MERCOLEDÌ DELLA TERZA SETTIMANA DI QUARESIMA
Lettura del libro della Genesi (21,7-21)
La promessa della discendenza costituisce il tema dominante e unificante dei
racconti del ciclo di Abramo: ad esso è subordinato il tema della terra. Preparato da un
lungo arco narrativo, il compimento della promessa è narrato invece in pochi versetti. Il
narratore riprende alcune espressioni dai racconti precedenti (cf Gen 17 e 18,1-5), ma
soprattutto sottolinea che la nascita di Isacco non è l’attuazione di un progetto che dipende
dalla strategia umana, ma il compimento di una parola di JHWH (21,1.2.4):
1JHWH
visitò Sara, come aveva detto, e fece a Sara come aveva promesso. 2Sara
concepì e partorì ad Abramo un figlio nella vecchiaia, nel tempo che Dio aveva
fissato. 3Abramo chiamò Isacco il figlio che gli era nato, che Sara gli aveva partorito.
4Abramo
circoncise suo figlio Isacco quando questi ebbe otto giorni, come Dio gli
aveva comandato. 5Abramo aveva cento anni quando gli nacque il figlio Isacco.
6Allora
Sara disse: «Motivo di lieto riso mi ha dato Dio: chiunque lo saprà riderà
lietamente di me!». 7Poi disse: «Chi avrebbe mai detto ad Abramo che Sara avrebbe
allattato figli? Eppure gli ho partorito un figlio nella sua vecchiaia!».
Il compimento della promessa è sottolineato con particolare intensità dal narratore:
wjhwh pāqaḏ [visitò] ’eṯ-śārāh ka’ăšer ’āmār [come aveva detto] wajja‘aś [fece] jhwh
leśārāh ka’ăšer dibbēr [come aveva promesso]. La nascita di Isacco avviene nel tempo
fissato da Dio [mô‘ēḏ ] che realizza il suo progetto superando ogni impossibilità umana: la
menzione dell’età di Abramo al v.5 e le parole di Sara al v.7 ci mostrano che il narratore dà
importanza a questo messaggio. Al centro del racconto sta l’esecuzione del
comandamento della circoncisione (cf 17,9-14).
Il tema del “sorriso” [ṣāḥaq ], già presente nei racconti precedenti (cf 17,17 e 18,12),
trova nelle parole pronunciate da Sara due possibili interpretazioni diverse (v.6). Al di là
dell’etimologia del nome jiṣḥāq [Isacco], collegata al verbo “sorridere”, e al di là del dubbio
che il sorriso poteva esprimere nei capitoli precedenti, ora Sara afferma che con la nascita
di Isacco Dio le ha dato un motivo di riso gioioso e che chiunque verrà a conoscere questo
evento sorriderà di lei. Non si tratta di un riso di ironica derisione, ma di un rallegrarsi con
lei, di un sorridere con lei colmi di stupore e di gioia.
“Il riso è un modo tipicamente biblico di accogliere una novità inspiegabile. La novità
è mero dono, immotivato, ingiustificato. La sterilità ora è divenuta ridicola. Ora se ne può
ridere perché c’è «gioia piena» (Gv 16,24). Non sorprende che la nascita, e in particolare
quella di Isacco, nella Bibbia sia uno dei principali segni della fedeltà di Dio. È proprio
grazie alla straordinarietà e impossibilità (cf 18,14) di Isacco, che le fortune di Israele
vengono restaurate. Ha dunque ragione Gunkel a collegare questo passo al Salmo 126
(vv.1-3):
Quando il Signore ristabilì la sorte di Sion,
ci sembrava di sognare.
2 Allora
la nostra bocca si riempì di sorriso,
la nostra lingua di gioia.
Allora si diceva tra le genti:
«Il Signore ha fatto grandi cose per loro».
3 Grandi
cose ha fatto il Signore per noi:
eravamo pieni di gioia.
«Restaurare le fortune» è la metafora con cui Israele allude alla fine dell’esilio (Ger
29,14; 30,3; 33,7.11.26). Isacco è la fine d’ogni esilio nel regno della necessità” 1 .
Con il v.7 inizia la lettura liturgica che prosegue con il racconto della cacciata di
Agar, un episodio che va posto in parallelo con quello della sua fuga (cf Gen 16,1-16).
La struttura del racconto esprime chiaramente l’intenzione del narratore che vuole
contrapporre alla decisione di Abramo, istigato da Sara, l’intervento di Dio:
A la gelosia di Sara in occasione del banchetto di svezzamento di Isacco (vv.8-11);
A’ Dio convince Abramo a prendere le decisione (vv-12-13);
B l’allontanamento di Agar (vv.14-16);
B’ l’intervento di Dio in soccorso di Agar (vv.17-19);
C conclusione: uno sguardo al futuro di Ismaele (vv.20-21).
Isacco è il figlio della promessa, ma Ismaele, anche se figlio di Agar, una schiava di
Sara, è legalmente il primogenito di Abramo e quindi ha dei diritti. In occasione del
banchetto che festeggia lo svezzamento di Isacco, esplode la gelosia di Sara. Secondo il
1
BRUEGGEMANN W., Genesi, Commentari 9, Claudiana, Torino 2002 (titolo originale: Genesis. Interpretation,
Knox, Atlanta 1982), 220.
costume antico, il bambino era allattato per circa tre anni: lo svezzamento costituiva un rito
di passaggio ad una nuova fase della vita. In un’epoca in cui la mortalità infantile nei primi
anni di vita era molto alta, una festa celebrava questa prima vittoria della vita e inaugurava
una tappa ulteriore particolarmente difficile dal punto d vista dell’alimentazione, perché si
trattava di passare dal latte materno al nutrimento comune a tutti.
