All’opera
Il crudo realismo della «Tosca»
Il capolavoro di Puccini alla Fenice
P
di Massimo Contiero
er la sua quinta opera, Puccini cercò ancora ispirazione
sione di Scarpia, che Tosca pugnala, dopo averlo illuso su se stesin ambito francese, come era avvenuto per Manon (1893)
sa, allo scopo di ottenere un lasciapassare per il suo amato prie Bohème (1896). In verità, prima ancora di questi titoli,
gioniero, il repubblicano Mario Cavaradossi. Anche nell’opeaveva pensato alla Tosca di Victorien Sardou, che aveva visto al
ra era rimasto il macabro rito che Tosca celebra nel finale del seTeatro dei Filodrammatici fin dal 1889, interpretata dalla grancondo atto, disponendo i candelabri intorno al cadavere del bade Sarah Bernhardt, per la quale il dramma era stato pensato.
rone e appoggiandogli un crocefisso sul petto. Proprio il lasciSecondo l’amico Arnaldo Fraccaroli, «ne riportò un’impressiovo e crudele Scarpia è, d’altra parte, il personaggio più negatine di sbigottimento, quantunque della recitazione francese egli
vo di tutto il teatro pucciniano e merita le beffarde parole che la
fosse riuscito a comprendere una sola parola, che la protagodonna gli indirizza vedendolo esanime: «E davanti a lui tremanista ripeteva con angosciata voce: Malheureuse!
Malheureuse! Ma lo aveva
colpito l’evidenza delle situazioni e la varietà delle passioni che sono in gioco nel dramma
e la veemenza degli avvenimenti». Aveva dunque insistito perché Ricordi chiedesse i diritti
alla riduzione, che tuttavia Sardou negò, anche perché Puccini era
in quel momento ancora uno sconosciuto.
Era ormai imminente il debutto, nel 1890, di
quello che poi divenne il
manifesto del Verismo
musicale, Cavalleria rusticana, ma Puccini non si
lasciò tentare dalla scelta della contemporaneità e dalle ambientazioGiacommo Puccini
ni proletarie della nuova
corrente che vide il susseguirsi di Pagliacci, Mala
Vita, A basso porto ecc. Preferì ancora rappresentazioni «in cova tutta Roma!». Un aguzzino eliminato da una coraggiosa mastume» e nonostante l’editore lo spingesse al contatto con Verga
no femminile.
per La lupa, non arrivò all’accordo. Ma va anche detto che, noIl clima plumbeo, ossessivo, prevalente nell’opera, è appena atnostante vari tentativi, rivelatisi inutili, di collaborare con D’Antenuato dalla figura bofonchiante e bigotta del sagrestano, otnunzio, i punti d’incontro del compositore con la letteratura itatusamente festante col coro di voci bianche nel primo atto, dal
liana si limitarono in seguito a Gianni Schicchi (Dante) e Turanpreludio del III atto, un «mattutino» che si apre con lo squillo dei
dot (Gozzi).
corni e mitigano l’atmosfera anche lo stornello romanesco canSe apparentemente Puccini sembrò quasi defilarsi dalla nuova
tato in quinta da un giovane pastore, lo struggimento del quartendenza del melodramma italiano, pure Tosca è la sua opera più
tetto dei violoncelli, i duetti di tenore e soprano. Proprio queincline a un crudo realismo: tortura, tentativi di stupro, omicisti duetti Giacosa, intervenuto a versificare la tela redatta da Ildi, fucilazioni e suicidi. Davvero troppo per lui. Quando finallica, riteneva sovrabbondanti e causa della inconsistenza drammente Illica ebbe l’autorizzazione a cavarne un libretto, che armaturgica del testo, davvero assenza di lungimiranza per un
rivò nelle mani di Puccini – dopo aver tentato perfino Verdi –
uomo di teatro come lui. Perfino Ricordi fece pressioni perché
da quelle del rinunciatario Franchetti, il compositore pensò di
Puccini non allentasse la tensione dell’ultimo atto con il dialoconvincere Sardou ad attenuare il dramma facendo sopravvigo tra Tosca e Mario (O dolci mani, Amaro sol per te m’era il morire)
vere la protagonista nel finale, evitandole il
anche perché aveva riconosciuto, con ditragico balzo suicida da Castel Sant’Angespetto, materiale già usato in Edgar, la più
lo. Ma non ci fu verso.
