Fratelli di Gesù
LE BEATITUDINI
IL VANGELO DELLA FELICITA’
Siamo alla conclusione della serie delle
beatitudini secondo Matteo; l’ottava, come
dicevamo già la volta scorsa
nell’introduzione, conclude la serie. In
genere, nel linguaggio biblico, il numero
sette è determinante e quindi noi
potremmo, a livello teorico, immaginare
che la serie sia composta da sette
beatitudini.
Nel Vangelo di Luca ci sono quattro
beatitudini più quattro «guai» ravvicinati.
Matteo invece ha raccolto le beatitudini
all’inizio del primo discorso e i guai all’inizio
dell’ultimo discorso nel capitolo 23, quindi li
ha separati, all’inizio ed alla fine,
mantenendoli però strettamente paralleli.
L’ultima beatitudine è diversa dalla altre; innanzitutto
notiamo che la causa è ripetuta e corrisponde alla
prima: «Beati i perseguitati a causa della
giustizia, perché di essi è il regno dei cieli».
L’annuncio che a loro appartiene il regno dei cieli è
uguale a quello della prima beatitudine: questo ci dice
un intento di «inclusione». Si chiama così un
fenomeno letterario per cui, all’inizio ed alla fine di
un testo, ritorna qualche elemento affine: è
chiaramente un ritocco redazionale di Matteo, che ha
composto questo insieme e lo ha «incorniciato» con il
richiamo al regno dei cieli. Ciò costituisce un indizio
che ci dice come l’ottava beatitudine sia la cornice di
chiusura.
Tuttavia, ricaviamo la convinzione che si
tratta di cosa diversa dalle altre beatitudini
dalla realtà stessa delle persone che vengono
evocate: i «perseguitati a causa della giustizia»
non sono persone che hanno un
atteggiamento, ma persone che subiscono.
Le altre sette beatitudini presentano elementi attivi;
questa è l’unica che presenta una caratteristica
passiva. I «poveri», gli «afflitti», i «miti», quelli «che
hanno fame e sete», i «misericordiosi», i «puri di
cuore», gli «operatori di pace» corrispondono a sette
caratteristiche attive. Potrebbe venirci il dubbio per
gli «afflitti»: un fine grammatico ci coglierebbe una
sfumatura passiva, che è interpretabile come tale in
italiano, ma non nell’originale greco dove è invece un
participio attivo. Infatti, ricorderete che avevamo
detto «coloro che si affliggono», «coloro che hanno
il coraggio di affrontare la sofferenza», e si tratta di
cosa diversa dalla persecuzione.
Quindi le sette beatitudini sottolineano un
atteggiamento attivo, non un fare: i «puri di
cuore» non indicano un’azione, bensì una
caratteristica, un modo di essere, un
atteggiamento attivo.
La persecuzione e la sua causa
La formula dell’ottava beatitudine è chiaramente
passiva: i «perseguitati sono «coloro che vengono
perseguitati». Questa caratteristica mette tale formula
a parte rispetto alle altre, nel senso che diventa un
elemento riassuntivo di tutte e sette. Prendendo di
nuovo la motivazione dall’inizio e sottolineando la
situazione passiva, l’evangelista vuole evidenziare la
conseguenza inevitabile per una persona che
effettivamente voglia vivere in quello stile evangelico.
Dunque noi possiamo immaginare che
l’ottava beatitudine, in quanto compimento e
complemento, sia legata a ciascuna delle
altre. Difatti, l’importanza di quel termine
«giustizia» non è da sottovalutare: non si dice
«beati i perseguitati», non «beati gli umiliati e
gli offesi», non «beate le vittime», bensì «i
perseguitati a causa della giustizia».
Certe volte, un’interpretazione semplicista, ad
orecchio, potrebbe prendere l’idea come la giustizia
che perseguita; la giustizia, nel linguaggio di Gesù, è
invece la causa per cui certe persone vengono
perseguitate. Che cosa intende per «giustizia»?
Abbiamo già considerato ampiamente
l’interpretazione di questo termine a proposito della
beatitudine degli «affamati della giustizia», ed avevamo
concluso che la giustizia è la volontà di Dio, è
compiere ciò che a Dio piace, è il suo progetto, è il
suo modo di vedere, è la volontà stessa di Gesù, è il
suo modo di essere, la comunione con lui.
