A
Noemi Paolini Giachery
Ungaretti: Vita d’un uomo
Una “bella biografia” interiore
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I edizione: aprile 
Indice

Ungaretti uomo di pace

La poesia impoverita

«Da ciò che dura a ciò che passa»

Noia: elusione, vizio, accidia?

Da Pascoli a Ungaretti. Breve storia di un cliché critico

Un “microtesto”: un microcosmo?

Ungaretti e Blake: un incontro di destino

Eros: realtà e simbolo nella poesia di Ungaretti

I volti del barocco

Ungaretti uomo di pace
Ungaretti uomo di pace: una tesi non certo difficile da
dimostrare. In una delle sue tarde riletture della propria
poesia e del proprio destino di uomo lo stesso poeta si
è presentato come «un uomo della pace». Ma la testimonianza più diretta e più appariscente, quella a cui subito
va il nostro pensiero, è naturalmente lo straordinario documento poetico e umano costituito dalla prima raccolta
di poesie nata in trincea, II Porto Sepolto. L’esile libretto fin
dal suo primo apparire rivelò la sua decisa contrapposizione al trionfalistico modello dannunziano proprio nel suo
nodale incontro con il tema della guerra, incontro che dal
piano della vita si riflette sul piano del linguaggio poetico.
La guerra non è qui la grande occasione per un’avventura eccezionale dell’eroe, una delle vie per sublimarsi
attraverso una “vita inimitabile”, ma è la tragica esperienza collettiva che consente al poeta — sono parole dello
stesso Ungaretti — «la presa di coscienza della condizione
umana, della fraternità con gli uomini nella sofferenza,
dell’estrema precarietà della loro condizione». «Compatire,
compatire, compatire [scriveva già il poeta in guerra]. A
questa principale bontà iniziamoci, ritroviamoci uomini
intensamente» (e qui il verbo «compatire» ritrova la sua
valenza etimologica). L’odio è dunque bandito da questa
esperienza: «Nella mia poesia non c’e traccia d’odio per il
nemico né per nessuno». E — aggiungo — non c’e posto
per l’esaltazione eroica dell’individuo emergente. «M’ero


Ungaretti: Vita d’un uomo. Una “bella biografia” interiore
fatto un idea così rigorosa, e forse assurda, dell’anonimato
in una guerra destinata a concludersi, nelle mie speranze,
colla vittoria del popolo, che qualsiasi cosa m’avesse minimamente distinto da un altro fante mi sarebbe sembrata
un odioso privilegio e un gesto offensivo verso il popolo
al quale, accettando la guerra nello stato più umile, avevo
inteso dare un segno di completa dedizione». Sappiamo
che Ungaretti volle fare la guerra da soldato semplice. A
un certo momento fu obbligato a partecipare a un corso
per allievi ufficiali ma si ritirò molto presto. In una pausa
di quel corso la sua immagine poco marziale fu fissata in
una fotografia che è una delle più note. In essa ritroviamo
quel «fare trasandato e disattento» di cui parlava Ettore
Serra ricordando il suo primo fatale incontro con il soldato
Ungaretti, quel soldato che anche a Soffici apparve come
uno «dei più scalcinati».
Dicevo che la stessa novità formale dell’Allegria è da
ricondurre a quella disposizione morale così nobilmente umile, così lontana dallo spirito guerriero del “poeta–soldato” D’Annunzio. «La guerra [dirà più tardi Ungaretti] improvvisamente mi rivela il linguaggio. [. . . ] Poche
parole piene di significato che dessero la mia situazione di
quel momento: quest’uomo solo in mezzo ad altri uomini
soli, in un paese nudo, terribile, di pietra, e che sentivano, tutti questi uomini ciascuno singolarmente, la propria
fragilità. E che sentivano, nello stesso tempo, nascere nel
loro cuore qualche cosa che era molto più importante
della guerra, che sentivano nascere affetto, amore, l’uno
per l’altro». Queste parole confermano l’intento del poeta
di conferire una straordinaria pregnanza a quel suo linguaggio proprio attraverso la sua nudità, quella esemplare
nudità che non ha certo niente di «trasandato» né di «scalcinato» ma al contrario realizza una sorta di sublimazione, di
Ungaretti uomo di pace

