ESAMI DI STATO ANNO SCOLASTICO 2004/2005
LICEO CLASSICO F. FIORENTINO
ILARIA FATO, CLASSE 3° A
IL DISAGIO ESISTENZIALE
“Allora per la prima volta ci siamo accorti che la nostra lingua manca di parole per
esprimere questa offesa, la demolizione di un uomo. In un attimo, con intuizione quasi
profetica, la realta’ ci si e’ rivelata: siamo arrivati al fondo. Piu’ giu’ di cosi’ non si
puo’ andare : condizione umana piu’ misera non c’e’, e non e’ pensabile. Nulla piu’ e’
nostro: ci hanno tolto gli abiti, le scarpe, anche i capelli; se parleremo, non ci
ascolteranno, e se ci ascoltassero, non ci capirebbero. Ci toglieranno anche il nome: e se
vorremo conservarlo, dovremo trovare in noi la forza di farlo, di fare si che dietro al
nome, qualcosa ancora di noi, di noi quali eravamo, rimanga”.
(DA “ SE QUESTO E’ UN UOMO” , PRIMO LEVI)
IL DISAGIO ESISTENZIALE
Italiano
Leopardi: “Canto notturno di un
pastore errante dell’Asia”
Montale “Spesso il male di
vivere ho incontrato”
Levi: “Se questo è un uomo”.
Filosofia
Kierkegaard:l’angoscia è la
possibilità della libertà.
Schopenhauer: “Il pessimismo”.
Storia dell’Arte
Edvard Munch: “Il Grido”.
Greco
Latino
Sofocle: dall’ Aiace,815-818:
“L’addio di Aiace alla vita”;
“Il tema della morte”.
Lucrezio: “Il pessimismo”
Storia
Il Nazismo;
L’Olocausto.
BIBLIOGRAFIA
“IL GRIDO” DI EDVARD MUNCH
“Camminavo sulla strada con due amici,il sole tramontava,sentii come una
vampata di malinconia,il cielo divenne improvvisamente rosso sangue. Mi
arrestai. Mi appoggiai al parapetto stanco da morire… Rimasi lì,tremando
d’angoscia e sentivo come un grande interminabile grido che attraversava
la natura”
Centro dell’interesse di Munch è l’uomo,il dramma del suo esistere,del suo essere
solo di fronte a tutto ciò che lo circonda,i suoi conflitti psichici,le sue paure. Infatti
l’artista esprime in immagini il proprio mondo interiore. Ciò che conta è che queste
immagini non siano una semplice illustrazione didascalica,ma diventino opere d’arte
compiuta in sé. Lo conferma una delle sue opere più note,”Il Grido”. Il titolo è
significativo; non indica qualcosa che sta accadendo (un uomo che urla),né un
luogo (il ponte),ma l’espressione interiore attraverso il grido. Il grido non è
l’articolazione logica di un pensiero o di un sentimento in parole ordinate
sintatticamente; il grido è la reazione istintiva, è l’”urlo originario”,primordiale,antico
come l’uomo,che esprime un complesso inestricabile di sentimenti,di
paure,o,meglio,di insicurezza,di smarrimento,di angoscia. Angoscia,infatti,direbbe
Kierkegaard,è cosa diversa da paura; questa è provocata da qualcosa di
determinato,quella dal nulla; è angoscia esistenziale,paragonabile solo alla vertigine
che si prova guardando dall’alto nella profondità,simile a quella dell’uomo che
guarda non fuori,ma nell’abisso di se stesso. Infatti egli scrisse: “La malattia,la
follia,la morte erano gli angeli che si affacciarono sulla mia culla”.
GIACOMO LEOPARDI
EUGENIO MONTALE
PRIMO LEVI
GIACOMO LEOPARDI
Tratto dal “Canto notturno di un pastore errante dell’Asia”:
…Dimmi, o luna: a che vale
al pastor la sua vita,
la vostra vita a voi? Dimmi: ove tende
questo vagar mio breve,
il tuo corso immortale?…
Il Leopardi ha trovato l’interprete del sentire suo nel “pastore errante”che,estraneo
ad ogni tradizione storica e a ogni società umana,sente con la schiettezza di un
primitivo i dubbi e le angosce più profonde degli uomini e dà loro una voce
conforme alla propria natura. Questo canto è l’ultimo dei Grandi Idilli e segna la fine
della loro stagione,la chiusura del cuore del poeta all’atteggiamento sentimentale di
rievocazione dei sogni dell’adolescenza. E’ pure l’unico degli idilli cui non fa da
sfondo e da presenza sentimentale il paesaggio recanatese,ma una natura
favolosa e irreale,anche se suggerita da una precisa determinazione geografica.
Nell’immaginazione del Leopardi il pastore diventa un personaggio-simbolo,la voce
del poeta ed insieme di tutta l’umanità. Il discorso poetico qui si è fatto tutto
interiore,la situazione si è spersonalizzata in una regione remota e solitaria del
mondo,nella persona di un pastore nomade che dialoga con la luna nel silenzio
della notte e proietta sullo sfondo della landa deserta e desolata dell’Asia e nel
cielo la propria meditazione sconsolata e la tragica conclusione che in qualunque
forma e in qualunque condizione,umana o animale,”è funesto a chi nasce il dì
natale”.
