Teorie della formazione
A.A. 2013-14
Educazione/Istruzione/Formazione
(da Frabboni, Pinto Minerva, p. 42)
• Educazione deriva dalle parole latine educāre, che
vuol dire allevare, nutrire, ed e-ducěre, che vuol
dire trarre fuori. «Educazione» rappresenta la
parola madre su cui il sapere pedagogico si
struttura e si ramifica. Essa fa riferimento
soprattutto alla riflessione valoriale, affettivorelazionale, etico-sociale, esplicandosi e
realizzandosi prevalentemente nelle istituzioni non
formali quali famiglia, chiese, libere associazioni,
oltre che nella scuola
• Istruzione (dal latino instruere = rendere abile,
preparare a) allude all’ambito cognitivo e ai
processi dell’acquisizione di conoscenze, saperi
e competenze (analitiche e descrittive,
interpretative e critiche, euristiche e creative).
Essa si esplica e realizza prevalentemente nelle
istituzioni formali e principalmente nella scuola,
luogo specializzato dei processi di
insegnamento-apprendimento.
• Formazione, reinterpretata in questi ultimi anni a partire
dalla paideia greca e dalla Bildung tedesca, viene
proposta come la «categoria comprendente» del sapere
pedagogico, il momento nel quale si integrano le istanze
etiche (acquisizione di valori e comportamenti) e le
istanze cognitive e affettive.
• Essa è un processo dinamico che si esplica in una
duplice dimensione: una prima attiene al «con-formarsi»
alla conoscenza e alla cultura di un gruppo sociale; una
seconda dimensione è relativa al «formar-si», «ossia ai
processi auto-costruttivi attraverso i quali il singolo
soggetto elabora e trasfigura tale cultura con l’apporto
della propria specifica individualità»; la «formazione»
rappresenta quindi la dimensione nella quale si realizza
l’integrazione critico-costruttiva del nesso (intricato e
dialettico) educazione-istruzione (pp. 9, 42)
Per indicare il complesso dell'esistenza di un essere reale, il tedesco si
serve della parola Gestalt, forma; termine nel quale si astrae da ciò ch'è
mobile, e si ritiene stabilito, concluso e fissato nei suoi caratteri, un tutto
unico. Ora, se esaminiamo le forme esistenti, ma in particolar modo le
organiche, ci accorgiamo che in esse non v'è mai nulla d'immobile, di
fisso, di concluso, ma ogni cosa ondeggia in un continuo moto. Perciò
il tedesco si serve opportunamente della parola Bildung, formazione,
per indicare sia ciò che è già prodotto, sia ciò che sta producendosi.
Ne segue che, in una introduzione alla morfologia, non si dovrebbe
parlare di forma e, se si usa questo termine, avere in mente soltanto
un'idea, un concetto, o qualcosa di fissato nell'esperienza solo per il
momento.
Il già formato viene subito ritrasformato; e noi, se vogliamo acquisire
una percezione vivente della natura, dobbiamo mantenerci mobili e
plastici seguendo l'esempio ch'essa stessa ci dà.
Goethe
J.W. Goethe, Die metamorphose der Pflanzen, (1790), trad. it. di B. Groff, B. Maffi, S. Zecchi, La metamorfosi
delle piante e altri scritti sulla scienza della natura, Guanda, Parma, 1983, p.43.
• Bildung è un termine tedesco col quale si fa riferimento
al processo di formazione dell’uomo nel suo rapporto con
la cultura, concetto che fa riferimento al far progredire, al
far sviluppare certe capacità; di fronte alla cultura (Kultur)
l’individuo non ha un atteggiamento passivo ma attivo,
cercando di chiarirsi le idee sul suo destino, sui suoi
orientamenti di vita. Bildung, pertanto ha due valenze:
una estetico-organicistica e una teleologica (Givone,
1996)
– La forma che l’individuo si dà è sempre aperta e
soggetta a modificazione, per cui il processo di
formazione dura tutta la vita.
• Paideia allude alla formazione come crescita etica e
cognitiva del soggetto che tende a coordinare se
stesso secondo un modello estetico (Cambi, 1996)
Punti di vista contrastanti sul concetto
di formazione
• Cambi e Orefice evidenziano che si preferisce “processo
formativo” di “processo educativo” sia per la maggiore
valenza pratica del primo, sia perché il termine
“educativo” ha una connotazione troppo valutativa, che
discende dal discorso sui fini della tradizione
pedagogica.
– Nel mondo anglosassone “educative” ha una dimensione valutativa,
mentre “educational” è più empirico.
→ “Formativo” attiene a quel processo che consente
all’uomo di percorrere stadi di autorealizzazione
progressivamente più complessi. (Cambi-Orefice, 1996)
• Per Acone (2001) la formazione è più stimolo esterno e
non valorizza adeguatamente l’educere,
l’autoformazione, l’autorealizzazione.
→ Così la formazione è condizione necessaria, ma non
sufficiente, per il darsi dell’educazione (Acone, 2001).
è nota la posizione estrema di chi dissolve lo spessore di
specificità della pedagogia nelle varie discipline di supporto o
nella molteplicità delle cosiddette scienze dell’educazione
(Visalberghi, Laporta, Massa) perché si ritiene ideologico e non
scientifico il concetto di educazione e si tende a sostituirlo con
quello di istruzione o, tutt’al più, con quello di formazione
(Laporta, Massa) (Acone, 2001, p. 63)
• Massa (1992) evidenzia come spesso il termine “formazione”
è visto come il complementare negativo di “educazione” e
piuttosto sinonimo di “istruzione” e in genere sta a indicare
qualunque pratica consapevole, intenzionale, finalizzata,
settoriale, organizzata e controllata rispetto all’apprendimento
strutturato e permanente di conoscenze, abilità o atteggiamento
determinati.
– Quando se ne parla in un senso più tradizionale, invece si fa riferimento
a un modello ideale. Dove è sempre essenziale la centralità di
un’azione esterna o di un’assunzione interna mirata e programmata.
Quanto alla formazione come romanzo individuale, come vicissitudine e
come avventura educativa segnata fondamentalmente da processi
diffusi di socializzazione e di inculturazione, si tratta di quel significato
vitale ed esistenziale di formazione meglio depositato, più ancora che
nella psicoanalisi e nelle scienze sociali, nelle grandi produzioni
artistiche, filosofiche e letterarie, o in tanta parte dell’attuale produzione
cinematografica. La clinica della formazione vuole cogliere un tale
significato (Massa, 1992)
Da: Franco Cambi, Introduzione alla filosofia dell’educazione,
Laterza 2008
• Quello di distinguere educare/istruire/formare è un problema
costantemente aperto della pedagogia, da Socrate in poi.
• Il pensiero del ’68 legava educazione a “ideologia”, educazione
e conformazione a conformismo. Si è messo in luce il valore
dell’istruzione nelle società avanzate. L’istruzione è più
controllabile, l’educazione più sfuggente. Comunque sia, questa
“opposizione ternaria” è stata un elemento fondamentale della
problematicità pedagogica.
«Ogni attività educativa è, appunto, educazione (da ex ducere, trarre
fuori, o edere, nutrire, che implica un’attività direttiva e modelli da
realizzare, da nutrire, far vivere, sviluppare) e conformazione;
l’educazione è funzionale a una società, ai suoi scopi e alle sue
strutture (anche antropologiche); ma è anche istruzione, poiché
educa attraverso gli apprendimenti e poiché l’istruzione è un’altra
(parallela) istanza delle società (anche di quelle più primitive), legata
alla loro sussistenza. Essa ha però anche bisogno del soggetto».
• Oggi è forse la formazione (pur diversamente intesa) a
essere dominante, a svolgere una funzione di guida, poiché
all’educazione si è venuta assegnando una valenza sempre
più conformativa e quindi anche autoritaria. Anche l’istruzione
sta regredendo, perché lascia fuori troppi aspetti dell’educare (la
crescita, la socializzazione ecc.) e inoltre tende a intellettualizzare
il processo educativo e pure a scolasticizzarlo, istituzionalizzarlo.
Ma anche questo primato assegnato alla formazione vale oggi.
«la formazione è un processo di oggettivazione di sé nella cultura,
è universalizzarsi uscendo la sé, ma anche un riportare a sé tutta
questa produzione dell’uomo, per riviverla, appropriarsene, per
operare su di essa una sintesi vitale che diviene la forma del
soggetto» (p. 137).
• Tale rapporto non è mai lineare, ma contrassegnato da tensioni,
rotture, catastrofi. Sono stati in particolare i teorici della Bildung
(Schiller, Goethe fino a Gadamer, Habermas, passando per Hegel e
Marx, Dilthey, Simmel, il nostro Banfi e molti altri) a mettere in chiaro
il suo procedere additivo/ristrutturante, il suo disporsi a sintesi di io/sé
e “mondo”, la sua intrinseca tensionalità e il suo giocarsi sull’acquisir
forma che è sempre un processo incompiuto. Non solo, questi teorici
hanno legato la formazione all’io-individuo e l’hanno vista come
sempre più centrale nella società degli individui che ha
contrassegnato sempre di più la Modernità. La formazione è, così,
categoria di lunga e altissima tradizione, ma è anche una
categoria chiave dell’Età Moderna e della Contemporanea.
• Oggi, quella categoria, è sottoposta a una serie di slittamenti
semantici e torsioni di significato che inquietano la riflessione
pedagogica e reclamano una messa a punto della categoria. Anche
perché la categoria della formazione ha avuto un forte rilancio, ma a
partire da vie lontane, anzi contrarie, alla pedagogia. Il suo rilancio
nell’ambito economico-sociologico, in particolare, quale esigenza di
sostituire una professionalità rigida e una più plastica. Formazione qui
vale come formazione professionale.
