DIRITTO
I presupposti per l’azione revocatoria ordinaria
in caso di fallimento
di Luigi Ferrajoli - avvocato patrocinante in Cassazione, dottore commercialista, revisore legale, titolare Studio
Ferrajoli Legale Tributario e direttore scientifico della rivista Accertamento e Contenzioso
L’azione revocatoria ordinaria può essere esperita dal curatore ai sensi dell’art.66 L.F. qualora non
sussistano i requisiti di cui all’art.67 L.F. necessari per la proposizione della domanda di revocatoria
fallimentare.
Nell’analizzare tale fattispecie concreta, la Suprema Corte ha recentemente avuto modo di ribadire il
principio affermato da tempo in giurisprudenza secondo cui, se l’azione revocatoria ha per oggetto atti
posteriori al sorgere del credito, ad integrare l’elemento soggettivo del consilium fraudis è sufficiente
la semplice conoscenza da parte del debitore e del terzo acquirente del pregiudizio che l’atto arreca
alle ragioni del creditore. Inoltre, se l’azione revocatoria ha per oggetto atti anteriori al sorgere del
credito, è richiesta, quale condizione per l’esercizio della medesima oltre all’eventus damni, anche
la dimostrazione di una dolosa preordinazione da parte del debitore al fine di compromettere il
soddisfacimento del credito futuro e, in caso di atto a titolo oneroso, la partecipazione del terzo a tale
pregiudizievole programma.
L’azione revocatoria ordinaria
stato di insolvenza, essendo sufficiente che l’atto di
disposizione da lui posto in essere produca pericolo
o incertezza per la realizzazione del diritto del creditore, in termini di una possibile o eventuale infruttuosità di una futura azione esecutiva.
Invero, tale presupposto si verifica non soltanto
quando l’atto di disposizione provochi la perdita
della garanzia patrimoniale del creditore, ma anche
quando tale atto comporti una maggiore difficoltà ed
incertezza nella esazione coattiva del credito.
La giurisprudenza di legittimità ha precisato che l’eventus damni può consistere non solo in una variazione quantitativa del patrimonio del debitore, ma
anche in una variazione qualitativa, quando detta
variazione sia tale da rendere più difficile la soddisfazione dei creditori stessi (si vedano ex multis, Cass.
n.1896/12 e Cass. n.10052/09).
In secondo luogo, è necessaria la sussistenza dell’elemento soggettivo, ossia la circostanza tale per cui il
debitore fosse a conoscenza del pregiudizio che l’atto arrecava alle ragioni del creditore o, trattandosi
di un atto anteriore al sorgere del credito, che l’atto
fosse dolosamente preordinato al fine di pregiudicare il soddisfacimento (così detta scientia damni).
Per la sussistenza del suddetto requisito, la Suprema Corte ha chiarito: “allorché l’atto di disposizione
sia successivo al sorgere del credito, è necessaria e
sufficiente la consapevolezza di arrecare pregiudizio
agli interessi del creditore, essendo l’elemento soggettivo integrato dalla semplice conoscenza – a cui
L’azione revocatoria ordinaria, prevista e disciplinata
dagli artt.2901 ss. cod.civ., rappresenta uno dei principali strumenti predisposti dall’ordinamento per la
conservazione della garanzia patrimoniale generica
di cui all’art.2740 cod.civ..
La sua funzione è meramente conservativa e non recuperatoria poiché diretta alla riduzione in pristino
della consistenza patrimoniale debitoria depauperata dall’atto dispositivo.
Da ciò discende che il fruttuoso esperimento del rimedio de quo non può investire l’atto pregiudizievole compiuto dal debitore in danno ai propri creditori;
la medesima azione, invece, ne determinerà semplicemente l’inefficacia nei soli confronti del soggetto
che l’abbia utilmente promosso.
