Il Crocevia del Mondo
Seconda edizione ampliata
di Davide Mana
IL CROCEVIA DEL MONDO
Copyright © Davide Mana
Tutti i diritti riservati
Impaginazione a cura di Matteo Poropat (ebookandbook.it)
Questo è per gli Orientalisti Anonimi.
Ganbarimasu!
DM
Chi ama l'orrido frequenta sovente luoghi strani e remoti,
come le catacombe di Tolemaide e i mausolei notturni dei
paesi dell'incubo. Nelle notti di luna, costoro ascendono le
torri dei castelli diroccati del Reno, o con passo incerto
scendono giù per i neri gradini ammantati di ragnatele sotto i
ruderi sparsi di perdute città dell'Asia. I boschi infestati dagli
spettri e i monti più desolati sono i loro templi, e sovente si
attardano nei pressi di sinistri monoliti su isole disabitate.
Howard Phillips Lovecraft, 12 dicembre 1920
Preambolo – Una farneticazione
All'inizio del ventesimo secolo, Charles Fort compilò il proprio
Libro dei dannati, identificando con quell'aggettivo i fatti
storici e di cronaca che il pubblico non voleva conoscere, che
la società e la cultura contemporanea censuravano per
conservare la tranquillità del proprio tran-tran quotidiano –
piogge di pesci e ranocchi, luci nel cielo, fenomeni anomali.
Oggi, pare che la dannazione sia riservata al nostro passato di
razza girovaga.
La tivù ci intrattiene con false avventure esotiche e coi filmini
delle vacanze tramutati in documentario, come per dare una
dignità ai noiosissimi pomeriggi autunnali trascorsi a
mangiare biscotti stantii e guardare le diapo delle insipide
vacanze alle Seichelles della zia Erminia o le imbarazzanti foto
del viaggio di nozze del cugino Tommaso. Ci siamo tramutati
in un popolo di guardoni televisivi con un'infinità di cugini
insignificanti che non sapevamo di avere.
Ciò che ci stanno negando è l'avventura, il passato minuto e
un po' cialtrone del nostro continente, la consapevolezza, che
giace sopita in ciascuno di noi come braci non ancora
completamente fredde, che mollare tutto per andare a cercare
meteoriti o città perdute, isole misteriose o montagne
inviolate, non è una follia.
È un po' come se la vita “posto fisso più palestra e serata in
disco” non fosse poi così normale.
Ed allora, fintanto che non possiamo mettere quattro stracci in
una borsa e andarcene, leggiamo come si fa, e recuperiamo
quanto di meglio c'è nella nostra neocorteccia cerebrale.
Lo spirito che stanno dannando, è quello che ci ha fatti
scendere dagli alberi ed assumere la postura eretta.
Pensiamoci.
Ci fu un tempo, e un tempo lungo, durante il quale una
variopinta identità culturale si estese dal Mediterraneo a
Pechino, passando per deserti e passi montani, scambiando
merci e idee, comunicando attraverso lingue franche e dialetti,
guerreggiando localmente ma imponendo anche una
uniformità vitale, lontana dalla stagnazione dell'assolutismo,
dalla progressiva balcanizzazione di fedi e sottofedi, etnie e
razze. Certo non un'utopia liberista, ma di sicuro una cultura
comune, per quanto internamente variata e molteplice,
mantenuta in vita dal commercio e dalla libera circolazione
delle idee, e dalla locale applicazione della violenza (ma una
violenza pulita, caro lettore, non mascherata da missione di
pace o da esportazione di democrazia).
Che grande, strana ricchezza!
Alla Via della Seta, ed alle persone che la percorrevano, che la
costituivano, dobbiamo il Rinascimento, fra le altre cose. E
allora forse fu davvero la scoperta dell'America a guastare
tutto – come già sostenevano Benigni e Troisi in Non Ci Resta
che Piangere: l'entusiasmo per il nuovo continente e le rotte
del Mare Oceano ci fecero dimenticare che avevamo già, a
portata di mano, una rotta delle meraviglie.
Ora possiamo tornare ad apprezzarne la varietà.
Davide Mana
Castelnuovo Belbo
Primavera 2011
La Via della Seta
“A nord nell'alba limpida il panorama è
inespressivamente sinistro e minaccioso. Le dune gialle
del Taklamakan, come gigantesche onde di un oceano
pietrificato, si estendono in miriadi innumerevoli fino ad
un lontano orizzonte con, qua e là, una collina di sabbia
più grande delle altre, una duna reale se volete, che
torreggia su tutte le altre. Sembrano invocare
silenziosamente, quelle dune, dei viaggiatori da
inghiottire, carovane intere da ingoiare come tante ne
hanno ingoiate in passato.”
[Sir Clarmont Skine, console britannico a Kashgar,
Chinese Central Asia, 1920]
Il nome “Via della Seta” (Seidenstrasse) lo inventò Ferdinand
von Richthofen, lo zio del Barone Rosso.
Il nome è tanto memorabile quanto fuorviante – ci lascia con
l'illusione di una pista precisa, di una autostrada che si
addentra nel cuore dell'Asia.
La realtà è diversa, e con Via della Seta – o più correttamente
Vie della Seta – si indica oggi un intreccio di piste, carovaniere
e percorsi che, dal sesto secolo avanti Cristo, probabilmente,
misero in contatto l'area Mediterranea con l'Estremo Oriente.
Stando ai documenti cinesi, fu nel 138 a.C. che Zhang Qian,
ambasciatore dell'imperatore Wudi della dinastia Han, si mise
in marcia verso ovest, con una carovana di 100 uomini; la sua
missione – contattare il popolo degli Yuezhi, e negoziare con
loro un'alleanza contro gli Xiongnu, da tempo immemore una
spina nel fianco dell'Impero - fin da quando l'Impero ancora
non esisteva, duecento cinquant'anni prima.
Era per tenere fuori dai confini gli Xiongnu, dopotutto, che
l'imperatore Qin aveva fatto erigere la Grande Muraglia.
Gli Xiongnu erano quelli che noi chiamiamo Unni.
Gli Unni catturarono l'intera carovana di Zhang pochi giorni
dopo la sua partenza – e tennero l'ambasciatore in ostaggio
per i successivi dieci anni, durante i quali Zhang ebbe modo di
sposarsi, avere un figlio e poi finalmente fuggire dalla
prigionia e raggiungere gli Yuezhi – che nel frattempo si erano
sistemati nelle oasi occidentali, e non erano più interessati a
far la guerra a nessuno.
Zhang prese allora la via del sud, dove venne catturato dai
Tibetani.
Per farla breve, Zhag ritornò a corte dopo tredici anni di
assenza, unico sopravvissuto della spedizione, e riferì
all'imperatore dei trentasei regni che si trovavano a occidente,
e delle vie che portavano ad essi.
Enfatizzando quei percorsi che attraversavano le aree meno
abitate – dove era meno probabile essere catturati.
Cominciò così.
Secondo le cronache degli Han, trent'anni dopo (nel 105 a.C.) i
Parti, che dominavano in quel tempo la Persia, forse memori
delle vicissitudini del povero Zhang, inviarono 20.000 cavalieri
per accompagnare gli emissari dell'Imperatore Wudi fino alla
corte di Mitridate.
Cinquant'anni dopo, i romani incontrarono per la prima volta
la seta cinese – quando, durante la battaglia di Carre (oggi
Harran, Turchia), i parti srotolarono i loro stendardi di seta,
gettando il panico fra le truppe romane di Marco Licinio
Crasso.
E dieci anni dopo, la seta cinese arrivò a Roma – e in capo ad
un paio di generazioni divenne una tale ossessione per la
popolazione dell'Impero Romano da incidere sull'economia, e
da rendere necessarie delle leggi per limitarne l'uso.
Ma la seta fu solo l'inizio.
“Stampo quest'aritmetica poiché è una cosa assai
necessaria in Portogallo per le transazioni coi mercanti
dell'India, dell'Arabia, dell'Etiopia e di altri posti.”
[Gaspar Nicolas, introduzione a un trattato di aritmetica,
1519]
Nel corso dei secoli successivi, mentre ceramiche, pelli,
lacche, armi e specchi di bronzo, spezie, té, tinture, cosmetici
e giada viaggiavano verso l'Occidente, legname, oro, argento,
metalli preziosi e gemme, tessuti, vetro, ambra del Baltico,
corallo del Mediterraneo, amianto, acrobati ed intrattenitori,
nani, danzatrici e schiave bionde raggiungevano la corte
cinese.
Dall'India, schiavi, animali da compagnia e per i giochi
dell'arena, pellicce esotiche, lana di cashmere, cotone grezzo e
filato, legni esotici e profumati, sandalo, incensi, olio di palma,
zucchero di canna, profumi, rubini, zaffiri e smeraldi venivano
inviati a Roma, in Cina e in Medio Oriente.
“Egli è vero che al tempo che Baldovino era imperadore
di Gostantinopoli - ciò fu ne gli anni di Cristo 1251 -,
messere Niccolaio Polo, lo quale fu padre di messere
Marco, e messere Matteo Polo suo fratello, questi due
fratelli erano nella città di Gostantinopoli venuti da
Vinegia con mercatantia, li quali erano nobili e savi
sanza fallo. Dissono fra loro e ordinorono di volere
passare lo Gran Mare per guadagnare, e andarono
comperando molte gioie per portare, e partironsi in su
una nave di Costantinopoli e andarono in Soldania.”
[Marco Polo, il Milione]
Passare lo Gran Mare per guadagnare.
Certo non una cattiva idea.
I fratelli Polo, ed il loro figlio e apprendista, sapevano bene
quali e quante meraviglie altamente commerciabili si
muovessero lungo la Via della Seta – erano veneziani,
dopotutto, e Venezia era il punto d'arrivo delle molte direttrici
del commercio tra Occidente ed Oriente.
Ma sulla Via della Seta non viaggiavano solo mercanzie
assortite.
Vi viaggiavano le informazioni.
Le idee.
“La Via della Seta conduce – o per lo meno conduceva –
attraverso il Sinkiang fino a Kashgar ed i passi
Himalayani seguendo due vie alternative; la prima (una
via ora praticabile al traffico gommato) che corre lungo
la linea delle oasi che orlano al nord il Takla Makan, alle
pendici dei monti di Tien Shan o Monti Celesti; la
seconda (più sabbiosa e più arida) che aggira il Takla
Makan a sud e si appoggia ai Monti Kuen Lun, oltre i
quali si ammassano le scarpate da 20.000 piedi
dell'altopiano tibetano.”
[Peter Fleming, News from Tartary, 1936]
Per quanto tenda ad allargarsi a macchia d’olio, ed a scappare
da tutte le parti, la nostra storia, che poi non è esattamente
una storia, diciamo piuttosto una lista della spesa, anche se
opportunamente ampliata e rimpolpata, comincia e finisce in
quel posto noto ai viaggiatori ed agli avventurieri come
Tartaria, come Turkestan Orientale o Turkestan Cinese, come
Sinkiang o Xinjian.
Quell’area della Cina schiacciata fra l’altopiano del Tibet a sud
e la Mongolia esterna a nord e il Deserto del Gobi a est (tutti
posti che visiteremo), nella quale secondo gli antichi geografi
cinesi si trovavano le porte dell’oltretomba.
Sedici milioni di chilometri quadrati – un sesto dell'intera
superficie della Cina, un'area paragonabile all'intera Europa
Occidentale
Uno di quei settori della mappa che uno guarda, e non c’è
niente.
Tranne naturalmente il deserto del Taklamakan – che nel
dialetto locale significa qualcosa del tipo Se Ci Entri Non Ne
Esci, e che i più raffinati traducono come Il Deserto della
Morte Inevitabile.
I cinesi lo chiamavano Liu sha – le Sabbie che si Muovono.
Il genere di posto attorno al quale anche la Via della Seta –
mia personale ossessione da sempre – tendeva a fare il giro
largo…
E oltre il Taklamakan, ecco il Grande Fiume di Sabbia, il
Gobi...
Il giorno in cui mi metterò a scrivere bestseller d’avventura
come Clive Cussler (e perché no?), il Sinkiang e le aree
limitrofe figureranno prominentemente nelle mie storie.
Il posto è troppo maledettamente romanzesco.
Eppure sembrerebbe un posto tranquillo
Il Sinkiang – e aree limitrofe – è uno di quei settori della
mappa dove i confini arbitrari della storia e della geografia
proprio non ce la fanno a restare nitidi e nella sfocatura
risultante tutto sembrerebbe possibile.
E probabilmente lo è.
Consideriamo l’intervallo 1920-1940…
Anzi, no.
Partiamo un anno prima, da quel 1919 durante il quale la
Terza Guerra Anglo-Afghana tracimò oltre le montagne, con i
Waziri in fuga e le truppe afghane con l'artiglieria trainata da
elefanti, braccati da un contingente inglese.
Ecco, quello avrebbe dovuto essere un segnale che si
preparavano tempi interessanti.
Un anno dopo, mentre ancora la questione dei waziri
fuggiaschi non era stata risolta, in Sinkiang vennero scoperti i
dinosauri.
No, non fate quella faccia.
Fossili.
I dinosauri del Gobi e del Taklamakan sono una delle più
spettacolari scoperte scientifiche del ventesimo secolo.
Sorvoliamo sul fatto che i cinesi di fatto disseppellissero i
fossili da millenni, e li usassero per preparare i loro bibitoni
alchemici – il bacino di Junggar contiene i più ricchi giacimenti
di dinosauri fossili al mondo, e fra Gobi e Taklamakan la
densità di resti è paragonabile a quella dei giacimenti del
continente americano, e tutti quei resti li scoprì un americano,
fra il 1920 ed il 1930, mentre cercava tutt'altro.
Indiana Jones & L'Anello Mancante
Nato in Wisconsin nel 1884, Roy Chapman Andrews era un
classico esempio di quei ragazzoni WASP cresciuti a forza di
football, Libertà e torta di mele – alti, muscolosi e col sorriso
pronto – ai quali l’America avrebbe spesso assegnato il
compito di fare relazioni pubbliche, prima che l’Esportazione
della Democrazia diventasse una pratica comune.
Una specie di giovane Gary Cooper, insomma.
Atletico, aveva giocato a rugby e praticava il canottaggio, il
nuoto, la scalata e l’equitazione. Ed amava la natura e
l’esplorazione, per cui terminati con ampio anticipo gli studi
(voi non li odiate, quelli così?) al Benoit College, mentre tutti
se lo immaginavano destinato ad una brillante carriera
militare o diplomatica, lui scelse di fare il tassidermista.
E con i soldi risparmiati impagliando animali morti, nel 1906
arrivò a New York, entrò nel Museo di Storia Naturale e
chiese al direttore di poterci lavorare.
Così, di getto.
Disse che avrebbe anche lavato i pavimenti, pur di lavorare lì.
Ora, anche in quei tempi gloriosi, il mondo accademico era
quello che era, ed il direttore del museo, Henry Fairfield
Osborn, non era uno sprovveduto: un giovane sano e aitante,
di buona famiglia, impeccabilmente preparato, con poderose
“maniglie” a livello politico e sociale, ti piomba in ufficio e si
offre di lavorare gratis…
Gli fai lavare i pavimenti.
E così, nel 1906, Roy iniziò a lavare i pavimenti del Museo di
Storia Naturale, e parliamo di ettari di pavimenti di marmo.
Ma era in gamba, ed Osborn non era stupido.
Nel 1907 il recupero della carcassa di una balena per la
sezione di Mammiferi Marini del Museo permise a Andrews di
farsi la fama di esperto in cetacei – nessun altro aveva
accettato il lavoro a causa del lezzo e dell’orrore lovecraftiano
della bestia spiaggiata e in avanzata, affrettata
decomposizione.
Con la balena in curriculum, nel 1910, Andrews divenne
naturalista a bordo della USS Albatross nelle Indie Orientali
Olandesi, sempre per conto del Museo; lo scopriamo intento a
contendersi le scorte di alcool col nostromo – di giorno
Andrews metteva i suoi animali morti sotto spirito per
conservarli, di notte il nostromo si scolava l’alcool e gli
lasciava le carcasse a secco, ad imputridire.
O così per lo meno la racconta Roy nelle sue memorie,
pubblicate in più volumi (undici fra 1916 e 1951) e divorate,
fra le due guerre e fino agli anni ’50 da generazioni di
ragazzini americani – inclusi George Lucas e Steven Spielberg,
sui quali torneremo successivamente.
Ora, proprio come tanti suoi colleghi, Andrews non fu mai un
relatore affidabile ed oggettivo delle proprie esplorazioni e
peripezie.
Ma quello resta un problema per i pedanti.