EUGENIO MONTALE
SPESSO IL MALE DI VIVERE HO INCONTRATO
Spesso il male di vivere ho incontrato:
era il rivo strozzato che gorgoglia,
era l’incartocciarsi della foglia
riarsa, era il cavallo stramazzato.
Bene non seppi, fuori del prodigio
che schiude la divina Indifferenza:
era la statua nella sonnolenza
del meriggio, e la nuvola, e il falco alto levato.
In un amaro consuntivo della propria vita,il poeta si accorge di aver
incontrato nel proprio viaggio soltanto dolore,un dolore implacabile e
senza ragione,che si abbatte indifferentemente su uomini,cose e
animali. A questa condizione insanabile dell’esistenza non è riuscito a
opporre altro se non l’indifferenza e il distacco, intesi come lucida
consapevolezza della legge che incombe sul vivere dell’uomo. La
lirica,appartenente a Ossi di seppia,riproduce,anche strutturalmente
con la sua netta divisione in due parti,i due momenti della riflessione
del poeta: nella prima parte,infatti,c’è la constatazione del destino di
dolore che accomuna tutti gli aspetti della realtà e simbolicamente si
manifesta nella sofferenza delle cose più umili e quotidiane; nella
seconda parte,invece,il poeta enuncia la propria norma di
vita,dolorosamente negativa emblematicamente sintetizzata nella
fredda immobilità della statua e nel distacco della nuvola e del falco.
Dal punto di vista stilistico,il componimento è ricco di immagini
realistiche,come “il rivo strozzato che gorgoglia… l’incartocciarsi della
foglia… il cavallo… la statua… la nuvola… il falco…” che,nel
contesto,assumono valori simbolici carichi di suggestione. Eugenio Montale
occupa nella poesia un posto preminente come testimone profondo della
crisi del nostro tempo e come interprete originalissimo della condizione
spirituale dell’uomo moderno. La sua opera poetica si è imposta,fin dal suo
apparire,per l’intensità e la coerenza dell’impegno. La “negatività”,che il
poeta professa,intesa come rifiuto di qualsiasi verità precostituita e come
amara coscienza del non-senso del vivere,si riflette,infatti,come non hanno
mancato di sottolineare i critici specialmente a proposito di Ossi di
seppia,in un linguaggio scarno ed essenziale,in immagini desolate e
squallide,in una musicalità disarmonica,che danno corpo a una lirica
punteggiata di attese,di pause,di silenzi,che bene esprimono la condizione
umana e intellettuale in cui molti uomini si sono riconosciuti. La sua poesia
esprime,infatti,la dolorosa concezione del “male di vivere” in cui si fondono
e si sintetizzano il disagio e la crisi dell’uomo contemporaneo.
PRIMO LEVI
Se questo è un uomo
Voi che vivete sicuri
nelle vostre tiepide case,
voi che tornando a sera trovate
il cibo caldo e visi amici:
considerate se questo è un uomo
che lavora nel fango
che non conosce pace
che lotta per mezzo pane
che muore per un sì o per un no .
Considerate se questa è una donna,
senza capelli e senza nome
senza più forza di ricordare
vuoti gli occhi e freddo il grembo
come una rana d'inverno.
Meditate che questo è stato:
vi comando queste parole.
Scolpitele nel vostro cuore
stando in casa andando per via,
coricandovi alzandovi;
ripetetele ai vostri figli.
O vi si sfaccia la casa,
la malattia vi impedisca,
i vostri nati torcano il viso da voi.
Sui campi di sterminio nazisti esiste una nutrita letteratura. In particolare sul lager di
Auschwitz, forse il più famigerato.
La poesia "Se questo è un uomo" di Primo Levi, più che un documento
sull'antisemitismo è un'analisi fondamentale della composizione e della storia del lager,
ovvero dell'umiliazione, dell'offesa, della degradazione dell'uomo, prima ancora della
sua soppressione nello sterminio di massa.
Ed è proprio questo uno dei due punti che mi hanno colpito dalla poesia, ovvero,
mentre negli altri documenti di mia conoscenza, sullo sterminio nazista si cerca di
sensibilizzare l'opinione pubblica con scene e racconti di violenze fisiche, più che
morali.
In questa poesia, Levi ha dato testimonianza dello sconvolgente inferno dei Lager, nella
prospettiva psicologica, della dignità calpestata e dell'abiezione dell'uomo di fronte al
genocidio.
Il secondo punto che mi ha colpito è stato quello che si coglie alla fine del testo poetico,
quel messaggio lanciato prima come invocazione, poi come minaccia, che rivela la
paura che lo ha accompagnato per tutta la sua vita: quello che si dimentichi a che cosa
ha portato un ingiustificato odio razziale, e che si possa avere di nuovo un'altra
Auschwitz.
Oltre a questo, la poesia mi è piaciuta anche per il metodo espositivo, semplice e
diretto, che, senza girare intorno a parole e fatti, ci indica il pericolo in cui si incorre
quando, individui, popoli o semplicemente noi stessi, cominciano a ritenere, più o meno
consapevolmente, che "ogni straniero è nemico".
PRIMO LEVI: L’UOMO E LO SCRITTORE
di Ettore Bonura
“Chi ha conosciuto l’orrore e le atrocità di cui sono capaci gli uomini,non può più liberarsene.
