Aldo PROSDOCIMI
Patrizia SOLINAS [email protected]
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Aldo PRODOCIMI è professore ordinario di Glottologia presso l’Università degli Studi di Padova. Da
oltre 40 anni si occupa di temi di linguistica generale e indoeuropeistica con particolare attenzione al
latino e alle lingue dell’Italia antica. Numerosi sono i suoi contributi che trattano vari aspetti della
celticità linguistica.
Patrizia SOLINAS è professore associato di Linguistica generale presso l’università Ca’ Foscari di
Venezia. Si è occupata di storia della linguistica, di indeuropeistica e, soprattutto, di lingue dell’Italia
antica e del celtico d’Italia.
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CELTICITÀ LINGUISTICA IN ITALIA PRIMA DEL 400
DOCUMENTI E PROSPETTIVE
Riassunto
Questo contributo vuole fare il punto sulle attestazioni di celticità linguistica in Italia ascrivibili ad
una cronologia precedente al ± 400 a. C., soprattutto per quanto di nuovo è venuto negli ultimi venticinque
anni. Dall’inizio degli anni ’80 vi sono state varie novità documentali e, correlatamente a queste, varie
occasioni e motivazioni importanti per riprendere in termini nuovi l’intera questione del celtismo linguistico
in Italia; nell’ambito di questa generale revisione, momento chiave è stato il ricollocamento cronologico
dell’iscrizione di Prestino dal II sec. a. Cr. al V sec. a. Cr.: tale retrodatazione ha attirato l’attenzione sulla
celticità linguistica in Italia precedente il tradizionale discrimen del ± 400 e cioè, concretizzando, la celticità
di tipo gallico.
I punti centrali della suddetta revisione sono stati:
1. la dimostrazione di una celticità linguistica in Italia anteriore al ± 400 a. Cr.; collegato a
questa un rinnovato interesse per le problematiche alfabetiche e per il modo di porre le trafile
alfabetiche stesse.
2. la qualificazione di questa celticità linguistica come qualità e come quantità e la questione
della legittimità della contrapposizione, entro la dialettologia celtica delle aree in questione
(Gallia e Cisalpina), di una varietà 'leponzia' da una parte e una varietà 'gallica' dall'altra.
Ampliando la prospettiva, i raccordi con la celticità continentale fuori dall’Italia e, al limite,
con l’essere stesso della celticità.
3. a) una interpretazione storica intesa primariamente come confronto con le fonti storiche (spec.
in riferimento a Livio V 34-5); b) una richiesta di interpretazione storica intesa come
confronto con i dati archeologici;
4. una esplorazione su qualità e quantità di celticità linguistica nella documentazione
“indiretta”, specialmente in venetico e in etrusco;
Per ovvie motivazioni in questa sede l’attenzione deve concentrarsi solo su alcuni aspetti: l’intento è
quello di fare il punto sulla documentazione “diretta” e “indiretta” della celticità linguistica anteriore al IV
sec. a. Cr.. Correlatamente si propongono alcune considerazioni sullo status di queste attestazioni in una
prospettiva che definirei sociolinguistica e cioè riguardo al come sociale, culturale e giuridico della
dimensione linguistica.
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Résumé
Cette contribution vise à faire le point sur les attestations de celticité linguistique en Italie dont la
chronologie est antérieure à 400 av. J.-C. environ, concernant en particulier les découvertes de ces vingt-cinq
dernières années. Depuis le début des années 80, plusieurs documents inédits ont été révélés, offrant autant
d’opportunités et de motivations significatives pour reconsidérer l’intégralité de la question du celtisme
linguistique en Italie sous un nouvel angle ; le moment clé de cette révision générale a été le repositionnement
chronologique de l’inscription de Prestino du IIe s. av. J.-C. au Ve s. av. J.-C. : une telle rétrodatation a attiré
©Pré-actes du colloqui du Collège de France, juillet 2006
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l’attention sur la celticité linguistique en Italie antérieurement à la traditionnelle fracture de 400 av. J.-C.,
mettant ainsi en évidence une celticité de type gaulois.
Les principaux points visés par cette révision ont été :
5. la preuve d’une celticité linguistique en Italie antérieure à 400 av. J.-C. ; en rapport avec
celle-ci, un regain d’intérêt pour les problématiques alphabétiques et pour la manière de
déterminer l’alphabet.
6. la définition qualitative et quantitative de cette celticité linguistique et la question de la
légitimité de l’opposition, au sein de la dialectologie celtique des zones en question (Gaules
Celtique et cisalpine), entre une variante “lépontique” d’une part et une variante “gauloise”
d’autre part. En élargissant la perspective, les liens avec la celticité continentale hors d’Italie,
et à la limite avec l’essence même de la celticité.
7. a) une interprétation historique d’abord comprise comme une confrontation avec les sources
historiques (qui se réfèrent principalement à Tite-Live V 34-5) ; b) une demande
d’interprétation historique comprise comme une confrontation avec les données
archéologiques ;
8. une exploration qualitative et quantitative de la celticité linguistique dans la documentation
“indirecte”, en particulier en vénète ou en étrusque ;
Dans le cadre de ces tables rondes, pour des raisons évidentes, l’attention se limitera à quelques
aspects seulement : le but est de faire le point sur la documentation “directe” et “indirecte” de la celticité
linguistique avant le IVe s. av. J.-C. Corrélativement, diverses considérations sont livrées à propos du statut
de ces attestations, dans une perspective que je qualifierais de sociolinguistique, c’est-à-dire qui s’intéresse
aux aspects sociaux, culturels et juridiques de la dimension linguistique.
Il testo che qui si presenta è un riassunto di una redazione più ampia che contingenze
materiali non hanno consentito di portare ad una elaborazione tale da poter essere affidata alla
stampa. Il senso di questo ‘riassunto’ è la proposizione di alcuni spunti a valore esemplificativo
di un programma più ampio. Sempre per ragioni contingenti, la redazione di questo ‘riassunto’ è
stata curata da Patrizia Solinas con esclusione dell’altro autore che, diis propitiis, si ripromette
di intervenire con l’insostituibile ausilio di P. Solinas, nella redazione ampia e, sempre diis
propitiis, in altri temi concernenti la celticità d’Italia e le sue implicazioni per l’area indeuropea
occidentale.
Nel frattempo è uscita la sintesi di P. Di Bernardo Stempel, come al solito ben informata
ma, per lo più, sulla manualistica per il lato linguistico o su opere di base epigrafica
assolutamente inaffidabili per dati ed analisi linguistica degli stessi; per quanto concerne i
modelli storico ricostruttivi che presenta e su cui si appoggia, sono lontanissimi dai nostri per
cui, dopo una doverosa citazione, non c’è spazio per un sia pur minimo dialogo che abbia esiti
proficui.
0. Queste pagine hanno lo scopo di fare il punto sulle attestazioni di celticità linguistica
in Italia ascrivibili ad una cronologia precedente al ± 400 a. C. e di focalizzare l’attenzione su
quanto di nuovo (a vario titolo: v. avanti) è venuto negli ultimi venticinque anni. Infatti,
dall’inizio degli anni ’80, vi sono state varie novità documentali ma anche, correlatamente a
queste, varie occasioni e motivazioni importanti per riprendere in termini nuovi l’intera
questione del celtismo linguistico in Italia (1); tuttavia, nell’ambito di questa generale revisione,
momento chiave - sia dal punto di vista storiografico, sia da quello di un più astratto iter
euristico - è stato il ricollocamento cronologico dell’iscrizione di Prestino (2) dal II sec. a. Cr. al
V sec. a. Cr.: tale retrodatazione ha attirato l’attenzione sulla celticità linguistica in Italia
precedente il tradizionale discrimen del ± 400 e cioè, concretizzando, la celticità di tipo gallico.
©Pré-actes du colloqui du Collège de France, juillet 2006
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La riconsiderazione del problema della celticità linguistica in Italia si articola in diversi
aspetti che, per ovvi motivi, talvolta incrociano e si appoggiano a prospettive di analisi non
esclusivamente linguistica e questo è l’ennesimo segnale dell’opportunità e utilità (necessità?)
dell’approccio interdisciplinare che occasioni quali questo Convegno favoriscono in modo
concreto.
I punti centrali della suddetta revisione sono stati:
1. la dimostrazione di una celticità linguistica in Italia anteriore al ± 400 a. Cr.; collegato
a questa un rinnovato interesse per le problematiche alfabetiche e per il modo di porre
le trafile alfabetiche stesse.
2. la qualificazione di questa celticità linguistica come qualità e come quantità e la
questione della legittimità della contrapposizione, entro la dialettologia celtica delle
aree in questione (Gallia e Cisalpina), di una varietà 'leponzia' da una parte e una
varietà 'gallica' dall'altra (perché non semplicemente varietà distribuite per spazio e
tempo?). Ampliando la prospettiva i raccordi con la celticità continentale fuori
dall’Italia e, al limite, con l’essere stesso della celticità in Italia e fuori d’Italia.
3. Due aspetti che menziono ma che in questa sede sono trattati da altri:
a. una interpretazione storica intesa primariamente come confronto con le fonti
storiche (spec. in riferimento a Livio V 34-5 sulla saga di Belloveso e Segoveso);
b. una richiesta di interpretazione storica intesa come confronto con i dati
archeologici;
4. una esplorazione preliminare su qualità e quantità di celticità linguistica nella
documentazione “indiretta”, specialmente in venetico e in etrusco;
Per ovvie motivazioni in questa sede l’attenzione deve concentrarsi solo su alcuni
aspetti: l’intento è quello di fare il punto sulla documentazione “diretta” e “indiretta” della
celticità linguistica anteriore al IV sec. a. Cr.. Correlatamente si propongono alcune
considerazioni sullo status di queste attestazioni in una prospettiva che definirei sociolinguistica
e cioè riguardo al come sociale, culturale e giuridico della dimensione linguistica.
1. Per la celticità il parametro ‘lingua’ e quanto vi è connesso, è, a nostro avviso, capitale
in sé e in combinazione con altri parametri. Qui sono sufficienti due passi di autori antichi e
informati sulla lingua come indice di celticità o di non-celticità.