• Positivo è stato il ripensamento della formazione professionale,
svincolata da canoni di rigidezza; meno, anzi equivoco, è stata
l’espropriazione fatta alla pedagogia della categoria, che si è
depedagogizzata, castrata nei suoi significati più alti e nobili. La
pedagogia ha risposto con approfondimenti analitici e con una
riflessione sulla formazione. Tale ripensamento è centrale perché, sia
detto senza enfasi, su tale categoria si gioca il destino della pedagogia,
della sua autonomia, della sua generalità, della sua funzione.
• È un confronto che si è nutrito di numerosi dibattiti: si ricordi, ad
esempio, l’opposizione di Luhmann e Habermas intorno
all’interpretazione della Bildung.
– Per Luhmann il paradigma della Bildung è ormai archiviato, tramontato con
l’avvento della società tecnologica, perché è sempre più centrale l’uomo
come mente e come agire piuttosto che l’uomo come “forma di sé”, come
autoconsapevolezza e come microcosmo (concezione cara al mondo
umanistico e borghese);
– per Habermas, l’uomo come autotrascendenza e come “donatore di
senso”, come molla dialettica del divenire, è non solo centrale, ma
insostituibile.
– Nel Postmoderno il formarsi si è sempre fatto più instabile,
articolato/disarticolato, facendo perdere alla nozione di forma l’idea di
struttura compatta. Oggi ci si forma in quanto si è sempre in formazione.
Franco Cambi (1996): Formazione e processo nella
pedagogia occidentale: momenti, modelli, funzioni
• Se l’e-ducere comportava un “estrarre” ma anche un conformare, in
qualche modo legato a un’autorità, la formazione pone in rilievo
l’aspetto dello sviluppo organico, di acquisizione di una “forma”. La
formazione è un acquisir-forma. Il formativo allude anche ad una
processualità dinamica, aperta, tensionale, organico-evolutiva.
• La formazione è al centro della pedagogia. Sin dall’illuminismo greco
la formazione ha posto in luce la vocazione squisitamente
antropologica della pedagogia, il suo legarsi alla crescita-sviluppomaturazione del soggetto e al suo qualificarsi come individuopersona lasciando più in ombra – ovvero in secondo piano – gli
aspetti sociali e conformativi. All’educere, al “trarre fuori”, è connessa
una valenza formativa, uno svilupparsi secondo una regola
interna. Il soggetto-individuo-persona non è dato naturale, ma
costruzione psicologico-etico-culturale, struttura-compito e non
struttura-datità, che viene elaborandosi attraverso un
complesso intreccio di rapporti fra la coscienza e la società.
• In Occidente l’educazione è formazione, in quanto acquisizione di
una forma interiore (che è anche modello armonico, costruzione
ideale) e in quanto processo aperto e autoregolato di questo
acquisir forma. È il modello teorizzato in maniera esplicita e
luminosa con la nozione di paideia, che allude alla formazione
come crescita etica e cognitiva del soggetto che tende a coordinare
se stesso secondo un modello estetico. Siamo di fronte a un
modello etico-estetico della formazione, del farsi persona come
soggetto autonomo, responsabile, fedele al proprio sé.
• Nel Seicento, con la Modernità, questo modello è posto in sordina a
favore dell’educazione civile e dell’inserimento sociale.
• È con il romanticismo, con Goethe, Schiller, von Humboldt, che
ritorna un’idea di formazione in senso antropologico ed estetico. Il
concetto di Bildung.
• Oggi dobbiamo interrogarsi sul superamento, come dice Luhmann,
della formazione. La cultura filosofica, da Heidegger a Benjamin, a
Sartre fino a Vattimo e a Rorty non ha valorizzato il formarsi in
senso classico, ma la frammentarietà dell’io, l’incontro duro con
l’oggettività, il collocarsi nel flusso degli eventi, che caratterizza la
condizione attuale dell’uomo.
• Il processo non è più visto sotto categorie filosofiche, ma con quelle
dell’evoluzionismo. Luciano Gallino, in L’incerta alleanza, tenta una
lettura sinottica e comparativa dei modelli epistemologici delle
scienze naturali e di quelle umane, cercando di sottrarle al
riduzionismo e all’aut-aut. Mette a fuoco l’altalenare di stazionarietà
e ciclicità, teleonomia e caoticità, catastroficità. Il modello-catastrofe
può essere utile a leggere certi momenti di crescita. Si pensi
all’adolescenza.
• La pedagogia della complessità si sta affermando come modello. Si
tratta di una “nuova alleanza fra scienza e filosofia”? Dice Cambi
che è ancora un’oscillazione…
• Come vanno ricollegate, dunque, processo e formazione nel
pensiero contemporaneo?
– si osserva che la pedagogia sta assumendo nel suo lessico nozioni
più oggettive e meno valutative di quelle del passato: si parla di
apprendere/insegnare e non di educare/istruire; di comunicazione
educativa piuttosto che di rapporto educativo; di processo
formativo invece di atto educativo;
– questa nozione di processo formativo risulta più vera perché ci
consegna un modello di evento educativo connotato in senso
processuale;
– anche l’idea di formazione va assunta dal punto di vista più
alto, come acquisir-forma da parte dell’uomo in vista di una
sua crescita spirituale, come soggettività capace di acquisir
cultura ma capace di sintesi centrata, di essere dotata di un
proprio centro. Proprio la pedagogia ha elaborato due categorie
di fortissima tenuta storica, quelle di paideia e di Bildung, del
soggetto che attraversa hegelianamente lo spirito oggettivo
rielaborandolo alla luce dello spirito soggettivo, acquistando così la
sua humanitas.
La pedagogia nel suo sviluppo storico ha posto in rilievo sia il
concetto-limite della formazione sia il modo in cui esso deve
essere assunto: spirituale, dinamico, oggettivo/soggettivo, storico,
dotato di un centro e di un certo attivo (l’io) che si regola secondo
il criterio dell’autonomia nel momento stesso in cui si struttura un
“bagno” nell’oggettività
Cambi (1996, pp.98-99)
• Rispetto a questo modello di formazione si è parlato oggi, come fa
Luhmann, di una fine della Bildung. Si parla di formazione
professionale, aziendale… in netta separazione col concetto
tradizionale di formazione. Ma la perdita è netta per una
comprensione adeguata del processo educativo dal punto di vista
propriamente umano.
• Si tratta pertanto di recuperare il concetto in tutto il suo spessore.
Tale nozione è presente in Marx e nel suo concetto di uomo
onnilaterale, nella scuola di Francoforte, ma anche in Nietzsche e
perfino in Heidegger, anche in maniera critica e radicale come
oltrepassamento dell’intellettualismo, del moralismo, del
logocentrismo.
• Come mettere insieme “processo” e “formazione”, essendo
l’uno maturato in schiave scientifico-epistemologica e l’altro
ricco soprattutto del suo passato? Si dovrà connetterli in
modo problematico e dialettico, utilizzando quel paradigma
della complessità che oggi viene da più parti indicato come il
criterio base per dar vita a un nuovo codice pedagogico?
La questione
• Formazione come ex-ducere (portare fuori),
ma anche come in-ducere (portare dentro)
→ come conciliare questi due aspetti?
↓
Cioè: come pensare che il «portare fuori» si
armonizzi con la dimensione sociale e oggettiva,
aggirando, da un lato, il rischio che il soggetto
rimanga asservito ad essa o che, per formarsi, debba
obbedire a logiche di tipo autoritario; e, dall’altro, la
possibilità che egli rimanga senza realtà, monade
autoreferenziale e tendenzialmente narcisista?
Il mondo è la «valle che fa l’Anima»
Il nome che viene comunemente
dato a questo mondo dalla gente
superstiziosa e fuorviata è «una
valle di lacrime», da cui dovremmo
essere redenti da un intervento
arbitrario di Dio e assunti in Cielo.
Che concetto ristretto e limitato.
Chiamiamo per favore il mondo la
«valle che fa l’Anima». Vedrete
allora a che serve il mondo (parlo
ora di natura umana nel senso più
alto, dando per scontata la sua
immortalità perché voglio
comunicarvi un pensiero che mi ha
colpito al riguardo).
John Keats (Londra, 31 ottobre 1795
– Roma, 24 febbraio 1821) è stato un
poeta inglese, uno dei principali
esponenti del romanticismo.
Dico «che fa l’Anima»: Anima in quanto la distinguo
dall’Intelligenza. Ci possono essere intelligenze o scintille
della divinità a milioni, ma non ci sono Anime finché quelle
scintille non acquistano identità, finché ognuna non è
personalmente sé stessa. Le intelligenze sono atomi di
percezione, sanno e vedono e sono pure, in breve sono Dio.
Ma com’è che si formano le Anime? Come fanno queste
scintille che sono Dio ad acquistare identità, così da avere
ciascuna una beatitudine propria […]? Come, se non tramite
il mondo? È proprio questo il punto su cui vorrei insistere,
perché credo che ci sia un sistema di salvazione più valido di
quello cristiano, e cioè un sistema di salvazione dello Spirito.
Questo si realizza attraverso tre grandi elementi che
interagiscono l’uno sull’altro […]. Questi tre elementi sono
l’Intelligenza – il cuore umano (distinto dall’intelletto o
Mente) e il Mondo, o lo spazio materiale dove si incontrano la
Mente e il Cuore con il proposito di formare l’Anima o
l’Intelligenza destinata a possedere il senso dell’Identità.