Chi è «giusto» nel linguaggio del Nuovo
Testamento? Colui che è «giustificato», che è reso
giusto, che è riconciliato con il Padre, colui che diventa
figlio grazie alla comunione con Gesù Cristo, l’unico
Figlio. Dunque, la «giustizia», nel linguaggio
evangelico, corrisponde alla volontà di Dio.
Noi potremmo dire che dietro alla parola «giustizia» stanno le
sette beatitudini, per cui, parafrasando, potrei dire: «Chi vive
lo stile di vita proposto da Gesù finisce perseguitato». La
«giustizia» è la «povertà in spirito»; è l’atteggiamento di chi
lega rapporti forti, tali da poter portare afflizione, di chi si
compromette; «giustizia» è mitezza; «giustizia» è il desiderio
forte con cui si aderisce a Dio; «giustizia» è la misericordia,
come misericordia è giustizia; «giustizia» è la purezza, la
limpidezza, la sincerità del cuore; «giustizia» è sinonimo di
pace.
Allora, le persone che vivono quello stile di vita hanno come
conseguenza la persecuzione: i «perseguitati a causa della
giustizia» sono coloro che ci rimettono per il fatto di vivere
come ha proposto Gesù.
Qui dovremmo riprendere tutto il discorso
perché l’ottava beatitudine è decisamente la
più paradossale, ci troviamo di fronte ad un
autentico paradosso. Gesù dice:
«Beati quelli che sono perseguitati facendo
quello che io ho proposto».
Ma ribaltiamo ancora una volta il discorso:
abbiamo detto molte volte che nelle beatitudini
l’elemento più importante è l’ultimo, la
motivazione, è la garanzia. Gesù dice: «È vostro il
regno dei cieli», cioè «Dio, Signore onnipotente del
cielo e della terra, è dalla vostra parte, siete
fortunati, potete vivere la giustizia - lì, sostituite
tutte le sette caratteristiche, quei sette atteggiamenti
di cui abbiamo già parlato - ma, ve lo dico,
troverete difficoltà. Potete affrontare queste
difficoltà, perché Dio onnipotente è dalla vostra
parte. La vostra fortuna, la vostra felicità stanno nel
fatto che Dio è dalla vostra parte. Potete affrontare
anche le persecuzioni che derivano da una scelta di
vita autenticamente evangelica».
Gesù ha coscienza chiara che ciò che sta
proponendo non sarà facilmente accettato dal
mondo. Gesù si rende conto che la sua proposta si
scontra con la mentalità del mondo, sta provando
sulla propria pelle questo scontro, si sta rendendo
conto che la sua scelta di vita e la posizione
religiosa della sua predicazione lo portano ad una
brutta fine. Ne è cosciente, non è arrivato per caso
alla croce come per un incidente di percorso, e l’ha
detto ripetutamente agli apostoli che, una volta
arrivato a Gerusalemme, sarebbe stato messo a
morte.
Gli apostoli un po’ avevano paura, un po’
cercavano di scongiurare questa evenienza e
cercavano di non parlarne, un po’ facevano
propositi di cercare di difendersi e di far di tutto
affinché ciò non accadesse e, in altre parole, non
volevano crederci; ma Gesù lo dice loro con
certezza, si rende conto che quella è la strada, ma
anche che l’unico modo che egli ha di dimostrare
fino in fondo l’amore di Dio per l’umanità è quello
di affrontare anche la sofferenza e la morte pur di
rimanere fedele a Dio Padre.
E non è una fedeltà astratta, ma un’autentica
relazione personale, di amore. L’obbedienza di
Gesù al Padre è il legame con la sua persona, è la
testimonianza di chi è Dio: ecco perché, all’inizio,
abbiamo detto che le beatitudini ci raffigurano il
volto di Gesù e, contemporaneamente, ci
dipingono il volto di Dio, ci dicono chi è Dio
Padre, è uguale al Figlio Gesù. Gesù è il povero, è
l’afflitto, è il mite, è l’affamato di giustizia, è il
misericordioso, è il puro di cuore, è l’operatore di
pace, è lui, e il Padre ugualmente.
Quell’atteggiamento che abbiamo cercato di scavare
- dove Gesù dice: «Potete essere ...» - riproduce i
lineamenti di Dio Padre, è quello stile di vita che Dio ha
pensato per l’umanità, è la vita autenticamente umana.
