INDEX
1. Il campo femminile di Ravensbruk
2 .Storie di donne in AZIONE
2.1 Lidia Beccaria Rolfi
2.2 pag. 4 5 6 7 8
2.3 Rosa Franca Gallina di Gastaldi
2.4 Francesca Guasco vedova Guasco
3. Immagini: LE CHOC!
4. Dai diari di Esther Hillesum
4.1 pag. 10 11 12 13 14 15 16 17 18 19
5. Donne e MAFIA:
5.1 Pina Rizzotto
5.2 Francesca Serafino
5.3 Maria Falcone
6. Donne e FOIBE:
6.1 Un’odissea Istriana
CAMPO DI RAVENSBRUCK
Sulle rive del lago Schwed, di fronte alla cittadina di
Furstenberg, nel Mecklenburg a 80 km. a nord di
Berlino fu costruito nel 1939 il più grande campo di
concentramento femminile d'Europa. In un terreno
formato da dune sabbiose e circondato da conifere e
betulle furono costruite 32 baracche d'abitazione per
prigioniere, uffici per l'amministrazione, case per le SS
ed una fabbrica della Ditta Siemens Werke di Berlino.
Migliaia di donne lavorarono, soffrirono e persero la
vita in questo campo e nelle vicine cave di sabbia.
.
Anche a Ravensbruck furono condotti su vasta scala
esperimenti medici di ogni genere. Il campo fu liberato
il 30 aprile 1945 dall' Armata sovietica
I trasporti per il campo femminile di
Ravensbruck
Dall’Italia partirono, inoltre, anche tre trasporti diretti al campo femminile di Ravensbruck:
si trattava prevalentemente di deportate politiche, partigiane, donne prese in ostaggio in
cambio di qualche familiare che operava nella Resistenza. Il primo gruppo di quattordici
donne italiane arrivò a Ravensbruck da Torino il 30 giugno 1944. Con i tre trasporti
giunsero a Ravensbruck circa 184 donne italiane, ma altre vi giunsero trasferite da altri
campi per cui, anche in questo caso non ci sono indicazioni del tutto precise sulle cifre7.
Le donne di RAVENSBRUCK
Testimonianze di deportate politiche Italiane
LIDIA BECCARIA ROLFI
Sono nata a Mondovì nel ’25, in pieno regime fascista. Le prime parole che ho imparato a scrivere sono state
“EIA, EIA, EIA, ALALA’”, la prima lettura “DUCE, TI AMO”, il primo disegno la bandiera e il fascio littorio.
Le maestre elementari sono sempre state ossequienti al regime costituito e fedeli esecutrici degli ordini e delle
circolari ministeriali.Durante la guerra d’Africa, scoppiata pochi anni dopo, abbiamo tenuto in classe un diario
giornaliero delle avanzate delle “gloriose truppe italiane”, abbiamo imparato a cantare “faccetta nera”, “Le
carovane del Tigrai e Adua”, abbiamo odiato il Negus e ci siamo convinte che era giusto conquistare la terra dei
“barbari abissini” per “levare l’onta di Macallé e fondare l’ impero”.
Ho convinto mio padre e mia madre a donare tutto il rame alla patria, anche il pentolame del bucato, ma non sono
riuscita a convincere mia madre a cedere la sua vera. Mi sono sentita piccola italiana di serie B, con una madre
insensibile ai “richiami della Patria nell’ora del bisogno”.
A mia madre la patria interessava poco e niente. “La patria - diceva - è casa mia; a me nessuno dà niente e io la
mia vera non la do a nessuno”.
La patria per lei significava solo guerra, privazioni, paura.
Mio padre era partito nel ’15, lasciandola a casa con due figli, la maggiore di ventidue mesi e il secondo di nove,
con molti debiti e tanto lavoro.
Altri figli arrivarono, in tutto cinque, ma mia madre non era assolutamente fiera di fare parte delle famiglie
numerose benedette dal Duce.
Ha sempre rifiutato la tessera di massaia rurale: la tessera costava e non rendeva.
Papà e mamma decidono di farmi studiare perché sono l’ultima della famiglia e a scuola riesco. “E’
intelligente, sostiene la maestra, e può diventare maestra”.
Avere una figlia maestra è la loro massima aspirazione.
Le prime avvisaglie di persecuzione razziale, cominciano a scuola con azioni che sembrano stupide
persino a me, che pure sono imbevuta di educazione fascista fino alla punta dei capelli.
L’insegnante di lettere ci obbliga a strappare le pagine dell’antologia che riportano scritti di autori
ebrei e ci impone di comprare un atlante geografico nuovo in sostituzione del de Agostani di
Pennesi e Almagià, perché quest’ultimo autore è ebreo.
L’Europa è in fiamme, seguiamo gli avvenimenti da scuola ed esultiamo alle vittorie di Hitler e di
Mussolini. La guerra continua e rivela il suo volto.
Ora la guerra, anche se è lontana, incomincia a piacermi sempre di meno; capisco che è un grande
pericolo per chi va e una grande “fregatura” per chi resta. Ho appena sedici anni, ho ancora tante
idee confuse, ma i fatti mi portano a riflettere.
Gli entusiasmi patriottardi di tre anni prima sono caduti da tempo.
Le mie reazioni anche se sono nella direzione giusta, sono soltanto reazioni istintive alla tragedia
della guerra, alle sofferenze che vedo attorno a me, alle morti che hanno colpito i soldati al fronte e i
civili in città.