Quest’ultimo, dunque, una volta ottenuta la pronuncia di revoca, può conseguire il risultato utile
aggredendo il bene oggetto della disposizione impugnata con la procedura di espropriazione forzata ai sensi dell’art.2902 cod.civ., nelle forme di cui
all’art.602 c.p.c..
Prendendo in esame i requisiti necessari per l’esperimento dell’azione oggetto della presente trattazione,
si evidenzia come l’art.2901 cod.civ. preveda espressamente la sussistenza dei seguenti presupposti.
In primo luogo, occorre l’elemento oggettivo, ossia
il così detto eventus damni, in considerazione del
quale, ai fini dell’esperibilità dell’azione revocatoria
ordinaria, non è necessario che il debitore si trovi in
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va equiparata la agevole conoscibilità – nel debitore
di tale pregiudizio, a prescindere dalla specifica conoscenza del credito per la cui tutela viene esperita
l’azione, e senza che assumano rilevanza l’intenzione
del debitore di ledere la garanzia patrimoniale generica del creditore (c.d. consilium fraudis), né la partecipazione o la conoscenza da parte del terzo in ordine alla intenzione fraudolenta del debitore” (Cass.
n.14489/04 e Cass. n.2792/02; si vedano anche, ex
multis, Tribunale di Reggio Emilia 11 marzo 2014 in
Massima redazionale, 2014 e Tribunale di Bologna
18 giugno 2013 in Massima redazionale, 2013).
Inoltre, ai fini del fruttuoso esperimento della predetta azione, trattandosi di atto a titolo oneroso, è
necessario che il terzo fosse consapevole del pregiudizio e, nel caso di atto anteriore al sorgere del credito fosse partecipe della dolosa preordinazione (così
detta partecipatio fraudis).
Al riguardo, è opportuno distinguere la trattazione
del predetto requisito a seconda che si tratti di:
a) atto anteriore al sorgere del credito: in tale ipotesi, il creditore ha l’onere di dimostrare che l’autore dell’atto, alla data della sua stipulazione, ha
posto in essere l’atto dispositivo in funzione del
sorgere di una futura obbligazione, allo scopo di
precludere o rendere più difficile al creditore l’attuazione coattiva del suo diritto;
b) atto posteriore al sorgere del credito: in tale
caso, la consapevolezza dell’evento dannoso da
parte del terzo contraente consiste nella generica conoscenza del pregiudizio che l’atto a titolo
oneroso posto in essere dal debitore può arrecare alle ragioni dei creditori, non essendo necessaria la collusione tra il terzo ed il debitore.
Infine, è necessario porre in evidenza che il requisito
dell’anteriorità del credito (a tutela del quale l’azione revocatoria viene esperita) rispetto all’atto impugnato deve essere riscontrato in base al momento in
cui il credito stesso sorge e non in base al momento,
eventualmente successivo, del suo accertamento
giudiziale.
Con particolare riferimento agli effetti dell’azione
revocatoria, l’art.2902 cod.civ. dispone espressamente che il creditore, nel momento in cui ottiene
la dichiarazione di inefficacia, può promuovere nei
confronti dei terzi acquirenti le azioni esecutive o
conservative sui beni che formano oggetto dell’atto impugnato.
Il terzo contraente che abbia verso il debitore ragioni
di credito dipendenti dall’esercizio dell’azione revocatoria, non può concorrere sul ricavato dei beni che
sono stati oggetto dell’atto dichiarato inefficace, se
non dopo che il creditore è stato soddisfatto.
Pertanto, il vittorioso esperimento di un’azione revocatoria non è idoneo a determinare alcun effetto
restitutorio rispetto al patrimonio del disponente,
né, tantomeno, alcun effetto direttamente traslativo
in favore dei creditori e comporta soltanto l’inefficacia (relativa) dell’atto rispetto ai creditori procedenti,
rendendo il bene alienato assoggettabile all’azione
esecutiva, senza in alcun modo caducare, ad ogni altro effetto, l’avvenuta disposizione.