sacrale riscatto, di miracolosa e conquistata armonia simile
a quella cercata dal soldato che, in un momento di grazia,
si spoglia dei «suoi panni sudici di guerra» per riposare
«come una reliquia» nelle acque dell’Isonzo.
Ci si può chiedere a questo punto perché mai Ungaretti
avesse voluto arruolarsi volontario. «Non l’amavo neanche
allora ma pareva che la guerra si imponesse per eliminare
finalmente la guerra» dice Ungaretti sempre nelle Note al
Porto Sepolto e aggiunge, a posteriori, «Erano bubbole, ma
gli uomini a volte si illudono e si mettono in fila dietro
alle bubbole». Sempre, del resto, Ungaretti ripeterà che «le
guerre non risolvono mai nulla». Ma in lettere scritte dal
fronte agli amici era comparsa una motivazione diversa,
anche se ben conciliabile con l’altra. In una lettera del ’
all’amico Henry Thuile si legge: «Ma non posso rassegnarmi a non sapere ancora luminosa la civiltà che ho amato
tanti anni, e per questo sono lieto di ogni sacrifizio che
mi si chiede, per questo, perché non muoia il senso libero
della mia anima spiegata al sole». Questa idea di civiltà
trascende i limiti nazionalistici. Per la morte di Apollinaire,
sempre nel ’, così elogia l’amico perduto scrivendo a
Giuseppe Raimondi: «Amava l’Italia, la Francia, la Polonia,
ma se amava tanta civiltà, la civiltà, non poteva essere, non
era, un nazionalista». Certo ci è difficile ormai accettare,
come lo era già a quel tempo per uomini di cultura come
Croce, una idea di civiltà sovranazionale, identificata con
la civiltà tout court, e al tempo stesso intesa in contrapposizione polemica con la tradizione culturale germanica. Ma
un’ idea del genere era quasi inevitabile per un giovane
come Ungaretti che si era aperto alla cultura, a una cultura
dai vastissimi orizzonti ma tradizionalmente antitedesca,
in quella città–faro che era la Parigi degli inizi del secolo.
Tanto meno evitabile, quell’idea, in occasione della guerra

Ungaretti: Vita d’un uomo. Una “bella biografia” interiore
che poneva in primo piano l’aspetto disumanamente imperialistico e militaristico di certa cultura germanica. In ogni
modo c’ era posto in quell’internazionalismo ungarettiano — quasi fatalmente lacunoso — per la valorizzazione
e l’esaltazione dell’apporto specifico del popolo italiano
alla comune civiltà («popolo» e non «nazione» è la parola
che ricorre anche nella poesia). È sempre nel ’ una lettera a Giovanni Papini in cui leggiamo: «Perché ostinarsi
a ignorare che la grandezza di un popolo è la sua civiltà,
e la civiltà di un popolo è rappresentata nel grado più essenziale dai suoi artisti; e oggi in Italia fioriscono gli artisti
più grandi di questo momento e tali da star di petto coi
grandissimi d’ogni momento».
Vale forse la pena di notare — marginalmente e senza
cercarne qui le ragioni — che il tema della civiltà come valore da preservare, che costituirà centro tematico rilevante
del Dolore, in questa prima fase compare con insistenza solo nelle prose epistolari e non si coglie invece nell’Allegria
dove l’uomo, forse anche perché a contatto quotidiano
con la morte, sembra confrontarsi con una natura senza
storia («ero un uomo che non voleva altro per sé se non i
rapporti con l’assoluto»). Un altro punto mi pare inoltre
significativo, anche per avviare il discorso — dopo aver fatto parlare quasi solo il poeta — a una conclusione forse un
po’ personale ma che, proprio per questo, mi sta a cuore.
Questo è il punto. Nell’ultima testimonianza citata la
civiltà è quasi identificata con l’arte. Non è l’ idea estetizzante dell’arte come sostituto della vita e dei suoi valori.
Più vicina è, se mai, la concezione romantica che carica la
poesia, l’arte di massima responsabilità in quanto sintesi
suprema degli umani valori. «Un poeta [dice Ungaretti] è
impegnato a fare ritrovare all’uomo le fonti della vita morale che le strutture sociali, di qualsiasi costituzione siano,
Ungaretti uomo di pace

