Domenica
La
di
DOMENICA 31 LUGLIO 2005
Repubblica
l’inchiesta
Gli altarini del dolore sulle vie dell’esodo
UMBERTO GALIMBERTI e MICHELE SMARGIASSI
il racconto
Gli scacchi e la Guerra Fredda
STEFANO BARTEZZAGHI e GIAMPAOLO VISETTI
Seimila chilometri in tre mesi,
un viaggio emozionante
dall’Italia al sepolcro di Cristo
La Gerusalemme
perduta
PAOLO RUMIZ
S
GERUSALEMME
cende la notte, quasi più nessuno tra le vecchie
mura. Solo ombre che passano in silenzio, monaci
incappucciati che sbucano da un’arcata per sparire in una laterale. Sulla “Via Dolorosa” un uomo
trascina una croce per penitenza, o forse per grazia ricevuta.
Lontano, il suono di un organo. Il resto è gatti che frugano nelle immondizie, botteghe sprangate, il grande sonno del suk.
Tacciono i muezzin e le campane. Tacciono gli ebrei, che non
fanno mai rumore. Di notte, passata l’orda dei turisti, la città
santa esce dal tempo.
Sul tetto del Sepolcro, sotto le stelle, neri monaci etiopi accendono candele accanto all’albero del pepe; uno di loro si assopisce, chiuso in una tunica nera, accanto a un libro nero e a un bastone nero. Di sotto, in un angolo della navata, un diacono greco
sale una scala ripidissima con un vassoio di focacce per la messa
di mezzanotte. Poco più a Nord, nel palazzo cinquecentesco della “Custodia di Terra Santa”, i frati di Santo Francesco russano nel
sotterraneo dove lo spagnolo Ignazio di Loyola, fondatore dei
Gesuiti, venne rinchiuso secoli fa (non dai turchi padroni, ma dai
cristiani, che videro in lui un esaltato attaccabrighe).
Fine del mese di luglio, anno 2005. Il viaggio è finito. Seimila
chilometri in due mesi, attraverso gli Appennini, i Balcani, la
Grecia, Istanbul, l’Anatolia fino ai confini dell’Iraq. E poi Siria,
Giordania, Israele. Un “Camino de Santiago” nella direzione
contraria, in cerca dei cristiani d’Oriente verso le terre dei minareti, tra ciò che resta di un passato millenario. Un pellegrinaggio attraverso mercati, biblioteche, deserti, templi, locande, rovine nel vento, metropoli. Un “ritorno” alle origini della
fede, col Vangelo, il Corano e la Torah intrecciati in un unico filo rosso fin dalla partenza a sorpresa, in mezzo alle Alpi.
le storie
* * *
Le immagini tornano. Le ultime città bianche a picco sulla
pianura piena di messi, là dove il Tigri esce dalle montagne. La
grande Luna mediterranea, ferma sopra un gigantesco ulivo
macedone, un patriarca più vecchio di Cristo e capace di dare
ancora frutto. Le notti del deserto, ardenti e piene di stelle. Un
sotterraneo di Milano pieno di enigmi. Un sigaro fumato con i
pastori, nelle praterie di Abramo. E l’alba dopo un temporale,
purissima, sul Monte Nebo, dove Mosé morì in vista della Terra Promessa. Mi chiedo se saprò raccontare tutto questo.
(segue nelle pagine successive)
cultura
Spagna, il concorso di miss Dulcinea
CONCITA DE GREGORIO
i luoghi
Bergen, la musica del Grande Nord
SANDRO VIOLA
Roosevelt e la brigata delle spie gay
ATTILIO BOLZONI e TANO GULLO
le tendenze
In vacanza con l’hi-tech tascabile
ALESSANDRA RETICO e MICHELE SERRA
FOTO MONIKA BULAJ
Repubblica Nazionale 21 31/07/2005
in cerca dei cristiani d’Oriente
sperduti tra mille minareti
Comincia qui un racconto
che sulle pagine di Repubblica
continuerà per tutto agosto
22 LA DOMENICA DI REPUBBLICA
la copertina
Gerusalemme perduta
DOMENICA 31 LUGLIO 2005
Comincia oggi e proseguirà per tutto il mese di agosto
sulle pagine di “Repubblica” il racconto
di uno straordinario cammino verso la Terra Santa,
un’esplorazione della geografia del sacro,
un ritorno alle origini della fede dove Vangelo,
Corano e Torah si intrecciano in un unico filo rosso
Viaggio alle frontiere
dei cristiani d’Oriente
PAOLO RUMIZ
(segue dalla copertina)
ltre ombre vanno verso il
Sepolcro, si assiepano attorno alla tomba. Un monaco palestinese dalla barba e codino grigio-ferro le
smista energicamente,
quasi brutalmente. Poco in là, sotto un
lampadario, suore ucraine vestite di nero
si buttano a terra come fagotti, mentre
pope, archimandriti e diaconi escono da
una nube d’incenso per varcare un tramezzo tappezzato di sacre immagini. «La
vita è nella tomba», sussurra ghignando il
vescovo greco Theofilos, per spiegare a
me, misero cristiano d’Occidente, che il
mistero è tutto in quelle reliquie.
Niente in questo viaggio ha rispettato le
previsioni. Ero diretto al Monte Athos, roccaforte maschile della fede, e poi ho bussato ai monasteri delle femmine sui monti della Grecia. Ho seguito donne sciite nella moschea di Damasco, e le ho viste genuflettersi
davanti a un minareto dedicato a Cristo. In
Kosovo, in mezzo all’odio, ho trovato l’oasi di
pace più straordinaria del viaggio. Con un eremita ho pregato per la pioggia, ed è arrivata la
neve, benedetta dopo anni di sete. E il mattino
dopo, in fondo a un deserto color senape, è apparso il Monte Libano, immacolato come la cordigliera delle Ande.
Il mondo è sconvolto dal terrore. Eppure, quante crepe nello scontro di civiltà. Ragazze in chador
che chiedono la fertilità alla Madonna. Musulmani
che bevono vino. Ebrei che cantano canzoni dell’Islam. Cristiani che si prostrano fronte a terra e sedere per aria, come i seguaci di Maometto. Rabbini rumeni nerovestiti come i preti ortodossi, islamici che
non costruiscono minareti e altri che ti parlano degli
ebrei come dei cugini partiti.
In Turchia, durante una partita di calcio, ho sentito
bambini litigare in aramaico, la lingua del Nazareno. In
Grecia, ho visto sgozzare un toro in onore delle sante icone. E poi altari che un tempo erano sacri mattatoi, storie
sugli adoratori del diavolo ai confini dell’Iraq, gli ultimi
fuochi di Zoroastro. Qui a Gerusalemme ho giocato a briscola e bevuto anisette con un’allegra brigata di francescani. E ovunque ho trovato la sorpresa di una birra. Anche ai margini del grande mare astemio dell’Islam.
Repubblica Nazionale 22 31/07/2005
A
* * *
Eppure m’avevano avvertito. Specie un frate, una sera,
sul mare di Venezia. «Impara in fretta — disse — la geografia del sacro non c’entra con la religione. La religione è
regola, apparato. Il sacro è altro... misterium tremendum... nostalgia di un’assenza… Ti sorprende dove non te
l’aspetti. In una chiesa o in una sinagoga diroccata, in un
mendicante che ti guarda, sulla cima di un monte. Il sacro
è un fiume sotterraneo… ignora confini e conflitti. Chiamalo dio, se vuoi. Ti sarà sempre vicino, lo scrive anche il
Corano. Come la tua vena giugulare».
Il frate aveva ragione. Nulla è rimasto negli schemi. Più
andavo a Oriente, più mi allontanavo da Roma, più il cristianesimo diventava minoritario e privo di potere temporale, e più il suo insegnamento risplendeva. Le chiese più
piene della mia vita le ho viste ad Aleppo, nella repubblica
islamica di Siria. Le più vuote, nella laicissima Turchia. E il
posto più impenetrabile non è stata la sinagoga di Istanbul
o la moschea di Damasco, ma il Vaticano.
I mezzi di trasporto, corsari anche quelli. Un camion guidato da un turco pazzo per la Luna, sua segreta Dea Madre. Pescherecci greci che portavano vettovaglie all’isola abitata da
un unico monaco, reso barbaro dalla solitudine. Un uomo
che andava a pieni dalla Francia a Gerusalemme, in cerca della moglie morta. E, ancora, un treno italiano pieno di slave che
cantavano inni stupendi al Signore. E poi le attese. Il treno per
Bagdad che non partiva. Le ore in piedi davanti a una poliziotta israeliana adolescente che masticava chewing gum e
sfogliava il mio passaporto, senza guardarmi negli occhi.
* * *
La notte rinfresca, è l’ora dei pipistrelli, arriva la brezza dal
Giordano, mille metri sotto il Monte degli Ulivi. È dolce l’aria di Gerusalemme, pare velluto. Una processione disegna
ombre enormi davanti a un lampione, se ne va con le sue litanie, si lascia dietro solo l’eco del «Saecula saeculorum». Ho
gli occhi pieni di ori, ceri accesi, splendidi riti, icone uscite
da sonni millenari. E poi quei pellegrini russi, capaci di tracciare rotondi arcobaleni col semplice segno della croce, come contadini nel gesto largo della semina.
Ma è uno splendore che inganna. Quegli ori mentono: non
dicono che il cristianesimo è in pericolo. A Istanbul i greci sono scesi da trecentomila a cinquemila. Ho visto il loro patriarca, Bartolomeo, chino sulla sua scrivania, solo sotto il ritratto
di Ataturk, assediato da mille minareti che si chiamavano nella sera. A Est di Istanbul il vuoto turco è ancora più tremendo.
I cristiani che un secolo fa erano milioni, oggi sono poche famiglie disperse. Così poche che un giorno ho creduto di essere uno zoologo pazzo, alla ricerca di una specie estinta.
Sul magico altopiano di Tur Abdin, il Monte degli Adoratori, punto più orientale dell’itinerario, ho trovato un villaggio con cinquanta cristiani dimenticati dal mondo, discendenti dei pochi sopravvissuti alla mattanza del 1915. Con lo-
LA DOMENICA DI REPUBBLICA 23
DIARIO
DI VIAGGIO
Questo articolo
racconta la meta
finale del viaggio
di Paolo Rumiz
tra i cristiani
d’Oriente: Gerusalemme. Le tappe
di avvicinamento saranno narrate
da domani a puntate nelle pagine
di cronaca, illustrate con le foto di
Monika Bulaj. Qualche cifra: 6250 i km
coperti; 9 i paesi attraversati, Italia,
Montenegro, Serbia, Macedonia, Grecia,
Turchia, Siria, Giordania, Israele; 39
i giorni effettivi di viaggio, divisi in tre
periodi, tra il 23 aprile e il 30 luglio.
Qui accanto, il logo del reportage
disegnato da Francesco Tullio-Altan
FOTO MONIKA BULAJ
ILLUSTRAZIONE DI DESIDERIO
DOMENICA 31 LUGLIO 2005
ro, un unico ringhioso monaco, asserragliato in un eremo,
che urlava ai fedeli come un pastore alle pecore, armato di
bastone e vestito di nero come mago Merlino.
Qua e là si restaura una chiesa, arriva una donazione, la
speranza rinasce. Ad Antiochia, un francescano ha rimesso
in piedi la comunità in pieno accordo con ortodossi, musulmani, ebrei. Qualche armeno anziano ritorna. Tra Mar Nero e Mediterraneo, un vecchio prete indomito di nome Roberto fa centomila chilometri l’anno per dir messa e tenere
in vita le ultime chiese rimaste nella più lontana Anatolia.
Ma è una corsa in salita. In Kosovo i monaci sopravvivono
solo grazie a una barriera di blindati italiani. In Israele, la tensione tra ebrei e musulmani schiaccia proprio chi non c’entra, le genti di Cristo. «Non c’è ostilità contro di noi — ti dicono queste — ma non c’è futuro. Viviamo in un Paese sigillato. I giovani se ne vanno. Niente lavoro, niente matrimoni.
Siamo sempre di meno». Sembra impossibile che accada
proprio dove il cristianesimo ha scritto la sua leggenda.
* * *
Che notte. Le stelle fanno una curva lunga sulla Moschea
della roccia, luogo santissimo dell’Islam, del Giudaismo e
della Cristianità, e l’ombra della cupola pare un’astronave
persa nelle galassie. Nel quartiere musulmano la civetta ripete il suo grido metallico, quasi ultraterreno. Nella cattedrale
di San Giacomo si alza un canto veloce, tenebroso, inconfondibile. Sono gli armeni, in fuga da millenni col Libro sotto
braccio. Pregano come soldati, mentre la Luna penetra dal lucernario e taglia con un raggio blu l’aria piena d’incenso.
La minaccia dell’Islam? C’è dell’altro. Il nazionalismo, per
cominciare. Nel 2004, un centinaio di chiese serbe in Kosovo sono state date alle fiamme da albanesi (musulmani ma
anche cattolici) impregnati di filo-americanismo e coccolati dalla Nato. Un secolo fa, i bulgari ortodossi hanno distrutto i monasteri greci del Nord con più ferocia degli ottomani.
E i turchi hanno massacrato greci, armeni e siriaci solo durante l’agonia dell’impero, quando Ataturk si avviava a bandire alfabeto arabo, velo e barbe, mettendo in riga gli imam.
E poi, l’indifferenza. In Cappadocia i visitatori europei arrostiscono spiedini nelle chiese rupestri senza nemmeno
chiedersi come mai, in una terra intrisa di storia cristiana, non
ci sia più un solo cristiano. Non un siriaco, un armeno, un greco. Come se tutto fosse finito da ottanta secoli, non da ottant’anni. E qui a Gerusalemme, guardando turisti in bermuda parlare al telefonino davanti alla tomba di Cristo come fossero a Disneyland, ho pensato al tramonto dell’Occidente.
Incredibilmente, in questo disastro, i cristiani hanno tempo per farsi la guerra. Persino nel Sepolcro, è uno scontro di
processioni e cori; uno strepito che solo l’organo cattolico
sa far tacere, sparando la cannonata finale. «Una volta era
peggio — scherza Michele Piccirillo, mitico francescano
scopritore dei più bei mosaici di Terrasanta — i cattolici
buttavano pepe in polvere dalle balaustre sui greci che
cantavano di sotto, per farli starnutire».
La ruggine è così antica che, per evitare risse, le chiavi del tempio sono da secoli in mano a un musulmano.
Siamo divisi in ventidue confessioni. Ebbene, persino in ciascuna esse regna la discordia. Tutte ballano
sull’abisso. I russi si sbranano fra anticomunisti e
non, si lanciano accuse di furto, corruzione, droga.
Le lobby cattoliche si fanno guerra per i miliardi
del turismo religioso. I greci hanno quasi linciato il loro patriarca che aveva venduto agli ebrei
terreni nella città vecchia. Gerusalemme può
essere una gabbia di folli.
RITO NOTTURNO
Nella mappa, il percorso seguito
dal nostro inviato Paolo Rumiz
dall’Italia a Gerusalemme.
Nelle foto in alto, una fedele
e un monaco etiopi durante un rito
notturno nel Santo Sepolcro
* * *
Ma ora dormono tutti: i russi, i siriaci,
i drusi, i maroniti, i copti. Dorme l’ebreo hassid Gideon Lewensohn, dopo
essersi tolto il cappello di pelliccia,
aver recitato le ultime preghiere, e
messo a letto cinque dei suoi otto
figli. Dorme Awni Amarneh, vecchio custode musulmano di una
sinagoga, pure lui padre di otto
figli, che ogni giorno traversa
paziente il check point per fare il suo lavoro. Dorme di sonno inquieto Ibrahim Igbaria,
cristiano di rito greco della
Capitale, che ha sposato
una donna di Ramallah ma
non può farla abitare in casa sua, perché la legge rende quasi impossibile l’immigrazione dai Territori.
Un’ultima birra sulla terrazza dell’hotel Mishkenot,
davanti alle stelle del Monte Sion.
Tutto si ricompone, in fondo al labirinto. Le bombe sull’Iraq, le Torri Gemelle, l’incendio balcanico, il crollo
del Muro. Qui è la matassa che riannoda i fili trovati sui monti della Cappadocia e nei manoscritti della Biblioteca Ambrosiana a Milano; nei monasteri dei Balcani, sull’isola degli
Armeni a Venezia o sulla tomba di Schindler, qui vicino, verso la valle di Josafath.
Ho in mano un “komboloi”, un piccolo rosario a palline
nere di maiolica, regalato da un greco a Salonicco. Solo stanotte ho imparato a farlo volare nel modo giusto tra le dita.
Sempre stanotte, m’accorgo che questo viaggio non è durato due mesi, ma anni. La spinta gliel’ha data la morte di un
grande Papa, ma tutto è cominciato molto tempo prima. Ha
un’incubazione lunga la febbre di Gerusalemme. È una malattia che ti mangia, cresce per contagio, si nutre di incontri,
letture, coincidenze, sogni. E ora, che la storia cominci.
24 LA DOMENICA DI REPUBBLICA
DOMENICA 31 LUGLIO 2005
l’inchiesta
Sono piccole lapidi, tempietti bonsai, più spesso fiori
di plastica o mazzolini appassiti: cimiterini in trasferta
lungo i bordi di una via crucis d’asfalto che in Italia
produce seimila morti all’anno. “Fiori di rabbia, sovversivi
e anarchici”, dicono gli esperti, “stille di sofferenza
pura che si ribellano alla liturgia della consolazione”
Riti postmoderni
L’esodo e gli altarini del dolore
MICHELE SMARGIASSI
ome fiori recisi dal
turbine». Congelati nei quattro ovali
di ceramica Paolina, Domenico, Tonino, Maria guardano senza vedere, con espressione sperduta. Forse era solo la soggezione per il fotografo che nel 1925, in campagna, era
ancora uno stregone. Ma in questi quattro sguardi di bambini senza sorriso viene da leggere la premonizione di un terrore. Fecero forse in tempo a vederlo davvero in faccia, all’ora di pranzo di un giorno lontano, il 16 gennaio di ottant’anni fa,
allorché, «tornanti dalla scuola», la scuolina rurale che è ancora in piedi (fortunata lei) di là dalla statale Tosco-Romagnola, «ebbero spezzata la vita da irruente autocarro». Incisa sulla pietra grigia, la prosa epigrafica (dettata, è dolce pensare, dal
maestro in lacrime) riesce ancora a commuovere. Fu «la pietà della gente» a edificare questo tempietto «sul ciglio lagrimato»: fecero una colletta onerosa, i contadini di San Varano, pugno di casette alle
porte di Forlì, per tirare su quattro croci di
cemento su cui poggia una cupola a coprire dalla pioggia una Pietà dolente.
Ma i fiori nei vasi non ci sono più: non
«recisi dal turbine», ma dall’indifferenza.
Nei quattro candelieri, rimasugli di cera
sudicia e indurita. Erbacce sgretolano
l’antica compassione. Le auto che filano
sulla statale neppure immaginano di
sfiorare uno dei più antichi monumenti
alle vittime del traffico motorizzato. «Il
comune manda qualcuno a pulire solo
prima dei Morti», informa il cantoniere
che abita la casetta rossa proprio di fronte. La «pietà della gente» è biodegradabile, ma anche mutante. Oggi, se un altro
«irruente autocarro» maciulla i passanti,
nessun paese chiama più i muratori.
Fonda piuttosto un comitato per la tangenziale, raccoglie firme e fa un sit-in davanti alla prefettura. Fa politica.
E la politica non ama il lutto collettivo.
Lo sbriga in fretta, se ne libera con esequie in piazza, autorità tricolorate, retorica del cordoglio, poi passa ad altro. Il
dolore, lo strazio, ricascano giù, patrimonio privato di genitori piegati e figli inconsolabili. Lo vogliono i numeri: seimila morti all’anno sull’asfalto è il bollettino di una guerra, non il copione di una
tragedia classica. Ai buoni contadini di
San Varano, che pure avevano gli occhi
ancora umidi per i loro morti ammazzati in divisa nel gran macello bellico, quei
quattro piccoli caduti civili in grembiulino potevano ancora apparire gli angeli di
un’assurda catastrofe senza paragoni.
Oggi è materia per un’edizione di telegiornale, poi via nell’archivio delle tabelle Istat. È forse pensabile costruire seimila tempietti nuovi ogni anno?
Repubblica Nazionale 24 31/07/2005
«C
Niente nomi né date
Eppure sì, ci sono. Bisogna cercarli bene:
la scaramanzia li rende invisibili. Ma ci sono, sono migliaia, e disegnano una toponomastica segreta del lutto. Abbarbicati a
un segnale stradale, tra un «vendita pesche» e un «oggi sposi», agganciati a un
paracarro, appesi a un guard-rail: pochissimi sono di pietra e marmo, quasi
sempre si tratta di semplici fiori, freschi o
finti, avvolti nel cellophane, legati alla meglio, ogni mazzetto diverso, tutti uguali.
Nei settecento chilometri di pellegrinaggio sul confine (della carreggiata e della vita) che parte e tornerà ai piedi di questo
tempietto dimenticato ci farò l’abitudine
e l’occhio. Li scoprirò familiari, modesti,
silenziosi, persino affettuosi compagni di
viaggio. Muti, tuttavia. Niente epigrafi,
neppure un nome, una data. I primi che
incontro li frugo con le dita, reprimendo
un senso di sacrilegio, in cerca d’un biglietto, d’un cartellino, ma niente: rifiutano di parlare. Meldola, sulla funesta statale Bidentina: gli steli secchi dicono di
una tragedia trascorsa da tempo, ma chi
era? Giovane, vecchio, bambino? Diegaro di Cesena, via Emilia: qui i gigli sono
quasi freschi, ma l’unico vago indizio d’identità è una Camel infilata tra le foglie:
era un ragazzo che giocava a fare il grande? O un anziano fumatore?