Polibio (II, 17, 5-6), a proposito dei Veneti d’Italia (‘Venetorum angulus’) da non confondersi,
almeno a questo livello, con i Veneti di Gallia (Aremorica: la precisazione in contesto di
celticità-gallicità pare opportuna) dice lapidariamente:
“....prosagoreuontai d Ouenetoi, toiς men eqesi kai tw kosmw bracei diaferonteς Keltwn, glotth
d alloia crwmenoi, peri d wn oi tragwdiografoi polun tiva pepoihvtai logon
kai pollen
diateqeintai terateian”
Cesare, in modo celeberrimo, esordisce così (De Bello Gallico I,1):
“Gallia est omnis divisa in partes tres, quorum unam incolunt Belgae, aliam Aquilani, tertiam
qui ipsorum lingua Celate, nostra Galli appellantur. Hi omnes lingua, institutis, legibus inter se
differunt.”
Cesare ha conoscenze dirette dei Galli-Celti di Gallia e di altra gallicità; le notizie,
dirette o indirette, sono da presumersi dettagliate e precise non per il gusto per divagazioni etnoantropologiche ma per ragioni strategiche; pertanto l’incertezza attributiva deve essere fondata
sulla realtà: quale? Lingua diversa ma comunità socio-culturale? oppure, variante, lingua diversa
ma con commutazione di codice in una varietà possibile di bilinguismo? Su premesse di questo
tipo, L. J. Weisgerber ha redatto, a partire dagli anni ’30, la serie di scritti che sono andati a
costituire la sua ‘Rhenania germano-celtica’ (3) e poi ‘Der Namen der Ubier’ (1968) e Tovar ha
posto la tesi della (di una) indeuropeicità del germanico derivata dal celtico nell’articolo
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programmatico ‘Die späte Bildung des germanischen’ (19). Non è qui nostro tema né
intendimento affrontare la etnografia ideologica e/o fattuale legata al nome ‘Celti-Galli (Galati)’
nelle fonti precedenti a Cesare se non per i riflessi che si sono avuti dopo l’ascrizione alle lingue
indeuropee delle lingue celtiche (Bopp 1838 e poi Zeuss 1853) – nelle due varietà del celtico
insulare, ivi compreso, come è noto il bretone –. Qui veniva a crearsi una prima discrasia tra la
celticità-gallicità della ‘storia’ (meglio, delle fonti storiche) con epicentro in Gallia (e correlati)
e la celticità della lingua, con la documentazione nel celtico insulare: la annessione al celtico dei
documenti continentali era ed è rimasto a lungo un desideratum, e ciò vale anche per i
documenti di celtico in Italia, nostro tema e punctum dolens non secondario per la celticità
linguistica in generale (e determinante sia per la definizione delle varietà interne al celtico sia
per i parametri che definiscono una lingua come celtica rispetto alle altre varietà indeuropee).
Non si è mai sottolineato a sufficienza (e più, tratto le conclusioni storiografiche) che,
quando è nata l’indeuropeistica ‘moderna’ (Bopp, Rask, Pott, A. Kuhn etc.), le conoscenze
‘storiche’ erano di lingue e di fonti classiche in senso stretto ma non di preistoria e di
paletnologia. L’emergere di queste scienze inizia nella seconda metà del XIX secolo e, a
seconda delle varie aree geografiche, esse sono portate a misurarsi con ciò che si conosceva
dalle fonti storiche e dalle lingue, non solo in sé ma, ormai, entro la parentela tra lingue
indeuropee fissata secondo il modello genealogico (Schleicher 1859 ‘Deutsche Sprache’, 1861
‘Compendium’) o il modello areale a ‘onde’ (J. Schmidt 1872 (4)) In un ambiente di celtisti è
superfluo entrare nel dettaglio se non per ricordare che cosa hanno importato nella questione
generale della celticità l’archeologia di ‘La Tène’ e l’archeologia di ‘Hallstadt’ (e del prima,
‘Urnenfelderkultur’): le discrasie si moltiplicavano in ragione diretta della attitudine a comporre
quadri integrati di una prospettiva di unitarietà. In questo clima l’Italia ha una storia specifica
per almeno un parametro che altrove non esiste, la scrittura; questa, all’inizio e per molto tempo
(fino agli anni ‘60/’70 del XX secolo), porta ulteriori complicazioni nella questione già
complessa: su questo che è il nostro tema, torneremo; qui richiamiamo cose ben note ai
celtologi, specialmente francesi, e cioè l’ideologia interpretativa della celto/gallicità impersonata
da figure fondamentali per la storiografia quali H. d’Arbois de Jubainville (1889-1894 ‘Premiers
habitants’, 1903 ‘Grammaire’) e C. Jullian (1908-1926 ‘Histoire’): questi (con Dechelette per
l’archeologia) hanno rilevanza anche per la celticità in Italia (Solinas 1992-3), ma il loro ruolo
storiografico per la celticità e per ciò che la contorna (tema ‘Liguri’ (5) è, come detto,
assolutamente centrale per l’ideologia in cui tutte le fonti sono inquadrate.
Come anticipato, per la celticità d’Italia e/o in Italia (su questa distinzione terminologica
che può essere sostanziale v. Prosdocimi 1991 e 1995) – rispetto a celticità/gallicità in altre aree
c’è una peculiarità nella documentazione epigrafica – sia pure embrionale per l’epoca – e cioè la
creazione di un alfabeto specifico che Mommsen, nella memoria Die nordetruskischen
Alphabete (1853), identificava come di derivazione etrusca e che poi C. Pauli (1885) designava
come ‘alfabeto di Lugano’ che nota le iscrizioni che, in seguito, in varia gradualità saranno
identificate come celtiche o, all’estremo opposto, addirittura come non indeuropee (con ulteriori
molteplici posizioni fra i due estremi: Solinas 1992-3 e 1993-4 e (rivisto) 2006 c.s.).
Il ritrovamento dell’iscrizione di Prestino (Como) ha segnato una tappa fondamentale per
il riconoscimento di celticità del ‘leponzio’ distinto dalla celticità della gallicità esemplata
storiograficamente nelle iscrizioni di Briona (RIG E-1) e Todi (RIG *E-5) assegnate ai Galli in
Italia in relazione ad una lettura-interpretazione delle fonti storiche sul sacco di Roma da parte
di Brenno con i Senoni in una data circa quem al 390 a. Cr. (per sincronie avvenimentali delle
fonti si può scendere fino al 386 a. Cr.); a questo si associava la cronologia, sempre circa-quem
al ± 400 a. Cr., della fase La Tène nell’Italia settentrionale. Di conseguenza, quale premessa
all’inquadramento di qualsiasi celticità in Italia, c’era il discrimine della gallicità senone di
Brenno collegata alla presenza archeologica del La Tène cronologicamente corrispondente. Da
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questi presupposti conseguiva che, in Italia, quanto proveniva dalla documentazione epigrafica
aut era celtico-gallico (posteriore al ± 400 a. Cr.) aut non era celtico - e questa è sempre stata
una latenza immanente nell’interpretazione del ‘leponzio’ (sopra e Solinas 1992-3 e 1993-4,
2006 c.s.) -. Il presupposto della celticità in Italia era cronologico e non linguistico: si torna a
sottolineare questo caposaldo – errato tra metodo e fatti ma, all’epoca e in seguito, paradigma
imperante – perché l’iscrizione di Prestino (che ha dato motivo e basi più solide del passato per
una celtictà ‘non–gallica’) dal primo editore e commentatore (Tibiletti Bruno 1966) aveva avuto
una cronologia di III-II a. Cr., basata su niente ma accolta da Prosdocimi (1968) e Lejeune
(1971) con acrobazie, da parte di Prosdocimi per giustificare la fenomenologia alfabetica e una
celticità non gallica ma ‘para-gallica’; da parte di Lejeune per identificare tratti linguistici
distintivi in Italia tra una celticità gallica e una celticità non gallica posta sotto il nome
convenzionale di ‘leponzia’.
In seguito si è visto e dimostrato che la cronologia dell’iscrizione di Prestino (Como)
andava riportata almeno all’inizio di V a. Cr.: ciò comportava una inversione di prospettiva per
la celticità in Italia fondata sulle testimonianze di lingua, inversione di prospettiva che è stata
portatrice di conseguenze storiche nuove e fondamentali.
1.1. Alfabeti e cronologie dopo Prestino
L’iscrizione di Prestino presentava un alfabeto con un surplus di grafi rispetto al repertorio
che la vulgata attribuiva al leponzio; non solo, ma la quantità aveva fatto sottovalutare la qualità
dei grafi; a nella forma A, v nella forma F, compresenza di
(forma O) e t (forma +) per le
dentali, z nella forma
‘etrusca’. Se, e sottolineo il se, non vi fosse stata la datazione
dell’iscrizione al III-II a. Cr. dell’editore princeps, quello che si è riconosciuto in seguito quale
evidenza sarebbe stato evidenza già da allora: dal punto di vista ‘etrusco’ l’alfabeto è arcaico,
almeno di VII-VI a. Cr., e dal punto di vista leponzio, l’alfabeto si pone agli inizi della
tradizione (o delle tradizioni…) scrittoria locale, al VI a. Cr.. Oltre alle conseguenze per la storia
della scrittura leponzia e, con essa, del suo significato ideologico per notare il celtico (6), si
sarebbe posta la corretta cronologia dell’iscrizione di Prestino (e con essa della celticità in Italia)
con un ante quem all’inizio del V a. Cr.. Ma non fu così ed è bene ricordare ancora una volta
che la nuova prospettiva ha dovuto riconoscere una celticità linguistica in Italia ben anteriore al
+/- 500 a. Cr. (v. avanti), e ciò con le conseguenze storiche correlate.
Torniamo alle spiegazioni delle singolarità dell’alfabeto di Prestino.