Oppure se ne libera a prezzo di indicibili sofferenze,che talora possono condurre alla tragica
liberazione finale: il suicidio. Io non so se Primo Levi si sia veramente ucciso con la lucida
consapevolezza di compiere un gesto condannabile. Dubito che lo abbia fatto perché la
madre era malata. Se posso avanzare una mia ipotesi,penso che Primo Levi si sia ucciso per
il senso di colpa che tormenta tutti coloro che sono scampati ai lager nazisti. Talvolta,è
intollerabile sentirsi vivi in mezzo a una carneficina. Probabilmente questo senso di colpa
tormentava Primo Levi fin da quando tornò in Italia,nel lontano 1945. Ma lo scrivere e il
meditare lo aiutò a sopravvivere. Dentro aveva tuttavia il tarlo del lager. Se questo eccidio era
accaduto,ragionava Primo Levi,non è detto che non possa riaccadere. L’opera di Primo Levi
non è un’opera soltanto letteraria,ma anche e soprattutto di testimonianza. Gli uomini
sciocchi tendono ad occultare la memoria storica,comportandosi come gli struzzi,e così
facendo preparano il terreno per la semina di nuovi dolori e di nuovi lutti. Invece Primo Levi
scriveva per ricordare,per contrastare la smemoratezza vile e immorale. C’era perciò nella
sua scrittura una fiducia incrollabile nella possibilità di riscatto. Primo Levi apparteneva alla
rara e splendida categoria degli scrittori che affondavano il bisturi nel cuore umano. Ma
apparteneva anche alla categoria degli scrittori-testimoni,degli scrittori-martiri. Questo tipo di
scrittore,per essere efficace,deve avere,paradossalmente,un certo distacco dalla materia,per
poterla contemplare con calma disperazione. Primo Levi aveva questo straordinario
distacco,che gli consentiva di denunciare la tragica stupidità degli uomini,e nello stesso
tempo di non tradire le ragioni autentiche della letteratura e della poesia.
LUCREZIO
IL “PESSIMISMO” DI LUCREZIO
La critica lucreziana si può dividere in due filoni fondamentali: da un lato vi è chi scorge il centro
dell’ispirazione poetica nell’entusiasmo per la filosofia epicurea e nella fede che la scienza della
natura possa liberare gli uomini dalle passioni e dalle paure,e illuminare il mistero dell’universo;
dall’altro vi è chi vede nel poeta un ansioso,tendenzialmente pessimista,che aderisce alla
filosofia epicurea per trovare la liberazione dell’animo dall’angoscia,ma che non riesce a
comporre il dissidio interiore fra sentimento e ragione,ad eliminare il mistero dal mondo e
dall’anima sua,e perciò si trova in dissidio involontario con la dottrina serenatrice del maestro.
L’esistenza dei due aspetti contrastanti nella poesia di Lucrezio è un fatto innegabile. Per chi
sostiene la seconda tesi,del prevalere del pessimismo e dell’angoscia,è possibile additare
anche nelle parti più ottimistiche i segni di un temperamento mistico e l’affiorare sotterraneo
dell’ansia; chi sostiene la prima tesi cerca di dimostrare che le paure,le ansie,le calamità di cui
parla Lucrezio colpiscono soltanto chi non è in possesso della scienza epicurea,mentre il
sapiente ne è libero; ma questa distinzione fra il sapiente e la massa dell’umanità non si trova
né nel famoso passo del V libro dove la natura viene rappresentata come matrigna verso
l’uomo,né in molte altre parti del poema. Un peso non trascurabile nella valutazione della
poesia lucreziana ha l’attendibilità della testimonianza di San Girolamo sulla malattia mentale e
il suicidio del poeta. Naturalmente non dobbiamo pensare ad una forma di pazzia vera e
propria, ma ad una psicosi ansioso-depressiva,che,come dice San Girolamo,si manifesta in
crisi acute ad intervalli,e talora sbocca nel suicidio. Nessun passo del poema lucreziano preso
isolatamente può dimostrare la malattia mentale del poeta,ma è il concorso di molti elementi e
di molti aspetti diversi che delinea il quadro di una mente nevrotica e di una sindrome
depressiva. Un elemento che si può addurre a sostegno della tesi della malattia mentale di
Lucrezio è il frequente ricorrere nel poema di sogni,di incubi,di allucinazioni,e di immagini o
visioni che hanno il carattere dell’incubo e dell’allucinazione. Lucrezio si limita a presentare
l’angoscia come l’universale condizione umana,senza additare chiaramente i mezzi per
guarirne,e persino la causa dell’angoscia non è nominata esplicitamente,spetta al lettore
supporre che si tratti della paura della morte; e il male stesso è avvolto da un’ombra
inesplicabile di mistero,e grava sul cuore del malato come un peso oscuro.
Contenuto del V libro,vv.195-234 “LA NATURA MATRIGNA ALL’UOMO”.
