze si intrecciano strettamente con quelle di altri contemporanei
come Marco Furio Bibaculo, Gaio Cornelio Gallo e altri.
Altri poeti, biograficamente meno giovani, vengono visti più o meno coerentemente come loro
precursori e indicati spesso, quindi, come preneoterici. Tra questi Lutazio Catulo, Valerio Edituo,
Porcio Licinio, Volcacio Sedigito, Mazio, Sueio, Levio, Varrone Atacino, Ostio, Papinio e Manilio.
Il poeta Valerio Catone può essere considerato in questa schematizzazione un elemento di
transito, sia per ragioni biografiche, sia per la funzione di praeceptor che ebbe per i poetae novi.
Testi e testimonianze
Ov., trist., 2, 429 segg.
par fuit exigui similisque licentia Calvi,
detexit variis qui sua furta modis.
quid referam Ticidae, quid Memmi carmen, apud quos
rebus adest nomen nominibusque pudor?
Cinna quoque his comes est, Cinnaque procacior Anser,
et leve Cornifici parque Catonis opus,
et quorum libris modo dissimulata Perillae
nomine, nunc legitur, dicta, Metelle, tuo,
is quoque, Phasiacas Argon qui duxit in undas,
non potuit Veneris furta tacere suae.
nec minus Hortensi, nec sunt minus improba Servi
carmina. quis dubitet nomina tanta sequi?
Uguale e simile fu la licenziosità del piccolo Calvo, che svelò i suoi amori furtivi in vari metri.
Perché ricordare i carmi di Ticida e di Memmio, nei quali ogni cosa è detta col proprio nome e
ogni nome fa arrossire? Sono loro compagni anche Cinna e Ansere, più sboccato di Cinna, e
l'opera leggera di Cornificio e quella simile di Catone, e gli autori di quei libri in cui Perilla viene
cantata ora sotto questo pseudonimo, ora col tuo nome, o Metello? Ed anche colui che pilotò
Argo verso le onde del rasi?, non poté tacere i suoi illeciti amori. Non meno osceni sono i versi
di Ortensio e di Servio. Chi esiterebbe a seguire nomi tanto famosi?
Tr. F. Della Corte, Torino 1986.
Cic., ad Att., 7,2,1
Brundisium venimus vii Kal. Dec. usi tua felicitate navigandi; ita belle nobis 'flavit ab Epiro lenissimus
Onchesmites' hunc spondei£zonta si cui voles tîn newtšrwn pro tuo vendito.
Cic., Tusc., 3,45
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93
O poetam egregium! quamquam ab his cantoribus Euphorionis contemnitur. sentit omnia repentina et
necopinata esse graviora;
O eccellente poeta! (per quanto, è disprezzato dai ripetitori di Euforione del nostro tempo) capisce
che tutti gli eventi improvvisi ed inaspettati sono più gravi.
Traduzione di N. Marinone, Torino, Utet, 1955, 19762.
Gell., 19,9
Adulescens e terra Asia de equestri loco laetae indolis moribusque et fortuna bene ornatus et ad rem
musicam facili ingenio ac lubenti cenam dabat amicis ac magistris sub urbe in rusculo celebrandae lucis
annuae, quam principem sibi uitae habuerat. Venerat tum nobiscum ad eandem cenam Antonius Iulianus
rhetor, docendis publice iuuenibus magister, Hispano ore florentisque homo facundiae et rerum
litterarumque ueterum peritus. Is, ubi eduliis finis et poculis mox sermonibusque tempus fuit, desiderauit
exhiberi, quos habere eum adulescentem sciebat, scitissimos utriusque sexus, qui canerent uoce et qui
psallerent. Ac posteaquam introducti pueri puellaeque sunt, iucundum in modum 'AnakreÒnteia pleraque
et Sapphica et poetarum quoque recentium lege‹a quaedam erotica dulcia et uenusta cecinerunt. Oblectati
autem sumus praeter multa alia uersiculis lepidissimis Anacreontis senis, quos equidem scripsi, ut interea
labor hic uigiliarum et inquies suauitate paulisper uocum atque modulorum adquiesceret:
tÕn ¥rguron toreÚsaj
“Hfaistš moi po…hson
panopl…aj mn oÙc…,
t… g¦r m£caisi k¢mo…;
pot"rion d ko‹lon,
Óson dÚnV, b£qunon.
kaˆ m¾ po…ei kat' aÙtÕ
m"t' ¥stra m"t' ¢m£xaj·
t… Plei£dwn mšlei moi,
t… d' ¢stšroj Boètew;
po…hson ¢mpšlouj moi
kaˆ bÒtruaj kat' aÙtîn
kaˆ crusšouj patoàntaj
Ðmoà kalù Lua…J
”Erwta kaˆ B£qullon.
Tum Graeci plusculi, qui in eo conuiuio erant, homines amoeni et nostras quoque litteras haut incuriose
docti, Iulianum rhetorem lacessere insectarique adorti sunt tamquam prorsus barbarum et agrestem, qui
ortus terra Hispania foret clamatorque tantum et facundia rabida iurgiosaque esset eiusque linguae
exercitationes doceret, quae nullas uoluptates nullamque mulcedinem Veneris atque Musae haberet;
saepeque eum percontabantur, quid de Anacreonte ceterisque id genus poetis sentiret et ecquis nostrorum
poetarum tam fluentes carminum delicias fecisset, 'nisi Catullus' inquiunt 'forte pauca et Caluus itidem
pauca. Nam Laeuius inplicata et Hortensius inuenusta et Cinna inlepida et Memmius dura ac deinceps
omnes rudia fecerunt atque absona.'
Tum ille pro lingua patria tamquam pro aris et focis animo inritato indignabundus 'cedere equidem' inquit
'uobis debui, ut in tali asotia atque nequitia Alcinoum uinceretis et sicut in uoluptatibus cultus atque uictus, ita
in cantilenarum quoque mollitiis anteiretis. Sed ne nos, id est nomen Latinum, tamquam profecto uastos
quosdam et insubidos ¢nafrodis…as condemnetis, permittite mihi, quaeso, operire pallio caput, quod in
quadam parum pudica oratione Socraten fecisse aiunt, et audite ac discite nostros quoque antiquiores ante
eos, quos nominastis, poetas amasios ac uenerios fuisse.'
Tum resupinus capite conuelato uoce admodum quam suaui uersus cecinit Valerii Aeditui, ueteris poetae,
item Porcii Licini et Q. Catuli, quibus mundius, uenustius, limatius, tersius Graecum Latinumue nihil
quicquam reperiri puto.
Aeditui uersus:
dicere cum conor curam tibi, Pamphila, cordis,
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quid mi abs te quaeram, uerba labris abeunt,
per pectus manat subito <subido> mihi sudor:
sic tacitus, subidus, dum pudeo, pereo.
Atque item alios uersus eiusdem addidit, non hercle minus
dulces quam priores:
quid faculam praefers, Phileros, qua est nil opus nobis?
ibimus sic, lucet pectore flamma satis.
istam nam potis est uis saeua extinguere uenti
aut imber caelo candidus praecipitans;
at contra hunc ignem Veneris, nisi si Venus ipsa,
nullast quae possit uis alia opprimere.
Item dixit uersus Porcii Licini hosce:
custodes ouium tenerae propaginis, agnum,
quaeritis ignem? ite huc; quaeritis? ignis homost.
si digito attigero, incendam siluam simul omnem,
omne pecus flammast, omnia qua uideo.
Quinti Catuli uersus illi fuerunt:
aufugit mi animus; credo, ut solet, ad Theotimum
deuenit. sic est: perfugium illud habet.
quid, si non interdixem, ne illunc fugitiuum
mitteret ad se intro, sed magis eiceret?
ibimus quaesitum. uerum, ne ipsi teneamur,
formido. quid ago? da, Venus, consilium.
[1] Un giovane di rango equestre originario dell'Asia, ingegno brillante, pieno di belle doti e beni di
fortuna, talento spontaneamente inclinato alla musica, offriva un pranzo ad amici e maestri in una
sua piccola proprietà di campagna a ridosso dell'Urbe: festeggiava così l'anniversario del giorno in
cui venne alla luce. [2] A quel pranzo era venuto insieme con noi il retore Antonio Giuliano,
professore di scuola pubblica, che aveva l'accento spagnolo ma era di splendida eloquenza e
ottimo conoscitore di storia e letteratura antica. [3] Esauritesi le portate e venuto poi il momento di
bere e conversare, egli mostrò il desiderio che si esibissero quei bravissimi cantanti e suonatori dei
due sessi che, lui ne era al corrente, il giovane possedeva. [4] Furono dunque introdotti ragazzi e
ragazze, e cantarono con piacevole armonia parecchie poesie di Anacreonte e di Saffo e anche
alcune soavi, affascinanti elegie d'amore di poeti moderni. [5] Ci deliziarono in modo particolare
certi graziosissimi versetti del vecchio Anacreonte: li trascrivo qui anche per ristorare un
momentino con la dolcezza delle parole e dei ritmi lo sforzo e l'assillo di queste mie veglie:
[6]
Cesellando l'argento
fabbricami, o Efesto,
non già una panoplia
(che ho a fare io con le armi?) ma una concava coppa,
quanto tu puoi profonda.
E sopra non v'incidere
né astri né carri:
che m'importa di Pleiadi
o di stella Boote?
Mettimi delle vití,
e grappoli sopra esse;
e d'oro, procedenti
col bel Lieo insieme,
Eros e Batillo.
[7] Partecipavano a quel banchetto parecchi greci, simpatiche persone che avevano una
conoscenza non banale anche della nostra letteratura: a questo punto essi diedero addosso al
retore Giuliano provocandolo e attaccandolo come se fosse effettivamente un barbaro, un
campagnolo: originario com'era della Spagna, poteva essere solo un urlatore, d'eloquenza
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selvaggia e furente, e doveva insegnare l'uso d'una lingua assolutamente priva delle doti
voluttuose e carezzevoli che sono di Venere e della Musa; insistevano a chiedergli la sua opinione
su Anacreonte e gli altri poeti dello stesso genere, e quale mai dei poeti nostri avesse mai scritto
poesie così deliziose e scorrevoli: "tranne forse - dicevano - qualcosina Catullo, e qualcosina
Calvo. Per il resto, garbugli in Levio, grossolanità in Ortensio, scipitaggini in Cinna, asprezze in
Memmio, e poi, in tutti, ruvidezze e stonature".
[8] Punto sul vivo, Giuliano sorse in difesa della patria lingua come d'un domestico sacrario, e così
diede sfogo al suo corruccio: "Dovrei concedervi che in siffatta dissolutezza e depravazione voi
superate Alcinoo, e che nei piaceri della raffinatezza e del lusso come pure nelle svenevolezze
cantilenate non avete rivali. [9] Ma perché non abbiate a bollarci di frigidità erotica (e parlo di noi
latini) come se fossimo senz'altro dei selvaggi, degl'insensibili, consentitemi, per cortesia, di
coprirmi il capo col mantello come dicono che abbia fatto Socrate nell'atto di pronunciare un
discorso scabroso; e state a sentire. Imparerete che anche i nostri poeti antichi sapevano far
l'amore e sacrificare a Venere, prima ancora dei poeti da voi nominati".
[10] E con la faccia riversa, il capo velato, una voce oltremodo melodiosa, recitò versi dell'antico
poeta Valerio Edítuo, e poi di Porcio Licino e Quinto Catulo: così forbiti, aggraziati, raffinati, tersi
che io credo non se ne trovi l'uguale né in greco né in latino.
[11] I versi di Edituo:
Quando mi provo, o Pànfila, a dirti la pena del cuore,
che cosa mi aspetto da te, le parole dai labbri svaniscono,
avvampo d'improvviso, mi cola sudore dal petto;
e silenzioso, avvampando, del mio pudore perisco'.
[12] Del medesimo poeta aggiunse poi altri versi, davvero non meno soavi dei precedenti:
Perché con la torcia, Fileròte, fai strada? non ci serve.
Andremo così: fa luce abbastanza la fiamma nel cuore.
Una torcia, la forza furiosa del vento può spegnerla,
o una lucida pioggia che dal cielo precipiti:
ma questo fuoco di Venere, se Venere stessa non può,
altra forza non c'è che possa smorzarlo.
[13] Poi disse questi versi di Porcio Lícino:
O custodi d'agnelli, la tenera prole di pecore,
cercate fuoco? Venite qui: il fuoco che cercate sono io.
Se con un dito toccherò la foresta, tutta d'un colpo l'incendierò;
è fiamma tutto il gregge, tutto per dove io guardo.
[14] E questi furono i versi di Quinto Catulo:
Via mi è fuggito il cuore: come al solito, credo, da Teotìmo
s'è rifugiato. Sì, il suo ricovero è là.
Pure la mia ingiunzione era precisa: a quel fuggiasco lì
nessun rícetto, anzi cacciarlo via.
Andremo a cercarlo. Ma di restare a nostra volta presi
ho gran paura. Che faccio? Venere, consigliami tu.
Traduzione di G. Bernardi Perini
Si potrebbero inserire qui schede su autori greci
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Poeti greci a Roma
Euforione
Cenni biografici
Nato nel 275 (altri 276) . Studiò ad Atene, poi ritornò alla nativa Calcide, in Eubea, e si dedicò agli
studi, sotto la protezione di una nobile vedova di nome Nicea; più tardi si spostò in Tracia, quindi,
in età avanzata, fu chiamato da Antioco III alla biblioteca di Antiochia di cui assunse la direzione.
Opere
La Suda, in un passo peraltro controverso, riporta come opere di Euforione solo tre titoli: Esiodo,
Mopsopia o Atakta: una raccolta di antiche leggende dell’Attica, di cui M. rappresenta appunto un
antico nome.
Le Chiliadi, in 5 libri, ciascuno di 1000 versi ciascuno, da cui il nome. Sconosciuto il contenuto.
Esiodo è invece il titolo di un epillio, genere molto praticato da E. e che lo rese famoso.
Qualche documento da una serie di papiri.
Due frammenti da una pergamena del V secolo d.C.
Uno di essi descrive Eracle che conduce Cerbero a Tirinto, l’altro fa parte delle Arài (imprecazioni)
o Il ladro del vaso, una serie di maledizioni elaborate su esempi mitologici, rivolte al ladro di un suo
vaso.
Altra ventina di versi, in parte mal conservati, sempre su papiro, la maggior parte dei quali relativi a
un componimento, forse un poema intitolato Trace, secondo altri un’opera analoga alle Arài.
Assieme ad altri esempi ciò ha fatto pensare che in epoca ellenistica le maledizioni di epoca
arcaica si fossero evolute in un genere letterario colto.
Un altro titolo trasmesso dallo stesso papiro è Ippomedonte maggiore.
Altri titoli tramandati ci portano a tematiche mitologiche, altri a interessi storici.
Tra le opere anche un poema didascalico perduto dal titolo Georgikà.
Dal poco rimasto Euforione si colloca nella linea della cultura ellenistica che rifugge dal poema di
tipo omerico e identifica perciò in Callimaco un modello anticlassicista, senza saperne proporre le
qualità.
Il linguaggio è ricco di glosse, lo stile narrativo è stravagante e oscuro. Rispetto alla linea
essenziale della narrazione si preferisce la dotta ed elaborata digressione, tutta tesa a creare
meraviglia non per il contenuto, ma per l’artificiosità, spesso di tipo musicale (Lesky).
In sintesi, gloria grande, ma passeggera.
Dal poco che si ha “sembra che il poeta indulgesse a storie di passioni morbose e di delitti, a
scene volte a suscitare orrore” (Tarditi).
Secondo Tarditi non è da escludere che Partenio di Nicea abbia composto i suoi Pathemata
desumendo il materiale da molti poeti ellenistici e che abbia riassunro molte leggende narrate da
Euforione.
Il successo a Roma di Euforione è documentato da diversi autori e testimonianze, alcune più
negative (Cicerone, ma anche Quintiliano), altre più neutre (Servio). Una traduzione di Euforione
fece Cornelio Gallo. Apprezzato da questi come da molti poeti, Virgilio compreso, come anche da
Tiberio (cf. Svetonio).
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Testi e testimonianze
Cic., Tusc., 3,45
O poetam egregium! quamquam ab his cantoribus Euphorionis contemnitur.
Cic., de div. 2,132
Iam vero quo pertinent obscuritates et aenigmata somniorum? intellegi enim a nobis di velle debebant ea,
quae nostra causa nos monerent. Quid? poeta nemo, nemo physicus obscurus? Ille vero nimis etiam
obscurus Euphorion; at non Homerus. Uter igitur melior? Valde Heraclitus obscurus, minime Democritus.
Num igitur conferendi?
Quint., inst., 10,1,55
Admirabilis in suo genere Theocritus, sed musa illa rustica et pastoralis non forum modo uerum ipsam etiam
urbem reformidat. Audire uideor undique congerentis nomina plurimorum poetarum. Quid? Herculis acta non
bene Pisandros? Quid? Nicandrum frustra secuti Macer atque Vergilius? Quid? Euphorionem transibimus?
Quem nisi probasset Vergilius idem, numquam certe conditorum Chalcidico uersu carminum fecisset in
Bucolicis mentionem. Quid? Horatius frustra Tyrtaeum Homero subiungit? Nec sane quisquam est tam
procul a cognitione eorum remotus ut non indicem certe ex bibliotheca sumptum transferre in libros suos
possit.
Ammirevole nel suo genere è Teocrito;40 ma la sua musa rustica e pastorale rifugge non solo dal
foro, ma anche dalla città stessa.
56. Mi sembra di sentire i lettori che riuniscono da ogni parte nomi di numerosissimi poeti. E
allora? Pisandro non ha ben narrato le fatiche di Ercole? È senza motivo che Macro e Virgilio
hanno imitato Nicandro? E allora? Tralasceremo Euforione? Se lo stesso Virgilio non lo avesse
apprezzato, certamente non avrebbe mai menzionato nelle Bucoliche i poemi composti in verso
calcidico. Allora? È senza ragione che Orazio associa a Omero il nome di Tirteo?. E senza dubbio
nessuno è così lontano dal conoscere questi autori da non poter almeno ricopiare nei suoi scritti un
catalogo preso in biblioteca.
Teocrito nacque a Siracusa poco prima del 300 a.C.; la raccolta degli Idilli contiene prevalentemente
componimenti di carattere bucolico, ma anche mimi, inni ed epilli.
Pisandro di Camiro, fiorito nel 645 a.C. ca.
Emilio Macro di Verona (morto nel 16 a.C.) fu autore dei poemi didascalici Ornirhogonía e Theriakà.
Nicandro di Colofone (II secolo a.C.) visse alla corte di Attalo III di Pergamo; Quintiliano allude al perduto
poema didascalico Georgikà; tra le altre opere ricordiamo i Theriakà e gli Alexipharmaka.
Euforione di Calcide nacque nel 275 a.C., fu bibliotecario di Antioco III di Siria; compose testi di genere
satirico, elegiaco, mitologico, e un poema didascalico (Georgikà). La citazione di Virgilio è Ecl. 10,50.
Tirteo (VII secolo a.C.) visse a Sparta; fu autore di elegie di carattere politico e parenetico. La citazione di
Orazio è Ars 402.
Suet., Tib. 70
In oratione Latina secutus est Coruinum Messalam, quem senem adulescens obseruarat. sed adfectatione
et morositate nimia obscurabat stilum, ut aliquanto ex tempore quam a cura praestantior haberetur.
composuit et carmen lyricum, cuius est titulus 'conquestio de morte L. Caesaris.' fecit et Graeca poemata
imitatus Euphorionem et Rhianum et Parthenium, quibus poetis admodum delectatus scripta omnium et
imagines publicis bibliothecis inter ueteres et praecipuos auctores dedicauit; et ob hoc plerique eruditorum
certatim ad eum multa de his ediderunt.
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LXX. Coltivò con molta assiduità le arti liberali, sia greche che latine. Nell'oratoria latina seguì l'esempio di
Messala Corvino, che aveva ammirato da ragazzo, quando era già molto vecchio. Però rendeva oscuro il
proprio stile cdn l'affettazione e l'eccesso di pedanteria; infatti, si stimavano migliori i suoi discorsi
estemporanei che non quelli preparati con cura.
Compose anche una lirica dal titolo: Pianto sulla morte di Lucio Cesare e scrisse qualche poesia in greco, a
imitazione di Euforione, di Riano e di Partenio, che erano gli autori di cui maggiormente si dilettava e le cui
opere e immagini erano state fatte porre da lui nelle biblioteche pubbliche, assieme a quelle degli scrittori
antichi e sommi. Per questo motivo, parecchi eruditi rivaleggiarono nel dedicargli i loro studi su quegli autori.
Trad. F. Dessì
Bibliografia
A.Lesky, Storia della letteratura greca, Milano, Il Saggiatore, 1962, pp. 937-39
Enrico Magnelli, Studi su Euforione, Roma : Quasar, 2002 (stampa 2003)
G.Tarditi, , Storia della letteratura greca, Torino, Loescher, 1973, pp. 331-32.
ICCU
Autore: Magnelli, Enrico
Collezione: Seminari romani di cultura greca. Quaderni ;4
Autore: Euphorion : Chalcidiensis
Titolo: Fragmenta : dissertatio inauguralis quam ... scripsit F. Scheidweiler
Pubblicazione: Bonn : Typis C. Georgi, 1908
Note Generali: Testo greco e latino.
Titolo: Poemes i fragments / Euforio de Calcis ; text revisat i traduccio de Josep Antoni Clua
Pubblicazione: Barcelona : Fundacio Bernat Metge, 1992
Collezione: Fundacio Bernat Metge. Escriptors grecs text itraduccio
Partenio
Cenni biografici
A Roma dal 73 a.C., come prigioniero di Elvio Cinna a seguito della terza guerra contro Mitridate.
Visse nella capitale, quindi come liberto a Napoli.
Opere
Compose molto, solo in greco.
Myttotòs, a gara con il Moretum di Sueio
Raccolta di elegie dedicate alla moglie (cf. Catull.)
Propèmptico per Pollione
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Ci restano “Avventure” o “Passioni d’amore”. Sono estratti in prosa che servirono da modello a
Cornelio Gallo per i suoi Amores. Identificano come caratteristiche della poesia erotica ellenistica
“la tendenza al patetico, una vivace drammatizzazione e un’intensificazione degli affetti” (Lesky)
Metamorfosi, forse in metro elegiaco
Titoli che fanno pensare a temi mitologici: Eracle o Ificlo.
Un frammento da un epicedio a Timandro
Testi e testimonianze
Bibliografia
Edizioni
A.Lesky, Storia della letteratura greca, Milano, Il Saggiatore, 1962, pp. 937.
ICCU
Parthenii Nicaeni quae supersunt / edidit Edgarus Martini
Lipsiae : in aedibus B. G. Teubneri, 1902
Collezione: Bibliotheca scriptorum Graecorum et RomanorumTeubneriana
Erotika Pathemata; introduzione, testo critico, traduzione e commento a cura di Giuseppe Spatafora,
Pubblicazione: Atene : [s. n.], 1995, Nell'occhietto: London studies in classical philology
Liebesleiden in der Antike : die Erotika Pathemata des Parthenios / eingeleitet, hrsg. und ubersetzt von Kai
Brodersen ; mit 36 Vasenbildern aus dem Reiss-Museum Mannheim, ausgewahlt von Claudia Braun,
aufgenommen von Jean Christen, Darmstadt : Primus, c2000
Titolo: Daphnis & Cloe / by Longus ; with an english translation of George Thornley ; revised & augmented
by J. M. Edmonds. The love romances of Parthenius and other fragments / with an english translation by S.
Gaselee, London : Heinemann, 1978
The Loeb classical library ; 69, Testi greco e latino a fronte
Amori infelici : alle radici del romanzo / Partenio di Nicea ; a cura di Gianni Schilardi ; presentazione di
Giovanni Cerri, Lecce : Argo, 1993
Pene d'amore / Partenio ; a cura di G. Paduano, Pisa : ETS, c1991, stampa 1992
Collezione: Piccola miscellanea
Titolo uniforme: Narrationes amatoriae.
Parthenios Liebesleiden : Griechisch und Deutsch / Wilhelm Plankl
Wien : verlag der Ringbuchhandlung, 1947, Note Generali: Testo greco con trad. tedesca a fronte.
Parthenius of Nicaea : poetical fragments and the Erotika Pathemata / edited with introduction and
commentaries by J. L. Lightfoot, Clarendon Press, 1999
Erotikon logon syggrapheis / Parthenius ... [et al.] ; ex nova recensione Guillelmi Adriani Hirschig ;
Eumathius ex recensione Philippi Le Bas ; Apollonii Tyrii Historia ex cod. Paris. edita a J. Lapaume ; Nicetas
Eugenianus ex nova recensione Boissonadii ; Graece et latine cum indice historico
Pubblicazione: Parisiis : A. F. Didot, 1856, Collezione: Scriptorum Graecorum bibliotheca
Note Generali: Tit. traslitterato.
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F. D'ALESSI - Letteratura latina - Parte II,1 - Il periodo classico
100
Nomi: Nicetas : Eugenianus
Eustathius : Macrembolites
Parthenius : Nicaenus
Parthenii libellus Peri erotikon pathematon / edidit Paulus Sakolowski . Antonini Liberalis Metamorphoseon
synagoge / edidit Edgarus Martini
Pubblicazione: Lipsiae : in aedibus B. G. Teubneri, 1896
Fa parte di: Mythographi graeci
Altri titoli collegati: [Pubblicato con] Parthenii libellus Peri erotikon pathematon / edidit Paulus Sakolowski.
[Pubblicato con] Antonini Liberalis Metamorphoseon synagoge / edidit Edgarus Martini.
Erotici scriptores / Parthenius ... [et al.] ; ex nova recensione Guillelmi Adriani Hirschig ; Eumathius ex
recensione Philippi Le Bas ; Apollonii Tyrii Historia ex cod. Paris. edita a J. Lapaume ; Nicetas Eugenianus
ex nova recensione Boissonadii ; Graece et latine cum indice historico
Pubblicazione: Parisiis : Firmin Didot, 1885
Collezione: Scriptorum Graecorum bibliotheca
Titolo: Erotikon logon syggrapheis / Parthenius ... [et al.], ex nova recensione Guillelmi Adriani Hirschig ;
Eumathius ex recensione Philippi Le Bas ; Apollonii Tyrii Historia ex cod. Paris. edita a J. Lapaume ; Nicetas
Eugen
Pubblicazione: Parisiis : A. F. Didot, 1856
Collezione: Collection des auteurs grecs. Orateurs,philosophes, etc
Archia
Cenni biografici
Opere
Testi e testimonianze
Bibliografia
ICCU
Autore: Monteleone, Giuseppe
Titolo: La poesia e il potere : introduzione, traduzione, commento e note alla Pro Archia di Cicerone /
Giuseppe Monteleone, Taranto : La colomba, stampa 1993, Collezione: Maiores
Autore: Cicero, Marcus Tullius
Titolo: Pro Archia poeta oratio / Cicero ; introduction text vocabulary and commentary by Steven M. Cerutti ;
with a foreword by Lawrence Richardson : Wauconda, Ill.
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Gli Epigrammi di Archia di Antiochia / Gioacchino Sassani, Catania : N. Giannotta editore, 1906
Niente Lesky
Antipatro di Sidone
Cenni biografici
Vissuto tra la fine del II e gli inizi del I. Fa parte della cosiddetta “scuola fenicia” assieme a
Meleagro di Gadara e Filodemo di Gadara.
Opere
V. Anthologia Palatina 423-27
“un poeta privo di forza e di originalità, ma rivela maggiore serietà degli altri epigrammatisti del suo
tempo” (Lesky).
Testi e testimonianze
Bibliografia
A.Lesky, Storia della letteratura greca, Milano, Il Saggiatore, 1962, pp. 920.
ICCU
Gli epigrammi degli antipatri / Lorenzo Argentieri
Pubblicazione: Bari : Levante, [2003], Collezione: Le rane ; 35
Soggetti: Antipatro : di Sidone
Antipatro : di Tessalonica
Waltz, Pierre, De Antipatro Sidonio / thesim ... proponebat P. Waltz, Burdigalae : ex typis G. Gounouilhou,
1906
Setti, Giovanni, Studi sulla antologia greca : gli epigrammi degli Antipatri / Giovanni Setti, Torino : E.
Loescher, 1890
Soggetti: Antipatro : di Sidone e Antipatro : di Tessalonica
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102
L’epigramma greco
http://www.biblio-net.com/lett_cla/greca/epigramma.htm
1.
L'evoluzione dell'epigramma
L'epigramma nasce, come già indica il suo nome, come indicazione, posta sulla stele, delle generalità di un
defunto, e quindi già durante l'età arcaica, almeno a partire dal VII secolo. Con l'età delle guerre persiane,
esso inizia ad assumere connotati letterari ed è coltivato come espressione del nuovo ethos politico da poeti
come Simonide.
La sua brevità ed eleganza ne fanno uno strumento precipuo di realizzazione della nuova poetica fin dalla
fine del IV secolo, dando ben presto l'avvio ad una imponente produzione, che può essere suddivisa,
secondo i temi e le provenienze geografiche dei vari autori, in "scuole" (Reitzenstein):
Scuola dorica (IV-III a.C.)
Improntata a semplicità di toni e sentimenti, tratta di preferenza temi bucolici e ambientazioni umili. I
maggiori esponenti di questa tendenza sono:
ANITE DI TEGEA: Poetessa arcade, fiorita intorno al 300, autrice di poesie epiche e liriche, di cui
restano 21 epigrammi in dialetto dorico.
Nosside di Locri: Contemporanea di Anite e proveniente dalla città calabra di Locri Epizefirii, di lei ci
restano 12 epigrammi.
Leonida di Taranto: vissuto tra il 310 ed il 240, fu esule dopo la distruzione della sua città ad opera dei
Romani. Di lui abbiamo 103 epigrammi.
Scuola ionica (III a.C.)
E' la tendenza più vicina all'elegia alessandrina, di cui riprende la grande raffinatezza descrittiva e
l'attenzione all'eros visto come gioco o, di converso, come male di vivere espresso in forme languide ed
estenuate. Questa corrente è quasi un vero "cenacolo poetico" concentrato intorno a Cos e con numerosi
contatti con Teocrito e Callimaco, cui gli epigrammisti ionici furono accomunati dalla tendenza all'ironia e
dalla polemica letteraria a proposito dell'elegia mitologica di Antimaco di Colofone (IV a.C.), che nella sua
Lide aveva narrato miti erotici. Autori principali della "scuola ionica" furono:
Asclepiade di Samo: contemporaneo di Callimaco e Teocrito, fu autore di giambi e liriche, perduti. Di
lui abbiamo 47 epigrammi, di cui 14 di dubbia attribuzione.
Posidippo di Pella: amico di Asclepiade, di lui restano:
29 epigrammi (10 dubbi);
un lungo papiro con un'antologia di elegie ed epigrammi;
frammenti di un carme, Aithopia e di un Epitalamio per Arsinoe.
Edilo di Samo: di genitori ateniesi (la madre Edile fu anche poetessa), ci rimangono di lui 11
epigrammi e 6 versi elegiaci su un papiro.
Scuola fenicia (II-I a.C.)
Gli autori di questa corrente possono essere individuati solo per la provenienza geografica siriana, da
Gadara. Gli influssi cinici ed epicurei di questi epigrammisti si rivelano nella presenza della tematica
dell'eros, trattato in modo languido ed appassionato. Gli epigrammisti "fenici" sono:
Filodemo: più noto come filosofo epicureo (vd. scheda)
Meleagro: vissuto tra il 130 ed il 60 a.C., fu autore di varie opere:
Cariti: una raccolta di satire menippee;
Ghirlanda: fu la prima antologia di epigrammi di cui abbiamo notizia. Di essa, che comprendeva gli
epigrammi di 46 autori, ci sono arrivati proemio ed epilogo e 123 epigrammi di Meleagro stesso.
In età greco-romana e bizantina possiamo distinguere tre periodizzazioni cronologiche e tematiche:
a)
Epigramma tardo-ellenistico (II-I a.C.)
I poeti di questo periodo si distinguono per l'abilità formale e tematica con cui applicano la variatio sui temi
ormai topici dell'epigramma (Taran). Nomi eminenti tra questi abili versificatori sono:
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Archia di Antiochia (epico ed epigrammista, noto per la difesa che ne fece Cicerone nel Pro Archia,
abbiamo di lui 25 epigrammi)
Antipatro di Tessalonica (abbiamo circa 100 epigrammi)
Antipatro di Sidone (ne restano 71 epigrammi).
b)
Epigramma imperiale (I-II d.C.)
Caratterizzato ancora dal gioco di variazioni, si distingue spesso nel filone satirico per la volgarità esplicita,
che sarà modello di Marziale. Autori che si distinguono sono:
Stratone di Sardi (di età adrianea, autore di una raccolta di epigrammi omoerotici, Musa paidica, di cui
ci restano il proemio e circa 100 suoi epigrammi)
Lucillio (di età neroniana, abbiamo di lui circa 125 epigrammi).
c) Epigramma bizantino
Gli autori bizantini indulgono ad un languido erotismo e trattano ossessivamente la morte e la decadenza
fisica. Massimi esponenti dell'epigramma bizantino sono:
Agatia di Mirrina (536-582, retore, poeta e storico: perduto il poema in 9 libri Dafniache, ci sono arrivati
i 3 proemi e 98 suoi epigrammi dall'antologia Ciclo e l'opera storica in 5 libri Sul regno di Giustiniano)
Paolo Silenziario (funzionario di Giustiniano, abbiamo di lui 78 epigrammi e due poemetti descrittivi,
La chiesa di Santa Sofia, in 887 esametri, e L'ambone di Santa Sofia, in 275 esametri).
2.
La trasmissione dei testi
L'amplissima diffusione dell'epigramma come genere soggettivo, vero sostituto dell'elegia arcaica, portò ben
presto alla formazione di diverse raccolte: la prima, come si è detto, risale all'inizio del I secolo a.C. ed è la
Ghirlanda di Meleagro, in cui gli autori venivano disposti per ordine alfabetico ed introdotti con una metafora
floreale, da cui il titolo.
Già a metà dello stesso secolo Filippo di Tessalonica compose un'omonima raccolta di epigrammisti
contemporanei, dividendo però la materia secondo la lettera iniziale dei componimenti, seguito, poi, nel II
secolo d.C., da Stratone, della cui raccolta pederotica si è già detto. Ulteriore snodo fu Agatia, con il suo
Ciclo di autori contemporanei.
Punto cardine della trasmissione dei testi epigrammatici fu la fine del X secolo, quando Costantino Cefala,
protopapas di Costantinopoli, fece redigere un'amplissima raccolta, che dal manoscritto in cui ci è pervenuta,
conservato ad Heidelberg, nella Biblioteca Palatina, prende appunto il nome di Antologia Palatina.
Testimonio principe della poesia greca, l'Antologia copre poco meno di un millennio e contiene 3500
epigrammi ed è divisa in 15 libri, divisi per argomenti. I primi 4 libri sono una raccolta disordinata di
epigrammi, proemi e composizioni diverse, forse non risalenti a Cefala:
I.
II.
III.
IV.
Epigrammi cristiani tra IV e IX secolo
Descrizione delle statue del ginnasio dello Zeusippo di Cristodoro di Copto
19 epigrammi sui bassorilievi del tempio di Apollonide a Cizico
Proemi delle raccolte precedenti di Meleagro, Filippo, Agatia
Dopo questa congerie di epigrammi e materiali proemiali, inizia l'antologia vera e propria:
V.
VI.
VII.
VIII.
Epigrammi erotici
Epigrammi votivi
Epigrammi sepolcrali
Epigrammi di Gregorio di Nazianzo
IX.
X.
XI.
XII.
XIII.
XIV.
XV.
Epigrammi epidittici
Epigrammi filosofici e morali
Epigrammi conviviali e satirici
Epigrammi omoerotici
Epigrammi in metri vari
Epigrammi matematici, indovinelli, oracoli
Epigrammi miscellanei e figurati
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Nel 1299 il monaco Massimo Planude fece poi redigere un'antologia epurata dai contenuti scabrosi in 7 libri.
Tale antologia, l'Antologia Planudea, conta 388 epigrammi descrittivi che mancano nella Palatina e che ora
vengono pubblicati come XVI libro della Palatina, detto Appendix Planudea.
L'importanza della Palatina è fondamentale: caso unico per poter seguire l'evoluzione di un genere letterario,
rivela l'intertestualità come carattere tipico dell'età ellenistico-romana (Paduano).
3.
I temi della poesia epigrammatica
Innanzitutto, tema topico nell'epigramma è l'eros, che ondeggia tra una trattazione patetica ed una sottile
ironia. Il tema patetico, in cui l'amore è accostato alla morte ed è visto come passione istruttiva, riecheggia
Saffo e la tragedia euripidea: esorcizzato nell'ellenismo, ricompare in età imperiale (Paduano). Il tema
dell'amore come gioco di allusioni, più consono alla poetica callimachea del lusus e che sarà assimilato
dall'elegia ovidiana, è trattato dagli epigrammisti d'età imperiale non più per semplici allusioni, ma spesso,
specie in Stratone, con oscenità scoperte e quasi esibite con disprezzo.
Infine, una tematica ampiamente sfruttata è quella satirica, che negli epigrammisti più vicini all'ellenismo fa
uso del giocoso callimacheo (Snell), esibendo una finta ingenuità, per poi sfociare, influenzata dalla satira
latina, nel grottesco aperto, con l'adozione dell'aggressività di ascendenza giambica e comica, spesso con
giochi di parole. In questo tipo di epigrammi si può individuare (Lessing) una struttura a dittico: ad
un'introduzione più o meno ampia, che individua la situazione, fa seguito una pointe finale, con una battuta
tanto più fulminea quanto più basata sull'aprosdoketon, sull'improvviso rovesciamento della situazione, che
perverrà e troverà sviluppo soprattutto nell'epigramma di Marziale.
Antonio D'Andraia
Bibliografia
Edizioni critiche
ed. W. Morel, Fragmenta poetarum latinorum epicorum et lyricorum praeter Ennium et Lucilium,
Leipzig, Teubner, 1927, pp. 80-91.
Fragmenta poetarum Latinorum, ed. Jürgen Blänsdorf, W. Morel, K. Büchner, Stuttgard 1995,
pp.103-18 e 121-29.
ed. A.Traglia, I poeti nuovi, Roma 19742, con trad. e commento.
Studi
L. Alfonsi, Poetae novi. Storia di un movimento poetico, Como 1945.
Granarolo, D'Ennius à Catulle. Recherches sur les antecédents Romains de la "poésie nouvelle",
Paris 1971.
E. Castorina, Questioni neoteriche, Firenze 1968.
P. Militerni Della Morte, s.v. Epici Latini minori, in Dizionario degli scrittori greci e latini, 1, Milano,
Marzorati, 1987, pp. 767-68.
"poetae novelli", Castaldi
"poetae novi - Encarta"
Poetae novi o Neóteroi Gruppo di poeti lirici latini attivi intorno alla metà del I secolo a.C., che segnarono un
grande rinnovamento nell’ambito del repertorio formale e tematico della poesia latina. Il nome greco
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neóteroi, al quale si affiancava quello latino di poetae novi (poeti nuovi), è dovuto a Cicerone, che così
definiva alcuni poeti suoi contemporanei che si ispiravano direttamente ai modelli dell’età ellenistica, e in
particolar modo ad autori come Callimaco anzitutto, ma anche Arato, Nicandro, Apollonio Rodio, Mosco di
Siracusa, Teocrito, Meleagro.
La denominazione ciceroniana di “poeti nuovi” rivelava un giudizio spregiativo e puntava il dito contro il rifiuto
da parte delle nuove generazioni di poeti di collocarsi nel solco della tradizione letteraria latina, che vedeva
come massimo punto di riferimento stilistico il genere epico, forma “alta e impegnata” per eccellenza. La
scelta di altre forme poetiche – l’epigramma, l’elegia o l’epillio mitologico – adatte ad accogliere soggetti
autobiografici come l’amicizia, l’amore, le personali riflessioni sull’attività artistica, come pure la ricerca di
soluzioni raffinate nella lingua e nella metrica, costituivano, insieme alla vicinanza generazionale, i comuni
denominatori di questi poeti, che comunque non possono considerarsi una vera e propria scuola.
Il maggior esponente dei poeti neoterici è Catullo, che peraltro è l’unico del quale è stata tramandata una
ricca documentazione letteraria. Pochissimo infatti si conosce di Valerio Catone, Elvio Cinna, Varrone
Atacino, Furio Bibaculo, Licinio Calvo, Cornelio Gallo; al greco Partenio di Nicea, forse liberto di Elvio Cinna,
si riconosce invece l’importante ruolo di aver fatto conoscere a Roma i modelli alessandrini. Assai importante
fu l’attività di ricerca filologica e critica di alcuni di questi poeti: Valerio Catone, ad esempio, aveva presso i
suoi contemporanei la fama di grande critico letterario, vero dispensatore di esaltazioni o stroncature per altri
letterati.
Dall’esperienza neoterica si può certo dire che la poesia latina abbia subito una profonda trasformazione,
poiché l’esigenza di una maggiore raffinatezza e cura formale condizionò non solo la lirica, ma anche generi
più tradizionali come la poesia epica. L’Eneide virgiliana, scritta qualche decennio dopo, rivela infatti una
chiara emancipazione, impensabile senza l’esempio dei neóteroi, dal tradizionale modello stilistico e
linguistico che aveva ancora nell’opera di Ennio il suo massimo riferimento.
Quinto Lutazio Catulo
Cenni biografici
Fu collega di Caio Mario nel consolato del 102 a.C. e con lui vincitore sui Cimbri ai Campi Raudii
nel 101.
Si uccise nell' 87 a.C., dopo che Mario ne ordinò la proscrizione come deciso fautore degli ottimati.
Cicerone lo introduce come personaggio nel secondo e terzo libro de oratore, ma lo cita
onorevolmente in molte altre occasioni come persona di sicura e ampia cultura, di gusto artistico
(Plin., nat. 34,54), di saggezza e integrità, di letterarie frequentazioni (Antipatro Sidonio, Archia di
Antiochia, Furio Anziate).
Storicamente appare a diversi come elemento di collegamento tra la cultura degli Scipioni e le
nuove esperienze culturali dell’età sillana.
Blansdorf FPL 1995 propone datazione ca. 150-87.
Opere
Dedicò al poeta epico A. Furio un libro sul suo consolato e sulle sue imprese (De consulatu et de
rebus gestis suis) e compose anche anche altre opere storiografiche (in metro trocaico sulla storia
arcaica di Roma).
Fu autore di epigrammi, dei quali ci restano due testimonianze. Le tematiche erotiche della
produzione poetica sono confermate da Plinio il Giovane e Apuleio.
Un epigramma di Catulo è conservato da Cicerone in de nat.deor. 1,79, un altro da Gellio, 19,9,4.
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La poesia è raffinato esercizio di stile e risente dell’influenza di epigrammatisti greci come Archia e
Antipatro di Sidone.
“Lutazio ci sembra, più che un vero e proprio caposcuola, un autorevole innovatore e promotore di
un innovamento di cultura ellenizzante, dell’ellenismo più elegante, raffinato, elitario; sul terreno
prevalentemente culturale puro, appunto, a differenza di altri, che si impegnarono piuttosto in
ambito religioso o di altro tipo.” (Alfonsi, Diz. Scrittori, 3).
Testi e testimonianze
Cic., Brutus, 132-135
Iam Q. Catulus non antiquo illo more sed hoc nostro, nisi quid fieri potest perfectius, eruditus. multae litterae,
summa non vitae solum atque naturae sed orationis etiam comitas, incorrupta quaedam Latini sermonis
integritas; quae perspici cum ex orationibus eius potest tum facillume ex eo libro, quem de consulatu et de
rebus gestis suis conscriptum molli et Xenophonteo genere sermonis misit ad A. Furium poetam familiarem
suum; qui liber nihilo notior est quam illi tres, de quibus ante dixi, Scauri libri.
Tum Brutus: mihi quidem, inquit, nec iste notus est nec illi; sed haec mea culpa est, numquam enim in
manus inciderunt. nunc autem et a te sumam et conquiram ista posthac curiosius.
Fuit igitur in Catulo sermo Latinus; quae laus dicendi non mediocris ab oratoribus plerisque neglecta est.
nam de sono vocis et suavitate appellandarum litterarum, quoniam filium cognovisti, noli exspectare quid
dicam. quamquam filius quidem non fuit in oratorum numero; sed non deerat ei tamen in sententia dicenda
cum prudentia tum elegans quoddam et eruditum orationis genus. nec habitus est tamen pater ipse Catulus
princeps in numero patronorum; sed erat talis ut, cum quosdam audires qui tum erant praestantes, videretur
esse inferior, cum autem ipsum audires sine comparatione, non modo contentus esses, sed melius non
quaereres.
[132] Ed ecco che incontriamo Q. Catulo, un oratore formatosi non secondo l'antico metodo, ma
secondo questo nostro nuovo metodo, che potrebbe quasi dirsi perfetto. Ebbe una profonda
cultura, una squisita gentilezza, che appariva non solo dalla sua condotta di vita e dal suo
carattere, ma anche dal suo stile, e una insuperabile purezza di linguaggio. Questi caratteri si
possono notare benissimo sia nelle sue orazioni, sia nel libro ove descrisse le imprese compiute
durante il proprio consolato, scritto in uno stile dolce e degno di Senofonte e dedicato al poeta A.
Furio, suo amico: libro che non è affatto più noto dei tre libri di Scauro, dei quali dianzi ho parlato".
[133] Allora Bruto disse: "In verità io non conosco né questo libro né quelli: la colpa è mia, perché
non li ho mai avuti nelle mani. Ora te li chiederò in prestito; e d'ora innanzi voglio interessarmi
maggiormente di simili opere". Ed io continuai: "In Catulo dunque c'era una grande purezza di
linguaggio: questo è un pregio notevole in materia di lingua, ma viene trascurato dalla maggior
parte degli oratori. In quanto all'accento e alla dolcezza della pronunzia, siccome tu hai conosciuto
suo figlio, non aspettare che io te ne parli. Veramente suo figlio non fu un grande oratore; ma
quando esprimeva un giudizio non gli mancavano né il senno né lo stile elegante e nutrito di
cultura. [134] Lo stesso Catulo padre non fu ritenuto un sommo oratore: egli era tale che, ascoltato
insieme ai più grandi oratori, ti appariva inferiore, ascoltato invece senz a altri oratori coi quali
potesse essere confrontato, non solo ti lasciava contento, ma ti appariva anche superiore.
Traduzione di G. Norcio, Torino, Utet, 1976
Cic., Brutus 259.
Catulus erat ille quidem minime indoctus, ut a te paulo est ante dictum, sed tamen suavitas vocis et lenis
appellatio litterarum bene loquendi famam confecerat.
Quint., inst., 11,3,35
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Ideoque laudatur in Catulo suavis appellatio litterarum.
Cic., de orat., 2, 28-29
Tum omnes oculos in Antonium coniecerunt, et ille 'audite vero, audite,' inquit 'hominem enim audietis de
schola atque a magistro et Graecis litteris eruditum, et eo quidem loquar confidentius, quod Catulus auditor
accessit, cui non solum nos Latini sermonis, sed etiam Graeci ipsi solent suae linguae subtilitatem
elegantiamque concedere.
Allora tutti rivolsero gli occhi verso Antonio, che così cominciò: "Udite, dunque, dite. Sentirete un
uomo che ha frequentato le scuole retoriche ed ha appreso la cultura greca da maestri greci. Mi dà
fiducia nel parlarvi il fatto che vedo tra i miei ascoltatori Catulo, a cui non solo nei Romani nell'uso
del latino, ma anche i Greci, nell'uso del greco concedono la palma della finezza e dell'eleganza.
Cic., de orat., 3, 29
Sed quid ego vetera conquiram, cum mihi liceat uti praesentibus exemplis atque vivis? Quid iucundius
auribus nostris umquam accidit huius oratione Catuli? quae est pura sic, ut Latine loqui paene solus
videatur, sic autem gravis, ut in singulari dignitate omnis tamen adsit humanitas ac lepos. Quid multa? istum
audiens equidem sic iudicare soleo, quicquid aut addideris aut mutaris aut detraxeris, vitiosius et deterius
futurum.
Ma perchè mai ricordare gli antichi, quando possiamo servirci di esmpi vivi e attuali? Che cosa mai
abbiamo ascoltato con le nostre orecchie di più dolce di un discorso di questo Catulo qui presente?
Il suo linguaggio è così puro, che lui solo sembra saper parlare in buon latino; è anche denso di
concetti, ma in modo tale da unire a una non comune austerità ogni senso di finezza e di grazia.
Quando ascolto questo oratore, sono portato apensare che, qualunque cosa tu aggiunga o tolga o
muti nel suo discorso, non faresti che renderlo peggiore e più difettoso.
Plin. iun., 5,3,4-5
Ab illis autem quibus notum est, quos quantosque auctores sequar, facile impetrari posse confido, ut errare
me sed cum illis sinant, quorum non seria modo uerum etiam lusus exprimere laudabile est. An ego uerear
neminem uiuentium, ne quam in speciem adulationis incidam, nominabo, sed ego uerear ne me non satis
deceat, quod decuit M. Tullium, C. Caluum, Asinium Pollionem, M. Messalam, Q. Hortensium, M. Brutum, L.
Sullam, Q. Catulum, Q. Scaeuolam, Seruium Sulpicium, Varronem, Torquatum, immo Torquatos, C.
Memmium, Lentulum Gaetulicum, Annaeum Senecam et proxime Verginium Rufum et, si non sufficiunt
exempla priuata, diuum Iulium, diuum Augustum, diuum Neruam, Tiberium Caesarem?
Apul., apol., 9 -12 (appurare se è riferito a lui o a Catullo).
'fecit uorsus Apuleius'. si malos, crimen est, nec id tamen philosophi, sed poetae; sin bonos, quid accusas?
'at enim ludicros et amatorios fecit'. num ergo haec sunt crimina mea et nomine erratis, qui me magiae
detulistis? fecere tamen et alii talia, etsi uos ignoratis: apud Graecos Teius quidam et Lacedaemonius et
Ciu[i]s cum aliis innumeris, etiam mulier Lesbia, lasciue illa quidem tantaque gratia, ut nobis insolentiam
linguae suae dulcedine carminum commendet, apud nos uero Aedituus et Porcius et Catulus, isti quoque
cum aliis innumeris.
Plin., 34,54
(Phidias) Fecit et cliduchum et aliam Minervam, quam Romae Paulus Aemilius ad aedem Fortunae Huiusce
Diei dicavit, item duo signa, quae Catulus in eadem aede, palliata et alterum colossicon nudum, primusque
artem toreuticen aperuisse atque demonstrasse merito iudicatur.
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Plutarch., Mar. 14,14
Apul., apol. 9.
Sed quid ad magica maleficia, quod ego pueros Scriboni Laeti, amici mei, carmine laudaui? an ideo magus,
quia poeta? quis unquam fando audiuit tam <ueri>similem suspicionem, tam aptam coniecturam, tam
proxumum argumentum? 'fecit uorsus Apuleius'. si malos, crimen est, nec id tamen philosophi, sed poetae;
sin bonos, quid accusas? 'at enim ludicros et amatorios fecit'. num ergo haec sunt crimina mea et nomine
erratis, qui me magiae detulistis? fecere tamen et alii talia, etsi uos ignoratis: apud Graecos Teius quidam et
Lacedaemonius et Ciu[i]s cum aliis innumeris, etiam mulier Lesbia, lasciue illa quidem tantaque gratia, ut
nobis insolentiam linguae suae dulcedine carminum commendet, apud nos uero Aedituus et Porcius et
Catulus, isti quoque cum aliis innumeris. 'at philosophi non fuere'.
Testo PHI
Aufugit mi animus; credo, ut solet, ad Theotimum
devenit. Sic est, perfugium illud habet.
Quid, si non interdixem, ne illunc fugitivum
mitteret ad se intro, sed magis eiceret?
Ibimus quaesitum. Verum, ne ipsi teneamur
formido. Quid ago? Da, Venus, consilium.
Constiteram exorientem Auroram forte salutans,
cum subito a laeva Roscius exoritur.
Pace mihi liceat, caelestes, dicere vestra:
mortalis visus pulchrior esse deo.
Il mio cuore è scappato via: credo che, com'è solito, da Teotìmo si sia ricoverato. Così è: lui ha
sempre quel rifugio, sempre. Come se non avessi proibito al ragazzo d'accogliere quell'evaso
dentro in casa sua, e che lo cacciasse fuori, invece! Andrò a cercarne. Però d'essere ritenuto io
stesso ho gran paura. Che fare? Venere, consigliami tu.
M'ero fermato per salutare l'Aurora che stava spuntando, quando d'improvviso dalla sinistra spunta
Roscio. Mi sia lecito dirlo, celesti, col vostro permesso: il mortale m'è parso più bello del dio.
Trad. G.B. Pighi, Torino, Utet
Bibliografia
Frammenti poetici per complessive 62 parole in W. Morel, Fragmenta poetarum latinorum
epicorum et lyricorum praeter Ennium et Lucilium, Leipzig, Teubner, 1927.
FPL Blansdorf 1995, pp. 94-96.
Cf. H. Malcovati, Oratorum Romanorum Fragmenta Liberae Rei Publicae, Torino, 19764, p. 218.
Cf. Peter, Historicorum Romanorum reliquiae, 1, pp. 262 segg. .
Studi
L. Alfonsi, Poetae novi, Como 1945.
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J. Granarolo, D'Ennius à Catulle,. Recherches sur les antécédents romains de poesie nouvelle,
Paris 1971.
V. Tandoi, Disiecti membra poetae. Studi di poesia latina in frammenti, Foggia 1984.
L. Alfonsi, Preneoterici, in F. Della Corte, Dizionario degli scrittori greci e latini, 3, Milano,
Marzorati, 1987, pp. 1775-92.
G. G. Biondi, Lutazio Catulo e i “preneoterici”, in Storia della civiltà letteraria greca e latina, 2,
Torino, Utet, 1998, pp. 431-42. BCTV Consultazione.
G. G. Biondi, I “poetae novi”, in Storia della civiltà letteraria greca e latina, 2, Torino, Utet, 1998,
pp. 448-60. BCTV Consultazione.
PHI
Mariotti II, 23
Bettini, 1, 440 (storia); 2,9 (circolo di L.C.); 2, 10-11
Riposati 175 e 214
Spirito, impostazione e stile diversi erano nelle memorie (delle sue imprese) di Q u i n t o L u t a z i o Cà t u l
o (De consulatu et de rebus gestis suis), collega di Mario nel consolato (a. 102), con lui combattente e
trionfatore sui Cimbri a Vercelli (a. 101). Opera senza dubbio di spiriti polemici, intesa a rivendicare i propri
diritti contro l'operato di Mario, che si era arrogato poi tutto il vanto della vittoria dei Cimbri; né fu essa l'ultima
causa della rovina del, I'autore, dal momento che Lutazio lasciò la vita nel furore delle stragi mariane, nell'87
a. C.
Cicerone trovava nelltopera di Lutazio finezza di cultura, eleganza e semplicità di stile, degne di uno scrittore
attico; non a caso Lutazio fu anche poeta, precursore anzi dei poetae novi.
Q. Lutazio Càtulo: è l'anello di congiungimento tra il vecchio e il nuovo mondo culturale romano. Aristocratico
di spirito e di educazione—apparteneva all'alta società romana e fu console nel 102—, veniva dalla trafíla
del circolo degli Scipioni, da cui assorbí il culto delI'humanitas, I'amore alla cultura greca e latina, il gusto del
bello e della poesia. Anima aperta ad ogni genere di cultura, si interessò di storia e di autobiografia,
scrivendo un commentario sul suo consolato(l), ma si fece soprattutto banditore dei nuovi modi di poesia
romana, accogliendoli egli stesso e coltivandoli con gusto finissimo. Compose epigrammi di vario genere •
ne restano due documenti(2), che ripetono motivi dell' 'eròtica' alessandrina, e paiono intonati a Gllímaco:
paràfrasi ed esempi di $ bello stile ' piú che espressione di sentimenti personali.
Valerio Edituo
Cenni biografici
FPL Blasdorf dà fine del II secolo a.C..
Della Corte ne ha proposto l’identificazione con Valerio Sorano.
Opere
Epigrammata
Gellio (19,9,11) ci trasmette due epigrammi.
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110
Il primo è una rivisitazione dell’ode di Saffo parafrasata in Catullo 51, ma ben lontana da Saffo.
Il secondo è un’apostrofe indirizzata a uno schiavetto greco Phileros, ricorda i greci Asclkepiade e
Meleagro.
Testi e testimonianze
Apul., apol., 9 -12
'fecit uorsus Apuleius'. si malos, crimen est, nec id tamen philosophi, sed poetae; sin bonos, quid accusas?
'at enim ludicros et amatorios fecit'. num ergo haec sunt crimina mea et nomine erratis, qui me magiae
detulistis? fecere tamen et alii talia, etsi uos ignoratis: apud Graecos Teius quidam et Lacedaemonius et
Ciu[i]s cum aliis innumeris, etiam mulier Lesbia, lasciue illa quidem tantaque gratia, ut nobis insolentiam
linguae suae dulcedine carminum commendet, apud nos uero Aedituus et Porcius et Catulus, isti quoque
cum aliis innumeris.
Gell. 19,9,10
Riporta 1 epigramma (Dicere cum…)
Gell. 19,9, 12
Riporta un altro epigramma (Quid faculam…)
PHI
EPIGRAMMATA
Dicere cum conor curam tibi, Pamphila, cordis,
quid mi abs te quaeram, verba labris abeunt,
per pectus manat subito <subido> mihi sudor:
sic tacitus, subidus, dum pudeo, pereo.
Quid faculam praefers, Phileros, quae nil opus nobis?
ibimus sic, lucet pectore flamma satis.
Istam nam potis est vis saeva extinguere venti
aut imber caelo candidus praecipitans;
at contra hunc ignem Veneris nisi si Venus ipsa
nulla est quae possit vis alia opprimere.
Quando mi provo a dirti, Pànfila, il mio segreto affanno, che cosa io mi voglia da te, le parole mi
vanno via dalle labbra; ecco mi confondo e freddo il sudore mi cola per il petto; e così muto e
confuso son tutto vergogna e mi sento morire.
Perché impugni la facella, Fìleros, che non ci serve? Andremo così, è bastante la fiamma che
traluce dal petto. Codesta che tu porti, non la può forse spegnere la violenza del vento o la pioggia
che si rovescia accecante dal cielo? Ma al contrario questo fuoco di Venere, se non è Venere
stessa, non c'è altra forza che lo possa soffocare.
Trad. Di G.B. Pighi, Il libro di Catullo e i frammenti dei poetae novi, Torino, Utet, 1974, rist. 1986
[Canova], p. 395
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111
Bibliografia
Frammenti per complessive 71 parole in W. Morel, Fragmenta poetarum latinorum epicorum et
lyricorum praeter Ennium et Lucilium, Leipzig, Teubner, 1927.
FPL Blansdorf 1995, pp. 92-93.
L. Alfonsi, s.v. Preneoterici, in Dizionario degli scrittori greci e latini, 3, Milano, Marzorati, 1987, pp.
1777-78.
PHI # 5
Mariotti II, 23
Porcio Lìcino
Cenni biografici
Scrisse dopo la morte di Terenzio (ca. 159).
Blansdorf FPL 1995 propone fine II secolo a.C.
Non sappiamo nulla di preciso.
Opere
Frammenti poetici riportati da Gellio, Varrone, Svetonio, Carisio.
Un unico epigramma amoroso e pastorale.
Poema o poemetto didattico in tetrametri trocaici, sulla linea ellenistica ma anche di Accio, con
oggetto storia della poesia latina.
Testi e testimonianze
Apul., apol., 9 -12
'fecit uorsus Apuleius'. si malos, crimen est, nec id tamen philosophi, sed poetae; sin bonos, quid accusas?
'at enim ludicros et amatorios fecit'. num ergo haec sunt crimina mea et nomine erratis, qui me magiae
detulistis? fecere tamen et alii talia, etsi uos ignoratis: apud Graecos Teius quidam et Lacedaemonius et
Ciu[i]s cum aliis innumeris, etiam mulier Lesbia, lasciue illa quidem tantaque gratia, ut nobis insolentiam
linguae suae dulcedine carminum commendet, apud nos uero Aedituus et Porcius et Catulus, isti quoque
cum aliis innumeris.
Gell., 17,21,45
Porcius autem Licinus serius poeticam Romae coepisse dicit in his uersibus:
Poenico bello secundo Musa pinnato gradu
intulit se bellicosam in Romuli gentem feram.
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Gell., 19,9,10
Tum resupinus capite conuelato uoce admodum quam suaui uersus cecinit Valerii Aeditui, ueteris poetae,
item Porcii Licini et Q. Catuli, quibus mundius, uenustius, limatius, tersius Graecum Latinumue nihil
quicquam reperiri puto.
….
19,9,13
Item dixit uersus Porcii Licini hosce:
custodes ouium tenerae propaginis, agnum,
quaeritis ignem? ite huc; quaeritis? ignis homost.
si digito attigero, incendam siluam simul omnem,
omne pecus flammast, omnia qua uideo.
Framm. 3 su Terenzio
Dum lasciviam nobilium et laudes fucosas petit,
dum Africani vocem divinam inhiat avidis auribus,
dum ad Philum se cenitare et Laelium pulchrum putat,
dum se ab his amari credit <propter indolem ingeni>,
crebro in Albanum <Afer> rapitur ob florem aetatis suae:
Post sublatis rebus ad summam inopiam redactus est.
Itaque ex conspectu omnium abiit Graeciam in terram ultimam,
mortuust Stymphali, Arcadiae oppido. Nil P<ublius>
Scipio profuit, nil illi Laelius, nil Furius,
tres per idem tempus qui agitabant nobiles facillime:
eorum ille opera ne domum quidem habuit conducticiam,
saltem ut esset quo referret obitum domini servulus.
Bibliografia
PHI
Mariotti II, 23
Frammenti poetici per complessive 147 parole in W. Morel, Fragmenta poetarum latinorum
epicorum et lyricorum praeter Ennium et Lucilium, Leipzig, Teubner, 1927.
FPL Blansdorf 1995, pp.96-100.
Gundel, H.G., RE XXII 1 (1953), 232 segg.
L. Alfonsi, Preneoterici, in F. Della Corte, Dizionario degli scrittori greci e latini, 3, Milano,
Marzorati, 1987, pp. 1779-80.
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Volcacio Sedìgito
Cenni
Cenni biografici
Blansdorf FPL 1995 propone fine II secolo a.C..
Si occupò dell’autenticità delle commedie plautine.
Opere
Gellio, che riporta il famoso “catalogo” o “canone” di poeti comici latini, lo dice tratto da un libro “De
poetis”.
Il canone è in 13 senari giambici; riprende i modelli del genere dei grammatici ellenisttici per i nove
poeti lirici.
Testi e testimonianze
Plin., nat. 11,244.
Digiti quibusdam in manibus seni. M. Corani ex patricia gente filias duas ob id Sedigitas accipimus
appellatas et Volcacium Sedigitum, inlustrem in poetica.
Volcac., fr. 1 (PHI)
Multos incertos certare hanc rem vidimus,
palmam poetae comico cui deferant.
Cum meo iudicio errorem dissolvam tibi,
ut, contra si quis sentiat, nihil sentiat.
Caecilio palmam Statio do mimico.
Plautus secundus facile exuperat ceteros.
Dein Naevius, qui fervet, pretio in tertiost.
Si erit, quod quarto detur, dabitur Licinio.
Post insequi Licinium facio Atilium.
In sexto consequetur hos Terentius,
Turpilius septimum, Trabea octavum optinet,
nono loco esse facile facio Luscium.
Decimum addo causa antiquitatis Ennium.
Gell. 3,3,1
Verum esse comperior, quod quosdam bene litteratos homines dicere audiui, qui plerasque Plauti
comoedias curiose atque contente lectitarunt, non indicibus Aelii nec Sedigiti nec Claudii nec Aurelii nec
Accii nec Manilii super his fabulis, quae dicuntur 'ambiguae', crediturum, sed ipsi Plauto moribusque ingeni
atque linguae eius. Hac enim iudicii norma Varronem quoque usum uidemus.
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Bibliografia
Schuster, M., RE IX A1, 1961, 742-754.
Frammenti relativi al De Poetis per complessive 123 parole in W. Morel, Fragmenta poetarum
latinorum epicorum et lyricorum praeter Ennium et Lucilium, Leipzig, Teubner, 1927.
FPL Blansdorf 1995, pp. 101-103.
L. Alfonsi, Preneoterici, in F. Della Corte, Dizionario degli scrittori greci e latini, 3, Milano,
Marzorati, 1987, pp. 1780-81.
PHI # 5.3
Mariotti II, 23
Valerio Sorano
Cenni biografici
Blansdorf FPL 1995 lo colloca ca. 130-82, quindi controllare 2b
Opere
Inno a Juppiter
Epoptìdes
Scritto in prosa o in versi non si sa, con titolo Scipio.
Agostino (civ.Dei) riporta due esametri, forse da un De rerum natura.
7 frammenti in PHI
Testi e testimonianze
Plin., nat. 3,65: non rilev.
Plin., nat. Praef. 33
Quia occupationibus tuis publico bono parcendum erat, quid singulis contineretur libris, huic epistulae
subiunxi summaque cura, ne legendos eos haberes, operam dedi. tu per hoc et aliis praestabis ne perlegant,
sed, ut quisque desiderabit aliquid, id tantum quaerat et sciat quo loco inveniat. hoc ante me fecit in litteris
nostris Valerius Soranus in libris, quos ™popt…dwn inscripsit.
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Cic., Brut., 169
Atque etiam apud socios et Latinos oratores habiti sunt Q. Vettius Vettianus e Marsis, quem ipse cognovi,
prudens vir et in dicendo brevis; Q. D. Valerii Sorani, vicini et familiares mei, non tam in dicendo admirabiles
quam docti et Graecis litteris et Latinis; C. Rusticelius Bononiensis, is quidem et exercitatus et natura
volubilis….
Cic., de orat., 3,43
Athenis iam diu doctrina ipsorum Atheniensium interiit, domicilium tantum in illa urbe remanet studiorum,
quibus vacant cives, peregrini fruuntur capti quodam modo nomine urbis et auctoritate; tamen eruditissimos
homines Asiaticos quivis Atheniensis indoctus non verbis, sed sono vocis nec tam bene quam suaviter
loquendo facile superabit. Nostri minus student litteris quam Latini; tamen ex istis, quos nostis, urbanis, in
quibus minimum est litterarum, nemo est quin litteratissimum togatorum omnium, Q. Valerium Soranum,
lenitate vocis atque ipso oris pressu et sono facile vincat.
Plutarco lo definisce philologos aner kai philomathes en oligois
Bibliografia
R. Helm, RE XV A (1955), 225-26.
PHI 5.3
Gn. Mazio
Cenni biografici
Vissuto in epoca sillana.
Opere
Autore di una traduzione dell’Iliade, di cui restano frammenti trasmessi da Varrone, Gellio,
Prisciano, Carisio, Diomede, Macrobio e Nonio.
Testi e testimonianze
Gell., 15,25,1 e 10, 24,10
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Bibliografia
Mariotti II, 25
W. Kroll, RE XIV 2, 1928, 2211 segg.
Frammenti per complessive 116 parole relativi a Ilias e Mimiambi in W. Morel, Fragmenta
poetarum latinorum epicorum et lyricorum praeter Ennium et Lucilium, Leipzig, Teubner, 1927.
FPL Blansdorf 1995, pp. 111-117.
Testo con traduzione in Il libro di Catullo e i frammenti dei poeti nuovi, G.B. Pighi, Torino, Utet,
1974, rist. 1986, pp. 406-07.
P. Militerni Della Morte, s.v. Epici Latini minori, in Dizionario degli scrittori greci e latini, 1, Milano,
Marzorati, 1987, pp. 767. (da ricontrollare)
PHI # 5.3
L. Alfonsi, Preneoterici, in F. Della Corte, Dizionario degli scrittori greci e latini, 3, Milano,
Marzorati, 1987, pp. 1786-87.
Sueio
Cenni biografici
Non se ne sa praticamente nulla. Incertezze anche sul nome. Proposte identificazioni con Marco
Sueio grammatico citato da Varrone o M. Sueio amico di Cicerone e Varrone, cavaliere, edile nel
74 a.C..
.
Opere
Moretum.
In esametri. Raccontava la preparazione di una pizza “rustica”
Pulli.
In settenari trocaici. Raccontava la vita e l’allevamento dei pulcini.
Forse Moretum e Pulli facevano parte di una raccolta, forse di temi legati alla vita campestre.
Almeno cinque libri di Annales. Restano due frammenti.
Testi e testimonianze
Macr., 3, 18,11
Vir longe doctissimus
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Testo Macrobio
Traduzione Macrobio
Bibliografia
Testo con traduzione in Il libro di Catullo e i frammenti dei poeti nuovi, G.B. Pighi, Torino, Utet,
1974, rist. 1986, pp. 410-13.
L. Alfonsi, Preneoterici, in F. Della Corte, Dizionario degli scrittori greci e latini, 3, Milano,
Marzorati, 1987, pp. 1787-89.
Bettini, 2,12
Ostio
Cenni biografici
Sappiamo che la composizione del Bellum Histricum va collocata poco dopo il 129 a.C.
Opere
Bellum Histricum (Annales Belli Histrici?) in almeno 3 libri
Testi e testimonianze
Bibliografia
L. Alfonsi, Preneoterici, in F. Della Corte, Dizionario degli scrittori greci e latini, 3, Milano,
Marzorati, 1987, pp. 1790-91.
Bettini 2, 14
Papinio
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Cenni biografici
Opere
Testi e testimonianze
Bibliografia
Bettini, 2,14 solo nome
Ninnio Crasso
Cenni biografici
Blansdorf attribuisce dubitatativamente al I secolo.
Opere
Una traduzione dell’Iliade. Ci restano un paio di versi citati da Nonio e Prisciano.
Testi e testimonianze
Bibliografia
W. Kroll, RE XVII 1, 1936, 633 segg.
FPL Blansdorf 1995, pp. 118.
L. Alfonsi, Preneoterici, in F. Della Corte, Dizionario degli scrittori greci e latini, 3, Milano,
Marzorati, 1987, p. 1789.
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Levio
Cenni biografici
Quasi nulla si sa; lo si colloca convenzionalmente all'inizio (o alla metà) del primo secolo a.C.
Svetonio lo chiama Laevius Melissus. Il secondo elemento è soprannome greco
Forse di origini liguri.
Conobbe Varrone (Atacino)
Opere
E’ indicato da Porfirione come unico e diretto antecedente di Orazio come rappresentante della
poesia lirica a Roma, intesa come “parole da cantare sulla lira”.
Gli Erotopaegnia (Scherzi d'amore) raccoglievano componimenti su temi erotici e mitologici.
Dovevano essere in almeno sei libri, a giudicare dalle citazioni, soprattutto in Carisio.
Restano quasi trenta frammenti circa in metri vari.
Frammenti per un totale di 237 parole e 9 titoli: Adonis, Alcestis, Centauri, Erotopaegnia, Helena,
Ino, Phoenix, Protesilaudamia, Sirenocirca
Testi e testimonianze
Gell., 19,9,7
Nam Laeuius inplicata et Hortensius inuenusta et Cinna inlepida et Memmius dura ac deinceps omnes rudia
fecerunt atque absona.'
Porph. Hor.c., 3,1,2
Carmina non privs avdita. Romanis utique non prius audita, quamuis L<a>euius lyrica ante Horatium
scripserit.
Sed uidentur illa non Graecorum lege ad lyricum characterem exacta.
Auson., cent.nupt. 4
Suet. De gramm. 3
Pretia vero grammaticorum tanta mercedesque tam magnae ut constet Lutatium Daphnidem quem Laevius
Melissus per cavillationem nominis Panos agasma dicit, DCC milibus nummum a Q. Catulo emptum ac brevi
manumissum, L. Apuleium ab Aeficio Calvino equite Romano praedivite quadringenis annuis conductum ut
Oscae doceret. nam in provincias quoque grammatica
Bibliografia
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W. Morel, Fragmenta poetarum latinorum epicorum et lyricorum praeter Ennium et Lucilium,
Leipzig, Teubner, 1927.
G.B. Pighi, Fragmenta Lyricorum Romanorum, qui a Lucilio usque ad Vergilium fuerunt, Bologna
1960, p. 12.
A.Traglia, Poetae novi, Roma 1962, pp. 46-58 e 119-27. Numerosi gli altri contributi di Traglia su
Levio.
FPL Blansdorf 1995, pp. 126-142.
Testo con traduzione in Il libro di Catullo e i frammenti dei poeti nuovi, G.B. Pighi, Torino, Utet,
1974, rist. 1986, pp. 414-23.
Studi
L. Alfonsi, Poetae novi, Como 1945.
A. Traglia, Poetae novi, Roma 19742, pp. 5 segg, 46 segg, 119 segg.
J. Granarolo, D'Ennius à Catulle. Recherches sur les antécédents romains de la "poésie nouvelle",
Paris 1971.
L. Alfonsi, Preneoterici, in F. Della Corte, Dizionario degli scrittori greci e latini, 3, Milano,
Marzorati, 1987, pp. 1781-86.
Gli aspetti e i caratteri fondamentali della misteriosa personalità poetica di Levio riguardano sia i contenuti
che la forma e la tecnica — stile, metrica, linguaggio — di questo romano, sia pur probabilmente di origine
greca, che introduce in Roma anche un genere astruso della piùricercata poesia alessandrina. E in ciò si
conferma la sua natura di grammatico-letterato, pure nella realizzazione lirica. Infatti se leggiamo i titoli e
percorriamo i suoi scarsi frammenti vediamo che gli argomenti rimandano a figure e personaggi mitici e
poetici tratti dal ciclo troiano (come Andromaca, Elena, Laudamia e Protesilao, Circe e le Sirene) o da altra
fonte, forse tragica, euripidea (Alcesti e gli altri poemetti, compresa la Protesilaudamia) — e addirittura, per i
« Centauri », il Kentauros di Cheremone, e fin echi omerici —, ma interpretati con anima moderna. Si tratta
in prevalenza di personaggi femminili, almeno a quanto ci risulta dai testi, come Penelope (fr. 2 B.),
Andromaca (fr. 4), Alcesti (fr. 7, 8, 9 B.), Helena, Ino, Sirenocirca e la Protesilaudamia certo nota a Catullo
che quasi ne ridà il titolo, composto dai nomi dei due protagonisti della vicenda, in 68 A. Possiamo dire che
Levio risolve in epiilio ad andatura narrativa, e forse con qualche intermezzo quasi drammatico, vicende del
grande epos e della poesia tragica. Ma sono inoltre aspetti della tecnica che colpiscono: nella tradizione
comica (terenziana) e alessandrina rientra la polemica letteraria con cui egli difende e/o attacca.
E ancora, se non creatore, Levio è l’introduttore in Roma del genere alessandrino dei cosiddetti carmina
figurata: genere in cui si erano cimentati Teocrito con la « Zampogna », Simia con le « Ali » (si noti
appunto!), l’ « Accetta » e l’ « Uovo », Dosiada con l’ « Altare »; questa forma sarà destinata a una certa
fortuna nella tarda antichità (Optaziano Porfirio), nel Medio Evo (Rabano Mauro e Alcuino), e in epoca
moderna sino ai « Technopaegnia barocchi » in parte ispirati da ragioni didascaliche o encomiastiche, al
poeta inglese seicentesco Herbert, a Herrick, sino ai Calligrammi di Apollinare, di Cummings e di Queneau
(1961). E’ il caso della Phoenix, in versi disposti proprio come un’ala di fenice, costituita da piedi decrescenti,
dai summi senum denum ai sequentes quinum detzum (3 anacreontei, 1 ionico a minore, i anacreonteo, 5
ionici a maiore, secondo la scomposizione metrica del frammento dovuta al Granarolo; 3 ionici a minore e 3
ionici a maiore secondo Traglia), in uno scenario e con terminologia religiosa innodica, a simboleggiare
l’eternità e l’assolutezza dell’amore, felicità e servitù, forse ad opera di una ierodula (?). Né occorre pensare
all’anno 97 per la storia favolosa della fenice, anche se possiamo ammettere che la divulgazione che ne fece
il senatore Manilio (Plin. n. h. 10, 4) ravvivò la conoscenza che i circoli colti potevano già averne per
tradizione letteraria.
Il discorso ci ha portato a puntualizzare un altro fondamentale carattere della poesia leviana: la sua
poiimetria, nella tradizione dei cantica e dei diverbia della commedia, e della monodia tragica cui essi, i
cantica, si riconducono, ivi comprese le monodie « euripidee » arcaiche con introduzione di nuovi metri nel
mondo culturale latino in toni anche musicali (come hanno ben mostrato il Della Corte, il Rostagni e il
Granarolo), oltreché, bene inteso, gli epigrammi diàphoron mètron, e i poièmata diàphora biblìa di Simia, e,
per l’alternarsi del narrativo, i bucolici e i mèle di Callimaco. E il tutto Levio impiega, se non proprio risolve in
poikilìa stilistica. Da notare la presenza di metri nuovi, onde taluno ha pensato (Pighi e Granarolo) che, se
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121
non tutti, alcuni versi leviani potessero essere destinati al canto. Ma c’è già una musicalità verbale nelle
allitterazioni e negli omeoteleuti, nelle affinità di suoni.
Ma è soprattutto per la sua nuova lingua amorosa, dal talvolta esasperato virtuosismo e dal compiacimento
spesso per il frivolo, prezioso, quasi svenevole (Gellio: figuras habitusque verborum nove aut insigniter
dictorum in Laeviano illo carmine — è l’Alcesti — ruminabamur) che egli prepara, o meglio anticipa l’arte
neoterica. Dunque si chiedeva finemente il Pascoli se egli sia il primo dei neoteroi, o non piuttosto «
l’ultimissimo dei veteres ». Si può dire che lui, rompendo l’esperienza alessandrina di convenzione
epigrammatica, dopo l’epigramma d’amore dei precedenti poeti del « circolo » di Lutazio Catulo, fa spazio
alla lirica narrativa (erotopaegnia), caso mai, come poi farà Catullo, fondendo i due rivoli, il poetico-amoroso,
quello appunto epigrammatico-aulico, e quello più libero, fin lambiccato, tipico di tradizione metrica romana,
dissolvendo i miti in storie prevalentemente sentimentali. In questo, oltreché nella brevitas delle sue
composizioni e nella ricerca dell’eleganza raffinata e nel culto disimpegnato per l’arte è da vedere il suo
originale alessandrinismo. Veramente anche per lui « l’opera di poesia, anche se giova, non in quanto opera
di poesia giova », come dirà poi Filodemo. E se la sua novità non scevra di difficoltà per la forma è stata
rilevata da Gellio (XIX 9, 7 Laevius implicata..), per il contenuto possiamo credere che a lui — prima ancora
che ai poetae novi veri e propri faccia riferimento Lucrezio (IV 1121-1170) quando rifà ironicamente
procedimenti e modi artistici vezzosi di questi poeti nell’esaltazione delle loro donne : nigra
melichrus…plenaque honoris ecc. , pur se in Lucrezio pare si tratti di amori personali, e di termini greci non
ci sia propriamente traccia in Levio.
Mariotti II, 23
PHI
Publio Valerio Catone
Cenni biografici
Originario dellla Gallia, forse liberto, nacque con quasi sicurezza all'inizio del I secolo a.C. e venuto
a Roma si occupò come grammatico e maestro di poesia, pare con buona fama, che peraltro non
gli impedì, secondo quanto narra Svetonio, di morire in miseria.
Opere
Svetonio ricorda la composizione di alcuni libelli grammatici, lavori filologici con cui si rifaceva alla
tradizione dei critici alessandrini, in particolare Zenodoto e Cratete), apprestando tra l’altro
un’edizione di Lucilio, e di alcuni poemata (una Lidia e, soprattutto una Diana o Dictynna) che
ebbero un certo riscontro tra i contemporanei e confermarono il ruolo di “caposcuola” di Valerio
Catone (“docuit multos et nobiles visusque est peridoneus praeceptor maxime ad poeticam
tendentibus”)
Di quest'opera non c'è rimasto nulla.