Non c’è ancora presa di coscienza sulla realtà della situazione italiana e sul fascismo. Questa presa
di coscienza verrà molto più tardi.
Ricevo la prima nomina come insegnante elementare e sento parlare del campo di concentramento
per ebrei. La notizia mi sconvolge.
Nei quindici giorni successivi conosco alcune persone che avranno un peso determinante nella
scelta che farò. Incomincio a collaborare con loro. Divento la loro staffetta, imparo a montare
bombe a mano, che preparo la sera a lume di una lanternino a petrolio, affronto il primo
rastrellamento nel dicembre ( i tedeschi arrivano con pochi mezzi fino a Casteldelfino) con una
cassa di bombe sotto il letto. Trascorro l’inverno in valle, facendo la spola a volte in bicicletta, più
spesso a piedi o in corriera, fra la valle e Saluzzo.
Affronto rischi, pericoli, posti di blocco e spie con la beata incoscienza dei diciotto anni, spesso ascolto
“Medici” parlare, raccontare a noi che siamo più giovani e che l’ascoltiamo increduli, la vera storia della
rivoluzione bolscevica, della guerra di Abissinia, della guerra di Spagna e della responsabilità del fascismo.
Seguo perplessa i suoi discorsi: a volte stento a capire. Le argomentazioni contro i tedeschi mi convincono di
più: le ho già sentite sei mesi prima quando i reduci sono tornati dalla Russia e hanno raccontato, Dalla pianura
arrivano giorno per giorno notizie di rappresaglie e morti: ho visto Cerreto bruciare un mattino, arrivando da
Como. Alla fine di marzo quando già le formazioni partigiane hanno raggiunto una certa forza e si stanno
organizzando, quando in valle ha fato la sua comparsa “ Ezio” e il movimento si sta estendendo con azioni
quasi quotidiane in pianura, i tedeschi e i fascisti iniziano il rastrellamento a tappeto della valle. Vedo i primi
morti, due soldati meridionali sbandati, uccisi come cani a Venasca, vedo i partigiani fucilati a Melle . “Ezio”
mi ordina di andarmene dalla valle che pullula di spie. Torno a casa e rientro, come eravamo intesi, dopo una
decina di giorni, quando ormai i tedeschi se ne sono andati e in valle non sono rimasti che pochi presidi della
Gnr ( Guardia nazionale repubblicana).
Rientro l’11 sera, verso le 8 un partigiano giovane bussa alla mia porta, si ferma una mezz’ora per avere notizie
e rifocillarsi, e riprende la marcia per raggiungere la valle Maira; due ore dopo altri 4 partigiani venuti a
conoscenza del mio rientro mi raggiungono entrano a mangiar un boccone e ripartono anche loro per la valle
Maira.
Il mattino dopo alle sei quattro militi della Gnr mi svegliano, perquisiscono la mia camera, buttano all’aria
tutto, rovistano, urlano poi mi trasferiscono a piedi con le mani legate, all’albergo dell’Angelo dove ha sede il
comando.
Mi interrogano per un giorno e una notte, mi torturano, cercano di spaventarmi con minacce di morte, mi fanno
sfilare davanti il plotone di esecuzione, il comandante, il tenente Vicentini di Mantova, assume in proprio
l’onore e l’onere di picchiare a sangue “un’indegna spia del nemico che collabora con banditi ribelli”, poi mi
lega a una sedia e il mattino dopo mi fa caricare, legata come un salame, su una camionetta.
Mi portano a Cuneo, prima dal prefetto, poi in carcere, e il giorno seguente per ordine del prefetto che ne ha dato
l’incarico al tenete col, sono consegnata nelle mani della Gestapo che mi trasferisce a Saluzzo nelle carceri
giudiziarie. Per gli interrogatori vengo condotta in una villa isolata alla periferia della città: la Gestapo mi
interroga per due giorni, poi si disinteressa di me.. Rimango in carcere dieci giorni in una cella enorme con
detenute colpevoli di reati comuni. Infine mi trasferiscono il 24 sera, alle carceri nuove di Torino.
Il giorno successivo subisco l’ultimo interrogatorio firmo un verbale scritto in tedesco e tradotto da un’interprete
in cui continuo a negare ogni addebito. Mi comunicano che sono condannata a morte, poi mi riportano in cella e
non si occupano più di me. Rimango alle Nuove per circa tre mesi. I mesi di carcere sono ossessivi a noi del
braccio tedesco è proibito ricevere pacchi. L’alimentazione è scarsa e la minestra immangiabile. Lo spazio
insufficiente per due persone è occupato da quattro, l’inerzia, l’inattività sono intollerabili. Solo di tanto in tanto
la scopina riesce a passarci in cella il giornale e apprendiamo così le notizie di Roma e dello sbarco in
Normandia. Ma ogni contatto con le prigioniere delle altre celle è formalmente proibito. Le uniche possibilità di
comunicazione le abbiamo durante i bombardamenti quando ci trasferiscono tutte insieme nel rifugio.
Siamo anche spaventate, temiamo rappresaglie e fucilazioni improvvise; non sappiamo che, essendo in mano
tedesca, difficilmente saremo fucilate. La Germania ha bisogno di braccia per lavorare.
