Supplemento al numero
odierno de la Repubblica
Sped. abb. postale art. 1
legge 46/04 del 27/02/2004 — Roma
LUNEDÌ 2 LUGLIO 2007
Copyright © 2007 The New York Times
Anche l’evoluzione evolve
Il dibattito pubblico
sull’evoluzione è così
impregnato di politica
e religione che sembra
che le basi scientifiche
di queste teorie siano
rimaste congelate
all’epoca di Darwin. Ma
non è così. L’intuizione di
Darwin sulla forza della
selezione naturale resta
il fondamento della teoria
dell’evoluzione, ma la
biologia evoluzionista è in
pieno fermento. Un nuovo
campo di studi, chiamato
biologia evolutiva dello
sviluppo, che indaga sulla
diversità delle forme
viventi, sta dimostrando
che lo sviluppo degli
embrioni è uno dei
principali fattori che
determinano l’evoluzione.
E gli scienziati attingono
agli studi sulla genomica
per spingere la conoscenza
dell’evoluzione umana
milioni di anni indietro nel
passato e risalire fino ai
giorni nostri.
Jimmy Turrell
Il genoma umano continua a cambiare
di NICHOLAS WADE
Gli storici credono di non dover prestare troppa
attenzione all’evoluzione umana in quanto il processo si è fermato in un passato ormai lontano. Alla luce
delle nuove scoperte basate sulla decodificazione
del Dna, questa ipotesi appare sempre meno certa.
L’uomo ha continuato a evolversi sin da quando,
circa 50.000 anni fa, abbandonò le terre ancestrali
dell’Africa nord-orientale, sia per un processo casuale noto come genetic drift (riassorbimento casuale dei geni ad ogni generazione), che attraverso
la selezione naturale. I ricercatori hanno scoperto
che il genoma porta impresse diverse impronte in
quei luoghi in cui la creta umana è stata riplasmata
dalla selezione naturale in tempi recenti, man mano
che l’uomo si è andato adattando a nuove malattie,
nuovi climi, nuove diete e , forse, a esigenze comportamentali diverse nei vari continenti.
Un aspetto sorprendente di gran parte di questi
cambiamenti è che hanno un carattere locale. I geni
ancora in mutazione attraverso la selezione naturale ritrovati nella popolazione o nella razza che vive
in un dato continente, sono per lo più differenti da
quelli riscontrabili presso altre popolazioni. Questi
geni ancora in evoluzione sono soltanto una piccola
frazione dell’intero patrimonio genetico umano.
Un esempio di recente selezione naturale è la comparsa, circa 5.000 anni fa, della tolleranza al lattosio
–cioè la capacità di digerire il lattosio in età adulta - che si è sviluppata tra i pastori dell’Europa del
segue a pagina IV
Molteplici forme di vita da pochi geni
di CAROL KAESUK YOON
Dal suo modesto esordio unicellulare, la vita
si è evoluta in un’incredibile varietà di forme e
dimensioni, ma la biologia evoluzionistica continua a scervellarsi su uno degli interrogativi più
affascinanti che ci siano: come è potuta nascere
una simile diversità di forme dalle tante mutazioni genetiche dell’evoluzione?
Ora, dopo oltre un secolo, gli scienziati stanno
trovando delle risposte grazie alla biologia evolutiva dello sviluppo (indicata anche con l’acronimo inglese “evo-devo”, da evolution, evoluzione,
e development, sviluppo).
I biologi che lavorano in questo campo stanno
scoprendo che l’evoluzione di nuove forme complesse non richiede nuove mutazioni o nuovi geni
in grande quantità, come si è a lungo creduto, ma
può essere conseguita attraverso piccoli aggiustamenti di geni e piani evolutivi già esistenti.
Un’altra cosa, ancora più strana, che emerge
dalle ricerche, è che i geni e le sequenze di Dna
che possono essere aggiustati per creare nuove
forme e nuove parti del corpo sono in numero sorprendentemente limitato.
“Si sta cominciando a far luce dove prima c’era
il buio più totale”, dice Sean B. Carroll, biologo
dell’Istituto medico Howard Hughes dell’Università del Wisconsin, a Madison.
Charles Darwin sottolineava, ben più di un secolo fa, che lo sviluppo delle forme di vita avrebbe
segue a pagina IV
P U B B L I C I TÁ
Consumatori che non credono alla società dei consumi
di STEVEN KURUTZ
Un venerdì sera di maggio, il giorno stesso che la classe 2007 si
è laureata all’Università di New York, una quindicina di uomini
e donne si sono dati appuntamento di fronte a un dormitorio della
New York University, per approfittare del trasloco di fine anno
degli studenti che gettano in grandi bidoni verdi dell’immondizia
gli oggetti che non gli servono loro più. Secondo Janet Kalish, un
abitante di New York che quella sera era lì, gli studenti benestanti
rendono insolitamente redditizio cercare tra i rifiuti.
Un signore ha scavato e ha portato alla luce un televisore Sharp.
Autumn Brewster, 29 anni, ha trovato un quadro che riproduce un
porticciolo mediterraneo che ha osservato a lungo e ha poi ceduto
a un altro del gruppo. Affondando fino alle ginocchia nel bidone
per esaminare alcuni accessori di plastica di una toilette, Kalish,
44 anni, ha osservato: “Si prova un brivido quando scavando nel
contenuto della scrivania di qualcuno si trova un intero blocco di
francobolli”. Pochi dei presenti erano capitati sul posto per caso:
la maggior parte era lì di proposito, dopo aver letto un messaggio
sul sito freegan.info.
Questo sito, che fornisce informazioni e indirizzi utili per la piccola ma crescente sottocultura di quelli che sono contrari al consumismo e si definiscono freegan – il termine deriva da vegan, i
vegetariani che non consumano nessun prodotto animale, come
del resto fanno anche molti freegan – è una specie di canale uffi-
ciale del movimento. Per Kalish e gli altri costituisce una guida
preziosa per vivere e abitare un mondo che considerano ostile ai
valori in cui credono.
I freegan scavano nell’immondizia del mondo sviluppato, vivendo a spese degli sprechi dei consumatori per ridurre al minimo il loro sostegno alle corporation e il loro impatto sul pianeta,
e per prendere le distanze da quello che considerano ormai un
consumismo fuori controllo. Si procurano quello che serve nei bidoni dei supermercati, mangiano generi alimentari leggermente
intaccati o alimenti in scatola scaduti da poco che sono gettati
via, negoziano regali di alimenti in eccesso da negozi e ristoranti
solidali con la loro causa. Si vestono predendo capi di vestiario
dalle pile di quelli dismessi, arredano le loro case con quello che
trovano in strada, o su freecycle.com, dove chi non vuole un articolo può postare un messaggio, oppure nei cosiddetti freemeets,
mercatini delle pulci dove non si usano soldi.
Il freeganismo risale alla metà degli anni Novanta ed è un movimento nato dal movimento no global e ambientalista. Ci sono
freegan in tutto il mondo, in Paesi tanto lontani e diversi quanto
Svezia, Brasile, Corea del Sud, Estonia, Inghilterra e in tutti gli
Stati Uniti. Kalish, che ha organizzato la serata a New York, ha
scavato fino in fondo nel bidone dell’immondizia, trovando anche
parecchi barattoli mezzo vuoti di burro d’arachidi. “E’ un’offerta
senza fine”, ha detto.
Un Paese di emigranti
Televisione irreale
I capoverdiani incarnano benefici e
rischi dell’era della migrazione globale.
Più telespettatori grazie alle
comunità di realtà virtuale.
MONDO
ARTI E TENDENZE
III
VIII
Repubblica NewYork
LUNEDÌ 2 LUGLIO 2007
II
MONDO
DIARIO DA KYOWÃ
Le tribù dell’Amazzonia
si ribellano ai test medici
di LARRY ROHTER
KYOWÃ, Brazil — Stando ai ricordi
degli indiani Karitiana, i primi ricercatori arrivati per estrarre il loro sangue
vennero verso la fine degli anni ’70, poco
dopo che la tribù amazzonica aveva iniziato a intrattenere intensi contatti con il
mondo esterno.
Nel 1996 arrivò un’altra équipe, che
promise dei farmaci in cambio del permesso di prelevare nuovamente il loro
sangue. I Karitiana si misero docilmente in fila, ma la promessa non venne mai
mantenuta.
Da allora grazie a Internet per i Karitiana il mondo si è ulteriormente allargato, e una semplice scoperta li ha mandati
su tutte le furie: una società americana
vende a scienziati di tutto il mondo il loro sangue e il loro Dna raccolti durante
quella visita, per 85 dollari a campione.
Vogliono mettere fine a questa pratiGUYANA
SURINAME
VENEZUELA
GUYANA
FRANCESE
COLOMBIA
Rio delle Amazzoni
Kyowã
RONDONIA
BRASILE
PERÙ
BOLIVIA
Oceano
Pacifico
Brasília
PARAGUAY Km
800
The New York Times
Le isolate tribù di Kyowã sono
ideali per la ricerca.
ca, ed esigono un compenso per quella
che descrivono come una violazione della loro integrità personale.
“Ci hanno ingannati e sfruttati, ci hanno mentito”, ha detto il capo dell’associazione tribale Renato Karitiana in un’intervista rilasciata nella riserva della
tribù, qui nell’Amazzonia occidentale,
dove 313 karitiana sopravvivono grazie
all’agricoltura, alla pesca e alla caccia.
Altri due popoli tribali brasiliani raccontano esperienze simili, e dicono di voler a loro volta tentare di porre fine alla
distribuzione del loro sangue e Dna da
parte della Coriell Cell Repositories - un
gruppo no profit con sede a Camden, nel
New Jersey.
La Coriell raccoglie e mette a disposizione della ricerca materiale genetico
umano.
I campioni, sostiene il centro, sono stati ottenuti dai ricercatori legittimamente e hanno ricevuto l’approvazione dell’
Istituto nazionale di sanità.
“Non stiamo cercando di sfruttare o di
derubare i brasiliani”, ha detto in un’intervista telefonica Joseph Mintzer, vice
presidente generale del centro. “Abbiamo l’obbligo di rispettare la loro civiltà,
la loro cultura e il loro popolo, ed è per
questo che controlliamo da vicino la distribuzione di queste linee cellulari”.
La Coriell dice di fornire materiale
solo a quegli scienziati che accettano di
non commercializzare i risultati delle
ricerche e di non trasferire il materiale
a terzi.
Per alcuni tipi di ricerche genetiche,
i popoli indigeni dell’Amazzonia sono
ideali - in quanto popolazioni isolate ed
estremamente unite, il che permette ai
genetisti di ricostruire i lignaggi con
maggiore accuratezza e di risalire alla
trasmissione di malattie attraverso le
generazioni.
La consuetudine di raccogliere campioni di sangue dagli indiani dell’Amazzonia però ha suscitato tra i brasiliani
una diffidenza diffusa.
Il nocciolo del dibattito internazionale
che è emerso ha a che fare con il concetto
di “consenso informato”.
Gli scienziati dichiarano di essersi attenuti ai protocolli del caso, mentre gli
indiani dicono di essere stati convinti a
donare sangue con l’inganno.
Gli indiani stessi però, rispondono che
all’epoca in cui vennero estratti i primi
campioni di sangue la loro conoscenza
del mondo esterno era minima, o nulla.
Per non parlare della loro conoscenza
dei meccanismi della medicina occidentale e della moderna economia capitalistica.
“E’ una sorta di gioco di equilibri”, dice Judith Greenberg, direttrice del settore biologia dello sviluppo e della genetica
al National Institute of General Medical
Sciences, parte dell’Istituto nazionale di
sanità.
“Non vogliamo fare qualcosa che affligga o esasperi un popolo o una tribù
intera. D’altro canto, la comunità scientifica utilizza questi campioni – raccolti
e conservati attraverso procedure perfettamente legittime – a beneficio dell’umanità”.
Joaquina
Karitiana,
con suo figlio
Rogerio, dice
di non aver
ricevuto alcun
compenso per il
sangue donato
ai ricercatori.
Lalo de Almeida per The New York Times
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Supplemento a cura di:Paola Coppola,
Francesco Malgaroli, Raffaella Menichini
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Traduzioni: Emilia Benghi, Anna Bissanti,
Antonella Cesarini, Fabio Galimberti,
Guiomar Parada, Marzia Porta
Eric Draper/Associated Press
Un cyberattacco potrebbe colpire sistemi come il Comando di difesa aerospaziale del Nord-America, Colorado.
Quando i computer vanno all’attacco
di JOHN SCHWARTZ
Chiunque si interessi di tecnologia o
affari militari, da più di dieci anni sente
le previsioni: sta per arrivare la guerra informatica – o ‘cyberwar’. Benché il
conflitto via computer, a lungo annunciato e tanto atteso sia ancora da venire, le prospettive si fanno via via più inquietanti: sostenuta dai suoi cervelli e
dalle risorse informatiche, una nazione
causerà un massacro; banche e imprese degli Stati nemici saranno distrutte;
i governi obbligati alla paralisi; i collegamenti telefonici si interromperanno; i giocattoli parlanti controllati da
microchip si trasformeranno in macchine assassine. No, l’ultimo elemento
non rientra nelle previsioni, soprattutto
perché i giocattoli guidati da microprocessori non sono collegati a Internet
attraverso le tecnologie a distanza note
con il nome di sistemi Scada – ovvero
dedicati all’acquisizione, supervisione
e controllo dei dati.
La tecnologia consente di seguire e
controllare a distanza operazioni come le linee di produzione industriali e
progetti di opere civili, come le dighe.
