Siddharta
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(seguito del volume tre)
RISVEGLIO
Quando Siddharta lasciò il boschetto nel quale rimaneva il Buddha, il Perfetto, e nel quale rimaneva
Govinda, allora egli sentì che in questo boschetto
restava dietro di lui anche tutta la sua vita passata
e si separava da lui.
Su questa sensazione, che lo riempiva tutto, egli
venne riflettendo mentre s'allontanava a lento
passo.
Profondamente vi pensò, come attraverso un‘acqua
profonda calò fino il fondo di questa sensazione, fin
là dove riposano le cause ultime, poiché conoscere
le cause ultime, questo appunto è pensare - così gli
pareva - e solo per questa via le sensazioni diventano conoscenze e non vanno perdute, ma al contrario si fanno essenziali e iniziano a irradiare ciò
che in esse è contenuto. Rifletteva Siddharta nel
suo lento cammino. Stabilì che non era più un giovinetto, ma era diventato un uomo.
Stabilì che una cosa l'aveva abbandonato così come
il serpente viene abbandonato dalla sua vecchia
pelle, che una cosa non era più presente in lui, che
l'aveva accompagnato durante tutta la sua giovinezza, e gli era appartenuta: il desiderio di avere
maestri e di conoscere dottrine.
L'ultimo maestro che era apparso sulla sua strada,
il sommo e sapientissimo maestro, il più santo di
tutti, il Buddha, anche questo egli l'aveva abbandonato, aveva dovuto separarsi da lui, non aveva
potuto accogliere la sua dottrina. Sempre più lento
andava il pensieroso e si chiedeva frattanto:
«Ma che è dunque ciò che avevi voluto apprendere
dalle dottrine e dai maestri, e che essi, pur avendoti rivelato tante cose, non sono riusciti a insegnarti?». Ed egli trovò: «L'Io era, ciò di cui volevo
apprendere il senso e l'essenza.
L'Io era, ciò di cui volevo liberarmi, ciò che volevo
superare. Ma non potevo superarlo, potevo soltanto
ingannarlo, potevo soltanto fuggire o nascondermi
davanti a lui.
In verità, nessuna cosa al mondo ha tanto occupato i miei pensieri come questo mio Io, questo enigma ch'io vivo, d'essere uno, distinto e separato da
tutti gli altri, d'essere Siddharta! E su nessuna cosa
al mondo so tanto poco quanto su di me, Siddharta!». Colpito da questo pensiero s'arrestò improvvisamente nel suo lento cammino meditativo, e tosto da questo pensiero ne balzò fuori un altro, che
suonava: «Che io non sappia nulla di me, che Siddharta mi sia rimasto così estraneo e sconosciuto,
questo dipende da una causa fondamentale, una
sola: io avevo paura di me, prendevo la fuga davanti a me stesso! L'Atman cercavo, Brahma cercavo e volevo smembrare e scortecciare il mio Io, per
trovare nella sua sconosciuta profondità il nocciolo
di tutte le cortecce, l'Atman, la vita, il divino,
l'assoluto.
Ma proprio io, intanto, andavo perduto a me stesso». Siddharta schiuse gli occhi e si guardò intorno,
un sorriso gli illuminò il volto, e un profondo sentimento, come di risveglio da lunghi sogni, lo percorse fino alla punta dei piedi. E appena si rimise in
cammino, correva in fretta, come un uomo che sa
quel che ha da fare. «Oh! - pensava respirando profondamente - ora Siddharta non me lo voglio più lasciar scappare! Basta! Iniziare il pensiero e la mia
vita con l'Atman e col dolore del mondo! Basta! Uccidermi e smembrarmi, per scoprire un segreto dietro le rovine! Non sarà più lo Yoga-Veda a istruirmi,
né l'Atharva-Veda, né gli asceti, né alcuna dottrina.
Dal mio stesso Io voglio andare a scuola, voglio conoscermi, voglio svelare quel mistero che ha nome
Siddharta».
Si guardò attorno come se vedesse per la prima
volta il mondo. Bello era il mondo, variopinto, raro
e misterioso era il mondo! Qui era azzurro, là giallo,
più oltre verde, il cielo pareva fluire lentamente come i fiumi, immobili stavano il bosco e la montagna
tutto bello, tutto enigmatico e magico, e in mezzo
v'era lui, Siddharta, il risvegliato, sulla strada che
conduce a se stesso. Tutto ciò, tutto questo giallo e
azzurro, fiume e bosco penetrava per la prima volta
attraverso la vista in Siddharta, non era più l'incantesimo di Maya, non era più il velo di Maya, non era
più insensata e accidentale molteplicità del mondo
delle apparenze, spregevole agli occhi del Brahmino, che, tutto dedito ai suoi profondi pensieri, scarta la molteplicità e solo dell'unità va in cerca.