Nel 1916, insieme con la moglie Yvette, il trentaduenne
Andrews si addentrò nella provincia cinese dello Yunnan,
infestata di banditi, sulle tracce dell’elusiva “tigre blu”, un
ipotetico predatore mangia-uomini che terrorizzava l’area; non
la trovò (e probabilmente non c'era mai stata), ma la stampa ci
andò a nozze, ed Andrews ritornò a New York con un carniere
di
- 2100 mammiferi
- 800 uccelli
- 200 rettili e batraci
- 200 scheletri e resti in formalina per lo studio
- 150 dagherrotipi a colori
- 500 negativi fotografici
... e 10.000 metri di pellicola filmata
Il Museo di Scienze Naturali gradì ampiamente il materiale –
parte del quale è esposto ancora oggi.
Roy Chapman Andrews capì fin da subito che impressionare il
pubblico con una versione leggermente spettacolarizzata della
realtà rappresentava una scorciatoia ai fondi per la ricerca,
alle cariche, agli onori, alla copertina del Time (che
puntualmente ottenne, nel 1923).
Allo stesso tempo, Andrews capì che era necessario costruirsi
un personaggio, un’immagine, un look distintivo.
Roy Chapman Andrews optò per stivali, cappello, pistola alla
cintura e frusta da mandriano.
Dovete ammettere che non l'aveva pensata male.
Con alle spalle spedizioni nel sud-est asiatico culminate in
poderosi scontri con serpenti giganti, faccia a faccia con
banditi e con la fantomatica “Morte Invisibile” (ennesimo
superpredatore evasivo e irreperibile), e tutto l’armamentario
che sessant’anni dopo avrebbe fatto la fortuna di Indiana
Jones, nel 1920, all’alba dell’età del jazz, Roy Chapman
Andrews era ormai un eroe popolare e certificato della
paleontologia americana, col titolo di Responsabile delle
Spedizioni per il Museo di Storia Naturale di New York.
Ed ogni eroe ha bisogno di una sfida degna della sua statura.
Trovare l’Anello Mancante, ad esempio.
O, nelle parole dello stesso Andrews, trovare il Giardino
dell’Eden.
E lui sapeva esattamente dove lo avrebbe trovato: in Sinkiang,
quel gigantesco spicchio di territorio conteso fra Cina, Tibet e
Mongolia, sul tetto del mondo, fra la vastità deserta del Gobi e
la vuota immensità del Taklamakan.
Nel 1920, Roy Chapman Andrews si mise a battere i suoi
finanziatori.
La ricerca dell'anello mancante è naturalmente una grande
impresa impossibile: il genere Homo discende da antenati
primitivi e scimmieschi, certo, ma non c’è stata una lenta
trasformazione progressiva, come in un progressivo
avvicinarsi al centro del bersaglio ad un tiro a segno di fiera.
Ma per i vittoriani ed i loro immediati successori, convinti di
essere il culmine della creazione e armati delle mal comprese
teorie di Darwin, i pigmei, gli aborigeni australiani, e tutti
quegli altri signori dalla pelle scura che non giocavano a
cricket, rappresentavano solo fasi più primitive, più vicine alla
scimmia, dell’Homo sapiens vittoriano; e se esistevano questi
antenati prossimi dell’Uomo Bianco, ancora vivi e vegeti (e
sottomessi), e si trovavano i resti fossili degli antenati più
remoti, dove diavolo si annidava l’anello di congiunzione fra le
due linee?
E così, per decenni l’idea di un “anello mancante” monopolizzò
l’attenzione del pubblico – e la ricerca scientifica, alimentata
da finanziamenti spesso legati ai vezzi del pubblico, non si
risparmiò nel tentativo di trovarlo.
Ma di tutti i posti dimenticati da Dio, ci si potrebbe
domandare, perché proprio il Sinkiang?
Perché l'attiguo altopiano tibetano?
Perché la Mongolia Esterna?
Perché il Tetto del Mondo?
Tutto dipende, in parte, dalla teoria della radiazione
espansiva, l’idea che la vita fosse comparsa in un solo luogo
preciso, e da lì si fosse poi allargata su tutto il pianeta per fasi
successive.
Che non è poi così male, come teoria, se ci limitiamo a grandi
gruppi di organismi – funziona abbastanza da permetterci di
dire che siamo tutti africani, e che i nostri antenati arrivano
dalla valle del Rift africano, nella zona di Afar.
Ma fino agli anni ’50 per lo meno, l’Africa era solo al secondo
posto nella lista delle probabili collocazione della Valle
dell’Eden.
Proprio Henry Fairfield Osborn, il capo di Andrews, aveva
pubblicato, nel numero di Aprile 1900 di Science, un dotto
articolo nel quale, sulla base di studi anatomici comparati,
giungeva alla conclusione che l’Asia era stata la culla della
vita; a riprova di ciò Osborn portava la diffusione di animali
quali l’alce, il caribu e la capra di montagna, in gruppi affini e
imparentati tanto in Europa quanto in America. Se gli antenati
erano giunti in quelle terre da un unico luogo, era ragionevole
pensare che questo luogo fosse a mezza strada – l’Asia,
appunto.
E l’Asia nordorientale era il luogo di comparsa dei primati,
quindi perché non cercare lì attorno il fantomatico Anello
Mancante, più tutti i membri assenti della famiglia umana, e
magari l’Origine della Vita Stessa?
Non male, come razionalizzazione scientifica.
Completamente infondata, ma non male.
Nel 1920 perciò, Roy Chapman Andrews stava mettendo alla
prova la sua teoria più famosa: i ricchi vogliono l’avventura.
E se non possono affrontarla di persona, perché non hanno il
fisico e la preparazione, sono ben felici, se blanditi
opportunamente, di finanziare qualcuno perché viva
l’avventura al loro posto, e torni per raccontargliela, e loro
possano prendersi il credito di aver partecipato, anche solo col
blocchetto degli assegni.
Non c’è spazio per elencare tutti i finanziatori della nuovo
impresa di Roy Chapman Andrews.
Basti dire che in capo a pochi mesi – costellati di conferenze
pubbliche e cene sociali – il naturalista aveva i fondi necessari
a finanziare la sua prossima impresa: penetrare nel Sinkiang
con una carovana di autovetture Ford opportunamente
modificate, servite da staffette su cammello per i rifornimenti
immediati, e battere quella distesa deserta e spopolata alla
ricerca dell’Anello Mancante, e di tutti i suoi amici.
Che non trovò.
In compenso, trovò un sacco di dinosauri – soprattutto nel
Gobi – con gran piacere, ancora una volta, della Smithsonian
Institution che sponsorizzava la sua impresa.
In effetti, ancora oggi in Cina, Roy Chapman Andrews è
considerato un predone del patrimonio nazionale, ma questo è,
come si suol dire un dettaglio dovuto all’incapacità di alcuni di
apprezzare le bravate dementi di altri…
Roy Chapman Andrews è anche – naturalmente – l’ispiratore di
Indiana Jones.
Ma se è vero che Lucas e Spielberg sono nella fascia di età
adatta per aver letto i libri divulgativi per ragazzi nei quali
Chapman Andrews raccontava (con qualche “ovvio”
abbellimento) le proprie imprese, è anche vero che, sì, ok,
Chapman Andrews portava cappello e pistola al fianco… ma
Charlton “Chuck” Heston ne Il Segreto degli Inca, è molto più
Indy di lui.
Certo, affermare che il Professor Jones è stato ispirato dal
Professor Andrews ha reso la Smithsonian molto amichevole
nei confronti della LucasArts...
Ma non siamo qui per parlare di Indiana Jones (del quale
tuttavia esiste un romanzo nel quale compaiono dinosauri
cinesi vivi).
Alla spedizione di Chapman Andrews partecipò anche il
paleontologo e gesuita Teilhard De Chardin.
Teilhard era già stato in Cina nel 1923, partecipando ad alcuni
scavi e tenendo delle lezioni all'Istituto Cattolico – ma dopo
che alcune delle sue teorie meno ortodosse relative al Peccato
Originale vennero alla luce, la Chiesa gli ingiunse di
interrompere l'attività didattica.
Successivamente, Teilhard ritornò in Cina e dal 1926 al 1935
fu impegnato in cinque campagne di rilevamento geologico e
di scavo paleontologico, lavorando soprattutto sui resti
dell'Uomo di Pechino.
Durante questi anni, pubblicò altri saggi teologici – in
particolare Le Milieu Divin, per il quale la Santa Sede rifiutò
di dare l'imprimatur.
È ragionevole assumere che Teilhard De Chardin fosse – come
Chapman Andrews – sulle tracce dell'Anello Mancante. Il
gesuita era già stato coinvolto – resta da stabilire quanto
intimamente – con la precedente manifestazione dell'Anello
Mancante: l'Uomo di Piltdown, un grossolano falso perpetrato
da un gentiluomo di campagna inglese, certo Charles Dawson,
con la complicità (quasi certamente) di Teilhard De Chardin e
di Arthur Conan Doyle (l'autore di Sherlock Holmes).
È stato fatto notare che l'Anello Mancante – qualsiasi anello
mancante – sarebbe stato perfettamente in linea con le teorie
teologico-evoluzioniste di Teilhard De Chardin, che proponeva
una evoluzione “pilotata”, il cui scopo sarebbe stato quello di
portare il genere umano ad un livello spirituale superiore –
l'Omega del quale Gesù Cristo sarebbe stato un precursore.
La lunga permanenza in Cina permise certamente al gesuita di
sviluppare la propria tesi in un ambiente filosoficamente
affine, e lontano dagli sguardi troppo indagatori dei vertici
della Chiesa Cattolica.
Le sue posizioni gli costarono comunque, nel 1933, l'appoggio
del suo principale sponsor – il Museo di Storia Naturale di
Parigi.
La figura di padre Teilhard sarebbe rimasta fortemente
controversa tanto nell'ambito della ricerca paleontologica
quanto in quello della teologia, per molti anni a venire.
Falsi Monaci & Archeologi
“L'archeologia non è una scienza, è una vendetta.”
[Sir Mortimer Wheeler, 1890-1976]
Un poco più a sud dell’area dove Chapman Andrews scavava
fossili, il Sinkiang negli anni ’20 era pure il teatro di
operazioni di un gruppo di falsi monaci buddisti in
pellegrinaggio sulle orme del santo prete Sanzo (quello del
romanzo cinese Xi Yu Ji, Sayuki in giapponese, noto in Italia
come Lo Scimmiotto - parleremo ancora di lui), in realtà
ufficiali delle forze armate giapponesi – come Zuicho
Tachibana, che era un ufficiale di marina, e Eizaburo Nomura,
un ufficiale di fanteria – in missione di spionaggio per ordine
del Conte Otani, capo dei servizi segreti nipponici e
proprietario della più grande collezione di antichità orientali al
mondo.
Oltre a spiare i cinesi ed i russi (ed a raccogliere reperti per la
collezione del conte), i falsi monaci avevano il compito di
rintracciare nella supposta area di origine della vita le prime
tracce dell’origine del glorioso popolo nipponico, o comunque
qualcosa… una stele, un’iscrizione, un rotolo di carta di riso,
qualsiasi cosa, che giustificasse l’annessione di quei territori
all’Impero Giapponese (con la scusa del “C’eravamo prima
noi!”, già usata per annettersi la Corea), aprendo la strada
all'annessione massiccia di Cina e Tibet da parte dell’Impero
del Sol Levante.
Negli anni durante i quali cominciava a delinearsi la nefasta
teoria della Sfera di Coprosperità Asiatica (una sorta di supernazione di area asia-pacifica dominata, ovviamente,
dall'Imperatore), il Conte Kozui Otani, un raffinato
intellettuale giapponese, pilastro della comunità buddhista,
leader spirituale della setta della Terra Pura (Jōdo Shinshū) e
membro della Royal Geographical Society, aveva sguinzagliato
“monaci” per tutta l’Asia alla ricerca di pezze d’appoggio per
le annessioni, ed intanto si era costruito una delle più
importanti collezioni d’arte orientale al mondo.
La Collezione Otani – oggi sparsa in diverse sedi museali, con
il suo nucleo conservato al Museo Nazionale di Tokyo –
avrebbe poi ispirato la ciclopica collezione di pornografia
asiatica che fa da perno a Quin’s Shanghai Circus, dell’ex
agente CIA Edward Whittemore.
Otani naturalmente fu amico di Sven Hedin, anch'egli membro
della Royal Geographical Society (almeno per un po'), l’uomo
che aveva scoperto il Transhimalaya e le sorgenti del
Bramaputhra, e che sostanzialmente zampettò per l’Asia in
lungo e in largo per una cinquantina d'anni; e che negli anni
che stiamo considerando aveva progettato una spedizione nel
Turkestan Cinese, ma aveva poi desistito – optando per una
traversata della Mongolia in auto (aveva superato la
sessantina) – considerando la situazione politica troppo
instabile.
Troppo instabile?!
Andiamo, Sven, non rovinarci la festa!
Però no, non possiamo liquidare Sven Hedin in questa
maniera.
Sven Anders Hedin era svedese, ed era un geografo.
Nessuna delle due cose promette grandi emozioni – ma Sven
aveva le idee molto chiare.
Avendo deciso di diventare un esploratore all’età di quindici
anni (chi di noi non lo ha fatto?), all’età di 20 riuscì a farsi
assumere come insegnante privato per conto di una famiglia
che stava traslocando a Baku, in Persia.
Mentre si preparava ad assumere il ruolo di istitutore, seguì
un corso di un mese da cartografo militare, ed un corso breve
da ritrattista.
Poi, quando già si trovava a Baku, da autodidatta imparò
latino, francese, tedesco, persiano, russo, inglese e tartaro.
Successivamente avrebbe approfondito i dialetti persiani,
mettendoci anche il turco, il kirgiszo, il mongolo, il tibetano ed
il cinese.
Le giornate a Baku erano evidentemente piuttosto lunghe e
monotone.
Lasciato il posto da insegnante nel 1886, tornò in Svezia,
facendo il giro largo – il libro pubblicato al ritorno si intitola
Attraverso la Persia, la Mesopotamia e il Caucaso.
Sven Hedin aveva 21 anni.
“Sono un europeo, dissi. Sono entrato nel deserto da
Yarkand-daria. I miei uomini e i miei cammelli sono
morti di sete, ed io ho perduto tutto. Per dieci giorni non
ho avuto nulla da mangiare. Datemi un pezzo di pane ed
una tazza di latte, e lasciate che riposi presso di voi,
perché sono stanco da morire. Col tempo sarò in grado
di pagarvi per il vostro aiuto.
Mi guardarono con sospetto, pensando evidentemente
che stessi mentendo.”
[Sven Hedin, My Life as an Explorer, 1925]
Beh, in effetti stava mentendo – ma a noi, non a loro.
Ma procediamo con ordine...
In Svezia Hedin riprese gli studi, ottenendo infine un dottorato
in geografia a Berlino come studente di von Richthofen.
Fece anche un secondo giro in Persia.
Poi, fra il 1893 ed il 1897, per la prima volta Hedin entrò
nell’area del bacino del Tarim e del Deserto della Morte
Inesorabile.
E il nome si dimostrò corretto – due dei suoi compagni di
viaggio e sette dei cammelli della carovana morirono di sete.
Dopo cinque giorni, Hedin abbandonò il proprio domestico
Kasim nel deserto, e proseguì da solo per altri due giorni,
spinto solo dalla forza di volontà.
O dalla forza della disperazione.
C'è un'immagine classica nella cultura occidentale – quella
dell'esploratore perso nel deserto che avanza strisciando in
cerca di una goccia d'acqua; l'abbiamo vista in innumerevoli
vignette, in cartoni animati, in film e romanzi – Hedin la visse
in prima persona, quando tentò di attraversare il Taklamakan.
Nelle sue memorie ci racconta anche il seguito, che di solito le
vignette tralasciano – raggiunta un'oasi dopo due giorni a
strisciare sulla sabbia, Hedin si rifocillò e poi tornò indietro a
piedi nudi, con gli stivali colmi d'acqua legati attorno al collo,
per soccorrere il proprio compagno.
Oggi sappiamo che si tratta di fandonie, o per lo meno di una
grossolana esagerazione, che Hedin pubblicò ne La Mia Vita
da Esploratore – sorvolando sul fatto che l’impresa era
palesemente impossibile, che era partito con scorte d’acqua
inadeguate e che uno dei due accompagnatori “morti” in
effetti era comunque sopravvissuto.
Seguirono due spedizioni – una alla ricerca del Lop Nor, il
meraviglioso lago vagante del Taklamakan, e successivamente
in Tibet (all’epoca, tutti si facevano un giro in Tibet), dove
conobbe il Panchen Lama.
Hedin viaggiava spesso camuffato da monaco itinerante (un
travestimento diffuso all’epoca, evidentemente).