Testi e testimonianze
Suet., de gramm., 11,1
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122
P. Valerius Cato, ut nonnulli tradiderunt Burseni cuiusdam libertus ex Gallia, ipse libello cui est titulus
Indignatio ingenuum se natum ait et pupillum relictum eoque facilius licentia Sullani temporis exutum
patrimonio. docuit multos et nobiles visusque est peridoneus praeceptor maxime ad poeticam tendentibus ut
quidem adparere vel his versiculis potest.
Cato grammaticus Latina Siren
Qui solus legit ac facit poetas.
scripsit praeter grammaticos libellos etiam poemata ex quibus praecipue probantur Lydia et Diana. Lydiae
Ticida meminit
Lydia doctorum maxima cura liber.
Dianae Cinna
Saecula permaneat nostri Dictynna Catonis.
vixit ad extremam senectam sed in summa pauperie et paene inopia, abditus modice gurgustio postquam
Tusculana villa creditoribus cesserat, ut auctor est Bibaculus
Si quis forte mei domum Catonis
Depictas minio assulas et illos
Custodis videt hortulos Priapi,
Miratur quibus ille disciplinis
Tantam sit sapientiam assecutus
Quem tres cauliculi, selibra farris,
Racemi duo tegula sub una
Ad summam prope nutriant senectam.
et rursus
Catonis modo, Galle, Tusculanum
Tota creditor urbe venditabat.
Mirati sumus unicum magistrum,
Summum grammaticum, optimum poetam
Omnes solvere posse quaestiones,
Unum difficile expedire nomen.
En cor Zenodoti en iecur Cratetis.
Per la traduzione dei versi di Bibaculo v. sub voce.
Suet., gramm. 4, 2
Cornelius quoque Nepos libello quo distinguit litteratum ab erudito, litteratos vulgo quidem appellari ait eos
qui aliquid diligenter et acute scienterque possint aut dicere aut scribere, ceterum proprie sic appellandos
poetarum interpretes, qui a Graecis grammatici nominentur. eosdem litteratores vocitatos Messalla Corvinus
in quadam epistula ostendit, non esse sibi dicens rem cum Furio Bibaculo, ne cum Ticida quidem aut
litteratore Catone: significat enim haud dubie Valerium Catonem poetam simul grammaticumque notissimum.
Bibliografia
Conte, 124
"Valerio Catone¸ Publio - Treccani"
Catone Publio Valerio. Grammatico e poeta latino. Nato attorno al 90 a.C. nella Gallia Cisalpina, ebbe fama
di abilissimo commentatore di testi poetici, e in particolare di Lucilio, di cui preparò una edizione critica.
Intorno a lui si formò una vera e propria scuola, quella dei nexterxi o poetae novi
C. scrisse soprattutto epilli a carattere mitologico e amoroso, come la Lydia, o a carattere etiologico, come la
Dictynna, che narrava la storia della ninfa cretese Britomartis trasformata in Diana Dictynna, o a carattere
polemico, come l'Indignatio (Invettiva). Quest'ultimo scritto è da taluni identificato con le Dirae (Maledizioni),
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comunemente attribuite a Virgilio. Morì povero, costretto a vivere in una misera baracca, cibandosi di poche
verdure, dopo aver dovuto vendere la sua villa Tusculana.
Catone, Publio Valerio - Riposati
1. V a I e r i o C a t o n e è il caposcuola dei neòteri. Della sua vita e della sua opera, di cui non ci è rimasto
neppure un verso, si sa solo quello che ci hanno lasciato scritto i suoi discepoli, e piú tardi Svetonio (2).
Venuto a Roma dalla Gallia Cisalpina, vi rimase per tutta la vita, consacrato allo studio e alla scuola, prima in
discreta agiatezza, e poi, fino alla vecchiaia, "nella piú desolata povertà, in quasi assoluta indigenza", in
seguito, a quanto pare, ad un grave dissesto finanziario, subíto sotto la pressione delle proscrizioni sillane.
Un epigramma del suo conterràneo e discepolo Furio Bibàculo dipinge, tra il serio e il facéto, il povero
orticello e la squallida capanna, dove il maestro, nonostante il grande nome che aveva nel mondo della
cultura, era purtroppo costretto a trascorrere la sua misera vecchiaia, nutrendosi di " tre cavoletti, mezza
libbra di farro e due grappoli d'uva)).
E Gtone fu in verità uomo di raffinata cultura e di squisito gusto artistico. Svetonio lo dice poetam simul
grammaticTzmque notissimum, nonché peridoneus praeceptor, ' insigne maestro' per chi intendeva battere
le vie della poesia (maxime ad poeticam tendentibus). Ne delinea bene la figura e la notorietà un
epigramma, attribuito allo stesso Bibàculo: "Catone grammatico, Latina Sirena, che solo sa scegliere e
formare i poeti " Alla sua attività di grammaticus nel senso svetoniano (cioè litterator, filologo, maestro di
letteratura) si riferisce l'edizione di Lucilio, di cui Gtone migliorò senza dubbio la compàgine del testo, anche
in ordine ai segni diacrítici. Non va trascurato un suo libello, autobiografico, dal titolo Indignatio, in cui
esponeva i casi della sua vita, insistendo su quelli assai grami della vecchiaia.
Maggior rinomanza Catone ebbe per la sua attività poetica, con le due operette, entrambe perdute, Lydia e
Dictynna, celebreata la prima da Tícida:
Lydia, loctorum maxima cura liber, la seconda da Cinna:
saecula permaneat nostri Dictynna Catonis.
Due poemetti di puro gusto alessandrino: forse una raccolta di poesie amorose il primo, sull'esempio della
Lyde di Antímaco di Colofóne (2); un poemetto mitologico il secondo, un epyllion, alla maniera callimachèa,
nel quale si narrava la leggenda della ninfa Diana, che, per sfuggire all'inseguimento di Minosse, si gettò in
mare, donde venne tratta in salvo da una ' rete' (dictynna). Cosí in Valerio Catone, dotto erudito,
grammatico, poeta, si ravvisa la figura piú completa della scuola, che egli rappresentava.
Elvio Cinna
Cenni biografici
Nacque a Brescia nel 90 a.C., ma fu presto a Roma, dove fu tra gli intimi di Catullo.
Partecipò con Catullo alla spedizione in Bitinia nel 57 a.C.; secondo altri fu in quella regione già
negli anni 66-65; e forse fu lui a portare come liberto il poeta Partenio di Nicea a Roma.
Fu in stretti rapporti d'amicizia con Catullo e con Valerio Catone.
Morì all'indomani della morte di Cesare, perché, come raccontano Svetonio e Plutarco, scambiato
dalla folla per Lucio Cornelio Cinna.
Opere
Frammenti per complessive 112 parole relativi a
Ludicra et epigrammata,
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Prompempticon Pollionis, in esametri, databile al 56. quando Pollione era in partenza per la Cilicia.
Smyrna o Zmyrna, la sua opera più conosciuta, quasi del tutto perduta.
Si tratta di un poemetto che narrava l'amore incestuoso di Mirra per il padre Cinira, rielaborato
anche da Catullo nel carme 95.
Cfr anche Ov. Met. 10, 294-502.
Poemetto composto all'insegna di una cura formale straordinaria (l'elaborazione durò circa 9 nove
anni [cf. Catull., 95]), di erudizione, dallo stile certo a tal punto difficile da richiedere, a quando
ricorda Svetonio, il commento di un grammatico.
Testi e testimonianze
Catull., c. 95
Smyrna mei Cinnae, nonam post denique messem
quam coeptast nonamque edita post hiemem,
milia cum interea quingenta Hatriensis in uno
<versiculorum anno putidus evomuit,>
Smyrna sacras Satrachi penitus mittetur ad undas,
Smyrnam cana diu saecula pervoluent:
at Volusi annales Paduam morientur ad ipsam
et laxas scombris saepe dabunt tunicas.
parva mei mihi sint cordi monumenta Philitae:
at populus tumido gaudeat Antimacho.
La Zmyrna del mio Cinna, finalmente, dopo nove mietiture, da che fu cominciata, e dopo nove
inverni uscita (mentre Ortensio cinquecentomila ne ha scritto, per cantare la guerra marsica, in un
giorno solo), la Zmyrna sarà mandata fino alle profonde gole del Sàtraco, la Zmyrna sfoglieranno a
lungo i secoli fatti canuti: sì, e gli Annali di Volusio moriranno sugli argini della Pàdua e spesso
daranno camicie abbondanti da friggervi sgombri. Restino in cuore, a me! questi piccoli monumenti
del mio Filèta: sì, e il tronfio Antìmaco, se lo goda il filisteo.
Catull., 10, 24 segg.
Hic illa, ut decuit cinaediorem,
'quaeso,' inquit mihi 'mi Catulle, paulum
istos commoda! nam volo ad Serapim
deferri.' 'mane,' inquii puellae,
'istud quod modo dixeram me habere,
fugit me ratio: meus sodalis,
Cinnast Gaius, is sibi paravit.
verum, utrum illius an mei, quid ad me?
utor tam bene quam mihi paratis.
Quella allora, daddolona qual era, «Di grazia» dice, « a me, Catullo mio, un po', codesti: bene equipaggiata,
vedi, vorrei a Seràpide farmi portare, laggiù ». a Un momento » dico alla ragazza, « codesto che ora avevo
detto d'avere: m'è uscito di mente come sta la faccenda: un amico mio, Cinna, sai, Gaio: ecco, quello se li è
fatti. Però, appartengano a lui o a me, che mi fa? li adopero tali e quali: fa' conto che me li sia fatti io. A parte
ciò, il tuo spirito è di cattiva lega e sei ben noiosa, che uno con te non si può permettere d'essere distratto ».
Indirizzato a Cinna anche Catull. 113.
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Cosa c'entra?
Prop., 2,34, 85-94
Haec quoque perfecto ludebat Iasone varro,
Varro Leucadiae maxima flamma suae;
haec quoque lascivi cantarunt scripta catulli,
Lesbia quis ipsa notior est Helena;
haec etiam docti confessast pagina calvi,
cum caneret miserae funera Quintiliae.
et modo formosa quam multa Lycoride gallus
mortuus inferna vulnera lavit aqua!
Cynthia quin vivet versu laudata properti,
hos inter si me ponere Fama volet.
Su questi temi, compiuto il poema di Giasone, poetava Varrone, Varrone, la grande fiamma della
sua Leucadia; di questi temi trattavano pure i carmi dell'ardente Catullo, per i quali Lesbia è più
nota della stessa Elena; di questi temi parlava pure la pagina del dotto Calvo, quando cantava la
morte dell'infelice Quintilia. E Gallo, da poco morto, quante ferite d'amore per la bella Lico ride ha
lavato nelle acque infernali! Ma anche Cinzia sarà celebrata per i versi di Properzio, se la Fama
vorrà pormi tra costoro.
==========================000
Gell., 19,9,7
Nam Laeuius inplicata et Hortensius inuenusta et Cinna inlepida et Memmius dura ac deinceps omnes rudia
fecerunt atque absona.'
Ov. trist., 2, 1, 435
Cinna quoque his comes est, Cinnaque procacior Anser,
et leve Cornifici parque Catonis opus,
et quorum libris modo dissimulata Perillae
nomine, nunc legitur, dicta, Metelle, tuo,
is quoque, Phasiacas Argon qui duxit in undas,
non potuit Veneris furta tacere suae.
nec minus Hortensi, nec sunt minus improba Servi
carmina. quis dubitet nomina tanta sequi?
[già citata traduzione sopra]
Mart., 10, 21
Non lectore tuis opus est, sed Apolline libris:
Iudice te maior Cinna Marone fuit.
Sic tua laudentur sane: mea carmina, Sexte,
Grammaticis placeant, ut sine grammaticis.
Suet., de gramm., 18
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L. Crassicius genere Tarentinus ordinis libertini cognomine Pasicles, mox Pansam se transnominavit. hic
initio circa scenam versatus est dum mimographos adiuvat, deinde in pergula docuit donec commentario
Zmyrnae edito adeo inclaruit ut haec de eo scriberentur
Uni Crassicio se credere Zmyrna probavit
Desinite indocti coniugio hanc petere.
Soli Crassicio se dixit nubere velle
Intima cui soli nota sua extiterint.
sed cum edoceret iam multos ac nobiles in his Iullum Antonium triumviri filium ut Verrio quoque Flacco conpararetur, dimissa repente schola, transiit ad Q. Sextii philosophi sectam.
Verg., ecl., 9,30-35. Ammirazione di Virgilio per Cinna
L. Sic tua Cyrneas fugiant examina taxos,
sic cytiso pastae distendant ubera uaccae,
incipe, si quid habes. et me fecere poetam
Pierides, sunt et mihi carmina, me quoque dicunt
uatem pastores; sed non ego credulus illis.
nam neque adhuc Vario uideor nec dicere Cinna
digna, sed argutos inter strepere anser olores.
Suet., Iul., 85
Plebs statim a funere ad domum Bruti et Cassi[i] cum facibus tetendit atque aegre repulsa obuium sibi
Heluium Cinnam per errorem nominis, quasi Cornelius is esset, quem grauiter pridie contionatum de
Caesare requirebat, occidit caputque eius praefixum hastae circumtulit. postea solidam colum-nam prope
uiginti pedum lapidis Numidici in foro statuit <in>scripsitque parenti patriae.
Val. Max. 9, 9, 1
C. Heluius Cinna tribunus pl. ex funere C. Caesaris domum suam petens populi manibus discerptus est pro
Cornelio Cinna, in quem saeuire se existimabat iratus ei, quod, cum adfinis esset Caesaris, aduersus eum
nefarie raptum impiam pro rostris orationem habuisset, eoque errore propulsus est, ut caput Helui perinde
atque Corneli circa rogum Caesaris fixum iaculo ferret, officii sui, alieni erroris piaculum miserabile!
Traduzione Valerio Massimo
Quint., inst. 10,4,4
Nam quod Cinnae Zmyrnam nouem annis accepimus scriptam, et panegyricum Isocratis qui parcissime
decem annis dicunt elaboratum, ad oratorem nihil pertinet, cuius nullum erit si tam tardum fuerit auxilium.
4. Dunque ci sia ogni tanto qualcosa che piace o che sia almeno sufficiente, di modo che la lima
renda il lavoro levigato, non logoro. Anche per quanto concerne il tempo deve esserci un limite. La
Zmyrna fu scritta da Cinna a quanto abbiamo appreso, in nove anni, e si dice che il Panegirico di
Isocrate sia stato elaborato per non meno di dieci anni: ma questo non riguarda affatto l'oratore, il
cui aiuto sarà nullo, se giungerà così tardi.
Plutarc., Brut., 20,8
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Vi era un. certo Cinna, poeta, il quale non aveva preso alcuna parte a quella uccisione ed anzi era stato
amico di Cesare. A costui era parso in sogno di essere stato invitato a cena da Cesare e, non volendo
accettare, di essere stato pregato e preso a forza; poi, tenuto per mano dallo stesso Cesare, gli era ancora
parso di essere condotto in un luogo strano e buio, dove lo aveva seguito di malavoglia e senza resistergli. A
causa di quel sogno era stato agitato tutta la notte, e la mattina si era vergognato di non prendere parte ai
funerali di Cesare. Mentre ne portavano fuori la salma, si inoltrò tra il popolo accalcato e inferocito e, quando
fu visto apparire e chiamato per nome da qualcuno, creduto non quel Cinna che veramente era, ma l'altro,
che poco prima aveva lanciato accuse contro Cesare, venne fatto a brani dal popolo stesso.
Frammenti PHI
PROPEMPTICON POLLIONIS
Nec tam donorum ingenteis mirabere acervos
innumerabilibus congestos undique saeclis,
iam inde a Belidis natalique urbis ab anno
Cecropis atque alta Tyriorum ab origine Cadmi,
lucida cum fulgent summi carchesia mali
atque anquina regat stabilem fortissima cursum.
atque imitata nives lucens legitur crystallus
ZMYRNA
Te matutinus flentem conspexit Eous
Te matutinus flentem conspexit Eous
et flentem paulo vidit post Hesperus idem.
At scelus incesto Smyrnae crescebat in alvo.
tabis
LUDICRA ET EPIGRAMMATA
At nunc me Genumana per salicta
bigis raeda rapit citata nanis.
somniculosam ut Poenus aspidem Psyllus
Haec tibi Arateis multum invigilata lucernis
levis in aridulo malvae descripta libello
Prusiaca vexi munera navicula.
miseras audet galeare puellas
Alpinaque cummis
Saecula permaneat nostri Dictynna Catonis.
Osservazioni
Spiegare giudizio di Gellio "inlepida".
L'intento era quello di emulare Euforione di Calcide.
Bibliografia
ed. W.Morel, Fragmenta poetarum latinorum epicorum et lyricorum praeter Ennium et Lucilium,
Leipzig, Teubner, 1927.
FPL Blansdorf 1995, pp.216-223.
Testo con traduzione in Il libro di Catullo e i frammenti dei poeti nuovi, G.B. Pighi, Torino, Utet,
1974, rist. 1986, pp. 424-31.
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PHI
T.P. Wiseman, Cinna the Poet and other Roman Essays, Leicester 1974.
"Cinna¸ Gaio Elvio - Treccani",
Cinna Gaio Elvio. Fu uno dei neoteroi, poeti lirici fioriti a Roma nel I sec. a.C. Come Catullo, di cui era amico,
pare che fosse originario della Gallia Cisalpina. Dei suoi scritti è andato perduto tutto. Sant'Isidoro ci ha
tramandato un epigramma in due distici. Scrisse per Asinio Pollione un Propempticon, componimento di
carattere geografico, e un epillio, Smyrna, poemetto mitologico, che trattava dell'amore incestuoso di Smirna
per il padre Cinira. Finì tragicamente all'indomani della morte di Cesare: fu infatti ucciso per errore dalla
plebe che lo scambiò per Lucio Cornelio Cinna. Shakespeare ne fece uno dei suoi minori personaggi
tragicomici nel Giulio Cesare
Cinna, Gaio Elvio - Riposati
C a i o E l v i o C i n n a fu, insieme con Licinio Calvo, una delle piú chiare figure del cenacolo neotèrico.
Nativo di Brescia (ricorda due volte con nostalgia i "salicéti cenòmani"), fu quasi sempre a Roma, dove affinò
i suoi gusti artistici, che si indovinano dai pochi frammenti rimasti, e dalla stima che ebbe tra i
contemporanei. fra cui Gtullo. Prendendo parte alla spedizione di Pompeo in Bitínia, conobbe Partènio di
Nicèa, il raffinato autore delle Avsenture d'amore e, condottolo con sé a Roma, rimase con lui in comunanza
di vita e di ideali artistici. La familiarità con Partènio contribuí non poco agli indirizzi poetici di Cinna.
Scrisse un Propernpttcon Pollionis. un carme augurale per Asinio Pollione in procinto di partire per la Grecia
e l'Asia nel 56 a. C.: ne rimangono sette versi soltanto. Scrisse anche epigrammi, epílli mitologici ed elegie,
tutto secondo la tecnica ellenistica della scuola neotèrica. II suo nome però rimane legato al poemetto
mitologico Zmyrna - anch'esso perduto-, che narrava la trista leggenda degli amori incestuosi di Smirna (o
Mirra) col padre Cínira, re di Cipro. Vi attese assiduamente per nove anni e il suo apparire fu salutato con
entusiasmo ammirativo da Catullo nel celebre carme 95. Era, in verità, un componimento astruso e diíficile
nell'impostazione del tèma e nella tecnica raffinata della composizione, tanto che richiese l'intervento
esegetico del grammatico Crassicio; ma, appunto per questo, esso fu ritenuto come il cànone letterario della
nuova scuola, che amava, da un lato, la scelta di argomenti brevi, la meditazione il lavoro di lima, la
ricercatezza espressiva, e spregiava, dall'altro la facile improvvisazione dei cantores di interminabili poemi,
contagiati dal cattivo gusto di Antímaco di Colofóne.
Furio Bibaculo
Cenni biografici
Originario di Cremona, nacque ca. intorno all'80 a.C. (ma Girolamo propone una data anteriore di
circa una ventina d'anni, nel 103).
Tacito e altri ricordano le sue antipatie nei confronti di Cesare e sottolineano l’atteggiamento
magnanimo di Cesare stesso.
Fu sicuramente amico di Valerio Catone e molti Furi compaiono nei carmina di Catullo: forse tra
qualcuno di questi ci potrebbe essere il nostro. Un poeta con questo nome è associato da
Quintiliano a quello di Catullo e di Orazio per l’uso del giambo.
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Data di morte post 24 a.c.
Opere
Restano due epigrammi affettuosi ma ironici su Valerio Catone e un frammento meno affettuoso su
Orbilio, che fu il plagosus maestro di Orazio.
Compose anche un poema epico-storico, il cui titolo forse era Pragmatia (o Annales) Belli Gallici,
in almeno undici libri, di cui possediamo solo pochi versi. Probabile che la scelta dell’argomento sia
dovuto a opportunismo politico, visto i trascorsi anticesariani.
Non è da escludere anche la composizione di un altro poema, forse un' Etiopide.
Un'altra opera in prosa poteva essere raccolta di osservazioni erudite, con titolo Lucubrationes
(Veglie).
I frammenti, per complessive 176 parole, sono relativi a Epigrammata e Annales Belli Gallici.
Testi e testimonianze
Hieron., chr., ol.170
Marcus Furius poeta, cognomento Bibaculus Cremonae nascitur.
Diom. (lo cita tra i poeti satirici)
Quint., inst., 10, 1, 96
Iambus non sane a Romanis celebratus est ut proprium opus, quibusdam interpositus: cuius acerbitas in
Catullo, Bibaculo, Horatio quamquam illi epodos interuenit reperiatur. At lyricorum idem Horatius fere solus
legi dignus: nam et insurgit aliquando et plenus est iucunditatis et gratiae et uarius figuris et uerbis
felicissime audax.
Il giambo non è stato coltivato dai Romani come forma di poesia indigena, (ma) è stato inserito in
certi altri contesti poetici: la sua mordace asprezza si può trovare in Catullo, in Bibaculo, in Orazio,
pur se da quest'ultimo viene interposto l'epodo. Dei lirici, invece, forse il solo Orazio è degno di
esser letto: perché talora si innalza nel tono ed è pieno di giocondità ed eleganza e vario nelle
figure e felice novatore di termini.
Traduzione di R. Faranda, Torino, Utet, 1968
Suet., gramm. 4, 2
Cornelius quoque Nepos libello quo distinguit litteratum ab erudito, litteratos vulgo quidem appellari ait eos
qui aliquid diligenter et acute scienterque possint aut dicere aut scribere, ceterum proprie sic appellandos
poetarum interpretes, qui a Graecis grammatici nominentur. eosdem litteratores vocitatos Messalla Corvinus
in quadam epistula ostendit, non esse sibi dicens rem cum Furio Bibaculo, ne cum Ticida quidem aut
litteratore Catone: significat enim haud dubie Valerium Catonem poetam simul grammaticumque notissimum.
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Tac., ann., 4,34. Cremuzio Cordo ricorda la sfrontatezza nei confronti dei Cesari di altri
predecessori
Marci Ciceronis libro quo Catonem caelo aequavit, quid aliud dictator Caesar quam rescripta oratione velut
apud iudices respondit? Antonii epistulae Bruti contiones falsa quidem in Augustum probra set multa cum
acerbitate habent; carmina Bibaculi et Catulli referta contumeliis Caesarum leguntur: sed ipse divus Iulius,
ipse divus Augustus et tulere ista et reliquere, haud facile dixerim, moderatione magis an sapientia. namque
spreta exolescunt: si irascare, adgnita videntur.
Plin., nat., pr. Per supportare esistenza libro Elucubrationes.
Inscriptionis apud Graecos mira felicitas: khr…on inscripsere, quod volebant intellegi favum, alii kšraj
'Amalqe…as, quod copiae cornu, ut vel lactis gallinacei sperare possis in volumine haustum; iam ‡a,
Moàsai, pandšktai, ™gceir…dia, leimèn, p…nax, sced…wn: inscriptiones, propter quas vadimonium deseri
possit; at cum intraveris, di deaeque, quam nihil in medio invenies! nostri gr<av>iores Antiquitatium,
Exemplorum Artiumque, facetissimi Lucubration<u>m, puto quia <B>ibaculus erat et vocabatur. paulo minus
asserit Varro in satiris suis S<e>s<c>uli<xe> et Flex<t>abula. apud Graecos desiit nugari Diodorus et
biblioq»khs historiam suam inscripsit.
Framm. 1 Morel su Valerio Catone (CDLL d'Anna)
Testo PHI
Fr.5
Si quis forte mei domum Catonis,
depictas minio assulas et illos
custodes videt hortuli Priapos,
miratur, quibus ille disciplinis
tantam sit sapientiam assecutus,
quem tres cauliculi, selibra farris,
racemi duo tegula sub una
ad summam prope nutriant senectam.
Fr.6
Catonis modo, Galle, Tusculanum
tota creditor urbe venditabat.
Mirati sumus unicum magistrum,
summum grammaticum, optimum poetam
omnes solvere posse quaestiones,
unum deficere expedire nomen.
En cor Zenodoti, en iecur Cratetis!
Fr. 7
Cato grammaticus, Latina Siren,
qui solus legit ac facit poetas
5. Se càpita a uno di vedere la casa del mio caro Catone, le schiappe scarabocchiate di
cinabro e quelle aiole che fanno la guardia al loro Priàpo, quello si domanda meravigliato,
con quali profondi studi abbia conseguito una così grande saggezza colui che tre cavolucci,
una mezza libra di farro, due grappoli sotto una tegola sola tengono in vita fin quasi all'ultima
vecchiaia.
6. Or ora, Gallo, la villa tusculana di Catone, il creditore la offriva in vendita per tutta la città.
Abbiamo trovato tutti molto strano, che questo maestro unico, grande critico, poeta
eccellente, possa risolvere ogni sorta di quesiti e fallisca nel sistemare una firma. O cervello
di Zenòdoto, o temperamento di Cratète!
7. Catone il critico, latina Sirena, che meglio d'ogni altro sceg lie e forma i poeti
Trad. G.B. Pighi, Torino, Utet, p. 443
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ANNALES BELLI GALLICI
Liber I
Interea oceani linquens Aurora cubile
Ille gravi subito devictus volnere habenas
misit equi lapsusque in humum defluxit et armis
reddidit aeratis sonitum.
mitemque rigat per pectora somnum
Liber IV
Pressatur pede pes, mucro mucrone, viro vir.
Liber VI
Quod genus hoc hominum, Saturno sancte create?
Liber X
rumoresque serunt varios et multa requirunt.
Liber XI
Nomine quemque ciet: dictorum tempus adesse
commemorat
Confirmat dictis simul atque exsuscitat acris
ad bellandum animos reficitque ad proelia mentes.
Hor., serm., 1,10,31 segg. Parodia oraziana per Annales Belli Gallici?
Atque ego cum graecos facerem, natus mare citra,
versiculos, vetuit me tali voce Quirinus
post mediam noctem visus, cum somnia vera:
'in silvam non ligna feras insanius ac si
magnas Graecorum malis inplere catervas.'
turgidus Alpinus iugulat dum Memnona dumque
diffingit Rheni luteum caput, haec ego ludo,
quae neque in aede sonent certantia iudice Tarpa
nec redeant iterum atque iterum spectanda theatris.
Hor., 2,5,34 segg. Parodia? come sopra (ps-Acrone e Porfirione dicono di sì)
Ius anceps novi, causas defendere possum;
eripiet quivis oculos citius mihi quam te
contemptum cassa nuce pauperet; haec mea cura est,
nequid tu perdas neu sis iocus." ire domum atque
pelliculam curare iube; fi cognitor ipse,
persta atque obdura: seu rubra Canicula findet
infantis statuas, seu pingui tentus omaso
Furius hibernas cana nive conspuet Alpis.
"nonne vides" aliquis cubito stantem prope tangens
inquiet, "ut patiens, ut amicis aptus, ut acer?"
plures adnabunt thynni et cetaria crescent.
sicui praeterea validus male filius in re
praeclara sublatus aletur, ne manifestum
caelibis obsequium nudet te, leniter in spem
adrepe officiosus, ut et scribare secundus
heres et, siquis casus puerum egerit Orco,
in vacuom venias: perraro haec alea fallit.
Per Bettini, 2, 17-18 la questione se l'autore epico e l'autore di poesia leggera siano gli stessi è
irrilevante ma molti studiosi preferiscono mantenere distinti i due.
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Bibliografia
F. Skutsch, RE VII, 1910, 320-22
Edizioni
W. Morel, Fragmenta poetarum latinorum epicorum et lyricorum praeter Ennium et Lucilium,
Leipzig, Teubner, 1927.
FPL Blansdorf 1995, pp. 197-204. Tiene distinti Furio Bibaculo e un Furio di epoca cesariana cui
attribuisce i Pragmata Belli Gallici.
Testo con traduzione in Il libro di Catullo e i frammenti dei poeti nuovi, G.B. Pighi, Torino, Utet,
1974, rist. 1986, pp. 442-43.
Studi
R. Scarcia, Latina Siren. Saggi di critica semantica, Roma 19642, pp. 13-47.
Conte, LettLat 124, Bettini, 2 17
"Bibaculo¸ Marco Furio - Treccani"
Bibaculo Marco Furio. Poeta latino del gruppo dei neoteroi. Secondo una notizia di San Girolamo, nacque a
Cremona nel 103 a.C. E' ancora incerta la questione del carattere delle sue opere, da cui sembrerebbe venir
fuori la figura di un altro autore, un certo Furio Alpino che fu confuso con B. Scrisse Lucubrationum libri, il cui
contenuto, oltre che il titolo, dovette essere conforme al gusto della scuola. Gli si attribuiscono epigrammi
satirici contro Ottaviano, gli Annales belli Gallici nei quali riecheggiava lo stile di Ennio e l'Etiopide di gusto
ellenistico. Orazio lo giudicò negativamente in merito allo stile e Tacito e Quintiliano ne ricordarono l'acidità
oltraggiosa degli epigrammi.
Bibaculo - Riposati
F u r i o B i b à c u l o (3), traspadano, forse di Cremona, e nato nel 103 a. C., acquista luce e risalto dalla
stessa figura di Catone, di cui fu ammiratore ed amico. Ebbe lunga vita; ampia cultura e varietà di interessi
letterari lo portarono a fondere le tendenze neotèriche con gli indirizzi tradizionali. Spirito arguto e
motteggiatore, si distinse subito per certe sue composizioni epigrarnmatiche aggressive e violente contro
Gsare, Ottaviano, il grammatico Orbilio (deriso anche da Orazio) ed altri. Qui rientrano anche i due
epigrammi in endecasillabi falèci, pervenutici attraverso Svetonio, nei quali descrive la misera vita di Catone;
spiriti, questi, della poesia neotèrica, che lo avvicinano a Catullo.
Bibàculo sta invece nel solco della tradizione erudita, non tanto con i Lucubrationum libri, ' Le veglie ',
un'operetta in prosa di curiosità e facezie di vario genere, con tendenza tutta ellenistica all'amore del
particolare, quanto con il poemetto epico-mitologico Etiòpile, di contenuto anch'esso squisitamente
ellenistico, e con il poema storico epicheggiante sulla guerra gallica, Annales belli Gallici (o Pragmatla belli
Gallici), che per la sua pomposa gonfiezza meritò al poeta l'appellativo di turgxdus da parte di Orazio; qui
appunto si legge l'immagine barocca di " Giove che sputa neve bianca sulle Alpi invernali"(l).
Ticida
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133
Cenni biografici
Forse da identificare con Lucio Ticida, catturato a Tapso dai Pompeiani e giustiziato.
Fu maestro di scuola al pari di P. Valerio Catone e F. Bibaculo.
Opere
Scrisse poesie d'amore per la sua donna Metella, cantata con lo pseudonimo di Perilla.
Totale 10 parole ascrivibili a un epigramma e a un Hymenaeus.
Suo il verso a proposito della Lydia di Valerio Catone "Lydia doctum maxima cura liber"
Testi e testimonianze
Ov., trist., 2,1, 433
Quid referam Ticidae, quid Memmi carmen, apud quos
rebus adest nomen nominibusque pudor?
Perchè ricordare i carmi di Ticida e di Memmio, nei quali ogni cosa è detta con il proprio nome e
ogni nome fa arrossire?
Suet., gramm. 4
Eosdem litteratores vocitatos Messalla Corvinus in quadam epistula ostendit, non esse sibi dicens rem cum
Furio Bibaculo, ne cum Ticida quidem aut litteratore Catone: significat enim haud dubie Valerium Catonem
poetam simul grammaticumque notissimum.
PHI
HYMENAEUS
Felix lectule talibus
sole amoribus
EPIGRAMMATA
Lydia doctorum maxima cura liber
Bibliografia
Edizioni
W. Morel, Fragmenta poetarum latinorum epicorum et lyricorum praeter Ennium et Lucilium,
Leipzig, Teubner, 1927.
Testo con traduzione in Il libro di Catullo e i frammenti dei poeti nuovi, G.B. Pighi, Torino, Utet,
1974, rist. 1986, pp. 436-37.
Studi
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134
N. Scivoletto, Poesia latina in frammenti, pp. 201-11.
Varrone Atacino
Cenni biografici
Chiamato così perché oriundo di Atax, un borgo sull'Aude della Gallia Narbonese, nacque intorno
al 82 a.C.
Partecipò (?) a guerre di Cesare in Gallia e ne cantò un Bellum Sequanicum, non molto dopo il 53.
Morì il 36 a.C.
Opere
Ci restano circa una ventina di frammenti poetici per un totale di 264 parole relativi a:
Bellum Sequanum: era almeno in due libri. Dveva inserirsi sulla traccia della tradizione enniniana e
descrivere una delle spedizioni in Gallia di Cesare.
Argonautae, un poeta di derivazione greca, rifacimento più che traduzione delle Argonautiche di
Apollonio Rodio (ricordato da Ov. ars. e Prop., 2,38,
Chorographia (o Cosmographia): Descrizione della terra.
Epimerìs: venivano riproposti i Phainomena di Arto di Soli, probabilmente limitando la
rielaborazione della seconda parte come ne aveva fatto già Cicerone: ne restano due frammenti.
forse a quest'operal'allusione di Quint. che lega a quest'opera la fama di Varrone)
Secondo Riposati parla dei segni premonitori delle pioggie e viene echeggiata in Virgilio.
Tracce di una sua produzione sfortunata nel genere satirico è data da Orazio (serm.1,10).
Liriche erotiche per una Leucadia (o intitolate Leucadia) ci ricorda Properzio, successive Al Bellum
Sequaniqum.
Testi e testimonianze
Hier., chron., ol. 173-74
P. Terentius Varro, [h [0528C] Iterum Schurzfleischius: Vero, inquit, similiorem putat Scaliger Horatiani
interpretis veteris sententiam, qui Varronem ab Atace, flumine Narbonensi, dictum voluit. Meminit sane ejus
fluminis Strabo lib. IV aliquoties. Attamen a fluminibus gentilia derivare Latini non solent.] vico Atace, in
provincia Narbonensi nascitur, qui postea 35 annum agens, Graecas litteras cum summo studio didicit.
Prop., 2,34, 85-94
Haec quoque perfecto ludebat Iasone varro,
Varro Leucadiae maxima flamma suae;
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haec quoque lascivi cantarunt scripta catulli,
Lesbia quis ipsa notior est Helena;
haec etiam docti confessast pagina calvi,
cum caneret miserae funera Quintiliae.
et modo formosa quam multa Lycoride gallus
mortuus inferna vulnera lavit aqua!
Cynthia quin vivet versu laudata properti,
hos inter si me ponere Fama volet.
Su questi temi, compiuto il poema di Giasone, poetava Varrone, Varrone, la grande fiamma della
sua Leucadia; di questi temi trattavano pure i carmi dell'ardente Catullo, per i quali Lesbia è più
nota della stessa Elena; di questi temi parlava pure la pagina del dotto Calvo, quando cantava la
morte dell'infelice Quintilia. E Gallo, da poco morto, quante ferite d'amore per la bella Licoride ha
lavato nelle acque infernali! Ma anche Cinzia sarà celebrata per i versi di Properzio, se la Fama
vorrà pormi tra costoro.
Ov., ars, 3, 329-348
Sit tibi Callimachi, sit Coi nota poetae,
Sit quoque vinosi Teia Musa senis;
Nota sit et Sappho quid enim lascivius illa?,
Cuive pater vafri luditur arte Getae.
Et teneri possis carmen legisse Properti,
Sive aliquid Galli, sive, Tibulle, tuum:
Dictaque Varroni fulvis insignia villis
Vellera, germanae, Phrixe, querenda tuae:
Et profugum Aenean, altae primordia Romae,
Quo nullum Latio clarius extat opus.
Forsitan et nostrum nomen miscebitur istis,
Nec mea Lethaeis scripta dabuntur aquis:
Atque aliquis dicet 'nostri lege culta magistri
Carmina, quis partes instruit ille duas:
Deve tribus libris, titulus quos signat Amorum,
Elige, quod docili molliter ore legas:
Vel tibi composita cantetur Epistola voce:
Ignotum hoc aliis ille novavit opus.'
O ita, Phoebe, velis! ita vos, pia numina vatum,
Insignis cornu Bacche, novemque deae!
Ti sia nota la poesia di Callimaco, del poeta di Coo, anche quella del vecchio di Teo, amante del
vino. Ti sia nota anche Saffo (che cosa c'è di più lascivo di lei?) e quell'autore per cui i padri
vengono raggirati dagli inganni dell'astuto Geta; puoi leggere inoltre le poesie del delicato
Properzio, o qualcosa di Gallo o le tue, Tibullo, e la pelle dell'ariete, famosa per la lana d'oro,
cantata da Varrone Atacino, pelle di cui dovette lagnarsi tua sorella, o Frisso; o il viaggio del
fuggiasco Enea, origine della nobile Roma, di cui non esiste opera più famosa nel Lazio; forse
anche il mio nome sarà unito a costoro, i miei scritti non saranno consegnati alle acque del Lete e
qualcuno dirà: "Leggi i versi raffinati del nostro maestro, coi quali egli istruisce i due sessi; o dai tre
libri, che egli designa col titolo di "AMORI", scegli una poesia da leggere con voce teneramente
arrendevole, oppure sia declamata da te con voce adatta una "LETTERA": egli ha creato questo
tipo di opera sconosciuto agli altri". Che tu voglia così, o Febo, così vogliate voi, divinità protettrici
dei vati, tu, Bacco, potente per le corna, e voi, nove Muse!
Traduzione di A. Della Casa, Opere, Torino, Utet, 1982
Quint., inst., 10,1,87
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Nam Macer et Lucretius legendi quidem, sed non ut phrasin, id est corpus eloquentiae, faciant, elegantes in
sua quisque materia, sed alter humilis, alter difficilis. Atacinus Varro in iis per quae nomen est adsecutus
interpres operis alieni, non spernendus quidem, uerum ad augendam facultatem dicendi parum locuples.
Macro e Lucrezio sono senz'altro da leggere, ma non per formare lo stile, cioè il corpo
dell'eloquenza; ciascuno dei due è elegante nella sua materia, ma l'uno è basso, l'altro difficile.
Varrone Atacino che conseguì la fama traducendo l'opera di un altro, non è da disdgnare, ma è
poco dotato di mezzi per ampliare la capacità d'espressione.
Hor., sat., 1,10,46 segg.
hoc erat, experto frustra Varrone Atacino
atque quibusdam aliis, melius quod scribere possem,
inventore minor; neque ego illi detrahere ausim
haerentem capiti cum multa laude coronam.
at dixi fluere hunc lutulentum, saepe ferentem
plura quidem tollenda relinquendis. age quaeso,
Ov., trist., 2,439
Is quoque … tacere suae.
Porph., Hor., sat 1,10,46
Terentius Varro Narbonensis
Bibliografia
W. Morel, Fragmenta poetarum latinorum epicorum et lyricorum praeter Ennium et Lucilium,
Leipzig, Teubner, 1927.
FPL Blansdorf 1995, pp. 226-240
Per la poesia epica in età repubblicana v.
I.Biondi, Graece et Latine, Testi in parallelo, 1, La poesia epica maggiore, Roma, SpazioTre, 2001,
pp. 535-37 [BCTV]
PHI #5
"Varrone¸ Publio Terenzio Atacino - Treccani",
Varrone Publio Terenzio, detto Atacino. Poeta latino nativo di Atax, nella Gallia Narbonense. Scrisse un
poema, il Bellum Sequanicum, nel quale celebrò le gesta di Cesare nella guerra contro i Sequani, ridusse in
latino le Argonautiche di Apollonio Rodio e compose un poemetto geografico intitolato Chorographia. Fu
inoltre autore di molte elegie, nelle quali cantò l'amore per una Leucadia, non meglio identificata. Se ne
conservano pochi frammenti, da cui si ricava un giudizio positivo.
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Riposati
Gli epigoni. - Tra gli epígoni della scuola neotèrica va ricordato con lode M Terenzio Varrone Atacíno (8236), nato ad Atace, nella Gllia Narbonese. Versàtile verseggiatore, esordí sulla scía della vecchia scuola
enniana con un poema storico, il Bellum Sequdntcum, intorno alla campagna di Cesare del 58. Poi, pur
rimanendo in fondo sempre un tradizionalista, accolse i cànoni della nuova scuola alessandrinegwiante e
compose dapprima una raccolta di elegie amorose, dedicate a una tal Leucàlia, poi un libro di Satdrae, che
lo ricollegano a Lucilio. Resosi per fettamente padrone del greco, che dianzi non conosceva a sufficienza
tradusse o imitò liberamente il poema epico di Apollonio Rodio, le Argonàutiche: fu il suo impegno maggiore.
Compose anche una Chorographla, poema geografico-astronomico, e un'Ephemeris, contenente la
descrizione poetica dei segni premonitori della pioggia, essa piacque a Virgilio, che la riecheggiò nel I libro
delle Ceorgiche (v. 375 sgg.).
Anser
Cenni biografici
Nulla si sa.
Opere
Elaborò in poesia lodi di Marco Antonio.
Criticò la poesia di Virgilio.
Nulla ci resta.
Testi e testimonianze
Ov., trist., 2,1,435
Cinna quoque his comes est, Cinnaque procacior Anser,
et leve Cornifici parque Catonis opus,
et quorum libris modo dissimulata Perillae
nomine, nunc legitur, dicta, Metelle, tuo,
is quoque, Phasiacas Argon qui duxit in undas,
non potuit Veneris furta tacere suae.
[già citata traduzione sopra]
Bibliografia
Bettini 2,21, niente Conte
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Quinto Cornificio
Cenni biografici
Nacque intorno all'80 a.C.. Questore nel 48, morto nel 41.
Figlio del Cornificio cui si attribuisce la Rhetorica ad Herennium.
Di atteggiamento politico filosenatorio.
Alcune lettere di Cicerone a lui indirizzate sono raccolte in ad famil., XII,17-30.
Opere
I frammenti (complessivamente 14 parole) trasmessi da Macrobio e Servio sono relativi a un
Glaucus epyllion, poemetto in esametri
Ludicra
Testi e testimonianze
Ov. ,Trist., 2,433 segg.
quid referam Ticidae, quid Memmi carmen, apud quos
rebus adest nomen nominibusque pudor?
Cinna quoque his comes est, Cinnaque procacior Anser,
et leve Cornifici parque Catonis opus,
et quorum libris modo dissimulata Perillae
nomine, nunc legitur, dicta, Metelle, tuo,
is quoque, Phasiacas Argon qui duxit in undas,
non potuit Veneris furta tacere suae.
Hier., chron., ol. 184
Cornificius [h [0542B] Idem ille videtur, cui mandatum a senatu bellum [0543A] est contra Bassum,
tributaque paulo antea, sive an. Urbis 709, provincia Syria. Plures ad eum exstant Ciceronis Epistolae lib.
XII, quas videsis.] poeta a militibus desertus interiit, quos saepe fugientes galeatos lepores appellat. Hujus
soror Cornificia, cujus insignia exstant epigrammata.
LUDICRA
deducta mihi voce garrienti
GLAUCUS EPYLLION
centauros foedare bimembres
INCERTAE SEDIS
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ut folia, quae frugibus arboreis tegmina gignuntur.
Bibliografia
W.Morel, Fragmenta poetarum latinorum epicorum et lyricorum praeter Ennium et Lucilium,
Leipzig, Teubner, 1927.
FPL Blansdorf 1995, p. 224.
Testo con traduzione in Il libro di Catullo e i frammenti dei poeti nuovi, G.B. Pighi, Torino, Utet,
1974, rist. 1986, pp. 432-33.
PHI
E.Castorina, Licinio Calvo, Catania 1946.????
Licinio Macro Calvo
Cenni biografici
Era figlio dell'annalista Gaio Licinio Macro. Nacque nell'82 (o nell’84?) e scomparve
prematuramente nel 47 a.C.. (Blansdorf parla di morte post 54).
Si affermò come oratore forense, particolarmente apprezzato per il suo vigore e sostenitore di una
tendenza antiatticista che non poteva non farlo entrare in polemica con Cicerone.
Tra i due vi fu anche un carteggio peraltro non pervenutoci.
Opere
Le orazioni vennero raccolti in venti libri tra il 56 e il 54. Ce ne restano resti relativi alle orazioni Pro
Messio e In P. Vatinium orationes tres.
Frammenti per complessive 104 parole relativi alle due orazioni in H. Malcovati, Oratorum
Romanorum Fragmenta Liberae Rei Publicae, Torino, 19764, p. 492.
Scrisse anche poesie disimpegnate, epitalami e poesie più dotte.
Di particolare rilievo i distici elegiaci in onore di Quintilia, nome reale di una donna amata,
probabilmente secondo legame legittimo.
Frammenti poetici per 115 parole relativi a Epigrammata, Epithalamia, Io e Ludicra in W. Morel,
Fragmenta poetarum latinorum epicorum et lyricorum praeter Ennium et Lucilium, Leipzig,
Teubner, 1927.
FPL Blansdorf 1995, pp. 206-216.
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Testi e testimonianze
Cic., Brutus, 283-284
Sed ad Calvum–is enim nobis erat propositus– revertamur; qui orator fuit cum litteris eruditior quam Curio
tum etiam accuratius quoddam dicendi et exquisitius adferebat genus; quod quamquam scienter
eleganterque tractabat, nimium tamen inquirens in se atque ipse sese observans metuensque, ne vitiosum
conligeret, etiam verum sanguinem deperdebat. itaque eius oratio nimia religione attenuata doctis et attente
audientibus erat inlustris, <a> multitudine autem et a foro, cui nata eloquentia est, devorabatur.
Tum Brutus: Atticum se, inquit, Calvus noster dici oratorem volebat: inde erat ista exilitas quam ille de
industria consequebatur.
Ma torniamo a Calvo, del quale mi ero proposto di parlare. Oltre ad essere un oratore più colto di
Curione, possedeva un'oratoria più forbita ed elegante: però, pur possedendo cultura e pienezza di
stile, siccome era troppo cauto e guardingo e temeva di accumulare sangue cattivo, perdeva
anche il sangue buono. Perciò i suoi discorsi impoveriti dai suoi eccessivi scrupoli, erano
apprezzati dagli ascoltatori colti ed attenti, ma non erano gustati dalla folla del foro, per la quale è
fatta l'eloquenza. Allora Bruto disse: "Il nostro Calvo voleva essere considerato un oratore atticista:
ecco la ragione della sua magrezza, che egli ricercava a bello studio."
Tr. G. Norcio
Cic., fam. 14,21,4
Nunc ad epistulam venio; cui copiose et suaviter scriptae nihil est quod multa respondeam. primum enim
ego illas Calvo litteras misi non plus quam has quas nunc legis existimans exituras; aliter enim scribimus
quod eos solos quibus mittimus, aliter quod multos lecturos putamus. deinde ingenium eius maioribus extuli
laudibus quam tu id vere potuisse fieri putas primum quod ita iudicabam. acute movebatur, genus quoddam
sequebatur in quo iudicio lapsus, quo valebat, tamen adsequebatur quod probarat; multae erant et
reconditae litterae. vis non erat; ad eam igitur adhortabar. in excitando autem et in acuendo plurimum valet si
laudes eum quem cohortere. habes de Calvo iudicium et consilium meum; consilium, quod hortandi causa
laudavi, iudicium, quod de ingenio eius valde existimavi bene.
Tac., dial., 18,5
Legistis utique et Calvi et Bruti ad Ciceronem missas epistulas, ex quibus facile est deprehendere Calvum
quidem Ciceroni visum exsanguem et aridum, Brutum autem otiosum atque diiunctum; rursusque Ciceronem
a Calvo quidem male audisse tamquam solutum et enervem, a Bruto autem, ut ipsius verbis utar, tamquam
"fractum atque elumbem."
Avete letto, in ogni caso, le lettere inviate da Calvo e Bruto a Cicerone, dalle quali è facile capire
come Calvo sia parso a Cicerone esangue e scarno, e Bruto invece prolisso e sconnesso, e come
Cicerone per converso sia stato criticato da Calvo perché diluito e senza nerbo, e da Bruto - per
usare le sue parole - perché "disarticolato e slombato".
Trad. di M. Stefanoni, Milano, Garzanti, 1991, 20004.
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F. D'ALESSI - Letteratura latina - Parte II,1 - Il periodo classico
141
Tac., dial., 21,1
Ipse mihi Calvus, cum unum et viginti, ut puto, libros reliquerit, vix in una et altera oratiuncula satis facit. nec
dissentire ceteros ab hoc meo iudicio video: quotus enim quisque Calvi in Asitium aut in Drusum legit? at
hercule in omnium studiosorum manibus versantur accusationes quae in Vatinium inscribuntur, ac praecipue
secunda ex his oratio; est enim verbis ornata et sententiis, auribus iudicum accommodata, ut scias ipsum
quoque Calvum in tellexisse quid melius esset, nec voluntatem ei, quo <minus> sublimius et cultius diceret,
sed ingenium ac vires defuisse. quid? ex Caelianis orationibus nempe eae placent, sive universae sive
partes earum, in quibus nitorem et altitudinem horum temporum adgnoscimus. sordes autem illae verborum
et hians compositio et inconditi sensus redolent antiquitatem; nec quemquam adeo antiquarium puto, ut
Caelium ex ea parte laudet qua antiquus est.
Lo stesso Calvo, che pure ha lasciato, se non sbaglio, ben ventun libri, mi soddisfa a malapena in
uno o due dei suoi discorsetti. E vedo che gli altri non dissentono dalla mia valutazione: quanti
sono, infatti, quelli che leggono i discorsi di Calvo contro Asicio o contro Druso? Invece i discorsi di
accusa Contro Vatinio, e particolarmente il secondo, vanno per le mani di tutte le persone che
studiano: perché è splendido nella forma e ricco di idee, oltre che rispondente al gusto dei giudici,
sicché ci si può rendere conto che lo stesso Calvo sapeva cosa fosse il meglio e che, se non parlò
in modo più elevato ed elegante, non fu perché non lo volesse, ma per mancanza di talento e di
forza. E Celio? Non c'è dubbio che dei suoi discorsi piacciono, per intero o in parte, quelli in cui
riconosciamo i modi raffinati e lo stile elevato cari al nostro tempo. Peraltro il linguaggio smorto, il
periodare spezzato e disarmonico puzzano di vecchio, e non credo che ci sia alcuno così amante
dell'antichità da apprezzare Celio per la parte in cui è antiquato.
Trad. di M. Stefanoni, Milano, Garzanti, 1991, 20004.
Tac., dial., 23.
Nam et haec invitus rettuli et plura omisi, quae tamen sola mirantur atque exprimunt ii, qui se antiquos
oratores vocitant. neminem nominabo, genus se antiquos oratores vocitant. neminem nominabo, genus
hominum significasse contentus; sed vobis utique versantur ante oculos isti, qui Lucilium pro Horatio et
Lucretium pro Virgilio legunt, quibus eloquentia Aufidii Bassi aut Servilii Noniani ex comparatione Sisennae
aut Varronis sordet, qui rhetorum nostrorum commentarios fastidiunt, oderunt, Calvi mirantur. quos more
prisco apud iudicem fabulantis non auditores sequuntur, non populus audit, vix denique litigator perpetitur:
adeo maesti et inculti illam ipsam, quam iactant, sanitatem non firmitate, sed ieiunio consequuntur.
Ho riportato questi modi di dire contro voglia, e ben più numerosi ne ho tralasciati, eppure questi
sono i soli che ammirano e riprendono quelli che si definiscono oratori della vecchia scuola. Non
farò il nome di nessuno, pago di avere indicato una categoria di persone. Ma avete in ogni caso
davanti agli occhi quei tali che leggono Lucilio al posto di Orazio e Lucrezio invece di Virgilio, quelli
per i quali l'eloquenza di Aufidio Basso e di Servilio Noniano in confronto a quella di Sisenna o di
Varrone non vale niente, che provano fastidio e ripugnanza per i discorsi dei nostri retori e invece
ammirazione per quelli di Calvo. Persone di tal genere, quando sproloquiano davanti al giudice nel
loro stile antiquato, non vengono seguiti da chi li ascolta, né ascoltati dal pubblico, ed è tanto se li
sopporta il cliente: a tal punto sono scialbi e sgraziati, che quella stessa condizione di sanità, di cui
tanto si vantano, è dovuta non alla loro solida costituzione, ma al digiuno.
Trad. di M. Stefanoni, Milano, Garzanti, 1991, 20004.
Tac., dial., 17
Sed transeo ad Latinos oratores, in quibus non Menenium, ut puto, Agrippam, qui potest videri antiquus,
nostrorum temporum disertis anteponere soletis, sed Ciceronem et Caesarem et Caelium et Calvum et
Brutum et Asinium et Messallam: quos quid antiquis potius temporibus adscribatis quam nostris, non video.
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142
Ma passo agli oratori latini. Fra di essi non c'è, credo, Menenio agrippa - che può essere
considerato un antico e che voi siete soliti collocare al di sopra dei buoni parlatori del nostro tempo
- bensì ci sono Cicerone e Cesare e Celio e Calvo e Bruto e Ainio e Messalla: ma non vedo perché
dobbiamo ascriverli ai tempi antichi piuttosto che ai nostri.
Trad. M. Stefanoni.
Sen., contr., 7,4,6
Calvus, qui diu cum Cicerone iniquissimam litem de principatu eloquentiae habuit, usque eo violentus actor
et concitatus fuit ut in media eius actione surgeret Vatinius reus et exclamaret: rogo vos, iudices: num, si iste
disertus est, ideo me damnari oportet? Idem postea, cum videret a clientibus Catonis, rei sui, Pollionem
Asinium circumventum in foro caedi, inponi se supra cippum iussit–erat enim parvolus statura, propter quod
etiam Catullus in hendecasyllabis vocat illum 'salaputium disertum'–et iuravit, si quam iniuriam Cato Pollioni
Asinio accusatori suo fecisset, se in eum iuraturum calumniam; nec umquam postea Pollio a Catone
advocatisque eius aut re aut verbo violatus est. Solebat praeterea excedere subsellia sua et inpetu latus
usque in adversariorum partem transcurrere. Et carmina quoque eius, quamvis iocosa sint, plena sunt
ingentis animi. Dicit de Pompeio:
digito caput uno
scalpit. quid credas hunc sibi velle? virum.
Conpositio quoque eius in actionibus ad exemplum Demosthenis viget: nihil in illa placidum, nihil lene est,
omnia excitata et fluctuantia.
Tac., dial., 18
Satis constat ne Ciceroni quidem obtrectatores defuisse, quibus inflatus et tumens nec satis pressus, sed
supra modum exsultans et superfluens et parum Atticus videretur. legistis utique et Calvi et Bruti ad
Ciceronem missas epistulas, ex quibus facile est deprehendere Calvum quidem Ciceroni visum exsanguem
et aridum, Brutum autem otiosum atque diiunctum; rursusque Ciceronem a Calvo quidem male audisse
tamquam solutum et enervem, a Bruto autem, ut ipsius verbis utar, tamquam "fractum atque elumbem."
Quint., 10,1,115
Inueni qui Caluum praeferrent omnibus, inueni qui Ciceroni crederent eum nimia contra se calumnia uerum
sanguinem perdidisse; sed est et sancta et grauis oratio et castigata et frequenter uehemens quoque.
Imitator autem est Atticorum, fecitque illi properata mors iniuriam si quid adiecturus sibi, non si quid
detracturus, fuit.
Mi sono imbattuto in certi che preferivano Calvo a tutti gli oratori, in certi altri che credevano
all'affermazione di Cicerone secondo cui egli perdette il suo reale vigore per un eccessivo senso
critico nei propri confronti; ma il suo stile è puro, solenne, controllato e spesso anche veemente.
Trad. C. M. Calcante.
Suet., Iul. 73 Parlando della clementia di Cesare (è riferito a lui?)
Gai Memmi, cuius asperrimis orationibus non minore acerbitate rescripserat, etiam suffragator mox in
petitione consulatus fuit. Gaio Caluo post famosa epigrammata de reconciliatione per amicos agenti ultro ac
prior scripsit. Valerium Catullum, a quo sibi uersiculis de Mamurra perpetua stigmata imposita non
dissimulauerat, satis facientem eadem die adhibuit cenae hospitioque patris eius, sicut consuerat, uti
perseuerauit.
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143
Catull., c. XIV
Ni te plus oculis meis amarem,
iucundissime Calve, munere isto
odissem te odio Vatiniano:
nam quid feci ego quidve sum locutus,
cur me tot male perderes poetis?
isti di mala multa dent clienti,
qui tantum tibi misit impiorum.
quod si, ut suspicor, hoc novum ac repertum
munus dat tibi Sulla litterator,
non est mi male, sed bene ac beate,
quod non dispereunt tui labores.
di magni, horribilem et sacrum libellum!
quem tu scilicet ad tuum Catullum
misti, continuo ut die periret,
Saturnalibus, optimo dierum!
non non hoc tibi, salse, sic abibit:
nam, si luxerit, ad librariorum
curram scrinia; Caesios, Aquinos,
Suffenum, omnia colligam venena,
ac te his suppliciis remunerabor.
vos hinc interea valete abite
illuc, unde malum pedem attulistis,
saecli incommoda, pessimi poetae!
Se non t'amassi più ch'io non amo gli occhi miei, gentilissimo Calvo, per codesto regalo t'odierei
quanto tu odii Vatinio : che cosa ho fatto, io, o che cosa ho detto, perché tu m'uccidessi con tanti
poeti? Gli dèi diano il malanno al tuo cliente che t'ha mandato un tal mazzo di bricconi. To', ma se,
come sospetto, questo nuovo e ricercato regalo, te lo fa Sulla il maestrino, non istò più male, sto
bene, anzi benone, che non sono gettate le tue fatiche. Dèi grandi, il raccapricciante ed esecrabile
libricciattolo! Già, e tu, al tuo buon Catullo l'hai mandato direttamente, perché crepasse nel giorno
dei Saturnali, il più bel dì dell'anno. No, non te la caverai così, impostore: se può far giorno, correrò
alle casse dei librai: i Cesii, gli Aquini, Suffeno, tutt'i veleni, li raccoglierò e con questi supplizi ti
ricambierò il regalo. Voi di qui, per intanto, alla buon'ora, andatevene là, di dove avete portato
l'infausto piede, peste del nostro tempo, pessimi poeti!
Catullus c. L
Hesterno, Licini, die otiosi
multum lusimus in tuis tabellis,
ut convenerat esse delicatos:
scribens versiculos uterque nostrum
ludebat numero modo hoc modo illoc,
reddens mutua per iocum atque vinum.
atque illinc abii tuo lepore
incensus, Licini, facetiisque,
ut nec me miserum cibus iuvaret,
nec somnus tegeret quiete ocellos,
sed toto, indomitus furore, lecto
versarer cupiens videre lucem,
ut tecum loquerer, simulque ut essem.
at defessa labore membra postquam
semimortua lectulo iacebant,
hoc, iucunde, tibi poema feci,
ex quo perspiceres meum dolorem.
nunc audax cave sis, precesque nostras,
oramus, cave despuas, ocelle,
ne poenas Nemesis reposcat a te.
est vemens dea: laedere hanc caveto.
Nella giornata d'ieri, Licinio, non s'aveva impegni, e molto ci si divertì sulle mie tavolette, dove
s'era fissato di trovarci, tra gente di gusti fini. Scrivendo i suoi brevi versi, l'uno e l'altro di noi si
divertiva ora in questo ora in quel ritmo, a botta e risposta, tra uno scherzo e un bicchiere. Alla fine
me ne partii di là, ch'ero tutto fuoco per la tua finezza, Licinio, e per il tuo spirito: tanto che, inquieto
com'ero, non ebbi voglia di cenare, e il sonno non coprì di quiete i miei poveri occhi; ma, poiché la
smania non mi lasciava sentire la stanchezza, per il letto quant'era largo mi rivoltavo, bramando di
vedere il giorno, per parlare con te e stare insieme. Orbene, con le membra spezzate dalla fatica,
intormentito, sono disteso sul mio lettuccio da lavoro e ti fo, gentile amico, questa poesia, da cui tu
veda bene la mia angoscia. Ora, non essere sprezzante, bada, e il mio desiderio, ti prego, bada,
non averlo a schifo, pupilla degli occhi miei: che Nèmesi non ti castighi. E’ vendicativa la dea:
baderai di non provocarla.
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F. D'ALESSI - Letteratura latina - Parte II,1 - Il periodo classico
144
Trad. G.B. Pighi
Catullus c. LIII
Risi nescioquem modo e corona,
qui, cum mirifice Vatiniana
meus crimina Calvus explicasset,
admirans ait haec manusque tollens,
'di magni, salaputium disertum!'
Catull., c. XCIV
Plin. iun., 5,3,4-5
Ab illis autem quibus notum est, quos quantosque auctores sequar, facile impetrari posse confido, ut errare
me sed cum illis sinant, quorum non seria modo uerum etiam lusus exprimere laudabile est. An ego uerear
neminem uiuentium, ne quam in speciem adulationis incidam, nominabo, sed ego uerear ne me non satis
deceat, quod decuit M. Tullium, C. Caluum, Asinium Pollionem, M. Messalam, Q. Hortensium, M. Brutum, L.
Sullam, Q. Catulum, Q. Scaeuolam, Seruium Sulpicium, Varronem, Torquatum, immo Torquatos, C.
Memmium, Lentulum Gaetulicum, Annaeum Senecam et proxime Verginium Rufum et, si non sufficiunt
exempla priuata, diuum Iulium, diuum Augustum, diuum Neruam, Tiberium Caesarem?
Mart., 14, 196
Calvi de aquae frigidae usu
Haec tibi quae fontes et aquarum nomina dicit,
Ipsa suas melius charta natabat aquas.
Sull'uso dell'acqua fredda di Calvo.
Quest'opera che ti descrive le fonti e i nomi delle acque avrebbe fatto meglio a nuotare nelle acque
di cui parla.
Quint., inst., 10,1,86 (è riferito a lui?)
Vtar enim uerbis isdem quae ex Afro Domitio iuuenis excepi, qui mihi interroganti quem Homero crederet
maxime accedere 'secundus' inquit 'est Vergilius, propior tamen primo quam tertio'. Et hercule ut illi naturae
caelesti atque inmortali cesserimus, ita curae et diligentiae uel ideo in hoc plus est, quod ei fuit magis
laborandum, et quantum eminentibus uincimur, fortasse aequalitate pensamus. Ceteri omnes longe
sequentur. Nam Macer et Lucretius legendi quidem, sed non ut phrasin, id est corpus eloquentiae, faciant,
elegantes in sua quisque materia, sed alter humilis, alter difficilis.
Frammenti
LUDICRA
et talos Curius pereruditus
durum rus fugit et laboriosum
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F. D'ALESSI - Letteratura latina - Parte II,1 - Il periodo classico
Sardi Tigelli putidum caput venit.
EPITHALAMIA
vaga candido
nympha quod secet ungui
Hesperium ante iubar quatiens
Et leges sanctas docuit et cara iugavit
corpora conubiis et magnas condidit urbes.
pollentemque deum Venerem
hunc tanto munere digna
IO
A virgo infelix, herbis pasceris amaris.
Mens mea dira sibi praedicens omnia, vaecors
cum gravis ingenti conivere pupula somno
Frigida iam celeris vergatar vistinis ora
Sol quoque perpetuos meminit requiescere cursus
partus gravido portabat in alvo
EPIGRAMMATA
Cum iam fulva cinis fuero
Forsitan hoc etiam gaudeat ipsa cinis
Bithynia quicquid
et pedicator Caesaris umquam habuit
Magnus, quem metuunt omnes, digito caput uno
scalpit: quid credas hunc sibi velle? virum.
ne triclinarius
INCERTAE SEDIS FRAGMENTA
lingua vino temptantur et pedes.
IN P. VATINIUM ORATIONES TRES
factum esse ambitum scitis omnes et hoc vos scire
factum esse ambitum scitis omnes et hoc vos scire
omnes sciunt.
perfrica frontem et dic te digniorem qui praetor
fieres quam Catonem.
non ergo pecuniarum magis repetundarum quam
maiestatis, neque maiestatis magis quam Plautiae legis,
neque Plautiae legis magis quam ambitus, neque ambitus
magis quam omnium legum omnia iudicia perierunt.
hominem nostrae civitatis audacissimum, de factione
divitem, sordidum, maledicum accuso.
vehementissime probare.
ad ita mihi Iovem deosque inmortales velim bene
fecisse, iudices, ut ego pro certo habeo, si parvuli pueri
de ambitu iudicarent.
PRO MESSIO
credite mihi, non est turpe misereri.
INCERTAE SEDIS
collos.
quorum praedulcem cibum stomachus ferre non
potest.
Bibliografia
F. Muenzer, RE XIII, 1927, 428-35.
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146
Frammenti relativi a due orazioni (Pro Messio, In P. Vatinium orationes tres) per complessive 104
parole, in H. Malcovati, Oratorum Romanorum Fragmenta Liberae Rei Publicae, Torino, 19764, p.
492.
Frammenti poetici per 115 parole: Epigrammata, Epithalamia, Io, Ludicra. dove?
Fragmenta poetarum Latinorum epicorum et lyricorum praeter Ennium et Lucilium, post W. Morel
novis curis adhibitis, ed. C. Buechner, Leizpzig 1982.
FPL Blansdorf 1995, pp. 206-216.
Edizione con tr. e comm. Poetae novi, a cura di A. Traglia, Roma, Ateneo, 19742.
C. Moreschini, s.v. Oratori latini minori, in Dizionario degli scrittori greci e latini, 2, Milano,
Marzorati, 1987, p. 1469-70.
PHI
Bettini, 2, 19
Calvo Gaio Licinio. Poeta e oratore latino, figlio dell'annalista. Gaio Licinio Macro, nato a Roma nell'anno 82
a.C. e vissuto fino il 47. Nell'arte oratoria seguì la tendenza atticistica. Appartenne ai poetae novi e fu molto
amico di Catullo che lo ricorda nei suoi Carmina (XIV, L, LIII, XCIV). Della sua produzione non restano che
una ventina di versi. Scrisse epigrammi violenti contro Cesare e Pompeo, un poemetto mitologico, forse di
imitazione callimachea, intitolato Io, nel quale cantava le tristi vicende della ninfa amata da Giove, ed
un'elegia per una donna, Quintilla, forse sua moglie, prematuramente defunta, Le sue elegie ebbero
carattere lirico e non narrativo, cosa che costituisce una novità per la letteratura latina. Note furono anche le
sue orazioni contro Vatinio, un seguace di Cesare.
Cypria Ilias
Un paio di versi citati da Carisio e Prisciano. In entrambi i casi per il nome dell’autore la lezione
oscilla tra Levio e Nevio.
Bibliografia
FPL Blansdorf 1995, p. 119.
L. Alfonsi, Preneoterici, in F. Della Corte, Dizionario degli scrittori greci e latini, 3, Milano,
Marzorati, 1987, pp. 1789-90.
Furio Anziate
Cenni biografici
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Familiaris di Q.Catulo.
Opere
Gellio riporta 6 versi.
Testi e testimonianze
Cic., Brut. 132 (Parlando di Q. Catulo)
Quae perspici cum ex orationibus eius potest tum facillume ex eo libro, quem de consulatu et de rebus
gestis suis conscriptum molli et Xenophonteo genere sermonis misit ad A. Furium poetam familiarem suum;
qui liber nihilo notior est quam illi tres, de quibus ante dixi, Scauri libri.
Bibliografia
FPL Blansdorf 1995, pp. 110-111.
Skutsch, RE VII, 1910, 320 segg.
L. Alfonsi, Preneoterici, in F. Della Corte, Dizionario degli scrittori greci e latini, 3, Milano,
Marzorati, 1987, p. 1790.
Q. Muzio Scevola
Cenni biografici
Figlio di Q. Muzio Scevola l’Augure (152-post 88), più o meno coetaneo di Catullo, fu tribuno della
plebe nel 54 a.C..
Opere
Tramandato un verso degli Epigrammata, in cui si celebra il Marius di Cicerone e alcuni versi in
greco.
Testi e testimonianze
Cic., de leg., 1,2
Qvintvs Sit ita sane; uerum tamen dum Latinae loquentur litterae, quercus huic loco non deerit quae Mariana
dicatur, eaque, ut ait Scaeuola de fratris mei Mario,
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canescet saeclis innumerabilibus,
nisi forte Athenae tuae sempiternam in arce oleam tenere potuerunt, aut quam Homericus Vlixes Deli se
proceram et teneram palmam uidisse dixit, hodie monstrant eandem, multaque alia multis locis diutius
commemoratione manent quam natura stare potuerunt.
Plin. iun., 5,3,4-5
Ab illis autem quibus notum est, quos quantosque auctores sequar, facile impetrari posse confido, ut errare
me sed cum illis sinant, quorum non seria modo uerum etiam lusus exprimere laudabile est. An ego uerear
neminem uiuentium, ne quam in speciem adulationis incidam, nominabo, sed ego uerear ne me non satis
deceat, quod decuit M. Tullium, C. Caluum, Asinium Pollionem, M. Messalam, Q. Hortensium, M. Brutum, L.
Sullam, Q. Catulum, Q. Scaeuolam, Seruium Sulpicium, Varronem, Torquatum, immo Torquatos, C.
Memmium, Lentulum Gaetulicum, Annaeum Senecam et proxime Verginium Rufum et, si non sufficiunt
exempla priuata, diuum Iulium, diuum Augustum, diuum Neruam, Tiberium Caesarem?
Bibliografia
F. Muenzer, RE XVI, 1, 1933, 446 segg.
FPL Blansdorf 1995, p. 206
Testo con traduzione in Il libro di Catullo e i frammenti dei poeti nuovi, G.B. Pighi, Torino, Utet,
1974, rist. 1986, pp. 434-35.
Publio Volumnio
Cenni biografici
Soprannominato Eutràpelos (greco= lat scurrra= bello spirito).
Praefactus fabrum di Antonio negli anni successivi al 50.
Opere
Testi e testimonianze
Nep., Att., 9,4; 10,2; 12,4.
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P. uero Volumnio ea tribuit, ut plura a parente proficisci non potuerint. ipsi autem Fuluiae, cum litibus
distineretur
Conuersa subito fortuna est. ut Antonius rediit in Italiam, nemo non magno in periculo Atticum putarat
propter intimam familiaritatem Ciceronis et Bruti. itaque ad aduentum imperatorum de foro decesserat,
timens proscriptionem, latebatque apud P. Volumnium, cui, sicut ostendimus, paulo ante opem tulerat tanta
uarietas iis temporibus fuit fortunae, ut modo hi, modo illi in summo essent aut fastigio aut periculo,
habebatque secum Q. Gellium Canum, aequalem simillimumque sui. hoc quoque sit Attici bonitatis
exemplum, quod cum …
Idem L. Iulium Calidum, quem post Lucreti Catullique mortem multo elegantissimum poetam nostram tulisse aetatem uere uideor posse contendere, neque minus uirum bonum optimisque artibus eruditum, post
proscriptionem equitum propter magnas eius Africanas possessiones in proscriptorum numerum a
P. Volumnio, praefecto fabrum Antonii, absentem relatum expediuit.
Hor., epist., 1,18, 31 segg.
certare.' Eutrapelus cuicumque nocere volebat
vestimenta dabat pretiosa; beatus enim iam
cum pulchris tunicis sumet nova consilia et spes,
dormiet in lucem, scorto postponet honestum
officium, nummos alienos pascet, ad imum
Thraex erit aut holitoris aget mercede caballum.
arcanum neque tu scrutaberis illius umquam,
conmissumque teges et vino tortus et ira.
nec tua laudabis studia aut aliena reprendes,
nec, cum venari volet ille, poemata panges.
gratia sic fratrum geminorum Amphionis atque
Zethi dissiluit, donec suspecta severo
conticuit lyra. fraternis cessisse putatur
moribus Amphion: tu cede potentis amici
lenibus imperiis, quotiensque educet in agros
Aetolis onerata plagis iumenta canesque,
Ov., trist., 427-42
Bibliografia
Bettini, 2, 21 che però parla di un L. Volumnio, “di cui possediamo un verso”.
Gaio Memmio
Cenni biografici
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150
Nacque intorno al 98 a.C. Fu tribuno della plebe nel 66 a.C., pretore nel 58. Nella sua campagna
per il consolato del 53 fu inutilmente appoggiato da Cesare, nonostante alcune orazioni
pronunciate contro il capo politico. A seguito di un’accusa di corruzione, seguita da condanna, si
rifugiò ad Atene dove morì prima del 46 a.C..
Fu oratore, poeta e protettore di poeti: volle così Catullo e Cinna al suo seguito durante il governo
della Bitinia, nel 57. Quasi certa l’identificazione con il Memmio cui Lucrezio dedica il De rerum
natura.
Cicerone ce ne lascia un sintetico ritratto nel Brutus “era un profondo studioso della letteratura
greca e un nemico della latina; come oratore era arguto, aveva uno stile dolce e rifuggiva non solo
dalla fatica del parlare ma anche del pensare”
Nell'epistolario ciceroniano vi sono tre lettere a lui indirizzate (fam., 13, 1-3).
Opere
Abbiamo testimonianze di una sua produzione poetica in Ovidio, che ne conferma il carattere
erotico, e in Gellio, che definisce i suoi componimenti duri, rozzi e senza armonia. Di essi ci resta
pressochè nulla, al pari delle orazioni.
Testi e testimonianze
Cic., Brutus, 247
C. Memmius L. f. perfectus litteris sed Graecis, fastidiosus sane Latinarum, argutus orator verbisque dulcis,
sed fugiens non modo dicendi verum etiam cogitandi laborem, tantum sibi de facultate detraxit quantum
imminuit industriae.
Caio Memmio, figlio di Lucio, era un profondo studioso della letteratura greca e un nemico della
latina; come oratore era arguto, aveva uno stile dolce e rifuggiva non solo dalla fatica del parlare
ma anche del pensare: per questo, quando diminuì la sua attività tanto danneggiò la sua capacità.
Gell., 19,9,7
Nam Laeuius inplicata et Hortensius inuenusta et Cinna inlepida et Memmius dura ac deinceps omnes rudia
fecerunt atque absona.'
riferito a lui?
Levio infatti fece delle poesie impacciate, Ortensio prive di eleganza, Cinna senza grazia, e
Memmio dure, rozze e senza armonia.
Ov., trist., 2, 433
Quid referam Ticidae, quid Memmi carmen, apud quos
rebus adest nomen nominibusque pudor?
Perché ricordare i carmi di Ticida e di Memmio, nei quali ogni cosa è detta col proprio nome e ogni
nome fa arrossire?
Suet., Iul. 73
Gai Memmi, cuius asperrimis orationibus non minore acerbitate rescripserat, etiam suffragator mox in
petitione consulatus fuit.
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F. D'ALESSI - Letteratura latina - Parte II,1 - Il periodo classico
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LXXIII. Non concepì mai, contro nessuno, un odio così forte da non abbandonarlo volentieri appena se ne
presentasse l'occasione.
Appoggiò persino, nella sua candidatura al consolato, quel Caio Memmio alle cui asperrime orazioni aveva
per iscritto risposto con asprezza non minore.
Lucr., 1,21-28
Quae quoniam rerum naturam sola gubernas
nec sine te quicquam dias in luminis oras
exoritur neque fit laetum neque amabile quicquam,
te sociam studeo scribendis versibus esse,
quos ego de rerum natura pangere conor
Memmiadae nostro, quem tu, dea, tempore in omni
omnibus ornatum voluisti excellere rebus.
Bibliografia
Frammenti dalle orazioni in H. Malcovati, Oratorum Romanorum Fragmenta Liberae Rei Publicae,
Torino, 19764, p. 401.
Frammenti poetici (6 parole) in W. Morel, Fragmenta poetarum latinorum epicorum et lyricorum
praeter Ennium et Lucilium, Leipzig, Teubner, 1927.
FPL Blansdorf 1995, pp. 188-89.
F. Muenzer, RE XV 1, 1931, 609-16.
Bettini, 2,21, Conte passim
Cornificia
Cenni biografici
Sorella di Quinto Cornificio (80 ca.-41 a.C.), figlia dell’omonimo cui si attribuisce la Retorica ad
Herennium.
Sposò il Camerio ricordato da Catullo in carm. LV. LVIIIa.
Opere
Testi e testimonianze
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152
Bibliografia
Bettini, 2,22, niente Conte
Ortensia
Cenni biografici
Figlia di Quinto Ortensio Ortalo, oratore, ma anche poeta.
Opere
Testi e testimonianze
Quint., 1,1,6
In parentibus uero quam plurimum esse eruditionis optauerim. Nec de patribus tantum loquor: nam
Gracchorum eloquentiae multum contulisse accepimus Corneliam matrem, cuius doctissimus sermo in
posteros quoque est epistulis traditus, et Laelia C. filia reddidisse in loquendo paternam elegantiam dicitur,
et Hortensiae Q. filiae oratio apud triumuiros habita legitur non tantum in sexus honorem.
Vorrei poi che i genitori fossero il più possibile colti. E non parlo soltanto dei padri: sappiamo infatti
che all’eloquenza dei Gracchi molto contribuì la madre Cornelia, le cui lettere hanno tramandato
anche ai posteri testimonianza di un linguaggio sceltissimo; ugualmente, di Lelia, figlia di Gaio
Lelio, si dice che abbia reso nel parlare l’eleganza paterna e l’orazione pronunciata di fronte ai
triumviri da Ortensia, figlia di Quinto, non la si legge solo per fare omaggio ad una donna.
Tr. S. Corsi, Bur, 1997,20012.
Bibliografia
Bettini, 2, 22., niente Conte
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C. Valerio Catullo
Cenni biografici
Catullo nasce a Verona nell’84 a.C. da una famiglia tra le più note in città. Oltre che nella città
d’origine, colonia di diritto latino dall’89, i Valeri hanno casa a Sirminione e a Roma e interessi
nella provincia d’Asia. Presso di loro risiedono i magistrati romani che governano la città.
Va detto che la data di nascita è spostata all’87 da Girolamo (sulla scorta di Svetonio) e che
questo induce lo stesso Girolamo a collocare la morte di Catullo nel 57, cosa per altri indizi poco
probabile.
Nel 66, mentre si sta combattendo la terza guerra mitridatica, Catullo è a Roma e compone i suoi
più antichi epigrammmi. Ritorna del resto spesso a Verona. Proprio a Verona conosce nel 62
Clodia, di dieci anni più vecchia, bella e spregiudicata moglie di Q.Cecilio Metello Celere e sorella
di Clodio, personaggio di notevole rilievo nella vita politica di quegli anni. Con Clodia, presto
cantata come Lesbia, Catullo stringe una relazione spesso tempestosa quanto fondamentale per la
sua ispirazione poetica, destinata a protrarsi, fino al 58. Tra Verona e Roma intreccia rapporti di
amicizia e di inimicizia che, assieme a Clodia, animano di nuovi temi e personaggi le sue poesie:
tra questi da ricordare almeno Cornelio Nepote, amico di famiglia, l’oratore Quinto Ortensio Ortalo,
Lucio Manlio Torquato, Alfeno Varo, il bresciano Elvio Cinna, Publio Cornelio Gallo, Gaio Licinio
Calvo, suo coetaneo, Veranio e Fabullo (che combattono al seguito di Cesare in Lusitania tra il 61
e il 60).