sfortunata
delle creature pucciniane. RiVenezia – Teatro La Fenice
Aveva lasciato riprendere da lllica e Giacordi avrebbe preferito accontentare Sar23, 27, 28, 29, 30 maggio, ore 19.00
24, 24, 31 maggio ore. 15.30
cosa, quasi letteralmente, la scena dell’uccidou, con un epico inno alla libertà di Ma-
22
All’opera
rio, una «trionfalata» per Puccini. Il quale aveva ragione contro
tutti, se è vero che quest’opera è oggi rappresentata quanto nessuna. Ne scaturisce ancora una volta soprattutto una vicenda
sentimentale, su uno sfondo storico certo non trascurabile, ma
non interesse primario del musicista. L’ambientazione romana
non pungola Puccini sotto il profilo politico, ma lo spinge alla citazione sonora realistica: campane, stornelli, inni sacri. Le
sue esigenze di verisimiglianza sono dimostrate dalle accurate ricerche sui testi latini da adottare, affidate agli amici sacerdoti Vandini e Panichelli, e dall’incarico al poeta romanesco Gigi
Zanazzo, fondatore della rivista «Il Rugantino», di fornirgli il testo del canto del fanciullo all’alba.
Leggendo questa partitura ci si accorge fin dall’esordio che
Puccini non si sottrae alla sfida di cogliere con la sua musica il
senso tragico del soggetto e che ci riesce spingendo il suo lin-
plifica la concatenazione accordale dell’inizio. A questo episodio si apparenta la sovrapposizione stilistica ottenuta all’inizio
del secondo atto, ancora con Scarpia in primo piano, che pregusta, con crudele sadismo, la sua vittoria, mentre da fuori scena
giungono una gavotta e la cantata di Tosca, in stile settecentesco. Accenni di politonalità si hanno quando al tono di mi creato dalla campana, che cita esattamente quella di san Pietro, si sovrappone lo stornello in fa diesis maggiore.
L’uso dell’orchestra in funzione di supporto all’azione trova i
suoi culmini nelle due scene dell’assassinio di Scarpia e della fucilazione di Mario. In entrambi i casi un ostinato ritmico melodico acuisce, con la ripetizione, il senso lancinante del dolore e
suggerisce l’inesorabilità degli accadimenti. Quanto agli spazi di
cantabilità solistica, essi vengono prosciugati al massimo e trattati con concisione estrema. Viene ulteriormente perfezionato
quel processo di fusione
della scena e dell’aria che
porta a una struttura sostanzialmente binaria:
una prima parte quasi
«parlante» sfocia in uno
slargo lirico che porta a
un acme emotivo a ridosso di una chiusa veloce. È lo schema di «Recondita armonia», «Vissi d’arte», «E lucevan le
stelle». Si notino in quest’opera le generose concessioni al ruolo tenorile, a dispetto del titolo al
femminile.
Puccini si permise il
lusso, per la prima del
14 gennaio 1900, al Costanzi di Roma, di ignorare la disponibilità di
Caruso, che giudicava
troppo presuntuoso e
incurante della recitaTosca, nella versione di Robert Carsen
zione e gli preferì Emilio De Marchi proprio
perché più duttile come
guaggio sulla strada della modernità. Ne è convinto anche René
attore. Hariclée Darclée, già più volte Manon, era Tosca, EuLeibowitz, che vi scorge anticipazioni non solo di Berg e di Ragenio Gilardoni Scarpia. Dirigeva Leopoldo Mugnone, la revel, ma addirittura della Kammersymphonie op. 9 (1906) di Schöngia era di Tito Ricordi e le scene, non senza polemiche, erano di
berg e di Petrouschka (1911) di Stravinskij. L’esordio è armonicaAdolfo von Hohenstein, cui non erano perdonate le origini temente ardito: tre violenti accordi si susseguono (si bemolle, la
desche. Si debuttava nello stesso Teatro dove dieci anni prima
bemolle, mi maggiore) e lasciano intendere quella scala per toni
aveva trionfato Cavalleria. Mascagni era tra il pubblico e fu saluinteri di cui Debussy faceva ampio uso all’epoca. Usando la tectato festosamente al suo arrivo, quasi per esprimere smania di
nica wagneriana del Leitmotiv, questo frammento sarà il segnale
confronto e diffidenza per la novità. Nonostante il soggetto podi Scarpia, destinato a punteggiare l’opera come un cupo richialemico verso il potere pontificio, lo stato di amanti conviventi
mo. La stratificazione spregiudicata di eventi musicali guidadei protagonisti, la regina Margherita presenziò a partire dal II
ti da differenti regole interne, già tentata nel finale del II quadro
atto: Italia umbertina tra Porta Pia e il Concordato, ancora laica.