1. Prosdocimi 1968 ipotizzava l’inserimento di una tradizione alfabetica proveniente dal
venetico, specificamente dall’alfabeto venetico nella variante di Padova. Ipotesi poco
plausibile, faute de mieux, ma con un fondo oggettivo secondo un diverso
inquadramento storico-cronologico sulle origini di inizio VI a. Cr. degli alfabeti di
matrice etrusca nel leponzio e nel venetico (appresso).
2. Lejeune 1971 spiegava il surplus secondo la sua dottrina delle lettere morte ‘resuscitate’
da alfabeti teorici. Anche se la dottrina delle ‘lettere morte’ va rivista (Prosdocimi 1990)
l’in nuce positivo è che vi sia stata una tradizione alfabetica di origine etrusca ma locale,
presumibilmente antica (ma Lejeune non esplicita questo punto centrale) e tale da essere
la matrice delle successive tradizioni alfabetiche.
3. Alla fine degli anni ‘70/inizio anni ’80 veniva maturando la corretta prospettiva di
inquadramento dell’iscrizione di Prestino su base paleografica (Prosdocimi) e su base
archeologica (De Marinis): una celticità con ante quem al V a. Cr. era stata prevista ma
non dimostrata cronologicamente per i termini di lingua, ma costituiva uno schock per
gli archeologi di ‘La Tène’ e, più ancora, per gli storici delle fonti sulla celticità in Italia
‘ante-Brenno’ - e ciò malgrado l’esplicito testo di Livio (V, 34-35) sull’arrivo di
Belloveso all’inizio del VI a. Cr.(: v. Prosdocimi 1985);
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4. All’inizio degli anni ’80 si era maturato anche un quadro generale per cui gli alfabeti
etruschi erano arrivati nel nord intorno al 600 a. Cr. (v. Prosdocimi 1990), anzi, sarebbe
più esatto dire: sono stati accolti quale esigenza culturale e sono stati (ri)creati quali
alfabeti locali secondo le singole aree etno-culturali. L’area di irradiazione alfabetica
etrusca più studiata è quella venetica (Lejeune, Prosdocimi) anche se ancora oggi riserva
sorprese documentali che portano ad inevitabili revisioni. L’area meno studiata è quella
del cosiddetto alfabeto retico, in sé e per quanto con particolarità specifiche vi afferisce,
come è il caso dell’alfabeto e/o alfabeti della Valcamonica preromana (e aree prossime
del bresciano). L’esplorazione dell’alfabeto leponzio ha fatto enormi progressi
soprattutto per quanto concerne le fasi e le varietà che in molti casi sembrano
prescindere dalle aree e dalle cronologie; in questo hanno offerto dati le legende
monetali (Marinetti, Prosdocimi, Solinas 2000) e i principi di base in cui inserire le
trasmissioni alfabetiche (Prosdocimi 1990, Solinas 2002b). Ci sono molti spunti ma resta
da comporre un, sia pur provvisorio, quadro generale, e ciò anche per la carenza di
interpretazione delle distribuzioni documentali, specialmente nella (apparente?) scarsità
o assenza epigrafica nella fase mediana, tra la fase antica (fino al IV a. Cr.) e la fase
recente (II-I a. Cr.). Dal punto di vista della tradizione e continuità della scrittura come
insegnamento con l’uso tardo di grafi e forme di grafi arcaici, si rientra nella tematica
della ‘scrittura come scuola e insegnamento’ (Prosdocimi 1990); dal punto di vista della
storia riflessa nella documentazione scrittoria quantitativamente (e in parte
qualitativamente) non lineare si pone il problema del perché della rarefazione se non
scomparsa (documentale) di iscrizioni per due secoli, tra il IV e il II a. Cr.
1.2. La celticità pre-gallica
Una celticità in Italia anteriore alla gallicità portata dai Senoni di Brenno per gli storici e
alla facies La Tène per gli archeologi, era già stata postulata per il leponzio su basi di lingua
(Prosdocimi, Lejeune) prima delle cronologie epigrafico-archeologiche. La ricettività nei
confronti del nuovo ‘linguistico’ e la coscienza della correlata necessità di revisioni hanno
caratterizzato l’atteggiamento degli archeologi, per tutti De Marinis da una prospettiva ‘italiana’,
‘cisalpina’, V. Kruta da una prospettiva ‘transalpina’.
Più resistenza è venuta dagli storici delle fonti e delle fonti delle fonti. Per alcuni la saga di
Belloveso e Segoveso in Livio (V, 34-35) che riportava ad una celticità-gallicità italiana in
sincronia con Tarquinio Prisco (cioè all’inizio di VI a. Cr.), era una invenzione storiografica
antica e la celticità linguistica portata da una iscrizione di ante inizio V a. Cr. sarebbe stata il
riflesso dell’inserimento di gruppuscoli celtici o infiltrazioni celtiche (o simili…). Non so che
senso storico-avvenimentale e/o strutturale abbiano affermazioni di questo tipo, ma ci si
domanda se una iscrizione monumentale come quella di Prestino, in sé e nel proprio contesto
archeologico (Prestino è, di fatto, Como…), possa rimandare a piccoli gruppi di ‘infiltrati’,
come tali marginalizzati: da chi? in quali termini socio-politici e, data la qualità del testo di
Prestino, in quali termini socio-culturali?
Per la celticità pre-gallica (o pre-La Tène) in Italia un riferimento d’obbligo è il Convegno
svoltosi a Como nel 1984 (> 1987) intitolato ‘2° Convegno Archeologico regionale. La
Lombardia tra protostoria e romanità’: di fatto, vi si presentava un bilancio della celticità in
Italia pre-La Tène. Dopo che in un di poco precedente convegno panceltico (Oxford 1983) la
celticità di/in Italia era stata marginalizzata, al Convegno di Como la celticità di/in Italia
assumeva un ruolo importante, a posteriori direi centrale, per un primo incontro-scontro fra le
diverse formae mentis disciplinari: storia, archeologia, linguistica; mancava la numismatica
optimo iure che, in seguito (a partire da un Convegno del 1989 (7)), sarebbe entrata come
elemento essenziale nella questione linguistica per le legende monetali..
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Nel Convegno di Como (1984 (> 1987) si poneva la questione di una celticità linguistica in
Italia ante ± 390 a. Cr. da ascrivere all’etichetta ‘leponzio’, distinto dall’etichetta ‘gallico’ (già
nei termini di Prosdocimi 1968 e Lejeune 1971). I fondamenti erano le attestazioni di lingua
anteriori al +/- 390 a. Cr. ma la focalizzazione era piuttosto sulla storia/storiografia; la questione
della diversità fra ‘leponzio-pregallico’ e ‘gallicità’ tout court era posta in nuce sub specie
storiografica; la questione di lingua quale varietà entro il celtico continentale – qui di Gallia e
d’Italia – era posta in nuce con accentuazione storiografica.
I
n un intervento dell’anno seguente, Prosdocimi (1985 > 1987) riprendeva e ampliava il
senso da attribuire alla celticità in Italia e cioè se si dovesse andare oltre l’ipotesi ‘invasionistica’
- per la quale, qualunque fosse l’ante quem, i Celti arrivano già ‘Celti’ anche in Italia - e, almeno
dal punto di vista della lingua, si potesse pensare che gli stessi diventano Celti anche in Italia (e
ciò senza eliminare completamente il modello ‘invasionista’, certo per i Senoni di Brenno di +/390, probabile e/o verosimile secondo Livio per gli altri Celti/Galli fin dall’inizio del VI a. Cr.).
Indicazioni, come si suggeriva allora tra le righe e tuttora si attende, dovrebbero venire
dall’archeologia materiale associata ad a priori storiografici probabilistici: è contemplabile la
possibilità di un espansionismo = farsi di lingua e quanto di culturale vi si riflette, quindi con un
farsi di celticità linguistica anche cisalpina così come deve essere avvenuto con il farsi della
celticità transalpina con uno sfondo cronologico alto quanto è ragionevole, in cui il La Tène di
+/- 400 a. Cr. è una fase finale e sanzionatrice per entrambe le aree? In questo si riprendeva la
questione del ligure tra ‘ligure epigrafico’ delle iscrizioni della Lunigiana, certamente celtico
per quello che il poco documentale assicura – e il ligure ‘onomastico’ della Sententia
Minuciorum e della Tabula di Veleia – sostanzialmente alla base della definizione di ‘leponzio’
da parte di Devoto (1962: v. Solinas 1992-3) e, al proposito, si elaborava anche la attribuzione
secondo i parametri linguistici tra “celticità, non celticità, anticelticità”.
Sulla maggior parte delle questioni poste allora si riflette ancora oggi e sembra che gli
incrementi documentari abbiano solo di poco modificato i termini della questione che si possono
ribadire nella necessità di completare una revisione in toto del quadro della celticità linguistica
in Italia e di ‘raccordare’ tale revisione con il quadro della celticità tout court all’interno
dell’indeuropeo occidentale.
2. LA DOCUMENTAZIONE DIRETTA
La documentazione che definisco “diretta” è quella che fa parte della cosiddetta epigrafia
leponzia (8) e che, come detto, ha avuto negli ultimi venticinque anni sia importanti incrementi
documentari sia determinanti revisioni di quanto era già posseduto.
Le novità assolute hanno portato nuovi dati linguistici e nuove attestazioni onomastiche, ma è
stata soprattutto la riconsiderazione di documentazione già nota che ha innescato un
meccanismo di revisione generale dell’intera questione della celticità linguistica in Italia. Inoltre
è stata tale revisione del noto che ha permesso il corretto inquadramento del nuovo assoluto.
Presenterò qui in modo sintetico le principali novità organizzandole in una tipologia che mi
sembra possa rendere conto anche del modo in cui dette novità hanno contribuito al generale
processo di revisione di cui si è detto. La sede e lo scopo di questo scritto mi suggeriscono di
non entrare né nei particolari editoriali (per i quali rimando ai luoghi specifici), né nella
complessità delle problematiche di volta in volta aperte o riaperte (e che tratto
approfonditamente in un volume di prossima pubblicazione: Solinas 2006 c.s.).
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2.1 Le revisioni del noto
2.1.1 L’iscrizione di Prestino e quanto vi è correlato
Come anticipato, a metà degli anni ’80 R. De Marinis sul fronte archeologico e A.