I terroristi immaginati dagli esperti di
sicurezza sono persone capaci – a colpi di tastiera – di chiudere a distanza
interi reparti di fabbriche e aprire gli
sbarramenti di una diga per devastare
le città a valle. Ma quanti danni potrebbe recare una guerra informatica – se
pargonata a un conflitto vero, con tanto
di spargimenti di sangue? Ed è possibile che accada sul serio?
Quali che siano le risposte, i governi
si stanno preparando all’eventualità.
Gli esperti di sicurezza credono che
la Cina si sia insinuata da tempo nelle
reti degli Stati Uniti. Secondo un rapporto presentato nel 2007 al Congresso
dal dipartimento della Difesa, l’esercito cinese avrebbe investito in contromisure e difese elettroniche contro un
attacco, e in concetti come “attacco alla rete informatica”, “difesa della rete
informatica”, “sfruttamento della rete
informatica”.
Secondo il rapporto, l’esercito cinese
considera le operazioni sulle reti informatiche “cruciali” per assicurarsi sin
dalle fasi iniziali di un conflitto il ‘dominio elettromagnetico’.
Anche gli Stati Uniti si stanno armando. Recentemente Robert Elder, capo
del Comando aeronautico del cyberspazio, ha detto ai giornalisti che il suo
comando sta imparando a disabilitare
le reti informatiche di un avversario e
a far collassare le sue banche dati. “Vogliamo metterli fuori gioco al primo giro”, ha detto secondo quanto riferito da
Military.com.
Un cyberconflitto senza esclusione di
colpi “potrebbe avere impatti enormi”,
dice Danny McPherson, esperto della
Arbor Networks. La possibilità che
qualcuno possa penetrare nei sistemi di
controllo industriali, dice, rappresenta
Un cyberattacco potrebbe
essere simile a una ‘Pearl
Harbor digitale’.
“una minaccia molto reale”.
Attacchi contro la stessa Internet, dice, attraverso i “root-name servers” indispensabili per connettere gli utenti
ai siti web - potrebbero causare problemi di grande portata, dice Paul Kurtz,
supervisore delle operazioni per Safe
Harbor, una società di consulenza sulla
sicurezza.
Naturalmente, il fatto che così tante nazioni abbiano un dito sul bottone
digitale, aumenta le possibilità di un
cyberconflitto scatenato da un nemico
non ben identificato, o da una semplice
anomalia di funzionamento.
Eppure, invece di pensare ai ripetuti
avvertimenti avanzati dall’industria
che mette in guardia su una “Pearl
Harbour digitale”, McPhearson dice di
credere “che le cyberbattaglie saranno
di gran lunga più sottili”, nel senso che
“alcune parti del sistema non funzioneranno, o non saremo in grado di fidarci
delle informazioni che ci appaiono davanti”.
A prescindere dalle modalità che assumerà in futuro la guerra informatica,
la maggior parte degli esperti concordano nel ritenere che quanto accaduto
in Estonia agli inizi di giugno non sia un
esempio da considerare.
Pare che all’origine dei cyberattacchi in Estonia ci fossero delle tensioni
nate dal progetto di eliminare dal Paese i monumenti commemorativi delle
guerre dell’era sovietica.
Inizialmente le autorità estoni avevano incolpato degli attacchi la Russia,
dicendo che le sue reti informatiche,
gestite dallo stato, avevano bloccato
l’accesso online alle banche e agli uffci
governativi.
Il Cremlino ha respinto le accuse, e
alla fine le autorità estoni hanno accettato l’idea che l’attacco potesse essere
opera di attivisti esperti di tecnologia
- o “hactivisti” - che da anni inscenano
attacchi simili contro obiettivi diversi.
Eppure molti, nel mondo della sicurezza e dell’informazione, hanno creduto che gli attacchi digitali ai danni delle
reti informatiche estoni segnassero
l’avvento di un nuovo capitolo, a lungo
atteso, nella storia dei conflitti.
Benché le tecnologie e le tecniche impiegate non fossero nuove, né esclusivo
appannaggio dell’armamantario digitale di un governo potente.
Anche se un giorno si scatenasse davvero un conflitto via Internet, e i microchip coinvolti reagissero nel peggiore
dei modi, i suoi effetti rispetto ad una
guerra vera e propria sarebbero fondamentalmente diversi, dice Andrew
McPherson, assistente ricercatore di
studi sulla giustizia presso l’università
del New Hampshire.
“Se hai un vaso di porcellana e lo fai
cadere, sarà molto difficile ripararlo”,
dice. “Un cyberattacco forse assomiglia di più ad un lenzuolo che una volta
strappato può essere ricucito”.
Bevono il sangue umano, ma in fondo non sono cattivi ragazzi
di JEFFREY GETTLEMAN
NAIROBI, Kenya — Di questi tempi
Charity Bokindo, commissario del distretto di Nairobi Nord preferisce non
correre rischi. Ovunque vada la donna
porta con sé non una ma due pistole e
viaggia sempre con una scorta armata.
“I Mungiki’’, sussurra, “hanno minacciato di circoncidermi’’.
Kihara Mwangi, deputato del Parlamento keniota ha scoperto recentemente che a rapirlo, tempo addietro, furono
i Mungiki, una setta che è un misto tra
mafia siciliana e una gang di Chicago
con un pizzico di occultismo. “Sono satanisti”, dice. “E nessuno sa cosa vogliono”.
Il mistero dei Mungiki dilaga in Kenya
mietendo numerose vittime. In un mese
sono state uccise più di 50 persone in un
delirio criminale e in conseguenza della
brutale reazione della polizia alle azioni
della misteriosa banda.
I funzionari di polizia dicono che i
Una gang di Nairobi
è un mix di mafia e culti
satanici.
Mungiki vogliono destabilizzare il Paese prima delle elezioni presidenziali di
dicembre e li accusano di azioni terribili
come tagliare gambe, scuoiare crani e
bere taniche di sangue umano.
Le autorità governative li accusano
di gestire un impero di estorsioni e di
massacrare le vittime come tecnica di
intimidazione.
I Mungiki , una “minaccia” secondo
la stampa locale, trovano terreno fertile
nelle piaghe che affliggono il Paese: frizioni tribali, imbrogli politici, povertà e
criminalità.
Il focolaio è il gigantesco slum di Ma-
thare, un formicaio di lamiere arrugginite vicino al centro di Nairobi che ospita
500.000 persone. “Vivono come bestie”,
dice la Bokindo.
I Muginki non sono originari di Nairobi, vengono dagli altopiani Kikuyu a
Nord della capitale.
Secondo Hezekiah Ndura Waruinge,
uno dei fondatori dei Mungiki , il gruppo ebbe origine come squadra di difesa
locale ai tempi degli scontri per la terra
della fine degli anni ’80 tra le forze fedeli
al governo.
Alla fine degli anni ’90 i Mungiki - che è
un appellativo che significa moltitudine
in lingua kikuyu - si trasferirono nei centri urbani , spiega Waruinge, prendendo
il controllo dell’attività dei minibus.
Poi hanno diversificato l’attività passando alla raccolta dei rifiuti, ai materiali edili al racket della protezione e infine alla politica, continuando a imporre
pizzi sulla protezione, sull’elettricità e
sull’acqua.
Emettono persino delle ricevute.
“Non sono cattiva gente”, dice Dominick, che gestisce un chiosco a Mathare e
ha assunto due Mungiki per servire il tè
e cuocere i chapati.
Pur non avendo molte cose negative
da raccontare sui Mungiki, Dominick
preferisce non rivelare il suo cognome
perché, dice: “E’ gente che beve sangue,
non sai mai cosa potrebbero farti”.
L’autunno scorso i Mungiki hanno tentato di alzare il pizzo imposto ai trafficanti di changaa, una bevanda alcolica
tossica distillata clandestinamente sulle
rive puzzolenti del fiume Mathare.
I trafficanti hanno armato una banda
rivale e negli scontri tra le due fazioni
sono morte più di una decina di persone
e migliaia sono fuggite.
Ora apparentemente tutto è tranquillo per le strade sterrate di Mathare, ma
non è detto che sia un buon segno. Molti
residenti dicono che i Mugiki sono tornati.
Repubblica NewYork
LUNEDÌ 2 LUGLIO 2007
III
M#N"#
La lotta per andare avanti
nell’era delle migrazioni
ISOLE
CANARIE
CAPO
VERDE
ALGERIA
SAHARA
OCCIDENTALE
Mindelo
di JASON DePARLE
MINDELO, Capo Verde — In questo
piccolo Paese africano, dove il numero
degli immigrati è quasi pari a quello degli abitanti rimasti e dove quasi ognuno
ha un parente in Europa o in America, si
possono osservare tutti gli aspetti della
migrazione globale.
Le rimesse degli emigrati sono una
spinta importante per l’economia. Nella politica sono determinanti i loro voti.
La partenza separa i genitori dai figli e
la canzone del più famoso capoverdiano
celebra il sentimento che più pervade la
nazione: la “sodade”, la nostalgia.
Intorno ai tavoli dei caffè si alternano i
discorsi che magnificano le opportunità
che si possono trovare all’estero ai racconti sui documenti falsi e i matrimoni
finti.
L’intensità dell’esperienza migratoria
rende questo arido arcipelago la Galapagos delle migrazioni, un microcosmo
delle tensioni che attraversano la politica americana e che stanno modificando
le società in tutto il mondo.
Sono circa 200 milioni le persone che
vivono fuori dal Paese di origine contribuendo a mantenere una porzione
del mondo in via di sviluppo altrettanto
grande, se non superiore.
L’anno scorso, le rimesse degli emigrati ammontavano a circa 300 miliardi di dollari (quasi 225 milioni di euro),
quasi tre volte la spesa totale mondiale
per l’aiuto ai paesi in via di sviluppo. Si
tratta di denaro che viene impiegato
per costruire case, istruire i bambini e
avviare piccole attività e che ha messo
le migrazioni al centro del dibattito su
come si aiutano i poveri del mondo.
Un importante testo accademico definisce questo periodo “l‘era della migrazione”. Ma questa è anche l’era dell’allarme migrazione, che vede gli europei
pattugliare con unità navali le coste africane per intercettare i trafficanti di uomini e l’America alzare nuove recinzioni
lungo il Rio Grande.
I paesi che accolgono volentieri ma-
MAROCCO
MAURITANIA
Praia
MALI
SENEGAL
Km
GAMBIA
480
The New York Times
Stenio da Luz dos Reis, 17 anni,
vive a Capo Verde ma come molti
in questo piccolo Paese vuole
andare via. Sua madre lavora come
collaboratrice domestica in Olanda.
James Hill per The New York Times
novalanza e cervelli vogliono anche un
maggior controllo delle frontiere. Molti
vedono gli immigranti illegali come una
minaccia alla sicurezza e temono che
un’immigrazione su larga scala possa
portare a un abbassamento dei salari,
alla necessità di servizi costosi e a immolare le identità nazionali sul falò del
conflitto religioso culturale.
La posta in gioco è esemplificata bene
a Mindelo, una regione collinare a forma
di semicerchio che guarda sull’unico segno di vita naturale: il mare che chiama
alla fuga. In un Paese dove piove poco e
che storicamente ha visto carestie frequenti, l’emigrazione è cominciata come
una necessità ed è diventata parte del
Dna della popolazione.
L’Olanda è da tempo una delle mete
preferite degli abitanti dell’isola, ma ora
questa richiede che i migranti superino
un esame di conoscenza della lingua e
della cultura nazionale. Altri paesi hanno aumentato il costo delle tariffe delle
richieste di visto, scoraggiano i candidati con la richiesta di recarsi nella capitale di Capo Verde, Praia, o hanno imposto
nuove sanzioni per i datori di lavoro che
assumono gli illegali.
Mindelo presenta con i suoi 63.000 abitanti quasi tutte le varianti della storia
recente della migrazione. Nel quartiere
collinare di Monte Sessego, Maria Cruz,
70 anni, sorride guardando gli arredi
per la sala che il figlio le ha mandato da
Rotterdam. Più in là, verso l’aeroporto,
Stenio da Luz dos Reis, 17 anni, studia
olandese nella speranza di raggiungere
la madre nei Paesi Bassi.
Se Capo Verde è la Galapagos della
migrazione, Jorgen Carling, un geografo norvegese, è il suo Darwin. Carling,
32 anni e una fama crescente nel mondo
accademico, ha visitato Capo Verde dieci anni fa imparando il creolo, la lingua
locale, e da allora è tornato diverse volte.
“Capo Verde è una vetrina delle contraddizioni e degli attriti della migrazione
globale”, dice. “Siamo di fronte a una
transizione importante dall’essere molto dipendenti dalla migrazione al tentativo di tenere il passo con un mondo nel
quale le frontiere si stanno chiudendo”.
Le tensioni che Carling cita si riscontrano ovunque. La migrazione riduce la povertà, ma aumenta le disuguaglianze tra
gli immigrati e chi resta. Può accentuare la dedizione alla famiglia ma anche
sottoporre i legami familiari a forti tensioni. E se il flusso migratorio è a livelli
record, altrettanto lo è la frustrazione di
chi vuole andare via e non può.
Senza emigrazione, Capo Verde non
esisterebbe. Questo arcipelago di dieci
isole, lontano 620 chilometri dalla costa
del Senegal, è rimasto disabitato fino al
XV secolo, quando fu colonizzato dai portoghesi con due flussi di immigrazione:
gli europei e gli schiavi africani. Diventò
un mix di entrambi i continenti e una risorsa per il commercio degli schiavi.
L’emigrazione di massa cominciò
verso la fine del secolo XIX sulle baleniere che portavano i capoverdiani nel
New England. Continuò dopo la Seconda
guerra mondiale con i programmi per
l’immigrazione temporanea, attraverso
i quali i “lavoratori ospiti” si radicarono
in modo permanente.