di Bohème, con la sovrapposizione della fanfara militare al canto
Ma le tensioni sociali erano fortissime e arrivò, a turbare la pridei protagonisti e del coro, è qui nuovamente ricreata nella scena
ma, la notizia (falsa) di una bomba in sala, dove sedeva l’odiato
del Te Deum, che chiude il primo atto. Da un lato il rovello del baministro Pelloux. Accoglienza incerta del pubblico e della critiritono, «Va’ Tosca, nel tuo cuor s’annida Scarpia», un declamaca, né le cose andarono diversamente alla Scala con Toscanini
to sostenuto da accordi di nona, dall’altra
e il tenore wagneriano Giuseppe Borgatl’organo e infine il gregoriano ecclesiastiti subentrato a De Marchi. Il successo tutco destinato a emergere con i suoi spogli,
tavia arrivò prestissimo in Italia e in EuroRegia di Robert Carsen,
ma vigorosi unisoni, prima di essere tronpa e Caruso fu determinante per i trionfi al
cato dalla grandiosa conclusione che amdirezione di Daniele Callegari Metropolitan di New York.
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All’opera
All’Arena la «Tosca» cinematografica e
simbolica di Hugo de Ana
M
ièpiaciutamoltol’ideadifarelaToscainArenaperché
per me rappresentava sicuramente una sfida. L’Arena, infatti, può essere uno spazio molto difficile, anche dispersivo, per un’opera che io considero intimista. Ho voluto puntare su una teatralità di tipo cinematografico perché credo che, nel libretto di Illica, i modi in cui si sviluppa l’azione abbiano tutte le caratteristiche di una forma cinematografica».
«
di Arianna Silvestrini
Floria Tosca e il pittore Mario Cavaradossi. Tosca è anche un’opera indissolubilmente legata alla sua epoca storica, che per me non
ammette trasposizioni. La storia è molto presente in quest’opera, con gli echi della battaglia di Marengo: è un fatto storico, vero, con una data precisa. I costumi sono quindi assolutamente
del periodo, anzi qualcuno è una vera e propria copia dei costumi napoleonici. Sono decisamente tradizionali. Non me la sen-
Tosca, nella versione di Hugo de Ana
Così racconta Hugo de Ana, affermato regista argentino
tirei di far indossare ai soldati dei costumi nazisti, com’è di moche ha curato l’allestimento della Tosca che andrà in scena sabada oggi, perché l’atmosfera che voglio far respirare è quella delto 21 giugno all’Arena di Verona. Hugo de Ana ha già firmato
l’Ottocento in guerra. C’è chi ha realizzato, a New York, un Rila messinscena dell’opera di Puccini due anni fa, sempre per il
goletto con un’ambientazione mafiosa: era molto bello, funzionacartellone del Festival lirico dell’Arena, riscuotendo grande
va, ma era destinato a un altro tipo di pubblico, che si aspettava
apprezzamento.
una proposta sperimentale. Penso invece che anche all’Arena si
«Ho cercato il più possibile – continua – di puntare su un’atmopossa gradualmente portare una concezione più moderna delsfera simbolica, più astratta, cercando di tirare fuori il gioco dello spettacolo, ma senza allontanarsi troppo da ciò che rassicura
le intenzioni psicologiche dei personaggi. Anche per l’ambientalo spettatore».