Prosdocimi su quello linguistico hanno mostrato la necessità di retrodatare dal II al V secolo a.
Cr. l’iscrizione di Prestino, testo fondamentale non solo per le sue caratteristiche, ma anche
perché è su di esso che M. Lejeune, pur ancora su una cronologia di II secolo, ha fondato la sua
dimostrazione della celticità del leponzio. Pur tralasciando qui i particolari, sottolineo che le
implicazioni di tale ricollocamento cronologico non si proiettano solo sul fronte linguistico ma,
con notevole rilevanza, anche su quello storico e, correlato o implicato in questo, su quello delle
problematiche che riguardano gli alfabeti e le modalità (nel senso di vie, modi, cronologie) di
trasmissione degli stessi: v. sopra.
Sul piano storico vanno poste solo delle domande o, meglio, degli spunti di riflessione:
anche senza il riferimento a Livio V 34-35, si è imposta la necessità di una qualificazione di
questa celticità linguistica (come qualità e come quantità) e si dovrà riflettere su come sono da
inquadrare storicamente (e non storiograficamente) i parlanti celtico che a Prestino, cioè Como,
al ± 500 a. Cr. pongono una dedica monumentale - si suppone per una realtà proporzionale alla
sua monumentalità – quale è l’iscrizione in oggetto; quindi, quali quantità e qualità di celticità
storica si deve vedere correlata alla celticità linguistica? a questo si aggiunge (ora) la trama di
una celticità di VI-V a. Cr. che va da Castelletto Ticino in contesto proprio a Celti in contesto
veneto alla stessa (o di poco posteriore) cronologia (Padova, Oderzo: appresso); e mi limito
alla Transpadana. Emerge dunque la richiesta di interpretazione storica di cui si diceva, come
confronto da un lato con le fonti storiche, dall’altro con i dati archeologici, aspetti questi in
questo convegno ampiamente trattati.
2.1.2 Revisione dei fondi museali
Dati importanti sono venuti anche, più o meno a partire dagli stessi anni ’80, dalle
revisioni di numerosi fondi museali dell’area padana (es. Como, Milano, Bergamo), revisioni
che hanno condotto al recupero e al riposizionamento cronologico di molti materiali iscritti che
in precedenza erano, in alcuni casi, privi di datazione, in altri, attribuiti a epoca più tarda.
Alcune di queste iscrizioni hanno avuto notevole importanza per specifici aspetti linguistici,
come ad esempio plioiso e gli altri “frammenti –oiso” dalla zona di Como da G. Colonna
(1988) valorizzati come conferma incrociata al genitivo in –oiso individuato a partire
dall’iscrizione di Castelletto Ticino (sulla quale torneremo avanti); le iscrizioni in oggetto,
tuttavia, contano in generale come testimonianze di una presenza linguistica e culturale (uso
alfabetico) sul territorio in epoca precedente al IV secolo, e contano ancora di più se messe nella
giusta relazione con monumenti quali l’iscrizione di Prestino.
Come esempi di documenti di questo genere posso menzionare gran parte dei materiali
fittili da Rondineto (Como) che si possono ascrivere al V secolo a. Cr. , oppure il graffito su un
bicchiere a doppio tronco di cono da Civiglio (Como) (alios: PID 284; Solinas 1994, p. 342, n.
60; custodito a Como, Museo Civico Archeologico P. Giovio, E 3186) datato da De Marinis al
Golasecca III A1. O ancora il graffito su una patera da Ossuccio (Como) (PID 279; Solinas
1994, p. 343, n. 64; custodito a Como, Museo Civico Archeologico P. Giovio, E 17965) datata
al Golasecca III A2 da Gambari-Colonna (1988, pp. 163, n. 11).
2.1.3 Criteri tipologico-paleografici per le cronologie
©Pré-actes du colloqui du Collège de France, juillet 2006
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La riflessione sui fatti alfabetici stimolata dall’iscrizione di Prestino (e Castelletto
Ticino) ha permesso di ridatare altre iscrizioni prive di contesto archeologico di riferimento:
R. De Marinis (1990-1991) ha elaborato i criteri di datazione fondati sulla tipologia del
monumento e sulle caratteristiche paleografiche dell’iscrizione che hanno fornito almeno un
arco cronologico di riferimento, e, per venire alle cronologie che ci interessano, hanno permesso
ad esempio di assegnare all’inizio del V secolo l’iscrizione di Vergiate (PID 300; Solinas 1994,
p. 371, n° 119 con l’importante attestazione di due forme verbali) e sempre al V quella da S.
Fermo – vicinanze di Como - (PID 299bis; Solinas 1994 p. 363, n° 95). Le cronologie
paleografiche hanno permesso anche la collocazione cronologica di nuovi rinvenimenti fuori
contesto quali ad esempio le iscrizioni di Mezzovico - vicinanze di Lugano – (Solinas 1994, p.
327, n° 20; Motta 2000, p. 310 sgg.) e di Bioggio - vicinanze di Locarno – (Solinas 2002).
2.2. Le novità documentali.
2.2.1 L’iscrizione di Castelletto Ticino.
Dopo la messa a punto degli anni ‘80 vi sono state varie novità documentali, tra queste di
assoluto rilievo è stata l'iscrizione di Castelletto Ticino (prima metà VI secolo a. Cr.) (9) che,
oltre all’ulteriore conferma di una celticità linguistica in Italia anteriore al IV secolo a. Cr. (10),
ha portato:
o sul fronte grafico-alfabetico dati e spunti di riflessione nuovi per l’intero
processo di alfabetizzazione della padania;
o sul fronte più specificamente linguistico una rivisitazione (Colonna) che ha
accertato l'esistenza in leponzio di un genitivo in -oiso per i temi in -o-; ciò
importa una reazione a catena, non solo per il mondo celtico, ma per lo stesso
genitivo indeuropeo e questo riporta al tema generale da porre nell'ordine
(crono)logico: non ‘il celtico come fatto entro la “indeuropeicità occidentale",
bensì la indeuropeicità occidentale entro cui il celtico o, meglio, i celtici come
farsi'.
2.2.2. Le altre novità documentali
L'eccezionalità dell’iscrizione di Castelletto Ticino non deve mettere in ombra altro di
meno ‘appariscente’ perché non così 'concentrato' e evidente ma comunque significativo: mi
soffermo qui su alcuni nuovi documenti che hanno avuto, su fronti diversi, la capacità di
innescare o riaprire questioni importanti per il disegno della celticità italiana.
All’inizio degli anni ’90 R. De Marinis e F. Motta (De Marinis, Motta 1990-1991) hanno
pubblicato un’iscrizione su pietra proveniente da Mezzovico (Canton Ticino), dallo stesso De
Marinis assegnata al V/inizio IV sec. a. Cr.. Il testo rientra nel novero abbastanza ampio delle
cosiddette ‘iscrizioni pala’ (pala seguito dal dativo del dedicatario (11)), ma presenta la
caratteristica di due forme onomastiche di cui la prima termina in -i (kuas’oni) e la seconda in –
ui (terialui): come evidenziato da Motta, pare doversi intendere una formula onomastica
bimembre nella quale la terminazione in –i, al posto di –ei, per il dativo di un tema in -ō(n) > -u
trova riscontro nel corpus leponzio; nell’immediatezza della pubblicazione del testo (Solinas
1997) avevo avanzato un’altra ipotesi interpretativa e cioè che la terminazione in –i fosse un
genitivo di tema in –o- e che lo schema sintattico fosse allora quello del genitivo del curatore
seguito da pala e il dativo del dedicatario: a oggi ritengo che il fatto che la terminazione ricorra
sempre e solo in finale di temi in nasale (compreso nelle nuove iscrizioni da Bioggio di cui si
diceva sopra) mi imponga di ripensare quanto avevo sostenuto.
©Pré-actes du colloqui du Collège de France, juillet 2006
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Una serie di iscrizioni graffite sui fondi frammentari di quattro (12) ciotole rinvenuti
nella zona di Como (nei pressi del luogo in cui fu ritrovata l’iscrizione di Prestino) datati
archeologicamente alla prima metà del V sec. a. Cr. (13), documenta un antroponimo
graficizzato come sekezos . E’ naturale l’interrogativo sul rapporto della nuova forma con quella
della legenda monetale seceθu che compare sulla moneta da cinque dracme d’argento databile
alla fine del V/inizio IV sec. a. Cr. (di fronte ad una varietà alfabetica impiegata che invece ha
caratteristiche di almeno VI secolo) (14): di questo problema mi sono occupata altrove (Solinas
2006) ma sinteticamente ne riprendo i termini.
Il rapporto della nuova forma con quella della legenda monetale andrà affrontato per gli aspetti
fonetici e grafici da un lato, e per quelli morfologici dall’altro; tali aspetti sono, come è
naturale, correlati ma per chiarezza vanno prima considerati distintamente.
Si è ipotizzato che l’emissione monetale sia attribuibile a Como (15); la sua importanza è
stata sottolineata per più ragioni, dalla cronologia 'alfabetica' (quindi con implicazioni di
cronologia assoluta) al contenuto fonetico della notazione alfabetica, fino al fattore ‘lingua’,
come lessico e come morfologia. L’antroponimo graficizzato sekezos, messo in rapporto con la
legenda monetale, ha fatto riprendere la tesi che la finale in -u negli antroponimi non segni un
nominativo ma un genitivo di forme quali, appunto, sekezos (16) . Di qui la necessità di
approfondire.
sekezos è per evidenza un nominativo; il rapporto con seχeθu della moneta sembra pure una
evidenza, ma non è immediata come appare. Per varie ragioni, le fasi della scrittura leponzia
come cronologia lineare a partire dall'adattamento da alfabeto-alfabeti etruschi sono state
oggetto di diverse, e talvolta fallaci, interpretazioni (v. sopra § 1.1); a tutt’oggi, in molti casi,
si continua a ragionare nel presupposto della trafila lineare di un solo alfabeto, quindi si
argomenta in base ad una sola presunta tradizione scrittoria lineare. Ma le trafile scrittorie non
sono lineari perché non sono dovute a trasmissione di UNO, e un SOLO, alfabeto ma a una
scuola e/o scuole di scrittura in cui convivono varietà alfabetiche, sia quali forme, sia quali
regole d’uso (Lejeune 1971 e Prosdocimi 1990) e, per quanto concerne l'alfabeto leponzio,
questo dà ragione della fenomenologia per cui la riduzione dei segni non è lineare né uniforme.