Sono gli stessi programmi che portarono i turchi in Germania, gli asiatici in Gran Bretagna e i nordafricani in
Francia e che, una generazione più tardi,
preoccupano ancora molti europei per i
continui conflitti culturali.
Capo Verde ottenne l’indipendenza nel
‘75, nello stesso periodo in cui si conclu-
devano i programmi di immigrazione
temporanea in Europa. Ma l’emigrazione dei capoverdiani non si arrestò. Molti
hanno continuato a emigrare con visti
turistici cercando poi cittadini europei
o americani da sposare. E mentre i capoverdiani lottano per poter emigrare,
altri immigrano. Anche questa è una caratteristica dell’era della migrazione:
la maggior parte dei paesi “di origine”
sono anche paesi di “accoglienza”. Mindelo, sull’isola di São Vicente, è piena di
commercianti cinesi alla ricerca di nuovi mercati e venditori ambulanti dell’Africa occidentale che fuggono da paesi lacerati dalla guerra e da una povertà
maggiore. Molti sperano di passare da
qui alle Canarie.
Nonostante le barriere, molti capoverdiani sono fiduciosi sulla possibilità
di partire. Aprendo la porta, da Luz dos
Reis è come una ventata di ottimismo
sartoriale: pantaloncini e maglietta
arancione con la scritta “Holland”.
La madre è partita per l’Olanda sei
anni fa per lavorare come collaboratrice domestica e le sorelle l’hanno appena
raggiunta. Da Luz dos Reis è stato lasciato a casa con un libro con 100 domande in olandese da completare, di cui 30
faranno parte dell’esame.
La numero 62 chiede se è importante
imparare l’olandese velocemente (lo è).
La numero 59 se è possibile picchiare la
moglie (no).
“C’è un aspetto positivo”, dice il ragazzo riferendosi al test. “Avremo un’idea di
quello che incontreremo là”. E, inoltre,
aggiunge, “è il loro Paese”.
I rifugiati, una prova per il Sudafrica
di MICHAEL WINES
JOHANNESBURG — Mentre la disintegrazione
dello Zimbabwe si fa sempre più rapida, un’ondata
crescente di immigrati si sta spostando nel vicino
Sudafrica, spinti a scegliere l’esilio dall’oppressione politica, dalla disoccupazione e da un’inflazione così incontrollabile che il prezzo di alcuni beni
raddoppia di settimana in settimana.
Secondo l’Organizzazione mondiale per l’immigrazione, il Sudafrica ogni settimana espelle una
media di 3.900 cittadini provenienti dallo Zimbabwe, entrati clandestinamente. Dalla seconda metà del 2006, questa cifra è aumentata di oltre il 40
per cento ed è 6 volte superiore al numero di zimbabwiani che i funzionari sudafricani riferiscono
di aver espulso alla fine del 2003.
Questi dati si riferiscono solo ai clandestini. Gli
altri entrano illegalmente senza essere scoperti, anche se è difficile calcolare quanti siano. In
un Paese di 46 milioni di abitanti, sostengono gli
esperti, i clandestini che provengono dallo Zimbabwe potrebbe variare da alcune centinaia di
migliaia fino a 2 milioni.
Le tensioni sociali sono in aumento in entrambi
i paesi, mentre la popolazione adulta dello Zimbabwe decresce e il Sudafrica si trova a dover affrontare una nuova competizione sia per i posti di lavoro che per gli alloggi. Gli immigrati sono anche
un problema diplomatico, perché il Sudafrica sta
cercando di negoziare la fine della lunga crisi politica dello Zimbabwe senza censurarne il governo o
dare l’impressione di avere interessi in gioco.
La situazione sta aggravando la miseria degli
zimbabwiani. La grande maggioranza fugge dalla
povertà e va in cerca di un modo per mantenere le
famiglie rimaste a casa. Ma spesso in Sudafrica
Kim Ludbrook/European Pressphoto Agency
I rifugiati dello Zimbabwe, come questa
madre con la figlia ospitate in una chiesa,
mettono a dura prova le risorse del Sudafrica.
trovano xenofobia, sfruttamento e un governo che
non ha né la volontà né gli strumenti per aiutarli.
Il governo sudafricano si trova già in difficoltà
per trovare e fornire alloggi gratuiti, assistenza
medica e posti di lavoro ai suoi cittadini più poveri.
Qui, dove la disoccupazione riguarda una percentuale di lavoratori adulti che varia tra il 25 e il 40
per cento, gli zimbabwiani sono considerati degli
intrusi e non delle vittime, e gli scontri tra i due
gruppi sono frequenti.
Indubbiamente, gli zimbabwiani sono innanzi
tutto delle vittime. Un numero sempre crescente
afferma di essere rifugiati sfuggiti alla persecuzione della polizia del presidente Robert G. Mugabe e dei sostenitori del suo partito, lo Zimbabwe
African National Union-Patriotic Front. Ma gran
parte di loro fugge dalla povertà, non dalle persecuzioni politiche. Un promemoria stilato da 34
agenzie di aiuti internazionali, tra cui le Nazioni
Unite, la Federazione internazionale della Croce
Rossa e la Mezzaluna Rossa, lo scorso giugno ha
previsto che, per la fine dell’anno, l’economia del
Paese cesserà di funzionare.
Quello che tiene a galla l’economia nazionale
sono le rimesse degli emigrati: un’indagine della Global Poverty Research, lo scorso giugno, ha
concluso che circa la metà delle famiglie riceve
gran parte del suo reddito da amici e parenti che
lavorano all’estero. Uno su cinque tra coloro che
inviano denaro vive in Sudafrica, il secondo paese
dopo la Gran Bretagna .
Magugu Nyathi è arrivata a Johannesburg due
anni e mezzo fa ed ha trovato lavoro come giornalista in un’agenzia. Sua zia, impiegata a Bulawayo,
guadagna 400.000 dollari dello Zimbabwe al mese
(circa 9 dollari americani, sino a quando, questa
settimana, il dollaro dello Zimbabwe non è precipitato). Ora lo stipendio della zia vale circa 2 dollari e la donna sopravvive grazie al denaro della
nipote. “Ci sono famiglie che non hanno figli che lavorano all’estero”, dice Nyathi, che vive a Città del
Capo. “Come fanno a sopravvivere? Pensateci”.
Di recente il governo di Johannesburg, ha dichiarato che 8 persone su 10, tra quelle che negli
ultimi tempi si sono recate nel nuovo ufficio per
l’assistenza agli immigrati, provengono dallo
Zimbabwe.
Un’insegnante racconta di aver abbandonato
il suo Paese l’anno scorso, dopo che spie del governo avevano scambiato una veglia che si stava
svolgendo nella sua abitazione per una riunione
di membri dell’opposizione e hanno incendiato
la casa. “Non mi sarei mai aspettata una vita del
genere”, dice mentre si trova in una struttura per
immigrati che offre consulenze legali. Ma per il
momento, aggiunge, “voglio soltanto un lavoro.
Posso lavare i piatti. Non importa se un tempo ero
un’insegnante”.
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NOVEMBER 28/29
MOSCOW
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Repubblica NewYork
LUNEDÌ 2 LUGLIO 2007
IV
SCIENZA
Da pochi geni le molteplici forme della vita
segue dalla prima pagina
avuto un ruolo centrale nello studio dell’evoluzione. All’inizio i progressi furono
limitati, ma con l’avvento della biologia
molecolare, negli anni ‘80, lo studio dello
sviluppo (cioè il processo che porta un
uovo fertilizzato a diventare un essere
vivente adulto) ricevette nuova linfa, e
la biologia evolutiva dello sviluppo attirò l’attenzione degli scienziati quando
le scoperte rivelarono che nel regno
animale, i processi e gli elementi fondamentali del corpo sono regolati dagli
stessi geni.
I ricercatori scoprirono, ad esempio,
che i geni della famiglia Pax6 regolano
lo sviluppo degli occhi in animali diversi
fra loro, come le mosche e gli esseri umani. Studi più recenti hanno cominciato a
scavare più in profondità, senza limitarsi ai tasselli fondamentali del corpo
umano, rivelando che alcuni degli eventi
evolutivi più noti sono stati prodotti da
cambiamenti del processo di sviluppo.
In una di queste ricerche, un gruppo di
scienziati guidato da Cliff Tabin, biologo evoluzionista che lavora alla facoltà
di medicina di Harvard, ha studiato un
classico esempio di evoluzione attraverso la selezione naturale, quello dei fringuelli delle Galápagos, gli stessi studiati
da Darwin.
Come gli altri organismi approdati
sullo sperduto arcipelago al largo della
costa ecuadoregna, i fringuelli avevano
prosperato grazie all’isolamento, evolvendosi in specie diverse. Inizialmente,
Darwin non si era reso conto che questi
uccelli erano tutti fringuelli, anzi, non si
era nemmeno accorto che le specie fossero imparentate fra di loro.
Errore perdonabile, peraltro, perché
se è vero che tutte le specie discendevano dai primi fringuelli avventuratisi
sulle isole, era vero anche che non sfoggiavano più il caratteristico becco corto e sottile: i fringuelli delle Galápagos
avevano sviluppato una serie di becchi
adatti ai nuovi tipi di cibo reperibili nell’arcipelago.
Secondo le ipotesi degli scienziati, era
stata necessaria una serie di mutazioni
casuali in molti geni per ottenere alterazioni così accentuate della forma e delle
dimensioni del becco.
La biologia evolutiva dello sviluppo,
però, ha dimostrato che dotarsi di un
becco nuovo, forse, è più semplice di
quanto si immagini.
Tabin e colleghi hanno scoperto che un
becco grosso e spesso si associa a una
presenza più accentuata, nelle prime fasi dello sviluppo, di un gene noto come
Bmp4.
Per verificare che sia questo gene a determinare lo sviluppo di becchi più grandi e imponenti, capaci di rompere le noci,
Anche i pesci avrebbero
gli attributi genetici adatti
a sviluppare gli arti.
i ricercatori hanno incrementato artificialmente la produzione di Bmp4 negli
embrioni di pulcini, e il risultato è stato
che i pulcini hanno iniziato a sviluppare
becchi più larghi e robusti, simili a quelli
di un fringuello delle Galápagos.
Nei fringuelli con becchi lunghi e appuntiti, i ricercatori hanno individuato
un altro gene, noto come calmodulina:
come per il Bmp4, più è presente questo
gene, più il becco diventa lungo.
Usando solo due geni, quindi, non decine né centinaia, gli scienziati possono
potenzialmente di ricreare una grande
varietà di becchi.
Un fenomeno analogo è stato riscontrato nei ciclidi, una famiglia di pesci
d’acqua dolce che ha sviluppato una
gamma di mascelle molto differenziata,
per adattarsi ai diversi tipi di alimenti
Differenze genetiche
tra le popolazioni
MODERNI GRUPPI
GENETICI UMANI
Africa
Eurasia
Asia
Orientale
Oceania
America
52% Asiatico Orientale
46% Eurasiatico
2% altre razze
Yakut
Uygur
Gli esseri umani hanno continuato ad
evolversi negli ultimi 50.000 anni in
risposta a cambiamenti di dieta,
patologie, situazioni ambientali e cultura.
Mongoli
Giapponesi
Asiatici
orientali
185
Pashtun
Beduini
38
Cinesi Han
Papua
Si ipotizza che la
popolazione umana
abbia avuto origine
nell’Africa
nordorientale circa
50.000 anni fa.
Le ultime trasformazioni del genoma umano
Nord. La lattasi, l’enzima che metabolizza il principale zucchero del latte, il lattosio, perde la sua efficacia dopo lo svezzamento. Nei pastori del Nord Europa la
capacità di continuare a metabolizzare
il lattosio è stato un grande vantaggio
nutritivo e per questo tra quella popolazione si è diffusa una mutazione genetica
che mantiene l’efficacia della lattasi anche in età adulta. La tolleranza al lattosio
non riguarda solo le popolazioni europee.
L’anno scorso Sarah Tishkoff dell’Università del Maryland e alcuni colleghi
hanno esaminato 43 gruppi etnici dell’Africa Orientale e hanno individuato
tre mutazioni diverse da quella europea
in grado di mantenere attiva la lattasi in
età adulta. Una di queste, scoperta nelle
popolazioni del Kenya e della Tanzania,
potrebbe aver fatto la sua comparsa non
più tardi di 3.000 anni fa.
La tolleranza al lattosio è un esempio
di evoluzione convergente. La selezione
naturale ha usato le diverse mutazioni
presenti tra le popolazioni europee e tra
quelle dell’Africa Orientale per sviluppare, attraverso vie diverse, una tolleranza
al lattosio. In Africa quelli che presentavano tale mutazione, erano in grado di
riprodursi 10 volte più degli altri, creando un evidente vantaggio selettivo.
I ricercatori che studiano altri geni
singoli, hanno scoperto un recente mutamento evolutivo nei geni che controllano il colore della pelle, la resistenza alla
malaria e la ritenzione di sale.
Gli esempi più sorprendenti sono
emersi da un nuovo filone di studi in cui il
genoma è analizzato ricercando le pressioni selettive e considerando poche centinaia di migliaia di specifiche porzioni
in cui le variazioni sono frequenti.
L’anno scorso Benjamin Voight, Jonathan Pritchard e altri colleghi dell’Università di Chicago hanno cercato i
geni che stanno subendo una selezione
naturale tra gli africani, gli europei e le
popolazioni dell’Asia Orientale. Presso
ciascuna razza circa 200 geni hanno dimostrato segni di selezione, ma senza
che vi fosse sovrapposizione, inducendo
così a ritenere che le popolazioni di ogni
continente si siano adattate alle condizioni locali.
