Il paradigma dello specchio: la
somiglianza obiettiva. John Hyman, The
Objective Eye (2006)
Un problema antico e una disputa antica
• “In the whole body of philosophical literature,
from Plato to the present day, there are two main
contending doctrines about depiction. The first,
which Plato states in the Cratylus, says that a
picture represents an object by copying its form
and color. The second, which appears much later
in the history of philosophy and as a reaction to
the first, says that a picture represents an object
by producing a special kind of experience in a
spectator’s mind. The original source of the
second doctrine is in Descartes’s Optics”
Si tratta appunto di un problema antico. Lo ritroviamo già
l’Eutifrone
in un dialogo platonico,
EUTIFRONE: Ecco dunque: è santo ciò che è caro agli dèi, e ciò che non è caro non è santo.
(…)
SOCRATE: Orsù, dunque, consideriamo cosa stiamo dicendo: ciò che è caro agli dèi è santo,
mentre ciò che è in odio agli dèi e l'uomo che è in odio agli dèi non è santo; non sono del
resto la stessa cosa, ma il santo è del tutto contrario all'empio. Non è così? (…)
SOCRATE: Ora una cosa non perché è veduta, per questo si vede, ma al contrario, perché si
vede per questo è veduta, e neppure perché è condotta si conduce, ma perché si conduce
proprio per questo è condotta, né perché è portata, si porta, ma proprio perché si porta è
portata. É chiaro, ormai, Eutifrone, quello che voglio dire? Voglio dire questo: che se avviene
una cosa o subisce un qualche fenomeno, non perché è avvenuta essa avviene, ma poiché
avviene è avvenuta. E non patisce perché è paziente, ma perché è paziente patisce. O non
sei d'accordo così?
EUTIFRONE: Io sì. (…)
SOCRATE: E allora anche questo sta così come ai punti precedenti: che non perché è amata
una cosa viene amata da coloro che l'amano, ma proprio perché si ama, viene amata?
EUTIFRONE: Per forza!
Alcune ragioni che ci spingono verso la tesi della somiglianza
1. Il fatto di poter sostenere che vi è un fondamento obiettivo della percezione di
immagine permette di sostenere che il nesso di raffigurazione non è un fatto
meramente psicologico e non si fonda su una qualche illusione soggettiva. Una
raffigurazione è qualcosa che è connessa al suo denotato in virtù di una qualche
identità contenutistica e formale.
2. La teoria della somiglianza ci consente di spiegare con chiarezza il nesso di depiction,
e cioè la relazione che lega la superficie pittorica a ciò di cui è immagine, al contenuto
che rappresenta. Questo nesso è un nesso obiettivo: la superficie pittorica deve essere
identica per qualche aspetto ad un insieme di proprietà rilevanti dell’oggetto
raffigurato.
3. La tesi di Hyman è implicitamente connessa con una teoria della percezione di
immagine – con una teoria che spiega come sia possibile percepire una raffigurazione.
Se la superficie pittorica è identica per qualche aspetto a ciò che raffigura, la percezione
del raffigurante può risalire sino al raffigurato in virtù di un nesso di somiglianza.
4. È una teoria plausibile perché in qualche misura è sicuramente vero che per
disegnare una sfera rossa tracciamo un cerchio e lo coloriamo di rosso, che per
disegnare lo spiovente di un tetto tracceremo una linea obliqua, e così via.
Le raffigurazioni sono
dunque un calco di ciò che
raffigurano – anche se
resta
ancora
da
comprendere in che senso
sia possibile proiettare la
cosa nell’immagine, il
volto nel calco di gesso –
come accade in questo
maschera funebre che ci
ripropone il viso di Pascal
Tre obiezioni rilevanti alla teoria della somiglianza:
La prima sostiene che molte immagini non rappresentano cose che abbiano una immediata
presenza sensibile: si può raffigurare uno stato d’animo una virtù o addirittura un concetto. La
teoria della somiglianza non sarebbe quindi in grado di spiegare la ragione per la quale
possiamo dire che vi sono immagini che raffigurano oggetti che non hanno natura sensibile.
La seconda: la rassomiglianza è una
relazione e i termini di una relazione
devono esistere effettivamente se si
vuole sostenere che sussiste la
relazione che li lega.
Anche in questo caso è sufficiente
riflettere sulla molteplicità delle
immagini per rendersi conto che vi
sono raffigurazioni che stanno per
divinità, creature mitologiche, finzioni
letterarie o allegoriche e che in
nessuno di questi casi si può dire che
ciò che è raffigurato esiste. Botticelli
raffigura Atena e il centauro Chirone
in un’allegoria della Temperanza
razionale che sconfigge la Sensualità,
ma Atena e Chirone non esistono e
non
esistono
nemmeno
le
personificazioni delle virtù che sono
chiamati a rappresentare.