zione scenografica sono partito da un’idea simbolica, con framNonostante il regista prenda le distanze da ipotesi di trasposimenti di Castel Sant’Angelo: una grande testa della statua delzioni della Tosca in altre epoche e altri luoghi, l’allestimento non
l’Angelo, con un braccio spezzato e la spada alzata, che in qualcomporterà comunque una rappresentazione realistica: «No,
che maniera ci unisce dall’inizio alla fine dello spettacolo. Sottonon può assolutamente essere realistica – spiega de Ana . Il molineando che la vicenda si svolge il giorno della battaglia di Mamento del Te deum ad esempio non è tanto un’immagine di fasto
rengo, quando venne sancita la vittoria napoleonica sull’esercie di potenza reale, è piuttosto una specie di allucinazione, una
to pontificio, i colpi di cannone della battaglia non avranno sogrande visione di Scarpia nel momento del suo grande potere».
lo la funzione di dichiarare scoperta la fuga del prigioniero; saL’opera sarà diretta da Giuliano Carella, mentre Nadia Miranno anche simbolo del sanguinoso conflitchael interpreterà il ruolo della protagonista.
to tra fazioni in guerra. La scena vedrà una seMarcello Giordani e Carlo Ventre si alternerie di trincee con cannoni, a richiamo di una
ranno nella parte di Cavaradossi; Alberto MaVerona – Arena
situazione di conflitto continuo, di una città
stromarino si esibirà infine nell’interpretazio21, 27 giugno,
costantemente in guerra. Su questo sfondo si
ne del capo della polizia, Scarpia.
4, 12, 19, 24 luglio, ore 21.15
svolge la storia d’amore tra la celebre cantante
1 agosto, ore 21.00
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All’opera
Il percorso iniziatico
di Gustave von Aschenbach
«Morte a Venezia» da Mann a Britten
secondo Pier Luigi Pizzi
I
n occasione della rappresentazione di Morte a Venezia di
Benjamin Britten Pier Luigi Pizzi svela le fasi dell’elaborazione della sua fortunata regia dell’opera.
Sce n a d a M o r te a Ve n e z i
«Morte a Venezia non è uno spettacolo nuovo, l’avevo già allestito a Genova nel 2000, e allora ebbe molto successo e si aggiudicò il Premio Abbiati. Mi fa però molto piacere tornare su quest’opera che, pur essendo musicalmente complessa, a mio parere è estremamente densa e intensa.
Quando ho iniziato a pensare alla
regia, la prima decisione determinante è stata quella di dimenticare Visconti. Questo per varie ragioni, a cominciare dal fatto che mi
sembrava inutile ripetere le stesse immagini
del film. Riproporre
quel mondo sarebbe stato come «mettere il film in scena». Va aggiunto
poi che la versione
cinematografica si
prendeva molte libertà rispetto al libro, sia in generale sul piano interpretativo che più in
particolare per quel
che riguarda il professor Aschenbach.
Questo personaggio
io l’ho immaginato in
un modo diverso da come l’aveva visto Visconti, e credo che la mia lettura sia più fedele all’originale. Aschenbach non è un artiig i
sta ma lo diventerà, e per divenPi
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tarlo dovrà compiere un doloroso
i
percorso iniziatico. Quando al principio lo incontriamo a Monaco è in piena
crisi esistenziale: è uno scrittore di successo,
celebre, rispettato, ammirato, ricco, però non è un
artista, e lo sa. A questo punto un personaggio un po’ diabolico gli consiglia di andare al sud alla ricerca di altre emozioni.