Un altro studio di Scott Williamson, della Cornell University, e di alcuni colleghi,
pubblicato sul numero di giugno di Plos
Genetics, ha scoperto 100 geni oggetto
di selezione naturale in soggetti cinesi,
afroamericani e europei-americani.
In questo esame sono stati individuati
molti geni coinvolti nella resistenza alle
malattie, confermando che la patologia
è una potente forza selettiva.
Un’altra categoria di geni sottoposta a
pressione selettiva é quella coinvolta nel
metabolismo, suggerendo che le persone
rispondono ai cambiamenti della dieta,
forse associati con il passaggio dalla
fase in cui l’uomo viveva di caccia e di
raccolta a quella dell’agricoltura.
Sia tra gli europei che tra gli est-asiatici, molti geni coinvolti nella determinazione del colore della pelle sono stati
sottoposti a pressioni selettive; ma le
ricerche di Pritchard hanno individuato
i geni responsabili del colore della pelle
solo tra gli europei, mentre Williamson
Le linee blu illustrano le
migrazioni umane da cui
sono derivate le
popolazioni moderne.
55 Europei188
10
Maya
35
Africani
206 porzioni
di genoma
sottoposte a forti
pressioni
selettive
Fonti: Noah A. Rosenberg, University of Southern California;
Jonathan K. Pritchard, University of Chicago; PLoS Biology
segue dalla prima pagina
EPA
terrestre. Tiktaalik ha riservato parecchie sorprese ai ricercatori.
“Ha una testa piatta con gli occhi sulla
cima e ha sia le branchie che i polmoni. È
un animale che esplora l’interfaccia tra
acqua e terra”, dice Shubin.
Ma Tiktaalik aveva in serbo un’altra
sorpresa più incredibile: questo pesce
amante dell’acqua era dotato di polsi,
un attributo che si riteneva fosse un’innovazione limitata a quegli animali che
avevano già compiuto la transizione dall’acqua alla terra.
“Questa scoperta dimostra che un
pezzo dell’equipaggiamento necessario
per fabbricare braccia e gambe, mani e
piedi, forse è presente già negli arti dei
pesci”, dice Shubin.
In altre parole, l’armamentario genetico necessario per fabbricare gli arti
che servono a camminare sulla terra
forse era presente nel patrimonio genetico dei pesci già prima che questi compissero il salto decisivo.
Ma per quanto affascinante Tiktaalik
non può fornire alcun frammento di Dna
per fare luce sulla presenza o sull’assenza di determinati geni.
Shubin, perciò, ha fatto quello che molti
ricercatori “evo-devo” stanno imparando a fare: muoversi tra la paleontologia
e la biologia molecolare. Insieme ai col-
leghi ha cominciato uno studio sul pesce
spatola, un pesce antico ma ancora vivente e ha scoperto che questi pesci attivano geni di controllo noti come geni Hox
in un modo che è tipico dei tetrapodi, la
superclasse di animali, prevalentemente terrestri e dotati di quattro arti, che
comprende mammiferi, anfibi, uccelli,
roditori, esseri umani e così via.
In altre parole, gli strumenti genetici per creare dita, mani e piedi, cioè le
innovazioni decisive per passare dalla
vita in acqua a camminare e strisciare
sulla terra, sembra fossero già presenti
nei pesci, prima che questi trovassero la
strada per approdare a riva.
“L’equipaggiamento genetico necessario per costruire le dita era lì già da
un sacco di tempo”, scrive Shubin in un
messaggio di posta elettronica. “Quello
che mancava erano le condizioni ambientali dove queste strutture potevano
essere utili. Le dita sono spuntate quando è spuntato l’ambiente adatto”.
E questo è un altro dei temi principali
della biologia evolutiva dello sviluppo.
Gli eventi dell’evoluzione, come la transizione dalla vita marina alla vita terrestre non sono necessariamente scatenati dall’insorgere di mutazioni genetiche
che forniscono l’animale delle parti del
corpo necessarie e nemmeno dalla comparsa delle parti del corpo in questione.
L’ipotesi è invece che il fattore scatenante, l’elemento necessario per mettere in moto queste importanti transizioni,
possa essere l’insorgere della situazione
ecologica, dell’habitat in cui forme nuove si rivelano particolarmente vantaggiose.
Fino a questo momento, la biologia
evolutiva dello sviluppo si è concentrata
principalmente sugli animali, ma i ricercatori hanno cominciato a riscontrare
processi analoghi nell’origine dei fiori.
“Siamo in un campo ancora agli inizi”,
dice Gilbert. “Ma considero questa una
nuova sintesi evolutiva. Secondo me è a
questo che stiamo assistendo’’.
ADATTAMENTO ALLE CONDIZIONI LOCALI
Yoruba
Ad esempio il genoma
dell’etnia Uygur è in media
così composto:
reperibili nei laghi africani.
“Non nascono nuovi geni ogni volta che
nasce una nuova specie”, dice Brian K.
Hall, biologo evoluzionista dell’Università Dalhousie, nella provincia canadese
della Nuova Scozia. “Sostanzialmente,
si prendono i geni e i processi esistenti e
li si modifica, ed è per questo che il patrimonio genetico degli esseri umani e degli scimpanzé coincide al 99 per cento”.
La biologia evolutiva dello sviluppo
sta iniziando a dimostrare anche che
specie diverse possono escogitare soluzioni simili se vengono messe di fronte
alle stesse sfide.
Sia tra i mammiferi placentali delle
Americhe sia tra i marsupiali australiani si sono evoluti comportamenti identici, come per alcune specie il metodo di
scavare tane nel sottosuolo.
Allo stesso modo, tra i ciclidi si sono
sviluppate autonomamente, in diversi
laghi africani, coppie di specie speculari: nel lago Malawi c’è una specie lunga
e con la testa piatta, con una mandibola
profonda che somiglia a quella di un’altra specie, non imparentata, che vive in
un habitat simile ma nel lago Tanganica.
O nel Malawi o nel Tanganica, questi
pesci probabilmente usano gli stessi
geni per sviluppare le stesse forme, che
forniscono soluzioni uguali alle stesse
sfide ecologiche.
Uno dei maggiori punti di forza della biologia evolutiva dello sviluppo è la
sua natura interdisciplinare. Lo scorso
anno, Neil Shubin, biologo evoluzionista
dell’Università di Chicago e del Museo
Field, ha riferito della scoperta di un
pesce fossile sull’isola di Ellesmere, nel
Canada settentrionale. Shubin e colleghi hanno trovato Tiktaalik (è il nome
che hanno dato al pesce) dopo ricerche
protrattesi per sei anni. Se hanno perseverato tanto a lungo è stato perché erano sicuri di aver trovato il tipo di roccia
giusto e dell’epoca giusta per sperare di
ritrovare il fossile di un pesce nella fase
di transizione tra la vita marina e quella
Russi
Lo studio della struttura Orcadici
della popolazione
mondiale ha rivelato
l’esistenza di cinque
Francesi
principali gruppi
genetici che
corrispondono alle
principali regioni
geografiche.
Italiani
La mappa illustra
Mozabiti
la conformazione
genetica media
di 52 popolazioni
umane.
I fringuelli di Darwin forniscono
indizi sul funzionamento dei
geni master.
Lo studio di tre
popolazioni moderne ha
scoperto tracce di
evoluzione recente in varie
porzioni di genoma.
Colombiani
Tra i mutamenti specifici riscontrati
nelle singole popolazioni sono
presenti variazioni genetiche
relative al metabolismo del
saccarosio negli abitanti dell’Asia
orientale, alla pigmentazione della
pelle e alla tolleranza al lattosio negli
europei e alla metabolizzazione del
mannosio (uno zucchero) negli
africani. Le regioni che coincidono
comprendono geni legati alla fertilità
e allo sviluppo cerebrale.
ne ha scoperti soprattutto tra i cinesi. La
ragione di questa differenza sta nel fatto
che il vaglio statistico di Pritchard individua le varianti genetiche diventate comuni in una popolazione ma non ancora
universali. Williamson seleziona varianti già diffuse in una popolazione e ormai
diventate patrimonio di quasi tutti.
Le conclusioni suggeriscono che gli europei e le popolazioni dell’Asia Orientale
hanno acquisito la pelle chiara attraverso differenti percorsi genetici e, nel caso
degli europei, questo è avvenuto forse
circa 7.000 anni fa. L’elenco dei geni umani selezionati può aprire nuovi squarci
nell’interazione tra storia e genetica.
“Se ci chiediamo quali siano i principali
eventi evolutivi degli ultimi 5.000 anni,
questi sono culturali, come la diffusione
dell’agricoltura o come l’estinzione di
popolazioni a causa di guerre o di malattie”, dice Marcus Feldman, genetista
delle popolazioni a Standford. E’ probabile che questi eventi abbiano lasciato
segni profondi nel genoma umano.
Un’ indagine del genoma della popolazione mondiale effettuata nel 2002 da
Jonathan Corum/
The New York Times
Feldman, Noah Rosemberg e altri colleghi ha dimostrato che la popolazione è
divisa geneticamente sulla base di lievi
differenze del Dna in cinque gruppi corrispondenti alle popolazioni dei cinque
continenti: africani, aborigeni australiani, est-asiatici, indiani d’America e
caucasici, un gruppo di cui fanno parte
gli europei, i mediorientali e le popolazioni del subcontinente indiano.
La suddivisione riflette “serial founder effects”, dice il dottor Feldman, intendendo che quando l’uomo migrò in
tutto il mondo, ogni nuova popolazione
portò con sé soltanto una parte del patrimonio genetico originario.
La ricerca dimostra che le popolazioni
di ogni continente si sono evolute, almeno
per alcuni aspetti, in modo indipendente
e rispondendo al clima, alle malattie e,
forse, a situazioni comportamentali.
Almeno alcuni dei mutamenti evolutivi
emersi si sono rivelati convergenti, il che
significa che la selezione naturale ha utilizzato le diverse mutazioni disponibili
in ogni popolazione per raggiungere lo
stesso adattamento.
Repubblica NewYork
LUNEDÌ 2 LUGLIO 2007
V
BUSINESS ECOLOGICO
Nell’industria della moquette un manager convertito alla sostenibilità
di CORNELIA DEAN
VININGS, Georgia – Quella che Ray
Anderson, fondatore e proprietario di
un’azienda che produce moquette, l’Interface, chiama la sua “conversione”
risale all’estate del 1994, quando gli
chiesero di illustrare ai venditori quale
fosse l’approccio della società sui temi
ambientali.
“È semplice”, pensò Anderson. “Noi
rispettiamo alla legge”. Nell’ottica di
un venditore, però, questo non è proprio
il massimo, come slogan. Anderson cominciò quindi a informarsi e ragionare
sull’argomento, finché non ebbe la folgorazione: “Dirigevo un’azienda che stava
saccheggiando il pianeta”, si rese conto.
“Pensai: ‘Accidenti, un giorno quelli come me li sbatteranno dentro!’”.
“Fu come una stilettata nel petto”. Acquisita questa nuova consapevolezza,
Anderson lasciò da parte la normativa
ambientale e si concentrò sull’aria inquinata, le discariche sature, gli acquiferi esauriti e l’ipersfruttamento delle
risorse. Solo un’istituzione, raccontò
ai colleghi il fondatore della Interface,
aveva il potere e la diffusione capillare
che servivano per far invertire rotta al
pianeta: “L’impresa. L’industria. Gente
come noi. Noi!”
Anderson esortò i colleghi a fissare
una data entro la quale l’Interface sarebbe dovuta diventare un’ “impresa ricostruttiva”, un’attività sostenibile che
non sottraesse alla terra niente che non
potesse essere riciclato o rigenerato, e
che non danneggiasse la biosfera.
Alla fine, la dirigenza dell’Interface
fissò il 2020, e l’idea fece presa a tutti i livelli della gerarchia aziendale. Secondo
Anderson con l’introduzione di metodi di
riciclaggio, la riduzione della produzione
di rifiuti, l’efficienza energetica e altre
misure, l’Interface “ha già percorso
quasi metà del cammino”.
L’uso di combustibili fossili è diminuito del 45 per cento (abbattendo del 60
Imballaggi verdi:
bottiglie mignon
e carta riciclata
Jessica McGowan per The New York Times
Ray Anderson sostiene che con le misure in favore dell’ambiente dal 1995 ha risparmiato oltre 336 milioni di dollari.
per cento la produzione di gas a effetto
serra), dice Anderson e le vendite sono
cresciute del 49 per cento. L’impiego idrico delle varie filiali della società in vari
paesi è diminuito di due terzi, e la produzione di rifiuti non riciclabili è stata
ridotta dell’80 per cento.
Nel frattempo Anderson si è trasformato nel grande evangelista della sostenibilità nel mondo delle imprese: rico-
nosce che dirigere la società e avere il
controllo del pacchetto azionario gli hanno permesso di mettersi in moto prima
degli altri, ma è un convinto sostenitore
della tesi secondo cui rendere un’azienda
sostenibile “non costa, rende”, in termini
di fedeltà del consumatore, entusiasmo
dei dipendenti e anche in termini monetari.
Crede che gli sforzi della sua società
L’evoluzione dei contenitori
Esempi di contenitori ridisegnati per usare meno materiale o materiale di tipo
differente, mantenendo la stessa quantità di prodotto.
di CLAUDIA H. DEUTSCH
In generale chi vuole vendere un prodotto elogia quello che al prodotto è stato
aggiunto. Sempre di più, tuttavia, si sottolinea quello che è stato tolto: si stanno
riducendo gli imballaggi e il loro impatto
sull’ambiente.