Ciò che interessa qui, in particolare, è che la presenza di c rispetto a k, non è casuale ma nota un
[g] fone(ma)tico, mentre non è vero l’inverso come ha ipotizzato G. Colonna per cosioiso
(Colonna 1988, p. 000); per rendere evidente: uvamokozis < *upamo-ghosti- di Prestino
rappresenta una tradizione grafica che usa la grafia k anche per [g] (qui da *gh etimologico)
mentre cosioiso < *ghostio- e altre grafie con c (17) rappresentano una tradizione o tradizioni
grafiche che usano c per notare [g]. La corrispondenza tra se e u della moneta e k delle
“iscrizioni sekezos” conferma quanto già posto (sopra) e conferma anche che k, al pari di c,
nota [g] fone(ma)tico del celtico (qui non importa se da *gh o da *g ‘etimologici’). Del tutto
diverso è invece il discorso per l’eventuale corrispondenza tra θ di seceθu e z di sekezos: qui
non c’è equipollenza per tradizioni alfabetiche diverse ma c’è alternativa (aut…aut…) come
indica l’iscrizione di Prestino ove z e θ coesistono per indicare foni diversi: z di uvamokozis per
indicare il risultato fonetico del nesso –st- la cui graficizzazione ha sempre posto problemi alle
grafie notanti celtico (18); di contro θ rappresenta una occlusiva, nel caso [t] distinta da [d] che,
nell’alfabeto di Prestino, è notato da t come indica chiaramente tetu per [dedu] < *dedō (19).
Qui, in un sistema 'conservatore' e sofisticato, è già in atto la riduzione al solo grafo k della
opposizione fonologica /k/ - /g/ in -kozis come [gotsis]: su questo punto non vi è più solo la
probabilità fondata su di una buona etimologia (20), ma la conferma da due fatti congiunti: la
presenza di continuazioni di *ghosti- nel celtico d'Italia e la corrispondenza di seχe- della
moneta con seke- delle iscrizioni in oggetto). In una o più tradizioni scrittorie del leponzio k
accanto a χ indica che k (grafo) può fungere anche per [g], s (grafo) può fungere anche per [t s];
ma, di massima, non è vero l'inverso: χ nota [g] e non [k] così z nota [t s] ma non [s] o [t].
Tornando alla associazione tra le grafie dell’iscrizione di Prestino, della moneta seχeθu e delle
‘iscrizioni sekezos’, ciò ha una sola conseguenza: seχe- monetale e seke- dell’iscrizione
©Pré-actes du colloqui du Collège de France, juillet 2006
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vascolare possono essere e probabilmente sono (anche per etimologia verosimile) due notazioni
grafiche di una sola realtà fonetica sege-, ma θ di seχeθu e z di segezos rispondono a due realtà
fonetiche diverse, rispettivamente [t] per θ e [t s] per z. Ne consegue che sekez- su fittile e
seχeθ- sulle monete hanno in comune solo la base [sege] ma non la morfonologia:
prescindendo qui dalla vocale ragionevolmente attribuibile alla finale, seχeθ - ha morfonologia
[-et(V)-] mentre sekez- ha morfonologia [-est(V)-]. I suffissi -stV- hanno in celtico ‘eine sehr
grosse Rolle’ (Pedersen 1909-1913, II p. 19 sgg § 366); tuttavia non è su questo aspetto
giustificativo, fondato su quanto si conosceva quale corpus e sulle funzioni assunte nel celtico
insulare alla base del Pedersen, che si punta qui, né sulle prospettive che una nuova
documentazione può aprire per rivedere gli aspetti strutturali della morfologia in sé e in rapporto
alle formazioni in -etV-/-estV- : di ciò si tratta altrove (Solinas 2006). In questa sede è
sufficiente un breve richiamo a quanto già noto ma da rivedere ma rimane che celtico
(lepontico) seχeθ- [seget-] < *seghet- e sekez- [segets] <*seg(h)est- entrano a pieno titolo nel
dossier su -estV-/-etV- non solo nel caso specifico ma, più in generale, nella derivazione
morfologica tra verbo e nome.
Dal quadro predetto risulta che seχeθu e sekezos appartengono allo stesso ambiente
culturale e linguistico, ma risulta altresì che sono due forme onomastiche con la stessa base ma
che sono diverse per morfologia derivazionale rappresentata dai grafi θ [t] < [t] vs. z [ts] <
[-st-]; quindi non consegue che –os e –u siano segnacasi diversi di uno stesso paradigma: i grafi
-os [-os] < [-os] e -u [-u] < [-ō] a priori sono entrambi al nominativo, il primo da tema in -o-, il
secondo da tema in *-ō(n).
Altrove (Solinas 2006), indipendentemente da seχeθu, si è mostrato che leponzio -u è
nominativo in -ō da tema in *–ō(n) e non un genitivo da una morfologia di ablativo in -ō <
[-ōd/t]. Rivedendo la questione angolata da seχeθu , emerge che la morfologia di -u come
nominativo da [-ō] non solo è indipendente da -u di seχeθu, ma che -u di seχeθu è un ulteriore
argomento a conferma di -u come nominativo in [-ō] in quanto si può (di)mostrare
indipendentemente che seχeθu, come legenda monetale, a priori deve essere un nominativo.
Tornando ai rinvenimenti degli ultimi decenni pertinenti alla fase cronologica che qui
interessa menziono in conclusione i materiali iscritti che provengono da Bergamo (e
precisamente dai livelli golasecchiani dello scavo della Soprintendenza Archeologica della
Lombardia presso la biblioteca A. Mai (Poggiani Keller 1988-89) e dal suo territorio (cioè dagli
scavi condotti dal 1983 dalla Sopr. Arch. della Lombardia in località Castello a Parre e dagli
scavi a Capriate San Gervasio (Poggiani Keller 1990 con riferimenti precedenti) e che
sicuramente sono assegnabili su base archeologica al V sec. a. Cr. Non ho ancora avuto
occasione di vedere personalmente questi documenti che non si possono valutare nell’edizione
epigrafica al momento disponibile perché assolutamente inaffidabile, tuttavia colpisce e lo
segnalo che, da Capriate San Gervasio proviene un frammento (ora conservato a Bergamo
presso il deposito della Sopr. Arch. della Lombardia: Poggiani Keller 1990 per gli aspetti
archeologici; Morandi 2004, n° 223 unica edizione epigrafica attualmente esistente ma, come
detto, inaffidabile) databile al Golasecca III A che potrebbe portare un testo significativo:
l’iscrizione – che considero dal facsimile riportato da Morandi (inaccettabile la sua lettura) -,
pare chiudersi con –i e potrebbe essere la più antica attestazione di genitivo in –i in questo
celtico.
2.2.3. Il caso di Sesto Calende
A parte rimane l’iscrizione da Sesto Calende. Come evidenziato a suo tempo (1988) da
G. Colonna, si tratta probabilmente del testo più antico della zona padana (De Marinis ha datato
il supporto al Golasecca I C cioè tardo VII secolo: De Marinis 1986, p. 60): si è discusso e si
©Pré-actes du colloqui du Collège de France, juillet 2006
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discute sull’attribuzione linguistica e alfabetica del testo fra etrusco (per lingua e alfabeto:
Colonna: [----]i un ana a oppure [----]iun ana a comunque il nominativo di una formula
onomastica maschile, eventualmente preceduto da mi: Colonna 1988) e celtico (la prima parte
sarebbe da inserire nella serie del tipo Iatu- Iantu-, in generale considerare l’iscrizione secondo
paramentri linguistici alternativi all’etrusco e cioè in termini celtici o, eventualmente
“paraceltici”: Prosdocimi 1990, p. 298: 1991, pp. 148 sgg.). Come è stato sottolineato da F.
Motta (2002, p. 304) la sostanza della questione non è tanto nell’attribuzione linguistica di
un’iscrizione costituita probabilmente di una sola designazione onomastica, ma piuttosto nelle
relazioni tra etruschi e celti golasecchiani quali precondizione necessaria alla trasmissione della
scrittura o anche solo di forme onomastiche.
Sempre da Sesto Calende (località Presualdo) proviene anche un altro documento che
nello stesso modo è oggetto di discussione: sul collo di un bicchiere globulare databile
archeologicamente intorno alla prima metà del VI sec. a. C. è graffita un’iscrizione che il
primo editore (Rocca 1999) ha definito ‘una pseudo-iscrizione’. In seguito, da parte di altri, è
stata evidenziata la possibilità di individuare nella sequenza la forma zi u, etrusco per ‘cosa
scritta’: il problema dell’interpretazione generale del testo rimane aperto ma certamente ci si
trova di fronte ad una delle più antiche attestazioni di scrittura in area padana e, come per il caso
dell’altra iscrizione da Sesto Calende, l’importanza è soprattutto relativa al disegno dei rapporti
fra etruschi e celti a queste cronologie.
Questa prospettiva generale è a mio avviso bene concretizzata da alcune osservazioni
sull’iscrizione da Sesto Calende che pongo qui schematicamente e che andranno riprese in modo
più circostanziato in altra sede.
La tomba di Sesto Calende è ascritta alla fine del VII a. Cr. e, come detto, l’iscrizione
che vi pertiene è in alfabeto etrusco e non (ancora) in alfabeto locale (‘leponzio’). Il
riconoscimento archeologico della ‘celticità’ della tomba ha preceduto i tentativi di attribuzione
linguistica dell’iscrizione. Qui partiamo dalla rivendicazione di non etruschità dell’iscrizione e
della possibilità/verosimiglianza di celticità linguistica quali forme di lingua (Prosdocimi 1991 §
2 pp. 148-9; cfr. anche Prosdocimi 1990), e ciò indipendentemente dal presupposto ‘celtico’
della realtà e di ciò che il contesto archeologico significa per cultura e ideologia celtica.