hanno sempre tendenza a corrompere». Impegno dunque,
a condizione di liberare la parola da troppo precisa referenza socio–politica: la poesia sembra consentire all’uomo
proprio la libertà di guardare oltre ogni fenomenologia
coartante, anche oltre i limiti di una specifica condizione
storica. Esiste infatti nell’uomo — qui parla di nuovo Ungaretti — la «possibilità di portare, dalle proprie naturali
su altre dimensioni, la realtà scoprendone così la poesia e
la verità».
Questo approdo non è, come potrebbe sembrare, estraneo al nostro tema. Torniamo allo strano soldato dall’aria
disattenta — ma in realtà attento altrove — che, in una
lettera all’amico Marone, afferma di aver sopportato con
disinvoltura due anni di guerra in zona di operazioni ma
di essere impaziente «sulle cose dell’arte» (l’occasione era
un ritardo nella spedizione di bozze di stampa). Si tratta, in
parole povere, di un patito della poesia ma, in parole meno
povere, di un uomo che si porta dentro non un bisogno
di evasione ma, al contrario, una insopprimibile sete di
verità sostanziale e che tale verità pensa di dover cercare
oltre l’irrilevanza di certi esterni accadimenti; che solo in
un momento in cui si sente «isterilito dentro» conclude:
«se sono così malconcio anche nell’essenziale, varrebbe la
pena d’avere un coraggio di andarsene finalmente in silenzio». Queste indicazioni ci mettono in guardia dal trattare
anche il tema della pace, in rapporto a Ungaretti, restando
nell’ambito di una referenza contingente sia pur seria e
tragica quale può essere la temperie della prima guerra
. Un’interessante e documentata indagine sulle «dimensioni naturali»
e concretamente esistenziali dell’esperienza di guerra di Giuseppe Ungaretti
si trova nel volume Pianto di pietra. La Grande Guerra di Giuseppe Ungaretti,
di Nicola Bultrini e Lucio Fabi, pubblicato nel  da N Edizioni
con prefazione di Andrea Zanzotto.

Ungaretti: Vita d’un uomo. Una “bella biografia” interiore
mondiale o anche della seconda, così presente nel Dolore,
realisticamente considerate.
Ci sembra che il senso essenziale di questo valore, come di ogni altro valore per il nostro poeta, vada cercato
oltre. La pace per lui è sì anche il principio di misura, di
armonia, di amore, che dovrebbe informare tutti i rapporti umani, che dovrebbe affermarsi nella fratellanza dei
popoli e dei singoli uomini, come in quel rapporto d’elezione che è l’amicizia, che tanto si addice, e Ungaretti
lo ha felicemente sperimentato, agli artisti, se è vero che
«l’arte si svolge fuori di tutte le fobie; in un’atmosfera di
pia nobile comprensione» (come scrive all’amico Carrà).
Ma la pace è soprattutto l’assoluta «misura», la totale «armonia» insieme verità e miraggio, di cui al poeta è dato
cogliere qualche segno con quei suoi occhi che — dice lui
in un’altra lettera a Soffici — «come quelli della gente di
deserto» sanno «allontanarsi nelle palpebre “a mandarino”
per rispecchiarsi nell’anima». È infatti in interiore homine
che si manifesta la verità ignota, attraverso qualche «luce
felice», attraverso quei momenti di illuminazione che sono
poi i momenti di vita più vera e che si identificano con la
poesia.
Può interessarci un’esemplificazione che troviamo tra
le testimonianze del poeta sui suoi momenti di verità:
«Potrei dire che nella mia vita drammatica [. . . ] qualche
volta la verità mi ha illuminato senza contrasti. Fu quando,
soldato nelle trincee, nella prima guerra mondiale, negli
umili miei canti sentivo la parola “fratelli” nascere nella
notte. Sentivo:
Fratelli
Parola tremante nella notte
Foglia appena nata»
Ungaretti uomo di pace