La terza obiezione ci invita a riflettere sul fatto che una
somiglianza sembra sussistere fra gli oggetti che si danno nel
mondo e gli oggetti così come ci appaiono raffigurati, mentre
non sembra invece sussistere tra la configurazione di punti
cromatici che si stagliano sulla tela e ciò che nella tela ci sembra
di vedere – un volto, un paesaggio, una battaglia.
Le risposte di Hyman
Hyman si sofferma innanzitutto sulla prima di queste obiezioni. Per venirne a capo
è innanzitutto opportuno osservare che almeno sul terreno del linguaggio non è
affatto vero che il verbo “vedere” non abbia come possibile complemento oggetto
entità che non sono immediatamente percepibili: io vedo la collera nei tuoi occhi,
la fretta nei tuoi movimenti, la tranquillità d’animo del tuo volto.
Se
la
vedo,
posso
rappresentarla:
per
farlo
tuttavia detto debbo poter
raffigurare
ciò
che
è
propriamente sensibile in
quelle situazioni e ciò significa
che posso raffigurare la collera
solo se posso cogliere l’aspetto
sensibile che si riconnette a
quello stato d’animo.
Della seconda obiezione ci si può tuttavia liberare rammentando che del
verbo “rappresentare” si può fare uso per esprimere una relazione
oppure no. Se per esempio sostengo ch un quadro raffigura (o è
immagine di) un ponte, posso intendere quest’espressione sia in un
senso relazionale – e in questo caso ha senso porre la clausola che dice “e
precisamente il ponte di …” – sia in un senso non relazionale, ed in
questo caso la clausola cui abbiamo fatto cenno sarebbe evidentemente
fuori luogo, perché dicendo che l’immagine raffigura un ponte, in questo
caso non intenderemmo affatto dire che sta per un determinato ponte,
ma che è un’immagine che rende visibile un ponte o – detto altrimenti –
che ha un ponte come suo contenuto.
La terza obiezione in realtà non è un’obiezione affatto perché non mette in luce una
difficoltà della teoria della rassomiglianza, ma si limita a richiamare la nostra attenzione sul
fatto che questa teoria trae parte della sua plausibilità da un equivoco – dalla tesi, questa
sì indiscutibile, secondo la quale sussiste una somiglianza tra ciò che si vede in una
raffigurazione e l’oggetto che funge da modello o da denotato della rappresentazione
stessa. Riconoscere tuttavia che la somiglianza esiste tra il rappresentato in quanto tale e
l’oggetto che viene raffigurato dall’immagine non significa ancora negare che possa
sussistere una rassomiglianza anche tra il pattern di linee che solcano la tela e ciò che la
tela consente di vedere. Scrive Hyman:
“it is true that the resemblance theory can appear plausible because we have confused the
surface of a painting and its content – that is, the objects or the scene that it depicts. But
the fact that the theory can appear plausible for the wrong reason does not imply that it is
false. And the fact that the resemblances we tend to be struck by when we look at pictures
are only perceptible once we have already perceived what they depict does not imply that
these are the only resemblances that exist. It is true that we can often look straight
through the surface of a painting, although many painters force us to slow down.
Augustine was struck by this point: “When you see a picture,” he wrote, “the matter is
ended: you have seen it, and you praise. When you see letters, this is not yet the end,
because you also have to read” (p. 67).
Accantonate queste obiezioni, possiamo tornare alla tesi
secondo antica secondo la quale il pittore dipinge un
oggetto imitando la sua forma e il suo colore –
modificando insomma la tela in modo tale da creare una
superficie pittorica simile all’oggetto raffigurato.
Eppure questa tesi così apparentemente ovvia si scontra con
un’obiezione rilevante che ci riconduce alle pagine cartesiane. I
pittori, rammentava Cartesio, «rappresentano meglio cerchi con
ovali che non con altri cerchi, e quadrati con rombi meglio che con
altri quadrati, e così con ogni altra figura: in tal modo spesso, per
essere più perfette come immagini e per rappresentare meglio un
oggetto, non debbono in alcun modo rassomigliargli» (Descartes
1637: 233). L’interesse cartesiano per le anamorfosi è chiaramente
connesso con queste considerazioni.