Questo percorso iniziatico lo porterà alla morte ma anche alla
resurrezione in quanto artista. Aschenbach ha bisogno di scoprire il senso della bellezza, il senso dell’arte, con tutte le componenti di sofferenza che questo comporta. Questa parabola Britten l’ha raccontata benissimo, non solo drammaturgia, ne l
l’a ll e
stim
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L
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26
camente ma anche musicalmente. Ho cercato di abbandonarmi alla narrazione seguendo gli impulsi della musica oltre che,
naturalmente, gli spunti letterari. Questo mi ha condotto verso una direzione ben precisa, a partire dalla collocazione temporale: non siamo più nel 1910, ma all’inizio degli anni quaranta. Questi due periodi presentano più o meno lo stesso clima di
tensione, che si avverte sempre prima di una catastrofe. Nel ’40 si ripropone una situazione simile a quella del ’10, c’è il nazismo e c’è il
fascismo che si allinea a quel nazionalismo estremista. E la guerra si affaccia come conseguenza inevitabile. Quest’atmosfera si sente pesantemente, e tutti i sintomi di malattia, la stessa
epidemia di colera, sono una metafora. Con
questa ambientazione ho fatto un lavoro
in qualche modo autobiografico: nel ‘40
avevo dieci anni,
e mi ricordo bene
quel clima e quelle spiagge: ho conservato dei ricordi precisi, che mi
hanno permesso
di immaginare attingendo direttamente alla mia memoria, aggiungendo un coinvolgimento e una passione che
mi hanno molto aiutato. La mia ricostruzione dunque non passa attraverso i documenti, ma
attraverso i ricordi. Le immagini non sono realistiche,
o meglio passano attraverso un
realismo lirico, poetico. La stessa
evocazione di Venezia avviene in vari modi. A volte attraverso la riproduzione fedele dei luoghi, come per esempio la citazione delle Procuratie. Al contrario certe altre immagini sono inganni della memoria, come la basilica di San
Marco in scala ridotta e circondata di cipressi, che richiama a
un contesto cimiteriale, come l’inizio dell’opera, che si svolge
in un cimitero di Monaco. È una Venezia fatta di situazioni visive non fotografiche, al contrario originate da quelle deformazioni che si hanno quando la memoria ripropone immagini mentali, sedimentate nel tempo». (l.m.)
All’opera
Sulle ceneri di Aschenbach
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piena sintonia con il morbo ch’egli già covava in sé. È una rete invisibile che il luogo tende all’animo dei personaggi, qualcosa che
li avviluppa e non li lascia più. Procedimento che si ritrova in Death in Venice di Benjamin Britten e in Morte a Venezia di Luchino Visconti.
Nel film che il regista trarrà dal racconto nel 1971, questa crisi viene
portata alle estreme conseguenze e Visconti fa scivolare tutta la struttura della storia verso la tragedia. L’angelica bellezza del giovane Tadzio sarà fatale, poiché metterà in moto «un meccanismo
dicolpa-degradazione-morte, che si consuma
come un drame
it t
ma
classico».
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B
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La totale identificazioja m
n
e
B
neprima diMann epoidiVisconticon Aschenbach,compie
in Britten un passo ulteriore. Il musicista infatti affronta con il protagonista
manniano lo stesso cammino che lo conduce alla morte. Confrontando la biografia del musicista inglese con la seconda parte del romanzo
si avrà una sovrapposizione fatale, al punto
che quando scrive l’opera Britten ha esattamente la stessa età del personaggio sessantenne della storia diversamente da
Mann che la scrisse all’età di 35 anni più
quale proiezione e ipotizzazione della
propria fine. Non così per Britten, ben
consapevole che a causa della malattia e della fine ormai prossima, Death
in Venice sarebbe stata la sua opera conclusiva, vero e proprio testamento spirituale.Perquesto,l’essenzaultimamolto si discosta dalla visione dello scrittore
tedesco. La morte di Aschenbach non è
infatti quella sorta di auto-distruzione verso la quale tende il protagonista manniano,
bensì il suo superamento. La crudele e fatale
aspirazioneallaBellezzaproclamatainDerTodin
Venedig, diviene nell’opera musicale il disteso e paciVenedig
ficato approdo all’autoconoscenza sostenuto, non a caso, da un musica che lentamente si infrange. «La tessitura orchestrale si riduce infatti progressivamente, e la scena si conclude
con una singola nota, un armonico suonato pianissimo (indicato con tre p) dal primo violino», scrive Barbara Diana. «Ed è proprio l’utilizzo dell’armonico a dare l’idea che la musica non smetta, ma accompagni Ashenbach là dove lo spettatore non è più in
grado di udirla».*
Th
C
osa spinge Gustav von Aschenbach ad abbandonare la
propria opera di scrittore e recarsi in un luogo distante e
sconosciuto? Perché d’un tratto, durante la consueta passeggiata, è assalito da una strana inquietudine, da un sentimento per lui inconsueto? «Era voglia di
viaggiare, nient’altro; ma nata come
un attacco di malattia, ed esaltata
fino alla passione, anzi fino all’illusione sensoriale», scrive Thomas Mann. Soltanto pochi giorni dopo, Aschenbach parte per Venezia ignaro del fatto che lì la
morte lo attenda.