Procter & Gamble, per esempio, ha
cominciato a usare per il dentifricio
Crest un tubetto rigido che può essere
distribuito ed esposto sugli scaffali senza scatola. Aveda, un’azienda che produce prodotti di bellezza, lancerà una
linea uomo confezionata in contenitori
prodotti per il 95 per cento con materiali riciclati. La Coca-Cola ridurrà la plastica delle bottiglie dell’acqua Dasani
del 7 per cento nei prossimi cinque anni
modificando il materiale delle bottiglie
e del tappo.
“I rifiuti di ogni tipo sono un’inefficienza e l’inefficienza è un costo”, dice Scott
Vitters, direttore per gli imballaggi sostenibili della Coca-Cola.
Il numero di aziende che stanno
realizzando questi cambiamenti per
ridurre i costi e rispondere all’attenzione sempre maggiore nei confronti
dell’ambiente cresce in modo significativo. E la previsione è che il gruppo si
allargherà per la politica adottata dai
magazzini Wal-Mart. La Wal-Mart, la
catena di vendita al dettaglio più grande del mondo, ha cominciato a premere
sui suoi 66.000 fornitori perché riducano gli imballaggi non indispensabili e ha garantito che entro il 2025 sarà
“neutrale riguardo agli imballaggi”.
Ciò significa che avvalendosi del riciclaggio, del riutilizzo e forse persino
del compostaggio l’azienda cercherà di
recuperare tutto il materiale possibile
dagli imballaggi che circolano nei suoi
locali. Per raggiungere questo obiettivo ha chiesto ai fornitori di contribuire
allo sforzo riducendo gli imballaggi, sia
quelli dei prodotti sia quelli di plastica
o di cartone usati per il trasporto e la
distribuzione.
Molti produttori hanno cominciato a
ridurre gli imballaggi prima della WalMart con la speranza che imballaggi più
“verdi” diano loro un vantaggio competitivo rispetto a prodotti simili, anche
per via dei costi ridotti.
L’Estée Lauder, ad esempio, ha lavorato per più di un anno con delle fonderie
per ottenere tubetti e tappi prodotti per
l’80 per cento con alluminio riciclato. La
VECCHIO
VECCHIO
NUOVO
Coca Cola
ha ridisegnato la bottiglia
per renderla più piccola e leggera.
NUOVO
All’inizio degli anni ’90
Mc Donald’s ha sostituito le confezioni
di polistirolo dei panini, con scatole
di carta riciclata.
CAMBIAMENTI
CAMBIAMENTI
Si risparmia
sui materiali e sui costi di trasporto.
PERCHÉ CONVIENE:
PERCHÉ CONVIENE:
È biodegradabile.
Fonte: Le società
Fotografie di Tony Cenicola/The New York Times
maggior parte delle scatole di prodotti
destinati al periodo delle feste sono già
fatte di carta riciclata. E la linea Origins
sarà presto distribuita solo in scatole di
cartone pieghevoli prodotte usando fonti
di energia più pulite.
Anche le organizzazioni per l’ambiente hanno un peso in questa tendenza.
Quattro anni fa, l’Environmental Defense, che ha contribuito a far rinunciare
alla McDonald’s alle confezioni di polistirolo nel 1991, ha inventato una macchina che può calcolare e confrontare
il peso, la potenzialità per il riciclaggio
e la performance di 20 tipi di materiali.
“Gli imballaggi possono ridurre in modo
significativo l’uso di energia e i gas serra
e permettono di risparmiare quattro miliardi di dollari di materiali che ora finiscono nelle discariche”, dice Matt Hale,
direttore dell’ufficio per i rifiuti solidi di
questa organizzazione.
La Nestlé Waters North America,
che possiede tra gli altri marchi di acque minerali la Poland Spring e la Deer
Park, dice di aver risparmiato negli ultimi cinque anni circa nove milioni di
chili di carta riducendo le dimensioni
le etichette di molte bottiglie. L’azienda ha adottato per le bottigliette tappi
trasparenti più facili da riciclare e sta
mandando in produzione bottiglie da
mezzo litro che contengono 12,5 grammi di plastica, tra le più leggere oggi in
commercio.
Molte delle modifiche più semplici da
realizzare si usano già. Le lattine sono
più leggere di dieci anni fa e la maggior
parte sono in alluminio riciclato. È raro che i deodoranti siano confezionati in
scatole separate. Il cartone delle scatole
per il trasporto contiene una più alta percentuale di cellulosa riciclata. La sfida
riguarda adesso il comportamento dei
consumatori perché questi prodotti in
imballaggi più piccoli potrebbero sembrare più cari. La Coca-Cola ha ridisegnato la sua tradizionale bottiglia rendendola più leggera e resistente agli urti.
La nuova sembra più piccola. “La nostra
sfida è convincere i consumatori che il
liquido ha lo stesso volume di quello della
bottiglia più grossa”.
E qualche volta sarà l’estetica ad avere la meglio sull’ecologia. L’alluminio
riciclato per il quale l’Estée Lauder si è
tanto adoperata non risplende abbastanza e alcuni marchi dell’azienda rifiutano
di usarlo. “Il tappino brillante fa parte
dell’immagine del marchio Clinique”,
spiega John A. Delfausse, vice presidente per lo sviluppo degli imballaggi alla
Estée Lauder. “E a questo non rinunceranno”.
in campo ecologico le hanno permesso
di risparmiare, dal 1995 a oggi, oltre 336
milioni di dollari (250 milioni di euro).
Non solo: il successo della politica di
sostenibilità ambientale lanciata dalla
Interface è stato tale che lo scorso anno la società ha creato un dipartimento
consulenze per vendere i suoi metodi ad
altre società.
Come si addice a un evangelista, An-
derson, che ha 72 anni, gira il mondo per
predicare il vangelo della sostenibilità.
Il proprietario dell’Interface ammette che alcuni progressi della sua azienda
finora sono relativamente ovvi e semplici, e che altri si basano su misure, come
le compensazioni di CO2, che non sono
l’ideale.
In futuro, dice, i progressi verranno
“da piccole misure e poche iniziative di
ampio respiro”.
La creazione di un nylon riciclabile, ad
esempio, “è una grossa iniziativa”, continua. Sostituire i “carboidrati”, usando
destrosio derivato dal granturco sarebbe un passo più importante. E un altro
sarebbe poter avere energia rinnovabile
a un prezzo ragionevole. I trasporti restano “un grosso problema”.
I clienti hanno reagito positivamente
alla campagna e, aggiunge Aderson,
erano state le loro richieste all’inizio a
stimolare i venditori a chiedergli di illustrare la sua politica aziendale.
Uno dei segreti del successo degli sforzi ecologici dell’Interface è stato l’approccio a tutto campo. “Se cominci con
una società e dici: ‘Ora trasformeremo
questa azienda in un’azienda verde, applicando questi programmi’, il risultato
non sarà una diminuzione ma un aumento dei costi. Noi abbiamo fatto un passo
indietro e abbiamo detto, ‘Prendiamo in
esame l’intero sistema’”.
Anche il pubblico che assiste ai suoi discorsi sta cambiando. All’inizio venivano a sentirlo altri che la pensavano come
lui, ora il pubblico è sempre più spesso
formato da uomini d’affari.
“Sono un fautore della convenienza
economica della sostenibilità”, dice. “È
indiscutibile: i costi non salgono, ma
scendono. I nostri prodotti sono migliori. I nostri dipendenti sono motivati da
un fine comune di più ampio respiro e da
uno spirito di corpo per cui vale la pena
battersi. Ed è sbalorditiva la simpatia
che attiriamo sul mercato”.
Salvare il suono delle chitarre
proteggendo foreste e legni rari
di GLENN RIFKIN
di chitarre, per i quali l’abete Sitka è
Christian F. Martin IV rappresenta merce preziosa: il legno è in grado di
la sesta generazione della sua fami- produrre sonorità particolari e viene
glia che si occupa della rinomata C. F. impiegato per le tavole armoniche delMartin & Company, una manifattura le chitarre acustiche e per la costruziodi chitarre. Di certo, però, è il primo a ne dei piano.
doversi preoccupare della reperibilità
I liutai sono in cerca di legni più abdei pregiati legni richiesti dalla costru- bondanti ed economici, ma tutti conzione delle chitarre Martin - strumenti cordano sul fatto che chi spende molto
prediletti da musicisti come Sting, Paul denaro per uno strumento desidera,
Simon, Jimmy Buffett e John Mayer.
oltre all’estetica e al tocco dei legni
Con la progressiva scomparsa del- tradizionali, un suono particolare.
le foreste primarie, e mentre diverse
Stelle della musica rock tra cui Sting
varietà di legni tropicali come moga- e Dave Matthews hanno prestato il prono, ebano e palissandro diventano ra- prio nome a questa iniziativa.
re, alcuni liutai – tra cui Martin,
Taylor, Fender e Gibson – hanno
dovuto prendere atto del fatto che
le scorte di legni pregiati necessari a realizzare i loro strumenti non
sono inesauribili. Questi produttori di strumenti musicali - aziende
di piccole dimensioni e private - si
sono raccolti attorno al nascente
movimento di responsabilità sociale, non solo per sembrare “politicamente corretti” ma anche per
assicurarsi una sopravvivenza
nel lungo periodo.
“Se dessi fondo a tutto il legname pregiato dovrei chiudere bottega”, dice Martin.
“Ho una figlia di due anni, Claire Frances Martin, che potrebbe
Tim Shaffer per The New York Times
rappresentare la settima generaChristian
F.
Martin
IV, con la figlia
zione della C. F. Martin. Voglio che
anche lei possa utilizzare i mate- Claire Frances Martin, si è unito
riali che le serviranno, proprio co- ad altri liutai per contribuire alla
me i miei antenati ed io abbiamo protezione delle foreste primarie.
fatto negli ultimi 174 anni”.
Formando un’alleanza atipica,
i quattro liutai si sono uniti a GreepeaOrianthi, ventidue anni, una protetce in una delle numerose iniziative per ta di Carlos Santana, ha comprato per
portare l’attenzione sulla sostenibilità 3.000 dollari una nuova Martin in bedelle foreste.
tulla nera e ciliegio, legni entrambi soNel gennaio del 2006 Greenpeace stenibili. “In genere le chitarre costruisi è fatta portavoce della Musicwood te con legni alternativi non hanno una
Coalition, come viene chiamata, per sonorità ottima”, dice. “Ma questa ha
promuovere metodi più efficaci di un suono stupefacente, alla pari degli
gestione delle foreste - in particolare strumenti tradizionali. La sto usando
nella regione pluviale dell’Alaska su- per registrare il mio nuovo album”.
dorientale.
Alla completa interruzione della racScott Paul, coordinatore della cam- colta del legname, Martin preferirebpagna per le foreste di Greenpeace, be una migliore gestione delle foreste.
dice che se continueranno le attuali Non gli piace dire ai rappresentanti
pratiche, le ultime foreste primarie di delle culture indigene come organizzaabeti Sitka – molti dei quali hanno al- re il proprio lavoro, ma non vuole che il
meno 250 anni – scompariranno in soli futuro della sua attività venga messo a
sei o sette anni.
repentaglio da obiettivi economici av“Questo li ha spaventati a morte”, ventati. “Nessuno di noi”, dice, “vuole
dice Paul riferendosi ai produttori tagliare l’ultimo albero”.
Repubblica NewYork
LUNEDÌ 2 LUGLIO 2007
VI
SCIENZA E TECNOLOGIA
Una corsa per ritrovare
il regno perduto nel Nilo
Fotografie di Felice Frankel
Scatti d’artista
rivelano
la bellezza
della scienza
di CORNELIA DEAN
Felice Frankel si sorprende quando
la definiscono un’artista. Prima di tutto perché le sue foto non hanno mercato. Lo sa bene, racconta, perché dopo
aver ricevuto una borsa di studio Guggenheim nel 1995, ha iniziato a proporre
i suoi lavori a varie gallerie . “Nessuno
voleva prendersi la briga di darci neppure un’occhiata”, racconta. In secondo
luogo, le immagini non hanno un contenuto emotivo o ideologico né trasmettono altri messaggi. Come dice l’autrice:
“Sono dei fenomeni”. Fenomeni come il
magnetismo o il comportamento delle
molecole d’acqua o le modalità di crescita delle colonie di batteri. Fenomeni naturali. “Quindi non la definisco
arte”, dice la Frankel. “L’arte ha più a
che fare con la creatività, non riguarda
necessariamente il concetto insito nell’immagine”.
Prima ‘artista interna’, e oggi ricercatrice al Massachusetts Institute of
Technology e all’ Institute for Innovative Computing di Harvard, la Frankel
aiuta i ricercatori a mostrare la bellezza della scienza usando macchine
fotografiche, microscopi e altre apparecchiature.
Con il suo aiuto gli scienziati hanno
trasformato immagini noiose come
il lievito in un piatto o la superficie di
un cd in fotografie straordinarie spesso pubblicate sulle copertine di riviste
scientifiche e periodici. Secondo George M. Whitesides, chimico di Harvard e
da tempo suo collaboratore, la Frankel
“ha trasformato l’aspetto visuale della
scienza”.
Una delle sue foto, un’immagine di un
fluido ricco di ferro sottoposto a campi
magnetici è stata riprodotta così frequentemente che la Frankel ne è “nau-
Felice Frankel ritrae soggetti
scientifici, tra cui, dall’alto
verso il basso, un motivo
creato da campi magnetici,
superfici idrorepellenti
e un esempio di nanotubi.
seata”.