Poi, la decisione di farsi un giro in automobile in Mongolia,
perché il Sinkiang era troppo pericoloso.
Ma non poteva durare.
Ed è qui che la faccenda assume toni spettacolari.
Perché dal 1927 al 1935, Hedin organizzò quella che venne
definita un’armata di studiosi, coi quali si mise a vagare in
lungo e in largo per Mongolia, Gobi e Sinkiang.
I partecipanti – 37 fra geologi, paleontologi, geografi,
meteorologi, botanici, astronomi, archeologi e quant’altro, da
sei nazioni – si organizzarono come in una libera università.
Beh, una libera università con 300 cammelli e trentaquattro
“servitori personali”.
Ciascuno aveva facoltà di svolgere le ricerche che riteneva più
interessanti, collaborando come riteneva più opportuno coi
colleghi, vagando per il territorio mentre una carovana di
camion e cammelli procedeva a spostare la “sede”
dell’istituzione.
Al vertice di questa struttura quantomai plastica, “rettore”,
condottiero e visionario, Hedin amministrava le risorse,
estorceva denaro agli sponsor (inclusa la Lufthansa, che spera
di aprirsi un mercato verso l’Asia), coordinava i progetti, e
manteneva i contatti con le autorità locali – alcune delle quali
più belligeranti di altre.
Chiang Kai Shiek fu entusiasta dell’impresa, e ne finanziò una
parte, a condizione che scienziati cinesi potessero partecipare.
Hedin accettò, risolvendo in una sola mossa tutte le resistenze
della burocrazia cinese.
Alcuni anni dopo, anche il generale Ma Zhongying,
comandante delle forze cinesi in Sinkiang in ritirata davanti
all’avanzata russa, sarebbe stato altrettanto entusiasta –
dirottando la spedizione per i propri scopi.
Fu un trionfo, ma Hedin ne uscì economicamente devastato.
Unica solazione – raccattare quattrini.
In cinque mesi, Hedin tenne perciò 130 conferenze a
pagamento, coprendo con treno e automobile una distanza di
40.000 chilometri fra Germania e nazioni limitrofe.
Si occupò inoltre di allestire una replica del tempio buddhista
di Chengde all’Esposizione Mondiale del Progresso di Chicago.
Aveva settant’anni suonati.
Ma i numeri di Hedin sono tutti spettacolari.
Oltre 30.000 pagine di pubblicazioni, più quasi 10.000 di diari
e note personali che lascerà in eredità all’Accademia delle
Scienze Svedese.
Circa 80.000 lettere archiviate.
Esistono un Ghiacciaio Sven Hedin, un cratere Hedin sulla
Luna.
Una specie di genziana, Gentiana hedini.
Due specie di bacherozzi, Longitarsus hedini e Coleoptera
hedini, una farfalla, Fumea hedini Caradja e un ragno, Dictyna
hedini.
Un ungulato fossile, Tsaidamotherium hedini, un terapside
fossile, Lystrosaurus hedini.
Oggi esiste persino un modello di camper che si chiama Sven
Hedin.
L'esploratore svedese ricevette premi e riconoscimenti da
parte di Re Oscar II di Svezia, dallo Shah Nāser ad-Dīn Schah,
dallo Zar Nicola II di Russia, dal Kaiser Francesco Giuseppe
(svariati), dai viceré dell’India Lord George Curzon e
successivamente da Lord Minto, dal Kaiser Guglielmo II
(svariati), dal nono Panchen Lama Thubten Choekyi Nyima
(svariati), dall’Imperatore Mutsuhito.
Da Papa Pio X, da Teddy Roosevelt, da Hindemburg, da
Chiang Kai-shek, e, ripetutamente, da Adolf Hitler.
Hitler gli chiese l'autografo.
Il dittatore nazista dichiaratamente lo ammirava – Hedin era
ariano, conservatore, dichiaratamente filo-tedesco e
palesemente un überman.
I nazisti gli assegnarono premi su premi, e Hedin –
conservatore o meno, filo-tedesco o meno, simpatie per
l’ideologia nazista o meno – fu abbastanza sveglio da capire
quando si cercava di sfruttare la sua popolarità a fini
propagandistici.
Nel ’43 venne creato un Istituto Sven Hedin di Studi Asiatici a
Berlino – ma Hedin non c’era, e perciò lo inaugurarono in
contumacia e ben presto, Himmler lo trasformò nella spina
dorsale dell’Ahnenerbe (chiedete a Indiana Jones ulteriori
dettagli).
Il rapporto di Sven Hedin col Partito Nazista è per lo meno
ambiguo, e ben poco lusinghiero per il vecchio esploratore.
Pur restando favorevole al Reich – una scelta che avrebbe
influenzato negativamente il suo ricordo nel dopoguerra –
Hedin sfruttò la corrispondenza frequente con Hitler per
cercare di civilizzare il Fürher e le sue politiche.
Fallito l’iniziale sforzo per convincere Hitler ad assumere
posizioni meno anti-semite (!), Hedin operò ad-personam,
sfruttando la propria popolarità in aiuto di condannati a morte
e deportati.
Ciò non toglie che Hedin abbia pubblicato durante tutta la
propria carriera articoli e testi imbarazzanti, fin dai tempi
della Grande Guerra, quando il suo volume La Missione del
Sodato Tedesco, veniva praticamente distribuito
gratuitamente alle truppe del Kaiser sulla via delle trincee.
Queste pubblicazioni gli costarono l’espulsione dalla Royal
Geographical Society – l'unico Membro Onorario ad essere
espulso nella storia della Società.
“L'abbiamo semplicemente fatto fuori, ma abbiamo
ricavato un certo divertimento dalla sua sfortuna,
quando nel 1918 mandò in stampa un libro intitolato La
Germania Trionfante appena in tempo per il collasso
della Germania.”
[Sir Charles Bell, capo-missione a Lhasa, ad Arthur
Hinks, Segretario della RGS, 1925]
Coerente ed inflessibile anche nella sciocchezza assoluta, Sven
Hedin rimase fino alla fine fedele ai propri “amici” ariani,
nonostante ne disapprovasse ideologia profonda e metodi – e
la propaganda nazista lo sfruttò biecamente (anche se non
tanto quanto avrebbero voluto), salvo poi abbandonarlo e,
forse, commissionarne l'eliminazione.
Ma l’immagine davvero colossale di Hedin – pur con tutte le
ombre politiche, ideologiche e semplicemente cialtronesche
delle sue memorie spesso “spettacolarizzate” – rimane l’idea
dell’università semovente, un’armata brancaleone di liberi
pensatori e scienziati alla ricerca di tutto lo scibile,
sistematicamente, sul territorio, in barba a confini, burocrazia,
interessi politici e militari.
E Hedin quasi un Brancaleone che vaga nel deserto del
Taklamakan, dove anche i laghi si spostano, ma lui è ben
deciso a cartografarli.
Durante l’invasione dell’Afghanistan da parte delle truppe
americane in seguito ai fatti dell'11 settembre 2001, i tecnici
dell’intelligence americana usarono le mappe di Hedin per
interpretare le foto da satellite.
Uno dei membri dell'armata di studiosi di Sven Hedin, ma che
ben presto se ne distaccò per operare in proprio, fu
l'ungherese Marc Aurel Stein – l'uomo che riscoprì la Via della
Seta, che recuperò tonnellate di materiale archeologico di
valore incommensurabile e che di conseguenza venne
premiato con un cavalierato e con la cittadinanza in Gran
Bretagna.
Studente di lingua persiana e sanscrito a Lipsia e a Vienna,
dottorato a Tubinga, Stein – che quasi certamente operò anche
come spia per gli inglesi – avviò la propria carriera di
esploratore proprio ispirandosi ai lavori di Sven Hedin;
ossessionato dalla figura di Alessandro Magno, svolse una
vasta ed approfondita esplorazione della Via della Seta, con
incursioni nell’area che stiamo discutendo, in quattro storiche
missioni nel 1900, 1906-8, 1913–16 e 1930.
Di fatto, Stein fu uno dei più cinici razziatori che mai siano
calati sull'Asia e sulla Via della Seta, e la storia non ne
conserva un ricordo positivo, nonostante il suo essenziale
apporto alla comprensione di come le vie commerciali fra
Oriente e Occidente siano state un canale per la circolazione
delle idee ed abbiano forgiato tanto la storia dell'Oriente
quanto quella dell'Occidente.
Le prime tre spedizioni furono un grande successo – Stein
aveva alle spalle gli inglesi e Lord Curzon, viceré dell'India, e
fondi notevoli.
Sulla base delle ormai mitiche mappe di Sven Hedin, Aurel
Stein – che aveva studiato rilevamento e cartografia
all'accademia militare Ludovika, in Ungheria – ritrovò le
rovine di Dunhuang (già segnalate nel 1890 da un ufficiale
inglese, e visitate a suo tempo da Sven Hedin), e la più grande
biblioteca di testi antichi sulla civiltà a cavallo fra
Mediterraneo e Cina mai scoperta al mondo (fra i testi
ritrovati c’è anche il noto Sutra di Gesù, vangelo apocrifo in
salsa buddhista).
È interessante osservare come, nelle sue memorie, Hedin citi
Stein quasi en passant, compiacendosi della precisione della
propria cartografia.
Ma Stein è ormai sulla strada per superare – per lo meno in
volume di artefatti prodotti e di carte tracciate – il successo
del suo maestro ed ispiratore.
Il colpaccio, infatti, non è arrivare a Dunhuang, ma scoprire il
complesso di caverne che si estende a circa venti chilometri a
sud dell'antica città, e che tutti paiono aver dimenticato.
Nelle caverne di Mogao, durante la sua seconda spedizione,
Stein trova una vera e propria Caverna di Aladino – 500 grotte
contenenti 45.000 affreschi, circa 2.000 statue e circa 50.000
manoscritti.
Tutto materiale raccolto qui a fronte dell'avanzata musulmana,
quasi mille anni prima.
“La vista rivelata nella flebile luce della piccola lampada
ad olio del sacerdote mi fece spalancare gli occhi.
Accumulata in strati, ma senza alcun ordine, era visibile
una gran massa di rotoli di manoscritti che arrivava fino
all'altezza di dieci piedi, che riempiva, come rivelarono
misure successive, quasi cinquecento piedi cubici.”
[Aurel Stein, On Central Asian Tracks, 1933]
E Stein si porta via tutto.
O per lo meno tutto ciò che il taoista Wang, ultimo monaco a
guardia di quel tesoro, gli permette di portar via.
Dodici casse di materiale.
Dipinti su seta, ricami, sculture, ed oltre settemila antichi testi
in cinese, tibetano, tangut, sanscrito, turco e svariati altri
oscuri linguaggi, non solo manoscritti ma anche il più antico
libro a stampa conosciuto, una copia del Sutra del Diamante
stampata l'undici di maggio 868.
Il tutto, al costo netto di 130 sterline, pagate dai contribuenti
britannici come “donazione” al monaco Wang.
“Ciò che la mia esperienza in India mi aveva insegnato
sulla diplomazia che più probabilmente avrebbe
funzionato con preti locali di solito tanto ignoranti
quanto avidi, poteva funzionare anche in territorio
Cinese.”
[Aurel Stein, ibid]
Il monaco Wang non desidera il denaro per sé, tuttavia, ma
per avviare un progetto di ristrutturazione e salvaguardia
degli archivi di Dunhuang.
Non potendo fare leva sulla prevista avidità e ignoranza, per
convincere Wang a disfarsi di parte di ciò che intendeva
salvaguardare, Stein non esita perciò a dichiararsi devoto e
successore del monaco Xuanzang, che nel settimo secolo non
aveva esitato a viaggiare per il mondo ed a correre rischi
indicibili nella ricerca delle fonti dei testi buddhisti.
Xuanzang è rappresentato in uno degli affreschi di Dunhuang
(e proprio quello ha dato l'idea a Stein) ed è da sempre
oggetto di venerazione per il povero Wang, che quindi
acconsente allo scambio, riconoscendo in Stein uno spirito
affine.
Poi, nel 1930, parte la quarta spedizione Stein, finanziata
congiuntamente dall'Università di Harvard e dal British
Museum, e che si concluderà con un fallimento talmente
colossale ed umiliante, che Stein non ne fa menzione in
nessuno dei suoi molti libri.
Ricostruire i fatti è complicato.
Nel 1928, l'americano Langdon Warner, del Fogg Art Museum
di Harvard, aveva segnalato come – complice la situazione
politica sempre più confusa nell'area del Sinkiang – Dunhuang
e le caverne di Mogao fossero ormai in condizioni deplorevoli.
“Ovunque gli occhi sono stati cavati [agli affreschi], o
profonde lacerazioni attraversano i volti… Intere file di
fanciulle in complicate acconciature scorrono davanti al
tuo sguardo, ma in vano si può cercare una testa che sia
completa. Una elaborata composizioni del Bodhisattva in
trono sopra gli antichi Dei mentre una graziosa
danzatrice nauch danza su un tappeto davanti a Lui non
contiene una singola figura intera… su alcune di queste
facce graziosissime sono scarabocchiati i numeri di un
Reggimento russo, e dalla bocca di un Buddha seduto
per pronunciare la Legge del Loto fluiscono oscenità
slave.”
[Langdon Warner, lettera alla moglie, 1928]
Tanta indignazione è certamente toccante, peccato che poi
Warner - altro personaggio storico in coda per il titolo di
"uomo che ispirò il personaggio di Indiana Jones" - si fosse
fatto beccare, senza saperlo, dalla sua guida e interprete (uno
studente cinese) mentre nottetempo rimuoveva gli affreschi
ancora sani per portarseli a casa.
Utilizzando un processo di peeling chimico, che consisteva nel
cospargere gli affreschi di colla e poi applicarvi una tela e
"strapparli via", Warner prelevò alla chetichella ventisei
affreschi di epoca Tang, che oggi sono esposti al Museo di
Belle Arti di Boston. Gli affreschi che Warner "trattò" ma non
riuscì a staccare dalle pareti sono ancorà là, col loro strato di
colla a ricoprirli.
È conseguenza di queste razzie (per quanto Warner avesse
pronta da mostrare una legittima ricevuta di acquisto,
recuperata chissà come) che, quando nel 1930 l'ormai anziano
Stein si fece convincere da Warner – e dai 100.000 dollari di
finanziamento forniti da un magnate dell'alluminio – ad
avviare un'ultima campagna in Sinkiang, il direttore
dell'Università Yangching di Pechino, William Hung, un cinese
che aveva studiato in America, sapeva cosa aspettarsi, ed
avviò un'ampia e inesorabile campagna di boicottaggio della
spedizione.
Nonostante la sua università fosse finanziata da Harvard, dove
lui aveva studiato.
Stein cercò di fare del proprio meglio – coinvolgendo il British
Museum per avere un canale preferenziale con le autorità
britanniche nell'area – ma fu tutto inutile. E così, mentre gli
operai si rifiutavano di scavare, i permessi e i visti andavano
perduti, e i giornali cinesi ricevevano accuratissime “soffiate”
sulle mazzette versate da Stein per ottenere favori presso i
politici, la missione si concluse con un tragico e costosissimo
niente di fatto.
Stein tornò a casa con le pive nel sacco, recuperando a
malapena una cassa di settantaquattro manoscritti, molti dei
quali si rivelarono poi essere dei falsi.
Al colmo dell'ironia, Stein venne accolto in patria
dall'annuncio che i suoi ex colleghi dell'”università itinerante”
di Sven Hedin avevano appena recuperato diecimila tavolette
iscritte, documenti della dinastia Han su seta, affreschi, vasi e
oggetti di bronzo.
Per accordi pregressi, metà del materiale raccolto da Hedin
sarebbe andato al governo cinese, metà alla corona svedese.
Il vecchio Sven aveva vinto ancora una volta.
“Alcuni uomini nascono con la sella sulla schiena, altri
nascono con gli speroni ai piedi.”
[Marc Aurel Stein]
Si deve tuttavia annotare per correttezza che, a differenza di
Hedin, Stein fu sempre estremamente attento alla sicurezza ed
al benessere dei suoi collaboratori e del personale indigeno –
tanto che in nessuna delle sue leggendarie spedizioni vi furono
morti o feriti (straordinario, per l'epoca), e sostanzialmente
Stein lavorò per quarant'anni fra la Turchia e la Cina senza
perdere nemmeno un cammello.
Oggi, esiste un Progetto Dunhuang, il cui scopo è quello di
raccogliere tutti i tesori che, nel corso del ventesimo secolo,
archeologi, avventurieri e razziatori hanno sparso per il mondo
– in Inghilterra, Francia, Germania, Russia, Cina, India, Stati
Uniti d'America, Giappone.