È inutile: non lo vogliono dire. Non è a
me, viandante, estraneo, che si rivolgono
gli altarini delle banchine. Se proprio cerco moniti e conforti devo bussare ad altre
porte, quelle dei tabernacoli ufficiali.
«Memento quia pulvis» mi avverte per
esempio dalla sua edicoletta un san Cristoforo a Ronco di Forlì. I santi pattugliano gli incroci: luoghi sospetti ben prima
del traffico motorizzato, teatro di incontri
misteriosi, temuti fin dall’era pagana, frequentati da diavoli campagnoli, dunque
da presidiare e benedire. Ma nell’epoca
degli ottani ruggenti il diavolo s’è trasferito sui rettilinei, magari chiusi da curvacce
maledette. È sul bordo dei drittoni, lungo
i nervi d’asfalto tesi come corde di violino,
dove i cuori salgono di giri in concerto coi
pistoni, che fioriscono i tabernacoli irregolari, ufficiosi, laconici di una disperazione privatissima. Non ti invitano a sostare: spesso non c’è neppure il posto per
farlo. Non amano compagnia: sulla statale Gardesana li vedrò avvicinati solo da
giovani prostitute africane in attesa di
clienti e da vecchi ciclisti prostatici che si
fermano a spandere un po’ d’acqua.
E soprattutto non chiedono nulla,
neanche una preghiera. Anche le croci
sono rarissime. Fiori e basta. I fiori sono
frammenti di natura senza cultura. È senza storia il marchio che lo strazio degli
amici e dei parenti lascia sulla crosta del
mondo motorizzato. Nella quarta epoca
del lutto, che Philippe Ariés chiamò l’era
della «morte capovolta», negata, addomesticata, la fatalità incontrollabile di un
incidente stradale apre una breccia verso il passato remoto. I segni depositati
qua e là dal dolore sono irruzioni ataviche
nella modernità, icone pagane che servono a consacrare un luogo speciale e
unico: «Il luogo dove tutte le tue speran-
Il marchio
che lo strazio
degli amici
e dei familiari
lascia sui guard-rail
è quasi sempre
senza parole:
non chiede
soste né preghiere
“Segna solo il luogo spiega un padre dove tutte le tue
speranze sono finite”
ze sono finite», mi spiega un padre di Brescia, Roberto Merli, davanti al mazzolino
sempre fresco per suo figlio Alessandro,
volato via in moto a Villa Larcina che aveva solo quattordici anni.
I fiori normalmente si portano al cimitero: e allora sono normalizzati, accettati, sterilizzati nel rito. Ma i mazzolini dei
guard-rail sono fiori di rabbia, sovversivi, anarchici. Sono stille di dolore puro,
che si ribella alla liturgia della consolazione. Sono il lutto che non si lascia metabolizzare dal conforto della comunità.
L’insensatezza di fiori di stoffa piantati
nella terra sul ciglio della statale Adriatica, all’altezza di Cervia, mi fa vacillare.
Chiedo consulenza telefonica al professor Francesco Campione, psicologo del
lutto o meglio “tanatologo”, che ha accettato di farmi da Virgilio a distanza nella selva oscura del compianto stradale.
«Chi li ha messi lì non crede più al cimitero, né ai riti collettivi», spiega. «Siamo riusciti a rimuovere la morte naturale e quella per malattia: ma la morte violenta no,
quella ci ricorda ancora implacabile che
la vita finisce, e non la sopportiamo». È
vero, nessuno appende mazzi di fiori ai
letti dei reparti terminali di oncologia,
dove i funzionari della buona morte ci li-
Un segno per trattenere l’ultimo istante di vita
UMBERTO GALIMBERTI
a morte è unica e irripetibile. Per questo forse
vuole un segno unico e irripetibile. Quasi un
riscatto dalla vita anonima e collettiva a cui il
nostro modo di vivere ogni giorno ci costringe. Anche nella sepoltura, a giudicare dalla forma che i
nostri cimiteri vanno assumendo. Condomini di
bare. Una a fianco all’altra e sopra l’altra, che solo
la successione dei numeri riesce a individuare.
Sarà per sfuggire a questo anonimato che così
di frequente, sul ciglio delle strade, ci capita di
vedere segni di memoria, dove fiori, ora appassiti ora rinnovati, accolgono preghiere scritte su
pezzi di carta che il tempo spezza, scolora e ingiallisce, insieme a tutte quelle parole d’amore
che in vita non sono mai state pronunciate per la
paura di doversele un giorno rimangiare. La morte ci libera da quel giorno e rende il nostro cuore
finalmente sincero.
Libero anche dal cordoglio collettivo, dove non
tutte le presenze sono vere, perché accanto al dolore che getta nella più insulsa insignificanza la sopravvivenza di chi resta, ci sono presenze di convenienza, condoglianze preformate nelle parole e
nei gesti, abbracci muti che non sanno che dire, riti religiosi che ripetono se stessi cambiando solo il
«nome proprio» in preghiere consumate che alcuni recitano perché anche in quelle circostanze
qualcosa bisogna dire. Finché la sepoltura non pone fine alla recitazione collettiva, per lasciare il dolore alla sua solitudine e alla sua ideazione.
E tra le ideazioni del dolore c’è quel riandare
della memoria a quell’ultimo istante di vita dove
l’incidente, la casualità, la sorte, hanno interrotto un’esistenza lasciando il suo senso incompiuto. E se il tempo più non ritorna, lo spazio permane, anzi il luogo, «quel» luogo, dove il ritornarvi
per un fiore o per un messaggio dà l’idea della
continuità di una vita resa possibile dalla ripetizione di un gesto di fedeltà.
Non in un cimitero dove il corpo è sepolto e dove la morte sembra definitiva nell’anonima successione delle sepolture, ma sul ciglio di quella via,
L
quasi per trattenere l’ultimo istante di vita, fissarlo in un cippo, riempirlo di fiori e di messaggi, perché solo la vita raccolta in quel luogo, dove per l’ultima volta c’era, sa contaminare il dolore con la
consolazione, l’assurdità con l’accettazione, il gesto fugace di chi porta un fiore col senso della vita
che è gesto fugace.
Moriamo tutti in un letto, di casa o di ospedale,
stanchi e i più fortunati sazi della vita, ma chi muore per strada interrompendo la vita raccoglie troppa simbolica e troppa verità intorno a sé. Dice a tutti che la vita è un breve cammino che casualmente
incomincia e casualmente si interrompe. E in mezzo a queste due casualità c’è quella ricerca di senso senza la quale la vita è invivibile, anche se vive in
vista della morte che è l’implosione di ogni senso.
Qui gli antichi greci avevano colto l’essenza del tragico come condizione ineludibile dell’esistenza
che le vite spezzate ben rappresentano nell’insensatezza della loro fine, senza neppure il supporto
della consunzione biologica.
Ed è per significare quest’essenza del tragico
che le vite spezzate non possono essere sepolte in
luoghi collettivi, onorati non dalla memoria, ma
dalla sua ritualità. Esse chiedono una riflessione
più forte che non è tanto un invito alla prudenza,
quanto una presa di coscienza della precarietà
dell’esistenza, quel suo esserci oggi e il non esserci più domani che, guadagnata in vita, eviterebbe
quei gesti di tracotanza e sopraffazione che gli antichi greci temevano più del dolore perché, se il
dolore affligge, la tracotanza e la sopraffazione
mortificano e uccidono.
Onoriamo allora ogni cippo di vita spezzata che
incontriamo ai bordi delle nostre strade. A differenza delle tombe allineate nei cimiteri, essi non
dicono solo che dobbiamo morire, ma che la vita,
al di là della nostra costruzione di senso, è sempre
un cammino inconcluso, un filo interrotto in quella trama innocente e crudele tessuta dall’insensatezza, che ogni vita a volte fiancheggia e nei momenti di verità conosce e assapora.
berano dal peso del distacco. È il trapasso selvaggio, asociale, che ghermisce come una belva, quello impossibile da
esorcizzare con una tomba, una lapide,
un lumino rosso. A San Mauro Pascoli
m’imbatto in una strana associazione di
familiari di vittime: si chiama Pu. Ri. e organizza alternativamente seminari sulla
sicurezza stradale e convegni sulla «vita
oltre la vita», con tanto di medium. «Dopo certi traumi si impara a non dare nulla per scontato, neanche la ragione», dice
il presidente Giuseppe Raduano.
Perfino chi non se la sente di rinunciare ai lenitivi culturali dell’angoscia, ai parafernalia tradizionali della sepoltura, di
fronte alla sciagura impensabile li ruba al
camposanto e li porta fuori: cimiterini in
trasferta. La statale Romea, tra Ravenna e
Ferrara, è forse la più nera delle strade nere: tre incidenti per chilometro ogni anno. Dolore stratificato su dolore, il bordo
della carreggiata ormai è una Via Crucis.
Qui trovi i rarissimi monumentini, i sacelli, le statue, le lapidi coi nomi. Una miniatura del David di Donatello per Fabio
Arveda, diciottenne. Una casetta di marmo di Carrara per Giuseppe Petitto, ventiquattrenne. Un cenotafio vero e proprio, ma issato su incongrue gambe di
metallo, per Stefano Morselli, «innocente vittima di disastro stradale» nel già lontano 11 agosto 1975, «a poche settimane
dalla conseguita maturità scientifica»:
angoscia di un avvenire appena iniziato
e subito stracciato.
I peluche-ricordo
Questo strazio “parlante” è meno aspro,
quasi rassicura, perché la ragione dei vivi lo comprende. Ma il grido silenzioso
dei fiori anonimi, che senso ha? A Faenza, davanti a un pelucheaffogato tra i gladioli, credo di intuire un gioco dolente,
un messaggio cifrato, un indovinello: era
una bambina (il fiocco è rosa). Altrove un
berretto, una sciarpa del Milan sembrano proposti come codici da decifrare. A
Buttapietra di Verona un fascio di rose
bianche aggrappate al palo di un segnale
“attenzione, pista ciclabile” pare la frase
di un rebus dalla soluzione fin troppo facile. L’Italia degli altarini forse è un enorme mass medium, un’anomala pubblicità-progresso, un’autogestita campagna collettiva per la sicurezza stradale
che ha inventato la sua segnaletica potentemente emotiva e tremendamente
diretta. Perché scegliere così spesso fiori
di stoffa o di plastica, se non per garantire maggior durata al messaggio? Viceversa, l’appassire dei fiori freschi non è, da
sempre, il miglior memento mori?
No, non è così. Troppi i rebus che non
si lasciano sciogliere. «Sei fuori strada»,
mi avverte al telefono Campione, «Non
c’è nessun messaggio. Quelle che vedi sono solo variazioni su un unico tema: il dolore è mio, solo mio; tu che passi puoi intuire, ma non potrai mai capire». Ma allora è un’intera civiltà del lutto che finisce
fuori strada tra i mazzolini innocenti. Non
è regressione atavica, è indizio di disperata modernità. È la fine di ogni condivisione sociale della perdita, è l’esclusione della tribù dal dolore individuale, è la privatizzazione al nero. Un sociologo francese,
Michel Maffesoli, lo chiama «bricolage
del lutto». Del resto la sua Francia è già
avanti nello scisma tra doveri collettivi e
dolori privati: lungo le routes nationauxlo
Stato sta piantando tremende silouhettes
di cadaveri e cartelli feroci: «In questa curva, l’anno scorso, otto morti!». Cartelli
spietati, perché il pubblico rivendica il
monopolio del monito, lasciando volentieri al singolo quello della pietà.
I due mondi si ignorano. Appendere
fiori, oggetti e targhe sulla pubblica via è
proibito dalle leggi di pubblica sicurezza:
ma chi ha il coraggio di toglierli? La polstrada chiude un occhio, soltanto il tempo (o l’inconsapevole cinismo di un cantiere dell’Anas) li smantella. L’assassina
Transpolesana, Rovigo-Verona, è stata
«messa in sicurezza» di recente, i lucenti
guard-rail sono vergini di fiori. Per quanto ancora? Gli altarini del dolore muto sono come la ruggine, misurano il passare
del tempo. Ma a profitto di chi? A Brescia
piego verso sud, per Manerbio, trenta chilometri di linea retta, gioia e calvario dei
motociclisti. A un bivio, sullo spartitraffico, il mazzolino di fiori ha un lumino rosso a pile sempre acceso. Lo spostamento
d’aria dei Tir lo fa sbatacchiare. Sfreccia
anche un carro funebre: ha lo stesso colore, la stessa aerodinamica delle auto su
cui il suo passeggero viaggiò quand’era
vivo. Anche molte ambulanze ormai sono più spiderche furgoni. Si imitano fra loro i segni della civiltà nomade, col suo culto per la velocità. Nulla a che vedere con
l’immobilità silenziosa dei mazzolini, vestali sulla soglia di un altro mondo.
DOMENICA 31 LUGLIO 2005
LA DOMENICA DI REPUBBLICA 25
Repubblica Nazionale 25 31/07/2005
MIGLIAIA DI CROCI
In queste pagine, le foto di alcuni degli “altarini”
incontrati dal nostro inviato lungo i 700 chilometri
di strada percorsi per l’inchiesta. In Italia ogni anno
sono più di seimila, circa 17 al giorno, le persone
che perdono la vita in incidenti stradali
La maggior parte delle vittime ha un’età compresa
fra i 21 ed i 29 anni
26 LA DOMENICA DI REPUBBLICA
DOMENICA 31 LUGLIO 2005
il racconto
Scacchi e politica
Ecco come il gioco prediletto dai capi
della rivoluzione sovietica è diventato
metafora del confronto Usa-Urss
Una fortuna per i gran maestri
ma forse una fortuna più grande
per gli strateghi dell’equilibrio del terrore
Re, regina e alfiere
alla Guerra Fredda
allo? Qui è il peggiore
giocatore al mondo
che vuole parlare con
il migliore...». Al telefono era Henry Kissinger, nel 1972, e
chiamava a Reykjavik il maestro di scacchi
americano Bobby Fischer, per convincerlo
ad affrontare il campione del mondo, il russo
Boris Spassky. Cronache recenti confermano che Fischer è tuttora dotato di una personalità molto disturbata. Arrivato con pazienza e fatica a ottenere il diritto di disputare il titolo di campione del mondo a
Spassky, Fischer si era impuntato: accusava i sovietici di
slealtà, e pareva non aver alcuna intenzione di mettersi alla
scacchiera per il match decisivo. Si convinse dopo due eventi: il raddoppio della borsa prevista per il vincitore (da 125mila a 250mila dollari dell’epoca)
e, appunto, la telefonata del
consigliere di Nixon. Non sappiamo quale dei due eventi
contò di più nella decisione finale. Fischer giocò: dopo un
inizio a dir poco incerto, in cui
commise errori da giocatore
mediocre, si riprese e vinse
quasi agevolmente.
Per essere il peggiore giocatore del mondo, Kissinger aveva mosso bene i suoi pedoni. Oggi siamo abituati a governanti che esibiscono le proprie passioni
sportive: allora il caso era più raro, ed è lecito dubitare che Kissinger prese il telefono in
mano per un personale interesse al gioco
delle sessantaquattro caselle. Era invece
ovviamente conscio del ruolo che poteva
giocare l’eventuale vittoria di Fischer sull’altra scacchiera, quella su cui lo stesso Kissinger era certamente uno dei massimi
maestri mondiali: la scacchiera (o “lo scacchiere”) della Guerra Fredda.
«Tu giochi alla guerra, io gioco agli scacchi»: così, e in yiddish, durante l’occupazione tedesca della Polonia nel corso della prima guerra mondiale, il campione polacco
Reshevsky avrebbe liquidato il comandante tedesco, che aveva voluto disputare un
incontro con lui, e aveva perso. Gli scacchi
sono già di per sé una guerra. L’araldica dei
pezzi ritrae un esercito, insieme assediante
e assediato: la fanteria che avanza piano, la
cavalleria che scarta di lato, i portabandiera che attraversano il campo in diagonale
(ma in inglese il nostro alfiere è un vescovo,
bishop, e in francese un matto, fou), i torrioni di rinforzo ai lati e i potenti che si spartiscono il ruolo attivo e offensivo della regina
e quello passivo e difensivo del re.
Può venire però il dubbio che gli scacchi
abbiano rappresentato una guerra in particolare: la Guerra Fredda fra Stati Uniti e Unione Sovietica. Sempre circolata almeno in forma di suggestione, l’ipotesi ha particolarmente appassionato un giornalista culturale
inglese, Daniel Johnson, che ha già annunciato per l’anno prossimo un suo libro sull’argomento, dal titolo Il Re bianco e la Regina
rossa, e ne ha anticipato parte dei contenuti
in un saggio pubblicato dal mensile Prospect.
Di remotissime origini orientali, il gioco
degli scacchi arrivò in Europa attorno all’ottavo secolo dopo Cristo: ma esordì nel
mondo dello spettacolo solo a metà dell’Ottocento, con i primi tornei pubblici. Nel Novecento gli scacchi cambiarono natura. Incontrarono le avanguardie storiche e la cultura del secolo, sul piano iconologico e simbolico (la scacchiera come superficie di
scorrimento, piano senza profondità, metafora utile per tutte le teorie del linguaggio,
da Saussure a Deleuze), e non solo: Marcel
Repubblica Nazionale 26 31/07/2005
«H
Una telefonata
di Kissinger spianò
la strada allo storico
match di Reykjavik
tra Bobby Fischer
e Boris Spassky
nalisti, possibilità di viaggi all’estero, ma anche puniti con severità dopo le sconfitte (capitò, dopo il match con Fischer, anche a
Spassky, che riuscì poi a espatriare ed è attualmente cittadino francese).
La politica scacchistica dell’Unione Sovietica risultò a lungo efficacissima. Già nel
1945, subito dopo la fine della guerra, una
partita Urss-Usa giocata via radio finì 15,5 a
4,5: un risultato shockante per gli americani,
che avevano sopravvalutato il vantaggio dato dall’avere accolto numerosi maestri ebrei,
scappati dall’Europa. Sospette manipolazioni del regolamento, scomuniche, tentativi di fuga, rancori tra establishment sovietico
e fuoriusciti: la storia scacchistica del Novecento è un riassunto dell’altra Storia, con vicende di grande rilevanza anche letteraria. Il fuoriuscito
Vladimir Nabokov dedicò alla
follia degli scacchi uno dei suoi
primi romanzi (La difesa di Luzin) e alla poesia degli scacchi
una raccolta molto più tarda di
poesie interpolate da problemi
scacchistici (Poems and Problems). Al dissidente ebreo Natan Sharansky accadde davvero quel che Stefan Zweig aveva
immaginato per l’eroe della
sua Novella degli scacchi: incarcerato dal regime brezneviano, salvò la ragione giocando innumerevoli partite mentali contro se stesso, e una volta scarcerato ed
espatriato in Israele (dove è stato anche ministro del governo Sharon) si tolse la soddisfazione di battere Garry Kasparov in una
partita simultanea contro maestri israeliani.
Il match Fischer-Spassky non chiuse definitivamente quella partita simbolica che
si era aperta nel 1945 via radio ed era proseguita anche per altri canali (come la partita
a scacchi con cui si apre il film di James
Bond Dalla Russia con amore): ma ne decretò una svolta irreversibile. Tutto il mondo vide Fischer battere Spassky, e tutta l’America si appassionò — momentaneamente — agli scacchi, comprendendo che
una delle poche indiscusse supremazie sovietiche era quanto meno erosa. Non ci fu
rivincita, Fischer perse il titolo senza giocare, gli altri match mondiali non ebbero più
lo stesso seguito planetario.
Un altro match stava per incominciare:
l’ultimo campione sovietico Garry Kasparov
avrebbe giocato contro il computer Deep
Blue, perdendo uno storico match nel maggio del 1997 e aprendo alcuni interrogativi sul
futuro degli scacchi. Ma anche questa partita aveva radici in quella precedente: le prime
istruzioni scacchistiche ai computer furono
date da Alan Turing (l’inglese che decodificò
i codici tedeschi nella Seconda Guerra Mondiale) e dall’americano George Shannon
(fondatore della teoria matematica dei giochi, base del calcolo strategico anche bellico). I loro successori avrebbero inventato i
programmi che nelle accademie militari
americane come in quelle sovietiche simulavano tramite gli scacchi i conflitti nucleari.
Cosa sono, poi, i giochi? Svolgendo il loro
compito simbolico di simulazione, gli scacchi hanno consentito ai sovietici una forma
di supremazia durante la Guerra Fredda,
poi incrinata dalla sconfitta di Spassky. Ma
il conflitto fra i due blocchi, così ben rappresentato dai due protagonisti di Reykjavik, è
stato solo simboleggiato o anche sostanzialmente scongiurato dalla sua sublimazione scacchistica?
È stato detto che la Guerra Fredda è una
delle migliori fortune mai capitate al gioco
degli scacchi: ma forse è vera anche l’affermazione complementare, e cioè che gli
scacchi siano state una delle migliori fortune capitate alla Guerra Fredda.
FOTO GETTY IMAGES
STEFANO BARTEZZAGHI
IL MITO
Nella foto sopra, Bobby
Fischer, primo campione del
mondo Usa del dopoguerra
Duchamp fu un Grande Maestro.