L’azione revocatoria fallimentare
Il nostro ordinamento disciplina altresì la domanda
revocatoria successiva alla dichiarazione di fallimento che accerta l’insolvenza dell’imprenditore commerciale.
L’azione revocatoria prevista dall’art.67 L.F. rappresenta uno dei mezzi più efficaci per la ricostruzione
dell’attivo fallimentare e si pone la finalità di revocare atti di disposizione di beni o eliminare debiti
o garanzie venuti ad esistenza illegittimamente con
pregiudizio per i creditori, nel pieno rispetto del principio della par conditio creditorum che assume un
ruolo centrale ed assurge a ragione esclusiva del sistema fallimentare.
A differenza della revocatoria ordinaria, quella fallimentare è preordinata alla salvaguardia del principio poc’anzi citato della par conditio creditorum e, in
quanto tale, è posta a tutela non del singolo, ma di
tutta la massa dei creditori e può essere promossa
solo dal curatore fallimentare.
Gli effetti sono i medesimi di quelli della revocatoria
ordinaria, in quanto anche l’azione revocatoria ordinaria determina l’inefficacia relativa degli atti compiuti in frode ai creditori, con la differenza che tale
inopponibilità non riguarda il singolo creditore ma la
totalità dei creditori. L’atto dispositivo revocato non
avrà, dunque, effetto per i medesimi, ma ovviamente rimarrà valido tra le parti.
Le conseguenze del fruttuoso esperimento dell’azione sono di natura restitutoria: il terzo, tenuto a
restituire quanto acquisito con l’atto revocato, può
proporre domanda di insinuazione al passivo per l’equivalente e/o per quanto deve ancora ricevere.
I presupposti dell’azione revocatoria fallimentare sono:
1. il compimento dell’atto oggetto di revocatoria
nel periodo sospetto stabilito dall’art.67 L.F. in
un anno dalla dichiarazione di fallimento (sei
mesi nel caso di pegni, anticresi ed ipoteche giudiziali o volontarie costituiti entro detto periodo
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nonché nel caso di pagamenti di debiti liquidi ed
esigibili, atti a titolo oneroso e quelli costitutivi di
un diritto di prelazione per debiti, anche di terzi, contestualmente creati di cui il curatore provi
che l’altra parte conosceva lo stato d’insolvenza
del debitore).
Occorre sottolineare che il termine di un anno o
sei mesi cui l’art.67 L.F. fa riferimento, si calcola a
ritroso dalla data di pubblicazione della sentenza
dichiarativa di fallimento;
2. la conoscenza dello stato di insolvenza da parte
del terzo.
Gli atti soggetti a revocatoria sono, innanzitutto, gli
atti così detti anormali, in quanto non discendenti,
nella prassi commerciale, dalle attività ordinarie di
un imprenditore solvibile, salvo che l’altra parte provi che non conosceva lo stato di insolvenza del debitore, le cui anomalie fanno presumere in colui che
entra in rapporto con il fallito una conoscenza dello
stato di insolvenza in cui versa quest’ultimo; in buona sostanza, si tratta di atti che l’imprenditore non
avrebbe mai compiuto se non si fosse trovato in una
situazione di illiquidità o insolvenza.
Detta caratteristica di “anormalità” fonda, pertanto,
una presunzione della scientia decoctionis, ovvero
provoca un’inversione dell’onere della prova e sarà,
quindi il convenuto a dover provare che ignorava lo
stato di insolvenza.
