Domenica La di DOMENICA 31 LUGLIO 2005 Repubblica l’inchiesta Gli altarini del dolore sulle vie dell’esodo UMBERTO GALIMBERTI e MICHELE SMARGIASSI il racconto Gli scacchi e la Guerra Fredda STEFANO BARTEZZAGHI e GIAMPAOLO VISETTI Seimila chilometri in tre mesi, un viaggio emozionante dall’Italia al sepolcro di Cristo La Gerusalemme perduta PAOLO RUMIZ S GERUSALEMME cende la notte, quasi più nessuno tra le vecchie mura. Solo ombre che passano in silenzio, monaci incappucciati che sbucano da un’arcata per sparire in una laterale. Sulla “Via Dolorosa” un uomo trascina una croce per penitenza, o forse per grazia ricevuta. Lontano, il suono di un organo. Il resto è gatti che frugano nelle immondizie, botteghe sprangate, il grande sonno del suk. Tacciono i muezzin e le campane. Tacciono gli ebrei, che non fanno mai rumore. Di notte, passata l’orda dei turisti, la città santa esce dal tempo. Sul tetto del Sepolcro, sotto le stelle, neri monaci etiopi accendono candele accanto all’albero del pepe; uno di loro si assopisce, chiuso in una tunica nera, accanto a un libro nero e a un bastone nero. Di sotto, in un angolo della navata, un diacono greco sale una scala ripidissima con un vassoio di focacce per la messa di mezzanotte. Poco più a Nord, nel palazzo cinquecentesco della “Custodia di Terra Santa”, i frati di Santo Francesco russano nel sotterraneo dove lo spagnolo Ignazio di Loyola, fondatore dei Gesuiti, venne rinchiuso secoli fa (non dai turchi padroni, ma dai cristiani, che videro in lui un esaltato attaccabrighe). Fine del mese di luglio, anno 2005. Il viaggio è finito. Seimila chilometri in due mesi, attraverso gli Appennini, i Balcani, la Grecia, Istanbul, l’Anatolia fino ai confini dell’Iraq. E poi Siria, Giordania, Israele. Un “Camino de Santiago” nella direzione contraria, in cerca dei cristiani d’Oriente verso le terre dei minareti, tra ciò che resta di un passato millenario. Un pellegrinaggio attraverso mercati, biblioteche, deserti, templi, locande, rovine nel vento, metropoli. Un “ritorno” alle origini della fede, col Vangelo, il Corano e la Torah intrecciati in un unico filo rosso fin dalla partenza a sorpresa, in mezzo alle Alpi. le storie * * * Le immagini tornano. Le ultime città bianche a picco sulla pianura piena di messi, là dove il Tigri esce dalle montagne. La grande Luna mediterranea, ferma sopra un gigantesco ulivo macedone, un patriarca più vecchio di Cristo e capace di dare ancora frutto. Le notti del deserto, ardenti e piene di stelle. Un sotterraneo di Milano pieno di enigmi. Un sigaro fumato con i pastori, nelle praterie di Abramo. E l’alba dopo un temporale, purissima, sul Monte Nebo, dove Mosé morì in vista della Terra Promessa. Mi chiedo se saprò raccontare tutto questo. (segue nelle pagine successive) cultura Spagna, il concorso di miss Dulcinea CONCITA DE GREGORIO i luoghi Bergen, la musica del Grande Nord SANDRO VIOLA Roosevelt e la brigata delle spie gay ATTILIO BOLZONI e TANO GULLO le tendenze In vacanza con l’hi-tech tascabile ALESSANDRA RETICO e MICHELE SERRA FOTO MONIKA BULAJ Repubblica Nazionale 21 31/07/2005 in cerca dei cristiani d’Oriente sperduti tra mille minareti Comincia qui un racconto che sulle pagine di Repubblica continuerà per tutto agosto 22 LA DOMENICA DI REPUBBLICA la copertina Gerusalemme perduta DOMENICA 31 LUGLIO 2005 Comincia oggi e proseguirà per tutto il mese di agosto sulle pagine di “Repubblica” il racconto di uno straordinario cammino verso la Terra Santa, un’esplorazione della geografia del sacro, un ritorno alle origini della fede dove Vangelo, Corano e Torah si intrecciano in un unico filo rosso Viaggio alle frontiere dei cristiani d’Oriente PAOLO RUMIZ (segue dalla copertina) ltre ombre vanno verso il Sepolcro, si assiepano attorno alla tomba. Un monaco palestinese dalla barba e codino grigio-ferro le smista energicamente, quasi brutalmente. Poco in là, sotto un lampadario, suore ucraine vestite di nero si buttano a terra come fagotti, mentre pope, archimandriti e diaconi escono da una nube d’incenso per varcare un tramezzo tappezzato di sacre immagini. «La vita è nella tomba», sussurra ghignando il vescovo greco Theofilos, per spiegare a me, misero cristiano d’Occidente, che il mistero è tutto in quelle reliquie. Niente in questo viaggio ha rispettato le previsioni. Ero diretto al Monte Athos, roccaforte maschile della fede, e poi ho bussato ai monasteri delle femmine sui monti della Grecia. Ho seguito donne sciite nella moschea di Damasco, e le ho viste genuflettersi davanti a un minareto dedicato a Cristo. In Kosovo, in mezzo all’odio, ho trovato l’oasi di pace più straordinaria del viaggio. Con un eremita ho pregato per la pioggia, ed è arrivata la neve, benedetta dopo anni di sete. E il mattino dopo, in fondo a un deserto color senape, è apparso il Monte Libano, immacolato come la cordigliera delle Ande. Il mondo è sconvolto dal terrore. Eppure, quante crepe nello scontro di civiltà. Ragazze in chador che chiedono la fertilità alla Madonna. Musulmani che bevono vino. Ebrei che cantano canzoni dell’Islam. Cristiani che si prostrano fronte a terra e sedere per aria, come i seguaci di Maometto. Rabbini rumeni nerovestiti come i preti ortodossi, islamici che non costruiscono minareti e altri che ti parlano degli ebrei come dei cugini partiti. In Turchia, durante una partita di calcio, ho sentito bambini litigare in aramaico, la lingua del Nazareno. In Grecia, ho visto sgozzare un toro in onore delle sante icone. E poi altari che un tempo erano sacri mattatoi, storie sugli adoratori del diavolo ai confini dell’Iraq, gli ultimi fuochi di Zoroastro. Qui a Gerusalemme ho giocato a briscola e bevuto anisette con un’allegra brigata di francescani. E ovunque ho trovato la sorpresa di una birra. Anche ai margini del grande mare astemio dell’Islam. Repubblica Nazionale 22 31/07/2005 A * * * Eppure m’avevano avvertito. Specie un frate, una sera, sul mare di Venezia. «Impara in fretta — disse — la geografia del sacro non c’entra con la religione. La religione è regola, apparato. Il sacro è altro... misterium tremendum... nostalgia di un’assenza… Ti sorprende dove non te l’aspetti. In una chiesa o in una sinagoga diroccata, in un mendicante che ti guarda, sulla cima di un monte. Il sacro è un fiume sotterraneo… ignora confini e conflitti. Chiamalo dio, se vuoi. Ti sarà sempre vicino, lo scrive anche il Corano. Come la tua vena giugulare». Il frate aveva ragione. Nulla è rimasto negli schemi. Più andavo a Oriente, più mi allontanavo da Roma, più il cristianesimo diventava minoritario e privo di potere temporale, e più il suo insegnamento risplendeva. Le chiese più piene della mia vita le ho viste ad Aleppo, nella repubblica islamica di Siria. Le più vuote, nella laicissima Turchia. E il posto più impenetrabile non è stata la sinagoga di Istanbul o la moschea di Damasco, ma il Vaticano. I mezzi di trasporto, corsari anche quelli. Un camion guidato da un turco pazzo per la Luna, sua segreta Dea Madre. Pescherecci greci che portavano vettovaglie all’isola abitata da un unico monaco, reso barbaro dalla solitudine. Un uomo che andava a pieni dalla Francia a Gerusalemme, in cerca della moglie morta. E, ancora, un treno italiano pieno di slave che cantavano inni stupendi al Signore. E poi le attese. Il treno per Bagdad che non partiva. Le ore in piedi davanti a una poliziotta israeliana adolescente che masticava chewing gum e sfogliava il mio passaporto, senza guardarmi negli occhi. * * * La notte rinfresca, è l’ora dei pipistrelli, arriva la brezza dal Giordano, mille metri sotto il Monte degli Ulivi. È dolce l’aria di Gerusalemme, pare velluto. Una processione disegna ombre enormi davanti a un lampione, se ne va con le sue litanie, si lascia dietro solo l’eco del «Saecula saeculorum». Ho gli occhi pieni di ori, ceri accesi, splendidi riti, icone uscite da sonni millenari. E poi quei pellegrini russi, capaci di tracciare rotondi arcobaleni col semplice segno della croce, come contadini nel gesto largo della semina. Ma è uno splendore che inganna. Quegli ori mentono: non dicono che il cristianesimo è in pericolo. A Istanbul i greci sono scesi da trecentomila a cinquemila. Ho visto il loro patriarca, Bartolomeo, chino sulla sua scrivania, solo sotto il ritratto di Ataturk, assediato da mille minareti che si chiamavano nella sera. A Est di Istanbul il vuoto turco è ancora più tremendo. I cristiani che un secolo fa erano milioni, oggi sono poche famiglie disperse. Così poche che un giorno ho creduto di essere uno zoologo pazzo, alla ricerca di una specie estinta. Sul magico altopiano di Tur Abdin, il Monte degli Adoratori, punto più orientale dell’itinerario, ho trovato un villaggio con cinquanta cristiani dimenticati dal mondo, discendenti dei pochi sopravvissuti alla mattanza del 1915. Con lo- LA DOMENICA DI REPUBBLICA 23 DIARIO DI VIAGGIO Questo articolo racconta la meta finale del viaggio di Paolo Rumiz tra i cristiani d’Oriente: Gerusalemme. Le tappe di avvicinamento saranno narrate da domani a puntate nelle pagine di cronaca, illustrate con le foto di Monika Bulaj. Qualche cifra: 6250 i km coperti; 9 i paesi attraversati, Italia, Montenegro, Serbia, Macedonia, Grecia, Turchia, Siria, Giordania, Israele; 39 i giorni effettivi di viaggio, divisi in tre periodi, tra il 23 aprile e il 30 luglio. Qui accanto, il logo del reportage disegnato da Francesco Tullio-Altan FOTO MONIKA BULAJ ILLUSTRAZIONE DI DESIDERIO DOMENICA 31 LUGLIO 2005 ro, un unico ringhioso monaco, asserragliato in un eremo, che urlava ai fedeli come un pastore alle pecore, armato di bastone e vestito di nero come mago Merlino. Qua e là si restaura una chiesa, arriva una donazione, la speranza rinasce. Ad Antiochia, un francescano ha rimesso in piedi la comunità in pieno accordo con ortodossi, musulmani, ebrei. Qualche armeno anziano ritorna. Tra Mar Nero e Mediterraneo, un vecchio prete indomito di nome Roberto fa centomila chilometri l’anno per dir messa e tenere in vita le ultime chiese rimaste nella più lontana Anatolia. Ma è una corsa in salita. In Kosovo i monaci sopravvivono solo grazie a una barriera di blindati italiani. In Israele, la tensione tra ebrei e musulmani schiaccia proprio chi non c’entra, le genti di Cristo. «Non c’è ostilità contro di noi — ti dicono queste — ma non c’è futuro. Viviamo in un Paese sigillato. I giovani se ne vanno. Niente lavoro, niente matrimoni. Siamo sempre di meno». Sembra impossibile che accada proprio dove il cristianesimo ha scritto la sua leggenda. * * * Che notte. Le stelle fanno una curva lunga sulla Moschea della roccia, luogo santissimo dell’Islam, del Giudaismo e della Cristianità, e l’ombra della cupola pare un’astronave persa nelle galassie. Nel quartiere musulmano la civetta ripete il suo grido metallico, quasi ultraterreno. Nella cattedrale di San Giacomo si alza un canto veloce, tenebroso, inconfondibile. Sono gli armeni, in fuga da millenni col Libro sotto braccio. Pregano come soldati, mentre la Luna penetra dal lucernario e taglia con un raggio blu l’aria piena d’incenso. La minaccia dell’Islam? C’è dell’altro. Il nazionalismo, per cominciare. Nel 2004, un centinaio di chiese serbe in Kosovo sono state date alle fiamme da albanesi (musulmani ma anche cattolici) impregnati di filo-americanismo e coccolati dalla Nato. Un secolo fa, i bulgari ortodossi hanno distrutto i monasteri greci del Nord con più ferocia degli ottomani. E i turchi hanno massacrato greci, armeni e siriaci solo durante l’agonia dell’impero, quando Ataturk si avviava a bandire alfabeto arabo, velo e barbe, mettendo in riga gli imam. E poi, l’indifferenza. In Cappadocia i visitatori europei arrostiscono spiedini nelle chiese rupestri senza nemmeno chiedersi come mai, in una terra intrisa di storia cristiana, non ci sia più un solo cristiano. Non un siriaco, un armeno, un greco. Come se tutto fosse finito da ottanta secoli, non da ottant’anni. E qui a Gerusalemme, guardando turisti in bermuda parlare al telefonino davanti alla tomba di Cristo come fossero a Disneyland, ho pensato al tramonto dell’Occidente. Incredibilmente, in questo disastro, i cristiani hanno tempo per farsi la guerra. Persino nel Sepolcro, è uno scontro di processioni e cori; uno strepito che solo l’organo cattolico sa far tacere, sparando la cannonata finale. «Una volta era peggio — scherza Michele Piccirillo, mitico francescano scopritore dei più bei mosaici di Terrasanta — i cattolici buttavano pepe in polvere dalle balaustre sui greci che cantavano di sotto, per farli starnutire». La ruggine è così antica che, per evitare risse, le chiavi del tempio sono da secoli in mano a un musulmano. Siamo divisi in ventidue confessioni. Ebbene, persino in ciascuna esse regna la discordia. Tutte ballano sull’abisso. I russi si sbranano fra anticomunisti e non, si lanciano accuse di furto, corruzione, droga. Le lobby cattoliche si fanno guerra per i miliardi del turismo religioso. I greci hanno quasi linciato il loro patriarca che aveva venduto agli ebrei terreni nella città vecchia. Gerusalemme può essere una gabbia di folli. RITO NOTTURNO Nella mappa, il percorso seguito dal nostro inviato Paolo Rumiz dall’Italia a Gerusalemme. Nelle foto in alto, una fedele e un monaco etiopi durante un rito notturno nel Santo Sepolcro * * * Ma ora dormono tutti: i russi, i siriaci, i drusi, i maroniti, i copti. Dorme l’ebreo hassid Gideon Lewensohn, dopo essersi tolto il cappello di pelliccia, aver recitato le ultime preghiere, e messo a letto cinque dei suoi otto figli. Dorme Awni Amarneh, vecchio custode musulmano di una sinagoga, pure lui padre di otto figli, che ogni giorno traversa paziente il check point per fare il suo lavoro. Dorme di sonno inquieto Ibrahim Igbaria, cristiano di rito greco della Capitale, che ha sposato una donna di Ramallah ma non può farla abitare in casa sua, perché la legge rende quasi impossibile l’immigrazione dai Territori. Un’ultima birra sulla terrazza dell’hotel Mishkenot, davanti alle stelle del Monte Sion. Tutto si ricompone, in fondo al labirinto. Le bombe sull’Iraq, le Torri Gemelle, l’incendio balcanico, il crollo del Muro. Qui è la matassa che riannoda i fili trovati sui monti della Cappadocia e nei manoscritti della Biblioteca Ambrosiana a Milano; nei monasteri dei Balcani, sull’isola degli Armeni a Venezia o sulla tomba di Schindler, qui vicino, verso la valle di Josafath. Ho in mano un “komboloi”, un piccolo rosario a palline nere di maiolica, regalato da un greco a Salonicco. Solo stanotte ho imparato a farlo volare nel modo giusto tra le dita. Sempre stanotte, m’accorgo che questo viaggio non è durato due mesi, ma anni. La spinta gliel’ha data la morte di un grande Papa, ma tutto è cominciato molto tempo prima. Ha un’incubazione lunga la febbre di Gerusalemme. È una malattia che ti mangia, cresce per contagio, si nutre di incontri, letture, coincidenze, sogni. E ora, che la storia cominci. 24 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 31 LUGLIO 2005 l’inchiesta Sono piccole lapidi, tempietti bonsai, più spesso fiori di plastica o mazzolini appassiti: cimiterini in trasferta lungo i bordi di una via crucis d’asfalto che in Italia produce seimila morti all’anno. “Fiori di rabbia, sovversivi e anarchici”, dicono gli esperti, “stille di sofferenza pura che si ribellano alla liturgia della consolazione” Riti postmoderni L’esodo e gli altarini del dolore MICHELE SMARGIASSI ome fiori recisi dal turbine». Congelati nei quattro ovali di ceramica Paolina, Domenico, Tonino, Maria guardano senza vedere, con espressione sperduta. Forse era solo la soggezione per il fotografo che nel 1925, in campagna, era ancora uno stregone. Ma in questi quattro sguardi di bambini senza sorriso viene da leggere la premonizione di un terrore. Fecero forse in tempo a vederlo davvero in faccia, all’ora di pranzo di un giorno lontano, il 16 gennaio di ottant’anni fa, allorché, «tornanti dalla scuola», la scuolina rurale che è ancora in piedi (fortunata lei) di là dalla statale Tosco-Romagnola, «ebbero spezzata la vita da irruente autocarro». Incisa sulla pietra grigia, la prosa epigrafica (dettata, è dolce pensare, dal maestro in lacrime) riesce ancora a commuovere. Fu «la pietà della gente» a edificare questo tempietto «sul ciglio lagrimato»: fecero una colletta onerosa, i contadini di San Varano, pugno di casette alle porte di Forlì, per tirare su quattro croci di cemento su cui poggia una cupola a coprire dalla pioggia una Pietà dolente. Ma i fiori nei vasi non ci sono più: non «recisi dal turbine», ma dall’indifferenza. Nei quattro candelieri, rimasugli di cera sudicia e indurita. Erbacce sgretolano l’antica compassione. Le auto che filano sulla statale neppure immaginano di sfiorare uno dei più antichi monumenti alle vittime del traffico motorizzato. «Il comune manda qualcuno a pulire solo prima dei Morti», informa il cantoniere che abita la casetta rossa proprio di fronte. La «pietà della gente» è biodegradabile, ma anche mutante. Oggi, se un altro «irruente autocarro» maciulla i passanti, nessun paese chiama più i muratori. Fonda piuttosto un comitato per la tangenziale, raccoglie firme e fa un sit-in davanti alla prefettura. Fa politica. E la politica non ama il lutto collettivo. Lo sbriga in fretta, se ne libera con esequie in piazza, autorità tricolorate, retorica del cordoglio, poi passa ad altro. Il dolore, lo strazio, ricascano giù, patrimonio privato di genitori piegati e figli inconsolabili. Lo vogliono i numeri: seimila morti all’anno sull’asfalto è il bollettino di una guerra, non il copione di una tragedia classica. Ai buoni contadini di San Varano, che pure avevano gli occhi ancora umidi per i loro morti ammazzati in divisa nel gran macello bellico, quei quattro piccoli caduti civili in grembiulino potevano ancora apparire gli angeli di un’assurda catastrofe senza paragoni. Oggi è materia per un’edizione di telegiornale, poi via nell’archivio delle tabelle Istat. È forse pensabile costruire seimila tempietti nuovi ogni anno? Repubblica Nazionale 24 31/07/2005 «C Niente nomi né date Eppure sì, ci sono. Bisogna cercarli bene: la scaramanzia li rende invisibili. Ma ci sono, sono migliaia, e disegnano una toponomastica segreta del lutto. Abbarbicati a un segnale stradale, tra un «vendita pesche» e un «oggi sposi», agganciati a un paracarro, appesi a un guard-rail: pochissimi sono di pietra e marmo, quasi sempre si tratta di semplici fiori, freschi o finti, avvolti nel cellophane, legati alla meglio, ogni mazzetto diverso, tutti uguali. Nei settecento chilometri di pellegrinaggio sul confine (della carreggiata e della vita) che parte e tornerà ai piedi di questo tempietto dimenticato ci farò l’abitudine e l’occhio. Li scoprirò familiari, modesti, silenziosi, persino affettuosi compagni di viaggio. Muti, tuttavia. Niente epigrafi, neppure un nome, una data. I primi che incontro li frugo con le dita, reprimendo un senso di sacrilegio, in cerca d’un biglietto, d’un cartellino, ma niente: rifiutano di parlare. Meldola, sulla funesta statale Bidentina: gli steli secchi dicono di una tragedia trascorsa da tempo, ma chi era? Giovane, vecchio, bambino? Diegaro di Cesena, via Emilia: qui i gigli sono quasi freschi, ma l’unico vago indizio d’identità è una Camel infilata tra le foglie: era un ragazzo che giocava a fare il grande? O un anziano fumatore? È inutile: non lo vogliono dire. Non è a me, viandante, estraneo, che si rivolgono gli altarini delle banchine. Se proprio cerco moniti e conforti devo bussare ad altre porte, quelle