La notte tra il 25 e il 26 giugno i tedeschi prelevano me e altre tredici detenute delle celle e ci accompagnano allo
studio di suor Giuseppina, la madre superiore. E’ lei stessa che ci comunica con le lacrime agli occhi che saremo
deportate in Germania dove “andremo a lavorare”. Ancora nella notte ci caricano su un camion e all’alba ci
trasferiscono a Porta Nuova e ci chiudono in un vagone bestiame, agganciato ad altri vagoni strapieni di uomini,
giovani quasi tutti in tuta blu e scarpe bianche da ginnastica, partigiani o rastrellati o segnalati durante lo sciopero
del marzo ’44 e tutti destinati, come lavoratori coatti,all’industria tedesca
.
Viaggiamo per quattro giorni e quattro notti nel vagone chiuso. Ci aprono per i bisogni fisiologici, solo a
rari intervalli e solo dopo che il treno ha varcato la frontiera del Brennero. Nella stazione Chemnitz, di
notte subiamo un bombardamento aereo chiuse nel vagone. Il nostro treno non è colpito.
Staccano i vagoni degli uomini e proseguiamo sole, sempre in vagone piombato fino a Berlino; e qui,
scortate da SS, ci trasferiamo in metropolitana a un’altra stazione della città. Siamo un piccolo gruppo
miserabile di quattordici donne sporche e stanche con fagottini di effetti personali con gli ultimi resti di
viveri che ci ha dato alla partenza suor Giuseppina. Ci accompagnano due SS stanchi come noi, ma non
suscitiamo nessun interesse nella folla della metropolitana. I tedeschi sono abituati a questo genere di
spettacolo e ci ignorano.
A una stazione, dopo trenta, quaranta chilometri circa, salgono nel nostro scompartimento delle donne in
divisa a righe grigie e blu, con un numero e un triangolo a punta in giù sulla manica. I triangoli sono rossi,
per la maggior parte, ma ce ne sono anche neri e verdi.
Le donne vestite a righe sono scortate da donne in divisa con stivali, bustina e frustino e la mostrina delle
SS.
Vi sono anche soldati SS di scorta, che salutano i nostri accompagnatori
e non degnano noi di uno sguardo. A una fermata successiva ci fanno
scendere e ci ordinano di camminare. Le donne vestite a righe ci
precedono. Arriviamo stanche davanti a un muro altissimo nero che si
estende a perdita d’occhio. Nel muro si apre un portone sormontato da
torrette, ci sono tante donne in fila che varcano il portone, mentre i
soldati SS le contavano. Varchiamo il portone anche noi; i due SS che ci
hanno accompagnato tornano indietro dopo aver consegnato a un SS sul
portone una cartella: i nostri dossier.
Siamo a RAVENSBRUCK. Siamo il primo trasporto di donne italiane che arriva a RAVENSBRUCK .E’ la
sera del 30 giugno del 44
RAVENSBRUCK , ma questo lo sapremo molto più tardi, è una delle città concentrazionarie più giovani
della Germania nazista ed è l’unico lager esclusivamente femminili. Le prime 867 deportate sono tutte
tedesche, comuniste, socialdemocratiche e antinaziste in genere o anche appartenenti alla setta dei
testimoni di Geova, setta pacifista e quindi contraria al regime della violenza. Mescolate alle politiche, vi
sono anche prigioniere condannate per reati comuni. Ordine, disciplina, pulizia, lavoro, diventano i primi
strumenti di tortura per le deportate.
L’organizzazione SS, da cui dipendono i lager, scopre che il lavoro rieducativo può diventare nello stesso
tempo anche lavoro produttivo. Un accordo economico commerciale si stabilisce fra l’industrie tedesca e
l’amministrazione SS dei campi, che in questo modo si assicura larghi profitti sfruttando opportunamente il
lavoro dei prigionieri.
Le più deboli e le più anziane diventano presto materiale umano non più utilizzabile. Ora le inabili al
lavoro sono considerate bocche inutili, che incidono passivamente sul bilancio economico e perciò devono
essere eliminate. Si iniziano le selezioni. La prima selezione avviene nell’inverno del 41-42. 1600 donne
invalide al lavoro o malate sono inviate a Bernburg, una località già attrezzata per l’eliminazione e
vengono “gassate”. E’ il primo “trasporto nero”; così verranno chiamati in seguito, trasporti destinati al gas
e allo sterminio. Nello stesso anno si susseguono altri trasporti neri, di ebree e di malate, e a primavera si
iniziano anche le esecuzioni capitali nel corridoio della morte.
L’esperimento del lavoro produttivo si istituzionalizza in tutti i campi.
Rosa Franca Gallina in Gastaldi
Sono figlia di contadini sono nata a Piano Torinese, dove ho fatto le scuole elementari, poi a 13 anni mi
sono impiegata in una dittache faceva le calze.
Mio padre per trovare lavoro si è dovuto trasferire a Piossasco e io insieme a lui; quando mi sono ritornata
a Pino sono andata a lavorare a Chieri in tessitura; questo lavoro per me era molto duro, perché voleva
dire stare tutto il giorno sulle rotatrici. I rapporti con le compagne erano buoni ma non buonissimi, perché
vedevano sempre di malocchio l’ultima arrivata. Era brutto.
In quel tempo io e la mia famiglia non eravamo molto interessati alla politica; la prima volta che ho
sentito parlare di partigiani è stato appunto nel 43 dopo l’8 settembre.