Nel 58 una prima raccolta di poesie (libellus) dedicata a Cornelio Nepote, composte appunto tra il
66 e questa data, che coincide anche con quella della morte del fratello maggiore in Asia minore.
Anche questo fatto induce per più motivi Catullo ad accompagnare Gaio Memmio, protettore di
Lucrezio, nel suo viaggio come propretore in Bitinia e Ponto. E’ un’occasione per visitare la tomba
del fratello, per curare gli interessi della famiglia, per conoscere nuove terre e civiltà, per
allontanarsi dall’ambiente della capitale.
Nel 56 Catullo è di ritorno a Roma dove continua la sua vita di relazione e la sua attività di poeta in
un ambiente culturalmente e politicamente sempre più fervido e inquieto, segnato dalla comparsa
di opere come la Zmyrna di Cinna o la raccolta di elegie per Quintilia di Calvo, ma anche da risse
verbali e parziali riconciliazioni con esponenti del partito cesariano e da un definitivo rifiuto a nuove
proposte da parte di Clodia, la cui vita scandalosa è denunciata da Cicerone nello stesso 56 nel
corso del processo mosso a M. Celio Rufo.
Pochi mesi prima della morte, avvenuta nel 54, Catullo si riconcilia con Cesare. Nello stesso anno
Cicerone pubblica postumo il poema di Lucrezio. Con ogni probabilità è Cornelio Nepote a curare,
poco dopo il 54 l’edizione postuma delle liriche dell’amico.
Opere
Il Liber è ordinato in modo diverso da quello della raccolta pubblicata in vita.
Aprono i componimenti in versi brevi ( I-LX), seguono gli epitalami e gli epilli (LXI-LXIVI, chiudono i
distici elegiaci (LXV-CXVI), con i componimenti più estesi in testa (LXV-LXVIII).
In tutto 116 carmi per circa 2300 versi.
Il primo gruppo raccoglie componimenti per lo più brevi e di metro vario: endecasillabi faleci,
trimetri giambici, scazonti e sistema ? saffico.
Il secondo gruppo comprende componimenti di maggiore estensione e di maggior impegno
concettuale e formale: anche per questo si parla, nella tradizione scolastica, di carmina docta.
Anche in questo caso i metri sono vari: galliambi, ferecratei, gliconei, esametri e pentametri.
Il terzo gruppo raccogli gli epigrammi, componimenti, quindi, in distici elegiaci.
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La diversità dei metri è stato uno dei motivi che ha verosimilmente dettato all’editore antico di
Catullo un ordine interno dei componimenti che non rispecchia quello cronologico.
Osservazioni
Fortuna
Testi e testimonianze
Nep., vita Attici, 12,4
Idem L. Iulium Calidum, quem post Lucreti Catullique mortem multo elegantissimum poetam nostram tulisse
aetatem uere uideor posse contendere, neque minus uirum bonum optimisque artibus eruditum, post
proscriptionem equitum propter magnas eius Africanas possessiones in proscriptorum numerum a P.
Volumnio, praefecto fabrum Antonii, absentem relatum expediuit.
Hier., chron., ol. 173-74
Caius Valerius Catullus, scriptor lyricus, [b [0527B] Non igitur Sirmione, ut recentiores nonnulli existimant, et
nuper sciolus quidam Catulli editor blateravit: qui cum id confecisse se potissimum ex eo putat, quod de
Municipio Catullus se dicat carm. 17 (ubi Municipem suum nescio quem hominem insulsum vocat), atque
adeo non Verona, quae colonia erat: nae ille quid municipium, quidve colonia apud antiquos significet, et
quam saepe promiscuo sensu apud eos sumatur, prorsus ignorat. Sed neque locus hic est ad docendum: et
nimis multa sunt, quae praeter [0527C] Eusebii testimonium, natum Veronae Catullum evincunt. Caeterum
rectene, an secus natalis ejus dies huic anno assignetur (siquidem nullum, quod alii suspicantur, numericis
notis errorem inesse, perspicuum ex toto contextu est), dicemus inferius ad ejusdem annum qanavsimon,
quo loco his fortasse fiet satis, qui haud recte Eusebium rationes subduxisse, contendunt.] Veronae nascitur.
Hier., chron., ol.180-82
Catullus [b [0535C] Recte id quidem suam juxta hypothesim Hieronymus; [0536A] rem enim plane
incredibilem proponunt, qui de corruptis hic numeris dubitant, ac porro dubitare nos jubent. Certissima
isthaec sive Eusebii, sive Hieronymi ratio et mens fuit: Catullum natum secundo olympiadis 173 anno, cum
aetatis trigesimum ageret, atque adeo ultimo olympiadis 180, vivere desiisse. Vera autem, nec ne dicant,
disputandum. Equidem nemo unus, quantum scio, est qui ab auctoris nostri stet partibus; quin volunt vulgo
omnes, diu post trigesimum annum egisse poetam inter vivos. Inventus est etiam qui, hoc ut obtineat,
priorem quoque terminum, sive natalem diem, duarum ferme olympiadum spatio antevertit. Cui nos quidem
meliorem mentem precamur; neque enim causa ulla erat cur commentum hoc suum veterum auctoritati
opponeret; atque ea sane inepta, quam praetendit, si calculis Eusebii stemus, Catulum petiisse Bithyniam
anno aetatis 14, quam aetatem dicit ineptissimam ad onus quod gerebat, praetore Memmio. Aliorum
probabilitate non caret sententia qui qanavsimon dumtaxat [0536B] annum poetae in posteriora his tempora
detrudunt; qui licet in annorum, quibus superstes ille fuerit, numero dissentiant nonnihil inter se, sua tamen
argumenta aeque omnes ex Gifanio et Scaligero cumprimis delibarunt. Hic vero etiam post Caesaris caedem
vixisse Catullum contendebat, et ludos Augusti saeculares spectasse, C. Furnio, P. Junio Sillano coss. num.
2001, cum annum aetatis 71 ageret. Sed cum hoc ex carmine, ut vocat saeculari, Dianae sumus in fide,
colligat, labido nititur fundamento; nam neque saeculare [0537A] carmen illud est, ut probe notat Theodorus
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Marcillius, neque ad Augusti tempora resque gestas omnino pertinet. Alterum itaque alii argumentum urgent
ex carmine 111, ubi secundum Pompeii consulatum poeta memorat: Pompeio facto consule nunc iterum.
Hic scilicet consulatus in anno ab Urbe condita 699 incurrit, qui subsequentis olympiadis 181 secundus est.
Inde evincitur, post biennio saltem advixisse Catullum, quam hic dicitur obiisse. Fortasse tamen componi hoc
cum Eusebii testimonio potest, causaque vel in fere obvium ejusmodi anachronismum, vel in discrimen
Palilium refundi. Restat tertium, quod et sibi palmarium ducunt argumentum ex carm. 52, ubi Vatinii
consulatus nominatur: Per consulatum pejerat Vatinius.
P. nempe Vatinius, Q. Fusii Caleni collega in
consulatu fuit, anno Urbis 707, qui est olympiadis 183 secundus. Adeo nedum trigesimo aetatis mortuus non
[0537B] est Catullus, vivebat jam quadragesimum praetergressus, cum ea scriberet. His quid reponas? Ego,
veniam deprecatus, si quid contra receptum vulgo sensum pro Eusebio meo audeo, fieri potuisse autumo,
non quam jam obtinuisset Vatinius dignitatem, sed quam diu antea ambiret, a Catullo hic notari. Et sensus
sit, eo processisse audaciae Vatinium, ut consulatum ambitiose peteret, sive etiam ariolando jurarit, futurum
se consulem, quem magistratum tunc temporis non sit assecutus, atque in eo quod juraverit per consulatum,
pejeraverit. Egregie enimvero M. Tullius libro III Officior.: Non enim, inquit, falsum jurare, pejerare est; sed
quod ex animi tui sententia juraveris, sicut verbis concipitur more nostro, id non facere, perjurium est. Hanc
certe interpretationem si ferunt Catulli verba, nihil erunt quae hactenus docti viri Eusebio et Hieronymo
objecerunt.] 30 aetatis suae anno Romae moritur.
Ov. trist., 2, 423-30
utque suo Martem cecinit gravis Ennius ore–
Ennius ingenio maximus, arte rudis–
explicat ut causas rapidi Lucretius ignis,
casurumque triplex vaticinatur opus,
sic sua lascivo cantata est saepe Catullo
femina, cui falsum Lesbia nomen erat;
nec contentus ea, multos vulgavit amores,
in quibus ipse suum fassus adulterium est.
[già citato sopra con traduzione]
Cic., pro Caelio, 35
Tu vero, mulier–iam enim ipse tecum nulla persona introducta loquor–si ea quae facis, quae dicis, quae
insimulas, quae moliris, quae arguis, probare cogitas, rationem tantae familiaritatis, tantae consuetudinis,
tantae coniunctionis reddas atque exponas necesse est. Accusatores quidem libidines, amores, adulteria,
Baias, actas, convivia, comissationes, cantus, symphonias, navigia iactant, idemque significant nihil se te
invita dicere. Quae tu quoniam mente nescio qua effrenata atque praecipiti in forum deferri iudiciumque
voluisti, aut diluas oportet ac falsa esse doceas aut nihil neque crimini tuo neque testimonio credendum esse
fateare.
Sin autem urbanius me agere mavis, sic agam tecum. Removebo illum senem durum ac paene agrestem; ex
his igitur sumam aliquem ac potissimum minimum fratrem qui est in isto genere urbanissimus; qui te amat
plurimum, qui propter nescio quam, credo, timiditatem et nocturnos quosdam inanis metus tecum semper
pusio cum maiore sorore cubitabat. Eum putato tecum loqui: 'Quid tumultuaris, soror? quid insanis?
Quid clamorem exorsa verbis parvam rem magnam facis? Vicinum adulescentulum aspexisti; candor huius
te et proceritas voltus oculique pepulerunt; saepius videre voluisti; fuisti non numquam in isdem hortis; vis
nobilis mulier illum filium familias patre parco ac tenaci habere tuis copiis devinctum. Non potes; calcitrat,
respuit, repellit, non putat tua dona esse tanti. Confer te alio. Habes hortos ad Tiberim ac diligenter eo loco
paratos quo omnis iuventus natandi causa venit; hinc licet condiciones cotidie legas; cur huic qui te spernit
molesta es?'
Traduzione
Quint., inst., 10,1,96
Iambus non sane a Romanis celebratus est ut proprium opus, quibusdam interpositus: cuius acerbitas in
Catullo, Bibaculo, Horatio quamquam illi epodos interuenit reperiatur.
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Gell., 6,20,6
Catullus quoque elegantissimus poetarum in hisce uersibus:
minister vetuli puer Falerni,
inger mi calices amariores,
ut lex Postumiae iubet magistrae,
ebria acina ebriosioris,
cum dicere 'ebrio' posset, <et> quod erat usitatius 'acinum' in neutro genere appellare, amans tamen hiatus
illius Homerici suauitatem 'ebriam' dixit propter insequentis 'a' litterae concentum.
[6] Pure Catullo, il più elegante dei poeti, nei versi:
Ragazzo che ci servi Falerno vecchio,
versami più amari calici
come ordina la legge di padrona Postumia,
più ubriaca di un acino ubriaco,
poteva dire ebrio acino in riferimento al neutro acinum che è la forma ordinaria; ma poiché gli
piaceva la dolcezza di quell'iato omerico disse ebria, in vista dell'armonia con la a seguente.
Traduzione di G. Bernardi Perini
Mart., 8,73
Instanti, quo nec sincerior alter habetur
Pectore nec nivea simplicitate prior,
Si dare vis nostrae vires animosque Thaliae
Et victura petis carmina, da quod amem.
Cynthia te vatem fecit, lascive Properti;
Ingenium Galli pulchra Lycoris erat;
Fama est arguti Nemesis formosa Tibulli;
Lesbia dictavit, docte Catulle, tibi:
Non me Paeligni nec spernet Mantua vatem,
Si qua Corinna mihi, si quis Alexis erit.
O Instanio, che superi ogni uomo per la sincerità del cuore e la schietta semplicità, se vuoi dare
alla mia poesia forza e ispirazione, se desideri avere da me carmi immortali, dammi un vero
amore. Cinzia fece poeta te, o lascivo Properzio, Gallo trovava la sua ispirazione nella bella
Licoride; il melodioso Tibullo deve la sua fama alla leggiadra Nemesi; Lesbia dettò i tuoi carmi, o
dotto Catullo. Se avrò una Corinna, se avrò un Alessi, non mi disprezzeranno come poeta né i
Peligni né Mantova.
Traduzione di G.Norcio, Torino, Utet, 1980
Mart., 14, 195
Tantum magna suo debet Verona Catullo,
Quantum parva suo Mantua Vergilio.
La grande Verona deve al suo Catullo tanto quanto la piccola Mantova al suo Virgilio.
Traduzione di G.Norcio, Torino, Utet, 1980
Prop., 2,34, 85-94
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Haec quoque perfecto ludebat Iasone varro,
Varro Leucadiae maxima flamma suae;
haec quoque lascivi cantarunt scripta Catulli,
Lesbia quis ipsa notior est Helena;
haec etiam docti confessast pagina Calvi,
cum caneret miserae funera Quintiliae.
et modo formosa quam multa Lycoride Gallus
mortuus inferna vulnera lavit aqua!
Cynthia quin vivet versu laudata properti,
hos inter si me ponere Fama volet.
Su questi temi, compiuto il poema di Giasone, poetava Varrone, Varrone, la grande fiamma della
sua Leucadia; di questi temi trattavano pure i carmi dell'ardente Catullo, per i quali Lesbia è più
nota della stessa Elena; di questi temi parlava pure la pagina del dotto Calvo, quando cantava la
morte dell'infelice Quintilia. E Gallo, da poco morto, quante ferite d'amore per la bella Lico ride ha
lavato nelle acque infernali! Ma anche Cinzia sarà celebrata per i versi di Properzio, se la Fama
vorrà pormi tra costoro.
Vell.Pat., 2,36,2
Quis enim ignorat diremptos gradibus aetatis floruisse hoc tempore Ciceronem, Hortensium, anteque
Crassum, Cottam, Sulpicium, moxque Brutum, Calidium, Caelium, Caluum et proximum Ciceroni Caesarem,
eorumque uelut alumnos, Coruinum ac Pollionem Asinum, aemulumque Thucydidis Sallustium, auctoresque
carminum Varronem ac Lucretium neque ullo in suspecti operis sui carmine minorem Catullum?
Chi infatti ignora che fiorirono in questi anni, separati solo da qualche differenza d’età, Cicerone,
Ortensio, e poco prima Crasso, Catone, Sulpicio, e poco appresso Bruto, Calidio, Celio, Calvo, e
Cesare che più di ogni altro si avvicina a Cicerone; poi Corvino e Asinio Pollione, quasi loro alunni,
e Sallustio emulo di Tucidide, ed i poeti Varrone e Lucrezio, e Catullo a nessuno inferiore nel
genere di poesia da lui prescelto?
Trad. L. Agnes, Torino, Utet, 1969.
Suet., Iul. 73
Gai Memmi, cuius asperrimis orationibus non minore acerbitate rescripserat, etiam suffragator mox in
petitione consulatus fuit. Gaio Caluo post famosa epigrammata de reconciliatione per amicos agenti ultro ac
prior scripsit. Valerium Catullum, a quo sibi uersiculis de Mamurra perpetua stigmata imposita non
dissimulauerat, satis facientem eadem die adhibuit cenae hospitioque patris eius, sicut consuerat, uti
perseuerauit.
LXXIII. Non concepì mai, contro nessuno, un odio così forte da non abbandonarlo volentieri appena se ne
presentasse l'occasione.
Appoggiò persino, nella sua candidatura al consolato, quel Caio Memmio alle cui asperrime orazioni aveva
per iscritto risposto con asprezza non minore.
Scrisse di sua iniziativa e per primo a Caio Calvo quando questi, dopo aver pubblicato dei celebri epigrammi
diffamatorii, cercava di riconciliarsi con lui per mezzo di amici.
Quando Valerio Catullo gli fece le sue scuse, pur non nascondendosi che egli lo aveva marchiato in eterno
con quei pochi versi su Mamurra, lo trattenne a cena, e continuò a frequentare, come soleva, la casa di suo
padre.
La passione per Lesbia
Il passero
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Composto nel 61 a.C.
Catull., carm., 2
Passer, deliciae meae puellae,
quicum ludere, quem in sinu tenere,
cui primum digitum dare appetenti
et acres solet incitare morsus
cum desiderio meo nitenti
carum nescioquid libet iocari,
credo, ut, cum gravis acquiescet ardor,
sit solaciolum sui doloris:
tecum ludere, sicut ipsa, posse
et tristes animi levare curas
tam gratumst mihi quam ferunt puellae
pernici aureolum fuisse malum,
quod zonam soluit diu ligatam.
Passero, amore della mia donna, che gioca con te, ti tiene in seno, ti dà la punta del dito - e tu
t'avventi - e provoca la furia dei tuoi morsi: quando al mio sospiro fulgente piace dire per gioco,
non so, tenerezze, a gentile conforto del suo cruccio, credo: oh, quando il grave ardore si calmerà,
giocare con te, come lei, potessi, e alleviare le tristi pene dell'anima!
Traduzione di G.B. Pighi, Torino, Utet, 1974 (al Canova)
La morte del passero
Composto nel 61 a.C.
Catull., carm., 3
Lugete, o Veneres Cupidinesque,
et quantumst hominum venustiorum!
passer mortuus est meae puellae,
passer, deliciae meae puellae,
quem plus illa oculis suis amabat:
nam mellitus erat suamque norat
ipsam tam bene quam puella matrem,
nec sese a gremio illius movebat,
sed circumsiliens modo huc modo illuc
ad solam dominam usque pipiabat.
qui nunc it per iter tenebricosum
illuc, unde negant redire quemquam.
at vobis male sit, malae tenebrae
Orci, quae omnia bella devoratis:
tam bellum mihi passerem abstulistis.
o factum male, quod, miselle passer,
tua nunc opera meae puellae
flendo turgiduli rubent ocelli!
Piangete, oh, Veneri e Amori, e quanto v'è nel mondo di leggiadria! Il passero è morto, della mia
donna, il passero, amore della mia donna, che lo amava più dei suoi occhi. Buono come il miele
era, e conosceva la sua padroncina così bene come una bimba la sua mamma; e dal grembo di lei
non si spiccava, ma intorno saltellando, ora qua ora là solo alla sua signora sempre cinguettava. E
ora, per il buio fa quel viaggio, dal quale, dicono, non torna nessuno. O voi maledette, selvagge
tenebredell'Orco, che ogni cosa gentile divorate: tanto gentile passero m'avete rubato! Oh
disgrazia! oh povero passerino! E per causa tua la mia donna ha pianto, e sono gonfi e arrossati i
cari occhi.
Traduzione di G.B. Pighi, Torino, Utet, 1974 (al Canova)
Viviamo e amiamo
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Composto nel 61.
Catull., carm., 5
Vivamus, mea Lesbia, atque amemus,
rumoresque senum severiorum
omnes unius aestimemus assis.
soles occidere et redire possunt:
nobis, cum semel occidit brevis lux,
nox est perpetua una dormienda.
da mi basia mille, deinde centum,
dein mille altera, dein secunda centum,
deinde usque altera mille, deinde centum.
dein, cum milia multa fecerimus,
conturbabimus illa, ne sciamus,
aut nequis malus invidere possit,
cum tantum sciat esse basiorum.
Viviamo, Lesbia mia, e amiamo, e le mormorazioni dei vecchi che fanno i severi, tutte insieme, non
le stimiamo un soldo. I soli tramontano e ritornano: per noi, quando una volta è tramontato il breve
dì, notte perpetua da dormire senza fine. Dàmmi mille baci, poi cento, poi altri mille, poi altri cento,
poi via via altri mille, poi cento. Poi, quando avremo fatto molte migliaia, le confonderemo, per non
sapere quante, o perché nessun invidioso ci porti male, quando sappia ch'esiste una tale infinità di
baci.
Traduzione di G.B. Pighi, Torino, Utet, 1974 (al Canova)
Addio a Lesbia
Composto nel 60 a.C.
Catull., carm., 8
Miser Catulle, desinas ineptire,
et quod vides perisse perditum ducas.
fulsere quondam candidi tibi soles,
cum ventitabas quo puella ducebat,
amata nobis quantum amabitur nulla.
ibi illa multa tum iocosa fiebant,
quae tu volebas nec puella nolebat.
fulsere vere candidi tibi soles.
nunc iam illa non vult: tu quoque, impotens, noli,
nec quae fugit sectare, nec miser vive,
sed obstinata mente perfer, obdura.
vale, puella, iam Catullus obdurat,
nec te requiret nec rogabit invitam.
at tu dolebis, cum rogaberis nulla.
scelesta, vae te! quae tibi manet vita?
quis nunc te adibit? cui videberis bella?
quem nunc amabis? cuius esse diceris?
quem basiabis? cui labella mordebis?
at tu, Catulle, destinatus obdura!
Povero Catullo, finiscila di far lo sciocco e ciò che vedi ch'è perso, credi ch'è perso. Splendevano,
una volta, a te candidi i soli, quando te ne venivi dove lei ti conduceva, amata da me quanto non
s'amerà nessuna: vi si facevano allora tanti di quei gioclìl e tu dicevi sì, e lei non diceva no.
Splendevano, una volta, a te candidi i soli. Ora ormai lei dice no, e tu di rimando, che altro non
puoi, di' no. Ti fugge? non correrle dietro, e non vivere da poveruomo, ma incrollabilmente sta'
forte, sii fermo. Addio, signora: Catullo è fermo, non ti cercherà, non t'inviterà, poiché non vuoi. Ma
ti dispiacerà, quando non sarai più invitata. Sciagurata, non penserai... Che vita ti si prepara? chi
ora verrà da te? a chi parrai bella? chi ora amerai? di chi si dirà che sei? chi bacerai? a clìl' la
bocca morderai? Ma tu, Catullo, è stabilito, sii fermo.
Traduzione di G.B. Pighi, Torino, Utet, 1974 (al Canova)
Congedo definitivo a Lesbia: Così come il fiore reciso al margine del prato
Composto nel 54 a.C.
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Catull., carm. 11.
Furi et Aureli, comites Catulli,
sive in extremos penetrabit Indos,
litus ut longe resonante Eoa
tunditur unda,
sive in Hyrcanos Arabasve molles,
seu Sacas sagittiferosve Parthos,
sive quae septemgeminus colorat
aequora Nilus,
sive trans altas gradietur Alpes,
Caesaris visens monumenta magni,
Gallicum Rhenum, horribiles vitro ultimosque Britannos,
omnia haec, quaecumque feret voluntas
caelitum, temptare simul parati:
pauca nuntiate meae puellae
non bona dicta.
cum suis vivat valeatque moechis,
quos simul complexa tenet trecentos,
nullum amans vere, sed identidem omnium
ilia rumpens;
nec meum respectet, ut ante, amorem,
qui illius culpa cecidit velut prati
ultimi flos, praetereunte postquam
tactus aratrost.
Furio e Aurelio, che accompagnereste Catullo, se mai si spingerà, alla fine del mondo, tra gl'lndi,
sin dove la costa è battuta dal mare orientale con tonanti marosi; o se tra gl'Ircani o tra i molli
Arabi, o se tra i Saci o i Parti saettatori, o se nei mari che dalle sette bocche intorbida il Nilo; o se
mai camminerà di là dall'alte Alpi, per vedere i trofei di Cesare, il grande, la Gallia e il Reno, e,
selvaggi e all'estremità del mondo, i Britanni: tutti questi paesi, qualunque ventura porterà il volere
dei celesti, pronti a esplorare insieme con me: poche riportate alla mia donna non buone parole.
Viva e stia bene coi suoi drudi, con quei trecento che abbraccia e si tiene tutt'insieme, e non uno
ne ama sinceramente, ma a tutti in fila stanca le reni: e non si vòlti ad aspettare, come prima, il mio
amore, che per colpa di lei è caduto, come sul margine del prato un fiore, dopo che l'ha, passando,
toccato l'aratro.
Traduzione di G.B. Pighi, Torino, Utet, 1974 (al Canova)
A Lesbia: Catullo e Saffo
Composta nel 62 a.C.
Catull., carm. 51
Ille mi par esse deo videtur,
ille, si fas est, superare divos,
qui sedens adversus identidem te
spectat et audit
dulce ridentem, misero quod omnes
eripit sensus mihi: nam simul te,
Lesbia, aspexi, nihil est super mi
<vocis in ore;>
lingua sed torpet, tenuis sub artus
flamma demanat, sonitu suopte
tintinant aures geminae, teguntur
lumina nocte.
otium, Catulle, tibi molestumst:
otio exsultas nimiumque gestis:
otium et reges prius et beatas
perdidit urbes.
Quello mi sembra pari a un dio, quello, se può dirsi, supera gli dèi, che, sedendo rimpetto, di
quando in quando te guarda e t'ascolta dolcemente ridere: che a me infelice tutti i sensi rapisce.
Davvero: appena, Lesbia, t'ho guardata, non mi resta, Lesbia, un filo di voce; ma la lingua è
intorpidita, sottile dentro le membra fiamma si spande, d'interno ronzio rombano gli orecchi, si
coprono di doppia notte le luci. L'ozio, Catullo, ti dà travaglio, per ozio troppo esulti e brilli: l'ozio re
un tempo e felici città trasse a rovina.
Traduzione di G.B. Pighi, Torino, Utet, 1974 (al Canova)
Inserire Saffo IIa ode del I libro con relativa traduzione
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Appare a me colui uguale agli dèi essere, l'uomo che di contro a te siede e da vicino dolcemente
parlare t'ascolta e ridere amabilmente: il che a me davvero certamente il cuore nel petto fa balzare:
ché come verso te io guardi un poco, allora ch'io parli in nessun modo ancora è possibile,
ma silenziosamente la lingua s'è spezzata, sottile subitamente sotto la pelle fuoco è corso, con gli
occhi in nessun modo vedo, rombano gli orecchi, me sudore freddo copre, un tremito tutta prende,
più verde d'erba sono, a esser morta ch'io poco manchi sembra... ma tutto è da osare, poiché...
Trad. di C. Del Grande (da ediz. Catullo Utet)
Pena d’amore
Composto nel 58 a.C.
Catull., carm., 85
Odi et amo. quare id faciam, fortasse requiris.
nescio, sed fieri sentio et excrucior.
Affetti familiari: Sulla tomba del fratello
Composto nel 56 a.C.
Catull., 101:
Multas per gentes et multa per aequora vectus
advenio has miseras, frater, ad inferias,
ut te postremo donarem munere mortis
et mutam nequiquam alloquerer cinerem,
quandoquidem fortuna mihi tete abstulit ipsum,
heu miser indigne frater adempte mihi.
nunc tamen interea haec, prisco quae more parentum
tradita sunt tristi munere ad inferias,
accipe fraterno multum manantia fletu,
atque in perpetuum, frater, ave atque vale!
Di gente in gente, navigando per molti mari sono arrivato, fratello, a queste pietose inferie, per
renderti il postremo ufficio della morte e parlare al muto cenere, invano: poiché la fortuna te mi
portò via, tutto te, oh infelice fratello acerbamente tolto a me. Ora tuttavia intanto queste offerte
che, secondo l'antico rito dei padri, sono state presentate, per triste ufficio, alle inferie, ricevi,
grondanti di fraterno pianto, e per sempre, fratello, addio, addio.
Traduzione di G.B. Pighi, Torino, Utet, 1974 (al Canova)
Amicizia. A Calvo per la morte di Quintilia
Composta nel 55 a.C. Calvo aveva pubblicato una raccolta di elegie dedicata alla moglie Quintilia, morta da
poco, al pari di quella del poeta Partenio che altra raccolta in greco aveva pubblicato.
Catull., carm. 96
Si quicquam mutis gratum acceptumve sepulcris
accidere a nostro, Calve, dolore potest,
quo desiderio veteres renovamus amores
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atque olim iunctas flemus amicitias,
certe non tanto mors immatura dolorist
Quintiliae, quantum gaudet amore tuo.
Se nulla di conforto ai muti sepolcri può venire, Calvo, dal nostro dolore, quando col rimpianto
facciamo rivivere la passione d'un tempo e le persone a cui una volta dicemmo addio piangiamo
care: certamente la morte immatura non è tanto dolore a Quintilia, quanta è gioia l'amor tuo.
Invettiva politica: Mamurra, Cesare e Pompeo
Il componimento XXIX risale al 55. Mamurra fu comandante del genio di Cesare (suo suocero) in Spagna nel
65, ma anche sotto il comando di Pompeo (suo genero) nel 65 in Ponto.
Un altro componimento del 55 a.C. (carm. LVII) risulta ancora più violento nei confronti di Mamurra e
Cesare.
Per l’atteggiamento tenuto da Cesare v. il giudizio di Svetonio “Quando Valerio Catullo gli fece le sue scuse,
pur non nascondendosi che egli lo aveva marchiato in eterno con quei pochi versi su Mamurra, lo trattenne a
cena, e continuò a frequentare, come soleva, la casa di suo padre.”.
I versi di Catullo sono ricordati anche in un passo del quarto libro degli Annali di Tacito (IV, 35[già riportato in
originale e trad. sub Cremuzio Cordo]. A parlare è Cremuzio Cordo che si sta difendendo davanti a Tiberio
dall’accusa di aver lodato nella sua opera storiografica M.Bruto e C.Cassio, gli uccisori di Cesare.
“Le poesie di Bibaculo e di Catullo sono piene di offese ai Cesari, eppure lo stesso divo Giulio e il divo
Augusto le tollerarono e le lasciarono sussistere, non saprei se più per indulgenza o piuttosto per saggezza.
Infatti, se uno non raccoglie, disprezzandola, la calunnia ingiuriosa, essa cade nel silenzio; se invece si
sdegna e si adira essa può anche sembrare vera.”
Catull., carm. 29
Quis hoc potest videre, quis potest pati,
nisi impudicus et vorax et aleo,
Mamurram habere quod comata Gallia
habebat ante et ultima Britannia?
cinaede Romule, hoc videbis et feres?
et ille nunc superbus et superfluens
perambulabit omnium cubilia,
ut albulus columbus aut Adoneus?
cinaede Romule, hoc videbis et feres?
es impudicus et vorax et aleo.
eone nomine, imperator unice,
fuisti in ultima occidentis insula,
ut ista vestra diffututa mentula
ducenties comesset aut trecenties?
quid est alid sinistra liberalitas?
parum expatravit an parum helluatus est?
paterna prima lancinata sunt bona,
secunda praeda Pontica, inde tertia
Hibera, quam scit amnis aurifer Tagus.
eine Galliae optima et Britanniae?
quid hunc, malum, fovetis? aut quid hic potest
nisi uncta devorare patrimonia?
eone nomine, urbis o piissimi,
socer generque, perdidistis omnia?
Chi può vederlo, chi può permetterlo, se non è uno svergognato e un ghiottone e un biscazziere,
che un Mamurra abbia quanto di sugo può dare la Gallia capelluta e la Britannia ch'è all'estremità
del mondo? Romolo bardassa, vedrai queste cose, e le permetterai? E quello ora, gonfio e tronfio,
s'è spassato per i letti di tutti, quel piccioncino bianco, quell'Adone! Romolo bardassa, vedrai
queste cose, e le permetterai? E allora sei uno svergognato e un ghiottone e un biscazziere. A
questo titolo, imperatore unico, sei stato nell'isola dell'Occidente ch'è all'estremità del mondo,
perché codesto vostro bischero mencio si mangiasse i milioni a venti e a trenta? Che altro è
questo, se non ciò che si dice sperpero di mano ladra? Poco ha scialacquato, o ha trangugiato
poco? I primi a essere polverizzati sono stati i beni paterni, seconda la preda del Ponto, poi terza
la preda di Spagna: ne sa qualcosa l'oro portato dalla corrente del Tago. E costui è lo spauracchio
delle Gallie e delle Britannie! Perché, in vostra malora, vi riscalducciate costui? che può fare costui
se non ingollare succosi patrimoni? A questo titolo, o voi ricconi dell'urbe, suocero e genero, avete
messo a sacco il mondo?
Traduzione di G.B. Pighi, Torino, Utet, 1974 (al Canova)
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163
Catull., carm. 57
Pulchre convenit improbis cinaedis,
Mamurrae pathicoque Caesarique.
nec mirum: maculae pares utrisque,
urbana altera et illa Formiana,
impressae resident nec eluentur:
morbosi pariter, gemelli utrique,
uno in lecticulo erudituli ambo,
non hic quam ille magis vorax adulter,
rivales socii puellularum.
pulchre convenit improbis cinaedis.
Stanno bene in coppia quei figuri equivoci, Mamurra il bardassa e Cesare. Nessuna meraviglia:
sull'uno e sull'altro pari è il marchio, urbano dell'uno e formiano di quell'altro, ch'è impresso, per
sempre, indelebile: gemelli fradici l'uno al pari dell'altro, in un solo lettuccio saputelli ambedue, non
questo più di quello ghiottone e adultero, concorrenti e consoci in fatto di ragazzette. Stanno bene
in coppia quei figuri equivoci.
Traduzione di G.B. Pighi, Torino, Utet, 1974 (al Canova)
Canto nuziale
Composto nel 59 a.C.
Catull., carm. 61
Collis o Heliconii
cultor, Uraniae genus,
qui rapis teneram ad virum
virginem, o Hymenaee Hymen,
o Hymen Hymenaee,
cinge tempora floribus
suave olentis amaraci,
flammeum cape, laetus huc,
huc veni, niveo gerens
luteum pede soccum;
excitusque hilari die,
nuptialia concinens
voce carmina tinnula,
pelle humum pedibus, manu
pineam quate taedam.
namque Iunia Manlio,
qualis Idalium colens
venit ad Phrygium Venus
iudicem, bona cum bona
nubet alite virgo,
floridis velut enitens
myrtus Asia ramulis,
quos Hamadryades deae
ludicrum sibi roscido
nutriuntur honore.
quare age, huc aditum ferens,
perge linquere Thespiae
rupis Aonios specus,
nympha quos super irrigat
frigerans Aganippe,
ac domum dominam voca
F. D’Alessi © 2002
coniugis cupidam novi,
mentem amore revinciens,
ut tenax hedera huc et huc
arborem implicat errans.
vosque item simul, integrae
virgines, quibus advenit
par dies, agite in modum
dicite, 'o Hymenaee Hymen,
o Hymen Hymenaee,'
ut libentius, audiens
se citarier ad suum
munus, huc aditum ferat
dux bonae Veneris, boni
coniugator amoris.
quis deus magis anxiis
est petendus amantibus?
quem colent homines magis
caelitum, o Hymenaee Hymen,
o Hymen Hymenaee?
te suis tremulus parens
invocat, tibi virgines
zonula soluunt sinus,
te timens cupida novus
captat aure maritus.
tu fero iuveni in manus
floridam ipse puellulam
dedis a gremio suae
matris, o Hymenaee Hymen,
o Hymen Hymenaee.
nil potest sine te Venus,
fama quod bona comprobet,
F. D'ALESSI - Letteratura latina - Parte II,1 - Il periodo classico
commodi capere: at potest
te volente. quis huic deo
compararier ausit?
nulla quit sine te domus
liberos dare, nec parens
stirpe nitier: at potest
te volente. quis huic deo
compararier ausit?
quae tuis careat sacris,
non queat dare praesides
terra finibus: at queat
te volente. quis huic deo
compararier ausit?
claustra pandite ianuae!
virgo, ades! viden ut faces
splendidas quatiunt comas?
<cur moraris? abit dies:
prodeas, nova nupta.
neve respicias domum,
quae fuit tua, neu pedes>
tardet ingenuus pudor.
quem tamen magis audiens
fles, quod ire necessest.
flere desine: non tibi, Aurunculeia, periculumst,
nequa femina pulchrior
clarum ab Oceano diem
viderit venientem.
talis in vario solet
divitis domini hortulo
stare flos hyacinthinus.
sed moraris, abit dies:
prodeas, nova nupta.
prodeas, nova nupta, si
iam videtur, et audias
nostra verba. viden? faces
aureas quatiunt comas:
prodeas, nova nupta.
non tuus levis in mala
deditus vir adultera,
probra turpia persequens,
a tuis teneris volet
secubare papillis,
lenta sed velut assitas
vitis implicat arbores,
implicabitur in tuum
complexum. sed abit dies:
prodeas, nova nupta.
o cubile, quod omnibus
<dignum amoribus instruit
veste purpurea Tyros,
fulcit India eburnei>
candido pede lecti,
quae tuo veniunt ero,
quanta gaudia, quae vaga
nocte, quae medio die
gaudeat! sed abit dies:
prodeas, nova nupta.
tollite, o pueri, faces:
flammeum video venire.
ite concinite in modum
'io Hymen Hymenaee io,
F. D’Alessi © 2002
164
io Hymen Hymenaee.'
ne diu taceat procax
Fescennina iocatio,
nec nuces pueris neget
desertum domini audiens
concubinus amorem.
da nuces pueris, iners
concubine! satis diu
lusisti: nucibus iuvet
iam servire Talassio.
concubine, nuces da.
sordebant tibi vilicae,
concubine, hodie atque heri:
nunc tuum cinerarius
tondet os. miser ah miser
concubine, nuces da.
diceris male te a tuis
unguentate glabris marite
abstinere, sed abstine.
io Hymen Hymenaee io,
io Hymen Hymenaee.
scimus haec tibi quae licent
soli cognita, sed marito
ista non eadem licent.
io Hymen Hymenaee io,
io Hymen Hymenaee.
nupta, tu quoque, quae tuus
vir petet, cave ne neges,
ni petitum aliunde eat.
io Hymen Hymenaee io,
io Hymen Hymenaee.
en tibi domus ut potens
et beata viri tui!
quae tibi sine serviat–
io Hymen Hymenaee io,
io Hymen Hymenaee–
usque dum tremulum movens
cana tempus anilitas
omnia omnibus adnuit.
io Hymen Hymenaee io,
io Hymen Hymenaee.
transfer omine cum bono
limen aureolos pedes,
rasilemque subi forem.
io Hymen Hymenaee io,
io Hymen Hymenaee.
aspice, intus ut accubans
vir tuus Tyrio in toro
totus immineat tibi.
io Hymen Hymenaee io,
io Hymen Hymenaee.
illi non minus ac tibi
pectore urit in intimo
flamma, sed penite magis.
io Hymen Hymenaee io,
io Hymen Hymenaee.
mitte bracchiolum teres,
praetextate, puellulae:
iam cubile adeat viri.
io Hymen Hymenaee io,
io Hymen Hymenaee.
vos, bonae senibus viris
F. D'ALESSI - Letteratura latina - Parte II,1 - Il periodo classico
cognitae bene feminae,
collocate puellulam.
io Hymen Hymenaee io,
io Hymen Hymenaee.
iam licet venias, marite:
uxor in thalamo tibist,
ore floridulo nitens,
alba parthenice velut
luteumve papaver.
at, marite, ita me iuvent
caelites, nihilo minus
pulcher es, neque te Venus
neglegit. sed abit dies:
perge, ne remorare.
non diu remoratus es,
iam venis. bona te Venus
iuverit, quoniam palam
quod cupis cupis, et bonum
non abscondis amorem.
ille pulveris Africi
siderumque micantium
subducat numerum prius,
qui vestri numerare vult
multa milia ludi.
ludite ut libet, et brevi
165
liberos date. non decet
tam vetus sine liberis
nomen esse, sed indidem
semper ingenerari.
Torquatus volo parvulus
matris e gremio suae
porrigens teneras manus
dulce rideat ad patrem
semihiante labello.
sit suo similis patri
Manlio, ut facie omnibus
noscitetur ab insciis
et pudicitiam suae
matris indicet ore.
talis illius a bona
matre laus genus approbet,
qualis unica ab optima
matre Telemacho manet
fama Penelopaeo.
claudite ostia, virgines:
lusimus satis. at, boni
coniuges, bene vivite et
munere assiduo valentem
exercete iuventam!
O del colle d'Elicona abitatore, figlio della celeste Musa, che rapisci la tenera vergine per darla al
marito, oh, Imeneo Imene, oh, Imene Imeneo, cingi le tempie dei fiori dell'odorosa maggiorana,
prendi il velo color fiamma, giulivo qua vieni, qua, il niveo piede calzato nel giallo socco, e brioso
nel felice giorno con noi cantando i nuziali canti con voce Argentina, batti in cadenza il suolo, nella
mano agita la fiaccola di pino. Ché Vinia a Manlio, quale dal bosco Idalio venne al giudice frigio
Venere, buona vergine con buono augurio, si sposa, brillante come nei prati asii mirto coi suoi
ramoscelli in fiore, che le dee degli alberi per loro delizia nutrono con l'umore della rugiada. Suvvia,
per volgere il passo in qua lascia subito le aonie grotte della montagna di Tespie, cui dall'alto
sgorgando irriga la fresca fonte d'Aganippe, e alla sua casa la padrona di casa chiama, l'anima,
desiosa del novello sposo, legandole d'amore a più doppi, come la tenace edera qua e là errando
avvinghia il tronco.
E voi anche, in coro, o pure vergini, alle quali s'avvicina un giorno come questo, in cadenza dite
"Oh, Imeneo Imene, oh, Imene Imeneo", perché più volentieri, sentendosi chiamare e chiamare al
suo ufficio, qui rivolga il passo egli che conduce la buona Venere, egli che congiunge il buon
amore.
A quale dio dovranno rivolgersi con maggior fiducia gli amati amanti? quale dei celesti
onoreranno con maggior venerazione gli uomini? - [CORO] Oh, Imeneo Imene, oh, Imene Imeneo!
- Te per i suoi il tremulo padre invoca; in grazia tua le vergini liberano dalla cintura la veste; te, in
ansia, con orecchio cupido di sentire il tuo grido, attende il marito novello; tu al fiero giovane dài in
potere, tu, la fanciulla in fiore, tolta dal grembo della sua mamma.
[CORO] Oh, Imeneo Imene, oh, Imene Imeneo! Nessun piacere, senza te, Venere, cui buona
fama approvi, può prendere: ma può, se tu vuoi. Chi a questo dio oserà paragonarsi? Nessuna
famiglia, senza te, ha modo d'aver figli legittimi, nessun padre d'appoggiarsi ai suoi rampolli: ma
può, se tu vuoi. - [CORO] Chi a questo dio oserà paragonarsi? - La terra che dei tuoi riti sia priva
non avrà modo di dar difensori alle sue province: ma avrà modo, se tu vuoi. - [CORO] Chi a questo
dio, oserà paragonarsi? Le sbarre! spalancate la porta! La vergine è là. Vedi come le fiaccole squassano la chioma di
luce. Ma indugia. Se n'è andato il giorno: vieni fuori, sposa ,novella, e non voltarti a riguardare la
casa ch'era tua, tuoi pied' non tardi pudore di vergine. Pure vuol dargli ascolto, e piange, perché è
necessario partire. Non pianger più. Per te, Aurunculeia, non c'è pericolo che altra donna più bella
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F. D'ALESSI - Letteratura latina - Parte II,1 - Il periodo classico
166
sereno dall'Oceano il giorno abbia visto sorgere: come te, nel giardino pieno di colori d'un ricco
signore, sta diritto un fiore di giacinto. Ma indugi. Se n'è andato il giorno. - [CORO] Vieni fuori,
sposa novella! - Vieni fuori, sposa novella, se ormai ti pare, e ascolta le nostre parole. Vedi, le
fiaccole squassano la chioma d'oro. - [CORO] Vieni fuori, sposa novella! - No: non, volubile, il tuo
marito dedito a malvagia adultera, perdendosi in vergognosi disordini, vorrà mai addormentarsi
lontano dalle tue giovani poppine; anzi come la flessuosa vigna avvinghia gli alberi piantati vicino,
s'avvinghierà nel tuo abbraccio. Ma se n'è andato il giorno. - [CORO]Vieni fuori, sposa novella! Oh letto, in cui Venere ogni seduzione compose, è Presso il momento, che toccherà ella le coltri,
stese sul fusto intarsiato d'avorio, col candido piede: quali si preparano al tuo padrone e quanto
grandi gioie, da godere nella troppo breve notte e a mezzo del gìorno! Ma se n'è andato il giorno. [CORO]Vieni fuori, sposa novella! - Alzate, ragazzi, le fiaccole: vedo venire il velo di fiamma. Sù,
con noi cantate in cadenza "Viva, Imene Imeneo, viva!" - [CORO] Viva, Imene Imeneo!
Non tacciano a lungo i procaci scherzi fescennini; e le noci ai ragazzi non neghi il mignone,
sentendo che il padroncino ha disertato il suo amore. Da' le noci ai ragazzi, disoccupato mignone:
abbastanza a lungo hai giocato con le noci: ora s'è deciso che tu serva a Talassio. - [CORO]
Mignone, da' le noci! Schifavi le villane, mignone, oggi e ieri; ora quello che ti faceva i riccioli te li
tosa. Ahi, povero, povero - [CORO] mignone, da' le noci! - Si dice che mal volentieri t'astieni, o
profumato sposo, dai tuoi depilati. Ma astienti! Viva, Imene Imeneo, viva! - [CORO] Viva, Imene
Imeneol - Sappiamo che le sole cose che sono lecite praticavi. Ma a uno sposo codeste stesse
non sono lecite. - [CORO] Viva, Imene Imeneo, viva, viva, Imene Imeneo! - Sposa, anche tu, ciò
che il tuo marito chiederà, bada non rifiutargli, che non vada a chiederlo altronde. - [CORO] Viva,
Imene Imeneo, viva, viva, Imene Imeneo! Eccoti la casa, e come potente e come ricca, del tuo marito: permetti che sia al tuoi ordini, [CORO] Viva, Imene Imeneo, viva, viva, Imene Imeneo! fino agli anni che la bianca vecchiaia,
movendo le tremule tempie, dice di sì, in tutto, a tutti. - [CORO] Viva, Imene Imeneo, viva, viva,
Imene Imeneo! Poni oltre la soglia, è buon segno, i piedini calzati d'oro: entra dalla liscia porta. rcoroi Viva, Imene Imeneo, viva, viva, Imene Imeneo! - Vedi, di là c'è un convitato, uno solo: è tuo
marito, che dal cuscino di porpora tutto si protende verso te. [CORO] Viva
Imene Imeneo, viva, viva, Imene Imeneo! - A lui non meno che a te brucia dentro l'anima la
fiamma, ma più dentro. -[CORO] Viva, Imene Imeneo, viva, viva, Imene Imeneo! - Lascia il braccio
tornito della giovinetta, o paggio: ormai s'appressi al letto del marito. - [CORO] Viva, Imene
Imeneo, viva, viva, Imene Imeneo! - Oh, buone signore, ciascuna fedele al suo vecchio marito,
coricate la giovinetta. - [CORO] Viva, Imene Imeneo, viva, viva, Imene Imeneo! Ora puoi venire, sposo: la tua moglie è nel tuo talamo, col visetto ch'è un fiore, raggiante come la
pratellina bianca o il rosolaccio rosso. Però, sposo, così m'aiutìno i celesti, tu non sei meno bello e
Venere non ti trascura. Ma se n'è andato il giorno: avvìati, non indugiare. Non ti sei indugiato tanto:
già vieni. Venere è buona, t'aiuti, poiché apertamente quel che desideri, lo desideri: è buono e non
lo nascondi, il tuo amore. Quegli, della sabbia d'Africa e delle stelle scintillanti calcoli prima il
numero, che voglia numerare del vostro gioco le molte migliaia.
Giocate a piacer vostro: e fate presto a dar figli. Non è bello che resti senza figli un nome tanto
antico, ma dalla stessa fonte deve sempre rigermogliare. Un l'orquato voglio, piccino, che dal
grembo di sua madre porgendo le tenere mani dolce rida al padre con socchiusa la boccuccia. Sia
simile al suo babbo Manlio, e facilmente da tutti sia riconosciuto, anche da quelli che non conosce,
e l'onestà della mamma attesti col suo viso. Così egli abbia lode dall'essere nato da onesta madre,
come singolare fama durevolmente onora Telemaco, il figlio di Penelope, per merito
dell'irreprensibile madre.
Chiudete gli usci, o vergini: il nostro gioco è durato abbastanza. Ma voi, buoni sposi, statevi bene
e, nell'ufficio che le appartiene, assidui, esercitate la sana giovinezza.
Note di G.B. Pighi, UTET - LXI (a. 59). Canto nuziale. - Da Tebe di Beozia chi va nel paese degli Aoni, che
comprende il massiccio dell'Elicona (v. i), arriva prima a Tespie (v. 28), di qui salendo verso il bosco delle
Muse, sul versante settentrionale del monte, ha a sinistra la fontana della ninfa Aganippe (v. 30); nella grotta
d'Aganippe abita Imenèo, il figlio della musa Urania (V. 2). Il santuario delle Muse presso Aganippe era
stato da poco restaurato da Filetèro figlio di Eumene. - La sposa è chiamata Vinia (v. i6) e A-urunculeia (v.
86). Vinia è accostato al gentilizio dello sposo Manlius in maniera che direi ufficiale: il matrimonio è un patto
d'alleanza tra due gentes, la Manlia e la Vinia. L'altro nome A urunculeia è in un passo che esalta la
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F. D'ALESSI - Letteratura latina - Parte II,1 - Il periodo classico
167
bellezza della giovane donna, forse matre pulchra filia pulchrior; e Aurunculeia può essere stato il nome
della madre della sposa. Questo è il più antico esempio noto di doppio gentilizio femminile. - La myrtus Asia
(v. 22) cresce nella macchia intorno alla palus Asia celebre per i suoi cigni, nella valle del fiume CaCistro,
che sfocia a Efeso. - Talasio (v. I34) è il grido nuziale italico, come hymén il greco: ne sono nati due dèi. Un severo precettore plautino (Curc. 37-38) ci fa conoscere il codice morale del tempo: dum te abstineas
nupta, vidua, virgine, iuventute et pueris liberis (cioè da persone che sono in manu d'altri), ama quid lubet.
Queste sono le cose lecite a uno scapolo (vv. 146-147), ma all'uomo sposato non è permesso tenere il
concubinus (vv. I47-148)- Il poeta, dice Catullo un'altra volta
(XVI 5-6), il buon poeta (pius), è necessario che sia lui castus (puro, che s'astìene dalle cose quae -non
licent), ma non è necessario che siano casti i suoi versiculi.
Traduzione e note di G.B. Pighi, Torino, Utet, 1974 (al Canova)
Contrasto nuziale (il titolo è di G.B.Pighi)
Composto nel 59 a.C.
Catull., carm. 62
Vesper adest: iuvenes, consurgite: Vesper Olympo
exspectata diu vix tandem lumina tollit.
surgere iam tempus, iam pingues linquere mensas:
iam veniet virgo, iam dicetur hymenaeus.
Hymen o Hymenaee, Hymen ades o Hymenaee!
Cernitis, innuptae, iuvenes? consurgite contra:
nimirum Oetaeos ostendit Noctifer ignes.
sic certest: viden ut perniciter exsiluere?
non temere exsiluere: canent quod vincere par est.
Hymen o Hymenaee, Hymen ades o Hymenaee!
Non facilis nobis, aequales, palma paratast:
aspicite, innuptae secum ut meditata requirunt.
non frustra meditantur: habent memorabile quod sit.
nec mirum, penitus quae tota mente laborant.
nos alio mentes, alio divisimus aures;
iure igitur vincemur: amat victoria curam.
quare nunc animos saltem convertite vestros:
dicere iam incipient, iam respondere decebit.
Hymen o Hymenaee, Hymen ades o Hymenaee!
Hespere, quis caelo fertur crudelior ignis?
qui natam possis complexu avellere matris,
complexu matris retinentem avellere natam,
et iuveni ardenti castam donare puellam.
quid faciunt hostes capta crudelius urbe?
Hymen o Hymenaee, Hymen ades o Hymenaee!
Hespere, quis caelo lucet iucundior ignis?
qui desponsa tua firmes conubia flamma,
quae pepigere viri, pepigerunt ante parentes,
nec iunxere prius quam se tuus extulit ardor.
quid datur a divis felici optatius hora?
Hymen o Hymenaee, Hymen ades o Hymenaee!
Hesperus e nobis, aequales, abstulit unam:
<namque suo adventu fert omnibus ille pericla;
nocte timent cuncti, nisi quos aliena petentes,
Hespere, tu radiis properas accendere blandis.
at libet iniusta pueris te extollere laude.
quid tum, si laudant, sibi mox quem quisque timebunt?
Hymen o Hymenaee, Hymen ades o Hymenaee!
Hespere, te innuptae nunc falso crimine laedunt:>
namque tuo adventu vigilat custodia semper;
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F. D'ALESSI - Letteratura latina - Parte II,1 - Il periodo classico
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nocte latent fures, quos idem saepe revertens,
Hespere, mutato comprendis nomine Eoos.
at libet innuptis ficto te carpere questu.
quid tum, si carpunt, tacita quem mente requirunt?
Hymen o Hymenaee, Hymen ades o Hymenaee!
Ut flos qui in saeptis secretus nascitur hortis,
ignotus pecori, nullo convulsus aratro,
quem mulcent aurae, firmat sol, educat imber,
<iam iam se expandit suavesque exspirat odores;>
multi illum pueri, multae optavere puellae:
idem cum tenui carptus defloruit ungui,
nulli illum pueri, nullae optavere puellae:
sic virgo, dum intacta manet, dum cara suis est;
cum castum amisit polluto corpore florem,
nec pueris iucunda manet, nec cara puellis.
Hymen o Hymenaee, Hymen ades o Hymenaee!
Ut vidua in nudo vitis quae nascitur arvo,
numquam se extollit, numquam mitem educat uvam,
sed tenerum prono deflectens pondere corpus
iam iam contingit summum radice flagellum;
hanc nulli agricolae, nulli coluere iuvenci:
at si forte eademst ulmo coniuncta marita,
multi illam agricolae, multi coluere iuvenci:
sic virgo dum intacta manet, dum inculta senescit;
cum par conubium maturo tempore adeptast,
cara viro magis et minus est invisa parenti.
et tu ne pugna cum tali coniuge, virgo.
non aequumst pugnare, pater cui tradidit ipse,
ipse pater cum matre, quibus parere necessest.
virginitas non tota tuast, ex parte parentumst:
tertia pars patris est, pars est data tertia matri,
tertia sola tuast: noli pugnare duobus,
qui genero sua iura simul cum dote dederunt.
Hymen o Hymenaee, Hymen ades o Hymenaee!
[UNO DEI GIOVANI]
Vespero ci vede! Giovani, alzatevi. Vespero nel cielo, aspettato a lungo, finalmente, ancor alto,
raggia. Già è tempo d'alzarsi, già di lasciare le laute mense: ormai verrà la vergine, ormai si dirà
l'imeneo.
[TUTTI]
Imene oh Imeneo, Imene sii presente oh Imeneo!
[UNA DELLE GIOVANlì
Vedete, o libere da nozze, i giovani? Alzatevi di rincontro. Non c'è da meravigliarsi: la stella
della sera ha mostrato i suoi fuochi sull'Eta. Così è veramente. Vedi come prestamente sono
balzati sù? Non senza perché sono balzati sù: canteranno, e merita si vada a vedere.
[TUTTE]
Imene oh Imeneo, Imene sii presente oh Imeneo!
[UNO DEI GIOVANI]
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F. D'ALESSI - Letteratura latina - Parte II,1 - Il periodo classico
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Non facile palma, compagni, ci è posta innanzi. Vedete, le libere da nozze come tra sé ripetono
il canto già provato. Non senza scopo lo provano: hanno qualcosa di memorabile. Non c'è da
meravigliarsi: esse s'impegnano a fondo, con tutta l'anima. Noi ad altro la mente, ad altro abbiamo
distratto le orecchie: giustamente dunque saremo vinti: vittoria vuol fatica. Perciò, ora almeno,
volgete l'animo a ciò che preme: ormai cominceranno a dire, ormai converrà rispondere.
[TUTTII
Imene oh Imeneo, Imene sii presente oh Imeneo!
[UNA DELLE GIOVANI]
Espero, qual va per il cielo che sia più crudele stella? che puoi la figlia strappare all'abbraccio
della madre, all'abbraccio della madre strappare la figlia che non vuole lasciarla, e al giovane
ardente far dono della pura fanciulla. Fanno nemici, in città sforzata, cosa più crudele?
[TUTTE]
Imene oh Imeneo, Imene sii presente oh Imeneo!
[UNO DEI GIOVANI]
Espero, quale splende nel cielo che sia più gentile stella? che i pattuiti connubi confermi con la
tua fiamma, cui stabilì lo sposo, stabilirono prima i genitori: e non li congiungono fin quando non
brillò alto il tuo ardore. Dànno gli dèi, di quest'ora avventurata, cosa più desiderabile?
[TUTTI]
Imeneo oh Imeneo, Imene sii presente oh Imeneo!
[UNA DELLE GIOVANI]
Espero di tra noi, compagne, ne rubò una: perché col suo arrivo egli tutti i ladri ridesta. Con
debole raggio tu guidi l'orme degl'insonni ladri, astro della sera, cui tutti disperdi tornando astro del
maltiìto. alla a quelli' serve esaltarti seròtino con finta lode: e ci come accade che t'odiino, con
nome mutato, o astro del mattino?
[TUTTE]
Imene oh Imeneo, Imene sii presente oh lmeneo!
[UNO DEI GIOVANI]
Espero, le libere da nozze li colpiscono con una falsa accusa: ché al tuo arrivo sempre son
deste le guardie. Di notte passano inosservati i ladri, astro della sera, che spesso, tornando a
mattina, sorprendi, mutato il nome in astro del mattino. Ala piace alle libere da nozze colpirti con
finte querimonie; e poi come accade che colpiscono chi, in segreto, invocano?
[TUTTI]
Imene oh Imeneo, Imene sii presente oh Imeneo!
[UNA DELLE GIOVANI]
Come fiore nasce appartato in chiuso giardino, ignoto alle bestie, da nessun aratro strappato,
cui blandisce la brezza, rafforza il sole, alimenta la pioggia, già già si leva e spira soavi odori: molti
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F. D'ALESSI - Letteratura latina - Parte II,1 - Il periodo classico
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giovani, molte giovani l'hanno desiderato: ma quando sfiorì còlto da sottile unghia, nessun
giovane, nessuna giovane l'ha desiderato: così la vergine: finché rimane intatta, fino allora è cara
ai suoi; quando del corpo violato il puro fiore ha perduto, né ai giovani rimane gradita né cara alle
giovani.
[TUTTE]
Imene oh Imeneo, Imene sii presente oh Imeneol
[UNO DEI GIOVANI]
Come vite che vedova nasce in un campo brullo, non mai si leva, non mai porta a maturità l'uva,
ma sotto il peso che l'abbassa piegando il tenero corpo già già tocca le barbe col sarmento più
alto: nessun agricoltore, molti giovenchi le vanno vicino: ma se avviene che all'olmo sia maritata,
molti agricoltori, nessun giovenco le va vicino: così la vergine: finché rimane intatta, fin allora
selvatica invecchia; quando ha trovato, nel tempo conveniente, un partito del suo paraggio, è cara
al marito, in più, e, in meno, non è odiosa al padre.
Anche tu non combattere contro tale marito, o vergine. Non è giusto con lui combattere, al
quale t'ha consegnata tuo padre, tuo padre con la madre, ai quali è necessario ubbidire. La
verginità non è tutta tua, in parte è dei genitori: una terza parte al padre, e una terza parte fu
assegnata alla madre, una terza parte soltanto è tua. Non voler combattere con due, che al genero
i loro diritti hanno, insieme con la dote, trasmesso.
[TUTTI I GIOVANI E TUTTE LE GIOVANI]
Imene oh Imeneo, Imene sii presente oh Imeneo!
Traduzione di G.B. Pighi, Torino, Utet, 1974 (al Canova)
Attis
Catull., carm. 63
Composto nel 56 a.C.
Super alta vectus Attis
celeri rate maria,
Phrygium ut nemus citato
cupide pede tetigit
adiitque opaca silvis
redimita loca deae,
stimulatus ibi furenti
rabie, vagus animi,
devulsit ili acuto
sibi pondera silice.
itaque ut relicta sensit
sibi membra sine viro,
etiam recente terrae
sola sanguine maculans,
niveis citata cepit
manibus leve typanum,
typanum tuum, Cybebe,
tua, mater, initia,
quatiensque terga tauri
teneris cava digitis
F. D’Alessi © 2002
canere haec suis adortast
tremebunda comitibus:
'agite ite ad alta, Gallae,
Cybeles nemora simul,
simul ite, Dindymenae
dominae vaga pecora,
aliena quae petentes
velut exules loca
sectam meam secutae
duce me mihi comites
rapidum salum tulistis
truculentaque pelagi,
et corpus evirastis
Veneris nimio odio;
hilarate erae citatis
erroribus animum.
mora tarda mente cedat:
simul ite, sequimini
Phrygiam ad domum Cybebes,
Phrygia ad nemora deae,
F. D'ALESSI - Letteratura latina - Parte II,1 - Il periodo classico
ubi cymbalum sonat vox,
ubi tympana reboant,
tibicen ubi canit Phryx
curvo grave calamo,
ubi capita Maenades vi
iaciunt hederigerae,
ubi sacra sancta acutis
ululatibus agitant,
ubi suevit illa divae
volitare vaga cohors,
quo nos decet citatis
celerare tripudiis.'
simul haec comitibus Attis
cecinit, notha mulier,
thiasus repente linguis
trepidantibus ululat,
leve tympanum remugit,
cava cymbala recrepant,
viridem citus adit Idam
properante pede chorus.
furibunda simul anhelans
vaga vadit, animam agens,
comitata tympano Attis
per opaca nemora dux,
veluti iuvenca vitans
onus indomita iugi:
rapidae ducem sequuntur
Gallae properipedem.
itaque, ut domum Cybebes
tetigere lassulae,
nimio e labore somnum
capiunt sine Cerere.
piger his labante languore
oculos sopor operit;
abit in quiete molli
rabidus furor animi.
sed ubi oris aurei Sol
radiantibus oculis
lustravit aethera album,
sola dura, mare ferum,
pepulitque noctis umbras
vegetis sonipedibus,
ibi Somnus excitam Attin
fugiens citus abiit:
trepidante quem recepit
dea Pasithea sinu.
ita de quiete molli
rapida sine rabie
simul ipsa pectore Attis
sua facta recoluit,
liquidaque mente vidit
sine quis ubique foret,
animo aestuante rursus
reditum ad vada tetulit.
ibi maria vasta visens
lacrimantibus oculis,
patriam allocuta maestast
ita voce miseriter:
'patria o mei creatrix,
patria o mea genetrix,
ego quam miser relinquens,
dominos ut erifugae
F. D’Alessi © 2002
171
famuli solent, ad Idae
tetuli nemora pedem,
ut apud nivem et ferarum
gelida stabula forem,
et earum operta adirem
furibunda latibula,
ubinam aut quibus locis te
positam, patria, reor?
cupit ipsa pupula ad te
sibi derigere aciem,
rabie fera carens dum
breve tempus animus est.
egone a mea remota haec
ferar in nemora domo?
patria, bonis, amicis,
genitoribus abero?
abero foro, palaestra,
stadio et gyminasiis?
miser ah miser, querendumst
etiam atque etiam, anime.
quod enim genus figuraest,
ego non quod obierim?
ego puber, ego adulescens,
ego ephebus, ego puer,
ego gymnasi fui flos,
ego eram decus olei:
mihi ianuae frequentes,
mihi limina tepida,
mihi floridis corollis
redimita domus erat,
linquendum ubi esset orto
mihi sole cubiculum.
ego nunc deum ministra et
Cybeles famula ferar?
ego Maenas, ego mei pars,
ego vir sterilis ero?
ego viridis algida Idae
nive amicta loca colam?
ego vitam agam sub altis
Phrygiae columinibus,
ubi cerva silvicultrix,
ubi aper nemorivagus?
iam iam dolet quod egi,
iam iamque paenitet.'
roseis ut hic labellis
sonitus citus abiit,
dominae deorum ad aures
nova nuntia referens,
ibi iuncta iuga resolvens
Cybele leonibus
laevumque pecoris hostem
stimulans ita loquitur.
'agedum,' inquit 'age ferox i,
fac ut hanc furor agitet,
fac uti furoris ictu
reditum in nemora ferat,
mea libere nimis quae
fugere imperia cupit.
age caede terga cauda,
tua verbera patere,
fac cuncta mugienti
fremitu loca retonent,
F. D'ALESSI - Letteratura latina - Parte II,1 - Il periodo classico
rutilam ferox torosa
cervice quate iubam.'
ait haec minax Cybebe
religatque iuga manu.
ferus ipse sese adhortans
rabidum incitat animum,
vadit, fremit, refringit
virgulta pede vago.
at ubi umida albicantis
loca litoris adiit,
teneramque vidit Attin
172
prope marmora pelagi,
facit impetum. illa demens
fugit in nemora fera:
ibi semper omne vitae
spatium famula fuit.
dea, magna dea, Cybebe,
dea, domina Dindymi,
procul a mea tuus sit
furor omnis, era, domo:
alios age incitatos,
alios age rabidos.
Attis, traversati i profondi mari su veloce legno, come bramosamente toccò con lesto piede la
toresta di Frigia e raggiunse gli oscuri, ricìnti di selve, dominii della dea, aizzato da furente rabbia,
uscito del senno, strappò con aguzza selce, a sé, i pesi dell'inguine. Or come s'accorse delle
membra rimaste prive del maschio, ancora macchiando il terreno di fresco sangue, con le bianche
mani lesta prese il leggiero tamburino, il tamburino, tromba di Cibele, dei tuoi misteri, o Madre: e
battendo sulla cava pelle taurina con le delicate dita, questo cominciò a caritare, tutta un tremito,
alle compagne:
"Sù venite insieme, o Galle, negli alti boschi di Cibele! Insieme venite, vagabonde bestie della
signora del Dindimo, che in cerca di straniere terre, com'esuli, nella mia comitiva siete state, sotto
la mia guida, a me compagne, e le salse correnti avete sofferto e la violenza del pelago, e il corpo
avete evirato per aborrimento di Venere: rallegrate, leste, con scorribande il cuore della padrona!
Via dall'animo l'indugio che lo attarda: insieme venite, seguitemi: siamo in Frigia, nella casa di
Cibele, in Frigia, nei boschi della dea, dove a chiaro scroscio di piatti risponde fragore di tamburini,
dove l'oboista frigio soffia cavernose note dal ricurvo tubo, dove mènadi scrollano forte il capo,
cinte d'edera, dove i riti santi celebrano con acuti ululi, dove usa volteggiare la corte della dea, la
corte vagabonda! Là è dovere che accoriamo, leste, di foga!"
Com'ebbe Attis alle compagne cantato così, la mentita femmina, lo stormo sacro a un tratto da
gole in falsetto ulula, il leggiero tamburino brontola, i cavi piatti scrosciano, accorre al verde Ida
con presto piede la brigata. Furibonda vagabonda, va insieme, anelando, tirando il fiato sul rullo
del tamburino, Attis, per gli oscuri boschi, in testa, come giovenca che fugge il carico, indomata
dal giogo: ratte seguono le Galle la capitana che accelera. Or come la casa di Cibele toccarono
stanche le poverette, per la grande fatica prendono sonno, sensa cibo: pigro sopore, col suo
vacillante languore, chiude loro le palpebre, sfuma nell'abbandono del riposo il rabbioso delirio.
Ma quando coi raggianti occhi del disco d'oro il Sole percorse l'etere all'alba, le masse dei
continenti, il mare selvaggio e respinse le notturne ombre con lo scalpito degli ardenti corsieri,
allora il Sonno dal ridesto Attis fuggendo veloce partì: tra i palpitanti veli lo accolse la divina
Pasìtea. Così dopo l'abbandonato riposo, tosto che, libero dalla rabbiosa rapiiìa, Attis nell'animo
ripensò le sue azioni e limpidamente vide senza che e dove fosse, col cuore in tumulto ritornò
sulla spiaggia. Là i mari deserti guardando con gli occhi pieni di lagrime, ella così alla patria con
dolorosa voce parlò pietosamente:
"O patria che m'hai creato, o patria che m'hai generato, ch'io sventurato abbandonai come
abbandonano i servi fuggitivi il padrone, e venni ai boschi dell'lda, per vivere tra la neve e le gelide
dimore delle fiere, cacciandomi furibonda in ogni loro covo: dove, da qual parte posso immaginare
che tu sia? La pupilla, mossa da se stessa, brama verso te indirizzare lo sguardo, mentre libera è
l'anima per un momento dalla rabbiosa furia. lo, lungi dalla mia casa, rientrerò in questi boschi?
assente dalla patria, dalle cose mie, dagli amici, dai genitori? assente dal foro, dalla palestra, dallo
stadio, dai ginnasii? Infelice, oh, infelice! ancora e ancora hai da piangere, anima mia! perché non
c'è figura, per la quale io non abbia perduto la mia: chi sono io? donna, uomo, giovanotto,
ragazzo? io, del ginnasio sono stato il fiore, io, ero l'onore della palestra, gente entrava dalle mie
porte, gente sostava alle mie soglie, la mia casa era tutta infiorata di ghirlande, per quando, sorto il
sole, uscissi dalla mia stanza: e io sacerdotessa e io passero per serva di Cibele? io sarò mènade,
F. D’Alessi © 2002
F. D'ALESSI - Letteratura latina - Parte II,1 - Il periodo classico
173
io parte di me, io uomo impotente? io del verde Ida abiterò i fianchi gelidi al limite delle nevi? io la
vita trarrò, in Frigia, sotto le alte cime dove la cerva s'inselva, dove il cinghiale vaga e
s'immacchia? Oramai mi dolgo per ciò che ho fatto, oramai me ne pento".
Come questo lamento, dalle rosse labbra uscito del giovanotto, veloce entrò nelle orecchie degli
dèi, nuovo pensiero annunziando, allora Cibele, slegato il giogo che congiungeva la pariglia dei
suoi leoni, al tauricida di sinistra così parla aizzandolo: "Sù" dice, "sù, da bravo, va': fa' che, costui,
la furia lo porti, fa' che, punto dalla furia, si riporti nei boschi, costui, che troppo liberamente brama
sfuggire al mio dominio. Sù, sfèrzati con la coda il tergo, senti le tue nerbate, fa' che al fi-emente
ruggito tutta la montagna rimbombi, fiero, sulla nerboruta cervice la fulva criniera scrolla". Queste
minacce Cibele proferisce e slega di sua mano il giogo. La fiera, irritandosi in cuore la stia rapidità,
va, freme, schiaccia di laiicio in lancio i virgulti; ma come rag-iiinse la battjgia della biancheggiante
spiaggia e vide il tenero Attis presso i frangenti, scatta: quello dissennato fugge dentro i boschi
selvaggi. Là sempre, per quanto le durò la vita, fu serva.
Dea, Grande dea, Cibele dea, signora del Dìndimo, ogni tuo furore stia lontano, padrona, dalla mia
casa; altri aizza a furia, altri aizza a vertigine.
Traduzione di G.B. Pighi, Torino, Utet, 1974 (al Canova)
Dialogo del viandante e della porta (il titolo è di G.B.Pighi)
Composto nel 60 a.C.
Catull., carm. 67
O dulci iucunda viro, iucunda parenti,
salve, teque bona Iuppiter auctet ope,
ianua, quam Balbo dicunt servisse benigne
olim, cum sedes ipse senex tenuit,
quamque ferunt rursus nato servisse maligne,
postquam's porrecto facta marita sene.
dic agedum nobis quare mutata feraris
in dominum veterem deseruisse fidem.
'Non ita Caecilio placeam, cui tradita nunc sum
culpa meast, quamquam dicitur esse mea,
nec peccatum a me quisquam pote dicere
quicquam:
verum istuc populi lingua quiete tegit,
qui, quacumque aliquid reperitur non bene factum,
ad me omnes clamant: ianua, culpa tuast.'
Non istuc satis est uno te dicere verbo,
sed facere ut quivis sentiat et videat.
'Qui possum? nemo quaerit nec scire laborat.'
Nos volumus: nobis dicere ne dubita.
'Primum igitur, virgo quod fertur tradita nobis,
falsumst. non illam vir prior attigerat,
languidior tenera cui pendens sicula beta
numquam se mediam sustulit ad tunicam;
sed pater illusi nati violasse cubile
dicitur et miseram conscelerasse domum,
[VIANDANTE]
F. D’Alessi © 2002
sive quod impia mens caeco flagrabat amore,
seu quod iners sterili semine natus erat,
ut quaerendum unde unde foret nervosius illud,
quod posset zonam solvere virgineam.'
Egregium narras mira pietate parentem,
qui ipse sui nati minxerit in gremium.
'Atqui non solum hoc dicit se cognitum habere
Brixia Cycneae supposita speculae,
flavus quam molli praecurrit flumine Mella,
Brixia Veronae mater amata meae,
sed de Postumio et Corneli narrat amore,
cum quibus illa malum fecit adulterium.
dixerit hic aliquis: qui tu istaec, ianua, nosti,
cui numquam domini limine abesse licet
nec populum auscultare, sed hic suffixa tigillo
tantum operire soles aut aperire domum?
saepe illam audivi furtiva voce loquentem
solam cum ancillis haec sua flagitia,
nomine dicentem quos diximus, utpote quae mi
speraret nec linguam esse nec auriculam.
praeterea addebat quendam, quem dicere nolo
nomine, ne tollat rubra supercilia.
longus homost, magnas cui lites intulit olim
falsum mendaci ventre puerperium.'
F. D'ALESSI - Letteratura latina - Parte II,1 - Il periodo classico
174
Oh, cara al dolce marito, cara al padre del marito, salve, e Giove ti colmi d'ogni favore, porta,
che, dicono, hai servito Balbo onestamente una volta, finché il vecchio fu lui il padron di casa, ma
poi, dicono, hai servito il figlio disonestamente, quando, dopo il funerale del vecchio, sei diventata
porta di sposi: sù, parlami di voialtri, com'è nata la voce che hai cambiato carattere e hai smesso
l'antica tua devozione al padrone.
[PORTA]
Non... (così sia di me contento Cecilio, che ora è il mio proprietario) non è mia la colpa, anche
se dicono ch'è mia, e nessuno può dire ch'io abbia mancato in qualcosa: ma, per questa gente,
quel che fa il padrone, lo fa la porta; e,quando da qualche parte si trova alcunché di malfatto, tutti
mi gridano contro "Porta, la colpa è tua".
[VIANDANTE]
Codeste cose non le puoi spacciare con una parola: bisogna far in modo che ognuno intenda
e veda.
[PORTAI
Che posso fare? nessuno me ne domanda, a nessuno preme di sapere.
[VIANDANTE]
Ci son io che m'interesso alle cose vostre: di' sù franca.
[PORTA]
Anzitutto, dunque, --,e si dice che lei c'è stata affidata vergine, non è vero. Non può averla
toccata per primo il marito: con quell'affarino, più languido d'una bietola lessa, moscio, che non s'è
mai alzato a scomodargli la camicia! Ma fu suo padre, che sporcò il letto del figlio, dicono, e
disonorò quella disgraziata gente, sia che il cuore scellerato gli ardesse di cieco amore, sia che il
figlio fosse sterile e impotente e si dovesse cercare chi fornisse un po' di nerbo che potesse
sciogliere la cintura alla vergine.
[VIANDANTE]
Tu mi parli d'un bravo padre, straordinariamente affettuoso, che ha.pisciato egli stesso nell'orto
di suo figlio. Eppure non è questo il solo fatto che dice di conoscere Brescia, che giace sotto la
specola chinèa, che il biondo Mella percorre con molle corrente, Brescia, la cara madre della mia
Verona...
[PORTA]
Ma di Postumio va parlando e della passione di Cornelio, coi quali ella ha commesso
svergognato adulterio. Qui si dirà "O come? tu sai codeste cose, o porta, che non puoi staccarti
mai dalla soglia del padrone , né porgere ascolto alla gente, ma qui infissa all'architrave non fai
che chiudere o aprire la casa?".
L'ho sentita io, colei, che a voce bassa parlava, sola con le serve, di queste sue sporcizie, e
faceva i nomi di quelli che ho detto, convinta ch'io non avessi né lingua né orecchie. E poi
aggiungeva un tale, che non voglio chiamare per nome, perché non inarchi i rossi sopraccigli: uno
spilungone, al quale una volta procurò un bel processo il parto immaginario d'una gestante
imbottita.
F. D’Alessi © 2002
F. D'ALESSI - Letteratura latina - Parte II,1 - Il periodo classico
Traduzione di G.B. Pighi, Torino, Utet, 1974 (al Canova)
Bibliografia
Editio princeps
Edizioni critiche
ed. K. Lachmann, Berlin 1829 (18743).
ed. I. Cazzaniga, Torino 19563.
ed. M. Schuster, Leipzig 19583.
ed. R.A.B. Mynors, Oxford 1958.
ed. Henry Bardon, Stuttgard 1973.
ed. W. Eisenhut, Leipzig 1983 (con Index metricus).
ed. Lafaye-Viarre, Paris (1923) 199613
G.P. Goold, London 19892.
D.F.S. Thompson, Chapell Hill 1978.
E. Baehrens, Leipzig 1885 (con comm.).
R. Ellis, Oxford 18892 (con comm.).
A.Riese, Leipzig 1884 (con comm.).
G. Friedrich, Leipzig 1908 (con comm.).
W. Kroll, Leipzig 19292. (con comm.).
K. Quinn, London 1971 (con comm.).
F. Della Corte, Milano 1977 (con comm.).
Testo con traduzione
ed. Wilhelm Kroll. Stuttgard, 19897.
Poesie, Bologna, Zanichelli, Poeti e Prosatori latini, A cura di Guido Mazzoni, 1977
ed. F. W. Cornish, London - Cambridge Mass., 1913, riv. 1950.
G.B. Pighi, Il libro di Gaio Valerio Catullo e i frammenti dei poeti nuovi, Torino 1974.
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E. Mandruzzato, Milano 1982.
F. Caviglia, Roma-Bari 1983.
Strumenti
Index verborum Catullianus, ed. M.N. Wetmore, New Haven 1912, Hildesheim 1961.
A Critical Concordance to Catullus, Leiden 1977.
Studi
comm. F. Della Corte, Milano 1977.
F. D’Alessi © 2002
175
F. D'ALESSI - Letteratura latina - Parte II,1 - Il periodo classico
176
J. Ferguson, Catullus, Oxford 1988.
P. Fedeli, Introduzione a Catullo, Roma-Bari, Laterza 1990.
A.Granarolo, L'oeuvre de Catulle. Aspects religieux, éthiques et stylistiques, Paris 1967.
K. Quinn, Catullus. An Interpretation, London 1972.
R.O.A.M. Lyne, The Latin Love Poets: from Catullus to Horace, Oxford 1980.
V. Ciaffi, Il mondo di Gaio Valerio Catullo e la sua poesia, Bologna 1987.
F. Della Corte, Personaggi catulliani, Firenze 19762.
E. Paratore, Catullo poeta doctus, Catania 1942.
=========================
Hyperlatino 1
STUDI SULL'AUTORE (vedi anche la BIBLIOGRAFIA relativa al liber di Catullo):
L. Ferrero, Interpretazione di Catullo, Torino, 1955
A. Salvatore, Studi catulliani, Napoli, 1966
F. Caviglia, Catullo, in Dizionario degli scrittori greci e latini, Milano (Marzorati), 1987, pp.411-441
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ICCU Soggetto 2004-1850
Autore: Bonvicini, Mariella
Titolo: Le forme del pianto : Catullo nei Tristia di Ovidio / Mariella Bonvicini
Pubblicazione: Bologna : Patron, 2000
Collezione: Edizioni e saggi universitari di filologiaclassica
Autore: Wray, David
Titolo: Catullus and the poetics of Roman manhood / David Wray
Pubblicazione: Cambridge : Cambridge university press, 2001
Autore: Krostenko, Brian Alexander
Titolo: Cicero, Catullus, and the language of social performance / Brian A. Krostenko
Pubblicazione: Chicago ; London, 2001
Soggetti: Catullo , Gaio Valerio - Carmina - Lingua
Cicerone, Marco Tullio - Orazioni - Lingua
Lingua latina - Aspetti sociali
Oratoria latina
Autore: Pasoli, Elio
Titolo: Tre poeti tra repubblica e impero : Lucrezio, Catullo, Orazio / Elio Pasoli ; a cura di Alfonso Traina e
Rita Cuccioli Melloni
Pubblicazione: Bologna : Patron, 2000
Collezione: Edizioni e saggi universitari di filologiaclassica
Note Generali: Scritti gia pubbl.