Riprendiamo dalla verosimile celticità del segmento iun a e proseguiamo con il segmento –
na a.
In un presupposto di non etruschità e di possibile e/o verisimile celticità – ma anche di
una indeuropeicità non specificabile – una sequenza di quattro sillabe, con un apriori di formula
onomastica, può essere una formula monomia: in questo caso dovrebbe trattarsi di un nome
composto quale apriori probabilistico (in assenza di evidenza contraria quale una sequenza di
morfemi conglutinati che qui non appare). Per logica e probabilità le possibilità sono dunque:
1. una formula onomastica monomia, composto a due membri;
2. una formula onomastica binomia a due nomi, nome individuale e appositivo;
3. astrattamente possibile la combinazione dei due dove un nome a due elementi, in
contesto culturale diverso e/o mutato, è decodificabile quale formula binomia.
Quest’ultimo punto che non è in alternativa ma che può coesistere con gli altri in
determinate condizioni storiche, presumibilmente di contatto-contrasto-fusione tra
diverse culture, è esemplificato in ciò che accade in una delle iscrizioni dell’elmo di
Negau (dubni banuabi (21)).
La sequenza ?]iun ana a è verosimilmente completa, nella parte che è qui pertinente,
ma anche, in assoluto: una lacuna iniziale è materialmente possibile ma, esclusa l’ipotesi di
lingua ‘etrusca’ e posta quindi una morfologia non-etrusca in –a, cioè un nominativo, non c’è
motivo perché prima ci fosse un altro termine se non un ‘me fecit’ (ovviamente nella variante
©Pré-actes du colloqui du Collège de France, juillet 2006
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della lingua locale). Non accertabile una firma d’autore per un tipo ‘med fecit’, escluso un
dativo di dedica, ?]iun ana a deve essere il nome del defunto o, almeno, il nome del
possessore della coppa, per cui dovrebbe equivalere al nome del defunto cui è dedicato
l’apparato sepolcrale (ricordo di notevole rilievo socio-culturale); a ciò concorre il fatto del
‘bene/prestigio culturale’ di una iscrizione di (fine) VII a. Cr. in un’area senza scrittura propria
(su ciò anche appresso) e il ricorso a una cultura scrittoria egemone, l’etrusca. Se anche
l’iscrizione non portasse il nome del sepolto, resterebbero sempre la sua ‘preziosità’ culturale, la
verosimiglianza che l’iscrizione sia completa malgrado la lacuna iniziale e l’evidenza che si
tratti di una formula onomastica, presumibilmente celtica.
La questione è se sia una formula onomastica monomia, allora a) iun ana a o una
formula onomastica binomia, allora b) iun a na a. In pro della formula monomia è la
frequenza dei composti nell’onomastica celtica ma non lo è il pregiudizio che l’onomastica
bi/polimembre sia un segno di rango sociale: può esserlo dove ci sono le condizioni perché lo
sia e, soprattutto, se si considera la Namengebung germanica e quella dei ‘reges’ celto-gallici
nelle legende monetali sembra vero l’inverso o, almeno, vi è un equilibrio statistico. Contro un
composto (sempre probabilisticamente) c’è la morfologia non tanto del primo (presunto)
membro (per tutti v. il tipo cata-, Schmidt 1957, pp. 166-7: ma questo rispetto a catu- e altri sarà
da rivedere) quanto la –a del secondo (presunto) membro che, come marca morfologica del
composto, è rarissimo se non assente. Sarà da rivedere la ratio di detta distribuzione tra basi
lessicali e onomastica composta e non composta con possibile rovesciamento della vulgata
sull’onomastica mono- e poli-memebre in relazione alle basi lessicali (di ciò altrove); per quello
che è pertinente al discorso qui affrontato è il factum che –a come morfema finale di onomastica
polimembre è decisamente anomalo.
Pertanto è da considerare l’ipotesi di una formula onomastica binomia iun a na a . Per
quest’ipotesi si pongono due questioni: la morfologia delle forme in –a; la formula binomia che
non è celtica. In questa ipotesi la morfologia in –a riguarderebbe sia il primo che il secondo
elemento e qui si impone un’ulteriore distinzione: -a quale formante onomastica in assoluto e –a
quale formante onomastica di appositivo, cioè presumibile derivativo (per una certa vulgata
patronimico). La spiegazione/giustificazione della matrice morfologica può o deve essere
unitaria, ma non deve esserlo la funzionalità identificabile in una formula binomia o, da altra
prospettiva, una unitarietà morfologica nella base di lingua ammette diversa funzionalità nella
formula binomia. Altrimenti detto si insiste sulla distinzione tra una funzione morfologica nella
lingua per formare un nome individuale da una base di lessico e una funzionalità
nell’onomastica per fornire il secondo elemento in una formula onomastica binomia. La
distinzione appare sottile ma non è speciosa bensì radicale perché, in un caso, il rapporto si ha
tra lingua (con i suoi mezzi morfologici per portare lessico a onomastica) e onomastica (quindi
‘lingua > onomastica’); nell’altro caso il rapporto si ha tra onomastica e onomastica nel
procedimento con il quale una formula onomastica monomia si trasforma in una formula
binomia dove l’elemento marcato è il secondo della formula con la morfologia che lo segnala
come tale.
Si parte dalla formula binomia nel formulario delle iscrizioni padane a partire dalla
creazione degli alfabeti ‘locali’ (‘nordetruschi’), e questo per rendere indipendente il
riconoscimento di iun a na a quale formula bimembre. La ricezione /creazione di alfabeti
‘nordetruschi’ all’inizio di VI a. Cr. (Prosdocimi 1990 e 2005 c. s.) è concomitante, anzi è
intrinseca alla ricezione del contenuto formulare: nel caso (oltre alle iscrizioni parlanti nel
venetico) si riceve quale contenuto una formula onomastica binomia che, nella fonte etrusca,
risponde a una realtà socio-linguistica, la gens (Prosdocimi 1991), mentre nel nord padano non
vi è ‘gens’ e, pertanto, la formula binomia viene ‘inventata’ con i termini a disposizione, tra
questi il patronimico che è un modulo ovvio di fornire una formula binomia ma non è il solo. Il
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patronimico in funzione di fornire il secondo elemento di una formula onomastica per essere
binomia è una forma ma non una sostanza istituzionale cioè non corrisponde a un patronimicogentilizio: su questa errata identità si è fondato il presupposto ‘patronimico’, basato
essenzialmente sul venetico, ma (poi) esteso ad altre formule del Nord. Il presupposto
‘patronimico’ non è errato nella qualificazione della forma derivativa e della realtà di base, ma è
errato nella funzionalità identificata nella formula binomia esemplata sul modello della formula
binomia dell’etrusco. La pertinenza primaria del secondo elemento di formula onomastica
binomia è di essere secondo elemento per formare una formula binomia: appare come una
tautologia di lingua ma è un punto sostanziale perché il patronimico, con morfologia ‘normale’
(-io- in venetico) non è una esclusività ma una opzionalità preferenziale con la eventualità di
altre opzioni, tra cui quella di un secondo elemento non patronimico ma del tipo di quello che, in
termini ‘romani’ (impropri perché approssimativi per una diversità nel sistema strutturale della
formula onomastica) si qualifica di ‘cognomen’ ma che, guarda caso, presenta una morfonologia
particolare tra cui –a in alternanza con –ō(n) (: su questo altrove: cfr. Prosdocimi 1991 e Solinas
2006).
Per la formula binomia nel leponzio è stato da tempo identificato il morfema –alo-,
variamente spiegato (per le varie analisi Solinas 1992-3 e 1993-4). E’ stato mostrato come sia da
escludere una tematizzazione in –o- di un genitivo etrusco/retico in –al- ed insieme è stata
prospettata la probabilità che –alo- sia la morfologia derivazionale dei nomi in –ō(n) tramite –a
allomorfo di –ō(n) (Prosdocimi 1991 § 4.3.4). Si deve sottolineare che l’isofunzionalità di –ō(n)
e –a nella derivazione deve avere come causa la isofunzionalità di –ō(n) e –a come basi
onomastiche autonome: la isofunzionalità morfologica di –ō(n) e –a quali derivatori (Bader
1988 e 1991) e come tali funzionalizzati nell’onomastica, precede la loro ulteriore
funzionalizzazione: la premessa logica è che sono derivatori da basi lessicali per formare
onomastica e la loro diversità nei singoli sistemi onomastici dipende dalla diversa
funzionalizzazione dovuta alle evoluzioni dei sistemi onomastici nelle storie diverse, tra
morfonologia di lingua e istituzionalità dei sistemi, storicamente singoli per definizione, anche
se potenzialmente paralleli per le comuni premesse morfostrutturali.
Indipendentemente dalla isofunzionalità di –ō(n) e –a nel leponzio secondo quanto detto
sopra, il morfema –alo- del leponzio presuppone una base in -a# di cui –lo- è un morfema
derivazionale (Prosdocimi 1991). La segmentazione che riconosce un morfema -alo-, implica
una base in -a# + -lo- (e ciò indipendentemente dall’ipotesi di isomorfia di –ō(n) con allomorfia
di –a- in derivazione con il morfema –lo-). In ogni caso è assicurato un morfema -ā# per basi
onomastiche e non necessariamente di femminile – così come non è di femminile nei cognomina
quali Tucca, Sulla, etc. o nei nomi individuali quali C/Kata. Pertanto –alo- del leponzio
presuppone a fortiori nomi di onomastica di base in -ā#. Se questa precedesse e non fosse
testimoniata non ha importanza perché la base di onomastica in -ā# è una implicazione logica e
fattuale dai derivati in –alo-, dove, ripetiamo, -a# non è di femminile ma è ambiguo o rientra
nella categoria di maschile (e ciò senza entrare nella vexata quaestio della antichità o seriorità
del femminile).