L'azzurro tra azzurro, il fiume era fiume, e anche se
nell'azzurro e nel fiume vivevano nascosti come in
Siddharta l'uno e il divino, tale era appunto la natura e il senso del divino, d'esser qui giallo, là azzurro, là cielo, là bosco e qui Siddharta. Il senso e l'essenza delle cose erano non in qualche cosa oltre e
dietro loro, ma nelle cose stesse, in tutto.
«Come sono stato sordo e ottuso!
- pensava, e camminava intanto rapidamente. Quand'uno legge uno scritto di cui vuol conoscere il
senso, non ne disprezza i segni e le lettere, né li
chiama illusione, accidente e corteccia senza valore, bensì li decifra, li studia e li ama, lettera per
lettera.
Io invece, io che volevo leggere il libro del mondo
e il libro del mio proprio Io, ho disprezzato i segni
e le lettere, a favore d'un significato congetturato
in precedenza, ho chiamato illusione il mondo
delle apparenze, ho chiamato il mio occhio e la mia
lingua fenomeni accidentali e senza valore. No, tutto questo è finito, ora son desto, mi sono risvegliato nella realtà e oggi nasco per la prima volta».
Mentre rivolgeva tali pensieri, si fermò tuttavia improvvisamente, come se un serpente fosse apparso
sulla strada davanti ai suoi piedi. Poiché improvvisamente anche questo gli si era rivelato: egli, che
nella realtà si trovava come un risvegliato o come
un nuovo nato, doveva ricominciare interamente la
sua vita.
Ancora in quello stesso mattino, quando aveva lasciato Jetavana, il boschetto di quel Sublime, e già
era in atto di ridestarsi, già era sulla strada che riconduce a se stesso, era stata sua intenzione e gli
era parso perfettamente ovvio e naturale, dopo gli
anni dei suo noviziato ascetico, far ritorno a casa
sua, da suo padre.
Ma ora per la prima volta, proprio in quell'istante in
cui egli s'era arrestato come se un serpente giacesse sulla sua strada, s'era destata in lui anche questa idea: « Io non sono più quel che ero, non sono
più eremita, non sono più prete, non sono più Brahmino. Che dunque vado a fare a casa di mio padre?
Studiare? Offrire sacrifici? Praticare la concentrazione? Tutto questo è passato, tutto questo non si
trova più sul mio cammino».
Immobile restò Siddharta, e per un attimo, la durata d'un respiro, un gelo gli strinse il cuore, ed egli
lo sentì gelare nel petto come una povera bestiola,
un uccello o un leprotto, quando s'accorse quanto
fosse solo. Ora lo sentiva. Sempre, finora, anche
nella più profonda concentrazione, egli era rimasto
il figlio di suo padre, era stato Brahmino, d'alto ceto, un sacerdote. Adesso non era più che Siddharta,
il risvegliato, e nient'altro. Trasse un profondo sospiro, e per un attimo si sentì gelare. Rabbrividì.
Nessuno era così solo come lui. Non v'era un nobile
che non appartenesse all'ambiente dei nobili, non
v'era un manovale che non appartenesse all'ambiente dei manovali; e fra i loro pari tutti trovavano
ricetto, ne condividevano la vita, ne parlavano la
lingua.
Non v'era un Brahmino che non fosse annoverato
tra i suoi colleghi e non vivesse con loro, non v'era
un eremita che non potesse trovar ricetto nella società dei Samana, e anche il più sperduto solitario
della foresta non era uno e solo, anche lui era circondato da aderenti, anche lui apparteneva a una
categoria che gli faceva da patria.
Govinda s'era fatto monaco, e mille monaci erano
suoi fratelli, portavano un abito come il suo,
condividevano la sua fede, parlavano il suo
linguaggio.
Ma lui, Siddharta, a quale comunità apparteneva?
Di chi condivideva la vita? Di chi avrebbe parlato il
linguaggio?
Da questo momento in cui il mondo circostante
parve disciogliersi intorno a lui, in cui egli rimase
abbandonato come in cielo una stella solitaria, da
questo momento di gelo e di sgomento Siddharta
emerse, più di prima sicuro del proprio Io, vigorosamente raccolto.
Lo sentiva: questo era stato l'ultimo brivido del
risveglio, l'ultimo spasimo del nascimento.
E tosto riprese il suo cammino, mosse il passo
rapido e impaziente, non più verso casa, non più
verso il padre, non più indietro.
(segue nel volume cinque)
In fraterna
amicizia
a cura di:
Volume
quattro
di dodici
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