Autore: Holzberg, Niklas
Titolo: Catull : der Dichter und sein erotisches Werk / Niklas Holzberg
Pubblicazione: Munchen : Beck, c2002
Autore: Scherf, Johannes
Titolo: Untersuchungen zur antiken Veroffentlichung der Catullgedichte / Johannes Scherf
Pubblicazione: Hildesheim [etc.] : G. Olms, 1996
Collezione: Spudasmata
Soggetti: Catullo , Gaio Valerio - Opere - Commenti F. D’Alessi © 2002
F. D'ALESSI - Letteratura latina - Parte II,1 - Il periodo classico
177
Antichita
Autore: Traina, Alfonso
Titolo: Attis: l'ambiguo sesso : lettura catulliana / Alfonso Traina
Pubblicazione: Padova : Imprimitur, 1997
Collezione: Trentapagine
Note Generali: In testa al front.: Universita di Padova.
Autore: Beck, Jan-Wilhelm
Titolo: Lesbia und Juventius : zwei libelli im Corpus Catullianum : Untersuchungen zur Publikationsform und
Authentizitat der uberlieferten Gedichtfolge / Jan-Wilhelm Beck
Pubblicazione: Gottingen : Vandenhoeck & Ruprecht, c1996
Collezione: Hypomnemata
Autore: Menichelli, Wanda
Titolo: Catullo : eros e amore / Wanda Menichelli
Pubblicazione: Milano : Camunia, [1995]
Collezione: Storia & storie
TV0114 - Biblioteca comunale - Treviso - TV
Autore: Fitzgerald, William
Titolo: Catullan provocations : lyric poetry and the drama of position / William Fitzgerald
Pubblicazione: Berkeley [etc.] : University of California press, c1995
Collezione: Classics and contemporary thought
Autore: Dettmer, Helena
Titolo: Love by the numbers : form and the meaning in the poetry of Catullus / Helena Dettmer
Pubblicazione: New York [etc.] : P. Lang, c1997
Collezione: Lang classical studies
Autore: Petrini, Mark
Titolo: The child and the hero : coming of age in Catullus and Vergil / Mark Petrini
Pubblicazione: Ann Arbor : The University of Michigan Press, c1997
Soggetti: Catullo , Gaio Valerio - Carmina - Fanciulli
Virgilio Marone, Publio - Opere - Fanciulli
Autore: Marinone, Nino
Titolo: Berenice da Callimaco a Catullo : testo critico, traduzione e commento / Nino Marinone
Edizione: Nuova ed. ristrutturata, ampliata e aggiornata
Pubblicazione: Bologna : Patron, 1997
Collezione: Testi e manuali per l'insegnamentouniversitario del latino
Soggetti: chioma di Berenice
Catullo , Gaio Valerio - Traduzioni da
Callimaco
Autore: Micunco, Giuseppe
Titolo: Praesentia numina : Catullo e il Dio vicino / Giuseppe Micunco ; presentazione di Luigi Piacente
Pubblicazione: Bari : Universita, Dipartimento di studi classici e cristiani, 1996
Collezione: Quaderni di Invigilata lucernis
Soggetti: Catullo , Gaio Valerio - Religiosita
Titolo: Catullo e Sirmione : societa e cultura della Cisalpina alle soglie dell'impero / a cura di Nicola Criniti ;
contributi di Mario Arduino ... [et al.]
Pubblicazione: Brescia : Grafo, [1994]
Collezione: Grafostorie. Pratiche e discipline
Note Generali: Atti di un corso postuniversitario e di aggiornamento per docenti tenuto a Colombare di
Sirmione nel 1993.
Autore: Napolitano, Giuseppe
Titolo: Insieme a una ragazza che ci stia : invito a Catullo / Giuseppe Napolitano
Pubblicazione: Firenze : Firenze Atheneum, stampa 1993
F. D’Alessi © 2002
F. D'ALESSI - Letteratura latina - Parte II,1 - Il periodo classico
178
Collezione: Oxenford
Note Generali: Poesie con trad. italiana a fronte.
Segue: Catullo: Le poesie
Autore: Maselli, Giorgio
Titolo: Affari di Catullo : rapporti di proprieta nell'immaginario dei Carmi / Giorgio Maselli
Pubblicazione: Bari : Edipuglia, 1994
Collezione: Scrinia
Note Generali: Seguono appendici.
Soggetti: Catullo , Gaio Valerio - Opere - Lingua
Economia - Terminologia latina
Autore: Conte, Gian Biagio
Titolo: Generi e lettori : Lucrezio, l'elegia d'amore, l'enciclopedia di Plinio / Gian Biagio Conte
Pubblicazione: Milano : A. Mondadori, 1991
Collezione: Saggi di letteratura
TV0114 - Biblioteca comunale - Treviso - TV
Autore: Newman, John Kevin
Titolo: Roman Catullus : and the modification of the Alexandrian sensibility / John Kevin Newman
Pubblicazione: Hildesheim : Weidmann, c1990
Autore: Thomsen, Ole
Titolo: Ritual and desire : Catullus 61 and 62 and other ancient documents on wedding and marriage / Ole
Thomsen
Pubblicazione: Aarhus : Aarhus university press, c1992
Soggetti: Catullo , Gaio Valerio - Carmina. C. 61
Catullo , Gaio Valerio - Carmina. C. 62
Nozze - Roma antica - Fonti letterarie
Autore: Martin, Charles <1942- >
Titolo: Catullus / Charles Martin
Pubblicazione: New Haven ; London, c1992
Collezione: Hermes books
Autore: Catullus, Gaius Valerius
Titolo: The poems of Catullus / edited with introduction, translation, and brief notes by Guy Lee
Pubblicazione: Oxford : Clarendon Press, 1990
Autore: Newman, John Kevin
Titolo: Roman Catullus : and the modification of the Alexandrian sensibility / John Kevin Newman
Pubblicazione: Hildesheim : Weidmann, c1990
Autore: Fedeli, Paolo
Titolo: Introduzione a Catullo / di Paolo Fedeli
Pubblicazione: Roma [ecc.] : Laterza, 1990
Collezione: Gli scrittori
TV0114 - Biblioteca comunale - Treviso - TV
Autore: Swann, Bruce W.
Titolo: Martials Catullus : the reception of an epigrammatic rival / Bruce W. Swann
Pubblicazione: Hildesheim [etc.] : G. Olms, 1994
Collezione: Spudasmata
Autore: Gaisser, Julia Haig
Titolo: Catullus and his Renaissance readers / Julia Haig Gaisser
Pubblicazione: Oxford : Clarendon, 1993
Soggetti: Catullo , Gaio Valerio - Fortuna - Sec. 15.-16.
Autore: Janan, Micaela
F. D’Alessi © 2002
F. D'ALESSI - Letteratura latina - Parte II,1 - Il periodo classico
179
Titolo: When the lamp is shattered : desire and narrative in Catullus / Micaela Janan
Pubblicazione: Carbondale ; Edwardsville, c1994
Autore: Ferguson, John
Titolo: Catullus / by John Ferguson
Pubblicazione: Oxford : at the Clarendon press, 1988
Collezione: Greece & Rome : new surveys in the classics
Autore: Petrini, Mark
Titolo: Children and heroes : a study of Catullus and Vergil / Mark Julien Petrini
Pubblicazione: Ann Arbor : University Microfilms International, 1987
Note Generali: Ripr. facs. della tesi per il conseguimento del Ph. D., tenuta presso la University of Michigan,
1987.
Catullo , Gaio Valerio - Carmina - Fanciulli
Virgilio Marone, Publio - Opere - Fanciulli
Autore: Conte, Gian Biagio
Titolo: Memoria dei poeti e sistema letterario : Catullo, Virgilio, Ovidio, Lucano / Gian Biagio Conte
Edizione: 1. ed. riv. e aggiornata
Pubblicazione: Torino : Einaudi, 1985
Collezione: Piccola biblioteca Einaudi
Soggetti: CATULLO , VALERIO GAIO
LUCANO, MARCO ANNEO
OVIDIO NASONE, PUBLIO
POESIA LATINA - Analisi strutturale
VIRGILIO MARONE, PUBLIO
TV0114 - Biblioteca comunale - Treviso - TV
Autore: Vaisanen, Maija
Titolo: La musa dalle molte voci : studio sulle dimensioni storiche dell'arte di Catullo / Maija Vaisanen
Pubblicazione: Helsinki : SHS, 1988
Collezione: Studia historica
Autore: Holoka, James P.
Titolo: Gaius Valerius Catullus : a systematic bibliography / James P. Holoka
Pubblicazione: New York [ecc.] : Garland, 1985
Collezione: Garland reference library of the humanities
Soggetti: Catullo , Gaio Valerio - Bibliografia
Autore: Ciaffi, Vincenzo
Titolo: Il mondo di Gaio Valerio Catullo e la sua poesia / Vincenzo Ciaffi
Pubblicazione: Bologna : Pitagora, c1987
Collezione: Forme della cultura
TV0114 - Biblioteca comunale - Treviso - TV
Autore: Nasstrom, Britt-Mari
Titolo: The abhorrence of love : studies in rituals and mystic aspects in Catullus' poem of Attis / Britt-Mari
Nasstrom
Pubblicazione: Stockholm : Almqvist & Wiksell, 1989
Collezione: Acta Universitatis Upsaliensis. Uppsala womensstudies. A. Women in religion / editor
RagnarHolte and Inger Ljung
Soggetti: Catullo , Gaio Valerio - Carmina. C. 63
Autore: Tromaras, Leonidas
Titolo: Catull-Interpretationen : die Aurelius-, Furius-und Iuventius-Gedichte / Leonidas Tromaras
Pubblicazione: <Salonicco> : s.n., 1984
Autore: Jenkyns, Richard
Titolo: Three classical poets : Sappho, Catullus and Juvenal / Richard Jenkyns
Pubblicazione: London : Duckworth, 1982
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F. D'ALESSI - Letteratura latina - Parte II,1 - Il periodo classico
180
Soggetti: Catullo , Gaio Valerio - Carmina
Giovenale, Decimo Giunio - Saturae
Saffo - Opere
Autore: Liguori, Giorgio
Titolo: Catullo / Giorgio Liguori
Pubblicazione: Bologna : Patron, 1982
Autore: Borri, Maria Rosaria
Titolo: Lesbia e gli altri personaggi femminili in Catullo
Pubblicazione: [S. l.] : Compagnia tipografica napoletana, 1983
Autore: Fedeli, Paolo
Titolo: Catullus' carmen 61 / by Paolo Fedeli
Pubblicazione: Amsterdam : Gieben, 1983
Collezione: London studies in classical philology
Autore: Granarolo, Jean
Titolo: Catulle, ce vivant / Jean Granarolo
Pubblicazione: Paris : Les belles lettres, 1982
Collezione: Collection d'etudes anciennes
Note Generali: Errata corrige alleg.
Autore: Marinone, Nino
Titolo: Berenice da Callimaco a Catullo / Nino Marinone
Pubblicazione: Roma : Edizioni dell'Ateneo, 1984
Collezione: Ricerche di storia della lingua latina
Note Generali: Errata corrige alleg.
Soggetti: chioma di Berenice
Catullo , Gaio Valerio - Traduzioni da
Callimaco
Autore: Arkins, Brian
Titolo: Sexuality in Catullus / Brian Arkins
Pubblicazione: Hildesheim [etc.] : G. Olms, 1982
Collezione: Altertumswissenschaftliche Texte und Studien
Autore: Della Corte, Francesco <1913-1991>
Titolo: Personaggi catulliani / Francesco Della Corte
Pubblicazione: Firenze : La nuova Italia, 1976
Nomi: Della Corte, Francesco <1913-1991>
Autore: Biondi, Giuseppe Gilberto
Titolo: Catullo, Orazio, Persio : spunti di analisi formale / Giuseppe Gilberto Biondi
Pubblicazione: Bologna : Patron, 1978
Autore: Biondi, Giuseppe Gilberto
Titolo: Semantica di cupidus : Catull. 61, 32 / Giuseppe Gilberto Biondi
Pubblicazione: Bologna : Patron, [1979]
Collezione: Edizioni e saggi universitari di filologiaclassica
Note Generali: Errata corrige alleg.
Autore: Colliard, Lauro Aime
Titolo: La fortuna in Francia del Liber Catulli Veronensis nel XVI secolo / Lauro A. Colliard ; presentazione di
Gino Barbieri
Pubblicazione: Verona : Libreria universitaria editrice, 1979
Note Generali: In testa al front.: Universita degli studi di Padova, Sede distaccata in Verona, Corso di laurea
in lingue e letterature straniere.
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F. D'ALESSI - Letteratura latina - Parte II,1 - Il periodo classico
181
Autore: Zicari, Marcello
Titolo: Scritti catulliani / Marcello Zicari ; a cura di Piergiorgio Parroni
Pubblicazione: Urbino : Argalia, stampa 1978
Note Generali: Gia pubbl
In testa al front.: Universita degli studi di Urbino.
Titolo: Note linguistiche su Catone, Catullo ed Apuleio
Pubblicazione: Catania : Facolta di lettere, 1975
Note Generali: Scritti di vari .
Soggetti: Apuleio . Metamorfosi - Lingua
Catullo , Gaio Valerio - Opere - Lingua
Autore: Citroni, Mario
Titolo: Funzione comunicativa occasionale e modalita di atteggiamenti espressivi nella poesia di Catullo /
Mario Citroni
Pubblicazione: Firenze : Le Monnier, 1979
Autore: Campanaro, Giuseppe
Titolo: Aspetti della perenne vitalita di Terenzio e Catullo
Pubblicazione: Salerno : Cantelmi, 1975
Autore: Colliard, Lauro Aime
Titolo: La fortuna in Francia del Liber Catulli Veronensis nel 26. secolo / Lauro A. Colliard ; presentazione di
Gino Barbieri
Pubblicazione: Verona : Universitaria, 1978
Note Generali: In testa al front.: Universita degli studi di Padova, sede distaccata in Verona, Corso di laurea
in lingue e letterature straniere.
Soggetti: Catullo , Gaio Valerio - Opere - Fortuna Francia - Sec. 16.
Catullo , Gaio Valerio - Opere - Tradizione
manoscritta
Autore: Biondi, Giuseppe Gilberto
Titolo: Coniugis cupidam novi : Catullo 61, 32
Pubblicazione: Bologna : Cooperativa libraria universitaria, 1978
Soggetti: Catullo , Gaio Valerio . Carme 61. V. 32.
Autore: Riposati, Benedetto
Titolo: Per l'inaugurazione di un busto marmoreo a Catullo : Lazise, 23 maggio 1971
Pubblicazione: [Milano] : Dante Alighieri, [1972?]
Autore: Coppel, Bernhard
Titolo: Das Alliusgedicht : zur Redaktion des Catullcorpus / Bernhard Coppel
Pubblicazione: Heidelberg : Winter, 1973
Collezione: Bibliothek der klassischenAltertumswissenschaften. N. F. 2. Reihe
Soggetti: Catullo , Gaio Valerio . Carme 68
Autore: Gagliardi, Donato
Titolo: Orazio e la tradizione neoterica / Donato Gagliardi
Pubblicazione: Napoli : Libreria scientifica editrice, 1971
Collezione: Collana di studi classici / Universita diMessina
Autore: Setaioli, Aldo
Titolo: Ispirazione ed espressione in Catullo : saggio introduttivo e commento ad alcuni carmi : lezioni tenute
nella Facolta di magistero dell'Universita di Bologna, anno accademico 1972-73
Pubblicazione: Bologna : Patron, 1973
Autore: Quinn, Kenneth
Titolo: Catullus : an interpretation / Kenneth Quinn
Pubblicazione: London : Batsford, 1972
F. D’Alessi © 2002
F. D'ALESSI - Letteratura latina - Parte II,1 - Il periodo classico
Autore: Malaspina, Gino
Titolo: Catullo, poeta giovane e attuale
Pubblicazione: Trento : Tip. Aor, 1973
Autore: Ronconi, Alessandro
Titolo: Studi catulliani / Alessandro Ronconi
Edizione: Nuova ed
Pubblicazione: Brescia : Paideia, c1971, stampa 1970
Collezione: Antichita classica e cristiana
Autore: Siracusano, Natalizio
Titolo: La villa romana di Sirmione : Grotte di Catullo
Pubblicazione: Firenze : Arnaud, 1969
Soggetti: Sirmione - Grotte di Catullo
Autore: Rossi, Aguinaldo
Titolo: Lettura di Catullo
Pubblicazione: S. Maria degli Angeli, Assisi]
Autore: Florio, Domenico
Titolo: L' aureo Catullo
Pubblicazione: Cosenza : Tip. Barbieri, 1966
Autore: Salvatore, Armando
Titolo: Studi catulliani
Pubblicazione: Napoli : Libreria scientifica editrice, [1965]
Collezione: Collana di studi latini
Autore: Cantarella, Raffaele
Titolo: Scritti vari / Raffaele Cantarella ; premessa di Marcello Gigante
Pubblicazione: Salerno : Comune, 1969
Soggetti: Aristofane
Catullo , Gaio Valerio
Civilta greca
Letteratura greca
Autore: Cazzaniga, Ignazio
Titolo: Breve introduzione a letture catulliane
Pubblicazione: Milano : La goliardica, 1969
Autore: Bianco, Orazio
Titolo: Catullo, c. 55 e 58 a.
Pubblicazione: Roma : Tip. G. Bardi, 1962
Soggetti: Catullo , Gaio Valerio . Carme 58. a
Autore: Pepe, Luigi <1915-1993>
Titolo: Studi catulliani / Luigi Pepe
Pubblicazione: Napoli : Armanni, 1963
Collezione: Biblioteca del Giornale italiano di filologia
Autore: Salvatore, Armando
Titolo: Studi catulliani / Armando Salvatore
Pubblicazione: Messina : Editr. universitaria, 1960
Note Generali: In testa al front.: Facolta di lettere e filosofia, Universita, Messina
Litografato.
Titolo: L' edizione veronese di Catullo
Pubblicazione: Verona : Quaderni di "Vita veronese", 1963
Collezione: Quaderni di Vita veronese. Serie varia
Soggetti: Catullo , Gaio Valerio . Carmi - Edizioni - 1962
Autore: Marmorale, Enzo V.
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F. D'ALESSI - Letteratura latina - Parte II,1 - Il periodo classico
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Titolo: L' ultimo Catullo / Enzo V. Marmorale
Pubblicazione: Napoli : Edizioni Scientifiche Italiane, 1952
Collezione: Collana di saggi
Autore: Saggio, Carlo
Titolo: Catullo, Cicerone, Virgilio / Carlo Saggio
Pubblicazione: Alpignano : A. Tallone editore-stampatore, 1959
Note Generali: Ed. di 750 esempl.
In custodia
Soggetti: Catullo , Gaio Valerio
Cicerone, Marco Tullio
Virgilio Marone, Publio
Autore: Giovene, Andrea
Titolo: La Lesbia di Catullo / Andrea Giovene
Pubblicazione: Napoli : per A. Rossi, 1955 (Napoli : L'Arte tipografica)
Nomi: Giovene, Andrea
Autore: Ferrero, Leonardo <1915- >
Titolo: Un' introduzione a Catullo / Leonardo Ferrero
Pubblicazione: Torino : [s.n.], 1955 (Cuneo : Stabilimento tipografico editoriale)
Collezione: Pubblicazioni della Facolta di lettere efilosofia / Universita di Torino
Autore: Braga, Domenico
Titolo: Catullo e i poeti greci / Domenico Braga
Pubblicazione: Messina ; Firenze, stampa 1950
Collezione: Biblioteca di cultura contemporanea
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Autore: Sirago, Vito
Titolo: Catullo, poeta della giovinezza / Vito Sirago ; con prefazione di Francesco Arnaldi
Pubblicazione: Arona : Paideia, 1947
Autore: Rotondi, Lorenzo
Titolo: Horatii et Catulli florilegium lyricum : ad uso dei licei classici scientifici ed istituti magistrali / Lorenzo
Rotondi
Pubblicazione: Napoli : A. Guida, pref. 1945
Autore: Paolozzi, Giacomo Vittorio
Titolo: Odietamo : il romanzo di Catullo / Giacomo Vittorio Paolozzi
Pubblicazione: Molinella : Stab. Tip. A. Accorsi, 1940
Autore: Ghiselli, Alfredo
Titolo: La storia d'amore di Catullo / Alfredo Ghiselli
Pubblicazione: Faenza : F.lli Lega, stampa 1943
Note Generali: Segue una scelta di poesie.
Autore: Stampini, Ettore
Titolo: La metrica di Orazio comparata con la greca e illustrata su liriche scelte del poeta / nuova trattazione
di Ettore Stampini ; con una appendice di carmi di Catullo studiati nei loro diversi metri
Edizione: Rist
Pubblicazione: Torino : G. Chiantore successore E. Loescher, 1923
Autore: Catullus, Gaius Valerius
Titolo: Il libro di Catullo / testo e traduzione di Carlo Saggio
Edizione: Ed. scolastica
Pubblicazione: Milano : Alpes, 1928
Autore: Pascal, Carlo
Titolo: Poeti e personaggi catulliani / Carlo Pascal
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F. D'ALESSI - Letteratura latina - Parte II,1 - Il periodo classico
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Pubblicazione: Catania : F. Battiato, 1916
Collezione: Biblioteca di filologia classica
Autore: Boehme, P.
Titolo: Quaestiones Catullianae / scripsit P. Boehme
Pubblicazione: Bonnae : apud Max Cohen et filium, 1862
Autore: Di Gennaro, Pasquale
Titolo: Saggio di comenti artistici sulle poesie di Catullo, Tibullo e Properzio / per Pasquale Di Gennaro
Pubblicazione: Nola : R. Casoria, 1870
Autore: Sciascia, Pietro
Titolo: L' arte in Catullo : studio storico / Pietro Sciascia
Pubblicazione: Palermo : Reber, 1896
Autore: Rapisardi, Mario
Titolo: Catullo e Lesbia / studi di Mario Rapisardi
Pubblicazione: Firenze : Succ. Le Monnier, 1875
Autore: Belli, Marco
Titolo: Del carattere di Catullo e de' suoi epigrammi contro Cesare e Mamurra / Marco Belli
Pubblicazione: Venezia : tip. ex Cordella, 1890
Autore: Belli, Marco
Titolo: Magia e pregiudizi in Catullo, Tibullo e Properzio / M. Belli
Pubblicazione: Prato : Tip. Succ. Vestri, 1898
Soggetti: CATULLO - Opere - Elementi magici
PROPERZIO, SESTO - Opere - Elementi magici
TIBULLO - Opere - Elementi magici
Completare ICCU
"Catullo¸ Caio Valerio"
C. Valerio Catullo
1. Vita. - II. Il Liber di Catullo. - III Spiritt' e forme della poesia catulliana. IV. Lingua, metrica e fortuna la
Catullo.
Caio Valerio Catullo (C. Valerius Catullus) (') [(1) Il prenome CaXus è l'unico attestato dalla tradizione
migliore, che risale ad ottime fonti (S. Girolamo, Apuleio); Quintus è della tradizione umanistica deteriore,
che dominò in tutto il secolo scorso: ne risenf anche il CARDUCCI (cfr. L'ode a SirS mione: "vieni, o (luinto
Valerio . . . t). II gentilizio Valerius è romano e la 8ens Valeria di Verona veniva probabilmente da Roma.
Anche Catullus è schiettamente romano (uno dei tanti diminutivi di animali: Catulus, Catiltna= cagnolino);
riportarlo al celtico Catu, per ritrovare caratteri celtici nella poesia di Catullo, è pretesa di pura fantasia.(2) La
data è di S. Girolamo nell'annotazione al Chrontcon, dove fissa anche all'anno 57 la data di morte, dopo
avere affermato che il poeta visse 30 anni. Ma non pochi awenimenti e fatti storici del canzoniere catulliano
(cc. 11; 2'R: 45; S5 ecc.), re, clamano un periodo posteriore al 57. Si pensa perciò di correggere i dati
geronimiani con gli anni o4 54.] è il poeta più schietto e spontaneo della lirica latina, il più ricco di esuberante
spiritualità e di sentimenti umani.
I. - Vita. - Nacque a Verona circa 1'87 a. C. (2) da ricca ed illustre famiglia, legata da relazioni di amicizia con
Gsare stesso, che era spesso suo ospite. Verona era allora il cuore di quella Callia Cisalpina, che aveva
fatto dono a Roma della piú bella schiera di scrittori e poeti, I'onore della letteratura romana. In
quest'ambiente, evoluto e cólto, Catullo ricevette la sua prima educazione letteraria e spirituale: educazione
rafftnata, cui conferivano decoro una certa prestanza fisica, sensibilità squisita e gentilezza di maniere, culto
dell'amicizia e dell'amore, tenerezza di affetti domestici, che rimasero sempre le note piú vive dell'anima sua.
E assai presto si sentí portato alla poesia; lui stesso ci attesta che i primi versi d'amore furono scritti in patria,
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all'età di 16 o 17 anni (c. 68, 15 sg.); essi però non entrarono nella compàgine del Liber, che raccoglie solo i
carmi, che sbocciarono dall'anima sua all'epoca della conquistata personalità poetica, seguíta alla sua
venuta a Roma, a circa vent'anni. Strana, la Roma che trovò Catullo: spiritualmente, conservava molto
dell'antico, ma già intaccato dal nuovo àlito di civiltà esòtiche; politicamente, era una città in pieno
sconvolgimento interno ed esterno; culturalmente, la ' poetica nuova' vi si affermava sempre piú col trionfo
dell'individualismo e allettava le giovani menti di allora; moralmente, I'antica virtú era quasi estinta e
dappertutto dilagava la corruzione e il malcostume. La donna risentiva profondamente di questo clima
morale íbrido e dissipato; ed ecco le ' donne nuove ', di ogni classe sociale, le sappAtcae puellae, Musis
loctiores, come le chiama lo stesso Catullo (c. 35, 16); di esse un ritratto fedele è la Sempronia sallustiana.
Una società del genere non poteva non incidere fortemente su una sensibilità vivissima, come quella di
Gtullo, che finí di assorbirne il fremito incomposto e licenzioso. II fatto culminante della vita romana di Catullo
fu la conoscenza di Lesbia, che aprí il suo cuore all'amore e il suo amore al canto. Che Lesbia sia lo
pseudònimo di Clodia, lo rivela Apuleio(l, Apologia, 10); che Clodia poi sia la sorella maggiore del tribuno
Publio Clodio Pulcro, sposa di C. Metello Celere, console nel 60 e morto nel 59, o un'altra Clodia, non
altrimenti identificabile, è problema ancora aperto alla critica, che però tende a polarizzarsi sulla prima
ipotesi. E Clodia, vedova di Metello, quella stessa, contro cui si scaglia Cicerone nella Pro Caelio, aveva tUtti
i requisiti di una ' dotta allettatrice ': nobile, cólta, ricca di fàscino e di femminilità, disinvolta e spregiudicata,
famosa per gli scandali pubblici e privati, dei quali fu in varie circostanze protagonista e attrice. Catullo, che
forse la conobbe in qualcuno dei circoli aristocratici di Roma, tutto ne fu preso. Si donò a lei in un abbandono
ingenuo, senza riserve, con un amore che lo consumò, non ricambiato, fino al disfacimento. Stentò a
credere, come tutti gli innamorati, a un cuore di donna volubile e menzognera; ne sperimentò le molte
perfidie, i ritorni fugaci, poi di nuovo gli abbandoni, finché, stanco, in cerca di solitudine e di conforto, tornò
prima alla sua Verona, poi, nel 57, dopo essere rientrato a Roma, seguí in Bitínia il pretore Gio Memmio. Lí
lo sospinse non solo il bisogno di dimenticare la sua intima tragedia, ma anche il desiderio di visitare la
tomba del fratello, morto e sepolto nella lontana Tròade. Di ritorno in patria, la figura di Lesbia riuscí ad
insinuarsi ancora nelle pieghe del suo cuore esulcerato; non valse a fargliela dimenticare né la lontananza
da Roma, né la sorridente festosità della sua accogliente Sirmiòne. Consunto dal male, che forse da tempo
lo minava, morí, poco piú che trentenne nel 54 a. C. Non ebbe, come Tibullo, le lacrime della donna amata
né il conforto degli amici, ma forse trovò nella morte la serenità dello spirito e la gioia della liberazione, che in
vita aveva chieste con tanto ardore agli dèi.
II. - Il Liber ' di Catullo. Il Canzoniere di Catulio consta at, tualmente di 116 carmi, diversi di forma, di
contenuto e di metro. Nell'ordine della tradizione manoscritta, che risale al codice Veronese e rifluisce
nell'elitio princeps del 1472, i 116 carmi presentano una distribuzione particolare, che si presta ad una
classificazione in tre gruppi: 1-60, carmi brevi, le nugae, in metri vari: per lo piú in endecasillabi falèci; 61-60,
carmi piú ampi, alcuni veri poemetti: sono i carmtna locta, in metro quasi sempre elegiaco o esametrico; 69116, carmi in distico elegiaco. che non superano quasi mai l'estensione di brevi componimenti di tono
epigrammatico o elegiaco.
1 Da codesta distribuzione si possono trarre due considerazioni: a) i componimenti del Liber non
rispecchiano un ordinamento cronologico (il c. 11, per es., uno dei pochi sicuramente databili, per l'accenno
alla spedizione di Cesare in Britannia nel 55, è forse l'ultimo scritto dal poeta), ma, piuttosto, tecnico,
metrico, logico, secondo il principio della variatio, cara agli antichi, che erano soliti alternare tra loro canti di
intonazione e di estensione diversa; b) l'attuale disposizione non deve attribuirsi a Catullo che forse solo i
carmi 1,60 ordinò per proprio conto (cosí almeno suggerirebbe la dedica del Liber a Cornelio Nepote), ma ai
suoi amici neòteri, che, dopo la morte del poeta, raccolsero e presentarono al pubblico la sílloge che oggi noi
possediamo.
III. - Spiriti e forme della poesia catulliana. - Gtullo è anzitutto p o e t a d' a m o r e: uno tra i pochi poeti
antichi che ha saputo immettere in questo sentimento tanta esuberanza di spirito e tanta intensità d'aXetto,
quanta solo nella poesia moderna se ne trova l'eguale. Un amore, quello per Lesbia, che tutto lo Drese e
diventò ragione ed idealità della sua vita, calmandolo perfino nel fondo della sua scomposta ed irrequieta
spiritualità. Gli è che Catullo, il poeta piú erotico degli antichi, porta nell'amorequel che non sempre si
avverte una sua pensosa serietà, un approfondimento di salda coscienza morale, che dà tono umano,
sincero ed elevato al suo sentimento e al suo canto.
Il primo incontro con Lesbia ha il fàscino di una visione dtincanto, nello sfondo di un vagheggiamento
spirituale della bellezza di lei, còlta nel giuoco innocente e delizioso, o nel pianto per il suo passerino. Poi, la
prima dichiarazione nella strofa e nei versi di Saffo (c. 51), i primi palpiti di un incipiente amore che ha
ancora molto di riserbo ingenuo, quasi di pudíco nel rivelarsi. Quindi, lo scoppio della passione e l'invito alla
vita e all'amore (c. 5). E il punto culminante dell'èstasi. Seguono tosto le prime pene, le prime lacrime, i primi
dubbi sulla fedeltà di lei, sulla sincerità dei suoi ripetuti giuramenti. E l'inizio del dramma, che assumerà
presto tono di tragedia, e durerà, attraverso gioie e dolori, rotture e riprese fino alla consumazione, fino alla
catàrsi liberatrice nella preghiera agli dèi (c. 76). Ed è in verità un dramma che commuove per la profonda
umanità, e piú per la pietà che suscita lo stesso Catullo, quando, nella meditazione della sua infelice sorte,
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F. D'ALESSI - Letteratura latina - Parte II,1 - Il periodo classico
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ritrova la causa della sua rovina nell'essere stato troppo fiducioso e leale con lei, nell'aver troppo
ingenuamente creduto alle sue promesse e nell'aver posta Lesbia in cima ad ogni sua umana predilezione:
"A questo la mia vita per tua colpa è ridotta, o Lesbia, e a ta punto, col tener fede al tuo patto, s'è rovinata,
da non volerti ormai io piú bene, anche se diventi la migliore delle donne )> (c. 75), "Ti volli allora bene (dilexi
tum te) non pur come il volgo all'amica, ma come un padre vuol bene ai figliuoli e ai generi )> (c. 72).
Voci, queste, nuove nell" eròtica ' antica (diligere è termine proprio dell"amare spiritualmente '), e rivelano le
profondità ideali, nelle quali Catullo aveva proiettato il suo amore per Lesbia: un amore delicato come un
fiore, integro, sincero, assoluto, nato nel tempo, vagheggiato nella felicità della famiglia, consumato nelI
eternità:
<~ Nessuna donna può dirsi amata tanto sinceramen>, quanto fu amata da me Lesbia; nessuna fedeltà si
tenne mai a patto alcuno. quanta ne ho tenuta io nell'amore per te )> (c. 87).
In un momento di gioia rasserenante e di rinata speranza, quello in cui Lesbia aveva promesso a Gtullo
"felicità imperitura", egli, in un trasporto di spontanea esultanza, che il ritmo stesso ampio e solenne
scandisce, aflida agli dèi questo "patto sacro di eterna amicizia":
"Tu mi prometti, mia vita, che questo nostro amore tra noi sarà felice ed etemo. O dèi grandi, fate che possa
promettere il vero e che ciò sinceramente e con animo schietto ella dica, sí che possibile sia a noi continuare
per tutta la vita inviolabilmente questo patto di eterna ami
Ma agli stessi dèi, piú tardi, nel dissolversi del dramma, in un grido di amara delusione e di disperata
preghiera (c. 76), Catullo, protestando la propria innocenza (si vitam purtter egi), chiederà che lo guariscano
da quel terribile morbo, da quella "peste e rovina", che tutto gli ha succhiato il piacer della vita e gli ha
<(scacciato dal cuore ogni senso di gioia". Per lei, spergiura ed infedele, nulla piú chiede: dice solo poche
parole di distacco e di disgusto, che preludono all'irrevocabile ' addio ' finale, alfidato agli amici Furio ed
Aurelio (c. 11):
"Viva pure felice . . ., ma non guardi piú, come un tempo, al mio amore, che per colpa sua è caduto come un
fiore al margine del prato, travolto al passar dell'aratro *.
Se non conoscessimo Catullo e il timbro schietto della sua poesia, saremmo tentati di sentire in questi suoi
canti un che di convenzionale e di chiuso. Ma qui Gtullo confessa se stesso, si rivela per quel che è nella
nobiltà del sentimento, nella dedizione completa ad un amore che gli diede piú lacrime che gioia. Ed è un
Catullo che si fa amare, perché in lui si riascolta la voce dell'uomodi ogni uomoche pecca, piange, prega,
che in fondo al male ritrova se stesso e ritorna bambino col palpito della sua fede e della sua religione.
Gtullo non fu solo poeta d'amore, ma anche cantore delle tenere e sincere amicizie. Molta parte del suo
canzoniere è consacrata agli amici: amici di studio e di avventure, amici di inclinazioni e tendenze letterarie
affini alle sue, personaggi piccoli e grandi della società romana. Qui si incontrano Veranio e Fabullo, Licinio
Calvo ed Elvio Cinna, Alfèno Varo, Asinio Marrucíno e Pollione, Manlio Torquato e molti altri Per tutti e con
tutti egli ha lo stesso tono di sentimento affettuoso e sincero, comprensivo, delicato e generoso nella gioia e
nel dolore. Basta ripensare allo stupendo carme consolatorio scritto per Glvo in occasione della perdita della
diletta consorte:
"Se qualche conforto può venire, o Calvo, alle tacite tombe dal nostro dolore e dal rimpianto, con cui
rievochiamo gli antichi amori e lamentiamo le amicizie da tempo perdute, certo Quintilia non tanto si duole
della sua morte immatura, quanto si allieta dell'amor tuo per lei"; oppure al canto di gioia per l'amico
ritornato: "O mio Veranio, a me caro mille e mille volte piú di tutti i miei amici, sei tornato alla dolce tua casa,
ai fratelli legati come un sol cuore a te, alla tua vecchia madre . . ." (c. 9); oppure all'espressione augurale,
tutta tenerezza e grazia, per Manlio Torquato, in occasione delle sue nozze con Vinia Aurun, culèia: "Gioíte
pure, ma dàtene presto figli . . .; io auguro che dal grembo materno un.piccolo Torquato tenda presto le
tenere manine al babbo suo e gli sorrida dolcemente dalla boccuccia dischiusa)> (c. 61).
Qui tutto ha il sapore della gentile poesia del focolare domestico, che per la squisitezza del sentimento e per
la nota di sana spiritualità romana si richiama ad una delle piú belle elegie di Tibullo per l'amico Cornuto
(2,2), perla genuina della poesia augurale antica.
Accanto alla poesia dell'amicizia, quella degli a f f e t t i f a m i I i a r i, che ci rivela un altro aspetto della
innata finezza spirituale di Gtullo, della purezza e profondità del suo sentimento. Basti ricordare uno dei piú
commossi carmi del Gnzoniere, quello che raccoglie le lacrime versate sulla tomba del fratello morto nella
Tròade: un carme elegiaco, tutto amore e dolore, nel funèreo stile lapidario, dalle vaste risonanze umane:
"Attraverso molti popoli e molti mari, sono venuto, o fratello, a queste tristi esequie, per renderti ltestremo
tributo di morte e vane parole rivolgere al tuo cenere muto . . ." (c. 101).
Questo aiZettuoso rimpianto del fratello torna anche, e sempre con la stessa insistenza accorata, in altri
carmi del Liber: si accinge a tradurre la Chioma di Bereníce di Gllímaco per l'amico Ortensio Ortalo, ed
eccolo confessarsi affranto e sfinito dall'adsiduus dolor, che gll ha tolto ogni amore alla poesia (cc. 65,66); si
rivolge all'amico Manlio, che, "oppresso dalla sventura)) gli chiedeva sI conforto di un carme consolatorio, ed
eccolo di nuovo esclamare, nella rievocazione del fratello amato: "Tu, o fratello, morendo, spezzasti ogni mio
bene, tutta la nostra casa andò sepolta con te; insieme con te son perite tutte le nostre gioie, che tu durante
la vita alimentavi col tuo dolce amore )> (c. 68, v. 93 sgg.). Note nuove nella poesia antica, profumate di
spiritualità, di gentilezza di aíTetti: davvero rivelatrici di un'anima
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Ma Gtullo conobbe anche odii, inimicizie, vend e t t e e r a n c o r i . In un temperamento schietto e
impulsivo, come il suo, il sarcasmo sprezzante, I invettiva aggressiva e I ironia diventano armi pericolose e
temute. Non solo Lesbia (odz et amo), ma anche i suoi rivali in arte e in amore, i nemici politici, i mestatori di
ogni genere escono malconci dai suoi feroci endecasillabi e si muovono nello sfondo del Liber tra l'insulto e
la beffa, .l ridicolo e la caricatura spassosa. Si ripensi all'ispànico Egnatius, che sempre e dovunque sorride
per far mostra dei SUOi "candidi denti" (c. 39); allo "scrofoloso Nonio", che, a forza di spinte, è riuscito ad
ottenere "la sedia curúle" (c. 52)
allo stesso Cicerone, il disertisslmus Romuli nepotum (c. 49) e a Cesare, "generale unico, senza pari )) (cc.
54; 93). L'amico Calvo gli invía una raccolta di poetastri del tempo; e lui: "Se non ti amaSSi piÚ degli occhi
miei, ti odierei di un odio vatiniano per questo tuo dono, o birba d'un Calvo" (c. 14).
Ma non sempre il tono è cosí aristocraticamente sostenuto; spesso Si abbassa, diventa volgare, stizzoso: è il
Catullo dallo sfogo incontrollato, che meno piace, perché meno è poeta.
Piú ricco di esperienze artistiche e di interessi culturali è il mondo poetico dei cosí detti carmma docta, nei
quali l'ossequio ai modelli della tradizione ellenistica è certamente piú palese che altrove: non solo nei temi
trattati, ma anche nella tecnica espressiva, che va dall'episodio e dal bozzetto alle forme piú solenni e
compiute, le quali costituiscono lo sfondo dei singoli carmi.
La stessa linea strutturale, risultante a volte da motivi compòsiti che paiono legati piú per esigenze logiche
che poetiche, la cura del particolare, la rifinitura del dettaglio, hanno molto di alessandrino e di neotèrico
nelle forme piú elaborate e dotte. Ma occorre notar subito che anche qui Catullo rimane se stesso con il suo
ricco mondo di sofferta umanità, con la sua potente-personalità poetica, nella quale scioglie i motivi
tradizionali, che prendono vita, calore, sentimento dalla sua anima tenera ed effusiva. Gtullo riesce cosí a
rendere ' attuale ' lo stesso mito, a ' sensibilizzare' umanamente ' la dottrina ', nascondendosi quasi nei
personaggi del canto,'che sentono e agiscono come egli sente e vuole. Qui sta il fàscino e la freschezza di
questa ' poesia dotta', piena anch'essa di abbandoni lirici, di ardori, di gioie, di dolori e di amarezze: come
tutta l'autentica poesia catulliana.
I primi due di questi carmi, il 61 e il 62, sono epitalami, e un epitalamio è anche il 64. Gnti, inni nuziali, quindi:
in onore di Manlio Torquato e dl Vinia Aurunculèia 161; senza rifenmento a persone e a circostanze
particolari il 62; sulle nozze di Pèleo e Tètide il 64. Nel primo, in strofette pentàstiche di quattro gliconei e un
ferecrateo, un coro di giovinetti e di fanciulle esalta la felicità e la fedeltà dell'amore coniugale, augurando ai
due sposi che un "piccolo Torquato * venga presto ad allietare la loro casa. Sentimenti, questi, schiettamente
romani e catulliani, vagheggiati nella torturante relazione con Lesbia, sentiti come aeternum sanctae foelus
amicitiae nell'intimità di un legittimo affetto coniugale. Nel secondo, il 62, si ripete la sceneggiatura corale,
ma, mentre i giovani cantano le lodi di Èspero, che invita all'amore, le giovanette, con accenti che
riecheggiano SaíTo, deprecano l'awicinarsi dell'astro crudele, che strappa la giovane figlia all'abbraccio
materno, ed esaltano l'intatto fiore della purezza. Anche qui, nella cornice e nella tessitura di elementi formali
ellenistici, palpitano spirito romano e sentimento catulliano. L'Epitalàmio di Pèleo e Tètide, il 64, un lungo
epillio in esametri, narra la vicenda d'amore di questi due personaggi mitici e la celebrazione delle loro
nozze, da cui nascerà "il Pelíde Achille", nella stessa reggia di Pèleo, a Farsàlo, con l'intervento di dèi e
semidèi, del centauro Chirone e delle Parche, che vaticinano le gesta gloriose di Achille. Un'ampia
digressione, di piú di 200 versi, suggerita al poeta dalle figure ricamate sulla coperta del letto nuziale,
introduce l'episodio di Arianna abbandonata da Tèseo sul lido dell'isola di Nasso. È certamente questo il
poemetto piú ellenistico di Catullo, dove la molteplicità dei motivi, provenienti da una o forse piú fonti, la
diversità dei tóni poetici, che vanno dall'epico al drammatico, dal bucolico al lirico e al religioso, la cura del
particolare, del bozzetto e dell'episodio raggiungono il loro vertice e conferiscono quella discontinuità poetica
e strutturale al poemetto, che la critica non ha mancato di mettere a segno. Ma quel che qui conta è la
singolare personalità del poeta, che è riuscito a comporre i dispersi elementi formali in un'armonia generale
di spirito romano, dove si ritrova il timbro della poesia catulliana: in quella stupenda e drammatica figu,
razione di Arianna, catullianamente còlta in una sconvolta spiritualità femminile, che ci porta a pensare alla
Didóne virgiliana; in quel richiamarsi in una festa di nozze alla realtà della vita, che scorre tra limpidi canti di
gioia e tnsti presagi di morte; in quegli accenti commossi al sentimento familiare, che chiude come d'incanto
il poemetto, a sottoli, neare un tèma sempre vivo nelle sensibilità del poeta romano.
Segue un poemetto, ispirato alle religioni mistèriche orientali, l'Attis (c. 63), nel quale è narrata la dolorosa
vicenda del giovane, iniziato orgiasticamente al culto di Cíbele e condannato a vivere poi con i segni della
sua volontaria offerta, al servizio della medesima dea. t: questo un esercizio ds bravura ellenistica, un lusus
erudito, anche nella peculiarità del metro ' galliambico ' (quattro ionici a minori), che évoca accortamente nel
ntmo incalzante l'atmosfera bàcchica, che pervade il carme.
I carmi 65 e 66 si collegano per un motivo ideale, costituendo il primo un'epistola elegiaca all'amico Ortensio
Ortalo, quasi la dedica del secondo, che è la famosa traduzione della Chioma li Bereníce di Gllimaco,
restituitaci oggi in parte dai papiri. Il carme dedicatorio ha come nota dominante la rievocazione della morte
del fratello, in accenti, come sempre, commossi, che rivelano la voce piú intima e delicata dei sentimenti
familiari del poeta
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La traduzione della Chtoma di Berenice (I) [(I) Nel poemetto callimachèo, di natura catasterísmica, si narra
come la ' treccia ' che la regina Arsínoe, moglie di Tolomeo 111 di Egitto, aveva offerta in voto a Venere per
il felice ntorno del marito, in guerra contro i Siri, fu trasportata in cielo, e, trasfonnata in astro, trovò posto in
mezzo alle costellazioni della Vergine e del Leone.
] testimonia un'altra atti, tudine dell'ellenismo catulliano, quella del ' traduttore-artista ', che ri, p!asma
amoros?mente nel!o spirito l'originale, arricchendolo di immagmi e dl sigmficati nuon nelle terminologie
poetiche, nei particolari teneri e delicati, che trovano maggiormente aderenza nell'anima di Catullo nella
descrizione dell'affetto fedele e della generosa dedizione della sposa al voto della fortuna del marito
Nel c. 67 púllula il guasto sottofondo della vita di provincia, dissolto peròSnel tono scherzoso, spesso ironico,
di un dialogo tra il poeta e la porta di una casa malfamata di Verona; al centro di esso è la rivelazione delle
malefatte della mal costumata padrona.
Finalmente il c. 68, in metro elegiaco, che altri ritiene unitario, altri risultante di due composizioni distinte per
tono ed elementi poetici, note come 68a e 68b. La prima parte è una breve epistola ad un certo Mallio
(anche Allio, se si legge il mi Alli del v. 30 per m'alli come al v. 1 1), col quale il poeta si scusa di non avere
potuto inviargli il munus Musarum promessogli, perché oppresso dal dolore della morte del fratello. Nella
seconda parte (se unitario è il carme) la promessa è soddisfatta: dopo la lode riconoscente ad Allio, per le
amichevoli prestazioni di affetto, il poeta narra diffusamente il mito di Protesilào e Laodamía, che sarà anche
uno dei temi delle Eròidi di Ovidio (t). Grtamente tutto qui è ellenistico: grazia, evidenza di particolari,
freschezza di sfondi mitici, erudizione raffinata e galante; ma la nota personale del poeta si innesta nella
stessa infelice vicenda d'amore dei due protagonisti del mito e conferisce al canto un tono di amara,
rassegnatatristezza.
IV. - Lingua, metrica e fortuna di Catullo. La lingua di Gtullo è viva ed espressiva, varia di tonalità, ricca di
immagini e di colori poetici, che rispecchiano il fluttuare dei sentimenti e dei diversi stati d'animo dello
scrittore. La familiarità con i poeti greci gli dettò eleganze stilistiche, fraseologie dotte e ricercate, nonché
parole composte, proprie di intonazioni epiche e solenni o del linguaggio della società cólta e raffinata. La
lettura dei poeti latini gli affinò il gusto aristocratico dell'arte, in ossequio ai cànoni stessi della scuola
neotèrica, e gli aprí le recondite dovizie del linguaggio arcaico, che dà spesso al suo stile coloriture
ornamentali di piacevole effetto o sapore sacrale e popolare a molte delle sue espressioni piú tecniche e
ufficiali. Della lingua parlata o, a meglio dire, familiare e popolare, abbonda il suo vocabolario piú disinvolto e
volgare, specialmente in quei momenti di ispirazione, o di improwisazione, istintiva, non controllata dal freno
della riflessione. Qui rientra la tendenza all'uso frequente dei diminutivi aggettivali e sostantivali (libellus,
solaciolum, ocelli, turgiduli, misellus ecc.) e degli awerbi o delle forme avverbiali (male est, o male factum,
satis superque), nonché degli aggettivi vezzeg, giativi (mellitus, bella: "cose amabili" ecc.), che perdono a
volte in Gtullo ogni coloritura, semàntica e letteraria, e vengono piegati ad esprimere una particolare
disposizione affettiva del poeta. E ciò particolarmente nelle nugae e nei carmi dotti. Una lingua dunque,
quella di Gtullo, tra le piú dúttili e trasparenti degli scrit. tori del tempo.
La sua metrica risente ancora di qualche impaccio strutturale in certi versi, che hanno andamento piuttosto
prosàstico (così: hoc fit quod Romae vivimus, 68, v. 34) e in certi pesanti nessi awerbiali (quol cum ita sit,
quoniam, quare, ecc.); ma in genere il suo verso scorre spedito, ricco di accorgimenti ritmici, che rivelano
finissime sensibilità di artista. Nella strofe saffica (usata solo due volte, cc. I1 e 51), nel trimetro giambico, nel
galliambo, segnatamente nel falècio(') [ (I) Detto cosí dal poeta alessandrino Falèco, che lo usò largamente,
ma fu conosciuto anche da Saffo; è una pentapodía, con base libera, seguita da un dattilo con tre trochei; in
Gtullo il secondo posto è talvolta occupato da uno spondeo- Ia ce sura è varia. ], il verso suo preferito, tanto
da esser detto per eccellenza ' endecasillabo catulliano ', raggiunge effetti di squisite armonie con l'accorto
uso delle sinalèfi, delle allitterazioni e delle anàfore, soprattutto delle cesure, che puntualizzano quasi
sempre un determinato momento poetico e conferiscono al falècio un ritmo piú sciolto, mollemente cullante e
piegabile ad esprimere sentimenti varl.
A un poeta di tale statura non poteva mancare l'ammirazione dei contemporanei e dei posteri. Del circolo
neotèrico Catullo fu l espressione piú alta e n'ebbe amici i migliori. Dagli scrittori e poeti del tempo, anche se
non sempre nominato, non fu certo ignorato, a partire da Lucrezio, da Varrone e da Cicerone. Virgilio ha qua
e là vivi echi catulliani e il 10° dei Catalèpton è una sàpida parodía del c. 4 del Veronese(2) [(2) In Catullo:
Phasellus ille, quem videtis, hoopites...; in Virgilio. Sabtnus xlle, quem videtis, hospites...
]. Atteggiamenti catUIIlanl Sl risentono anche nel giovane Orazio (Epòlo 17°, 40) e lo stesso Mecenate ne
imita galliambi e falèci. Ovidio e ProperZ10, con quasi tutti i poeti e gli scrittori del I e 1I secolo d. C non si
sottraggono al hscino del poeta loctus e delle nugae; e, se Quinti!iano (10, 1, 9o) non dà di lui, per ragioni
pedagogiche, un gludizxo favorevole, Marziale è accanto a Catullo negli spiriti aggressivi e realistici, nel
metro e nelle forme poetiche. Nella tradizione grammaticale Catullo è ricordato per le sue particolarità
linguistiche; Gellio lo chiama elegantissimus poetarum. Col sec. III anche Catullo entra nell'ombra. L'ultimo
che lo conobbe direttamente fu un commentatore di Orazio, Porfirione. Forse non fu ignorato da Prudenzio e
dall'ultimo poeta pagano, Claudiano plÚ In là, le reminiscenze catulliane, che compaiono negli scrittori e nei
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poeti, anche cristiani, non sono dirette, bensí solo riflessi della letteratura fiorita intorno al poeta nel I e II sec.
dell'impero.
Nel Medio Evo il Veronese visse soltanto attraverso qualche florilegio dei suoi carmtna locta. Fu Verona, la
sua patria, a restituire, nel sec. X, Catullo alla vita, ad opera del vescovo Ra, tèrio, che scoprí nella biblioteca
della Cattedrale un codice del poeta, ricopiato nel 1375 e poi perduto. Da questo momento Ca, tullo entra
nell'ammirazione degli Umanisti: di Guglielmo di Pastrengo, del Petrarca, del Boccaccio, poi del Pontano e
su su, fino all'Ariosto e al Tasso, che in piú di un motivo ridaranno la dolcezza della poesia catulliana. Cosí
Catullo giunge all'età moderna, alla critica filologica ed esegètica di ogni paese, ai poeti nostri e stranieri, che
ne han fatto rivivere in piú di un incontro la parte piú limpida ed umana; basti ripensare, tra noi, al Foscolo e
al Pascoli.
"Catullo¸ Caio Valerio - Castaldi",
Gaio Valerio Catullo
(Sirmione, Verona, 84? – Roma, 54? a.C.)
Vita.
Biografia incerta. Scarse e incerte sono le notizie su C., di cui non ci è giunta alcuna biografia antica: i suoi
carmi restano la fonte principale per la conoscenza della sua vita, se non proprio per le indicazioni più
strettamente biografiche e cronologiche (di cui praticamente sono privi), almeno per ricostruirne e
comprenderne, in generale, personalità e stati d'animo.
La formazione e l'ingresso nel bel mondo romano. C. proveniva - come altri neoteroi - dalla Gallia Cisalpina
(ovvero, dall'Italia settentrionale) e apparteneva ad una famiglia agiata: suo padre ospitò più di una volta
Cesare nella loro villa a Sirmione, sulle rive del Lago di Garda (come c'informa Svetonio). Trasferitosi a
Roma (intorno al 60) per gli studi, secondo la consuetudine dei giovani di famiglie benestanti, C. trovò il
luogo adatto dove sviluppare le sue doti di scrittore: trovò, infatti, una Roma nel pieno dei processi di
trasformazione (la vecchia repubblica stava vivendo il suo tramonto), accompagnati da un generale
disfacimento dei costumi e da un crescente individualismo che caratterizzava le lotte politiche, ma anche le
vicende artistico-letterarie. Entrò a far parte dei "neóteroi" o "poetae novi" ed entrò in contatto anche con
personaggi di notevole prestigio, come Quinto Ortensio Ortalo, grande uomo politico e oratore, e Cornelio
Nepote. Tuttavia, C. non partecipò mai attivamente alla vita politica, anche se seguì sempre con animo
attento o ironico o sdegnato i casi violenti della guerra civile di quegli anni (non mancò di attaccare
violentemente Cesare e i suoi favoriti, specialmente il "prefectus fabrum" Mamurra: ma Cesare seppe
riconquistarlo…). Di contro, nella capitale, un giovane come lui - esuberante e desideroso di piaceri e di
avventure - si lasciò prendere dal movimento, dal lusso, dalla confusione, dalla libertà di costume e di
comportamento pubblico e privato, che distingueva la vita della città in quel momento. Tuttavia, la sua anima
conservò sempre i segni dell'educazione seria, anzi rigorosa, ricevuta nella sua provincia natale, famosa per
l'irreprensibilità morale dei suoi abitanti.
L'incontro con Lesbia-Clodia. C. è stato definito, a buon diritto, come il poeta della giovinezza e dell'amore,
per il suo modo di scrivere e di pensare: il tema principale della sua poesia è Lesbia, la donna che il poeta
amò con ogni parte del suo corpo e della sua anima, conosciuta nel 62, forse a Verona, più probabilmente
nella stessa Roma. Il vero nome della donna era Clodia, come ci rivela Apuleio nel "De magia" (chiamata
Lesbia, "la fanciulla di Lesbo", perché il poeta implicitamente la paragona a Saffo, la poetessa e la donna
amorosa appunto di Lesbo), identificabile con la sorella del tribuno della plebe (58) P. Clodio Pulcro
(agitatore del partito dei "populares" e alleato di Cesare, nonché mortale nemico di Cicerone), e moglie - per
interesse - del proconsole per il territorio cisalpino (tra il 62 e il 61) Q. Metello Celere.
Una storia difficile. La storia fra il poeta e Lesbia è molto travagliata: Clodia era una donna elegante,
raffinata, colta, ma anche libera nei suoi atteggiamenti e nel suo comportamento: nelle poesie di C. abbiamo,
così, diversi accenni allo stato d'animo provato per lei, a volte di affetto e amore, a volte di ira per i tradimenti
di lei: tutto, fino all'addio finale.
Il lutto familiare e la crescente delusione d'amore: il viaggio in Oriente. C. era a Roma, quando ebbe la
notizia della morte del fratello nella Troade. Tornò a Verona dai suoi e vi stette per alcuni mesi, ma le notizie
da Roma gli confermavano i tradimenti di Lesbia (ora legata a M. Celio Rufo, quello stesso che Cicerone
difese nella "Pro Caelio", rappresentando Clodia come una mondana d'alto rango, viziosa e corrotta). Il
poeta fece così ritorno nella capitale, sia perché non riusciva a star lontano dalla vita romana, sia per l’ormai
insostenibile gelosia. Deciso, infine, ad allontanarsi definitivamente da Roma, per dimenticare le sofferenza e
riaffermare il proprio patrimonio, il poeta accompagnò, nel 57, il pretore Caio Memmio in Bitinia, esattamente
il dedicatario del "De rerum natura" di Lucrezio. Laggiù, in Asia, il giovane C. entrò in contatto con l'ambiente
intellettuale dei paesi d'Oriente; fu probabilmente dopo questo viaggio, dopo essersi recato alla tomba del
fratello nella Troade per compiangerlo, che compose i suoi poemi più sofisticati, una volta tornato in patria.
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Il ritorno e la morte. C. tornò dal suo viaggio nel 56, e si recò nella villa di Sirmione, dove trascorse gli ultimi
due anni della sua vita, consumato fisicamente da un’oscura malattia (mal sottile?) e psichicamente dalla
sfortunata esperienza d’amore e dal dolore per la morte del fratello.
Opera.
Il "Liber" catulliano [vers.lat] [trad.it] consta di 116 di "carmi" (per un totale di circa 2300 versi), raggruppati in
3 sezioni non in base ad un ordine cronologico, bensì in base al metro ed allo stile, seguendo un criterio di
"variatio" e di alternanza fra temi affini, secondo la mentalità e l'usanza tipiche degli editori alessandrini.
Abbiamo, così:
- (cc. 1-60) sono brevi carmi polimetri che C. chiama "nugae", o "coserelle", "versi leggeri": ovvero,
espressioni di una poesia intesa come "lusus", scritta cioè per "gioco", per passatempo e divertimento, a cui
però il poeta stesso consegna la propria profonda e tormentata personalità e augura l'immortalità; i metri più
usati sono l'endecasillabo falecio (il più frequente), il trimetro giambico puro, il coliambo, la strofa saffica
minore, il priapeo, il tetrametro giambico catalettico, l'asclepiadeo maggiore, il trimetro giambico archilocheo;
- (cc. 61-68) sono definiti "carmina docta", di maggior respiro e complessità, tal che si è portati ad
individuarvi un maggiore impegno compositivo [ma, a tal proposito, vd. oltre]. Si tratta di elegie, epilli ed
epitalami nei quali cresce il tono esplicitamente letterario, lasciando naturalmente ancora spazio alle
caratteristiche catulliane: ovvero, l’epitalamio per le nozze di Manlio Torquato; un altro epitalamio, in
esametri, studiata e felice trasposizione moderna di Saffo; l' "Attis", poemetto in versi galliambi, strana
evocazione dei riti dedicati alla dea Cibale, un pezzo di bravura callimachea; il celebratissimo carme 64,
vasto epillio per le nozze di Péleo e Tétide (con inclusa la storia di Arianna), che è una piccola epopea
mitologica sempre alla maniera di Callimaco; la traduzione in esametri della "Chioma di Berenice" di
Callimaco, preceduta dalla dedica all’amico Ortalo in distici elegiaci; un’elegia epistolare di gusto
alessandrino, che ricorda il tempo felice dell’amore di Lesbia.
- (cc. 69-116) sono carmi brevi e di presa immediata, o "epigrammata" (epigrammi, elegie): i temi sono
praticamente gli stessi del I gruppo, ma resi con metro diverso: il distico elegiaco.
Il "liber" è dedicato a C. Nepote [c. 1], ma esso non è certamente il "libellus" della dedica, nel senso che
questo doveva comprendere, per esplicita dichiarazione del poeta stesso, solamente le "nugae", e non
anche i "carmina docta", come invece noi lo possediamo. L'opera, quale a noi è giunta, è - dunque - con
molta verosimiglianza, una raccolta postuma, nella quale accanto ai carmi del "libellus" trovò definitiva
sistemazione il corpus - non però integrale - della produzione poetica catulliana: insomma, di quella
produzione, esso sarebbe una raccolta antologica.
Considerazioni sull'autore e sull'opera.
Le "nugae" e il difficile rapporto con Lesbia. Il I e il III gruppo costituiscono, come detto, le "nugae", a cui è
consegnata tutta la storia dell’amore di C. per Lesbia, "frammentata" in 25 carmi che percorrono
trasversalmente i due gruppi [cc. 2, 3, 5, 7, 8, 11, 36, 37, 38, 40, 43, 51, 58, 70, 72, 75, 76, 79, 83, 85, 86,
87, 92, 107, 109]. Le peripezie di questa vera e propria autobiografia d'amore "romanzata", proprio a causa
di questa frammentazione e di una disposizione non cronologica delle varie tappe del rapporto, non ci
appaiono molto chiare: dovettero esservi giorni (e per lo meno una notte) di felicità, ma anche molte
sofferenze, giacché Clodia, checché se ne dica, prestava grande attenzione alla propria reputazione e al suo
onore di gran dama, e anche, molto più probabilmente, perché lei e C. non concepivano l'amore nello stesso
modo. Egli l'amava con la foga di un uomo giovane, si compiaceva nel fantasticare sull'idea che Clodia fosse
per lui "la sua sposa"; a lei, invece, quel nodo nuziale, dal quale la morte di Metello la liberò peraltro piuttosto
presto, ripugnava. Clodia, inoltre, era una donna che aspirava al successo e che amava civettare con uno
stuolo di giovani al suo fianco: C. era solo uno fra i tanti, mentre avrebbe desiderato essere l'unico, in nome
degli illusori diritti che dà l'amore. Quando si avvide che non era più amato, o quando se ne persuase, lo
proclamò ad alta voce in versi atroci, dove pretendeva che Lesbia addirittura si prostituisse con chi le
capitava. Seguì la separazione, dolorosa per lui e forse non senza noie per lei: "Amo e odio", le scriveva, "tu
vuoi sapere perché è così? Non so, ma so che è così, e soffro.
Il disimpegno e la rottura. Dunque, nel rapporto con Lesbia C. programmaticamente (e in piena fedeltà alla
poetica neoterica) trasferisce tutto il proprio impegno, sottraendosi ai doveri e agli interessi propri del "civis"
romano (del resto, sebbene vissuto in un'epoca di grandi cambiamenti politici, egli nelle sue composizioni
dimostra una grande indifferenza per le situazioni e per gli uomini più in vista, quali ad es. Cesare e
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Cicerone): tende insomma a ritagliarsi una sorta di "spazio del privato" ("otium"), dove vivere e parlare
esclusivamente d'amore.
Orbene, come detto, quel rapporto amoroso - nato essenzialmente come adulterio, come amore libero e
basato sull’eros - nel farsi oggetto esclusivo dell’impegno morale del poeta tende però, paradossalmente, a
configurarsi nelle aspirazioni dello stesso come un tenace vincolo matrimoniale; o quantomeno come un
"foedus", un ibrido originale – se vogliamo – dei due valori cardinali dell’ideologia e dell’ordinamento sociale
romano (la "fides" e la "pietas"), trasferiti dal piano pubblico ad un piano più decisamente "privato", e quindi
rinnovati nel loro significato.
Tuttavia, l’offesa ripetuta del tradimento (il "foedus violato") produce in C. una dolorosa dissociazione fra la
componente meramente sensuale ("amare") e quella profondamente affettiva ("bene velle"), fin allora
profondamente ed esistenzialmente intrecciate: resta forte il desiderio sessuale, mentre l'affetto, a fronte
delle delusioni e del tormento della gelosia, diminuisce man mano d'intensità.
Gli altri temi. Tuttavia, il "Liber" catulliano non coincide esclusivamente e completamente con la tormentosa
storia tra il poeta e Clodia (come invece spesso si pensa): accanto e in mezzo ad essa, quasi a formarne la
cornice "di costume e società", si trovano numerosi altri carmi, cui sono consegnati gli altri "temi" che vanno
a intarsiare la sfaccettata e complessa esistenza del poeta. La varietà di quei temi impone che se ne rilevino
(come del resto è stato fatto anche da critici illustri) almeno i più "importanti" o quantomeno i più
caratterizzanti, tal che sia possibile individuare dei veri e propri "cicli" alternativi e integrativi rispetto a quello
amoroso: si trovano, così, carmi rivolti contro "vizi privati e pubbliche virtù", ovvero di polemica
scopertamente sociale [ad es., contro i mediocri, i truffatori, gl'ipocriti e i moralisti] e letteraria [C. flagella i
poeti che seguono le orme del passato, come ad es. Volusio], ma anche larvatamente politica [ad es., l'ironia
contro il già detto Mamurra, un fidato di Cesare], in tono volentieri scurrile, satirico e spesso goliardico; carmi
dedicati al tema dell'amicizia [per Veranio e per Fabullo, più spontanea; per Calvo e Cinna, più letteraria], un
sentimento che C. vive quasi con la stessa intensità con cui vive l'amore (e altrettanto sdegnato e iroso è nei
confronti degli amici che lo hanno tradito, ad es. Alfreno Varo); carmi, infine, che esprimono profondi affetti
familiari e altissimi vincoli di sangue (alto è il senso della famiglia, in C.; non dimentichiamo, del resto, che il
poeta voleva sublimare a livello "familiare" lo stesso sentimento provato per Lesbia): tra questi ultimi, spicca
sicuramente il bellissimo c. 101, estremo e commovente saluto sulla tomba dello sfortunato fratello.
Continuità tra "nugae" e "carmina docta". Il II gruppo di carmi (61-68), invece, come accennato, è quello che
più lega C. al movimento neoterico, e quello che più corrisponde alla variante romana del gusto
alessandrino.
Ma la critica recente ha sottolineato come la distinzione tra "nugae" e "carmina docta" non implichi in C.
l’impiego di un diverso impegno letterario o di una tecnica differente, bensì solo di un diverso livello
espressivo: si tratta, insomma, in entrambi i casi, sempre di una lirica dotta e aristocratica (come i fruitori
dell’opera), secondo i canoni estetici dei neoteroi, anche laddove l’effetto patetico e certe movenze
apparentemente dimesse potrebbero far pensare ad un’espressione, per così dire, "popolare" (è, invece,
come più giustamente è stata definita, "ricercata spontaneità").
La lingua. La stessa lingua utilizzata è il risultato di un originale impasto di linguaggio letterario (uso di
grecismi ed arcaismi) e "sermo familiaris" (uso di diminutivi, di espressioni prosastiche, proverbiali e
"provinciali"), il secondo "filtrato" dal primo, a formare uno strumento agile e vivace, che riesce ad adattarsi ai
temi, alle occasioni e ai registri più svariati: dall'affetto all'amore, dall'ironia all'invettiva, dall'intimo al
pubblico.
C. primo vero poeta romano dell'amore "soggettivo". L’opera di C., anche se non è ancora quella di un
"elegiaco", è comunque l'espressione vivente di un sentimento personale e profondo, che ha già acquistato
diritto di cittadinanza nella poesia: egli fa dell'amore (e attraverso questo, della poesia) l'unica ragione di vita,
anzi in lui amore poesia e vita veramente coincidono. Per ciò che conserva ancora in sé di tumultuoso, di
ricercato e, in qualche modo, di impuro, C. è da mettere fra i predecessori immediati (ma è l'unico di essi ad
emergere) piuttosto che fra i poeti augustei, che formeranno in seguito il "classicismo" della poesia (anche
"erotica") romana.
"Catullo¸ Caio Valerio - Encarta"
Catullo, Caio Valerio (Verona 84 a.C. ca. - Roma 54 a.C. ca. ), poeta latino, celebre per le sue liriche
amorose.
Nato in una famiglia molto facoltosa, assai giovane si trasferì a Roma, dove frequentò l'alta società e
s'innamorò di una donna da lui cantata sotto lo pseudonimo di Lesbia, cui è dedicata gran parte dei suoi
carmi. Nel 57 a.C. si recò in Asia Minore, al seguito del propretore Gaio Memmio, poi fece ritorno nella sua
villa di Sirmione e di nuovo nella capitale. Le 116 poesie del suo Liber (giunto a noi certamente incompleto)
sono divise in tre gruppi secondo criteri metrici: le prime sessanta sono brevi pezzi d'occasione, le cosiddette
nugae (cose leggere), di carattere lirico, amoroso o satirico; al centro si trovano gli otto componimenti più
lunghi ed elaborati, i cosiddetti carmina docta, tra cui spiccano quello ispirato al mito di Attis (carme 63),
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quello che canta l'amore di Peleo e Teti (carme 64) e la traduzione della Chioma di Berenice di Callimaco
(carme 66); il terzo gruppo è costituito da epigrammi di argomento vario.
L'amore per Lesbia fu l'esperienza dominante della sua vita e della sua vicenda poetica, e a quest'amore si
diede tutto, con impeto e passione, alternando momenti di felicità e di perfetta armonia a tempestose rotture,
delusioni e ritorni. Ma i suoi versi esprimono anche la simpatia per gli amici, il dolore per la morte del fratello,
entusiasmi e antipatie per cose e persone.
L'epiteto doctus, attribuito a Catullo dai suoi successori, attesta la sua piena adesione agli ideali della poesia
alessandrina (Vedi Letteratura greca): la ricerca della perfezione tecnica è realmente alla base di tutta la sua
opera, ma non è affatto esercizio erudito fine a se stesso; l'abilità del letterato è sempre dominata dalla
coscienza morale, dalla fede nella vita, vissuta con sincerità e totale partecipazione. Ciò spiega la varietà dei
toni e dei registri, l'alternanza di sentimenti delicati e di insulti triviali, di preziosismi stilistici e di espressioni
immediate, familiari, a volte crude e popolaresche.
L'influenza di Catullo si riconosce nell'opera di numerosi poeti latini, da Ovidio a Orazio, da Properzio a
Virgilio e a Marziale. In epoca moderna lo hanno amato tutti i maggiori poeti lirici, specialmente inglesi e
tedeschi.
"Catullo¸ Caio Valerio - Treccani"
Catullo Caio Valerio (Verona 87 ca. - Sirmione 54 a.C.). Poeta latino, il principale esponente della scuola
neoterica. La vita di C. ci è nota soprattutto attraverso gli accenni autobiografici contenuti nei suoi
componimenti. Appartenne a famiglia abbastanza agiata ed in buona posizione sociale. Poco dopo il 70 si
trasferì a Roma, dove si legò di vivissima amicizia con Furio Bibaculo e Licinio Calvo, oltre che con altri
esponenti della scuola neoterica. Ostentò sempre una fiera indifferenza nei riguardi della politica militante,
anche se, quando gli si presentava l'occasione, non si asteneva dal manifestare le sue scarse simpatie per
Pompeo e Cesare, di cui colpì con aspri epigrammi il favorito, Mamurra, praefectus fabrorum, cioè capo del
genio militare; ma Cesare gli perdonò sempre. La determinante fondamentale di tutte le vicende romane di
C. va senz'altro identificata in Lesbia la donna che egli amò di un amore bruciante, sorella del tribuno Clodio,
il nemico di Cicerone. Non appare improbabile che C. abbia conosciuto Lesbia già nel 62, a Verona, dove
ella potrebbe essersi recata con il marito, che era appunto governatore della Gallia Cisalpina. La scelta dello
pseudonimo (il suo vero nome era Clodia) potrebbe essere giustificata dall'abitudine, diffusa fra i poeti latini,
almeno a quanto afferma Apuleio, di sostituire il nome della donna amata con un altro che avesse però lo
stesso numero di lettere, ma non è escluso che C. abbia voluto attraverso quel nome esprimere il suo
giudizio sulla raffinatissima eleganza e grazia di Clodia, che la rendevano ai suoi occhi paragonabile alle
fanciulle della scuola di Saffo. Soltanto i primi tempi di questo amore furono felici per C., poiché Lesbia, che
non aveva conosciuto la fedeltà nei riguardi dello sposo, non seppe o non volle imparare la fedeltà nei
riguardi dell'amante che pure sinceramente l'amava. Quando C. colpito dalla morte del fratello, morto in
giovane età durante un viaggio nella Troade, si ritirò a Verona, Lesbia a Roma si abbandonò all'amore di
Marco Celio Rufo. C. allora decise, nel 57, di partire per la Bitinia, al seguito del propretore C. Memmio. Nel
56 C. tornò a Roma, guarito dall'amore, divenuto ormai torbida passione, che l'aveva legato a Lesbia. Vani
riuscìrono i tentativi che ella fece tramite Furio e Aurelio di riconquistare il cuore del poeta, che l'aveva
troppo amata ma nello stesso tempo aveva troppo sofferto per avere la capacità di lasciarsi tormentare
ancora.
Di C. è a noi pervenuta una raccolta intitolata Catulli Veronensis liber o carmina, dedicata a Cornelio
Nepote e costituita di 116 componimenti. Si tratta di un canzoniere d'una intimità tutta moderna, nel quale ai
ricordi "dotti" continuamente riecheggiati secondo il gusto alessandrino si alternano elementi autobiografici.
In questo senso con C. si ha l'elegia romana, tendente rispetto a quella greca ad un maggiore verismo.
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T. Lucrezio Caro
Cenni biografici
La data di nascita oscilla tra il 94 e il 98, quella di morte tra il 51-50 e il 55-54.
Incerto anche il luogo di nascita, forse Roma, forse Pompei o altro centro campano.
Fatti sicuri relativi alla vita del poeta non si danno e la notizia biografica più estesa e allo stesso
tempo più controversa è quella di S. Girolamo, raccolta nella traduzione del Chronicon.
Gli elementi ricavabili da questa testimonianza sono quattro:
anno di nascita 96/94 (variabile attribuibile a trad. ms):
stato di malattia mentale (furor/insania) successivo all’assunzione di un filtro amoroso
composizione di un poema che dopo la morte Cicerone avrebbe “corretto” per un’edizione.
morte suicida a 43 anni
Una seconda testimonianza, relativa alla data della morte di Lucrezio, ci arriva dalla Vita di Vergilio
scritta da Elio Donato. L’elemento che se ne ricava è che Lucrezio sarebbe morto il giorno (15
ottobre) in cui Virgilio assunse la toga virile, nel 55, essendo consoli Pompeo e Crasso, come del
resto nello stesso anno di nascita del poeta mantovano (70).
Opere
De rerum natura.
Il poema è dedicato a un Memmio, identificabile con una certa sicurezza in Gaio Memmio (vedi
sub voce).
E’ un poema in esametri dattilici, per un totale di 7415 versi, organizzati in sei libri.
Dal punto di vista dei contenuti i sei libri sono raggruppabili in tre diadi.
I libro
Inno a Venere. Venere considerata come pura personificazione della forza generatrice della
natura.
Naturab dell’atomo e loro meccanismi di aggregazione.
Critica delle dottrine di Eraclito, Empedocle, Anassagora
II libro
Teoria del clinamen
III libro
III e IV libro espongono l’antropologia epicurea.
IV libro
Il problema della conoscenza.
Teoria dei simulacra.
La passione d’amore.
V libro
V e VI libro parlano della cosmologia
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V libro.
Moto degli astri.
Origine dell’umanità.
VI libro
Fenomeni fisici e naturali. Loro origine naturale.
La peste di Atene.
Osservazioni
Fortuna
Testi e testimonianze
Hier., chron., ol. 171
Titus Lucretius poeta nascitur, qui postea amatorio poculo [0525] in furorem versus, [b [0526A] Huc
spectare aiunt illud Statii lib. II, Sylv. 7, vers. 76: Et docti furor arduus Lucreti: quamquam id Fabricius in
bonam partem sumit pro ejnqousiasmwðé: neque enim credibile est illi, tam bonos per intervalla insaniae
potuisse libros conscribi. Aetatem ejus quod spectat, Pontacus in curis posterioribus, anno 44, cum pridem
editis rescribi jussit pro 43; eumque numerum Parmensis quoque apud nos ms. praefert: [0526B] Palatini
autem, teste Schurzfleischio, solos 43 habent. Vossius triennio adhuc citius Lucretii mortem consignat ex
scriptore Vitae Virgilii, qui eo die periisse illum testatur, quo Maro togam virilem sumpsit. Sed sunt et qui
eodem, quo natus est Virgilius die, Lucretium ferunt obiisse.] cum aliquot libros per intervalla insaniae
conscripsisset, quos postea Cicero emendavit, propria se manu interfecit, anno aetatis 44.
Cic., epist. ad Quint., 2,9,3
Lucreti poemata ut scribis ita sunt, multis luminibus ingeni, multae tamen artis.
Donat., Vita Vergili
Stat.,silv., 2,7,75 segg.
Haec primo iuvenis canes sub aevo,
ante annos Culicis Maroniani.
cedet Musa rudis ferocis Enni
et docti furor arduus Lucreti,
et qui per freta duxit Argonautas,
et qui corpora prima transfigurat.
quid? maius loquar: ipsa te Latinis
Aeneis venerabitur canentem.
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Ov., am.,1,15,23-24
Carmina sublimis tunc sunt peritura Lucreti,
exitio terras cum dabit una dies;
La poesia del grande Lucrezio morirà, quando un unico giorno seppellirà la terra;
Ov., trist., 2,423-428
Utque suo Martem cecinit gravis Ennius ore–
Ennius ingenio maximus, arte rudis–
explicat ut causas rapidi Lucretius ignis,
casurumque triplex vaticinatur opus,
sic sua lascivo cantata est saepe Catullo
femina, cui falsum Lesbia nomen erat;
nec contentus ea, multos vulgavit amores,
in quibus ipse suum fassus adulterium est.
Se Ennio, Ennio grandissimo per ingegno, ma artisticamente rozzo, cantò le guerre con il suo stile
severo; se Lucrezio spiega le cause del fulmine e predica la fine del mondo nei suoi tre elementi,
spesso il voluttuoso Catullo cantò la sua donna con lo pseudonimo di Lesbia; e non contento di lei,
ci parlò di molti amori e con ciò egli stesso confessò il proprio adulterio.
[già citato per Ennio]
Quint., inst., 10,1,86
Vtar enim uerbis isdem quae ex Afro Domitio iuuenis excepi, qui mihi interroganti quem Homero crederet
maxime accedere 'secundus' inquit 'est Vergilius, propior tamen primo quam tertio'. Et hercule ut illi naturae
caelesti atque inmortali cesserimus, ita curae et diligentiae uel ideo in hoc plus est, quod ei fuit magis
laborandum, et quantum eminentibus uincimur, fortasse aequalitate pensamus. Ceteri omnes longe
sequentur. Nam Macer et Lucretius legendi quidem, sed non ut phrasin, id est corpus eloquentiae, faciant,
elegantes in sua quisque materia, sed alter humilis, alter difficilis.
Traduzione
Fronto, de eloq., 1,2
In poetis <aut>em quis ignorat ut gracilis sit Lucilius, Albucius aridus, sublimis Lucretius, mediocris Pacuvius,
inaequalis Accius, Ennius multiformis? Historiam quoque scripsere Sallustius structe, Pictor incondite,
Claudius lepide, Antias invenuste, Seisenna longinque, verbis Cato multiiugis, Coelius singulis. Contionatur
autem Cato infeste, Gracchus turbulente, Tullius copiose. Iam in iudiciis saevit idem Cato, triumphat Cicero,
tumultuatur Gracchus, Calvus rixatur.