Il tempo si appresta a realizzare il sogno del povero monaco
Wang.
Il principale contatto inglese di Aurel Stein, fonte di supporto
economico e logistico, di informazioni e di suggerimenti (oltre
che punto di riferimento per le attività spionistiche) era il
console britannico a Kashgar, Sir George Macartney.
Macartney era per metà cinese, e imparentato per parte di
madre con uno dei leader della rivolta Taiping che aveva
insanguinato la Cina fra il 1850 ed il 1864 (si stima che circa
20 milioni di persone fossero state uccise durante quegli anni).
Visitando il diplomatico britannico, l'archeologo ungherese
ebbe perciò modo di conoscere anche Lady Catherine
Macartney, che mentre il marito gestiva spie e conduceva
maneggi diplomatici, si adoperava per mantenere una piccola
isola di confort britannico in quelle terre selvagge e desolate;
e se Lady Macartney infine ritornò in Scozia nel 1918, la
moglie di Sir Clarmont Skrine, che le succedette come First
Lady di Kashgar proseguì con la tradizione del consolato di
ricca ospitalità per spie e giornalisti (spesso la stessa cosa).
Peter Fleming (parleremo di lui più avanti) descrisse la città
come "Kashgar-les-Bains", impressionato dalla "vita di
campagna" condotta durante il suo soggiorno.
"Dopo i rigori del viaggio, ritrovarsi seduti in comode
poltrone con long drink e riviste illustrate, e con un
grammofono che suona […] è una esperienza celestiale".
[Peter Fleming, News from Tartary, 1936]
Attraverso la struttura informale originariamente gestita dalla
Macartney, il governo britannico fornì il proprio supporto ad
una miscellanea di personaggi piuttosto discutibili che si
presentavano spesso senza preavviso presso il consolato, in
orari poco ortodossi. Tra questi non mancano gli accademici di
secondo piano, "esperti" d'arte (del calibro di Sir Anthony
Blunt – l'esperto d'arte e spia che si scoprì poi essere un
agente doppio al soldo della NKVD), cacciatori di tesori e di
antichità, avventurieri e ciarlatani di ogni genere.
E spie, naturalmente.
A tutti costoro venivano garantiti un letto e un bagno per sette
giorni o poco più; comodità normalmente molto gradite, dopo
molte settimane o i mesi trascorsi nel deserto del Taklamakan.
Alcuni potevano soddisfare la propria necessità per un piatto
mediocre della poco attraente cucina nazionale inglese, e per i
più esigenti, vi era una compensazione sotto forma di flusso
abbondante di London Gin.
E fra gli ospiti della Macartney, sarebbe scortese dimenticare
un intraprendente tedesco dal piglio deciso, e dal nome
francofono e vagamente ridicolo di Albert von Le Coq.
“Tra le più sorprendenti sono le rappresentazioni di
capelli rossi, gli uomini dagli occhi azzurri con le facce di
un pronunciato tipo europeo. Noi colleghiamo queste
persone con la lingua ariana trovato da queste parti in
tanti manoscritti ... Queste persone dai capelli rossi
indossano bretelle alla cintura... una notevole peculiarità
etnologica!”
[Albert von Le Coq, Buried Treasures of Chinese
Turkestan, 1928]
Albert von Le Coq (1860-1930) era un imprenditore tedesco
del settore vinicolo trasformatosi in esploratore e archeologo
dilettante, con una vera passione per l'arte e i manufatti della
Via della Seta.
L'improvvisa malattia del direttore del Dipartimento Indiano
del Museo Etnologico di Berlino, Albert Grünwedel, diede a
von Le Coq, che lavorava gratis come volontario al museo,
l'opportunità di guidare una spedizione sul campo in Asia, e lui
ci prese gusto.
Il suo lavoro fruttò al Museo Etnologico di Berlino una
quantità di preziosi manoscritti e pitture rupestri buddhisti e
manichei – che von Le Coq segò via con grande precisione
dalle pareti di antiche strutture a Bezeklik e Kharakhojo.
Pragmatico e dominato da un fiero senso di superiorità
germanico, von Le Coq giustificò quello che a tutti gli effetti
poteva sembrare un furto, affermando che egli stava in effetti
salvando tali opere da deturpazione e vandalismo.
L'importante è crederci.
Von le Coq era anche convinto di aver trovato tracce di una
antica civiltà ariana nell'area fra il Sinkiang e l'Afghanistan –
testimoniata da ritratti di individui dai capelli rossi e dagli
occhi azzurri, che indossavano calzoncini tirolesi...
Il suo Tesori Sepolti del Turkestan Cinese, pubblicato nel
'28, farcisce la sterile narrazione archeologica e gli inventari
del materiale sottratto (o tratto in salvo, a seconda delle
versioni), con descrizioni spettacolari di orrori innominabili –
tempeste devastanti (il leggendario buran), indigeni infidi,
sciami sterminati di mosche e zanzare, scarafaggi repellenti
“lunghi quanto un pollice, con grandi occhi rossi e formidabili
antenne”, e naturalmente le pulci, “l'animale domestico
d'elezione di tutto il Turkestan e il Tibet”.
Per ironia della sorte, il bombardamento alleato di Berlino
durante la Seconda Guerra Mondiale ha distrutto gran parte
del materiale che Von le Coq aveva portato in salvo dalla
minaccia dei vandali e dei predoni.
Ciò che rimane è esposto al Museo dell'Arte Indiana di
Berlino.
“È fortunato chi, nel pieno della marea della vita, ha
sperimentato una dose dell'ambiente attivo che più
desidera. In questi giorni di fermento e cambiamento
violento, quando i valori di base di oggi sono i vani e
fratturati sogni di domani, c'è molto da dire per una
filosofia che mira a una vita piena fintanto che ne viene
fornita l'opportunità. Ci sono pochi tesori di valore più
durevole che l'esperienza di un modo di vita che è di per
sé del tutto soddisfacente. Questi, dopo tutto, sono i beni
di cui né il destino, né alcuna catastrofe cosmica ci può
privare; niente può alterare la realtà, se per un momento
nell'eternità abbiamo veramente vissuto.”
[Eric Shipton, Upon a Mountain, 1943]
Nel 1937, una missione molto diversa da quelle organizzate da
Hedin, Stein o von Le Coq giunse in Sinkiang con un progetto
quantomeno eccentrico – passare dalla Cina per cartografare
le direttrici di ascensione alla vetta del K2 (anche nota come
La Montagna Assassina o La Montagna Selvaggia).
Il progetto era stato delineato da Eric Shipton, esploratore di
razza, scalatore, fautore dell'approccio spartano
all'esplorazione e con pochissimi grilli per la testa – e che nel
1951 sarebbe divenuto famosissimo per aver fotografato una
serie di orme lasciate sulla neve himalayana dallo yeti (e
successivamente, per i dissapori con Edmund Hilary).
Persona estremamente discreta, il trentenne Shipton aveva
una lunga e solida storia come esploratore e scalatore in
Africa, spesso insieme con Bill Tilman; i due – che
collaborarono per anni ma per educazione preferivano non
chiamarsi per nome – si vantavano di essere in grado di
mettere in piedi una spedizione completa, diretta ovunque, in
circa mezz'ora, prendendo appunti sul retro di una busta o su
di un tovagliolo.
E così fecero in questa occasione – finanziando con pochissimi
fondi una spedizione che comprendeva solo quattro occidentali
ed una manciata di sherpa. Tutti i partecipanti condividevano
il cibo e viaggiavano con un equipaggiamento ridotto al
minimo.
Oltre a Shipman e Tilman, il gruppo includeva due cartografi
del Servizio Geografico Indiano, Michael Spender e John
Auden, entrambi fratelli di famosi poeti.
Quando, dopo alcune settimane di attività, Shipton si rese
conto che l'area che intendeva cartografare era troppo ampia
(circa 2600 chilometri quadrati), nel giro di una serata,
discutendone coi compagni, divise il proprio gruppo in tre
squadre, che nelle settimane successive lavorarono in maniera
indipendente.
Finito il lavoro, un paio di mesi dopo, si riunirono come
concordato, si congratularono reciprocamente per i risultati
ottenuti, e poi si sedettero attorno al fuoco per decidere quale
percorso seguire per il rientro.
La loro spedizione, che costò una frazione rispetto a quelle di
Hedin, Stein o von Le Coq, non incontrò ostacoli soverchianti,
non fu testimone di conflitti epocali, non registrò vittime.
Tornarono a casa, e su un tovagliolo delinearono in mezz'ora i
piani per la missione dell'anno successivo – un'ascesa alla
vetta dell'Everest.
In questa nuova impresa, il “capo” della spedizione sarebbe
stato Tilman (probabilmente decisero lanciando una moneta).
Il Barone Pazzo
“Frusti spesso le persone?”
“Non abbastanza – ma può capitare.”
[dai verbali dell'ultimo interrogatorio del Barone Roman
von Ungern-Sternberg, 1921]
Ma forse Sven Hedin aveva ragione... il crocevia del mondo si
stava facendo un po' troppo pericoloso.
Poco più a nord dell’area in cui Chapman Andrews scavava
fossili, e più o meno negli stessi anni della sua prima
spedizione, cavalcava l’armata del Barone Roman Nikolai
Maximilian von Ungern-Sternberg, generale, mistico, sadico,
ultimo Khan della Mongolia, Dio della Guerra e devoto
buddista sui generis, l'ultimo comandante a conquistare una
nazione con la forza della cavalleria.
Il genere di personaggio che un editor ci casserebbe, se lo
infilassimo in un romanzo.
Troppo poco plausibile.
Troppo sopra le righe.
Troppo pulp.
Roman von Ungern-Sternberg, alias il Barone Pazzo, alias il
Barone Sanguinario (eccetera – abbiamo reso l’idea), un Russo
Bianco sofferente di emicranie continue a causa di una ferita
da pallottola alla testa riportata durante un duello, emerso da
una gioventù sprecata come debosciato per diventare un
volenteroso se non brillante ufficiale di cavalleria, insignito
della Croce di San Giorgio dallo Zar e nominato Dio della
Guerra dal Dalai Lama (che all’epoca non era evidentemente
un vecchietto raggrinzito e pacioso felice di bazzicare Richard
Gere, Bono e Jovanotti) ed egli stesso convinto di essere la
reincarnazione di Gengiz Khan, era a capo di un’armata
brancaleone di russi bianchi e predoni mongoli (ma c’era
anche un italiano fra le sue truppe) che usava come vessillo la
svastika (in cinese lei-wun – rombo di tuono).
La storia di Ungern-Sternberg e della sua guerra personale coi
bolscevichi e – sostanzialmente – con chiunque non gli andasse
a genio (ed erano parecchi), è quanto di più demenziale e
grottesco si possa immaginare.
Le prime imprese giovanili, a ridosso della Rivoluzione del '17,
vedono il Barone al fianco del capitano Grigori Michaelovich
Semenov, un altro poco di buono, un ufficiale sbandato dopo la
rivoluzione riciclatosi come hatman del Transbaikal, a bordo di
un treno blindato.
Erano, questi treni, un prodotto della belle epoque, che aveva
fatto del trasporto su rotaia la punta di diamante della
mobilità – esistevano treni ospedale, treni che offrivano ogni
sorta di intrattenimento, treni che erano mercati viaggianti e,
appunto, treni blindati che solcavano le pianure come
corazzate.
“Il loro stesso nome pare strano,” osservò Churchill, “una
locomotiva camuffata da cavaliere errante, l'agente della
civilizzazione negli abiti della cavalleria.”
Ma la corazzata di terra con la quale Grigori Semenov
manteneva un labile controllo del Transbaikal era più un
vascello pirata che una corazzata – un treno sui fianchi del
quale erano state saldate delle lastre d'acciaio, dotato di un
paio di mortai e qualche mitragliatrice, col quale i due
razziavano i villaggi in cui il treno sostava (previo
bombardamento a distanza per “ammorbidire” i villici), e che
includeva oltre ad un lussuoso alloggio per i due ufficiali, un
vagone-bordello equipaggiato con prostitute, oppio, cocaina e
champagne, e un vagone-tesoreria zeppo di oro e altre
meraviglie...
Ma se l'apprendistato con Semenov fu certamente importante,
è l'attività successiva in proprio che costituisce il nucleo della
leggenda del Barone Pazzo.
Non c’è un momento, nella breve delirante vita di Roman von
Ungern-Sternberg che non sia assolutamente over-the-top.
Non c’è un cattivo in un vecchio pulp, non c’è Bond-villain, non
c’è Grand Moff o Signore dei Sith che possa stare alla pari con
Roman Von Ungern-Sternberg per l’assoluta demenzialità
della sua vena crudele, per la sua follia ed efferatezza, per il
taglio surreale delle sue fissazioni e delle sue manie.
Un luterano convertito al buddhismo tibetano che amava
cavalcare a torso nudo “come un neanderthal”, orribilmente
sfregiato, e probabilmente soggetto a crisi psicotiche derivate
dalla ferita alla testa, perennemente oscillante tra gli stravizi
più colossali e la pratica ascetica…
Chi se lo potrebbe immaginare, uno così?
Chi potrebbe inventarselo?
Eppure Ungern-Sternberg fu probabilmente il modello per il
Conte Zaroff di The Most Dangerous Game e di tutti i russi
pazzi del cinema dagli anni ’20 in poi.
Ungern-Sternberg sogna di aprirsi una strada da Ulan-bator a
Mosca, segnandone il percorso con un uomo crocefisso ogni
cinquecento metri; utilizza come luogotenente di un sadico
deviato che ha il solo incarico di strangolare chi vada
contropelo al comandante.
Il barone ha la sfrontatezza nel farsi dichiarare Dio della
Guerra dal Dalai Lama in persona, e un’ossessione per Gengiz
Khan che scivola nel delirio di reincarnazione.
Sceglie la svastica come vessillo per le proprie armate.
Per suo ordine, i prigionieri vengono inzuppati d’acqua e
lasciati congelare al vento della steppa, come preparazione
per poi farli sbriciolare a colpi di maglio.
Giù giù in una spirale granguignolesca che culmina con la
decisione delle sue truppe di accopparlo, la fuga a cavallo,
febbricitante, la fucilazione da parte delle forze bolsceviche…
Quando le sue incontinenze divennero inaccettabili – intere
città massacrate e rase al suolo, luogotenenti riottosi
strangolati o frustati a morte, deliri sovrannaturali e
frequentazione con sciamani e altri personaggi bizzarri – le
sue truppe si rivoltarono e mitragliarono nottetempo la tenda
nella quale il Barone Pazzo dormiva.
Sopravvissuto all’agguato (segno che la stoffa del Dio della
Guerra dopotutto ce l'aveva), Ungern-Sternberg prima tornò al
galoppo a terrorizzare i propri uomini ammutinati, come uno
spettro vendicatore sputato da un inferno che non lo voleva e
poi, in preda a febbri ed allucinazioni, finì proprio in mano ai
bolscevichi che tanto odiava, che lo interrogarono
registrandone i deliri per i posteri, e poi lo fucilarono senza
troppi complimenti.
Viva la Rivoluzione.
Un piccolo tassello nella storia dell’Eurasia, una nota a pié
pagina nella cronaca della Rivoluzione Russa, eppure la
biografia di questo essere inquietante mostra in pieno come la
storia umana, al di là delle vicende politiche, al di là delle date
e dei nomi, possa essere straordinaria come un romanzo
d’avventura, orripilante come un horror di eccellente livello.
Ci mostra un passato meno banale di quanto non suoni nelle
aule delle nostre scuole, nel quale le azioni di individui malati
possono portare alla tragedia, nelle quali il singolo – nel bene
e nel male – ha contato e conta più di quanto non si potrebbe
pensare.
Viste attraverso il filtro del tempo, le imprese di un criminale
come Roman von Ungern-Sternberg suscitano indignazione ma
anche, appunto, una strana solleticazione della nostra
ghiandola dell’avventura, che pare più atrofizzata ogni giorno
di più.
Oggi quest’uomo incredibile – per quanto profondamente
spiacevole – è oggi quasi completamente dimenticato –
compare nelle memorie del solito Ossendowski, che fu
testimone di parte dei massacri, e nei fumetti di Corto Maltese
di Hugo Pratt (in Corte sconta detta arcana); Pratt non poté
però usare la svastica come bandiera della Divisione Asiatica
di Ungern-Sternberg, per via della solita, inspiegabile censura
tesa a difendere l’anima dei lettori italiani.
Ma parleremo ancora di lui.
Signori della Guerra
Chissà come avrebbe preso la faccenda della reincarnazione di
Gengiz Khan l'emiro di Bukhara, Mohammed Alim Khan, che
di Gengiz diceva di essere diretto discendente (certo, come
no…), e che in quegli stessi anni, appena più a ovest se la
stava giostrando proprio coi bolscevichi tanto cari al barone
Pazzo.