L’eroe di Mann segna un punto di crisi
nell’opera dello scrittore; Der Tod in Venedig delinea infatti quella
fratturadellanormaschilleriana e dell’«eroe in tensione» che Furio Jesi aveva ben evidenziato in un breve saggio sul racconto manniano. Von Aschenbach vive
per la sua opera e ne persegue l’ideale con abnegazione e virtù. È l’artista descritto da Schiller, colui che con «l’estasi della volontà» e una «saggia amministrazione» ottiene la grandezza; è lo stesso Aschenbach iniziale al quale Mann conferisce i tratti del pensiero
schilleriano. Ma l’eroe contravviene alla
volontà e alla virtù e si concede una fuga dal talento e dal sacrificio: tutto ciò
gli sarà fatale.
InmoltihannoguardatoadAschenbach come a un personaggio autobiografico non soltanto per il suo autore
ma anche per molti di coloro che a esso si sono ispirati. Su tutti campeggia
un trittico d’eccellenza: Mann-Visconti-Britten. Più che personaggio, Aschenbach è rappresentazione del Mito, della dicotomia mai risolta tra arte e vita, della lotta
struggente tra morte e bellezza. Siamo dinanzi a un dramma classico. Tutto ciò che l’eroe attraversasifasimbolo:lasuamalattia,lapassioneper
il giovane Tadzio, Venezia quale luogo d’elezione. Malattia e degrado del protagonista coincidono con quello della città, se ne nutrono e proliferano. Il colera che imperversa per
le calli e il plumbeo disfacimento dell’animo dello scrittore, sono
fatti della stessa sostanza. Lo scirocco soffoca la città, la opprime,
la rende folle e il cuore di Aschenbach non è esente dall’affanno
e dal delirio che quel vento malato e tedioso porta con sé; un intero universo di bellezza, gioventù e talento va inesorabilmente
verso un destino occiduo e di morte. Venezia accompagna e celebra il funereo passaggio dell’eroe stringendolo tra le mura infestate dei suoi campi e delle fondamenta; un assedio ch’egli non
aveva previsto partendo per il proprio viaggio, ma che si rivela in
di Patrizia Parnisari
*Per un approfondimento su questo argomento si rimanda al saggio di Barbara Diana, Il sapore della conoscenza: Benjamin Britten e Death in Venice, De Sono-Paravia, 1997
27
All’opera
La complessità musicale
di «Roberto Devereux»
L’opera di Donizetti a Trieste
diretta da Bruno Campanella
R
oberto Devereux o il conte di Essex,
li, a cominciare da Elisabetta, che viene
rappresentato per la prima volta
da Donizetti tratteggiata musicalmenTrieste – Teatro Verdi
a Napoli il 28 ottobre 1837, riente in modo complesso e innovativo, su8, 13, 14, 15, 20 maggio, ore 20.30
tra tra le opere della maturità di Gaetaperando nel cromatismo contradditorio
9 maggio, ore 18.00
no Donizetti (1797-1848), quando già il
della sua vita interiore i precedenti del17 maggio, ore 17.00
compositore aveva piena consapevolezl’Antonina di Belisario e di Pia de’ Tolomei.
18 maggio, ore 16.00
za della sua arte e delle sue grandi poNelle ultime battute la sovrana, sconvoltenzialità espressive. Fosca tragedia di
ta dalla visione del fantasma di Roberto,
ambiente reale, nei tre atti in cui è divisa ritrae il protagoniabdica in favore di Giacomo I. E forti sono, in questa chiusa
sta, amante della regina Elisabetta d’Inghilterra, nella sua
amara e drammatica, anche le parole del libretto di Salvatorovinosa caduta, che lo condurrà inevitabilmente alla morre Cammarano: «Mirate quel palco... di sangue rosseggia.../
te. Se all’inizio infatti la sovrana – pur conscia di non essere
È tutto di sangue il serto bagnato.../ Un orrido spettro perpiù riamata – difende ancora colui di cui è innamorata dalcorre la reggia, /tenendo nel pugno il capo troncato.../ Di
la maldicenza della nobiltà che lo vuole a tutti i costi congemiti, e grida il cielo rimbomba.../ Pallente del giorno il
dannare, progressivamente si lascerà accecare dalla rabbia e
raggio si fe’.../ Dov’era il mio trono s’innalza una tomba.../
persuadere a decretarne la prigionia e la morte. La vicenda
In quella discendo... fu schiusa per me». L’opera, molto apcoinvolge anche un’altra coppia, quella costituita dal duca
prezzata durante tutto il XIX secolo, e meno frequentata indi Nottingham e dalla di lui moglie
vece durante il XX, è proposta ora dal Teatro Verdi di TrieSara, anch’essa in passato amanste con la direzione di Bruno Campanella. (l.m.)