Riesco a fatica a esprimere ciò che vedo ancora solo
vagamente, e tuttavia credo di vederlo; perché possiate
giudicare meglio proverò a spiegarmi nel modo più semplice
possibile: chiamo il mondo una Scuola che ha lo scopo di
insegnare a leggere ai bambini. Chiamo il cuore umano il
libro che si usa in quella Scuola, e chiamerò il Bambino
che impara a leggere, l’Anima fatta in quella Scuola e da
quel libro. (Keats, 1817-20, pp. 157-59)
• Il cuore = i sentimenti universali degli
uomini
• La scintilla di intelligenza = il nucleo di
agency che ciascuno possiede in sé
• Il mondo = la realtà esterna, che è una
Scuola dove si apprende a trasformare la
scintilla di intelligenza in anima
• Il «fare anima» = il processo di
formazione che fa sì che l’agency cresca e
si formi nel e con l’esperienza del mondo
• Keats suggerisce che la formazione è un «fare
Anima», che è un processo diverso da quello
dell’usare l’intelligenza*;
• Infatti, le scintille di intelligenza (che sono
espressione di Dio) non sono l’Anima fin quando non
acquistano una propria soggettività e non diventano
«personalmente sé stesse»;
• Queste scintille divine diventano anima «tramite il
mondo»** → il mondo è una Scuola nella quale il
bambino costruisce la propria Anima.
• Keats precisa che la Mente è diversa dal Cuore:
il Cuore è il libro che il bambino deve imparare a
leggere nella Scuola del mondo per diventare
un’Anima
→ Con questa affermazione che ad
apprendere è il Cuore, Keats si riconnette
idealmente a quelle correnti di pensiero che
vedono nelle emozioni il punto di partenza di
qualsiasi autentico apprendimento
• Quindi, per Keats, siamo come dei bambini che
stanno al mondo per imparare a leggere nel loro
cuore umano e non possono farlo se non tramite
esperienza stessa, tramite il mondo, la realtà
– Il cuore umano rappresenta la natura umana, l’
«essenza» dell’essere umani. Citando Wordworth,
Keats dice infatti: «tutti noi abbiamo uno stesso cuore
umano»
• Il «fare anima» allude a una crescita qualitativa
della persona, non soltanto un incremento
quantitativo di nozioni, competenze,
informazioni, non solamente un accumulo di
dati, ma un cambiamento del proprio
«essere»…
→ Keats ci parla del mistero della nascita e
della crescita della soggettività
Quali modelli per una teoria della formazione?
– Whitehead parla della concrescenza fra individuo e
mondo
– Bion utilizza il concetto di «apprendere dall’esperienza»
– Winnicott, sostiene che tutti gli individui sani vivono non
solamente nel mondo interno e neanche nel mondo
esterno, ma in un mondo intermedio, che egli chiama
«spazio transizionale»;
– Per Dewey, analogamente, anche se da un altro punto di
vista, l’interazione fra l’azione intenzionale dell’individuo
(purposeful) e la realtà è all’insegna di una continua
tensione e vitalità che egli definisce con il concetto di
«transazionalità»
– Per Varela esistiamo in una «via di mezzo» fra
autonomia ed eteronomia → siamo «auto-eteronomi»
• Per fare da cornice teorica a questi
approcci verrà chiamata in causa
l’epistemologia della complessità
– L’epistemologia della complessità ammette
l’esistenza di processi costruttivi, ovvero la
possibilità che dall’interazione fra parti
(particelle, molecole, individui…) emergano
nuove proprietà in ossequio della regola: «il
tutto è più della somma delle parti»
Intenzionalità
• Una delle caratteristiche più evidenti delle
persone è che sono attive e manifestano un
comportamento «intenzionale».
• Il concetto di intenzionalità è più semplice da
riconoscere che non da descrivere.
– Il biologo S. Kauffman dice: quando chiamo il mio
cane, mi guarda. È un comportamento
intenzionale.
• Per W. Freeman (neuroscienziato)
l’intenzionalità e il produrre azioni dirette
verso uno scopo è una caratteristica di base
del nostro cervello.
…la diade deterministica natura-cultura… non
riesce a tenere conto della capacità degli esseri
umani di costruire e perseguire i propri obiettivi
personali nell’ambito del contesto sociale
(Freeman, 1999, Come pensa il cervello, tr. it.
2000).
• Gli individui sono «centri attivi» di interessi e
motivazioni, che percepiscono le esperienze
come «proprie»:
…alla base del nostro senso di essere un centro
indipendente di iniziativa e di percezione, integrato, con
le nostre ambizioni e i nostri ideali più centrali, con la nostra
esperienza che la mente e il corpo formano un’unità nello
spazio e un continuo nel tempo. Questa configurazione
psichica coesiva e permanente forma il settore centrale
della personalità (Kohut, 1977).
La concezione del neonato come groviglio di
impulsi e bisogni meramente fisici, come tabula
rasa governata solo da impulsi, non tiene
presente che…
…la caratteristica più notevole dei bambini di ogni età è
tuttavia la loro capacità di generare intenzioni o stati
motivazionali coerenti: non sono in balia degli stimoli,
né in costante conflitto di impulsi. (Trevarthen*, 1980, tr.
it 1998, p. 34)
* C. Trevarthen è neuroscienziato e psicologo dello sviluppo.
Sin dall’origine, l’essere umano può essere
immaginato come un centro attivo dotato di
intenzionalità, con caratteristiche proprie (anche
se solo potenziali), impegnato a evolvere e a
conoscere se stesso e il mondo che lo circonda.
 Donald Winnicott ha utilizzato il termine di “vero Sé” per
alludere alla spontaneità originaria del soggetto. Un
individuo è «sano» quando riesce a percepire di «star
vivendo la propria vita»
 Per Piero Bertolini e Marco Dallari l’intenzionalità, sulla
scorta della tradizione fenomenologica (depurata però da
ogni idealismo), è incontro fra persone reali, soggetti a
pieno titolo, soggetti attivi in relazione
 Per Colwin Trevarthen (1997) è possibile parlare in modo
sensato di “intenzionalità” nei neonati. A suo parere i
neonati hanno un’innata capacità di autoriferimento.
 John Dewey pone al centro della sua pedagogia l’
«esperienza» intesa come interazione fra l’io (self) e
l’ambiente. Tale interazione è resa significativa dal fatto
che l’azione compiuta dal self è intenzionale
(purposeful) e intelligente
 I ricercatori dell’Infant Research parlano di dello
sviluppo del Sé non solo quale esito di regolazioni
intersoggettive ma anche di “autoregolazioni”, cioè di
avere una propria «logica» interna di funzionamento,
di essere «autonomo» e non solo «eteronomo».
 In Carl Rogers alla base dello sviluppo della personalità
vi è il concetto di organismo inteso come un tuttounico, irriducibile alla semplice somma delle parti, una
«persona» e dotato di una «tendenza attualizzante»
 Heinz Kohut parla di un Sé nucleare.
Una delle difficoltà del lavorare
con i neonati è che possiedono
menti proprie. Talvolta, quando
non fanno determinate cose, è
perché non vogliono farle, mentre
quando vogliono fare qualcosa, ce
la mettono davvero tutta.
Trevarthen (1997, p. 149).
• Il neonato viene alla luce con un sé giocoso,
espressivo e portato alla sperimentazione, pronto
ad esplorare ed ad usare oggetti e a comunicare
con le altre persone su come usarli
Un bimbo di due mesi è una personalità complessa,
capace di distinguere le persone da altri oggetti “fisici”,
trattandole come una categoria di importanza primaria
per il proprio sviluppo.
Trevarthen (1974, tr. it. 1998, p. 43)
• Un bambino ha una sua “voce” che non ha
niente a che vedere con l’esigenza di essere
nutrito, rimanere al sicuro e protetto: le
protoconversazioni hanno inizio quando il
bambino non si accontenta di rimanere al sicuro
e si cimenta in “conversazioni” con i fratelli, i
genitori, altri bambini della sua età. Questo
comportamento rappresenta uno scambio
reciproco. (Trevarthen 1997, p. 147)
Centralità dell’emotività
• Trevarthen sostiene anche che le emozioni
sono regolatrici delle attività psicologiche, non i
loro prodotti: «sono cause, non effetti, della
percezione e dell'azione».
Anche Greenspan e Brazelton, nel loro testo del 2000 (tr. it.
2001) I bisogni irrinunciabili dei bambini, affermano qualcosa
di simile a proposito delle emozioni e del Sé:
Greenspan: «L’organizzazione delle emozioni si sviluppa prima del
controllo motorio. A ogni stadio della crescita cognitiva corrisponde uno
stadio precedente nella sfera affettiva che anticipa le interazioni col mondo
fisico. Questa organizzazione delle emozioni rappresenta la prima modalità
che il bambino ha di acquisire una conoscenza del mondo, e dà avvio alla
costruzione del pensiero.
Allo stesso modo, è da qui che comincia a delinearsi il senso di Sé, che
necessita della consapevolezza di un confine tra le proprie emozioni e
quelle che provengono dall’esterno. Anche questa consapevolezza ha
le sue radici necessariamente nelle relazioni interpersonali. Non si può
fare un esame di realtà senza il senso di sé. Tutto questo comincia nel primo
anno, ma poi il bambino lo esplicita, simbolicamente, nel secondo e nel terzo
anno, utilizzando parole che hanno un significato affettivo: ‘dammelo’ e ‘no,
non puoi averlo’. Ogni interscambio del genere ha un ‘io’ e un ‘tu’ e crea un
confine simbolico».
Brazelton: «Credo che anche l’intenzionalità cominci nell’utero. I neonati
hanno un’intenzionalità» (p. 11)
Natura o cultura?