Consolidata più o meno la situazione post-rivoluzionaria in
Russia, Lenin aveva infatti deciso di “infiammare l'oriente”,
portando la rivoluzione in territori nei quali l'ingerenza
occidentale e le rivalità etniche e religiose rendevano già di
per se l'atmosfera quantomai infiammabile.
Mohammed Alim Khan si era inizialmente presentato come
riformatore al proprio popolo, ma aveva capito alla svelta che
troppa modernità è nociva per i poteri autocratici, ed aveva
fatto marcia indietro – ottenendo così proprio l'esacerbazione
del malcontento e la rivolta che aveva temuto di causare con
idee troppo progressiste.
Quando la Rivoluzione arrivò Bukhara, nel 1918, sulle prime
Alim Khan giocò al meglio le proprie carte – quando i
bolscevichi chiesero la sua abdicazione, lui li fece giustiziare
tutti, la delegazione dei russi invasori e svariate centinaia di
loro sostenitori; un atto di tale efferatezza che le truppe russe
fuggirono inorridite.
A questo punto, per andare sul sicuro, Alim Khan contattò
l'agente coloniale inglese a Kashgar, chiedendogli un posto
dove “sistemare” 35 milioni di sterline in oro, argento e gioielli
– il tesoro di famiglia.
Il colonnello Etherton, che si occupava di certe cose a Kashgar
per conto della corona britannica, preferì non correre il
rischio.
Ma nel 1920 i bolscevichi di Bukhara tornarono alla carica, ora
con l'appoggio dell'Armata Rossa comandata da Mikhail
Frunze, e quastavolta Alim Khan fuggì con i propri uomini (ma
senza il tesoro) prima a Dushambé e poi in Afghanistan, strada
facendo dandosi a piccoli atti di brigantaggio, grazie anche al
supporto dei basmachi, sulla carta una popolazione locale
alquanto belligerante, di fatto un movimento indipendentista
islamico e panturchista che mal sopportava i bolscevichi.
Questi “pochi malcontenti e reazionari” misero in campo
qualcosa come 30.00 uomini fra il 1918 ed il 1930 – grazie
anche al supporto fornito dagli inglesi, in particolare nella
figura del tenente di fanteria e naturalista (o viceversa)
Frederik M. Bailey, che ufficialmente si trovava nell'area per
mantenere sotto osservazione Raja Mahendra Pratap Singh,
rivoluzionario anarco-comunista e fondatore, e capo, del
Governo Provvisorio dell'India, con sede a Khabul.
Negli anni a venire, la rivolta dei basmachi avrebbe fornito
ispirazione per molti “Ostern” - film russi che riprendevano la
struttura classica del western in una ambientazione storica
rivoluzionaria o sovietica.
Il Kahn di Bukhara non incontrò né derubò Roy Chapman
Andrews, né ovviamente Ungern-Sternberg (peccato, perché
entrambi odiavano i bolscevichi, ed avendo una specie di
legame di parentela… sarebbe stato l’inizio di una bella
amicizia).
Così come sarebbe stata una gran bella festa – e il genere di
situazione tesa e letale resa popolare dai film Ostern - se
Ungern-Sternberg o Alim Khan avessero incontrato Ismail
Enver, alias Enver Pascià.
La Treccani liquida Enver in poche righe:
“Uomo politico e militare turco (Istambul 1881 - Čeken,
Tagichistan, 1922). Ebbe una parte notevolissima nella
rivoluzione dei Giovani Turchi (1908-09) e, all'entrata in
guerra della Turchia a fianco degli Imperi Centrali,
divenne generale e ministro della Guerra. Esule dopo
l'armistizio, riparò nel Caucaso e prese attiva ma
ambigua parte nella lotta tra le nazionalità turche d'Asia
e i bolscevichi.”
Come se fosse così facile.
Enver Pascià, già ministro della guerra della Turchia, e che
era stato all’onore delle cronache per aver cannoneggiato
Odessa e Sebastopoli durante la Prima Guerra Mondiale, era
stato il fautore dell’eccidio degli Armeni, dei Greci e degli
Assiri durante la Grande Guerra ed aveva proposto di mettere
in campi di concentramento i cittadini delle nazione alleate
residenti in Turchia.
Ora, pochi anni dopo, non essendo più persona grata nel
proprio paese, cercava di scavarsi una nicchia nell’oriente
misterioso, sognando un grande impero turco che si
estendesse da… mah, facciamo da Pechino a Istambul.
Lui e Ungern-Sternberg avrebbero fatto scintille.
In prima battuta, Enver era stato chiamato per mediare la
tregua fra basmachi e russi, ma aveva preferito unirsi ai
basmachi, organizzarli in un esercito professionale e
rigorosamente inquadrato di sedicimila uomini, per poi
proseguire la rivolta contro i russi ed i loro simpatizzanti –
arrivando a prendere il controllo di oltre metà del territorio
che era stato di Mohammad Alim Khan (per cui no... forse non
sarebbe stata una bella amicizia).
Ora agli ordini di Enver Pascià e non più una milizia
vagamente ideologizzata, i basmachi dovevano però vedersela
non solo col loro ex padrone Alim Khan, alquanto infuriato per
lo scippo dei suoi vecchi domini, ma anche contro i russi, gli
inglesi e i cinesi, le truppe ngolok inviate dal Signore della
Guerra di Kansu in appoggio all’esercito tibetano nella sua
azione repressiva contro i musulmani (che in effetti è un po'
generico – ma per i tibetani e gli ngolok qualsiasi musulmano
andava bene), le armate musulmane guidate dal cinese Ma Qi,
e ciò che restava dell’esercito afghano, completo di artiglieria
trainata da buoi ed elefanti, in rotta oltre i passi settentrionali
dopo la disfatta della Guerra Afghana del 1919 contro gli
inglesi.
Era il 1921 – da quel momento in avanti, la situazione politica
e militare di queste regioni si sarebbe fatta solo più
complicata e sanguinosa, fra signori della guerra, cambi di
fronte, mercenariato e azioni sul confine sottile che separa la
guerriglia dal brigantaggio.
Ismail Enver morì nel 1922 poco lontano da Dushambé,
caricando con soli 25 uomini una intera unità dell'Armata
Rossa – il resto delle sue truppe aveva ricevuto la giornata
libera per celebrare il Festival del Sacrificio.
Il Barone Pazzo avrebbe apprezzato.
Un po' più a oriente, le cose non andavano meglio.
La regione del Sinkiang era stata dominata – più o meno di
buon grado – dall'Impero Cinese fin da tempi immemorabili.
Nel 1912, tuttavia, la dinastia Qing era sostituita dalla
Repubblica di Cina. Yuan Dahua, l'ultimo governatore Qing del
Sinkiang, si era dato alla fuga, ed uno dei suoi subordinati, l'ex
mandarino Yang Zengxin aveva preso il controllo della
provincia.
Un fautore delle soluzioni semplici ma non privo di una certa
sofisticazione politica, Yang cominciò con l'eliminare i
rivoluzionari Ili e gli Gelaohui, quindi mise Ma Fuxing al
comando di 2,000 cinesi musulmani e gli diede mano libera
contro i propri rivali; successivamente, pur restando
fermamente monarchico, aderì alla Repubblica Cinese.
L'adesione alla Repubblica comportò un do ut des – il
presidente Yuan Shikai (in procinto di fare marcia indietro su
democrazia e rappresentatività, e autoproclamarsi Grande
Imperatore della Cina) riconobbe Yang come governatore, e
Yang in cambio, nel 1916, invitò tutti i leader delle forze
repubblicane avversi a Yuan ad un sontuoso banchetto, e li
decapitò tutti.
Yang procedette quindi a mettere in guardia i propri sudditi...
beh, ok, i propri concittadini di fede musulmana, nei confronti
dei Bolscevichi Russi, che avevano appena avviato la propria
rivoluzione e si stavano lentamente allargando a oriente...
“gente completamente priva di religione, porterebbero
loro solo dei danni, e sedurrebbero le loro donne.”
Per ironia della sorte, il Grande Imperatore (ex Democratico
Presidente) Yuan Shikai, travolto comunque da rivolte e
sommosse, morì nel 1916, dopo poco più di un anno di regno,
e pochi mesi dopo il grande repulisti operato da Yang.
Perduto l'appoggio del capo del governo, attraverso una
politica machiavellica, un regime fiscale populista e
manipolando i collegi elettorali sulla base della loro
composizione etnica, Yang mantenne il controllo dello Xinjiang
fino al 1928.
Nel 1928, venne assassinato.
Il suo successore Jin Shuren non riuscì a replicare l'astuta
amministrazione del predecessore, ed anzi aggravò la
situazione con un atteggiamento fortemente xenofobo, una
condotta discutibile e una amministrazione sfacciatamente
corrotta. Come risultato, nei primi anni '30 tutto lo Xinjiang
esplose in una serie di rivolte, almeno nominalmente sulla
base di etnia o religione, in cui erano coinvolti gli uighur, i
turchi, e gli hui (musulmani cinesi).
Qui la faccenda si complicò alquanto, poiché Jin non trovò di
meglio che rivolgersi ai russi bianchi per schiacciare la rivolta.
Nella regione di Kashgar, venne dichiarata la Repubblica del
Turkestan Orientale, anche nota come "Uyghuristan".
La nuova Repubblica non ebbe vita lunga – La 36 ª Divisione
del Kuomintang dei Cinesi Musulmani (Esercito Rivoluzionario
Nazionale), al comando del generale Ma Zhongying, detto
“Grande Cavallo”, spazzò via le forze della Repubblica del
Turkestan Orientale nella battaglia di Kashgar (1934), dopo di
che i musulmani cinesi giustiziarono i due emiri della
Repubblica, Abdullah Ahmad e Nur Bughra Jan Bughra.
Geologi & Mistici
Strano, se ci pensate, che Ferdynand Ossendowski, che ebbe
modo di incontrare Ungern-Sternberg, e ne parla nel suo
Bestie, Uomini e Dei (1921), non dica nulla di Alim Khan o di
Enver Pascià…
Certo, considerando che durante le sue peregrinazioni
asiatiche Ossendowski incontrò il Re del Mondo e visitò
l’Agartha, possiamo immaginare avesse altro da fare piuttosto
che tenersi aggiornato sulla cronaca locale.
Il polacco Ferdynand Ossendowski era un geologo, ma non si
trovava nell'area del Transbaikal per delle ricerche
scientifiche, bensì per sfuggire ai bolscevichi – era stato infatti
parte del governo controrivoluzionario siberiano
dell'ammiraglio Kolchack.
Dopo la sconfitta di Kolchak nel 1920, Ossendowski si unì a un
gruppo di polacchi e russi bianchi, cercando di fuggire dalla
Siberia controllata dai comunisti e raggiungere l'India,
attraversando Mongolia, Cina e Tibet.
Ma raggiunta la Mongolia, lui ed i suoi compagni vennero
fermati proprio dalla conquista di quei territori da parte del
barone Roman von Ungern-Sternberg.
Dimostrandosi un grande opportunista (anche se non certo un
esempio di coerenza), Ossendowski si arruolò nell'esercito del
barone come un ufficiale comandante di una delle truppe di
autodifesa, e divenne anche per un breve periodo consulente
politico di Ungern-Sternberg e capo dei suoi servizi segreti
(ruolo riguardo al quale, capirete, mancano ulteriori
informazioni).
Alla fine del 1920, Ossendowski fu inviato con una missione
diplomatica in Giappone e poi negli Stati Uniti, e lui ne
approfittò per non tornare mai più in Mongolia.
Ossendowski aveva scoperto l'unico modo sicuro per dare le
dimissioni dall'entourage del Barone Pazzo senza gravi
conseguenze – da ventimila chilometri di distanza, con un
bell'oceano in mezzo.
Alcuni cospirazionisti ritengono che Ossendowski sia stato una
delle persone che nascosero i favoleggiati tesori del Barone
Sanguinario.
Ma a questo riguardo mancano ulteriori informazioni.
Nei capitoli conclusivi del suo Bestie, Uomini e Dei,
Ossendowski racconta del proprio incontro con il Re del
Mondo che soggiorna nell'Agarttha, o Agarthi, in un delirio
sincretico che deve molto alle teorie di Saint-Yves e di
materiali variamente mutuati dalla Teosofia.
E qui dobbiamo fare una lunga divagazione.
Fu Edward Bolwer-Lytton, mediocre pennivendolo britannico
con un paio di quarti di nobiltà e velleità politiche e poetiche,
a soffiare alla Blavatski l’idea della grande e pura razza
atlanteana che aveva governato il mondo, o fu la Blavatski,
profuga russa riciclatasi come vestale di un culto religioso-
filosofico a sfondo medianico, a leggersi i ponderosi polpettoni
mistico-fantastici di Bolwer-Lytton ed a soffiare qualche idea
valida?
Fa un po’ di chiarezza sull’intera faccenda Lyon Sprague de
Camp, nel suo fondamentale Il Mito di Atlantide – in realtà,
è vera la seconda.
Rampollo della famiglia Bulwer di Knebworth (il posto fuori
Londra dove oggi fanno i concerti rock e dove Tim Burton girò
parte del suo “Batman”), Edward George Earle Lytton Bulwer
(1803-1873), alias Edward Bulwer-Lytton, oggi viene ricordato
soprattutto per aver scritto Gli Ultimi Giorni di Pompei
(1834), più volte adattato per il grande ed il piccolo schermo.
E per aver scritto un romanzo che inizia con la frase "Era una
notte buia e tempestosa".
“Nonostante l’ampia dose di retorica turgida e vuoto
romanticismo delle sue opere, il suo successo
nell’intessere una sorta di bizzarro fascino è innegabile”
[H.P. Lovecraft, 1926]
Certo, essere accusati di perpetrare “prosa turgida” da H.P.
Lovecraft – egli stesso autore, nei suoi momenti peggiori, di
narrative tutt'altro che scorrevoli – depone molto poco a
favore di Edward Bulwer Lytton quale artigiano della pagina
scritta.
Considerato dai più un mediocre narratore storico, e oggetto
di scherno per aver fornito l’incipit più scontato e trito alle
fatiche letterarie di Snoopy, Bulwer-Lytton scrisse pure un
romanzo di fantascienza, intitolato The Coming Race (1871),
nel quale gettava le basi per una utopia razzista e autoritaria
che avrebbe probabilmente influenzato tanto Orwell quanto
Huxley e, molto meno innocentemente, Hitler.
La “razza ventura”, discendente dei fondatori di Atlantide,
attende nascosta sotto la superficie del pianeta il momento per
tornare a dominare il mondo, attualmente popolato da
creature inferiori (voi e me); i nuovi atlanteani possono
contare sul vril, fonte di energia inesauribile, ma sono ancora
troppo sensibili all'attrazione carnale verso forme di vita
inferiori (sempre noi), un peccato che già in passato ne causò
la caduta.
Il romanzo divenne moderatamente popolare in un'epoca in
cui non c'erano la televisione ed i videogiochi, e alcuni
concetti, come il vril, vennero ben presto fagocitati dalla
cultura dominante. L’invenzione di Bulwer-Lytton venne perciò
adottata/adattata da un astuto commerciante per dare il nome
al Bovril, sorta di energetico brodo granulare di manzo (bove
+ vril = bovril) piuttosto in auge presso la lower middle class
(e gli operai di fabbrica del turno di notte in particolare) fra
l’epoca vittoriana ed il secondo conflitto mondiale.
Il romanzo influenzò pure, suo malgrado, Elena Petrovna
Blavatskaya, alias Madame Blavatski, ex sarta da rammendo
riciclatasi a musa ispiratrice di un culto alimentato da spiriti
guida atlanteani molto simili alla “razza ventura” di BulwerLytton, e che ebbe fra i suoi estimatori anche Arthur Conan
Doyle.
Come gli atlanteani di Bulwer-Lytton, anche gli atlanteani
della Blavatski – in realtà discendenti dei Signori della Fiamma
Imperitura calati da Venere che fondarono Agarthi su un’isola
del Mare di Gobi – usano il vril, fonte inesauribile di energia.
La teosofia avrebbe popolarizzato l’idea di un paradiso
terrestre asiatico, posto nelle regioni himalayane, costruito
attorno alla città di Agarthi, e retto dal Re del Mondo, sorta di
benevolo erede del Prete Gianni di un certo folklore cristiano
tardo medievale. Una spolverata darwiniana di massima non ci
stava male (l’incipit de Le Stanze di Dzian, 1888, della
Blavatski si intitola Evoluzione Cosmica), per cui le tribolazioni
del mondo risultavano essere in effetti il frutto dell’empio
accoppiamento fra razze superiori e razze inferiori, un altro
tema preso di peso da The Coming Race.