te di Devereux. E proprio lei
avrebbe potuto evitarne
l’esecuzione, intercedendo con ragioni plausibiBruno Campanella (Bari, 6 gennaio 1943) ha studiato composizione con Nili e chiedendo la grazia
no Rota e Luigi Dallapiccola, direzione d’orchestra con Hans Swarowsky e
Thomas Schippers. Nella sua attività di direttore è considerato uno dei magalla regina, già incerta
giori interpreti del belcanto, e dirige abitualmente nei principali teatri del montra sentimenti oppodo. Tra le opere del suo repertorio vanno certamente ricordate I puritani e I Casti. Il cupo finale vede
puleti e i Montecchi di Vincenzo Bellini, Don Pasquale, L’elisir d’amore e La filla sconfitta di tutti i
le du régiment di Gaetano Donizetti e Il barbiere di Siviglia, La Cenerentola,
L’italiana in Algeri e Le comte Ory di Gioacchino Rossini. Importanpersonaggi
te la collaborazione con Pier Luigi Pizzi, avviata nel 1987, anno
principain cui insieme hanno realizzato al Teatro Valli di Reggio Emilia l’allestimento del Cappello di paglia di Firenze di Nino Rota,
successivamente presentato alla prima edizione del Festival
di Parigi. Dal gennaio 1992 al giugno 1995 Campanella
è stato direttore stabile del Teatro Regio di Torino. Presente in questo teatro fin dal 1984,
vi ha diretto L’Ajo nell’imbarazzo (1984), Il
barbiere di Siviglia (1987 e 1991), Don Pasquale (1988), L’italiana in Algeri (1992),
Falstaff, Lucia di Lammermoor e I Capuleti e i Montecchi (1993), La Cenerentola e La fille du régiment (1994), Jérusalem e The Turn of the Screw (1995), I
puritani e Cendrillon (1996), Roberto
Devereux (1997), Le Comte Ory e La
traviata (1999). Sin dai primi anni
della sua carriera ha avviato significative collaborazioni con le principali istituzioni teatrali europee
come l’Opéra National de Paris,
la Wiener Staatsoper e il Teatro alla Scala. Oltreoceano vanta un’intensa collaborazione con il Metropolitan Opera House, sul cui podio è salito, nel corso della stagione 1999/2000, per dirigere La Cenerentola e Il barbiere di Siviglia e, più
recentemente, per L’italiana in Algeri e Il pirata di Bellini.
28
Beverly Sills, famosa Elisabetta nel Roberto Devereux di Gaetano Donizetti
All’opera
A Trieste ritorna l’operetta
Tra giugno e luglio la XXXIX edizione del Festival Internazionale
A
lla fine di giugno inizierà a Trieste la XXXIX edizione del Festival Internazionale dell’Operetta. Con Umberto Fanni, direttore artistico del Teatro Verdi, parliamo del nuovo programma della
manifestazione.
Il festival si terrà dal 27 giugno al 21 luglio ed è organizzato anche quest’anno per un vasto pubblico di appassionati. La scelta
artistica si è focalizzata su tre capolavori del primo Novecento,
due dei quali sono nuovi allestimenti del Teatro Verdi: Cin-Ci-Là
di Carlo Lombardo e Virgilio Ranzato, Scugnizza di Carlo Lombardo e Mario Costa e Il paese del sorriso di Franz Lehár. Elemento
comune è il periodo storico, che va dal1920 al 1930. Con la messinscena di Cin-ci-là e Scugnizza si è voluto mettere in evidenza il repertorio italiano dell’operetta secondo un percorso – già iniziato nel corso della passata edizione con Il paese dei campanelli – che
va alla riscoperta di questo genere musicale prodotto in ambito
nazionale. Entrambe sono esempi tipici del costume dell’epoca,
Elisabetta Maschio
Julian Kovatchev
che è la stagione migliore dell’operetta italiana, caratterizzata da
uno spirito felicemente scanzonato, da una cadenza e un umorismo un po’ salace tipici della commedia buffa di stile borghese.