Pensate a ciò che sarebbe poter essere miti, senza dover
combattere, mentre invece la vita è un combattimento,
dobbiamo difenderci e conquistare. Certe volte,
lasciandoci prendere dal sogno, pensiamo a come
sarebbe bello se non si dovesse combattere, se si
potesse essere miti, se si potesse fare del bene
tranquillamente: questo è il sogno di Dio, ma i sogni di
Dio si realizzano, sono progetti che a lunga scadenza,
prima o poi, diventano realtà.
Gesù è la prova concreta, la testimonianza, la
garanzia che il progetto di Dio per una vita
autenticamente umana si può realizzare. Dio è
pronto a dare la propria vita per realizzare questa
vita autenticamente umana: è lui il primo che accetta
la persecuzione a causa della giustizia, e lo dice ai
suoi discepoli, lo dice apertamente: «Andrete
incontro a delle difficoltà, ve lo anticipo, è
inevitabile, come è inevitabile che io vada incontro
alla morte». Perché è inevitabile? Perché la struttura
del male domina il mondo - è ciò che chiamiamo il
peccato originale - è una struttura di male che ha
preso perfino le radici di tutto l’insieme umano, è «il
mondo» secondo il linguaggio giovanneo.
Questa struttura di male crede di avere il
sopravvento, e Gesù si rende conto che,
presentandosi in un certo modo, diventerà vittima di
questa struttura di male. Ma qui è il nucleo del
Vangelo: la scelta di Gesù di un dono generoso di sé è
l’alternativa alla proposta diabolica di rispondere al
mondo con i metodi del mondo, di rispondere al male
con il male, di rispondere con la potenza, con la
magia, con la forza, con la ricchezza. Sono le
tentazioni che il diavolo propone a Gesù, sono le vie
alternative, sono le vie del mondo.
Gesù avrebbe avuto successo, ma non avrebbe
salvato il mondo, si sarebbe inserito nella macchina del
mondo. Proprio perché egli ne è esente, ha avuto il
coraggio di non lasciarsi prendere nell’ingranaggio
malevolo del mondo, con la lucida consapevolezza che
contestare questo meccanismo perverso gli costa la
vita - egli stesso verrà stritolato - ma sa anche che,
nella logica di Dio, quella sua offerta generosa è la
forza che rompe il meccanismo: la morte di Gesù
diventa il principio della nostra salvezza.
La liberazione portata da Gesù
L’abbiamo sempre detto: il segno della croce
è il nostro segno. Con ciò si vuole dire che
teorizziamo con tutte le nostre forze che nella
morte di Gesù sta la nostra vita, sta la nostra
salvezza, sta il principio della nostra liberazione.
Liberazione da che cosa? Proprio da quel
meccanismo perverso del mondo, di cui
abbiamo paura.
C’è una frase nella lettera agli Ebrei, tremenda e
lucidissima, che dice che «Gesù ha liberato dalla
paura della morte quelli che erano soggetti al
diavolo per tutta la vita, per paura della morte». La
nostra paura più profonda è proprio quella del
morire, non tanto per l’ultimo respiro con cui
termina la vita, quanto per l’idea di perdere la vita,
di perdere quello che ci sta a cuore, per l’idea di
morte come di una situazione esistenziale. Per
paura di morire, ci difendiamo; per paura di
perdere la vita, ci aggrappiamo e combattiamo. Se
siamo onesti, riconosciamo dentro di noi questa
continua tentazione di salvarci con le nostre forze
per paura di morire, per paura di perdere.
È quella che l’autore della lettera agli Ebrei
chiama la «soggezione diabolica», è l’essere
sottomessi al diavolo, è lo strumento
diabolico per eccellenza: mettere la paura
della morte. E «diabolico» significa
«ostacolatore», è l’atteggiamento che ci
allontana da Dio, è il principio
dell’autoconservazione, della difesa di noi
stessi a tutti i costi.