[2] Tra i poeti, chi non sa come Lucilio sia sottile, Albucio secco, Lucrezio sublime, Pacuvio
mediocre, Accio diseguale, Ennio vario? Di storia anche scrissero Satlustio in mode costruito,
Pittore senza eleganza, Claudio in maniera piacevole, Anziate senza grazia, Sisenna in modo
prolisso, Catone con vocaboli di vario senso, Celio con parole di un solo significato. I discorsi di
Catone poi sono aspri, quelli di Gracco veementi, quelli di Cicerone copiosi. Nei giudizi Catone
infierisce sempre, Cicerone trionfa, Gracco strepita, Calvo litiga.
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Trad. F. Portalupi, Torino, Utet, 1974
Lucr., 1, 62-83. Elogio di Epicuro.
Humana ante oculos foede cum vita iaceret
in terris oppressa gravi sub religione,
quae caput a caeli regionibus ostendebat
horribili super aspectu mortalibus instans,
primum Graius homo mortalis tollere contra
est oculos ausus primusque obsistere contra;
quem neque fama deum nec fulmina nec minitanti
murmure compressit caelum, sed eo magis acrem
inritat animi virtutem, effringere ut arta
naturae primus portarum claustra cupiret.
ergo vivida vis animi pervicit et extra
processit longe flammantia moenia mundi
atque omne immensum peragravit mente
animoque,
unde refert nobis victor quid possit oriri,
quid nequeat, finita potestas denique cuique
qua nam sit ratione atque alte terminus haerens.
quare religio pedibus subiecta vicissim
opteritur, nos exaequat victoria caelo.
Illud in his rebus vereor, ne forte rearis
impia te rationis inire elementa viamque
indugredi sceleris. quod contra saepius illa
religio peperit scelerosa atque impia facta.
Quando, alla vista di tutti, miseramente prostrato giaceva in terra l'umano genere sotto una tetra
superstizione, che il capo tendeva dalle celesti plaghe incombendo sugli uomini terrificante a
vedersi, un Greco osò per il primo figgerle contro i suoi occhi mortali, osò per il primo resisterle. E
non le favole dei numi, e non lo atterrirono i fulmini, e non il cielo col minaccioso rimbombo: anzi gli
stimolan tanto l'ardente ingegno che agogna per sé la gloria d'infrangere, primo, i sertami che
sbarrano le porte della natura. E vi perviene, col vivido ingegno, e con l'intelletto corre l'intero
universo, in lungo e in largo, ben oltre le fiammeggianti muraglie del cielo, e trionfatore riporta a
noi, di ritorno, che cosa possa aver vita, che cosa invece non possa, e per qual legge abbia un
limite ed abbia un termine fisso al suo potere ogni cosa. Posta così sotto i nostri piedi la
superstizione è calpestata a sua volta, e la vittoria ci adegua al cielo. Ma non pensare per caso, tu,
ciò che temo: ch'io, con siffatte opinioni, t'inizi a un'empia dottrina e t'incammini per strade
sacrileghe. Anzi, più d'una volta, la superstizione fu proprio lei che produsse gli empi ed orrendi
misfatti.
Trad. di B. Pinchetti (BUR 1953)
Mentre la vita umana giaceva sulla terra, turpe spettacolo, oppressa dal grave peso della religione,
che mostrava il suo capo dalle regioni celesti con orribile aspetto incombendo dall'alto sugli uomini,
per primo un uomo di Grecía ardì sollevare gli occhi mortali a sfidarla, e per primo drizzarlesi
contro: non lo domarono le leggende degli dei, né i fulmini, né il minaccioso brontolio del cielo; anzi
tanto più ne stimolarono il fiero valore dell'animo, così che volle infrangere per primo le porte
sbarrate defl'uníverso. E dunque trionfò la vivida forza del suo animo e si spinse lontano, oltre le
mura fiammeggianti del mondo, e percorse con il cuore e la mente l'immenso universo, da cui
riporta a noi vittorioso quel che può nascere, quel che non può, e infine per quale ragione ogni
cosa ha un potere definito e un termine profondamente connaturato. Perciò a sua volta abbattuta
sotto i piedi la religione è calpestata, tnentre la vittoria ci eguaglia al cielo.
In questo argomento temo ciò, che per caso tu creda d'iníziarti ai principi di un'ernpia dottrina e di
entrare in una via scellerata. Poiché invece, più spesso, fu proprio la religione a produrre scellerati
delitti.
Trad. L. Canali, Milano, Rizzoli, 1990.
Lucr., 2, 1-61. Elogio della filosofia.
Suave, mari magno turbantibus aequora ventis
e terra magnum alterius spectare laborem;
non quia vexari quemquamst iucunda voluptas,
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sed quibus ipse malis careas quia cernere suavest.
suave etiam belli certamina magna tueri
per campos instructa tua sine parte pericli;
F. D'ALESSI - Letteratura latina - Parte II,1 - Il periodo classico
sed nihil dulcius est, bene quam munita tenere
edita doctrina sapientum templa serena,
despicere unde queas alios passimque videre
errare atque viam palantis quaerere vitae,
certare ingenio, contendere nobilitate,
noctes atque dies niti praestante labore
ad summas emergere opes rerumque potiri.
o miseras hominum mentes, o pectora caeca!
qualibus in tenebris vitae quantisque periclis
degitur hoc aevi quod cumquest! nonne videre
nihil aliud sibi naturam latrare, nisi ut qui
corpore seiunctus dolor absit, mente fruatur
iucundo sensu cura semota metuque?
ergo corpoream ad naturam pauca videmus
esse opus omnino: quae demant cumque dolorem,
delicias quoque uti multas substernere possint
gratius inter dum, neque natura ipsa requirit,
si non aurea sunt iuvenum simulacra per aedes
lampadas igniferas manibus retinentia dextris,
lumina nocturnis epulis ut suppeditentur,
nec domus argento fulget auroque renidet
nec citharae reboant laqueata aurataque templa,
cum tamen inter se prostrati in gramine molli
propter aquae rivum sub ramis arboris altae
non magnis opibus iucunde corpora curant,
praesertim cum tempestas adridet et anni
tempora conspergunt viridantis floribus herbas.
nec calidae citius decedunt corpore febres,
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textilibus si in picturis ostroque rubenti
iacteris, quam si in plebeia veste cubandum est.
quapropter quoniam nihil nostro in corpore gazae
proficiunt neque nobilitas nec gloria regni,
quod super est, animo quoque nil prodesse
putandum;
si non forte tuas legiones per loca campi
fervere cum videas belli simulacra cientis,
subsidiis magnis et opum vi constabilitas,
ornatas armis stlattas pariterque animatas,
his tibi tum rebus timefactae religiones
effugiunt animo pavidae mortisque timores
tum vacuum pectus lincunt curaque solutum.
quod si ridicula haec ludibriaque esse videmus,
re veraque metus hominum curaeque sequaces
nec metuunt sonitus armorum nec fera tela
audacterque inter reges rerumque potentis
versantur neque fulgorem reverentur ab auro
nec clarum vestis splendorem purpureai,
quid dubitas quin omnis sit haec rationis potestas,
omnis cum in tenebris praesertim vita laboret?
nam vel uti pueri trepidant atque omnia caecis
in tenebris metuunt, sic nos in luce timemus
inter dum, nihilo quae sunt metuenda magis quam
quae pueri in tenebris pavitant finguntque futura.
hunc igitur terrorem animi tenebrasque necessest
non radii solis neque lucida tela diei
discutiant, sed naturae species ratioque.
Dolce è mirar dalla riva, quando sconvolgono i venti l'ampia distesa del mare, l'altrui gravoso
travaglio, non perché rechi piacere che uno si trovi a soffrire, ma perché scorgere i mali di cui siam
liberi è dolce: e dolce è assistere, senza che si partecipi al rischio, agli aspri scontri di guerra in
campo aperto: ma nulla è dolce più dello starsene nei ben muniti castelli che edificò la serena
speculazione dei savi, donde è concesso guardare gli altri dall'alto, e vederli qua, là vagare, e
sbandati cercar la via della vita, e manovrar coll'ingegno, e far valere i natali, e faticando sforzarsi
a gara il giorno e la notte di giungere alla ricchezza e di acquistarsi il potere.
O·tristi menti, o insensibili cuori degli uomini! in quale oscurità, fra che rischi scorre quel poco di
vita, quale esso sia, che c'è dato! e come mai non vedere che la natura a gran voce altro per sé
non reclama se non che resti lontana la sofferenza dal corpo, e che, rimosso l'affanno ed il timore
lo spirito goda di affetti gradevoli? Occorre dunque, si vede, a soddisfare i bisogni della natura ben
poco: quanto sopprima il dolore e possa offrire per sopra più numerosi piaceri. Pure assai vivo
diletto, se non esistono in casa - né la natura lo esige - statue di giovani, in oro, che nella destra
sorreggano accese faci, per dare luce, la notte, ai banchetti, se non rifulgon le sale d'oro e non
splendon d'argento, se non risuonano delle cetre i soffitti dorati a cassettoni ed intarsi, è ristorar la
persona allegramente, fra amici, con una spesa non grande, stesi in un soffice prato, lungo un
ruscello corrente, sotto le fronde d'un alto albero, specie se il tempo è bello, e la primavera
cosparge le verdeggianti erbe di fiori. Né cede la febbre ardente più presto in te, se smanii fra
rossa porpora e drappi a ricami, che non se devi star sotto coltri usuali.
Pertanto, poi che i tesori non giovano nulla alla nostra salute, né la potenza, né il nobile sangue,
pel resto, bisogna credere che essi non giovino neppure all'animo; a meno che, se tu veda
ondeggiare le tue legioni, schierate in campo a finte battaglie, ben salde per il gran numero delle
riserve è pel nerbo dei cavalieri, del pari splendenti d'armi, animose del pari, o veda far vela a la
flotta e correre il mare per ampio tratto, atterrite da ciò le superstizioni timidamente dal tuo animo
non se la svignino, ed i terrori di morte ti lascin libero il petto senza più l'ombra d'affanno.
Ma se son degne di riso simili fole e di scherno, ma se l'ambasce e se l'ansie, compagne all'uomo,
in effetti non temon punto il fragore dell'armi e i dardi mortiferi, anzi s'aggirano arditamente fra i re,
fra i potenti, e non rispettan né il fulgido oro, né il vivo splendore dei vestimenti di porpora, come
potrai dubitare che la ragione soltanto le possa mettere in fuga? Specie perché si travaglía al buio
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tutta la vita. Al buio pesto i bambini tremano e temon di tutto, e noi talvolta alla luce temiam di cose
che sono non più tremende di quelle che al buio temono i bimbi, e pensan stian per succedere
loro. E' perciò necessario che non i raggi del sole, che non le lucide frecce del giorno spazzino via
questo terrore dell'animo con le sue tenebre, ma la razional conoscenza della natura.
Trad. di B. Pinchetti (BUR 1953)
E’ dolce, quando i venti sconvolgono le distese del vasto mare,
guardare da terra il grande travaglio di altri;
non perché l'altrui tormento procuri giocondo diletto,
bensì perché t'allieta vedere da quali affanni sei immune.
E dolce anche guardare le grandi contese di guerra
ingaggiate in campo, senza alcuna tua parte di pericolo.
Ma nulla è più dolce che abitare là in alto i templi sereni
del cielo saldamente fondatí sulla dottrina dei sapienti,
da dove tu possa abbassare lo sguardo sugli altri e vederli
errare smarriti cercando qua e là il sentiero della vita,
gareggiare d'ingegno, competere per nobiltà di sangue,
e sforzarsi giorno e notte con straordinaria fatica
di giungere a eccelsa opulenza e d'impadronirsi del potere.
O misere menti degli uomini, o animi ciechi!
In quale tenebrosa esistenza e fra quanto grandi pericoli
si trascorre questa breve vita! Come non vedere
che null'altro la natura ci chiede con grida imperiose,
se non che il corpo sia esente dal dolore, e nell'anima goda
d'un senso gioioso sgombra d'affanni e timori?
Dunque vediamo che al nostro corpo necessitano
ben poche cose che possano lenire il dolore
e in tal modo offrano anche molti soavi piaceri;
talvolta è più gradevole - la stessa natura non soffre,
se all'interno dei palazzi non vi sono auree statue
di giovani che reggono con la destra fiaccole
accese per fornire in tal modo luce ai notturni banchetti,
e se l'edíficio non brilla d'argento e non risplende d'oro,
né le cetre fanno echeggiare i dorati riquadri dei soffitti –
quando tuttavia fra amici adagiati su molle erba
lungo il corso d'un ruscello sotto i rami d'un alto albero
con modesti agi ristorano gradevolmente le membra,
soprattutto se il tempo sorride e la stagione dell'anno
cosparge ovunque le verdeggíanti erbe di fiori.
Né le ardenti febbri si dileguano prima dal corpo,
se tu puoi rigirarti fra drappi trapunti e rosseggiante porpora,
piuttosto che se devi giacere su una coltre plebea.
Dunque poiché i tesori, la nobiltà, la gloria del regno
nulla giovano al nostro corpo, devi stimare
del pari che nulla giovano anche al nostro animo;
a meno che per caso al vedere le tue legioni irrompere
fervíde in campo suscitando fantasmi di guerra
rafforzate da forti riserve e da squadroni di cavalli,
allo schierarle equipaggiate d'armi e pari di bellicosi spiriti,
e allo scorgere la flotta veleggiare rapida e spaziare sulle acque,
le superstizioni religiose atterrite da tali spettacoli
non fuggano pavide dal tuo animo, e i timori della morte
lascino allora il cuore libero e scevro da affanni.
Ma se tali argomenti ci appaiono ridicoli e degni di scherno,
e in realtà il timore degli uomini e i persistenti affanni
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non temono il fragore delle armi né i colpi mortali,
e si aggirano audacemente fra i re e i potenti della terra,
né hanno alcuna reverenza per il fulgore dell'oro
oppure del luminoso splendore d'una veste purpurea,
come puoi dubitare che questo potere sia tutto della ragione
poiché la vita è sempre e interamente travagliata dalle tenebre?
Infatti come i fanciulli nelle tenebre temono
e hanno paura di tutto, così nella luce noi talvolta
temiamo cose che non sono affatto più spaventose
di quelle che i fanciulli paventano nelle tenebre immaginandole imminenti.
E dunque necessario che questo terrore dell'animo e queste tenebre
siano dissipate non dai raggi del sole né dai fulgidi dardi
del giorno, bensì dall’evidenza della dottrina naturale.
Trad. L. Canali, Milano, Rizzoli, 1990 (BCTV, Comm. I. Dionigi)
Lucr., 5, 1161-1240. Origine della religione.
Nunc quae causa deum per magnas numina gentis
pervulgarit et ararum compleverit urbis
suscipiendaque curarit sollemnia sacra,
quae nunc in magnis florent sacra rebus locisque,
unde etiam nunc est mortalibus insitus horror,
qui delubra deum nova toto suscitat orbi
terrarum et festis cogit celebrare diebus,
non ita difficilest rationem reddere verbis.
quippe etenim iam tum divom mortalia saecla
egregias animo facies vigilante videbant
et magis in somnis mirando corporis auctu.
his igitur sensum tribuebant propterea quod
membra movere videbantur vocesque superbas
mittere pro facie praeclara et viribus amplis.
aeternamque dabant vitam, quia semper eorum
subpeditabatur facies et forma manebat,
et tamen omnino quod tantis viribus auctos
non temere ulla vi convinci posse putabant.
fortunisque ideo longe praestare putabant,
quod mortis timor haut quemquam vexaret eorum,
et simul in somnis quia multa et mira videbant
efficere et nullum capere ipsos inde laborem.
praeterea caeli rationes ordine certo
et varia annorum cernebant tempora verti
nec poterant quibus id fieret cognoscere causis.
ergo perfugium sibi habebant omnia divis
tradere et illorum nutu facere omnia flecti.
in caeloque deum sedes et templa locarunt,
per caelum volvi quia nox et luna videtur,
luna dies et nox et noctis signa severa
noctivagaeque faces caeli flammaeque volantes,
nubila sol imbres nix venti fulmina grando
et rapidi fremitus et murmura magna minarum.
O genus infelix humanum, talia divis
cum tribuit facta atque iras adiunxit acerbas!
quantos tum gemitus ipsi sibi, quantaque nobis
volnera, quas lacrimas peperere minoribus nostris!
nec pietas ullast velatum saepe videri
vertier ad lapidem atque omnis accedere ad aras
nec procumbere humi prostratum et pandere palmas
F. D’Alessi © 2002
ante deum delubra nec aras sanguine multo
spargere quadrupedum nec votis nectere vota,
sed mage pacata posse omnia mente tueri.
nam cum suspicimus magni caelestia mundi
templa super stellisque micantibus aethera fixum,
et venit in mentem solis lunaeque viarum,
tunc aliis oppressa malis in pectora cura
illa quoque expergefactum caput erigere infit,
ne quae forte deum nobis inmensa potestas
sit, vario motu quae candida sidera verset;
temptat enim dubiam mentem rationis egestas,
ecquae nam fuerit mundi genitalis origo,
et simul ecquae sit finis, quoad moenia mundi
et taciti motus hunc possint ferre laborem,
an divinitus aeterna donata salute
perpetuo possint aevi labentia tractu
inmensi validas aevi contemnere viris.
praeterea cui non animus formidine divum
contrahitur, cui non correpunt membra pavore,
fulminis horribili cum plaga torrida tellus
contremit et magnum percurrunt murmura caelum?
non populi gentesque tremunt, regesque superbi
corripiunt divum percussi membra timore,
ne quod ob admissum foede dictumve superbe
poenarum grave sit solvendi tempus adauctum?
summa etiam cum vis violenti per mare venti
induperatorem classis super aequora verrit
cum validis pariter legionibus atque elephantis,
non divom pacem votis adit ac prece quaesit
ventorum pavidus paces animasque secundas?
ne quiquam, quoniam violento turbine saepe
correptus nihilo fertur minus ad vada leti.
usque adeo res humanas vis abdita quaedam
opterit et pulchros fascis saevasque secures
proculcare ac ludibrio sibi habere videtur.
denique sub pedibus tellus cum tota vacillat
concussaeque cadunt urbes dubiaeque minantur,
quid mirum si se temnunt mortalia saecla
atque potestatis magnas mirasque relinquunt
in rebus viris divum, quae cuncta gubernent?
F. D'ALESSI - Letteratura latina - Parte II,1 - Il periodo classico
200
Più facile ora è capire come l'idea degli dèi si sia diffusa tra i grandi popoli, ed abbia stipato delle
are sue le città, ed abbia indotto a introdurre i sacri riti dei culto, solenni, quelli che ancora sono
oggi in auge fra tanto progresso e in centri sì grandi, onde ancor oggi negli uomini insito è quello
spavento che erige in tutta la terra nuovi delubri agli dèi, e vi fa correre nelle festività tutti quanti.
Sin da quei tempi, in effetti, vedevan gli uomini svegli, e più nei sogni, col corpo mirabilmente
ingrandito numi d'aspetto stupendo. E poi che, a quanto appariva, essi movevan le membra ed
emettevan terribili voci appropriata alla enorme forza e allo splendido aspetto adunque a loro, per
questo, attribuivano il senso, e li facevano eterni, giacché se ne rinnovava sempre la vista, e la
forma restava sempre immutata, e poi perché giudicavano che, tanto forti com'erano, nessuna
forza potesse agevolmente sopprimerli.
E giudicavan che avessero ben più propizia la sorte, perché il timor di morire non li affliggeva, e
compivano - così vedevano in sogno - molte e mirabili imprese senza che mai li prendesse
stanchezza alcuna. Scorgevano inoltre che i movimenti del cielo e che le diverse stagioni si
avvicendavano con successione uniforme, e non potevan conoscere per quali cause. Ne uscivano
dunque affidando agli dèi tutto, e facendo che tutto fosse guidato dal cenno divino. E posero in
cielo le sedi e i templi dei numi, perché si vedono evolvere la notte cielo, e la luna: la luna, il giorno
e la notte, ed i severi notturni segni, e le erranti notturne fací del cielo, e i volanti fuochi, le nubi, le
piogge, la neve, il sole, la grandine, i venti, i fulmini, i rapidi fremiti ed i minaccevoli vasti fragori.
Ah, da quando fece dipendere dagli dèi tali fatti, e vi aggiunse il fiero sdegno, infelice umanità! Da
quel tempo quanti lamenti a lei stessa, quante ferite a noi, quali lacrime ai nostri nepoti essi non
han partorito!
Ed ostentar di girare, velato,intorno ad un sasso, ed accostarsi agli altari tutti, e cader faccia a terra
davanti ai templi dei numi, e alzar le palme, e del sangue di numerosi quadrupedi spargere l'are ed
appendere voti su voti, codesto proprio non è religione: bensì saper penetrare a cuor tranquillo i
fenomeni. Quando, in effetti, osserviamo i domi del firmamento immensi, e l'etere immobile sopra
le stelle che brillano, e ripensiamo al cammino che fanno il sole e la luna, comincia allora a
destarsi ed a levare la testa, nel cuore oppresso dagli altri mali anche quella inquietudine se per
noi forse non sia l'onnipotenza dei numi quella che volge con vario moto le candide stelle: perché
ci rende perplessi l'oscurità del problema, se ci sia stato un principio generatore del mondo, e sino
a quando potranno durar le mura del cielo a questa loro fatica del movimento affannoso: o se, per
caso, non possano, scorrendo con l'infinito volo del tempo, dotate d'eternità dagli dèi, sfidare
invece le salde forze del tempo infinito. D'altronde, a chi non si agghiaccia l'animo per la paura dei
numi, a chi non s'aggricciano per lo spavento le membra, quando sussulta la terra arsa dal colpo
tremendo delle saette ed i tuoni corrono pel firmamento? Non treman popoli e genti, e non si fanno
piccini i re superbi, percossi dal religioso timore che quella è l'ora in cui debbono amaramente
scontare il fio dei turpi delitti e del superbo linguaggio? E non invoca nei voti tregua dai numi, e non
chiede nelle preghiere la calma dei venti e soffi propizii, pavido il duce, anche quando la violenza
inaudita del vento che si scatena sbalza sull'onde pel mare la flotta, insieme alle forti legioni ed agli
elefanti: e invano: ché strascinato sovente dal violento turbine è spinto, con tutto ciò, nelle secche
a morire? Sino a tal punto una occulta forza calpesta le umane cose, e si vede che vilipende e
beffeggia per proprio conto gli splendidi fasci e le terribili scuri. E quando poi sotto ai piedi vacilla
scossa la terra e le città van sossopra, e minacciandolo oscillano, qual meraviglia che gli uomini
mortali si dísistimino e si riducano a credere che la gran possa e le forze straordinarie dei numi
debbano reggere il tutto?
Trad. di B. Pinchetti (BUR 1953)
Ora qual causa ha diffuso fra le grandi popolazioni
I numi degli dèí, riempito di altari le città
e fatto sì che venissero accolti i riti sacri
che tuttora si celebrano splendidamente in solenni eventi e sedi,
da dove ancor oggi s'insinua nei mortali il terrore,
che innalza su tutta la terra nuovi templi agli dèi
e costringe la folla a frequentarli nei giorni festivi,
non è certo difficile spiegare con chiare parole.
F. D’Alessi © 2002
F. D'ALESSI - Letteratura latina - Parte II,1 - Il periodo classico
Già dai tempi più remoti le genti mortali
vedevano da svegli le straordinarie immagini degli dei,
e ancor più in sogno la mirabile altezza del loro corpo.
A esse dunque attribuivano il senso, poiché le vedevano
muovere le membra e pronunciare superbe parole,
degne dei volti sovrumani e del grande potere delle forze.
E assegnavano loro una vita eterna, perché nel perpetuo riprodursi
della loro immagine, la figura restava immutata,
ma soprattutto perché ritenevano che forniti di così grande potenza
non era possibile vincerli con alcuna forza.
E ritenevano che fossero molto più fortunati di ogni altra creatura,
poiché nessuno di loro tormentava il timore della morte,
e insieme li vedevano in sogno compiere azioni prodigiose,
e tuttavia non risentire alcuna fatica.
Scrutavano inoltre l'inflessibile norma del cielo,
la vicenda delle varie stagioni dell'anno,
né potevano comprendere per quali ragioni questo accadesse.
Non avevano dunque altro scampo che affidare ogni cosa agli dèi,
e pensare che tutto obbedisse a un loro consenso.
Posero in cielo le sedi e le dimore degli dei,
perché appaiono volgersi in cielo la notte e la luna, la luna,
il giorno e la notte, e della notte gli astri severi,
le erranti meteore notturne, le fiamme volanti,
il sole, le nubi, le piogge, la neve, la grandine, i venti,
i fulmini, i rombi improvvisi, il minaccioso mormorio dei tuoni.
O misera stirpe dei mortali, quando ebbe assegnato
tali effetti agli dèi, e aggiunto loro la collera acerba!
Quanti gemiti procurarono allora a se stessi,
quante sofferenze a noi e lagrime ai nostri figli!
Non v'è alcuna devozione nel mostrarsi spesso con il capo velato,
nel rivolgersi a una statua di pietra e visitare tutti i templi,
nel gettarsi prosternati in terra e nel tendere le palme
davanti ai templi degli dei, nel cospargere le are
di molto sangue di anímali, nel reiterare offerte votive:
devozione è piuttosto poter guardare tutto con mente serena.
Quando leviamo lo sguardo agli spazi celesti
del vasto mondo, e più in alto all'etere trapunto di astri lucenti,
e ci vengono in mente le vie della luna e del sole,
allora un'angoscia sepolta dagli altri dolori nel cuore
comincia a destarsi e anch'essa a levare la testa:
per caso non si mostra a noi un immenso potere divino,
che volge le stelle lucenti nei loro molteplici moti?
Ignorare le cause assilla le menti dubbiose,
se il mondo abbia avuto davvero un'origine e un giorno natale,
e insieme se avrà un termine, fino a quando le sue mura
reggeranno a questo travaglio di moti impetuosi,
o se, per volere divino provvisti di eterna durata,
potranno durare intatti per evi perpetui,
e spregiare la forza indomabile d'immensi spazi di tempo.
Inoltre a chi non si stringe il cuore per timore degli dèi,
a chi non si ghiacciano le membra per lo spavento,
quando al tremendo colpo del fulmine la terra bruciata sussulta
e un rombo minaccioso percorre il vasto cielo?
Non tremano popoli e genti, e í superbi re
forse non contraggono le membra percossi dal terrore dei numi,
se temono che sia sopraggiunto il gravoso tempo di subire
il castigo di qualche azione empia o parola troppo orgogliosa?
E quando l'estrema violenza d'un vento sfrenato
spazza sulle onde il comandante d'una flotta
con le forti legioni e gli elefanti,
egli non implora atterrito gli dèi con preghiere e con voti
che si acquietino i venti e spírino favorevoli brezze,
F. D’Alessi © 2002
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F. D'ALESSI - Letteratura latina - Parte II,1 - Il periodo classico
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ma invano, poiché spesso ghermito dal violento turbine
è ugualmente travolto e sprofondato nei gorghi della morte?
Così una forza sconosciuta calpesta le cose umane
e sembra abbattere e svilíre a proprio ludibrio
i nobili fasci e con essi le spietate scuri.
Infine, quando tutta la terra vacilla sotto i piedi,
e le squassate città crollano, o restano in minaccioso bilico,
qual meraviglia se le stirpi mortali spregiano se stesse
e lasciano il mondo all'immaginario grande potere
e alle mirabili forze degli dèi, che governino tutte le cose?
Trad. L. Canali, Milano, Rizzoli, 1990 (BCTV, Comm. I. Dionigi)
4, 1058-1191 Gli effetti dell'amore
Haec Venus est nobis; hinc autemst nomen Amoris,
hinc illaec primum Veneris dulcedinis in cor
stillavit gutta et successit frigida cura;
nam si abest quod ames, praesto simulacra tamen
sunt
illius et nomen dulce obversatur ad auris.
sed fugitare decet simulacra et pabula amoris
absterrere sibi atque alio convertere mentem
et iacere umorem coniectum in corpora quaeque
nec retinere semel conversum unius amore
et servare sibi curam certumque dolorem;
ulcus enim vivescit et inveterascit alendo
inque dies gliscit furor atque aerumna gravescit,
si non prima novis conturbes volnera plagis
volgivagaque vagus Venere ante recentia cures
aut alio possis animi traducere motus.
Nec Veneris fructu caret is qui vitat amorem,
sed potius quae sunt sine poena commoda sumit;
nam certe purast sanis magis inde voluptas
quam miseris; etenim potiundi tempore in ipso
fluctuat incertis erroribus ardor amantum
nec constat quid primum oculis manibusque
fruantur.
quod petiere, premunt arte faciuntque dolorem
corporis et dentes inlidunt saepe labellis
osculaque adfigunt, quia non est pura voluptas
et stimuli subsunt, qui instigant laedere id ipsum,
quod cumque est, rabies unde illaec germina
surgunt.
sed leviter poenas frangit Venus inter amorem
blandaque refrenat morsus admixta voluptas.
namque in eo spes est, unde est ardoris origo,
restingui quoque posse ab eodem corpore
flammam.
quod fieri contra totum natura repugnat;
unaque res haec est, cuius quam plurima habemus,
tam magis ardescit dira cuppedine pectus.
nam cibus atque umor membris adsumitur intus;
quae quoniam certas possunt obsidere partis,
hoc facile expletur laticum frugumque cupido.
ex hominis vero facie pulchroque colore
nil datur in corpus praeter simulacra fruendum
tenvia; quae vento spes raptast saepe misella.
ut bibere in somnis sitiens quom quaerit et umor
F. D’Alessi © 2002
non datur, ardorem qui membris stinguere possit,
sed laticum simulacra petit frustraque laborat
in medioque sitit torrenti flumine potans,
sic in amore Venus simulacris ludit amantis,
nec satiare queunt spectando corpora coram
nec manibus quicquam teneris abradere membris
possunt errantes incerti corpore toto.
denique cum membris conlatis flore fruuntur
aetatis, iam cum praesagit gaudia corpus
atque in eost Venus ut muliebria conserat arva,
adfigunt avide corpus iunguntque salivas
oris et inspirant pressantes dentibus ora,
ne quiquam, quoniam nihil inde abradere possunt
nec penetrare et abire in corpus corpore toto;
nam facere inter dum velle et certare videntur.
usque adeo cupide in Veneris compagibus haerent,
membra voluptatis dum vi labefacta liquescunt.
tandem ubi se erupit nervis coniecta cupido,
parva fit ardoris violenti pausa parumper.
inde redit rabies eadem et furor ille revisit,
cum sibi quod cupiant ipsi contingere quaerunt,
nec reperire malum id possunt quae machina vincat.
usque adeo incerti tabescunt volnere caeco.
Adde quod absumunt viris pereuntque labore,
adde quod alterius sub nutu degitur aetas,
languent officia atque aegrotat fama vacillans.
labitur interea res et Babylonia fiunt
unguenta et pulchra in pedibus Sicyonia rident,
scilicet et grandes viridi cum luce zmaragdi
auro includuntur teriturque thalassina vestis
adsidue et Veneris sudorem exercita potat.
et bene parta patrum fiunt anademata, mitrae,
inter dum in pallam atque Alidensia Ciaque vertunt.
eximia veste et victu convivia, ludi,
pocula crebra, unguenta, coronae, serta parantur,
ne quiquam, quoniam medio de fonte leporum
surgit amari aliquid, quod in ipsis floribus angat,
aut cum conscius ipse animus se forte remordet
desidiose agere aetatem lustrisque perire,
aut quod in ambiguo verbum iaculata reliquit,
quod cupido adfixum cordi vivescit ut ignis,
aut nimium iactare oculos aliumve tueri
quod putat in voltuque videt vestigia risus.
Atque in amore mala haec proprio summeque
secundo
F. D'ALESSI - Letteratura latina - Parte II,1 - Il periodo classico
inveniuntur; in adverso vero atque inopi sunt,
prendere quae possis oculorum lumine operto.
innumerabilia; ut melius vigilare sit ante,
qua docui ratione, cavereque, ne inliciaris.
nam vitare, plagas in amoris ne iaciamur,
non ita difficile est quam captum retibus ipsis
exire et validos Veneris perrumpere nodos.
et tamen implicitus quoque possis inque peditus
effugere infestum, nisi tute tibi obvius obstes
et praetermittas animi vitia omnia primum
aut quae corporis sunt eius, quam praepetis ac vis.
nam faciunt homines plerumque cupidine caeci
et tribuunt ea quae non sunt his commoda vere.
multimodis igitur pravas turpisque videmus
esse in deliciis summoque in honore vigere.
atque alios alii inrident Veneremque suadent
ut placent, quoniam foedo adflictentur amore,
nec sua respiciunt miseri mala maxima saepe.
nigra melichrus est, inmunda et fetida acosmos,
caesia Palladium, nervosa et lignea dorcas,
parvula, pumilio, chariton mia, tota merum sal,
magna atque inmanis cataplexis plenaque honoris.
balba loqui non quit, traulizi, muta pudens est;
at flagrans, odiosa, loquacula Lampadium fit.
ischnon eromenion tum fit, cum vivere non quit
prae macie; rhadine verost iam mortua tussi.
203
at nimia et mammosa Ceres est ipsa ab Iaccho,
simula Silena ac Saturast, labeosa philema.
cetera de genere hoc longum est si dicere coner.
sed tamen esto iam quantovis oris honore,
cui Veneris membris vis omnibus exoriatur;
nempe aliae quoque sunt; nempe hac sine viximus
ante;
nempe eadem facit et scimus facere omnia turpi
et miseram taetris se suffit odoribus ipsa,
quam famulae longe fugitant furtimque cachinnant.
at lacrimans exclusus amator limina saepe
floribus et sertis operit postisque superbos
unguit amaracino et foribus miser oscula figit;
quem si iam ammissum venientem offenderit aura
una modo, causas abeundi quaerat honestas
et meditata diu cadat alte sumpta querella
stultitiaque ibi se damnet, tribuisse quod illi
plus videat quam mortali concedere par est.
nec Veneres nostras hoc fallit; quo magis ipsae
omnia summo opere hos vitae poscaenia celant,
quos retinere volunt adstrictosque esse in amore,
ne quiquam, quoniam tu animo tamen omnia possis
protrahere in lucem atque omnis inquirere risus
et, si bello animost et non odiosa, vicissim
praetermittere <et> humanis concedere rebus.
Questa è Venere per noi; di qui anche il nome d'amore, di qui prima volta stillò quella goccia di
dolcezza d'amore: la seguì gelida ansia. Perché se ciò che ami è lontano, pure i suoi simulacri
sono accanto, all'orecchio è presente dolce il suo nome. Ma conviene fuggire i simulacri, e alimenti
d'amore respingere via da sé, e rivolgere altrove la mente, e gettare l'umore raccolto dentro corpi
qualunque né conservarlo, rivolto per sempre a unico amore, e tenerci per noi ansia e certo
travaglio. Incrudisce la piaga, si radica, quando è nutrita, e nei giorni cova crescente follia,
s'aggrava la pena, se con nuovi colpi non sconvolgi le prime ferite, e le curi ancora recenti,
vagando con venere vulgivagante o altrove tu riesca a rivolgere i moti mentali.
Né è privo del frutto di Venere colui che evita amore: ne raccoglie, piuttosto, i vantaggi, senza
soffrire, ché chi è sano ne trae certamente piacere più puro che i poveretti. E infatti persino
nell'attimo dei possesso oscilla l'ardore degli amanti in un vagare indeterminato, né sono certi di
che prima godere con gli occhi e le mani. Ciò che inseguivano, lo schiacciano stretto, fanno male
al corpo, figgono a volte i denti dentro le labbra, s'incollano le labbra, perché non è puro piacere:
ed esistono impulsi nascosti che li spingono ad aggredire proprio l'oggetto, qualunque, da cui
sorgono i germi di quella furia. Ma nell'atto d'amore leggermente spezza Venere i suoi tormenti, e il
piacere gradevole che è ivi frammisto frena i morsi del male.
Perché in questo è speranza: donde viene il principio d 'ardore dal medesimo corpo possa anche
esser spenta la fiamma; ma risponde Natura che accade il contrario, e che questa è la sola cosa,
di cui più noi ne abbiamo, tanto più prende fuoco, per brama mostruosa, il cuore. Cibo e acqua
s'assumono infatti dentro le membra; e poiché possono conquistare parti determinate, facilmente
si sazia desiderio di cibo e bevande.
Ma del volto d'una persona, d'un bel sembiante, nulla è lecìto portarsi dentro il corpo, se non esili
simulacri: e li spinge nel vento, spesso, misera attesa. Come dentro i sogni l'assetato cerca di
bere, e acqua non gli vien data, che possa spegnere l'ardore delle membra, ma si slancia a
fantasmi di acque, e invano fatica, e nel mezzo di fiume impetuoso ha sete mentre beve, così
dentro l'amore Venere illude gli amanti, e non riescono a saziare il corpo guardando quel corpo da
presso, né con le mani possono raschiar via cosa alcuna dalle tenere membra mentre vagano
indeterminati per tutto il corpo. E quando congiunte le membra usano infine del fiore d'età, quando
già sente il corpo arrivare il godimento, ed è giunta Venere al punto d'irrorare un femmineo campo,
bramosamente schiacciano il corpo, mischiano le salive della bocca, respirano premendo coi denti
F. D’Alessi © 2002
F. D'ALESSI - Letteratura latina - Parte II,1 - Il periodo classico
204
le bocche inutilmente, perché nulla da lì potranno raschiare, né penetrare e sparire, tutto il corpo
nel corpo; perché questo a volte sembrano volere, e lottare.
Così bramosamente stanno avvinti nell'unione d'amore, fino a quando si rilasciano le membra,
fiaccate dalla forza del piacere.
E in fine, quando si libera il desiderio raccolto nei nervi, c'è per poco una piccola sosta dell'ardore
violento. Poi ritorna la furia di prima, li riprende quella follia, e allora si chiedono che mai sia ciò
che vogliono ottenere, e non riescono a scoprire un rimedio che vinca quel male: così dunque
indecisi si disfanno per cieca ferita.
Aggiungi che sperdono forze, si distruggono per la fatica, aggiungi che si passa la vita al cenno di
altri.
Si disperde, in quel mentre, l'avere, si trasforma in drappi alla moda; il dovere languisce, il buon
nome vacilla intaccato.
Ma sorridono unguenti e calzari sicioni nei piedi e, sicuro, i grandi smeraldi che hanno verde la
luce son montati nell'oro, la veste colore di mare si consuma per l'uso continuo, beve consunta
amoroso sudore. I guadagni onorati dei padri si fanno mitre e diademi, si trasformano a volte in
vestiti, stoffe di Alinda e di Ceo. Si allestiscono ricevimenti con decorazioni e portate mirabili, feste,
boccali continui, profumi corone ghirlande: inutilmente, perché in mezzo al fonte di quei piaceri
sgorga un che di amaro, che soffoca anche tra i fiori, o quando a volte l'animo stesso,
consapevole, si rode di passare la vita a far niente, di annullarsi nei bordelli, o perché lei ha gettato
e lasciato lì un'ambigua parola, che confitta nel cuore preso da desiderio incrudisce come fiamma,
o perché pensa che quella troppo getta gli occhi d'intorno, e guarda un altro, o ravvisa nel volto la
traccia d'un sorriso.
E si scoprono questi mali in un amore che va bene e assai fortunato; in uno che vada male o
senza speranza senza numero sono i mali, che puoi cogliere pure a occhi chiusi; sì ch'è meglio
vegliare da prima, in quel modo che ho detto, e badare a non essere avvinto: perché fare
attenzione a non esser gettati in reti d'amore non è così arduo come uscir dalle reti, se si è in esse
caduti, e dissolvere i nodi robusti d'amore.
Pure, anche irretito e avviluppato tu potresti sfuggire l'avversario, se non fossi tu a ostacolare te
stesso, ignorando anzitutto i difetti tutti dell'animo o anche quelli che sono del corpo di lei, che tu
brami e vuoi. Questo fanno di solito gli uomini, accecati dal desiderio, e accordano a esse qualità
che non hanno realmente: e per questo vediamo donne brutte e sgradevoli sotto molti aspetti
essere oggetto di teneri amori, e avere grande successo. L'un con l'altro si prendono in giro, e si
spingono ad ammansire Venere, poiché sono attristati da ignobile amore: spesso non vedono, i
poveretti, loro stesse immense disgrazie. Quella scura: «honey-dark», trasandata e fetente: «un
po' casual», verdazzurra negli occhi: «Palladia», tutta nervi e legnetti: «gazzella», corta come una
nana «a real star, tutta pepe davvero! », grande senza misura «she's a wonder, che classe! ».
Balbuziente, non riesce a parlare: «scherzosa», muta «così riservata! », antipatica aggressiva
ciarliera poi diventa «una fiamma». «My little love», se non riesce più a vivere per la consunzione;
è già morta di tosse, «so tender»... Quella grossa e tettuta «come Cerere dopo il parto di lacco»,
naso piatto: «Silena», o «una Satira», labbrona: «a living kiss». Troppo lungo, se volessi dir tutti i
fatti come questi.
Ma abbia pure un viso di classe fin che tu vuoi, e da tutte sue membra sgorghi la forza di Venere:
pure altre ne esistono; pure senza di lei siamo prima vissuti; pure fa cose uguali alla brutta - e
sappiamo che le fa si profuma lei stessa di odori repellenti, poveretta, scappano le cameriere
lontano da lei, e ridacchiano nascostamente.
Ma l'innamorato respinto spesso piangendo ricopre la soglia di fiori e ghirlande, stampa baci, il
poverino: e se lo ammettessero in casa, e un soffio solo lo colpisse di quel profumo, cercherebbe
decorosi pretesti per andarsene via, e verrebbe meno il lamento d'amore, a lungo studiato, si
darebbe dello stupido, perché a lei ha attribuito più di quanto sia giusto concedere a un essere che
è mortale. E ciò non sfugge alle Veneri nostre: ed esse per questo tanto più celano con massima
cura i retroscena di loro vita, a chi vogliono tenere legati, stretti nel loro amore, inutilmente, perché
tu riflettendo puoi ugualmente tutto trarre alla luce, e indagare ogni aspetto ridicolo: e, se è
gradevole di carattere e non odiosa, vicendevolmente potrai lasciar correre, perdonando alle
umane miserie.
Trad. G. Milanese, Milano, Mondadori, 1992.
F. D’Alessi © 2002
F. D'ALESSI - Letteratura latina - Parte II,1 - Il periodo classico
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Non perde il frutto di Venere chi evita amore, ne deliba piuttosto le gioie e ne schiva gli affanni.
La voluttà è più limpida ai savi che ai miseri dissennati. Infatti proprio nel momento del pieno
possesso, fluttua in incerti ondeggiamenti l'ardore degli amanti che non sanno di cosa prima
godere con gli occhi e le mani, Premono stretta la creatura che desiderano, infliggono dolore al
suo corpo, e spesso le mordono a sangue le tenere labbra, la inchiodano coi baci, poiché il piacete
non è puro, e vi sono oscuri impulsi che spingono a straziare l'oggetto, qualunque sia, da cui
sorgono i germi di quella furia.
Attenua appena il tormento Venere nell'atto d'amore, mitiga il morso, cui è mista, la gioia dei sensi.
In ciò è la speranza, che dalla forma corporea medesima, fonte del nostro ardore, possa anche
essere estinta la fiamma. Ma che ciò avvenga la natura nega recisa; amore è l'unica cosa nella
quale più è grande il possesso, più il cuore arde d'un desiderio feroce.
Il cibo e l'acqua sono assorbiti dagli organi, e poiché possono occupare certe sedi nei corpi, si
sazia perciò facilmente il desiderio di quelli.
Ma dell'umano sembiante, d'un leggiadro incarnato, nulla penetra in noi da godere, se non diafane
immagini, misera speranza che spesso è rapita dal vento.
Come in sogno un assetato che cerchi di bere, e bevanda non trovi che estingua nelle sue
membra l'arsura, ma liquidi miraggi insegua in un vano tormento, o immerso in un rapido fiume ne
beva, ma la sete non plachi, così in amore Venere con miraggi illude gli amanti che non sanno
appagarsi mirando le svelate forme, né a una carezza involare qualcosa dalle tenere membra,
irrequieti vagando per l'intera superficie del corpo. Quando infine con le membra avvinte godono
del fiore della giovinezza, e già il corpo presagisce il piacere, e Venere è sul punto di riversare il
seme nel campo femmineo, comprimono avidamente i petti, confondono la saliva nelle bocche, e
ansimano mordendosi a vicenda le labbra; invano, perché nulla possono distaccare dalla persona
amata, né penetrarla e perdersi con tutte le membra nell'altro corpo.
Infatti talvolta sembrano voler fare ciò e ingaggiare una lotta: a tal punto si serrano cupidamente
nella stretta di Venere finchè le membra, stremate dall'intensità dell'amore si struggono.
Infine quando il piacere raccolto si effonde dai nervi, per un po' si produce una breve pausa
dell'ardore poi torna la medesima rabbia, di nuovo quella mania li assale, mentre gli amanti
vorrebbero sapere che cosa desiderano, e non riescono a trovare un rimedio che plachi il
tormento: in tale incertezza si consumano per una piaga segreta.
Aggiungi il travaglio che estingue e disperde le forze, la vita che fugge in balia di un estraneo
volere. Le ricchezze profuse si mutano in vesti di Babilonia, i doveri sono trascurati e la stella del
tuo nome è in declino. Unguenti e calzari sicioni splendono al piede, verdi smeraldi abbagliano
racchiusi nell'oro, negli assidui contatti purpurei drappi sono consunti, intrisi dal sudore della fatica
di Venere. L'onesto profitto degli avi si muta in mitre e diademi, e in femminee vesti, e in tessuti
preziosi di Alinda e Ceo. S'apprestano mense imbandíte con sfarzo di cibi e costumi, svaghi,
ebbrezze, profumi, corone e ghirlande, ma invano, poiché di mezzo al fonte della gioia sgorga una
vena d'amaro che pur nei fiori già duole, o quando il conscio animo per caso rimorda per la vita
che fugge oziosa e nelle orge sfiorisce, o perché l'amata ti lascia nel dubbio di un'avventata parola
che nel trepido cuore confitta vi bruci come fuoco, o sembra che occhiate dardeggí, un altro rimiri,
e in volto le appaia l'accenno d'un sorriso fugace.
In questi mali t'imbatti nell'armonia d'un amore felice; ma in un altro che senza speranza discordi e
affligga, a occhi chiusi puoi coglierne un numero immenso; è dunque più saggio, secondo il
precetto già esposto, che l'alacre mente ti guardi da ogni falsa lusinga.
E' infatti più agevole evitare gli inganni d'amore, che, in essi caduti, al loro intrico sfuggire e riuscire
a spezzare i saldi nodi di Venere.
Ma anche preso al laccio tuttavia puoi schivare il pericolo, purché non contenda a te stesso la
libera via, e, prima di ogni cosa, non trascuri tutte le pecche di corpo e d'animo della donna cui
aneli: come invece fa l'uomo cui i sensi offuschino il senno, che adorna il suo amore di grazie
irreali.
Così variamente vediamo corrotte creature sui più alti fastigi, onorate, colmate di vezzi.
E alcuni a vicenda si irridono, l'uno consiglia all'altro che Veneri plachi, poiché un turpe amore lo
affligge, e misero spesso non cura la propria rovina.
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F. D'ALESSI - Letteratura latina - Parte II,1 - Il periodo classico
206
Una fosca epidermide si dice colore di miele, un'immonda creatura che emani sgradevoli effluvii, si
dice disadorna, se ha le iridi sbiadite è Pallade in terra, lignea e nervosa è una gazzella, se è nana
la invochi sorella delle Cariti, tutta un granello di sale; le sue forme traboccano, è un profuso
splendore di grazie se balbetta è per vezzo, se non parla la si dice pudica, molesta loquace
irritante, è una donna di fuoco, un esile amorino se la consunzione l'uccide, un giunco se è morta
di tosse.
Se è pingue e ne esorbita il seno, è Cerere, lasciato il suo Bacco; camusa è Silena, una satira; se
ha tumide labbra, è da baci.
Lunga prova è di esporre tutte queste follie.
Ma sia pure di altissime grazie il sembiante di colei che da tutte le membra il suo fascino irradi: ne
esistono altre, e vivemmo già prima senza di lei; come altre deformi, ella compie ogni umana
funzione, né ignori che, misera, talvolta anche lei maleodora, e le ancelle ne fuggono lontano
ridendo furtive. Ma in lagrime l'escluso amante ricolma le soglie di fiori e ghirlande, cosparge i
superbi battenti di profumo d'amaraco, baci v'imprime tristemente; se alfine, concessogli il varco,
quel lezzo lo investisse in cammino, invenzioni addurrebbe a onesta cagione di fuga, e il lamento a
lungo meditato gli cadrebbe dal cuore, rimproverata a se stesso la follia di aver attribuito a costei
più di quanto sia lecito concedere a creatura mortale.
Ciò è ben noto alle nostre Veneri; tanto più celano esse stesse con ogni cura tutti i retroscena della
vita a coloro che vogliono tenere legati a sé in amore; ma invano, perché tu col pensiero puoi trarli
tutti ugualmente in piena luce, e cercare ogni aspetto ridicolo, e se la donna è un bello spirito e
proprio non ti ripugna, a tua volta potrai transigere e perdonare le miserie umane.
Trad. L. Canali, Milano, Rizzoli, 1990.
Lucr., 5, 925-1010. Gli uomini primitivi.
Et genus humanum multo fuit illud in arvis
durius, ut decuit, tellus quod dura creasset,
et maioribus et solidis magis ossibus intus
fundatum, validis aptum per viscera nervis,
nec facile ex aestu nec frigore quod caperetur
nec novitate cibi nec labi corporis ulla.
multaque per caelum solis volventia lustra
volgivago vitam tractabant more ferarum.
nec robustus erat curvi moderator aratri
quisquam, nec scibat ferro molirier arva
nec nova defodere in terram virgulta neque altis
arboribus veteres decidere falcibus ramos.
quod sol atque imbres dederant, quod terra
crearat
sponte sua, satis id placabat pectora donum.
glandiferas inter curabant corpora quercus
plerumque; et quae nunc hiberno tempore cernis
arbita puniceo fieri matura colore,
plurima tum tellus etiam maiora ferebat.
multaque praeterea novitas tum florida mundi
pabula dura tulit, miseris mortalibus ampla.
at sedare sitim fluvii fontesque vocabant,
ut nunc montibus e magnis decursus aquai
claricitat late sitientia saecla ferarum.
denique nota vagis silvestria templa tenebant
nympharum, quibus e scibant umore fluenta
lubrica proluvie larga lavere umida saxa,
umida saxa, super viridi stillantia musco,
et partim plano scatere atque erumpere campo.
necdum res igni scibant tractare neque uti
pellibus et spoliis corpus vestire ferarum,
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sed nemora atque cavos montis silvasque
colebant
et frutices inter condebant squalida membra
verbera ventorum vitare imbrisque coacti.
nec commune bonum poterant spectare neque
ullis
moribus inter se scibant nec legibus uti.
quod cuique obtulerat praedae fortuna, ferebat
sponte sua sibi quisque valere et vivere doctus.
et Venus in silvis iungebat corpora amantum;
conciliabat enim vel mutua quamque cupido
vel violenta viri vis atque inpensa libido
vel pretium, glandes atque arbita vel pira lecta.
et manuum mira freti virtute pedumque
consectabantur silvestria saecla ferarum
missilibus saxis et magno pondere clavae.
multaque vincebant, vitabant pauca latebris;
saetigerisque pares subus silvestria membra
nuda dabant terrae nocturno tempore capti,
circum se foliis ac frondibus involventes.
nec plangore diem magno solemque per agros
quaerebant pavidi palantes noctis in umbris,
sed taciti respectabant somnoque sepulti,
dum rosea face sol inferret lumina caelo.
a parvis quod enim consuerant cernere semper
alterno tenebras et lucem tempore gigni,
non erat ut fieri posset mirarier umquam
nec diffidere, ne terras aeterna teneret
nox in perpetuum detracto lumine solis.
sed magis illud erat curae, quod saecla ferarum
infestam miseris faciebant saepe quietem.
eiectique domo fugiebant saxea tecta
F. D'ALESSI - Letteratura latina - Parte II,1 - Il periodo classico
spumigeri suis adventu validique leonis
atque intempesta cedebant nocte paventes
hospitibus saevis instrata cubilia fronde.
Nec nimio tum plus quam nunc mortalia saecla
dulcia linquebant lamentis lumina vitae.
unus enim tum quisque magis deprensus eorum
pabula viva feris praebebat, dentibus haustus,
et nemora ac montis gemitu silvasque replebat
viva videns vivo sepeliri viscera busto.
at quos effugium servarat corpore adeso,
posterius tremulas super ulcera tetra tenentes
palmas horriferis accibant vocibus Orcum,
donique eos vita privarant vermina saeva
expertis opis, ignaros quid volnera vellent.
.
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at non multa virum sub signis milia ducta
una dies dabat exitio nec turbida ponti
aequora lidebant navis ad saxa virosque.
nam temere in cassum frustra mare saepe
coortum
saevibat leviterque minas ponebat inanis,
nec poterat quemquam placidi pellacia ponti
subdola pellicere in fraudem ridentibus undis.
improba navigii ratio tum caeca iacebat.
tum penuria deinde cibi languentia leto
membra dabat, contra nunc rerum copia mersat.
illi inprudentes ipsi sibi saepe venenum
vergebant, nunc dant <aliis> sollertius ipsi
E fu nei campi quel genere d'uomini molto più duro, com'era giusto per quello cui generava la dura
terra, impiantato con ossa, dentro, più grandi e più solide, connesse ai validi nervi grazie alla
carne, siffatto che né calore, né freddo, né stravaganza di cibo, né male alcuno del corpo vi
avevan facile presa.
E al modo erratico delle fiere, volgendosi il sole per molti lustri nel cielo, menavan lunga la vita. Né
v'era alcun guidatore del curvo aratro, robusto, né chi sapesse ammollire col ferro il suolo, ed in
terra piantare nuovi polloni, o tagliar giù col falcetto i rami vecchi dagli alti alberi. Quello che il sole,
quello che davan le piogge e che la terra creava da sé, spontaneo, quel dono bastava a renderli
paghi. Rifocillavano il corpo sotto le querce datríci di ghiande, il più delle volte; e quei corbezzoli
che ora tu vedi tingersi in rosso e maturar nell'inverno li produceva la terra più numerosi e più
grossi. E porse il florido giovane mondo oltre a ciò molti rozzi cibi, in quel tempo, bastevoli agli
indigenti mortali. Ma li invitavano a togliersi la sete i fiumi e le fonti, come oggi a sé, da lontano,
l'acqua che scende dall'alte montagne chiama col chiaro scroscio le belve assetate. E ricordavano
infine, nel loro errare, le grotte silvestri, asilo alle Ninfe, dove sapevan che in largo getto fuggevoli
rivoli bagnavan gli umidi sassi, gli umidi sassi, stillando sul verde muschio, e all'aperto ne scaturiva
nel piano e ne sgorgava una parte. E non sapevan servirsi del fuoco e non delle pelli, né delle
spoglie ferine vestirsi il corpo, ma stavano nei boschi, nelle caverne dei monti, nelle foreste, e per
sfuggire la sferza degli acquazzoni e dei venti ficcavan l'ispide membra nei rovi. Non si potevano
proporre il pubblico bene, non conoscevano l'uso di costumanze e di leggi; ma si prendeva
ciascuno di proprio istinto la preda messagli innanzi dal caso, assuefattosi a vivere ed a campar da
sé solo.
Entro le selve all'amplesso Venere univa gli amanti, e v'era tratta la donna o dal reciproco impulso,
o dalla forza defl'uomo, o dall'ardente libidine, o dal compenso; i corbezzoli, le ghiande, un mazzo
di frutti.
Fidando nella mirabile forza così delle mani come dei piedi, inseguivano tutte le bestie selvagge; e
ne vincevan con fionde, e sassi, e clave pesanti, molte; fuggivan da poche entro i rifugi.
Lasciavano, sorpresi a notte dal buio, cadere al suolo le nude membra selvagge alla guisa dei
setolosi cígnali, e si avvolgevano tutto intorno in foglie ed in frasche. Né già vagando pei campi
pavidi nella notturna ombra invocavan con alto ululo il giorno ed il sole, ma ne attendevano il
sorgere taciti e immersi nel sonno fin ch'esso con la sua rosea face portasse la luce.
Non v'era infatti motivo, dato che sin da bambini erano avvezzi a vedere che luce e buio si creano
avvicendandosi sempre, di impressionarsi e temere che sulla terra potesse regnare eterna la notte,
toltone il lume del sole per sempre. Ma si angustiavano molto di più per il fatto che a queí meschini
le varie sorta di belve rendevano spesso insicuro il riposo. Ché se giungeva un bavoso cinghiale o
un forte leone, cacciati fuori, sloggiavano dalle dimore di sasso, e impauriti cedevano in piena
notte ai terribili ospiti il letto coperto di foglie. E in mezzo ai lamenti non più sovente di adesso le
umane genti perdevano anche in quel tempo il giocondo lume di vita. Più spesso qualcuno offriva,
acciuffato e maciullato coi denti, un vivo pasto alle belve, e riempiva di gemiti i boschi, i monti, le
selve, vedendo ormai seppellirsi le vive carni in un vivo sepolcro. Invece coloro che si salvavan
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F. D'ALESSI - Letteratura latina - Parte II,1 - Il periodo classico
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fuggendo, benché straziati nel corpo, premevan poi. sulle orribili piaghe le mani tremanti, ed
invocavan con urla terrificanti la morte, finché gli spasimi atroci non li toglievan di vita, privi d'aiuto
com'erano, ignari d'ogni rimedio alle ferite.
Ma molte migliaia d'uomini in armi non si mandavano allora in un sol giorno al macello, né il mar
rompeva coi torbidi fiutti agli scogli la nave e gli uomini: inutilmente il mare, allora, gonfiandosi,
imperversava con pazzo impeto e poi deponeva giù lievemente le vane minacce; e l'ingannatrice
lusinga della bonaccia non riusciva a sorprendere e ad ingannare nessuno con il sorriso dell'onde.
Ignota allora era l'arte audace del navigare.
Ed anche, allora, morivano per la penuria di cibo, languendo, mentre li soffoca, ora, la grande
abbondanza. E allora, incauti, mescevano spesso il veleno a se stessi; più scaltramente, di propria
mano, lo dànno oggi agli altri.
Si procurarono in seguito capanne e pelli ed il fuoco, e si ridusse la donna, congiunta all'uomo, ad
un solo connubio, e videro i padri nascere i propri figlioli.
Dopo di ciò cominciarono a dirozzarsi un po' gli uomini.
Fu per il fuoco che i corpi, fattisi ormai più sensibili, poteron meno di prima reggere al freddo, all'a
erro; limò l'amore le asprezze e facilmente i bambini con le moine addolcirono l'indole fiera dei
padri.
Fra loro presero a stringere rapporti allora, i vicini, vogliosi di non offendere e di non essere offesi,
ed invocarono sulle donne e sui bimbi il rispetto, dando a capire coi gesti e i suoni inarticolati
essere giusto che tutti abbian rispetto dei deboli.
Non si poteva aver sempre piena concordia, ma stavano i più con scrupolo ai patti, se no l'umana
progenie sarebbe andata distrutta né, trasmettendosi, il seme se ne sarebbe potuto perpetuar sino
ad ora.
Ma chi li spinse a foggiare con vari suoni il linguaggio fu la natura, e il vantaggio produsse i nomi
alle cose.
In quella guisa a un dipresso che la impotenza evidente a formular la parola induce i bimbi a
gestire, come fan quando col dito segnan le cose presenti: perché ciascuno capisce di che si
possa servire.
Ancora prima che in fronte spuntin le corna al torello, a testa bassa, infuriato, s'avventa e cozza
con esse: invece i piccoli delle pantere ed i leoncini, quando non son quasi ancora usciti i denti e
gli artigli, contrastan già con l'unghiate e le zampate ed i morsi.
E, lo vediamo, gli uccelli tutti si affìdano all'ali, e chiedon tutti alle piume un tremolante sostegno.
Pensar che alcuno alle cose abbia assegnato i lor nomi, e che di lì gli uomini abbiano appreso i
primi vocaboli, questo è un uscir di cervello. Come poteva costui tutto indicar con le voci, e
modular varii suoni se, nel contempo, nessun altro era in grado di farlo?
Inoltre donde a costui venne l'idea del vantaggio, donde ebbe, sin dall'origine, la facoltà di sapere
ciò che voleva, e di scorgerlo perfettamente distinto, se fino allora nessuno aveva usato il
linguaggio?
E non poteva, uno solo, piegare i molti e costringerli, vinti, a imparar di buon animo i nomi posti alle
cose; non si istruiscono i sordi, né si convincono colla logica a far quanto debbono: e poi non lo
soffrirebbero, né lascerebbero mai che troppo a lungo ed invano voci dal suono inaudito íntronin
loro le orecchie.
Infine, è proprio sì strano che l'uorno, in cui voce e lingua erano in piena efficienza, usasse per
indicare le cose, varie secondo le percezioni, la voce? Quando le bestie, che sono senza parola, e
ogni sorta di fiere sogliono emettere voci diverse e variabili per il timore e il dolore, e se le tocca il
piacere. Cosa che ci si rivela d'una evidenza palmare. Quando il molosso, aizzato, freme e
raggrinza per l'ira le grosse e fiaccide labbra, scoprendo i duri suoi denti, ringhia con ben altra
voce di quando latra ed introna d'abbaiamenti ogni luogo, e vuol leccar con la lingua
accarezzandoli i cuccioli, e li palleggia a zampate, e li raggiunge coi morsi e finge, a denti sospesi,
di voler fame dei teneri bocconi: e in un ben diverso modo fa festa al padrone con l'uggiolio della
voce, di quel che abbai solo in casa, o quando fugge, guaendo, coi ventre a terra le busse. E
quando impazza il cavallo brado nel fiore degli anni, cui dà di sprone l'amote pennuto, fra le
cavalle, e sbuffa dalle sue larghe froge fremendo battaglia, e quando altrove nitrisce tremando in
tutte le membra, non è del pari evidente che n'è diverso il nitrito? Tutti i volatili infine, gli uccelli
variopiumati e gli sparvieri e le ossifraghe, e quelli smerghí che in mare cercano all'onde marine il
nutrimento e la vita, gettan nei casi diversi dei gridi molto diversi, quando contendon pel cibo e
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F. D'ALESSI - Letteratura latina - Parte II,1 - Il periodo classico
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quando lottano colla preda; ed alcuni, a seconda delle stagioni, anzi mutano il rauco suono del
verso; fanno così le cornacchie longeve, e così gli stormi dei corvi, quando si dice che invochin
l'acqua e la pioggia, e, a volte, il vento e l'asciutto. Se le diverse impressioni adunque fan che le
bestie, che pur non han la parola, emettan voci diverse, quanto è più ovvio che l'uomo abbia così,
con le varie voci, potuto indicare la varietà delle cose!
Trad. di B. Pinchetti (BUR 1953)
Un genere umano fu quello nei campi molto più duro
come si addiceva a chi fosse da dura terra creato,
fondato all'interno su ossa più grandi e più solide,
connesso traverso le membra da nervi possenti,
e non cedeva facilmente né a caldi né a geli,
jo né a cibi inconsueti, né a qualche malanno del corpo.
Per ínnumeri cicli compiuti nel cielo dal sole,
traevano in perpetuo errare una vita da belve.
Nessuno reggeva con forza il rícurvo aratro,
nessuno col ferro sapeva dissodare le zolle,
piantare nel suolo novelli virgulti, recidere dai grandi
alberi a colpi di falce i rami vetusti.
Ciò che il sole e la pioggia donavano, e la terra creava
come offerta spontanea, bastava a placare quei petti.
Per lo più ristoravano le membra tra le querce
cariche di ghiande; e quei frutti che ancora tu vedi
d'inverno divenire maturi, le purpuree corbezzole,
allora la terra li produceva abbondanti e più grossi.
E molti rozzi alimenti forniva la florida
giovinezza del mondo, che bastavano ai miseri uomini.
A placare la sete chiamavano fiumi e sorgive,
come adesso dalle alte montagne i torrenti richiamano
d'attorno scrosciando famiglie di bestie assetate.
Infine nel loro errare svelavano e tenevano a mente
le sílvestri dimore delle Ninfe, da dove sapevano
che a fiottí le acque correvano a dílavare le pietre umide,
le umide pietre stillanti di verde muschio,
e parte a sgorgare ed erompere a fior di pianura.
Non sapevano ancora trattare col fuoco gli oggetti,
servirsi di pelli, vestirsi di spoglie feríne,
ma abitavano i boschi, le selve, gli anfratti montani,
e celavano le ruvide membra in mezzo ai cespugli,
costretti a fuggire í rovesci di vento e di pioggia.
Non potevano ancora mirare al comune vantaggio,
né sapevano uso di leggi o di mutuo costume.
Ognuno la preda che il caso gli offrisse ghermiva
per sé solo, da solo, ammaestrato a durare la vita in pienezza di forze.
E nelle selve Venere congiungeva i corpi degli amanti;
piegava la donna una reciproca brama,
o la brutale violenza dell'uomo e il suo ardore sfrenato,
o un compenso di ghiande, di scelte corbezzole o pere.
Fidando nel prodigioso vigore di mani e piedi,
inseguivano da presso le selvagge razze delle fiere,
scagliando pietre e usando pesanti clave;
molte ne vincevano, ne fuggivano poche nei covi;
e come írsuti cinghiali, le membra selvagge
affidavano nude alla terra, sorpresi dal tempo notturno,
avvolgendosi attorno uno strame di foglie e di fronde;
né con alti lamenti, errando nelle ombre della notte
per i campi, cercavano atterríti il giorno e il sole,
ma taciti e sepolti nel sonno aspettavano
che il sole con la rosea fiaccola riportasse la luce nel cielo.
Poiché fin da fanciulli solevano vedere
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da sempre con alterna vicenda prodursi la luce e la tenebra,
non poteva accadere che ciò li stupisse, inducendoli
al dubbio che un'eterna notte avvolgesse la terra,
sottratto in perpetuo il lume del sole.
Ma questo era più tormentoso, che spesso le razze feríne
rendevano il riposo malsicuro a quei míseri,
che scacciatí dalla dimora fuggivano le tane pietrose
o sopraggiungendo un cinghiale schiumante o un forte leone,
e nel cuore della notte timorosi cedevano
ai crudeli ospiti i covíli ricoperti di fronde.
Allora con lamenti non maggiori dei nostri le stirpi
dei mortali abbandonavano il dolce lume della vita.
Più spesso, infatti, qualcuno di loro, sorpreso e azzannato,
offriva un vivente cibo alle belve, e riempiva
di gemiti í boschi, i monti, le foreste,
vedendo i suoi visceri vivi sepolti in un vivo sepolcro.
E coloro che, con mutile membra, aveva salvato la fuga,
più tardi, con le mani tremanti premute sulle orrende piaghe,
levando urla agghiaccianti invocavano la morte,
finché atroci spasimi li privavano della vita,
senza aiuto e ignari di rimedi alle loro ferite.
Ma un solo giorno di guerra non distruggeva migliaia
e migliaia di uomini in schiere, né le sconvolte distese
del mare sbattevano uomini e navi agli scogli;
sovente a vuoto e invano i flutti cresciuti infuriavano ciecamente
e senza ragione placavano le inutili minacce;
la lusinga insidiosa delle placide acque salmastre non poteva
trarre nessuno in inganno col sorriso delle onde.
La funesta arte del navigare giaceva nelle tenebre.
Allora la penuria di cibo conduceva a morte le membra
consunte, adesso le sommerge l'eccesso dei beni.
Quelli spesso per ignoranza versavano veleno a se stessi,
adesso più accorti gli stessi lo somministrano ad altri.
Ma poi, quando si procurarono capanne, pelli e fuoco,
e la donna congiunta allo sposo passò a un solo
:::………..
furono conosciute e videro da sé procreata la prole,
allora il genere umano cominciò a ingentilire i costumi.
Infatti l'uso del fuoco rese i corpi freddolosi e incapaci
di resistere al freddo sotto il nudo riparo del cielo,
Venere ridusse il vigore, e i fanciulli piegarono
facilmente con le loro carezze la dura indole dei padri.
Allora i vicini cominciarono a stringere di buon grado
amicizia fra loro, a non arrecarsi violenza né offesa,
e affidarono al rispetto reciproco le donne e i fanciulli,
con gesti e confuse parole esprimendo il pensiero
che era giusto per tutti mostrare pietà per i deboli.
Tuttavia la concordia non poteva prodursi comunque,
ma una buona e gran parte osservava i patti lealmente;
altrimenti il genere umano già allora sarebbe andato distrutto,
e la sua discendenza non si sarebbe protratta finora.
La natura costrinse le creature a emettere i diversi suoni
del linguaggio, e il bisogno a esprimere il nome delle cose,
in modo non molto diverso da come l'incapacità di parlare
appare essa stessa l'impulso al gesto dei bambini,
quando fa sì che mostrino a dito gli oggetti circostanti.
Ognuno sente a qual fine possa indirizzare le proprie facoltà.
Il vitello, prima che gli spuntino le corna sulla fronte,
s'avventa con ira e incalza minaccioso come le avesse.
I cuccioli delle pantere e i leoni non ancora adulti
già si rivoltano a unghiate, a colpi di zampa, a morsi,
quando in essi denti e artigli sono appena formati.
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Vediamo tutte le specie degli uccelli fidare nel volo,
quando chiedono ancora un tremulo aiuto alle penne.
È dunque follia ritenere che un uomo abbia in antico assegnato
i nomi alle cose, e che gli altri abbiano appreso da lui
i primi vocaboli. Perché mai lui avrebbe potuto denominare
tutti gli oggetti ed emettere i primi suoni del linguaggio,
e altri contemporaneamente non potevano farlo?
Inoltre se non avessero usato il linguaggio anche gli altri fra loro,
da dove sarebbe penetrato in quell'uno la consapevolezza
della sua utilità, e da dove avrebbe tratto la facoltà d'intuire
e vedere con la mente ciò che intendeva fare?
Certo egli solo non poteva costringere i molti
ad apprendere, vinti, i nomi delle cose diverse.
Non è per nulla facile insegnare e spiegare ai sordi
ciò che è necessario fare; non avrebbero infatti tollerato,
e per nessuna ragione avrebbero sopportato a lungo
che inaudite inflessioni di voce colpissero a lungo
e inutilmente le loro orecchie. Infine cosa c'è di così strano in questo,
se il genere umano, fornito di lingua e di voce,
designò le cose con suoni diversi secondo le diverse sensazioni?
Trad. L. Canali, Milano, Rizzoli, 1990.
6, 1138-1251 La peste ad Atene
Haec ratio quondam morborum et mortifer aestus
finibus in Cecropis funestos reddidit agros
vastavitque vias, exhausit civibus urbem.
nam penitus veniens Aegypti finibus ortus,
aera permensus multum camposque natantis,
incubuit tandem populo Pandionis omni.
inde catervatim morbo mortique dabantur.
principio caput incensum fervore gerebant
et duplicis oculos suffusa luce rubentes.
sudabant etiam fauces intrinsecus atrae
sanguine et ulceribus vocis via saepta coibat
atque animi interpres manabat lingua cruore
debilitata malis, motu gravis, aspera tactu.
inde ubi per fauces pectus complerat et ipsum
morbida vis in cor maestum confluxerat aegris,
omnia tum vero vitai claustra lababant.
spiritus ore foras taetrum volvebat odorem,
rancida quo perolent proiecta cadavera ritu.
atque animi prorsum <tum> vires totius, omne
languebat corpus leti iam limine in ipso.
intolerabilibusque malis erat anxius angor
adsidue comes et gemitu commixta querella,
singultusque frequens noctem per saepe diemque
corripere adsidue nervos et membra coactans
dissoluebat eos, defessos ante, fatigans.
nec nimio cuiquam posses ardore tueri
corporis in summo summam fervescere partem,
sed potius tepidum manibus proponere tactum
et simul ulceribus quasi inustis omne rubere
corpus, ut est per membra sacer dum diditur ignis.
intima pars hominum vero flagrabat ad ossa,
flagrabat stomacho flamma ut fornacibus intus.
nil adeo posses cuiquam leve tenveque membris
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vertere in utilitatem, at ventum et frigora semper.
in fluvios partim gelidos ardentia morbo
membra dabant nudum iacientes corpus in undas.
multi praecipites nymphis putealibus alte
inciderunt ipso venientes ore patente:
insedabiliter sitis arida corpora mersans
aequabat multum parvis umoribus imbrem.
nec requies erat ulla mali: defessa iacebant
corpora. mussabat tacito medicina timore,
quippe patentia cum totiens ardentia morbis
lumina versarent oculorum expertia somno.
multaque praeterea mortis tum signa dabantur:
perturbata animi mens in maerore metuque,
triste supercilium, furiosus voltus et acer,
sollicitae porro plenaeque sonoribus aures,
creber spiritus aut ingens raroque coortus,
sudorisque madens per collum splendidus umor,
tenvia sputa minuta, croci contacta colore
salsaque per fauces rauca vix edita tussi.
in manibus vero nervi trahere et tremere artus
a pedibusque minutatim succedere frigus
non dubitabat. item ad supremum denique tempus
conpressae nares, nasi primoris acumen
tenve, cavati oculi, cava tempora, frigida pellis
duraque in ore, iacens rictu, frons tenta manebat.
nec nimio rigida post artus morte iacebant.
octavoque fere candenti lumine solis
aut etiam nona reddebant lampade vitam.
quorum siquis, ut est, vitarat funera leti,
ulceribus taetris et nigra proluvie alvi
posterius tamen hunc tabes letumque manebat,
aut etiam multus capitis cum saepe dolore
corruptus sanguis expletis naribus ibat.
F. D'ALESSI - Letteratura latina - Parte II,1 - Il periodo classico
huc hominis totae vires corpusque fluebat.
profluvium porro qui taetri sanguinis acre
exierat, tamen in nervos huic morbus et artus
ibat et in partis genitalis corporis ipsas.
et graviter partim metuentes limina leti
vivebant ferro privati parte virili,
et manibus sine non nulli pedibusque manebant
in vita tamen et perdebant lumina partim.
usque adeo mortis metus iis incesserat acer.
atque etiam quosdam cepere oblivia rerum
cunctarum, neque se possent cognoscere ut ipsi.
multaque humi cum inhumata iacerent corpora
supra
corporibus, tamen alituum genus atque ferarum
aut procul absiliebat, ut acrem exiret odorem,
aut, ubi gustarat, languebat morte propinqua.
nec tamen omnino temere illis solibus ulla
comparebat avis, nec tristia saecla ferarum
exibant silvis. languebant pleraque morbo
et moriebantur. cum primis fida canum vis
strata viis animam ponebat in omnibus aegre;
extorquebat enim vitam vis morbida membris.
incomitata rapi certabant funera vasta
nec ratio remedii communis certa dabatur;
nam quod ali dederat vitalis aeris auras
volvere in ore licere et caeli templa tueri,
hoc aliis erat exitio letumque parabat.
Illud in his rebus miserandum magnopere unum
aerumnabile erat, quod ubi se quisque videbat
implicitum morbo, morti damnatus ut esset,
deficiens animo maesto cum corde iacebat,
funera respectans animam amittebat ibidem.
quippe etenim nullo cessabant tempore apisci
ex aliis alios avidi contagia morbi,
lanigeras tam quam pecudes et bucera saecla,
idque vel in primis cumulabat funere funus
nam qui cumque suos fugitabant visere ad
aegros,
vitai nimium cupidos mortisque timentis
poenibat paulo post turpi morte malaque,
desertos, opis expertis, incuria mactans.
qui fuerant autem praesto, contagibus ibant
atque labore, pudor quem tum cogebat obire
blandaque lassorum vox mixta voce querellae.
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optimus hoc leti genus ergo quisque subibat.
Praeterea iam pastor et armentarius omnis
et robustus item curvi moderator aratri
languebat, penitusque casa contrusa iacebant
corpora paupertate et morbo dedita morti.
exanimis pueris super exanimata parentum
corpora non numquam posses retroque videre
matribus et patribus natos super edere vitam.
nec minimam partem ex agris maeror is in urbem
confluxit, languens quem contulit agricolarum
copia conveniens ex omni morbida parte.
omnia conplebant loca tectaque quo magis aestu,
confertos ita acervatim mors accumulabat.
multa siti prostrata viam per proque voluta
corpora silanos ad aquarum strata iacebant
interclusa anima nimia ab dulcedine aquarum,
multaque per populi passim loca prompta viasque
languida semanimo cum corpore membra videres
horrida paedore et pannis cooperta perire,
corporis inluvie, pelli super ossibus una,
ulceribus taetris prope iam sordeque sepulta.
omnia denique sancta deum delubra replerat
corporibus mors exanimis onerataque passim
cuncta cadaveribus caelestum templa manebant,
hospitibus loca quae complerant aedituentes.
nec iam religio divom nec numina magni
pendebantur enim: praesens dolor exsuperabat.
nec mos ille sepulturae remanebat in urbe,
quo prius hic populus semper consuerat humari;
perturbatus enim totus trepidabat et unus
quisque suum pro re <cognatum> maestus
humabat.
multaque <res> subita et paupertas horrida suasit;
namque suos consanguineos aliena rogorum
insuper extructa ingenti clamore locabant
subdebantque faces, multo cum sanguine saepe
rixantes, potius quam corpora desererentur,
inque aliis alium populum sepelire suorum
certantes; lacrimis lassi luctuque redibant;
inde bonam partem in lectum maerore dabantur;
nec poterat quisquam reperiri, quem neque
morbus
nec mors nec luctus temptaret tempore tali.
E nella terra di Cécrope, un giorno, un tale contagio, un tale soffio mortifero avvelenò le
campagne, rese deserte le strade e spopolò la città.
Apparso in fondo all'Egitto, venendo sin di là dentro, percorso ch'ebbe gran tratto d'aria e di piani
ondeggianti, su tutto il popolo alfine si riversò di Pandione: e a mucchi: se ne ammalavano e ne
morivano gli uomini.
Da prima avevano il capo arso da un grande calore, lucidi tutti e due gli occhi e rosseggíanti di
fiamme.
Sudavan sangue, oltre a questo, le nere fauci al di dentro, si rinserrava ostruito da piaghe il varco
alla voce, e indebolita dal male, torpida al moto, aspra al tatto, stillava sangue la lingua che fa
d'interprete all'anítna.
E quando poi l'infezione giù per la gola ai meschini stipava il petto e scendeva sin dentro il cuore
dolente, allora sì che crollava ogni trincea della vita.
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F. D'ALESSI - Letteratura latina - Parte II,1 - Il periodo classico
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Mandava il fiato fuor dalla bocca un atroce fetore, quello di cui putrefatte puzzan le salme
insepolte, ed ogni forza dell'animo, ogni vigore del corpo languiva come se fossero sull'orlo già
della tomba.
E sempre un'ansia angosciosa e un lagno misto di gemiti si accompagnavano a quegli intollerabili
mali. Ed un singulto continuo che li sforzava assai spesso la notte e il giorno a contrarre muscoli e
nervi, spossandoli, debilitava coloro ch'eran già stanchi da prima.
Né avresti, al tatto, potuto sentire che l'epidermide ardesse, alla superficie, d'un eccessivo calore,
anzi alle mani essa dava il senso d'essere tiepida, ma tutto il corpo era rosso di chiazze, a mo'
delle ustioni che si hanno quando serpeggia il fuoco sacro per gli arti.
Sino al midollo avvampavano invece i visceri interni, come in fornace avvampavano le fiamme
dentro lo stomaco, né si potevan le membra avvantaggiar d'alcun drappo, per quanto lieve e
sottile, bensì del freddo e del vento sempre. Taluni, lanciandosi nudi nell'onde, bagnavano le
membra ardenti nei gelidi fiumi, e non pochi ne caddero a precipizio giù nelle acque dei pozzi
dall'alto, nell'atto stesso di andarvi con spalancata la bocca.
Ché divorando l'arsura inestínguibile i corpi, rendeva uguale la grossa fiumana al breve rigagnolo.
Senza ristoro era il male, erano i corpi stremati, e si chiudeva in un pavido riserbo la medicina,
quando sbarravan girandoli intorno tutte le volte gli occhi che ardevan del male e non sapevano il
sonno.