E più tardi, nel , più energica la medesima ispirazione mi piegava a pregare:
Da ciò che dura a ciò che passa
Signore, sogno fermo,
Fa’ che torni a correre un patto.
Questa ardita associazione ci conferma che il patto di
fratellanza tra gli uomini, per il nostro poeta, ha bisogno
di sostenersi, con metafisica dilatazione, sul «patto» tra il
contingente e l’Eterno. E conferma anche che per lui la
preghiera, che sembrerebbe nascere dopo la cosiddetta
“conversione” del ’, è la stessa domanda esistenziale di
cui era sostanziata L’Allegria (che non per nulla si conclude
con una Preghiera) e che tornerà nel Dolore anche sotto
forma di invocazione alla «genitrice mente», concepita
come «misura incredibile, pace».
Il roseo improvviso tuo segno
Genitrice mente, risalga
E riprenda a sorprendermi;
Insperata risuscitati,
Misura incredibile, pace.
La poesia impoverita∗
Gide [in Caravaggio] non vede che derivazioni
[. . . ]. Lo spirito gli sfugge.
G. U
Speravo che i testi letterari fossero ormai al riparo dagli
abusi di quel genere di critica formalistica che ha dettato
legge per alcuni decenni dichiarando guerra al significato
in nome dell’autonomia del significante intesa come tendenza della parola poetica ad assolutizzarsi, ad imporsi in sé
riducendo a puro pretesto poco rilevante l’ineliminabile
∗
Raccolgo qui due note scritte in tempi diversi perché mi sembrano
associabili tra loro per il comune intento di rivendicare la pregnanza della
poesia (almeno della più alta e ricca come è per me la poesia di Ungaretti)
come voce, decantata (trasferita attraverso il dono della parola «su altre
dimensioni», direbbe il nostro autore), dell’identità e della vita del poeta
intesa come vita profonda, vita interiore (i dati esterni contano ed esistono
e si fanno veri solo se assunti e filtrati all’interno dell’io). Il discorso può
sembrare ovvio ma non lo è se si considera che la critica formalistica, che
ha pure il merito di essere andata oltre il banale contenutismo della critica
dell’engagement e di aver riportato l’attenzione alla specificità della lingua
poetica, nei suoi approdi estremizzanti ha per molto tempo depauperato
la poesia del suo rapporto con la vita dell’autore. Dall’altra parte, in tempi
più recenti, uno storicismo materialistico di ritorno ha recuperato questo
rapporto ma imponendo al poeta, perché si possa crederlo aperto alla vita
e alla verità, di non uscire dall’ambito di una tutta orizzontale visione del
mondo. Queste pagine cercano di trovare una loro legittimità anche nel
proporsi come sintetica ricognizione, in rapporto a un caso particolare,
sulle vicende dei due indirizzi fondamentali che, nel secondo Novecento,
hanno dominato nella critica letteraria e in particolare in quella a cui è stata
sottoposta la poesia di Ungaretti.


Ungaretti: Vita d’un uomo. Una “bella biografia” interiore
“residuo” semantico. Era il trionfo del nichilismo esteso
al territorio della critica letteraria, trionfo cui collaborò,
su un altro versante, certa ermeneutica più o meno decostruzionistica. L’interprete di testi si sentiva autorizzato
a sostituire all’indagine in profondità un vagabondaggio
in superficie alla ricerca spericolata di topoi e sintagmi e
lessemi e fonemi (soprattutto di stilemi non di rado più
presunti che reali) ricorrenti nel poeta preso in esame e
anche in altri poeti; e ciò con l’intento non di distinguere
contesto da contesto, ma di associare e omologare. Uscire
dal testo era non solo consentito ma imposto, soltanto, però, a condizione di cercare altri testi da eleggere al rango
di “fonti” sulla base di riscontri frettolosi e spesso arbitrari. Tornava sotto altra veste la critica che fu definita,
con eccessivo sarcasmo, “fontaniera”, cui per obiettività
non si può negare il merito di avere offerto e di offrire,
se praticata con discrezione e rigore filologico, importanti e indispensabili contributi soprattutto alla storia della
cultura e del gusto. Tra i poeti italiani del ’ era stato
preso particolarmente di mira proprio l’autore di Vita d’un
uomo che, ancor prima di assegnare questo titolo significativo e pregnante a tutta la sua opera, aveva ripetutamente
avvertito che la sua parola emergeva dal «porto sepolto»
della sua interiorità e che era «scavata nella sua vita / come
un abisso». C’era in queste testimonianze metalinguistiche dell’Allegria, e in tutte quelle che costellano il ricco
repertorio di dense prose, un implicito invito al lettore
a sondare l’abisso, a non limitarsi a un’esplorazione orizzontale. Sappiamo bene che la poetica di un autore non
è sempre del tutto coerente con i risultati poetici, ma nel
caso di Ungaretti la riflessione critica è condotta con raffinata e moderna coscienza culturale e in presa diretta con le
più profonde e autentiche «ragioni» della poesia. E difatti
La poesia impoverita