Nel suo libro Envisioning Science, la
Frankel, con l’aiuto di molte foto, fornisce ai ricercatori il know-how della
rappresentazione visiva dei processi
scientifici , oggetto di un saggio precedente scritto in collaborazione con
Whitesides dal titolo On the Surface of
Things. Ora i due stanno terminando un
altro libro “sulle piccole cose”, come dice Whitesides , cose al limite del visibile
anche al microscopio.
La Frankel non si sente in obbligo
di produrre foto didascaliche. “Il mio
obiettivo è impegnare all’osservazione
indipendentemente dalla consapevolezza che si tratti di scienza. Gli spetta-
tori non sono intimiditi dalle foto e
questo fa sì che pongano delle domande”. Per questo motivo spesso
altera le immagini, come quella
dei batteri che crescono sull’agar.
“L’agar si screpolava”, racconta.
“Ma volevo che il lettore prestasse
attenzione alla configurazione dei
batteri, così ho cancellato digitalmente le crepe”.
Queste pratiche sono accettabili,
dice, perché non hanno lo scopo di mascherare o distorcere le informazioni
scientifiche ma di renderle più chiare.
E quando immagini simili appaiono
nelle riviste scientifiche, dice Whitesides, “l’originale non elaborato”, viene
pubblicato online assieme a materiale
supplementare.
Parlando della Frankel Whitesides
dice: “Ha avuto un vastissimo impatto sulla comunicazione scientifica, nel
dialogo interno alla scienza e tra scienza e mondo esterno”. Inoltre, aggiunge:
“Ha un meraviglioso senso della forma
e del colore. E’ difficile sostenere che
non sia un’artista’’.
di JOHN NOBLE WILFORD
naia di rovine di insediamenti, cimiteri
Un tempo lontano, a Sud dell’Egitto, e esempi di arte rupestre mai studiati
esisteva una terra chiamata Kush. Era in precedenza. Una delle operazioni di
un luogo inesplorato dell’alto Nilo, un salvataggio di maggior portata è stamistero che sconfina nel mito. L’unica ta condotta dalle spedizioni guidate da
certezza, testimoniata dagli egizi, è che Henryk Paner del museo archeologico di
Gdansk in Polonia, che soltanto nel 2003
a Kush c’era l’oro.
Dagli studi più recenti emerge una ha esplorato 711 antichi siti.
“Si tratta di un’area incredibilmente
cultura di dimensioni maggiori di quello
che si immaginava in precedenza. Gra- ricca sotto il profilo archeologico”, afferzie alla decifrazione di documenti egizi ma Derek Welsby del British Museum in
e alla moderna ricerca archeologica un articolo pubblicato dalla rivista Aroggi sappiamo che per cinque secoli nel chaeology.
In Sudan la diga di Merowe, costruita
secondo millennio a.C. il regno di Kush
sviluppò la capacità politica di mantene- da ingegneri cinesi che hanno usato ditre il controllo su un ampia fetta di terri- te francesi e tedesche, è situata a valle
della quarta cataratta, uno stretto pastorio africano.
In rapporto al concetto tradizionale di saggio di rapide e isole. La piena del NiStato fondato sulle esperienze di antiche lo creerà un lago largo tre chilometri e
civiltà come Mesopotamia, Egitto e
Cina il successo di Kush a livello di
capacità di governo sembra anomaEGITTO
lo. Come poteva esistere una società
Prima
Mar
Philae cataratta
complessa in assenza di un sistema di
Rosso
ALTA DIGA
scrittura, di una corposa burocrazia
DI ASSUAN
o di grandi centri urbani, di cui Kush
era palesemente priva?
Abu Simbel
La risposta a questo interrogativo
sta emergendo vicino una nuova diga
nel Nord del Sudan dove si scava febbrilmente per anticipare la piena del
Nilo D E S E R T O N U B I A N O
Nilo. Gli archeologi scoprono antichi
Kerma
insediamenti, cimiteri e centri di lavoDIGA DI
razione dell’oro in regioni inesplorate.
MEROWE Hosh el-Geruf
Da alcuni rapporti e da alcune inQuarta
terviste recenti risulta che sono state
cataratta
rinvenute ampie prove che il regno di
Kush, durante la sua ascesa dal 2000
Dimensioni
a.C. al 1500 d.C. esercitò il controllo, o
del regno di Kush, 1500 a.c.
quanto meno un influenza su un’area
di 1.200 chilometri nella valle del
Nilo. La regione si estendeva dalla
Khartoum
prima cataratta, come testimonia un
monumento egiziano, fino a oltre la
quarta che si trova a monte del fiume,
coprendo parte della più ampia area
LIBIA
geografica dai confini non definiti che
ARABIA
SUDAN
SAUDITA
nell’antichità era nota come Nubia.
Secondo alcuni archeologi i reperti
Area
dimostrano che i governanti di Kush
ingrandita
furono i primi nell’Africa sub sahaETIOPIA
riana a dominare un territorio così
vasto.
160
Km
“Kush acquista un ruolo di primo
The New York Times
piano nelle dinamiche politiche e militari dell’epoca, più importante di Ci sono le prove che il regno di Kush
quanto si reputasse in precedenza”, si estendeva nella Valle del Nilo.
dice Geoff Emberling, che guida di
una spedizione archeologica dell’università di Chicago. “Lo studio di Kush lungo 160, provocando il trasferimento
contribuisce a chiarire il concetto di sta- di più di 50.000 persone delle tribù Mato in un contesto antico esterno ai centri nasir, Rubatab e Shaigiyya.
di potere consolidati dell’Egitto e della
La maggioranza degli archeologi preMesopotamia’’.
vede che questo sia l’ultimo anno che gli
Gil Stein, direttore dell’Istituto Orien- viene concesso per esplorare i siti di Kush
tale della stessa università dichia- più vicini alle originarie rive del fiume.
ra: “Finora in pratica tutte le nostre
Nei primi tre mesi dell’anno esperti
conoscenze su Kush derivavano dai dell’Istituto Orientale dell’Università di
documenti storici dei vicini egizi e da Chicago hanno perlustrato le rovine di
limitati studi archeologici delle rovine un sito chiamato Hosh el-Geruf, a monte
monumentali della maggiore città ku- della quarta cataratta, circa 350 chiloshita, Kerma. Per gli archeologi la con- metri a Nord di Khartoum.
sapevolezza che una terra misteriosa
La scoperta più sorprendente sono stae pressoché inesplorata è sul punto di ti i manufatti dell’arte orafa kushita.
essere sommersa è un po’ come andare
Il prossimo anno di questi tempi le
al patibolo. Negli ultimi anni spedizioni acque raccolte dalla diga potrebbero
archeologiche britanniche, tedesche, lambire le antiche opere d’oro e gli arungheresi, polacche, sudanesi e statu- cheologi cercheranno altrove indizi per
nitensi hanno fatto a gara a scavare in chiarire il mistero di come l’antica Kush
siti che presto saranno sommersi. Con avesse sviluppato la capacità di sovringrande sorpresa hanno rinvenuto centi- tendere ad un vasto regno.
A 90 anni un ambientalista è ancora ottimista sul futuro della Terra
di THOMAS VINCIGUERRA
Barry Commoner continua a sensibilizzare l’opinione pubblica sulle delicate
condizioni del pianeta. Da tempo attivo
presso il Center for the Biology of Natural Systems del Queens College di New
York, da decenni Commoner è in prima
linea per ristabilire l’equilibrio ecologico della biosfera , sia con la messa al
bando dei test nucleari che attraverso il
riciclaggio.
Commoner, che ha compiuto 90 anni
il 28 maggio, sta vivendo una sorta di
rinascita. La M.I.T. Press ha appena
pubblicato una nuova biografia, Barry
Commoner and the Science of Survival
di Michael Egan. Ad agosto gli sarà dedicato un simposio dal titolo Scienza,
Democrazia e Ambiente in occasione
del congresso annuale della American
sociological association a New York.
Sta scrivendo anche un libro sul tema
che per la prima volta lo portò all’attenzione dell’opinione pubblica circa
40 anni fa, ovvero se il Dna sia l’unico
responsabile delle caratteristiche di un
organismo.
D. Nel 1970, più o meno all’epoca della
prima Giornata della Terra (il 22 aprile) lei dichiarò : “Abbiamo tempo, forse
una generazione, per salvare l’ambiente
dagli effetti finali della violenza che gli
abbiamo inflitto”. Oggi come giudica la
situazione?
R. Non siamo riusciti ad andare oltre
pochi interventi specifici. Non usiamo
più il Ddt in agricoltura. Usiamo benzina senza piombo. L’inquinamento ambientale è una malattia incurabile che si
può solo prevenire e la prevenzione può
essere fatta solo a livello di produzione.
Se si insiste a usare il Ddt , l’unica cosa
da fare è smettere di produrlo. Il resto è
stato pressoché dimenticato.
D. Secondo lei quindi il riscaldamento
globale non sminuisce preoccupazioni di
diverso genere?
R. No, all’opposto. L’unica risposta
razionale all’interrogativo sulle azioni da intraprendere sul riscaldamento
globale è cambiare il modo di gestire
i trasporti, la produzione di energia,
l’agricoltura e una notevole quantità di
manufatti. Il problema nasce dall’attività umana sotto forma di produzione
di beni.
I cinesi hanno un detto: “Crisi significa cambiamento”. Significa che si può
agire. Purtroppo la maggior parte delle
azioni ‘verdi’ che oggi sono così numerose, non si basano su tesi come la mia,
che cioè bisogna intervenire sui prodotti e sulle modalità di produzione. E’ un
peccato, ma io sono un eterno ottimista
e credo che alla fine ci si arriverà.
D. Cosa pensa del dibattito sulla responsabilità primaria dell’uomo rispetto al riscaldamento globale?
R. Nessuno che sia nel pieno possesso delle sue facoltà mentali può negare
che il riscaldamento globale esista. Il
problema è se sia dovuto alle scelte dell’umanità, e io credo che tutte le scelte
che abbiamo fatto comportino il rilascio
di sostanze come il biossido di carbonio
che influiscono sulla ritenzione del calore da parte del pianeta.
D. Si è riaffacciata l’ipotesi dell’uti-
lizzo dell’energia nucleare al posto dei
combustibili fossili, è d’accordo?
R. No. E’ un esempio di ambientalismo
miope. Dire che il nucleare è un modo di
produrre energia senza rilascio di biossido di carbonio ha senso solo superficialmente, ma ogni attività che aumenti
la quantità di radioattività cui siamo
esposti è idiota.
D. Si è anche ipotizzato di fare un uso
selettivo del Ddt contro la malaria, invece che utilizzarlo come pesticida in
quantità massicce. Lei ha rivisto la sua
posizione su questo tema?
R. Credo che in determinate situazioni
si possa fare del Ddt un uso chirurgico.
Non intendo escluderne l’uso in particolari situazioni di grave rischio.
D. Ci sono aspetti della sua filosofia
che ha riconsiderato o da cui ha preso le
distanze?
R. Nel tempo ho sperimentato che è più
facile affrontare i problemi ambientali
senza entrare negli aspetti interconnessi al resto della nostra esistenza.
Liz O. Baylen per The New York Times
Per Barry Commoner l’inquinamento
si può prevenire ma non curare.
Ad esempio, riciclare i rifiuti è senz’altro opportuno, ma si dimentica che molti
vivono in alloggi minuscoli dove non c’è
neanche lo spazio per i contenitori per la
raccolta differenziata.
Il problema della povertà condizionerà moltissimo i risultati che si possono
ottenere. C’è gente che non ha tempo di
riciclare perché vive giorno per giorno.
Oggi mi vengono in mente delle situazioni che, se potessi tornare indietro valuterei con un occhio più attento.
Repubblica NewYork
LUNEDÌ 2 LUGLIO 2007
VII
A L I M E N TA Z I O N E
India, piatti fatti in casa
e consegnati in ufficio
di SARITHA RAI
MUMBAI, India — Gaurav Bamania,
analista di hedge fund che lavora in uno
dei tanti grattacieli che oggi dominano
la capitale finanziaria, potrebbe facilmente andare a mangiare in uno dei migliori ristoranti della città. Invece, Bamania, 26 anni, segue un’abitudine che
risale ad oltre un secolo fa, ai primi anni
della dominazione britannica: consuma
un pasto caldo amorevolmente cucinato
in casa da sua nonna e consegnato ogni
giorno alla sua scrivania.
In India, dove molte tradizioni con la
globalizzazione vengono rapidamente
travolte, l’abitudine di mangiare un pasto preparato in casa sopravvive.
Per poterlo fare, con 25 milioni di persone, Mumbai si affida ad una comples-
La moderna Mumbai
rilancia un antico
approccio ai pasti.
sa rete, di gran lunga superiore ad alcuni
sistemi automatizzati ad alta tecnologia.
Questa organizzazione riesce a consegnare con precisione quasi cronometrica decine di migliaia di pasti presso le
varie sedi di lavoro sparse per la città.
Al centro di questa insolita rete ci sono
gli uomini adibiti alle consegne, i cosiddetti dabbawalla. Il termine deriva da
tiffin dabba, un riferimento dell’epoca
coloniale al porta-vivande che contiene un pasto leggero, e alla parola walla,
l’uomo che lo consegna.
“C’è un servizio che si chiama come
FedEx, ma loro non consegnano il pranzo”, dice, Dhondu Kondaji Chowdhury,
uno dei dabbawalla. Gli inglesi introdussero questo servizio 125 anni fa,
quando la città fu invasa da lavoratori
provenienti da regioni differenti. I dabbawalla resero possibile a queste persone mantenere un collegamento tra la
loro casa e il posto di lavoro nonché tra i
gusti alimentari delle varie regioni.