Per dare un’idea delle contraddizioni esistenti nel poema lucreziano,all’Inno a
Venere del proemio,dove la natura appare benigna e generosa madre di
vita,contrapponiamo quel passo del V libro dove la natura appare matrigna verso
l’uomo,l’essere più misero e infelice della terra,costretto a vivere e a lottare in un
ambiente ostile,zimbello delle forze immense e crudeli che lo soverchiano. Il
concetto no deriva certamente da Epicureo,ma da filosofi a tendenza mistica,che
presentano la vita terrena come sofferenza ed espiazione,ed assegnano all’anima
un destino trascendente; Lucrezio però lascia da parte ogni salvezza trascendente
ed enumera soltanto i mali della condizione naturale dell’uomo. La miseria
dell’uomo
è
associata
all’immagine
di
una
natura
grandiosa
e
sconfinata,indifferente alle ansie dei piccoli mortali,che essa domina dall’alto delle
sue terribili collere. Lucrezio non tanto lamenta la sua crudeltà,quanto attacca la
stolta superbia degli uomini che pretendono di essere il centro dell’universo. Dalla
parte polemica si stacca l’immagine finale del fanciullo che nasce in un orizzonte
tempestoso; le fatiche del parto e il vagito del bimbo sono il primo segno delle
sofferenze e dei travagli che accompagnano tutta l’esistenza umana. All’uomo è
negato il sorriso della natura,madre benigna degli altri animali; egli è come un
assurdo nell’ordine naturale,come il figlio spurio che sconta una colpa ignota e
nasce con un marchio ineliminabile di inferiorità e di dolore.
SOREN KIERKEGAARD
ARTHUR SHOPENHAUER
IL “PESSIMISMO” DI SHOPENHAUER
Ciò che caratterizza la filosofia della natura di Shopenhauer è l’affermazione che gli esseri
fenomenici,nei quali si manifesta la volontà,si trovano in perpetua lotta fra loro: lotta
irriducibile,senza pietà,in tutti i gradi dell’esistenza. La volontà costituente il principio
dell’universo,infatti,proprio in quanto si disperde in infinita volontà particolari,non può non sentirsi
lacerata,perché continuamente arrestata nel suo sforzo: questo arresto si esprime come
bisogno,come dolore. Il dolore assume l’aspetto di stato positivo,universale della realtà; il piacere
invece non costituisce che uno stato negativo,il momentaneo appagamento del bisogno,la
momentanea cessazione del dolore. Se ne conclude che la vita è insieme tremenda e
incantevole,è un continuo oscillare fra il dolore e l’aspirazione a una liberazione da esso. La
volontà così come si è incarnata nel mondo non possiede nulla di divino. Considerare il mondo
come una teofania costituisce,per Shopenhauer,il massimo errore dell’idealismo. Esso sta alla
base dell’ottimismo di Hegel,a cui va invece ribattuto che il dolore è un fatto universale,il quale
diventa via via più acuto con l’acuirsi della coscienza. Shopenhauer polemizza in particolare contro
la concezione hegeliana della storia:per lui la storia dell’umanità non tende ad alcun fine,ne è
guidata dalla provvidenza; non è dominata dalla Ragione,come dice Hegel,ma dal destino,che ne
fa il ripetersi fatale di vicende che,pur sotto forme diverse,sono sempre le stesse. La vita umana è
“perenne tendere senza una meta ultima e ogni meta raggiunta è a sua volta principio di un nuovo
percorso e così all’infinito”. Il vero progresso non può dunque venire cercato entro il mondo:esso
consisterà nel trascendere l’esperienza,liberandosi dalle illusioni dei fenomeni. Per Shopenhauer
le vie di questa liberazione sono tre: la moralità,l’arte e l’ascetismo. La moralità consiste in un
sapere più elevato di quello dell’intelletto e della ragione. Il principio fondamentale di questo
sapere è la pietà,cioè il riconoscimento intuitivo dell’unità di tutti gli esseri. Tale pietà ha il potere di
eliminare dall’animo umano la malvagità,intesa come effetto dell’illusione che separa tra loro gli
uomini rendendoli stranieri e nemici gli uni agli altri. L’azione negativa della pietà è la giustizia;
quella positiva è la carità. L’arte è la contemplazione delle cose nel loro carattere ideale, ossia è la
contemplazione delle idee. La più elevata delle arti è la musica,che “ci rivela l’essenza intima del
mondo,si fa interprete della saggezza più profonda in una lingua che essa stessa non comprende”.
La musica è una filosofia inconscia scritta in termini misteriosi. Il suo linguaggio è assoluto e coglibile
solo dal genio artistico perché riproduce ed esprime la realtà. Certo di essa si può parlare solo per
metafore e per analogie. Ciò significa che il regno della musica è il sentimento inteso come la vita
interiore della volontà quindi esso si contrappone al concetto; ci dà l’universalità della forma senza la
materia: esprime infatti il sentimento,non i sentimenti particolari. Da qui viene la predilezione per musica
strumentale perché solo essa è pura forma non contaminata dai concetti,è libera espressività.