Sulla scorta di tali considerazioni, Trevarthen è
convinto che una visione più chiara di come il
cervello umano si sviluppa possa fornire un
contributo alle teorie dello sviluppo e ai connessi
metodi educativi (1980, tr. it 1998, pp. 1-2).
Ma…

… sottolinea che man mano che le nostre
conoscenze sul cervello aumentano, non
diminuisce la distanza fra la logica
materialistica della biologia e la
consapevolezza che abbiamo come esseri
umani di essere dotati di sentimenti
complessi e una vita consapevole.
Tutto ciò appare alquanto frustrante per lo scienziato moderno, che
probabilmente si risolverà ad accogliere una prospettiva di tipo
dualistico e a cercare spiegazioni diverse per gli eventi fisiologici da
una parte e per quelli mentali o spirituali dall’altra. A chi non è un
biologo, o non è impegnato a semplificare il comportamento umano, la
natura biologica ereditata dall’uomo appare irrilevante, uno strumento
subordinato alla mente, o una fonte di impulsi fastidiosi per la vita
personale del “Sé”. Io penso invece che, se vogliamo comprendere il
neonato in quanto essere umano, sia necessario affrontare il paradosso
che sorge fra mente e materia biologica, da che un bambino piccolo è
una giovane mente immersa in materia biologica. Ma ammetto che è facile
cadere in una spiegazione molto rozza della mente in termini di pezzettini
di strutture cerebrali. Condivido le preoccupazioni di chi si chiede se sarà
mai possibile conoscere abbastanza sui pallidi labirinti del cervello da
poter indicare il loro esatto contributo alla vita mentale e al
comportamento. In particolare, mi sembra lecito domandare che cosa
abbiano a che fare i discorsi che facciamo sul cervello con lo
sviluppo della coscienza, delle intenzioni e delle relazioni personali
nel bambino (Trevarthen).
• Gli psicologi sembrano spesso credere che
le caratteristiche umane sia determinate alla
nascita geneticamente e che in seguito
vengano modificate dalle influenze
ambientali. Ma è davvero così?
(Trevarthen, 1997, tr. it. 1998, p. 3)
 Se osserviamo lo sviluppo di un essere umano, notiamo
che esso inizia sotto la forma di una cellula entro la quale
sono combinati i cromosomi di un uomo e quelli di uno
spermatozoo. Attraverso migliaia di cicli di divisione cellulare,
le molecole dei geni costruiscono immagini di se stesse e le
distribuiscono in maniera uguale a ciascuna cellula.
 Questa chimica eccezionale spiega come i cromosomi
riescano a trasmettere informazioni in maniera indistruttibile
per formare sempre la stessa specie di organismo (Crick
1962). Alcuni prodotti delle molecole dei geni agiscono
“all’indietro”, in modo da esercitare un controllo sul destino
dei geni stessi cosicché, poco tempo dopo l’inizio della
trascrizione del codice genetico, i processi significativi
dello sviluppo non interessano più solamente il livello
molecolare, ma quello sovraordinato in cui avviene
un’interazione fra membrane e fibre cellulari ripiegate o
fra raggruppamenti e strati di cellule, che agiscono come
complemento dei geni.
 Non vi è dubbio, cioè, che il codice genetico
agisca come la matrice che può generare infinite
copie identiche di giornali, cosicché la trasmissione
delle funzioni viventi viene assicurata in maniera
assai affidabile attraverso le molteplici replicazioni
cellulari.

Tuttavia questo non spiega interamente la
formazione dei complessi organismi pluricellulari.
Il fatto è che i geni, seppure essenziali, non possiedono, in se stessi,
alcuna funzione vivente; il loro “codice” deve essere interpretato
all’interno della chimica cellulare, della fisiologia e delle abitudini di vita
all’interno dell’intero organismo (Srb, Owen, Edgar 1965; Waddington
1966). I geni possiedono significati diversi in diverse forme di vita. Sono
come animali domestici in una fattoria di strutture cellulari e, man mano
che l’evoluzione procede, essi certamente mutano, adattandoli alle
modalità di “allevamento” intracellulare (Grant 1977). Si è ipotizzato che
l’evoluzione degli animali sociali operi attraverso geni per l’ “egoismo” o
per l’ “altruismo” (Dawkins 1976); ma questi sono concetti che si
applicano alla personalità umana, e qualsivoglia egoismo o altruismo il
gene possa avere gli viene attributo dalla persona nella quale si trova.
Da questo punto di vista è la persona a causare il tratto ereditario o
genetico (Trevarthen, 1997, tr. it. 1998, p. 4).
• Anche Gabbard (2000, tr. it 2002) evidenzia
“che vi sono nella vita periodi definiti durante i
quali l’espressione di un gene è dipendente da
un certo tipo di influenza ambientale”.
– L’impatto dei fattori ambientali spiega le differenze
fenotipiche e la discordanza di molte malattie tra
gemelli monozigoti.
Egli cita alcuni esprimenti:
– È stato osservato che in una colonia di scimmie il
20% che manifestava una vulnerabilità genetica alla
separazione dalla madre (rilevata in base alle
reazioni depressive sviluppate in seguito a brevi
separazione e al conseguente aumento del
cortisolo e di ACTH). Se queste scimmie venivano
affidate a madri particolarmente accuditive
riuscivano a integrarsi perfettamente nel gruppo
tanto da raggiungere i vertici della gerarchia
sociale.
– Rosenblum e Andrews (1994) assegnarono piccoli
di scimmia casualmente a madri normali e madri
rese ansiose da un programma di alimentazione
imprevedibile. Le scimmie che erano state accudite
da madri ansiose mostravano una diminuita
capacità di interazione gruppale ed erano
socialmente subordinati, che tuttavia si manifestava
quando stavano diventando adulte, confermando
l’ipotesi psicoanalitica che disturbi della prima fase
dello sviluppo si manifestano in periodi evolutivi
successivi.
– In Finlandia alcuni ricercatori hanno dimostrato che
la terapia psicoanalitica può avere un impatto
significativo sul metabolismo della serotonina. Un
paziente di 25 depresso e affetto da un disturbo
borderline di personalità dopo un anno di
psicoterapia presentava, pur senza aver assunto
farmaci, una captazione della serotonina normale.
Quindi, l’esperienza mentale può
influenzare la biologica e viceversa.
Se ne deduce che ogni tipo di intervento
(educativo, psicologico, psichiatrico,
medico) va considerato come
“biopsicosociale”.
- Ad esempio, i farmaci usati nella psichiatria
hanno anche un effetto “psicologico” e gli
interventi “psicoterapeutici” influenzano il
cervello al di là del loro impatto psicologico.
 ripensare il rapporto natura-cultura
– Il rapporto mente-cervello non è una
questione di aut-aut, ma di et-et.
– Gabbard parla di una “deplorevole
tendenza verso la dicotomizzazione” in cui
da un lato si mettono i disturbi di stampo
psicologico e dall’altro quelli di origine
biologica (da curare farmacologicamente).
Questa suddivisione in un approccio biologico e uno
psicologico non risponde più alle conoscenze che si
stanno acquisendo nell’ambito delle neuroscienze,
alla plasticità del cervello, al fatto che i modelli
mendeliani dell’ereditarietà non si applicano alle
malattie mentali. Pur dovendo preesistere un sostrato
genetico che predispone all’insorgenza di una certa
malattia mentale, gli studi sulla plasticità cerebrale
mostrano che le modalità di sviluppo cellulare non sia
regolato solo dai geni, ma ci sia una forte dipendenza
da segnali ambientali (Hyman 1999).
- Nell’ambito della medicina si assiste a una
grande rivalutazione degli aspetti
educativo-sociali (arte-terapia, sorrisoterapia, pet-terapia, musico-terapia
ecc.), perché si è visto che sono in grado
di migliorare assai il benessere del
paziente, non solo sul versante
“psicologico”, ma anche nella sua capacità
di reagire “fisicamente” alla malattia.
L’uomo come essere
biologicamente incompleto
L’uomo può essere definito come il primate che
emerse in quella determinata fase dell’evoluzione in
cui la determinazione istintiva scese al minimo e lo
sviluppo del cervello raggiunse il massimo.
Fromm (1973)
• Ha pertanto bisogno di stabilire dei nuovi legami
affettivi con i suoi compagni, senza i quali
soffrirebbe di un forte isolamento e smarrimento.
Ha bisogno di rimettere radici (Fromm 1973).
L’uomo – di qualsiasi età e civiltà – è messo di fronte
alla soluzione di un eterno problema: il problema di
come superare la solitudine e raggiungere l’unione
(Fromm 1956).
• Un’intera tradizione di pensiero (che parte da J. G.
Herder e giunge fino a Geertz), sostiene che
l’uomo è un essere biologicamente incompleto.
– Per riferirsi a questa caratteristica dell’uomo, oggi si
usa anche il termine neotenia, mutuandolo dalla
biologia, per riferirsi alla minor specializzazione
dell’uomo rispetto ad altri animali e alla
conseguente maggior adattabilità ambientale.
• L’azione quasi-meccanica dell’istinto animale
nell’uomo si allenta: l’istintualità umana non è
autosufficiente, tanto che il piccolo dell’uomo ha
bisogno di molte più cure e per molto più tempo di
tutti gli altri animali.