Nei primi mesi del 44 un piccolo gruppo di pertigiani cominciava a formarsi dalla parte delle Langhe, e
allora i miei fratelli decisero di partecipare, infatti le brigate nere venivano a fare sopralluoghi a casa
nostra; e i miei fratelli decisero di partire; con questa si legarono alla funzione GL.
Sono andata con loro, con loro e con il passare del tempo mi sono interessata; e a poco a poco mi
hanno dato l’incarico di portare informazioni sugli spostamenti delle guardie. Tra questi partigiani
c’era anche mio marito, che poi ha preso il comando della polizia e aveva un distaccamento verso
Valle Ceppi; io andavo sovente. Qualcuno mi ha vista e ha fatto la spia; infatti un bel giorno vado,
e quando vedo entrare il mio principale mi fa segno con il dito, e dopo mi ha spiegato che quelli
della caserma di Chieri mi cercavano. Mi hanno arrestata e mi hanno caricata in un camioncino,
portandomi in una cella. Il giorno dopo mi chiamarono e mi portarono in una stanza dove mi
hanno interrogata tenendomi strette le gambe e maltrattandomi “mi chiedevano il nome di mio
marito dei mie fratelli e dove si trovavano i partigiani “ e io rispondevo: IO NON SO NIENTE.
Nel frattempo mio marito si è dato da fare è ha cercato se avevano qualcuno per fare il cambio. Allora un
giorno il tenente Alvaro è entrato nella mia cella ha fatto finta di conoscermi e mi ha portata via da quel
posto; mi hanno caricata in camioncino e mi hanno portata da mio marito.
Dopo 8 giorni dalla liberazione ho cominciato di nuovo a lavorare, sono rimasta lì fino agli anni 50 dopo
ho comperato mia figlia, e sono rimasta a casa 16 mesi.
Negli anni 51-52 mio marito è stato licenziato e allora sono partita di nuovo e ho ricominciato a lavorare
13 ore al giorno; fino a quando, un giorno sono caduta nel gabinetto per lo svenimento.
In quel periodo ne io ne mio marito avevamo lavoro.
Non mi sono mai iscritta a un partito, però sono stata di sinistra; perché la vita mi ha portato a pensare in
questo modo.
Non ho mai scelto tra comunisti e autoritari ma alla fine, nella mia testa, voto comunista.
Francesca Guasco vedova Guasco
Sono nata nel ’92 ad Alessandria. Ho cominciato a lavorare a 10 anni, ero sola, prima era morta mia madre
poi mio papà. Ho fatto tutti i lavori, aiutavo le lavandaie, pompavo l’acqua, e poi sono andata a lavorare nei
berretti e nelle maglie. Ho vissuto così fino a 17 anni e dopo sono andata a fare l’infermiera al manicomio e
a 21 anni mi sono sposata. Mio marito faceva il lattoniere idraulico poi ha avuto la chiamata, lui era dell’88
ma
fu
riformato
per
un
problema
al
ginocchio.
Abbiamo
lavorato
alla
Fiat a Torino, poi alla Riv ma per questioni politiche veniva sempre licenziato. Alla fine ci siamo messi a
vendere merceria in piazza fino a che sono passati i fascisti e siamo dovuti scappare, ma loro l’hanno trovato
e lo hanno massacrato. Nel ’36 dovevamo andare a Ciriè, ma lui non veniva, l’avevano arrestato e
condannato a 7 anni a Civitavecchia. Dopo poco tempo mi hanno arrestato per 3 o 4 mesi, ma una volta fuori
uno mi disse “ci starete poco fuori”, infatti poco dopo mi condannarono a 2 anni e mi portarono da Torino a
Sant’Elia a Pianisi. Mi pagavano l’indennità che mi passava il governo e una parte la mandavo a mio marito
a Civitavecchia. Dopo i 2 anni ho affittato una stanza presso una famiglia che mi voleva molto bene. Mentre
ero lì mio figlio si era sposato ed era venuto a casa da soldato, così il ministero gli concesse il viaggio per
venirmi a trovare. Mio marito è stato scarcerato nel ’42 e io continuai a fare il mercato da sola. Mio figlio
era garibaldino,era da tanto che non l’ho vedevo più quindi andai a cercarlo ma i fascisti l’avevano portato al
nazionale. Un I maggio sono andata sul parco della piazza e ho cantato “ l’Integrazione ” e poi “ Vieni o
maggio ti aspettan le genti” di Giuseppe Verdi. Mi sono venuti tutti dappresso e ho cantato finché ho
potuto…
Maria Falcone .
Maria , la sorella di Giovanni Falcone, racconta la vita del fratello , dai primi anni della sua vita , fino alla sua morte .
Maria e Giovanni fin da piccoli erano cresciuti insieme anche perché c’era solo una differenza di due anni tra di loro .
Avevano seguito lo stesso percorso scolastico : avevano frequentato gli studi classici e poi quelli di giurisprudenza .
Da questo stretto rapporto di familiarità emerge che Giovanni era un ragazzo molto vivace , bravo negli studi e anche negli sport che praticava.
Maria racconta che Giovanni dopo la scuola trascorreva il suo tempo libero in palestra vicino casa sua .