il lettore che ha accolto quel suo invito a scavare in profondità è stato per lo più remunerato con la rivelazione —
sia pur sempre ambigua e inquietante — di un affascinante universo. Anche l’indagine intertestuale per un poeta
come Ungaretti si rivela quanto mai suggestiva e proficua
— e, direi, necessaria — per cogliere la coerenza di una
personale costellazione di segni e di sensi e, insieme, la
complessità e la specificità dei singoli momenti poetici. È
anche vero che l’interpretazione formalistica di Ungaretti
trova un appiglio in certe tentazioni ludiche ed estetizzanti
cui il poeta non sempre sfuggì specialmente dal tempo
della sua seconda raccolta che, se da una parte segnava un
recupero della tradizione col cosiddetto rappel à l’ordre,
dall’altra portava la sperimentazione linguistica a esiti audaci. Ma nella poesia più grande di Ungaretti, quella per
la quale egli merita il posto che occupa nel Parnaso del
nostro Novecento, l’autore mette alla prova con tormentosa tensione le possibilità del linguaggio «rincorrendo il
pensiero». È «per l’opera della conoscenza» che l’uomo
dispone delle parole. E anche a Valéry, la cui importanza,
insieme a quella di Mallarmé, nella formazione poetica
di Ungaretti gli idolatri della parola assoluta amano, non
senza ragione, mettere in particolare rilievo, il poeta attribuì in più d’una occasione un fine conoscitivo, e nella sua
opera riconosceva «il prodigio» della «perfetta aderenza
della lettera allo spirito». Prodigio che non bastava tuttavia a rendere del tutto accettabile la lezione di Valéry
poiché non si poteva al tempo stesso allontanare del tutto
il sospetto che in lui, come in Mallarmé, l’attenzione fosse
«quasi interamente spostata dall’intuizione all’espressione».
Si può in margine notare che in questa occasione, e non
sarà l’unica, Ungaretti, fervente anticrociano, di Croce
prende in prestito consapevolmente non solo il lessico ma

Ungaretti: Vita d’un uomo. Una “bella biografia” interiore
addirittura la formula secondo cui «c’è stile [Croce direbbe che c’è poesia] quando in un’opera sia perfettamente
raggiunta l’identità fra espressione e intuizione». E sì che
proprio a proposito del grande poeta francese aveva enunciato suggestive sentenze in cui appariva condensata la sua
stessa poetica. «Scrivere versi per Valéry non è un fine, è
un mezzo di suprema disciplina spirituale [. . . ]. Si serve
della poesia come del faro più splendente, nelle procelle
della conoscenza. La logica ha l’immenso campo di ciò
che è dimostrabile, e dove più non arriva, illumina la poesia». Forse proprio a questa concezione della poesia come
conoscenza autonoma e alogica si riferiva Gianfranco Contini quando dichiarava che «il rapporto ch’egli [Ungaretti]
ha posto tra il fatto e la parola, tra il giudizio e la parola, resta fuori dell’ambito d’un’ espressa giustificazione» .
Dal momento che nello stesso testo aveva già chiarito che
«la “consolazione” specifica di Ungaretti sta nel puntare
tutti i significati, tutte le possibilità critiche sopra una parola; la quale resta ricca e carica abbastanza perché in essa
s’esaurisca il “motivo” o “situazione” poetica e s’annulli
qualsiasi necessità di ricorso a un’enunciazione logica o
storica» (sulla ricchezza della parola poetica — idea che qui
sottolineo con i miei corsivi — il discorso di Contini tornava più volte). Ma il giudizio del grande critico veniva
interpretato come riconoscimento della «discontinuità»,
dell’«irriducibilità di vita e parola». Nella poesia di Ungaretti, come in tutta l’autentica poesia, le cose non sarebbero
altro «che nomi, possibili, dell’oratio, agglomerati fonici
e semantici che la strategia del verso ordina riducendo a
significanti, a pretesti di metafora anche le notazioni più
biograficamente precise: il “numero  della rue des Carmes”
. G. C, Esercizi di lettura, Firenze, , p. 
La poesia impoverita