Fu però con il ritorno di Lenin (appassionato scacchista, come Marx e Trotzkij) dall’esilio svizzero e con la nascita dell’Unione Sovietica che il gioco conobbe la sua maggiore
rivoluzione. Dal punto di vista ideologico, gli
scacchi non avevano connotazioni di classe
ed era un gioco che abrogava il livello dell’alea, quindi della fortuna individuale: perfettamente ortodosso per il materialismo storico. Dal punto di vista sociologico, offriva un
passatempo con indubbie virtù di allenamento mentale a un enorme numero di persone che nel tempo libero erano perlopiù abituate a «fabbricare liquori, berli e litigare con
altri ubriachi». Dobbiamo l’impietosa diagnosi al funzionario Nikolai Krylenko, che si
sarebbe poi distinto anche per ferocia repressiva, e che nel 1924 era a capo della sezione scacchistica del Consiglio supremo per
l’educazione fisica dell’Urss. Con lo slogan
«Diamo gli scacchi ai lavoratori» diede impulso a un movimento scacchistico che
contò presto decine di milioni di partecipanti, guidati anche ideologicamente dalla rivista 64 da lui stesso diretta. Così gli scacchi diventarono una passione di massa, che diede
la base demografica al predominio sovietico,
che non tardò a imporsi.
Il mito identifica una vera e propria “scuola
scacchistica sovietica”. Il suo primo campione, Mikhail Botvinnik, descrisse il proprio stile come contrapposto a quello capitalistico,
statico e puntato sull’apertura e l’attacco:
vantava la capacità sovietica di adattarsi a
ogni nuova situazione di gioco (oggi, e più criticamente, si ritiene che la propensione a una
certa passività e alle controffensive riproduca
in qualche modo la sensazione di “accerchiamento politico” comune alla società sovietica, e una certa carenza di spirito di iniziativa).
Ogni volta che vinceva un match internazionale Botvinnik mandava un telegramma
a Stalin, per ringraziarlo dell’aiuto ricevuto.
I maestri di scacchi sovietici venivano infatti sostenuti dallo Stato, con stipendi, status
privilegiati da ingegneri, “studenti” o gior-
LE TAPPE
IL DOPOGUERRA
L’ERA BOTVINNIK
LA RIVINCITA
La prima partita
Urss-Usa dopo
la guerra viene
giocata nel 1945
via radio e finisce
15,5 a 4,5:
per gli americani
la sconfitta
è uno shock
Nel 1948 viene
organizzato un
torneo tra i migliori
cinque scacchisti
del mondo: Mikhail
Botvinnik diventa
il primo
supercampione
del dopoguerra
L’americano Bobby
Fischer nel 1972
interrompe
l’egemonia russa
e piega il campione
del mondo Spassky:
sarà ricordato
come il match
del secolo
DOMENICA 31 LUGLIO 2005
LA DOMENICA DI REPUBBLICA 27
DUELLI FRA LEADER
Durante la clandestinità sulle montagne, Fidel Castro
ed Ernesto Che Guevara erano soliti sfidarsi a scacchi
Ma il líder maxímo non è mai stato all’altezza del Che
Tuttavia, viene ricordato per aver donato una scacchiera
a Bobby Fischer in occasione delle olimpiadi scacchistiche
disputate all’Avana nel 1966. Nella foto grande, due anziani
sovietici del dopoguerra giocano a scacchi davanti
a un grande poster dei leader bolscevichi Lenin e Trotzkij
“Scacco allo zar”
il nuovo Kasparov
oggi sfida Putin
dentessa di vent’anni più giovane di lui. Da
allora sono inseparabili. Insieme ai conMOSCA
gressi dei partiti d’opposizione, mano nella
mano nella sede moscovita del Comitato
arry Kasparov, a 41 anni, si è stufato
2008, la macchina elettorale che lavora per
di fingere. Dalla simulazione della guerra,
un ricambio al vertice del Paese, fianco a
passa alla battaglia vera. Dagli scacchi, alla
fianco nei villaggi russi per spiegare che il
politica. Il più grande campione degli ultipotere è battibile. Un amore esibito, per dimi vent’anni, a metà marzo ha messo da
mostrare di essere una persona normale: e
parte la scacchiera. A Linares, in Spagna,
che i sentimenti rimangono essenziali per
l’ultima vittoria in un torneo. Ha deciso che
chi, fin da bambino, è stato descritto come
la sua prossima sfida non sarà contro il
un robot.
computer Deep Blue e non avrà in palio un
«Ho deciso di accettare il confronto con la
milione di dollari. Lo scacco questa volta
politica — dice — quando ho visto come vevuole darlo a Vladimir Putin: per conquiniva gestita l’inchiesta sulla Yukos e su
stare il Cremlino. Dal re, al
Mikhail Khodorkovski. Non
nuovo zar della Russia post
conta la realtà dei fatti, la
sovietica. Una vita all’attacmoralità dei comportamenco.
ti degli oligarchi: il problema
«Tutte le persone per beè che il Cremlino usa i magine — dice — dovrebbero
strati e i servizi segreti per
unirsi e combattere contro
consolidare il proprio potela dittatura». È questa perre. Colpisce gli avversari,
cezione, l’idea che «dopo il
non esige la persecuzione di
crollo del comunismo si sia
qualsiasi reato. È qui, oltre
interrotto il percorso che
che sulla guerra nascosta in
porta alla libertà di ogni inCecenia, che la democrazia
dividuo», che lo ha spinto a
entra in cortocircuito». Lo
un passo osservato in padicesse un esponente qualtria con speranza mista a
siasi dell’opposizione, nesscetticismo. L’annuncio
suno lo degnerebbe d’attenufficiale non è ancora arrizione. Le dichiarazioni di
vato. Il fanciullo prodigio di
Kasparov invece si trasforBaku, in Azerbaigian, si
mano in lanci urgenti sulle
muove però già da candidaagenzie e i giornali anglosasGarry Kasparov
to alle presidenziali del
soni le usano in apertura.
2008.
«Perché è una favola che si
Putin, secondo la Costituzione, non porinnova — spiega il rettore dell’università di
trà ricandidarsi per un terzo mandato. KaMosca Yuri Afanassiev — la leggenda di Dasparov, assieme all’opposizione democravide che sfida Golia. Kasparov non è un olitica e ai liberali, è convinto che l’ex spia del
garca del petrolio, non ha trascorso anni nei
Kgb troverà un sistema per conservare il pomeandri del Cremlino, non ha rosicchiato
tere. E che, se anche ciò non avvenisse, scorbriciole alla Duma e non è un lobbysta delrendo i nomi di uomini dell’esercito e dei
le forze armate, o dei grandi gruppi finanservizi segreti che lo circondano, andrebbe
ziari. Si presenta con la propria testa, con il
peggio. Di qui l’affondo e il lungo tour attraproprio senso democratico e con la voglia di
verso le regioni russe, appena iniziato.
libertà che muove ogni essere umano: sarà
«Farò tutto il possibile — spiega — per conla sua partita più difficile, ma non si può ditrastare la dittatura di Putin: userò la mia inre che parta battuto. Per questo piace altelligenza e la mia capacità di ragionare in
l’Occidente e suscita grande curiosità in
maniera strategica».
Russia».
I suoi occhi, dopo cinque anni, sono torAnche troppa. A metà aprile un giovane
nati quelli ardenti del 1985. A 22 anni, batattivista dell’associazione “I Nostri”, gli
tendo Anatolij Karpov contro tutti i pronoestremisti filo-putiniani, gli ha spaccato un
stici, divenne il più giovane campione
scacchiera in testa. Si è avvicinato con la
mondiale della storia. Una sfida senza fine:
scusa di un autografo e lo ha colpito. «Mi
sei mesi e 48 partite. Ciò che restava del popiacevi come scacchista — ha gridato — ma
tere al Cremlino seguiva gli incontri segrese diffami Putin tradisci il Paese». La settitamente, su schermi a circuito chiuso, con
mana scorsa, durante una visita nel Caucail fiato sospeso. Dopo la vittoria di Fischer
so del Nord, si è visto negare l’atterraggio da
contro Spassky, simbolo mediatico della
un paio di aeroporti. I presidenti di due reGuerra Fredda all’inizio degli anni Settanpubbliche autonome si sono rifiutati di inta, fu il primo scricchiolio dell’impero. Il racontrarlo. Qualcuno ha organizzato un langazzino liberal, padre ebreo e madre armecio di uova e pomodori contro le tribune dei
na, Gran maestro a 17 anni, deciso a girare
suoi primi comizi. «Il Cremlino cospira per
il mondo e ad aprire gli scacchi al grande
farmi fuori — dice Kasparov — ma la gente
pubblico e al grande business, aveva democapisce di doversi muovere, prima di risvelito il campione dell’ortodossia sovietica.
gliarsi nella dittatura. Il Caucaso muore tra
Per la prima volta il Pcus capì che non
corruzione e violenza: è una tragedia per
avrebbe potuto sfruttare la sua immagine
tutta l’area euro-asiatica, mentre Putin
per costruire l’ennesimo eroe del comunipensa solo a organizzare i teppisti per imsmo.
pedirmi di parlare».
Miglior giocatore del pianeta per quindiOra il primo obiettivo sarà il G8 dell’anno
ci anni consecutivi, amato più in Europa e
prossimo a San Pietroburgo, quindi le legiin America che in Russia, solo nel 2000 Kaslative del 2007 e le presidenziali dell’anno
sparov ha passato lo scettro all’uzbeko
dopo. «Tre mosse in tre anni — scherza —
Kramnik. Da allora, in dissenso con la fedeper cambiare il destino dell’ex Urss. Fondarazione internazionale, ha lanciato la sfida
mentale è che il G8 non si tenga in Russia,
ai computer: per studiare i meccanismi losarebbe come le Olimpiadi di Berlino nel
gici delle macchine, per provare quanto il
1936».
cervello possa essere più rapido dei microIl genio degli scacchi ormai sogna aranchip. «Di qui lo stimolo — dice oggi — a salcione e vuole diventare lo Yushenko di Movare il mio Paese da chi sta scientificamensca. Non punta alla rivoluzione, ma nessute distruggendo le conquiste dei primi anni
no come lui regge le partite lunghe e su più
Novanta».
fronti. «Una cosa — assicura — l’ho già imPer cominciare, ha deciso di sposarsi per
parata: come evitare le mosse sporche». E
la quarta volta. Un anno fa a San Pietroburmostra in anteprima il titolo del suo prossigo ha conosciuto Daria Tarasova, una stumo libro: Come la vita imita gli scacchi.
GIAMPAOLO VISETTI
FOTO NICOLAS TIKHOMIROFF/MAGNUM
Repubblica Nazionale 27 31/07/2005
FOTO AFP
G
I MATCH INFINITI
IL COMPUTER
Nel 1984 emerge
Garry Kasparov,
che contende
e dall’anno seguente
strappa il titolo
a Anatoly Karpov:
inizia l’epoca
delle grandissime
sfide tra i due K
Nel maggio
del 1997, l’ultimo
campione russo,
Kasparov, perde
per la prima volta
giocando contro
il computer Deep
Blue della Ibm
in uno storico match
28 LA DOMENICA DI REPUBBLICA
DOMENICA 31 LUGLIO 2005
le storie/1
Nel 1935 Vitale Bramani viene sorpreso dalla bufera
mentre scala con alcuni amici il monte Rasica.
Costretti a restare in parete per ore, cinque alpinisti
muoiono. Parte da qui l’idea del signor “Vibram”
di costruire una suola solida e antiscivolo.
Che da allora ha conquistato il mercato globale
Marchi classici
JENNER MELETTI
S
ALBIZZATE (Varese)
Repubblica Nazionale 28 31/07/2005
embra di essere in una cucina. Gli “ingredienti” sono
dentro ai vasi, ma qui invece
di sale, pasta e olio si trovano
resina petrolica, zolfo insolubile, acido
stearico e bitume. Il chimico-cuoco è
preciso: pesa, annusa, mescola poi
porta il suo “piatto” al forno. Se la ricetta è giusta, verrà prodotta in serie. Nascono così le suole da scarpe Vibram,
che calpesteranno tutto il mondo. Andranno ai piedi degli scalatori dell’Himalaya, dei poliziotti di Los Angeles,
dei marines nei deserti iracheni, dei
nuovi ricchi cinesi e anche di qualche
alpino italiano e di altri corpi speciali
dell’esercito. Non tutti, però. Da cinquant’anni gli alpini, con una sineddoche, chiamano Vibram i loro scarponi e
In punta di Vibram si chiama ad esempio il libro, uscito nel 2004, che racconta la storia della scuola militare alpina
di Aosta. Ma le suole costruite ad Albizzate sono troppo care per l’esercito italiano, che fa appalti al ribasso dove vincono produttori di suole a buon mercato. Le tanto celebrate Vibram restano
solo a battaglioni scelti come gli Alpini
paracadutisti monte Cervino (impegnati in Afghanistan) e allo stesso Comando degli alpini.
Dopo la “cucina” ed i forni, ecco i “salami”. Gli operai li chiamano così, i pezzi di gomma che vanno afferrati con i
guanti perché ancora scottano. Si aggiunge un altro pezzo di gomma per il
tacco, si appoggia il marchio ottagonale, giallo, e tutto finisce sotto una pressa. Pressione, vulcanizzazione a 185
gradi, e la Vibram è pronta. Il colore
giallo del marchio viene eliminato solo
nelle suole destinate agli scarponi militari. «Ci hanno spiegato che è troppo visibile, e può essere un pericolo. Il nostro marchio è però ovunque, anche
nelle scarpe dei marines oggi in guerra
in Iraq. Ma ha lo stesso colore della suola, così si mimetizza».
La formula del Carrarmato
Nasce da una tragedia, la fortuna dell’azienda che fa le scarpe al mondo.
Vitale Bramani (il marchio nasce dal
nome e dal cognome) è un milanese
con la passione della montagna. Nel
1935 assieme a 18 amici scala il monte Rasica. L’equipaggiamento allora
era semplice: scarponi chiodati per
arrivare alla parete, poi scarpe più leggere, anche in canapa, per la scalata
sulla roccia. I 19 alpinisti, a metà parete, vengono sorpresi da una bufera.
Restano ore ed ore aggrappati alle
corde, e con le scarpe che non tengono la presa non riescono né a salire né
a scendere. Cinque di loro muoiono
per il freddo.
Vitale Bramani si salva e decide di
costruire una scarpa adatta alla
montagna. Va dai Pirelli che fabbricano pneumatici e si fa preparare «la
gomma tecnica», una suola che
verrà chiamata Carrarmato. Stacca
le suole dagli scarponi che vengono
prodotti da altre aziende e mette le
proprie. Le fa collaudare dagli amici che vanno in montagna. Nel 1937
nasce il marchio Vibram. Nel 1945
si apre lo stabilimento di Albizzate.
«Durante la guerra — racconta Jerome Bernard, un francese che è
diventato dirigente alla Vibram
«per amore delle Alpi» — c’era addirittura il contrabbando fra Italia
e Francia. Gli italiani si incontravano con i “cugini” sul monte
Bianco, dove le guardie di frontiera non potevano arrivare».
Il colpo grosso arriva nel 1954,
quando una spedizione italiana,
guidata da Ardito Desio, conquista il K2. «In cima arrivarono Achille
Compagnoni e Lino Lacedelli. Ma tutti gli alpinisti della spedizione erano
stati equipaggiati con sei paia diverse
di scarponi Dolomite con suole Vibram. Da allora, si può dire che tutte le
spedizioni hanno portato sulle cime il
nostro marchio ottagonale».
Da allora la marcia delle suole non
si è più fermata. «Negli Stati Uniti già
nel 1968 abbiamo fatto un accordo
con la Quabaug corporation che produce su nostra licenza. Gli americani
sono tanto abituati al marchio Vibram
che pensano sia roba loro. E infatti lo
L’uomo che inventò
le scarpe del mondo
pronunciano “Vaibram”. Negli Usa
abbiamo davvero quasi un monopolio: le nostre suole sono ai piedi di tutto l’esercito, di tutti i corpi speciali,
dei pompieri, dei poliziotti... Siamo
forti anche nel mercato dell’antinfortunistica e in quello della caccia e pesca. Nell’America del sud c’è Vibram
Brasil, mentre in Cina sarà aperto uno
Dal deserto dell’Iraq
alle vette degli
Ottomila, il “bollino
giallo” c’è sempre
stabilimento il prossimo anno».
Ogni anno vengono prodotte quasi
40 milioni di paia di suole, che hanno
costi diversi: dai 2-3 dollari della Cina
(là ci sono già 20 dipendenti di Albizzate che fanno lavorare i terzisti) ai 1520 dollari dell’Europa e del Nord America. «Difficile pensare — dice Jerome
Bernard — che qualcuno non abbia
LA CONQUISTA DEL K2
Sopra, la conquista del K2 da parte di Compagnoni e Lacedelli sulla copertina della “Domenica
del Corriere”. Sotto, foto di gruppo della spedizione italiana guidata da Ardito Desio, uno
degli scarponi usati per arrivare in vetta, e la suola Vibram col caratteristico marchio giallo ottagonale
mai calzato le nostre suole. Da noi sono nate le Prada sport, e le Vibram sono salite anche su Luna Rossa. Agli inizi degli anni Ottanta vennero da noi i
rappresentanti di una piccola fabbrica americana, allora quasi sconosciuta, che si chiamava Timberland. Erano interessati a una nostra mescola,
marrone ma quasi trasparente. La loro fortuna è nata qui. Abbiamo costruito milioni di suole, per loro. Poi la
Timberland ha cercato altri produttori, ma alla fine è tornata da noi ed è rimasta. Difficile fare l’elenco di tutti
coloro che si servono qui ad Albizzate.
Ricordo le Tod’s di Della Valle, Armani, Clone, eccetera. Chi ha dubbi guardi sotto le scarpe, e cerchi il nostro
marchio giallo».
Le nuove suole che calpestano il
mondo vengono inventate da
cervelli che arrivano anche da
lontano. Il design manager si
chiama Trond Sonnergren ed è
svedese. Al suo fianco la turca
Defne Yalkut e l’italiano Andrea
Rinaldi. «Ha mai osservato una
delle nostre suole? Ci sono fino a
cinquemila superfici diverse, in
ogni pezzo. Si parte dal disegno,
poi si fanno i prototipi. Per alcune
case, ora progettiamo anche l’intera scarpa. Suole «borghesi», le
chiamiamo, perché non sono né
sportive né militari. Ma il lavoro
principale resta quello di progettare suole che, come nella tradizione,
debbono essere robuste, antiscivolo e resistenti all’abrasione. Suole
che possono salvare chi le porta, in
montagna o sul lavoro».
Gomma da Malesia e Brasile
La materia prima è nel magazzino.
Bellissimi sono i “pani” gialli, mezzo
quintale l’uno, della gomma naturale che arriva dalla Malesia e dal Brasile. Verrà mescolata alla gomma prodotta dall’Enichem e dalla Bayer.
«Ogni anno — dice Ambrogio Merlo,
amministratore delegato — spendiamo un mezzo milione di euro per difendere i nostri brevetti e soprattutto
per cause legali contro i contraffattori. Adesso tutti parlano della Cina, ma
siamo stati noi europei ad insegnare a
tutti la contraffazione. Quelli che ci
copiano fanno affari. Analizzano la
mescola, si preparano uno stampo —
costa sui 5.000 euro — e cominciano a
produrre le simil Vibram. Noi ce ne accorgiamo magari dopo due o tre mesi,
chiediamo il blocco. Se chi ha contraffatto ha venduto poco, chiede il patteggiamento, tanto il costo dello
stampo lo ha già recuperato. A quel
punto paga metà delle spese legali
(l’altra metà siamo costretti a pagarla
noi) e distrugge lo stampo. Se l’affare
gli va invece bene, continua a produrre fino alla sentenza. La cosa che fa
male è che questi piccoli produttori o
artigiani lavorano per aziende importanti, molto importanti. Sono le stesse che poi vendono le scarpe a 200 euro, e cercano di risparmiare sulla suola. I nomi sono noti: sono gli stessi che
si lamentano per la concorrenza
“sleale” dei cinesi».
Anche l’Europa è calpestata dalle
Vibram. Le suole con il carrarmato sono ai piedi dei militari belgi e polacchi, della gendarmeria francese. Si
calcola che il sessanta per cento dei
militari europei porti le suole prodotte a Varese. «Con l’esercito italiano,
invece, ormai non ci intendiamo più.
Per decenni gli alpini hanno indossato gli scarponi chiamandoli con il nome della nostra azienda, ma ormai le
nostre suole sono un “privilegio” di
pochi corpi speciali. Le gare del ministero si vincono al ribasso, e le nostre
suole costano il doppio di quelle medio-basse. Il nostro mercato va bene.
Le Vibram, nei diversi mercati del
mondo, crescono dal 10 al 25 per cento ogni anno. Le nostre suole calpestano deserti e montagne anche in India, Pakistan, Arabia Saudita. Questo
per spiegare che il lavoro non ci manca. Se l’esercito italiano non ci dà appalti, non andiamo al fallimento. Ma
ci dispiace vedere che ai piedi dei nostri soldati non c’è il meglio». La storia
si ripete. Nella campagna di Russia alpini e fanti, mandati a una conquista
che non riuscì nemmeno a Napoleone, nel gelo della steppa si accorsero
che le loro suole erano di cartone.