Tra gli atti anomali che fanno presumere la conoscenza dello stato di insolvenza, l’art.67 L.F. contempla:
1. gli atti sproporzionati, ossia gli atti a titolo oneroso compiuti nell’anno anteriore alla dichiarazione di fallimento, in cui le prestazioni eseguite o le obbligazioni assunte dal fallito sorpassano di oltre un quarto ciò
che a lui è stato dato o promesso;
2. i pagamenti con mezzi anomali, ovvero gli atti estintivi di debiti pecuniari scaduti ed esigibili non effettuati
con danaro o con altri mezzi normali di pagamento, se compiuti nell’anno anteriore alla dichiarazione di
fallimento;
3. i pegni, le anticresi e le ipoteche volontarie costituiti nell’anno anteriore alla dichiarazione di fallimento per
debiti preesistenti non scaduti;
4. i pegni, le anticresi e le ipoteche giudiziali o volontarie costituiti entro sei mesi anteriori alla dichiarazione
di fallimento per debiti scaduti.
Allo stesso modo, sono revocati, se il curatore prova che l’altra parte conosceva lo stato d’insolvenza del debitore, i pagamenti di debiti liquidi ed esigibili, gli atti a titolo oneroso e quelli costitutivi di un diritto di prelazione per debiti, anche di terzi, contestualmente creati, se compiuti entro sei mesi anteriori alla dichiarazione
di fallimento.
Affinché tali atti siano revocati, se compiuti nel “periodo sospetto”, occorre che siano stati posti in essere da
un debitore insolvente e che colui che ha contrattato con il debitore non dimostri di aver ignorato lo stato di
insolvenza del debitore fallito.
A tal fine, il terzo contraente deve effettivamente conoscere lo stato di insolvenza, con la conseguenza
che, agli effetti della revoca, assume rilievo soltanto
la concreta situazione psicologica da parte del terzo
e non la semplice conoscibilità oggettiva del predetto stato.
Oggetto dell’azione revocatoria possono essere anche i cosi detti atti normali, ossia quelli che non costituiscono un indice di difficoltà di liquidità dell’imprenditore.
Qualora il curatore fornisca la prova che l’altra parte
conosceva lo stato di insolvenza del debitore, possono essere revocati i predetti atti normali, ovvero i
pagamenti di debiti liquidi ed esigibili, gli atti a titolo
oneroso (compiuti dal debitore o da un terzo: si pensi, ad esempio, alla domanda giudiziale di risoluzione
del contratto esercitata nei confronti del contraente
poi fallito) e quelli costitutivi di un diritto di prelazione per debiti, anche di terzi, contestualmente creati,
se compiuti nei sei mesi anteriori alla dichiarazione
di fallimento (art.67 L.F.).
Pertanto, non ogni pagamento è revocabile, ma solo
quelli ricevuti da chi era effettivamente consapevole del dissesto finanziario dell’impresa poi fallita,
non essendo sufficiente, a questo fine, la semplice
possibilità di conoscere, con l’ordinaria diligenza, lo
stato di insolvenza del debitore.
Solo in tal caso il pagamento deve ritenersi inefficace
rispetto ai creditori e può essere revocato, andando
così a ricostituire il patrimonio del fallito e consentendo la soddisfazione concorsuale dei creditori rimasti insoddisfatti.
Vi sono tuttavia degli atti sottratti alla revocatoria
fallimentare.