dei tabernacoli ufficiali. «Memento quia pulvis» mi avverte per esempio dalla sua edicoletta un san Cristoforo a Ronco di Forlì. I santi pattugliano gli incroci: luoghi sospetti ben prima del traffico motorizzato, teatro di incontri misteriosi, temuti fin dall’era pagana, frequentati da diavoli campagnoli, dunque da presidiare e benedire. Ma nell’epoca degli ottani ruggenti il diavolo s’è trasferito sui rettilinei, magari chiusi da curvacce maledette. È sul bordo dei drittoni, lungo i nervi d’asfalto tesi come corde di violino, dove i cuori salgono di giri in concerto coi pistoni, che fioriscono i tabernacoli irregolari, ufficiosi, laconici di una disperazione privatissima. Non ti invitano a sostare: spesso non c’è neppure il posto per farlo. Non amano compagnia: sulla statale Gardesana li vedrò avvicinati solo da giovani prostitute africane in attesa di clienti e da vecchi ciclisti prostatici che si fermano a spandere un po’ d’acqua. E soprattutto non chiedono nulla, neanche una preghiera. Anche le croci sono rarissime. Fiori e basta. I fiori sono frammenti di natura senza cultura. È senza storia il marchio che lo strazio degli amici e dei parenti lascia sulla crosta del mondo motorizzato. Nella quarta epoca del lutto, che Philippe Ariés chiamò l’era della «morte capovolta», negata, addomesticata, la fatalità incontrollabile di un incidente stradale apre una breccia verso il passato remoto. I segni depositati qua e là dal dolore sono irruzioni ataviche nella modernità, icone pagane che servono a consacrare un luogo speciale e unico: «Il luogo dove tutte le tue speran- Il marchio che lo strazio degli amici e dei familiari lascia sui guard-rail è quasi sempre senza parole: non chiede soste né preghiere “Segna solo il luogo spiega un padre dove tutte le tue speranze sono finite” ze sono finite», mi spiega un padre di Brescia, Roberto Merli, davanti al mazzolino sempre fresco per suo figlio Alessandro, volato via in moto a Villa Larcina che aveva solo quattordici anni. I fiori normalmente si portano al cimitero: e allora sono normalizzati, accettati, sterilizzati nel rito. Ma i mazzolini dei guard-rail sono fiori di rabbia, sovversivi, anarchici. Sono stille di dolore puro, che si ribella alla liturgia della consolazione. Sono il lutto che non si lascia metabolizzare dal conforto della comunità. L’insensatezza di fiori di stoffa piantati nella terra sul ciglio della statale Adriatica, all’altezza di Cervia, mi fa vacillare. Chiedo consulenza telefonica al professor Francesco Campione, psicologo del lutto o meglio “tanatologo”, che ha accettato di farmi da Virgilio a distanza nella selva oscura del compianto stradale. «Chi li ha messi lì non crede più al cimitero, né ai riti collettivi», spiega. «Siamo riusciti a rimuovere la morte naturale e quella per malattia: ma la morte violenta no, quella ci ricorda ancora implacabile che la vita finisce, e non la sopportiamo». È vero, nessuno appende mazzi di fiori ai letti dei reparti terminali di oncologia, dove i funzionari della buona morte ci li- Un segno per trattenere l’ultimo istante di vita UMBERTO GALIMBERTI a morte è unica e irripetibile. Per questo forse vuole un segno unico e irripetibile. Quasi un riscatto dalla vita anonima e collettiva a cui il nostro modo di vivere ogni giorno ci costringe. Anche nella sepoltura, a giudicare dalla forma che i nostri cimiteri vanno assumendo. Condomini di bare. Una a fianco all’altra e sopra l’altra, che solo la successione dei numeri riesce a individuare. Sarà per sfuggire a questo anonimato che così di frequente, sul ciglio delle strade, ci capita di vedere segni di memoria, dove fiori, ora appassiti ora rinnovati, accolgono preghiere scritte su pezzi di carta che il tempo spezza, scolora e ingiallisce, insieme a tutte quelle parole d’amore che in vita non sono mai state pronunciate per la paura di doversele un giorno rimangiare. La morte ci libera da quel giorno e rende il nostro cuore finalmente sincero. Libero anche dal cordoglio collettivo, dove non tutte le presenze sono vere, perché accanto al dolore che getta nella più insulsa insignificanza la sopravvivenza di chi resta, ci sono presenze di convenienza, condoglianze preformate nelle parole e nei gesti, abbracci muti che non sanno che dire, riti religiosi che ripetono se stessi cambiando solo il «nome proprio» in preghiere consumate che alcuni recitano perché anche in quelle circostanze qualcosa bisogna dire. Finché la sepoltura non pone fine alla recitazione collettiva, per lasciare il dolore alla sua solitudine e alla sua ideazione. E tra le ideazioni del dolore c’è quel riandare della memoria a quell’ultimo istante di vita dove l’incidente, la casualità, la sorte, hanno interrotto un’esistenza lasciando il suo senso incompiuto. E se il tempo più non ritorna, lo spazio permane, anzi il luogo, «quel» luogo, dove il ritornarvi per un fiore o per un messaggio dà l’idea della continuità di una vita resa possibile dalla ripetizione di un gesto di fedeltà. Non in un cimitero dove il corpo è sepolto e dove la morte sembra definitiva nell’anonima successione delle sepolture, ma sul ciglio di quella via, L quasi per trattenere l’ultimo istante di vita, fissarlo in un cippo, riempirlo di fiori e di messaggi, perché solo la vita raccolta in quel luogo, dove per l’ultima volta c’era, sa contaminare il dolore con la consolazione, l’assurdità con l’accettazione, il gesto fugace di chi porta un fiore col senso della vita che è gesto fugace. Moriamo tutti in un letto, di casa o di ospedale, stanchi e i più fortunati sazi della vita, ma chi muore per strada interrompendo la vita raccoglie troppa simbolica e troppa verità intorno a sé. Dice a tutti che la vita è un breve cammino che casualmente incomincia e casualmente si interrompe. E in mezzo a queste due casualità c’è quella ricerca di senso senza la quale la vita è invivibile, anche se vive in vista della morte che è l’implosione di ogni senso. Qui gli antichi greci avevano colto l’essenza del tragico come condizione ineludibile dell’esistenza che le vite spezzate ben rappresentano nell’insensatezza della loro fine, senza neppure il supporto della consunzione biologica. Ed è per significare quest’essenza del tragico che le vite spezzate non possono essere sepolte in luoghi collettivi, onorati non dalla memoria, ma dalla sua ritualità. Esse chiedono una riflessione più forte che non è tanto un invito alla prudenza, quanto una presa di coscienza della precarietà dell’esistenza, quel suo esserci oggi e il non esserci più domani che, guadagnata in vita, eviterebbe quei gesti di tracotanza e sopraffazione che gli antichi greci temevano più del dolore perché, se il dolore affligge, la tracotanza e la sopraffazione mortificano e uccidono. Onoriamo allora ogni cippo di vita spezzata che incontriamo ai bordi delle nostre strade. A differenza delle tombe allineate nei cimiteri, essi non dicono solo che dobbiamo morire, ma che la vita, al di là della nostra costruzione di senso, è sempre un cammino inconcluso, un filo interrotto in quella trama innocente e crudele tessuta dall’insensatezza, che ogni vita a volte fiancheggia e nei momenti di verità conosce e assapora. berano dal peso del distacco. È il trapasso selvaggio, asociale, che ghermisce come una belva, quello impossibile da esorcizzare con una tomba, una lapide, un lumino rosso. A San Mauro Pascoli m’imbatto in una strana associazione di familiari di vittime: si chiama Pu. Ri. e organizza alternativamente seminari sulla sicurezza stradale e convegni sulla «vita oltre la vita», con tanto di medium. «Dopo certi traumi si impara a non dare nulla per scontato, neanche la ragione», dice il presidente Giuseppe Raduano. Perfino chi non se la sente di rinunciare ai lenitivi culturali dell’angoscia, ai parafernalia tradizionali della sepoltura, di fronte alla sciagura impensabile li ruba al camposanto e li porta fuori: cimiterini in trasferta. La statale Romea, tra Ravenna e Ferrara, è forse la più nera delle strade nere: tre incidenti per chilometro ogni anno. Dolore stratificato su dolore, il bordo della carreggiata ormai è una Via Crucis. Qui trovi i rarissimi monumentini, i sacelli, le statue, le lapidi coi nomi. Una miniatura del David di Donatello per Fabio Arveda, diciottenne. Una casetta di marmo di Carrara per Giuseppe Petitto, ventiquattrenne. Un cenotafio vero e proprio, ma issato su incongrue gambe di metallo, per Stefano Morselli, «innocente vittima di disastro stradale» nel già lontano 11 agosto 1975, «a poche settimane dalla conseguita maturità scientifica»: angoscia di un avvenire appena iniziato e subito stracciato. I peluche-ricordo Questo strazio “parlante” è meno aspro, quasi rassicura, perché la ragione dei vivi lo comprende. Ma il grido silenzioso dei fiori anonimi, che senso ha? A Faenza, davanti a un pelucheaffogato tra i gladioli, credo di intuire un gioco dolente, un messaggio cifrato, un indovinello: era una bambina (il fiocco è rosa). Altrove un berretto, una sciarpa del Milan sembrano proposti come codici da decifrare. A Buttapietra di Verona un fascio di rose bianche aggrappate al palo di un segnale “attenzione, pista ciclabile” pare la frase di un rebus dalla soluzione fin troppo facile. L’Italia degli altarini forse è un enorme mass medium, un’anomala pubblicità-progresso, un’autogestita campagna collettiva per la sicurezza stradale che ha inventato la sua segnaletica potentemente emotiva e tremendamente diretta. Perché scegliere così spesso fiori di stoffa o di plastica, se non per garantire maggior durata al messaggio? Viceversa, l’appassire dei fiori freschi non è, da sempre, il miglior memento mori? No, non è così. Troppi i rebus che non si lasciano sciogliere. «Sei fuori strada», mi avverte al telefono Campione, «Non c’è nessun messaggio. Quelle che vedi sono solo variazioni su un unico tema: il dolore è mio, solo mio; tu che passi puoi intuire, ma non potrai mai capire». Ma allora è un’intera civiltà del lutto che finisce fuori strada tra i mazzolini innocenti. Non è regressione atavica, è indizio di disperata modernità. È la fine di ogni condivisione sociale della perdita, è l’esclusione della tribù dal dolore individuale, è la privatizzazione al nero. Un sociologo francese, Michel Maffesoli, lo chiama «bricolage del lutto». Del resto la sua Francia è già avanti nello scisma tra doveri collettivi e dolori privati: lungo le routes nationauxlo Stato sta piantando tremende silouhettes di cadaveri e cartelli feroci: «In questa curva, l’anno scorso, otto morti!». Cartelli spietati, perché il pubblico rivendica il monopolio del monito, lasciando volentieri al singolo quello della pietà. I due mondi si ignorano. Appendere fiori, oggetti e targhe sulla pubblica via è proibito dalle leggi di pubblica sicurezza: ma chi ha il coraggio di toglierli? La polstrada chiude un occhio, soltanto il tempo (o l’inconsapevole cinismo di un cantiere dell’Anas) li smantella. L’assassina Transpolesana, Rovigo-Verona, è stata «messa in sicurezza» di recente, i lucenti guard-rail sono vergini di fiori. Per quanto ancora? Gli altarini del dolore muto sono come la ruggine, misurano il passare del tempo. Ma a profitto di chi? A Brescia piego verso sud, per Manerbio, trenta chilometri di linea retta, gioia e calvario dei motociclisti. A un bivio, sullo spartitraffico, il mazzolino di fiori ha un lumino rosso a pile sempre acceso. Lo spostamento d’aria dei Tir lo fa sbatacchiare. Sfreccia anche un carro funebre: ha lo stesso colore, la stessa aerodinamica delle auto su cui il suo passeggero viaggiò quand’era vivo. Anche molte ambulanze ormai sono più spiderche furgoni. Si imitano fra loro i segni della civiltà nomade, col suo culto per la velocità. Nulla a che vedere con l’immobilità silenziosa dei mazzolini, vestali sulla soglia di un altro mondo. DOMENICA 31 LUGLIO 2005 LA DOMENICA DI REPUBBLICA 25 Repubblica Nazionale 25 31/07/2005 MIGLIAIA DI CROCI In queste pagine, le foto di alcuni degli “altarini” incontrati dal nostro inviato lungo i 700 chilometri di strada percorsi per l’inchiesta. In Italia ogni anno sono più di seimila, circa 17 al giorno, le persone che perdono la vita in incidenti stradali La maggior parte delle vittime ha un’età compresa fra i 21 ed i 29 anni 26 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 31 LUGLIO 2005 il racconto Scacchi e politica Ecco come il gioco prediletto dai capi della rivoluzione sovietica è diventato metafora del confronto Usa-Urss Una fortuna per i gran maestri ma forse una fortuna più grande per gli strateghi dell’equilibrio del terrore Re, regina e alfiere alla Guerra Fredda allo? Qui è il peggiore giocatore al mondo che vuole parlare con il migliore...». Al telefono era Henry Kissinger, nel 1972, e chiamava a Reykjavik il maestro di scacchi americano Bobby Fischer, per convincerlo ad affrontare il campione del mondo, il russo Boris Spassky. Cronache recenti confermano che Fischer è tuttora dotato di una personalità molto disturbata. Arrivato con pazienza e fatica a ottenere il diritto di disputare il titolo di campione del mondo a Spassky, Fischer si era impuntato: accusava i sovietici di slealtà, e pareva non aver alcuna intenzione di mettersi alla scacchiera per il match decisivo. Si convinse dopo due eventi: il raddoppio della borsa prevista per il vincitore (da 125mila a 250mila dollari dell’epoca) e, appunto, la telefonata del consigliere di Nixon. Non sappiamo quale dei due eventi contò di più nella decisione finale. Fischer giocò: dopo un inizio a dir poco incerto, in cui commise errori da giocatore mediocre, si riprese e vinse quasi agevolmente. Per essere il peggiore giocatore del mondo, Kissinger aveva mosso bene i suoi pedoni. Oggi siamo abituati a governanti che esibiscono le proprie passioni sportive: allora il caso era più raro, ed è lecito dubitare che Kissinger prese il telefono in mano per un personale interesse al gioco delle sessantaquattro caselle. Era invece ovviamente conscio del ruolo che poteva giocare l’eventuale vittoria di Fischer sull’altra scacchiera, quella su cui lo stesso Kissinger era certamente uno dei massimi maestri mondiali: la scacchiera (o “lo scacchiere”) della Guerra Fredda. «Tu giochi alla guerra, io gioco agli scacchi»: così, e in yiddish, durante l’occupazione tedesca della Polonia nel corso della prima guerra mondiale, il campione polacco Reshevsky avrebbe liquidato il comandante tedesco, che aveva voluto disputare un incontro con lui, e aveva perso. Gli scacchi sono già di per sé una guerra. L’araldica dei pezzi ritrae un esercito, insieme assediante e assediato: la fanteria che avanza piano, la cavalleria che scarta di lato, i portabandiera che attraversano il campo in diagonale (ma in inglese il nostro alfiere è un vescovo, bishop, e in francese un matto, fou), i torrioni di rinforzo ai lati e i potenti che si spartiscono il ruolo attivo e offensivo della regina e quello passivo e difensivo del re. Può venire però il dubbio che gli scacchi abbiano rappresentato una guerra in particolare: la Guerra Fredda fra Stati Uniti e Unione Sovietica. Sempre circolata almeno in forma di suggestione, l’ipotesi ha particolarmente appassionato un giornalista culturale inglese, Daniel Johnson, che ha già annunciato per l’anno prossimo un suo libro sull’argomento, dal titolo Il Re bianco e la Regina rossa, e ne ha anticipato parte dei contenuti in un saggio pubblicato dal mensile Prospect. Di remotissime origini orientali, il gioco degli scacchi arrivò in Europa attorno all’ottavo secolo dopo Cristo: ma esordì nel mondo dello spettacolo solo a metà dell’Ottocento, con i primi tornei pubblici. Nel Novecento gli scacchi cambiarono natura. Incontrarono le avanguardie storiche e la cultura del secolo, sul piano iconologico e simbolico (la scacchiera come superficie di scorrimento, piano senza profondità, metafora utile per tutte le teorie del linguaggio, da Saussure a Deleuze), e non solo: Marcel Repubblica Nazionale 26 31/07/2005 «H Una telefonata di Kissinger spianò la strada allo storico match di Reykjavik tra Bobby Fischer e Boris Spassky nalisti, possibilità di viaggi all’estero, ma anche puniti con severità dopo le sconfitte (capitò, dopo il match con Fischer, anche a Spassky, che riuscì poi a espatriare ed è attualmente cittadino francese). La politica scacchistica dell’Unione Sovietica risultò a lungo efficacissima. Già nel 1945, subito dopo la fine della guerra, una partita Urss-Usa giocata via radio finì 15,5 a 4,5: un risultato shockante per gli americani, che avevano sopravvalutato il vantaggio dato dall’avere accolto numerosi maestri ebrei, scappati dall’Europa. Sospette manipolazioni del regolamento, scomuniche, tentativi di fuga, rancori tra establishment sovietico e fuoriusciti: la storia scacchistica del Novecento è un riassunto dell’altra Storia, con vicende di grande rilevanza anche letteraria. Il fuoriuscito Vladimir Nabokov dedicò alla follia degli scacchi uno dei suoi primi romanzi (La difesa di Luzin) e alla poesia degli scacchi una raccolta molto più tarda di poesie interpolate da problemi scacchistici (Poems and Problems). Al dissidente ebreo Natan Sharansky accadde davvero quel che Stefan Zweig aveva immaginato per l’eroe della sua Novella degli scacchi: incarcerato dal regime brezneviano, salvò la ragione giocando innumerevoli partite mentali contro se stesso, e una volta scarcerato ed espatriato in Israele (dove è stato anche ministro del governo Sharon) si tolse la soddisfazione di battere Garry Kasparov in una partita simultanea contro maestri israeliani. Il match Fischer-Spassky non chiuse definitivamente quella partita simbolica che si era aperta nel 1945 via radio ed era proseguita anche per altri canali (come la partita a scacchi con cui si apre il film di James Bond Dalla Russia con amore): ma ne decretò una svolta irreversibile. Tutto il mondo vide Fischer battere Spassky, e tutta l’America si appassionò — momentaneamente — agli scacchi, comprendendo che una delle poche indiscusse supremazie sovietiche era quanto meno erosa. Non ci fu rivincita, Fischer perse il titolo senza giocare, gli altri match mondiali non ebbero più lo stesso seguito planetario. Un altro match stava per incominciare: l’ultimo campione sovietico Garry Kasparov avrebbe giocato contro il computer Deep Blue, perdendo uno storico match nel maggio del 1997 e aprendo alcuni interrogativi sul futuro degli scacchi. Ma anche questa partita aveva radici in quella precedente: le prime istruzioni scacchistiche ai computer furono date da Alan Turing (l’inglese che decodificò i codici tedeschi nella Seconda Guerra Mondiale) e dall’americano George Shannon (fondatore della teoria matematica dei giochi, base del calcolo strategico anche bellico). I loro successori avrebbero inventato i programmi che nelle accademie militari americane come in quelle sovietiche simulavano tramite gli scacchi i conflitti nucleari. Cosa sono, poi, i giochi? Svolgendo il loro compito simbolico di simulazione, gli scacchi hanno consentito ai sovietici una forma di supremazia durante la Guerra Fredda, poi incrinata dalla sconfitta di Spassky. Ma il conflitto fra i due blocchi, così ben rappresentato dai due protagonisti di Reykjavik, è stato solo simboleggiato o anche sostanzialmente scongiurato dalla sua sublimazione scacchistica? È stato detto che la Guerra Fredda è una delle migliori fortune mai capitate al gioco degli scacchi: ma forse è vera anche l’affermazione complementare, e cioè che gli scacchi siano state una delle migliori fortune capitate