Maria lo vide partecipare a molte gare, ma purtroppo Giovanni successivamente era stato costretto ad abbandonare questa attività perché
durante un allenamento si era rotto un braccio .Insieme praticavano sport marini soprattutto immersioni subacque .
Alla fine degli studi classici Giovanni consegui la maturità e, visto che era amante del mare , decise di diventare un ufficiale di marina , quindi
affrontò l’esame per l’ ammissione all’ accademia navale .Rimase in accademia un anno , ma poi decise di tornare a Palermo ,dove il padre lo
iscrisse alla facoltà di giurisprudenza .Giovanni con l’ orgoglio della famiglia , ma soprattutto del padre riuscì a laurearsi dopo quattro anni con il
massimo dei voti .Dopo sei mesi partecipò ha un concorso in magistratura , lo vinse e da allora iniziò la sua carriera da magistrato .
Anche Maria si laureò con ottimi risultati .
Essa vedeva in Giovanni il modello dell’ uomo coraggioso , giusto e onesto. Quando Giovanni aveva deciso di aiutare Chinnici,la sua famiglia era
rimasta sorpresa e preoccupata per quello che poteva succedergli . Maria racconta che quando Giovanni di era messo dalla parte di Chinnici la
sua vita ormai era a rischio .
Viveva protetto ma questo non gli garantiva una vita sicura e libera . La mafia stanca della sua benevolenza e solidarietà escogitò un attentato
lungo l’ autostrada di Capaci ,dove una bomba piazzata in un luogo dell’ autostrada esplose nel momento che passava l’ auto di Giovanni .
Secondo Maria ora i giovani dopo i fatti avvenuti sono molto attenti e sanno , se intraprendono la strada del male ,dove vanno a finire. Maria
avverte i giovani da questi attentati e dalle catastrofi ci si rende conto della forza e della potenza della mafia .
Ella ora pensa alla vita travagliata che ha avuto suo fratello in quei dieci anni prima della morte . La mafia era contro Giovanni perché le stava
restringendo il loro campo e aveva una sorte di invidia nei suoi confronti . Quando gli altri gli dicevano che la mafia avrebbe distrutto le sue idee lui
affermava che gli uomini passano ma le idee restano e continueranno a camminare sulle gambe di altri uomini . Con queste parole , dice Maria ,
Giovanni voleva incoraggiare gli altri magistrati a lottare contro la . Ancora oggi bisogna stare attenti e non abbassare la guardia perché la mafia
non continui a svolgere la sua opera malefica .
Per Maria sapere che la gente ancora oggi ricorda Giovanni significa che lui non si è sacrificato inutilmente .
DAL DIARIO DI ESTHER HILLESUM
“Quella parte di me,
la più profonda
e la più ricca
in cui riposo,
è ciò che io chiamo Dio”
Questi quaderni narrano la storia di una donna
ebrea di Amsterdam di ventisette anni: Esther
Hillesum.
Abbracciano tutto il 1941 e il 1942, per l’Olanda
due anni di guerra e di oppressione, ma per Etty un
periodo di crescita e, paradossalmente, di
liberazione individuali.
Erano gli anni in cui in tutta l’Europa si
rappresentava il dramma dello sterminio.
Etty Hillesum era ebrea, e scrisse un controdramma.
“Bene io accetto questa nuova certezza: vogliono il nostro totale
annientamento. Ora lo so. Non darò più fastidio con le mie paure,
non sarò amareggiata se altri non capiranno cos’è in gioco per noi
ebrei. Una sicurezza non sarà corrosa o indebolita dall’altra.
Continuo a lavorare e a vivere con la stessa convinzione e trovo la
vita ugualmente ricca di significato”.
Etty esaminò a fondo tutto ciò che accadde tra queste due date e lo annotò con
grande trasparenza, franchezza e intensità.
Trovò un atteggiamento verso la vita la cui definizione migliore è ALTRUISMO
RADICALE.
Le ultime sue parole del suo diario sono: “SI VORREBBE ESSERE UN
BALSAMO PER MOLTE FERITE”
Lei si avviò verso una incessante ricerca dell’essenziale, del veramente umano, in
aperto contrasto con l’inumanità che la circondava.
Seguendo il proprio itinerario, Etty maturò una sensibilità religiosa che dà ai suoi
scritti una grande dimensione spirituale.
Adesso i cristiani rivendicano Etty come la quintessenza del cristianesimo, e gli
ebrei come la quintessenza dell’ebraismo; è una disputa oziosa, perché Etty segue
un cammino assolutamente personale. Ha un ritmo religioso tutto suo, che non è
dettato da chiese e sinagoghe, né da dogmi, né da nessuna teologia, liturgia o
tradizione, cose che le erano tutte completamente estranee.
Etty si rivolge a Dio come a se stessa. “QUANDO
PREGO, scrive, NON PREGO MAI PER ME
STESSA, PREGO SEMPRE PER GLI ALTRI,
OPPURE DIALOGO IN MODO PAZZO, INFANTILE
O SERISSIMO CON LA PARTE PIU’ PROFONDA DI
ME CHE PER COMODITA’ IO CHIAMO DIO”
Più tardi dirà “QUELLA PARTE DI ME, LA PIU’
PROFONDA E LA PIU’RICCA IN CUI RIPOSO E’
CIO’ CHE CHIAMO “DIO””.
Il suo misticismo non la condusse alla contemplazione solitaria, ma dritto nel mondo
dell’AZIONE.