L’ascetismo viene interpretato da Shopenhauer come l’estrema riduzione possibile della volontà di
vivere; esso consiste nella negazione di ogni elemento fenomenico,di ogni conoscenza intellettiva,e
riesce pertanto ad attuare la liberazione definitiva dalle illusioni del mondo empirico. Va ricordato che
Shopenhauer non riconosce questa qualità al suicidio: esso infatti costituisce,almeno nei casi
generali,un atto violento di affermazione,non di negazione; un atto che non estingue la volontà di
vivere,ma proclama la volontà di condurre la vita in condizioni diverse da quelle che il suicidio trova
innanzi a sé. La negazione ascetica della vita è,invece,soppressione della particolarità del volere,di
quella particolarità che si esprime nell’esistenza individuale. L’ascetismo è la vittoria sulla dispersione
che frantuma la volontà in innumerevoli individui in lotta fra loro; è la modificazione radicale della volontà
che la trasforma nel suo opposto,in noluntas. Questo tipo di ascetismo si distingue da quello cristiano;
quest’ultimo è una condizione in cui l’uomo ha l’esperienza di un contatto con un Dio come essere
personale e trascendente,mentre l’ascetismo,cui si riferisce Shopenhauer,in cui rintracciamo il nirvana
buddistico,significa annullamento della personalità,una condizione di estasi in cui si è soppressa
l’alterità di soggetto e natura e l’uomo “cessa di volere,si guarda dall’attaccare il suo volere a una
qualsiasi cosa,cerca di conquistare in sé stesso la massima indifferenza per ogni cosa”. Quindi l’ascesi
è un esercizio pratico attraverso cui nell’uomo “nasce un orrore per la volontà di vivere,per il nucleo e
l’essenza di quel mondo da lui riconosciuto pieno di dolore”. La soppressione della cieca volontà di
vivere,sottraendo l’uomo alla catena causale del mondo fenomenico,costituisce l’unico atto possibile di
reale libertà. Al di là della negazione non rimane altro che il nulla: ma si tratta di un nulla relativo,di un
nulla che sembra tale solo se si considera il mondo illusorio della rappresentazione come vero mondo.
SOREN KIERKEGAARD: tratto da”Il concetto dell’angoscia”: l’angoscia è la
possibilità della libertà”.
“Se l’uomo fosse soltanto un animale o soltanto un angelo non avrebbe
possibilità di provare l’angoscia. Ma l’uomo è una sintesi ed è per questo che
sente l’angoscia,e l’uomo è tanto più grande quanto più l’angoscia è
profonda……..”.
In questo brano il filosofo danese chiarisce in che cosa consista,a suo
giudizio,l’uomo: un misto di bruto e di angelo. Dio ha concesso all’uomo la
possibilità di scegliere,perciò l’uomo è libero di essere ciò che vuole. Secondo
Dio,infatti,l’uomo non deve essere costretto al bene,ma deve sceglierlo da
solo,ma questa stessa libertà è fonte d’angoscia,la cui funzione positiva si
esprime soprattutto nell’esperienza religiosa,perché è un’esperienza di libertà
nella fede.
IL NAZISMO
Dopo la sconfitta della Germania del 1918,Hitler in Mein Kampf affermò che la condizione per il ritorno della
nazione tedesca al suo ruolo di grande potenza era lo “Stato-forte”,fatto soltanto con elementi di “pura razza
tedesca”,con l’esclusione degli ebrei,nemici assoluti. Il grande destino tedesco esigeva,secondo Hitler, “il più
completo assoggettamento dell’individuo allo Stato”,escludeva qualsiasi autonomia di persone,di classe e di
partiti,subordinava i diritti naturali dell’uomo allo “Stato-forte”,unico e assoluto interprete degli interessi della
“pura razza tedesca”; negava la pluralità dei partiti,che rompono l’unità nazionale,respingeva la sovranità del
popolo che non sa né creare né organizzare,ammetteva soltanto un èlite di capi provenienti da tutte le
classi,purché capaci d’intendere e attuare i diritti della razza tedesca. A queste condizioni il popolo tedesco
avrebbe potuto raggiungere il necessario spazio vitale,eliminare le limitazioni imposte dal trattato di
pace,offensive alla dignità nazionale,riportate tutte le popolazioni germaniche al Reich,espandersi verso la
Russia. Con queste premesse e promesse fu facile a Hitler raggiungere legalmente il potere,d’instaurare
una feroce dittatura,di attuare le sue aggressioni,di scatenare la Seconda Guerra Mondiale,di portare alla
rovina la Germania e l’Europa. Su questi effetti disastrosi dell’opera del Nazismo il giudizio degli storici è
generalmente concorde,diventa controverso per quanto riguarda il problema delle origini. Uno dei maggiori
rappresentanti dello storicismo contemporaneo, Meinecke,considera il nazismo soltanto un passeggero
delirio di grandezza; il nazismo è stato soltanto l’isolato e inatteso intervento di un fattore estraneo nel corso
della storia tedesca; Hitler era “un malato,affetto da psicopatia,un artista fallito”,che in tempi normali avrebbe
condotto altrove la sua esistenza,che riuscì a dominare non perché rispondeva alle idee del popolo
tedesco,ma perché favorito “da un epoca storica del tutto normale”. Questa tesi ha avuto poco successo,è
apparsa come un abile espediente per discolpare il popolo tedesco dalle tremende responsabilità. Il
fenomeno nazista,pertanto,non si può spiegare in un solo uomo,malato o anormale che fosse,ma va
riportato a una realtà più vasta che abbraccia tutto un popolo ben disposto. Ritter,lo studioso del militarismo
tedesco esclude che Hitler sia stato un malato,un anormale,ma gli riconosce una grande capacità
demagogica,”una satanica arte di seduzione”,della quale si valse per fare accettare al popolo tedesco il suo
immorale programma.”Se Hitler avesse lasciato intravedere alla nazione i suoi piani bellici,certamente
avrebbe distrutto ogni suo successo”. Ma,dotato di un’immensa fiducia in sé stesso,egli seppe esercitare
una forza di suggestione quasi prodigiosa,con la quale ingannò il popolo tedesco per mezzo di un
programma che nascondeva metodi e finalità immorali.