alla Guerra Fredda. FOTO GETTY IMAGES STEFANO BARTEZZAGHI IL MITO Nella foto sopra, Bobby Fischer, primo campione del mondo Usa del dopoguerra Duchamp fu un Grande Maestro. Fu però con il ritorno di Lenin (appassionato scacchista, come Marx e Trotzkij) dall’esilio svizzero e con la nascita dell’Unione Sovietica che il gioco conobbe la sua maggiore rivoluzione. Dal punto di vista ideologico, gli scacchi non avevano connotazioni di classe ed era un gioco che abrogava il livello dell’alea, quindi della fortuna individuale: perfettamente ortodosso per il materialismo storico. Dal punto di vista sociologico, offriva un passatempo con indubbie virtù di allenamento mentale a un enorme numero di persone che nel tempo libero erano perlopiù abituate a «fabbricare liquori, berli e litigare con altri ubriachi». Dobbiamo l’impietosa diagnosi al funzionario Nikolai Krylenko, che si sarebbe poi distinto anche per ferocia repressiva, e che nel 1924 era a capo della sezione scacchistica del Consiglio supremo per l’educazione fisica dell’Urss. Con lo slogan «Diamo gli scacchi ai lavoratori» diede impulso a un movimento scacchistico che contò presto decine di milioni di partecipanti, guidati anche ideologicamente dalla rivista 64 da lui stesso diretta. Così gli scacchi diventarono una passione di massa, che diede la base demografica al predominio sovietico, che non tardò a imporsi. Il mito identifica una vera e propria “scuola scacchistica sovietica”. Il suo primo campione, Mikhail Botvinnik, descrisse il proprio stile come contrapposto a quello capitalistico, statico e puntato sull’apertura e l’attacco: vantava la capacità sovietica di adattarsi a ogni nuova situazione di gioco (oggi, e più criticamente, si ritiene che la propensione a una certa passività e alle controffensive riproduca in qualche modo la sensazione di “accerchiamento politico” comune alla società sovietica, e una certa carenza di spirito di iniziativa). Ogni volta che vinceva un match internazionale Botvinnik mandava un telegramma a Stalin, per ringraziarlo dell’aiuto ricevuto. I maestri di scacchi sovietici venivano infatti sostenuti dallo Stato, con stipendi, status privilegiati da ingegneri, “studenti” o gior- LE TAPPE IL DOPOGUERRA L’ERA BOTVINNIK LA RIVINCITA La prima partita Urss-Usa dopo la guerra viene giocata nel 1945 via radio e finisce 15,5 a 4,5: per gli americani la sconfitta è uno shock Nel 1948 viene organizzato un torneo tra i migliori cinque scacchisti del mondo: Mikhail Botvinnik diventa il primo supercampione del dopoguerra L’americano Bobby Fischer nel 1972 interrompe l’egemonia russa e piega il campione del mondo Spassky: sarà ricordato come il match del secolo DOMENICA 31 LUGLIO 2005 LA DOMENICA DI REPUBBLICA 27 DUELLI FRA LEADER Durante la clandestinità sulle montagne, Fidel Castro ed Ernesto Che Guevara erano soliti sfidarsi a scacchi Ma il líder maxímo non è mai stato all’altezza del Che Tuttavia, viene ricordato per aver donato una scacchiera a Bobby Fischer in occasione delle olimpiadi scacchistiche disputate all’Avana nel 1966. Nella foto grande, due anziani sovietici del dopoguerra giocano a scacchi davanti a un grande poster dei leader bolscevichi Lenin e Trotzkij “Scacco allo zar” il nuovo Kasparov oggi sfida Putin dentessa di vent’anni più giovane di lui. Da allora sono inseparabili. Insieme ai conMOSCA gressi dei partiti d’opposizione, mano nella mano nella sede moscovita del Comitato arry Kasparov, a 41 anni, si è stufato 2008, la macchina elettorale che lavora per di fingere. Dalla simulazione della guerra, un ricambio al vertice del Paese, fianco a passa alla battaglia vera. Dagli scacchi, alla fianco nei villaggi russi per spiegare che il politica. Il più grande campione degli ultipotere è battibile. Un amore esibito, per dimi vent’anni, a metà marzo ha messo da mostrare di essere una persona normale: e parte la scacchiera. A Linares, in Spagna, che i sentimenti rimangono essenziali per l’ultima vittoria in un torneo. Ha deciso che chi, fin da bambino, è stato descritto come la sua prossima sfida non sarà contro il un robot. computer Deep Blue e non avrà in palio un «Ho deciso di accettare il confronto con la milione di dollari. Lo scacco questa volta politica — dice — quando ho visto come vevuole darlo a Vladimir Putin: per conquiniva gestita l’inchiesta sulla Yukos e su stare il Cremlino. Dal re, al Mikhail Khodorkovski. Non nuovo zar della Russia post conta la realtà dei fatti, la sovietica. Una vita all’attacmoralità dei comportamenco. ti degli oligarchi: il problema «Tutte le persone per beè che il Cremlino usa i magine — dice — dovrebbero strati e i servizi segreti per unirsi e combattere contro consolidare il proprio potela dittatura». È questa perre. Colpisce gli avversari, cezione, l’idea che «dopo il non esige la persecuzione di crollo del comunismo si sia qualsiasi reato. È qui, oltre interrotto il percorso che che sulla guerra nascosta in porta alla libertà di ogni inCecenia, che la democrazia dividuo», che lo ha spinto a entra in cortocircuito». Lo un passo osservato in padicesse un esponente qualtria con speranza mista a siasi dell’opposizione, nesscetticismo. L’annuncio suno lo degnerebbe d’attenufficiale non è ancora arrizione. Le dichiarazioni di vato. Il fanciullo prodigio di Kasparov invece si trasforBaku, in Azerbaigian, si mano in lanci urgenti sulle muove però già da candidaagenzie e i giornali anglosasGarry Kasparov to alle presidenziali del soni le usano in apertura. 2008. «Perché è una favola che si Putin, secondo la Costituzione, non porinnova — spiega il rettore dell’università di trà ricandidarsi per un terzo mandato. KaMosca Yuri Afanassiev — la leggenda di Dasparov, assieme all’opposizione democravide che sfida Golia. Kasparov non è un olitica e ai liberali, è convinto che l’ex spia del garca del petrolio, non ha trascorso anni nei Kgb troverà un sistema per conservare il pomeandri del Cremlino, non ha rosicchiato tere. E che, se anche ciò non avvenisse, scorbriciole alla Duma e non è un lobbysta delrendo i nomi di uomini dell’esercito e dei le forze armate, o dei grandi gruppi finanservizi segreti che lo circondano, andrebbe ziari. Si presenta con la propria testa, con il peggio. Di qui l’affondo e il lungo tour attraproprio senso democratico e con la voglia di verso le regioni russe, appena iniziato. libertà che muove ogni essere umano: sarà «Farò tutto il possibile — spiega — per conla sua partita più difficile, ma non si può ditrastare la dittatura di Putin: userò la mia inre che parta battuto. Per questo piace altelligenza e la mia capacità di ragionare in l’Occidente e suscita grande curiosità in maniera strategica». Russia». I suoi occhi, dopo cinque anni, sono torAnche troppa. A metà aprile un giovane nati quelli ardenti del 1985. A 22 anni, batattivista dell’associazione “I Nostri”, gli tendo Anatolij Karpov contro tutti i pronoestremisti filo-putiniani, gli ha spaccato un stici, divenne il più giovane campione scacchiera in testa. Si è avvicinato con la mondiale della storia. Una sfida senza fine: scusa di un autografo e lo ha colpito. «Mi sei mesi e 48 partite. Ciò che restava del popiacevi come scacchista — ha gridato — ma tere al Cremlino seguiva gli incontri segrese diffami Putin tradisci il Paese». La settitamente, su schermi a circuito chiuso, con mana scorsa, durante una visita nel Caucail fiato sospeso. Dopo la vittoria di Fischer so del Nord, si è visto negare l’atterraggio da contro Spassky, simbolo mediatico della un paio di aeroporti. I presidenti di due reGuerra Fredda all’inizio degli anni Settanpubbliche autonome si sono rifiutati di inta, fu il primo scricchiolio dell’impero. Il racontrarlo. Qualcuno ha organizzato un langazzino liberal, padre ebreo e madre armecio di uova e pomodori contro le tribune dei na, Gran maestro a 17 anni, deciso a girare suoi primi comizi. «Il Cremlino cospira per il mondo e ad aprire gli scacchi al grande farmi fuori — dice Kasparov — ma la gente pubblico e al grande business, aveva democapisce di doversi muovere, prima di risvelito il campione dell’ortodossia sovietica. gliarsi nella dittatura. Il Caucaso muore tra Per la prima volta il Pcus capì che non corruzione e violenza: è una tragedia per avrebbe potuto sfruttare la sua immagine tutta l’area euro-asiatica, mentre Putin per costruire l’ennesimo eroe del comunipensa solo a organizzare i teppisti per imsmo. pedirmi di parlare». Miglior giocatore del pianeta per quindiOra il primo obiettivo sarà il G8 dell’anno ci anni consecutivi, amato più in Europa e prossimo a San Pietroburgo, quindi le legiin America che in Russia, solo nel 2000 Kaslative del 2007 e le presidenziali dell’anno sparov ha passato lo scettro all’uzbeko dopo. «Tre mosse in tre anni — scherza — Kramnik. Da allora, in dissenso con la fedeper cambiare il destino dell’ex Urss. Fondarazione internazionale, ha lanciato la sfida mentale è che il G8 non si tenga in Russia, ai computer: per studiare i meccanismi losarebbe come le Olimpiadi di Berlino nel gici delle macchine, per provare quanto il 1936». cervello possa essere più rapido dei microIl genio degli scacchi ormai sogna aranchip. «Di qui lo stimolo — dice oggi — a salcione e vuole diventare lo Yushenko di Movare il mio Paese da chi sta scientificamensca. Non punta alla rivoluzione, ma nessute distruggendo le conquiste dei primi anni no come lui regge le partite lunghe e su più Novanta». fronti. «Una cosa — assicura — l’ho già imPer cominciare, ha deciso di sposarsi per parata: come evitare le mosse sporche». E la quarta volta. Un anno fa a San Pietroburmostra in anteprima il titolo del suo prossigo ha conosciuto Daria Tarasova, una stumo libro: Come la vita imita gli scacchi. GIAMPAOLO VISETTI FOTO NICOLAS TIKHOMIROFF/MAGNUM Repubblica Nazionale 27 31/07/2005 FOTO AFP G I MATCH INFINITI IL COMPUTER Nel 1984 emerge Garry Kasparov, che contende e dall’anno seguente strappa il titolo a Anatoly Karpov: inizia l’epoca delle grandissime sfide tra i due K Nel maggio del 1997, l’ultimo campione russo, Kasparov, perde per la prima volta giocando contro il computer Deep Blue della Ibm in uno storico match 28 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 31 LUGLIO 2005 le storie/1 Nel 1935 Vitale Bramani viene sorpreso dalla bufera mentre scala con alcuni amici il monte Rasica. Costretti a restare in parete per ore, cinque alpinisti muoiono. Parte da qui l’idea del signor “Vibram” di costruire una suola solida e antiscivolo. Che da allora ha conquistato il mercato globale Marchi classici JENNER MELETTI S ALBIZZATE (Varese) Repubblica Nazionale 28 31/07/2005 embra di essere in una cucina. Gli “ingredienti” sono dentro ai vasi, ma qui invece di sale, pasta e olio si trovano resina petrolica, zolfo insolubile, acido stearico e bitume. Il chimico-cuoco è preciso: pesa, annusa, mescola poi porta il suo “piatto” al forno. Se la ricetta è giusta, verrà prodotta in serie. Nascono così le suole da scarpe Vibram, che calpesteranno tutto il mondo. Andranno ai piedi degli scalatori dell’Himalaya, dei poliziotti di Los Angeles, dei marines nei deserti iracheni, dei nuovi ricchi cinesi e anche di qualche alpino italiano e di altri corpi speciali dell’esercito. Non tutti, però. Da cinquant’anni gli alpini, con una sineddoche, chiamano Vibram i loro scarponi e In punta di Vibram si chiama ad esempio il libro, uscito nel 2004, che racconta la storia della scuola militare alpina di Aosta. Ma le suole costruite ad Albizzate sono troppo care per l’esercito italiano, che fa appalti al ribasso dove vincono produttori di suole a buon mercato. Le tanto celebrate Vibram restano solo a battaglioni scelti come gli Alpini paracadutisti monte Cervino (impegnati in Afghanistan) e allo stesso Comando degli alpini. Dopo la “cucina” ed i forni, ecco i “salami”. Gli operai li chiamano così, i pezzi di gomma che vanno afferrati con i guanti perché ancora scottano. Si aggiunge un altro pezzo di gomma per il tacco, si appoggia il marchio ottagonale, giallo, e tutto finisce sotto una pressa. Pressione, vulcanizzazione a 185 gradi, e la Vibram è pronta. Il colore giallo del marchio viene eliminato solo nelle suole destinate agli scarponi militari. «Ci hanno spiegato che è troppo visibile, e può essere un pericolo. Il nostro marchio è però ovunque, anche nelle scarpe dei marines oggi in guerra in Iraq. Ma ha lo stesso colore della suola, così si mimetizza». La formula del Carrarmato Nasce da una tragedia, la fortuna dell’azienda che fa le scarpe al mondo. Vitale Bramani (il marchio nasce dal nome e dal cognome) è un milanese con la passione della montagna. Nel 1935 assieme a 18 amici scala il monte Rasica. L’equipaggiamento allora era semplice: scarponi chiodati per arrivare alla parete, poi scarpe più leggere, anche in canapa, per la scalata sulla roccia. I 19 alpinisti, a metà parete, vengono sorpresi da una bufera. Restano ore ed ore aggrappati alle corde, e con le scarpe che non tengono la presa non riescono né a salire né a scendere. Cinque di loro muoiono per il freddo. Vitale Bramani si salva e decide di costruire una scarpa adatta alla montagna. Va dai Pirelli che fabbricano pneumatici e si fa preparare «la gomma tecnica», una suola che verrà chiamata Carrarmato. Stacca le suole dagli scarponi che vengono prodotti da altre aziende e mette le proprie. Le fa collaudare dagli amici che vanno in montagna. Nel 1937 nasce il marchio Vibram. Nel 1945 si apre lo stabilimento di Albizzate. «Durante la guerra — racconta Jerome Bernard, un francese che è diventato dirigente alla Vibram «per amore delle Alpi» — c’era addirittura il contrabbando fra Italia e Francia. Gli italiani si incontravano con i “cugini” sul monte Bianco, dove le guardie di frontiera non potevano arrivare». Il colpo grosso arriva nel 1954, quando una spedizione italiana, guidata da Ardito Desio, conquista il K2. «In cima arrivarono Achille Compagnoni e Lino Lacedelli. Ma tutti gli alpinisti della spedizione erano stati equipaggiati con sei paia diverse di scarponi Dolomite con suole Vibram. Da allora, si può dire che tutte le spedizioni hanno portato sulle cime il nostro marchio ottagonale». Da allora la marcia delle suole non si è più fermata. «Negli Stati Uniti già nel 1968 abbiamo fatto un accordo con la Quabaug corporation che produce su nostra licenza. Gli americani sono tanto abituati al marchio Vibram che pensano sia roba loro. E infatti lo L’uomo che inventò le scarpe del mondo pronunciano “Vaibram”. Negli Usa abbiamo davvero quasi un monopolio: le nostre suole sono ai piedi di tutto l’esercito, di tutti i corpi speciali, dei pompieri, dei poliziotti... Siamo forti anche nel mercato dell’antinfortunistica e in quello della caccia e pesca. Nell’America del sud c’è Vibram Brasil, mentre in Cina sarà aperto uno Dal deserto dell’Iraq alle vette degli Ottomila, il “bollino giallo” c’è sempre stabilimento il prossimo anno». Ogni anno vengono prodotte quasi 40 milioni di paia di suole, che hanno costi diversi: dai 2-3 dollari della Cina (là ci sono già 20 dipendenti di Albizzate che fanno lavorare i terzisti) ai 1520 dollari dell’Europa e del Nord America. «Difficile pensare — dice Jerome Bernard — che qualcuno non abbia LA CONQUISTA DEL K2 Sopra, la conquista del K2 da parte di Compagnoni e Lacedelli sulla copertina della “Domenica del Corriere”. Sotto, foto di gruppo della spedizione italiana guidata da Ardito Desio, uno degli scarponi usati per arrivare in vetta, e la suola Vibram col caratteristico marchio giallo ottagonale mai calzato le nostre suole. Da noi sono nate le Prada sport, e le Vibram sono salite anche su Luna Rossa. Agli inizi degli anni Ottanta vennero da noi i rappresentanti di una piccola fabbrica americana, allora quasi sconosciuta, che si chiamava Timberland. Erano interessati a una nostra mescola, marrone ma quasi trasparente. La loro fortuna è nata qui. Abbiamo costruito milioni di suole, per loro. Poi la Timberland ha cercato altri produttori, ma alla fine è tornata da noi ed è rimasta. Difficile fare l’elenco di tutti coloro che si servono qui ad Albizzate. Ricordo le Tod’s di Della Valle, Armani, Clone, eccetera. Chi ha dubbi guardi sotto le scarpe, e cerchi il nostro marchio giallo». Le nuove suole che calpestano il mondo vengono inventate da cervelli che arrivano anche da lontano. Il design manager si chiama Trond Sonnergren ed è svedese. Al suo fianco la turca Defne Yalkut e l’italiano Andrea Rinaldi. «Ha mai osservato una delle nostre suole? Ci sono fino a cinquemila superfici diverse, in ogni pezzo. Si parte dal disegno, poi si fanno i prototipi. Per alcune case, ora progettiamo anche l’intera scarpa. Suole «borghesi», le chiamiamo, perché non sono né sportive né militari. Ma il lavoro principale resta quello di progettare suole che, come nella tradizione, debbono essere robuste, antiscivolo e resistenti all’abrasione. Suole che possono salvare chi le porta, in montagna o sul lavoro». Gomma da Malesia e Brasile La materia prima è nel magazzino. Bellissimi sono i “pani” gialli, mezzo quintale l’uno, della gomma naturale che arriva dalla Malesia e dal Brasile. Verrà mescolata alla gomma prodotta dall’Enichem e dalla Bayer. «Ogni anno — dice Ambrogio Merlo, amministratore delegato — spendiamo un mezzo milione di euro per difendere i nostri brevetti e soprattutto per cause legali contro i contraffattori. Adesso tutti parlano della Cina, ma siamo stati noi europei ad insegnare a tutti la contraffazione. Quelli che ci copiano fanno affari. Analizzano la mescola, si preparano uno stampo — costa sui 5.000 euro — e cominciano a produrre le simil Vibram. Noi ce ne accorgiamo magari dopo due o tre mesi, chiediamo il blocco. Se chi ha contraffatto ha venduto poco, chiede il patteggiamento, tanto il costo dello stampo lo ha già recuperato. A quel punto paga metà delle spese legali (l’altra metà siamo costretti a pagarla noi) e distrugge lo stampo. Se l’affare gli va invece bene, continua a produrre fino alla sentenza. La cosa che fa male è che questi piccoli produttori o artigiani lavorano per aziende importanti, molto importanti. Sono le stesse che poi vendono le scarpe a 200 euro, e cercano di risparmiare sulla suola. I nomi sono noti: sono gli stessi che si lamentano per la concorrenza “sleale” dei cinesi». Anche l’Europa è calpestata dalle Vibram. Le suole con il carrarmato sono ai piedi dei militari belgi e polacchi, della gendarmeria francese. Si calcola che il sessanta per cento dei militari europei porti le suole prodotte a Varese. «Con l’esercito italiano, invece, ormai non ci intendiamo più. Per decenni gli alpini hanno indossato gli scarponi chiamandoli con il nome della nostra azienda, ma ormai le nostre suole sono un “privilegio” di pochi corpi speciali. Le gare del ministero si vincono al ribasso, e le nostre suole costano il doppio di quelle medio-basse. Il nostro mercato va bene. Le Vibram, nei diversi mercati del mondo, crescono dal 10 al 25 per cento ogni anno. Le nostre suole calpestano deserti e montagne anche in India, Pakistan, Arabia Saudita. Questo per spiegare che il lavoro non ci manca. Se l’esercito italiano non ci dà appalti, non andiamo al fallimento. Ma ci dispiace vedere che ai piedi dei nostri soldati non c’è il meglio». La storia si ripete. Nella campagna di Russia alpini e fanti, mandati a una conquista che non riuscì nemmeno a Napoleone, nel gelo della steppa si accorsero che le loro suole erano di cartone. DOMENICA 31 LUGLIO 2005 le storie/2 Miti letterari LA DOMENICA DI REPUBBLICA 29 Quattrocento anni fa nascevano