E molti sintomi ancora preannunziavan la morte. Sconvolto l'animo, in preda alla mestizia, al
timore: triste il cipiglio, stravolto e corrucciato l'aspetto: gli orecchi sempre in tormento, pieni di
rombi: affrettato, o lento e a tratti, il respiro: giù per il collo, perlaceo e ruscellante il sudore: sottile
l'espettorato, raro, venato di giallo e salso, e con un tossire roco cacciato a fatica fuori dell'ugola. I
nervi si rattrappivano nelle mani, tremavan le membra, e senza indugio pian piano saliva il freddo
dai piedi.
Vicini infine alla estrema ora, apparivan compresse le nari, aguzza la punta del naso, gli occhi
infossati, cave le tempie, la pelle fredda, stirata sul viso ed atteggiata ad un ghigno: restava tesa la
fronte.
Si irrígidivan le membra poco di poi nella morte.
Ed al tornare del sole con la sua candida lampada, l'ottavo giorno od il nono, anche, rendevan la
vita.
Ma chi scampava alla morte e al funerale, e ve n'era, pure la peste e la morte se lo prendevan con
delle ulceri sconce ed un negro flusso di ventre più tardi: o, con dolori di capo, il sangue guasto
sovente anche, gli usciva copioso dalle narici intasate: di qui fluivan dal corpo tutte le forze
dell'uomo.
Se poi sfuggiva a quel nero atroce flusso di sangue, pure nei nervi e negli arti gli entrava il male, e
sin negli organi stessi del sesso. Si troncan molti, temendo in modo grave la porta letèa, le parti
virili, e vivono anche evirati: altri rimangono senza i piedi e senza le mani, ma in vita ciò non di
meno: altri si cavano gli occhi, tanto il terror della morte si addentra in loro terribile. E ve ne furon di
quelli che smemoraron del tutto, sino a non essere in grado, nemmeno, di riconoscersi. E s'anche
in terra giacevano gli uni sugli altri in gran numero non sotterrati i cadaveri, pure gli uccelli e le fiere
o ne schizzavan d'un balzo via, per sottrarsi all'atroce fetore, o, se li toccavano, languivan presso a
morire. Nessun uccello in quei giorni ardiva farsi vedere, e non uscivan le bestie feroci fuori dei
boschi: erano infetti dal male la maggior parte, e perivano.
E primi i cani fedeli miseramente spiravano distesi in tutte le strade, ché a viva forza la peste
strappava loro la vita: Rapidi, a gara, i trasporti, senza cortei, desolati; né v'era un modo di cura
generalmente efficace: ciò per cui gli uni restavano a respirar le vitali aure dell'aria ed a volgere gli
occhi alla volta del cielo, era esiziale per gli altri, e procurava la morte. Ma specialmente era
questo allora il più miserevole e lacrimevole strazio: chi si vedeva abbrancato dal male, come se
fosse già condannato a morire, stava lì mesto nel cuore e scoraggiato nell'animo; lasciava lì, tutto
assorto nel funerale, la vita.
Dato che si propagava senza un istante di tregua dagli uni agli altri il contagio dell'insaziabile male,
come se fosse fra pecore lanute o bestie cornute.
E questo moltiplicava, con la moria, la moria.
Quanti scansavan d'assistere i loro cari, ed amavano troppo la vita, e temevano troppo la morte,
costoro lasciati lì, senza aiuto, poco di poi li abbatteva e li puniva l'incuria di mala morte e schifosa.
Ma via contagio e strapazzi portavan chi li affrontava mosso dal punto d'onore e dalla voce
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implorante dei moribondi, dai gemiti ch'erano misti alla voce: subivan dunque una morte di tale
specie i migliori.
. . . . . . . . . . . e contendeva la gente. per seppellir nelle fosse altrui le schiere de' suoi: se ne
tornavan disfatti per il cordoglio ed il pianto: dalla afflizione gran parte poi s'abbattevano a letto: né
si sarebbe potuto trovare alcuno che, allora, non fosse colto o dal male o dalla morte o dal lutto.
Ogni pastore oramai, e ogni mandriano languiva, e il guidatore robusto del curvo aratro: giacevano
gettati in fondo ai tuguri dalla miseria e dal male, i corpi in preda alla morte. Era possibile, a volte,
sui corpi estinti dei piccoli veder cadere senz'aníma i corpi dei genitori: o sulle madri e sui padri i
figli rendere l'anima. E confluì non in minima parte codesta afflizione nella città dal contado: ve la
portarono nuvoli di contadini languenti che vi affluiron da tutti i punti infetti. Ingombravano ogni
edificio, ogni luogo, e tanto più, nella estate così pigiati, a migliaia ne accatastava la morte.
Molti giacevan distesi in terra, vittime della sete, e ai Silani dell'acque si rotolavan per via, per la
soverchia dolcezza del bere senza più fiato. E si vedevano, offerti nei luoghi pubblici e nelle strade,
perir molti corpi, morti a metà, con le languide squallide membra coperte di sudiciume e di cenci,
tutte ossa e pelle, già quasi interamente sepolte nella sporcizia del corpo e nelle luride piaghe.
Aveva infine la morte empito tutte di corpi inanimati le sacre sedi del culto, e ingombrati eran qua e
là di cadaveri i templí tutti dei numi, luoghi che avevan gremito d'ospiti i loro custodi.
Né più si dava ormai grande peso alla fede e al[la santa divinità; soverchiava tutto il dolor del
momento: né si teneva più nella città la nota maniera di sepoltura che pritna usava sempre quel
popolo. Poi ch'era tutto turbato, esso, e confuso, e ciascuno metteva, mesto, alla meglio il suo
congiunto sotterra.
E la miseria e il frangente spinsero a molti atti orrendi: giacché ponevan con grande clamore i
propri parenti sui roghi alzati per gli altri, e vi appressavan le fiaccole sotto, rissando alle volte con
molto sangue, piuttosto che abbandonare i cadaveri.
[Ecco la descrizione della peste in Tucidide (La guerra del Peloponneso, lI, 49 e segg., versione di
A. Peyron):
« Generalmente, le persone sane, di repente, senza previa causa apparente, cominciavano a
provare dolori eccessivi al capo, rossezza ed infiammazione d'occhi: poi nelle parti interne la
faringe e la lingua diveniva ad un tratto sanguigna, il fiato usciva oltremodo fetido: succedeva lo
starnuto e la raucedine. A poco a poco il male calava nel petto con acerba tosse: e quando si
fissava sulla bocca dello stemaco lo sconvolgeva, producendo, con tortnento incredibile, quante
secrezioni bilíose vengono descritte e denominate dai medici. La maggior parte soffriva anche un
vano singhiozzo congiunto a gagliarde convulsioni, che in alcuni tosto, in altri più tardi, cessavano.
Il corpo all'esterno non era né troppo caldo a toccarlo né pallido, ma rossastro, livido, e di minute
pustole ed ulcere ricoperto: internamente poi tanto ardeva che gli infermi né vesti, né coperte
anche sottilissime, sopportare potevano, ma amavano di star nudi e volentieri si sarebbero gettati
nell'acqua fredda: il che avvenne a molti non custoditi da alcuno, i quali si buttarono in cisterne,
presi da inestinguíbile sete. Ma il poco o molto bere tornava lo stesso, la mancanza di riposo e
l'insonnia li travagliava incessantemente. Nel crescere del morbo il corpo non illanguidiva, anzi,
oltre ogni credere, resisteva al tormento. Tanto che i più, conservando ancora qualche forza, nel
nono o nel settimo giorno morivano per l'interno ardore; oppure se oltrepassavano quel termine,
scendendo poi il morbo nel ventre, e cagionandovi un'acerba esulcerazione, donde nasceva una
dirotta diarrea, questa li traeva finalmente spossati a morte. Poiché il male, che dapprima
stabilitosi nel capo cominciava nelle parti superiori, discorreva poi per tutta la persona: che se
alcuno superava l'acutezza del morbo, ne portava tuttavia impressi i segni nelle parti estreme.
Giacché discendeva nelle parti naturali e nelle sommità delle mani e dei piedi: quindi molti
sopravvissero privi di tali membra, altri ciechi, e taluni, al piilìcipio della convalescenza, talmente
persero la memoria d'ogni cosa egualmente che non riconoscevano né stessi né i congiunti.
«Perché la specie del morbo, terribile sopra ogni dire, assaliva gl uomini con una forza superiore
alla loro natura: ma principalmente i questo dimostrò una qualità diversa dalle malattie consuete,
che gl uccelli e i quadrupedi, che mangiavano carne umana, o non si accosta vano agli insepolti
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cadaveri, che erano molti, ovvero gustatili morivano Prova ne fu l'essere tali uccelli al tutto
scomparsi, tanto che né altrov né intorno ai cadaveri si vedevano, il quale effetto più sensibilmente
s osservò nei cani avvezzi a vivere con l'uomo,
« Tale fu in generale la qualità della pestilenza. Frattanto non coni pariva alcuna delle consuete
malattie, oppure, se nata, finiva nel con tagio. Morivano poi indistintamente, sia che fossero
trascurati, sia ch fossero debitamente curati, perché non si trovò nessun rimedio ch fosse, per dir
così, di certa efficacia, ma quello che all'uno giovava no eva all'altro. Qual complessione più
valesse a resistere al morbo, se la vigorosa o la debole, non si discerneva: tutte venivano
abbattute anche con ogni arte curate. Senonché lo scoraggiamento, per cui al primo sentirsi infetti
tosto disperatisi abbandonatamente trascuravano s stessi, né più resistevano, era il più terribile di
tutto il male, e si ag giungeva che gli uni per sovvenire gli altri contagiandosi come pecore
morivano. E questo cagionò massima mortalità. Poiché chi per timore si scostava dagli altri moriva
abbandonato: così per mancanza di soccorritori molte case rimasero vuote: chi poi si accostava,
periva. Ciò massimamente accadeva a quanti di virtù si pregiavano, poiché vergognandosi di
risparmiare se medesimi, visitavano gli amici, dacché i familiari vinti dall'eccessivo morbo si
stancavano alfine dei gemiti dei morenti...........................
« L'essersi il contado rifuggito in città concorreva col male presente ad aggravare la condizione
degli Ateniesi e soprattutto degli ultimi venuti. Giacché per difetto di case abitando nel fervor
dell'estate entro tuguri soffocanti confusamente perivano, e morendo gli uni sugli altri si
ammonticchiavano i cadaveri: altri semimorti si voltolavano per le vie, ed intorno a tutte le fonti,
bramosi di dissetarsi. I luoghi sacri, nei quali si attendarono, riboccavano dei cadaveri di coloro
che vi morivano, perché gli uomini, nella violenza del male, non sapendo che farsi, perdettero la
riverenza dei luoghi pubblici, profani e sacri. Conculcate erano pure le antiche leggi sopra le
sepolture, ciascuno seppellendo come poteva: anzi molti, dopo avere a troppi loro morti
provveduto, difettando ormai di quanto occorreva, si volsero a mezzi impudenti. Poiché giovandosi
delle altrui pire, prevenendo chi le aveva accatastate, gli uni postovi sopra il morto, vi appiccavano
il fuoco, gli altri, mentre un cadavere ardeva, gettatovi quello che portavano, partivansi ».
Trad. di B. Pinchetti (BUR 1953)
Questa forma di morbo ed effluvio datore di morte seminò di cadaveri i campi nella terra di
Cecrope, desolò le contrade e vuotò la città di abitanti. Sorto e venuto dalle estreme regioni
dell'Egitto, varcando gran tratto di cielo e fluttuando sulle pianure, infine gravò sopra tutta la gente
di Pandione.
E allora cadevano a mucchi in preda al contagio e alla morte.
Dapprima avevano il capo bruciante di un ardore infocato, gli occhi iniettati di sangue per un
bagliore diffuso.
E dentro le livide fauci sudavano sangue, si serrava cosparsa di ulcere la via della voce, e la
lingua, interprete dell'animo, stillava di umore sanguigno, fiaccata dal male, ruvida al tatto e inerte.
Quando poi il violento contagio attraverso le fauci invadeva il petto, e affluiva per intero al cuore
dolente dei malati, tutte davvero le barriere della vita vacillavano.
L'alito effondeva dalla bocca un orribile lezzo come quello che emanano le marce carogne
insepolte.
Le forze dell'animo intero e tutta la fibra del corpo languiva sulla soglia stessa della morte.
Agli atroci dolori era assidua compagna un'ansiosa angoscia, e un pianto mischiato a continui
lamenti.
E spesso un singulto continuo di giorno e di notte, costringendoli a contrarre assiduamente i nervi
e le membra, tormentava e sfiniva gli infermi già prima spossati.
Né avresti potuto notare alla superficie del corpo la parte esteriore bruciare di ardore eccessivo,
ma piuttosto offrire alle mani un tiepido tatto e insieme tutto il corpo arrossato da ulcere simili a
ustioni, come quando il fuoco sacro si sparge su tutte le membra.
Ma l'intima parte dell'uomo ardeva fino al fondo delle ossa, una fiamma bruciava nello stomaco
come dentro un forno.
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Non vesti sottili e leggere potevano giovare alle membra dei malati, ma questi cercavano sempre
vento e frescura.
Parte, ríarsí dalla febbre, abbandonavano il corpo ai gelidi fiumi, le nude membra distese nelle
onde.
Molti piombarono a capofitto nelle acque dei pozzi, protesi verso di essi con la bocca anelante:
un'arida insaziabile arsura, sommergendo quei corpi, uguagliava gran copia di liquido a povere
stílle.
Né v'era una tregua al male, tna i corpi giacevano sfiniti.
In silenzioso timore esitava l'arte dei medici, uso e intanto i malati volgevano senza posa lo
sguardo degli occhi sbarrati, riarsí dal male e insonni.
Allora apparivano numerosi presagi di morte: la inente sconvolta e in preda al terrore e all'affanno,
il torvo cipiglio, lo sguardo demente e furioso, e inoltre l'udíto assillato da una folla di suoni, il
respiro affrettato, oppure lento e profondo, il collo bagnato dal liquido di un sudore lucente,
rari e sottili gli sputi, amari, d'un giallo rossastro, espulsi a fatica dalle fauci con rauchi insulti di
tosse.
I nervi delle mani non tardavano a contrarsi, e gli arti a tremare, e man mano a succedere un gelo
dalla pianta dei piedi. E infine, nell'ora suprema, le nari sottili, la punta del naso affilata, gli occhi
infossatí, le concave tempie, la gelida pelle indurita, sul volto un'ímmobíle smorfía, la fronte tirata e
gonfia.
Non molto più tardi le membra giacevano nella rigida morte. Di solito all'ottavo apparire della
fulgida luce del sole, o al nono splendore del giorno, gli infermi rendevano la vita. E se alcuno di
loro, come accade, aveva evitato la morte, per le orribili piaghe e il nero profluvio del ventre anche
a lui era serbata più tardi la consunzione e la morte, o anche sgorgava sovente, con dolori di capo,
gran copia di sangue corrotto dalle nari ricolme: qui fluivano tutte le forze e la fibra dell'uomo.
E inoltre chi fosse scampato a quell'acre profluvio di orribile sangue, a lui il morbo scendeva nei
nervi, negli arti e nelle parti genitali del corpo.
Alcuni, atterriti di giungere alle soglie della morte, vivevano mutilandosi col ferro degli organi virili,
altri, amputati delle mani e dei piedi, tuttavia rimanevano in vita, e altri perdevano il lume della
vista.
A tal punto il timore della morte era penetrato in costoro.
E anche taluno fu preso dall'oblío di ogni cosa, così da non poter riconoscere nemmeno se stesso.
Benché molti cadaveri insepolti giacessero gli uni sugli altri,
le razze degli uccelli e delle bestie selvagge balzavano lontano da essi per fuggirne il fetore,
oppure, dopo averne gustato, languivano di una prossima morte. Del resto per nulla in quei giorni
gli uccelli azzardavano di mostrarsi, o le feroci famiglie delle belve uscivano dai covi silvestri.
Languivano i più in preda al morbo e morivano. Soprattutto la fedele muta dei cani esalavano
miseri l'anima distesi per tutte le strade; la violenza del male strappava la vita alle membra.
Funerali desolati e deserti si contendevano il passo.
Né era data una forma sicura di comune rimedio; infatti ciò che a uno aveva permesso di respirare
il soffio vitale dell'aria, e mirare gli spazi del cielo, ciò stesso era rovina di altri e ne causava la
morte.
Ma in tale frangente, questo era più miserabile e doloroso, che quando ciascuno vedeva se stesso
avvinto dal male, da esserne votato alla fine, perdutosi d'anímo, giaceva col cuore dolente, e lì
stesso perdeva la vita guardando immagini di morte.
Infatti davvero non cessavano mai di raccogliere gli uni dagli altri il contagio dell'avido morbo,
come greggi lanose e cornigere mandrie di buoi.
Ciò soprattutto ammucchiava morti su morti.
Quanti infatti rifuggivano dal visitare i parenti malati, troppo cupidi della vita e timorosi della morte,
poco dopo, immolandoli, la stessa assenza di cure li puniva, derelitti e privi di aiuto, con una morte
vergognosa e infame.
Chi invece era stato vicino ai suoi, incorreva nel contagio e nella fatica che la sua dignità gli
imponeva, tra le fíevoli voci degli infermi, miste a lamenti.
Tutti i migliori si esponevano a questa forma di morte.
gli uni sugli altri, lottando per seppellire la turba dei loro defunti, e infine tornavano, spossati dal
pianto e dai gemiti; e gran parte di essi cadevano affranti sui letti.
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Né poteva trovarsi nessuno che in questo frangente non fosse toccato dal male, dalla morte o dal
lutto.
Inoltre già fl pastore e il guardiano di armentí e il robusto guidatore di ricurvo aratro languivano, e
dentro il modesto abituro giacevano a mucchi i corpi dati alla morte dalla tníseria e dal male.
Non di rado avresti veduto gli esanimi corpi dei padri giacere sugli esanimi corpi dei figli, e al
contrario spírare la vita i figli sulle madri e sui padri.
Il contagio in gran parte si diffuse dai campi nella grande città, portato da una folla sfinita di bifolchi
affluiti da tutte le zone già infette.
Ríempivano ogni luogo, ogni asilo, e in tal modo la morte più facilmente ammucchiava la turba
ondeggiante.
Molti, prostrati per la via dalla sete, giacevano riversi e distesi accanto agli sbocchi delle fonti, il
respiro mozzato dalla dolcezza eccessiva dei sorsí, e molti ne avresti veduti qua e là per le strade
e nei pubblici luoghi abbattuti coi corpi morenti, e squallidi e lerci perire, coperti di cenci e lordure
del corpo; sulle ossa soltanto la pelle quasi tutta sepolta da orribili piaghe e marciume.
La morte aveva colmato persino i santuari degli dèí di corpi inerti, e tutti i templí dei celesti
restavano ingombri di cadaveri sparsi e ammucchiati, luoghi che i custodi avevano affollato di
ospiti.
Non più si teneva in onore, infatti, il culto divino e il potere dei numi: il dolore presente vinceva.
Né più resisteva in città quel costume di funebri riti che da sempre avvezzava le genti a inumare
pietose gli estínti; infatti tutti si affannavano in preda al disordine, e ognuno angosciato inumava i
suoi cari composti come poteva.
La miseria e l'evento improvviso indussero a orribili cose.
Con alto clamore ponevano i loro congiunti sulle grandi cataste erette per il rogo di altri,
appiccandovi il fuoco e spesso lottando fra loro in zuffe cruente piuttosto che abbandonare i
cadaveri.
Trad. L. Canali, Milano, Rizzoli, 1990.
Scheda. G. Penso, Eziologia delle malattie contagiose.
Lucrezio afferma che nulla proviene dal nulla:
Nil igitur fieri de nilo posse fatendumst, (LCR. Nat. I, 205)
ed aggiunge:
« Per essere creata, qualunque cosa ha bisogno di un seme che la faccia sviluppare poi al tenero soffio
dell'aria »:
semine quando opus est rebus, quo quaeque creatae aeris in teneras possint proferrierr auras.
(LCR. Nat. I, 206-207)
Si tratta di semi di tutti i tipi che provengono dalla terra e che si mescolano in modi differenti e sono
trasmessi separatamente (LCR. Nat. VI, 771-772). Egli precisa che: « Le malattie si scatenano perché tanto
la terra quanto il cielo sono apportatori di semi di moltissimi agenti patogeni capaci di generare gravissime
malattie:
[ ...] quia sunt multarum semina rerum,
Et satis haec tellus morbi coelumque mali fert,
Unde queat vis immensi procrescere morbi.
(LCR. Nat. VI, 662-664)
Altrove egli scrive che la pestilenza resta sospesa nell'atmosfera e noi, respirando, l'assorbiamo:
[ ...] suspensa manet vis aere in ipso
et, cum spirantes mixtas hinc ducimus auras,
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F. D'ALESSI - Letteratura latina - Parte II,1 - Il periodo classico
218
illa quoque in corpus pariter sorbere necessest.
(LCR. Nat. VI, 1128-1130)
Più tardi, Seneca riprenderà lo stesso concetto: multa mortifera in alto latent (SEN. Nat. VI, 27), molti sono i
princìpi mortali nascosti nel cielo; e completerà questo pensiero, scrivendo: «che molte terre racchiudono
molti princìpi mortali e che è possibile rendersene conto anche solo osservando il gran numero di veleni che
vi nascono spontaneamente senza che la mano dell'uomo li abbia seminati. È quindi logico che il terreno
racchiuda germi dannosi, mala semina, così come ne racchiude di utili» ed aggiunge: «Forse che non
esistono in Italia diverse caverne da cui si esalano vapori pestilenziali, pestilens vapor, che l'uomo e
l'animale selvatico non possono respirare senza danno?» (SEN. Nat. VI, 28).
Ma si deve a Lucrezio il passaggio classico che definisce l'eziologia delle malattie contagiose (LCR. Nat. VI,
1098-1102): « Qual è la causa delle malattie, e da dove nasce, all'improvviso, questa forza malsana che
semina i suoi molteplici danni fra gli uomini e le mandrie? Lo voglio dire. Dapprima esistono semi che sono
necessari alla vita; ma ve ne sono altri, moltissimi, sparsi nell'aria, che sono apportatori di malattie e di
morte. Quando il caso ha riunito questi ultimi e ha contaminato il cielo, l'aria diventa malsana, fit morbidus
aer, e tutte queste malattie, tutte queste epidemie ci giungono dal di fuori, come le nubi e come la nebbia
attraverso il cielo, oppure salgono dalla stessa terra quando il suolo umido è reso putrefatto dall'alternanza di
abbondanti piogge e di eccessivo calore:
Atque ea vis omnis morborum pestilitasque
aut extrinsecus ut nubes nebulaeque superne
per caelum veniunt aut ipsa saepe coorta
de terra surgunt, ubi putorem umida nactast
intempestivis pluviisque et solibus icta.
(LCR. Nat. VI, 1098-1102)
Seneca afferma anche che le epidemie esplodono dopo i violenti terremoti (SEN. Nat. VI, 27).
L'eziologia microbica delle malattie contagiose è stata meravigliosamente sintetizzata da Varrone, che,
parlando della malaria, ammetteva l'esistenza di certi minuscoli animali, invisibili ad occhio nudo, che,
trasportati dall'aria, penetrano, attraverso il naso e la bocca, nel corpo causandovi gravi malattie: Quaedam
animalia minuta quae non possunt oculi consequi et per aer intus in corpus per os ac nares perveniunt,
atque efficiunt difficiles morbos (VAR. Rus. I, 12).
Questi animalia minuta sono chiamati da Varrone anche bestiolae (VAR. l.c.). Vitruvio, sempre a proposito
della malaria, ammette anche lui l'esistenza di queste bestiolae (VIT. Arc. I, 1).
G. Penso, La medicina romana, Ciba-Geigy, 1985, pp. 495-98.
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H.A.J. Munro, Cambridge 18664, 2 voll.. (con comm.)
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Testo con traduzione
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La natura delle cose, Milano Rizzoli - BUR - Pantheon, 1999, Intr. di Gian Biagio Conte Traduzione di Luca Canali - Testo e commento a cura di Ivano Dionigi. Testo latino a fronte
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ICCU Soggetto
Autore: Gale, Monica
Titolo: Virgil on the nature of things : the Georgics, Lucretius and the didactic tradition / Monica R. Gale
Pubblicazione: Cambridge : Cambridge university press, 2000
Soggetti: Virgilio Marone, Publio - Georgica - Influssi di
Tito Lucrezio Caro
Autore: Kennedy, Duncan F.
Titolo: Rethinking reality : Lucretius and the textualization of nature / Duncan F. Kennedy
Pubblicazione: Ann Arbor : University of Michigan press, 2002
Collezione: Studies in literature and science
Autore: Pieri, Alieto
Titolo: Non parlero degli dei : il romanzo di Lucrezio / Alieto Pieri ; introduzione di Franco Cardini
Pubblicazione: Firenze : Le lettere, [2003]
Collezione: Le vie della storia
Autore: Fowler, Don
Titolo: Lucretius on atomic motion : a commentary on De rerum natura book 2., lines 1-332 / Don Fowler ;
prepared for publication by P. G. Fowler with help from friend
Pubblicazione: Oxford : Oxford university press, 2002
Soggetti: Lucrezio Caro , Tito - De rerum natura. Lib.
2 - Commenti
Titolo: Lucrezio : biografie umanistiche / [a cura di] Giuseppe Solaro
Pubblicazione: Bari : Dedalo, [2000]
Collezione: Paradosis
Note Generali: Ed. di 650 esempl. num.
In appendice: Testimonianz medievali, dello stesso A
Soggetti: Lucrezio Caro , Tito - Biografia - Sec.
15.-16. - Antologie
Autore: Craca, Clotilde
Titolo: Le possibilita della poesia : Lucrezio e la madre frigia in De rerum natura 2., 598-660 / Clotilde Craca
Pubblicazione: Bari : Edipuglia, 2000
Collezione: Scrinia
Soggetti: Lucrezio Caro , Tito . De rerum natura . L.
2., 598-660
Autore: Bergson, Henri
Titolo: Lucrezio / Henri Bergson ; con un saggio di Jeanne Hersch ; a cura di Riccardo De Benedetti ;
introduzione di Laura Boella
Pubblicazione: Milano : Medusa, [2001]
Collezione: La zattera
Autore: Luciani, Sabine
Titolo: L' eclair immobile dans la plaine, philosophie et poetique du temps chez Lucrece / Sabine Luciani
Pubblicazione: Louvain ; Paris, 2000
Collezione: Bibliotheque d'etudes classiques
Soggetti: Lucrezio Caro , Tito - Concetto di tempo
Autore: Serres, Michel
Titolo: Lucrezio e l'origine della fisica / Michel Serres
Pubblicazione: Palermo : Sellerio, 2000
Collezione: Nuovo Prisma
Note Generali: Trad. di P. Cruciani e A. Jeronimidis.
F. D’Alessi © 2002
F. D'ALESSI - Letteratura latina - Parte II,1 - Il periodo classico
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Soggetti: Fisica - Teorie - Antichita
Lucrezio Caro , Tito . De rerum natura Dottrine scientifiche
Autore: Brown, Alison
Titolo: Lucretius and the Epicureans in the social and political context of Renaissance Florence / Alison
Brown
Pubblicazione: Firenze : L. S. Olschki, 2001
Note Generali: Estr. da: I Tatti Studies: essays in the Renaissance, v. 9, 2001.
Soggetti: Epicureismo - Italia - Sec. 15.
Lucrezio Caro , Tito - Fortuna - Firenze Sec. 16.
Autore: Johnson, W. R.
Titolo: Lucretius and the modern world / W. R. Johnson
Pubblicazione: London : Duckworth, 2000
Collezione: Classical inter/faces
Autore: Gandon, Francis
Titolo: De dangereux edifices : Saussure lecteur de Lucrece : les cahiers d'anagrammes consacres au De
Rerum natura / Francis Gandon
Pubblicazione: Louvain ; Paris, 2002
Collezione: Bibliotheque de l'information grammaticale
Anagrammi - Analisi strutturale
Lucrezio Caro , Tito - De rerum natura Autore: Pasoli, Elio
Titolo: Tre poeti tra repubblica e impero : Lucrezio, Catullo, Orazio / Elio Pasoli ; a cura di Alfonso Traina e
Rita Cuccioli Melloni
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Collezione: Edizioni e saggi universitari di filologiaclassica
Note Generali: Scritti gia pubbl.
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Titolo: Montaigne's annotated copy of Lucretius : a transcription and study of the manuscript, notes and penmarks / M. A. Screech ; with a foreword by Gilbert De Botton
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Collezione: Travaux d'humanisme et Renaissance
Montaigne, Michel Eyquem : de <1533-1592>
Autore: Sedley, David
Titolo: Lucretius and the transformation of Greek wisdom / David Sedley
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Collezione: Saggi
Note Generali: Trad. di Francesco Citti.
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Collezione: Caesarodunum
Comprende: Lucrece ou la poesie de la matiere / parPhilippe Brunet et Samuel Auclair ;traduction de Jose
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Autore: Romano, Domenico
Titolo: Il primo Lucrezio / Domenico Romano
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Titolo: Lucrece : fantasmes et limites de la pensee mecaniste / Agnes Lagache
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Titolo: Amore e morte in Lucrezio / Maria Verrusio
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Titolo: Lucrezio : le parole e le cose / Ivano Dionigi
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Collezione: Testi e manuali per l'insegnamentouniversitario del latino
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Titolo: Vita di Lucrezio / Luciano Canfora
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Autore: Segal, Charles
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TV0114 - Biblioteca comunale - Treviso - TV
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Pubblicazione: Hildesheim [etc.] : Olms-Weidmann, 1991
Collezione: Alpha-omega. Reihe A, Lexika, Indizes,Konkordanzen zur klassischen Philologie
TV0114 - Biblioteca comunale - Treviso - TV
Autore: Carlozzo, Giuseppe
Titolo: Il participio in Lucrezio : valori semantici ed effetti stilistici / Giuseppe Carlozzo
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Titolo: La mort n'est rien pour nous : Lucrece et l'ethique / par Jean Salem
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Titolo: Il participio in Lucrezio : valori semantici ed effetti stilistici / Giuseppe Carlozzo
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Collezione: Sisyphos
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Autore: Canali, Luca
Titolo: Lucrezio, poeta della ragione / Luca Canali
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Collezione: Universale
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Autore: Gordon, Cosmo Alexander
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Edizione: 2. ed. / introduction and notes by E. J. Kenney
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Collezione: St Paul's bibliographies
Autore: Rodriguez Donis, Marcelino
Titolo: El materialismo de Epicuro y Lucrecio / Marcelino Rodriguez Donis
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Collezione: Filosofia y letras
Autore: Gordon, Cosmo Alexander
Titolo: A bibliography of Lucretius / Cosmo Alexander Gordon
Edizione: [2. ed.] / introduction and notes by E. J. Kenney
Pubblicazione: Winchester : St Pauls bibliographies, 1985
Titolo: Probleme der Lukrezforschung / herausgegeben von Carl Joachim Classen
Pubblicazione: Hildesheim [ecc.] : G. Olms, 1986
Collezione: Olms Studien
Note Generali: Contiene in ripr. facs. scritti gia pubbl.
Autore: Dionigi, Ivano
Titolo: Lucrezio : le parole e le cose / Ivano Dionigi
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Collezione: Testi e manuali per l'insegnamentouniversitario del latino
Soggetti: Lucrezio Caro , Tito - Lingua
Autore: Giancotti, Francesco
Titolo: Religio, natura, voluptas : studi su Lucrezio : con un'antologia di testi annotati e tradotti / Francesco
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Pubblicazione: Amsterdam : Hakkert, 1989
Collezione: Classical and Byzantine monographs
Autore: Fornaro, Pierpaolo
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Paolo Fornaro
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Autore: Brown, Robert Duncan <1950- >
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Collezione: Columbia studies in the classical tradition
Autore: Serres, Michel
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Altri titoli collegati: [Altro documento correlato] La naissance de la physique dans le texte de Lucrece
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Autore: Bertoli, Enea
Titolo: Tempora rerum : modalita del progresso umano in Lucrezio / Enea Bertoli
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Titolo: I motivi profondi della poesia lucreziana / Guido Bonelli
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Collezione: Collection Latomus
Autore: Alfieri, Vittorio Enzo
Titolo: Lucrezio / Vittorio Enzo Alfieri
Edizione: 2. ed
Pubblicazione: Galatina : Congedo, 1982
Collezione: Collana di saggi e testi
Collana di saggi e testi. Sez. 2, Filosofia
Note Generali: Nuova ed. riv.
Autore: Clay, Diskin
Titolo: Lucretius and Epicurus / Diskin Clay
Pubblicazione: Ithaca ; London, 1983
Soggetti: LUCREZIO CARO , TITO . DE RERUM NATURA FONTI
Titolo: Lucrece : Vandoeuvres, Geneve : 22-27 aout 1977 / huit exsposes suivis de discussions par David J.
Furley ... [et al.]
Pubblicazione: Vandoeuvres, Geneve
Collezione: Entretiens sur l'antiquite classique
Soggetti: LUCREZIO , CARO TITO - CONGRESSI - 1977
Autore: Donini, Pierluigi
Titolo: Modelli filosofici e letterari : Lucrezio, Orazio, Seneca / Pier Luigi Donini, Gian Franco Gianotti
Pubblicazione: Bologna : Pitagora, c1979
Collezione: Forme della cultura
Gianotti, Gian Franco
Soggetti: Lucrezio Caro , Tito
Orazio Flacco, Quinto
Seneca, Lucio Anneo
Autore: Ackermann, Erich
Titolo: Lukrez und der Mythos / von Erich Ackermann
Pubblicazione: Wiesbaden : Franz Steiner Verlag, 1979
Collezione: Palingenesia
Soggetti: Lucrezio Caro , Tito - De rerum natura Concezione del mito
Autore: Kenney, Edward John
Titolo: Lucretius / by E. J. Kenney
Pubblicazione: Oxford : at the Clarendon Press, 1977
Collezione: Greece & Rome : new surveys in the classics
Autore: Sasso, Gennaro <1928- >
Titolo: Il progresso e la morte : saggi su Lucrezio / Gennaro Sasso
Pubblicazione: Bologna : Il mulino, [1979]
Collezione: Saggi
Nomi: Sasso, Gennaro <1928- >
F. D’Alessi © 2002
F. D'ALESSI - Letteratura latina - Parte II,1 - Il periodo classico
TV0114 - Biblioteca comunale - Treviso - TV
Autore: Mantero, Teresa
Titolo: L' ansieta di Lucrezio e il problema dell'inculturazione dell'umanita nel De rerum natura
Pubblicazione: Genova : Tilgher, 1975
Titolo: Lucrezio : letture critiche / a cura di Luciano Perelli
Pubblicazione: Milano : Mursia, 1977
Collezione: Strumenti per una nuova cultura. Letturecritiche. Serie di letteratura greca e latina
Autore: Broccia, Giuseppe
Titolo: Ragguaglio su Lucrezio
Pubblicazione: Bari : Tip. Laterza, 1970
Titolo: Dignam dis a Giampaolo Vallot, 1934-1966 : silloge di studi suoi e dei suoi amici
Pubblicazione: Venezia : Libreria universitaria, 1972
Note Generali: In testa al front.: Universita di Padova, Istituto di filologia latina.
TV0114 - Biblioteca comunale - Treviso - TV
Autore: Giardini, Gino
Titolo: Lucrezio : la vita, il poema, i testi esemplari / di Gino Giardini
Pubblicazione: Milano : Accademia, 1974
Collezione: I memorabili. N. S
Autore: Grilli, Alberto
Titolo: Lucrezio / Alberto Grilli
Pubblicazione: Milano : La goliardica, 1970
Autore: Nizan, Paul
Titolo: I materialisti dell'antichita : scelta di testi di Democrito, Lucrezio, Epicuro / Paul Nizan
Pubblicazione: Verona : Bertani, 1972
Collezione: Il lavoro critico
Note Generali: Traduzione di Moderato Plinio. Introduzione e note a cura di Alberto Tomiolo.
Nomi: Nizan, Paul
Altri titoli collegati: [Altro documento correlato] Les materialistes de l'antiquite
Autore: Malcangi, Guido
Titolo: Lucrezio epicureo
Pubblicazione: Bari : Edizioni del Centro librario, 1967
Collezione: Opuscola
Autore: Perelli, Luciano
Titolo: Lucrezio, poeta dell'angoscia / Luciano Perelli
Pubblicazione: Firenze : La nuova Italia, 1969
Collezione: Biblioteca di cultura
Autore: Winspear, Alban Dewes
Titolo: Che cosa ha veramente detto Lucrezio / A. D. Winspear
Pubblicazione: Roma : Ubaldini, c1968
Collezione: Che cosa hanno veramente detto
Note Generali: Trad. F. Cardelli.
Autore: Spallicci, Aldo
Titolo: La medicina in Lucrezio / Aldo Spallicci
Pubblicazione: Forli : Valbonesi, stampa 1966
Soggetti: LUCREZIO CARO , TITO - Concezione della
medicina
Autore: Canali, Luca
Titolo: Lucrezio, poeta della ragione / Luca Canali
F. D’Alessi © 2002
227
F. D'ALESSI - Letteratura latina - Parte II,1 - Il periodo classico
228
Edizione: 2. ed
Pubblicazione: Roma : Editori riuniti, 1966
Collezione: Enciclopedia tascabile
Autore: Lucretius Carus, Titus
Titolo: Il poema della natura / Lucrezio ; luoghi scelti e commentati da Virgilio Paladini
Edizione: 9. ed
Pubblicazione: Roma : V. Bonacci, 1969
Collezione: Convivium
Autore: Pasoli, Elio
Titolo: Pagine di poesia filosofica latina dal De rerum natura di Lucrezio : anno acc. 1966-67 / appunti dalle
lezioni del prof. Elio Pasoli tenute per gli studenti della Facolta di magistero di Bologna
Pubblicazione: Bologna : Arte stampe Collegio di Spagna, 1967
Titolo: Lucretius / chapters by D. R. Dudley... [et al.] ; edited by D. R. Dudley
Pubblicazione: London : Routledge & Kegan Paul, 1965
Collezione: Studies in Latin literature and its influence
Autore: Lucretius Carus, Titus
Titolo: Antologia lucreziana / a cura di Giuseppe Rosati
Pubblicazione: [Firenze] : G. C. Sansoni, 1966
Collezione: Edizioni scolastiche Sansoni. Bibliotecaclassica. Sezione latina
Autore: Chiari, Alberto
Titolo: 3: Terza serie / Alberto Chiari
Pubblicazione: Firenze : Le Monnier, 1961
Collezione: Collana letteraria
Fa parte di: Indagini e letture / Alberto Chiari
Soggetti: LETTERATURA ITALIANA - SEC. 14.-20. - SAGGI
LUCREZIO CARO , TITO . DE RERUM NATURA STUDIO CRITICO
Autore: Bertelli, Sergio
Titolo: Noterelle machiavelliane / Sergio Bertelli
Pubblicazione: Napoli : Edizioni Scientifiche Italiane, 1964
Note Generali: Estr. da: Rivista storica italiana, a. 86., fasc. 3.
Autore: Canali, Luca
Titolo: Lucrezio, poeta della ragione / Luca Canali
Pubblicazione: Roma : Editori riuniti, 1963
Collezione: Enciclopedia tascabile
Autore: Fraisse, Simone
Titolo: L' influence de Lucrece en France au 16. siecle : une conquete du rationalisme / Simone Fraisse
Pubblicazione: Paris : Nizet, 1962
Soggetti: LETTERATURA FRANCESE - SEC. 16. - INFLUSSI DITITO LUCREZIO CARO
LUCREZIO CARO , TITO - INFLUSSI SULLA
LETTERATURA FRANCESE - SEC. 16.
Autore: Giancotti, Francesco
Titolo: L' ottimismo relativo nel De rerum natura di Lucrezio / Francesco Giancotti
Pubblicazione: Torino : Loescher, stampa 1960
Collezione: Crestomazia latina
Autore: De Feo, Giovanni
Titolo: Letture lucreziane : antologia dal De rerum natura / G. De Feo, V. U. Capone
Pubblicazione: Napoli : Glaux, stampa 1963
Autore: Boyance, Pierre
Titolo: Lucrece et l'epicurisme / par Pierre Boyance
Pubblicazione: Paris : Presses Universitaires de France, 1963
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F. D'ALESSI - Letteratura latina - Parte II,1 - Il periodo classico
229
Collezione: Les grands penseurs
Soggetti: Epicureismo - Roma antica
Lucrezio Caro , Tito
Autore: Paratore, Ettore
Titolo: La poesia di Lucrezio : anno accademico 1959-60 / Ettore Paratore
Pubblicazione: Roma : Ediz. dell'Ateneo, 1960
Note Generali: In testa al front.: Universita degli studi di Roma, Facolta di lettere e filosofia
Litografato.
Autore: Giancotti, Francesco
Titolo: Lucrezio poeta epicureo : rettificazioni
Pubblicazione: Roma : Tip. G. Bardi, 1961
Fa parte di: Miscellanea. Lucrezio, Seneca (filosofi)
Autore: Papa, Raffaele
Titolo: L' originalita di Lucrezio filosofo e poeta nel l. 5. del De rerum natura
Pubblicazione: Napoli : L. Loffredo, [1963?]
Autore: Papa, Raffaele
Titolo: Veterum poetarum sermo et reliquiae quatenus lucretiano carmine contineantur / disputavit et
recensuit Raphael Papa
Pubblicazione: Neapoli : ediedit Aloysius LOffredo bibliopola, [1963?]
Autore: Gordon, Cosmo Alexander
Titolo: A bibliography of Lucretius / Cosmo Alexander Gordon
Pubblicazione: London : Rupert Hart-Davis, 1962
Collezione: The Soho bibliographies
Soggetti: LUCREZIO CARO , TITO - OPERE - BIBLIOGRAFIA
RAGIONATA - 1473-1961
Autore: Lucretius Carus, Titus
Titolo: 6. : De la naturaleza de las cosas / de Tito Lucrecio Caro ; [traduccion de] Lisandro Alvarado ; estudio
preliminar por Juan David Garcia Bacca
Edizione: Ed. bilingue
Pubblicazione: Caracas : Ministerio de educacion, Direccion de cultura y bellas artes
Fa parte di: Obras completas / de Lisandro Alvarado
Autore: Riposati, Benedetto
Titolo: Il poema di Lucrezio : appunti raccolti dalle lezioni tenute dal ch.mo prof. B. Riposati : ann. acc. 19571958
Pubblicazione: Milano : Casa editrice Pleion, 1958
Note Generali: Litografato .
Autore: Pizzani, Ubaldo
Titolo: Il problema del testo e della composizione del De rerum natura di Lucrezio / Ubaldo Pizzani
Pubblicazione: Roma : Ediz. dell'Ateneo, 1959
Collezione: Nuovi saggi
Note Generali: Presentazione di E. Paratore.
Autore: Ferrero, Leonardo <1915- >
Titolo: Poetica nuova in Lucrezio / Leonardo Ferrero
Pubblicazione: Firenze : La Nuova Italia, 1949
Collezione: Biblioteca di cultura
Note Generali: Pref. di Augusto Rostagni.
Autore: De Longis, Giovanni
Titolo: Lucrezio : passi scelti, ampiamente illustrati nel pensiero e nell'arte : ad uso dei licei classici e
scientifici / Giovanni De Longis
Edizione: 2. ed
Pubblicazione: Milano : L. Trevisini, pref. 1951
Soggetti: LUCREZIO CARO , TITO - Pensiero filosofico
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F. D'ALESSI - Letteratura latina - Parte II,1 - Il periodo classico
230
Autore: Traglia, Antonio
Titolo: Sulla formazione spirituale di Lucrezio / Antonio Traglia
Pubblicazione: Roma : Gismondi, 1948
Autore: Marchesi, Concetto
Titolo: Lucrezio e il poema della natura : discorso tenuto nell'adunanza solenne dell'Accademia nazionale dei
Lincei, onorata dalla presenza del capo dello Stato / C. Marchesi
Pubblicazione: Roma : G. Bardi, tipografo dell'Accademia nazionale dei Lincei, 1947
Collezione: Problemi attuali di scienza e di cultura
Autore: Lucretius Carus, Titus
Titolo: Il poema della natura / T. Lucrezio Caro ; passi scelti ed annotati a cura di Ettore Bignone e Maria
Rosa Posani
Edizione: 2. ed
Pubblicazione: Firenze : F. Le Monnier, 1947
Autore: Colin, Jean
Titolo: Les senateurs et la mere des dieux aux Megalesia: Lucrece, 4., 79 : d'apres les mss de Leyde / Jean
Colin
Pubblicazione: Pavia : Tipografia del libro, 1954
Note Generali: Estr. da: Athenaeum. Studi Periodici di Letteratura e Storia dell'Antichita, n. s., vol. 32., fasc.
3.-4. (1954)
Autore: Colin, Jean
Titolo: Les voiles de l'annone et l'evolution de l'humanite: Lucrece 5., 1442 : d'apres les mss de Leyde / Jean
Colin
Pubblicazione: Pavia : Tipografia del libro, 1954
Note Generali: Estr. da: Athenaum. Studi Periodici di Letteratura e Storia dell'Antichita, n. s., vol. 32., fasc.
1.-2. (1954)
Autore: Soleri, Giacomo
Titolo: Lucrezio / Giacomo Soleri
Pubblicazione: Brescia : La scuola, 1945
Collezione: Gli uomini e la civilta. Ser. 1, Maestri delpensiero
Titolo: 1 / Guido Della Valle
Edizione: 2. ed. con 2 nuovi capitoli
Pubblicazione: Napoli : Accademia Pontaniana, 1935
Fa parte di: Tito Lucrezio Caro e l'epicureismo campano / Guido Della Valle
Soggetti: EPICUREISMO
LUCREZIO CARO , TITO - Pensiero filosofico
Autore: Tescari, Onorato
Titolo: Lucretiana / O. Tescari
Pubblicazione: Torino ; Milano ; Genova, 1935
Autore: Tescari, Onorato
Titolo: Lucrezio / Onorato Tescari
Pubblicazione: Roma : Edizioni Roma, 1938
Collezione: Res romanae
Autore: Turolla, Enrico
Titolo: Lucrezio / Enrico Turolla
Pubblicazione: Roma : Formiggini, 1929
Collezione: Profili
Autore: Pascal, Carlo
Titolo: Figure e caratteri : Lucrezio, l'Ecclesiaste, Seneca, Ipazia, Giosue Carducci, Giuseppe Garibaldi / C.
Pascal
Pubblicazione: Milano [etc.] : R. Sandron, 1908
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F. D'ALESSI - Letteratura latina - Parte II,1 - Il periodo classico
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Collezione: Biblioteca Sandron di scienze e lettere
Autore: Alfieri, Vittorio Enzo
Titolo: Lucrezio / Vittorio Enzo Alfieri
Pubblicazione: Firenze : Le Monnier, 1929
Collezione: Le vite
TV0114 - Biblioteca comunale - Treviso - TV
Autore: De Feo, Giuseppe
Titolo: Lucrezio Caro - De rerum natura : saggio di esame critico del testo in base al raffronto delle edizioni di
C. Giussani e H. Diels / Giuseppe De Feo
Pubblicazione: Avellino : tip. Pergola, 1933
Note Generali: Estr. da: Annuario del R. Istituto Magistrale, 1932-1933.
Autore: Borra, Spartaco
Titolo: Spiriti e forme affini in Lucrezio e Leopardi / Spartaco Borra
Pubblicazione: Bologna : presso N. Zanichelli, 1911
Numeri: Bibliografia Nazionale - 1911 8729
Autore: Bruns, Ivo
Titolo: Lucrez-Studien / von Ivo Bruns
Pubblicazione: Freiburg ; Tubingen, 1884
Autore: Stampini, Ettore
Titolo: Il suicidio di Lucrezio / Ettore Stampini
Pubblicazione: Messina : Tip. D'Amico, 1896
Note Generali: Sul verso del front.: Estratto dalla Rivista di storia antica e scienze affini, anno 1., n. 4.
Autore: Lachmann, Karl
Titolo: Caroli Lachmanni in T. Lucretii Cari De rerum natura libros commentarios
Edizione: Iterum editus
Pubblicazione: Berolini : G. Reimer, 1855 (Berolini : R. Decker)
Completato 2004-1850
ICCU per Autore
Autore: Lucretius Carus, Titus
Titolo: La natura delle cose : edizione integrale con testo latino a fronte / Tito Lucrezio Caro ; a cura di
Francesco Vizioli
Pubblicazione: Roma : Newton & Compton, 2000
Collezione: Newton Biblios
Titolo: De rerum natura / Lucrezio ; a cura di Alessandro Schiesaro ; traduzione di Renata Raccanelli ; note
di Carlo Santini ; illustrazioni di Giulio Paolini fotografate da Paolo Mussat Sartor
Pubblicazione: Torino : G. Einaudi, [2003]
Collezione: I millenni
Note Generali: In custodia.
Testo orig. a fronte
Autore: Fowler, Don
Titolo: Lucretius on atomic motion : a commentary on De rerum natura book 2., lines 1-332 / Don Fowler ;
prepared for publication by P. G. Fowler with help from friend
Pubblicazione: Oxford : Oxford university press, 2002
Soggetti: Lucrezio Caro, Tito - De rerum natura. Lib. 2 Commenti
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232
Titolo: La natura delle cose / Tito Lucrezio Caro ; introduzione di Gian Biagio Conte ; traduzione di Luca
Canali ; testo e commento a cura di Ivano Dionigi
Pubblicazione: Milano : Biblioteca universale Rizzoli, 2000
Collezione: BUR Pantheon
Note Generali: Testo orig. a fronte.
Titolo: Poesia e filosofia : antologia modulare di autori latini per il triennio della scuola media superiore /
Lucrezio ; a cura di Attilio De Bellis
Pubblicazione: Napoli : Loffredo, [2002]
Collezione: L' attualita del passato
Titolo: La natura / Tito Lucrezio Caro ; introduzione, testo criticamente riveduto, traduzione e commento di
Francesco Giancotti
Pubblicazione: Milano : Garzanti, 2002
Collezione: I grandi libri Garzanti
Note Generali: Testo orig. a fronte.
Titolo: Della natura / Tito Lucrezio Caro ; introduzione, versione e note a cura di Enzio Cetrangolo
Pubblicazione: Milano : Fabbri, stampa 2003
Collezione: I classici del pensiero
Titolo: 1: Libri 1.-3. / Titus Lucretius Carus ; edizione critica con introduzione e versione a cura di Enrico
Flores
Pubblicazione: Napoli : Bibliopolis, 2002
Fa parte di: De rerum natura / Titus Lucretius Carus ; edizione critica con introduzione e versione a cura di
Enrico Flores
Flores, Enrico <1936- >
Titolo: La Musa di Lucrezio : antologia lucreziana dai libri 3.-5.-6. del De rerum natura / seguita da alcune
considerazioni di Luigi Lamartina
Pubblicazione: Catania : Prospettiva, 2002
Titolo: La natura delle cose / Tito Lucrezio Caro ; introduzione di Gian Biagio Conte ; traduzione di Luca
Canali ; testo e commento a cura di Ivano Dionigi
Edizione: 11. ed
Pubblicazione: Milano : Biblioteca Universale Rizzoli, 2000
Note Generali: Testo orig. a fronte
Titolo: Il poema della natura. Libro quinto : testo latino costruzione versione italaiana interlineare scansione,
cesure, verbi note (sintattiche, grammaticali ecc.) / Lucrezio ; a cura di Mario Villa
Pubblicazione: Seregno : Avia Pervia, stampa 2000
Collezione: Collana Sormani di testi latini e greci
Titolo: Della natura delle cose di Lucrezio / [nella volgarizzazione di] Alessandro Marchetti ; a cura di Denise
Arico
Pubblicazione: Roma : Salerno, [2003]
Collezione: I diamanti
Titolo: De rerum natura / [Lucrezio] ; a cura di Lucio Ceccarelli
Pubblicazione: [Roma] : Dante Alighieri, 2002
Descrizione fisica: 269 p. ; 20 cm.
Collezione: Traditio. Serie latina
Titolo: Storia del genere umano / Lucrezio ; [a cura di Mario Moisio]
Pubblicazione: [Viterbo] : Stampa alternativa, [1995]
Collezione: Millelire
Titolo: Templa serena : antologia dal De rerum natura / T. Lucrezio Caro : a cura di Tebaldo Fabbri
Edizione: 3. ed., 3. rist
Pubblicazione: Firenze : La nuova Italia, 1996
Collezione: I classici della Nuova Italia
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Titolo: Il poema della natura. [Libro secondo] / Lucrezio ; testo latino, costruzione, versione italiana
interlineare, scansione, cesure, verbi, note (sintattiche, grammaticali ecc.) a cura di Mario Villa
Pubblicazione: Seregno : Avia pervia, stampa 1999
Collezione: Collana Sormani di testi latini e greci
Titolo: La natura / di Tito Lucrezio Caro ; a cura di Armando Fellin
Edizione: [3. ed.]
Pubblicazione: Torino : UTET, [1997]
Collezione: Classici latini
Note Generali: Trad. italiana a fronte di A. Fellin.
Titolo: Lucy Hutchinsons translation of Lucretius : De rerum natura / edited by Hugh de Quehen
Pubblicazione: London : Duckworth, 1996
Titolo: A termeszetrol / Titus Lucretius Carus
Pubblicazione: [Budapest] : Kossuth Kiado, 1997
Paese di pubblicazione: HU
Titolo: On the nature of the universe / Lucretius ; a new verse translation by Sir Ronald Melville ; with
introduction and explanatory notes by Don and Peta Fowler
Pubblicazione: Oxford : Clarendon press, 1997
Titolo: De la realidad / Lucrecio ; edicion critica y version ritmica de Agustin Garcia Calvo
Pubblicazione: Zamora : Lucina, 1997
Note Generali: Testo orig. a fronte.
Titolo: La storia dell'universo : dal De rerum natura di Lucrezio / a cura di Lidia Levi
Pubblicazione: Roma [etc.] : Laterza, [1998]
Collezione: Collezione scolastica
Leggere in latino
Titolo: Antologia lucreziana / a cura di Piero Rho
Edizione: 11. ed
Pubblicazione: [Roma] : Dante Alighieri, stampa 1995
Titolo: Lucrezio : antologia / a cura di G. Milanese
Pubblicazione: Torino : Paravia, 1996
Collezione: Gli scrittori latini
Titolo: La natura delle cose / Tito Lucrezio Caro ; introduzione di Gian Biagio Conte ; traduzione di Luca
Canali ; testo latino e commento a cura di Ivano Dionigi
Edizione: 2. ed
Pubblicazione: Milano : Rizzoli, 1996
Collezione: Classici Rizzoli
Titolo: De rerum natura. Libro terzo / Tito Lucrezio Caro ; argomento, appendice metrica, testo latino con
scansione metrica, costruzione e traduzione interlineare, note e verbi a cura di Angelo Simonelli
Pubblicazione: Seregno : Ciranna & Ferrara, stampa 1995
Titolo: De rerum natura. Libro quarto / Tito Lucrezio Caro ; argomento del libro, appendice metrica, testo
latino con scansione metrica, costruzione diretta e traduzione interlineare, note e verbi
Pubblicazione: Seregno : Ciranna & Ferrara, stampa 1995
Titolo: De rerum natura. Libro sesto / Tito Lucrezio Caro ; argomento del libro, appendice metrica, testo
latino con scansione metrica, costruzione diretta e traduzione interlineare, note e verbi
Pubblicazione: Seregno : Ciranna & Ferrara, stampa 1995
Titolo: De rerum natura. Libro secondo / Tito Lucrezio Caro ; appendice metrica, testo latino con scansione
metrica, costruzione diretta e traduzione interlineare, note e verbi a cura del prof. G. Taverna
Pubblicazione: Seregno : Ciranna & Ferrara, stampa 1995
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Titolo: Il poema della natura. Libro primo / T. Lucrezio Caro ; testo latino, costruzione, versione italiana
interlineare a cura del prof. M. C. Bassi ; scansione metrica e cesure, note (sintattiche, grammaticali, ecc.) a
cura di A. Calzavara
Pubblicazione: Seregno : Avia pervia, stampa 1996
Collezione: Collana Sormani di testi latini e greci
Titolo: La natura delle cose / Tito Lucrezio Caro ; introduzione di Gian Biagio Conte ; traduzione di Luca
Canali ; testo e commento a cura di Ivano Dionigi
Edizione: 3. ed
Pubblicazione: Milano : Biblioteca universale Rizzoli, 1995
Note Generali: Testo orig. a fronte.
Titolo: La natura / Tito Lucrezio Caro ; a cura di Armando Fellin
Pubblicazione: Torino : Unione tipografico-editrice torinese, c1997
Collezione: Classici latini
Note Generali: Testo orig. a fronte.
Titolo: La natura delle cose / Tito Lucrezio Caro ; introduzione di Gian Biagio Conte ; traduzione di Luca
Canali ; testo e commento a cura di Ivano Dionigi
Edizione: 4 ed
Pubblicazione: Milano : Biblioteca Universale Rizzoli, 1996
Titolo: De rerum natura 3. / Lucretius ; with an introduction, text, translation and commentary by P. Michael
Brown
Pubblicazione: Warminster : Aris & Phillips, c1997
Collezione: Classical texts
Titolo: La natura delle cose : 51 frammenti / Lucrezio ; traduzione di Luca Canali
Pubblicazione: [Milano] : A. Mondadori, 1997
Collezione: I miti. Poesia
Titolo: Selections from De rerum natura / Lucretius ; (edited by) Bonnie A. Catto ; with a foreword by Kirk
Summers
Pubblicazione: Wauconda, Illinois
Titolo: De rerum natura. Libro primo / Tito Lucrezio Caro ; testo latino, costruzione diretta e traduzione
interlineare, scansione metrica, note e verbi a cura di Angelo Simonelli
Pubblicazione: Seregno : Ciranna & Ferrara, stampa 1995
Titolo: 1: Livres 1.-3. / Lucrece
Edizione: 3. tirage de la 6. ed. revue et corrigee / par Claude Rambaux
Pubblicazione: Paris : Les belles lettres, 1999
Fa parte di: De la nature / Lucrece ; texte etabli et traduit par Alfred Ernout
Autore: Canali, Luca
Titolo: Nei pleniluni sereni : Autobiografia immaginaria di Tito Lucrezio Caro / Luca Canali
Pubblicazione: Milano : Longanesi, 1995
Collezione: La gaja scienza
Titolo: L' atomo e la parola : colloquio lucreziano, Bologna 26 gennaio 1989 / Lucrezio
Pubblicazione: Bologna : CLUEB, [1990]
Collezione: Quaderni della Biblioteca di disciplineumanistiche
Titolo: De rerum natura : libro 6. / Lucrezio Caro ; testo con scansione metrica e cesure, costruzione diretta,
versione letterale interlineare, sommario e note
Pubblicazione: Roma : Ciranna, [1991?]
Collezione: I cirannini
Titolo: Il poema della natura : libro 2. / Lucrezio ; testo latino, costruzione, versione italiana interlineare,
scansione, cesure, verbi, note a cura di Mario Villa
Pubblicazione: Roma : Sormani, stampa 1990
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Collezione: Collana Avia pervia di testi latini
Titolo: Il poema della natura. [Libro secondo] / Lucrezio ; testo latino, costruzione, versione italiana
interlineare, scansione, cesure, verbi, note (sintattiche, grammaticali, ecc.) a cura di Mario Villa
Pubblicazione: Seregno : Avia Pervia, stampa 1992
Collezione: Collana Avia pervia di testi latini
Note Generali: Numero di collezione sul dorso, attr. erroneamente: 81.
Tit. sul dorso, erroneamente: Il poema della natura. Libro sesto
Titolo: La natura / Tito Lucrezio Caro ; introduzione, testo criticamente riveduto, traduzione e commento di
Francesco Giancotti
Pubblicazione: Milano : Garzanti, 1994
Collezione: I grandi libri Garzanti
Titolo: Concordantia in Lucretium / curavit Manfred Wacht
Pubblicazione: Hildesheim ; Zurich <etc.>, 1991
Descrizione fisica: 845 p. ; 30 cm
Collezione: Alpha-omega. Reihe A, Lexika, Indizes,Konkordanzen zur klassischen Philologie
Titolo: Della natura / Tito Lucrezio Caro ; versione, introduzione e note di Enzio Cetrangolo ; con un saggio
di Benjamin Farrington
Pubblicazione: Firenze : Sansoni, 1992
Collezione: Biblioteca universale Sansoni
Note Generali: Testo orig. a fronte.
Titolo: La natura delle cose / Lucrezio ; a cura di Guido Milanese ; introduzione di Emanuele Narducci
Pubblicazione: Milano : A. Mondadori, 1992
Collezione: Classici greci e latini
Note Generali: Trad. italiana a fronte.
Titolo: De rerum natura. Libro quinto : argomento, appendice metrica, testo latino con scansione metrica,
costruzione e traduzione interlineare, note e verbi / Tito Lucrezio Caro ; a cura di Angelo Simonelli
Pubblicazione: Seregno : Ciranna & Ferrara, stampa 1993
Titolo: De rerum natura : libro quinto / Lucrezio ; commento e note di C. Giussani e E. Stampini
Edizione: 3. ed. aggiornata da Vittorio D'Agostino
Pubblicazione: Torino : Loescher, stampa 1991
Collezione: Collezione di classici greci e latini
Titolo: De rerum natura / Lucrezio ; a cura di Lucio Ceccarelli
Pubblicazione: [Roma] : Dante Alighieri, 1991
Collezione: Traditio. Serie latina
Titolo: Il poema della natura. Libro terzo / Lucrezio ; testo latino, costruzione, versione italiana interlineare,
scansione, cesure, verbi, note (sintattiche, grammaticali ecc.) a cura di Mario Villa
Pubblicazione: Seregno : Avia pervia, stampa 1991
Collezione: Collana Avia pervia di testi latini
Titolo: De rerum natura 6. / Lucretius ; edited with translation and commentary by John Godwin
Pubblicazione: Warminster, England
Note Generali: Con il testo orig. a fronte
Titolo: De rerum natura / Lucretius ; with an English translation by W. H. D. Rouse
Edizione: Revised with new text, introduction, notes, and index by Martin Ferguson Smith
Pubblicazione: Cambridge, Mass.
Collezione: The Loeb classical library
Note Generali: Testo orig. a fronte.
Titolo: 11: The way things are / Lucretius . The discourses of Epictetus . The meditations of Marcus Aurelius .
The six Enneads / Plotinus
Edizione: 2. ed
Pubblicazione: Chicago .etc.. : Encyclopaedia Britannica, 1990
F. D’Alessi © 2002
F. D'ALESSI - Letteratura latina - Parte II,1 - Il periodo classico
236
Descrizione fisica: XI, 678 p. ; 24 cm
Fa parte di: Great books of the Western world / Mortimer J. Adler, editor in chief ; Clifton Fadiman, Philip W.
Goetz, associate editors
Altri titoli collegati: [Pubblicato con] The way things are / Lucretius
[Pubblicato con] The discourses of Epictetus
[Pubblicato con] The meditations of Marcus Aurelius
[Pubblicato con] The 6 Enneads
Titolo: Il poema della natura. Libro primo / T. Lucrezio Caro ; testo latino, costruzione, versione italiana
interlineare a cura del prof. M. C. Bassi ; scansione metrica e cesure, note (sintattiche, grammaticali, ecc.) a
cura di A. Calzavara
Pubblicazione: Seregno : Avia pervia, stampa 1991
Collezione: Collana Sormani di testi latini e greci
Titolo: De rerum natura : antologia dal 1. al 6. libro / T. Lucrezio Caro ; introduzione, testo latino, scansione
matrica, costruzione interlineare, versione italiana a cura del prof. Francesco Aloise
Pubblicazione: Roma : Ciranna, [1990?]
Collezione: I cirannini. N. S
Titolo: La natura delle cose / Tito Lucrezio Caro ; introduzione di Gian Biagio Conte ; traduzione di Luca
Canali ; testo latino e commento a cura di Ivano Dionigi
Pubblicazione: Milano : Rizzoli, 1990
Collezione: Classici Rizzoli
Note Generali: Testo orig. a fronte
TV0114 - Biblioteca comunale - Treviso - TV
Autore: Wacht, Manfred
Titolo: Concordantia in Lucretium / curavit Manfred Wacht
Pubblicazione: Hildesheim [etc.] : Olms-Weidmann, 1991
Collezione: Alpha-omega. Reihe A, Lexika, Indizes,Konkordanzen zur klassischen Philologie
TV0114 - Biblioteca comunale - Treviso - TV
Titolo: Della natura delle cose di Lucrezio / [nella volgarizzazione di] Alessandro Marchetti ; a cura di Mario
Saccenti
Pubblicazione: Modena : Mucchi, stampa 1992
Collezione: Il lapazio
Titolo: La natura / Tito Lucrezio Caro ; introduzione di Luca Canali ; premessa al testo e glossario di
Salvatore Rizzo ; traduzione di Balilla Pinchetti
Edizione: 6. ed
Pubblicazione: ilano : Rizzoli, 1986
Note Generali: Testo latino a fronte
Titolo: La Natura / Tito Lucrezio Caro ; introduzione di Luca Canali
Edizione: 8. ed
Pubblicazione: [Milano] : Biblioteca universale Rizzoli, 1989
Collezione: I libri di Millelibri
Note Generali: Testo latino a fronte
Titolo: De rerum natura : libro 1. / [Lucrezio Caro] ; costruzione diretta, versione letterale interlineare,
argomento, note, scansione metrica schematica e cesure a cura di D. Barresi
Pubblicazione: Roma : Ciranna, [1988?]
Collezione: I cirannini. N. S
Titolo: De rerum natura : libro 3. / Lucrezio Caro ; testo con scansione metrica e cesure, costruzione diretta,
versione letterale interlineare, sommario e note a cura di D. Barresi
Pubblicazione: Roma : Ciranna, [1988?]
Collezione: I cirannini
F. D’Alessi © 2002
F. D'ALESSI - Letteratura latina - Parte II,1 - Il periodo classico
237
Titolo: L' illusione cosmica / T. Lucrezio Caro ; lettura di Pasquale Cervo ; con nota introduttiva di Vincenzo
Rosato
Pubblicazione: Napoli : Ferraro, 1987
Titolo: Il poema della natura : libro primo / T. Lucrezio Caro ; testo latino, costruzione, versione italiana
interlineare a cura del prof. M. C. Bassi ; scansione metrica e cesure, note sintattiche, grammaticali, ecc. a
cura di A. Calzavara
Pubblicazione: Roma : Sormani, stampa 1989
Collezione: Collana Avia pervia di testi latini
Titolo: De rerum natura : libro 3. / Lucrezio Caro ; testo con scansione metrica e cesure, costruzione diretta,
versione letterale interlineare, sommario e note a cura di D. Barresi
Pubblicazione: Roma : Ciranna, [1988?]
Collezione: I cirannini. N. S
Titolo: La natura / Tito Lucrezio Caro ; introduzione, traduzione e note di Olimpio Cescatti ; con una lettura
critica di Alessandro Ronconi
Edizione: 6. ed
Pubblicazione: Milano : Garzanti, 1986
Collezione: I grandi libri Garzanti
Note Generali: Testo orig. a fronte.
Titolo: La natura / Tito Lucrezio Caro
Edizione: Ed. integrale bilingue
Pubblicazione: Milano : Mursia, c1988
Note Generali: Introduzione, traduzione e note di Arturo Carbonetto.
Comprende: Libri 1.-3. / Tito Lucrezio Caro
Libri 4.-6. / Tito Lucrezio Caro
Titolo: Lucrezio, Catullo, Orazio, Livio : Antologia per il 2. liceo classico / a cura di Gianfranco Nuzzo
Pubblicazione: Palermo : Palumbo, stampa 1985
Collezione: Autori latini
Titolo: La natura / Titus Lucretius Carus
Pubblicazione: Milano : Rizzoli, 1986
Note Generali: con testo latino a fronte
Titolo: De rerum natura : libro 5. / Lucrezio Caro ; testo con scansione metrica e cesure, costruzione diretta,
versione letterale interlineare, sommario e note a cura di D. Barresi
Pubblicazione: Roma : Ciranna, [1988?]
Collezione: I cirannini
Titolo: Libri 1.-3. / Tito Lucrezio Caro
Pubblicazione: Milano : Mursia, c1988
Collezione: GUM. N. S
Titolo: Libri 4.-6. / Tito Lucrezio Caro
Pubblicazione: Milano : Mursia, c1988
Collezione: GUM. N. S
Fa parte di: La natura / Tito Lucrezio Caro
Titolo: La natura / Tito Lucrezio Caro ; introduzione di Luca Canali ; premessa al testo e glossario di
Salvatore Rizzo ; traduzione di Balilla Pinchetti
Edizione: 7. ed
Pubblicazione: Milano : Biblioteca universale Rizzoli, stampa 1988
Note Generali: Testo latino a fronte.
Titolo: La natura / Lucrezio ; Introduzione traduzione e note di Olimpio Cescatti ; Con una lettera critica di
Alessandro Ronconi
Pubblicazione: Milano : Garzanti, 1989
Collezione: I grandi libri Garzanti
Note Generali: con testo a fronte
F. D’Alessi © 2002
F. D'ALESSI - Letteratura latina - Parte II,1 - Il periodo classico
238
Titolo: Lucreti De natura rerum libri sex / recognovit brevique adnotatione critica instruxit Cyrillus Bailey
Edizione: 2. ed
Pubblicazione: Oxonii : e typographeo Clarendoniano, 1988
Collezione: Scriptorum classicorum bibliotheca Oxoniensis
Titolo: La natura / Tito Lucrezio Caro ; introduzione di Luca Canali ; premessa al testo e glossario di
Salvatore Rizzo ; Traduzione di Balilla Pinchetti
Edizione: 8. ed
Pubblicazione: Milano : Rizzoli, 1989
Titolo: Religione, amore, morte nel De rerum natura / Lucrezio ; introduzione, commento e traduzione di
Antonino Lacava
Pubblicazione: Napoli : Procaccini, stampa 1989
Collezione: Fragmenta
Titolo: Della natura / Tito Lucrezio Caro ; versione introduzione e note di Enzio Cetrangolo ; con un saggio di
Benjamin Farrington
Pubblicazione: Firenze : Sansoni, 1989
Collezione: Le querce
Note Generali: Testo orig. a fronte.
Titolo: Libro quarto / Tito Lucrezio Caro ; argomento del libro, appendice metrica, testo latino con scansione
metrica, costruzione diretta e traduzione interlineare, note e verbi a cura di G. Taverna
Pubblicazione: Seregno, Milano
Collezione: Traduzioni interlineari dal latino
Fa parte di: De rerum natura / Tito Lucrezio Caro ; a cura di G. Taverna
Titolo: Antologia : per il 2. liceo classico / Lucrezio... [et al.] ; a cura di G. Nuzzo, G. Venticinque
Pubblicazione: Palermo : Palumbo, 1988
Collezione: Autori latini
Titolo: La natura / Tito Lucrezio Caro ; Introduzione, traduzione e note di Olimpio Cescatti ; con una lettera
critica di Alessandro Ronconi
Pubblicazione: Milano : Garzanti, 1989
Collezione: I grandi libri Garzanti
Note Generali: Testo latino a fronte
Titolo: [6]: : libro sesto : argomento del libro, appendice metrica, testo latino con scansione metrica,
costruzione diretta e traduzione interlineare, note e verbi / Tito Lucrezio Caro ; a cura di G. Taverna
Pubblicazione: Seregno : Ciranna-Ferrara, stampa 1988
Fa parte di: De rerum natura / Tito Lucrezio Caro ; a cura di G. Taverna
Titolo: La natura / Tito Lucrezio Caro ; introduzione, traduzione e note di Olimpio Cescatti ; con una lettura
critica di Alessandro Ronconi
Edizione: 8. ed
Pubblicazione: Milano : Garzanti, 1989
Collezione: I grandi libri Garzanti
Note Generali: Testo orig. a fronte
Autore: Govaerts, Suzanne
Titolo: Lucrece: De rerum natura : index verborum, listes de frequence, releves grammaticaux / par S.
Govaerts
Pubblicazione: Liege : C.I.P.L., 1986
Collezione: Travaux publies par le Centre informatique dephilosophie et lettres. Serie du laboratoired'analyse
statistique des langues anciennes
Titolo: Il poema della natura / Lucrezio ; testo latino e versione poetica di Pietro Parrella
Pubblicazione: Bologna : Zanichelli, stampa 1989
Collezione: Poeti di Roma
Note Generali: Testo originale a fronte
F. D’Alessi © 2002
F. D'ALESSI - Letteratura latina - Parte II,1 - Il periodo classico
239
Titolo: La natura / Tito Lucrezio Caro ; introduzione, traduzione e note di Olimpo Cescatti ; con una lettura
critica di Alessandro Ronconi
Edizione: 7. ed
Pubblicazione: <Milano> : Garzanti, 1988
Collezione: I grandi libri Garzanti
Note Generali: Testo orig. a fronte.
Titolo: De rerum natura : libro 1. / [Lucrezio Caro] ; costruzione diretta, versione letterale interlineare,
argomento, note, scansione metrica schematica e cesure a cura di D. Barresi
Pubblicazione: Roma : Ciranna, [1988?]
Collezione: I cirannini
Autore: Brown, Robert Duncan <1950- >
Titolo: Lucretius on love and sex : a commentary on De rerum natura 4., 1030-1287 with prolegomena, text
and translation / by Robert D. Brown
Pubblicazione: Leiden [etc.] : E. J. Brill, 1987
Collezione: Columbia studies in the classical tradition
Autore: Lucretius Carus, Titus
Titolo: De rerum natura 4. / Lucretius ; edited with translation and commentary by John Godwin
Pubblicazione: Warminster, England
Titolo: La natura / Tito Lucrezio Caro ; introduzione, traduzione e note di Olimpio Cescatti
Edizione: 4. ed
Pubblicazione: [Milano] : Garzanti, 1982
Collezione: I grandi libri Garzanti
Note Generali: Testo latino a fronte
Titolo: Il Poema della natura / Lucrezio ; Testo latino e versione poetica di Pietro Parrella
Pubblicazione: Bologna : Zanichelli, 1983-1984
Collezione: Poeti di Roma
Note Generali: Testo latino a fronte
Titolo: La natura / Tito Lucrezio Caro ; Introduzione, traduzione e note di Olimpio Cescatti con una lettura
critica di Alessandro Ronconi
Edizione: 4. ed
Pubblicazione: Milano : Garzanti, 1982
Collezione: I grandi libri Garzanti
Note Generali: Testo latino a fronte / Tit. orig.: De rerum natura
Trad. Olimpio Cescatti
Titolo: La natura / Tito Lucrezio Caro ; introduzione e note di Olimpio Cescatti ; con una lettera critica di
Alessandro Ronconi
Edizione: 5. ed
Pubblicazione: Milano : Garzanti, 1983
Collezione: I grandi libri Garzanti
Note Generali: Testo latino a fronte.
Titolo: Lucrezio, Catullo, Orazio Livio / a cura di Giuseppe Rosati, Enrica Malcovati e Augusto Serafini
Pubblicazione: Firenze : Sansoni, [1982]
Titolo: La natura / Tito Lucrezio Caro ; introduzione, traduzione e note di Olimpio Cescatti ; con una lettura
critica di Alessandro Ronconi
Edizione: 4. ed
Pubblicazione: Milano : Garzanti, 1982
Collezione: I grandi libri Garzanti
Note Generali: Testo latino a fronte.
Titolo: Antologia lucreziana : testo, costruzione, versione letterale / Titus Lucretius Carus
Edizione: 4. ed
Pubblicazione: Roma : Dante Alighieri, 1982
Collezione: Raccolta di autori greci e latini con lacostruzione, traduzione letterale e note
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F. D'ALESSI - Letteratura latina - Parte II,1 - Il periodo classico
240
Titolo: La natura / Tito Lucrezio Caro ; introduzione di Luca Canali ; premessa al testo e glossario di
Salvatore Rizzo ; traduzione di Balilla Pinchetti
Edizione: 5. ed
Pubblicazione: Milano : Biblioteca universale Rizzoli, 1983
Note Generali: Testo orig. a fronte.
Titolo: De la naturaleza de las cosas / Tito Lucrecio Caro
Pubblicazione: San Jose : Equinoccio, stampa 1982
Collezione: Biblioteca de la antiguedad clasica
Note Generali: Testo latino a fronte
Titolo: La natura / Tito Lucrezio Caro ; Introduzione di Luca Canali ; Premessa al testo e glossario di
Salvatore Rizzo ; Traduzione di Balilla Pinchetti
Pubblicazione: Milano : Rizzoli, 1983
Collezione: Supersaggi
Note Generali: Testo latino a fronte
Titolo: La natura / Tito Lucrezio Caro ; introd. di Luca Canali ; premessa al testo e glossario di Salvatore
Rizzo ; trad. di Balilla Pinchetti
Edizione: 3. ed
Pubblicazione: Milano : Biblioteca universale Rizzoli, 1980
Note Generali: Tit. orig. a fronte.
Titolo: Antologia lucreziana : pagine scelte dal De Rerum Natura di Lucrezio / [a cura di] Remo Giomini,
Raffaele Giomini
Pubblicazione: Torino, 1982
Titolo: Il poema della natura / Lucrezio ; testo latino e versione poetica di Pietro Parrella
Pubblicazione: Bologna : Zanichelli, stampa 1981
Collezione: Poeti di Roma
Note Generali: Testo orig. a fronte
Titolo: De rerum natura : book 3. / Lucretius ; edited by E. J. Kenney
Edizione: Repr. with corr
Pubblicazione: Cambridge [etc.] : Cambridge university press, 1984
Collezione: Cambridge Greek and Latin classics
Titolo: Antologia lucreziana / a cura di Piero Rho
Edizione: 8. ed
Pubblicazione: Roma : Soc. Dante Alighieri, 1980
Collezione: Traditio. Serie latina
Titolo: De rerum natura / Lucrezio ; scelta e commento di Luciano Perelli
Edizione: 11. ed
Pubblicazione: Torino : Lattes, stampa 1983 (Torino : TGT)
Titolo: De rerum natura / Lucretius ; with an english translation by W. H. D. Rouse ; revised with new text,
introduction, notes and index by Martin Ferguson Smith
Edizione: 2.ed
Pubblicazione: Cambridge ; London, 1982
Collezione: The Loeb classical library
Note Generali: testo orig. a fronte
Titolo: De rerum natura 5 / Lucretius ; edited with introduction and commentary by C. D. N. Costa
Pubblicazione: Oxford : Clarendon Press, 1984
Titolo: De rerum natura 1 / Lucretius ; edited with introduction, commentary & vocabulary by P. Michael
Brown
Pubblicazione: Bristol : Published by Bristol Classical Press General Editor, 1984
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F. D'ALESSI - Letteratura latina - Parte II,1 - Il periodo classico
241
Titolo: Il poema della natura : antologia (I-VI) / Lucrezio ; testo latino, costruzione, versione italiana
interlineare, argomenti e note a cura di S. Di Meglio ; scansione metrica e cesure a cura di A. Calzavara
Pubblicazione: Roma : Sormani, 1981
Collezione: Collana Avia pervia di testi latini
Titolo: Della natura delle cose / Lucrezio ; traduzione di Alessandro Marchetti ; a cura di Mario Saccenti
Edizione: 2. ed
Pubblicazione: Torino : Einaudi, 1980
Collezione: Collezione di poesia
Saccenti, Mario
Marchetti, Alessandro <1633-1714>
Titolo: La natura / Tito Lucrezio Caro ; introduzione di Luca Canali ; premessa al testo e glossario di
Salvatore Rizzo ; traduzione di Balilla Pinchetti
Edizione: 3. ed
Pubblicazione: Milano : Biblioteca universale Rizzoli, 1980
Note Generali: Testo latino a fronte.