Le idee non proprio liberal di razza espresse da Bulwer-Lytton,
insieme con il darwinismo mal digerito e gli incubi relativi, e la
teoria che la terra sia cava e lì si trovi l’Agarthi, vennero
abbracciate con entusiasmo dal mondo mistico-esoterico a
cavallo del secolo, una sorta di rigurgito medievale in faccia
all’avanzare prepotente della tecnologia e della scienza,
indotto probabilmente dalla paura e dall’incertezza.
E mentre Wagner avrebbe musicato il Rienzi, polpettone
storico di Edward Bulwer-Lytton, i suoi fan Hitler, Hesse e
Himmler avrebbero fatto della razza ariana venuta dal Tibet e
alimentata a vril qualcosa di più che un brutto scherzo giocato
a creduli scrittori di romanzi polizieschi e romantici assortiti.
E così, complici personaggi improbabili, la teoria che una
sorgente di qualche genere si trovasse nell’Asia centrale
percolò poco alla volta nella cultura occidentale.
Non solo Ossendowski vagò per l'Asia abbagliato dalle teorie e
dalle rivelazioni della Blavatski.
Il geologo polacco avrebbe trovato uno spirito affine in
Alexandra David Neel – che dal nome suona britannica, ma era
in realtà franco-belga e si chiamava Louise Eugenie
Alexandrine Marie David – che negli stessi anni, poco più a
sud, si occupava di Buddhismo, tanto da essere la prima donna
investita del titolo di lama.
Figlia di un membro della Massoneria, attrice e ballerina, con
trascorsi anarchici e una documentata frequentazione dello
spiritismo e del pensiero massonico, membro della Società
Teosofica della Blavatsky, la David-Neel aveva avuto
probabilmente una relazione con il sovrano del Sikkim nel
1911.
Successivamente, aveva trascorso due anni, fra il 1914 ed il
1916, in una caverna sul confine tibetano, praticando l'ascesi
in compagnia di un giovane monaco, Aphur Yongden, di trenta
anni più giovane di lei, che successivamente adottò e divenne
il suo principale compagno di viaggio in Asia.
“Chi viaggia senza incontrare l'altro, non viaggia, si
sposta.”
[Alexandra David-Neel]
Nel 1924, la David-Neel viaggiò verso il Tibet, camuffata da
pellegrino, in compagnia di Ekai Kawaguchi, uno studioso e
monaco buddhista (e probabilmente spia) giapponese che in
passato aveva ottenuto l'accesso all'isolato regno himalayano
spacciandosi per medico itinerante cinese.
I due attraversarono la Cina e raggiunsero il Tibet e la DavidNeel vi trascorse due mesi.
Rientrata in Francia, si separò dal marito (il “Neel” di “DavidNeel”, che come una specie di sposo di guerra l'aveva vista
pochissimo, e si era limitato a finanziare le sue imprese) e
mise su carta le proprie esperienze.
Molti sono i titoli ancora oggi molto popolari usciti dalla penna
della David-Neel - Nel paese dei briganti gentiluomini,
Viaggio di una parigina a Lhasa, Mistici e maghi del
Tibet.
Tornò poi in Tibet nel 1937, e vi trascorse tutto il periodo della
Seconda Guerra Mondiale, mentre la sua segretaria, che aveva
viaggiato con lei, veniva affidata al russo Peter Goullart, che la
riaccompagnò verso la civiltà – o per lo meno per parte del
percorso fino alla civiltà, visto che dopo poche settimane la
povera donna venne affidata alle amorevoli cure dei banditi
Lolo, che comunque l'accompagnarono fino a Chengdou.
Briganti gentiluomini, come si diceva.
Ne avrebbero avute, di cose da dirsi, la David-Neel e
Ossendowski – e certamente anche il teosofo sui generis
Nicolaj Roerich avrebbe avuto delle belle storie da raccontare.
Nicolaj Konstantinovich Roerich, un pittore e mistico russo di
discendenza vichinga influenzato artisticamente da Gauguin e
VanGogh, aveva raggiunto una certa popolarità internazionale
grazie alla sua collaborazione con Borodin per il primo
allestimento de Il Principe Igor, e successivamente con
Stravinsky e Nijinsky per La Sagra di Primavera, avendo
curato le scenografie ed il libretto della messa in scena che nel
1913 causò una rivolta alla premiere a Parigi.
Vicino alle posizioni dei Teosofi, e straordinariamente
opportunista, Roerich era la reincarnazione del Quinto Dalai
Lama – o così sostennero i tibetani dopo averlo esaminato
accuratamente. D'altra parte, sua moglie, Helena Ivanova
Shaposhnikova, discendeva da khan mongoli, o così diceva (e
quindi imparentata con il Khan di Bukhara e, reincarnazione
per reincarnazione, con Ungern-Sternberg).
Roerich, che aveva un dichiarato interesse per l'archeologia,
l'etnografia, il Buddhismo e l'arte e l'architettura dell'antica
Russia, aveva sentito per la prima volta in Russia, prima della
rivoluzione, l'ipotetica predizione del Dalai Lama riguardo ad
una grande nazione buddhista che avrebbe dovuto
comprendere Russia, Mongolia, Cina e Tibet – e lavorò al
compimento di questa grande visione per gran parte della
propria carriera.
Poi venne la rivoluzione.
“Volgarità e pregiudizio, tradimento e promiscuità, la
distorsione delle sacre idee dell'umanità, ecco cos'è il
bolscevismo.”
[Nicolaj Roerich, articolo del 1919]
Trasferitosi in Inghilterra e poi in America dopo l'ascesa al
potere dei Bolscevichi – che detestava, ma coi quali comunque
concludeva affari attraverso una import-export amministrata
da suo figlio – commercialmente scaltro e ideologicamente
incostante, Roerich fondò in America un'accademia d'arte, il
Master Institute of United Arts, uno spazio espositivo, Corona
Mundi, due biblioteche (una delle quali dedicata alla sua
collezione di libri tibetani), la casa editrice Roerich Press ed il
Roerich Museum di New York ove esporre le proprie opere –
ed i suoi dipinti avrebbero influenzato H.P. Lovecraft nelle sue
descrizioni delle architetture aliene di Alle Montagne della
Follia.
Al contempo, Roerich si mise al lavoro per fondere in un'unica
visione gli insegnamenti del Buddha e di Lenin (che non gli era
più così antipatico, evidentemente), sviluppando un progetto
sostanzialmente anti britannico nel settore asiatico.
Nel 1926, giostrando la collaborazione di elementi
apparentemente inconciliabili quali la diplomazia inglese e lo
spionaggio sovietico, Roerich intraprese una improbabile
marcia dall'India alla Mongolia, passando per il Sinkiang – il
Progetto Shambhala.
In questo viaggio attraverso territori inospitali e stravolti dalla
guerra, Roeich era accompagnato dalla moglie – con quattro
grandi bauli zeppi di abiti da sera – e dal figlio Svetoslav – con
due casse di grammatiche sanscrite e tibetane.
Si preannunciava un viaggio interessante.
Tra spie, signori della guerra cinesi e improbabili incontri con
oggetti volanti non identificati, la missione dei Roerich venne
attaccata da una “folla organizzata” in Kashmir, venne
trattenuta per quattro mesi a Khotan (per aver tentato di
asportare oggetti d'arte), ed arrivata ad Urumchi in Sinkiang,
deviò inspiegabilmente verso la Russia, mettendo in allarme
tutti i servizi segreti occidentali (gli inglesi prima di tutto).
L'annuncio della Pravda, secondo il quale Roerich avrebbe
guidato per due anni una spedizione russa in Tibet non
migliorò le cose, rendendo il vocalmente anti-britannico
Roerich ancor più inviso agli inglesi.
Ma per intanto, i russi prestarono cinque automobili alla
spedizione Roerich, affinché la spedizione del Progetto
Shambhala recuperasse il Panchen Lama in Mongolia e lo
accompagnasse in Tibet.
Dopo una sosta negli Altai – raggiunti con la Transiberiana – i
Roerich piegarono nuovamente verso il Tibet, questa volta
passando per il Gobi, avendo preso contatto con il Panchen
Lama (esiliato in Mongolia per divergenze politiche e
dottrinali col Dalai Lama).
Seguirono altre deviazioni impreviste e sospette.
Alla fine gli inglesi, esasperati, misero fine alla spedizione –
Roerich ed i suoi compagni vennero trattenuti per cinque mesi
sul ciglio dell'altopiano di Chang Tang – da settembre a
gennaio, in uno dei luoghi più freddi della terra – non solo la
grande nazione buddhista non si concretizzò, ma Roerich finì
con lo spostarsi su posizioni fortemente critiche nei confronti
del Dalai Lama, passando invece a sostenere invece il Panchen
Lama.
La cosa interessante è che se Ossendowski visitò l’Agartha, la
David Neel incontrò dei lama provenienti da Shambhala, la
mitica atlantide Hymalaiana alla quale – col nome di ShangriLa – James Hilton avrebbe dedicato una decina di anni dopo un
romanzo, Lost Horizon, probabilmente ispirato da uno scritto
di Roerich. Lost Horizon fu anche il primo paperback tascabile
della storia, ed un film del ’37 che inspiegabilmente venne
distribuito in versione integrale solo in Svezia.
Roerich nel frattempo vide un disco volante sul Transhimalaya,
un fatto riguardo al quale grandi discussioni si sono fatte sulle
eventuali connessioni Agartha-Shanbhala-UFO-Terra cava.
Erano tempi davvero interessanti.
"qualcosa di notevole! Eravamo nel nostro campo nel
distretto di Kukunor [Tibet Nordorientale], non lontano
dalla catena di Humboldt… alcuni dei nostri carovanieri
notarono una aquila nera insolitamente grande che
volava sopra di noi. Sette di noi cominciarono a guardare
questo insolito uccello. Nello stesso momento un altro
dei nostri carovanieri osservò: "c'è qualcosa in alto sopra
all'uccello', e gridò per la sorpresa. Tutti vedemmo, nella
direzione nord-sud, qualcosa di grande e lucente che
rifletteva il sole, come un grosso ovale che si spostava a
grande velocità. Incrociando il nostro campo questa cosa
cambiò direzione da sud a sudovest, e la vedemmo come
scomparve nel cielo blu intenso. Avemmo persino il
tempo di prendere i nostri binocoli e vedemmo molto
distintamente la forma ovale con la sua superficie lucida,
un lato del quale era reso brillante dal sole."
[Nicholas Roerich, Altai-Himalaya (1929)]
Stando ai ricercatori moderni, l'oggetto avvistato da Roerich
sarebbe stato in effetti un pallone sonda (classica spiegazione
di così tanti avvistamenti nel corso della storia) lanciato dal
solito Sven Hedin durante la sua missione nel deserto del
Gobi.
Ma per tornare ai geologi, categoria che come capirete mi sta
a cuore – in quegli stessi anni, i bolscevichi in Sinkiang
stavano anche dando la caccia a P.S. Nazaroff, un geologo
russo che, per sfuggire al carcere (stava a Tashkent ed aveva
venduto informazioni ai Francesi ed agli Inglesi), nel 1919
aveva preso la via dei monti, passando in Cina e
frequentemente spacciandosi per indigeno; le probabilità che
riuscissero a beccarlo, naturalmente, erano quantomai scarse,
considerando che l’uomo che gli agenti russi avevano
assoldato per dare la caccia a Nazaroff era… Nazaroff.
E Nazaroff era talmente sfuggente, che non ci rimane neanche
una sua foto.
“Un senso di intenso sollievo, di autentica gioia e libertà,
mi sopraffece quando quest'ultimo avamposto della
Russia Sovietica rimase alle mie spalle, ed il mio carro
continuò sulla sua strada verso gli altipiani di Arpa e
Chatyr Kul. La neve si accumulava in chiazze, ed in esse
vedevo e tracce di pecore selvatiche, volpi e lupi.”
[Paul Nazaroff, Hunted Through Central Asia, 1932]
Mentre Nazaroff si dava da fare per sfuggire ai russi, un altro
geologo, Erik Norin, già della spedizione di Sven Hedin – al
momento bloccata dal generale Ma Zhongying – si diede alla
fuga, questa volta braccato dai cinesi.
Nel tentativo di scrollarsi di dosso gli inseguitori, Norin si unì
perciò ai coniugi Smigunov.
Stepan Ivanovich Smigunov era un ex ufficiale al comando in
una squadra di addetti ai gas venefici durante la prima guerra
mondiale, arrivato nell'area con una banda di militari russi
sbandati; insieme con sua moglie Nina, che pare fosse quella
con i piedi per terra nella coppia, per anni avevano gestito
un'attività commerciale nel Tsaidan – e parlavano entrambi
mongolo, turco e cinese, oltre a conoscere il territorio come le
loro tasche – e insieme puntarono a sud, verso l'India e poi –
trovando la strada sbarrata – piegarono ad est verso le
province cinesi, arrivando infine a Tientsin.
Parleremo ancora di loro.
E Nazaroff non era l'unico a dare la caccia a se stesso per
conto della CHEKA – nel 1920, dalle parti di Tashkent, il
tenente Frederik M. Bailey era stato a libro paga del servizio
segreto sovietico per braccare se stesso.
Bailey, un veterano della Grande Guerra, era stato assegnato
al settore orientale nel 1918, proprio per tenere d'occhio le
attività dei russi, e si ritrovò ben presto a giocare a rimpiattino
con il controspionaggio russo. Naturalista (gli si deve la
scoperta del papavero blu Meconopsis baileyi), linguista ed
avventuriero, Bailey si dimostrò anche un maestro del
travestimento – cambiando identità innumerevoli volte nei due
anni trascorsi a Tashkent, e spacciandosi tra l'altro per un
cuoco austriaco, un ufficiale romeno, un diplomatico della
Latvia e un prigioniero di guerra tedesco.
Bailey, come abbiamo già visto, fu anche un importante
elemento nell'organizzare e fomentare la rivolta dei basmachi.
Finito il servizio, Bailey venne riassegnato alla polizia del
Sikkim.
Poi, nel 1932, Nazaroff riuscì finalmente ad arrivare in
Inghilterra, dove divenne estremamente popolare avendo
scritto un libro sulla propria esperienza – Hunted through
Central Asia.
Nello stesso anno usciva anche On Ancient Central Asian
Tracks: Brief Narrative of Three Expeditions in
Innermost Asia and Northwestern China, di Aurel Stein.
E parlando di libri...
Giornalisti & Avventurieri
“Chi parte per una traversata di due o tremila miglia
potrebbe sperimentare, al momento della partenza, una
varietà emozioni. Potrebbe sentirsi eccitato,
sentimentale, ansioso, privo di preoccupazioni, eroico,
pronto alla festa, picaresco, introspettivo, o
praticamente qualsiasi altra cosa; ma soprattutto deve
sentirsi e si sentirà un idiota.”
[Peter Fleming, News from Tartary, 1936]
Forse non tutti sanno che Ian Fleming, il creatore di James
Bond, aveva un fratello (beh, ne aveva tre, in effetti)… un
fratello, si diceva, di nome Peter Fleming, classe 1907.
Lo abbiamo già citato, ed il nostro cammino è stato costellato
da sue citazioni, ma ora concentriamoci sulla sua ridanciana
figura di snob, giornalista e quant'altro.
Professione, stando a Wikipedia: avventuriero.
Che già è una cosa che mi fa impazzire e pagherei per
potermela far scrivere sulla carta d'identità.
Professione: Avventuriero.
Nel 1933, a Londra, Fleming salì da solo su un treno con pochi
soldi, un paio di lettere di referenze (false), ed una macchina
per scrivere e andò fino in Manciuria, per vedere cosa ci
stessero combinando i giapponesi.
Ne ricavò un libro, One's Company, che rappresenta un
reportage di prima mano del Manchukuo.
Zeppo di osservazioni, notizie, aneddoti.
Certo, alcune informazioni risultano essere inesatte e/o basate
su informazioni tendenziose – come la faccenda che Mao
Zedong sarebbe stato moribondo per un male incurabile nel
1933!
Ma anche questo è parte del fascino del volume.
Tre anni dopo, in compagnia questa volta dell’altrettanto
avventurosa Ella “Kini” Maillart, Fleming coprì le 3500 miglia
da Pechino al Kashmir via terra, attraversando il Sinkiang –
all’epoca anche noto come Tartaria – area nella quale, ci dice
lui, “da quasi un decennio nessun occidentale metteva piede”.
Noi, arrivati ormai a tre quarti della nostra storia, potremmo
avere motivo di dissentire.