il Don Chisciotte di Cervantes e la sua vagheggiata e inarrivabile donna del desiderio. Siamo andati a El Toboso, nel cuore della Mancha, per raccontare il concorso di bellezza meno celebre e più nobile del mondo E per scoprire che l’amore è un viaggio senza meta Dulcinea 2005 è una miss di paese D CONCITA DE GREGORIO LA MANCHA ulcinea del Toboso oggi si chiama Esmeralda. Lei ancora non lo sa, ma il 25 agosto sarà eletta Regina della festa: la giuria in segreto ha già deciso. Incarnerà per un anno l’ideale dell’amore perfetto: quello che avrebbe potuto essere e non è stato. L’amore impossibile, non corrotto dal contatto. L’amore solo immaginato, dunque immortale. Anche questo Esmeralda non lo sa. Alle quattro del pomeriggio fa la siesta e non risponde al campanello. Uno, due, tre squilli. Bisogna chiamarla per nome dalla finestra, come si fa nei paesi. Allora esce, in ciabatte e coi capelli scomposti. La casa, l’ultima prima dei campi, è completamente al buio. Fuori il sole rovente della Mancha e le cicale. Persiane chiuse, televisione accesa su una soap, volume al massimo. Camino di marmo in salotto, sul camino foto dei genitori il giorno delle nozze incorniciata d’oro antico come un quadro di Zurbaran. Sul tavolino ritagli di stoffa e filo da cucire lasciati dalla madre, che fa la sarta. Già pronta per le nozze Bella è bella, Esmeralda, della bellezza breve dei suoi diciassette anni. Capelli lunghi e lisci neri, zigomi alti. Sguardo sfrontato di ragazzina senza pudore. Potevate avvertire, dice. Poi si accascia sul divano di broccato all’ingrosso. Allora, cosa c’è? Vorremmo farti una foto. Non se ne parla, sono in disordine. Allora parliamo di questo concorso di bellezza, sei pronta? Sono qui, sono pronta certo. Devo solo preparare il vestito. Gli zigomi sono alti, sì, ma le caviglie gonfie e le gambe piene di lividi e di morsi di zanzare. Esmeralda racconta di un fidanzato più grande di lei, già pronto per le nozze: installa impianti di aria condizionata, un lavoro sicuro. Peccato che sia così stanco quando viene a prenderla la sera, non ha mai voglia di uscire, lei vorrebbe andare in discoteca ma lui preferisce guardare la tv. «Allora non usciamo, stiamo qui», dice e si dipinge di nero le unghie dei piedi. Dalla penombra si affaccia in vestaglia, una signora robusta con la voce roca. Forse è la mamma. Il concorso di bellezza di El Toboso è il meno celebre e il più nobile della terra. Tra le trenta ragazzine non ancora diciottenni di questo borgo affondato sulla mappa nel centro esatto della Spagna, a trecento chilometri da ogni mare e orizzonte, si reincarna ogni anno con imperterrita regolarità — l’ultima domenica di agosto — la donna ideale, l’amore perpetuo. Dulcinea, la dolce Anna, il mito del desiderio irrisolto che muove ogni cosa. Essendo una storia vecchia di quattrocento anni qui la trattano con una certa confidenza. «Dulcinea era molto bella ed era nata in quella casa all’angolo», dice Benita, l’organizzatrice della Festa, capelli rossi bruciati dalla tinta, quella che sceglie le ragazze e guida la giuria che decreta la Regina. «Forse però era una contadina, non una signora: mi sembra che si chiamasse Aldonza e allora la storia della casa è stata inventata dopo ed è finta. Sa, per i turisti». Dopo, in un luogo del tempo che nessuno ricorda. Questo è tutto, il resto non serve. Il sole è ancora alto, il paese bianco sembra il set abbandonato di un film western. Case a un piano tutte uguali, porte e finestre di legno sbarrate, non un fiore alle finestre non un cane per strada. Se suoni alla porta non apre nessuno, se cerchi un bagno, un bicchier d’acqua non c’è. Le bambine tra poco escono dalla scuola elementare Miguel de Cervantes, una sola classe per ogni età. A lezione ci sono una Vanessa, una Tatiana, una Jessica. Due Fatima, cugine: è il nome della nonna. Aldonza nessuna, naturalmente. Sarebbe come cercare da noi una Eufemia all’asilo. Dulcinea nemmeno. Ce n’è stata solo una, negli ultimi cinquant’anni, a El Toboso: la figlia del farmacista, bell’uomo colto e massiccio, grande e orgoglioso appassionato del Romanzo. La ragazza ha ventisei anni, fa l’ingegnere chimico, parla quattro lingue e vive a Madrid. Un prodigio, in paese. La vera Dulcinea — che di cognome fa Ortiz, come la moglie giornalista del principe Felipe erede al trono — non è mai stata eletta Regina della Festa. Perciò non è negli annali delle “Dulcineas”, documento che gli archivi del municipio custodiscono in un faldone rilegato. Ci sono i nomi e le foto dei trionfatori di tutte le edizioni degli ultimi decenni, sezioni e specialità che variano per sesso e per età: il concorso di abilità con trattore e rimorchio, il torneo di scacchi, la gara di ballo e la gimcana per signore, la corrida coi tori giovani, il concorso di bellezza. Il sindaco, per esempio, è stata Dulcinea in un tempo che preferisce non Quest’anno sarà Esmeralda a vincere Prima di lei è toccato a Maria Luisa, Petra, Teresa, Rocìo, Noemi la bionda, Diana... Manca soltanto l’unica vera Dulcinea L’OMAGGIO DI DALÌ Sopra, una litografia di Salvador Dalì su Dulcinea e il cavaliere errante Don Chisciotte In alto: le ragazze di Toboso finaliste del concorso di bellezza “Dulcinea” nel 2004 e nel 2005 dire. Si chiama Natividad Martinez, Nati per i duemila e duecento compaesani, dimostra meno dei suoi quasi sessant’anni: socialista energica coi ricci color rame, insegnante di scuola e deputato al parlamento regionale di Toledo. Nati Martinez dice con un bel sorriso che l’elezione d’agosto della Dulcinea del Toboso «rafforza l’identità e la coesione della gente del paese, inorgoglisce le famiglie interessate e rinnova la nostra illustre tradizione». Fa comunità, dà lustro, ristabilisce nel nome della bellezza una certa giustizia sociale. La Dulcinea dell’anno scorso, per esempio, è la figlia della donna che fa le pulizie in casa di quella che è arrivata seconda e ha dovuto farle da damigella. Circostanza di cui, come è evidente, si è parlato per mesi nell’unico negozio di ortofrutta e ai bordi della minuscola piscina comunale. Dulcinea sono state negli anni la moglie del farmacista signora Maria Luisa, fu così che si fidanzò col marito: «Ci conoscevamo appena, ero amica di sua sorella. Poi dopo l’elezione pubblicarono la mia foto sul giornale, misero il ritaglio in bacheca nella scuola del paese vicino e allora lui si fece animo, venne a chiedermi di uscire». Poi Petra, la segretaria d’azienda; Maria Elena, oggi madre di quattro figli; Teresa la sorella del benz i n a i o ; Rocìo, che è partita e nessuno sa che fine abbia fatto, dicono che lavori in un locale nella capitale, lo dicono un po’ sottovoce. Poi ci sono le ragazze di adesso, Dulcinea dal 2000. Elena, già un po’ ingrossata rispetto alla foto in posa per gli annali, stacca i biglietti in piscina e fuma sigarette senza filtro. Noemi, che è bionda e ha gli occhi blu, lavora in discoteca di sera e al bar dell’incrocio di giorno: hanno chiesto la sua mano in tanti, lei li ha esaminati uno per uno ma non l’ha ancora pro- messa a nessuno. Marta si è tagliata i capelli, li ha tinti di biondo e si sposa a ottobre. Diana Redondo, la Regina ancora in carica fino a che Esmeralda fra qualche giorno non prenderà il suo posto, è a casa che studia: due materie a settembre. Casa buia, televisore acceso, nonna vestita di nero immobile in salotto. «È stato bello soprattutto per la mia famiglia», sua madre è la signora delle pulizie, «io adesso se passo gli esami vorrei fare un corso per tecnica di laboratorio, vorrei studiare chimica ma vediamo, ne parliamo dopo la vendemmia». Sua sorella Laura la guarda a bocca aperta. Ha undici anni, deve mettere l’apparecchio ai denti. Timida dice che vorrebbe essere Dulcinea anche lei da grande, certo, ma non ci spera perché lo sa benissimo che Diana è più bella. Tutti a casa per la vendemmia Per la vendemmia tornano tutti a casa, la popolazione del Toboso raddoppia: cugini, nipoti, parenti di città. Arrivano con le macchine nuove lungo l’autostrada folle costruita coi finanziamenti per lo sviluppo di Castilla. Svincoli a quadrifoglio, rotonde illuminate dai lampeggianti, sopraelevate sui dossi impercettibili dell’immensa distesa pianeggiante dove una volta, quattrocento anni fa, potevi andare a cavallo «per tutto il giorno senza che succedesse nulla degno di essere narrato». Dove i mulini sulla cresta delle colline comparivano come miraggi dopo l’ultima curva e sembravano davvero giganti sordi e ciechi, ora ci arrivi sotto a centoventi sulla quattro corsie e pare tutto un luna park. Al Toboso i bar sono tutti all’incrocio della statale, nessuno in paese, non uno nelle piazze. Sono lungo la strada grande dove corrono i camion, perché è da lì che si scappa. Oppure si resta, seduti al tavolo dove Noemi la bionda serve il caffè col ghiaccio, sempre troppo dolce. Al telefono da Madrid in una pausa dell’orario di lavoro Dulcinea Ortiz Lozano, l’unica vera Dulcinea del Toboso, racconta che presto andrà a lavorare in un gasdotto come sognava già da ragazzina. È stata a Roma un anno con l’Erasmus, alla Sapienza. Poi in Bolivia per uno stage, poi l’hanno assunta all’industria nazionale del gas. Un fidanzato no, non ce l’ha. «Con questo nome», ride, «sarà il mio destino». Dice che Dulcinea non è mai esistita, e il vero amore chissà. «Deve essere quello che si desidera e non si può avere, perché nella vita lo sforzo di arrivare conta più del risultato, il cammino vale più della meta». Ecco, questo: l’amore è solo un viaggio. Senza autostrada però. Un viaggio a piedi, al massimo a cavallo. Col caldo che confonde i contorni delle cose e il vento che disordina i pensieri. E poi pazienza se non si arriva in nessun posto, se quel che poteva essere non è stato mai: è davvero invincibile solo chi da ogni sconfitta sa ripartire, racconta il cavaliere di questa lunga storia. C’è sempre una Dulcinea, in qualche casa in ombra di un paese della Mancha: un paese il cui nome non riesco a ricordare. Dulcinea che si tinge le unghie, aspetta e non lo sa. 30 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 31 LUGLIO 2005 i luoghi Mete alternative SANDRO VIOLA S BERGEN Repubblica Nazionale 30 31/07/2005 olo il Torget, il mercato del pesce che si tiene ogni giorno sulla riva centrale del porto, è rimasto com’era. Il Torget è lì da quando esiste Bergen. Già alla fine del XII secolo, un crociato danese in viaggio verso la Terra Santa aveva scritto del suo stupore dinanzi all’enorme quantità di pesce che vi veniva esposta: «…Ci sono tanti stoccafissi, merluzzi appena pescati e aringhe, che non si riuscirebbe a contarli né a pesarli». E otto secoli dopo il colpo d’occhio non è molto diverso da allora. I banchi traboccano di merluzzi, salmoni, trote e passere di mare, razze, pesci-luna, pesci-gatto, aringhe e stoccafissi, gamberi, scampi, granchi giganti, astici, aragoste. Per il visitatore, come sempre, una meraviglia. Ma a parte lo scorcio del Torget, nei quindici anni dacché ne mancavo Bergen è cambiata. Era quieta, composta, provinciale, animata soltanto dal continuo va e vieni dei traghetti e pescherecci nel golfo lungo e stretto, il Vagen, su cui s’affaccia. Cinque o sei caffè attorno al porto, le vecchie costruzioni di legno sulla riva di Bryggen a ricordare il periodo anseatico, e sulle colline boscose, a semicerchio di fronte al mare, le belle case della borghesia. Mentre oggi è un centro turistico: pizzerie, ristoranti cinesi, agenzie di viaggio, file dinanzi ai bancomat, negozi di “souvenirs”. Lungo le banchine del porto il flusso ininterrotto dei vacanzieri, contro la balaustra del belvedere sul monte Ulriken un muro di corpi umani e macchine fotografiche. Mi chiedo se siano le bombe, il presentimento e la paura delle bombe che camminano, ad affollare persino Bergen. Una città dove piove per più di duecento giorni all’anno, e i caffè — col termometro che segna 14 o 15 gradi di massima — forniscono una coperta a chi voglia sedere ai tavoli esterni. Me lo chiedo scorrendo i giornali con le notizie degli attentati terroristici a Sharm el-Sheik, e concludo che forse è così. È probabile che chi parte per le vacanze studi ormai una carta geografica. Faccia un segno rosso lì dove le bombe sono già scoppiate, e lì dov’è presumibile che scoppino le prossime. Indonesia, Turchia, Marocco, Tunisia, Egitto, Spagna, Inghilterra, e domani forse la Francia, la Grecia, l’Italia. Tanti, troppi segni rossi. Mentre questi fiordi, coste, boschi e montagne della Norvegia sono lontani. Incongrui, si può presumere, nella strategia della jihad. E dunque molto probabilmente al riparo dall’“arab rage”, la furia araba, e dalla sua arma principale: la bomba che cammina. Tre canali in tv Anche l’eco delle bombe è fortemente attutito. I giornali stranieri arrivano con un giorno o due di ritardo, la televisione ha tre canali in norvegese — dunque incomprensibili — e uno in chiaro: la Bbc. E la Bbc, com’è noto, non è ansiogena né oratoria. Mai che uno “speaker” della televisione inglese inizi la cronaca d’un attentato al modo italiano, con quelle sfilze di «angoscia, orrore, sdegno» sempre eguali e sempre più vacue. Ci sono le notizie, le immagini, ma niente politici (salvo, nel caso delle bombe di Londra, i doverosi interventi del primo ministro) che commentino con altri superflui «angoscia, orrore e sdegno», la vista delle rovine e dei morti. Insomma: grazie anche all’asciuttezza della Bbc, sui fiordi del mare del Nord l’urlo terrificante del terrorismo giunge smorzato, già quasi afono. Seduto ad un caffè e avvolto nella coperta propostami dal cameriere, o sul ponte di prua dei battelli in gita lungo i fiordi, li osservo attentamente, i turisti venuti a Bergen. Spagnoli, tedeschi, belgi, francesi, italiani, ma anche giapponesi e americani. Condizione sociale media o medio-bassa, non un’ombra d’eleganza, un’incontenibile ingordigia di “souvenirs”, pizza congelata e scatti fotografici. La storia non li interessa, perché il museo Anseatico è pressoché vuoto. Dunque niente curiosità per quelli che furono i porti dell’Hansa, la sequenza d’approdi, magazzini e uffici contabili dove si svilupparono a partire dal Trecento, tra Lubecca e Novgorod attraverso Bruges, Bergen, Riga e Cronaca di un ritorno, dopo quindici anni, nella città norvegese. Per scoprire che il turismo internazionale è arrivato anche qui, forse per sfuggire la geografia delle bombe. Ma anche per godere di una solitudine fatta di boschi, fiordi, case di legno, piccole fattorie con davanti l’imbarcadero, campanili, fari e stridìo dei gabbiani Bergen, la musica del Grande Nord IL PORTO. Sopra, panorama del porto di Bergen. Qui sotto a sinistra, il quartiere di Bryggen . A destra, i fiordi intorno alla città Tallin, le forme moderne del commercio. E neppure, direi, molto interesse per la musica classica, perché ai vari concerti che Bergen propone ogni sera vedo soprattutto scandinavi. Eppure come li sento vicini (gli italiani in particolare, è ovvio, che stavolta mi sembrano meno agitati e rumorosi d’altre volte in altri mari e monti), nella scelta del Grande Nord. Perché sebbene nella decisione possa aver contato la minaccia terroristica, la memoria delle carneficine succedutesi da tre o quattr’anni nelle località turistiche, anche altro li ha certamente spinti sin qui: verso Bergen e i magnifici boschi che la sovrastano, verso l’intarsio dei fiordi norvegesi che ha in questo porto il suo migliore punto d’imbarco. E quell’“altro” è forse ciò che mi porta da molti anni, l’estate, il Attorno alle acque del Sognefjord il verde cupo degli abeti, gli strapiombi di roccia velati dalla pioggia, il salto in mare delle cascate più lontano possibile a Settentrione. La nausea dei carnai sulle spiagge e mari meridionali, Italia, Grecia, Spagna. Il raccapriccio alla vista delle nudità, abbronzature, sudori di discoteca ed altre bruttezze e cafonaggini che ormai da vent’anni sfigurano, dal golfo d’Antalia ad Ibiza passando per le isole greche, Capri e la Costa Azzurra, l’intero Mediterraneo. E per quel che riguarda gli italiani, il Grande Nord è anche una via di scampo dallo spettacolo sconfortante dell’estate italiana. I deputati La Russa e Santanchè sulla Costa Smeralda, le veline e i conduttori della tv a Positano, Ricucci all’Argentario, le borse, i pareo e gli occhiali da sole di “stilisti” che andrebbero messi al muro, gli alberghi rigurgitanti di giurati dei premi giornalistici e letterari, le “serate di gala” per la consegna dei premi suddetti, i fotografi dei settimanali alla caccia di Sgarbi, Curzi e Montezemolo, Emilio Fede, Della Valle, l’Annunziata e la Cuccarini. Per dirla in due parole, la serie degli affronti che subiamo dall’estate italiana. Qui, certo, piove. Nei giorni che ho trascorso a Bergen il sole s’è visto una sola volta, e per il resto cieli grigi. Ma la bellezza di questa natura sfida qualsiasi condizione meteorologica e, comunque, a chi mi chiede perché m’arrischio un’estate dopo l’altra verso le nubi, le piogge e il freddo del Nord, non mi stanco di citare quel famoso rigo e mezzo di Myrdun, il diario norvegese di Ernst Junger: «…il Sud ci consuma, il Nord ci infonde nuove energie». Com’è vero! Un giorno o due, e ci s’accorge che la DOMENICA 31 LUGLIO 2005 LA DOMENICA DI REPUBBLICA 31 LA CAPITALE DEI FIORDI Fondata fra i fiordi nel 1070 d.C. dal mitico re Olav Kyrre (il primo reale norvegese a saper leggere) Bergen, con i suoi 235mila abitanti, è la seconda città della Norvegia. Sede della corte reale fino al XVII secolo, dal 1979 il quartiere di Bryggen, sul lungomare, è Patrimonio dell’Umanità Unesco se, i piccoli monumenti, i vecchi negozi e le insegne che ne raccontano la vicenda. Così, allo stesso modo che a Venezia le folle stazionano soprattutto tra la Loggetta, Palazzo Ducale, San Marco e le Procuratie, anche a Bergen le schiere di turisti si concentrano in maggior parte sulla riva di Bryggen, dove le case anseatiche ospitano adesso soltanto negozi di ricordini e maglieria popolare norvegese. Mentre in tanti pezzi della città rimasti intatti, come la Cort Pilsmanet, la Kong Oscar o le vie nei pressi del Teatro Nazionale (Engen, Kong Olav, Magnus Barfots Gate), di stranieri se ne vedono assai pochi. Se poi vado a passeggiare attorno alla Mariekyrken e al suo piccolo cimitero fiorito di rose gialle, tutto tedesco (la presenza tedesca a Bergen durò ben oltre la fine della Lega anseatica, ed era ancora economicamente significativa nella seconda metà dell’Ottocento), lì incrocio soltanto i locali. La gente che abita le vecchie, civilissime case di legno o di mattoni della via Kroken e della Holendergaten, tutte con le finestre basse sulla strada, attraverso le quali getto uno sguardo negli interni a cogliere lo spirito conservatore, l’estrema circospezione verso la modernità dei norvegesi. E quindi mobili vecchiotti, tappezzerie in velluto e persino qualche trina, piccoli quadri alle pareti, tavolini con su gli occhiali e un giornale o un libro: un insieme che ancora somiglia a quel che si vede qualche centinaio di metri più in là, nel museo che accoglie la bella collezione Rasmus Meyer, nei quadri tra Otto e Novecento di Thaulow, Werenskiold, Schjelderup, e nei primi Munch. Repubblica Nazionale 31 31/07/2005 I CAFFÈ. Sotto a sinistra, turisti che si rilassano in uno dei tanti caffè del lungomare. A destra, veduta notturna di Bergen pioggia, il vento, il plumbeo del mare si compongono in una specie di chimica ricostituente. S’attenuano le stanchezze, fiorisce l’appetito, si può bere il doppio e