Riprendiamo i punti messi in luce:
1. la improbabilità di un nome individuale composto iunqanaca;
2. la verisimiglianza di nomi individuali maschili in –a;
3. (1+2) la interpretazione della sequenza quale formula binomia iunqa naca;
4. la formula binomia quale struttura onomastica che irradia (almeno nel nord) dall’etrusco;
5. la formula binomia in etrusco che risponde ad una struttura sociale basata sulla gens, e
dove non ci sia gens originaria, si crea come forma, quello che Rix (1963) ha definito
‘Vornamengentile’, cioè un nome in funzione di gentilizio senza morfema proprio di
gentilizio (etrusco –na corrispondente a romano –io-).
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6. Il nord non ha struttura socio-giuridica a gens ma nel subire/accogliere il modulo
culturale etrusco riconosce quale status symbol la formula onomastica binomia che deve
creare con i mezzi propri in combinazione tra lingua e realtà sociale quindi:
7. a) usa un derivativo con precisa funzione di patronimico (-io- del venetico); b) usa un
derivativo senza funzione specifica originaria ma potenzialmente indicante un
patronimico (-lo- del leponzio); c) usa un altro nome individuale che dà semplicemente il
secondo termine per formare una formula binomia – tipo venetico (dativo) puponei
rakoi (Pa 1) – e ciò secondo il modello etrusco dei Vornamengentile – oppure dà al
secondo elemento una marca formale non patronimica ma comunque marcata; è il tipo in
–a di naca e, probabilmente, di (dativo) Bellenei in *Pa 25 e in Toupeio < *-ō(n) in Pa….
nella formula onomastica Hostihavos Toupeio.
Conclusione parziale: na a ha le motivazioni per essere il secondo elemento di una
formula onomastica binomia creata per imitazione del modello egemone etrusco; sul modello
egemone etrusco, oltre ai presupposti storico-archeologici (per tutti Colonna 1988), non vi sono
dubbi: l’alfabeto in uso è etrusco ma questo è un effetto dello scrivere una iscrizione con il
proprio nome, fatto che proviene da una cultura ‘scrittoria’ che a fortiori è quella etrusca.
Tuttavia, l’evidenza per la formula binomia come dovuta a modello etrusco è insufficiente se
non si sottolinea la solidarietà culturale della fenomenologia: la scrittura è una ‘esigenza’
culturale etrusca e la formula binomia le è correlata quale esigenza socio-culturale etrusca:
l’aggiunta di ‘socio’ non è casuale perché l’uso della scritta privilegia il modello culturale
mentre la creazione in loco della formula binomia indica l’ideologia dell’Etruria quale modello
sociologico: un personaggio di alto lignaggio (‘principe’?) quale si presenta il guerriero della
tomba di Sesto Calende deve essere significato nella scritta secondo il modello che dà, insieme,
scrittura e contenuto della scrittura (‘formulario’). I due dati scrittura etrusca come fatto e
formula binomia come possibilità/probabilità sono solidali e il fatto della scrittura, cioè esigenza
culturale di scrittura, trasformano la possibilità/probabilità della formula binomia in una
altissima probabilità, prossima alla certezza. Se, come pare evidente, il quadro prospettato dal
complesso di Sesto Calende è quale si è detto, le conseguenze storico-culturali sono
fondamentali per la cronologia di quanto vi è associato, in particolare per la cronologia storicoculturale della creazione dell’alfabeto leponzio su altre basi posta all’inizio del VI a. Cr.
(Colonna 1988; Prosdocimi 1990).
Premettiamo che il modus di argomentare è talmente ovvio che pare semplicistico ma che,
almeno per noi, non lo è:
1. alla fine di VII a. Cr. per la tomba di Sesto Calende c’è una ‘richiesta’ socio-culturale di
iscrizione funeraria per l’egemonia culturale etrusca. La grafia è etrusca e la formula
onomastica, in quanto binomia, è un calco della formula binomia etrusca (nei termini
delineati sopra).
2. la creazione della scrittura leponzia da matrice etrusca ma con caratteristiche proprie
(come è il caso della scrittura venetica), va posta all’inizio del VI a. Cr.
3. da 1+2 consegue una ‘forbice’ di cronologia storico-culturale che combina la
fenomenologia:
a) alla fine del VII a. Cr. la realtà locale richiede la scrittura e quanto vi è contenuto
(formulario) ed entrambi sono etruschi: la scrittura in modo totale, il contenuto
(formula binomia) reso in termini locali;
b) all’inizio del VI a. Cr. la scrittura è ‘creata’ in termini locali e, correlatamente, la
formula onomastica (sia pure in varietà da rivedere);
c) (a+b) nel giro di una o due generazioni (fine VII – inizio VI a. Cr.) la ricezione
passiva (a) si è trasformata in una creazione attiva (b). Questo è l’inizio
dell’autocoscienza ‘etnica’ legata alla scrittura per i ‘Leponzi’, quali primi celti in
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Italia quale cronologia linguisticamente documentale ma non quale cronologia
storico-archeologica.
3. LE ATTESTAZIONI INDIRETTE
E’ probabilmente superfluo esplicitare che le attestazioni ‘indirette’ di celticità sono
rappresentate da onomastica celtica in epigrafie non celtiche, glosse di autori antichi,
toponomastica, forme di origine celtica in latino e nell’italiano e nei suoi dialetti. Le molte
forme di celticità “indirette” recuperate hanno statuti vari per il rapporto con il contesto culturale
in cui sono inserite: la significatività è diversa per la storicità di cui tali presenze sono indice
(quelle epigrafiche sono pressoché esclusivamente attestazioni onomastiche) e questa dipende
dallo status sociale e politico che vi pertiene. Celticità linguistica indiretta anteriore al IV secolo
dalle fonti greche e latine non è riscontrabile, mentre è significativo e da riconsiderare nella
prospettiva di un celtico come FARSI (Prosodicmi 1991 e 1995) il caso della toponomastica
come quella portata dalla tavola di Polcevera (Sententia Minuciorum) che, alla fine del II a. Cr.
potrebbe continuare uno status di almeno VII/VI. Anche focalizzando l’attenzione su quanto
proviene dall’epigrafia in quanto più facilmente ascrivibile ad una certa fase cronologica, la
casistica di una celticità indiretta è relativamente ampia e va dal venetico con tivalei bellenei
della Padova di V secolo (22), a sekene.i. sempre di V da Bagnolo S. Vito (MN), all’iscrizione
A dell’elmo di Negau, al sudpiceno, pur di fine III a. C., ulugerna o uluverna, all’etrusco di V
secolo da Genova mi nemeties’ (De Simone 1980, p. 198 sgg.), ai non definitivamente
dimostrati katakina e verkena dell’Orvieto di VII sec.: per le attestazioni indirette precedenti al
IV secolo si pone il problema del rapporto di questa celticità ‘altra’ con il cosiddetto ‘gallico’
(post IV sec.) ma anche con lo stesso ‘leponzio’.
La nuova dimensione cronologica della celticità ha richiesto un suo inserimento nel
quadro storico generale, e cioè di essere messa in relazione con le diverse arealità culturali e con
i relativi status sociologici della presenza celtica nelle aree in cui ci sono le attestazioni. Sembra
che in molti casi questo aspetto sia stato sottovalutato rispetto ad altri (23): un celta di VI/V
secolo a. Cr. in area veneta ha una significatività diversa da un celta di VI secolo a. Cr. in area
etrusca e questo perché diverso è lo status sociale e politico che pertiene a queste presenze quale
premessa alla definizione del tipo di presenza linguistica sottostante alla (presunta)
identificazione onomastica.
Queste puntualizzazioni vogliono richiamare ad una prudenza non sempre usata di fronte
ad attestazioni di lingua, tra onomastica e linguistica propria: tali attestazioni, per essere
considerate correttamente, necessitano di essere inserite in un contesto socio-politico e,
soprattutto, non devono far immaginare una storia che deve esistere, ma che non può essere
ricostruita solo su questi presupposti. Quanto intendo emerge chiaramente dalla considerazione
dei casi concreti che è stata fatta da me e da altri (in sedi diverse da questa); credo tuttavia che in
linea generale possa valere l’affermazione che la questione della celticità “indiretta” si pone non
solo come fatto documentale più o meno inatteso, ma anche, e soprattutto, come recupero e
inquadramento socio-politico di questa celticità. Non riprendo analiticamente in questa sede tutti
i casi che sopra ho menzionato ma mi soffermo su alcuni aspetti più significativi nella
prospettiva di queste pagine, e cioè in relazione a quella revisione del generale disegno della
celticità linguistica in Italia e, in particolare, per quanto attiene alla fase precedente al IV secolo
a. Cr..
Comincio con quello che è stato definito “ligure epigrafico” (diverso dal “ligure
onomastico” di Devoto): sono le iscrizioni su stele antropomorfe della Lunigiana: l’onomastica
è celtica ma notata in alfabeto etrusco non adattato. L’ultima revisione risale a Maggiani 1976; a
oggi, a quanto ho potuto vedere a Genova in occasione della mostra “I Liguri, Un antico popolo
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europeo tra Alpi e Mediterraneo” (2004), ci sarebbe la necessità di una revisione di questi
documenti perché alcuni tratti /segni non sono più (o non sono mai stati ) leggibili.
L’opportunità di questo lavoro è resa più evidente dal fatto che il problema del ligure in sé - a
partire dalla definizione dei contenuti da ascrivere a questa etichetta - e dei rapporti di un
eventuale ‘ligure’ con le facies culturali che si definiscono allo stesso modo (si veda in questo
stesso Convegno l’intervento di A. Del Lucchese e F. M. Gambari) e con il celtico, è uno dei
temi caldi di questi anni.