– La psicoanalisi di Freud è basata sulla differenza fra la
«pulsione» e l’ «istinto». Quest’ultimo allude a qualcosa
di interamente predeterminato; la pulsione, pur avendo un
sostrato biologico, è più indeterminata, più plasmabile,
sublimabile ha bisogno di «oggetti» da «investire» (→
investimento oggettuale). Freud la chiama «libido»: la
libido evolve e si struttura lungo il percorso di vita. Freud
riconobbe l’esistenza di tappe particolarmente importanti
lungo tale percorso, tappe che appartengono ai primi anni
di vita (fase orale/anale/genitale)
– Erich Fromm distingue le «pulsioni» dalle
«passioni»: infatti, a suo parere, anche gli
animali hanno «pulsioni» (fame, protezione,
sessualità, attaccamento); le «passioni» sono
invece tipicamente umane perché
rappresentano le risposte al dilemma
fondamentale della vita umana:
Le passioni fondamentali dell’uomo non sono radicate
nei suoi bisogni istintivi, ma nelle specifiche condizioni
dell’esistenza umana, nel bisogno di trovare, dopo la
perdita della correlazione dello stadio preumano, una
nuova correlazione tra l’uomo e la natura (Fromm,
1955)
• La differenza risiede nel fatto che l’animale vive
le pulsioni come qualcosa che sono tutt’uno con
il suo appartenere all’ordine naturale.
• Invece l’uomo si «stacca» dalla natura: è, sì,
ancora parte della natura, ma anche separato:
non angelo, non animale.
• Tale mancanza di autosufficienza del
funzionamento istintuale umano richiede che
l’uomo trovi all’esterno – nei rapporti sociali,
nella cultura (intesa in senso lato) – una
dimensione dove poter trovare dei criteri per
risanare la rottura dell’impulso, per sapere come
agire e chi è.
– La cultura è la seconda natura dell’uomo. (Remotti 2000).
– La cultura è necessaria, secondo tale concezione, perché
l’uomo non è dotato di un corredo istintuale che, al pari di
quello degli animali, possa indirizzarlo e guidarlo: egli ha
bisogno della cultura per sapere cosa deve fare. Se non
riuscisse a mettersi in rapporto con un sistema capace di
dare senso alla sua esistenza sarebbe un essere
paralizzato (E. Fromm 1941).
– Il patrimonio culturale acquisisce uno status oggettivo,
costituisce un corpus di valori e conoscenze che dialoga
con i meccanismi mentali degli esseri umani,
strutturandoli. Ogni volta che un elemento culturale si è
prodotto entra a far parte della «cultura»: non viene
perso, ma capitalizzato: la cultura arricchisce le
possibilità di scelta dell’uomo fornendogli un patrimonio
non solo di strumenti mentali e tecnologici, ma anche di
significati e di visioni del mondo, che costituiscono una
«esternalizzazione” dei loro processi mentali, una
ricchezza oggettivamente presente a cui le menti degli
individui possono attingere (Wilson- Keil, 1999).
L’interiorizzazione delle attività radicate socialmente e
sviluppate storicamente è l’aspetto caratteristico della
psicologia umana, il fondamento del salto qualitativo dalla
psicologia animale a quella umana. […] I processi
psicologici, così come avvengono negli animali, di fatto
cessano di esistere; essi sono incorporati in questo sistema
di comportamento e sono ricostruiti culturalmente e
sviluppati fino a formare una nuova entità psicologica.
Vygotskij (1930-1935, p. 88)
• l’uomo, quindi, «emerge» dall’indifferenziazione
con la natura, diventa individuo, cosciente di sé,
e solo: egli vive «in prima persona», non più
come parte di un qualcosa, della Natura: egli è
«individuato» e non può, neanche da ubriaco,
cedere la propria individualità. Questa lo
perseguita, come un dono, ma anche come un
maleficio e una tortura.
• L’uomo è costretto a diventare un «traditore»
(Jung) in quanto deve tradire i rapporti di
appartenenza; e, come i traditori, si guarda
sempre alle spalle…
Albero della Conoscenza del Bene e del Male
Lucas Cranach detto il Vecchio (1472 –1553)
Fromm interpreta la cacciata
dal Paradiso terrestre come
l’esito di un essere diventato
consapevole di sé dell’uomo:
egli ha mangiato dall’Albero
della conoscenza e da quel
momento diventa cosciente
di sé, si vergogna della
propria nudità e non può più
restare nella beata, ma
incosciente, appartenenza
con tutte cose che si respira
nel Paradiso terrestre.
• L’uomo diventa inquieto perché, da un lato, non
può abbandonarsi e appartenere totalmente, perché
ciò gli farebbe perdere il suo essere individuo;
dall’altro la sua separatezza gli crea disagio, senso
di isolamento, paura.
• Ecco perché per Fromm la libertà è dono ambiguo
che occorre accettare con coraggio: dà all’uomo
autonomia, ma gli toglie sicurezza.
– Fuga dalla libertà (1941) è costruito attorno all’idea che gli
uomini, inconsciamente, rinuncino alla libertà e si leghino
a feticci o ideologie.
→ l’ambiguità dell’essere umano è che egli
cerca contemporaneamente autonomia e
appartenenza
• L’uomo inizia a provare nostalgia per la Natura
da cui proviene e la percepisce come una Grande
Madre avvolgente.
• Se, come evidenzia Fromm, non vuole
«impazzire» per la sensazione di separatezza
deve ristabilire dei legami, delle appartenenze.
• Ma l’appartenenza va ottenuta senza rinunciare
all’individualità e alla separatezza; se
appartenesse «troppo», cederebbe nuovamente
la sua identità, si rifonderebbe nel tutto, come
avviene nelle appartenenze tribali, fusionali,
nell’adorazione di un’ideologia ecc.
• Questo essere dentro e fuori dalla natura
genera quella sensazione di innaturalezza
del comportamento umano.
Se amassi i paradossi, potrei affermare che è
naturale per l’uomo comportarsi in maniera
innaturale.
Róheim (1950, p. 498)
Dewey, nel suo Arte come esperienza (cap. 1), afferma che
l’arte ambisce a ritornare all’istintività animale, all’essere un
tutt’uno con l’esperienza che si va compiendo.
Per afferrare le fonti dell’esperienza estetica è perciò necessario
ricorrere alla vita animale al di sotto della scala umana. Gli atti della
volpe, del cane e del tordo possono valere almeno a ricordare e
simboleggiare quella unità dell’esperienza che noi frazioniamo
tanto, quando il lavoro diventa fatica, e il pensiero ci astrae dal
mondo. L’animale vivo è pienamente presente, tutto là, in ognuna
delle sue azioni: nelle sue occhiate caute, nel suo annusare
accorto, nel suo drizzare gli orecchi improvvisamente. Tutti i suoi
sensi indistintamente stanno sul chi vive. Se state attenti, vedete il
movimento confondersi con la sensazione e la sensazione con il
movimento, determinando quella grazia animale con la quale
all’uomo riesce così difficile gareggiare.
• Pirandello affermava che l’uomo è come se
avesse la “febbre”
Sì, perché un cane, poniamo, quando gli sia passata la
prima febbre della vita, che fa? mangia e dorme: vive
come può vivere, come deve vivere; chiude gli occhi,
paziente, e lascia che il tempo passi, freddo se freddo,
caldo se caldo; e se gli danno un calcio se lo prende,
perché è segno che gli tocca anche questo. Ma l’uomo?
Anche da vecchio, sempre con la febbre; delira e non se
n’avvede; non può fare a meno d’atteggiarsi, anche
davanti a sé stesso, in qualche modo, e si figura tante
cose che ha bisogno di creder vere e di prendere sul
serio (Pirandello, L’umorismo, 1908).
L’uomo si annoia e l’animale no
O greggia mia che posi […]
Quanta invidia ti porto!
Non sol perché d'affanno
Quasi libera vai;
Ch'ogni stento, ogni danno,
Ogni estremo timor subito scordi;
Ma più perché giammai tedio non provi.
Quando tu siedi all'ombra, sovra l'erbe,
Tu se' queta e contenta;
E gran parte dell'anno
Senza noia consumi in quello stato.
Ed io pur seggo sovra l'erbe, all'ombra,
E un fastidio m'ingombra
La mente, ed uno spron quasi mi punge
Sì che, sedendo, più che mai son lunge
Da trovar pace o loco.
E pur nulla non bramo,
E non ho fino a qui cagion di pianto.
Quel che tu goda o quanto,
Non so già dir; ma fortunata sei.
Ed io godo ancor poco,
O greggia mia, né di ciò sol mi lagno.
Se tu parlar sapessi, io chiederei:
Dimmi: perché giacendo
A bell'agio, ozioso,
S'appaga ogni animale;
Me, s'io giaccio in riposo, il tedio
assale?
(Leopardi, Canto notturno di un pastore
errante dell'Asia)
• Per G. Róheim, il complesso di Edipo non è un
evento innato della psiche, ma un inevitabile
processo umano che trova la sua ragion d’essere
nel prolungamento della condizione infantile di
dipendenza dalla madre. Infatti, il complesso
edipico nasce dal conflitto tra la naturale
tendenza a crescere ed il desiderio di restare,
simbolicamente, nell’utero materno.
• È nostalgia per un’appartenenza totale.
– Di tale avviso sono anche E. Fromm e C. G. Jung
• La “simbiosi”, il “narcisismo primario”, la “fase
autistica” del neonato su cui hanno insistito
molti psicoanalisti oggi sono concetti non più
sostenibili dalla moderna scienza psicologicoevolutiva.
• Ha tuttavia senso parlare di
momenti “simbiotici” di fusione fantasticata tra
rappresentazioni di sé e rappresentazioni
dell’oggetto in situazioni d’intensa attivazione
affettiva (Kernberg 2005, pp. 90-91).
→ la ricerca dell’ «oggetto totalmente
soddisfacente»
Spiega G. Róheim:
• L’essere umano vuole crescere ma,
contemporaneamente, non tollera “la separazione,
sempre prematura, dalla madre” (1950, p 491).