forse più dell’alcol che beviamo dalle nostre parti. No, non è questione di bollettini meteorologici. Avevo navigato il Sognefjord, credo il più lungo e spettacolare fiordo norvegese, quindici anni fa. In quei giorni il tempo era bello. Cieli continuamente cangianti, qualche ora di sole, e a tarda sera, quando la luce cominciava a smorzarsi, crepuscoli indimenticabili: l’orizzonte grigio-viola, un’aria trasparente, le acque limpide, e sulle coste il bianco delle betulle e le prime lampade accese davanti alle case di legno. In quel viaggio potevo stare sul ponte del battello con un pullover di mezzo peso, e ricorrere all’impermeabile solo quando veniva giù un po’ di pioggia. L’altro giorno, invece, su quelle stesse acque del Sognefjord indossavo un pullover pesante, un giaccone impermeabile, un berretto di lana. Pioveva leggero ma senza interruzioni, il vento ha travolto gli ombrelli di due anziane giapponesi, per accendere una sigaretta ho vuotato una scatola di fiammiferi. Ma era stupendo lo stesso. Il verde cupo degli abeti, il fiordo che con le nubi basse si faceva come misterioso, gli strapiombi di roccia velati dalla pioggia, il salto in mare delle cascate, gli imbocchi d’un nuovo braccio di mare che comparivano di colpo da un banco di nebbia, la bella bandiera norvegese che schioccava al vento sulla poppa del battello. E intorno un mondo di soli- La magìa della casa di Edvard Grieg a Troldhaugen, sul lago Nordas, dove ogni pomeriggio d’estate si suonano i suoi “Pezzi lirici” tudini, certo, ma il mondo meno degradato d’Europa: le case di legno, le piccole fattorie con davanti l’imbarcadero e la tettoia per la barca, lo stridìo dei gabbiani, ogni tanto un campanile, lì un faro, e sulla costa destra, d’un tratto, un uomo che da una terrazza si sbracciava per salutare il passaggio del nostro battello. Che cosa di più lontano dalle furie del terrorismo, da questo cupo “temps des assassins” che ci troviamo a vivere? Né Bergen, tutto sommato, è da meno. Perché sappiamo come si muovono i turisti: come tendano ad affollarsi in certi luoghi deputati — quelli più ritratti nelle cartoline ed esaltati nelle guide, le strade con più negozi e “fastfood”—, spesso trascurando proprio gli scorci dove meglio s’assapora il carattere d’una città, le vie, i gruppi di ca- La sinfonia del silenzio Ma è a Troldhaugen, la casa di Edvard Grieg sul lago Nordas, a dieci minuti d’autobus dal centro di Bergen, che la memoria della Norvegia romantica è più viva. Dico l’epoca della nascita o rinascita della nazione (l’ultimo paio di decenni dell’unione con la Svezia e i primi anni dopo l’indipendenza del 1904), con Ibsen, Bjorson, Grieg e i giovani Hamsun e Munch sul davanti della scena europea a sfatare la leggenda d’una Norvegia di soli balenieri, pescatori e mercanti di stoccafisso. Che posto, Troldhaugen. Non parlo tanto della casa in legno — con le sue linee spurie, metà svizzere metà scandinave — dove Grieg veniva a tirare il poco fiato che gli rimaneva dopo le sfiancanti “tournées” in tutta Europa: anche se lo scrupolo con cui ne sono stati recuperati e rimessi lì dove si trovavano gli arredi, la luce verdastra che entra attraverso le finestre dal giardino, i bei ritratti di Grieg e della moglie Nina dipinti dai pittori loro contemporanei, ne fanno scaturire un’atmosfera, una sensazione d’autenticità, che mancano quasi sempre negli interni più o meno ricostruiti delle case dei grandi uomini (per fare un esempio vicino, nella casa di Ibsen a Oslo). Parlo del luogo. Il verde rigoglioso del giardino e del breve bosco accanto, le felci, le querce, gli abeti, i grandi rododendri, i viluppi di piante acquatiche che si spingono verso il lago come una prua di nave. La pioggia leggera che cade sulle acque ferme del lago, il grande silenzio. A Troldhaugen c’è adesso, vicino alla casa del compositore e circondata dal verde, una bella sala da concerti dove ogni pomeriggio d’estate si suonano pezzi per piano, o sonate per piano e violino, di Grieg. E chi conosce Grieg sa bene che nonostante la sua fama debba molto al celeberrimo Concerto per piano e orchestra in la minore e alle “suites” del Peer Gynt, la sua musica più avvincente è proprio quella per piano, con al centro la serie dei Pezzi lirici che ascolto da vent’anni nell’esecuzione forse inarrivabile di Eva Knardhal. E, certo, a Bergen piove. Ma se ogni pomeriggio si può andare a Troldhaugen, girare un po’ nel giardino, fermarsi a guardare il lago e poi sedersi a sentire un buon pianista che suona i Pezzi lirici: oggi La pace nel bosco, C’era una volta, Malinconia; domani Ai tuoi piedi, Il canto del marinaio, Gratitudine; e dopodomani Foglio d’album e Giorno di nozze a Troldhaugen, il pezzo composto da Grieg per le nozze d’oro con Nina Hagerup: ecco, se i pomeriggi d’un periodo di vacanze si possono trascorrere così, meglio la pioggia a Bergen che il bel tempo a Capri o a Positano. 32 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 31 LUGLIO 2005 Undici giorni dopo Pearl Harbor, nel febbrile clima di rifondazione dell’intelligence statunitense, parte il progetto che in poche settimane calerà nell’Europa del nazismo trionfante una nuova rete di spionaggio, tutta formata da maschi omosessuali. La genesi di questo progetto è raccontata da alcuni documenti custoditi negli Archivi nazionali di College Park, che sono stati recentemente desecretati e di cui “Repubblica” è entrata in possesso La guerra delle spie ATTILIO BOLZONI TANO GULLO ervire e proteggere gli Stati Uniti d’America. A tutti i costi. E con ogni mezzo. Anche con una task force impiegata in attività di controspionaggio formata esclusivamente da omosessuali, «patrioti motivati» e «maschi reclutati nel giro della prostituzione di basso livello», squadre scelte da infiltrare nelle forze aeree tedesche e nelle ambasciate europee «con l’obiettivo di ottenere informazioni vitali». Il progetto nasce a New York City nel dicembre del 1941, appena undici giorni dopo l’attacco a tradimento di Pearl Harbor, i caccia giapponesi che in una tranquilla domenica mattina affondano in novantacinque minuti la flotta Usa nel Pacifico. È negli ultimi giorni di quell’anno, decisivo per le sorti del mondo, che comincia a diffondersi una nuova rete di intelligence. Sarà presto operativa nei territori occupati dai nazisti, agenti sotto copertura disposti a tutto per la bandiera a stelle e a strisce. C’è anche un reparto speciale: spie tutte omosessuali. È una guerra nella guerra fatta di combattimenti sotterranei e silenziosi, di agganciamenti, di ricatti privati che a volte condizioneranno lo svolgimento delle vicende belliche. Repubblica Nazionale 32 31/07/2005 S Fascicolo numero 14 La genesi di questa task force è ricostruita in alcuni documenti custoditi negli Archivi nazionali di College Park nel Maryland, carte desecretate (registro 226, serie 92, busta 580, fascicolo 14), che svelano le pieghe più nascoste del secondo conflitto mondiale. Psichiatri che suggeriscono un’idea a un paio di ufficiali della Marina, esperti della materia chiamati a consulto, dubbi, approvazioni, riunioni top secret, ricerca di dati statistici e una fitta corrispondenza per mettere a punto il piano. La storia è tutta nei dossier del Coi, il Coordinator of Information che appena qualche mese dopo diventerà Oss, l’Office of Strategic Services del famoso generale William Donovan. È lui a rifondare l’intelligence Usa dopo Pearl Harbor. Spregiudicato e potentissimo, nelle sue mani finisce un potere illimitato, fuori da ogni controllo. Piazza i suoi fedelissimi dappertutto, li arruola nella buona società e a Wall Street e poi li spedisce in ogni continente. Tredicimila nuovi agenti che rendono conto solo a William Donovan detto “Wild Bill”, Bill il Selvaggio. Dopo l’offensiva giapponese del 7 dicembre 1941 Donovan è l’uomo della provvidenza. L’America trascinata in guerra si prepara a dispiegare tutta la forza militare ma intanto è impaurita dalle sue fragilità. La disfatta navale alle Hawaii fa tremare gli alti comandi di Washington, i “servizi” si sono rivelati Così l’America di Roosevelt creò una task force di 007 gay “L’uso di omosessuali in certe attività del governo è un modo nuovo di servire il nostro Paese” Franklin Delano Roosevelt inadeguati, incapaci di intercettare le mosse del nemico. È in quel momento che il presidente Franklin Delano Roosevelt caccia i vertici militari di pace. E pretende subito una nuova intelligence. In questa atmosfera cupa, una mattina, viene recapitata una busta al Dipartimento della Marina. Mittente è il ricercatore medico Alfred Gross, del Comitato per lo studio delle devianze sessuali di New York. Destinatario è Frank Mason, un maggiore che lavora per i servizi segreti. La lettera è datata 18 dicembre: «Mio caro maggiore, le scrivo su consiglio del maggiore Birdseye per riprendere la discussione che abbiamo già avuto sulla possibilità di utilizzare omosessuali maschi in relazione a possibili attività di controspionaggio. Durante le nostre ricerche negli ultimi cinque anni, ci siamo imbattuti ripetutamente in situazioni di omosessuali che avevano relazioni con reclute delle nostre forze navali e occasionalmente con qualche ufficiale». E aggiunge: «Per qualche ragione il personale della Marina sembra avere un interesse particolare per tali individui. Questo è un fenomeno abbastanza accettato, io direi forse tacitamente, da parte delle autorità pubbliche. Secondo me tale tesi ha una certa validità». “Livello sociale superiore” Il dottor Gross spiega al maggiore Mason che gli studi del suo Comitato rivelano «che gli omosessuali maschi appartengono a un livello sociale superiore» e che «è certo di una grossa percentuale di omosessuali tra i tedeschi». Cita poi un articolo della rivista Time sull’omosessualità nell’aviazione della Germania nazista, paventa il pericolo che «forze sovversive cerchino di sedurre membri delle nostra Marina», invita a giocare d’anticipo. E fa una proposta: «Reclutare omosessuali respinti dal servizio militare». Ha già in mente un’unità speciale Alfred Gross, insiste, prova a convincere il suo interlocutore: «Noi siamo a livello di una bozza di idea. Ma lei, con la sua grande esperienza di ufficiale di servizi segreti, è sicuramente in grado di redigere un piano preciso. Mi auguro che questa idea non sia troppo cervellotica o il risultato di troppe letture di romanzi gialli». Era da tempo che il dottore del Comitato per lo studio delle devianze sessuali pensava alla creazione di questo «corpo», ne aveva a lungo parlato con il suo direttore George Herny, insieme avevano anche già selezionato un imprecisa- to numero di potenziali agenti. Gross lo comunica al maggiore Mason: «Abbiamo contattato vari nostri pazienti, tutti affidabili, i quali, ne sono sicuro, sono disponibili a prendere parte al progetto. Tali elementi, a loro volta, potrebbero entrare in contatto, con altri omosessuali, affidabili e fedeli alla loro Patria». È la «rete» che si sta formando. La questione sta così a cuore allo psichiatra di New York che quella stessa sera, il 18 dicembre, spedisce un’altra lettera al maggiore Mason. E gli preannuncia: «Le sto anche inviando un dossier che ho avuto da mister Painter (un consulente del dottor Gross sulla prostituzione maschile, ndr), vi si indica l’esperienza di un volontario del nostro staff che potrebbe essere molto utile in varie situazioni... Painter ha in mente una persona che potrebbe portare avanti alcune indagini, c’è un tedesco che corteggia i marinai...». Il maggiore riceve le due comunicazioni del dottor Gross e — sempre il 18 dicembre del 1941 — una terza del professore Robert Dickinson, un autorevole rappresentante dell’Accademia di Medicina di New York. Una breve nota, scritta a mano: «Caro Mason mi sembra che le questioni che riguardano l’omosessualità nella Marina e nell’Esercito richiedano una consulenza specialistica... Di recente ne ho parlato con l’ammiraglio (segue un nome incomprensibile, ndr)... A Portland, l’ospedale navale ha iniziato a esaminare l’argomento attraverso il lavoro di un tenente medico...». La concorrenza dei sovietici Frank Mason informa i suoi superiori del progetto. E sei giorni dopo, il 24 dicembre, manda il dossier a Wallace Phillips, uno dei capi del Coordinator of Information Office, il servizio segreto. Accompagnato da una comunicazione DOMENICA 31 LUGLIO 2005 LA DOMENICA DI REPUBBLICA 33 I PERSONAGGI William Donovan (foto in alto a destra) era un avvocato newyorchese con il gusto per l’intrigo. Su incarico del presidente Roosevelt rifondò con criteri moderni il sistema di intelligence. L’Office of Strategic Services, l’Oss che affondò in poco tempo i suoi tentacoli in tutto il mondo, venne creato a sua immagine e somiglianza: spregiudicato e agile. Roosevelt però, quando Donovan “il selvaggio” diventò incontrollabile, finita l’emergenza guerra, lo mise da parte. Cicerin Georgij Vasil’evic (foto in basso a destra) fu un uomo di Stato della Russia zarista e poi del regime bolscevico. Fu Commissario del popolo fino al 1929 I DOCUMENTI DEL DICEMBRE 1941 Qui accanto, un manifesto bellico americano realizzato da James Montgomery Flagg. I documenti riprodotti nella pagina appartengono a un carteggio custodito negli Archivi nazionali di College Park, nel Maryland, sono stati da poco desecretati e rivelano il progetto che, partito nel dicembre del 1941, portò rapidamente alla costruzione di una rete di spie omosessuali al servizio dell’Oss statunitense La testimonianza di Malaparte ne “La pelle” “La battaglia per la libertà di quello strano maquis” CURZIO MALAPARTE Repubblica Nazionale 33 31/07/2005 secca: «Caro Wallace, il suggerimento dell’uso di omosessuali in certe attività del governo costituisce probabilmente un nuovo modo di servire il nostro Paese, un modo che non è sicuramente venuto a tua conoscenza fino ad ora. Ti chiedo un giudizio sulla lettera di Alfred Gross, che cerca di servire il suo paese tramite metodi in qualche modo non usuali. Buon Natale». Durante gli ultimi giorni del 1941 gli uomini dei servizi segreti americani si mettono al lavoro, esaminano le proposte formulate dagli specialisti di New York, prendono informazioni, chiedono consiglio a qualche ammiraglio, studiano tutto quello che si muove nello scacchiere spionistico internazionale esplorando per la prima volta anche un fronte omosessuale. È il 15 del nuovo anno, il 1942, quando un alto funzionario del Coordinator of Information Office affronta l’argomento ancora con Wallace Phillips. La lettera ha come oggetto «Uso degli omosessuali nel lavoro di intelligence», un dispaccio interno. La firma è quella di John C. Willey. È l’ultimo passaggio prima che qualcuno, a Washington, dia il via libera finale all’operazione. Scrive Willey: «Vengo a sapere che l’Istituto per lo studio delle devianze sessuali è simile al vecchio Institut fur Sexual Wissenchaft di Berlino, è un’istituzione molto seria. Io raccomanderei con forza uno studio accurato sulla possibilità di utilizzare i suggerimenti inviatici dal dottor Gross». Poi Willey lo informa di ciò che sta accadendo in Europa, soprattutto a Mosca. E gli ricorda come i «rossi» abbiano già studiato la questione: «Penso di averti già parlato dell’interesse manifestato dal Gpu (il servizio segreto dell’Urss prima del Kgb, ndr) a questo argomento. Nel periodo in cui Florinsky, il capo del protocollo del ministero degli Esteri sovietico, è stato silurato (1935), Q Boris Steiger, un alto dirigente del Gpu, mi ha raccontato che il reale motivo del suo allontanamento fu che secondo la «fratellanza omosessuale politica» in Europa, Florinsky non era affidabile». Willey cita poi anche un altro caso: «Non c’è dubbio che in Russia esisteva una relazione speciale tra Cicerin, il famoso commissario per gli Affari esteri dell’Urss e l’ugualmente famoso ambasciatore tedesco a Mosca, conte Brockdorff-Rantzau». L’alto funzionario del «servizio» americano racconta delle nuove frontiere dello spionaggio internazionale, è d’accordo con quei medici di New York, dà il suo ok al progetto. E conclude così la sua lettera: «In verità dovremmo prendere seriamente in considerazione l’idea di utilizzare gli omosessuali per obiettivi di intelligence politici e militari». Qualche mese dopo i primi agenti di quella task force saranno operativi. In ogni angolo d’Europa prigioniera del nazismo. uale fu la mia sorpresa quando, più tardi, Jeanlouis ebbe a rivelarmi che Georges era una specie di personaggio politico (anzi aggiunse Jeanlouis, un eroe), che nel corso della guerra aveva reso, e rendeva tuttora, preziosi servigi agli Alleati, che essendosi trovato a Londra nell’estate del 1940, s’era calato in paracadute sul territorio francese, che tre volte, dal 1940 in poi, era riuscito a recarsi in Inghilterra attraverso la Spagna e il Portogallo e tre volte era tornato in Francia in paracadute per compiervi missioni di delicata importanza, e che gli Alleati lo avevano in così grande considerazione da metterlo alla testa del maquis degli invertiti d’Europa. Gli invertiti sparsi per tutta l’Europa, e naturalmente anche in Germania e nell’Urss, si erano dimostrati elementi preziosissimi per il servizio informazioni inglese e americano, svolgendo, fin dall’inizio della guerra, un lavoro politico e militare particolarmente delicato e pericoloso. Gli invertiti... costituiscono una specie di confraternita internazionale, una società segreta governata dalle leggi di un’amicizia tenera e profonda, che non è alla mercé della proverbiale incostanza del sesso. L’amore degli invertiti è, grazie a Dio, al di sopra dell’uno e dell’altro sesso, e sarebbe un sentimento perfetto, del tutto libero da ogni specie di umana schiavitù, così dalle virtù come dai vizi propri dell’uomo, se non lo dominassero i capricci, gli isterismi, e certe meschine e tristi malvagità, naturali al loro animo di vecchie zitelle. Ma il famoso Generale americano Donovan, di cui Georges era divenuto il braccio destro per tutto quanto concerneva il maquis degli omosessuali, aveva saputo trarre vantaggio dalle stesse debolezze dell’inversione sessuale, sino a farne un meraviglioso strumento di lotta. Un giorno, forse, quando i segreti di questa guerra potranno essere rivelati ai profani, sarà dato conoscere quante vite umane sono state salvate grazie alle segrete carezze dei mignons sparsi in ogni paese d’Europa. Tutto è stato messo in opera in questa terribile e strana guerra, ai fini della vittoria, tutto, anche la pederastia: la quale merita, perciò, il rispetto di ogni sincero amante della libertà. Certi moralisti, forse, non saranno di questo parere ma non si può pretendere che tutti gli eroi siano di costumi illibati, e d’un sesso ben definito. Non esiste un sesso obbligato per gli eroi della libertà. L’idea del maquis degli invertiti era stata un’idea di Georges: e a lui spetta il merito di avere organizzato, in tutti i paesi occupati dai tedeschi, perfino in Germania, quel rèseau di giovani mignons che tanti e così preziosi servizi hanno reso alla causa della libertà europea. In quel novembre del 1943, Georges era venuto clandestinamente da Parigi a Napoli per concertare col Comando Supremo Alleato di Caserta il piano da svolgersi in Italia...». (da “La Pelle”, Arnoldo Mondadori Editore) 34 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 31 LUGLIO 2005 Sono passati quasi trent’anni dall’uscita di “Tutti gli uomini del presidente”, la pellicola sull’inchiesta giornalistica contro Richard Nixon che per la prima volta spezzò un tabù: attaccare