Era una visione del mondo che non aveva nulla a che fare con la fuga o l’illusione; si
fondava anzi su una solida percezione della realtà, faticosamente conquistata. Il suo Dio
può apparirci in piena consonanza con la sua capacità di vedere la verità. Di sopportarla e
di trovarvi consolazione
.
ECCO ALCUNI DEI SUOI BEI PENSIERI,
proposte per un futuro di Pace e di Amore…..un
nuovo UMANESIMO!
“…basta che esista una sola persona degna di essere chiamata tale per potere credere negli uomini,
nell’umanità, m’è venuto spontaneo di buttargli le braccia al collo. E’ un problema attuale: il grande
odio per i tedeschi che ci avvelena l’animo.
Espressioni come: “ che anneghino tutti, canaglie, che muoiano col gas”, fanno ormai parte della
nostra conversazione quotidiana; a volte fanno sì che uno non se la senta più di vivere, di questi
tempi.
Ed ecco che qualche settimana fa, è spuntato il pensiero liberatorio, simile ad un esitante e
giovanissimo stelo in un deserto di erbacce: se anche non rimanesse che un solo tedesco decente,
questo unico tedesco meriterebbe di essere difeso contro quella banda di barbari, e grazie a lui non si
avrebbe il diritto di riversare il proprio odio su un popolo intero
.
…..Questo non significa che uno sia indulgente nei confronti di determinate tendenze, si
deve ben prendere posizione, sdegnarsi per certe cose in certi momenti, provare a capire, ma
quell’odio indifferenziato è la cosa peggiore che ci sia. E’ una malattia dell’anima. Odiare
non è nel mio carattere. Se in questo periodo io arrivassi veramente a odiare, sarei ferita
nella mia anima e dovrei cercare di guarire il più presto possibile.
Una volta me lo spiegavo in modo un po’ superficiale: quando mi sentivo lacerata tra odio e
altri sentimenti, credevo che fossero i miei istinti primitivi di ebrea minacciata dalla
distruzione a essere in conflitto con le concezioni razionali socialiste che avevo acquisito, e
che mi avevano insegnato a guardare a un popolo non come a un insieme, ma come a una
maggioranza buona ingannata da una minoranza cattiva. Dunque, un istinto primitivo
contrapposto a un’abitudine razionale.
Ieri per un momento ho pensato che non avrei potuto continuare a vivere, che avevo bisogno di
aiuto. La vita e il dolore avevano perso il loro significato, avevo la sensazione di sfasciarmi sotto
un peso enorme, ma anche questa volta ho combattuto una battaglia che poi all’improvviso mi ha
permesso di andare avanti con maggiore forza. Ho provato a guardare in faccia il “dolore”
dell’umanità, coraggiosamente e onestamente, ho affrontato questo dolore o piuttosto lo ha fatto
qualcosa in me stessa, molti interrogativi disperati hanno trovato risposta, l’assurdità completa ha
ceduto il posto a un po’ più d’ordine e di coerenza: ora posso andare avanti di nuovo. E’ stata
un’altra breve ma violenta battaglia, ne sono uscita con un pezzetto di maturità in più.
Mi sento piuttosto come un piccolo campo di battaglia su cui si combattono i problemi, o almeno
alcuni problemi del nostro tempo. L’unica cosa che si può fare è offrirsi umilmente come campo di
battaglia. Quei problemi devono pur trovare ospitalità da qualche parte, trovare un luogo in cui
possano combattere e placarsi, e noi, poveri piccoli uomini, noi dobbiamo aprir loro il nostro
spazio interiore, senza sfuggire
.
Dio, certe volte non si riesce a capire e ad accettare ciò che i tuoi simili su questa terra
si fanno l’un l’altro, in questi tempi scatenati. Ma non per questo io mi rinchiudo nella
mia stanza, Dio: continuo a guardare le cose in faccia e non voglio fuggire dinanzi a
nulla, cerco di comprendere i delitti più gravi, cerco ogni volta di rintracciare il nudo,
piccolo essere umano che è diventato irriconoscibile. In mezzo alle rovine delle sue
azioni insensate. Io non me ne sto qui, in una stanza tranquilla ornata di fiori, a
godermi Poeti e Pensatori glorificando Iddio, questo non sarebbe proprio tanto
difficile, né credo di essere così estranea al mondo come dicono inteneriti i miei buoni
amici.
Possono renderci la vita un po’ spiacevole, possono privarci di qualche bene materiale o di un po’
di libertà di movimento, ma siamo noi stessi a privarci delle nostre forze migliori col nostro
atteggiamento sbagliato: col nostro sentirci perseguitati, umiliati e oppressi, col nostro odio e con
la millanteria che maschera la paura. Certo che ogni tanto si può essere tristi e abbattuti per quel
che ci fanno, è umano e comprensibile che sia così. E tuttavia: siamo soprattutto noi stessi a
derubarci da soli. Trovo bella la vita, e mi sento libera. I cieli si stendono dentro di me come sopra
di me. Credo in Dio e negli uomini e oso dirlo senza falso pudore. La vita è difficile, ma non è
grave.
Una pace futura potrà essere veramente tale solo se prima sarà stata trovata da ognuno in se
stesso, se ogni uomo si sarà liberato dall’odio contro il prossimo, di qualunque razza o popolo, se
avrà superato questo odio e l’avrà trasformato in qualcosa di diverso, forse alla lunga in amore, se
non è chiedere troppo. E’ l’unica soluzione possibile.