• La cultura, freudianamente, è per Róheim un tentativo di
attingere in maniera sublimata al soddisfacimento
pulsionale; ma a tale dimensione se ne aggiunge
un’altra, quella che richiama l’uomo al ricordo dei beati
momenti dell’onnipotenza infantile e, inevitabilmente, ai
connessi sentimenti di solitudine e di perdita: “il grande
pericolo contro cui il genere umano ha sviluppato la
cultura è la perdita oggettuale, l’essere lasciato solo
al buio” (1943, p. 91).
• In tale visione concettuale, la natura
umana si trova in “una situazione
conflittuale fra due tendenze, regressione
e maturazione” (Róheim, 1950, p. 511);
ciò costituisce l’aspetto “tragico”
dell’uomo.
• Cedere alla regressione significherebbe
rinunciare all’identità, al compito di
umanizzazione che ognuno porta con sé;
significherebbe ridiventare l’uomo tribale, l’uomo
fuso con la Natura, rinunciare alla libertà.
→ Per Fromm l’alternativa è: produttività o fuga
dalla libertà? Accettare la sfida a cui l’essere
umano si trova di fronte per progredire verso la
costruzione di una dimensione propriamente
umana, basata sulla solidarietà e sulla produttività
a tutti i livelli (emotivo, cognitivo, artistico ecc.)
oppure legarsi a dei feticci, regredire verso forme
simbiotiche di appartenenza?
• L’uomo deve ‘inventare’ la sua umanità, deve
escogitarla e crearla dal nulla; nascendo si
assume l’onere di ‘diventare’ umano. Scrive
Francesco Remotti.
Diventare umani è un compito a cui gli esseri umani non
possono sottrarsi: l’umanità non è data e garantita
biologicamente: esige invece di essere costruita
culturalmente. Essa non è un presupposto, se non in
minima parte: è invece un telos, una meta, un qualcosa
che va cercato (e non è detto che venga raggiunto): più
radicalmente un qualcosa che va inventato (Remotti
2000).
• L’uomo è sia parte della natura, sia
staccato da essa. Mantiene, da un lato, un
radicamento precategoriale con la
natura e dall’altro si stacca da essa per
costruire la propria individualità.
• Jung parla in tal senso di
processo di
individuazione per
significare il mai concluso
percorso dell’uomo verso
una maggiore
individuazione
↓
l’uomo non deve
assumere acriticamente i
valori della cultura, della
comunità di appartenenza,
ma distaccarsene e
diventare «individuo»
Carl Gustav Jung (1875-1961), fu allievo di
Sigmund Freud. Destinato a succedergli
nella direzione della società psicoanalitica,
elaborò dagli anni ‘10 una propria visione
della psicodinamica dell’essere umano,
basata non su una spinta pulsionale di
carattere sessuale, ma su un’energia che
conduce l’uomo verso livelli via via più
elevati di integrazione e ampiezza psichica
e spirituale (processo di individuazione).
L’uomo di Freud si può capire guardando al
«da dove»; quello di Jung al «verso dove»
• Anche le potenzialità della natura umana – che per
Jung giacciono nell’inconscio collettivo,
dimensione transpersonale abitata da archetipi
(percorsi universali della psiche a forte valenza
emotiva) – non possono essere vissute
«impersonalmente», ma «personalmente», incluse
in un «progetto» personale (individuazione),
necessariamente problematizzate.
→ il processo di individuazione conduce l’uomo,
allora, ad emergere dall’inconscio per conquistare il
proprio Sé.
• Tale emergere si configura, in Jung, come un
assumere e integrare a livello cosciente quei
contenuti mentali che appartengono alla
dimensione inconscia universale, nella quale
sono presenti i simboli condivisi da tutti gli
uomini, che per Jung sono gli archetipi.
– L’uomo «individuato» è un uomo «onnilaterale», per
usare un termine di Marx
• All’inizio l’uomo esiste in quanto parte di una
collettività, di una appartenenza tribale, è «tutt’uno
con»
– Levy-Bruhl: partecipation mistique: stato originario
di incoscienza e quindi di indifferenziazione (Jung
1928, p. 125) → all’inizio l’uomo ha una sola identità,
ovvero quella data dall’inconscio collettivo.
• Il percorso dell’uomo consiste nell’affrancarsi da
questa appartenenza universale, acquisendo
una propria personalità separata e autonoma.
Se rinuncia a questo percorso, resta in balia degli
archetipi:
• diventa come l’ubriaco che non riesce a vincere il
vizio dell’alcool,
• come il giocatore che si brucia con la sua stessa
passione,
• l‘ammalato di potere che distrugge le relazioni della
propria vita…
• Infatti, per Jung i contenuti della psiche collettiva
(gli archetipi) hanno natura bivalente: bene/male,
forza/debolezza, calma/imprudenza ecc.
• Questi entrano in contraddizione quando inizia lo
sviluppo personale della psiche (Jung 1929, tr. it. p.
56): l’animale non si rende conto della sua bontà o
della sua cattiveria: agisce questi sentimenti e
basta! L’uomo, che diventa consapevole di sé, sa
cos’è il bene e cos’è il male.
• Una società che impedisca l’emergere
dell’individualità espone l’individuo al rischio
della rimozione dell’individualità nell’inconscio,
che da lì agisce come tendenza alla distruttività
e all’anarchia.
– Il primitivo inizia la separazione dal collettivo creando
attorno a sé un involucro che può essere definito
Persona. In realtà l’attribuzione della Persona è un
processo collettivo, in quanto il collettivo aveva
bisogno di questa figura → La Persona è
un’individualità apparente: in realtà è un ritaglio nel
collettivo avvenuto in virtù di certe condizioni (si fa un
certo lavoro, si occupa un certo posto, …). La
Persona, in definitiva, non è nulla di reale.
• L’individuo che si sottrae al proprio percorso di
individuazione diventerà più meschino, limitato, più
razionalista di prima.
…non si può dire che questo risultato debba forzatamente
essere una sciagura per tutti gli uomini, perché ve ne sono
fin troppi che per la loro notoria inettitudine prosperano
meglio in un sistema razionalistico che nella libertà.
Quest’ultima è una delle cose più difficili (Jung 1929, p. 76)
Il mito dell’eroe
• Colui che ha il coraggio di intraprendere il proprio
percorso di individuazione è un Eroe che
intraprende un viaggio che lo allontana
dall’Appartenenza primitiva, simbolizzata dalla
Grande Madre.
• La Grande Madre è il simbolo dell’origine, del
grembo materno e dell’inconscio che contiene in sé
gli opposti. Esistere, all’interno della Grande Madre,
significa esistere pigramente nell’inconscio (Neumann
1949, p. 35), in una dimensione in cui prevale l’inerzia
e la volontà di restare nell’inconscio.
• Ma, come si è visto, Jung riteneva che esistesse
anche una forza altrettanto potente quanto quella
che lega l’individuo al grembo materno, ovvero la
spinta ad individuarsi, ad emergere dal tutto
indistinto dell’inconscio.
↓
Quando l’Eroe assume la decisione di separarsi
dalla Grande madre per individuarsi, egli avvertirà
ciò che abbandona con una grande nostalgia,
come le sirene che richiamano Ulisse con un
canto di sovrumana dolcezza. In più, l’eroe è solo,
impaurito, si sente piccolo e inerme…
• Ma non appena decidesse di cedere alle
lusinghe della Grande Madre, questa gli
mostrerà il suo lato terribile e divoratore, che
riaccoglie a sé i suoi figli ma a patto di
distruggerli. → La Grande Madre è anche la
Grande Madre Terribile che vuole ringhiottirsi il
nascente Io, la balena che inghiotte Giona.
– Così, Ulisse si lega per bene all’albero della nave.
La distruttrice dea Kali
• Il percorso di individuazione ci fa affrontare:
– la nostra Ombra, ovvero gli aspetti “peggiori” della
nostra personalità che abbiamo rimosso
nell’inconscio personale;
– La nostra Anima/Animus, che da potenze estranee
alla nostra coscienza debbono diventare delle
funzioni psichiche;
– Il Vecchio Saggio/la Grande Madre
(rispettivamente per i maschi e per le femmine), che
rappresentano la ricchezza del mondo inconscio;
– Infine incontriamo il Sé, che è la tappa finale del
percorso di individuazione, che rappresenta la
grande conciliazione degli opposti.
Mandala
(simbolo del
Sé)
• Funzione trascendente: è l’unione degli
opposti, che consente di conseguire una
coscienza più elevata.
• Vi è una costante circolarità fra bisogni di
individuazione e bisogni di appartenenza:
– Si va per il mondo ma poi si torna a casa;
– la nostra società molto «individualizzata» nutre
un «sogno di appartenenza» (Baumann);
– Se gli altri non ci capiscono si prende un cane
che lui, sì, ci ama e ci capisce;
– Si litiga con il compagno/a e poi si fa la pace;
–…
• L’uomo ha bisogno sia di individuarsi (realizzare i
propri scopi, i propri impulsi, prendersi le proprie
soddisfazioni) sia di appartenere:
– individuandosi si esiste in quanto di realizzano
scopi; appartenendo si esiste e basta, in un sacro
silenzio;
– l’individuazione ha a che fare con la
soddisfazione, è il versante «maschile»;
l’appartenenza ha a che fare con il rilassamento
ed è il versante «femminile»
• «Femminile» e «maschile» sono «funzioni» e non
un’esclusiva appartenenza di donne o uomini
Ai suoi occhi adesso la vita appariva come un’ombra, il giorno
come un’ombra bianca. La notte, la morte, l’inazione, il
silenzio: questo era “essere”. La vitalità, l’irrequietudine, il
desiderio: questo era “non essere”. E il sommo di tutto era
appunto quello sciogliersi nel buio, identificandosi nell’essere
Supremo […] Forse è questa la morte: addormentarsi nello
stupore […] Potersi liberare dalla propria individualità, di quelli
che sono i nostri sforzi, la nostra volontà! Vivere così,
abbandonati a questa specie di sonno cosciente! Dev’essere
molto bello. Sarà questa l’altra nostra vita, la nostra
immortalità.