il simbolo stesso della democrazia americana. Da allora i leader di Washington sono stati protagonisti dei copioni di Hollywood sempre più spesso. Fino a diventare, nei lavori di registi come Michael Moore, materia di documentario Film e Potere L’occhio indiscreto del cinema sui segreti della Casa Bianca I TITOLI MARIA PIA FUSCO ovremo tutti andare a lavorare per vivere», dice in Tutti gli uomini del presidente un redattore del Washington Post quando è sempre più evidente l’alto livello di potere che toccherà l’inchiesta sul Watergate dei colleghi Carl Bernstein (Dustin Hoffman) e Bob Woodward (Robert Redford). Una volta tanto però il potere ha la peggio e, se mai, è il presidente Nixon a doversi cercare un lavoro. Nella realtà come nel film. Che, con il suo successo, restituì la serenità al direttore del Washington Post Katharine Graham, terrorizzata dall’uso nel film del vero titolo del quotidiano (è vero anche il numero che Redford compone, 4561414: era il centralino della Casa Bianca) ma anche un’ondata di rispetto per i professionisti dell’informazione che, almeno sullo schermo, l’avevano perduto da tempo, per colpa di una serie di film e di documentari che denunciavano il silenzio e la viltà della categoria durante il maccartismo e di capolavori degli anni Cinquanta, come Un volto nella folla o L’asso nella manica che avevano lasciato l’idea del giornalista ambizioso, cinico, senza scrupoli. Resisteva in positivo solo la figura del romantico Gregory Peck di Vacanze romane che sacrifica lo scoop all’amore. Ma l’impatto più significativo di Tutti gli uomini del presidente fu sul cinema stesso, in cui cominciò a frantumarsi un tabù: il Potere si poteva toccare, senza troppe remore né cautele. Un potere, quello della Casa Bianca e dei suoi abitanti, che da sempre avevano sollecitato la curiosità del cinema. È del 1901 il primo documentario sulla residenza presidenziale e, nel 1933, il presidente fu impersonato da Walter Huston in Gabriel over the White House, un presidente che, dopo un incidente, da bonario e liberale diventa autoritario, decisionista, spietato con i cattivi. Era un film di Gregory La Cava, voluto da William Randolph Hearst (Citizen Kane) come stimolo per la politica di Roosevelt e che, guarda caso, è riemerso di recente in dvd per l’assonanza con l’America di Bush. Negli anni ’40 e ’50, il potere ha i volti rassicuranti e onesti di attori come James Stewart, Mr. Smith va a Washing- «D GABRIEL OVER THE WHITE HOUSE Repubblica Nazionale 34 31/07/2005 Nel 1933, regista Gregory La Cava, il primo film su un presidente. Che usa il potere per cambiare il mondo TUTTI GLI UOMINI DEL PRESIDENTE Nel ‘76 il primo film-inchiesta sulla Casa Bianca. Racconta il Watergate, lo scandalo che fece dimettere Nixon JFK Nel 1991 Oliver Stone indaga sull’omicidio Kennedy, con un film sulle incoerenze della ricostruzione ufficiale GLI INTRIGHI DEL POTERE Nel’95 Oliver Stone riporta al cinema il Watergate, cercando di interpretare il punto di vista del presidente Nixon In precedenza i presidenti Usa erano stati rappresentati come eroi, o impersonati da attori dal volto onesto e rassicurante. Al limite si poteva arrivare alla commedia dai toni blandamente dissacratori ton di Frank Capra, un candidato che con la sua fede incrollabile nella democrazia americana, è il simbolo della filosofia del New Deal o come Spencer Tracy in Lo Stato dell’Unione (ancora di Capra) che quando si accorge di essere strumentalizzato da industriali corrotti rinuncia alla presidenza. Poi è la commedia blandamente dissacratoria ad entrare nella Casa Bianca, con il film Kisses for my president che porta la prima donna al comando nella stanza ovale (in crisi per alcuni guai del marito) – la stessa storia di First man, annunciato per il 2006 con Meryl Streep e Robert De Niro – e The president’s analyst con James Coburn, psicanalista del presidente che si sente in pericolo per i torbidi segreti che viene a sapere e per questo finisce nel mondo hippy. Nello spirito degli anni Sessanta il thriller fantapolitico Sette giorni a maggio di Frankenheimer: il presidente, Fredric March, firma un accordo di disarmo con l’Urss contro il parere del generale Burt Lancaster che trama un colpo di stato, sventato dal fedele colonnello Kirk Douglas: le colombe vincono sui falchi. Ma sulla guerra tra falchi e le colombe il capolavoro resta Il dottor Stranamore di Kubrick. Dopo lo scossone di Tutti gli uomini del presidente, ci volle tempo prima che il cinema tornasse alla Casa Bianca, era più forte il tema del Vietnam e delle sue conseguenze, c’era l’America mortificata da raccontare. Furono i documentari a cercare di recuperare prestigio per la presidenza con una serie di biografie agiografiche dei presidenti del passato e con curiosità interne, come Backstairs at the White House che affidava il racconto dei personaggi del potere ad anziani assistenti, portieri, domestici e lavoratori dei “piani bassi” che vivevano all’interno da decenni. Solo alla fine degli anni Ottanta gli sceneggiatori riportano Casa Bianca e presidenti sullo schermo, con ricostruzioni di vicende vere o con storie spesso feroci che, pur stemperate nella finzione, usano comunque spunti di realtà riconoscibile. Per l’influenza sulla realtà, un film in parte vicino a Tutti gli uomini del presidente è JFK – Un caso ancora aperto che, mettendo insieme inchieste ufficiali e giornalistiche, riuscì a raggiungere almeno parzialmente l’obiettivo di far riaprire l’indagine. L’autore è il passionale Oliver Stone DOMENICA 31 LUGLIO 2005 LA DOMENICA DI REPUBBLICA 35 IERI E OGGI FOTO AP Accanto: Robert Redford oggi, al Sundance Film Festival. A sinistra, con Dustin Hoffman nel film “Tutti gli uomini del presidente”, del 1976 Redford. Vi svelo i retroscena del mioWatergate RENZO FEGATELLI T KARLOVY VARY utto cominciò in treno. Dopo aver origliato — male — una conversazione fra i compagni di viaggio. Racconta Robert Redford: «C’erano giornalisti che parlavano di uno scandalo che rischiava di essere insabbiato. Chiesi di cosa si trattava, perché non avevo seguito il discorso. Mi era sembrato che parlassero di ladri legati con Cuba. “Assolutamente no”, mi risposero». Era il Watergate, era l’inizio dell’estate del ‘72. Bob Woodward e Carl Bernstein non avevano ancora messo le mani sull’inchiesta giornalistica del secolo. Tutti gli uomini del presidente era ancora lontanissimo. Ma tutto cominciò quel giorno, in treno. Cosa disse a quei giornalisti? «Chiesi: voi credete che ci sia molto di più su questa storia e non avete intenzione di occuparvene? E loro mi diedero una risposta che mi lasciò di sasso». Che risposta? «Dissero che io non avevo idea di come andassero queste cose a Washington. Che Nixon avrebbe vinto nuovamente le elezioni, che George McGovern avrebbe perso alla grande, e che nessuno avrebbe voluto trovarsi dalla parte sbagliata al momento della rielezione perché Nixon era circondato da gente dalla mentalità criminale. E quando, per provocarli, chiesi se avevano paura, loro replicarono: “Non è solo questo. Il fatto è che tutto ciò non interessa a nessuno”». E allora decise di farci un film. «No, non ancora. Devo dire che però quella conversazione mi lasciò depresso». Come andarono allora le cose? «Quell’estate mi misi a seguire il caso sui giornali. A fine luglio e in agosto cominciarono a uscire articoli con due firme: Carl Bernstein e Bob Woodward. Non ricordavo i nomi, ma ricordavo che erano due e che le storie diventano sempre più grandi. Poi iniziarono a spuntare i primi nomi. La vicenda si allargò. E crebbe anche la mia curiosità». Era attratto dallo scandalo politico o dal lavoro dei due cronisti? «Difficile dirlo. So per certo che a un certo punto mi concentrai su quei due. Lessi che uno era ebreo, l’altro Wasp. Uno era liberal-radical e l’altro repubblicano. E soprattutto che i due non si piacevano, ma dovevano lavorare insieme. Pensai che ne avrei potuto trarre un piccolo film carino, uno studio di caratteri». All’epoca li conosceva di persona? «No. Ma ricordo che a un certo punto cercai Carl Bernstein al telefono. Quando lo trovai, giorni dopo, mi sembrò molto freddo. Gli dissi che volevo parlargli, e lui rispose che era molto occupato: “Non è un buon momento”». Rimase male per quell’atteggiamento? «Sì, ma poi capii che erano molto spaventati e che sapevano di essere controllati. E soprattutto non avevano fiduciainme.Anzi,comescopriidopo, non sapevano che fossi davvero io. Rinunciai al progetto del film». E quando riprese interesse per il Watergate? «A febbraio dell’anno successivo, quando all’improvviso venne fuori la lettera-confessione di uno dei protagonisti del caso. Allora richiamai Carl. Stavolta lui fu più cordiale: «Vediamoci a Washington in un luogo privato», disse. Proprio così, proprio come aveva fatto chissà quante volte con Gola Profonda. Volai nella capitale, dove lo incontrai in gran segreto». Cosa le disse Bernstein? «Testualmente: “Al telefono non credevo che fosse lei sul serio”. Io rilanciai l’idea del film. E lui: “Siamo ancora impegnati nell’inchiesta. Diventa sempre più grande e non sappiamo dove ci porterà ma dobbiamo continuare”. Però non mi chiusero la porta in faccia: “Vogliamo scrivere un libro e ne avremo per sei mesi, quindi dovrà aspettare. Ma stia tranquillo: le daremo i diritti per il film”». Un altro stop, dunque. «Sì, passarono altri nove mesi. Nel frattempo però il Watergate continuò a far parlare il mondo intero, anzi esplose nella forma di uno scandalo gigantesco. Stava diventando un caso storico. Mi rimisi in contatto Carl e Bob. Quando ci rivedemmo, a Washington, loro mi diedero i loro appunti e le loro interviste». Non le venne la curiosità di chiedere chi fosse Gola profonda? «Ovviamente sì. Ma Woodward mi spiegò che non poteva dirmelo. E in fondo pensai che probabilmente era meglio così. D’altronde il mio obiettivo non era fare un film su Nixon o il Watergate ma sull’importanza delle inchieste dei giornalisti. E in effetti così è stato». Adesso si sa che Gola profonda era l’allora numero due dell’Fbi Mark Felt. Che effetto le ha fatto la sua confessione? «Mah, mi ha tolto una curiosità. Ma nulla di più. Siamo sicuri che il punto sia sapere chi ha fatto scoppiare quello scandalo? Non è forse più importante avere a mente la vicenda in sé? Anche perché non è tutta acqua passata. Oggi viviamo — per molti versi — in tempi simili a quelli: non a caso si parla ancora di intercettazioni telefoniche illegali, di controlli, di politici che dicono il falso». Si riferisce alla guerra in Iraq? «Sì, penso che siamo stati portati in guerra sulla base di false informazioni. Credo però che la maggior parte di noi americani sia cosciente delle menzogne che ci vengono raccontate. E in fondo questa è una buona notizia perché vuol dire che il nostro paese può continuare, nonostante gli errori, ad essere di grande esempio per il mondo». Torniamo a Tutti gli uomini del presidente. Alla fine è rimasto soddisfatto del film? «Devo dire di sì. Sono molto orgoglioso di quel film perché abbiamo speso tanto tempo nei dettagli e il risultato è stato molto buono: abbiamo fatto un bell’affresco della lotta per il potere negli Stati Uniti». Crede anche che quel film abbia cambiato le cose? «Mah, i film giocano un ruolo nell’opinione pubblica ma non cambiano la realtà. Devo dire però che dopo l’uscita della pellicola un sacco di giovani americani decisero di studiare giornalismo sognando di diventare come Woodward e Bernstein. Certo, oggi il mondo del cinema e dell’informazione sono molto diversi dagli anni ‘70». Vuole dire che non è più possibile girare film-verità? «Non saprei. So solo che si decide di fare un film sulla base di ricerche di marketing. E il mercato che interessa è quello dei giovani. Non è un caso se gli effetti speciali sono diventati così importanti. Si vedono film sempre più simili ai cartoni animati. Ecco perché mi sono impegnato nel Sundance Film Festival: volevo tener vivo il cinema indipendente, che era a rischio estinzione». Non sarà anche che lei vuole diventare un punto di riferimento dell’opinione pubblica progressista? «Ma no. Guardi, le dico una cosa: non credo nelle esternazioni. Preferisco lavorare dietro le quinte. E raccontare storie, che poi è il modo migliore per raccontare la realtà». Incontrai di nascosto Repubblica Nazionale 35 31/07/2005 che quattro anni dopo, nel 1995, con la stessa tecnica di mischiare finzione, repertorio e documentario, gira Nixon – Gli intrighi del potere, un ritratto del presidente forse più odiato e discusso della storia contemporanea, segnato da un complesso di inferiorità nei confronti dei Kennedy e dalla consapevolezza di non essere amato. Memorabile la battuta che Nixon rivolge a Kennedy: «Guardano te e si vedono come vorrebbero essere, guardano me e si vedono come sono». Malgrado l’impopolarità, o proprio per questa, Nixon continua nel tempo ad ispirare il cinema. È del 1999 Le ragazze della Casa Bianca, con Kirsten Dunst e Teri Garr, una parodia sfacciata del Watergate, in cui le Gole profonde sarebbero due, le due ragazze assunte da Nixon come accompagnatrici dei suoi cani che, scoperti i pessimi comportamenti privati del presidente, ne parlano in giro, anche con quelli del Washington Post. Più interessante The Assassination dell’anno scorso, la storia vera di un venditore di mobili di Baltimora interpretato da Sean Penn, deciso a realizzare il suo sogno americano eliminando Nixon, e che nel 1974 prepara un folle piano per ucciderlo, sventato solo per caso. Gli anni Novanta abbondano di cinema sul potere. C’è di tutto. Satire impietose e scatenate alla Tim Burton di Mars Attacks!, con gli alieni cattivissimi, eppure più simpatici dei terrestri, che invadono il Congresso e arrivano ad uccidere il Presidente, un esilarante Jack Nicholson dubbioso sui valori della civiltà terrestre, che non prova neanche a reagire. Ci sono perfide commedie come Dave: presidente per un giorno con Kevin Kline che, per la forte somiglianza con il capo della Casa Bianca è assunto come sua controfigura e quando il vero presidente è colto da un ictus durante un amplesso con l’amante, è costretto a partecipare ad incontri ufficiali che non sa come gestire. Ci sono storie eroiche come Air Force One con Harrison Ford che da solo sconfigge un gruppo di terroristi appropriatisi dell’aereo presidenziale o edificanti come Il presidente – Una storia d’amore di Rob Reiner, protagonista Michael Douglas, vedovo con una figlia adolescente, che riafferma la sua dignità e i suoi doveri di primo cittadino d’America ma, inna- morato di una sua assistente, proclama anche il diritto alla felicità personale, un film che molti considerarono uno spot elettorale per Clinton. I riferimenti a Clinton e al “Sexgate” sono chiari nella commedia I colori della vittoria di Mike Nichols con John Travolta (che imita persino il modo di parlare di Clinton), candidato democratico, amatissimo da tutti finché non emergono le sue avventure extraconiugali e la sua vita diventa un inferno, con la moglie sorridente in pubblico ma furiosa in casa. La morale è che se un uomo è un grande politico, “chi se ne frega” della sua inaffidabilità nel privato. Tutt’altro che benevolo il tono di Potere assoluto di e con Clint Eastwood nel ruolo di un onesto scassinatore che durante un colpo assiste non visto all’omicidio di una donna da parte del presidente Usa e che fino alla fine lotta per liberarsi degli intrighi della polizia e dei servizi segreti che accusano lui dell’omicidio. Il film fu preceduto e accompagnato da una serie di dichiarazioni che garantivano la finzione della storia e «nessun riferimento a fatti o personaggi reali». Dalla parte di Clinton sono usciti parecchi documentari sulle sue campagne – il più bello è War Room, che segue gli entusiasmi e le stanchezze della campagna elettorale del 1993, ed è dell’anno scorso The Hunting of the President, una documentazione accurata degli intrighi e dei complotti che per dieci anni tentarono di oscurare la suo figura. Ma il più feroce dei film recenti è senz’altro Sesso e potere di Barry Levinson, uscito fra l’altro nei mesi caldi del “Sexgate” di Clinton: Robert De Niro e Dustin Hoffman preparano un finto documento sull’Albania aggredita pur di dichiarare una guerra e distogliere l’attenzione da piccoli scandali sessuali del presidente. Subito dopo arriva l’era di Bush jr, il quale, da Fahrenheit 9/11 di Michael Moore in poi è protagonista di una lunga serie di documentari che affermano le verità sulle ragioni e le bugie della guerra in Iraq in contrapposizione alle mistificazioni dei media ufficiali. Per ora il cinema di finzione, frenato dalla cautela e dalla realtà del terrorismo, lo ha risparmiato. Ma non è difficile prevedere che nel tempo Bush jr diventerà protagonista dello schermo almeno quanto Nixon. I TITOLI POTERE ASSOLUTO Il presidente di cui parla Clint Eastwood nel’96, è un uomo manesco e volgare, coinvolto nell’omicidio dell’amante SESSO E POTERE Nel’98, in pieno Sexgate, la storia di un presidente che distrae l’opinione pubblica fingendo una guerra THE HUNTING OF THE PRESIDENT Nel 2004 il documentario che cerca di gettare nuova luce sul caso Sexgate e su chi (forse) lo ha montato ad arte FAHRENHEIT 9/11 Bush, l’11 settembre, il petrolio, l’Iraq. Michael Moore racconta quella che, secondo lui, è una grande cospirazione “Woodward e Bernstein a Washington: proprio come loro facevano con Gola profonda” DOMENICA 31 LUGLIO 2005 LA DOMENICA DI REPUBBLICA 37 spettacoli Quattrocento pagine, 187 testimoni, quattro anni di lavoro: esce negli Stati Uniti “Room full of mirrors” di Charles Cross, una biografia del musicista di Seattle ucciso da un’overdose 35 anni fa. E ne svela molti aspetti sconosciuti: il legame morboso con la madre morta, il congedo dal militare per tendenze omosessuali Miti del rock La leggenda di Jimi Hendrix A NEW YORK Seattle i ragazzi cercano ancora le vestigia del grunge. Vanno in visita, mestamente, alla villa con vista su Lake Washington, dove Kurt Cobain dei Nirvana si tolse la vita, nel 1994. Poi raggiungono a piedi il cimitero dove Bruce e Brandon Lee, padre e figlio, riposano fianco a fianco. I più esperti sanno anche dove si trova il club dove John Coltrane registò il suo mitico Live in Seattle, che ora è diventato un fast food indiano. Ma il momento clou del pellegrinaggio nella città in cui sia Ray Charles che Quincy Jones negli anni Quaranta mossero i primi passi nel mondo della musica è a meno di un’ora di macchina dal centro, direzione Renton. Tappa obbligata: Greenwood Memorial Park, il cimitero dove 35 anni fa fu sepolto Jimi Hendrix, una leggenda della chitarra rock, morto per overdose a Londra il 18 settembre del 1970. A 27 anni. Da quella lapide piatta, invisibile nel prato sconfinato che circonda il crematorio, il giovane Charles R. Cross ha iniziato le sue indagini per compilare Room full of mirrors (Ed. Hyperion Bookk, 388 pagg, $ 24,96), la più intrigante delle biografie su Jimi Hendrix, arrivata lunedì scorso nelle librerie di New York e in uscita in tutti gli States il 3 agosto. Era il volume definitivo su “Buster”, così in famiglia chiamavano l’artista, che tutti aspettavano. Perché Cross, scrupoloso e appassionato autore del Northwest, è reduce da un successo editoriale di dimensioni clamorose con Heavier than heaven: A Biography of Kurt Cobain, bestseller del New York Times. Prima di iniziare un lavoro durato quattro anni e di incidere la prima delle 187 interviste che gli sono servite a ricomporre