Gesù ci libera da questa paura, da questo
attaccamento al nostro io, dalla presunzione di salvarci
da soli con le nostre forze, di difenderci, di metterci al
sicuro, di mettere le spalle al muro. L’offerta generosa di
sé, il dono che Gesù fa della propria vita, è quella forza
che rende possibili le beatitudini: è lì che Gesù rivela chi
è il Figlio e chi è il Padre, con una capacità di amore
oblativo eccezionale, impensabile fra noi uomini. Amore
oblativo come amore che dona, che perde tutto se
stesso, che non ha paura di perdersi. San Marco lo nota
quando dice che il centurione ai piedi della croce,
avendo visto Gesù morire in quel modo, esclama
«Veramente costui era Figlio di Dio»: è la morte di Gesù
in un atteggiamento di dono generoso che rivela la sua
divinità, è il modo di morire che rivela la divinità di
Gesù, come dono, come offerta, come generoso ed
eccezionale regalo di sé.
Tutto questo è la forza che rende
possibile una vita secondo le beatitudini, è la
grazia che ci salva, è quella forza divina che
ci rende figli di Dio, che ci rende simili a
Gesù Cristo, che ci rende capaci di vivere
come lui.
Allora, se è possibile una vita come la sua, il rischio
è anche quello di una fine come la sua: se noi
saremo davvero come Gesù, finiremo male come
lui. Si dirà «che belle prospettive, allora è meglio
non esserlo»
Finché hai paura della morte, sei prigioniero e
ritieni che sia meglio non essere come lui, sei in
prigione e non ti rendi conto di esserlo. Nel
momento in cui ti lasci veramente liberare, hai
anche la capacità di affrontare quella situazione e
scopri che in quell’atteggiamento sta la felicità, la
liberazione da tutti quei blocchi, da tutti quegli
impedimenti, da tutti quei problemi che erano una
zavorra per la tua vita, che tu consideravi un
elemento importante per vivere ed invece erano il
peso e la rovina della tua esistenza.
È quello che intende dire Gesù: «Beati se siete perseguitati a
causa della giustizia». È un discorso che ritorna in diverse
altre parti del Nuovo Testamento e vorrei citare due versetti
particolarmente interessanti. Il primo di questi, tratto dalla
prima lettera di Pietro, è uno scritto nato proprio in un
contesto di incipiente persecuzione; sono infatti i momenti
della difficoltà che la comunità cristiana, all’epoca di Nerone,
ha cominciato a subire: «E se anche doveste soffrire per la
giustizia, beati voi!» - Questa è la beatitudine del Vangelo,
ripresa in altro modo dalla predicazione di San Pietro. - «Non
vi sgomentate per paura di loro, né vi turbate, ma adorate il
Signore, Cristo, nei vostri cuori, pronti sempre a rispondere a
chiunque vi domandi la ragione della speranza che è in voi.
Tuttavia questo sia fatto con dolcezza e rispetto, con una retta
coscienza, perché nel momento stesso in cui si parla male di
voi rimangano svergognati quelli che malignano sulla vostra
buona condotta in Cristo. È meglio infatti, se così vuole Dio,
soffrire operando il bene piuttosto che fare il male» (1 Pt 3,
14).
Poco più avanti riprende la stessa idea: «Carissimi,
non siate sorpresi per l’incendio di persecuzione
che si è acceso in mezzo a voi per provarvi, come
se vi accadesse qualcosa di strano. Ma nella
misura in cui partecipate alle sofferenze di Cristo,
rallegratevi, perché anche nella rivelazione della
sua gloria possiate rallegrarvi ed esultare. Beati
voi, se venite insultati per il nome di Cristo,
perché lo Spirito della gloria e lo Spirito di Dio
riposa su di voi. Nessuno di voi abbia a soffrire
come omicida o ladro o malfattore o delatore. Ma
se uno soffre come cristiano, non ne arrossisca;
glorifichi anzi Dio per questo nome» (1 Pt 4, 1216).
L’apostolo Pietro sta riprendendo, come esortazione
alle comunità cristiane primitive, proprio questo
discorso fatto da Gesù molti anni prima sulle sponde
del lago di Galilea, ma gli apostoli forse non
prevedevano dove sarebbero arrivati. Trenta anni
dopo, Pietro scrive queste parole quando ormai sta
per lasciarci la pelle anche lui e si rende conto
benissimo di quanto gli sia costato andare dietro a
Gesù, ma non ha nessuna intenzione di tornare
indietro: è contentissimo di averlo seguito, anche se
gli è costato, si rende conto che la sua autentica e
piena gioia si realizza proprio lì. Sta dicendo ai
cristiani di allora - ma continua a valere anche per noi
cristiani di oggi - che, se siamo autenticamente
cristiani, andiamo incontro alla persecuzione.