Autore: Cicero, Marcus Tullius
Titolo: Cicerone - Lucrezio : antologia / a cura di G. Venticinque, G. Augello
Pubblicazione: Palermo : Palumbo, stampa 1984
Collezione: Autori latini
Titolo: La natura / Tito Lucrezio Caro ; introduzione di Luca Canali ; premessa al testo e glossario di
Salvatore Rizzo ; traduzione di Balilla Pinchetti
Edizione: 4. ed
Pubblicazione: Milano : Biblioteca Universale Rizzoli, 1981
Titolo: Templa serena : antologia dal De rerum natura / T. Lucrezio Caro ; a cura di Tebaldo Fabbri
Edizione: 1. rist. della 3. ed
Pubblicazione: Firenze : La nuova Italia, 1979
Collezione: I classici della Nuova Italia
Titolo: Templa serena ; Antologia dal De Rerum Natura . A cura di Tebaldo Fabbri
Edizione: 3. ed
Pubblicazione: Firenze : La Nuova Italia, 1975
Collezione: I classici della Nuova Italia
Note Generali: Testo latino annotato
Titolo: De Rerum natura / Lucrezio ; passi ecelti e commentati a cura di Alberto Albertini
Pubblicazione: Brescia : La Scuola, 1975
Titolo: La= natura / [Di] Tito Lucrezio Caro ; Introduzione, traduzione e note di Olimpio Cescatti ; Con una
lettura critica di Alessandro Ronconi
Pubblicazione: Milano : Garzanti, 1975
Collezione: I grandi libri Garzanti
Note Generali: Testo orig. a fronte
Titolo: La natura / di Tito Lucrezio Caro ; a cura di Armando Fellin
Edizione: 2. ed. rivista da Adelmo Barigazzi
Pubblicazione: Torino : Unione tipografico-editrice torinese, 1976
Collezione: Classici latini
Note Generali: Trad. italiana a fronte.
Titolo: T. Lucreti Cari De rerum natura libri sex / [Conradus Muller recensuit et adnotauit]
Pubblicazione: Zurich : Hans Rohr, stampa 1975
Muller, Konrad
Titolo: La Natura / Tito Lucrezio Caro ; introduzione di Luca Canali ; premessa al testo e glossario di
Salvatore Rizzo ; traduzione di Balilla Pinchetti
Edizione: 2. ed
Pubblicazione: Milano : Rizzoli, 1978
F. D’Alessi © 2002
F. D'ALESSI - Letteratura latina - Parte II,1 - Il periodo classico
242
Note Generali: Testo latino a fronte
Canali, Luca
Rizzo, Salvatore <1944- >
Pinchetti, Balilla
Titolo: De rerum natura / Lucretius; with an english translation by W.H.D. Rouse ; revised with new text,
introduction, notes and index by Martin Ferguson Smith
Pubblicazione: Cambridge, Mass.
Collezione: The Loeb classical library
Note Generali: Testo orig. a fronte.
Titolo: Della natura / Tito Lucrezio Caro ; versione, introduzione e note di Enzio Cetrangolo ; con un saggio
di Bejamin Farrington
Pubblicazione: Firenze : Sansoni, [1978]
Collezione: Le voci del mondo
Note Generali: Tit. orig. a fronte.
Titolo: La Natura / Tito Lucrezio Caro ; Introduzione di Luca Canali ; premessa al testo e glossario di
Salvatore Rizzo ; traduzione di Balilla Pinchetti
Pubblicazione: Milano : Biblioteca Universale Rizzoli, 1976
Note Generali: Testo latino a fronte
Titolo: La natura / Tito Lucrezio Caro ; introduzione di Luca Canali ; premessa al testo e glossario di
Salvatore Rizzo ; traduzione di Balilla Pinchetti
Pubblicazione: Milano : Biblioteca universale Rizzoli, 1976
Note Generali: Testo latino a fronte
Titolo: La natura / Tito Lucrezio Caro ; Introduzione, traduzione e note di Olimpio Cescatti ; con una lettura
critica di Alessandro Ronconi
Edizione: 9. ed
Pubblicazione: Milano : Garzanti, 1975
Note Generali: Con testo latino a fronte
Titolo: Lucreti De rerum natura libri sex / recognovit brevique adnotatione critica instruxit Cyrillus Bailey
Edizione: Ed. altera
Pubblicazione: Oxonii : e typographeo Clarendoniano, stampa 1978
Collezione: Scriptorum classicorum bibliotheca Oxoniensis
Bailey, Cyril
Titolo: De rerum natura. Liber secundus / Lucrezio Caro ; introduzione e commento di Arduino Olivieri
Pubblicazione: Milano : Signorelli, 1976
Collezione: Scrittori latini
Titolo: La Natura / Tito Caro Lucrezio
Edizione: 2. ed
Pubblicazione: Milano : Rizzoli, 1978
Note Generali: Testo latino a fronte
Titolo: Della natura delle cose / Lucrezio ; a cura di Mario Saccenti
Pubblicazione: Torino : Einaudi, 1975
Collezione: Collezione di poesia
Autore: Lucretius Carus, Titus
Titolo: Della natura delle cose / Lucrezio ; traduzione di Alessandro Marchetti ; a cura di Mario Saccenti
Pubblicazione: Torino : Einaudi, [1975]
Collezione: Collezione di poesia
Titolo: De rerum natura libri sex / edited with notes and translation by H. A. J. Munro
Pubblicazione: New York ; London, 1978
Descrizione fisica: 3 v.
F. D’Alessi © 2002
F. D'ALESSI - Letteratura latina - Parte II,1 - Il periodo classico
243
Titolo: De rerum natura, libro 4. / Lucrezio ; introduzione e testo a cura di Paolo Frassinetti ; traduzione a
cura di Gigliola Maggiulli ; note a cura di Anna Maria Tempesti
Pubblicazione: Genova : Tilgher, 1976
Titolo: 2 / Lucrezio ; testo latino e versione poetica di Pietro Parrella
Pubblicazione: Bologna : Zanichelli, stampa 1970
Note Generali: Trad. italiana a fronte.
Fa parte di: Il poema della natura / Lucrezio ; testo latino e versione poetica di Pietro Parrella
Titolo: Antologia lucreziana / a cura di Luigi Alfonsi e Federico Roncoroni
Pubblicazione: [Torino] : Marietti, [1972?]
Collezione: Collana di classici latini
Titolo: Antologia lucreziana : pagine scelte dal De Rerum Natura di Lucrezio / [a cura di] Remo Giomini,
Raffaele Giomini
Pubblicazione: Torino, 1970
Titolo: Il poema della natura / Lucrezio ; testo latino e versione poetica di Pietro Parrella
Pubblicazione: Bologna : Zanichelli, 1970
Descrizione fisica: 2 v. ; 19 cm
Collezione: Poeti di Roma
Titolo: Vita e morte nell'universo : antologia dal "De Rerum Natura" / Lucrezio ; a cura di Adelmo Barigazzi ;
con un saggio di Mario Luzi
Pubblicazione: Torino : Paravia, c1974
Collezione: Civilta letteraria di Grecia e di Roma.Autori. Serie latina
Note Generali: Nel front.: Per la terza classe del Liceo Classico e la quinta del Liceo Scientifico.
Titolo: Il poema della natura / Lucrezio ; Testo latino e versione poetica di Pietro Parrella
Pubblicazione: Bologna : Zanichelli, 1970
Collezione: Prosatori di Roma
Note Generali: Testo latino a fronte
Titolo: Antologia lucreziana / a cura di Luigi Alfonsi e Federico Roncoroni
Pubblicazione: [Torino] : Marietti, [1972?]
Collezione: Collana di classici latini
Titolo: Antologia lucreziana / a cura di Luigi Alfonsi e Federico Roncoroni
Edizione: 2. ed. riveduta e ampliata
Pubblicazione: Torino : Marietti, 1973
Collezione: Collana di classici latini
Titolo: De rerum natura : book 3. / Lucretius ; edited by E. J. Kenney
Pubblicazione: Cambridge : at the University Press, 1971
Collezione: Cambridge Greek and Latin classics
Titolo: De rerum natura , libro III ; A cura di Alieto Pieri
Pubblicazione: [Firenze] : Le Monnier, 1970
Collezione: Latini auctores
Titolo: Cicerone e Lucrezio : antologia latina per la quinta classe del liceo scientifico
Pubblicazione: Firenze : Bulgarini, 1970
Note Generali: A cura di G. Masetti, G. Pellegrinetti; i nomi dei quali figurano in test al front. .
Titolo: Vita e morte nell'universo : antologia dal "De rerum natura" / Lucrezio ; a cura di Adelmo Barigazzi ;
con un saggio di Mario Luzi
Pubblicazione: Torino : Paravia, 1974
Collezione: Civilta letteraria di Grecia e di Roma.Autori. Serie latina
Titolo: Il poema della natura / T. Lucrezio Caro ; Passi scelti ed annonati a cura di Ettore Bignone e Maria
Rosa Posani
Edizione: 20. ed
F. D’Alessi © 2002
F. D'ALESSI - Letteratura latina - Parte II,1 - Il periodo classico
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Pubblicazione: Firenze : Le Monnier, 1974
Titolo: De rerum natura. Libro quinto / Lucrezio ; commento e note di C. Giussani e E. Stampini
Edizione: 3. ed. agg. / da Vittorio d'Agostino
Pubblicazione: Torino : Loescher, 1972
Collezione: Collezione di classici greci e latini
Autore: Cicero, Marcus Tullius
Titolo: Lumina doctrinae : antologia da cicerone e Lucrezio per la v classe del liceo scientifico / Cicerone ;
Lucrezio ; A. Salvatore ; D. Natale
Pubblicazione: Napoli : Loffredo editore, 971
Nomi: Cicero, Marcus Tullius
Lucretius Carus, Titus
Salvatore, Armando
Natale, Domenico
Autore: Giardini, Gino
Titolo: Lucrezio : la vita, il poema, i testi esemplari / di Gino Giardini
Pubblicazione: Milano : Accademia, 1974
Collezione: I memorabili. N. S
Autore: Giardini, Gino
Titolo: Sapientia pagana : antologia di Lucrezio e Seneca per la 3. Liceo classico e la 5. Liceo scientifico /
Gino Giardini, Lao Paoletti
Pubblicazione: Bologna : Edizioni scolastiche Patron, (1973), 1973
Collezione: Umanitatis studia
Titolo: De rerum natura. Liber tertius / Lucrezio Caro ; introduzione e commento di Pietro Visconti
Pubblicazione: Milano : Signorelli, 1971
Collezione: Scrittori latini
Titolo: De rerum natura, libro 3. / a cura di Alieto Pieri
Pubblicazione: [Firenze] : Le Monnier, 1970
Collezione: Latini auctores
Titolo: Florentia lumina / lettura di Anton Maria Scarcella
Edizione: 11. ed.
Pubblicazione: Palermo : Palumbo, 1970
Collezione: Letture greche e latine
Titolo: Il poema della ragione : antologia lucreziana / [a cura di] Lao Paoletti
Pubblicazione: Bologna : Edizioni scolastiche Patron, 1971
Collezione: Humanitatis studia
Titolo: De rerum natura libri sex / recognovit brevique adnotatione critica instruxit Cyrillus Bailey
Edizione: Editio altera
Pubblicazione: Oxonii : e Typographeo Clarendoniano, 1974
Collezione: Scriptorum classicorum bibliotheca Oxoniensis
Autore: Paulson, Johannes
Titolo: Index Lucretianus / nach den Ausgaben von Lachmann, Bernays, Munro, Brieger und Giussani
zusammengestellt von Johannes Paulson
Edizione: 4. Aufl
Pubblicazione: Darmstadt : Wissenschaftliche Buchgesellschaft, 1970
Titolo: On the Nature of Things / translated by H. A. J. Munro ; The Discourses of Epictetus, translated by
George Long ; The Meditations of Marcus Aurelius, translated by George Long
Pubblicazione: Chicago [etc.] : Benton-Encyclopaedia Britannica Inc., 1971
Collezione: Great books of the western world
Nomi: Lucretius Carus, Titus
Marcus Aurelius Antoninus
Epictetus
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F. D'ALESSI - Letteratura latina - Parte II,1 - Il periodo classico
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Munro, Hugh Andrew Johnstone
Long, George
Titolo: Uber die Natur der Dinge / Lateinisch und Deutsch von Josef Martin
Pubblicazione: Berlin : Akademie-Verlag, 1972
Collezione: Schriften und Quellen der Alten Welt
Titolo: About reality / Lucretius ; translated by Philip F. Wooby
Pubblicazione: New York : Philosophical Library, c1973
Completo fino al 1970
Lucrezio per autore dal 1969 al 1850
Titolo: 1 / Lucrezio ; testo latino e versione poetica di Pietro Parrella
Pubblicazione: Bologna : Zanichelli, stampa 1969
Note Generali: Trad. italiana a fronte.
Fa parte di: Il poema della natura / Lucrezio ; testo latino e versione poetica di Pietro Parrella
Titolo: Della natura / Tito Lucrezio Caro ; versione, introduzione e note di Enzio Cetrangolo ; con un saggio
di Benjamin Farrington
Pubblicazione: Firenze : Sansoni, [1969]
Collezione: Le voci del mondo
Note Generali: Testo latino a fronte.
Titolo: Della natura / Tito Caro Lucrezio ; versione introduzione e note di Enzo Cetrangolo ; con un saggio
introduttivo di Benjamin Farrington
Pubblicazione: Firenze : Sansoni, 1969
Titolo: De rerum natura : libri 1.-2. / Lucrezio ; commento e note di Carlo Giussani
Pubblicazione: Torino : Loescher, 1968
Collezione: Collezione di classici greci e latini
Titolo: Enzio Cetrangolo : Ho vegliato le notti serene, dai libri di Lucrezio sulla natura
Pubblicazione: Milano : All'Insegna del Pesce d'Oro, 1968
Collezione: Acquario
Note Generali: Tiratura di 1000 copie)
Titolo: Della natura / Tito Lucrezio Caro ; versione, introduzione e note di Enzio Cetrangolo ; con un saggio
di Benjamin Farrington
Pubblicazione: Firenze : Sansoni, 1969
Collezione: Le voci del mondo
Titolo: Florentia lumina : lettura di Anton Maria Scarcella
Edizione: 10 ed.
Pubblicazione: Palermo : Palumbo, 1968
Collezione: Letture greche e latine
Titolo: Ho vegliato le notti serene : dai libri di Lucrezio sulla Natura / [trad. di] Enzio Cetrangolo
Pubblicazione: Milano : All'insegna del pesce d'oro, 1968
Collezione: Acquario
Note Generali: Ed. di 1000 esempl. num.
Titolo: De rerum natura / Lucrezio ; versioni di Enzio Cetrangolo ; acqueforti di Bruno Saetti
Pubblicazione: Verona : F. Riva, stampa 1968
Collezione: Editiones dominicae. I poeti illustrati
Note Generali: In custodia. Ed. di 150 esempl. num.
F. D’Alessi © 2002
F. D'ALESSI - Letteratura latina - Parte II,1 - Il periodo classico
Titolo: Scritti di ottica / [scritti di] Tito Lucrezio Caro ... (et al.) ; a cura di Vasco Ronchi
Pubblicazione: Milano : Il polifilo, (1968), 1968
Collezione: Classici italiani di scienze tecniche e arti
Titolo: Il poema della natura / Lucrezio ; testo latino e versione poetica di Pietro Parrella
Pubblicazione: Bologna : Zanichelli, 1968-69
Descrizione fisica: 2 v. (XV, 234; 264 p.) ; 20 cm.
Collezione: Poeti di Roma
Titolo: De rerum natura / Tito Lucrezio Caro ; antologia a cura di Arnaldo Protti ; presentazione di Cesare
Angelini
Pubblicazione: Padova : RADAR, 1968
Collezione: Classici latini e greci
Protti, Arnaldo <1887-1956>
Titolo: De rerum natura / passi scelti e commentati a cura di Alberto Albertini
Edizione: 3. ed.
Pubblicazione: Brescia : La scuola, 1968
Note Generali: In testa al front.: Lucrezio .
Titolo: Della natura / [Di] Tito Lucrezio Caro ; Versione, introduzione e note di Enzio Cetrangolo. Con un
saggio di Beniamin Farrington
Pubblicazione: Firenze : Sansoni, 1969
Collezione: Le voci del mondo
Testo originario a fronte
Titolo: De rerum natura / T. Lucretius Carus ; textus secundum Hermannum Diels
Pubblicazione: Patavii : in aedibus Livianis, 1969
Collezione: Scriptorum Romanorum quae extant omnia
Titolo: De rerum natura : antologia / introduzione e commento di Vincenzo Bellomo
Edizione: Nuova ed.
Pubblicazione: Roma : E. Gremese, 1968
Collezione: Flamma perennis
Titolo: Il poema della natura / Lucrezio ; luoghi scelti e commentati da Virgilio Paladini
Edizione: 9. ed
Pubblicazione: Roma : V. Bonacci, 1969
Collezione: Convivium
Titolo: Il poema della natura / Titus Carus Lucretius ; testo latino e versione poetica di Pietro Parrella
Pubblicazione: Bologna : Zanichelli, 1968
Collezione: Poeti di Roma
Titolo: Tito Lucreti Cari De rerum natura libri sex / quintum recensuit Joseph Martin
Pubblicazione: Lipsiae : in aedibus Teubneri, 1969
Collezione: Bibliotheca scriptorum Graecorum et RomanorumTeubneriana
Titolo: Il poema della natura, libro 1. / costruzione diretta, versione letterale interlineare, argomento, note,
scansione metrica schematica e cesure a cura di D. Barresi
Pubblicazione: Roma : Ciranna, [1969?]
Collezione: I cirannini. N. S
Titolo: T. Lucreti Cari De rerum natura libri sex / quintum recensuit Joseph Martin
Edizione: 5. ed
Pubblicazione: Stutgardiae ; Lipsiae, 1962
Collezione: Bibliotheca scriptorum Graecorum et RomanorumTeubneriana
Titolo: Antologia lucreziana : testo, costruzione, versione letterale
Pubblicazione: Miano [etc.] : Dante Alighieri, 1969
Collezione: Raccolta di autori greci e latini con lacostruzione, traduzione letterale e note
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F. D'ALESSI - Letteratura latina - Parte II,1 - Il periodo classico
Titolo: Lucrezio : antologia dal "De rerum natura" / Nino Visalli
Pubblicazione: Torino : Societa editrice internazionale, stampa 1969
Titolo: Lucreti lucida carmina / [a cura di C. Greco]
Edizione: 2. ed
Pubblicazione: Napoli ; Firenze, 1969
Titolo: Il poema della natura / passi scelti con introduzione e commento di Concetto Marchesi
Edizione: Nuova ristampa della 3. ed. riveduta e ampliata
Pubblicazione: Milano ; Messina, 1968
Collezione: Classici latini e greci
Autore: Roberts, Louis
Titolo: A concordance of Lucretius / [by] Louis Roberts
Pubblicazione: Berkeley : Agon, 1968
Legami a titoli: [Supplemento di] Agon .
Titolo: Tito Lucrezio Caro / versioni di Enzio Cetrangolo
Pubblicazione: Verona : Editiones Dominicae dai torchi di Franco Riva, 1967
Collezione: Concilium typographicum
Note Generali: Ed. di 50 esempl. num.
Titolo: De rerum natura liber quintus / ed. with an intr. and notes by J. D. Duff
Pubblicazione: Cambridge : The Univ. press, 1967
Collezione: Pitt press series
Note Generali: Testo lat.
Titolo: Il poema della natura / Passi scelti ed annotati a cura di Ettore Bignone e Maria Rosa Posani
Edizione: 18 ed.
Pubblicazione: Firenze : F. Le Monnier, 1967
Titolo: Antologia dal De rerum natura / Lucrezio ; a cura di N. Visalli
Pubblicazione: Torino : Societa editrice internazionale, 1966
Titolo: Antologia lucreziana / a cura di Piero Rho
Edizione: 4. ed.
Pubblicazione: Milano [etc.] : Societa editrice Dante Alighieri, 1966
Collezione: Traditio. Serie latina
Titolo: Lucreti De rerum natura libri sex / recognovit brevique adnotatione critica instruxit Cyrillus Bailey
Edizione: Editio altera
Pubblicazione: Oxonii : e Typographeo Clarendoniano, stampa 1967
Collezione: Scriptorum classicorum bibliotheca Oxoniensis
Titolo: Antologia lucreziana / a cura di Giuseppe Rosati
Edizione: Nuova ed
Pubblicazione: Firenze] : Sansoni, 1967
Collezione: Edizioni scolastiche Sansoni. Bibliotecaclassica. Sezione latina
Note Generali: Testo latino.
Titolo: Divina voluptas : dal De rerum natura / T. Lucrezio Caro ; scelta e commento di L. Maselli
Pubblicazione: Firenze : R. Sandron, 1967
Collezione: Classici latini
Titolo: De rerum natura : libro quinto / Lucrezio Caro ; introduzione e commento di Teresa Cupaiuolo
Pubblicazione: Milano : Signorelli, 1967
Collezione: Scrittori latini - Classici Signorelli
Titolo: De rerum natura : liber 5. / introduzione e commento di Alberto Piccoli Genovese
Pubblicazione: Milano : Signorelli, 1966
Collezione: Scrittori latini
Note Generali: Ristampa.
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F. D'ALESSI - Letteratura latina - Parte II,1 - Il periodo classico
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Titolo: De rerum natura / passi scelti e commentati a cura di Alberto Albertini
Edizione: 2. ed.
Pubblicazione: Brescia : La scuola, 1966
Titolo: T. Lucreti Cari De Rerum Natura / edidit Carolus Buechner
Pubblicazione: Wiesbaden : Franz Steiner, 1966
Titolo: T. Lucreti Cari De rerum natura liber quintus / edited with introduction and notes by J. D. Duff
Pubblicazione: Cambridge : at the University Press, 1967
Collezione: Pitt press series
Duff, James Duff <1860-1940>
Titolo: Il poema della natura / testo latino e versione poetica di Pietro Parrella
Pubblicazione: Bologna : Zanichelli, 1967
Collezione: Poeti di Roma
Autore: Pasoli, Elio
Titolo: Pagine di poesia filosofica latina dal De rerum natura di Lucrezio : anno acc. 1966-67 / appunti dalle
lezioni del prof. Elio Pasoli tenute per gli studenti della Facolta di magistero di Bologna
Pubblicazione: Bologna : Arte stampe Collegio di Spagna, 1967
Titolo: De rerum natura libri sex / ed. by W. A. Merrill
Pubblicazione: New York : American book Co, 1967
Collezione: Morris and Morgans Latin Series
Titolo: De rerum natura / Lucretius ; with an English transl. by W. H. D. Rouse
Edizione: 3. ed. reprinted
Pubblicazione: London : Heinemann, Mass.
Collezione: The Loeb classical library
Titolo: De rerum natura libri sex / ed. with prolegomena, critical apparatus, translation and commentary by
Cyril Bailey ...
Edizione: Rist. anast.
Pubblicazione: Oxford : Clarendon press, 1966
Note Generali: Reprint lithographically ... from corrected sheets of the first edition [1947] .
Titolo: Antologia lucreziana / a cura di Giuseppe Rosati
Pubblicazione: [Firenze] : G. C. Sansoni, 1966
Collezione: Edizioni scolastiche Sansoni. Bibliotecaclassica. Sezione latina
Titolo: Antologia lucreziana : per le scuole medie superiori
Pubblicazione: Bergamo [etc.] : Minerva italica, 1966
Note Generali: A cura di G. Angelino, il nome del quale figura in testa al front. .
Titolo: La natura / antologia a cura di Giuseppe Augello
Edizione: 3. ed.
Pubblicazione: Palermo : Palumbo, 1964
Titolo: Antologia lucreziana / Carmine Greco
Pubblicazione: Formia : Di Mambro & Di Biasia, stampa 1965
Titolo: Antologia lucreziana / a cura di Francesco Arnaldi
Pubblicazione: Torino [etc.] : Istituto editoriale del Mezzogiorno, 1964
Titolo: De rerum natura / passi scelti e commentati a cura di Alberto Albertini
Pubblicazione: Brescia : La scuola, [1964]
Titolo: Il poema della natura / testo latino, costruzione, versione italiana interlineare, scansione, cesure,
verbi, note (sintattiche, grammaticali, ecc.) a cura di Mario Villa
Pubblicazione: Roma : Sormani, [1964?]
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F. D'ALESSI - Letteratura latina - Parte II,1 - Il periodo classico
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Collezione: Avia pervia
Titolo: Il poema della natura : passi scelti / con introduzione e commento di Concetto Marchesi
Edizione: 3. ed. riveduta e ampliata
Pubblicazione: Milano ; Messina, 1965
Collezione: Classici latini e greci
Titolo: Antologia lucreziana / a cura di Piero Rho
Edizione: 3. ed. riveduta
Pubblicazione: Milano [etc] : Dante Alighieri, 1965
Collezione: Traditio. Serie latina
Note Generali: Finito di stampare nel 1964 .
Titolo: Il poema della natura / T. Lucrezio Caro ; passi scelti e annotati a cura di E. Bignone e Maria R.
Posani
Edizione: 17. ed
Pubblicazione: Firenze : Le Monnier, 1965
Titolo: Lumina menti : antologia lucreziana
Pubblicazione: Formia : Di Mambro e Di Biasio, 1965
Note Generali: N. 1 di una collana senza titolo
A cura di C. Greco, il nome del quale figura in testa al front. .
Titolo: De rerum natura : passi scelti e commentati da Edilio Marelli
Pubblicazione: Bergamo [etc.] : Minerva italica, 1965
Titolo: Divina voluptas : dal De rerum natura / scelta e commento di L. Maselli
Pubblicazione: Firenze : R. Sandron, 1964
Collezione: Classici latini
Titolo: De rerum natura libri sex / edited with prolegomena, critical apparatus, translation, and commentary
by C. Bailey
Pubblicazione: Oxford : Clarendon Press, 1963
Descrizione fisica: 3 v.
Comprende: 1: Prolegomena, text and critical apparatus,translation
2: Commentary, Books I-III
3: Commentary, Books IV-VI, addenda, indexes,bibliography
2: Commentary, books 1.-3. / Titus LucretiusCarus ; edited with Prolegomena, CriticalApparatus Translation,
and Commentary byCyril Bailey
1: Prolegomena, text and critical apparatustranslation / Titus Lucretius Carus ; editedwith Prolegomena,
Critical ApparatusTranslation and Commentary by Cyril Bailey
3: Commentary, books 4.-6., addenda indexes,bibliography / Titus Lucretius Carus ; editedwith
Prolegomena, Critical ApparatusTranslation and Comm entary by Cyril Bailey
Titolo: 1: Prolegomena, text and critical apparatus, translation
Pubblicazione: Oxford : Clarendon Press, 1963
Descrizione fisica: 1 v.
Fa parte di: De rerum natura libri sex / edited with prolegomena, critical apparatus, translation, and
commentary by C. Bailey
Titolo: 2: Commentary, Books I-III
Pubblicazione: Oxford : Clarendon Press, 1963
Descrizione fisica: 1 v.
Fa parte di: De rerum natura libri sex / edited with prolegomena, critical apparatus, translation, and
commentary by C. Bailey
Titolo: 3: Commentary, Books IV-VI, addenda, indexes, bibliography
Pubblicazione: Oxford : Clarendon Press, 1963
Descrizione fisica: 1 v.
Fa parte di: De rerum natura libri sex / edited with prolegomena, critical apparatus, translation, and
commentary by C. Bailey
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F. D'ALESSI - Letteratura latina - Parte II,1 - Il periodo classico
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Titolo: Antologia lucreziana
Pubblicazione: Napoli : Ist. editoriale del Mezzogiorno, 1962
Note Generali: A cura di Francesco Arnaldi, il nome del quale figura in testa al front. .
Titolo: Antologia lucreziana : pagine scelte dal De rerum natura di Lucrezio
Pubblicazione: Torino : G. B. Petrini, 1962
Note Generali: A cura di Remo e Raffaele Giomini, i nomi dei quali figurano in testa al front. .
Titolo: Il poema della natura : antologia (1.-6.) / testo, costruzione, versione interlineare, argomenti e note a
cura di Salvatore Di Meglio ; scansione metrica e cesure a cura di A. Calzavara
Pubblicazione: Roma : Ediz. Sormani, 1962
Collezione: Avia pervia
Titolo: De rerum natura, libro 6. : traduzione letterale, testo a fronte, scansione metrica integrale figurativa,
paradigmi dei verbi irregolari, note grammaticali, storiche, mitologiche e filologiche
Edizione: 2. ed. riv. e corretta
Pubblicazione: Milano : Classica Saturnia editr., [1963?]
Collezione: Classici latini Selecta
Titolo: De rerum natura / i passi piu significativi annotati da Augusto Serafini
Edizione: 5. ed.
Pubblicazione: Messina ; Firenze, 1963
Collezione: Classici latini e greci commentati per lescuole
Titolo: De rerum natura : liber tertius / introduzione e commento di Pietro Visconti
Pubblicazione: Milano : Signorelli, 1963
Collezione: Scrittori latini
Note Generali: Ristampa.
Titolo: De rerum natura : libro 5. : traduzione letterale, testo a fronte, scansione metrica integrale figurata,
paradigmi dei verbi irregolari, note grammaticali, storiche, mitologiche e filologiche
Edizione: 2. edizione riveduta e corretta
Pubblicazione: Milano : Classica Saturnia editr., 1963
Collezione: Classici latini Selecta
Titolo: De rerum natura / passi scelti e commentati Da Edilio Marelli
Pubblicazione: Bergamo [etc.] : Minerva italica editr., 1963
Titolo: Lucreti de rerum natura libri sex / recognovit brevique adnotatione critica instruxit Cyrillus Bailey
Edizione: Editio altera
Pubblicazione: Oxonii : e Typographeo Clarendoniano, stampa 1962
Descrizione fisica: 1 v
Collezione: Scriptorum classicorum bibliotheca Oxoniensis
Titolo: 2: Commentary, books 1.-3. / Titus Lucretius Carus ; edited with Prolegomena, Critical Apparatus
Translation, and Commentary by Cyril Bailey
Pubblicazione: Oxford : Clarendon Press, 1963
Fa parte di: De rerum natura libri sex / edited with prolegomena, critical apparatus, translation, and
commentary by C. Bailey
Titolo: 1: Prolegomena, text and critical apparatus translation / Titus Lucretius Carus ; edited with
Prolegomena, Critical Apparatus Translation and Commentary by Cyril Bailey
Pubblicazione: Oxford : Clarendon Press, 1963
Fa parte di: De rerum natura libri sex / edited with prolegomena, critical apparatus, translation, and
commentary by C. Bailey
Titolo: De rerum natura, libro 2. : traduzione letterale, testo a fronte, scansione metrica integrale figurata,
paradigma dei verbi irregolari, note grammaticali, storiche, mitologiche e filologiche
Edizione: 2. ed. riv. e corretta
Pubblicazione: Milano : Classica Saturnia editr., [1962?]
Collezione: Classici latini Selecta
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Titolo: De rerum natura, libro 3. : traduzione letterale, testo a fronte, scansione metrica integrale figurata,
paradigmi dei verbi irregolari, note grammaticali, storiche, mitologiche e filologiche
Edizione: 2. ed. riv. e corretta
Pubblicazione: Milano : Classica Saturnia editr., [1962?]
Collezione: Classici latini Selecta
Titolo: De rerum natura : antologia / introduzione e commento di Vincenzo Bellomo
Pubblicazione: Roma : E. Gremese, [1962]
Collezione: Flamma perennis
Titolo: De rerum natura / Lucrezio ; scelta e commento di Luciano Perelli
Edizione: 7. ed. ampliata
Pubblicazione: Torino : S. Lattes, 1962
Titolo: De rerum natura libri sex / Quintum recensuit Joseph Martin
Pubblicazione: Lipsiae : In aed. Teubneri, 1963
Collezione: Bibliotheca scriptorum Graecorum et RomanorumTeubneriana
Titolo: T. Lucreti Cari De rerum natura libri sex / quintum recensuit Joseph Martin
Pubblicazione: Lipsiae : in aedibus B. G. Teubneri, 1963
Collezione: Bibliotheca scriptorum Graecorum et RomanorumTeubneriana
Titolo: De rerum natura ; Passi scelti e commentati a cura di Edilio Marelli
Pubblicazione: Bergamo : Minerva Italica, 1963
Titolo: Antologia lucreziana : pagine scelte dal De rerum natura di Lucrezio
Edizione: 2. ed. riv.
Pubblicazione: Torino : G.B. Petrini, 1963
Note Generali: A cura di Remo Giomini, Raffaele Giomini, i nomi dei quali figurano in testa al front. .
Titolo: Antologia lucreziana / a cura di Giuseppe Rosati
Pubblicazione: Firenze : G. C. Sansoni, 1963
Collezione: Edizioni scolastiche Sansoni
Titolo: 3: Commentary, books 4.-6., addenda indexes, bibliography / Titus Lucretius Carus ; edited with
Prolegomena, Critical Apparatus Translation and Comm entary by Cyril Bailey
Pubblicazione: Oxford : Clarendon Press, 1963
Fa parte di: De rerum natura libri sex / edited with prolegomena, critical apparatus, translation, and
commentary by C. Bailey
Titolo: De rerum natura : libri sex / Tito Lucrezio Caro ; recognovit brevique adnotatione critica instruxit
Cyrillus Bailey
Edizione: Editio altera
Pubblicazione: Oxonii : E. Typographeo Clarendoniano, 1962
Descrizione fisica: 250 p.
Collezione: Scriptorum classicorum bibliotheca Oxoniensis
Titolo: Florentia lumina / lettura di Anton Maria Scarcella
Edizione: 8. ed. rifatta
Pubblicazione: [Palermo] : G. B. Palumbo, 1963
Titolo: Della natura / Lucrezio ; a cura di Armando Fellin
Pubblicazione: [Torino] : Unione tipografico-editrice torinese, stampa 1963
Collezione: Classici latini
Titolo: Antologia lucreziana / a cura di Piero Rho
Pubblicazione: Milano [etc.] : Soc. editrice Dante Alighieri, 1960
Collezione: Traditio. Serie latina
Titolo: Il poema della natura : libro primo / testo latino, costruzione, versione italiana, argomenti e note a cura
di M. C. Bassi ; scansione metrica e cesure a cura di A. Calzavara
Edizione: s
Pubblicazione: Roma : Ediz. Sormani, 1960
F. D’Alessi © 2002
F. D'ALESSI - Letteratura latina - Parte II,1 - Il periodo classico
Collezione: Avia pervia
Titolo: De Rerum Natura / Lucreti ; locos praecipue notabiles collegit et illustravit Hector Paratore ;
commentariolo instruxit Hucbaldus Pizzani
Pubblicazione: Roma : Edizioni dell'Ateneo, 1960
Titolo: Antologia lucreziana / a cura di Piero Rho
Edizione: 2. ed. riv. e aum.
Pubblicazione: Milano [etc.] : Soc. editrice Dante Alighieri, 1961
Collezione: Traditio. Serie latina
Titolo: Il poema della natura : passi scelti / Lucrezio ; con introduzione e commento di Concetto Marchesi
Edizione: 3. ed. riv. e ampliata
Pubblicazione: Milano ; Messina, 1961
Collezione: Classici latini e greci
Titolo: Antologia lucreziana per le scuole medie superiori
Pubblicazione: Bergamo ; Firenze ; Messina..., 1961
Note Generali: A cura di G. Angelino, il nome del quale figura in testa al front. .
Titolo: Lucreti De rerum natura / locos praecipue notabiles collegit et illustravit Hector Paratore ;
commentariolo instruxit Hucbaldus Pizzani
Pubblicazione: Romae : In aedibus Athenaei, 1960
Collezione: Flos latinitatis
TV0114 - Biblioteca comunale - Treviso - TV
Titolo: L' ottimismo relativo nel De rerum natura di Lucrezio
Pubblicazione: Torino : Loescher ed., 1961
Collezione: Crestomazia latina
Note Generali: Antologia a cura di F. Giancotti, il nome del quale figura in testa al front. .
Titolo: De rerum natura, libro quinto / a cura di Gaetano Righi
Pubblicazione: Firenze : Vallecchi ed., 1961
Collezione: Biblioteca di classici greci e latini
Titolo: De rerum natura / Lucrezio ; scelta e commento di Luciano Perelli
Edizione: 6. ed
Pubblicazione: Torino : Lattes, stampa 1960
Collezione: Collezione di classici greci e latini /diretta da A. Taccone
Titolo: 2: Lib. 4.-6. / T. Lucrecio Caro
Pubblicazione: Barcelona : Alma mater, 1961
Fa parte di: De la naturaleza / T. Lucrecio Caro ; texto revisado y traducido por Eduardo Valenti
Titolo: De rerum natura, libro 1. : traduzione letterale, testo a fronte, scansione metrica integrale figurata,
paradigmi dei verbi irregolari, note grammaticali, storiche, mitologiche e filologiche
Edizione: 2. ed. riv. e corretta
Pubblicazione: Milano : Classica Saturnia editr., [1961?]
Collezione: Classici latini Selecta
Titolo: Lucreti de rerum natura / locos praecipue notabiles collegit et illustravit Hector Paratore ;
commentariolo instruxit Hucbaldus Pizzani
Pubblicazione: Romae : In aedibus Athenaei, 1960
Collezione: Flos latinitatis
Titolo: De rerum natura : libro quarto / a cura di Paolo Frassinetti
Pubblicazione: Firenze : Vallecchi ed., 1960
Collezione: Biblioteca di classici greci e latini
Titolo: Divina voluptas ; Dal De rerum natura. Scelta e commento di L. Maselli
Pubblicazione: Firenze : Sandron, 1961
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F. D'ALESSI - Letteratura latina - Parte II,1 - Il periodo classico
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Collezione: Classici latini
Titolo: L' ottimismo relativo nel De rerum natura di Lucrezio
Pubblicazione: Torino : Loescher ed., 1960
Collezione: Crestomazia latina
Note Generali: Antologia a cura di F. Giancotti, il nome del quale figura in testa al front. .
Titolo: Il poema della natura : passi scelti ed annotati / a cura di Ettore Bignone e Maria Rosa Posani
Edizione: 15. ed.
Pubblicazione: Firenze : F. Le Monnier, 1961
Autore: Giancotti, Francesco
Titolo: Il preludio di Lucrezio / Francesco Giancotti
Pubblicazione: Messina ; Firenze, 1959
Collezione: Biblioteca di cultura contemporanea
Titolo: 6. : De la naturaleza de las cosas / de Tito Lucrecio Caro ; [traduccion de] Lisandro Alvarado ; estudio
preliminar por Juan David Garcia Bacca
Edizione: Ed. bilingue
Pubblicazione: Caracas : Ministerio de educacion, Direccion de cultura y bellas artes
Fa parte di: Obras completas / de Lisandro Alvarado
Titolo: De rerum natura libri sex / [T. Lucreti Cari] ; recognovit ... Cyrillus Bailey
Pubblicazione: Oxford : Clarendon press, stampa 1959
Descrizione fisica: 1 v.
Titolo: Naturaleza de las cosas / trad e introd. de C. A. Disandro
Pubblicazione: La Plata : Andes, 1959
Note Generali: Coleccion autores antiguos.
Titolo: Il poema della natura : passi scelti ed annotati / a cura di Ettore Bignone e Maria Rosa Posani
Edizione: 13. ed.
Pubblicazione: Firenze : F. Le Monnier, 1958
Titolo: T. Lucreti Cari De Rerum Natura Libri Sex / quartum recensuit Joseph Martin
Pubblicazione: Lipsiae : In aedibus B. G. Teubneri, 1959
Collezione: Bibliotheca scriptorum Graecorum et RomanorumTeubneriana
Titolo: De rerum natura. Libro quinto / Lucrezio ; commento e note di C. Giussani e E. Stampini
Edizione: 3. ed. / aggiornata da Vittorio D'Agostino
Pubblicazione: Torino : Loescher, stampa 1959
Titolo: O prirode vescej / Lukrecij
Pubblicazione: Moskva : Izdatel'stvo Akademij Nauk SSSR, 1958
Paese di pubblicazione: SU
Lingua di pubblicazione: rus
Titolo: Lumina menti : antologia lucreziana / a cura di Giovanni Di Giovanni
Pubblicazione: Roma : Gopa, 1959
Titolo: Il poema della natura / Lucrezio ; testo in latino e versione poetica di Pietro Parrella
Pubblicazione: Bologna : Zanichelli, 1958
Collezione: Poeti di Roma
Titolo: De rerum natura / Lucrezio ; passi scelti con commento di Aristide Colonna
Edizione: 4. ed
Pubblicazione: Roma : Marzioli, stampa 1958
Collezione: Scrittori latini e greci : commentati per lescuole
Titolo: Della natura / passi scelti e commentati a cura di Pietro Parrella
Edizione: 2. ed. rinnovata
Pubblicazione: Napoli : L. Loffredo, 1958
F. D’Alessi © 2002
F. D'ALESSI - Letteratura latina - Parte II,1 - Il periodo classico
Titolo: Il poema della natura : passi scelti / Lucrezio ; con introduzione e commento di Concetto Marchesi
Edizione: 3. ed. riveduta e ampliata
Pubblicazione: Milano ; Messina, stampa 1959
Collezione: Classici latini e greci
Titolo: De rerum natura / Lucretius ; with an English translation by W. H. D. Rouse
Edizione: 3. ed
Pubblicazione: London : Heinemann, Mass.
Collezione: The Loeb classical library
Note Generali: Testo lat. con trad. ingl. a fronte.
Titolo: De rerum natura : libro 1. : edizioni integrali : testo latino a fronte, traduzione letterale, scansione
metrica integrale, paradigmi dei verbi irregolari, note grammaticali, storiche, mitologiche, etimologiche
Pubblicazione: Milano : Ed. Selecta, [1958]
Collezione: Classici Selecta : collana di letteraturalatina / diretta da A. Calesella
Titolo: De rerum natura : libro 3. : edizione integrale : testo latino a fronte, traduzione letterale, scansione
metrica integrale, paradigmi dei verbi irregolari, note grammaticali, storiche, mitologiche, etimologiche
Pubblicazione: Milano : Ed. Selecta, [1958]
Collezione: Classici Selecta : collana di letteraturalatina / diretta da A. Calesella
Titolo: De rerum natura : libro 3. / introduzione, versione, testo, commento a cura di Onorato Tescari
Pubblicazione: Torino : SEI, 1958
Titolo: De rerum natura / Lucretius ; with an english translation by W.H.D. Rouse
Pubblicazione: London : William Heinemann, Massachusetts
Collezione: The Loeb classical library
Note Generali: Testo orig. a fronte
Titolo: T. Lucretii Cari De Rerum natura libri sex ; Quintum recensuit Joseph Martin
Pubblicazione: Lipsia : Teubner, 1959
Collezione: Bibliotheca scriptorum Graecorum et RomanorumTeubneriana
Titolo: De Rerum Natura libro 3. / Lucrezio ; introduzione , versione, testo, commento a cura di Onorato
Tescari
Pubblicazione: Torino [etc.] : Societa editrice internazionale, 1958
Titolo: De rerum natura / pagine scelte a cura di Giovanni Tarditi
Pubblicazione: Roma : A. Signorelli, [1959?]
Collezione: I classici latini
Titolo: Il poema della natura / passi scelti ed annotati a cura di Ettore Bignone e Maria Rosa Posani
Edizione: 14. ed.
Pubblicazione: Firenze : F. Le Monnier, 1959
Titolo: De rerum natura libri sex / Recognovit brevique adnotatione critica instruxit Cyrillus Bailey
Edizione: 2. ed. Repr. 1959
Pubblicazione: Oxonii : E typ. Clarendoniano, 1959
Collezione: Scriptorum classicorum bibliotheca Oxoniensis
Titolo: Welt aus Atomen : lateinische und deutsch / Titus Lucretius Carus ; Textgestal tung, einleitung und
ubersetzung von Karl Buchner
Pubblicazione: Zurich Artemis, c1956
Collezione: Die Bibliothek der alten Welt
Note Generali: Testo latino a fronte
Titolo: Templa serena : antologia dal De rerum natura / Titi Lucreti Cari ; a cura di Tebaldo Fabbri
Edizione: 2. edizione riveduta
Pubblicazione: Firenze : La Nuova Italia, 1957
Collezione: I classici della Nuova Italia
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F. D'ALESSI - Letteratura latina - Parte II,1 - Il periodo classico
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Titolo: De rerum natura / Lucrezio Caro ; i passi piu significativi annotati da Augusto Serafini
Edizione: 3. ed. completamente rifatta
Pubblicazione: Messina [etc.] : G. D'Anna, stampa 1957
Collezione: Classici latini e greci commentati per lescuole
Titolo: De Rerum natura : Pagine scelte a cura di Giovanni Tarditi
Pubblicazione: Roma : A. Signorelli, [1956] (Tivoli, Tip. A. Chicca)
Descrizione fisica: 16. p. [iv], 103.
Collezione: I classici latini
Titolo: Il poema della natura / passi scelti ed annotati a cura di Ettore Bignone e Maria Rosa Posani
Edizione: 12 edizione aumentata
Pubblicazione: Firenze : F. Le Monnier, 1957, Tip. E. Ariani e L'arte Della Stampa
Titolo: La natura : De rerum natura : antologia 1.-6. : testo, costruzione, traduzione interlineare, argomenti e
note / a cura di Salvatore Di Meglio
Pubblicazione: Roma : Ed. Sormani, 1957, Tip. D. Detti
Collezione: Avia pervia
Titolo: De rerum natura. Liber sextus / Lucrezio Caro ; introduzione e commento di Teresa Cupaiuolo
Pubblicazione: Milano : Signorelli, 1956
Collezione: Scrittori latini
Note Generali: Rist.
Titolo: 1: Libro primo / T. Lucrezio Caro ; nuova traduzione italiana in prosa di Pietro Visconti
Pubblicazione: Milano : Signorelli, c1956
Fa parte di: Della natura delle cose / T. Lucrezio Caro ; nuova traduzione italiana in prosa di Pietro Visconti
Titolo: Florentia lumina : antologia a cura di Antonio Maria Scarcella / Lucrezio
Pubblicazione: [Palermo] : Palumbo, stampa 1956 (Palermo : Cappugi & figli)
Titolo: Natura rerum : antologia dal De rerum natura / Titi Lucreti Cari ; a cura di tebaldo Fabbri
Edizione: 2. ed. riveduta
Pubblicazione: Firenze : La nuova Italia, 1957
Collezione: I classici della Nuova Italia
Titolo: T. Lucreti Cari De Rerum Natura Libri Sex / tertium recensuit Josefus Martin
Pubblicazione: Lipsiae : in aedibus B. G. Teubneri, 1957
Collezione: Bibliotheca scriptorum Graecorum et RomanorumTeubneriana
Titolo: De rerum natura. Libri sex
Edizione: Tertium recensuit Josefus Martin
Pubblicazione: Lipsiae : In aed. B. G. Teubneri, 1957
Collezione: Bibliotheca scriptorum Graecorum et RomanorumTeubneriana
Titolo: Della natura : Passi scelti e commentati a cura di Pietro Parrella
Pubblicazione: Napoli : L. Loffredo, 1955, Tip. R. Pironti e F.
Titolo: Florentia lumina : Antologia a cura di Antonio Maria Scarcella
Pubblicazione: Palermo : G. B. Palumbo, 1955, Tip. A. Cappugi e F.
Titolo: Il poema della natura : antologia con riassunti delle parti omesse / Tito Lucrezio Caro ; introduzione e
commento di Gaetano Trezza
Pubblicazione: Milano : Signorelli, 1954
Collezione: Scrittori latini
Note Generali: Rist.
Titolo: De rerum natura : liber primus / Lucrezio Caro ; introduzione e commento di Virginio Garavoglia
Pubblicazione: Milano : Signorelli, 1955
Collezione: Scrittori latini
Note Generali: Rist.
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Titolo: De la nature / Lucrece ; traduction nouvelle ... introduction et notes de Henri Clouard
Pubblicazione: 2. ed. rev. et corrigee
Descrizione fisica: Paris : Garnier freres, 1954. ; 19 cm.
Collezione: Classiques Garnier
Titolo: T. Lucreti Cari De rerum natura libri sex / recognovit Adolphus Cinquini
Pubblicazione: Romae : in aedibus Academiae, 1954
Collezione: Bibliotheca scriptorum graecorum et romanorumacademia
Titolo: 4: Libro quarto / T. Lucrezio Caro ; nuova traduzione italiana in prosa di Pietro Visconti
Pubblicazione: Milano : Signorelli, c1955
Fa parte di: Della natura delle cose / T. Lucrezio Caro ; nuova traduzione italiana in prosa di Pietro Visconti
Titolo: 2 / Lucrezio ; testo latino e versione poetica di Pietro Parrella
Pubblicazione: Bologna : Zanichelli, 1954
Fa parte di: Il poema della natura / Lucrezio ; testo latino e versione poetica di Pietro Parrella
Titolo: De la nature : poeme en six chants / Trad. nouvelle, avec une introd. et des notes par Rene Waltz
Pubblicazione: Paris : Les Belles Lettres, 1954
Note Generali: Testo francese.
Fa parte di: Annales de l'Universite de Lyon. Lettres
Titolo: De rerum natura. Liber primus / T. Lucreti Cari ; introduzione e note di Carlo Pascal ; riveduto da Luigi
Castiglioni
Pubblicazione: Torino, etc.
Titolo: De Rerum natura : Brani scelti e collegati a cura di Francesco Saverio D'Angelo
Pubblicazione: Milano : A. Vallardi, 1952
Collezione: Corpus scriptorum Romanorum
Titolo: De rerum natura. Libro 5 / commentato da C[arlo] Giussani e E[ttore] Stampini
Pubblicazione: Torino : G. Chiantore, 1952, Tip. Gallo
Collezione: Collezione di classici greci e latini
Titolo: De Rerum natura : Pagine scelte a cura di Giovanni Tarditi
Pubblicazione: Roma : A. Signorelli, 1953 (Tivoli, Tip. A. Chicca)
Collezione: I classici latini
Titolo: La natura : A cura di Giuseppe Augello
Pubblicazione: Palermo : G. B. Palumbo, 1953, Tip. A. Cappugi e F.
Collezione: Classici greci e latini per le scuole italiane
Titolo: La natura. Libro quinto / traduzione in lingua italiana [dal latino] corredata da note grammaticali e
sintattiche riferentisi al testo originale a cura di N. Sacerdoti
Pubblicazione: Milano : A. Vallardi, 1952
Collezione: I classici tradotti
Titolo: Lucretius: On the nature of things / translated by H.A.J. Munro . The discourses of Epictetus /
translated by George Long . The meditations of Marcus Aurelius / translated by George Long
Pubblicazione: Chicago [etc.] : Encyclopaedia britannica, c1952
Collezione: Great books of the western world
Titolo: La natura / Tito Lucrezio Caro
Pubblicazione: Milano : Rizzoli, 1953
Collezione: Biblioteca universale Rizzoli
Altri titoli collegati: [Altro documento correlato] De rerum natura.
Titolo: La natura / Lucretius Titus Carus
Pubblicazione: Milano : Rizzoli, 1953
Collezione: BUR
Titolo: De rerum natura / Lucretius ; with an english translation by W. H. D. Rouse
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Pubblicazione: London : Heinemann, Massachusetts
Collezione: The Loeb classical library
Titolo: 2: Libro secondo / T. Lucrezio Caro ; nuova traduzione italiana in prosa di Pietro Visconti
Pubblicazione: Milano : Signorelli, c1953
Fa parte di: Della natura delle cose / T. Lucrezio Caro ; nuova traduzione italiana in prosa di Pietro Visconti
Titolo: 3: Libro terzo / T. Lucrezio Caro ; nuova traduzione italiana in prosa di Pietro Visconti
Pubblicazione: Milano : Signorelli, c1952
Fa parte di: Della natura delle cose / T. Lucrezio Caro ; nuova traduzione italiana in prosa di Pietro Visconti
Titolo: 5: Libro quinto / T. Lucrezio Caro ; traduzione in prosa di Pietro Visconti
Pubblicazione: Milano : Signorelli, c1953
Fa parte di: Della natura delle cose / T. Lucrezio Caro ; nuova traduzione italiana in prosa di Pietro Visconti
Titolo: 6: Libro sesto / T. Lucrezio Caro ; traduzione in prosa di Pietro Visconti
Pubblicazione: Milano : Signorelli, c1953
Fa parte di: Della natura delle cose / T. Lucrezio Caro ; nuova traduzione italiana in prosa di Pietro Visconti
Titolo: La natura / Tito Lucrezio Caro
Pubblicazione: Milano : Rizzoli, 1953
Collezione: BUR
Titolo: On the nature of things / Lucretius ; translated by H. A. J. Munro ; The discourses of Epictetus ;
translated by George Long ; The meditations of Marcus Aurelius ; translated by George Long
Pubblicazione: Chicago [etc.] : Encyclopaedia Britannica, 1952
Collezione: Great books of the western world
Titolo: 1 / Lucrezio ; testo latino e versione poetica di Pietro Parrella
Pubblicazione: Bologna : Zanichelli, 1953
Fa parte di: Il poema della natura / Lucrezio ; testo latino e versione poetica di Pietro Parrella
Titolo: T. Lucreti Cari De rerum natura libri sex / iterum recensuit Josefus Martin
Pubblicazione: Lipsiae : in aedibus B. G. Teubneri, 1953
Collezione: Bibliotheca scriptorum Graecorum et RomanorumTeubneriana
Titolo: Il poema della natura / Lucrezio ; passi scelti con introduzione e commento di Concetto Marchesi
Edizione: 2. ed. riveduta e ampliata
Pubblicazione: Milano ; Messina, [1951]
Collezione: Classici latini e greci
Titolo: Il poema della natura / Lucrezio ; passi scelti con introduzione e commento di Concetto Marchesi
Pubblicazione: Messina ; Milano
Collezione: Classici latini e greci
Titolo: 2: Libri 4., 5. e 6. / Tito Lucrezio Caro
Pubblicazione: Padova : RADAR, 1951
Fa parte di: De rerum natura / Tito Lucrezio Caro ; costruzione diretta con traduzione interlineare e versione
libera e note di G. Surdich
Titolo: De rerum natura : Costruzione diretta con traduzione interlineare e versione Libera [dal latino] e note
di G[iuseppe] Surdich. Vol. I. Libri I-III. Vol. II. Libri IV-VI
Pubblicazione: Padova : Ed. R.A.D.A.R., 1950 (Vicenza, Coop. Tip. Degli Operai)
Collezione: Classici latini
Titolo: De rerum natura. Libro 1. / costruzione diretta, versione letterale interlineare, argomento, note,
scansione metrica schematica e cesure a cura di D[omenico] Barresi
Pubblicazione: Reggio Calabria : Ed. Barresi, 1951, Tip. Siclari
Collezione: Collezione di versioni di classici latini
Titolo: La natura. Libro terzo / traduzione in lingua italiana corredata da note grammaticali e sintattiche
riferentesi al testo latino ; a cura di N. Sacerdoti
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Pubblicazione: Milano : A. Vallardi, 1951
Collezione: I classici tradotti
Titolo: Il poema della natura / Lucrezio ; Testo latino e versione poetica di Pietro Parrella
Pubblicazione: Bologna : Zanichelli, 1950
Descrizione fisica: 2 Vol. ; 20 cm.
Collezione: Poeti di Roma
Titolo: T. Lucreti Cari De rerum natura / luoghi scelti e annotati da Vittorio Brugnola
Edizione: 11. ed. riveduta e corretta
Pubblicazione: Milano, etc.
Collezione: Raccolta di autori latini con note italiane
Titolo: De Rerum natura / T. Lucrezio Caro ; : passi scelti con introduzione e commento di Enrico Aguglia
Edizione: nuova edizione riveduta e corretta
Pubblicazione: Torino : societa ed. internazionale, 950
Collezione: Scrittori latini commentati per le scuole
Titolo: Ho vegliato le notti serene / Lucrezio ; traduzioni di Enzio Cetrangolo
Pubblicazione: Firenze : Sansoni, 1950
Titolo: De la naturaleza libro primero / Ed., introd. y commentario por E. Valenti
Pubblicazione: Barcelona : <s.n.>, 1948
Collezione: Publicaciones de la Escuela de filologia deBarcelona. Filologia clasica
Titolo: T. Lucreti Cari De rerum natura libri sex / recognovit Adolphus Cinquini
Edizione: editio altera
Pubblicazione: Romae : In aedibus Academiae apud. O. E. T., 1948
Collezione: Bibliotheca scriptorum graecorum et romanorumacademia
Titolo: In luminis ora : antologia lucreziana col riassunto delle parti non commentate / a cura di C. Piazzino
Pubblicazione: Torino : Paravia, 1948
Collezione: Scrittori latini commentati
Titolo: De rerum natura. Liber primus / T. Lucreti Cari ; introduzione e note di Carlo Pascal ; riveduto da Luigi
Castiglioni
Edizione: 3. ed
Pubblicazione: Torino [etc.] : G. B. Paravia, stampa 1948
Fa parte di: Scrittori latini commentati
Titolo: De Rerum Natura : libri sex / T. Lucretius Carus ; edidit Olof Gigon
Pubblicazione: Zurich : Orell Fussli Turici, stampa 1948
Collezione: Editiones Helveticae / S. Latina
Titolo: Titi Lucreti Cari De rerum natura libri sex / edited with prolegomena, critical apparatus, translation and
commentary by Cyril Bailey
Edizione: corrected sheets of the 1. ed / by Vivian Ridler
Pubblicazione: Oxford : Clarendon press
Descrizione fisica: 3 v. ; 22 cm
Comprende: 2: Commentary, books 1.-3 / by Cyril Bailey
1: Prolegomena, text and critical apparatustranslation / by Ciril Bailey
3: Commentary books 4.-6., addenda, indexes,bibliography / by Cyril Bailey
Titolo: 1: Prolegomena, text and critical apparatus translation / by Ciril Bailey
Pubblicazione: Oxford : Clarendon press, 1949
Fa parte di: Titi Lucreti Cari De rerum natura libri sex / edited with prolegomena, critical apparatus,
translation and commentary by Cyril Bailey
Titolo: De Rerum natura : Passi scelti con note di Giovanni Di Giovanni
Pubblicazione: Roma : Ed. Gopa, 1948 (Tivoli, Ist. Graf. Tiberino)
Titolo: De rerum natura libri sex / recognovit Adolphus Cinquini
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Edizione: Editio altera
Pubblicazione: Roma : Oet, Organiz. Ed. Tip., 1948, Tip. Ist. Poligr. Dello Stato
Collezione: Bibliotheca scriptorum graecorum et romanorumacademia
Titolo: Passi scelti dai libri 1.-4 / Lucrezio
Pubblicazione: Padova : G. Randi, 1948, Tip. Del Seminario
Collezione: Collectio scriptorum Latinorum in usumuniversitatis Patavinae
Titolo: In luminis oras : Antologia lucreziana col riassunto delle parti non commentate a cura di Carlo
Piazzino
Pubblicazione: Torino : G. B. Paravia e C., 1948
Collezione: Scrittori latini commentati
Titolo: Il poema della natura : Episodi scelti e tradotti [dal latino] da Nicola Tammaro
Pubblicazione: Modena : Soc. Tip. Modenese, 1948
Collezione: Collezione di versioni di classici latini egreci
Titolo: De Rerum natura : I Passi piu significativi annotati da Augusto Serafini
Pubblicazione: Messina : G. D'anna, 1949, Tip. D'amico
Collezione: Classici latini e greci commentati per lescuole
Titolo: La natura / Tito Lucrezio Caro ; versione di Camillo Giussani
Edizione: 2 ed
Pubblicazione: Milano : A. Mondadori, 1949
Titolo: La natura. Libro 1. / traduzione in lingua italiana corredata da note grammaticali e sintattiche
riferentesi al testo latino ; a cura di N. Sacerdoti
Pubblicazione: Milano : A. Vallardi, 1949
Collezione: I classici tradotti
Titolo: La natura. Libro secondo / traduzione in lingua italiana corredata da note grammaticali e sintattiche
riferentisi al testo latino, a cura di N. Sacerdoti
Pubblicazione: Milano : A. Vallardi, 1949
Collezione: I classici tradotti
Titolo: Il poema della natura. Libro 1. / testo latino, costruzione, versione italiana, argomenti e note a cura di
M. C. Bassi
Pubblicazione: Roma : U. Sormani, 1949 (Tip. Steb, Soc. Tipografica Editrice Bolognese)
Collezione: Avia pervia
Titolo: La natura / Tito Lucrezio Caro ; versione di Camillo Giussani
Edizione: 2. ed
Pubblicazione: Milano : A. Mondadori, 1949
TV0114 - Biblioteca comunale - Treviso - TV
Titolo: Il poema della natura / Lucrezio ; luoghi scelti e commentati da Virgilio Paladini
Edizione: 2. ed
Pubblicazione: Roma : V. Bonacci, 1949
Collezione: Convivium
Titolo: Il poema della natura : passi scelti e annotati / T. Lucrezio Caro ; [a cura di] Ettore Bignone, Maria
Rosa Posani
Edizione: 5. ed
Pubblicazione: Firenze : Le Monnier, 1948
Note Generali: Testo in latino.
Titolo: T. Lucreti Cari De rerum natura : liber sextus / introduzione testo critico e commento a cura di Adelmo
Barigazzi
Pubblicazione: Torino : Paravia & C., 1948
Collezione: Scrittori latini commentati
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Titolo: La natura / Lucrezio ; a cura di Leonardo Ferrero
Pubblicazione: Milano : Garzanti, 1948
Collezione: Classici latini
Titolo: Il poema della natura / Tito Lucrezio Caro ; episodi scelti e tradotti da Nicola Tammaro
Pubblicazione: Modena : Societa Tipografica Modenese, 1948
Collezione: Collezione di versioni di classici latini egreci
Titolo: Il poema della natura : passi scelti e annotati / T. Lucrezio Caro ; (a c ra di) Ettore Bignone, Maria
Rosa Posani
Edizione: 6. ed
Pubblicazione: Firenze : Le Monnier, 1949
Titolo: De rerum natura : libri sex / T. Lucreti Cari ; recognovit Adolphus Cinquini
Edizione: Editio altera
Pubblicazione: Romae : In aedibus "academiae" apud O.E.T., 1948
Collezione: Bibliotheca scriptorum graecorum et romanorumacademia
Titolo: La natura / Lucrezio ; a cura di Leonardo Ferrero
Pubblicazione: Milano : Garzanti, 1947
Ferrero, Leonardo <1915- >
Titolo: Due grandi poeti di Roma : Lucretius Carus, T. . Passi scelti dal de Rerum natura. Horatius Flaccus,
Q. . Satire ed Epistole scelte. A cura di Angelo Nucciotti
Pubblicazione: Napoli : D. Conte, [1946]
Titolo: De rerum natura : liber quintus / [Titus Lucretius Carus] ; introduzione e commento di Alberto Piccoli
Genovese
Pubblicazione: Milano : Signorelli, 1946
Titolo: De rerum natura / with an English transl. by W. H. D. Rouse
Pubblicazione: London : Heinemann, 1947
Collezione: The Loeb classical library
Note Generali: Testo lat. con trad. ingl. a fronte.
Titolo: De la nature / Lucrece ; traduction d'Alfred Ernout
Pubblicazione: Paris : Les Belles Lettres, 1947
Collezione: Les grandes oeuvres de l'antiquite classique
Titolo: 2: Commentary, books 1.-3 / by Cyril Bailey
Pubblicazione: Oxford : Clarendon press, 1949
Fa parte di: Titi Lucreti Cari De rerum natura libri sex / edited with prolegomena, critical apparatus,
translation and commentary by Cyril Bailey
Titolo: 3: Commentary books 4.-6., addenda, indexes, bibliography / by Cyril Bailey
Pubblicazione: Oxford : Clarendon press, 1949
Fa parte di: Titi Lucreti Cari De rerum natura libri sex / edited with prolegomena, critical apparatus,
translation and commentary by Cyril Bailey
Titolo: 1: Prolegomena, text and critical apparatus translation
Pubblicazione: Oxford : at the Clarendon press, 1947
Note Generali: Testo orig. a fronte.
Fa parte di: Titi Lucreti Cari De rerum natura libri sex / edited with prolegomena, critical apparatus,
translation and commentary by Cyril Bailey
Titolo: De rerum natura. Liber tertius / con note di Luigi Arata
Pubblicazione: Torino : G. B. Paravia e C., 1946
Collezione: Scrittori latini commentati
Titolo: De Rerum natura : Scelta e commento di Luciano Perelli
Pubblicazione: Torino : S. Lattes e C., [1947], Tip. V. Bona
Collezione: Collezione di classici greci e latini
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Titolo: Il poema della natura : passi scelti ed annotati / T. Lucrezio Caro ; [a cura di] Ettore Bignone, Maria
Rosa Posani
Pubblicazione: Firenze : F. Le Monnier, 1946, Tip. L'arte Della Stampa
Titolo: Antologia lucreziana ad uso dei licei / [a cura di] Vincenzo Sofo
Pubblicazione: Reggio Calabria : Casa Ed. Globo, 1946 (Messina, Tip. D'amico)
Titolo: Passi scelti dal De rerum natura di T. L. C. / [a cura e con note di] E. Faini [e] L. Mori ; ad uso dei licei
classici e scientifici
Pubblicazione: Firenze : G. Barbera, 1946 (Sancasciano-Pesa : Tip. F.lli Stianti)
Titolo: Templa serena : antologia dal De rerum natura / Titi Lucreti Cari ; a cura di Tebaldo Fabbri
Pubblicazione: Firenze : La nuova Italia, 1946, Tip. A. Vallecchi
Collezione: I classici della Nuova Italia
Titolo: De rerum Natura. Liber sextus / T. Lucreti Cari ; introduzione, testo critico e commento a cura di
Adelmo Barigazzi
Pubblicazione: Torino [etc.] : G. B. Paravia, c1946
Titolo: Il poema della natura / T. Lucrezio Caro ; passi scelti ed annotati a cura di Ettore Bignone e Maria
Rosa Posani
Edizione: 2. ed
Pubblicazione: Firenze : F. Le Monnier, 1947
Titolo: 2: Stati, kommentarii, fragmenty Epikura i Empedokla / Lukrecij ; sostavil F. A. Petrovskij
Pubblicazione: [S. l.] : Izdatelstvo akademii nauk sojuza SSR, 1947
Fa parte di: O prirode vescej / Lukrecij
Petrovskij, F. A.
Paese di pubblicazione: SU
Lingua di pubblicazione: rus
Titolo: Il poema della natura / luoghi scelti e commentati da V. Paladini
Pubblicazione: Roma : Gismondi, 1946
Collezione: Convivium
Titolo: De rerum natura / Lucrezio ; antologia a cura di Gaetano Munno
Pubblicazione: Roma : Perrella, 1947
Collezione: Lingue e letterature classiche
Titolo: De rerum natura. Libro 5. / Lucrezio ; commentato da C. Giussani e E. Stampini
Pubblicazione: Torino : Chiantore, 1947
Collezione: Collezione di classici greci e latini
Titolo: De rerum natura libri sex / recognovit A. Cinquini
Pubblicazione: Roma : <s.n.>, 1944
Collezione: Bibliotheca scriptorum graecorum et romanorumacademia
Titolo: Il poema della natura / Lucrezio ; testo latino e versione poetica di Pietro Parrella
Pubblicazione: Bologna : Zanichelli, 1944
Collezione: Poeti di Roma
Note Generali: Testo latino a fronte
Titolo: T. Lucreti Cari De rerum natura, libri sex / recognovit Adolphus Cinquini
Pubblicazione: Roma : in aedibus Academiae apud O.E.T., 1944
Collezione: Bibliotheca scriptorum graecorum et romanorumacademia
Titolo: Il poema della natura / testo latino e versione poetica di Pietro Parrella. Vol. I-II
Pubblicazione: Bologna : N. Zanichelli, 1944, Tip. L. Parma
Descrizione fisica: 16. 2 voll. p. XV, 237
Collezione: Poeti di Roma
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Titolo: Lucrezio : De Rerum natura. Brani scelti a cura di Giulio Aromolo ad uso dei licei classici e scientifici
in conformita dei Recenti programmi
Pubblicazione: Napoli : D. Conte, [1944]
Collezione: Scrittori antichi e moderni
Titolo: Passi riguardanti le condizioni politiche e sociali dell'eta di Lucrezio : (testi di Lucrezio da tradurre nel
corso di Letteratura latina di Ettore Bignone nell'anno accademico 1944-45, raccolti a cura dell'assistente)
Pubblicazione: Firenze : F. Le Monnier, 1945, Tip. E. Ariani
Titolo: Studi Lucreziani / T. Lucreti Cari ; commento e note di Carlo Giussani
Pubblicazione: Torino : Chaiantore, 1945
Titolo: Della natura delle cose. Libro 4 / nuova traduzione italiana in prosa di Pietro Visconti
Pubblicazione: Milano : C. Signorelli, 1940
Collezione: Biblioteca di letteratura
Titolo: Il poema della natura : Testo latino e versione poetica di Pietro Parrella
Pubblicazione: Bologna : N. Zanichelli, 1943, Tip. A. Cacciari
Descrizione fisica: 16. 2 voll. p. XV, 237. 267.
Collezione: Poeti di Roma
Titolo: Della natura. Libro 3. / testo, versione e note di Gustavo Balboni e Ermanno Neri
Pubblicazione: Bologna : L. Cappelli, 1940
Collezione: Il latino per tutti
Titolo: T. Lucreti Cari De rerum natura libri sex / edited with introduction and commentary by William Ellery
Leonard, Stanley Barney Smith
Pubblicazione: Madison : The University of Wisconsin press, 1942
Titolo: De rerum natura / locos praecipue notabiles collegit et illustravit H. Paratore ; commentariolo instruxit
H. Pizzani
Pubblicazione: Roma : <s.n.>, 1940
Descrizione fisica: 547 p. ; 8.
Collezione: Flos latinitatis
Titolo: Il poema della natura / Lucrezio ; testo latino e versione poetica di Pietro Parrella
Pubblicazione: Bologna : Zanichelli, 1941
Descrizione fisica: 2 v. ; 19 cm.
Titolo: Il poema della natura : antologia con riassunti delle parti omesse / Tito Lucrezio Caro ; introduzione e
commento di Gaetano Trezza
Pubblicazione: Milano : Signorelli, 1936
Titolo: De rerum natura libri sex / recognovit adnotatione critica instruxit C. Bailey
Edizione: Editio altera
Pubblicazione: Oxford : The Clarendon press, 1938
Collezione: Scriptorum classicorum bibliotheca Oxoniensis
Titolo: Della natura. Libro 2. / testo, versione e note di Gaetano Balboni e Ermanno Neri
Pubblicazione: Bologna : L. Cappelli, 1937
Collezione: Il latino per tutti
Titolo: Della natura delle cose. Libro 2. / nuova traduzione italiana in prosa di Pietro Visconti
Pubblicazione: Milano : C. Signorelli, 1936, Tip. L. Di G. Pirola
Collezione: Biblioteca di letteratura
Titolo: Della natura delle cose. Libro terzo / nuova traduzione italiana in prosa di Pietro Visconti
Pubblicazione: Milano : C. Signorelli, 1937, Tip. L. Di G. Pirola
Titolo: Il problema della natura : Antologia con riassunti delle parti omesse. Introduzione e commento di
Gaetano Trezza
Pubblicazione: Milano : C. Signorelli, 1936, Tip. L. Di G. Pirola
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Titolo: De Rerum natura. Liber primus / saggio di versione poetica di Camillo Giussani
Pubblicazione: Milano : Tip. Gregoriana, 1937
Titolo: De Rerum natura libri sex : Versione poetica di Camillo Giussani
Pubblicazione: Milano : A. Mondadori, 1939
Titolo: 2 / Lucrece
Edizione: 4. ed. revue et corrigee
Pubblicazione: Paris : Les belles lettres, 1937
Fa parte di: De la nature / Lucrece ; texte etabli et traduit par Alfred Ernout
TV0114 - Biblioteca comunale - Treviso - TV
Titolo: De Rerum natura : libri sex / Titi Lucreti Cari ; versione poetica di Camillo Giussani
Pubblicazione: Milano : Mondadori, 1939
Autore: Vallette, Paul
Titolo: La doctrine de l'ame chez Lucrece : examen de quelques passages du De rerum natura, livre 3. / par
Paul Vallette
Pubblicazione: Paris : F. Alcan, 1934
Collezione: Cahiers de la Revue d'histoire et dephilosophie religieuses
Titolo: De rerum natura : volume 2. : libri 1.-2. / con commento di Carlo Giussani
Pubblicazione: Torino : Chiantore, 1935, ristampa
Titolo: De la nature. Livre 5. / Lucrece ; traduction francaise avec introduction biographique, analyse et notes
par Paul Lemaire
Pubblicazione: Paris : Librairie Hatier, [1933?]
Collezione: Les classiques pour tous
Titolo: De rerum natura. Liber quintus / Lucrezio Caro ; introduzione e commento di Alberto Piccoli
Genovese
Pubblicazione: Milano : Signorelli, stampa 1932
Titolo: 2: Libri 1.-2. / Lucrezio
Edizione: Rist
Pubblicazione: Torino : Chiantore, 1935
Fa parte di: T. Lucreti Cari De rerum natura libri sex / revisione del testo, commento e studi introduttivi di
Carlo Giussani
Titolo: Extraits de Lucrece / avec un commentaire et des notes et une etude sur la poesie, la philosophie, la
physique, le texte et la langue de Lucrece par Henri Bergson
Edizione: 4. ed
Pubblicazione: Paris : Delagrave, 1932
Titolo: De rerum natura. Liber quintus / T. Lucretii Cari ; a cura di Gaetano Righi
Pubblicazione: Messina ; Milano, stampa 1935
Collezione: Classici latini e greci
Titolo: T. Lucreti Cari De rerum natura libri sex / recensuit Josefus Martin
Pubblicazione: Lipsiae : in aedibus B.G. Teubneri, 1934
Collezione: Bibliotheca scriptorum Graecorum et RomanorumTeubneriana
Titolo: De rerum natura. Liber secundus / introduzione e commento di Arduino Olivieri
Pubblicazione: Milano : C. Signorelli, 1934, Tip. L. Di G. Pirola
Titolo: De rerum natura. Liber quintus / a cura di Gaetano Righi
Pubblicazione: Messina : G. Principato, 1935
Titolo: De rerum natura. Liber tertius / introduzione e commento di Pietro Visconti
F. D’Alessi © 2002
F. D'ALESSI - Letteratura latina - Parte II,1 - Il periodo classico
Pubblicazione: Milano : C. Signorelli, 1934, Tip. L. Di G. Pirola
Titolo: De rerum natura. Liber sextus / Lucrezio Caro ; introduzione e commento di Teresa Cupaiuolo
Pubblicazione: Milano : C. Signorelli, 1935, Tip. L. Di G. Pirola
Collezione: Scrittori latini
Titolo: Della natura delle cose. Libro 2. / traduzione di Giuseppe Marchetti ; con introduzione di Antonio
Aliotta
Pubblicazione: Napoli : F. Perrella, [1934] (Citta di Castello, Tip. Leonardo da Vinci)
Collezione: Semina flammae. Classici del pensiero
Titolo: Della natura delle cose. Libro primo / nuova traduzione italiana in prosa di Pietro Visconti
Pubblicazione: Milano : C. Signorelli, 1935, Tip. L. Di G. Pirola
Collezione: Biblioteca di letteratura
Titolo: De Rerum natura. Liber primus / Lucrezio Caro ; introduzione e commento di Virginio Garavoglia
Pubblicazione: Milano : C. Signorelli, 1932, Tip. L. Di G. Pirola
Titolo: De Rerum natura : Luoghi scelti ed annotati da Marco Belli
Pubblicazione: Torino : Soc. Editr. Internazionale, 1933, Tip. Soc. Poligr. Editr.
Collezione: Scrittori latini commentati per le scuole
Titolo: Della natura. Libro 1. : testo / versione e note di Gaetano Balboni e Ermanno Neri
Pubblicazione: Bologna : L. Cappelli, 1935
Collezione: Il latino per tutti
Titolo: De rerum natura. Liber quintus / con introduzione e commento di Edmondo D'Arbela
Pubblicazione: Napoli : L. Loffredo, 1932, Tip. Sangiovanni
Collezione: Raccolta scolastica di classici latini e greci
Titolo: De Rerum natura : Passi scelti e commentati da Salvatore Rossi
Pubblicazione: Napoli : Casa Edit. A. Rondinella, 1932, F. Sangiovanni e Figlio
Collezione: Classici greci e latini
Rossi, Salvatore <n. 1873>
Titolo: Della natura delle Cose libri sei : Tradotti da Alessandro Marchetti, aggiuntivi. Gli argomenti del
Blanchet. La scienza di Lucrezio per Costant Martha e le notizie intorno all'autore ed al traduttore
Pubblicazione: Milano : Casa Edit. Sonzogno, 1933, A. Matarelli
Collezione: Biblioteca classica economica
Titolo: T. Lucretii Cari De rerum natura. Liber quintus / a cura di Gaetano Righi
Pubblicazione: Messina ; Milano, stampa 1935
Collezione: Classici latini e greci
Titolo: De rerum natura / T. Lucrezio Caro ; passi scelti e commentati da Salvatore Rossi
Pubblicazione: Napoli : A. Rondinella, 1932
Collezione: Classici greci e latini
Titolo: 1: Liber primus / Lucrezio Caro ; introduzione e commento di Virginio Garavoglia
Pubblicazione: Milano : Signorelli, 1932
Note Generali: Testo in latino.
Fa parte di: De rerum natura / Lucrezio Caro
Titolo: 2: Liber secundus / Lucrezio Caro ; introduzione e commento di Arduino Olivieri
Pubblicazione: Milano : Signorelli, 1934
Note Generali: Testo in latino.