Mi sembra che si esageri nel temere per il nostro povero corpo. Lo spirito viene dimenticato,
s’accartoccia e avvizzisce in qualche angolino. Viviamo in modo sbagliato, senza dignità e anche
senza coscienza storica. Con un vero senso della storia si può anche soccombere. Io non odio
nessuno, non sono amareggiata. Una volta che l’amore per tutti gli uomini comincia a svilupparsi
in noi, diventa infinito.
Se sapessero come sento e come penso, molte persone mi
considererebbero una pazza che vive fuori dalla realtà. Invece
vivo proprio nella realtà che ogni giorno porta con sé.
L’uomo occidentale non accetta il “dolore” come parte di
questa vita: per questo non riesce mai a cavarne fuori delle
forze positive.
Bisogna vivere con se stessi come un popolo intero: allora si
conoscono tutte le qualità degli uomini, buone o cattive. E se
vogliamo perdonare gli altri, dobbiamo prima perdonare a noi
stessi i nostri difetti. E’ forse la cosa più difficile, come
constato così spesso negli altri e un tempo anche in me, ora
non più: sapersi perdonare per i propri difetti e per i propri
errori. Il che significa anzitutto saperli generosamente
accettare.”
PINA RIZZOTTO
Il giorno in cui la giornalista incontra Pina Rizzotto, a Corleone arriva la Carovana Antimafia, i bambini hanno riempito la piazza con
disegni contro la mafia. La donna è felice di ricordare suo fratello attraverso queste iniziative e racconta “Io, ho tanti bei ricordi di mio
fratello Placido, perché mi voleva bene e quand’ero piccola mi riempiva di coccole. Faceva tante cose per me! Per esempio un giorno,
al ritorno da Roma, mi portò una ceratina, che a quei tempi era molto di moda.
Placido era dolcissimo, allegro e teneva la famiglia in armonia. Un giorno un amico d’infanzia è venuto a prenderlo per fare due passi e
invece è stato tradito. Mio fratello era buono con tutti, non si aspettava questo tradimento proprio da un amico che per assecondare la
mafia non esitò a distruggere il suo compagno. Infatti mentre passeggiavano, arrivati alla piazza di Corleone mio fratello, come ogni sera,
voleva portare ai ragazzi della parrocchia i dolcini e le caramelle. Ma Criscione gli disse di continuare a passeggiare e dopo duecento
metri sbucarono alcuni uomini per acchiapparlo e lui cominciò a gridare aiuto, ma intorno non c’era nessuno, essi lo presero, lo uccisero e
lo gettarono in una buca. Successivamente il Generale dei Carabinieri Dalla Chiesa, arrestò Criscione pubblicamente.
Placido era Segretario della Camera del lavoro, e quindi aiutava i poveri. Voleva togliere i terreni a chi ne aveva di più per far lavorare
tutti. Iniziò quest’attività politica insieme ad amici. Era il presidente della Madonna della Rocca. Infatti, quando Placido morì, io sognai la
Madonna che piangeva. Ho visto il film sulla vita di mio fratello che secondo il mio parere è stato troppo romanzato e fantastico. Mi sono
commossa, perché la parte in cui hanno fatto vedere la mamma ha riportato in me un brutto ricordo.
Per me, Placido, era un papà. Gli dicevo sempre di tornare a casa presto. Quella sera mamma si era coricata, quando ad un tratto, si
svegliò e mi chiamò chiedendomi se Placido era venuto, io dissi che non lo sapevo. E andammo a vedere nella sua stanza, ma non c’era
nessuno, era tutto a posto e anche la cena era ancora nel piatto. Lui di solito prima di uscire mangiava. Ma questa volta non aveva ancora
mangiato. Allora mia madre, quando non lo vide nel suo letto, cominciò a gridare come una pazza e a dire a mio padre di alzarsi e andare
a cercare Placido. Mio padre andò da un suo amico che lo aveva visto la sera precedente e gli disse che era rimasto con Criscione e altri
amici. Poi andò da uno di quegli amici e lo informò che erano stati proprio Placido e Criscione ad accompagnarlo a casa. Subito mio
padre pensò che Placido era morto e così, tornato a casa, lo ha comunicato a noi, che non volevamo crederci. Papà andò a fare la
denunzia, raccontando che l’ultimo a vederlo era stato Criscione. I Carabinieri andarono a casa di Criscione, ma era scomparso, suo padre
diceva di non averlo visto e i suoi amici non parlavano.
Adesso la cassetta dei resti di mio fratello è a Roma, alla Cassazione. Qui, al cimitero di Corleone, per ricordare mio fratello hanno
costruito una statua. Adesso dopo cinquantacinque anni spero che i resti di mio fratello tornino qui a Corleone. E oggi vedere la Carovana
Antimafia mi dà grande gioia e ritengo sia una cosa molto importante. Sicuramente non riuscirò mai a perdonare le persone che uccisero
mio fratello, infatti se ne avessi uno davanti lo ucciderei. Il perdono per queste persone non esiste.”
Francesca Serafino
La signora Francesca vive lontano dalla Sicilia dagli anni ’60. Ha quasi novant’anni ma è ancora molto lucida e
quando racconta del marito Calogero sembra che i fatti narrati siano avvenuti pochi giorni fa e non nel 1948.