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Invero, ai sensi dell’art.67 L.F., sono esclusi dalla revocatoria fallimentare (ma, se ne ricorrono i presupposti,
possono essere oggetto di revocatoria ordinaria ex art.2901 cod.civ.):
1. i pagamenti di beni e servizi effettuati nell’esercizio dell’attività d’impresa nei termini d’uso;
2. le rimesse effettuate su un conto corrente bancario, purché non abbiano ridotto in maniera consistente e
durevole l’esposizione debitoria del fallito nei confronti della banca;
3. le vendite ed i preliminari di vendita trascritti ai sensi dell’art.2645-bis cod.civ., a giusto prezzo di immobili
ad uso abitativo, destinati a costituire l’abitazione principale dell’acquirente o di suoi parenti e affini entro
il terzo grado, ovvero immobili ad uso non abitativo destinati a costituire la sede principale dell’attività
d’impresa dell’acquirente, purché alla data di dichiarazione di fallimento tale attività sia effettivamente
esercitata ovvero siano stati compiuti investimenti per darvi inizio;
4. gli atti, i pagamenti e le garanzie concesse su beni del debitore purché posti in essere in esecuzione di un
piano che appaia idoneo a consentire il risanamento della esposizione debitoria dell’impresa e ad assicurare il riequilibrio della sua situazione finanziaria;
5. gli atti, i pagamenti e le garanzie posti in essere in esecuzione del concordato preventivo, dell’amministrazione controllata, nonché dell’accordo omologato ai sensi dell’art.182-bis, nonché gli atti, i pagamenti e le
garanzie legalmente posti in essere dopo il deposito del ricorso di cui all’art.161;
6. i pagamenti dei corrispettivi per prestazioni di lavoro effettuate da dipendenti ed altri collaboratori, anche
non subordinati, del fallito;
7. i pagamenti di debiti liquidi ed esigibili eseguiti alla scadenza per ottenere la prestazione di servizi strumentali all’accesso alle procedure concorsuali di amministrazione controllata e di concordato preventivo.
Relativamente agli effetti dell’azione revocatoria fallimentare, è opportuno sottolineare come la medesima assolva la funzione di attuare la difesa dei creditori contro gli atti compiuti dal debitore in frode
delle loro ragioni, tendendo a reintegrare la garanzia
patrimoniale mediante la dichiarazione di inefficacia
degli atti dispositivi del proprio patrimonio posti in
essere dal debitore.
Colui che, per effetto della revocatoria di cui sopra,
abbia restituito quanto ricevuto, è ammesso al passivo fallimentare per il suo eventuale credito.
L’orientamento giurisprudenziale in tema di revocatoria ordinaria in ipotesi di fallimento e di liquidazione della società: le sentenze della Corte di Cassazione n.27546/14 e n.25658/14.
L’articolo 66 L.F. prevede che il curatore possa ricorrere allo strumento dell’azione revocatoria ordinaria
qualora non possa agire con la revocatoria fallimentare (non sussistendone i presupposti), chiedendo
che siano dichiarati inefficaci gli atti compiuti dal debitore in pregiudizio dei creditori, secondo le norme
del codice civile (art.2901 cod.civ.).
I presupposti dell’azione revocatoria ordinaria esercitata dal curatore sono, per richiamo espresso del
Legislatore, gli elementi costitutivi regolati dal codice
civile ed, in particolare, l’eventus damni, individuato
nello stato di insolvenza o nel suo aggravamento,
dovendosi dimostrare il nesso causale tra l’atto revocando e lo stato di insolvenza o l’aggravamento delle stessa nonché il consilium fraudis, da intendersi
come consapevolezza del debitore di arrecare, con il
proprio atto, un pregiudizio al creditore.
L’azione viene proposta dal curatore innanzi al Tribunale fallimentare nei confronti del terzo contraente
ed, eventualmente, dei suoi aventi causa.
L’azione, che di regola ha efficacia relativa, nel senso che avvantaggia, come detto, solo il creditore che
l’ha promossa e nei limiti del danno allo stesso arrecato, quando coinvolge il fallimento, investe l’atto
nella sua interezza al di là dell’importo del credito
danneggiato e nei limiti del danno subito dalla massa dei creditori.
Passiamo ora all’analisi delle due recentissime pronunce della Corte di Cassazione aventi ad oggetto,
entrambe, l’esperibilità dell’azione revocatoria ordinaria, una in caso di fallimento, l’altra in caso di liquidazione.
Con riferimento alla prima sentenza n.25658/14, la
Suprema Corte ha analizzato la fattispecie dell’azione revocatoria ex art.2901 cod.civ. da parte del curatore di una società fallita avente ad oggetto la vendita - avvenuta prima del fallimento - di un autoveicolo
da parte di quest’ultima ad un’altra società.