DOMENICA 31 LUGLIO 2005
le storie/2
Miti letterari
LA DOMENICA DI REPUBBLICA 29
Quattrocento anni fa nascevano il Don Chisciotte
di Cervantes e la sua vagheggiata e inarrivabile
donna del desiderio. Siamo andati a El Toboso,
nel cuore della Mancha, per raccontare il concorso
di bellezza meno celebre e più nobile del mondo
E per scoprire che l’amore è un viaggio senza meta
Dulcinea 2005 è una miss di paese
D
CONCITA DE GREGORIO
LA MANCHA
ulcinea del Toboso oggi
si chiama Esmeralda.
Lei ancora non lo sa, ma
il 25 agosto sarà eletta
Regina della festa: la giuria in segreto
ha già deciso. Incarnerà per un anno
l’ideale dell’amore perfetto: quello
che avrebbe potuto essere e non è
stato. L’amore impossibile, non corrotto dal contatto. L’amore solo immaginato, dunque immortale. Anche
questo Esmeralda non lo sa. Alle
quattro del pomeriggio fa la siesta e
non risponde al campanello. Uno,
due, tre squilli. Bisogna chiamarla
per nome dalla finestra, come si fa nei
paesi. Allora esce, in ciabatte e coi capelli scomposti. La casa, l’ultima prima dei campi, è completamente al
buio. Fuori il sole rovente della Mancha e le cicale. Persiane chiuse, televisione accesa su una soap, volume al
massimo. Camino di marmo in salotto, sul camino foto dei genitori il giorno delle nozze incorniciata d’oro antico come un quadro di Zurbaran. Sul
tavolino ritagli di stoffa e filo da cucire lasciati dalla madre, che fa la sarta.
Già pronta per le nozze
Bella è bella, Esmeralda, della bellezza breve dei suoi diciassette anni. Capelli lunghi e lisci neri, zigomi alti.
Sguardo sfrontato di ragazzina senza
pudore. Potevate avvertire, dice. Poi
si accascia sul divano di broccato all’ingrosso. Allora, cosa c’è? Vorremmo farti una foto. Non se ne parla, sono in disordine. Allora parliamo di
questo concorso di bellezza, sei
pronta? Sono qui, sono pronta certo.
Devo solo preparare il vestito. Gli zigomi sono alti, sì, ma le caviglie gonfie e le gambe piene di lividi e di morsi di zanzare. Esmeralda racconta di
un fidanzato più grande di lei, già
pronto per le nozze: installa impianti di aria condizionata, un lavoro sicuro. Peccato che sia così stanco
quando viene a prenderla la sera,
non ha mai voglia di uscire, lei vorrebbe andare in discoteca ma lui preferisce guardare la tv. «Allora non
usciamo, stiamo qui», dice e si dipinge di nero le unghie dei piedi. Dalla
penombra si affaccia in vestaglia,
una signora robusta con la voce roca.
Forse è la mamma.
Il concorso di bellezza di El Toboso
è il meno celebre e il più nobile della
terra. Tra le trenta ragazzine non ancora diciottenni di questo borgo
affondato sulla mappa nel centro
esatto della Spagna, a trecento chilometri da ogni mare e orizzonte, si
reincarna ogni anno con imperterrita regolarità — l’ultima domenica di
agosto — la donna ideale, l’amore
perpetuo. Dulcinea, la dolce Anna, il
mito del desiderio irrisolto che muove ogni cosa. Essendo una storia vecchia di quattrocento anni qui la trattano con una certa confidenza. «Dulcinea era molto bella ed era nata in
quella casa all’angolo», dice Benita,
l’organizzatrice della Festa, capelli
rossi bruciati dalla tinta, quella che
sceglie le ragazze e guida la giuria che
decreta la Regina. «Forse però era
una contadina, non una signora: mi
sembra che si chiamasse Aldonza e
allora la storia della casa è stata inventata dopo ed è finta. Sa, per i turisti». Dopo, in un luogo del tempo che
nessuno ricorda. Questo è tutto, il resto non serve.
Il sole è ancora alto, il paese bianco
sembra il set abbandonato di un film
western. Case a un piano tutte uguali, porte e finestre di legno sbarrate,
non un fiore alle finestre non un cane
per strada. Se suoni alla porta non
apre nessuno, se cerchi un bagno, un
bicchier d’acqua non c’è. Le bambine tra poco escono dalla scuola elementare Miguel de Cervantes, una
sola classe per ogni età. A lezione ci
sono una Vanessa, una
Tatiana, una
Jessica. Due
Fatima, cugine: è il nome
della nonna.
Aldonza nessuna, naturalmente. Sarebbe come
cercare da noi
una Eufemia
all’asilo. Dulcinea nemmeno. Ce n’è
stata
solo
una, negli ultimi
cinquant’anni, a
El Toboso: la
figlia del farmacista, bell’uomo colto
e massiccio,
grande e orgoglioso appassionato
del Romanzo.
La ragazza ha
ventisei anni,
fa l’ingegnere
chimico, parla quattro lingue e vive a
Madrid. Un
prodigio, in
paese.
La
vera
Dulcinea —
che di cognome fa Ortiz,
come la moglie giornalista del principe Felipe erede al trono —
non è mai stata eletta Regina della Festa. Perciò
non è negli
annali delle
“Dulcineas”,
documento
che gli archivi
del municipio custodiscono in un faldone rilegato. Ci sono i nomi e le foto dei trionfatori di tutte le edizioni degli ultimi
decenni, sezioni e specialità che variano per sesso e per età: il concorso
di abilità con trattore e rimorchio, il
torneo di scacchi, la gara di ballo e la
gimcana per signore, la corrida coi
tori giovani, il concorso di bellezza. Il
sindaco, per esempio, è stata Dulcinea in un tempo che preferisce non
Quest’anno sarà
Esmeralda a vincere
Prima di lei è toccato
a Maria Luisa, Petra,
Teresa, Rocìo, Noemi
la bionda, Diana...
Manca soltanto
l’unica vera Dulcinea
L’OMAGGIO DI DALÌ
Sopra, una litografia
di Salvador Dalì
su Dulcinea
e il cavaliere errante
Don Chisciotte
In alto: le ragazze
di Toboso
finaliste del concorso
di bellezza “Dulcinea”
nel 2004 e nel 2005
dire. Si chiama Natividad Martinez,
Nati per i duemila e duecento compaesani, dimostra meno dei suoi
quasi sessant’anni: socialista energica coi ricci color rame, insegnante di
scuola e deputato al parlamento regionale di Toledo. Nati Martinez dice
con un bel sorriso che l’elezione d’agosto della Dulcinea del Toboso
«rafforza l’identità e la coesione della gente del paese, inorgoglisce le famiglie interessate e rinnova la nostra
illustre tradizione».
Fa comunità, dà lustro, ristabilisce
nel nome della bellezza una certa
giustizia sociale. La Dulcinea dell’anno scorso, per esempio, è la figlia
della donna che fa le pulizie in casa di
quella che è arrivata seconda e ha dovuto farle da
damigella.
Circostanza
di cui, come è
evidente, si è
parlato per
mesi nell’unico negozio
di ortofrutta
e ai bordi della minuscola
piscina comunale. Dulcinea sono
state negli
anni la moglie del farmacista signora Maria
Luisa, fu così
che si fidanzò
col marito:
«Ci conoscevamo appena, ero amica
di sua sorella.
Poi dopo l’elezione pubblicarono la
mia foto sul
giornale, misero il ritaglio
in bacheca
nella scuola
del paese vicino e allora
lui si fece animo, venne a
chiedermi di
uscire». Poi
Petra, la segretaria d’azienda; Maria Elena, oggi madre di
quattro figli;
Teresa la sorella del benz i n a i o ;
Rocìo, che è
partita e nessuno sa che
fine abbia
fatto, dicono
che lavori in
un locale nella capitale, lo
dicono un po’ sottovoce.
Poi ci sono le ragazze di adesso,
Dulcinea dal 2000. Elena, già un po’
ingrossata rispetto alla foto in posa
per gli annali, stacca i biglietti in piscina e fuma sigarette senza filtro.
Noemi, che è bionda e ha gli occhi blu,
lavora in discoteca di sera e al bar dell’incrocio di giorno: hanno chiesto la
sua mano in tanti, lei li ha esaminati
uno per uno ma non l’ha ancora pro-
messa a nessuno. Marta si è tagliata i
capelli, li ha tinti di biondo e si sposa a
ottobre. Diana Redondo, la Regina
ancora in carica fino a che Esmeralda
fra qualche giorno non prenderà il suo
posto, è a casa che studia: due materie
a settembre. Casa buia, televisore acceso, nonna vestita di nero immobile
in salotto. «È stato bello soprattutto
per la mia famiglia», sua madre è la signora delle pulizie, «io adesso se passo gli esami vorrei fare un corso per
tecnica di laboratorio, vorrei studiare
chimica ma vediamo, ne parliamo dopo la vendemmia». Sua sorella Laura
la guarda a bocca aperta. Ha undici
anni, deve mettere l’apparecchio ai
denti. Timida dice che vorrebbe essere Dulcinea anche lei da grande, certo, ma non ci spera perché lo sa benissimo che Diana è più bella.
Tutti a casa per la vendemmia
Per la vendemmia tornano tutti a casa, la popolazione del Toboso raddoppia: cugini, nipoti, parenti di città.
Arrivano con le macchine nuove lungo l’autostrada folle costruita coi finanziamenti per lo sviluppo di Castilla. Svincoli a quadrifoglio, rotonde illuminate dai lampeggianti, sopraelevate sui dossi impercettibili dell’immensa distesa pianeggiante dove una
volta, quattrocento anni fa, potevi andare a cavallo «per tutto il giorno senza che succedesse nulla degno di essere narrato». Dove i mulini sulla cresta delle colline comparivano come
miraggi dopo l’ultima curva e sembravano davvero giganti sordi e ciechi, ora ci arrivi sotto a centoventi sulla quattro corsie e pare tutto un luna
park. Al Toboso i bar sono tutti all’incrocio della statale, nessuno in paese,
non uno nelle piazze. Sono lungo la
strada grande dove corrono i camion,
perché è da lì che si scappa. Oppure si
resta, seduti al tavolo dove Noemi la
bionda serve il caffè col ghiaccio, sempre troppo dolce.
Al telefono da Madrid in una pausa
dell’orario di lavoro Dulcinea Ortiz
Lozano, l’unica vera Dulcinea del Toboso, racconta che presto andrà a lavorare in un gasdotto come sognava
già da ragazzina. È stata a Roma un anno con l’Erasmus, alla Sapienza. Poi in
Bolivia per uno stage, poi l’hanno assunta all’industria nazionale del gas.
Un fidanzato no, non ce l’ha. «Con
questo nome», ride, «sarà il mio destino». Dice che Dulcinea non è mai esistita, e il vero amore chissà. «Deve essere quello che si desidera e non si può
avere, perché nella vita lo sforzo di arrivare conta più del risultato, il cammino vale più della meta».
Ecco, questo: l’amore è solo un
viaggio. Senza autostrada però. Un
viaggio a piedi, al massimo a cavallo.
Col caldo che confonde i contorni
delle cose e il vento che disordina i
pensieri. E poi pazienza se non si arriva in nessun posto, se quel che poteva essere non è stato mai: è davvero invincibile solo chi da ogni sconfitta sa ripartire, racconta il cavaliere
di questa lunga storia. C’è sempre
una Dulcinea, in qualche casa in ombra di un paese della Mancha: un
paese il cui nome non riesco a ricordare. Dulcinea che si tinge le unghie,
aspetta e non lo sa.
30 LA DOMENICA DI REPUBBLICA
DOMENICA 31 LUGLIO 2005
i luoghi
Mete alternative
SANDRO VIOLA
S
BERGEN
Repubblica Nazionale 30 31/07/2005
olo il Torget, il mercato del
pesce che si tiene ogni giorno sulla riva centrale del
porto, è rimasto com’era. Il
Torget è lì da quando esiste Bergen. Già
alla fine del XII secolo, un crociato danese in viaggio verso la Terra Santa aveva scritto del suo stupore dinanzi all’enorme quantità di pesce che vi veniva
esposta: «…Ci sono tanti stoccafissi,
merluzzi appena pescati e aringhe, che
non si riuscirebbe a contarli né a pesarli». E otto secoli dopo il colpo d’occhio
non è molto diverso da allora. I banchi
traboccano di merluzzi, salmoni, trote
e passere di mare, razze, pesci-luna,
pesci-gatto, aringhe e stoccafissi, gamberi, scampi, granchi giganti, astici,
aragoste. Per il visitatore, come sempre, una meraviglia.
Ma a parte lo scorcio del Torget, nei
quindici anni dacché ne mancavo Bergen è cambiata. Era quieta, composta,
provinciale, animata soltanto dal continuo va e vieni dei traghetti e pescherecci nel golfo lungo e stretto, il Vagen,
su cui s’affaccia. Cinque o sei caffè attorno al porto, le vecchie costruzioni di
legno sulla riva di Bryggen a ricordare il
periodo anseatico, e sulle colline boscose, a semicerchio di fronte al mare,
le belle case della borghesia. Mentre
oggi è un centro turistico: pizzerie, ristoranti cinesi, agenzie di viaggio, file
dinanzi ai bancomat, negozi di “souvenirs”. Lungo le banchine del porto il
flusso ininterrotto dei vacanzieri, contro la balaustra del belvedere sul monte Ulriken un muro di corpi umani e
macchine fotografiche.
Mi chiedo se siano le bombe, il presentimento e la paura delle bombe che
camminano, ad affollare persino Bergen. Una città dove piove per più di
duecento giorni all’anno, e i caffè — col
termometro che segna 14 o 15 gradi di
massima — forniscono una coperta a
chi voglia sedere ai tavoli esterni. Me lo
chiedo scorrendo i giornali con le notizie degli attentati terroristici a Sharm
el-Sheik, e concludo che forse è così. È
probabile che chi parte per le vacanze
studi ormai una carta geografica. Faccia un segno rosso lì dove le bombe sono già scoppiate, e lì dov’è presumibile
che scoppino le prossime. Indonesia,
Turchia, Marocco, Tunisia, Egitto, Spagna, Inghilterra, e domani forse la
Francia, la Grecia, l’Italia. Tanti, troppi
segni rossi. Mentre questi fiordi, coste,
boschi e montagne della Norvegia sono
lontani. Incongrui, si può presumere,
nella strategia della jihad. E dunque
molto probabilmente al riparo
dall’“arab rage”, la furia araba, e dalla
sua arma principale: la bomba che
cammina.
Tre canali in tv
Anche l’eco delle bombe è fortemente
attutito. I giornali stranieri arrivano
con un giorno o due di ritardo, la televisione ha tre canali in norvegese — dunque incomprensibili — e uno in chiaro:
la Bbc. E la Bbc, com’è noto, non è ansiogena né oratoria. Mai che uno
“speaker” della televisione inglese inizi la cronaca d’un attentato al modo italiano, con quelle sfilze di «angoscia, orrore, sdegno» sempre eguali e sempre
più vacue. Ci sono le notizie, le immagini, ma niente politici (salvo, nel caso
delle bombe di Londra, i doverosi interventi del primo ministro) che commentino con altri superflui «angoscia,
orrore e sdegno», la vista delle rovine e
dei morti. Insomma: grazie anche all’asciuttezza della Bbc, sui fiordi del mare
del Nord l’urlo terrificante del terrorismo giunge smorzato, già quasi afono.
Seduto ad un caffè e avvolto nella coperta propostami dal cameriere, o sul
ponte di prua dei battelli in gita lungo i
fiordi, li osservo attentamente, i turisti
venuti a Bergen. Spagnoli, tedeschi,
belgi, francesi, italiani, ma anche giapponesi e americani. Condizione sociale
media o medio-bassa, non un’ombra
d’eleganza, un’incontenibile ingordigia di “souvenirs”, pizza congelata e
scatti fotografici. La storia non li interessa, perché il museo Anseatico è pressoché vuoto. Dunque niente curiosità
per quelli che furono i porti dell’Hansa,
la sequenza d’approdi, magazzini e uffici contabili dove si svilupparono a partire dal Trecento, tra Lubecca e Novgorod attraverso Bruges, Bergen, Riga e
Cronaca di un ritorno, dopo quindici anni, nella città
norvegese. Per scoprire che il turismo internazionale
è arrivato anche qui, forse per sfuggire la geografia
delle bombe. Ma anche per godere di una solitudine fatta
di boschi, fiordi, case di legno, piccole fattorie con davanti
l’imbarcadero, campanili, fari e stridìo dei gabbiani
Bergen, la musica
del Grande Nord
IL PORTO. Sopra, panorama del porto di Bergen. Qui sotto a sinistra, il quartiere di Bryggen . A destra, i fiordi intorno alla città
Tallin, le forme moderne del commercio. E neppure, direi, molto interesse
per la musica classica, perché ai vari
concerti che Bergen propone ogni sera
vedo soprattutto scandinavi.
Eppure come li sento vicini (gli italiani in particolare, è ovvio, che stavolta mi
sembrano meno agitati e rumorosi d’altre volte in altri mari e monti), nella scelta del Grande Nord. Perché sebbene nella decisione possa aver contato la minaccia terroristica, la memoria delle carneficine succedutesi da tre o quattr’anni nelle località turistiche, anche altro li
ha certamente spinti sin qui: verso Bergen e i magnifici boschi che la sovrastano, verso l’intarsio dei fiordi norvegesi
che ha in questo porto il suo migliore
punto d’imbarco. E quell’“altro” è forse
ciò che mi porta da molti anni, l’estate, il
Attorno alle acque
del Sognefjord
il verde cupo degli
abeti, gli strapiombi
di roccia velati
dalla pioggia, il salto
in mare delle cascate
più lontano possibile a Settentrione.
La nausea dei carnai sulle spiagge e
mari meridionali, Italia, Grecia, Spagna. Il raccapriccio alla vista delle nudità, abbronzature, sudori di discoteca
ed altre bruttezze e cafonaggini che ormai da vent’anni sfigurano, dal golfo
d’Antalia ad Ibiza passando per le isole
greche, Capri e la Costa Azzurra, l’intero Mediterraneo. E per quel che riguarda gli italiani, il Grande Nord è anche
una via di scampo dallo spettacolo
sconfortante dell’estate italiana. I deputati La Russa e Santanchè sulla Costa
Smeralda, le veline e i conduttori della
tv a Positano, Ricucci all’Argentario, le
borse, i pareo e gli occhiali da sole di
“stilisti” che andrebbero messi al muro, gli alberghi rigurgitanti di giurati dei
premi giornalistici e letterari, le “serate
di gala” per la consegna dei premi suddetti, i fotografi dei settimanali alla caccia di Sgarbi, Curzi e Montezemolo,
Emilio Fede, Della Valle, l’Annunziata e
la Cuccarini. Per dirla in due parole, la
serie degli affronti che subiamo dall’estate italiana.
Qui, certo, piove. Nei giorni che ho
trascorso a Bergen il sole s’è visto una
sola volta, e per il resto cieli grigi. Ma la
bellezza di questa natura sfida qualsiasi condizione meteorologica e, comunque, a chi mi chiede perché m’arrischio
un’estate dopo l’altra verso le nubi, le
piogge e il freddo del Nord, non mi stanco di citare quel famoso rigo e mezzo di
Myrdun, il diario norvegese di Ernst
Junger: «…il Sud ci consuma, il Nord ci
infonde nuove energie». Com’è vero!
Un giorno o due, e ci s’accorge che la
DOMENICA 31 LUGLIO 2005
LA DOMENICA DI REPUBBLICA 31
LA CAPITALE DEI FIORDI
Fondata fra i fiordi nel 1070 d.C.
dal mitico re Olav Kyrre (il primo reale
norvegese a saper leggere) Bergen,
con i suoi 235mila abitanti, è la seconda
città della Norvegia. Sede della corte
reale fino al XVII secolo, dal 1979
il quartiere di Bryggen, sul lungomare,
è Patrimonio dell’Umanità Unesco
se, i piccoli monumenti, i vecchi negozi e le insegne che ne raccontano la vicenda. Così, allo stesso modo che a Venezia le folle stazionano soprattutto tra
la Loggetta, Palazzo Ducale, San Marco
e le Procuratie, anche a Bergen le schiere di turisti si concentrano in maggior
parte sulla riva di Bryggen, dove le case
anseatiche ospitano adesso soltanto
negozi di ricordini e maglieria popolare norvegese. Mentre in tanti pezzi della città rimasti intatti, come la Cort Pilsmanet, la Kong Oscar o le vie nei pressi del Teatro Nazionale (Engen, Kong
Olav, Magnus Barfots Gate), di stranieri se ne vedono assai pochi.
Se poi vado a passeggiare attorno alla Mariekyrken e al suo piccolo cimitero fiorito di rose gialle, tutto tedesco (la
presenza tedesca a Bergen durò ben oltre la fine della Lega anseatica, ed era
ancora economicamente significativa
nella seconda metà dell’Ottocento), lì
incrocio soltanto i locali. La gente che
abita le vecchie, civilissime case di legno o di mattoni della via Kroken e della Holendergaten, tutte con le finestre
basse sulla strada, attraverso le quali
getto uno sguardo negli interni a cogliere lo spirito conservatore, l’estrema
circospezione verso la modernità dei
norvegesi. E quindi mobili vecchiotti,
tappezzerie in velluto e persino qualche trina, piccoli quadri alle pareti, tavolini con su gli occhiali e un giornale o
un libro: un insieme che ancora somiglia a quel che si vede qualche centinaio di metri più in là, nel museo che
accoglie la bella collezione Rasmus
Meyer, nei quadri tra Otto e Novecento
di Thaulow, Werenskiold, Schjelderup, e nei primi Munch.