diventa immediatamente un “appassito vicolo in discesa”,
e il “camposanto d’Ivry” ha rilievo solo perché stagliato
metaforicamente “in una giornata / di una / decomposta
fiera”» . Che la mediazione tra la reale rue des Carmes e
l’oratio avvenisse attraverso una personale esperienza interiore che pretendeva al tempo stesso di esprimersi, oggettivarsi e sublimarsi è problema che non sfiora l’interprete.
Quanto alla «discontinuità» tra parole e cose, non è difficile
darla per scontata. E non c’è bisogno di aspettare le moderne gnoseologie perché il problema nacque appena a un
elementare realismo si sostituì, nella disputa sul linguaggio,
il più maturo nominalismo. La «discontinuità» tra parola e
vita è meno probabile soprattutto se per vita si intende la
vita interiore con tutta la sua complessa fenomenologia. E
per ogni poeta lirico (e forse Croce aveva qualche motivo
per considerare lirica in senso lato tutta la poesia) la verità
che conta non è quella esteriore della cronaca e dei dati
anagrafici («non sono i fatti esterni che fanno lo scrittore»,
avverte il poeta) e la metafora è appunto la chiave per approssimarsi a quel vero: la rue des Carmes diventa più vera
e significativa appena, all’interiorità del poeta, si manifesta
come un «appassito vicolo in discesa». La “fiducia” (o presunzione) ungarettiana che il significante corrisponda al
significato, il linguaggio all’anima», quella «petitio principii
che, seppur sottilmente», separerebbe «la poetica dell’autore da una piena concezione manieristica dell’arte», quella
fiducia, o piuttosto quella speranza, mi pare ben diversa
— e ben più plausibile — dall’«idea rinascimentale che il
linguaggio nomini le cose come l’uomo ordina il mondo» ,
idea improntata a un arcaico realismo che non può essere
. C. O, Giuseppe Ungaretti, Torino, .
. Ibidem, p. .

Ungaretti: Vita d’un uomo. Una “bella biografia” interiore
richiamata in riferimento all’idea che Ungaretti ha del rapporto tra segno e senso. Mentre si guardava con sospetto a
quello che un tempo si chiamava il contenuto della poesia
al punto che qualcuno rilevava, implicitamente presentandolo come segno di incompiuta maturazione poetica, il
fatto che nell’Ungaretti degli anni Venti restasse «qualche
preoccupazione d’ordine contenutistico», nella mente del
critico era spesso attiva e operante una preoccupazione, o,
meglio, un preconcetto ideologico che occupava gli spazi
vuoti lasciati dalla rimozione dei veri, profondi significati ungarettiani. In primo luogo si intendeva rimuovere e
censurare quello spiritualismo da Ungaretti sempre tenacemente professato, quell’ansia religiosa che percorre tutta
l’opera del poeta. L’accanito impegno antimetafisico, che
era l’impegno ideologico primario di certa critica, al tempo stesso devota cultrice della metafisica della “parola pura
forma”, sembrava talvolta paradossalmente rifarsi, nel suo
concetto di verità e di conoscenza, proprio a un realismo
materialistico che può ricordare quella «cieca fiducia nella
materia grezza» che Ungaretti attribuiva ai Futuristi dichiarando la propria lontananza da questo criterio. Un autore
degno di considerazione deve essere valutato, per cogliere
la valenza semantica del suo testo, iuxta propria principia,
e non rientrava nei “principi” di Ungaretti una concezione
che riducesse la verità “biografica” ai dati della cronaca
esteriore (non so se saremmo autorizzati interpretando un
poeta stilnovista a considerare più nutriti di verità i testi
di stile “comico–realistico” che quelli di ispirazione alta e
idealizzante). Pur non avendo probabilmente preso atto
della moderna proposta di un’ estetica connessa alla “teoria
dell’informazione”, Ungaretti non sarebbe stato d’accordo
con chi, riscontrando con compiacimento nella sua poesia
(non so quanto a ragione) una totale mancanza di riferi-
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