Le sue origini erano umili, ma lui sentiva che partendo la sua vita sarebbe
cambiata. Aveva nelle gambe la voglia di andare, nelle braccia la forza di
lavorare, la fatica non lo spaventava
e nella valigia più sogni e speranze che vestiti; nel cuore già un pizzico di
nostalgia per ciò che lasciava.
Gli sembrò tanto grande la città, tante le difficoltà iniziali, ma ancora più
grande era quell’ottimismo misto ad incoscienza, tipicamente giovanile, che
lo faceva guardare avanti con fiducia.
Trovò lavoro come cameriere in un ristorante e per arrotondare cominciò
a fare ritratti: ci sapeva fare con la matita e i colori e, ben presto, quello
che sembrava un hobby divenne il suo lavoro.
La sua era una pittura istintiva che, dagli esordi timidi e incerti, assunse
poco a poco le sembianze dell’arte. Lo chiamavano “lo straniero” per via
di quel nome orientale, impronunciabile in occidente.
La sua notorietà, nel tempo, crebbe a dismisura, ora se lo contendevano i
galleristi di tanti Paesi ma lui continuava a pensare di trovarsi all’interno
di un sogno e che al risveglio tutto sarebbe svanito.
Alle numerose interviste sul segreto della sua arte rispondeva semplicemente: “non faccio altro che trasferire ciò che vedo nella tela”, perché
era veramente ciò che, in cuor suo, sentiva di fare.
Ma la nostalgia per il paese natio si faceva sentire sempre più forte, finché
decise di tornare per una breve visita. Erano passati gli anni e l’emozione,
al vedere le prime case, quasi gli toglieva il respiro.
Anche qui lo accolsero grandi festeggiamenti, la sua notorietà lo aveva preceduto, ma per quanto si guardasse attorno, non scorgeva volti conosciuti. I
suoi genitori erano morti e non vedeva gli amici di un tempo.
Non erano più in paese, gli spiegarono, quello era ormai un villaggio abitato da anziani, i giovani erano andati altrove in cerca di lavoro e prospettive migliori per il futuro.
Non poteva pensare di trovare tutto come lo aveva lasciato, lo capiva, ma
era sgomento; poi, finiti i festeggiamenti si rese conto che qui lo trattavano ormai da ‘straniero’. Questo lo ferì. Ripartì in fretta.
Aveva il cuore gonfio in un misto fra tristezza e rimpianto. Negli altri
Paesi lo chiamavano così anche se si era integrato ed era normale che
lo pensassero, perché era vero.
Ma appena tornato alla sua vita, a tanti chilometri di distanza, vide le cose sotto un altro aspetto: lo trattavano con distacco perché lui era un artista e dipingere non era considerato ‘lavoro’.
Comprese l’atteggiamento dei suoi compaesani e da quel momento prese
atto in cuor suo, finalmente, di essere davvero un artista.
La sua pittura lo portò sempre più lontano, esponendo nelle gallerie più
note. Ormai era tutto cambiato e dovunque andasse era bene accolto,
nessuno lo chiamò più ‘straniero’.
La sua casa era ormai il mondo, che gli aveva dato un futuro, notorietà e
successo e sentì di essere, dopo tanti anni, davvero “Cittadino del mondo”.
La nostalgia per i suoi cari, i vecchi amici e per il paese natio, continuò a
riaffiorare di tanto in tanto e la coccolò in sé con emozione, custodendola
con la carezza del ricordo, ma non vi tornò mai più.
Dedica speciale a tutti gli emigrati, cittadini del
mondo, che nella valigia hanno saputo portare con
sé non solo la nostalgia ma una profonda umanità.
La vicenda non si riferisce all’artista
Liu Mao Shan, che ha realizzato i dipinti.
Testo e grafica: [email protected]
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Cittadino del mondo