I cristiani e il mondo
Certe volte si dice che il mondo ci ignora perché non
siamo impegnati, il mondo non crede perché noi diamo
poca testimonianza e talvolta viene da dire che se noi
cristiani fossimo più seri e coerenti, se vivessimo
davvero lo spirito del Vangelo, il mondo crederebbe. La
conclusione, secondo il Vangelo, è sbagliata: se noi
fossimo più coerenti e vivessimo veramente il Vangelo,
il mondo ci perseguiterebbe, la struttura della potenza
terrena ammazzerebbe di nuovo i cristiani.
Senza voler assumere un tono drammatico,
facciamo qualche esempio semplice, tratto
dalla nostra vita quotidiana, e proviamo ad
immaginare la situazione di un ufficio dove ci
siano parecchi impiegati, fra i quali uno
cristiano, coerente, serio, onesto, che fa bene
il suo lavoro fino in fondo. Il fatto che sia
perfettamente onesto e che dia ottima
testimonianza, che sia preciso nel lavoro,
puntuale, disposto a fare anche di più,
convince i colleghi di lavoro?
Se arriva una serie di oggetti che appartengono
all’ente pubblico, e gli altri decidono di
appropriarsene perché tanto non sono registrati e
nessuno si accorge che mancano, e lui si oppone
perché l’onestà glielo vieta, anzi, non solo non si
associa ai colleghi in questo atto, ma fa loro
presente che stanno facendo un’azione scorretta e
disonesta, pensate che quelli si convertano? Molto
probabilmente lo vedono malvolentieri perché non
sta al gioco e potrebbe addirittura diventare
pericoloso.
Se quel «cretino» fa il lavoro fino in fondo,
costringe anche me a fare altrettanto, altrimenti
salterebbe all’occhio la differenza. Se battesse
un po’ più la fiacca, io ci guadagnerei. Ho usato
volutamente la parola «cretino» per assonanza
con il francese «chrétien», che significa
«cristiano». Noi non ci accorgiamo che
«cretino» è sinonimo di «cristiano», ma in una
certa ottica, in una certa mentalità del mondo, è
realmente così. Certamente dare la vita
generosamente è considerato un atteggiamento
folle.
E l’atteggiamento della castità convince il lussurioso?
Neanche per sogno! Le soluzioni sono o negare il fatto, o
giustificarlo con patologie varie o sentirlo come uno schiaffo
morale; il celibato del clero e dei religiosi è presentato a livello
teologico come segno di una realtà di castità possibile, ma la
mentalità del mondo o nega che sia vero - cominciando così a
demonizzare e ad esorcizzare - oppure lo giustifica
patologicamente come un’incapacità al matrimonio o altrimenti,
se viene percepito come autentico, è giudicato quasi come offesa
che quindi deve essere combattuta. La virtù, quando è eroica ed è
autentica, non convince il peccatore semplicemente perché è
virtù, ma lo infastidisce, lo esaspera. Di fronte al bene, il male
non si converte ma si offende, si arrabbia, s’incattivisce,
esattamente come è successo con Gesù: di fronte alla sua
testimonianza autentica, profonda, virtuosa, la struttura politica
del potere mondano si è incattivita e ha fatto di tutto per
eliminarlo.
Capite così che il nostro discorso, in un certo senso
un po’ da illusi, sulla conversione del mondo in seguito
alla nostra buona testimonianza fallisce miseramente se
applicato a Gesù: come mai Caifa non si è convertito
vedendo Gesù? Come mai la testimonianza di coerenza,
di amore, di generosità, di disponibilità di Gesù non ha
toccato il cuore di Caifa, che invece ha mantenuto il suo
pregiudizio nei confronti dello stesso Gesù? L’esempio
ottimo di Gesù non ha convertito i suoi avversari, anzi
li ha fatti addirittura arrabbiare. «Ma come, sei
pesantemente accusato e neppure rispondi? Ti
prendiamo a sberle, ti sputiamo in faccia e tu neppure
reagisci male? Indisponi sempre di più!».