Repubblica Nazionale 31 31/07/2005
I CAFFÈ. Sotto a sinistra, turisti che si rilassano in uno dei tanti caffè del lungomare. A destra, veduta notturna di Bergen
pioggia, il vento, il plumbeo del mare si
compongono in una specie di chimica
ricostituente. S’attenuano le stanchezze, fiorisce l’appetito, si può bere il doppio e forse più dell’alcol che beviamo
dalle nostre parti.
No, non è questione di bollettini meteorologici. Avevo navigato il Sognefjord, credo il più lungo e spettacolare fiordo norvegese, quindici anni fa.
In quei giorni il tempo era bello. Cieli
continuamente cangianti, qualche ora
di sole, e a tarda sera, quando la luce cominciava a smorzarsi, crepuscoli indimenticabili: l’orizzonte grigio-viola,
un’aria trasparente, le acque limpide, e
sulle coste il bianco delle betulle e le
prime lampade accese davanti alle case di legno. In quel viaggio potevo stare
sul ponte del battello con un pullover di
mezzo peso, e ricorrere all’impermeabile solo quando veniva giù un po’ di
pioggia. L’altro giorno, invece, su quelle stesse acque del Sognefjord indossavo un pullover pesante, un giaccone
impermeabile, un berretto di lana. Pioveva leggero ma senza interruzioni, il
vento ha travolto gli ombrelli di due anziane giapponesi, per accendere una
sigaretta ho vuotato una scatola di
fiammiferi. Ma era stupendo lo stesso.
Il verde cupo degli abeti, il fiordo che
con le nubi basse si faceva come misterioso, gli strapiombi di roccia velati dalla pioggia, il salto in mare delle cascate,
gli imbocchi d’un nuovo braccio di mare che comparivano di colpo da un banco di nebbia, la bella bandiera norvegese che schioccava al vento sulla poppa
del battello. E intorno un mondo di soli-
La magìa della casa
di Edvard Grieg
a Troldhaugen,
sul lago Nordas, dove
ogni pomeriggio
d’estate si suonano
i suoi “Pezzi lirici”
tudini, certo, ma il mondo meno degradato d’Europa: le case di legno, le piccole fattorie con davanti l’imbarcadero e la
tettoia per la barca, lo stridìo dei gabbiani, ogni tanto un campanile, lì un faro, e
sulla costa destra, d’un tratto, un uomo
che da una terrazza si sbracciava per salutare il passaggio del nostro battello.
Che cosa di più lontano dalle furie del
terrorismo, da questo cupo “temps des
assassins” che ci troviamo a vivere?
Né Bergen, tutto sommato, è da meno. Perché sappiamo come si muovono i turisti: come tendano ad affollarsi
in certi luoghi deputati — quelli più ritratti nelle cartoline ed esaltati nelle
guide, le strade con più negozi e “fastfood”—, spesso trascurando proprio
gli scorci dove meglio s’assapora il carattere d’una città, le vie, i gruppi di ca-
La sinfonia del silenzio
Ma è a Troldhaugen, la casa di Edvard
Grieg sul lago Nordas, a dieci minuti
d’autobus dal centro di Bergen, che la
memoria della Norvegia romantica è
più viva. Dico l’epoca della nascita o rinascita della nazione (l’ultimo paio di
decenni dell’unione con la Svezia e i
primi anni dopo l’indipendenza del
1904), con Ibsen, Bjorson, Grieg e i giovani Hamsun e Munch sul davanti della scena europea a sfatare la leggenda
d’una Norvegia di soli balenieri, pescatori e mercanti di stoccafisso.
Che posto, Troldhaugen. Non parlo
tanto della casa in legno — con le sue linee spurie, metà svizzere metà scandinave — dove Grieg veniva a tirare il poco fiato che gli rimaneva dopo le sfiancanti “tournées” in tutta Europa: anche se lo scrupolo con cui ne sono stati
recuperati e rimessi lì dove si trovavano gli arredi, la luce verdastra che entra
attraverso le finestre dal giardino, i bei
ritratti di Grieg e della moglie Nina dipinti dai pittori loro contemporanei,
ne fanno scaturire un’atmosfera, una
sensazione d’autenticità, che mancano quasi sempre negli interni più o meno ricostruiti delle case dei grandi uomini (per fare un esempio vicino, nella
casa di Ibsen a Oslo). Parlo del luogo. Il
verde rigoglioso del giardino e del breve bosco accanto, le felci, le querce, gli
abeti, i grandi rododendri, i viluppi di
piante acquatiche che si spingono verso il lago come una prua di nave. La
pioggia leggera che cade sulle acque
ferme del lago, il grande silenzio.
A Troldhaugen c’è adesso, vicino alla casa del compositore e circondata
dal verde, una bella sala da concerti dove ogni pomeriggio d’estate si suonano
pezzi per piano, o sonate per piano e
violino, di Grieg. E chi conosce Grieg sa
bene che nonostante la sua fama debba molto al celeberrimo Concerto per
piano e orchestra in la minore e alle
“suites” del Peer Gynt, la sua musica più
avvincente è proprio quella per piano,
con al centro la serie dei Pezzi lirici che
ascolto da vent’anni nell’esecuzione
forse inarrivabile di Eva Knardhal.
E, certo, a Bergen piove. Ma se ogni
pomeriggio si può andare a Troldhaugen, girare un po’ nel giardino, fermarsi a guardare il lago e poi sedersi a
sentire un buon pianista che suona i
Pezzi lirici: oggi La pace nel bosco, C’era una volta, Malinconia; domani Ai
tuoi piedi, Il canto del marinaio, Gratitudine; e dopodomani Foglio d’album e Giorno di nozze a Troldhaugen,
il pezzo composto da Grieg per le nozze d’oro con Nina Hagerup: ecco, se i
pomeriggi d’un periodo di vacanze si
possono trascorrere così, meglio la
pioggia a Bergen che il bel tempo a Capri o a Positano.
32 LA DOMENICA DI REPUBBLICA
DOMENICA 31 LUGLIO 2005
Undici giorni dopo Pearl Harbor, nel febbrile clima di rifondazione
dell’intelligence statunitense, parte il progetto che in poche settimane
calerà nell’Europa del nazismo trionfante una nuova rete
di spionaggio, tutta formata da maschi omosessuali. La genesi di questo progetto
è raccontata da alcuni documenti custoditi negli Archivi nazionali di College Park,
che sono stati recentemente desecretati e di cui “Repubblica” è entrata in possesso
La
guerra
delle spie
ATTILIO BOLZONI
TANO GULLO
ervire e proteggere gli Stati
Uniti d’America. A tutti i costi. E con ogni mezzo. Anche
con una task force impiegata
in attività di controspionaggio formata esclusivamente
da omosessuali, «patrioti motivati» e
«maschi reclutati nel giro della prostituzione di basso livello», squadre scelte da
infiltrare nelle forze aeree
tedesche e nelle ambasciate europee «con l’obiettivo
di ottenere informazioni
vitali». Il progetto nasce a
New York City nel dicembre del 1941, appena undici giorni dopo l’attacco a
tradimento di Pearl Harbor, i caccia giapponesi
che in una tranquilla domenica mattina affondano in novantacinque minuti la flotta Usa nel Pacifico. È negli ultimi giorni di
quell’anno, decisivo per le sorti del
mondo, che comincia a diffondersi una
nuova rete di intelligence. Sarà presto
operativa nei territori occupati dai nazisti, agenti sotto copertura disposti a tutto per la bandiera a stelle e a strisce. C’è
anche un reparto speciale: spie tutte
omosessuali. È una guerra nella guerra
fatta di combattimenti sotterranei e silenziosi, di agganciamenti, di ricatti privati che a volte condizioneranno lo svolgimento delle vicende belliche.
Repubblica Nazionale 32 31/07/2005
S
Fascicolo numero 14
La genesi di questa task force è ricostruita in alcuni documenti custoditi negli
Archivi nazionali di College Park nel
Maryland, carte desecretate (registro
226, serie 92, busta 580, fascicolo 14),
che svelano le pieghe più nascoste del
secondo conflitto mondiale. Psichiatri
che suggeriscono un’idea a un paio di
ufficiali della Marina, esperti della materia chiamati a consulto, dubbi, approvazioni, riunioni top secret, ricerca di
dati statistici e una fitta corrispondenza
per mettere a punto il piano. La storia è
tutta nei dossier del Coi, il Coordinator
of Information che appena qualche mese dopo diventerà Oss, l’Office of Strategic Services del famoso generale William Donovan. È lui a rifondare l’intelligence Usa dopo Pearl Harbor. Spregiudicato e potentissimo, nelle sue mani finisce un potere illimitato, fuori da ogni
controllo. Piazza i suoi fedelissimi dappertutto, li arruola nella buona società e
a Wall Street e poi li spedisce in ogni continente. Tredicimila nuovi agenti che
rendono conto solo a William Donovan
detto “Wild Bill”, Bill il Selvaggio.
Dopo l’offensiva giapponese del 7 dicembre 1941 Donovan è l’uomo della
provvidenza. L’America trascinata in
guerra si prepara a dispiegare tutta la
forza militare ma intanto è impaurita
dalle sue fragilità. La disfatta navale alle
Hawaii fa tremare gli alti comandi di
Washington, i “servizi” si sono rivelati
Così l’America di Roosevelt
creò una task force di 007 gay
“L’uso di omosessuali
in certe attività
del governo
è un modo nuovo
di servire
il nostro Paese”
Franklin Delano Roosevelt
inadeguati, incapaci di intercettare le
mosse del nemico. È in quel momento
che il presidente Franklin Delano Roosevelt caccia i vertici militari di pace. E
pretende subito una nuova intelligence.
In questa atmosfera cupa, una mattina,
viene recapitata una busta al Dipartimento della Marina. Mittente è il ricercatore medico Alfred Gross, del Comitato per lo studio delle devianze sessuali di New York. Destinatario è Frank
Mason, un maggiore che lavora per i
servizi segreti. La lettera è datata 18 dicembre: «Mio caro maggiore, le scrivo
su consiglio del maggiore Birdseye per
riprendere la discussione che abbiamo
già avuto sulla possibilità di utilizzare
omosessuali maschi in relazione a possibili attività di controspionaggio. Durante le nostre ricerche negli ultimi cinque anni, ci siamo imbattuti ripetutamente in situazioni di omosessuali che
avevano relazioni con reclute delle nostre forze navali e occasionalmente con
qualche ufficiale». E aggiunge: «Per
qualche ragione il personale della Marina sembra avere un interesse particolare per tali individui. Questo è un fenomeno abbastanza accettato, io direi
forse tacitamente, da parte delle autorità pubbliche. Secondo me tale tesi ha
una certa validità».
“Livello sociale superiore”
Il dottor Gross spiega al maggiore Mason che gli studi del suo Comitato rivelano «che gli omosessuali maschi appartengono a un livello sociale superiore» e che «è certo di una grossa percentuale di omosessuali tra i tedeschi». Cita
poi un articolo della rivista Time sull’omosessualità nell’aviazione della Germania nazista, paventa il pericolo che
«forze sovversive cerchino di sedurre
membri delle nostra Marina», invita a
giocare d’anticipo. E fa una proposta:
«Reclutare omosessuali respinti dal servizio militare». Ha già in mente un’unità
speciale Alfred Gross, insiste, prova a
convincere il suo interlocutore: «Noi
siamo a livello di una bozza di idea. Ma
lei, con la sua grande esperienza di ufficiale di servizi segreti, è sicuramente in
grado di redigere un piano preciso. Mi
auguro che questa idea non sia troppo
cervellotica o il risultato di troppe letture di romanzi gialli».
Era da tempo che il dottore del Comitato per lo studio delle devianze sessuali pensava alla creazione di questo «corpo», ne aveva a lungo parlato con il suo
direttore George Herny, insieme avevano anche già selezionato un imprecisa-
to numero di potenziali agenti. Gross lo
comunica al maggiore Mason: «Abbiamo contattato vari nostri pazienti, tutti
affidabili, i quali, ne sono sicuro, sono
disponibili a prendere parte al progetto.
Tali elementi, a loro volta, potrebbero
entrare in contatto, con altri omosessuali, affidabili e fedeli alla loro Patria».
È la «rete» che si sta formando. La questione sta così a cuore allo psichiatra di
New York che quella stessa sera, il 18 dicembre, spedisce un’altra lettera al
maggiore Mason. E gli preannuncia:
«Le sto anche inviando un dossier che
ho avuto da mister Painter (un consulente del dottor Gross sulla prostituzione maschile, ndr), vi si indica l’esperienza di un volontario del nostro staff
che potrebbe essere molto utile in varie
situazioni... Painter ha in mente una
persona che potrebbe portare avanti
alcune indagini, c’è un tedesco che corteggia i marinai...».
Il maggiore riceve le due comunicazioni del dottor Gross e — sempre il 18
dicembre del 1941 — una terza del
professore Robert Dickinson, un autorevole rappresentante dell’Accademia di Medicina di New York. Una breve nota, scritta a mano: «Caro Mason
mi sembra che le questioni che riguardano l’omosessualità nella Marina e
nell’Esercito richiedano una consulenza specialistica... Di recente ne ho
parlato con l’ammiraglio (segue un
nome incomprensibile, ndr)... A Portland, l’ospedale navale ha iniziato a
esaminare l’argomento attraverso il
lavoro di un tenente medico...».
La concorrenza dei sovietici
Frank Mason informa i suoi superiori
del progetto. E sei giorni dopo, il 24 dicembre, manda il dossier a Wallace Phillips, uno dei capi del Coordinator of
Information Office, il servizio segreto.
Accompagnato da una comunicazione
DOMENICA 31 LUGLIO 2005
LA DOMENICA DI REPUBBLICA 33
I PERSONAGGI
William Donovan (foto in alto a destra) era
un avvocato newyorchese con il gusto
per l’intrigo. Su incarico del presidente
Roosevelt rifondò con criteri moderni
il sistema di intelligence. L’Office of
Strategic Services, l’Oss che affondò
in poco tempo i suoi tentacoli in tutto
il mondo, venne creato a sua immagine
e somiglianza: spregiudicato e agile.
Roosevelt però, quando Donovan
“il selvaggio” diventò incontrollabile, finita
l’emergenza guerra, lo mise da parte.
Cicerin Georgij Vasil’evic (foto in basso
a destra) fu un uomo di Stato della Russia
zarista e poi del regime bolscevico.
Fu Commissario del popolo fino al 1929
I DOCUMENTI DEL DICEMBRE 1941
Qui accanto, un manifesto bellico americano realizzato da James
Montgomery Flagg. I documenti riprodotti nella pagina appartengono
a un carteggio custodito negli Archivi nazionali di College Park, nel Maryland,
sono stati da poco desecretati e rivelano il progetto che, partito nel dicembre
del 1941, portò rapidamente alla costruzione di una rete di spie omosessuali
al servizio dell’Oss statunitense
La testimonianza di Malaparte ne “La pelle”
“La battaglia per la libertà
di quello strano maquis”
CURZIO MALAPARTE
Repubblica Nazionale 33 31/07/2005
secca: «Caro Wallace, il suggerimento
dell’uso di omosessuali in certe attività
del governo costituisce probabilmente
un nuovo modo di servire il nostro Paese, un modo che non è sicuramente venuto a tua conoscenza fino ad ora. Ti
chiedo un giudizio sulla lettera di Alfred
Gross, che cerca di servire il suo paese
tramite metodi in qualche modo non
usuali. Buon Natale».
Durante gli ultimi giorni del 1941 gli
uomini dei servizi segreti americani si
mettono al lavoro, esaminano le proposte formulate dagli specialisti di New
York, prendono informazioni, chiedono consiglio a qualche ammiraglio, studiano tutto quello che si muove nello
scacchiere spionistico internazionale
esplorando per la prima volta anche un
fronte omosessuale.
È il 15 del nuovo anno, il 1942, quando
un alto funzionario del Coordinator of
Information Office affronta l’argomento ancora con Wallace Phillips. La lettera ha come oggetto «Uso degli omosessuali nel lavoro di intelligence», un dispaccio interno. La firma è quella di
John C. Willey. È l’ultimo passaggio prima che qualcuno, a Washington, dia il
via libera finale all’operazione. Scrive
Willey: «Vengo a sapere che l’Istituto per
lo studio delle devianze sessuali è simile
al vecchio Institut fur Sexual Wissenchaft di Berlino, è un’istituzione molto
seria. Io raccomanderei con forza uno
studio accurato sulla possibilità di utilizzare i suggerimenti inviatici dal dottor Gross». Poi Willey lo informa di ciò
che sta accadendo in Europa, soprattutto a Mosca. E gli ricorda come i «rossi»
abbiano già studiato la questione: «Penso di averti già parlato dell’interesse manifestato dal Gpu (il servizio segreto dell’Urss prima del Kgb, ndr) a questo argomento. Nel periodo in cui Florinsky, il
capo del protocollo del ministero degli
Esteri sovietico, è stato silurato (1935),
Q
Boris Steiger, un alto dirigente del Gpu,
mi ha raccontato che il reale motivo del
suo allontanamento fu che secondo la
«fratellanza omosessuale politica» in
Europa, Florinsky non era affidabile».
Willey cita poi anche un altro caso:
«Non c’è dubbio che in Russia esisteva
una relazione speciale tra Cicerin, il famoso commissario per gli Affari esteri
dell’Urss e l’ugualmente famoso ambasciatore tedesco a Mosca, conte Brockdorff-Rantzau». L’alto funzionario del
«servizio» americano racconta delle
nuove frontiere dello spionaggio internazionale, è d’accordo con quei medici
di New York, dà il suo ok al progetto. E
conclude così la sua lettera: «In verità
dovremmo prendere seriamente in
considerazione l’idea di utilizzare gli
omosessuali per obiettivi di intelligence
politici e militari». Qualche mese dopo i
primi agenti di quella task force saranno
operativi. In ogni angolo d’Europa prigioniera del nazismo.
uale fu la mia sorpresa quando, più tardi, Jeanlouis ebbe a
rivelarmi che Georges era una specie di personaggio politico (anzi aggiunse Jeanlouis, un eroe), che nel corso della
guerra aveva reso, e rendeva tuttora, preziosi servigi agli Alleati,
che essendosi trovato a Londra nell’estate del 1940, s’era calato
in paracadute sul territorio francese, che tre volte, dal 1940 in poi,
era riuscito a recarsi in Inghilterra attraverso la Spagna e il Portogallo e tre volte era tornato in Francia in paracadute per compiervi missioni di delicata importanza, e che gli Alleati lo avevano in così grande considerazione da metterlo alla testa del maquis degli invertiti d’Europa.
Gli invertiti sparsi per tutta l’Europa, e naturalmente anche in
Germania e nell’Urss, si erano dimostrati elementi preziosissimi
per il servizio informazioni inglese e americano, svolgendo, fin
dall’inizio della guerra, un lavoro politico e militare particolarmente delicato e pericoloso. Gli invertiti... costituiscono una specie di confraternita internazionale, una società segreta governata dalle leggi di un’amicizia tenera e profonda, che non è alla
mercé della proverbiale incostanza del sesso. L’amore degli invertiti è, grazie a Dio, al di sopra dell’uno e dell’altro sesso, e sarebbe un sentimento perfetto, del tutto libero da ogni specie di
umana schiavitù, così dalle virtù come dai vizi propri dell’uomo,
se non lo dominassero i capricci, gli isterismi, e certe meschine e
tristi malvagità, naturali al loro animo di vecchie zitelle. Ma il famoso Generale americano Donovan, di cui Georges era divenuto
il braccio destro per tutto quanto concerneva il maquis degli
omosessuali, aveva saputo trarre vantaggio dalle stesse debolezze dell’inversione sessuale, sino a farne un meraviglioso strumento di lotta. Un giorno, forse, quando i segreti di questa guerra potranno essere rivelati ai profani, sarà dato conoscere quante vite umane sono state salvate grazie alle segrete carezze dei mignons sparsi in ogni paese d’Europa. Tutto è stato messo in opera
in questa terribile e strana guerra, ai fini della vittoria, tutto, anche la pederastia: la quale merita, perciò, il rispetto di ogni sincero amante della libertà. Certi moralisti, forse, non saranno di questo parere ma non si può pretendere che tutti gli eroi siano di costumi illibati, e d’un sesso ben definito. Non esiste un sesso obbligato per gli eroi della libertà.
L’idea del maquis degli invertiti era stata un’idea di Georges: e a
lui spetta il merito di avere organizzato, in tutti i paesi occupati dai
tedeschi, perfino in Germania, quel rèseau di giovani mignons che
tanti e così preziosi servizi hanno reso alla causa della libertà europea. In quel novembre del 1943, Georges era venuto clandestinamente da Parigi a Napoli per concertare col Comando Supremo
Alleato di Caserta il piano da svolgersi in Italia...».