Lo scopo dei due viaggiatori era semplicemente quello di
stabilire cosa stesse accadendo in Sinkiang, dove da otto anni
infuriava la guerra civile e dal quale arrivavano in occidente
poche notizie, che cadevano nel generale disinteresse.
Su consiglio del Dr Norin, incontrato a Pechino, arruolarono i
coniugi Smigunov come guide – Stevan Smigunov lavorava
all'epoca come cameriere in un ristorante gestito da russi a
Tientsin, ma sperava di poter tornare nel Tsaidan e riprendere
i propri commerci.
Fleming e la Maillart gli offrirono un'opportunità.
“Per quanto ci sarebbe piaciuto giustificare la nostra
esistenza riportando materiale tale da scatenare un
vespaio di confusione o compiacimento fra i dotti, non
eravamo qualificati per farlo. Non misurammo crani, non
prendemmo quote; non avremmo saputo come farlo.”
[Peter Fleming, News from Tartary, 1936]
Perciò, proprio in quegli anni critici in cui Chapman Andrews
chiudeva le spedizioni a caccia di fossili per tornare in patria e
darsi alla politica, mentre Nazaroff e Stein pubblicavano i
propri libri e Hilton scriveva Lost Horizon, nella stesse zona
dell’Asia Centrale che aveva visto svolgersi tutte le loro
avventure reali o immaginarie, passava adesso il fratello
dell’autore di James Bond, in compagnia di una ragazza
svizzera che era molto più uomo di lui.
“Forse uno dei principali motivi per cui andavamo tanto
daccordo è che Kini dimostrò nei miei confronti un certo
amichevole disprezzo, ed io ho sempre avuto un ben
nascosto rispetto nei suoi confronti; entrambi i
sentimenti nascevano dal fatto che lei fosse una
professionista mentre io sono sempre stato un dilettante.
Il contrasto si appalesava continuamente. Kini riteneva
che il modo migliore di fare una cosa fosse farsela di
persona; io ritenevo che il modo migliore per fare
qualcosa fosse indurre qualcuno a farla al posto mio.”
[Peter Fleming, News from Tartary, 1936]
Ella Maillart – fotografa e cineasta, attrice, giornalista ed
olimpionica di vela nel ’24, era – a mio modesto parere – molto
più interessante di Peter Fleming.
In primis, perché lei, il Turkestan orientale, se l’era già
attraversato, da sola, nel ’32, e poi perché nel ’39 la Maillart si
fece in macchina da Ginevra a Kabul – passando per questi
dintorni - in compagnia della sua amante eroinomane
Annemarie Schwarzenbach.
In effetti, il viaggio avrebbe dovuto proseguire fino al
Turkmenistan (o secondo alcuni fino al Giappone – ma pare
improbabile), ma i problemi della Schwarzenbach – che oltre
alla dipendenza da sostanze tendeva ad una pericolosissima
promiscuità seriale, di solito infatuandosi di personaggi
politicamente molto compromettenti – la spinsero a fermarsi a
Kabul.
E come potete immaginare, la Schwarzenbach a Kabul si trovò
benissimo – anche perché a Kabul si vendeva l’eroina prodotta
in Sinkiang dal trafficante e avventuriero Kent Allard, alias
Lamont Cranston, che diventerà The Shadow ed avrà per radio
la voce di Orson Welles.
E The Shadow è solo uno dei molti eroi della narrativa
popolare ad aver fatto un certo apprendistato nell'area
dell'Himalaya e del Transhimalaya.
Ha trascorsi orientali The Spider, principale concorrente di
The Shadow sulle riviste di Street & Smith, e da queste stesse
regioni proviene il Green Lama, che nel dopoguerra passerà
dalle riviste pulp ai fumetti. Fra le cime Himalayane viene
addestrato dal bieco R'as al Ghul il giovane Bruce Wayne
prima di diventare Batman. Anni prima, da queste parti ha
vagato Sherlock Holmes dopo aver simulato la propria fine alle
cascate di Reichenbach, e qui anni dopo, stando a ciò che Ian
Fleming ci dice in Casinò Royale, James Bond imparerà da un
santone a estroflettere il proprio intestino e lavarlo in acqua
corrente.
Shakerata, non mescolata.
Ma attenzione, non lasciamo che l’avvenente signorina
Maillart e la torbidissima storiaccia della corsa in macchina
Ginevra-Kabul ci distraggano al punto di scivolare nella vera
narrativa pulp, e dimenticarci così che Peter Fleming
conosceva un tale che si chiamava John Blofeld.
Il che non dovrebbe sorprenderci - Ian Fleming lo usò nei suoi
romanzi, chiamando il cattivo agente della Spectre, con gatto
bianco di ordinanza, Ernst Blofeld, proprio come il padre
dell'amico.
John Blofeld, classe 1913, pensava di essere la reincarnazione
di un brahamino, o di un fachiro, o di un mistico cinese…
insomma, per quanto potesse avere delle idee eterodosse,
Blofeld fu un noto orientalista che fece base a Hong Kong
dagli anni ’30, e nel ’37 – sfuggito miracolosamente
all'invasione giapponese – cominciò a vagabondare per la
Cina, arrivando nel ’40 proprio da queste parti, in cerca
dell’antica sapienza taoista sull'illuminazione e l'immortalità.
E poiché ci credeva, la trovò – o così dice lui, nel suo Il
Segreto e il Sublime, il più affascinante (e inaffidabile)
saggio sul taoismo mai scritto.
Nel 1928, intanto, in Francia, Georges-Marie Haardt, un belga
nato a Napoli che era il dirigente commerciale della Citroen
ma si fiscalizzava come “esploratore”, sognava la Via della
Seta.
Perciò nel 1930 Haardt smise di sognare ed organizzò, con
l'appoggio di André Citroen, la Croisière jaune, una traversata
in automobile da Beirut a Pechino, anche nota come Mission
Centre-Asie o Terza Missione G.M. Haardt – Audouin-Dubreuil.
Haardt aveva infatti già utilizzato le auto della propria azienda
e l'appoggio di diverse istituzioni accademiche per una
traversata del Sahara (nel 1923) e per la Croisière noire, una
traversata di 28.000 chilometri in automobile dell'Africa
centrale (1924-1925).
La Crociera Gialla avrebbe seguito la Via della seta da Beirut a
Pechino, passando per il Turkestan, il Sinkiang ed il Gobi, e
prevedeva un itinerario di ritorno che avrebbe toccato Hanoi,
Saigon, Bangkok, Calcutta, Delhi, Quetta, Ispahan, Bagdad e
Damasco.
Come le precedenti spedizioni, la Crociera Gialla avrebbe
dovuto raccogliere informazioni scientifiche ed etnografiche, e
godeva dell'appoggio della National Geographic Society.
Le autorità cinesi non si dimostrarono collaborative, ed anzi
erano probabilmente dell'idea che la spedizione Citroen fosse
in realtà una spedizione militare. Il governo di Chiang Kai-
Shek pose perciò delle strettissime limitazioni, imponendo la
partecipazione di scienziati cinesi alla spedizione, e proibendo
fra l'altro qualsiasi tipo di scavo archeologico.
La spedizione, inoltre, dovette cambiare nome, diventando la
Grande Spedizione cino-francese del 19° Anno.
Nulla, naturalmente, che non fosse già capitato a Sven Hedin.
A causa della situazione politica frizzante, tuttavia, i piani di
Haardt dovevano subire altri cambiamenti - la spedizione
venne divisa in due gruppi per aumentare le possibilità di
successo. Un gruppo (il gruppo Pamir, guidato da Haardt e
Audouin) sarebbe partito da Beirut ed avrebbe tentato di salire
attraverso l'Himalaya, e l'altro (il gruppo Cina, guidato da
Point), partendo da Tien Tsin, sarebbe venuto loro incontro in
Sinkiang, con appuntamento a Aksu il 20 luglio 1931.
Il gruppo Pamir, composto di 24 persone, era dotato di 6
Citroën Kegresse P17s appositamente modificate per far
fronte al freddo estremo e la traversata dell'arco Himalayano
era stata valutata in 45 giorni, tra giugno e luglio, dai
consulenti britanici.
Nessuno dei consulenti alla spedizione tuttavia aveva
considerato le circa dieci tonnellate di materiale che i 24
viaggiatori avevano portato con se (senza contare
l'equipaggiamento scientifico e cinematografico); una nuova
stima rivelò che sarebbero serviti 400 sherpa o 200 muli per
trasportare tutto e restare nei tempi.
Per accelerare la logistica, il gruppo Pamir venne diviso in tre
squadre, ciascuna delle quali sarebbe salita al colle di Gilgit
con l'appoggio di tutti gli sherpa e muli disponibili, che poi
sarebbero tornati indietro a recuperare la squadra successiva.
Ciascuna squadra avrebbe dovuto impiegare 8 giorni per
l'ascesa a Gilgit.
Le tribù locali sostenevano che nessun veicolo avrebbe potuto
attraversare il passo, e contrariamente alle previsioni di
Haardt, risultò ben presto che le auto appositamente
modificate non potevano marciare a più di un chilometro
all'ora sulle “strade” dirette al passo di Gilgit, essendo
necessario farle precedere da uomini dotati di sonde per
saggiare il fondo innevato.
Dopo molte vicissitudini, politiche e non, il gruppo di Haardt
raggiunse Aksu l'8 ottobre 1931.
Il gruppo cinese, che era stato raggiunto da Padre Teilhard de
Chardin, aveva aspettato al punto di rendezvous solo pochi
giorni – anche questa squadra aveva avuto alcune avventure
interessanti, e per tre mesi era stata ostaggio di un signore
della guerra locale.
I due gruppi proseguirono poi per Pechino, arrivando il 12
febbraio 1932.
Esausto per l'impresa e per la micidiale traversata del passo di
Gilgit, Haardt non riuscì a tornare in Francia: colto da una
“influenza” (in realtà una polmonite con complicazioni) mentre
si trovava a Hong Kong, morì il 15 marzo 1932.
Nello stesso anno in cui Blofeld arrivava nel Sinkiang, le onde
dell'Oceano Pacifico inghiottivano Richard Halliburton mentre
tentava di attraversare l'oceano con una giunca cinese.
Richard Halliburton, classe 1900.
L’uomo che aveva attraversato le Alpi con gli elefanti.
L’uomo che si era calato in un cenote della morte maya a
Chichen Itza.
Che aveva nuotato dall’Atlantico al Pacifico lungo il Canale di
Panama, pagando il pedaggio come piccolo natante, e che
aveva attraversato a nuoto l’Ellesponto come Lord Byron.
L’uomo che aveva voluto ripercorrere la rotta di Ulisse, e che
era vissuto da naufrago, come Robinson Crusoe, sull’isola di
Tobago.
Che si era introdotto di notte nel Taj Mahal per vedere come
fosse l’alba vista dalla sommità della cupola.
L’uomo che per primo aveva scalato il monte Fuji in pieno
inverno e il primo a scattare una foto aerea dell’Everest.
L’uomo che ricostruì l’ultima spedizione di Hernan Cortez.
Fu Dick Halliburton a mettere in giro la voce – fasulla – che la
Grande Muraglia cinese fosse visibile anche dalla luna.
“Ad un mese da oggi, mi vedo alla deriva con un diploma
come vela e un sacco di facciatosta come remi.”
[Richard Halliburton alla vigilia del diploma]
Basso, mingherlino, quasi certamente omosessuale, con una
storia di malattie trattate in maniera traumatica dalla clinica
del Dr Kellog (quello dei cereali, vero scienziato pazzo che
usava enemi, yogurt ed elettroshock per curare qualsiasi
cosa), il giovane Dick scoprì da studente che si poteva
guadagnare un buon gruzzolo scrivendo di viaggi, e tenendo
conferenze pubbliche.
Amante dell’avventura, non gli parve vero che qualcuno fosse
disposto a pagare perché lui si divertisse.
Nel ’31, sulla base di un accordo verbale, organizzò un giro
del mondo in biplano. La storia è raccontata in The Flying
Carpet – da Los Angeles a Damasco, e poi...
“Nel suo biplano Stearman con motori Wright, Il Tappeto
Volante, pilotato da un certo Moye Stephens, Halliburton
ha viaggiato senza fretta da Londra a Manila. Lungo la
strada, si è fermato a Timbuctoo, ha passato due mesi
con la Legione Straniera in Marocco, ha visitato Petra,
Bagdad, il Taj Mahal in India, afferma di aver scattato la
prima foto aerea del Monte Everest (Halliburton ha
pubblicato un'immagine sfocata che sostiene di aver
scattato a 18,000 piedi), ha trascorso qualche ora
piacevole coi cacciatori di teste dayaki.
[The Times, lunedì 14 novembre 1932]
La Via della Seta, l’India, l’Everest, Sarawak.
Sarawak!
E poi via, Manila, San Francisco…
Un anno di avventure.
Se è vero che viveva le proprie avventure per danaro – a fronte
di contratti con sponsor e con case editrici, con riviste e
stazioni radiofoniche – basta leggersi qualche pagina del suo
primo libro The Royal Road to Romance, del 1929 (100.000
copie vendute), per rendersi conto che ci sarebbe andato, a
Timbuktu, a Petra, alla Cajenna, nel Borneo e sul Mar della
Cina, anche gratis.
Anche a piedi.
Ci sarebbero stati molti altri libri di successo, articoli,
interviste, ed una trasmissione radiofonica.
Il classico giovanotto americano di belle speranze con una
gran voglia di vedere il mondo, Halliburton fu nel divulgare le
proprie avventure molto meno provinciale e burino di tanti
suoi connazionali – prima e dopo.
I suoi libri sono divertenti, ben scritti e catturano quella strana
atmosfera fra le due guerre, un periodo in cui pareva che tutto
fosse possibile.
Dick Halliburton diede notizie per l’ultima volta il 24 marzo
1939, nel bel mezzo di un tifone a circa 2000 miglia dalle
Midway.
La sua ultima trasmissione radio diceva:
“Vento forte da sud, tempesta, murata sul lato
sottovento sommersa, brande bagnate, pane duro, carne
in scatola. Ci divertiamo da pazzi. Vorrei che foste qui, al
posto mio.”
Il Sonno della Ragione
Abbiamo scordato qualcosa?
Roy Chapman Andrews concluse la propria carriera come
direttore del museo nel quale aveva iniziato lavando i
pavimenti, strenuo sostenitore di una politica di destra e di
opinioni pseudodarwiniane sulla razza che sono troppo
imbarazzanti per essere raccontate in questa sede.
Ironico che, nel 1938, mentre Andrews faceva salotto nella sua
casa cineseggiante, un’altra spedizione si stesse
incamminando verso le vette dell’Himalaya ed i deserti oltre
esse.
Era guidata dal naturalista Ernst Schafer e dall’antropologo
Bruno Beger.
Anch’essi inalberavano la svastika come vessillo, proprio come
l’esercito di straccioni di Ungern-Sternberg, propugnando idee
sulla razza non lontane da quelle dell’ormai “sistemato”
Andrews e mutuate dal polpettone mistico-sensazionalistico di
Elena Blavatski, e la loro missione non avrebbe sorpreso lo
stesso Ferdinand Ossendowski: il loro scopo era trovare
l’Agarthi, e le prove della provenienza Tibetana della Razza
Suprema destinata a dominare il mondo.
Anziché essere finanziata da capitalisti in vena di follie
filantropiche e ricchi playboy (personaggi come Lamont
Cranston o Bruce Wayne), questa sinistra spedizione era
sponsorizzata dal Reichsfurher Heinrich Himmler in persona,
ed era costituita esclusivamente da personale delle SS.
Il genere di gente ed il genere di missione più adatti ad una
storia di Indiana Jones che al mondo reale.
Ma il mondo reale stava per piombare nel più surreale degli
incubi.
Nel mondo reale si svolse quindi la spedizione Beger-Schafer,
funestata da deliri di onnipotenza, tradimenti, egocentrismo,
crudeltà, un pellegrinaggio empio e omicida iniziato a Berlino,
passando per il Tetto del Mondo per poi concludersi ad
Auschwitz, dove Bruno Beger svolse gli ultimi esperimenti del
suo lavoro sulla razza.
La Spedizione Beger-Schafer del ’38-’39, voluta da Himmler,
sponsorizzata dalle SS, era stata organizzata dalla Ahnenerbe
(già Istituto Sven Hedin) e doveva concentrarsi sull’area
himalayana a sud del Sinkiang, con la speranza di ritrovare
tracce dell’originario ceppo ariano dal quale discendevano
tutti gli übermensch del Reich… o qualcosa del genere.