“the sheer simplicity of these observations is disarming; and they prove incontrovertibly
that the vague idea of copying an objects shape cannot explain how the inky marks on
the surface of an engraving depict the forest or town we see in it. This much must be
conceded from the start. But as we shall see, the precise sense in which a picture can
resemble a three-dimensional body in respect of shape is not difficult to explain because
three-dimensional bodies have two-dimensional aspects or appearances, which inky
marks on paper can record. For example, a circular tabletop has an elliptical aspect or
appearance, when it is seen along an oblique line of sight. The difficult question is
whether this aspect or appearance is in the visible object we perceive or whether it
belongs to ‘the beholder’s share’” (Hyman, p. 75).
Rispondere a questo interrogativo, vuol dire – per Hyman – da un lato individuare nella
nozione di proiezione il fondamento del nesso figurativo, dall’altro sottolineare che il
gioco delle prospettive non può essere inteso come una proprietà soggettiva: che
qualcosa appaia così e così da un determinato punto di vista non dipende dal fatto che vi
sia un soggetto che così percepisce, ma dalla geometria della luce.
Una proprietà mind-independent: la forma occlusiva.
Che cosa sia la forma occlusiva è presto detto: è la figura bidimensionale che si disegna
su un piano perpendicolare alla mia linea di visuale. Si tratta evidentemente di una forma
che varia con il variare della linea che unisce l’occhio all’oggetto, ma che – in quanto
forma – è indipendente dalla distanza dell’oggetto dal punto della costruzione
prospettica, anche se al variare della distanza varia la sua grandezza
An object’s occlusion shape is relative to a line of sight: it depends on the objects threedimensional shape and its orientation relative to this line. It is also affected by refraction,
as the example of a straight stick half immersed in water shows: the stick is straight but
its occlusion shape is crooked. And it is affected by reflection if the reflecting surface is
curved. Parmigianino’s Self-Portrait in a Convex Mirror illustrates this effect (fig. 5). Hence
not even a sphere has the same occlusion shape from every angle, regardless of the
medium that surrounds it and how it is seen. But although an object’s occlusion shape is
relative, it is real. The term “apparent shape,” which suggests a contrast with an object’s
real shape, is a misnomer for two reasons. First, an object’s apparent shape is the shape
it appears to have. But an object’s occlusion shape is a two-dimensional shape, and most
objects do not normally appear to have two-dimensional shapes because they do not
normally look flat. Second, we can distinguish between the apparent occlusion shape of
an object and its real occlusion shape. For example, the profile of a man’s nose may look
sharper or rounder than it really is because of his hat (pp. 77-78).
Due immagini che raffigurano la forma occlusiva. La prima è tratta da A. Dürer,
Underweysung der Messung, mit dem Zirckel und Richtscheyt : in Linien Ebnen vo gantzen
Corporen
Forma occlusiva della mia gatta dietro alle tende…
La regola di identità su cui poggia la relazione di raffigurazione:
“suppose a drawing depicts a man’s head. The shape of the smallest part of the
drawing that depicts this head and the occlusion shape of the head that it
depict must be identical. (I say the smallest part because if a small part of the
drawing depicts a head, then the larger part that includes this part also depicts
a head). The same is true of every other object or part of object, that is
depicted. Hence, if O is a depicted object and P is the smallest part of a picture
that depicts O, the general principle can be stated as follows: the occlusion
shape of O and the shape of P must be identical. This general principle, which I
call the occlusion shape principle, is a precise statement of the basic and
indispensable thought that a picture represents an object by representing its
form” (p. 81).
.. E grandezza occlusiva
La grandezza della forma occlusiva dipende dalla distanza dell’oggetto e dalla
distanza del piano intersecante
Alle riflessioni sulla forma si affiancano quelle sul colore. Anche qui la via
della somiglianza immediata sembra essere bandita dal fatto che un colore
uniforme di un oggetto si rende pittoricamente attraverso il gioco delle
ombreggiature. Questo tuttavia non significa che le ombreggiature non
abbiano un fondamento obiettivo:
“First, the relationship between the colors of the objects in a picture and the colors
that depict them cannot be explained by means of a single comprehensive principle.
And second, in the case of color, as in the case of form, it is sometimes possible to
define a precise relationship between the marks on a picture’s surface and the
objects they depict that does not depend on the picture psychological effect. Optical
fusion is an exception, but shading is not – because optical fusion, unlike the
variation in brightness that shading represents, is itself a psychological effect.
Descartes’s remark – that the problem is to know simply how pictures can enable the
soul to have sensory perceptions of all the various qualities of the objects to which
they correspond – is attractively simple. But when we study the depiction of colors
with some care, we see that it masks important differences and that there is no
reason to accept the blanket claim on the case of color any more than there is in the
case of form” (p. 104).
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