(da “La Pelle”, Arnoldo Mondadori Editore)
34 LA DOMENICA DI REPUBBLICA
DOMENICA 31 LUGLIO 2005
Sono passati quasi trent’anni dall’uscita di “Tutti gli uomini
del presidente”, la pellicola sull’inchiesta giornalistica contro Richard
Nixon che per la prima volta spezzò un tabù: attaccare il simbolo stesso
della democrazia americana. Da allora i leader di Washington sono stati protagonisti
dei copioni di Hollywood sempre più spesso. Fino a diventare, nei lavori di registi
come Michael Moore, materia di documentario
Film
e
Potere
L’occhio indiscreto del cinema
sui segreti della Casa Bianca
I TITOLI
MARIA PIA FUSCO
ovremo tutti andare a lavorare
per vivere», dice
in Tutti gli uomini del presidente un redattore del Washington Post quando è
sempre più evidente l’alto livello di
potere che toccherà l’inchiesta sul
Watergate dei colleghi Carl Bernstein
(Dustin Hoffman) e Bob Woodward
(Robert Redford). Una volta tanto
però il potere ha la peggio e, se mai, è
il presidente Nixon a doversi cercare
un lavoro. Nella realtà come nel film.
Che, con il suo successo, restituì la serenità al direttore del Washington Post Katharine Graham, terrorizzata
dall’uso nel film del vero titolo del
quotidiano (è vero anche il numero
che Redford compone, 4561414: era il
centralino della Casa Bianca) ma anche un’ondata di rispetto per i professionisti dell’informazione che, almeno sullo schermo, l’avevano perduto
da tempo, per colpa di una serie di film
e di documentari che denunciavano il
silenzio e la viltà della categoria durante il maccartismo e di capolavori
degli anni Cinquanta, come Un volto
nella folla o L’asso nella manica che
avevano lasciato l’idea del giornalista
ambizioso, cinico, senza scrupoli. Resisteva in positivo solo la figura del romantico Gregory Peck di Vacanze romane che sacrifica lo scoop all’amore.
Ma l’impatto più significativo di Tutti
gli uomini del presidente fu sul cinema
stesso, in cui cominciò a frantumarsi
un tabù: il Potere si poteva toccare,
senza troppe remore né cautele. Un
potere, quello della Casa Bianca e dei
suoi abitanti, che da sempre avevano
sollecitato la curiosità del cinema. È
del 1901 il primo documentario sulla
residenza presidenziale e, nel 1933, il
presidente fu impersonato da Walter
Huston in Gabriel over the White House, un presidente che, dopo un incidente, da bonario e liberale diventa
autoritario, decisionista, spietato con
i cattivi. Era un film di Gregory La Cava, voluto da William Randolph Hearst (Citizen Kane) come stimolo per la
politica di Roosevelt e che, guarda caso, è riemerso di recente in dvd per
l’assonanza con l’America di Bush.
Negli anni ’40 e ’50, il potere ha i volti
rassicuranti e onesti di attori come James Stewart, Mr. Smith va a Washing-
«D
GABRIEL OVER THE WHITE HOUSE
Repubblica Nazionale 34 31/07/2005
Nel 1933, regista Gregory La Cava, il
primo film su un presidente. Che usa il
potere per cambiare il mondo
TUTTI GLI UOMINI DEL PRESIDENTE
Nel ‘76 il primo film-inchiesta sulla
Casa Bianca. Racconta il Watergate, lo
scandalo che fece dimettere Nixon
JFK
Nel 1991 Oliver Stone indaga
sull’omicidio Kennedy, con un film sulle
incoerenze della ricostruzione ufficiale
GLI INTRIGHI DEL POTERE
Nel’95 Oliver Stone riporta al cinema
il Watergate, cercando di interpretare
il punto di vista del presidente Nixon
In precedenza i presidenti Usa erano stati
rappresentati come eroi, o impersonati
da attori dal volto onesto e rassicurante.
Al limite si poteva arrivare alla commedia
dai toni blandamente dissacratori
ton di Frank Capra, un candidato che
con la sua fede incrollabile nella democrazia americana, è il simbolo della filosofia del New Deal o come Spencer Tracy in Lo Stato dell’Unione (ancora di Capra) che quando si accorge
di essere strumentalizzato da industriali corrotti rinuncia alla presidenza. Poi è la commedia blandamente
dissacratoria ad entrare nella Casa
Bianca, con il film Kisses for my president che porta la prima donna al comando nella stanza ovale (in crisi per
alcuni guai del marito) – la stessa storia di First man, annunciato per il 2006
con Meryl Streep e Robert De Niro – e
The president’s analyst con James Coburn, psicanalista del presidente che
si sente in pericolo per i torbidi segreti che viene a sapere e per questo finisce nel mondo hippy. Nello spirito degli anni Sessanta il thriller fantapolitico Sette giorni a maggio di
Frankenheimer: il presidente, Fredric
March, firma un accordo di disarmo
con l’Urss contro il parere del generale Burt Lancaster che trama un colpo
di stato, sventato dal fedele colonnello Kirk Douglas: le colombe vincono
sui falchi. Ma sulla guerra tra falchi e
le colombe il capolavoro resta Il dottor
Stranamore di Kubrick.
Dopo lo scossone di Tutti gli uomini
del presidente, ci volle tempo prima
che il cinema tornasse alla Casa Bianca, era più forte il tema del Vietnam e
delle sue conseguenze, c’era l’America mortificata da raccontare. Furono i
documentari a cercare di recuperare
prestigio per la presidenza con una serie di biografie agiografiche dei presidenti del passato e con curiosità interne, come Backstairs at the White House che affidava il racconto dei personaggi del potere ad anziani assistenti,
portieri, domestici e lavoratori dei
“piani bassi” che vivevano all’interno
da decenni. Solo alla fine degli anni
Ottanta gli sceneggiatori riportano
Casa Bianca e presidenti sullo schermo, con ricostruzioni di vicende vere
o con storie spesso feroci che, pur
stemperate nella finzione, usano comunque spunti di realtà riconoscibile.
Per l’influenza sulla realtà, un film
in parte vicino a Tutti gli uomini del
presidente è JFK – Un caso ancora
aperto che, mettendo insieme inchieste ufficiali e giornalistiche, riuscì a
raggiungere almeno parzialmente
l’obiettivo di far riaprire l’indagine.
L’autore è il passionale Oliver Stone
DOMENICA 31 LUGLIO 2005
LA DOMENICA DI REPUBBLICA 35
IERI E OGGI
FOTO AP
Accanto:
Robert
Redford oggi,
al Sundance
Film Festival.
A sinistra,
con Dustin
Hoffman nel
film “Tutti gli
uomini del
presidente”,
del 1976
Redford. Vi svelo
i retroscena
del mioWatergate
RENZO FEGATELLI
T
KARLOVY VARY
utto cominciò in treno. Dopo
aver origliato — male — una conversazione fra i compagni di viaggio. Racconta Robert Redford: «C’erano giornalisti che parlavano di uno scandalo
che rischiava di essere insabbiato.
Chiesi di cosa si trattava, perché non
avevo seguito il discorso. Mi era sembrato che parlassero di ladri legati con
Cuba. “Assolutamente no”, mi risposero». Era il Watergate, era l’inizio dell’estate del ‘72. Bob Woodward e Carl
Bernstein non avevano ancora messo
le mani sull’inchiesta giornalistica del
secolo. Tutti gli uomini del presidente
era ancora lontanissimo. Ma tutto cominciò quel giorno, in treno.
Cosa disse a quei giornalisti?
«Chiesi: voi credete che ci sia
molto di più su questa storia e non
avete intenzione di occuparvene? E
loro mi diedero una risposta che mi
lasciò di sasso».
Che risposta?
«Dissero che io non avevo idea di
come andassero queste cose a Washington. Che Nixon avrebbe vinto
nuovamente le elezioni, che George
McGovern avrebbe perso alla grande, e che nessuno avrebbe voluto
trovarsi dalla parte sbagliata al momento della
rielezione perché Nixon
era circondato da gente
dalla mentalità criminale. E quando, per provocarli, chiesi se avevano
paura, loro replicarono:
“Non è solo questo. Il fatto è che tutto ciò non interessa a nessuno”».
E allora decise di farci un film.
«No, non ancora. Devo dire che però quella
conversazione mi lasciò depresso».
Come andarono allora le cose?
«Quell’estate mi misi a
seguire il caso sui giornali. A fine luglio
e in agosto cominciarono a uscire articoli con due firme: Carl Bernstein e
Bob Woodward. Non ricordavo i nomi, ma ricordavo che erano due e che
le storie diventano sempre più grandi.
Poi iniziarono a spuntare i primi nomi. La vicenda si allargò. E crebbe anche la mia curiosità».
Era attratto dallo scandalo politico o dal lavoro dei due cronisti?
«Difficile dirlo. So per certo che a
un certo punto mi concentrai su quei
due. Lessi che uno era ebreo, l’altro
Wasp. Uno era liberal-radical e l’altro repubblicano. E soprattutto che i
due non si piacevano, ma dovevano
lavorare insieme. Pensai che ne avrei
potuto trarre un piccolo film carino,
uno studio di caratteri».
All’epoca li conosceva di persona?
«No. Ma ricordo che a un certo punto cercai Carl Bernstein al telefono.
Quando lo trovai, giorni dopo, mi sembrò molto freddo. Gli dissi che volevo
parlargli, e lui rispose che era molto occupato: “Non è un buon momento”».
Rimase male per quell’atteggiamento?
«Sì, ma poi capii che erano molto
spaventati e che sapevano di essere
controllati. E soprattutto non avevano
fiduciainme.Anzi,comescopriidopo,
non sapevano che fossi davvero io. Rinunciai al progetto del film».
E quando riprese interesse per il
Watergate?
«A febbraio dell’anno successivo,
quando all’improvviso venne fuori la
lettera-confessione di uno dei protagonisti del caso. Allora richiamai Carl.
Stavolta lui fu più cordiale: «Vediamoci a Washington in un luogo privato», disse. Proprio così, proprio come
aveva fatto chissà quante volte con
Gola Profonda. Volai nella capitale,
dove lo incontrai in gran segreto».
Cosa le disse Bernstein?
«Testualmente: “Al telefono non
credevo che fosse lei sul serio”. Io rilanciai l’idea del film. E lui: “Siamo
ancora impegnati nell’inchiesta. Diventa sempre più grande e non sappiamo dove ci porterà ma dobbiamo
continuare”. Però non mi chiusero la
porta in faccia: “Vogliamo scrivere
un libro e ne avremo per sei mesi,
quindi dovrà aspettare. Ma stia tranquillo: le daremo i diritti per il film”».
Un altro stop, dunque.
«Sì, passarono altri nove mesi. Nel
frattempo però il Watergate continuò a far parlare il mondo intero, anzi esplose nella forma di uno scandalo gigantesco. Stava diventando un
caso storico. Mi rimisi in contatto
Carl e Bob. Quando ci rivedemmo, a
Washington, loro mi diedero i loro
appunti e le loro interviste».
Non le venne la curiosità di chiedere chi fosse Gola profonda?
«Ovviamente sì. Ma Woodward
mi spiegò che non poteva dirmelo.
E in fondo pensai che probabilmente era meglio così. D’altronde il
mio obiettivo non era fare un film su
Nixon o il Watergate ma sull’importanza delle inchieste dei giornalisti.
E in effetti così è stato».
Adesso si sa che Gola profonda era
l’allora numero due dell’Fbi Mark
Felt. Che effetto le ha fatto la sua
confessione?
«Mah, mi ha tolto
una curiosità. Ma
nulla di più. Siamo
sicuri che il punto
sia sapere chi ha fatto scoppiare quello
scandalo? Non è forse più importante
avere a mente la vicenda in sé? Anche
perché non è tutta
acqua passata. Oggi
viviamo — per molti
versi — in tempi simili a quelli: non a
caso si parla ancora
di intercettazioni telefoniche illegali, di
controlli, di politici
che dicono il falso».
Si riferisce alla
guerra in Iraq?
«Sì, penso che siamo stati portati in guerra sulla base di
false informazioni. Credo però che la
maggior parte di noi americani sia
cosciente delle menzogne che ci
vengono raccontate. E in fondo questa è una buona notizia perché vuol
dire che il nostro paese può continuare, nonostante gli errori, ad essere di grande esempio per il mondo».
Torniamo a Tutti gli uomini del
presidente. Alla fine è rimasto soddisfatto del film?
«Devo dire di sì. Sono molto orgoglioso di quel film perché abbiamo
speso tanto tempo nei dettagli e il risultato è stato molto buono: abbiamo fatto un bell’affresco della lotta
per il potere negli Stati Uniti».
Crede anche che quel film abbia
cambiato le cose?
«Mah, i film giocano un ruolo nell’opinione pubblica ma non cambiano la realtà. Devo dire però che
dopo l’uscita della pellicola un sacco
di giovani americani decisero di studiare giornalismo sognando di diventare come Woodward e Bernstein. Certo, oggi il mondo del cinema e dell’informazione sono molto
diversi dagli anni ‘70».
Vuole dire che non è più possibile
girare film-verità?
«Non saprei. So solo che si decide
di fare un film sulla base di ricerche di
marketing. E il mercato che interessa è quello dei giovani. Non è un caso
se gli effetti speciali sono diventati
così importanti. Si vedono film sempre più simili ai cartoni animati. Ecco perché mi sono impegnato nel
Sundance Film Festival: volevo tener
vivo il cinema indipendente, che era
a rischio estinzione».
Non sarà anche che lei vuole diventare un punto di riferimento dell’opinione pubblica progressista?
«Ma no. Guardi, le dico una cosa:
non credo nelle esternazioni. Preferisco lavorare dietro le quinte. E raccontare storie, che poi è il modo migliore per raccontare la realtà».
Incontrai
di nascosto
Repubblica Nazionale 35 31/07/2005
che quattro anni dopo, nel 1995, con
la stessa tecnica di mischiare finzione, repertorio e documentario, gira
Nixon – Gli intrighi del potere, un ritratto del presidente forse più odiato
e discusso della storia contemporanea, segnato da un complesso di inferiorità nei confronti dei Kennedy e
dalla consapevolezza di non essere
amato. Memorabile la battuta che
Nixon rivolge a Kennedy: «Guardano
te e si vedono come vorrebbero essere, guardano me e si vedono come sono». Malgrado l’impopolarità, o proprio per questa, Nixon continua nel
tempo ad ispirare il cinema. È del
1999 Le ragazze della Casa Bianca,
con Kirsten Dunst e Teri Garr, una parodia sfacciata del Watergate, in cui le
Gole profonde sarebbero due, le due
ragazze assunte da Nixon come accompagnatrici dei suoi cani che, scoperti i pessimi comportamenti privati del presidente, ne parlano in giro,
anche con quelli del Washington Post. Più interessante The Assassination
dell’anno scorso, la storia vera di un
venditore di mobili di Baltimora interpretato da Sean Penn, deciso a realizzare il suo sogno americano eliminando Nixon, e che nel 1974 prepara
un folle piano per ucciderlo, sventato
solo per caso.
Gli anni Novanta abbondano di cinema sul potere. C’è di tutto. Satire
impietose e scatenate alla Tim Burton di Mars Attacks!, con gli alieni cattivissimi, eppure più simpatici dei
terrestri, che invadono il Congresso e
arrivano ad uccidere il Presidente, un
esilarante Jack Nicholson dubbioso
sui valori della civiltà terrestre, che
non prova neanche a reagire. Ci sono
perfide commedie come Dave: presidente per un giorno con Kevin Kline
che, per la forte somiglianza con il capo della Casa Bianca è assunto come
sua controfigura e quando il vero
presidente è colto da un ictus durante un amplesso con l’amante, è costretto a partecipare ad incontri ufficiali che non sa come gestire. Ci sono
storie eroiche come Air Force One
con Harrison Ford che da solo sconfigge un gruppo di terroristi appropriatisi dell’aereo presidenziale o
edificanti come Il presidente – Una
storia d’amore di Rob Reiner, protagonista Michael Douglas, vedovo
con una figlia adolescente, che riafferma la sua dignità e i suoi doveri di
primo cittadino d’America ma, inna-
morato di una sua assistente, proclama anche il diritto alla felicità personale, un film che molti considerarono uno spot elettorale per Clinton. I
riferimenti a Clinton e al “Sexgate”
sono chiari nella commedia I colori
della vittoria di Mike Nichols con
John Travolta (che imita persino il
modo di parlare di Clinton), candidato democratico, amatissimo da tutti
finché non emergono le sue avventure extraconiugali e la sua vita diventa
un inferno, con la moglie sorridente
in pubblico ma furiosa in casa. La
morale è che se un uomo è un grande
politico, “chi se ne frega” della sua
inaffidabilità nel privato.
Tutt’altro che benevolo il tono di
Potere assoluto di e con Clint Eastwood nel ruolo di un onesto scassinatore che durante un colpo assiste
non visto all’omicidio di una donna
da parte del presidente Usa e che fino
alla fine lotta per liberarsi degli intrighi della polizia e dei servizi segreti
che accusano lui dell’omicidio. Il film
fu preceduto e accompagnato da una
serie di dichiarazioni che garantivano la finzione della storia e «nessun
riferimento a fatti o personaggi reali». Dalla parte di Clinton sono usciti
parecchi documentari sulle sue campagne – il più bello è War Room, che
segue gli entusiasmi e le stanchezze
della campagna elettorale del 1993,
ed è dell’anno scorso The Hunting of
the President, una documentazione
accurata degli intrighi e dei complotti che per dieci anni tentarono di
oscurare la suo figura. Ma il più feroce dei film recenti è senz’altro Sesso e
potere di Barry Levinson, uscito fra
l’altro nei mesi caldi del “Sexgate” di
Clinton: Robert De Niro e Dustin
Hoffman preparano un finto documento sull’Albania aggredita pur di
dichiarare una guerra e distogliere
l’attenzione da piccoli scandali sessuali del presidente.
Subito dopo arriva l’era di Bush jr, il
quale, da Fahrenheit 9/11 di Michael
Moore in poi è protagonista di una
lunga serie di documentari che affermano le verità sulle ragioni e le bugie
della guerra in Iraq in contrapposizione alle mistificazioni dei media ufficiali. Per ora il cinema di finzione, frenato dalla cautela e dalla realtà del terrorismo, lo ha risparmiato. Ma non è
difficile prevedere che nel tempo Bush jr diventerà protagonista dello
schermo almeno quanto Nixon.
I TITOLI
POTERE ASSOLUTO
Il presidente di cui parla Clint Eastwood
nel’96, è un uomo manesco e volgare,
coinvolto nell’omicidio dell’amante
SESSO E POTERE
Nel’98, in pieno Sexgate, la storia
di un presidente che distrae l’opinione
pubblica fingendo una guerra
THE HUNTING OF THE PRESIDENT
Nel 2004 il documentario che cerca di
gettare nuova luce sul caso Sexgate e
su chi (forse) lo ha montato ad arte
FAHRENHEIT 9/11
Bush, l’11 settembre, il petrolio, l’Iraq.
Michael Moore racconta quella che,
secondo lui, è una grande cospirazione
“Woodward
e Bernstein
a Washington:
proprio come
loro facevano
con Gola
profonda”
DOMENICA 31 LUGLIO 2005
LA DOMENICA DI REPUBBLICA 37
spettacoli
Quattrocento pagine, 187 testimoni, quattro anni
di lavoro: esce negli Stati Uniti “Room full of mirrors”
di Charles Cross, una biografia del musicista di Seattle
ucciso da un’overdose 35 anni fa. E ne svela molti aspetti
sconosciuti: il legame morboso con la madre morta,
il congedo dal militare per tendenze omosessuali
Miti del rock
La leggenda di Jimi Hendrix
A
NEW YORK
Seattle i ragazzi cercano
ancora le vestigia del
grunge. Vanno in visita,
mestamente, alla villa con
vista su Lake Washington, dove Kurt Cobain dei Nirvana si tolse la vita, nel 1994.
Poi raggiungono a piedi il cimitero dove
Bruce e Brandon Lee, padre e figlio, riposano fianco a fianco. I più esperti sanno
anche dove si trova il club dove John Coltrane registò il suo mitico Live in Seattle,
che ora è diventato un fast food indiano.
Ma il momento clou del pellegrinaggio
nella città in cui sia Ray Charles che
Quincy Jones negli anni Quaranta mossero i primi passi nel mondo della musica è a meno di un’ora di macchina dal
centro, direzione Renton. Tappa obbligata: Greenwood Memorial Park, il cimitero dove 35 anni fa fu sepolto Jimi Hendrix, una leggenda della chitarra rock,
morto per overdose a Londra il 18 settembre del 1970. A 27 anni.
Da quella lapide piatta, invisibile nel
prato sconfinato che circonda il crematorio, il giovane Charles R. Cross ha iniziato le sue indagini per compilare Room
full of mirrors (Ed. Hyperion Bookk, 388
pagg, $ 24,96), la più intrigante delle biografie su Jimi Hendrix, arrivata lunedì
scorso nelle librerie di New York e in uscita in tutti gli States il 3 agosto. Era il volume definitivo su “Buster”, così in famiglia chiamavano l’artista, che tutti aspettavano. Perché Cross, scrupoloso e appassionato autore del Northwest, è reduce da un successo editoriale di dimensioni clamorose con Heavier than
heaven: A Biography of Kurt Cobain, bestseller del New York Times.
Prima di iniziare un lavoro durato quattro anni e di incidere la prima delle 187 interviste che gli sono servite a ricomporre
la storia di un personaggio che già il mito
cominciava a ossidare, Cross si è chiesto
come mai nessuno si fosse mai preoccupato di ritrovare, in quello stesso cimite-
ro, la lapide della mamma
di Jimi, Lucille, morta
quando lui era ancora ragazzino. A lei dedicò uno
dei suoi capolavori, Castles made of sand, come
ha rivelato Leon, uno dei
cinque fratelli (quattro furono dati in affidamento
in tenera età).