D.H. Lawrence (Figli e amanti)
• L’individuazione comporta una crescita
costante e non è mai completa: ogni essere
umano ha il compito di rimetterla in
discussione e allargare il proprio sguardo,
includendo nuovi aspetti dell’essenza umana,
fin quando non avrà compreso tutte le
potenzialità umane, realizzando così una sorta
di appartenenza ideale con il genere umano,
non scartando niente di ciò che è umano.
Sono uomo: nulla di ciò
che è umano mi è
estraneo.
(Publio Terenzio Afro,
195 a.C. – 159 a.C.,
commediografo latino)
…in qualsiasi cultura, l’uomo ha tutte le potenzialità; egli è, nel
contempo, l’uomo dei primordi, l’animale del sacrificio, il cannibale,
l’idolatra, e un essere dotato di disponibilità per la ragione, l’amore e la
giustizia. Ma allora il contenuto dell’inconscio non è né il bene, né il
male, né il razionale, né l’irrazionale: è tutte queste cose insieme; è
quella parte dell’uomo che corrisponde alla società di cui fa parte. La
coscienza rappresenta l’uomo sociale, le limitazioni contingenti poste
dalla situazione storica, in cui un individuo è gettato. La non-coscienza
rappresenta l’uomo universale, l’uomo per intero, radicato nel cosmo;
essa rappresenta, nel contempo, la sua parte vegetativa, animale e
spirituale; ne rappresenta infine il passato sino agli albori dell’esistenza
umana e il futuro sino al giorno in cui l’uomo diverrà pienamente
umano e in cui la natura sarà umanizzata nella misura in cui l’uomo a
sua volta risulterà «naturalizzato».
Erich Fromm (1960, p. 113)
http://fidest.wordpress.com/tag/radici/
Perché dunque ti spaventi? Agli uomini accade ciò che accade all’albero.
Quanto più in alto e più nella luce vuole ascendere, con tanta più forza le sue
radici si spingono dentro la terra, verso il basso, nel buio, nel profondo, - nel male.
Nietzsche (Così parlò Zarathustra)
crescita, formazione
T.S. Eliot, East Coker (da: Quattro Quartetti)
[…]
La casa è il punto da cui si parte.
Man mano che invecchiamo
Il mondo diventa più strano, la trama più complicata
Di morti e di vivi. Non il momento intenso
Isolato, senza prima né poi,
Ma tutta una vita che brucia in ogni momento
E non la vita di un uomo soltanto
Ma di vecchie pietre che non si possono decifrare
C’è un tempo per la sera a ciel sereno
Un tempo per la sera al paralume
(La sera che si passa coll’album delle fotografie).
L’amore si avvicina più a se stesso
Quando il luogo e l’ora non importano più.
I vecchi dovrebbero essere esploratori
Il luogo e l’ora non importano
Noi dobbiamo muovere senza fine
Verso un’altra intensità
Per un’unione più completa, comunione più profonda
Attraverso il buio, il freddo, la vuota desolazione,
il grido dell’onda, il grido del vento, la distesa d’acqua
Della procellaria e del delfino. Nella mia fine è il mio principio
Donald
Winnicott
(Playmouth 1896 –
Londra 1971)
Vero Sé,
creatività e
sviluppo del
soggetto
• Winnicott utilizza il concetto di Vero Sé
non rifacendosi ad una concezione
metafisica o a una teoria dell’anima (pur
non essendo concetti che si escludono!)
→ il concetto di Vero Sé contiene un’idea
di per sé evidente, cioè che l’individuo è
agente, intenzionale: il Vero Sé è la
spontaneità originaria del soggetto.
• Il Vero Sé contiene il senso del Sé, la
certezza di esistere e di essere reali, di
poter essere se stessi, creativi e
spontanei; ad esso appartiene la
percezione di una continuità della propria
esistenza.
al centro di ciascuna persona, c’è un elemento
segregato, e questo è sacro ed estremamente
degno di essere preservato (Winnicott).
• Per Winnicott rappresenta quindi la creatività
originaria del soggetto.
 La creatività corrisponde al naturale senso di
espansione di sé che si sperimenta in quanto si
è vivi. Quando siamo creativi ogni cosa che
facciamo aumenta il senso di essere noi stessi
(Winnicott 1970). Senza questo piano, per W.,
non c’è nulla.
Felice è colui che è sempre creativo nella sua vita
personale come pure nei rapporti con i partner, con i
figli, con gli amici ecc. (1970, tr. it. 1986, p. 41)
• Essere creativi significa essere “soggetti” a
pieno titolo. Essere soggetti significa esistere
anche indipendentemente dallo stimolo
esterno. Se il nostro sentirci vivi dipendesse
esclusivamente da stimoli esterni, cessato lo
stimolo cesserebbe anche la sensazione di
sentirsi vivi.
 L’essere creativi di cui parla Winnicott allude
proprio al sentirsi vivi anche quando non c’è lo
stimolo che proviene dal mondo esterno.
“Fuori dalla mia finestra c’è una pianta, e il sole, e
razionalmente so che deve essere uno spettacolo
piacevole, per chi lo può vedere. Ma questa
mattina per me tutto ciò non ha senso. Non riesco
ad esserne partecipe e ciò mi rende
profondamente conscio del fatto di non sentirmi
reale” (Winnicott 1970).
Il mondo... questo grosso essere assurdo. [...] Scoprire che il mondo non
ha senso, che è assurdo, provoca la nausea. [...] L'essenziale è la
contingenza [= la non necessità delle cose]. Voglio dire che, per
definizione, l'esistenza non è la necessità. Esistere è essere lì,
semplicemente: gli esistenti appaiono, si lasciano incontrare ma non li si
può mai dedurre. C'è qualcuno, credo, che ha compreso questo. Soltanto
ha cercato di sormontare questa contingenza inventando un essere
necessario e causa di sé. Orbene, non c'è alcun essere necessario che
può spiegare l'esistenza: la contingenza non è una falsa sembianza,
un'apparenza che si può dissipare; è l'assoluto, e per conseguenza la
perfetta gratuità. Tutto è gratuito, questo giardino, questa città, io stesso.
E quando vi capita di rendervene conto, vi si rivolta lo stomaco e tutto si
mette a fluttuare... ecco la Nausea [...] La Nausea non è in me: io la sento
laggiù sul muro, sulle bretelle, dappertutto attorno a me. Fa tutt'uno col
caffè, son io che sono in essa [...] Ed ora lo so: io esisto - il mondo esiste ed io so che il mondo esiste. Ecco tutto. Ma mi é indifferente. E' strano
che tutto mi sia ugualmente indifferente: é una cosa che mi mette paura.
E' cominciato da quel famoso giorno in cui volevo giocare a far rimbalzare
i ciottoli sul mare. Stavo per lanciare quel sassolino, l'ho guardato, ed è
allora che è cominciato: ho sentito che esisteva. E dopo, ci sono state
altre Nausee; di quando in quando gli oggetti si mettono ad esistervi
dentro la mano. (Sartre, La Nausea)
• La creatività riguarda l’ “essere” sé
stessi, e viene prima del “fare”.
 Laddove il vero Sé sia stato traumatizzato, esso
non deve più essere ritrovato e ferito di nuovo.
Si sviluppa un falso Sé a difesa del vero Sé.
 Questo falso Sé può funzionare perfettamente,
eppure sta all’opposto della salute psichica
perché sorge dalla negazione del vero Sé.
Cos’è la salute mentale?
• La salute non è sinonimo di tranquillità. La
vita di un individuo sano è caratterizzata da
paure, sentimenti conflittuali, dubbi e
frustrazioni, come pure da elementi positivi.
La cosa fondamentale è che si senta di
stare vivendo la propria vita, assumendosi
le responsabilità di quanto si fa, il merito del
successo e la colpa del fallimento. In tal caso
si può dire che l’individuo è passato dalla
dipendenza all’autonomia.
• Essere e sentirsi reali sono le caratteristiche
della salute. Soltanto quando l’essere è
acquisito (cioè quando sentiamo di essere noi
stessi) possiamo procedere verso altre mete.
Senza dubbio la gente dà per scontato il sentirsi
reali. Ma a quale prezzo? In quale misura essi
negano la verità che di fatto esiste il pericolo di
sentirsi non reali, posseduti, di non essere se stessi,
di precipitare all’infinito, di non avere una direzione,
di essere separati dal proprio corpo, annientati, di
essere un nulla, di non avere un luogo in cui stare…
(D. Winnicott, Il concetto di individuo sano)
Lo sviluppo della creatività:
fra onnipotenza e principio di realtà
• La vita creativa che corrisponde alla
possibilità di non essere continuamente uccisi o annientati
dalla compiacenza verso o dalla reazione a un mondo che
fa violenza all’individuo; si tratta di riuscire a vedere ogni
cosa in modo sempre nuovo.
• L’esperienza dell’onnipotenza è qualcosa di più
di un controllo magico, ma include l’aspetto
creativo dell’esperienza (Winnicott 1963)
Le fotografie dei grandi cacciatori che, come H.