Fa parte di: De rerum natura / Lucrezio Caro
Titolo: 1 / Lucrece ; texte etabli et traduit par Alfred Ernout
Edizione: Quatrieme edition revue et corrigee
Pubblicazione: Paris : Les belles lettres, 1935
Fa parte di: De la nature / Lucrece ; texte etabli et traduit par Alfred Ernout
F. D’Alessi © 2002
264
F. D'ALESSI - Letteratura latina - Parte II,1 - Il periodo classico
265
TV0114 - Biblioteca comunale - Treviso - TV
Titolo: De rerum natura : liber quintus / T. Lucretii Cari ; a cura di Gaetano Righi
Pubblicazione: Messina ; Milano, 1935
Collezione: Classici latini e greci
Titolo: De rerum natura. Liber quintus / T. Lucreti Cari ; con introduzione e commento di Edmondo D'Arbela
Pubblicazione: Napoli : L. Loffredo, 1932
Collezione: Raccolta scolastica di classici latini e greci
Titolo: Della natura delle cose : libri sei / Tito Lucrezio Caro ; tradotti da Alessandro Marchetti ; aggiuntivi gli
argomenti del Blanchet, la scienza di Lucrezio per Constant Martha e le notizie intorno all'autore ed al
traduttore
Pubblicazione: Milano : Sonzogno, stampa 1933
Collezione: Biblioteca classica economica
Marchetti, Alessandro <1633-1714>
Titolo: La natura: libri 6 / di T. Lucrezio Caro ; Mario Rapisardi
Edizione: 5. ed
Pubblicazione: Palermo : R. Sandron, 1930
Titolo: T. Lucreti Cari De rerum natura : liber 5. / texte latin par E. Benoist, H. Lantoine
Pubblicazione: Paris : Hachette, 1930
Titolo: Il terzo libro del De rerum natura / T. Lucrezio Caro ; con note di Luigi Arata
Pubblicazione: Torino [etc.] : Paravia, 1930
Collezione: Biblioteca scolastica di scrittori latini egreci
Titolo: T. Lucreti Cari De rerum natura / luoghi scelti e annotati da Vittorio Brugnola
Edizione: 8. ed. con ritocchi e aggiunte nelle note
Pubblicazione: Milano [etc.] : Societa anonima ed. Dante Alighieri, 1931
Collezione: Raccolta di autori latini con note italiane
Titolo: De Rerum natura : Il libro I e II. Traduzione in prosa con note di Giovanni Maria Ragusin
Pubblicazione: Milano : Ediz. F.lli Cristofari, [1930], Scuola Tip. Artigianelli
Titolo: La natura : Libri 6 / [tradotti da] Mario Rapisardi
Edizione: Quinta edizione
Pubblicazione: Palermo : R. Sandron Edit. Tip., 1930
TV0114 - Biblioteca comunale - Treviso - TV
Titolo: De Rerum natura : Brani scelti ed annotati col riassunto dei luoghi omessi, a cura di Giuseppe Scopa
Pubblicazione: Lanciano : G. Carabba, 1930, R. Carabba
Collezione: Classici latini
Titolo: De rerum natura : luoghi scelti e annotati dal prof. Vittorio Brugnola
Edizione: Ottava edizione, con ritocchi e aggiunte nelle note
Pubblicazione: Roma : Albrighi, Segati e C., 1931 (Citta di Castello, S. Lapi)
Collezione: Raccolta di autori latini con note italiane
Titolo: De Rerum natura : Luoghi scelti e annotati dal prof. Vittorio Brugnola
Edizione: Settima edizione, con ritocchi e aggiunte nelle note
Pubblicazione: Roma : Albrighi, Segati e C., 1930 (Citta di Castello, S. Lapi)
Collezione: Raccolta di autori latini con note italiane
Titolo: Il Terzo libro del De rerum natura / con note di Luigi Arata
Pubblicazione: Torino : G. B. Paravia e C. Edit. Tip., 1930
Collezione: Biblioteca scolastica di scrittori latini egreci
Titolo: La natura : Luoghi scelti, tradotti ed annotati col testo a fronte da Carlo Landi
F. D’Alessi © 2002
F. D'ALESSI - Letteratura latina - Parte II,1 - Il periodo classico
266
Edizione: Nuova tiratura riveduta
Pubblicazione: Firenze : G. C. Sansoni, 1930 (L'arte Della Stampa, Succ. Landi)
Collezione: Biblioteca per la diffusione degli studiclassici
Titolo: La natura : Luoghi scelti, tradotti ed annotati col testo a fronte da Carlo Landi
Edizione: Nuova tiratura riveduta
Pubblicazione: Firenze : G. C. Sansoni, 1930 (L'arte Della Stampa, Succ. Landi)
Collezione: Biblioteca per la diffusione degli studiclassici
Titolo: La natura / Tito Lucrezio Caro ; luoghi scelti tradotti ed annotati col testo a fronte da Carlo Landi
Edizione: Nuova tiratura riveduta
Pubblicazione: Firenze : Sansoni, [1930]
Collezione: Biblioteca per la diffusione degli studiclassici
Titolo: Della natura delle cose / Tito Lucrezio Caro ; traduzione di A. Marchetti ; argomenti del Blanchet
Pubblicazione: Sesto San Giovanni, Milano
Marchetti, Alessandro <1633-1714>
Titolo: De rerum natura / T. Lucretius Carus ; luoghi scelti e annotati dal prof. Vittorio Brugnola
Edizione: 6. ed. con ritocchi e aggiunte nelle note
Pubblicazione: Milano [etc] : Dante Alighieri, 1928
Titolo: [3]: Libro 5
Edizione: Rist. accuratamente riveduta con varii ritocchi e molte aggiunte critiche di Ettore Stampini
Pubblicazione: Torino : Chiantore, pref. 1929
Fa parte di: T. Lucreti Cari De rerum natura libri sex / revisione del testo, commento e studi introduttivi di
Carlo Giussani
Titolo: Il primo libro del Rerum natura / T. Lucrezio Caro ; introduzione e note di Carlo Pascal
Edizione: 2. ed. postuma / riv. dall'A. e da L. Castiglioni
Pubblicazione: Torino [etc.] : G. B. Paravia, 1928
Collezione: Biblioteca scolastica di scrittori latini egreci con note
Titolo: De Rerum natura : Luoghi scelti e annotati dal prof. Vittorio Brugnola
Edizione: Quinta edizione con ritocchi e aggiunte nelle note
Pubblicazione: Roma : Albrighi, Segati e C., 1926 (Citta di Castello, S. Lapi)
Collezione: Raccolta di autori latini con note italiane
Titolo: De rerum natura, libri sex / revisione del testo, commento e studi introduttivi di Carlo Giussani. Libro 5
Edizione: Ristampa accuratamente riveduta con varii ritocchi e molte aggiunte critiche da Ettore Stampini
Pubblicazione: Torino : G. Chiantore, 1929, V. Bona
Collezione: Collezione di classici greci e latini con noteitaliane
Titolo: De Rerum natura : Luoghi scelti e annotati dal prof. Vittorio Brugnola
Edizione: Sesta edizione, con ritocchi e aggiunte nelle note
Pubblicazione: Roma : Albrighi, Segati e C., 1928 (Citta di Castello, S. Lapi)
Titolo: De Rerum natura : Luoghi scelti ed annotati dal prof. Marco Belli
Pubblicazione: Torino : Soc. Edit. Internazionale, 1925, Scuola Tip. Salesiana
Collezione: Scrittori latini commentati per le scuole
Titolo: Il Sistema di Lucrezio : Passi scelti e tradotti dai libri I-V [a cura di] Mario Untersteiner. Precede
un'introduzione storica e teorica della dottrina
Pubblicazione: Torino : G. Chiantore, 1925, V. Bona
Titolo: Invocazione a Venere : Versione metrica di Giuseppe Longo, con una Lettera semiseria a Gino
funaioli
Pubblicazione: Palermo : A. Trimarchi, 1927, Tip. Boccone Del Povero
Longo, Giuseppe <1881-1942>
Titolo: La natura : Luoghi scelti tradotti ed annotati col testo a fronte da Carlo Landi
Edizione: Nuova tiratura riveduta
F. D’Alessi © 2002
F. D'ALESSI - Letteratura latina - Parte II,1 - Il periodo classico
267
Pubblicazione: Firenze : G. C. Sansoni, 1925 (Tip. L'arte Della Stampa, Succ. Landi)
Collezione: Biblioteca per la diffusione degli studiclassici
Titolo: Lucrezio-Cicerone : Con introduzione e commento di E. Aguglia, F. Marinelli
Edizione: Seconda edizione
Pubblicazione: Roma : Albrighi, Segati e C., 1929 (Citta di Castello, S. Lapi)
Collezione: La cultura romana
Titolo: Il libro 5. del De rerum natura ; passi scelti d'altri libri ; antologia epicurea / a cura di M. De
Szombathely
Pubblicazione: Bologna : L. Cappelli, 1926
Collezione: Collana di testi filosofici e pedagogici
Titolo: Opere scelte e inquadrate nella storia della Filosofia greca : Platone, Aristotele, Lucrezio, Epitteto,
Cicerone, a cura di Antonio Aliotta
Pubblicazione: Napoli : F. Perrella, 1926 (Citta di Castello, Tip. Leonardo da Vinci)
Collezione: Classici del pensiero
Titolo: De natura rerum / Lucrece ; notices et notes par Ch. Georgin
Pubblicazione: Paris : A. Hatier, stampa 1926
Collezione: Les classiques pour tous
Titolo: Lucretius: On the nature of things / translated by H.A.J. Munro ; edited with an introduction by J.D.
Duff
Pubblicazione: London : G.Bell and sons, 1926
Titolo: De rerum natura / Lucretius ; with an english translation by W. H. D. Rouse
Edizione: 2. ed. (revised)
Pubblicazione: London : Heinemann
Collezione: The Loeb classical library
Note Generali: Testo orig. a fronte.
Titolo: La natura / Tito Lucrezio Caro ; luoghi scelti tradotti ed annotati col testo a fronte da Carlo Landi
Edizione: Nuova tiratura riveduta
Pubblicazione: Firenze : Sansoni, 1925 (Fi renze : L'arte della stampa)
Note Generali: Trad. di: De rerum natura
Titolo: Il primo libro del De rerum natura / introd. e note di C. Pascal
Pubblicazione: Torino : Paravia & C., 1928
Collezione: Biblioteca scolastica di scrittori latini egreci
Note Generali: Testo lat.
Titolo: De la nature / Lucrece ; texte etabli par Alfred Ernout
Pubblicazione: Paris : Les belles lettres, 1920
Collezione: Collection des universites de France
Titolo: T. Lucreti Cari de rerum natura libri 1. e 2. / revisione del testo di Carlo Giussani
Edizione: Ristampa / accuratamente riveduta da Ettore Stampini
Pubblicazione: Torino : Chiantore, 1921
Titolo: De rerum natura / T. Lucreti Cari ; luoghi scelti e annotati dal prof. Vittorio Brugnola
Edizione: 4. ed. con ritocchi e aggiunte nelle note
Pubblicazione: Milano [etc.] : Societa' editrice Dante Alighieri, 1924
Collezione: Raccolta di autori latini con note italiane
Titolo: Lucreti de rerum natura libri sex / recognovit brevique adnotatione critica instruxit Cyrillus Bailey
Edizione: Editio altera
Pubblicazione: Oxonii : e typographeo clarendoniano, 1922
Collezione: Scriptorum classicorum bibliotheca Oxoniensis
Titolo: De rerum natura libri sex / revisione del testo, commento e studi introduttivi di Carlo Giussani. Vol. II,
libri I-II
F. D’Alessi © 2002
F. D'ALESSI - Letteratura latina - Parte II,1 - Il periodo classico
268
Edizione: Ristampa accuratamente riveduta da Ettore Stampini
Pubblicazione: Torino : Casa Ed. G. Chiantore Succ. E. Loescher, 1921, V. Bona
Collezione: Collezione di classici greci e latini con noteitaliane
Titolo: De rerum natura libri sex / revisione del testo, commento e studi introduttivi di Carlo Giussani. Vol. II.
Libri I e II
Edizione: Ristampa accuratamente riveduta da Ettore Stampini
Pubblicazione: Torino : Casa Ed. G. Chiantore Succ. E. Loescher, 1924, V. Bona
Collezione: Collezione di classici greci e latini con noteitaliane
Titolo: De Rerum natura : Luoghi scelti e annotati dal prof. Vittorio Brugnola
Edizione: 3 edizione, con ritocchi e aggiunte nelle note
Pubblicazione: Roma : Albrighi, Segati e C., 1922 (Citta di Castello, S. Lapi)
Titolo: De Rerum natura : Luoghi scelti e annotati dal prof. Vittorio Brugnola
Edizione: 4 edizione, con ritocchi e aggiunte nelle note
Pubblicazione: Roma : Albrighi, Segati e C., 1924 (Citta di Castello, S. Lapi)
Collezione: Raccolta di autori latini con note italiane
Titolo: La natura : Luoghi scelti tradotti ed annotati, col testo a fronte, da Carlo Landi
Pubblicazione: Firenze : G. C. Sansoni, 1921 (Prato, Figlio e C.)
Collezione: Biblioteca per la diffusione degli studiclassici
Titolo: Lucreti de rerum natura : libri sex / recognovit brevique adnotatione critica instruxit Cyrillus Bailey
Pubblicazione: Oxonii : E Typographeo Clarendoniano, 1922
Descrizione fisica: 1 v. ; 20 cm.
Collezione: Scriptorum classicorum bibliotheca Oxoniensis
Note Generali: rist. 1990
Titolo: La natura / Tito Lucrezio Caro ; luoghi scelti tradotti ed annotati col testo a fronte da Carlo Landi
Edizione: Nuova tiratura
Pubblicazione: Firenze : Sansoni, 1921
Titolo: 2: Von der Natur / Lukrez ; ubersetzt von Hermann Diels
Pubblicazione: Berlin : Weidmannsche Buchhandlung, 1924
Fa parte di: De rerum natura : lateinisch und deutsch / T. Lucretius Carus ; von Hermann Diels
Titolo: Opere di Platone, Aristotele, Lucrezio, Epitteto / scelte e inquadrate nella storia della Filosofia greca,
a cura di Antonio Aliotta
Pubblicazione: Napoli : Soc. Ed. F. Perrella, 1924 (Citta di Castello, Soc. Leonardo da Vinci)
Collezione: Classici del pensiero
Titolo: Lucreti De rerum natura libri sex / recognovit brevique adnotatione critica instruxit Cyrillus Bailey
Edizione: Ed. altera
Pubblicazione: Oxonii : e Typographeo Clarendoniano, pref. 1921
Descrizione fisica: 1 v. ; 20 cm.
Collezione: Scriptorum classicorum bibliotheca Oxoniensis
Titolo: De rerum natura / T. Lucretius Carus ; lateinisch und deutsch von Hermann Diels
Pubblicazione: Berlin : Weidmannsche Buchhandlung, 1923-24
Descrizione fisica: 2 v. ; 24 cm
Titolo uniforme: De rerum natura
Comprende: 1: T. Lucreti Cari De rerum natura libri sex /recensuit emendavit supplevit Hermannus Diels
2: Lukrez von der natur / ubersetzt vonHermann Diels
Titolo: Auswahl aus T. Lucretius Carus de rerum natura / hrsg. von Wilhelm Schone
Pubblicazione: Leipzig : Teubner, 1923
Collezione: Eclogae graecolatinae
Titolo: De rerum natura / T. Lucreti Cari ; luoghi scelti e annotati dal Prof. Vittorio Brugnola
Edizione: 3. ed. con ritocchi e aggiunte nelle note
Pubblicazione: Milano [etc.] : Dante Alighieri, 1922
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F. D'ALESSI - Letteratura latina - Parte II,1 - Il periodo classico
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Collezione: Raccolta di autori latini con note italiane
Titolo: 2: Libri 1. e 2. / [Titus Lucretius Carus] ; Ristampa accuratamente riveduta da Ettore Stampini
Pubblicazione: Torino : G. Chiantore, 1924
Fa parte di: T. Lucreti Cari De rerum natura libri sex / revisione del testo, commento e studi introduttivi di
Carlo Giussani
Titolo: 4: Libri 5. e 6 / [Tituts Lucretius Carus]
Pubblicazione: Torino : G. Chiantore, 1923
Fa parte di: T. Lucreti Cari De rerum natura libri sex / revisione del testo, commento e studi introduttivi di
Carlo Giussani
Titolo: 3: Libri 3. e 4. / T. Lucreti Cari
Edizione: Rist
Pubblicazione: Torino : Chiantore, 1923
Descrizione fisica: 291 p. ; 21 cm.
Fa parte di: T. Lucreti Cari De rerum natura libri sex / revisione del testo, commento e studi introduttivi di
Carlo Giussani
Titolo: Oeuvres completes de Lucrece, avec la traduction francaise de Lagrange / revue avec le plus grand
soin par M. Blanchet
Pubblicazione: Paris : Librairie Garnier freres, [1924?]
Collezione: Classiques Garnier
Classique Garnier. Bibliotheque latinefrancaise
Note Generali: Testo latino con traduzione francese
Titolo: De rerum natura libri sex / recognovit G. A. Merrill
Pubblicazione: Berkeley : Univ. press, 1917
Fa parte di: University of California publications in classical philology
Titolo: De la nature : livre quatrieme / Lucrece ; introduction, texte, traduction et notes par Alfred Ernout
Pubblicazione: Paris : Klincksieck, 1916
Note Generali: In testa al front.. T. Lucreti Cari De rerum natura.
Titolo: La natura : Libri 6 / [traduzione di] Mario Rapisardi
Edizione: 4 edizione
Pubblicazione: Palermo : R. Sandron, 1917
Titolo: De Rerum natura : Luoghi scelti ed annotati dal prof. Marco Belli
Pubblicazione: Torino : Libr. Ed. Internazionale, 1919, Scuola Tip. Salesiana
Collezione: Scrittori latini commentati per le scuole
Titolo: Della natura delle Cose : Traduzione di Carlo Leardi, con prefazione di Ferdinando Gabotto
Pubblicazione: Tortona : Tip. A. Rossi, 1918
Autore: Ruscazio, Vittorio
Titolo: Saggio di traduzione dal de Rerum natura di Lucrezio : Italae gentis Carmen saeculare. Tramontano.
Alcaicum Carmen. Robur et hedera. Da un Carmen italicum, di prossima pubblicazione
Pubblicazione: Cagliari : Tip. P. Valdes, 1917
Titolo: Traduzione di Lucrezio / [a cura di] Carlo Leardi ; con prefazione di Ferdinando Cabotto
Pubblicazione: Tortona : Tip. A. Rossi, 1918
Titolo: De rerum natura / T. Lucreti Cari ; luoghi scelti e annotati da Vittorio Brugnola
Pubblicazione: Milano : Dante Alighieri, 1914
Titolo: La natura : Luoghi scelti, tradotti ed annotati, col testo a fronte, da Carlo Landi
Pubblicazione: Firenze : G. C. Sansoni, 1914 (Prato, Figlio e C.)
Collezione: Biblioteca per la diffusione degli studiclassici
Titolo: Della natura delle cose / traduzione di Alessandro Marchetti ; con una prefazione di Carlo Pascal
F. D’Alessi © 2002
F. D'ALESSI - Letteratura latina - Parte II,1 - Il periodo classico
270
Pubblicazione: Milano : Istituto editoriale italiano, 1913
Collezione: Gli immortali e altri massimi scrittori. Ser. 1
Titolo: T. Lucreti Cari De rerum natura / luoghi scelti e annotati dal prof. Vittorio Brugnola
Edizione: 2. ed. con aggiunte
Pubblicazione: Milano [etc.] : Societa editrice Dante Alighieri, 1914
Titolo: La natura / Tito Lucrezio Caro ; luoghi scelti, tradotti ed annotati col testo a fronte da Carlo Landi
Pubblicazione: Firenze : Sansoni, 1914
Collezione: Biblioteca per la diffusione degli studiclassici
Titolo: De la Nature des choses 5. livre / Lucrece ; analyse litteraire par M. Patin ; text latin ... avec un
commentaire critique et explicatif un avertissement et un preambule par E. Benoit, Lantoine
Pubblicazione: Paris : Librarie Hachette, 913
Titolo: T. Lucreti Cari De rerum natura : a selection fron the fifth book (783-1457) / edited with introduction,
analyses and notes by W. D. Lowe
Pubblicazione: Oxford : at the Clarendon press, 1907
Titolo: T. Lucreti Cari De rerum natura libri sex / edidit Adolphus Brieger
Edizione: Editio stereotypa
Pubblicazione: Lipsiae : in aedibus B. G. Teubneri, 1909
Collezione: Bibliotheca scriptorum Graecorum et RomanorumTeubneriana
Titolo: De rerum natura : Libri sex / T. Lucreti Cari ; edidit Adolphus Brieger
Pubblicazione: Leipzig : Teubner, 1905
Collezione: Bibliotheca scriptorum Graecorum et RomanorumTeubneriana
Titolo: De Rerum natura : Luoghi scelti ed annotati dal prof. Vittorio Brugnola
Pubblicazione: Roma : Societa Ed. Dante Alighieri, di Albrighi, Segati e C., 1909 (Verona, G. Civelli)
Collezione: Raccolta di autori latini con note italiane
Titolo: T. Lucreti Cari De rerum natura libri sex / edited by William Augustus Merrill
Pubblicazione: New York [etc.] : American book Co., c1907
Collezione: Morris and Morgans Latin Series
Titolo: De rerum natura : liber tertius / T. Lucreti Cari ; edited with introduction, notes and index by J.D. Duff
Pubblicazione: Cambridge : University Press, 1903
Collezione: Pitt press series
Titolo: T. Lucreti Cari De rerum natura libri sex / edidit Adolphus Brieger
Pubblicazione: Lipsiae : In aedibus B. G. Teubneri, 1902
Titolo: De Rerum natura : Liber primus / T. Lucreti Cari ; introduzione e commentario critico di Carlo Pascal
Pubblicazione: Roma ; Milano, Segati e C., 1904 (Verona, Stab. Tip. G. Civelli)
Titolo: Inno a Venere / da Lucrezio ; trad. di Emanuele Armaforte
Pubblicazione: Palermo : [s. n.], 1902
Armaforte, Emanuele <1870-1926>
Titolo: T. Lucreti Cari De rerum natura liber primus / introduzione e commentario critico di Carlo Pascal
Pubblicazione: Roma ; Milano, 1904
Collezione: Raccolta di autori latini con note italiane
Titolo: 4: Libri 5. e 6. / T. Lucretius Carus ; revisione del testo, commento e studi introduttivi di Carlo Giussani
Pubblicazione: Torino : Loescher, 1898
Fa parte di: T. Lucreti Cari De Rerum Natura libri sex / revisione del testo, commento e studi introduttivi di
Carlo Giussani
Titolo: T. Lucreti Cari De rerum natura libri sex / recognovit Iacobus Bernaysius
Edizione: Ed. stereotypa
Pubblicazione: Lipsiae : in aedibus B. G. Teubneri, 1894
F. D’Alessi © 2002
F. D'ALESSI - Letteratura latina - Parte II,1 - Il periodo classico
271
Collezione: Bibliotheca scriptorum Graecorum et RomanorumTeubneriana
Titolo: Il vero nella poesia : Da Lucrezio , 50. 1., 920-949 : A Memmio / C. U. Posocco
Pubblicazione: [S. l. : s. n., 189.]
Autore: Cartault, Augustin
Titolo: La flexion dans Lucrece / par A. Cartault
Pubblicazione: Paris : F. Alcan, 1898
Collezione: Bibliotheque de la Faculte des Lettres,Universite de Paris
Titolo: De rerum natura libri sex / edidit A. Brieger
Pubblicazione: Leipzig : B. G. Teubner, 1894
Collezione: Bibliotheca scriptorum Graecorum et RomanorumTeubneriana
Nomi: Lucretius Carus, Titus
Titolo: De la naturaleza de las cosas : poema en seis cantos / T. Lucrecio Caro ; traducido por Jose
Marchena
Pubblicazione: Sevilla : Rasco Sanroman, 1896
Note Generali: Sul front.: Ano de 1791.
Titolo: La natura : Libri 6 / traduzione di Michele Psaila
Pubblicazione: Napoli : Detken e Rocholl Edit., 1895, Tip. Federico Sangiovanni
Titolo: De Rerum natura libri sex : Revisione del testo, commento e studi introduttivi di Carlo Giussani.
Volume I (studi lucreziani)
Pubblicazione: Torino : Ermanno Loescher Edit., 1896 (Milano, Tip. Bernardoni di C. Rebeschini e C.)
Collezione: Collezione di classici greci e latini con noteitaliane
Titolo: De Rerum natura libri sex : Revisione del testo, commento e studi introduttivi di Carlo Giussani.
Volume II (libro I-II)
Pubblicazione: Torino : Ermanno Loescher Edit., 1896 (Milano, Tip. Bernardoni di C. Rebeschini e C.)
Collezione: Collezione di classici greci e latini con noteitaliane
Titolo: De Rerum natura libri sex : Revisione del testo, commento e studi introduttivi di Carlo Giussani.
Volume III (libro III-IV)
Pubblicazione: Torino : Ermanno Loescher Edit., 1897 (Milano, Tip. Bernardoni di C. Rebeschini e C.)
Collezione: Collezione di classici greci e latini con noteitaliane
Titolo: De Rerum natura libri sex : Revisione del testo, commento e studi introduttivi di Carlo Giussani.
Volume IV (libro V-VI)
Pubblicazione: Torino : Ermanno Loescher Edit., 1898 (Milano, Tip. Bernardoni di C. Rebeschini e C.)
Collezione: Collezione di classici greci e latini con noteitaliane
Titolo: Dal poema de la natura : Luoghi scelti per cura di Giuseppe Piergili, con note ad uso dei licei d'Italia
Pubblicazione: Torino : Roux, Frassati e C. Tip. Edit., 1895
Titolo: Della natura delle cose. Libro 5. : dal verso 1240 al 1267 / [traduzione di Antonio Tolomei]
Pubblicazione: Padova : Tip. F. Sacchetto, 1891
Titolo: De rerum natura / [traduzione del] dott. Andrea Ferracini
Pubblicazione: Vicenza : Stab. Tip. Franzoi, 1893
Titolo: L' inno a Venere ed altre versioni metriche / di G. B. Menegazzi
Pubblicazione: Alatri : Tip. Oreste De Andreis, 1892
Titolo: Invocazione a Venere : Traduzione dal poema La natura di Lucrezio / [a cura di Raffaele Elisei]
Pubblicazione: Firenze : Tipografia di Salvadore Landi, 1896
Note Generali: Per nozze Brizi-Elisei.
Titolo: T. Lucreti Cari de rerum natura libri sex / edidit Adolphus Brieger
Pubblicazione: Lipsiae : in aedibus B.G. Teubneri, 1894
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Titolo: 3: Libri 3. e 4. / T. Lucretius Carus
Pubblicazione: Torino : Loescher, 1897
Fa parte di: T. Lucreti Cari De Rerum Natura libri sex / revisione del testo, commento e studi introduttivi di
Carlo Giussani
Titolo: T. Lucreti Cari De rerum natura Libri sex / recognovit Iacobus Bernaysius
Pubblicazione: Lipsiae : in aedibus B. G. Teubnei, 1890
Collezione: Bibliotheca scriptorum Graecorum et RomanorumTeubneriana
Titolo: De rerum natura : libri sex / T. Lucreti Cari ; revisione del testo, commento e studi introduttivi di Carlo
Giussani
Pubblicazione: Torino : Loescher, 1896-1898
Descrizione fisica: 3 v. leg. in 1 (XI, 297, 289, 319 p.) ; 20 cm.
Note Generali: Il vol. raccoglie i 3 tomi originari, ciascuno contenente 2 dei 6 libri
Titolo: De rerum natura Buch 3. / T. Lucretius Carus ; erkl. von Richard Heinze
Pubblicazione: Leipzig : Teubner, 1897
Descrizione fisica: VI, 206 p. ; 25 cm.
Collezione: Sammlung wissenschaftlicher Kommentare zugriechischen und romischen Schriftstellern
Titolo: 2: Libro 1. e 2. / T. Lucreti Cari
Pubblicazione: Torino : Loescher, 1896
Fa parte di: T. Lucreti Cari De rerum natura libri sex / revisione del testo, commento e studi introduttivi di
Carlo Giussani
Titolo: 3: Libro 3. e 4. / T. Lucreti Cari
Pubblicazione: Torino : Loescher, 1897
Fa parte di: T. Lucreti Cari De rerum natura libri sex / revisione del testo, commento e studi introduttivi di
Carlo Giussani
Titolo: 4: Libro 5. e 6. / T. Lucreti Cari
Pubblicazione: Torino : Loescher, 1898
Fa parte di: T. Lucreti Cari De rerum natura libri sex / revisione del testo, commento e studi introduttivi di
Carlo Giussani
Titolo: Lucreti De rerum natura libri sex / recognovit brevique adnotatione critica instruxit Cyrillus Bailey
Pubblicazione: Oxonii : e typographeo clarendoniano, [1898]
Collezione: Scriptorum classicorum bibliotheca Oxoniensis
Note Generali: La data di pubblicazione si ricava dall'introduzione
Senza paginazione.
Titolo: La natura : libri 6 / di T. Lucrezio Caro ; tradotti da Mario Rapisardi
Edizione: Milano : G. Brigola e comp., 1880 (Firenze : L'arte della stampa, 1879)
Descrizione fisica: ((Testo soltanto in italiano.
Titolo: Caroli Lachmanni in T. Lucretii Cari De rerum natura libros commentarius
Edizione: 4. editus
Pubblicazione: Berolini : Typis et impensis Georgii Reimeri, 1882
Titolo: 1: Text / edited by H.A.J. Munro
Edizione: 4th ed. finally revised
Pubblicazione: Cambridge : Deighton Bell, 1886
Fa parte di: T. Lucreti Cari De rerum natura libri sex / edited by H.A.J. Munro
Titolo: Della natura delle cose / Tito Lucrezio Caro ; traduzione di Francesco Deantonio
Pubblicazione: Milano : Dumolard, 1883
Titolo: De rerum natura libri sex / ed. by H. A. J. Munro
Pubblicazione: Cambridge : Deighton Bell & Co., 1886
Titolo: La natura : libri 6. / T. Lucrezio Caro ; tradotti da Mario Rapisardi
Edizione: 2. ed. / riveduta dal traduttore e accresciuta d'una prefazione di G. Trezza
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Pubblicazione: Torino [etc.] : Ermanno Loescher, 1882
Titolo uniforme: De rerum natura
Titolo: De rerum natura : libri I-III / edited with introduction and notes by J.H. Warburton Lee
Pubblicazione: London : New York : Macmillan, 1888
Titolo: Della natura delle cose. Libro 1. : dal verso 102 al 150 / [versione poetica di Antonio Tolomei]
Pubblicazione: Padova : Tip. F. Sacchetto, 1887
Titolo: I sei libri intorno alla natura / Lucrezio ; recati in versi italiani da Uriele Cavagnari
Pubblicazione: Roma : Tipografia Savio e compagnia, 1882
Note Generali: Libro primo.
Titolo: Della natura delle cose : libri sei / Tito Lucrezio Caro ; tradotti da Alessandro Marchetti ; aggiuntivi gli
argomenti del Blanchet, La scienza di Lucrezio per Constant Martha e le notizie intorno all'autore ed al
traduttore
Edizione: 3. ed. stereotipa
Pubblicazione: Milano : Sonzogno, 1887
Collezione: Biblioteca classica economica
Marchetti, Alessandro <1633-1714>
Titolo: Lucrece Virgile Valerius Flaccus : ouvres completes avec la traduction en francais / publiee sous la
direction de M. Nisard
Pubblicazione: Paris : Firmin Didot, 1880
Collezione: Collection des auteurs latins avec latraduction en francais
Titolo: Della natura delle cose : libri sei / Tito Lucrezio Caro ; tradotti da Alessandro Marchetti ; aggiuntivi gli
argomenti del Blanchet, la scienza di Lucrezio per Constant Martha e le notizie intorno all'autore ed al
traduttore
Edizione: 3. ed. ster
Pubblicazione: Milano E. Sonzogno, 1887
Blanchet, Adrien
Marchetti, Alessandro <1633-1714>
Martha, Constant
Altri titoli collegati: [Pubblicato con] La scienza di Lucrezio / Constant Martha
Titolo: La natura : Libri sei / di T. Lucrezio Caro ; tradotti da Mario Rapisardi
Pubblicazione: Milano : Brigola, 1880
Titolo: Della natura delle cose / T. Lucrezio Caro ; traduzione di Giuliano Vanzolini
Edizione: 2. ed. corretta e riveduta
Pubblicazione: Pesaro : Stab. tipo-litografico di G. Federici, 1879
Titolo: T. Lucreti Cari de rerum natura libri sex / recognovit Iacobus Bernaysius
Pubblicazione: Lipsiae : B. G. Teubner, 1871
Titolo: Della natura delle cose : libri sei / Tito Lucrezio Caro ; tradotti da Alessandro Marchetti ; aggiuntovi gli
argomenti del Blanchet, La scienza di Lucrezio per Constant Martha e le notizie intorno all'autore ed al
traduttore
Edizione: 2. ed. stereotipa
Pubblicazione: Milano : Sonzogno, 1875
Collezione: Biblioteca classica economica
Titolo: La natura delle cose : libri sei / Tito Lucrezio Caro ; tradotti in versi italiani da Jacopo Sartori
Edizione: Ed. postuma, aggiuntovi il testo latino secondo le stampe migliori e piu recenti, dedicata
all'Illustrissimo Signor Conte Leopoldo Pulle
Pubblicazione: Verona : C. Noris, 1876
Titolo: De la Nature des choses (De rerum Natura) / Lucrece (Titus Lucretius Carus) ; traduction complete en
vers francais avec une preface et des sommaires par Andre Lefevre
Pubblicazione: Paris : Sandoz et Fischbacher, 1876
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Titolo: Della natura delle cose. Aggiuntivi gli argomenti. La scienza di Lucrezio / Tito Lucrezio Caro ; libri sei
tradotti da Alessandro Marchetti ; e le notizie intorno all'autore ed al traduttore
Pubblicazione: Milano : Edoardo Sonzogno, 1874
Titolo: Della natura delle cose : libri sei / Tito Lucrezio Caro ; tradotti da Alessandro Marchetti ; aggiuntivi gli
argomenti del Blanchet, la scienza di Lucrezio per Constant Martha e le notizie intorno all'autore e al
traduttore
Edizione: ed. stereotipa
Pubblicazione: Milano : Sonzogno, 1874
Collezione: Biblioteca classica economica
Titolo: Della natura delle cose libri sei / Tito Lucrezio Caro ; tradotti da Alessandro Marchetti ; aggiuntivi gli
argomenti del Blanchet, la scienza di Lucrezio per Constant Martha e le notizie intorno all'autore ed al
traduttore
Edizione: ed. stereotipa
Pubblicazione: Milano : E. Sonzogno, 1874
Collezione: Biblioteca classica economica
Marchetti, Alessandro <1633-1714>
Titolo: De rerum natura : libri sex / T. Lucretii Cari
Pubblicazione: Roma ; Torino, 1879
Collezione: Biblioteca scolastica di scrittori latini
Titolo: 5: Libro quinto / Tito Lucrezio Caro
Pubblicazione: Pesaro : pei tipi di A. Nobili, 1876
Fa parte di: Della natura delle cose / Tito Lucrezio Caro ; tradotto da Giuliano Vanzolini
Titolo: Della natura delle cose : libro quarto / Tito Lucrezio Caro ; tradotto in italiano da G. V
Pubblicazione: Ancona : Tipografia del Commercio, 1872
Note Generali: Estr. da: Rivista marchigiana.
Vanzolini, Giuliano
Titolo: De rerum natura : libri sex / T. Lucreti Cari ; recognovit Iacobus Bernaysius
Pubblicazione: Lipsiae : Sumptibus et Tip. B. G. Teubneri, 1871
Titolo: Della natura delle cose : libro quinto / Tito Lucrezio Caro ; tradotto da Giuliano Vanzolini
Pubblicazione: Pesaro : tipi di A. Nobili, 1876
Note Generali: Testo lat.
Titolo: De rerum natura / T. Lucretii Cari
Pubblicazione: Augustae Taurinorum : Paraviae, 1879
Collezione: Biblioteca scolastica di scrittori latini
Titolo: T. Lucretii Cari De rerum natura : libri sex
Pubblicazione: Torino : Paravia, 1879
Collezione: Biblioteca scolastica di scrittori latini
Titolo: T. Lucreti Cari De rerum natura libri sex / Carolus Lachmannus recensuit et emendavit
Edizione: Ed. 4
Pubblicazione: Berolini : G. Reimer, 1871
Titolo uniforme: De rerum natura
Titolo: De la nature / Lucrece ; traduction nouvelle avec un texte revu d'apres les tra vaux les plus recents
par L. Crousle
Pubblicazione: Paris : Charpentier, 1871
Titolo: Della natura delle cose : libro sesto / Tito Lucrezio Caro ; tradotto da Giuliano Vanzolini
Pubblicazione: Pesaro : A. Nobili, 1877
Titolo: De rerum natura libri sex / with notes by H. A. J. Munro ..
Edizione: 3. ed. rev
Pubblicazione: Cambridge : Deighton Bell and Co., 1873
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Titolo: Della natura delle cose : libri sei / Tito Lucrezio Caro ; tradotti da Alessandro Marchetti
Edizione: Ed. stereotipa
Pubblicazione: Milano : E.Sonzogno, 1874
Note Generali: Sul front.: aggiuntivi: Gli argomenti del Blanchet: La scienza di Lucrezio per Constant Martha
e le notizie intorno all'autore ed al traduttore
Titolo: De rerum natura libri sex / T.Lucreti Cari
Pubblicazione: Lipsiae : Teubner, 1879
Note Generali: Sul front.: Recognovit Iacobus Bernaysius
Titolo: Oeuvres completes / de Lucrece ; avec la traduction francaise de Lagrange, revue avec le plus grand
soin par M. Blanchet
Pubblicazione: Paris : Garnier, 1871
Titolo: Di T. Lucrezio Caro della natura delle cose : libri 6 / volgarizzati da Alessandro Marchetti, aggiunte
alcune rime e lettere del volgarizzatore ; a cura di G. Carducci
Pubblicazione: Firenze : G. Barbera, 1864
Marchetti, Alessandro <1633-1714>
Titolo: Oeuvres completes de Lucrece / avec la traduction francaise de Lagrange ; revue par M. Blanchet
Pubblicazione: Paris : Garnier, 1861
Collezione: Bibliotheque latine-francaise
Titolo: 2: Explanatory notes / edited by H.A.J. Munro
Edizione: 4th ed. finally revised
Pubblicazione: Cambridge : Deighton Bell, 1886
Fa parte di: T. Lucreti Cari De rerum natura libri sex / edited by H.A.J. Munro
Titolo: 3: Translation / edited by H.A.J. Munro
Edizione: 4th ed. finally revised
Pubblicazione: Cambridge : Deighton Bell, 1886
Fa parte di: T. Lucreti Cari De rerum natura libri sex / edited by H.A.J. Munro
Titolo: T. Lucreti Cari De rerum natura : libri sex / recognovit Iacobus Bernaysius
Pubblicazione: Lipsiae : sumptibus et typis B. G. Teubneri, 1866
Collezione: Bibliotheca scriptorum Graecorum et RomanorumTeubneriana
Titolo: Della natura delle cose : libro primo / Tito Lucrezio Caro ; tradotto da Giuliano Vanzolini
Pubblicazione: Pesaro : pei tipi di Annesio Nobili, 1863
Note Generali: Testo lat.
Altri titoli collegati: [Variante del titolo] Saggio di traduzione di T. Lucrezio Caro
Autore: Tolomei, Antonio
Titolo: Faustissime nozze Giusti-Cittadella / [Antonio Tolomei] ; [a cura di Gio. Paolo Tolomei]
Pubblicazione: Padova : Stab. Prosperini, 1863
Note Generali: Contiene versi di A. Tolomei e sue traduzioni da Lucrezio.
Titolo: Traduzioni da T. Lucrezio Caro / per A. Tolomei
Pubblicazione: Padova : [s. n.], 1863, stab. Prosperini
Descrizione fisica: 11 p. ; 22 cm.
Titolo: Della natura delle cose : libro terzo / Tito Lucrezio Caro ; tradotto da Giuliano Vanzolini
Pubblicazione: Pesaro : tipi di A. Nobili, 1867
Note Generali: Testo in lat.
Altri titoli collegati: [Variante del titolo] Proseguimento di traduzione di T. Lucrezio Caro
Titolo: De rerum natura : libri 6 / T. Lucreti Cari ; recognovit Iacobus Bernaysius
Pubblicazione: Lipsiae : sumptibus et typis B. G. Teubneri, 1862
Collezione: Bibliotheca scriptorum Graecorum et RomanorumTeubneriana
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Titolo: Oeuvres completes / Lucrece, Virgile, Valerius Flaccus ; avec la traduction en francais ; publiees sous
la direction de M. Nisard
Pubblicazione: Paris : chez Firmin Didot, 1864
Collezione: Collection des auteurs latins avec latraduction en francais
Note Generali: Con testo latino
Testo a colonne.
Titolo: Della natura delle cose / poema di Tito Lucrezio Caro ; versione di Alessandro Marchetti
Pubblicazione: Napoli : Soc. Ed. della Biblioteca latina-italiana, 1861
Collezione: Biblioteca latina italiana, ossia Raccolta diclassici latini con versioni italiane e note
Titolo: Della natura delle cose : libri 6. / di T. Lucrezio Caro ; volgarizzati da Alessandro Marchetti ; aggiunte
alcune rime e lettere del volgarizzatore a cura di G. Carducci
Pubblicazione: Firenze : G. Barbera, 1864
Titolo: T. Lucreti Cari de rerum natura libri sex / Carolus Lachmannus recensuit et emendavit
Edizione: Editio altera
Pubblicazione: Berolini : Reimeri, 1853
Titolo: Invocazione a Venere / di Tito Lucrezio Caro ; versione inedita del conte Pellegrino Merenda
Colombani di Forli
Pubblicazione: Forli : dalla Stamperia Casali, [1858]
"Lucrezio¸ Tito Caro",
T. Lucrezio caro
1. Vita. - II. II 'De rerum natura': argomento e struttura. - 111. II mondo poetico di Lucrezio. - IV. Lingua e
metrica di Lucrezio. - V. Fortuna di Lucrezio.
Tito Lucrezio Caro (T. Lucretius Carus) è uno dei geni poetici piú vasti e desolati del genere umano. Della
sua vita, all'infuori di quanto ci dice la Cronaca di S. Girolamo(l), che riferisce notizie svetoniane, poco
sappiamo; il suo poema, che pur rivela l'anima e il tormento interiore del poeta, non contiene elementi
autobiografici
I. - vita. S. Girolamo fissa l'anno di nascita del poeta al 94 a, C e la morte a 44 anni di età, cioè al 50 circa a.
C. Ma questi dati non appaiono del tutto sicuri e consentono un probabile sposta mento tra il 98 e il 54.
Sempre da S. Girolamo siamo informati che un filtro amoroso (poculum amatortum) procurò a Lucrezio la
pazzia (insania); che negli intervalli di essa compose alcuni libri del suo poema, emendato e pubblicato
postumo da Cicerone; che infine si tolse di propria mano la vita (propria se manu interfecit). Anche questi
dati sono stati posti al vaglio dalla critica, che si è variamente pronunciata, ora accettandoli, ora
correggendoli o rigettandoli del tutto, perché ritenuti elaborazioni fantastiche di ambienti a Lucrezio ostili, e
per il suo carattere insocievole e scontroso e per la convinta professione di ateismo e di materialismo, che lo
ponevano in aperto contrasto con la tradizione fideística popolare, pagana prima e cristiana poi. Ma, a parte
ogni altra considerazione, le notizie geronimiane devono ritenersi sostanzialmente vere: sia perché, se le
avesse sospettate leggendarie e fantastiche, Girolamo non le avrebbe neppur raccolte dalla fonte
svetoniana, sia perché lo stesso Svetonio, per quanto curioso ascoltatore di storie peregrine, non avrebbe
certo prestato fede ad una dicería cosí grave, che intaccava a fondo la vita morale e la stessa personalità
poetica di Lucrezio. Senza dire, poi, che, se non vera, la notizia avrebbe suscitato, al tempo di Svetonio, e
probabilmente anche di S. Girolamo, polemiche piú o meno aperte tra gli ammiratori del poeta, il quale
invece ebbe viva e incontrastata la lode dei contemporanei e dei pòsteri, qui compresi gli scrittori cristiani,
come Lattanzio, Arnobio ed Isidoro.
[ Parallela alla biografia svetonio geronimiana ne corre untaltra, che l'umanista Gerolamo Borgia scoprí nel
1502, e fu detta perciò ' vita borgiana '. Essa contiene elementi piú ricchi di quella geronimiana, di cui però
non ha lo stesso valore, perché rientra nel tipo di quelle vite ' umanistiche ', che esagerarono o falsarono del
tutto i contorni biografici degli antichi.]
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F. D'ALESSI - Letteratura latina - Parte II,1 - Il periodo classico
277
Incerto è anche il luogo di nascita, che altri crede Pompei, altri Roma. Nacque probabilmente da buona
famiglia in terra campàna e alternò poi gli ozi partenopèi con la vita di Roma, atten, dendo in tal modo alla
sua formazione letteraria e spirituale: Roma gli aprí i vasti orizzonti di quella cultura, che egli dimostra di
signoreggiare nel suo poema; Napoli l'accese di entusiasmo per la dottrina di Epicuro, predicata da illustri
maestri nei fiorenti cenacoli cittadini. E Lucrezio l'assorbí con voluttà inebriante, perché trovò in essa la
spinta ad alti ideali, nel raccoglimento interiore e nella meditazione della vita. Dato questo suo temperamento
meditativo e raccolto, non par che Lucrezio partecipasse, anche in ossequio agli insegnamenti della ' Scuola
', ad attività politiche di sorta, pur sentendo vivo il senso della romanità e la pungente angoscia per gli a
iniqui tempi della patria )>. Chiuso nel suo isolamento spirituale, con dedizione quasi religiosa consacrò tutta
la sua breve esistenza alla poesia e alla scienza della natura. Fu in continua lotta con se stesso per la
conquista del Vero, che egli poneva in cima a tutte le sue aspirazioni; gli unici momenti di felicità furono
quelli, in CUI Sl illuse di avere aperto all'ignoranza le vie della verità liberatrice. Ma fu anche questa
un'amara delusione. Non conobbe l'amore, o se mai riportò di esso quella triste, ripugnante esperienza, che
sembra conferire tinte funeree al finale del IV libro. Come non lo intimidí il mistero delle cose, cosí non lo
spaventò il pensiero del!a morte, che affrontò sereno, come una liberazione dagli infinih mali della vita.
Lasciò nel suo poema, insieme con l'impronta del suo genio, lo spasimo del suo tormento interiore: il De
rerwn natura rimane nei secoli come una delle piú ardite conquiste del pensiero e dello spirito poetico di tUtti
i tempi.
II. - Il 'De rerum natura ': argomento e struttura. - E il poema della8Lnatura, in sei libri di diversa estensione e
compiutezza, di circa 7.5(t esametri complessivi. II poeta vi attese per tutta la vita, ad intervalli piú o meno
lunghi, ma la morte violenta gli impedí di apporvi l'ultima mano, come denunciano il disordine e lo stato
d'imperfezione, in cui il testo ci è giunto, pubblicato probabilmente da Cicerone senza alcun ritocco.
Comunque, chiaro appare il disegno strutturale del poema: i singoli canti sono aperti da un solenne proèmio
(assai piú ampio quello del primo (1) [(1) Per questo esso presenta alla critica le maggiori ditSicoltà, insieme
con elementi interni, non facilmente spiegabili, quali: passaggi oscuri e salti bruschi da un tema all'altro,
amàlgama di pensieri spesso contrastanti, intonazioni di varia natura poe, tica, che vanno dalle forme
innològiche a quelle polemiche, tecnica compositiva assai piú leziosa e curata delle altre parti del poema.
Comunque s'abbia ad interpretare, questo proèmio è certamente una delle pagine piú sublimi della po"ia
antica e il succo di tutta la spiritualità epicurea di Lucrezio. Si apre con un inno stupendo a Ve, nere,
"homimmt livomque voluptas 9: piacere, pace, atarassía dello spirito e del corpo, creatrice e ordinatrice di
ogni cosa bella nel mondo, principio di vita e spirito di amore in ogni vivente. Essa è l'Afrodíte omerica, ma è
anche la ' Venere genitrice ' dei Romani, la protettrice di Caio Memmio, a cui il poema è dedicato, protettore
a sua volta di poeti ed egli stesso nome illustre nella cultura del tempo. ], perché funge da pròlogo a tutto il
poema e contiene temi di varia natura) e chiusi da un maestoso finale, che raccoglie le note principali del
canto; il quale assume cosí l'andamento strutturale di una grande sinfonia. I libri stessi paiono rispecchiare
un ordinamento sistematico degli argorrenti: i primi due parlano della costituzione del mondo e della
composizione della materia: servono perciò da introduzione generale; i due centrali trattano dell'anima e
dell'uomo, gli ultimi due dei fenomeni naturali celesti e terrestri (2) [(2) Quest'ordine tradizionale non è
accettato da molta della critica, che ritiene non originaria, ma frutto di rielaborazioni posteriori, I'attuale
stesura del poema, nella quale si no, tano contrasti di idee, interruzioni e riprese di argomenti nelle singole
parti e nel, I'insieme di alcuni libri, ripetizioni e slegature. Si giunse cosí alla deprecata teoria delle '
trasposizioni ' non solo di brani e di versi, ma anche di libri, di cui si proposero successioni di tal genere:
I,ll,IV,III,V,VI; oppure: 1, II, V, Vl, IV, 111; e anche 1, II, V, IV, 111, Vl. Spostamenti di gruppi di versi si
praticarono particolarmente nei proèmi del IV e del I libro, dove, per di piu, i w. 44-49 si pensarono aggiunti
da un interpolatore. Insomma, una vera anarchía nell'àmbito dell'architettura del poema. Oggi si tende a
ritenere sostanzialmente originaria la stesura tradizionale del poema e a spiegarne le incongruenze, le
ripetizioni, ecc. col metodo di lavoro dell'Autore e col mancato controllo di revisione generale dell'opera. ].
Eccone un breve sommario:
Libro 1. - Apre il canto il mirabile inno a Venere, che avvía il lungo proèmio (1-145), contenente la dedica a
Memmio(l), I'elogio di Epicúro, la deprecazione della superstizione religiosa con la rappresentazione del
sacrificio di lfigenía, la lode al poeta Ennio e la confessione dell'ardua impresa, a cui il poeta si accinge.
Quindi s'inizia la trattazione, col noto prin cipio epicureo: "Nulla nasce dal nulla e nulla si riduce al nulla" (nil
ex nilo, nil in nilum); tutto si forma per aggregazione e si distrugge per disgregazione di particelle invisibili ed
immutabili, i corpuscula minima, gli ' àtomi ', di cui è composta la materia, che è eterna. Viene ampiamente
esposta la teoria degli àtomi e del ' vuoto ' (inane), in polemica anche con le scuole contrarie all'epicureismo,
come quelle di Eraclíto, di Empèdocle e di Anassàgora. Nel finale, il canto della infinitezza dell'universo e
della materia si chiude in una visione di catastrofe e di morte.
Libro 11. - II libro si apre con un inno alla scienza, fonte di felicità ed espone poi minutamente il sorgere e il
finire delle cose coll'aggregarsi e disgregarsi degli àtomi, che si muovono con una velocità inimmaginabile,
tendendo ad incontrarsi, urtarsi, agglomerarsi, disfarsi per poi dar luogo a nuovi corpi. Obbediscono alla
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F. D'ALESSI - Letteratura latina - Parte II,1 - Il periodo classico
278
legge della gravità, ma nella loro caduta devíano spontaneamente dalla verticale (è la nota dottrina del
clinamen), túrbinano liberamente nel vuoto, producendo nuovi urti nuovi agglomerati, che spiegano la gènesi
cosmica della varietà delle cose e la possibilità della formazione di nuovi mondi, diversi dal nostro. Questa
specie di ' libero arbitrio ' degli àtomi rompe la ferrea necessità delle immutabili leggi di natura. Indefinita è la
varietà di fomme degli àtomi, che non hanno né colore, né sapore né altre qualità accidentali. Essi sono i
princípi eterni e immutabili di ogni cosa: la loro continua vicenda è generatrice di vita e di morte.
Libro III. - Dopo un nuovo entusiastico elogio ad Epicúro, Graiae gentis decus, sulle cui orme il poeta intende
porre ficta pelum vestigia segue la trattazione della natura dell'anima, la forza vitale, ditTusa in tutto il corpo
(differente da animus, che è il principio intellettivo ed ha sede nel petto), strettamente a questo unita e come
esso mortale. L'anima infatti è formata di àtomi, o meglio, di quattro sostanze atomiche: aria, vento, calore e
di un'altra senza nome (nommis expers), la piú veloce ed attiva di tutte, la sola capace di trasformare in moti
sensibili le impressioni prive di sensibilità. Essendo perciò cosí composta, anchtessa si disgregherà nei suoi
elementi allo scomporsi del corpo, di cui segue gli SViIUppi ascendenti e discendenti. L'anima muore come
muore il corpo. Vano è perciò il terrore della morte, che noi non awertiamo neppure; favole e leggende sono i
timori delle pene nella vita dell'al di là, che non esiste: nil igitur mors est ad nos; tutt'al piú la morte e fine,
non principio, di tormenti.
Libro IV. S'inizia con l'esaltazione del genio del poeta, che tenta vie nuove ~,d ardite, finora sconosciute
all'umana poesia. Problema capitale è quXllo delle sensazioni corporee, spiegate con la teoria dei simulacra
rerum, Xi quelle sottilissime membrane, che, a causa delle vibrazioni inteme Aegli àtomi si distaccano dalla
superficie dei corpi, e, conservando la forma delloggetto, colpiscono, impressionandoli, i nostri sensi. Cosí
noi abbiamo la visione dei vari oggetti, che ci circondano. In tale maniera si spiegano anche le illusioni
òttiche, nonché le funzioni della voce e dei suoni. La stessa attività cogitativa e fantastica della mente
obbedisce a questo vario processo riproduttivo di ' simulacri' che provocano in noi immagini e sogni. Di tal
natura è anche il fenomeno dell'amore: i*into fisico, animalesco, passione travolgente, trasformata
vanamente in illusione sentimentale dall'uomo, che crede di trovare in esso un sollievo alla propria miseria;
vi trova invece nausea, fastidio, infelicità. E questo il realistico, spietato finale del IV libro.
Libro V. II libro si apre con un nuovo encòmio ad Epicúro, per entrare subito nel tema dominante: che anche
il mondo nasce e muore nel tempo. Tutti gli elementi terrestri e celesti, come il sole, la luna, le stelle, le
piante, gli animali sono anch'essi aggregati di àtomi, govemati dalle stesse finalità cosmiche, non dalla
mente direttiva della Provvidenza, come intendono gli Stoici. Gli dèi non si interessano del mondo: essi
vivono una loro vita imperturbata nelle sedi celesti; se fosse diversamente, gli uomini non sarebbero gli
esseri piú infelici di tutti i viventi.
II mondo è destinato a finire, perché costituito da elementi perituri: terra, acqua, aria e fuoco. I primi uomini,
nati dalla terra, erano piú felici e fortunati di noi: conducevano vita selvaggia e si nutrivano di cibi, che la
natura spontaneamente loro dispensava. Poi venne la civiltà: e con essa la menzogna, il sopruso, I'illegalità,
la superstizione religiosa, causa di infelicità e di nefandezze di ogni genere. Le invenzioni piú belle, quali il
canto, la danza, la musica, I'agrico!tura e la lavorazione dei metalli sono frutto della sagace operosità
dell'uomo, téso a carpire i segreti, che natura nasconde.
Libro Vl. - È in connessione col precedente. Infatti, dopo un altro elogio ad Epicúro, Lucrezio vuol dimostrare
che nessuno dei fenomeni cosmici è dovuto a intenenti divini, ma tutti accadono per leggi naturali. Cosí il
tuono, il lampo, i! fulmine, il terremoto, i catetclismi e i vulcani; per ogni fenomeno sl propongono le
spiegazioni correnti della fisica epicurèa. Le stesse epidemíe si spiegano con l'addensarsi in colonie di
piccolissimi esseri nocivi e contagiosi (intendi: i micròbi), che si deposiS tano e si accumulano in particolari
luoghi, infestando uomini e cose. Cosí ebbe origine la peste di Atene, che il poeta descrive minutamente in
uno degli squarci piú grandiosi e commoventi di tutta la poesia antica. Con questa funesta visione
dell'umanità, travolta ed ingoiata dalle gigantesche forze della natura, temmina il poema.
III.- Il mondo poetico di Lucrezio. - Un poe; di tanto vaste dimensioni cosmiche e di cosí profonda e matura
~61aborazione di idee, di tanto audace ingegno e di cosí alta signifiiazione poetica racchiude senza dubbio
un mondo difficile a dontinarsi per la varietà degli elementi che vi confluiscono e per li molteplicità degli
interessi dottrinali, poetici, espressivi ed urnani, che esso suscita.
La dottrina è anzitutto l'humus germinatore degli alti concetti, rivolti a perscrutare la natura dell'universo: una
dottrina che scende da varie fonti dell'antica sapienza greca, che per prima con Anassàgora ed
Anassimàndro, con Senòfane, Parmènide, Em pèdocle, Demòcrito ed Eraclíto si interessò ai problemi della
natura e del mondo. Accanto a quelle dottrinali, figurano fonti poetiche ds vario genere, greche e latine.
Molto vi si risente dell'epica particolarmente di Omero(l), nonché spunti della lirica e della tragedia; non poco
di Ennio, che Lucrezio, pur in polemica con le sue credenze d'oltretomba, ammirava come colui che seppe
"trarre dall'ameno Elicóna una corona di sempre verdeggianti fronde)>; né mancano atteggiamenti neotèrici:
ché, pur senza consentire agli eccessi di certa critica recente, è ragionevole ammettere che Lucrezio doveva
ben conoscere i cànoni della ' poetica nuova '.
Ma la sua fonte principale, il suo Maestro e la sua Luce rimane pur sempre Epicúro; questi gli detta la
materia del canto e gli infonde I entusiasmo dell'impresa; questi gli apre le sconfinate visioni dei mondi e gli
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accende la gioia della conquista. Quel che Epicúro fu per Lucrezio è detto apertamente da lui in piú luoghi
del poema: splendidamente nel proèmio del III libro, che giova riascoltare:
Te, che sei stato capace di fare scaturire da tenebre tanto profonde una luce cosí sfolgorante, svelando le
gioie della vita, io seguo, decoro della gente greca, e sulle tue stabili órme misuro sicuro il mio passo non
tanto per desiderio di gareggiare con te, quanto per la brama di imitarti, trascinato dalla tua ammirazione. Tu
sei un padre, sei sco pntore del vero, e patemi ammaestramenti tu, o sublime, ci appresti; e, come le api
súggono tutto sulle balze fiorite, cosí noi ci nutriamo degli aurei precetti dei tuoi scritti, aurei perché sempre
degnissimi di perpetua vita (vv. 1-20).
~'encòmio del primo proèmio (w. 62,79) Epicúro appa_ iffigurazione luminosa di un uomo straordinario, che
per primo ab 1~ sollevare contro la superstizione religiosa gli occhi mortali ed a frontarla di petto, per primo
osò infrangere le porte sbarrate dell natura e spingersi lontano, oltre la cerchia infocata del mondo,
e~scrutare col vigoroso acume dell'ingegno l'immensità infinita dell'universo, e rivelare agli uomini il nascere
e il morire delle cose. Toni, questi, altamente ammirativi, che non solo rivelano l'incondizionato ossequio
intellettuale di Lucrezio alla dottrina di Epicúro, ma tradiscono anche la perfetta consonanza spirituale con gli
ideali ètici del maestro, sentito come un salvatore della umanità tormentata dal dolore fisico e morale,
angustiata dall'ignoranza e dalla superstizione religiosa, travagliata da guerre, da odi, da discordie di ogni
genere. In questa confluenza di ideali umani, in questa aflìnità di spiriti, tési nella ricerca del vero per il
superamento dell'infelicità umana attraverso il dominio della scienza, in questo desiderio di salvazione di un
mondo, che è ' male ', perché <( malato quasi per un'epidemia morale )>, sta la ragione della assoluta
aderenza di Lucrezio agli insegnamenti di Epicúro. A lui, piú che il filosofo speculativo ed astratto, interessò
l'uomo ' divino', che seppe immettere la sua filosofia nelle esigenze della vita e farne uno strumento
vivificatore di libertà e di pace. Perché Lu, crezio non volle essere un filosofo, ordinatore di intricati sistemi
dottrinali, ma un propagatore, un banditore del pensiero epicureo tra i Romani, al quale aggiungeva del suo
l'amara esperienza della vita, la combattività dello spirito, l'ardore delle persuasioni, la sua grande anima di
poeta. Il che spiega, pur negli accordi sostanziali, le non poche 'antinomíe' del poema di Lucrezio con la
dottrina del ' Giardino . Epicúro bandisce dal suo programma dottrinale la poesia, perché turbatrice di
serenità interiore: Lucrezio, sulla scía della tradizione romana, crea il capolavoro dell'epos scientifico, come
Ennio aveva creato quello dell'epos nazionale. Epicúro, come è dato giudicare dai frammenti rimasti, è un
ragionatore freddo, logico, distaccato, che espone i suoi precetti in una prosa secca e puntuativa; Lucrezio
scioglie l'arida precettistica nella magía della sua arte, crea ambienti, scenari fantastici ed episodi
meravigliosi, forgia un linguaggio poetico nuovo ed ardito, tutto immette nel mondo del suo sentimento e
della sua fenida immaginazione. E diventa il poeta della natLra, il piú grande che sia mai esistito in ogni
tempo e in ogni/terra.
Ma si è detto e ripetuto da molti che Lucrezio è pqleta a mezzo: grande, anzi grandissimo nei proèmi, negli
episodi, neXle digressioni e nei finali; pedestre, arido e duro nelle parti espJsitive e didascaliche.
Grto, in alcune pagine egli tocca il sublime, lí particolar mente dove si abbandona allo slancio lirico del
momento contem plativo, come nell'inno a Venere, negli elogi ad Epicúro, nella lode della Scienza
liberatrice, nell'esaltazione del proprio genio nella descrizione del sacrificio di Ifigenía e del taelium vitae,
nella digressione sulla vita primitiva dell'umanità, nonché nei versi finali dei singoli libri. celebri fra tutti quelli
sulla follía dell'amore (1. IV) e sulla pestilenza di Atene (1. VI). Ma voler restringere soltanto a questi cerchi
luminosi le capacità creative di Lucrezio è fare torto al suo genio poetico e ridurre a ben meschine
proporzioni il valore del De rerum natura, opera di ispirata poesia in tutta la sua vasta estensione. Perché
Lucrezio non vi ha portato solo il suo cànone estetico, attinto dalla scuola di Epicúro, perfundeVre cuncta
lepore, "abbellir tutto di piacevolezza e di grazia", ma vi ha immesso soprattutto il suo mondo spirituale, ricco
e traboccante di fremito passionale e di mistico fervore, riuscendo cosí ad infondere palpito e vita alla stessa
morta materia e a ren dere in plastiche movenze, in rappresentazioni vivacissime la ri gida precettistica della
scuola. Gli è che Lucrezio ha una straordinaria capacità fantastica: assorbe, trasforma in un processo lirico
gli stessi elementi didascalici, ingigantisce in quadri pittorici, in visioni maestose di figure, di colori e di suoni i
semplici fenomeni di natura. La natura è la grande anima lirica di Lucrezio. Da essa attinge quella sontuosità
di immagini, che coloriscono spesso di sfondi epici e drammatici le sue descrizioni. Si ripensi alla stupenda e
terrificante raffigurazione della religio nei vv. 62-79 del I libro.
Con lo stesso arcano linguaggio parlano al poeta le piú piccole particelle del cosmo, gli àtomi e le immense
sfere del firmamento i roteanti astri del cielo e la dedàlea terra, le ferae pecules e le aeriae volucres, i rapidi
fiumi, i mari, i monti, i verdi campi, i venti, gli animali e l'uomo. L'uomo soprattutto: la piú infelice delle
creature, perché la piú cosciente della sua inanità e miseria, la piú tormentata dal suo dolore, in questo
mondo a lui nemico ma anche la piÚR fortunata, se riuscirà a scoprire il mistero che la circonda e a
d~ominare con la scienza liberatrice persino la morte. Da questa meditazione sull'infelicità umana e da
questo sogno liberatore, che è quanto dire dal contrasto di ciò che l'uomo è nella sua nullità e miseria e di
ciò che dovrebbe essere nella conquista della sua piena e libera personalità, nascono le note piú vive del
mondo poetico di Lucrezio, che rivelano ad un tempo anche l'alta tensione del suo tormento interiore.
Pessimismo muto e demolitore, forza di ribellione contro le sopraffazioni delle fallàci credenze religiose,
anèlito di liberazione, entusiasmo messiànico (furor arduas), impeto di conquista nella lotta titànica contro
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l'errore e l'ignoranza, pietà, compassione ed amore per l'umanità intera, questi sono i temi dominanti e i
sentimenti piú schietti, che vibrano nell'animus di Lucrezio, e costituiscono il segreto del fàscino sempre
nuovo del suo immortale poema. Poema cosmico, perché poema dell'universo, ma anzitutto poema umano,
perché poema dell'uomo; tutto lirico, profondamente lirico, anche in quelle zone d'ombra, dove la poesia,
appesantita dall'urto con la precettistica, non è riuscita ad esprimersi compiutamente, e dove anche il tono
polemico tradisce spesso quella insofferenza stizzosa, che mal si compone con l'equilibrio intellettuale
dell'uomo saggio e romanamente superiore.
Non diverso discorso può farsi del problema religioso.
Che Lucrezio abbia avuto una coscienza morale e religiosa, o almeno, un'ansia tormentosa del divino, ne
dice l'atteggiamento del suo spirito retto, amante sempre della verità e della giustizia disgustato del vizio e
delle aberrazioni umane. Ma alla religione tradizionale, ai vecchi dèi beati negli intermunlfa egli non si sentí
di credere. Vide il problema religioso in funzione del destino e della felicità dell'uomo con gli occhi del
Maestro e con l'animo disgustato dalla corruzione dei suoi tempi. E il problema religioso lo turbò, ma lo
accese di entusiasmo demolitore; non gli creò il mistero, perché la dottrina del Maestro gli svelò l'infinita
vanità del tutto, il tedio della vita, I'ebbrezza della morte. II mistero religioso fu di Virgilio, anch'egli cantore
della natura e poeta di umanità. Ma Virgilio dinanzi al mistero si sentí smarrito, né osò additare vie sicure
nella vittoria della scienza. Si protete piuttosto verso speranze realizzatrici di un mondo migliore, nella fede di
una fatalità incombente, ma pròvvida. E vi si acquietò. Lucrezio non conobbe quest'atto di umiltà e di fede.
La scienza gli schiuse una visione accomodante dell'al di là, ma non gli aprí le porte alla vittoria su se
stesso: e fu il fallimento più clamoroso della sua negazione e del suo orgoglio.
IV. - Lingua e metrica di Lucrezio. Lottatore nel pensiero, Lucrezio lo fu anché nella lingua; anzi, proprio qui,
egli dovette concentrare i suoi sforzi: e per piegare al linguaggio poetico latino le dure espressioni dottrinali
greche e per colmare le deficienze lessicali della lingua latina, in ordine alla novità dell'argomento; e piú volte
il poeta fu costretto a lamentare a la povertà del patrio sermone)). II che lo portò a coniare numerosi
neologismi, semplici o composti, piú di quanto non fece lo stesso Ennio, a forgiare forme aggettivali (come
farà piú tardi Virgilio), nomi, verbi ed awerbi di vario genere, quali nastger, jru,gifeVrens, aesttfer, horrtfert
barStger, suavidtcus, anguEmanus, ecc. Parole, tutte, ricche di significati poetici, pregnanti di contenuto, che
bastano da sole a fissare un'immagine, a scolpire un bassorilievo. Si ripensi ad aeriae volucres, a daedala
tellus e simili. Anche qui Lucrezio si rivela spirito di eccezionali capacità creative. Ma il fondo primo del
lessico poetico lucreziano viene dal linguaggio comune, che ha ancora la solennità e il sapore della grande
poesia arcaica e nelle frequenti forme allitterative, omeotelèutiche, onomatopèiche e sinonímiche, e in
alcune caratteristiche desinenziali (-ai per -ae nel genit. della la decl.; -um per -ium; ecc.), nonché nella
preferenza delle forme gerundive in -undi e aggettivali in -bundus.
In tutto si awertono una finezza di stile e una sensibilità di gusto quasi ciceroniana nell'evitare di proposito
inserti terminologici greci nella lingua latina. Cosí il termine greco átomos, che pur figura in Lucilio, è sempre
reso da Lucrezio con espressioni di pura significazione latina, quali elementa rerum, figurae rerum, exordta
rerum, semtna rerum, corpuscula mintma. Qualche rudezza espressiva e qualche prosaicità di locuzione è
comprensibile e giustificabile, e nel carattere del poeta e nella natura espositiva e definitoria della dottrina.
Qu; rientrano quelle formule di passaggio, come propterea quia, quando quidem, ideo quod, quin etiam e
simili, suggerite dalla rigidità logica del discorso filosofico.
Un'identica osservazione va fatta per la tecnica compositiva. Lucrezio continua l'esametro di Ennio,
conservandone ancora certe durezze formali, proprie della poesia arcaica: tmesi, clàusole in parole
monosillabiche e polisillabiche (es.: frugiferentis), iàti, onomatopèe, sene monòtone di spondei, ed altro di
simile. Ma in generale siamo già in un affinamento di sensibilità tecniche, che rivelano le capacità artistiche
del poeta, il quale, talora, subisce, sí, I'aridità della formula espressiva, adattandola all'esametro, ma quasi
sempre fissa in questi accorgimenti strutturali un suo particolare stato d'animo; cosí, ai versi spondíaci,
annette quasi sempre un senso di solennità, di spaziosità, che rivelano il momento contemplativo.
Ma alcuni brani, quelli piú elaborati (si ripensi al proèmio del I libro) contengono già una tecnica cosí scaltrita,
da preannunziare non solo finezze di movenze neotèriche, ma anche armoniosità di ritmi virgiliani, di cui un
verso come questo:
te, dea, te fugiunt venti, te nubila caeli (1,6),
non parrebbe davvero indegno.
v. -Fortuna di Lucrezio. Durante la sua vita Lucrezio fu poco conosciuto e poco amato. Nei circoli letterari di
allora, come in quello epicurèo e neotèrico, non ebbe fortuna né onore. Catullo non lo nomina mai, Orazio
non ne parla, ma non mancano consonanze poetiche: nell'uno e nell'altro. II primo ricordo VIVO di Lucrezio è
in Cicerone, che non solo si interessò alla pubblicazione del poema, ma in una lettera del 54 a. C. al fratello
Quinto (2, 9, 3) diede del De rerum natura un giudizio rimasto aperto alla critica dei secoli: Lucreti poemata,
ut scribis, ita sunt: multis lumtntvbus ingeni, multae tamen artis: un poema, cioè, splendido dingegno e ricco
anche di arte(l). Comelio Nepote nella biografia di Attico (12, 4) associa nel ricordo poetico Lucrezio e
Catullo. Virgilio sentí Lucrezio vicino nella sua prima educazione epicurèa, ne ammirò l'alto ingegno (Felix
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qui potuit rerum cognoscere causas,...), ne subí il fàscino nella poesia della natura e persino in certe
intonazioni dell'Eneile. Nei poeti di poi, lirici, epici, elegiaci, è tutto un serpeggiare di linfa lucreziana; la
poesia ' naturalistica ' rimase impressionata profondamente dai suoi spiriti. Ovidio pronòstica l'eternità ai
carmtna sublimis Lucreti, Stazio ne ricorda il furor arduus e in piú punti delle sue opere si riferisce a lui;
Valerio Probo ne fissa il testo nella sua compàgine sostanziale, Velleio Patercolo lo pone tra i piú lodati poeti
dell'età cesariana, Quintiliano ne giudica il pensiero difficile ed ardito, Tacito nel Dialogus le oratoribus fa dire
ad Apro che ai suoi tempi si leggeva piú volentieri Lucrezio che Virgilio. Piú tardi, nel II secolo d. C., diventa
delizia degli arcaicizzanti frontoniani; lo stesso Frontone lo cita piú volte nel suo epistolario e non manca in
piú di un punto di parafrasarne il pensiero.
Poi il nome di Lucrezio entra nella tradizione letteraria con un'alterna vicenda di luci e di ombre; chi non lo
cita, non lo discute: lo accetta o lo rigetta per il suo contenuto morale e filosofico, ma lo rispetta ed ammira
come poeta. Cosí, in genere, nella letteratura cristiana: con Girolamo, che ne ricostruisce la vita, con
Lattanzio ed Arnòbio, che riferiscono allegoricamente a Gesú, salvatore del genere umano, quel che
Lucrezio aveva cantato di Epicúro (1).
II Medio Evo non conobbe direttamente Lucrezio; I'ultimo degli antichi che lo citi, e piú volte, è Isidoro di
Siviglia. Poi riappare nell'Umanesimo, con la scoperta del codice, nel 1417, ad opera di Poggio Bracciolini.
Da allora Lucrezio fu molto amato dagli Umanisti, che ne ammirarono l'alta ispirazione poetica, la tecnica
della versificazione, I'arditezza del contenuto: il Pontano, il Sanazzaro, il Poliziano, il Fracastoro e il Vida vi
attingono spunti poetici e splendore di immagini; cosí, come i poeti moderni, che maggiormente ebbero
affinità spirituali col poeta latino, quali il Leopardi e il Foscolo. La sua fama giganteggia oggi presso tutte le
civiltà moderne aperte agli splendori della poesia, dell'arte e del pensiero del mondo antico.
"Lucrezio¸ Tito Caro - Encarta"
Lucrezio Caro, Tito
1 INTRODUZIONE
Lucrezio Caro, Tito (98 ca. - 55 ca. a.C.), poeta latino. I pochi dati biografici sono tramandati da san
Gerolamo, al quale si deve anche la notizia della follia e del suicidio di Lucrezio, oggi perlopiù ritenuta
inattendibile.
2 IL DE RERUM NATURA
Il suo De rerum natura (Sulla natura) è un poema didascalico in sei libri (forse non finito) che espone le
dottrine di Epicuro riguardo al mondo e all'uomo. Secondo la fisica epicurea, che recupera le teorie
atomistiche di Leucippo e Democrito, l'universo vive del moto incessante degli atomi, che si aggregano e
disgregano originando una serie infinita di mondi e di composti materiali; l'anima non è un'entità incorporea,
ma anch'essa una combinazione fortuita di atomi che cessa di vivere insieme col corpo; il criterio di verità è
determinato dall’esperienza sensibile, intesa come fondamento del sapere e misura dell'attendibilità dei
processi conoscitivi; la morte non deve causare turbamento perché "non è nulla per noi", ponendo fine alle
sensazioni; tutti i fenomeni terreni hanno cause naturali e non conoscono intervento divino: gli dei non si
devono temere poiché non si preoccupano delle vicende umane. La paura del soprannaturale non ha quindi
alcun fondamento razionale.
1 Le fonti del poema
Tutta l'opera è un omaggio a Epicuro, che con le sue verità razionali illuminò l'animo dissolvendo le
superstizioni e la paura della morte e degli dei, e aiutandolo a raggiungere l'atarassia, cioè l'imperturbabilità,
che è il presupposto essenziale della felicità: l'uomo felice è colui che riconosce come canone dell'esistenza
il piacere, inteso come soppressione del dolore, soddisfazione dei bisogni naturali e limitazione dei desideri.
Per questo il proemio del De rerum natura si apre con un'invocazione a Venere, simbolo dell'amore e del
piacere cui tendono naturalmente tutti gli esseri viventi. Oltre a quella di Epicuro, si avverte nell'opera di
Lucrezio l'influenza di altre fonti: di Ennio, padre dell'epica latina, di Empedocle, del teatro greco e di
Tucidide, modello primario per il grandioso affresco della peste di Atene con cui si chiude il sesto libro. In
tutto il poema Lucrezio si mostra interessato al problema del linguaggio e, cosciente della carenza di termini
filosofici nella lingua latina, si impegna costantemente a chiarire il significato delle parole, anche le più
comuni.
2 La fortuna
Molto amato in età romana, il testo non ebbe fortuna nel Medioevo cristiano; rivalutato dagli umanisti per le
sue qualità poetiche, entrò nel pensiero filosofico moderno con i filosofi naturalisti italiani del Cinquecento
come Giordano Bruno, con i materialisti francesi del Seicento, con Giambattista Vico e con il sensismo nel
Settecento, trovando infine nuova fortuna nel positivismo ottocentesco e nelle più recenti dottrine che si
richiamano al materialismo storico.
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"Lucrezio¸ Tito Caro - Treccani",
Lucrezio Caro Tito (Titus Lucretius Carus). Poeta, il più grande esponente della corrente materialistica nella
letteratura latina. Si hanno di lui pochissime e incerte notizie. Alcuni suppongono sia nato a Roma, altri in
una cittadina del Tirreno, forse Pompei. I limiti della sua vita andrebbero posti tra il 99 e il 94 a.C. e il 55 e il
51.
S. Girolamo in un famoso passo della sua Chronica Eusebii afferma che L., impazzito per un filtro d'amore,
dopo avere scritto nei momenti lucidi alcuni libri che poi Cicerone emendò, si suicidò, nel 43° anno della sua
vita. Tale passo è probabilmente derivato dal De viris illustribus di Svetonio. Nella Vita Vergilii Donato scrive
che L. morì nel giorno in cui Virgilio prese la toga virile e che i consoli dell'anno erano gli stessi dell'anno di
nascita di Virgilio (cioè Licinio Crasso e G. Pompeo Magno consoli nel 70 e nel 55 a.C.). Cicerone in una
lettera al fratello Quinto, scritta nel febbraio del 54 a.C., dice: "I versi di L. sono come tu dici nella tua lettera:
essi mostrano numerosi tratti di genio e molta arte".
Poiché la storia del filtro è riportata solo da s. Girolamo, sorge il dubbio sulla sua attendibilità. Essa potrebbe
essere stata suggerita dal vigore con cui il poeta conduce l'analisi della passione amorosa, ma è probabile
che sia stata inventata dai nemici degli epicurei per screditare la maggiore personailità sorta nell'ambito della
loro corrente. Il suicidio trova migliore giustificazione nel quadro psicopatico di L., nel quale tragiche
esaltazioni si alternavano a generosi abbandoni. Non è da escludere tuttavia che la leggenda del suicidio
possa essere stata creata sulla confusione fra il nome di L. e quello di Lucullo: a quest'ultimo infatti (cfr.
Plutarco) si attribuì morte per suicidio in conseguenza di follia causata da un filtro amatorio. La scarsità di
notizie ci persuade comunque che L. non ebbe amici, condusse vita assai solitaria e trovò la sua migliore
compagnia nella dottrina filosofica epicurea, cui aveva dato entusiastica adesione e della quale rimane il più
autorevole sostenitore nella letteratura latina.
Il De rerum natura (La natura delle cose), poema di poco più di 7400 esametri, distribuiti in sei libri, è
dedicato a Gao Memmio, che fu pure amico di Catullo.
Il I libro ha inizio con un inno a Venere, nella quale non bisogna vedere la divinità dei mitografi, ma la natura
creatrice e animatrice dell'universo. Il simbolo tuttavia non soffoca il respiro della poesia e Venere resta una
creatura viva, nel grembo della quale si placano anche la durezza di Marte (cfr. i versi 34-38) e i mali che ne
derivano. Ma non è la guerra l'unico male: mali maggiori scaturiscono dalla superstizione (religio), contro cui
già si levò la voce vittoriosa di un uomo di Grecia, Epicuro. La successiva esposizione della teoria epicurea,
condotta con scientifica precisione, non limita la fantasia poetica di L. Esplode infatti improvvisamente la
visione della terra fecondata dalla pioggia, degli alberi fiorenti, delle messi ondeggianti, della prole del
gregge ruzzante nella molle erbetta dei prati. Alle immagini poetiche si alternano le affermazioni dottrinarie e
gli enunciati fisici: gli atomi sono invisibili e mobilissimi; dai loro incontri scaturisce la vita, dalla separazione
la morte.
Continua nel II libro la storia degli atomi. Essi sono eternamente mobili come le particelle di pulviscolo che si
muovono in un raggio di sole nell'ombra della chiusa stanza; sono anche infinitamente diversi, perché, se
fossero tutti eguali, darebbero origine ad esseri eguali, né i figli potrebbero riconoscere la madre, né la
madre i figli. Si apre uno squarcio di incanto virgiliano (vv. 352-366): un vitellino è sacrificato sull'altare e la
madre lo cerca per i prati e per le selve.
Nel III libro si rinnovano le lodi ad Epicuro, che con la sua dottrina ha fugato la superstizione dei "templi
acherontei" e il terrore della morte. Non bisogna temere ciò che è inevitabile: tutto è mortale, anche l'anima,
che è la capacità vegetativa dell'uomo, anche l'animus, che è il principio intellettivo. Stolto è chi si preoccupa
di quel che può capitare al suo corpo dopo la morte, più stolto chi crede ai supplizi infernali. Tantalo, Sisifo
ed altri grandi peccatori sono in mezzo a noi: l'al di là non esiste. Il poeta è convinto della grandezza del suo
canto. Nel IV libro egli afferma: "Io percorro gli inaccessibili luoghi delle Pieridi che nessuno mai calpestò: mi
accosto alle pure sorgenti e mi piace dissetarmi, mi piace cogliere fiori appena sbocciati e al capo farmene
ghirlanda che a nessun altro mai le Muse concessero". Dopo l'esposizione della teoria della percezione, L.
parla dell'amore con quegli accenti amari e sconsolati che diedero corpo alla storia del suicidio.
Altre lodi ad Epicuro sono fatte nel V libro, in cui L. riprende il tema della mortalità delle cose umane. Il
mondo venne fuori da circostanze esclusivamente fisiche e non dalla volontà degli dei, ancor meno
dall'amore che la divinità ebbe per gli uomini. Segue la storia del genere umano e dell'incivilimento, tutto
frutto del lavoro e del sacrificio dei mortali, che tuttavia non ne ottennero il dono della felicità.
Il libro VI riprende argomenti già trattati; il poema si chiude infine con una descrizione stupenda della peste di
Atene.
Da un esame anche superficiale dell'opera, appare ben chiaro che mancarono il tempo e la possibilità per
una revisione generale. Tuttavia la dottrina epicurea, a noi per altra via nota solo attraverso frammenti, vi si
trova completamente esposta e con eccezionale fascino e forza di suggestione. L. non conobbe solo
Epicuro. Egli ebbe una precisa conoscenza delle teorie fisiche dei presocratici e 
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