La somiglianza con Gesù è causa di persecuzione e
fonte di gioia Il cristiano che accoglie veramente lo stile
di Cristo diventa una «spina nella carne» per questo
mondo. Eppure, proprio in quella situazione, Gesù ci
garantisce la possibilità della gioia, è il grande finale,
l’ampliamento delle beatitudini: «Beati voi quando vi
perseguiteranno, vi insulteranno e, mentendo, diranno
ogni sorta di male di voi per causa mia» (Mt 5, 11).
È importante sottolineare quel «mentendo», perché
se dicono male di voi e hanno ragione non c’è la
beatitudine. Il fatto è che, nella nostra logica, se mi
accusano sarebbe quasi meglio che avessero ragione:
accusarmi da innocente è troppo! Eppure l’idea che
Gesù sia morto per il peccato degli altri non ci è mica
ancora andata giù, non l’abbiamo ancora digerita o
assimilata. Pensate un po’ se qualcuno facesse del male
e altri se la prendessero con me: reagirei
immediatamente dicendo chi è il colpevole - sarebbe
del resto un’istintiva reazione secondo la logica umana.
L’atteggiamento di Gesù è stato esattamente il
contrario: «Visto che sono innocente, prendetevela
con me». Non c’è logica, non è la nostra logica;
Aristotele qui non diventa cristiano, ma si ferma e
contesta, non funziona! Ed è strano appunto proprio
questo: «Beati voi quando vi perseguitano e dicono
male di voi, mentendo», «per causa mia» - attenzione:
«per causa mia», non per altri motivi - perché in tal
caso siete talmente simili a Gesù che fate quello che
faceva lui, che dite quello che diceva lui e quindi date
fastidio.
Allora, Gesù dice: «Se dicono male di voi perché
assomigliate a me, siete beati, rallegratevi e gioite perché la
vostra ricompensa è grande nei cieli». Questa frase può essere
pericolosa, perché è interpretabile erroneamente come un
invito alla sopportazione passiva rimandando tutta la gioia alla
vita futura: se impostata in questi termini è un autentico oppio
per i popoli. Questo significherebbe davvero dare manforte al
potere del mondo. Gesù non ci ha fatto la promessa di un
risarcimento danni, la ricompensa non è una paga che ci verrà
data di là, ma il fatto di essere con Gesù Cristo. In fondo, che
cos’è il gaudium, la gioia? Oggi è la festa di San Tommaso
d’Aquino e allora cerco di spiegarmi con le sue parole, una
grande spiegazione che non è facile dare, ma i grandi teologi ci
riescono con tre parole: «Praesentia boni amati», «La presenza
del bene amato». La gioia è la presenza del bene che si ama: un
bene amato, quando è presente, produce la gioia.
Allora, la nostra gioia qual è? È la presenza del
bene amato. E qual è il nostro bene amato? Nel
momento in cui Gesù Cristo diventa per noi il bene
amato, il sommo bene, sommamente amato, il fatto
che lui ci sia e che sia con noi è il gaudium: è questa la
grande ricompensa, che è nei cieli, cioè che va al di là
della struttura di questo mondo, che è divina. «È
grande la vostra ricompensa»: la ricompensa è Gesù
Cristo stesso, è la comunione di vita con lui. Il fatto di
essere con lui è la nostra gioia qualunque cosa possa
succedere.
La gioia non sta nella sofferenza o nella
persecuzione in se stesse, non siamo
masochisti. La gioia sta nell’essere con
Cristo, qualunque cosa succeda, costi quello
che costi.
Di fronte alla grandezza ed al valore di questo
amore, di questa presenza del bene amato, le difficoltà
del mondo non sono niente. E proprio dalla vita di
cristiani che aderiscono in questo modo a Gesù
Cristo il mondo viene salvato. Proprio da parte di
cristiani che vengono macinati dal mondo il potere
del male viene distrutto; non da persone che
combattono il male con il male, ma da persone che
aderiscono autenticamente a Gesù Cristo, pronti
anche a pagare di persona. Sono loro che collaborano
alla salvezza del mondo, siamo noi che collaboriamo a
questa salvezza. Rallegriamoci e gioiamo, perché la
nostra ricompensa è grande, e allora aderiamo a Gesù
Cristo sul serio, costi quello che costi.
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Beati i Perseguitati