Hemingway, si fanno immortalare di fianco a un
leone massacrato, ci danno un’idea degli sforzi
estremi che un essere umano può compiere nel
tentativo di trionfare sull’oggetto percepito
oggettivamente (Winnicott)
• Essere creativi significa, afferma
Winnicott, “mantenere qualcosa che
appartiene all’esperienza infantile: la
capacità di creare il mondo”.
 in ogni atto creativo c’è sempre una
porzione di “onnipotenza”
• Ma l’essere creativi implica incontrare il
mondo, la realtà esterna.
• Inizialmente è la madre che si adatta ai bisogni
del bambino per consentire che egli compia
esperienze che sono coerenti con i suoi stati
mentali.
• La madre, con la sua capacità empatica è
capace di dare qualcosa di buono al bambino
che, al suo livello, può solo fantasticare e
“allucinare” degli oggetti: il bambino è solo con
le sue illusioni, la madre conosce la realtà e
può far sì che la fantasia del piccolo si
connetta con la realtà. Ella, infatti, basandosi
sulla sua intuizione, può fornire al bambino
quegli oggetti che egli sta allucinando.
• Winnicott parla a tale proposito di
“presentazione d’oggetto”.
– Dobbiamo supporre che il bambino abbia dei
guizzi creativi in base ai quali cerca il contatto con
la realtà; non essendo “organizzato” non riesce a
contattare il mondo. Allora la madre, intuendo le
volontà nascenti del piccolo, gli fornisce quegli
oggetti che il bambino sta “allucinando”. Il
bambino, cioè, è solo con le sue fantasie, la
madre conosce la realtà e può far sì che la
fantasia del piccolo si connetta con la realtà. Ella,
infatti, basandosi sulla sua intuizione, può fornire
al bambino quegli oggetti che egli sta allucinando.
• L’esperienza del piccolo risulterà arricchita di
elementi reali ed egli stesso inizierà a sentirsi
reale. Il suo essere e sentirsi reale, che sta
alla base della salute psichica, dipende
dunque dal fatto che le connaturali tendenze
alla crescita e all’espansione del suo Sé
hanno trovato un ambiente favorevole e degli
oggetti che corrispondevano alle sue
fantasie.
• Più in generale, la madre, insomma,
supporta l’Io del bambino: calandosi al suo
livello, gli consente di credere che le
esperienze che compie possano trovare un
corrispettivo nella realtà esterna, protegge
l’Io del bambino e supporta l’evoluzione
della sua identità (”preoccupazione
materna primaria”).
 L’ “essere” viene garantito al bambino
dalla madre.
Approfondimento: l’aggressività e «l’uso di
un oggetto»
• L’aggressività è un modo per esteriorizzare l’altro troppo
intimo: per separarci dobbiamo aggredirlo!
• Finché non acquisiamo la capacità di usare le persone
(«oggetti») restiamo loro legati nella maniera della
dipendenza totale. Siamo tutt’uno con loro, non sono
esterne, sono parte del Sé: il nostro Sé dipende ancora da
loro. Non abbiamo raggiunto la capacità di amare. Per
amare qualcuno, questo qualcuno deve essere altro da noi!
…non è possibile per me accettare come scontato il fatto che il primo
impulso, nel rapporto del soggetto con l’oggetto (percepito
oggettivamente, non come soggettivo), sia distruttivo ((Winnicott, 1971)
L’oggetto transizionale
• L’oggetto transizionale consente di mantenere
interrelate due aree altrimenti separate, quella della
realtà interna e quella della realtà esterna.
• L’oggetto transizionale compare tra i quattro e i dodici
mesi.
• Il bambino ha bisogno di investire un oggetto del potere
transizionale, tali che rappresentino un ponte tra la
realtà interna e quella esterna. Si colloca tra la
“creatività primaria e la percezione obiettiva basata
sull’esame di realtà”.
• Anche se non tutti i bambini vi fanno ricorso, la
presenza dell’oggetto transizionale è un indice sicuro di
una potenziale capacità di elaborare l’onnipotenza e la
separazione.
• L’oggetto transizionale viene quindi
progressivamente dimenticato.
• Può rimanere nell’adulto nella consapevolezza
di mantenere un “luogo di riposo”, ove lasciar
fluttuare la mente e giocare con le proprie idee.
Oppure come spazio del gioco, della creatività,
del sentimento religioso, ma anche della perdita
del sentimento affettuoso, dell’assuefazione alla
droga, dei rituali ossessivi.
• W. distingue a tal proposito l’oggetto
transizionale dall’oggetto feticcio o oggetto
tossico. Quest’ultimo mantiene il soggetto in uno
stato di continua dipendenza, distoglie da sé e
dalla realtà esterna.
Comunicare o non comunicare? (Winnicott 1963)
Nell’ambito della salute esiste un nucleo della personalità che
corrisponde al vero Sé. Ritengo che tale nucleo non comunichi mai
direttamente con il mondo degli oggetti percepiti e che l’individuo
sappia che questo nucleo non deve entrare in comunicazione con la
realtà esterna né venirne influenzato. Sebbene le persone sane
comunichino e amino comunicare, è anche vero che ogni individuo è
un essere isolato che non comunica in modo permanente, in
permanenza sconosciuto e mai realmente scoperto. […] Al centro di
ogni persona c’è un elemento incomunicabile, inviolabile, che è sacro
e va preservato. Le esperienze traumatiche, che portano
all’organizzazione delle difese primitive, rappresentano una minaccia
al nucleo isolato, la minaccia che venga scoperto, modificato e che ci
si metta con esso in contatto. La difesa consiste in un ulteriore
occultamento del Sé nascosto… Essere stuprati o essere mangiati
dai cannibali sono cose di poco conto rispetto alla violazione del
nucleo del Sé mediante la comunicazione che si insinua attraverso le
difese. …possiamo capire l’odio che la gente ha verso la psicoanalisi,
la quale è penetrata assai nella personalità umana e costituisce una
minaccia per il bisogno che l’individuo ha di restare segreto e isolato.
Il problema è: come isolarsi senza doversi circondare di barriere?
Credo che, inerente in ogni tipo di artista, si possa
scoprire un dilemma dovuto alla coesistenza di due
tendenze: il bisogno urgente di comunicare e il bisogno
ancora più urgente di non essere scoperto. Ciò potrebbe
spiegare la nostra impossibilità a concepire un artista
che arrivi alla fine del compito che impegna totalmente la
sua natura. (Winnicott 1963)
Forse non è stata data abbastanza attenzione al fatto che
il mistico si ritira in una posizione in cui può comunicare
segretamente con oggetti e fenomeni soggettivi, poiché la
perdita di contatto col mondo della realtà condivisa è
compensata da un vantaggio nel sentirsi reale (Winnicott
1963).
Tutto ciò che è profondo ama la maschera; le cose più
profonde provano perfino odio per l’immagine e il simbolo
[…]. Esistono fatti così delicati che si fa bene a coprirli e a
renderli irriconoscibili sotto una grossolanità; esistono atti
d’amore e di traboccante generosità, in seguito ai quali non
c’è nulla di più consigliabile di prendere un bastone e
picchiare di santa ragione il testimone oculare: e con ciò
offuscare la sua memoria […] il pudore è ingegnoso. Non
sono le cose peggiore quelle di cui ci si vergogna di più (F.
Nietzsche, Al di là del bene e del male, 40).
Ogni profondo pensatore teme più l’essere compreso che
l’essere frainteso (F. Nietzsche, idem, 290).
• La parte principale della vita degli adulti, degli
adolescenti, dei bambini e dei lattanti si svolge
all’interno di quest’area intermedia, a metà strada
fra soggettività e oggettività, fra sogno e realtà.
La stessa civiltà può essere descritta a partire da
questa visuale, dice Winnicott (1970). Nei
fenomeni transizionali occorre accettare il
paradosso ce collega la realtà interna a quella
esterna. Non chiediamo mai dell’orsacchiotto del
bambino (che è un simbolo della disponibilità
materna) se è stato creato o se era già lì.
• Negli adulti l’area transizionale è l’area degli
interessi culturali, lavorativi, religiosi, politici,
artistici ecc.
• Tutto è «transizionale» in quanto «abitiamo» la
realtà non passivamente, subendola, ma in modo
attivo, tentando di comprenderla dal nostro punto
di vista: non ci sono «cose», ma le cose come
sono per noi, pur restando che le cose qualcosa di
reale, di altro da noi, non costruzioni soggettive.
– Ad esempio, chi crea utilizza la propria spontaneità
originaria, il proprio peculiare punto di vista, la propria
prospettiva per «vedere» qualcosa dal proprio punto di
vista; contemporaneamente si «connette» con la realtà: la
creazione è, così, un qualcosa di «oggettivo-soggettivo»
– Anche l’umorismo può essere visto come un fenomeno
transizionale in quanto chi ride si distacca per un attimo dal
dato oggettivo e lo rilegge secondo la propria prospettiva;
c’è un guizzo di onnipotenza nell’umorismo, un qualcosa di
«antidepressivo», in quanto chi fa umorismo non accetta di
essere passivo: pur stando dentro la realtà, la assume in
modo soggettivo, la sovrasta e la sorpassa, pur stando
dentro la realtà.
L’umorismo di Einstein che
fa la linguaccia è il simbolo
della libertà del creare, il
richiamo ad esercitare la
propria «onnipotente»
prospettiva soggettiva, con
libertà, ma anche con
serietà, tendendo dell’
«oggettività» della realtà.
• «Formarsi», nella prospettiva di Winnicott,
significa modificare il proprio Sé
adeguandolo alla realtà ma continuando a
essere sé stessi. È abitare lo spazio «tra»
soggettivo-oggettivo, uno spazio che
Winnicott definisce appunto transizionale,
di costante passaggio e dialogo fra le due
dimensioni
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Teorie della formazione