La prima sezione civile, a tal proposito, non ha mancato di ribadire i sopra enunciati principi statuendo
che, se oggetto dell’azione revocatoria è un atto posteriore al sorgere del credito vantato dall’attore, ai
fini dell’accertamento del sopra descritto elemento
soggettivo del consilium fraudis (e, cioè, della consapevolezza del debitore di arrecare con il proprio atto,
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un pregiudizio al creditore) è sufficiente la semplice
conoscenza nel debitore e nel terzo acquirente del
danno che l’atto arreca alle ragioni del creditore.
Nel caso in cui, invece, oggetto dell’azione revocatoria
fosse un atto anteriore al sorgere del credito, ai fini
dell’accertamento dell’elemento soggettivo sarebbe
necessario, oltre all’eventus damni, anche la dolosa
preordinazione dell’atto da parte del debitore al fine
di compromettere il soddisfacimento del credito futuro e, in caso di atto a titolo oneroso, la partecipazione
del terzo a tale pregiudizievole programma.
Da tale statuizione non può che emergere come, a
seconda che ci si trovi nell’uno o nell’altro caso, il
thema probandum ed il thema decidendum mutano
radicalmente.
Infatti, nel primo caso, sarà sufficiente allegare e fornire la prova del dolo generico (e, cioè, la mera consapevolezza da parte del debitore e del terzo del danno
che derivava dall’atto dispositivo); nel secondo caso,
sarà necessaria la ricorrenza del dolo specifico, ossia
cioè la consapevole volontà del debitore e del terzo di
pregiudicare le ragioni del creditore futuro.
Il ragionamento della Corte di Cassazione contenuto
nella sentenza n.27546/14 depositata in data 30 dicembre 2014 avente ad oggetto, in questo caso, un
contratto di compravendita relativo ad un immobile
ceduto da una società, successivamente posta in liquidazione, è dello stesso tenore.
Invero, a conferma del sopracitato e consolidato
principio giurisprudenziale, la terza sezione civile ha
statuito che, qualora l’atto di disposizione sia successivo al sorgere del credito, l’unica condizione per
l’esercizio della stessa è che il debitore fosse a cono-
scenza del pregiudizio delle ragioni del creditore e,
trattandosi di atto a titolo oneroso, che di esso fosse
consapevole il terzo, la cui posizione (per quanto riguarda i presupposti soggettivi dell’azione) è sostanzialmente analoga a quella del debitore.
La Corte ha altresì specificato che, in corso di causa, la prova del predetto atteggiamento soggettivo
può essere fornita tramite delle presunzioni il cui apprezzamento è devoluto al giudice di merito ed è incensurabile in sede di legittimità, ove congruamente motivato (principio che già enunciato da Cass.
n.17327/11).
Conclusioni
Alla luce dell’analisi effettuata, si dovrà concludere
che, qualora in caso di fallimento non siano sussistenti i presupposti per l’esperibilità dell’azione revocatoria fallimentare di cui all’art.67 L.F., il curatore
potrà, ai sensi dell’art.66 L.F., ricorrere all’azione ordinaria.
A tal proposito, in presenza di un atto posteriore al
sorgere del credito, deve considerarsi sussistente il
requisito del consilium fraudis di fronte alla semplice
conoscenza nel debitore e nel terzo acquirente del
danno che l’atto arreca alle ragioni del creditore; se,
differentemente, l’oggetto dell’azione revocatoria è
un atto anteriore al sorgere del credito, ai fini dell’accertamento del sopradetto elemento soggettivo è
necessaria la dimostrazione sia dell’eventus damni,
sia della dolosa preordinazione dell’atto da parte del
debitore finalizzata ad evitare il soddisfo del credito
futuro e, in caso di atto a titolo oneroso, la partecipazione del terzo a tale pregiudizievole programma.
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