Questa stagione è connotata da valori distintivi che tendono ad
assecondare il gusto del pubblico del caffè-concerto e del varieté,
ma in modo elegante, che deriva agli autori e compositori dalla
loro formazione estetica e dalla dignità degli archetipi culturali a
cui essi si ispirano. In queste operette c’è infatti qualcosa di dolcemente italiano, quasi a rammentarci una possibilità creativa musicale non espressa se non in una breve stagione, e perciò nostalgicamente perduta.
Il 27 giugno aprirà dunque le danze Cin-ci-là, con il ritorno alla regia di Maurizio Nichetti che, dopo l’esperienza del Paese dei
Campanelli olandese affrontata lo scorso anno, si immergerà come dice egli stesso «in una storia ambientata in una Cina dell’altro
ieri, molto lontana dalla rivoluzione culturale di ieri e dalle problematiche olimpiche di oggi. Una Cina da operetta!». Lo spettacolo, diretto da Elisabetta Maschio, vede protagonista Maurizio
Micheli, alla cui vis comica è affidato il ruolo buffo di Petit-Gris.
Secondo titolo sarà Scugnizza, con Julian Kovatchev alla dire-
zione d’orchestra: questo allestimento è una ripresa del 2002 firmata da Davide Livermore, che muove la compagnia artistica in
una realizzazione scenografica volutamente oleografica – ideata
da Sergio D’Osmo – che invade di realismo il palcoscenico: una
vera piazzetta napoletana con i balconi fioriti e i panni stesi ad
asciugare. E sullo sfondo il Vesuvio con il suo pennacchio, una
pizzeria, l’albergo di lusso, gli sciuscià ecc. La protagonista Salomé non sarà una tipica donna napoletana bensì un’artista francese, Marie Stephane Bernard, che abbiamo convinto a recitare
anche in dialetto napoletano.
Terzo appuntamento del programma è Il paese del sorriso di Franz
Lehár su libretto di Ludwig Herzer e Fritz Löhner. Quest’opera appartiene al periodo della maturità musicale di Lehár, caratterizzato da una vena di nostalgia e tristezza che pervade anche
le altre due sue operette di quegli anni: Paganini e Federica. Si tratta
di capolavori, ma profondamente diversi dalla precedente pro-
Silvia Dalla Benetta,
Lisa nel Paese del sorriso
duzione artistica di Lehár, che – voglio ricordarlo – è il compositore della Vedova allegra. Anche Il paese del sorriso avrà un connotato di innovazione dal punto di vista registico, essendo stato affidato alla creatività di Damiano Michieletto. A dirigere gli orchestrali sarà l’austriaco Alfred Eschwe, mentre ospite d’eccezione
sarà il fuoriclasse Elio Pandolfi. Simbolo di un amore incompiuto, quindi insolito per l’operetta, Il Paese del sorriso racconta l’innamoramento del principe cinese Sou Ciong per la viennese Lisa,
osteggiato dalle usanze della corte orientale da un lato e dall’altro
dalla nostalgia della stessa Lisa per la sua Vienna lontana.
Un programma variegato e denso, anche se condensato in una ventina di giorni per la tournée del Teatro a Cipro con Madama Butterfly. Ritieni dunque vinta la sfida dell’anno scorso, quando avete voluto rilanciare il festival, che
stava vivendo un periodo di declino?
L’anno scorso abbiamo ottenuto un incremento del settanta
per cento delle presenze del pubblico rispetto alle edizioni passate, quindi è stato un grandissimo successo, che ha rilanciato
davvero la rassegna, anche in vista dell’importante traguardo dei
quarant’anni, che festeggeremo con una grande festa. Per informazioni: www.teatroverdi-trieste.com (l.m.)
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All`Opera - Euterpe Venezia