Anche questa interpretazione,che considera il nazismo la forma tedesca di un fenomeno europeo,portata
all’esasperazione da un individuo dalle velleità di superuomo,s’inserisce nella tendenza innocentista del
popolo tedesco,ma alla luce dei fatti,non è valida per escludere che il nazismo sia stato il risultato logico del
processo storico,politico,culturale,economico e sociale della Germania moderna. In tal senso si è espresso il
sociologo tedesco Max Weber,che,sebbene vissuto prima dell’avvento di Hitler previde nella Germania
bismarckiana le condizioni che l’avrebbero fatalmente condotta alla rovina. Il sistema bismarckiano,secondo
il Weber,incise negativamente nella formazione politica della borghesia tedesca. Nell’era in cui la rivoluzione
industriale faceva della classe borghese lo strumento più pericoloso alla libertà dei popoli,era
indispensabile,per il bene della civiltà,aiutarla con l’esercizio politico e parlamentare a liberarsi
dall’irrazionale romanticismo che la dominava. Il Bismarck,invece,la tenne lontana dall’esercizio della libera
vita politica e la sostituì con la burocrazia tecnica e amministrativa priva di personalità e di responsabilità; in
questo modo le impedì ogni autonomia d’iniziativa,ridusse tutti i problemi della nazione a questione di
tecnica,convertì gli uomini politici,cioè vivi e originali in macchine. La Germania divenne un paese di
eccellenti funzionari,capaci di curare,di organizzare i propri affarucci quotidiani ma non produsse uomini
politici di larga umanità capaci di interloquire costruttivamente sui destini del mondo. La borghesia e il
capitalismo,cresciuti
in
questa
atmosfera
romantica
alimentarono
aspirazioni
torbide
e
megalomani,assunsero metodi spregiudicati e immorali. Precisa fu quindi la responsabilità tedesca nella
durata e anzitutto nello scoppio del primo conflitto mondiale,rincalza lo storico tedesco Fischer. Dopo la
sconfitta del 1918,scomparsa la monarchia imperiale e burocratica di Guglielmo II,questa classe non ebbe
né ritegni né scrupoli,pur di non pagare i debiti e le riparazioni di guerra,a ricorrere all’inflazione
generale,poco curandosi del gravissimo danno che arrecava ai ceti medi e proletari. Del caos e della rovina
che seguirono ne approfittò Hitler per sostenere la necessità di sostituire il fallito liberalismo con un ordine
nuovo con il quale attrasse tutti gli scontenti,i delusi e i disoccupati,che nutrivano sentimenti antisemiti,che
detenevano la ricchezza del paese. In questo modo ottenne il favore della classe media e del proletariato;
rilanciando poi il pangermanesimo,si cattivò l’appoggio del militarismo prussiano.
LA PERSECUZIONE DEGLI EBREI NELLA 2° GUERRA
MONDIALE
Shoah è il termine ebraico che significa “sterminio” col quale si indica la persecuzione e il programmatico
genocidio degli ebrei europei da parte del regime nazista nel corso della seconda guerra mondiale. Per
indicare l’evento è comunemente usato il termine “olocausto”. Obiettivo dichiarato del regime nazista prima
della seconda guerra mondiale era spingere gli ebrei all’emigrazione. Nella notte tra il 9 e il 10 novembre
1938,la Notte dei Cristalli,come rappresaglia all’assassinio a Parigi di un diplomatico tedesco da parte di un
giovane ebreo,in Germania furono incendiate tutte le sinagoghe e infrante le vetrine dei negozi di proprietà
ebraica,mentre nei giorni successivi le SS arrestarono e deportarono migliaia di ebrei. Molti ebrei tedeschi e
austriaci decisero di abbandonare il paese senza ulteriori indugi; centinaia di migliaia di persone trovarono
rifugio all’estero,ma altrettante si videro costrette o scelsero di rimanere. Nel 1938 anche il re d’Italia Vittorio
Emanuele III ratificò leggi razziali antiebraiche,volute,sul modello di quelle tedesche dal regime fascista di
Mussolini. Ne conseguì un esodo,di cittadini italiani di origine ebraica e di quanti,come il fisico Enrico
Fermi,avevano un coniuge ebreo. Allo scoppio della 2° guerra mondiale,settembre 1939,l’esercito tedesco
occupò la Polonia occidentale che contava tra gli abitanti 2milioni di ebrei,i quali vennero sottoposti a
restrizioni ancora più severe di quelle vigenti in Germania. Furono infatti costretti a trasferirsi in ghetti
circondati da mura e filo spinato; ogni ghetto aveva il proprio consiglio ebraico cui era affidata la
responsabilità degli alloggi sovraffollati,della sanità e della produzione. Quanto era prodotto al loro interno
veniva scambiato con generi di prima necessità,come carbone e cibo in misura rigidamente razionata. Nel
giugno del 1941 l’ufficio centrale di sicurezza del Reich inviò,al seguito delle armate tedesche impegnate
nell’invasione dell’Unione Sovietica,3000 uomini organizzati in corpi speciali con il compito di individuare ed
eliminare sul posto la popolazione ebraica dei territori occupati. A un mese dall’inizio delle operazioni in
Unione Sovietica,il numero due del Reich, Goring,inviò una direttiva al capo dei servizi di sicurezza,
Heydrich,incaricandolo di organizzare una “soluzione finale” della questione ebraica in tutta l’Europa
occupata o controllata dalla Germania. A partire dal settembre 1941 gli ebrei tedeschi furono costretti a
portare ben visibile,cucita sugli indumenti o su una fascia da tenere al braccio,una stella gialla; nei mesi
seguenti decine di migliaia di ebrei furono deportati nei ghetti in Polonia e nelle città sovietiche occupate.