Questa donna conserva dentro di lei un senso di paura, infatti ripete che non ha mai raccontato niente a nessuno
delle vicende di suo marito da quando ha lasciato la Sicilia.
Racconta:Mio marito spesso veniva fermato per strada dalla gente che gli consigliava di abbandonare il
partito,infatti apparteneva al partito socialista. Un giorno lo chiamò un tale e gli disse che gli voleva parlare
Don Serafino, ma che doveva percorrere la strada di campagna e non quella principale. Allora mio marito
avverti tutti i compagni del partito socialista. Egli tardava e i compagni stavano in pensiero. Allora armati di
fucili, andarono nella casa di campagna e bussarono dicendo che cercavano Cangelosi ; quelli risposero che
mio marito non c’era. E mentre i compagni aspettavano sotto il portone,in casa probabilmente c’erano i mafiosi
che forse lo volevano ammazzare.
I mafiosi gli proposero che se avesse abbandonato il partito socialista lo avrebbero mandato in America, ma
mio marito rifiutò l’offerta. Una sera Calogero uscì con quattro compagni e a circa venti metri dalla casa, i
mafiosi lo uccisero. Mi vennero a chiamare i vicini di casa, che mi fecero paura sollecitandomi ad andare a
casa di mio padre. Ed io speravo che lì avrei trovato mio marito. Infatti il suo corpo fu portato a casa i mio
padre dove rimase per quattro giorni. Quando portarono mio marito al cimitero le campagne erano gremite di
gente. Io sono andata al mio paese e ho chiesto giustizia, ma il maresciallo rispose che in questi casi comanda
la mafia. Le stesse risposte ho avuto a Camporeale e ad Alcamo.
Non ho mai pianto tanto quanto in quei giorni. Mi lasciarono l’affitto da pagare e quattro figli, non avevo una
lira, i bambini piangevano:chi voleva le scarpe chi i pantaloni.
Non sapevo cosa fare, andavo a zappare la terra per cercare di mantenere la famiglia. Nessuno mi ha aiutato.
Questa è la storia di mio marito che fu ucciso ingiustamente soltanto perché apparteneva al partito socialista ed
era un lavoratore onesto.
UN’ODISSEA ISTRIANA
I brani che seguono sono tratti dal diario di Mafalda Codan che venne arrestata a Trieste, dove si era rifugiata, ai primi di
maggio del 1945. Dopo il ritorno al paese natale, Parendo, dopo un processo, la Codan venne deportata in Slovenia.
Dal diario di Mafalda Codan
E’ il 7 maggio 1945 quando appena uscita da casa, mi trovo davanti tre partigiani che, con il mitra spianato, mi intimano di
seguirli. Con un filo di ferro mi legano le mani dietro la schiena e mi fanno salire su una macchina. La prima sosta è a Visinada,
dove mi portano sulla piazza, gremita di partigiani, fra cui donne scalmanate; uno dei partigiani mi annuncia alla gente presente
come donna italiana, nemica del popolo slavo, così tutti cominciano a insultarmi, a picchiarmi con lunghi bastoni. A Santa
Domenica mi portano davanti alla casa di Norma Cossetto, infoibata nel settembre 1943. Chiamano sua madre per farla assistere
alle mie torture e ricordarle quelle di sua figlia.
Quando siamo arrivati a casa mia, si raduna subito una folla urlante. Uno dei partigiani, comincia a leggere un foglio dove
vengo accusata di cose che in realtà non ho mai fatto, sono tutte false testimonianze. Tra la folla che mi insulta vedo gli
“amici” di mio padre, quelle persone mantenute da lui, che ora mi condannano e gridano “A MORTE”, Queste persone
erano le stesse che veneravano mio padre e la mia famiglia. Sono tutti diventati un gregge di pecore, fanno tutto ciò che è
stato imposto loro di fare. Nell’ex dopolavoro mi aspettano delle donne che mi legano a una colonna e mi mettono due
bandiere slave con la stella rossa e sopra il nome di Tito, per dare inizio al pestaggio. Così i partigiani cominciano a
pestarmi e un colpo di frusta mi colpisce agli occhi, che non riuscivo più a riaprire. Dopo queste sevizie mi fanno fare il
giro del paese legata. Arriva un carro e io ci salgo rimanendo sempre in piedi, infatti se le scosse mi facevano cadere, mi
dovevo rialzare subito sotto i colpi di mitra.
Tutte le notti passava un partigiano che ci controllava. Quando venivamo condotte nelle foibe e fucilate, le donne erano attaccate
da una forte paura. Una notte si apre la porta e mi assale il terrore, così penso che per me potrebbe essere la fine. Io vengo legata
braccio a braccio con altre. Ci conducono sullo spazio del castello, dove ci attendono due camion, ci caricano sul secondo. In
quell’istante arriva un ufficiale che comunica che io posso scendere dal camion. Tutto questo lo annoto perché sono verità da non
dimenticare, che fanno paura. Ora, che sono libera racconto ai giudici quello che mi è successo, senza tralasciare particolari. È
proprio da quell’istante che la mia vita cambia. Adesso lavoro presso una famiglia che mi ha accolto, ma anche se, ormai,
convivo con loro, c’è sempre un rapporto schiavo- padrone, potrei scappare quando voglio, ma seguo i miei principi…
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