la storia di un personaggio che già il mito cominciava a ossidare, Cross si è chiesto come mai nessuno si fosse mai preoccupato di ritrovare, in quello stesso cimite- ro, la lapide della mamma di Jimi, Lucille, morta quando lui era ancora ragazzino. A lei dedicò uno dei suoi capolavori, Castles made of sand, come ha rivelato Leon, uno dei cinque fratelli (quattro furono dati in affidamento in tenera età). Neanche Al Hendrix, il padre di Jimi, che era ancora vivo quando Cross ha iniziato il suo lavoro, seppe dar conto di quella negligenza familiare. Ma lo scrittore ha perseverato e, consultando le varie piante del cimitero, ha riportato alla luce la tomba di Lucille, interrata di mezzo metro. Gli è sembrato un omaggio doveroso all’artista che stava richiamando in qualche modo in vita. Nel momento stesso in cui ridava dignità all’adorata madre, incominciava a correggere le molte inesattezze scritte dai precedenti biografi, soprattutto da papà Al nell’opportunistico volume My son Jimi. In una visita alla cantina in cui gli Hendrix conservano i cimeli appartenuti al chitarrista, Cross ha anche scoperto con commozione un reperto che era stato sempre trascurato: uno specchio andato in pezzi i cui frammenti erano stati ricomposti su una superficie di cemento. Un’opera creata da Jimi, con la scritta: «Questa è la mia stanza piena di specchi» (da qui il titolo dell’opera). L’artista aveva sempre detto di aver lasciato la decima divisione aviotrasportata a 19 anni, nel 1962, dopo essere rimasto ferito in seguito a un lancio col paracadu- te. Ma l’autore, che ha avuto accesso agli archivi militari, afferma che Hendrix fu in realtà congedato «perché aveva tendenze omosessuali»: pur di mollare l’esercito in fretta e di tornare alla sua chitarra, fece credere allo psichiatra di Fort Campbell, nel Kentucky, di essersi innamorato di un commilitone. Sebbene la sessualità del chitarrista, che nel 1969 mandò in delirio il popolo di Woodstock incendiando in una folle celebrazione notturna la sua chitarra, non sia il fulcro centrale di Rooms full of mirrors, Cross indugia molto sulla magnetica sensualità con cui Jimi conquistava uomini e donne. Aveva ereditato da Al un ottavo di sangue Cherokee, aveva un ascendente bianco e, da parte di madre, portava i segni di un’avvenenza che venti anni prima aveva fatto di Lucille la più attraente ragazza nera di Seattle. La sua passione per le donne era leggendaria, fin da adolescente. Alla sua prima fidanzatina confessò di essere stato molestato «da un uomo in divisa». Su quell’episodio, raccontato anche ad altre donne, Jimi non forniva mai spiegazioni, ma alla luce dell’infanzia disastrata «e vissuta tra i più poveri dei poveri» raccontata da Cross, non meraviglia che quel ragazzo di strada, abbandonato dalla madre, trascurato dal padre, sballottato tra una nonna e uno zio, tra un amico di famiglia e le cure dei genitori dei compagni di scuola, FOTO LAPRESSE/ZUMAPRESS GIUSEPPE VIDETTI L’ICONA INDIMENTICATA Jimi Hendrix in una foto del 1969: il chitarrista mito del rock morì per overdose a Londra il 18 settembre 1970 possa aver fatto incontri spiacevoli. Fu proprio la carenza di affetto accumulata in quei primi anni a Seattle, «quando metteva dei pezzi di cartone dentro le scarpe bucate che non aveva i soldi per risuolare», che segnò le future scelte del chitarrista. E la sua sessualità borderline: «Jimi cercava sempre di coinvolgere un altro ragazzo nei nostri giochi amorosi», racconta una delle sue girlfriend inglesi. Fu a Londra, in effetti, che Hendrix cominciò la sua scalata al successo, già riconosciuto chitarrista insuperabile da Paul McCartney, «che una volta gli passò lo spinello», e Clapton, che allora aveva appena abbandonato i Cream. Eric fu uno dei primi «maschi» dello show business a riconoscere pubblicamente che «Jimi emanava una considerevole carica sessuale». Una zia di Seattle, ancora in vita, ricorda che Buster, devastato dalla morte di Lucille, era diventato taciturno e solitario. «Un giorno, guardando il cielo, disse con una convinzione che mi mise i brividi: “Me ne andrò di qui, diventerò famoso. Tutti parleranno di me. Poi raggiungerò mamma tra gli angeli”. Non sapevo che rispondere. Dissi: “Tutti noi un giorno andremo da lei”». Più dei baccanali con le groupie che si tenevano alla fine dei concerti, più del devastante rapporto con l’eroina e la sua devozione alla chitarra (Jimi era mancino «anche se Al lo picchiava quando lo trovava a suonare con la sinistra»), Rooms full of mirrors conquista per la straordinaria narrazione con cui Cross riesce a far rivivere l’inferno dell’infanzia e dell’adolescenza di Hendrix. Che, artisticamente, sfociò in quella geniale idea di «Chiesa elettrica» che sfortunatamente non ebbe il tempo di mettere in pratica. Voleva creare al di là degli stereotipi, senza le pressioni dell’industria, sperimentando con Miles Davis. A 27 anni sarebbe stato capace di rinnegare i capolavori in nome dell’arte: All along the watchtower, Hey Joe, The wind cries mary, Voodoo chile. Oggi il rock non può farne a meno. Repubblica Nazionale 37 31/07/2005 Massimo Ranieri Tour 2005 GIUGNO 2-3 Napoli- Teatro S. Carlo 6 Milano – Teatro Strehler 11 Gallipoli (Le) – Premio Barocco 25 Macerata – Musicultura 29-30 Napoli – Arena Flegrea LUGLIO 9 Salerno – Arena del Mare 10 Cagliari - Teatro Romano Tributo a De Andrè 12 Pergine (Tn) – P.zza S. Maria 14 Varallo (Vc) – P.zza V. Emanuele 15 Sanremo (Im) – Arena C. Dapporto 16 Monforte d’Alba (Cn) Auditorium 23 Santa Marinella (Roma) Castello di Santa Severa 29 Cartagine (Tunisia) Teatro Romano AGOSTO 1 Portici (Na) - La Reggia 2 Vasto (Ch) – Villa d'Avalos 4 Terracina (Lt) - Arena Il Molo 7 Marina di Pietrasanta (Lu) La Versiliana 11 Anzio (Roma) – Villa Adele 12 Fiuggi (Fr) – Teatro Tenda 13 Agropoli (Sa) – Teatro del Porto 16 Padula (Sa) – Cortile della Certosa 18 San Lucido (Cs) – Campo Sportivo 19 Altomonte (Cs) – Anfiteatro 20 Spoleto (Pg) - Piazza del Duomo 21 Macerata - Arena Sferisterio 23 Ischia (Na) – Negombo 24 Procida (Na) – Campo Sportivo 26 Agrigento - Valle dei Templi 27 Misterbianco (Ct) Teatro Arena Pertini 28 Palermo - Teatro di Verdura 30 Vittoria (Rg) - Fiera Emaia SETTEMBRE 16 Caserta - Palazzo Reale 23-30 Napoli - Teatro Augusteo OTTOBRE 1-2 Napoli - Teatro Augusteo 7 - 15 Tour Stati Uniti e Canada ww w.massimoranieri.it …e da novembre nei teatri delle più grandi città italiane www.massimogallotta.com 38 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 31 LUGLIO 2005 i sapori Spuntini tutto gusto Nate come “cibo povero”, le bruschette sale-aglio-olio della civiltà contadina si sono evolute e raffinate grazie all’aggiunta di mille ingredienti classici e non. E ora, nei più caldi mesi estivi, danno il meglio di sé accompagnate da salse fresche, pomodori maturi, pesce, salumi e ortaggi di stagione. Provare per credere Crostini Nozze perfette tra pane e fantasia LICIA GRANELLO Napoletani Summa gloriosa delle materie prime campane. Il pane imburrato accoglie mozzarella, acciuga e pomodori secchi a tocchetti Dopo l’aggiunta di sale, pepe, olio si passa in forno per pochi minuti Piccanti Versione leggera della besciamella (con brodo di carne) arricchita da capperi, prezzemolo e alici Dopo una vigorosa impepata, si spalma la salsa sul pane abbrustolito o fritto in extravergine Repubblica Nazionale 38 31/07/2005 Stracchino & salsiccia Si lavora la salsiccia priva del budello insieme allo stracchino con la forchetta. Il composto va spalmato su pane di campagna leggermente tostato. Dieci minuti in forno caldo per fondere il tutto Isolani Arrostire le melanzane al forno e scavare per ricavarne la polpa, che viene mescolata con uova sode e una cipollina tritate Amalgamata con maionese, si spalma la crema sul pane tostato Gamberi e bacon Si passano in forno molto caldo le code dei gamberi avvolte in fettine di pancetta affumicata Crogiolato il grasso, si appoggiano sui crostini di pancarré spalmati di burro con erbe tritate e sale n principio fu la bruschetta: meravigliosa trasformazione dell’avanzo per eccellenza, il pane raffermo, in cibo povero ma bello. Facile e rapido: basta prendere una fetta, resa croccante dal passare dei giorni, strofinarla con uno spicchio d’aglio, e battezzarla con extravergine saporito (la più misera delle famiglie contadine non avrebbe mai utilizzato l’olio di semi!). Da lì in poi, l’unico limite è stata la fantasia: così, dagli ingredienti più semplici — pomodoro maturo “stropicciato” sul pane, olio e sale grosso, tipico della campagna toscana — a quelli più complessi (insalata di granchio, baccalà matecato, funghi trifolati), su su fino a quelli scopertamente preziosi (salmone affumicato, foie gras, caviale), negli anni il crostino ha acquisito tale dignità e nobiltà, da essere presente senza alcun pudore gastronomico su tutte le tavole e nelle occasione più diverse. Addirittura, in Spagna, le tapas sono considerate un a cibo a tutto pasto, e i bar a tapas sono diffusi quanto e più dei locali di ristorazione classica: rappresentano una categoria a sé stante, che si è ricavata uno spazio autonomo, attingendo alla “facilità” di pub e pizzerie, all’atmosfera morbida e allegra dei bistrò, all’attenzione culinaria dei ristoranti. A frequentarli, in maniera assolutamente trasversale, sia i ragazzi — che con pochi euro possono godersi un ventaglio di piccole prelibatezze — sia chi, senza voglia o tempo di concedersi un pasto in piena regola, non vuole rinunciare alla piacevolezza degli assaggi più sfiziosi. In Italia, le taperie sono un ingresso recente, approdate insieme alla curiosità per la cucina spagnola, rappresentate in primis dallo storico pan con jamon y tomate, il padre di tutti i crostini spagnoli: “filoncini” di pane aperti in due, strofinati con pomodoro, conditi da qualche goccia d’olio e rifiniti con fette di prosciutto crudo iberico (più asciutto e stagionato del nostro). A seguire, gli altri classici, dai sapori abbastanza robusti, che ruotano soprattutto intorno a salumi, uova, pesce. Questione di flessibilità culinaria. Se d’inverno il crostino caldo è un gran bel modo di cominciare una cena conviviale, dalla bagna cauda piemontese ai ragout di frattaglie — in estate il pane più o meno tostato e farcito diventa il vero eroe delle nostre cene, il cibo salva-pasti, terminale sicuro anche nei momenti di maggior sconforto gastronomico. Perché siamo in vacanza e non abbiamo nessuna voglia di ripetere i rituali obbligati, felicemente abbandonati in città insieme alla borsa dell’ufficio. O perché in città ci siamo ancora, le temperature sono da deserto somalo, siamo avviliti per aver lasciato il referigerio dell’auto climatizzata o devastati dal caldo sudato dei mezzi pubblici, e la sola idea di metterci ai fornelli ci fa ribrezzo. Re Crostino non tradisce mai. Si apre il frigo, il barattolo della maionese e il vasetto di acciughe occhieggiano dal ripiano più alto, i pomodori non mancano, c’è anche la vaschetta dell’insalata già lavata. La mozzarella, meglio farla riprendere dal freddo (che odia) lasciandola intiepidire nel suo liquido di governo, riscaldato per pochi attimi. Se il buonumore lo consente (accostarsi al fornello in questi giorni è un esercizio di stoicismo), si possono far rassodare delle uova, vero passpartout del crostino, sia tagliate a rondelle, che tritate o montate — solo il rosso — con un filo d’olio per una maionese “cotta” al riparo di qualsiasi germe. La loro cottura — tempi e modi — divide l’umanità cuciniera in scuole di pensiero antitetiche e pervicaci, tra chi le fa bollire a oltranza, chi le vuole con il rosso colante, chi le mette in acqua bollente direttamente dal frigo (la crepatura del guscio è garantita). Se le mettete a cuocere in acqua a freddo, spegnendo il fuoco a bollore raggiunto e lasciandole riposare venti minuti nel pentolino prima di sgusciarle sotto l’acqua fredda, saranno perfette nel piatto e per il vostro fegato. Gualtiero Marchesi docet. I DOMENICA 31 LUGLIO 2005 LA DOMENICA DI REPUBBLICA 39 itinerari Cogne (Ao) Brisighella (Ra) Ischia (Na) È un ex centro minerario riconvertito al turismo Dominato dal castello di Aymavilles, gode delle meraviglie ambientali del parco del Gran Paradiso Tra le produzioni golose, formaggi (Fontina d’alpeggio) salumi (lardo d’Arnad) e i distillati d’erbe Borgo medievale tra i più belli d’Italia, è luogo amatissimo dai turisti e superpremiato: bollino arancione (certificazione di qualità) del Touring Club, città Slow – elogio della lentezza a tavola e fuori – di Slow Food, vanta anche un olio extavergine dop Colonia greca ben conosciuta per le sue acque termali, deve il suo nome al tardo latino “iscla”, isoletta. La tradizione culinaria locale è equamente divisa tra terra e mare, dal coniglio all’ischitana cotto nella creta agli spaghetti con la ricciola DOVE DORMIRE DOVE DORMIRE DOVE DORMIRE LA BARME Località Valnontey Tel. 0165-749177 Camera doppia da 100 euro colazione inclusa AL MULINO DI SANT’EUFEMIA B&B Via Rio Cò 24 San Cassiano di Brisighella Tel. 0546-86106 Camera doppia a 55 euro, colazione inclusa AGRITURISMO IL VITIGNO (CON CUCINA) Via Bocca, 31 Forio d’Ischia Tel. 081-998307 DOVE MANGIARE DOVE MANGIARE BRASSERIE DU BON BEC (HOTEL BELLEVUE) Rue Grand Paradis 22 Tel. 0165-74825 Senza chiusura Menù a partire da 25 euro DOVE MANGIARE DOVE COMPRARE DOVE COMPRARE MACELLERIA MARCO Via dottor Grappein 38 Tel. 0165-74632 TERRA DI BRISIGHELLA Via Strada 2 Tel. 0546- 81103 IL SATURNINO Forio d’Ischia Via Marina Tel. 081-998296 Senza chiusura estiva, menù da 30 euro TRATTORIA DI STRADA CASALE Via Strada Casale 22 Tel. 0546-88054 Chiuso mercoledì, menù da 30 euro DOVE COMPRARE I PINTXOS BASCHI In Spagna i crostini sono piccoli capolavori di gastronomia: succulenti, creativi, trasversali per gusto, età e portafoglio Se le tapas comprendono molte varietà di antipasti da consumare con e senza pane, i pintxos baschi sono vere microporzioni di pietanze servite su una fetta di pane (baguette) e infilzate con uno stuzzicadenti colorato. Si va dal baccalà all’insalata di granchio, dalla tortilla di patate al polpo in umido. Il rituale dell’aperitivo prevede che si consumino stando sugli sgabelli, scegliendo dai piatti di portata appoggiati sul banco del bar o aspettando il passaggio del cameriere con i vassoi, accompagnati da bicchieri di sidro o di vino. Alla fine si contano gli stuzzicadenti usati PANIFICIO DI COSTANZO Via Ritola 4 Barano d’Ischia Tel. 081-905520 Crostini toscani Parmigiano con tartufo Rosolato in olio e burro il pane, si spalma con il composto ottenuto spadellando in extravergine aglio, acciuga e parte esterna del tartufo Poi frullare con parmigiano, brodo, scorza di limone. Guarnire Marinari Il pane è tagliato a fette alte e poi privato di parte della mollica che, con vino bianco, vongole, cozze scaltrite con olio (il sugo si filtra), e prezzemolo, diventa il ripieno. Forno a 200 gradi per 20’ Repubblica Nazionale 39 31/07/2005 Bruschetta Si prepara con pane casereccio asciugato in forno, aromatizzato con uno spicchio d’aglio, condito con extravergine intenso, un pizzico di origano e sale. Ci si può strofinare sopra un pomodoro Friselle e pomodori Le friselle di pane biscottato da immergere in acqua per renderle più morbide, possono essere condite con pomodori tagliati a cubetti e mischiati con sale grosso, origano, olio e olive Rustici Il pane ideale, quello di segale tostato, viene spalmato con pochissimo miele di montagna Sopra, nocciole tostate sbriciolate e lardo tritato. In Val d’Aosta si serve con un bicchiere di vin brulé Valeria Piccini è una delle più sensibili e talentuose interpreti della tradizione culinaria italiana. Gestisce con il marito Maurizio, appassionato di vini, e il figlio Andrea, chef, il ristorante “Da Caino” a Montemerano, nel cuore della Maremma 6 fegatini di pollo, 2 acciughe sotto sale, 50 gr capperi sotto aceto, 200 gr milza bovina, 100 gr aceto bianco, 50 gr vin santo, 300 gr brodo di carne, mezza cipolla, un quarto di mela verde, 10 gr concentrato pomodoro, 2 foglie di salvia, 60 gr extravergine *Far imbiondire nell’olio la cipolla affettata, unire i fegatini e la milza sminuzzata *Cuocere per 10’e bagnare con il vin santo *Macinare acciughe diliscate, capperi, mela e salvia *Bollire per mezz’ora con aceto, brodo e concentrato di pomodoro *Aggiustare di sale e spalmare su crostini di pane abbrustolito Pane e cioccolato Il catalano Carles Abellan, per molti anni braccio destro di Ferran Adrià, è lo chef-patron del ristorante di tapas “Comerc 24”, ribattezzato “El Bulli pret-àporter”, locale di tendenza della Barcellona vecchia Mezzo litro latte, mezzo litro panna, 400 gr cioccolato fondente al 70%, 10 gr rosso d’uovo, 175 gr. zucchero, un baccello vaniglia, olio extravergine, sale “dolce”, pane in fette sottilissime *Assemblare latte, panna, vaniglia e zucchero, colare e aggiungere il rosso d’uovo *Scaldare a 85° per far addensare la crema, senza che si stracci *Incorporare il cioccolato a piccole scaglie e raffreddare in frigo per otto ore *Scaldare il pane a 180 gradi, condito con olio e sale, per 3’ *Servire una cucchiaiata di ganache di cioccolato con la fettina di pane *Condire con un cucchiaio di olio e un poco di sale 40 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 31 LUGLIO 2005 le tendenze L’ultima mania è quella dei navigatori satellitari, che permettono di sapere sempre qual è la strada giusta. Poi ci sono i telefonini tuttofare, gli apparecchi per tenere in tasca l’equivalente di centinaia di cd, i lettori dvd ultrapiccoli, le memorie da passeggio. Per andare in ferie portandosi dietro il proprio mondo digitale Vita in movimento Hi-tech daviaggio In vacanza senza perdere la bussola ALESSANDRA RETICO rima succedeva che viaggiare era perdersi. Per quello si partiva, avventura, vuoto, possibilità, erranza. Prima c’era molto silenzio, i ponti sulle navi, quell’andamento lento, e un orizzonte davvero largo. «Viaggiare è un utile esercizio, la mente è stimolata di continuo dall’osservazione di cose nuove e sconosciute». Ciao Montaigne, ma anche ciao ai “vagabondi della ferrovia” di Jack London, al “clochard elegante” di Jack Kerouac e a quell’irrequietezza della vita dappertutto di Bruce Chatwin. Oggi on the road non si sta con i chilometri davanti e la libertà nel cuore. Per andare una stella è un faro pallido. Molto meglio il satellite: ti conduce dove vuoi e ti evita quel che intralcia, un incidente per strada, una curva fastidiosa, il tragitto, pure bello: ma che perdita di tempo. I navigatori non siamo più noi, ma la tecnologia che organizza i nostri spostamenti. Vanno molto, moltissimo, i navigatori portatili che monti in auto e poi sposti sulla moto o sulla bici e i telefonini o i palmari con funzioni di navigazione. Entro l’anno ne saranno venduti oltre 8 milioni, nel 2011 saremo in 100 milioni ad averli. Tutto tranne che perdersi: telefonini e navigatori ricevono le informazioni dal satelliti che, su una mappa, indica il percorso da affrontare. Gli si possono fare domande: dov’è un buon ristorante di pesce, una spiaggia, il festival in corso. Ed ecco lì che sul display lampeggia la meta. Nessun contrattempo, perché lavori in corso e noie varie (o sorprese) vengono puntualmente segnalate. Lungimiranza posseduta anche da cellulari e smartphone già in commercio. Viaggiare oggi è avere orizzonti in dettaglio. Nomadi nel sentimento del tempo, ma non dei tempi e degli spazi. Il taccuino e il diario, parole e lettere sostituiti da immagini da comunicare in flagranza. Nessuna attesa, nessun ingombro. Macchine fotografiche, videocamere, cellulari con fotocamera sono sempre più piccoli, belli, interattivi. Capaci di stare su una mano o addosso come accessori di moda, segnali di stile, però anche capienti, con grandi memorie e funzioni. Non c’è da aspettare il ritorno, la sedimentazione delle cose, il racconto. Guardo e faccio vedere anche a te, adesso. Filmati e foto per e-mail, mms, ecco dove sto. Addio serate coi filmini dei viaggi degli amici (per fortuna, oppure no). Tutto consumato subito, iniezione rapida, e mai soli. Anche se la grande avventura è tra casa e ufficio in motorino: un casco con tecnologia bluetooth, chiami e rispondi senza fermarti, senza togliere le mani dal manubrio. Il verbo della vacanza moderna è infatti tenere. Conservare e intrattenere, anche. L’hard disk piccolo piccolo che metti nella custodia di pelle che sembra un beauty case, o la penna che appendi al collo come un ciondolo ma dentro ci porti tutta la memoria del tuo computer, parole, immagini, suoni, l’utile o comunque non si sa mai. L’iPod, difficile astenersi dal parlarne. La versione shuffle, un bastoncino di sofisticatezza grande come un pacchetto di chewing gum, ha la faccia liscia e linda, dietro una fabbrica. Discoteche intere dentro, il silenzio delle forme fuori. Come i corpi che viaggiano oggi, senza sudore. P PICCOLE MERAVIGLIE L’Egocamera Samsung è la videocamera più piccola al mondo: 58.8x92.7x 23.6 millimetri in 150 grammi. Registra su memoria integrata, cioè in formato Mpeg4 invece che su nastro. Un gigabyte di memoria. Euro 699 TUTTO IN UNO Telefono, fotocamera, navigatore Tomtom e lettore MP3: il Nokia 7710 permette di vedere videoclip, navigare in Internet e gestire blog. Con touch-screen. 