Fu poi la volta delle deportazioni nei campi di concentramento,i cosiddetti Lager,alcuni già esistenti prima della
guerra,altri appositamente costruiti a partire dal 1941,soprattutto in Polonia,e adibiti alla funzione di campi di
sterminio. Vi confluirono gli ebrei provenienti non solo dai ghetti vicini,ma anche da tutti i paesi europei occupati dai
nazisti. Bambini,vecchi,e tutti gli inabili al lavoro venivano condotti direttamente nelle camere a gas; gli altri invece
erano costretti a lavorare in officine private o interne ai campi e,una volta divenuti inadatti alla produzione per le
terribili fatiche e privazioni subite venivano eliminati. Il trasferimento nei campi di sterminio avveniva generalmente in
treno. La polizia pagava alle ferrovie di stato un biglietto di sola andata di terza classe per ciascun deportato: se il
carico superava le mille persone,veniva applicata una tariffa collettiva pari alla metà di quella normale. I
treni,composti da vagoni merci,sprovvisti di tutto,persino di buglioli e prese d’aria,viaggiavano lentamente verso la
destinazione,e molti deportati morivano lungo il tragitto. La maggio parte delle deportazioni ebbe luogo tra l’estate e
l’autunno 1942, dopo che nel gennaio dello stesso anno erano stati precisati,nella conferenza di Wannsee,i termini
della soluzione finale. Benché le deportazioni creassero problemi di ordine politico,amministrativo,in tutta
l’Europa,anche nei paesi governati da regimi collaborazionisti,come la Slovacchia e la Croazia,si procedette al
rastrellamento degli ebrei da deportare nei campi di sterminio. Il governo collaborazionista francese di Vichy emanò
direttive antisemite ancor prima che vi fosse una richiesta tedesca in tal senso. La Bulgaria si rifiutò di consegnare i
propri cittadini ebrei ai tedeschi. Nella Danimarca occupata,la popolazione si impegnò per mettere in salvo i
compatrioti ebrei,imbarcandoli verso la neutrale Svezia e sottraendoli così alla morte. In Italia il governo fascista,che
pure aveva spontaneamente introdotto leggi “a difesa della razza” rifiutò di collaborare con l’alleato nazista fino al
1943,quando dopo l’armistizio dell’8 settembre nell’Italia centrale e settentrionale occupata dai tedeschi,si instaurò il
Governo della Repubblica Sociale Italiana. Molti ebrei italiani furono internati in centri di raccolta,come quello di
Fissoli,vicino a Carpi,e poi avviati ai campi di sterminio. Le destinazioni più tristemente famose,fra le tante,furono
Bergen-Belsen,Flossemburg,Auschwitz. Quest’ultimo era il più grande tra i campi di sterminio; vi trovarono la morte
oltre un milione di ebrei,molti dei quali furono prima usati come cavia umane in esperimenti di ogni tipo. Per una
rapida eliminazione dei cadaveri nel campo vennero costruiti grandi forni crematori. Al termine della guerra,si potè
calcolare che nei campi di sterminio avevano trovato la morte più di sei milioni di ebrei,oltre a
slavi,zingari,omosessuali,testimoni di Geova e comunisti. Nel dopoguerra il ricordo della Shoah ebbe un peso
essenziale nella formazione di un ampio consenso attorno al progetto di costruire in Palestina uno stato ebraico che
potesse accogliere i sopravvissuti alla tragedia: il futuro stato di Israele.
SOFOCLE
SOFOCLE: TRATTO DALL’”AIACE”,815-818: “L’ADDIO DI AIACE ALLA VITA”
“ ‘o μέν σφαγεύς έστηκεν η τομώτατος
γένοιτ’ άν, εί τω κάι λογίζεσθαι σχολή,
δωρον μέν ανδρός ‘ Εκτορος ξένων εμοί
μάλιστα μισηθέντος, εχθίστου θ’ οραν ˙ “
Ben deciso a porre fine alla propria esistenza Aiace ascolta con animo
inflessibile le suppliche che gli vengono rivolte da Tecmessa,timorosa per il
proprio futuro e per quello del figlioletto Eurisace. Tuttavia,dopo aver dato
incarico ai suoi compagni di affidare la donna e il bambino alle cure di
Teucro,allora lontano dal campo,l’eroe sembra cambiare di colpo atteggiamento.
Divenuto meno aspro,Aiace rassicura i commilitoni e Tecmessa,dicendo di
volersi recare sulla spiaggia, per purificarsi con un bagno del sangue degli
animali uccisi e per seppellire la spada con la quale ha compiuto il massacro,un
oggetto che gli è divenuto odioso e che non vuole più avere sotto gli occhi.
L’eroe giustifica il cambiamento d’idea presentandolo come frutto di una più
matura e pacata riflessione sull’esistenza umana. Così,mentre tutti si rallegrano
per il felice cambiamento,Aiace si ritira in solitudine,più deciso che mai a
togliersi la vita.