Fino a poco tempo fa questo servizio
ha prosperato sulla semplice base del
passaparola. Ma ora sta sviluppando un
profilo ad alta tecnologia, via via che i
dabbawalla si sono organizzati. Un impiegato che può contare su qualcuno
a casa disposto a cucinare per lui può
iscriversi al servizio mediante un sms o
una e-mail.
Il sistema dei dabbawalla ha resistito all’assalto delle mense aziendali, dei
ristoranti di quartiere, delle catene di
ristorazione e dei locali costosi, dove è
difficile riservare un tavolo.
Si tratta di un servizio semplice e
complesso allo stesso tempo. Una rete di
walla ritira le scatole a casa oppure dalle persone che cucinano i pasti su ordinazione, quindi li consegna a una stazione
ferroviaria locale. I contenitori vengono
smistati a mano e indirizzati a varie
stazioni ferroviarie che si trovano nel
centro di Mumbai e quindi nuovamente
selezionati e portati a destinazione. Dopo pranzo, il servizio compie l’operazione contraria e le scatole vuote vengono
riportate a casa.
Il segreto di questo sistema risiede nei
codici colorati impressi sul fianco dei
contenitori porta-pranzo che indicano
ai dabbawalla da dove proviene il cibo
e attraverso quale stazione ferroviaria
dovrà passare per raggiungere uno specifico ufficio, in un particolare edificio
del centro della città.
“Non so come potremmo sopravvivere
senza questo sistema”, dice Vrinda Chiplunkar, che ogni giorno prepara per suo
marito, Chandrashekar Chiplunkar, responsabile del settore cambi della Oman
International Bank, pasti caldi a base di
lenticchie, verdure, riso, pane chapati
e insalata. “Il sistema dei dabbawalla,
antiquato ed economico, è il residuo di
Il sapore
di tartufo nato
in laboratorio
Daniel Patterson è chef e proprietario
di Coi, un ristorante di San Francisco.
ONLINE: LA BRIGATA DEL PRANZO
Immagini dei dabbawalla in azione a
Mumbai sono disponibili online:
nytimes.com/business
un’altra epoca in questo mondo frenetico”.
I Chiplunkars sono clienti affezionati
di Chowdhury. Come tanti altri suoi colleghi dabbawalla, Chowdhury è arrivato
da un villaggio di campagna senza saper
leggere né scrivere e ha imparato a leggere i numeri, le lettere sui porta-vivande e a firmare con il suo nome le ricevute
rilasciate ai clienti.
“A Mumbai, questo è il mestiere migliore per una persona come me”, dice
Chowdhury, 64 anni, durante una pausa
delle sue consegne. Con le 500 rupie (circa 123 dollari) che guadagna al mese
riesce a mantenere la moglie, un figlio
e una figlia in una casa di due stanze nel
lontano quartiere di Goregaon.
Per Suresh Shivekar, che trasporta
i contenitori del pranzo con il treno dal
quartiere di Versava a quello di Colaba,
la giornata lavorativa inizia alle 8,30 del
mattino quando va a ritirare il cibo nelle
case. Carica le scatole sulla sua bicicletta e poco dopo arriva alla stazione. Lì
vengono nuovamente smistati e caricati
su un grande cassa di legno che Shivekar
issa sul treno. Quando arriva a Colaba,
alle 11,30, comincia a scambiare freneticamente con i suoi colleghi i porta-vivande, ogni mucchio indirizzato ad un
edificio diverso.
I contenitori vengono quindi caricati
su un carretto che attraversa il traffico
convulso di Mumbai, e ogni pranzo viene
consegnato personalmente al legittimo
proprietario.
E’ capitato raramente che Shivekar
abbia mancato di fare una consegna o
abbia sbagliato destinatario, e questa
affidabilità viene ripagata con la fedeltà
dei clienti.
Anand Sahasrebuddhe, 46 anni, che
lavora negli uffici della ACC Limited di
Churchgate, una delle più grandi aziende indiane che produce cemento e calcestruzzo, si affida da 26 anni ai servizi dei
dabbawalla. “Lui ama il cibo cucinato in
casa”, spiega sua madre, Suman Sahasrebuddhe.
Se un piatto è grande, riflettete prima di mangiare
di DANIEL PATTERSON
Un tartufo è appetibile con qualsiasi nomelosichiami,machediresequelnomeè
“2,4-ditiapentano”? In tutti gli Stati Uniti,
nei ristoranti grandi e piccoli, il sapore “al
tartufo” decantato dai menù è sempre più
spesso olio al tartufo. Quello che i menù
non dicono è che diversamente dai tartufi veri, il profumo dell’olio al tartufo non
nasce nella terra. La maggior parte degli
oli al tartufo è ottenuta mettendo insieme
l’olio d’oliva e uno o più composti chimici
come il 2,4-ditiapentano (la più importante delle centinaia di molecole aromatiche
che rendono così attraente l’aroma del
tartufo bianco) creati in laboratorio.
Che l’olio al tartufo sia prodotto chimicamentenonèunanovità,glicheflosanno
da tempo. Il vero interrogativo è perché
così tanti cuochi, che non si sognerebbero mai di usare la vanillina al posto del
baccello della vaniglia, usano un agente
sintetico aromatizzante?
In parte, la risposta potrebbe essere
che ancora adesso si trovano cuochi che si
stupiscono quando vengono a sapere che
l’olio di tartufo non è ottenuto da veri tartufi. “Pensavo fosse ottenuto da pezzetti
secchi e briciole di tartufo macerati in olio
d’oliva”, ha detto Vincent Nargi di Cafe
Cluny a Manhattan.
Mentre un tempo i tartufi erano segno
di cucina locale, la globalizzazione della
cucina ha portato a un’alta richiesta di
tartufi a livello mondiale mentre la produzione continua a scendere. La combinazione di alto valore commerciale e
bassa disponibilità ha creato l’ambiente
ottimale per qualche comportamento
fraudolento. Alcuni laboratori francesi
conducono analisi chimiche sui tartufi
neri per garantire che non si tratti di tartufi di qualità inferiore provenienti dalla
Cina o dalla Spagna immersi in olio al tartufo o in succo. Ma quando si tratta di olio,
i cuochi contribuiscono a questo inganno.
Perché?
I tartufi sono diventati un prodotto di
lusso. “Gli chef usano l’olio al tartufo perché è facile conferire a un alimento una
Fawzan Husain per The New York Times
A Mumbai ci sono molti posti dove mangiare, ma è sempre più fiorente l’attività di chi si incarica di portare a chi lavora
il pasto da casa. “C’è un servizio che si chiama come la FedEx, ma loro non consegnano il pranzo”, dice un ‘dabbawalla’.
Alla fine dell’anno scorso, nelle librerie ha iniziato a circolare un libretto
intitolato Mindless Eating scritto da
Brian Wansing, docente della Cornell
University che ha trascorso la sua
carriera facendo con
successo esperimenti
sulla psicologia dell’alimentazione.
In uno degli esperiANALISI
menti che preferisco,
Wansink ha distribuito
ad alcuni spettatori di un cinema di Chicago dei popcorn vecchi di cinque giorni. L’esperimento riguardava le dimensioni del contenitore dei popcorn: alcuni
hanno ricevuto contenitori grandi, altri
enormi. Entrambi avevano più popcorn
di quanto uno possa mangiare.
Eppure, quando il gruppo di ricerca
di Wansink alla fine della proiezione
ha pesato i contenitori, la differenza
riscontrata tra la quantità consumata
è stata rilevante: gli spettatori che
avevano ricevuto i contenitori enormi
hanno mangiato mediamente il 53 per
cento di popcorn in più. Come dire che
mangiare molto popcorn stantio è per
certi aspetti più piacevole che mangiare
meno popcorn stantio.
Nel corso degli anni Wansink ha
effettuato esperimenti simili, da piatti
di dimensioni diverse a ciotole di zuppa
al pomodoro senza fondo, ininterrottamente rifornite di nascosto da un tubo
installato sotto il tavolo del ristorante.
Alla fine è giunto alla conclusione che le
nostre decisioni sul cibo spesso hanno
poco a che vedere con l’appetito. Più
frequentemente, infatti, facciamo affidamento sulle dimensioni dei popcorn
o su come è organizzata la spesa per
decidere quanto mangiare.
La maggior parte delle persone però
ritiene di essere immune da questa
persuasione occulta. Quando gli spettatori che avevano ricevuto il popcorn
stantio hanno saputo dell’esperimento,
la maggior parte ha escluso la possibilità di essere stata influenzata dalle
dimensioni. “Cose come queste non mi
ingannano”, ha detto uno che ne aveva
mangiati di più.
Ho telefonato a Wansink, un quarantaseinne dello Iowa molto attivo, per
parlare della sua ricerca e fortuna ha
voluto che avesse già programmato di
venire a New York per una conferenza.
Gli ho chiesto se sarebbe stato disposto
Per spiegare perché piatti
di grandi dimensioni inducano
a mangiare di più, Brian Wansink
ricorre a un diagramma: i due
punti neri qui sotto sono uguali,
ma quello a destra sembra meno
grande. Dalla ricerca risulta che
quando il cibo appare meno
abbondante, si ha la tendenza
a consumarne di più.
DAVID
LEONHARDT
Tony Cenicola/The New York Times
La maggior parte degli oli al tartufo
non sono fatti con tartufi veri.
patina glamour, e perché aiuta a vendere
una piatto”, dice in una e-mail S. Irene
Virbila, che recensisce i ristoranti per il
Los Angeles Times.
La competitività ha molto a che vedere
con questa situazione. “Il prezzo è sicuramente uno dei principali fattori”, dice
Shea Gallante di Cru a Manhattan, che
usa l’olio al tartufo nero per esaltare il
sapore dei veri tartufi neri in un piatto di
pasta. “Se non usassi due gocce di olio, per
ottenere lo stesso risultato dovrei aggiungere altri 8-10 grammi di tartufi”, e piatti
sarebbero troppo cari.
“Ho imparato a usare spesso l’olio di
tartufo bianco, ma adesso ne uso pochissimo nei miei ravioli alla salsa di tartufo
nero”, dice Grant Achatz di Alinea a Chicago. “Conferisce un pizzico di profumo e
un aroma leggermente diverso. Ho fatto
esperienza al French Laundry, e quando
usavamo i tartufi nelle vicinanze c’era
sempre una bottiglia di questo olio. Ma
è stato quando mi sono messo in proprio
che mi sono chiesto perché lo stessi usando, e non ho saputo trovare una risposta
soddisfacente. Oltretutto, non sa neppure
di tartufo”.
Illusione ottica sul contrasto di dimensioni tratto da
“Mindless Eating” di Brian Wansink (Bantam Dell)
Bill Wingell per The New York Times
ONLINE: PENSARE AL CIBO
Regole per evitare di mangiare senza criterio.
Dettagli sulla ricerca psicologica sul cibo su:
www.nytimes.com/leonhardt
a venire a casa mia per dirmi tutto quello che c’è di sbagliato nella mia cucina.
“Sarebbe bello!”, aveva detto.
Negli ultimi venti anni si è affermata una nuova branca dell’economia
— l’economia comportamentale — per
spiegare perché la gente agisca in modi
contrari ai propri interessi. Il modo col
quale si presentano opzioni diverse —
quella che l’economista Richard Thaler
chiama “architettura della scelta” — ha
una forte influenzasulle decisioni.
Di fronte alla mia dispensa, Wansink
mi ha fatto notare esattamente questo.
La cosa peggiore delle dispense è le
varie confezioni di snack in bella vista e
facilmente accessibili. In pratica, ogni
volta che l’occhio cade su una di queste
confezioni, è come se ci chiedessero:
“Non ti andrebbe uno spuntino?”. Quanto più spesso ci si sente rivolgere questa
domanda, tanto più spesso mangi uno
snack.
Wansink ha osservato che il cibo è
sistemato in maniera invitante dietro
il vetro, così che ogni qualvolta uno va
in cucina, nella nostra testa ci sentiamo
ripetere sempre la stessa cosa: “Hai fame?”. I piatti, che non si mangiano, sono
invece ben nascosti dietro ad ante dallo
sportello in legno.
Ma anche i piatti hanno i loro problemi: oggi per gli americani un piatto
è di circa 30 centimetri di diametro.
“Abbastanza grandi, direi”, dice Wansink. Cinquanta anni fa, quando erano
molto più magri, i piatti erano molto più
piccoli. Piatti grandi e scodelle grandi
inducono a mangiare in maggiore quantità per la stessa ragione degli enormi
contenitori di popcorn: fanno sembrare
le porzioni più piccole. E ovviamente
anche i bicchieri molto grandi hanno un
effetto simile.
Mia moglie e io non abbiamo intenzione di nascondere le nostre scorte
alimentari: ci piace ammirare il nostro
olio di oliva. Ma non traiamo gioia dal
mangiare in piatti di 30 centimetri di
diametro e abbiamo iniziato a cercare
qualche alternativa.
In generale, credo che non vi sia modo
di eludere i suggerimenti che Wansink
descrive: a noi spetta decidere quali
accogliere, quelli che ci possono indurre
a mangiare di più o quelli che ci possono
indurre a mangiare meno. La stessa
cosa vale anche per i risparmi per la
pensione. Una volta che il trucco ci è stato spiegato, possiamo iniziare a usare la
nostra stupidità a nostro vantaggio.
Repubblica NewYork
LUNEDÌ 2 LUGLIO 2007
VIII
ARTI E TENDENZE
Anche la tv si affaccia nel mondo virtuale di Second Life
di DAVE ITZKOFF
Sundance Channel
Vincent Tibbett lavora per
Sundance Channel, ma in realtà
è un avatar.
Vincent Tibbett è l’uomo che ogni cineasta emergente vorrebbe conoscere, pieno di agganci e di contatti.