Neanche Al Hendrix, il
padre di Jimi, che era ancora vivo quando Cross ha
iniziato il suo lavoro, seppe
dar conto di quella negligenza familiare. Ma lo
scrittore ha perseverato e,
consultando le varie piante
del cimitero, ha riportato
alla luce la tomba di Lucille,
interrata di mezzo metro.
Gli è sembrato un omaggio
doveroso all’artista che
stava richiamando in qualche modo in vita. Nel momento stesso in cui ridava
dignità all’adorata madre,
incominciava a correggere
le molte inesattezze scritte
dai precedenti biografi, soprattutto da papà Al nell’opportunistico volume
My son Jimi. In una visita alla cantina in cui gli Hendrix
conservano i cimeli appartenuti al chitarrista, Cross
ha anche scoperto con
commozione un reperto
che era stato sempre trascurato: uno specchio andato in pezzi i cui frammenti erano stati ricomposti su una superficie di cemento. Un’opera creata da
Jimi, con la scritta: «Questa
è la mia stanza piena di
specchi» (da qui il titolo dell’opera).
L’artista aveva sempre detto di aver lasciato la decima divisione aviotrasportata a 19 anni, nel 1962, dopo essere rimasto
ferito in seguito a un lancio col paracadu-
te. Ma l’autore, che ha avuto accesso agli archivi militari, afferma che Hendrix
fu in realtà congedato
«perché aveva tendenze
omosessuali»: pur di mollare l’esercito in fretta e di
tornare alla sua chitarra,
fece credere allo psichiatra
di Fort Campbell, nel Kentucky, di essersi innamorato di un commilitone.
Sebbene la sessualità del
chitarrista, che nel 1969
mandò in delirio il popolo
di Woodstock incendiando in una folle celebrazione notturna la sua chitarra,
non sia il fulcro centrale di
Rooms full of mirrors,
Cross indugia molto sulla
magnetica sensualità con
cui Jimi conquistava uomini e donne.
Aveva ereditato da Al un
ottavo di sangue Cherokee, aveva un ascendente bianco e, da parte di
madre, portava i segni di
un’avvenenza che venti
anni prima aveva fatto di
Lucille la più attraente ragazza nera di Seattle. La
sua passione per le donne
era leggendaria, fin da
adolescente. Alla sua prima fidanzatina confessò
di essere stato molestato
«da un uomo in divisa». Su
quell’episodio, raccontato anche ad altre donne, Jimi non forniva mai spiegazioni, ma alla luce dell’infanzia disastrata «e vissuta tra i più poveri dei poveri» raccontata da Cross,
non meraviglia che quel ragazzo di strada, abbandonato dalla madre, trascurato dal padre, sballottato tra una nonna e
uno zio, tra un amico di famiglia e le cure dei genitori dei compagni di scuola,
FOTO LAPRESSE/ZUMAPRESS
GIUSEPPE VIDETTI
L’ICONA INDIMENTICATA
Jimi Hendrix in una foto
del 1969: il chitarrista
mito del rock morì per overdose
a Londra il 18 settembre 1970
possa aver fatto incontri spiacevoli.
Fu proprio la carenza di affetto accumulata in quei primi anni a Seattle,
«quando metteva dei pezzi di cartone
dentro le scarpe bucate che non aveva i
soldi per risuolare», che segnò le future
scelte del chitarrista. E la sua sessualità
borderline: «Jimi cercava sempre di
coinvolgere un altro ragazzo nei nostri
giochi amorosi», racconta una delle sue
girlfriend inglesi. Fu a Londra, in effetti,
che Hendrix cominciò la sua scalata al
successo, già riconosciuto chitarrista insuperabile da Paul McCartney, «che una
volta gli passò lo spinello», e Clapton, che
allora aveva appena abbandonato i
Cream. Eric fu uno dei primi «maschi»
dello show business a riconoscere pubblicamente che «Jimi emanava una considerevole carica sessuale».
Una zia di Seattle, ancora in vita, ricorda che Buster, devastato dalla morte di
Lucille, era diventato taciturno e solitario. «Un giorno, guardando il cielo, disse
con una convinzione che mi mise i brividi: “Me ne andrò di qui, diventerò famoso. Tutti parleranno di me. Poi raggiungerò mamma tra gli angeli”. Non sapevo
che rispondere. Dissi: “Tutti noi un giorno andremo da lei”».
Più dei baccanali con le groupie che si
tenevano alla fine dei concerti, più del
devastante rapporto con l’eroina e la sua
devozione alla chitarra (Jimi era mancino «anche se Al lo picchiava quando lo
trovava a suonare con la sinistra»),
Rooms full of mirrors conquista per la
straordinaria narrazione con cui Cross
riesce a far rivivere l’inferno dell’infanzia e dell’adolescenza di Hendrix. Che,
artisticamente, sfociò in quella geniale
idea di «Chiesa elettrica» che sfortunatamente non ebbe il tempo di mettere in
pratica. Voleva creare al di là degli stereotipi, senza le pressioni dell’industria,
sperimentando con Miles Davis. A 27
anni sarebbe stato capace di rinnegare i
capolavori in nome dell’arte: All along
the watchtower, Hey Joe, The wind cries
mary, Voodoo chile. Oggi il rock non può
farne a meno.
Repubblica Nazionale 37 31/07/2005
Massimo Ranieri Tour 2005
GIUGNO
2-3 Napoli- Teatro S. Carlo
6
Milano – Teatro Strehler
11 Gallipoli (Le) – Premio Barocco
25 Macerata – Musicultura
29-30 Napoli – Arena Flegrea
LUGLIO
9
Salerno – Arena del Mare
10 Cagliari - Teatro Romano
Tributo a De Andrè
12 Pergine (Tn) – P.zza S. Maria
14 Varallo (Vc) – P.zza V. Emanuele
15 Sanremo (Im) – Arena C. Dapporto
16 Monforte d’Alba (Cn) Auditorium
23 Santa Marinella (Roma)
Castello di Santa Severa
29 Cartagine (Tunisia)
Teatro Romano
AGOSTO
1
Portici (Na) - La Reggia
2
Vasto (Ch) – Villa d'Avalos
4
Terracina (Lt) - Arena Il Molo
7
Marina di Pietrasanta (Lu)
La Versiliana
11 Anzio (Roma) – Villa Adele
12 Fiuggi (Fr) – Teatro Tenda
13 Agropoli (Sa) – Teatro del Porto
16 Padula (Sa) – Cortile della Certosa
18 San Lucido (Cs) – Campo Sportivo
19 Altomonte (Cs) – Anfiteatro
20 Spoleto (Pg) - Piazza del Duomo
21 Macerata - Arena Sferisterio
23 Ischia (Na) – Negombo
24 Procida (Na) – Campo Sportivo
26 Agrigento - Valle dei Templi
27 Misterbianco (Ct)
Teatro Arena Pertini
28 Palermo - Teatro di Verdura
30 Vittoria (Rg) - Fiera Emaia
SETTEMBRE
16
Caserta - Palazzo Reale
23-30 Napoli - Teatro Augusteo
OTTOBRE
1-2
Napoli - Teatro Augusteo
7 - 15 Tour Stati Uniti e Canada
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38 LA DOMENICA DI REPUBBLICA
DOMENICA 31 LUGLIO 2005
i sapori
Spuntini tutto gusto
Nate come “cibo povero”, le bruschette sale-aglio-olio
della civiltà contadina si sono evolute e raffinate grazie
all’aggiunta di mille ingredienti classici e non. E ora,
nei più caldi mesi estivi, danno il meglio di sé accompagnate
da salse fresche, pomodori maturi, pesce, salumi e ortaggi
di stagione. Provare per credere
Crostini
Nozze perfette tra pane e fantasia
LICIA GRANELLO
Napoletani
Summa gloriosa delle materie
prime campane. Il pane imburrato
accoglie mozzarella, acciuga
e pomodori secchi a tocchetti
Dopo l’aggiunta di sale, pepe, olio
si passa in forno per pochi minuti
Piccanti
Versione leggera della besciamella
(con brodo di carne) arricchita
da capperi, prezzemolo e alici
Dopo una vigorosa impepata,
si spalma la salsa sul pane
abbrustolito o fritto in extravergine
Repubblica Nazionale 38 31/07/2005
Stracchino & salsiccia
Si lavora la salsiccia priva
del budello insieme allo stracchino
con la forchetta. Il composto va
spalmato su pane di campagna
leggermente tostato. Dieci minuti
in forno caldo per fondere il tutto
Isolani
Arrostire le melanzane al forno
e scavare per ricavarne la polpa,
che viene mescolata con uova
sode e una cipollina tritate
Amalgamata con maionese, si
spalma la crema sul pane tostato
Gamberi e bacon
Si passano in forno molto caldo
le code dei gamberi avvolte
in fettine di pancetta affumicata
Crogiolato il grasso, si appoggiano
sui crostini di pancarré spalmati
di burro con erbe tritate e sale
n principio fu la bruschetta: meravigliosa trasformazione dell’avanzo
per eccellenza, il pane raffermo, in cibo povero ma bello. Facile e rapido:
basta prendere una fetta, resa croccante dal passare dei giorni, strofinarla con uno spicchio d’aglio, e battezzarla con extravergine saporito (la più misera
delle famiglie contadine non avrebbe mai
utilizzato l’olio di semi!).
Da lì in poi, l’unico limite è stata la fantasia: così, dagli ingredienti più semplici —
pomodoro maturo “stropicciato” sul pane,
olio e sale grosso, tipico della campagna toscana — a quelli più complessi (insalata di
granchio, baccalà matecato, funghi trifolati), su su fino a quelli scopertamente preziosi (salmone affumicato, foie gras, caviale),
negli anni il crostino ha acquisito tale dignità e nobiltà, da essere presente senza alcun pudore gastronomico su tutte le tavole
e nelle occasione più diverse.
Addirittura, in Spagna, le tapas sono considerate un a cibo a tutto pasto, e i bar a tapas sono diffusi quanto e più dei locali di ristorazione classica: rappresentano una categoria a sé stante, che si è ricavata uno spazio autonomo, attingendo alla “facilità” di
pub e pizzerie, all’atmosfera morbida e allegra dei bistrò, all’attenzione culinaria dei
ristoranti. A frequentarli, in maniera assolutamente trasversale, sia i ragazzi — che
con pochi euro possono godersi un ventaglio di piccole prelibatezze — sia chi, senza
voglia o tempo di concedersi un pasto in
piena regola, non vuole rinunciare alla piacevolezza degli assaggi più sfiziosi.
In Italia, le taperie sono un ingresso recente, approdate insieme alla curiosità per
la cucina spagnola, rappresentate in primis
dallo storico pan con jamon y tomate, il padre di tutti i crostini spagnoli: “filoncini” di
pane aperti in due, strofinati con pomodoro, conditi da qualche goccia d’olio e rifiniti con fette di prosciutto crudo iberico (più
asciutto e stagionato del nostro). A seguire,
gli altri classici, dai sapori abbastanza robusti, che ruotano soprattutto intorno a salumi, uova, pesce.
Questione di flessibilità culinaria. Se
d’inverno il crostino caldo è un gran bel modo di cominciare una cena conviviale, dalla bagna cauda piemontese ai ragout di
frattaglie — in estate il pane più o meno tostato e farcito diventa il vero eroe delle nostre cene, il cibo salva-pasti, terminale sicuro anche nei momenti di maggior
sconforto gastronomico.
Perché siamo in vacanza e non abbiamo
nessuna voglia di ripetere i rituali obbligati, felicemente abbandonati in città insieme alla borsa dell’ufficio. O perché in città
ci siamo ancora, le temperature sono da
deserto somalo, siamo avviliti per aver lasciato il referigerio dell’auto climatizzata
o devastati dal caldo sudato dei mezzi
pubblici, e la sola idea di metterci ai fornelli ci fa ribrezzo.
Re Crostino non tradisce mai. Si apre il
frigo, il barattolo della maionese e il vasetto di acciughe occhieggiano dal ripiano
più alto, i pomodori non mancano, c’è anche la vaschetta dell’insalata già lavata. La
mozzarella, meglio farla riprendere dal
freddo (che odia) lasciandola intiepidire
nel suo liquido di governo, riscaldato per
pochi attimi.
Se il buonumore lo consente (accostarsi
al fornello in questi giorni è un esercizio di
stoicismo), si possono far rassodare delle
uova, vero passpartout del crostino, sia tagliate a rondelle, che tritate o montate — solo il rosso — con un filo d’olio per una maionese “cotta” al riparo di qualsiasi germe. La
loro cottura — tempi e modi — divide l’umanità cuciniera in scuole di pensiero antitetiche e pervicaci, tra chi le fa bollire a oltranza, chi le vuole con il rosso colante, chi
le mette in acqua bollente direttamente dal
frigo (la crepatura del guscio è garantita). Se
le mettete a cuocere in acqua a freddo, spegnendo il fuoco a bollore raggiunto e lasciandole riposare venti minuti nel pentolino prima di sgusciarle sotto l’acqua fredda,
saranno perfette nel piatto e per il vostro fegato. Gualtiero Marchesi docet.
I
DOMENICA 31 LUGLIO 2005
LA DOMENICA DI REPUBBLICA 39
itinerari
Cogne (Ao)
Brisighella (Ra)
Ischia (Na)
È un ex centro minerario
riconvertito al turismo
Dominato dal castello
di Aymavilles, gode
delle meraviglie
ambientali del parco
del Gran Paradiso
Tra le produzioni
golose, formaggi
(Fontina d’alpeggio) salumi (lardo d’Arnad)
e i distillati d’erbe
Borgo medievale tra
i più belli d’Italia, è
luogo amatissimo
dai turisti
e superpremiato:
bollino arancione
(certificazione
di qualità) del Touring
Club, città Slow –
elogio della lentezza a tavola e fuori – di Slow
Food, vanta anche un olio extavergine dop
Colonia greca ben
conosciuta per le sue
acque termali, deve
il suo nome al tardo
latino “iscla”, isoletta.
La tradizione culinaria
locale è equamente
divisa tra terra e mare,
dal coniglio
all’ischitana cotto nella creta agli spaghetti
con la ricciola
DOVE DORMIRE
DOVE DORMIRE
DOVE DORMIRE
LA BARME
Località Valnontey
Tel. 0165-749177
Camera doppia da 100 euro
colazione inclusa
AL MULINO DI SANT’EUFEMIA B&B
Via Rio Cò 24
San Cassiano di Brisighella
Tel. 0546-86106
Camera doppia a 55 euro,
colazione inclusa
AGRITURISMO IL VITIGNO (CON CUCINA)
Via Bocca, 31
Forio d’Ischia
Tel. 081-998307
DOVE MANGIARE
DOVE MANGIARE
BRASSERIE DU BON BEC (HOTEL BELLEVUE)
Rue Grand Paradis 22
Tel. 0165-74825
Senza chiusura
Menù a partire da 25 euro
DOVE MANGIARE
DOVE COMPRARE
DOVE COMPRARE
MACELLERIA MARCO
Via dottor Grappein 38
Tel. 0165-74632
TERRA DI BRISIGHELLA
Via Strada 2
Tel. 0546- 81103
IL SATURNINO
Forio d’Ischia
Via Marina
Tel. 081-998296
Senza chiusura estiva, menù da 30 euro
TRATTORIA DI STRADA CASALE
Via Strada Casale 22
Tel. 0546-88054
Chiuso mercoledì, menù da 30 euro
DOVE COMPRARE
I PINTXOS BASCHI
In Spagna i crostini sono piccoli
capolavori di gastronomia:
succulenti, creativi, trasversali
per gusto, età e portafoglio
Se le tapas comprendono
molte varietà di antipasti
da consumare con e senza
pane, i pintxos baschi sono vere
microporzioni di pietanze
servite su una fetta di pane
(baguette) e infilzate con uno
stuzzicadenti colorato. Si va
dal baccalà all’insalata
di granchio, dalla tortilla
di patate al polpo in umido.
Il rituale dell’aperitivo prevede
che si consumino stando sugli
sgabelli, scegliendo dai piatti
di portata appoggiati sul banco
del bar o aspettando il passaggio
del cameriere con i vassoi,
accompagnati da bicchieri
di sidro o di vino. Alla fine si
contano gli stuzzicadenti usati
PANIFICIO DI COSTANZO
Via Ritola 4
Barano d’Ischia
Tel. 081-905520
Crostini toscani
Parmigiano con tartufo
Rosolato in olio e burro il pane, si
spalma con il composto ottenuto
spadellando in extravergine aglio,
acciuga e parte esterna del tartufo
Poi frullare con parmigiano, brodo,
scorza di limone. Guarnire
Marinari
Il pane è tagliato a fette alte
e poi privato di parte della mollica
che, con vino bianco, vongole,
cozze scaltrite con olio (il sugo
si filtra), e prezzemolo, diventa
il ripieno. Forno a 200 gradi per 20’
Repubblica Nazionale 39 31/07/2005
Bruschetta
Si prepara con pane casereccio
asciugato in forno, aromatizzato
con uno spicchio d’aglio, condito
con extravergine intenso, un pizzico
di origano e sale. Ci si può strofinare
sopra un pomodoro
Friselle e pomodori
Le friselle di pane biscottato
da immergere in acqua
per renderle più morbide, possono
essere condite con pomodori
tagliati a cubetti e mischiati con
sale grosso, origano, olio e olive
Rustici
Il pane ideale, quello di segale
tostato, viene spalmato con
pochissimo miele di montagna
Sopra, nocciole tostate sbriciolate
e lardo tritato. In Val d’Aosta si
serve con un bicchiere di vin brulé
Valeria
Piccini
è una delle più
sensibili
e talentuose
interpreti della tradizione
culinaria italiana. Gestisce
con il marito Maurizio,
appassionato di vini, e il figlio
Andrea, chef, il ristorante
“Da Caino” a Montemerano,
nel cuore della Maremma
6 fegatini di pollo, 2 acciughe sotto
sale, 50 gr capperi sotto aceto, 200
gr milza bovina, 100 gr aceto bianco,
50 gr vin santo, 300 gr brodo di
carne, mezza cipolla, un quarto di
mela verde, 10 gr concentrato
pomodoro, 2 foglie di salvia,
60 gr extravergine
*Far imbiondire nell’olio la cipolla
affettata, unire i fegatini e la
milza sminuzzata
*Cuocere per 10’e bagnare
con il vin santo
*Macinare acciughe diliscate,
capperi, mela e salvia
*Bollire per mezz’ora con aceto,
brodo e concentrato di pomodoro
*Aggiustare di sale e spalmare
su crostini di pane abbrustolito
Pane e cioccolato
Il catalano
Carles
Abellan,
per molti anni
braccio
destro di Ferran Adrià,
è lo chef-patron del ristorante
di tapas “Comerc 24”,
ribattezzato “El Bulli pret-àporter”, locale di tendenza
della Barcellona vecchia
Mezzo litro latte, mezzo litro panna,
400 gr cioccolato fondente al 70%,
10 gr rosso d’uovo, 175 gr.
zucchero, un baccello vaniglia, olio
extravergine, sale “dolce”, pane
in fette sottilissime
*Assemblare latte, panna,
vaniglia e zucchero, colare
e aggiungere il rosso d’uovo
*Scaldare a 85° per far addensare
la crema, senza che si stracci
*Incorporare il cioccolato
a piccole scaglie e raffreddare
in frigo per otto ore
*Scaldare il pane a 180 gradi,
condito con olio e sale, per 3’
*Servire una cucchiaiata
di ganache di cioccolato
con la fettina di pane
*Condire con un cucchiaio
di olio e un poco di sale
40 LA DOMENICA DI REPUBBLICA
DOMENICA 31 LUGLIO 2005
le tendenze
L’ultima mania è quella dei navigatori satellitari,
che permettono di sapere sempre qual è la strada giusta.
Poi ci sono i telefonini tuttofare, gli apparecchi
per tenere in tasca l’equivalente di centinaia di cd, i lettori
dvd ultrapiccoli, le memorie da passeggio. Per andare
in ferie portandosi dietro il proprio mondo digitale
Vita in movimento
Hi-tech
daviaggio
In vacanza
senza perdere
la bussola
ALESSANDRA RETICO
rima succedeva che viaggiare
era perdersi. Per quello si partiva, avventura, vuoto, possibilità, erranza. Prima c’era molto
silenzio, i ponti sulle navi, quell’andamento lento, e un orizzonte davvero largo. «Viaggiare è un utile
esercizio, la mente è stimolata di continuo
dall’osservazione di cose nuove e sconosciute». Ciao Montaigne, ma anche ciao ai
“vagabondi della ferrovia” di Jack London,
al “clochard elegante” di Jack Kerouac e a
quell’irrequietezza della vita dappertutto
di Bruce Chatwin. Oggi on the road non si
sta con i chilometri davanti e la libertà nel
cuore. Per andare una stella è un faro pallido. Molto meglio il satellite: ti conduce dove vuoi e ti evita quel che intralcia, un incidente per strada, una curva fastidiosa, il
tragitto, pure bello: ma che perdita di tempo. I navigatori non siamo più noi, ma la
tecnologia che organizza i nostri spostamenti. Vanno molto, moltissimo, i navigatori portatili che monti in auto e poi sposti
sulla moto o sulla bici e i telefonini o i palmari con funzioni di navigazione. Entro
l’anno ne saranno venduti oltre 8 milioni,
nel 2011 saremo in 100 milioni ad averli.