IL TEMA DELLA MORTE
Nel
teatro
sofocleo,la
morte
fa
sentire
fortemente
la
sua
presenza,prospettandosi in modo vario per aspetti e motivazioni. Due
suicidi,quello di Aiace e quello di Deianira,pongono fine a situazioni che i
protagonisti non giudicano più in alcun modo accettabili; per Aiace si prospetta
la scelta fra la vita disonorevole e la morte gloriosa. Sul campo, Aiace ha
costruito un’immagine grandiosa di sè,e la vuole lasciare intatta nel ricordo degli
altri,cancellando con una morte onorevole la triste e grottesca parentesi della
follia. Per Deianira,il pugnale pone fine all’angoscia,ai rimpianti,alla paura,che
l’hanno perseguitata per tutta una vita e che ha subìto con sottomissione; l’unica
volta in cui ha tentato,inutilmente,di opporvisi,le è riuscita fatale. Rassegnata a
essere oggetto di contesa fra Eracle e il dio fiume Acheleoo,che la terrorizzava
con le sue spaventose metamorfosi,bramata con furia animalesca dal centauro
Nesso,Deianira ha subìto la lunga solitudine e i mille tradimenti di Eracle con
apparente passività,covando dentro di sè dolenti meditazioni sulla condizione
delle donne. Ma il pensiero che,con l’arrivo di Iole alla reggia di Trachis,ella
rimarrà soltanto di nome la moglie di Eracle,la spinge al suo primo e unico
tentativo di ribellione,con il risultato di distruggere colui che voleva conquistare
e,di conseguenza,anche sè stessa.
Scelta di morte è anche quella di Antigone,che pone fine ai suoi giorni nel sepolcro di
roccia,vanificando l’intervento di Creonte al quale si è opposta con inflessibile energia,in
nome della pietas fraterna e della legge sacra che impone di onorare i defunti.
Nell’intreccio del dramma,il suo suicidio non è che il primo anello di una tragica catena,che
si allunga con la morte di Emone e di Euridice,il figlio e la moglie di Creonte,incapaci di
sopravvivere alla perdita dei loro cari. Nell’ Elettra,la morte di Clitemnestra è il cardine
intorno al quale ruota tutta l’esistenza della protagonista,consumata da due passioni
contrastanti,ma di uguale intensità: l’amore indomabile per la memoria del padre,l’odio
inestinguibile per la madre,che Elettra non riesce a vedere se non nelle vesti di adultera
assassina. L’essere donna le vieta di portare a termine lei stessa il sanguinoso dovere
della vendetta; di qui,la lunga,snervante attesa del ritorno di Oreste,il fratello destinato ad
essere strumento di morte,perchè finalemnte l’animo tormentato di Elettra possa aver
pace,dopo aver contemplato con gioia feroce il terribile atto del matricidio. Tuttavia,la
morte non regna nei drammi di Sofocle soltanto nelle vesti di uno spettro sanguinoso e
implacabile; c’è anche,unico esempio nelle tragedie,la morte serena di Edipo che se ne va
”senza pianto e senza dolore”,dopo aver rassicurato le figlie che,nella loro vita futura,non
potranno mai avere da nessuno un amore più grande di quello del loro padre. Di fronte alla
morte,le grandi ma involontarie colpe di Edipo sembrano scomparire del tutto; l’uomo che
più di ogni altro eroe del mito ha violato le leggi del sangue con il parricidio e con
l’incesto,trasformando in un contorto groviglio le limpide categorie della paternità e della
filialità,riceve finalmente il segno della riconquistata armonia con il mondo divino e
scompare dietro alla voce che lo chiama.
BIBLIOGRAFIA:
STORIA DELL’ARTE: “L’ARTE ITALIANA” di P. Adorno; “DAL TESTO ALLA
STORIA,DALLA STORIA AL TESTO” di G. Baldi, S. Giusso, M. Razetti, G.
Zaccaria.
ITALIANO: “LA SCRITTURA E L’INTERPRETAZIONE” di R. Luperini, P. Cataldi,
L. Marchiani, F. Marchese; “DAL TESTO ALLA STORIA,DALLA STORIA AL
TESTO” di G. Baldi, S. Giusso, M. Razetti, G. Zaccaria; “PROBLEMI E
SCRITTORI DELLA LETTERATURA ITALIANA” di A. Giudice, G. Bruni; “GLI
AUTORI E LE OPERE” di A. Vertecchi, F. Roncoroni; “IL ROMANZO ITALIANO
DEL NOVECENTO” di G.Viti.
LATINO: “ANTOLOGIA DELLA LETTERATURA LATINA” di L. Perelli; “IL
LIBRO DI LETTERATURA LATINA” di M. Citroni, M. Labate, E. Narducci.
FILOSOFIA: “IMMAGINI DELL’UOMO” di L. Geymonat; “DIàLOGOS” di Cioffi,
Gallo, Luppi, Vigorelli, Zanette.
STORIA: “L’Età CONTEMPORANEA NELLA CRITICA STORICA” di C.
Bonanno; “PROFILI STORICI” di A. Giardina, G. Sabbatucci, V. Vidotto.
GRECO: “ANTOLOGIA DELLA LETTERATURA GRECA” di I. Biondi.
SITI INTERNET CONSULTATI: www.biografieonline.it ; www.arido.it.
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il disagio esistenziale