759 euro FILM IN TASCA Il nuovo lettore Dvd/Divx della Lg ha uno schermo Lcd 16:9 da 7 pollici e può leggere MP3. Nome in codice: DP8821. Costa 299 euro PER NON SMARRIRE LA VIA Il ristorante, la strada e il numero civico lo trova il navigatore Gps da automobile Street Pilot c330 della Garmin. Visualizza in due o tre dimensioni. Circa 700 euro DISCO FISSO DA TURISMO Il Canyon OTG, hard disk portatile da 20 Gb pesa 140 grammi e permette il trasferimento di file con altri dispositivi digitali (lettori MP3, videocamere, ecc.) direttamente via cavo Usb, senza passare dal computer: 235 Euro DOMENICA 31 LUGLIO 2005 LA DOMENICA DI REPUBBLICA 41 IMPERMEABILE Resistente all’acqua, la nuova fotocamera digitale Coolpix S2 di Nikon realizza immagini a 5,1 megapixel di risoluzione. L’ora si regola autonomamente in base al fuso orario. Prezzo di listino: 244 euro L’insostenibile leggerezza delle macchine tascabili SATELLITE AL POLSO L’orologio satellitare Casio Prg-80 integra altimetro, bussola digitale, barometro, e termometro. Tutto in meno di 80 grammi. Per viaggiatori avventurosi. A partire da 245 euro MICHELE SERRA a tecnologia ha generato un clamoroso paradosso: per essere davvero unplugged bisogna essere perfettamente plugged. Parlando da persone normali: per sentirsi liberi di vagare leggeri e indipendenti, come beatnik riveduti e corretti, uno zaino e via, bisognerebbe riuscire a portare con sé, in minimi spazi, quegli apparati di connessione ambulanti che ci liberino dall’incubo di trovare un telefono, un internet point, una camera d’albergo con le prese giuste e una reception che non ci mandi al diavolo quando traffichiamo, invano, con prese e prolunghe. A parte la ristrettissima cerchia degli anacoreti, decisamente invidiabile, per noi banali cittadini del mondo è diventato infatti impensabile interrompere i contatti con la quotidianità. Bisogna che il commercialista, i parenti anziani, il caporedattore, gli amici con i quali perfezionare l’appuntamento, siano facilmente a tiro, diradando la nostra ansia da assenza o anche, semplicemente, la nostra necessità di andarcene lontano senza il rischio di trascurare la manutenzione quotidiana dei nostri rapporti umani, professionali e sentimentali. È inutile filosofare più di tanto su questa galera psicologica: beato chi riesce a partire salutando il mondo e spegnendo la luce, io faccio parte (come milioni di altri) degli ostaggi volontari della socialità e della connessione, e la nevrosi professionale aggiunge il suo bravo carico da novanta a una propensione già caratteriale a tenermi in contatto. Il problema è che l’indipendenza tecnologica — prezzo economico a parte — è una facilitazione molto difficile, mi si passi l’ossimoro. Lo scorso anno, in Toscana, ho rotto le scatole a mezzo paese perché non riuscivo a collegare il computer a un nuovo e costosissimo cellulare: cosa che mi avrebbe permesso di trasmettere articoli e leggere mail anche seduto in cima a una quercia. Secondo il venditore era un gioco da ragazzi, storie di infrarossi o roba del genere, e anche un bambino ci sarebbe riuscito. Un bambino probabilmente sì, io no. Bisognava scaricare non so quale programma da non so quale sito, architettare connessioni digitando come scimmie sapienti sulla tastiera, e poi sperare che le linee non fossero intasate, come mi hanno spiegato, dai maniaci che spediscono via internet le foto delle vacanze. Un calvario spietato, che mette di fronte l’utente inesperto (cioè il novanta per cento degli utenti) alla propria incapacità e al proprio isterismo, fino alla rinuncia e al ripiegamento indecoroso verso una linea telefonica fissa. La pubblicità, in questo senso, è seriamente ingannevole: si vedono belle ragazze che da un windsurf in Sardegna organizzano parties a Honululu, nonne che da un casale marchigiano cantano la ninna-nanna al nipote in Lapponia, pastori Masai che governano le vacche e contemporaneamente votano in Parlamento con un sms. Un mondo serenamente e facilmente connesso, deserto oppure oceano fa lo stesso, è come se fossimo tutti a Manhattan. Ma non è vero. Il groviglio dei cavi è ormai immateriale, ma ingarbugliato come se ingombrasse il pavimento di una cattedrale per quanto è lungo. Ogni strumento è gravato da mille funzioni differenti, e l’hardware tascabile ci illude che alla miniaturizzazione corrisponda, ipso facto, una semplificazione, un’agilità estrema, trascurando di avvertirci che la sofisticazione degli apparati comporta una sofisticazione dell’utente, per il quale gli esami non finiscono mai. Soprattutto, quello che non ci dicono (o che fingiamo di non sapere) è che al tempo risparmiato grazie alla connessione perenne, corrisponde quasi altrettanto tempo speso ad imparare come si fa, e a rimediare a guasti, virus, impazzimenti di macchine che, per quanto straordinarie, rimangono fragili come il rivestimento dello Shuttle. Nulla si crea e nulla si distrugge, e il beatnik leggero e connesso che vorrei essere è anche, ahimè, un maturo impiegato dell’azienda-mondo che cerca stentatamente di aggiornarsi sentendosi addosso il fiato dei nuovi assunti. La tecnologia sarà perfetta, per quanto mi riguarda, quando le sole parole “on” e “off” basteranno a governarla. Sarà allora, e solo allora, che intervisterò un Masai in teleconferenza mentre lui guarda le vacche, io il Mediterraneo. L MUSICA DA INDOSSARE Grande come un pacchetto di chewing gum, leggero come un portachiavi: è l’iPod Shuffle, il lettore Mp3 di Apple. 512Mb a 99 euro, 1Gb a 139 SGUARDO SUL FUTURO Occhiali da sole Oakley con tecnologia Bluetooth wireless Motorola. Per telefonare basta premere un tasto. Ideali per ciclisti, skaters e scalatori. Costano 295 dollari ARCHIVIO PORTATILE Una piccola penna da mettere in tasca o al collo, per avere sempre a portata di mano fino a 2Gb di documenti, video e file musicali. Sandisk Cruzer, da 35 euro OLTRE IL CELLULARE Il W800i di Sony Ericsson non è solo un telefonino, ma anche un walkman-lettore Mp3 e una macchina digitale da 2 megapixel. Presto sul mercato: prezzo da definire SUONO ZEN BASTA RUMORI Tra i lettori Mp3 concorrenti dell’iPod della Apple c’è il Creative: la versione Zen ha piccole dimensioni, più colori e una memoria fino a 6 Gb e 3000 brani musicali. Circa 300 euro Dimensioni contenute, 2.3 megapixel, e microfono stereo con riduttore di rumori: è la videocamera digitale Panasonic PV-GS150. In vendita a circa 700 euro 42 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 31 LUGLIO 2005 l’incontro Carriere d’acciaio Dieci anni di successo travolgente tra canzoni e film, altri dieci di oblio e silenzio. Poi la lenta rimonta, il ritorno da protagonista sulle ribalte che contano della musica e della tv. Oggi l’ex ragazzo di Monghidoro, alla soglia dei sessant’anni, racconta la bizzarra parabola di un sempreverde dello show business e spiega come si fa a reagire alle stagioni di bassa fortuna e a recuperare l’affetto volubile del pubblico italiano Gianni Morandi A Repubblica Nazionale 42 31/07/2005 SAN LAZZARO DI SAVENA casa sua, negli anni Sessanta, si andava in pellegrinaggio. Una villa bassa, nascosta da una siepe dalla quale si scorgeva il tetto. Ci arrivammo adolescenti da Roma, in due su una bici. A Tor Lupara, comune di Mentana, venti di chilometri dalla capitale. Una pedalata sfiancante, su e giù per stradine di campagna. Lì, lungo la siepe, bivaccavano intere famigliole, Seicento Multiple e Lambrette parcheggiate sull’erba alta. Una governante si affacciò sconsolata, impietosita di vederci lì, sotto il solleone, a sperare in un avvistamento: «Il signor Morandi è fuori Roma». Tor Lupara era la nostra Graceland, Gianni il nostro Elvis. II rock’n’roll non aveva ancora compiuto dieci anni e tutti, eccitati dal boom, eravamo meno esterofili. «La villa di Tor Lupara l’ho venduta», dice Morandi. Altre mura, altra siepe, vegetazione completamente diversa da quella della campagna laziale. Avvicinandosi ai sessant’anni gli è venuta voglia di tornare dalle sue parti, nella Val di Zena, a un tiro di schioppo da Bologna, non lontano dalla nativa Monghidoro. Dietro la collina abita Vasco Rossi, «ci si arriva a piedi», dice Morandi, fiero del nuovo rifugio in cui vive con la moglie Anna Dan, 48 anni, e il figlio Pietro di sette. «È un antico casino di caccia che abbiamo riadattato. Al piano di sopra siamo riusciti anche a salvare qualche affresco». Dalla torretta si dominano i 35 ettari coperti da abeti e popolati da daini e fagiani. Morandi è appena tornato a casa dopo una tournée di 85 date (ultimo cd, A chi si ama veramente). «Gli vogliono ancora bene. Il dopoconcerto di Gianni è una storia interminabile, saluta uno per uno tutti quelli che aspettano fuori dal camerino», dice Franco, l’autista capellone con la passione per le moto che lo accompagna da una città all’altra. I cla- mori degli anni Sessanta si sono attenuati, ma Morandi ha trovato la chiave giusta per diventare un evergreen senza mai scadere nel basso profilo del revival show, che per tanti suoi compagni di Cantagiro è stata una condanna. «Ho cominciato a quindici anni e a trenta avevo l’impressione di aver già fatto e detto tutto. Ogni 45 giri superava il milione di copie vendute. Ero il re degli anni Sessanta. Neanche Celentano all’epoca scatenava tanto entusiasmo. Poi, già marito e padre, nel 1966 andai militare». E proprio come Elvis, la sua naja diventò un problema nazionale. Ancora oggi Morandi non riesce a valutare obiettivamente l’enormità del fenomeno che scatenò. Tende piuttosto a minimizzare. «Nel nostro mondo non ci sono certezze. Dopo tre, quattro anni il telefono a Tor Lupara non squillava quasi più. Mio padre, per fortuna, mi aveva cresciuto con la mentalità del contadino, che semina e sa che può arrivare la grandine e distruggere il raccolto». Anna apparecchia sotto il portico. «Le piace la lasagna? La Angela ha preparato qualcosa di tipico. Non sarà mica vegetariano?». Sfoglia verde condita con ragù bianco. Squisita. Capelli biondi, occhi azzurri, la signora Morandi è cordiale, discreta, rassicurante. «Ero una rockettara, avevo un negozio di dischi specializzato in musica alternativa, adoravo i Van Der Graaf Generator. E guarda chi ho sposato», scherza sturando una bottiglia della tenuta di famiglia. Con una donna così è difficile che un uomo resti in mutande. «Invece io, per dimostrare che con l’eccesso monta l’Auditel, in mutande ci restai davanti all’Italia, in una puntata di Uno di noi (2002). Mia moglie s’infuriò. Non era d’accordo, pianse: “Guarda come ti hanno ridotto”. Ma io lo rifarei». «C’è poco da vantarsene», borbotta Anna mentre serve il caffè. «Abbiamo imparato la lezione, vero? Niente reality show, niente Music farm in casa nostra». Dalla finestra si scorge il piccolo campo di calcio. «Mi tengo in forma per la Nazionale Cantanti. Faccio anche lunghe corse sulle piste che una volta usavano per addestrare i cavalli», dice indicando il nastro di ghiaia bianca che serpeggia tra l’erba e si perde nel bosco. Nel segno del calcio, affiorano altri ricordi, più recenti. «Nel 1992 andammo con Eros Ramazzotti e la Nazionale Cantanti in America per incontrare Michael Jackson. Avevamo un progetto comune: raccogliere fondi per l’infanzia. Michael era inaccessibile. Ci istruirono sul cerimoniale: niente strette di mano, non guardatelo negli occhi, non avvicinatevi troppo. Poi ci presentarono il cuoco pakistano e consigliere spirituale di Jackson. Aspetto ieratico, barba lunga fino all’ombelico, sguardo impenetrabile. Ci racconta che Michael va pazzo per il suo riso basmati. “Io, dice, sono l’unica persona ammessa senza preavviso al suo cospetto”. Appena restiamo soli, il pakistano si avvicina con aria complice e bisbiglia: “Ahò, io so’ de Roma. Ma tenetevelo pe’ voi. Io co ‘sta storia der pakistano porto a casa sedicimila dollari ar mese”. L’aneddoto lo fa riflettere sulla condizione delle star: «Siamo creature fragili. Uno canta perché ha bisogno di mettersi in mostra, di farsi coccolare, di sentirsi adulato». In America c’era anche stato molti anni prima, gli fecero proposte interessanti, ma come Virna Lisi e Modugno decise che tornare a casa sarebbe stato più saggio. Era il 1969, l’anno in cui Enzo Biagi, dopo i trionfi di Canzonissime e Cantagiri, lo intervistò in tv in Dicono di lei. «Al Madison Square Garden, venne a trovarmi l’editore americano dei Beatles. “Visto che lei è molto legato al suo paese, le proponiamo un contratto che le permetterà di rimanere in Italia tre mesi all’anno, ci preoccuperemo noi di farle imparare bene l’inglese”, mi disse. Ma non è facile rimettersi in discussione quando sei già una star, e io, che avevo pubblicato il primo 45 giri nel ‘61, in Italia in quel momento ero al top. Venivano fiumi di gente a vedere i miei film, i co- Mio padre, per fortuna, mi ha cresciuto con la mentalità del contadino, che semina ma sa che può arrivare la grandine e distruggere il raccolto siddetti musicarelli. Con un biglietto da 150 lire s’incassava un miliardo. Tanto fu il fatturato di In ginocchio da te(1964), oggi equivarrebbe a 25 milioni di euro. Poi arrivarono Non son degno di te, Se non avessi più te, Chimera. Film con cinquanta canzoni dentro che entrarono a far parte del quotidiano». Ma l’Italia del Sorpasso trovò dietro la curva una brutta sorpresa. «Durante un Cantagiro, nelle Marche, iniziò la prima contestazione. Venne un gruppo di anarchici a tirarci le uova. Fu il segnale che qualcosa stava cambiando». Morandi aveva in repertorio un formidabile passe-partout generazionale, C’era un ragazzo che come me amava i Beatles e i Rolling Stones, che Joan Baez trasformò definitivamente in un inno della rivoluzione studentesca. «Ma non servì. Il mio personaggio era troppo da rotocalco, Stop, Luna Park, Sorrisi e canzoni, sempre in copertina con moglie e figli. L’austerity e gli anni di piombo cambiarono anche la musica. Arrivarono i cantautori: Venditti, Lolli, Guccini, e l’invasione del rock britannico. La mia generazione, Rita Pavone, Little Tony, Bobby Solo, fu messa da parte. In dieci anni ebbi un solo successo, Sei forte papà, un brano per bambini che diventò la mia condanna, perché quando cinque anni dopo pretendevo di ricominciare con delle canzoni vere, nessuno mi prendeva sul serio». Bussano alla porta, è Darin. Fisico palestrato, enormi occhiali a specchio. «Bentornato», dice Gianni in inglese, «sei sparito per quattro giorni». Il ragazzo americano au-pair che i Morandi ospitano in cambio di lezioni d’inglese a Pietro si era dileguato a Milano con la speranza di fare il modello o l’attore. «Oggi crescono tutti col mito della visibilità. Noi eravamo ragazzi diversi, saggi, con tanta voglia di lavorare. Pensavamo al futuro, lasciavamo presto la famiglia per costruirci la nostra vita. Era un’Italia più ingenua e più sorridente. I giovani di oggi, ha ragione Villaggio, non hanno futuro, non hanno sogni, non hanno speranze». Morandi ebbe un lavoro prima di tutti i suoi compagni di scuola, ma fu anche il primo a rimanere disoccupato. Come la prese? «Avevo serenamente perso la speranza, mi ero messo a studiare contrabbasso al conservatorio di Santa Cecilia, in via dei Greci, a Roma. Facevo finalmente conoscenza con Stravinsky e Beethoven. Riempivo così le mie giornate, perché diciamo la verità, non avevo niente da fare. Per fortuna un po’ di soldi da parte li avevo, perché io sono sempre stato parsimonioso, passato anche per avaro. Figlio di contadini, avevo mandato a memoria la lezione di mio padre: metti sempre da parte i soldi delle tasse perché prima o poi te li chiedono. Io gli eccessi delle star non li ho mai capiti. Mi diverto con poco: una maratona, un giro in jeep per il bosco». Dieci anni nelle liste di disoccupazione del pop non sono poche, ma gli italia- ni Morandi se lo erano sempre tenuto nel cuore. «Stavo preparando l’esame di diploma al conservatorio. Incontrai Mogol, che aveva appena lasciato Battisti, dopo Una giornata uggiosa. Gli era esplosa la passione per il calcio e cercava cantanti da coinvolgere nello sport. Non mi parlava mai di musica, solo di calcio. Poi un giorno mi chiese: ma tu cosa fai, canti ancora? Così nacque Canzoni stonate. Poi tornò alla carica Migliacci e mi regalò un altro successo, Uno su mille. E Lucio (Dalla), il mio amico numero uno». Dieci anni si silenzio per riflettere su dieci di successo. Quale fu il bilancio? «Pensai a quanto male può fare l’adulazione, essere circondato da yes men, soprattutto quando non ragioni con la tua testa. Questo non fa bene a un ragazzo». Quella faccia pulita, i capelli alla umberta (li ha ancora tutti, neanche uno bianco; se li colora, ha indovinato la nuance), il modo tenero e sgraziato di ciondolarsi davanti alle telecamere senza mai sapere come gestire quelle mani ingombranti lo trasformarono in una sorta di sex symbol. «No, non credo. Se lo ero, non me ne rendevo conto. Piuttosto mi vedevano come un fratello. Il mio matrimonio (con Laura Efrikian, dalla quale ha avuto i figli Marianna e Marco, ndr) non deluse le fan. La mia vita era una favola, non molto dissimile da come appariva sulla copertina di Grand Hotel. Ma una cosa mi è mancata: fare un bel film, un film vero. Forse perché mi ricordo di quando, bambino, vendevo le caramelle nel cinematografo di Monghidoro e vedevo questi grandi, immensi eroi americani sullo schermo. Secondo me non mi scritturano perché non riescono a immaginarmi in un personaggio che non sia Gianni Morandi». Anche Sinatra aveva lo stesso problema. «Ma che c’entro io con Sinatra?». Una chance di diventare il Sinatra italiano lei ce l’ha. Dopotutto già nel ‘62 la chiamavano il Paul Anka nostrano. «Mi sembra esagerato». Tra i suoi coetanei ha pochi concorrenti, anzi quasi nessuno. «Beh, ma allora che gusto c’è?». ‘‘ GIUSEPPE VIDETTI