Tutto tranne che perdersi: telefonini e
navigatori ricevono le informazioni dal
satelliti che, su una mappa, indica il percorso da affrontare. Gli si possono fare
domande: dov’è un buon ristorante di pesce, una spiaggia, il festival in corso. Ed
ecco lì che sul display lampeggia la meta.
Nessun contrattempo, perché lavori in
corso e noie varie (o sorprese) vengono
puntualmente segnalate. Lungimiranza
posseduta anche da cellulari e smartphone già in commercio.
Viaggiare oggi è avere orizzonti in dettaglio. Nomadi nel sentimento del tempo,
ma non dei tempi e degli spazi. Il taccuino
e il diario, parole e lettere sostituiti da immagini da comunicare in flagranza. Nessuna attesa, nessun ingombro. Macchine
fotografiche, videocamere, cellulari con
fotocamera sono sempre più piccoli, belli, interattivi. Capaci di stare su una mano
o addosso come accessori di moda, segnali di stile, però anche capienti, con
grandi memorie e funzioni. Non c’è da
aspettare il ritorno, la sedimentazione
delle cose, il racconto. Guardo e faccio vedere anche a te, adesso. Filmati e foto per
e-mail, mms, ecco dove sto. Addio serate
coi filmini dei viaggi degli amici (per fortuna, oppure no). Tutto consumato subito, iniezione rapida, e mai soli. Anche se la
grande avventura è tra casa e ufficio in
motorino: un casco con tecnologia bluetooth, chiami e rispondi senza fermarti,
senza togliere le mani dal manubrio.
Il verbo della vacanza moderna è infatti tenere. Conservare e intrattenere, anche. L’hard disk piccolo piccolo che metti nella custodia di pelle che sembra un
beauty case, o la penna che appendi al
collo come un ciondolo ma dentro
ci porti tutta la memoria del tuo
computer, parole, immagini,
suoni, l’utile o comunque non
si sa mai. L’iPod, difficile astenersi dal parlarne. La versione shuffle, un bastoncino di sofisticatezza grande come un pacchetto di chewing gum, ha
la faccia liscia e linda, dietro una fabbrica.
Discoteche intere dentro, il silenzio delle
forme fuori. Come i corpi che viaggiano
oggi, senza sudore.
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videocamere, ecc.) direttamente via cavo
Usb, senza passare dal computer: 235 Euro
DOMENICA 31 LUGLIO 2005
LA DOMENICA DI REPUBBLICA 41
IMPERMEABILE
Resistente all’acqua,
la nuova fotocamera
digitale Coolpix
S2 di Nikon
realizza immagini
a 5,1 megapixel
di risoluzione.
L’ora si regola
autonomamente
in base al fuso
orario. Prezzo di
listino: 244 euro
L’insostenibile leggerezza
delle macchine tascabili
SATELLITE AL POLSO
L’orologio
satellitare Casio
Prg-80 integra
altimetro,
bussola digitale,
barometro,
e termometro.
Tutto in meno di
80 grammi.
Per viaggiatori
avventurosi. A
partire da 245
euro
MICHELE SERRA
a tecnologia ha generato un clamoroso paradosso: per
essere davvero unplugged bisogna essere perfettamente plugged. Parlando da persone normali: per
sentirsi liberi di vagare leggeri e indipendenti, come beatnik
riveduti e corretti, uno zaino e via, bisognerebbe riuscire a
portare con sé, in minimi spazi, quegli apparati di connessione ambulanti che ci liberino dall’incubo di trovare un telefono, un internet point, una camera d’albergo con le prese giuste e una reception che non ci mandi al diavolo quando traffichiamo, invano, con prese e prolunghe.
A parte la ristrettissima cerchia degli anacoreti, decisamente invidiabile, per noi banali cittadini del mondo è diventato infatti impensabile interrompere i contatti con la
quotidianità. Bisogna che il commercialista, i parenti anziani, il caporedattore, gli amici con i quali perfezionare
l’appuntamento, siano facilmente a tiro, diradando la nostra ansia da assenza o anche, semplicemente, la nostra
necessità di andarcene lontano senza il rischio di trascurare la manutenzione quotidiana dei nostri rapporti umani, professionali e sentimentali. È inutile filosofare più di
tanto su questa galera psicologica: beato chi riesce a partire salutando il mondo e spegnendo la luce, io faccio parte
(come milioni di altri) degli ostaggi volontari della socialità e della connessione, e la nevrosi professionale aggiunge il suo bravo carico da novanta a una propensione già caratteriale a tenermi in contatto.
Il problema è che l’indipendenza tecnologica — prezzo
economico a parte — è una facilitazione molto difficile, mi
si passi l’ossimoro. Lo scorso anno, in Toscana, ho rotto le
scatole a mezzo paese perché non riuscivo a collegare il
computer a un nuovo e costosissimo cellulare: cosa che mi
avrebbe permesso di trasmettere articoli e leggere mail anche seduto in cima a una quercia. Secondo il venditore era
un gioco da ragazzi, storie di infrarossi o roba del genere, e
anche un bambino ci sarebbe riuscito. Un bambino probabilmente sì, io no. Bisognava scaricare non so quale programma da non so quale sito, architettare connessioni digitando come scimmie sapienti sulla tastiera, e poi sperare
che le linee non fossero intasate, come mi hanno spiegato,
dai maniaci che spediscono via internet le foto delle vacanze. Un calvario spietato, che mette di fronte l’utente inesperto (cioè il novanta per cento degli utenti) alla propria incapacità e al proprio isterismo, fino alla rinuncia e al ripiegamento indecoroso verso una linea telefonica fissa.
La pubblicità, in questo senso, è seriamente ingannevole: si vedono belle ragazze che da un windsurf in Sardegna
organizzano parties a Honululu, nonne che da un casale
marchigiano cantano la ninna-nanna al nipote in Lapponia, pastori Masai che governano le vacche e contemporaneamente votano in Parlamento con un sms. Un mondo serenamente e facilmente connesso, deserto oppure oceano
fa lo stesso, è come se fossimo tutti a Manhattan. Ma non è
vero. Il groviglio dei cavi è ormai immateriale, ma ingarbugliato come se ingombrasse il pavimento di una cattedrale
per quanto è lungo. Ogni strumento è gravato da mille funzioni differenti, e l’hardware tascabile ci illude che alla miniaturizzazione corrisponda, ipso facto, una semplificazione, un’agilità estrema, trascurando di avvertirci che la sofisticazione degli apparati comporta una sofisticazione dell’utente, per il quale gli esami non finiscono mai.
Soprattutto, quello che non ci dicono (o che fingiamo di
non sapere) è che al tempo risparmiato grazie alla connessione perenne, corrisponde quasi altrettanto tempo speso
ad imparare come si fa, e a rimediare a guasti, virus, impazzimenti di macchine che, per quanto straordinarie, rimangono fragili come il rivestimento dello Shuttle. Nulla
si crea e nulla si distrugge, e il beatnik leggero e connesso
che vorrei essere è anche, ahimè, un maturo impiegato
dell’azienda-mondo che cerca stentatamente di aggiornarsi sentendosi addosso il fiato dei nuovi assunti. La tecnologia sarà perfetta, per quanto mi riguarda, quando le
sole parole “on” e “off” basteranno a governarla. Sarà allora, e solo allora, che intervisterò un Masai in teleconferenza mentre lui guarda le vacche, io il Mediterraneo.
L
MUSICA DA INDOSSARE
Grande come un
pacchetto di chewing
gum, leggero come un
portachiavi: è l’iPod
Shuffle, il lettore Mp3 di
Apple. 512Mb a 99 euro,
1Gb a 139
SGUARDO SUL FUTURO
Occhiali da sole Oakley
con tecnologia Bluetooth
wireless Motorola. Per
telefonare basta premere
un tasto. Ideali per ciclisti,
skaters e scalatori.
Costano 295 dollari
ARCHIVIO PORTATILE
Una piccola penna
da mettere in tasca o
al collo, per avere
sempre a portata di
mano fino a 2Gb di
documenti, video e
file musicali. Sandisk
Cruzer, da 35 euro
OLTRE IL CELLULARE
Il W800i di Sony Ericsson
non è solo un telefonino, ma
anche un walkman-lettore Mp3
e una macchina digitale da 2
megapixel. Presto sul mercato:
prezzo da definire
SUONO ZEN
BASTA RUMORI
Tra i lettori Mp3
concorrenti dell’iPod
della Apple
c’è il Creative:
la versione Zen
ha piccole dimensioni,
più colori e una
memoria fino a 6
Gb e 3000 brani
musicali. Circa 300
euro
Dimensioni
contenute,
2.3 megapixel,
e microfono
stereo con
riduttore di rumori:
è la videocamera
digitale Panasonic
PV-GS150. In
vendita a circa
700 euro
42 LA DOMENICA DI REPUBBLICA
DOMENICA 31 LUGLIO 2005
l’incontro
Carriere d’acciaio
Dieci anni di successo travolgente
tra canzoni e film, altri dieci
di oblio e silenzio. Poi la lenta
rimonta, il ritorno da protagonista
sulle ribalte che contano della musica
e della tv. Oggi l’ex
ragazzo di Monghidoro,
alla soglia dei
sessant’anni, racconta
la bizzarra parabola
di un sempreverde
dello show business
e spiega come si fa
a reagire alle stagioni di bassa
fortuna e a recuperare l’affetto
volubile del pubblico italiano
Gianni Morandi
A
Repubblica Nazionale 42 31/07/2005
SAN LAZZARO DI SAVENA
casa sua, negli anni Sessanta, si andava in pellegrinaggio. Una villa bassa,
nascosta da una siepe dalla quale si scorgeva il tetto. Ci arrivammo
adolescenti da Roma, in due su una bici.
A Tor Lupara, comune di Mentana, venti di chilometri dalla capitale. Una pedalata sfiancante, su e giù per stradine di
campagna. Lì, lungo la siepe, bivaccavano intere famigliole, Seicento Multiple e
Lambrette parcheggiate sull’erba alta.
Una governante si affacciò sconsolata,
impietosita di vederci lì, sotto il solleone,
a sperare in un avvistamento: «Il signor
Morandi è fuori Roma». Tor Lupara era
la nostra Graceland, Gianni il nostro Elvis. II rock’n’roll non aveva ancora compiuto dieci anni e tutti, eccitati dal boom,
eravamo meno esterofili.
«La villa di Tor Lupara l’ho venduta»,
dice Morandi. Altre mura, altra siepe, vegetazione completamente diversa da
quella della campagna laziale. Avvicinandosi ai sessant’anni gli è venuta voglia
di tornare dalle sue parti, nella Val di Zena, a un tiro di schioppo da Bologna, non
lontano dalla nativa Monghidoro. Dietro
la collina abita Vasco Rossi, «ci si arriva a
piedi», dice Morandi, fiero del nuovo rifugio in cui vive con la moglie Anna Dan,
48 anni, e il figlio Pietro di sette. «È un antico casino di caccia che abbiamo riadattato. Al piano di sopra siamo riusciti anche a salvare qualche affresco». Dalla torretta si dominano i 35 ettari coperti da
abeti e popolati da daini e fagiani.
Morandi è appena tornato a casa dopo una tournée di 85 date (ultimo cd, A
chi si ama veramente). «Gli vogliono ancora bene. Il dopoconcerto di Gianni è
una storia interminabile, saluta uno per
uno tutti quelli che aspettano fuori dal
camerino», dice Franco, l’autista capellone con la passione per le moto che lo
accompagna da una città all’altra. I cla-
mori degli anni Sessanta si sono attenuati, ma Morandi ha trovato la chiave
giusta per diventare un evergreen senza
mai scadere nel basso profilo del revival
show, che per tanti suoi compagni di
Cantagiro è stata una condanna.
«Ho cominciato a quindici anni e a
trenta avevo l’impressione di aver già
fatto e detto tutto. Ogni 45 giri superava
il milione di copie vendute. Ero il re degli
anni Sessanta. Neanche Celentano all’epoca scatenava tanto entusiasmo.
Poi, già marito e padre, nel 1966 andai
militare». E proprio come Elvis, la sua
naja diventò un problema nazionale.
Ancora oggi Morandi non riesce a valutare obiettivamente l’enormità del fenomeno che scatenò. Tende piuttosto a
minimizzare. «Nel nostro mondo non ci
sono certezze. Dopo tre, quattro anni il
telefono a Tor Lupara non squillava quasi più. Mio padre, per fortuna, mi aveva
cresciuto con la mentalità del contadino, che semina e sa che può arrivare la
grandine e distruggere il raccolto».
Anna apparecchia sotto il portico. «Le
piace la lasagna? La Angela ha preparato
qualcosa di tipico. Non sarà mica vegetariano?». Sfoglia verde condita con ragù
bianco. Squisita. Capelli biondi, occhi
azzurri, la signora Morandi è cordiale,
discreta, rassicurante. «Ero una rockettara, avevo un negozio di dischi specializzato in musica alternativa, adoravo i
Van Der Graaf Generator. E guarda chi
ho sposato», scherza sturando una bottiglia della tenuta di famiglia. Con una
donna così è difficile che un uomo resti
in mutande. «Invece io, per dimostrare
che con l’eccesso monta l’Auditel, in
mutande ci restai davanti all’Italia, in
una puntata di Uno di noi (2002). Mia
moglie s’infuriò. Non era d’accordo,
pianse: “Guarda come ti hanno ridotto”. Ma io lo rifarei». «C’è poco da vantarsene», borbotta Anna mentre serve il
caffè. «Abbiamo imparato la lezione,
vero? Niente reality show, niente Music
farm in casa nostra».
Dalla finestra si scorge il piccolo campo di calcio. «Mi tengo in forma per la
Nazionale Cantanti. Faccio anche lunghe corse sulle piste che una volta usavano per addestrare i cavalli», dice indicando il nastro di ghiaia bianca che serpeggia tra l’erba e si perde nel bosco. Nel
segno del calcio, affiorano altri ricordi,
più recenti. «Nel 1992 andammo con
Eros Ramazzotti e la Nazionale Cantanti in America per incontrare Michael
Jackson. Avevamo un progetto comune:
raccogliere fondi per l’infanzia. Michael era inaccessibile. Ci istruirono sul
cerimoniale: niente strette di mano,
non guardatelo negli occhi, non avvicinatevi troppo. Poi ci presentarono il
cuoco pakistano e consigliere spirituale di Jackson. Aspetto ieratico, barba
lunga fino all’ombelico, sguardo impenetrabile. Ci racconta che Michael va
pazzo per il suo riso basmati. “Io, dice,
sono l’unica persona ammessa senza
preavviso al suo cospetto”. Appena restiamo soli, il pakistano si avvicina con
aria complice e bisbiglia: “Ahò, io so’ de
Roma. Ma tenetevelo pe’ voi. Io co ‘sta
storia der pakistano porto a casa sedicimila dollari ar mese”. L’aneddoto lo fa
riflettere sulla condizione delle star:
«Siamo creature fragili. Uno canta perché ha bisogno di mettersi in mostra, di
farsi coccolare, di sentirsi adulato».
In America c’era anche stato molti anni prima, gli fecero proposte interessanti, ma come Virna Lisi e Modugno decise che tornare a casa sarebbe stato più
saggio. Era il 1969, l’anno in cui Enzo Biagi, dopo i trionfi di Canzonissime e Cantagiri, lo intervistò in tv in Dicono di lei.
«Al Madison Square Garden, venne a
trovarmi l’editore americano dei Beatles. “Visto che lei è molto legato al suo
paese, le proponiamo un contratto che
le permetterà di rimanere in Italia tre
mesi all’anno, ci preoccuperemo noi di
farle imparare bene l’inglese”, mi disse.
Ma non è facile rimettersi in discussione
quando sei già una star, e io, che avevo
pubblicato il primo 45 giri nel ‘61, in Italia in quel momento ero al top. Venivano fiumi di gente a vedere i miei film, i co-
Mio padre,
per fortuna,
mi ha cresciuto
con la mentalità
del contadino,
che semina ma sa
che può arrivare
la grandine
e distruggere
il raccolto
siddetti musicarelli. Con un biglietto da
150 lire s’incassava un miliardo. Tanto
fu il fatturato di In ginocchio da te(1964),
oggi equivarrebbe a 25 milioni di euro.
Poi arrivarono Non son degno di te, Se
non avessi più te, Chimera. Film con cinquanta canzoni dentro che entrarono a
far parte del quotidiano».
Ma l’Italia del Sorpasso trovò dietro la
curva una brutta sorpresa. «Durante un
Cantagiro, nelle Marche, iniziò la prima
contestazione. Venne un gruppo di
anarchici a tirarci le uova. Fu il segnale
che qualcosa stava cambiando». Morandi aveva in repertorio un formidabile passe-partout generazionale, C’era
un ragazzo che come me amava i Beatles
e i Rolling Stones, che Joan Baez trasformò definitivamente in un inno della rivoluzione studentesca. «Ma non
servì. Il mio personaggio era troppo da
rotocalco, Stop, Luna Park, Sorrisi e
canzoni, sempre in copertina con moglie e figli. L’austerity e gli anni di piombo cambiarono anche la musica. Arrivarono i cantautori: Venditti, Lolli,
Guccini, e l’invasione del rock britannico. La mia generazione, Rita Pavone,
Little Tony, Bobby Solo, fu messa da
parte. In dieci anni ebbi un solo successo, Sei forte papà, un brano per bambini che diventò la mia condanna, perché
quando cinque anni dopo pretendevo
di ricominciare con delle canzoni vere,
nessuno mi prendeva sul serio».
Bussano alla porta, è Darin. Fisico
palestrato, enormi occhiali a specchio.
«Bentornato», dice Gianni in inglese,
«sei sparito per quattro giorni». Il ragazzo americano au-pair che i Morandi
ospitano in cambio di lezioni d’inglese
a Pietro si era dileguato a Milano con la
speranza di fare il modello o l’attore.
«Oggi crescono tutti col mito della visibilità. Noi eravamo ragazzi diversi, saggi, con tanta voglia di lavorare. Pensavamo al futuro, lasciavamo presto la famiglia per costruirci la nostra vita. Era
un’Italia più ingenua e più sorridente. I
giovani di oggi, ha ragione Villaggio,
non hanno futuro, non hanno sogni,
non hanno speranze».
Morandi ebbe un lavoro prima di tutti i suoi compagni di scuola, ma fu anche
il primo a rimanere disoccupato. Come
la prese? «Avevo serenamente perso la
speranza, mi ero messo a studiare contrabbasso al conservatorio di Santa Cecilia, in via dei Greci, a Roma. Facevo finalmente conoscenza con Stravinsky e
Beethoven. Riempivo così le mie giornate, perché diciamo la verità, non avevo
niente da fare. Per fortuna un po’ di soldi da parte li avevo, perché io sono sempre stato parsimonioso, passato anche
per avaro. Figlio di contadini, avevo
mandato a memoria la lezione di mio
padre: metti sempre da parte i soldi delle tasse perché prima o poi te li chiedono. Io gli eccessi delle star non li ho mai
capiti. Mi diverto con poco: una maratona, un giro in jeep per il bosco».
Dieci anni nelle liste di disoccupazione del pop non sono poche, ma gli italia-
ni Morandi se lo erano sempre tenuto nel
cuore. «Stavo preparando l’esame di diploma al conservatorio. Incontrai Mogol, che aveva appena lasciato Battisti,
dopo Una giornata uggiosa. Gli era
esplosa la passione per il calcio e cercava
cantanti da coinvolgere nello sport. Non
mi parlava mai di musica, solo di calcio.
Poi un giorno mi chiese: ma tu cosa fai,
canti ancora? Così nacque Canzoni stonate. Poi tornò alla carica Migliacci e mi
regalò un altro successo, Uno su mille. E
Lucio (Dalla), il mio amico numero uno».
Dieci anni si silenzio per riflettere su
dieci di successo. Quale fu il bilancio?
«Pensai a quanto male può fare l’adulazione, essere circondato da yes men, soprattutto quando non ragioni con la tua
testa. Questo non fa bene a un ragazzo».
Quella faccia pulita, i capelli alla umberta (li ha ancora tutti, neanche uno bianco; se li colora, ha indovinato la nuance),
il modo tenero e sgraziato di ciondolarsi
davanti alle telecamere senza mai sapere come gestire quelle mani ingombranti lo trasformarono in una sorta di sex
symbol. «No, non credo. Se lo ero, non
me ne rendevo conto. Piuttosto mi vedevano come un fratello. Il mio matrimonio (con Laura Efrikian, dalla quale ha
avuto i figli Marianna e Marco, ndr) non
deluse le fan. La mia vita era una favola,
non molto dissimile da come appariva
sulla copertina di Grand Hotel. Ma una
cosa mi è mancata: fare un bel film, un
film vero. Forse perché mi ricordo di
quando, bambino, vendevo le caramelle nel cinematografo di Monghidoro e
vedevo questi grandi, immensi eroi
americani sullo schermo. Secondo me
non mi scritturano perché non riescono a immaginarmi in un personaggio
che non sia Gianni Morandi». Anche Sinatra aveva lo stesso problema. «Ma
che c’entro io con Sinatra?». Una chance di diventare il Sinatra italiano lei ce
l’ha. Dopotutto già nel ‘62 la chiamavano il Paul Anka nostrano. «Mi sembra
esagerato». Tra i suoi coetanei ha pochi
concorrenti, anzi quasi nessuno. «Beh,
ma allora che gusto c’è?».
‘‘
GIUSEPPE VIDETTI
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