Segnalo infine per chiudere questa carrellata sulle attestazioni epigrafiche di celticità
indiretta (a vario titolo e di vario status lo ribadisco) che, con la fine degli anni ’70 e gli anni
’80, si è addirittura verificato quello che definirei un “effetto moda” bene esemplificato dal caso
del Marte di Todi (da datare intorno al 400 a. Cr.: Roncalli 1973) per il quale la forma trutitis
era stata confrontata con il troutikno- sicuramente celtico dell’iscrizione di Todi (II sec.):
tuttavia la presenza di celticità linguistica in zona in II secolo non significa nulla al fine di
argomentare la celticità di trutitis del Marte e, soprattutto, la base è in italico, nella tavola
bantina (Vetter 2 l. 15: truto die) dove non è celtismo ma la forma dell’aggettivo del numerale
*kworto. Senza entrare nelle complesse questioni della forma dei numerali, basti che la tabula
bantina e anche la defixio di Vibia (Vetter 6) attestano l’italicità della base e l’idoneità a una
eventuale derivazione in gentilizio italico.
Qual è dunque il senso di questa celticità indiretta?
Il senso è nelle attestazioni stesse per gli studiosi che cerchino conferme per singoli dati
di lingua ma è per ‘tutti’ nelle implicazioni storiche. In prospettiva linguistica più che
affermazioni porrei delle domande alle quali solo la collaborazione fra studiosi di settori diversi
può dare risposta o almeno i termini strutturali della stessa: celticità in loco? integrazione
sociolinguistica di comunità plurilingui? celticità di aree prossime?
Le risposte andranno ovviamente cercate senza trascurare l’importanza dei dati
toponomastici (v. Petracco Siccardi 1994) che qui non ho trattato ma che, ai fini del disegno
storico generale, sono fondamentali perché mentre l’onomastica ha più possibilità di status, la
toponomastica parlante ne ha una sola: la presenza di parlanti la lingua del toponimo in una
configurazione socio-culturale tale da dare vita a un toponimo.
NOTES
1. Una messa a punto sulle testimonianze linguistiche di celticità diretta e indiretta in Italia è stata proposta di
recente da F. Motta ; Motta 2002. Lì l’autore prende come punto di riferimento al quale partire íl contributo di
Prosdocimi 1984 (>1987) : queste pagine hanno lo stesso riferimento ma si concentrano unicamente sulle
testimonianze precedenti il IV secolo.
2. Sull’importante riconsiderazione di questo documento si torna nello specifico avanti ; qui anticipo che R. De
Marinis e A. L. Prosdocimi se ne sono ripetutamente occupati in vari luoghi delle loro vaste produzioni : v. ad
esempio De Marinis 1981 ; 1990 ; Prosdocimi 1987 ; 1991.
3. Per non appesantire inutilmente l’apparato delle note e quello bibliografico si è scelto di non inserirvi questo
rimando (ed altri che seguiranno) ad opere a tutti note (almeno nello spirito e nei contenuti generali) ; si tratta di
lavori che hanno segnato in modo importante il clima culturale di certo periodo o sono pietre militari della
linguistica moderna ed è proprio in questa prospettiva generale che sono richiamati in testo ; in generale per gli
aspetti storiografici pertinenti alla celticità linguistica in Italia v. Solinas 1992-1993 ; 1993-1994.
4. Per il modello, ma non per l’applicazione diretta alle lingue indeuropee anche è da considerare anche il lavoro di
H. Schuchardt (1870).
5. Sul tema è recentissimo e importante il contributo portato dalla mostra I Liguri. Un antico popolo europeo tra
Alpi e Mediterraneo (Genova, 2004) e dal relativo catalogo (a cura di R. De Marinis e G. Spadea), Genova-Milano,
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2004.
6. L’ampia arca interessata dalla celticità linguistica in Italia presenta una costante nella identificazione della forma
scrittoria con cultura ed etnicità di cui la lingua è espressione : un uso ‘ideologico’ della scrittura come affermazione di
etnicità, riscontrabile sia nella monetazione (legende), sia nell’epigrafia di varie aree dell’Italia settentrionale in fase di
romanizzazione ; v. Marinetti-Prosdocimi-Solinas 2000 e SoIinas 2002b.
7. Numismatica e archeologia del celtismo padano, Convegno internazionale (Saint‑Vincent, 8-9 settembre 1989), i
cui Atti sono stati pubblicati ad Aosta nel 1994 (v. Marinetti-Prosdocimi 1994)
8. Evidenzio come quest’etichetta, opponendosi a quella di gallico, confonda non solo la realtà di una continuità di
presenza storica nelle sedi della penisola, ma anche quella di una situazione linguistica, come è prevedibile
variegata per tempi e spazi, ma non certo scomponibile in varietà diverse ; essa è tuttavia utile ai fini di
un’identificazione della classe di testi tradizionalmente così desig.nati ; cfr. Prosdocimi 1991 ; Solinas 1994 ;
Solinas 1992-1993 ; 1993-1994 e, più recentemente, Motta 2002.
9. La bibliografia su questo documento e su quanto vi è connesso è vasta : si potrebbe dire che nulla sia stato scritto
dopo quella data sul celtico d’Italia può prescindere dall’attestazione di Castelletto Ticino ; trascelgo alcune
indicazioni più significative e dalle quali è possibile recuperare ulteriori rimandi ; Gambari, Colonna 1988 ; Lejeune
1989 p. 69-70 ; Solinas 1994, p. 369, n° 113 bis ; Motta 2002, p, 314-315.
10. Ricordo che sempre da Castelletto Ticino, oltre ad altri materiali con tracce di quelli che potrebbero essere segni
alfabetici, proviene un’altra iscrizione cronologicamente collocabile tra VI e V sec. a. Cr. : sul collo di un vaso
(conservato a Milano, Museo Archeologico del Castello Sforzesco) si legge Xut (Gambari, Colonna 1988, p. 160,
n° 1 ; Solinas 1994, p. 369, n° 114).
11. Su questa ‘classe’ di testi v. Lejeune 1971, p. 80 sgg. che necessita tuttavia di essere rivisto a fondo.
12. In occasione di questo Convegno ho appreso dalla comunicazione di R. De Marinis che, dopo la prima
presentazione (1999) uno dei quattro oggetti è divenuto irreperibile.
13. Le iscrizioni sono state presentate da De Marinis 2002, p. 63-70 e saranno oggetto di un lavor o a quattro mani
dello stesso De Marinis e F. Motta (cfr. anche Motta 2002, p. 315-317). Motta ha anticipato alcune notizie e
osservazioni in Motta 2000, p. 207-208 ; le quattro iscrizioni sono inoltre entrate in Morandi 2004, n° 189-192. La
forma sekezos è stata considerata anche da F. Rubat Borel nel poster intitolato Nuovi dati per la storia delle lingue
celtiche nella Cisalpina presentato a questo Convegno e che è incluso negli Atti.
14. V. Marinetti, Prosdocimi 1994 ; Marinetti, Prosdocimi, Solinas 2000 ; De Marinis 2002 ; Arslan 2004.
15. De Marinis 2002 ; di parere contrario Gorini 2004.
16. Cfr. ad esempio Motta 2002, p. 317.
17. Cfr. ad esempio teuoctonion di Vercelli (Solinas 1994, n° 100) o eripocios di Groppello Cairoli (Solinas 1994,
n° 112).
18. Cfr. ad esempio Ellis Evans 1967, p. 410-420 con abbondanza di casistica esem.plificativa.
19. Sull’iscrizione di Prestino la bibliografia è vastissima : menziono Prosdocimi 1986 pcr la significatività della
rinnovata interpretazione ; più recenti e con la bibliografia precedente Solinas 1994, n° 65 ; Motta 2000, p. 197.
20. L’idea che –kozis fosse da ricondurre a *ghosti- era già in Tibiletti-Bruno 1966 ma, pur accettata in Prosdocimi
1968, è stata a lungo rifiutata perché si riteneva che *ghosti- non appartenesse al celtico (cfr. Campanile 1968 ;
Motta 1983).
21. Si veda Prosdocimi, Marinetti 1991 con bibliografia precedente.
22. Per tutti i documenti qui menzionati rimando a Prosdocimi 1984 (> 1987) e Prosdocimi, Marinetti 1991 dove è
possibile reperire anche la bibliografia precedente.
23. Approfitto qui per segnalare che la recente edizione (?) delle iscrizioni celtiche d’Italia (? della celticità in
Italia? in questo caso si sarebbe attesa come minimo anche la trattazione della toponomastica) pubblicata da A.
Morandi (Morandi 2004), a parte gli svariati grossolani errori che ovviamente segnalerò nel dettaglio in altra sede, è
strutturata secondo un piano generale che non distingue celticità diretta e indiretta ma omologa in un’unica confusa
successione testi redatti in alfabeti e lingue differenti e provenienti da contesti culturali differenti.
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24. Per i Celti di V a. Cr. nel Veneto è impressionante il caso documentale di tiva1ei be11enei (*Pa 25) e dei suoi
discendenti (*Pa 26. *Pa 28, *Pa 21, Bl 1) ; Prosdocimi 1987 ; Marinetti, Prosdocimi 1989 ; Solinas 1993-1994, p.
927 sgg. ; importante anche il ciottolone da Oderzo (*Od 7) che porta basi onomastiche celtiche in padros
pompeteguaios e che, con kaialoiso, dopo l’accertamento di –oiso di Castelletto Ticino ripone la questione
dell’appartenenza venetica o celtica di questa morfologia –oiso : Prosdocimi 1984 ; 1987 ; Marinetti, Prosdocimi
1989 ; Solinas1993-1994, p. 927 sgg. ; Solinas 1995-1996. Ho menzionato anche sekene.i. dal centro etrusco di
Bagnolo S. Vito (MN) ; dalla puntuazione l’iscrizione dovrebbe essere venetica ma L. Agostiniani (1995-1996, p.
11-12) ha riportato seken- ai,omi celtici in Sego-/Seco (Segovesus) : cfr. anche Marinetti Prosdocimi 1989, p. 441
sgg. soprattutto per gli aspetti morfologici. Ancora ho accennato a Celti in Etruria nell’Orvíeto di VI/V a. Cr., con
l’attestazione di katakina da una tomba di VI secolo ; tuttavia un gentilizio in –na su una base katakos resa in
etrusco come katake (De Simone 1978) non ha trovato il consenso generale e si vedano le obbiezioni di Prosdocimi
1984 ; 1985 ; Solinas 1993-1994, p. 931-933.
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