L'ossessione dei nazisti, e di Himmler in particolare per i
misteri dell'Oriente e per la possibile presenza di una culla
della razza ariana fra le vette del Tetto del Mondo, ha
alimentato per anni la letteratura e la cinematografia
dell'avventura; alimentò pure le carriere di Ernst Schafer (già
collaboratore di Sven Hedin) e Bruno Beger, due giovani e
rampanti scienziati tedeschi ben felici di ipotecare la propria
anima e la propria integrità morale per l'opportunità di farsi
finanziare dal Partito una colossale spedizione in Tibet.
Il deserto lascia il posto alle montagne, in quest'ultimo
capitolo, ed il Tibet diventa un territorio di conquista
ideologica, il laboratorio in cui dare prova e legittimità a
argomenti di fede – la popolazione viene misurata, fotografata,
ritratta a matita, soggetta a prelievi di sangue e studi
antropometrici; qualcuno ci lascia anche la pelle, o passa un
bruttissimo quarto d'ora mentre Schafer gli preleva un calco
di gesso del volto senza aver praticato i fori per permettere la
respirazione.
L'umanità trattata con la stessa indifferenza che un
vivisezionista riserva ad un porcellino d'india.
Partendo dalle radici culturali e dalle teorie care ai nazisti,
passando per il sottobosco mistico-surreale che rende il
nazismo quasi una religione, la progressiva degenerazione
dell'esperimento e degli sperimentatori, tutti membri della
elité delle SS, gli studi antropologici tibetani di Beger e
Schafer sono il preludio alle più oscure sperimentazioni
svoltesi nei lager, dove lo stesso Beger presterà servizio.
Dopo la guerra, che Schafer trascorse nello staff del
Reichsführer Himmler, lo scienziato cercò di cavarsela coi suoi
nuovi amici americani, sostenendo che il suo arruolamento
nelle SS era stato imposto nel '36 come unica scelta per poter
proseguire la propria carriera accademica.
Peccato che si fosse arruolato come volontario nel 1933.
Di sicuro, all'ombra di Himmler, Schafer fece carriera in
ambito accademico senza troppa difficoltà.
Resta memorabile il lapidario profilo di Schafer tracciato da
sir Basil Gould, che lo incontrò nel 1938:
“interessante, forte, volatile, erudito, vanitoso al limite
dell'infantilismo, irriguardoso delle convenzioni sociali o
dei sentimenti altrui, e prima di tutto e soprattutto un
nazista e un politicante.”
Gould liquidò poi le frequenti uscite isteriche del tedesco come
l'effetto di aver trascorso troppo tempo a quota elevata in
carenza d'ossigeno.
I fautori della cospirazione globale osservano che la
spedizione Schafer tornò dal Tibet portando con se i 108
volumi del Kangshur, o Kang Yur, o Kangyur, o forse Kang
Jur, l'unica copia completa di un testo buddhista che secondo
la tradizione dovrebbe corrispondere alla trascrizione delle
parole esatte del Buddha stesso.
I fautori della cospirazione, naturalmente, sostengono che il
Kang Yur contenga piuttosto vaste descrizioni di tecnologia
preatlanteana e una summa della matematica simbolica
interdimensionale tibetana ispirata alle oscure pratiche della
religione Bonpo – tutto materiale strettamente connesso, è
ovvio, alla Shambhala della David-Neel e Roerich, ed
all'Agarthi dei teosofi e di Ossendowski.
Del Kang Yur esistono oggi 12 copie sparse fra varie istituzioni
asiatiche – oltre a quelle trovate a Dunhuang da Aurel Stein (e
così si chiude un altro cerchio) e conservate al Victoria &
Albert Museum, ma i tibetani pare vogliano comunque indietro
la copia sottratta da Schafer.
Se solo si riuscisse a trovarla.
Non è questa la sede per discutere come la spedizione Schafer
sia un esempio da manuale della prostituzione della scienza a
fini ideologici o meramente carrieristici.
I tedeschi fecero le loro analisi, presero le loro misure
antropometriche, fecero dei calchi facciali, rubarono un po' di
libri e poi se ne tornarono a casa.
Girarono anche un film, Secret Tibet, che rimane una preziosa
testimonianza della società e cultura tibetane prima
dell'invasione cinese – con qualche svastika e qualche saluto
nazista come extra.
Oltre al Kangshur, con il suo carico di ipotetici segreti
preatlanteani, Ernst Schafer portò anche un abito da lama per
Hitler – e se riuscite a immaginarvi Hitler vestito da lama che
sfoglia quelli che potrebbero essere manuali di aspirapolvere
atlanteani…
La storia di Schafer e Beger prosegue oltre i limiti di questo
articolo, e vede i due scienziati intenti a prendersi cura dei
soggetti “esotici” nei lager durante la guerra – Schafer ne
prendeva il calco facciale, poi li mandava nelle camere a gas,
in modo che Beger potesse studiare i crani con proprio
comodo.
Schafer convinse anche Himmler a ristrutturare lo Schloss
Mittersill, presso Salisburgo, dove insieme con i suoi colleghi
del Soderkommando K poter svolgere esperimenti
innominabili su prigionieri “esotici”, al fine di scoprire i
caratteri dei diversi popoli “inferiori” che erano parte del
mosaico etnografico dell'Unione Sovietica.
La semplice follia ruspante del Barone Ungen-Sternberg
sembra al confronto una sinistra forma di eccentricità.
Le SS finanziarono naturalmente anche una spedizione al
Nangat Parbat – ma quella storia (incredibilmente nazi-free)
l’avete vista in Sette Anni in Tibet.
Non c'è da sorprendersi se Heinrich Herrer, nel suo volume di
memorie Sette anni nel Tibet, desideroso di ingraziarsi il
pubblico americano, si dimentichi di menzionare il fatto di
aver aderito alle SS fin dall'adolescenza.
È molto più strano che Herrer, il quale pure trascorse sette
anni in Tibet (…) non ci parli mai del Ministro dell’Innovazione
del governo tibetano, quello strano avventuriero americano
che si paragonò a Kim, e che aveva avuto dal Panchen Lama
l’incarico di convertire tutto l’oro del Tibet in hi-tech (beh, per
l’epoca) in modo da rendere il Tibet la più moderna nazione
dell’Asia.
Ma non è solo Herrer che se ne scorda.
Nessuno, a quanto pare, ricorda Gordon Enders.
Era il 1936.
In vista del suo rientro dall'esilio in Mongolia e in Cina,
Thubten Choekyi Nyima, figlio di un boscaiolo e Nono Panchen
Lama del Tibet, aveva tutte le intenzioni di fare del proprio
paese una potenza tecnologica – e magari nel contempo
limitare i poteri del suo rivale politico, il Dalai Lama, che negli
ultimi anni aveva attinto ai fondi del Panchen Lama per
finanziare le proprie campagne militari.
L'uomo giusto al posto giusto per soddisfare le esigenze del
Panchen Lama era Gordon B. Enders, un americano cresciuto
in India, che si paragonava a Kim nelle proprie memorie (che
paiono in effetti una sceneggiatura hollywoodiana in attesa di
essere filmata), e che si ritrovò a rivestire la carica di
responsabile dell'innovazione tecnologica per il governo
tibetano.
Nato in Iowa, figlio di un insegnante che aveva lavorato sul
confine fra India e Tibet, Enders sarebbe poi diventato attaché
militare all'ambasciata americana di Kabul, dove avrebbe
creato il primo nucleo dell'aviazione afghana; aveva incontrato
il Panchen Lama a casa di Chiang Kai-shiek.
Se dobbiamo credere alle memorie di Enders, lui ed il panchen
lama divennero grandi amici, e l'americano viaggiò
estesamente con il monaco tibetano. Fu durante questa
frequentazione che il Panchen Lama esternò l'intenzione di
rammodernare il proprio paese, per farne non solo una
potenza tecnologica, ma anche il crocevia dei commerci e
delle comunicazioni in Asia.
Il piano di Enders, pienamente approvato dal suo sponsor, era
quello di creare un ponte aereo fra Tibet e Cina, col quale
trasportare in banche cinesi l'oro tibetano che, convertito in
valuta, sarebbe stato speso sui mercati americani per
l'acquisto di “radio, automobili, impianti idroelettrici e altre
invenzioni”.
"All'insaputa della maggior parte del mondo […] nei
monasteri del Tibet è state raccolta polvere d'oro per
almeno sei o sette secoli. Questo oro appartiene al
potere dominante, perché la Chiesa e il governo sono la
stessa cosa in Tibet. Quanto oro sia stato accumulato, è
difficile da dire, ma è stato stimato essere circa
100.000.000 di dollari."
[Gordon B. Enders, intervistato da Modern Mechanix,
Novembre 1936]
L'intera faccenda rimane piuttosto misteriosa.
Acquistati gli aerei – bimotori metallici modificati per poter
restare in volo fino a 20 ore – e messo insieme un team di
collaboratori, Enders cominciò nell'inverno del 1936 a
trasportare l'oro tibetano in Cina (al terminale Lufthansa di
Lanchowfu, costruito grazie ai buoni auspici di Sven Hedin) al
ritmo di 3 milioni di dollari in polvere e pepite per ciascuna
spedizione.
E parte di quel denaro venne certamente spesa in hardware...
“La prima spedizione commerciale di radio e automobili
mai entrata nel Paese Proibito ha recentemente
accompagnato il Panchen Lama nel suo ingresso
trionfale in Tibet, con una grande carovana di sacerdoti,
pellegrini, e animali da soma. Le automobili e le radio
sono stati smontati e caricati sulle spalle degli animali.
Sono stati acquistati per il Panchen Lama da Enders.”
[Modern Mechanix, Novembre 1936]
E poi?
Di sicuro, il redattore di Modern Mechanix si scorda di dirci
che il “rientro trionfale” del Panchen Lama in Tibet fu solo una
visita diplomatica, un tentativo (fallito) di mettere un piede
nella porta del Regno Proibito; allo stesso modo, la rivista
tralascia di indicare che il piano per la modernizzazione – sei
pagine dattiloscritte di Gordon Enders – venne presentato da
Enders stesso al Lama a Shanghai, e ricevette da questi una
approvazione formale.
Il progetto forse non andò mai oltre la fase progettuale, o
forse si chiuse dopo un paio di voli – ma anche su questo
punto, le memorie di Gordon B. Enders sono vaghe e
tendenziose.
L'oro non è l'unica vera ricchezza in Tibet. I monasteri
hanno recuperato notevoli collezioni di pietre semipreziose come lapislazzuli, zaffiri, granati, acquamarine,
topazi e pietre di luna.
[ibid.]
Nei libri di storia, nei documentari e nelle raccolte di
materiale relativo al Tetto del Mondo, dell'intraprendente
Gordon Enders non rimane traccia.
Si ritrova solo, scavando a fondo, questa osservazione del
Colonnello “Wild Bill” Donovan, capo dell'OSS, in una delle
sue comunicazioni private, che forse getta una luce diversa
sull'intera faccenda:
“Il Maggiore Gordon Enders, addetto militare a Kabul e
unico rappresentante dell'intelligence degli Stati Uniti, è
un pallone gonfiato. E come tale è ben noto in Cina.
Pensa o cerca di far pensare, che lui abbia tutto sotto
controllo, tutti mangino dalla sua mano. In effetti, penso
che tutti, dai britannici ai giapponesi, lo stiano
prendendo in giro. “
Il Panchen Lama morì nel 1937, ancora in esilio in Cina.
Una lettera autografa del suo successore, il decimo Panchen
Lama sconfessò ogni affermazione fatta da Gordon Enders nei
suoi libri e su Modern Mechanix.
Dell'oro tibetano – così come del tesoro di Ungern-Sternberg e
di quello del Kahn di Bukhara - non si seppe mai più nulla.
Ringraziamenti
Questa collezione di eccentrici, avventurieri e viaggiatori
assortiti nasce da una lunga ossessione per la Via della Seta,
liberalmente innaffiata da una parallela passione per la
narrativa avventurosa ed i viaggi straordinari.
Non posso quindi che ringraziare tutti coloro che nel corso
degli anni hanno incoraggiato, alimentato o per lo meno
tollerato tali passioni.
Siete in troppi per citarvi tutti per nome.
Un ringraziamento speciale agli Orientalisti Anonimi, alla
Ciurma del Giovedì, alla comunità lovecraftiana internazionale
ed ai surfisti tutti.
Questo ebook esiste grazie a Matteo Poropat che ha curato la
conversione. Grazie!
Addendum per la seconda edizione:
Un grazie a tutti i lettori che hanno acquistato una copia della
prima edizione ed hanno inviato il loro feedback.
E un grazie particolare a Mauro Ghibaudo e ad Angelo
Benuzzi.
Questa seconda edizione esiste grazie a loro.
L'Autore
Davide Mana (Torino, 1967)
Tecnico di rilevamento ambientale e geologo (Torino, Londra,
Bonn), specializzato in micropaleontologia applicata ed analisi
statistica di dati ambientali, ha svolto attività didattica, di
ricerca e di divulgazione, opera come freelance nel settore
privato, ed ha collaborato con le università di Torino, Trieste,
Parma, Cagliari e Urbino; presso quest’ultima sta lavorando al
proprio PhD sull’adozione di fonti energetiche alternative a
piccola scala nelle aree rurali italiane. Si interessa da sempre
di scienza e dell’applicazione delle nuove tecnologie alla
didattica ed alle scienze naturali, ed è un fautore
dell’approccio interdisciplinare e sistemico alla conoscenza.
Vive a Castelnuovo Belbo (Asti).
Nel tempo libero scrive, scatta fotografie, cucina, si interessa
di orientalismo, mantiene un certo numero di blog in italiano
ed inglese.
Talvolta riesce anche a dormire.
Bibliografia
[i volumi indicati con asterisco sono vivamente raccomandati]
•
Judy Bonavia, The Silk Road – Xi'an to Kashgar, 2004
•
Luce Boulnois, Silk Road, 2003 *
•
Jerry Brotton, The Renaissance Bazaar – from the Silk
Road to Michelangelo, 2002
•
Mick Conefrey, The Adventurer's Handbook, 2005
•
Alexandra David-Neel, Mistici e Maghi del Tibet, 1965
•
Lyon Sprague de Camp, Lost Continents: The Atlantis
Theme in History, Science, and Literature, 1954 *
•
Gordon B. Enders, Nowhere Else In the World , 1935
•
Gordon B. Enders, Foreign Devil: An American Kim In
Modern Asia, 1942.
•
Brian Fagan, From Stonehenge to Samarkand: An
Anthology of Archaeological Travel Writing, 2006
•
Peter Fleming, News from Tartary, 2001
•
Peter Fleming, One's Company
•
René Guenon, Il Re del Mondo, s.d.
•
Richard Haliburton, The Royal Road to Romance, 1925
•
Richard Haliburton, The Flying Carpet, 1932
•
Richard Haliburton - Richard Halliburton's Second Book
of Marvels: the Orient, 1938
•
Christopher Hale, Himmler's Crusade: The Nazi
Expedition to Find the Origins of the Aryan Race, 2003 *
•
Sven Anders Hedin, My Life as an Explorer, 2003
•
Sven Anders Hedin, The Silk Road: Ten Thousand Miles
through Central Asia, 2009
•
Peter Hopkirk, Foreign Devils on the Silk Road: The
Search for the Lost Cities and Treasures of Chinese
Central Asia, 1980 *
•
Peter Hopkirk, Trespassers on the Roof of the World:
The Secret Exploration of Tibet, 1982
•
Peter Hopkirk, Setting the East Ablaze: Lenin's Dream of
an Empire in Asia, 1984
•
Peter Hopkirk, The Great Game: the Struggle for Empire
in Central Asia, 1990
•
Peter Hopkirk, On Secret Service East of
Constantinople: The Great Game and the Great War,
1994
•
Karl E. Meyer & Shareen Blair Brysac, Tournament of
Shadows, 1999
•
Nick Middleton, Baron Von Ungern-Sternberg: The
Bloody Baron of Mongolia, 2001
•
Paul Nazaroff, Hunted through Central Asia, 1993
•
Bijar Omrani, Asia Overland: tales of travel on the TransSiberian & Silk Road, 2010 *
•
James Palmer, The Bloody Red Baron, 2008 *
•
Edward H. Schafer, The Golden Peaches of Samarkand:
A Study of T'ang Exotics, 1985 *
•
Aurel Stein, Sand-Buried Ruins of Khotan: Personal
narrative of a journey of archaeological and
geographical exploration in Chinese Turkestan, 2004
•
Aurel Stein, On Alexander's Track to the Indus: Personal
Narrative of Explorations on the Northwest Frontier of
India, 2004
•
Susan Whitfield, Life along the Silk Riad, 1999 *
•
Susan Whitfield, Aurel Stein on the Silk Road , 2004
•
Paul Wilson, The Silk Roads – a Route & Planning Guide,
2007
Scarica

anche in formato