Lavora per Sundance Channel
ed è facilmente riconoscibile
dai suoi capelli arruffati e dal
suo look volutamente casual, oltre che
dalle folle di aspiranti artisti che lo seguono dappertutto, sperando di farsi una
chiacchierata sulle tendenze del mondo
del cinema, di convincerlo a dare una valutazione dei loro film o semplicemente
di ottenere il suo indirizzo e-mail.
Rispetto ad altri creatori di tendenze
e maestri del gusto, riuscire a strappare
un appuntamento in un caffè con Tibbett
è ancora più difficile, ma c’è un motivo:
Tibbett non esiste nella nostra realtà, è
un avatar che si può trovare solo su Second Life, la popolarissima comunità
virtuale di Internet.
È nato appena sei mesi fa, frutto di un
esperimento per esplorare le potenzialità della realtà virtuale della rete portate
avanti da Sundance Channel: Tibbett è
una sorta di prototipo di una tecnologia
nuova che un domani, forse, potrebbe
sfondare anche presso il grande pubblico.
E non è il solo. Nell’ultimo anno, le
grandi reti televisive, i canali via cavo
e le società che realizzano contenuti per
l’industria televisiva hanno trovato casa
in comunità virtuali, nella speranza che
quella fascia di spettatori che hanno abbandonato il piccolo schermo per il monitor del computer possano riscoprire i
loro programmi online.
Alcune reti, come Showtime e Sundance Channel, si stanno installando
nei mondi virtuali già esistenti, mentre
altre, come Mtv, se li stanno creando direttamente. Nell’uno o nell’altro caso,
se i sogni più sfrenati di alcuni sviluppatori di tecnologia dovessero avverarsi,
la realtà virtuale potrebbe diventare il
mezzo di comunicazione capace di combinare la passività della tv con l’interattività potenziale della rete.
Se dovesse accadere, l’industria televisiva (che finora non si è dimostrata
Lo spettatore adesso
non si limita solo
a cambiare canale.
particolarmente rapida ad adattarsi alla
rivoluzione telematica) avrebbe non solo
l’opportunità di recuperare parte dei profitti perduti a beneficio dei concorrenti
Internet, ma anche l’occasione di riprendersi una posizione di leadership, creando
nello stesso tempo un ambiente completamente nuovo da usare per influenzare il
pubblico e vendere prodotti. “Tutti quelli
che producono contenuti vogliono stare
nei mondi virtuali perché i mondi virtuali
sono il futuro”, dice Quincy Smith, presidente della Cbs Interactive.
In Second Life (secondlife.com), chi
va a dare un’occhiata nella zona gestita
da Sundance Channel ha l’occasione di
guardare lungometraggi in una sala di
proiezione tridimensionale, o scambiare
opinioni in un forum ambientalista; i fan
della serie televisiva lesbica The L Word
potranno incontrare gli avatar delle star
della serie e disegnare il proprio carro
per un gay pride virtuale. Nella Virtual
Laguna Beach di Mtv (su vmtv.com),
gli abitanti possono fare shopping nelle
versioni digitali dell’Emporio Optic e del
Laguna Surf and Sport.
Anche gli spettatori preadolescenti
hanno un parco giochi virtuale tutto loro,
Nicktropolis (nick.com/nicktropolis).
Nickelodeon, la comunità virtuale per
bambini, consente ai giovani utenti (con
il permesso dei genitori) di giocare a pallacanestro virtuale, guardare gli show
di Nickelodeon, rotolarsi in una melma
verde digitale e chattare con SpongeBob
SquarePants, il personaggio dei cartoon.
La Virtual Laguna Beach, creata nell’autunno del 2006, sostiene di avere quasi
890.000 utenti registrati, principalmente
adolescenti o poco più che ventenni. Nicktropolis, che ha debuttato a gennaio, vanta quasi quattro milioni di utenti, con uno
zoccolo duro fra i 6 e i 14 anni. Il visitatore
tipo della zona gestita da Sundance Channel su Second Life, invece, ha tra i 25 e i 54
anni.(L’età media degli oltre6,9milionidi
utenti di Second Life è di 32 anni.)
Le televisioni e le società di media entrano negli spazi virtuali e cominciano
mettendoadisposizioneipropriprogram-
mi, che gli abitanti possono guardare su
schermi cinematografici e televisivi bidimensionali sparsi per il mondo virtuale.
“È una cosa scontata, ma è divertente”,
dice Sibley Verbeck, amministratore
delegato della Electric Sheep Company,
società che crea programmi e contenuti
per i mondi virtuali. “Comincia a essere
un’esperienza più sociale”.
Il business dei mondi virtuali deve
confrontarsi con alcuni ostacoli reali. I
creatori di questi mondi ammettono che
è necessario rendere le loro creature più
user-friendly, e facilitare il processo di
progettazione dell’avatar: la previsione
è che assisteremo al classico ciclo delle
bolle speculative, prima un boom e poi
un tracollo che lascerà in piedi solo una
manciata di operatori.
In teoria, nulla vieta che siano proprio
le società di media tradizionali a sopravvivere, ma la storia passata di Internet
insegna che raramente è la società che
può disporre di maggiori fondi a diventare leader in un settore emergente.
Non mancano gli ottimisti convinti che
i network televisivi e la realtà virtuale
non abbiano alcuna necessità di rubarsi il
mercato a vicenda e che possano imparare a lavorare insieme. “I mondi virtuali,
quando sono fatti come si deve, prendono
persone che guardano la televisione per
20 ore alla settimana e le trasformano
in persone che passano 30 ore alla settimana nel mondo virtuale”, dice Verbeck.
“Non ho mai avuto a che fare con una tecnologia come questa, capace di lasciare
continuamente a bocca aperta la gente”.
Il film ‘The Kingdom’ prova
a colmare le distanze tra culture
di MICHAEL CIEPLY
LOS ANGELES — The Kingdom,
un film di prossima uscita sulla caccia
ad alcuni criminali islamici da parte
dell’Fbi in un’Arabia Saudita non particolarmente ospitale, a prima vista
sembra addentrarsi in un terreno politico insidioso e polarizzato. Dopo una
proiezione davanti a un pubblico diversificato nel quartiere londinese di Wandsworth, il regista Peter Berg ha però
iniziato a sospettare che il suo thriller
dopotutto sarà in grado di sopravvivere alla prova.
Berg ha detto che quando è stato di
definire “eccellente” il film, hanno
alzato la mano, insieme ad altri, otto
donne e uomini musulmani in abiti tradizionali — presumibilmente alcuni
degli spettatori più intransigenti.
Secondo Berg, la proiezione in un
quartiere operaio britannico ha confermato il concetto alla base del film,
La storia di due amici
ambientata in Arabia
Saudita.
ossia che i valori più tradizionali — il
legame tra amici, l’azione serrata, la
determinazione a voler catturare i criminali — potrebbe colmare il più profondo dei divari culturali.
E la Universal Pictures scoprirà
molto presto che in tutto il mondo sarà
la stessa cosa.
L’idea della Universal è dimostrare
che per quanto pochi siano gli spettatori che vogliono vedere film che parlano
di terrorismo — Syriana, World Trade
Center, Munich e Volo United 93 (questi
ultimi due distribuiti dalla Universal)
hanno avuto pochi spettatori per le loro trame pessimistiche e introspettive
— The Kingdom è diverso. Si tratta di
uno spaccato di politica mediorientale con un numero inferiore di scene a
effetto.
Pensato quattro anni fa da Berg, da
Michael Mann, il produttore del film,
e dallo scrittore Matthew Michael
Carnahan, The Kingdom secondo le
intenzioni di quest’ultimo dovrebbe
mostrare “come sarebbe un’indagine
per omicidio su Marte”.
Il film segue la vicenda di un team
di investigatori dell’Fbi, con l’agente
speciale Ronald Fleury interpretato
da Jamie Fox, che supera ogni barriera
politica e ogni tabù culturale per indagare su un attentato in Arabia Saudita,
che non è diverso dai veri attentati che
hanno colpito un complesso residenziale di Riad abitato da occidentali nel
maggio 2003.
“Volevamo mostrare chi svolge le indagini” dice Mann. “Due persone, che
non potrebbero essere più diverse, un
poliziotto saudita e un afro-americano
di Washington, scoprirebbero di avere
più cose in comune se si impegnassero
a non far succeddere nulla di brutto”.
Nel girare The Kingdom, Berg dice
di aver cambiato soltanto poche cose
per evitare che il film mostri simpatie
che potrebbero essere anti-musulmane e filo-occidentali.
Una delle scene più delicate, per
esempio, raffigura una famiglia musulmana raccolta in preghiera.
Carnahan aveva temuto che l’insistenza di Berg nel voler rispettare i
presupposti di base del genere cinematografico con una coppia di poliziotti
che sono grandi amici potesse “abbassare il livello del film”. Ma in seguito,
come dice lui stesso, ha capito che rivestire i propri concetti di responsabilità
condivisa per i mali del mondo in “una
trama e nei personaggi convenzionali”
fosse il modo giusto per raggiungere il
grande pubblico.
The Kingdom ha scatenato opinioni
contrastanti sul suo vero messaggio.
“Era ora che uscisse un film filo-americano”, iniziava uno dei commenti sul
film postato su IMDB.com.
Berg ha anche raccontato che, al contrario, una delle donne in abiti tradizionali che ha assistito alla proiezione
di Londra ha interpretato la pellicola
come “un film sull’assurdità delle soluzioni militari” ai problemi che affiggono il Medio Oriente.
Il regista Peter
Berg, al centro,
con Ali Suliman,
a destra, e
Ashraf Barhom
sul set di ‘The
Kingdom’.
Frank Connor/Universal Pictures
Fotografie di Sylwia Kapuscinski per The New York Times
Una nuova valvola di sfogo per la crisi di mezza età è fare parte di una ‘garage band’. Gloria O’Connell ascolta i
Wall Street, il gruppo di suo marito, Bob. Sotto, Bob O’Connell, a sinistra, e Dennis Wall, il cantante della band.
Fantasie rock per superare la crisi di mezza età
di KATIE HAFNER
In America la classica crisi di mezza
età ha trovato una nuova valvola di sfogo:
fare rock ‘n’ roll in garage, con una band.
I baby-boomer — come vengono definiti
i nati tra il 1946 e il 1964: per lo più padri
di mezza età che non hanno mai superato
l’antica ossessione per la musica della loro giovinezza — stanno alzando il volume
e si abbandonano a sogni a base di rock
‘n’ roll.
I Tennyson Seven di Palo Alto, in California, rappresentano un esempio tipico.
Dellaband,formatasidueannifa,faparte
Rob Reis, imprenditore della Silicon Valley di 53 anni che una volta a settimana si
riunisce con altri cinque appassionati di
rock ‘n’ roll, per suonare la rassicurante
musica della loro generazione: i Beatles,
Van Morrison, i Mokees e i Romantics.
Non credo firmeranno un contratto con
la Virgin Records, ma non importa. Reis
dice di non poter immaginare un modo
migliore per la mezza età. “Cosa fanno
gli altri?”, chiede, come se fosse solo vagamente consapevole delle opzioni a sua
disposizione, nessuna delle quali lo attrae.
“Una bella macchina? Un’amante?”
Mike Lynd, 55 anni, vive poco lontano
— a Redwood City, a nord di Palo Alto — e
suona il basso, la batteria e la chitarra in
una band di sei persone chiamata Space
Available. Lynd, che di giorno si occupa di
marketing per lo studio di commercialisti
Deloitte&Touche,dicechenullaèparagonabile agli aspetti terapeutici offerti dal
provare passaggi musicali con un gruppo
di amanti del rock che condividono queste
idee. “Non so cosa mi abbia fatto meglio, il
Lexapro, un antidepressivo, o i giovedì sera trascorsi a improvvisare con la band”,
dice. “Quando si fa musica insieme ad al-
tri ci si mette in gioco in un modo che va
ben oltre il provare gli accordi”.
Recentemente i Wall Street — una band
della regione di New York che spesso si incontra a Meutchen, nel New Jersey — ha
suonato a un bar mitzvah, la cerimonia
ebraica che segna l’ingresso di un giovane nella comunità degli adulti. Bob O’Connell, 42 anni, art director per la rivista Ladies’ Home Journal e chitarrista dei Wall
Street, dice: “abbiamo avuto una risposta
incredibile”, e diverse richieste.
Il NAMM, un gruppo che rappresenta
i negozi di musica e i produttori di attrezzatura per musicisti, ha notato un aumento nel numero dei rocker di mezza età, e
adesso coordina un programma chiamato Weekend Warriors: una serie di
sei weekend pensati specificamente per
i baby boomer che tornano, o iniziano, a
suonare in una band.
Joe Lamond, direttore generale del
NAMM, dice che negli ultimi anni il programma ha conosciuto un grande successo, grazie a quegli amanti del rock ‘n’ roll
degli anni ’60 e ’70 che dopo essere diventati genitori e aver visto i figli crescere,
si ritrovano adesso con tempo e denaro a
disposizione.
“Non ci sono tensioni”, dice Carol Cheney, infermiera di 43 anni che canta con
gli Alter Ego, una band di sette persone
della zona di Boston. “Siamo tutti all’apice della nostra vita. Siamo sistemati, e ci
troviamo a nostro agio gli uni con gli altri”.
Ricatturare l’innocenza perduta significa, in parte, nascondersi dietro
un’illusione o due. Lamond raccomanda
di suonare in ambienti privi di specchi:
“Quando suoni la chitarra e ti senti addoso venti anni, è preferibile non guardarsi
allo specchio e vedere un tipo calvo e con
la pancia”.
Repubblica NewYork
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