La gioia della festa è bruscamente e inaspettatamente interrotta da Sara quando ella
vede Ismaele – che però non è chiamato con il proprio nome, ma è designato come “il
figlio di Agar, l’Egiziana – “scherzare” con il figlio Isacco (v.9). Il testo ebraico masoretico
ha solo il participio, alla forma piel, del verbo ṣḥq [meṣaḥēq ] – è un verbo che abbiamo
incontrato più volte per indicare il riso/sorriso di Abramo e di Sara - non seguito da nessun
complemento. La
LXX
(seguita dalla Vulgata) ha aggiunto: παίζοντα μετὰ Ισαακ τοῦ υἱοῦ
αὐτῆς , “che giocava con suo figlio”.
Tenendo conto che il nome jiṣḥāq [Isacco] deriva dalla stessa radice verbale ṣḥq, si
potrebbe quasi tradurre il participio meṣaḥēq con “isaccheggiava”. Gli esegeti talora si
sono lasciati prendere dalla curiosità di sapere che cosa Ismaele stesse facendo a partire
dall’uso della forma piel di questo verbo usato senza complemento in altri passi della
Bibbia ebraica: se stesse giocando innocentemente con Isacco 2 – e allora la gelosia di
Sara sarebbe motivata dal fatto che Isacco si diverte con un ragazzo di una classe sociale
più bassa – o se invece lo deridesse fino ad assumere nei suoi confronti atteggiamenti di
abuso verbale, fisico o addirittura sessuale 3 .
Il Targum neofiti e il Targum Pseudo-Jonathan parafrasano così il testo ebraico:
“Sara vide che il figlio di Agar….stava facendo azioni sconvenienti, quali il divertirsi in un
culto idolatrico” o “Sara vide che il figlio di Agar….si divertiva ad adorare un idolo
prostrandosi davanti ad esso” 4 . Paolo in Gal 4,29 afferma che Ismaele perseguitava
[ἐδίωκεν ] Isacco:
E voi, fratelli, siete figli della promessa, alla maniera di Isacco.
28
Ma come allora
29
colui che era nato secondo la carne perseguitava quello nato secondo lo spirito, così
accade anche ora.
Però, che cosa dice la Scrittura? Manda via la schiava e suo
30
figlio, perché il figlio della schiava non avrà eredità col figlio della donna libera. 31Così,
fratelli, noi non siamo figli di una schiava, ma della donna libera.
2
Cf VON RAD G., Genesi, Paideia, Brescia 1978, 307-308.
3
In alcuni casi il verbo ṣḥq potrebbe indicare un’azione sessuale (cf Gen 26,8; 39,14.17).
4
LE DEAUT R (éd.), Targum du Pentateuque. Tome 1. Genèse, SC 245, Cerf, Paris 1978.
In realtà, non sembra proprio che il narratore sia interessato a questi aspetti:
addirittura per lui è ininfluente il dato che, stando a Gen 16,16, Ismaele dovrebbe avere
almeno 16 o 17 anni, tanto che nel racconto sembrano quasi coetanei!
Ciò che conta per lui è invece il fatto che Sara assume l’iniziativa e ordina ad
Abramo di cacciare Agar (v.10) e suo figlio Ismaele perché egli costituisce una minaccia
per l’eredità di Isacco. L’intervento di Dio guida la decisione di Abramo che è molto
dispiaciuto per questa presa di posizione di Sara (vv.12-13):
12Ma
Dio disse ad Abramo: «Non sembri male ai tuoi occhi questo, riguardo al fanciullo
e alla tua schiava: ascolta la voce di Sara in tutto quello che ti dice, perché attraverso
Isacco da te prenderà nome una stirpe.
13Ma
io farò diventare una nazione anche il
figlio della schiava, perché è tua discendenza».
Dio non approva la decisione di Sara, ma ricorda ad Abramo la sua capacità di
orientare al bene anche il male progettato dall’uomo.
14Abramo
si alzò di buon mattino, prese il pane e un otre d’acqua e li diede ad Agar,
caricandoli sulle sue spalle; le consegnò il fanciullo e la mandò via. Ella se ne andò e
si smarrì per il deserto di Bersabea.
15Tutta
Allora depose il fanciullo sotto un cespuglio
l’acqua dell’otre era venuta a mancare.
16e
andò a sedersi di fronte, alla distanza
di un tiro d’arco, perché diceva: «Non voglio veder morire il fanciullo!». Sedutasi di
fronte, alzò la voce e pianse.
17Dio
udì la voce del fanciullo e un angelo di Dio chiamò
Agar dal cielo e le disse: «Che hai, Agar? Non temere, perché Dio ha udito la voce del
fanciullo là dove si trova.
18Àlzati,
farò una grande nazione».
19Dio
prendi il fanciullo e tienilo per mano, perché io ne
le aprì gli occhi ed ella vide un pozzo d’acqua. Allora
andò a riempire l’otre e diede da bere al fanciullo.
20E
crebbe e abitò nel deserto e divenne un tiratore d’arco.
Dio fu con il fanciullo, che
21Egli
abitò nel deserto di
Paran e sua madre gli prese una moglie della terra d’Egitto.
Nel racconto vi sono archi narrativi importanti che vanno sottolineati: “viene a
mancare l’acqua dell’otre e Dio mostrerà ad Agar un nuovo pozzo (v.19); Agar si siede
lontano dal bimbo alla distanza di un tiro d’arco e Ismaele diverrà un tiratore d’arco (v.20);
alla parola di Agar, l’unico discorso diretto citato dal momento della cacciata (v.16), fa eco
la parola dell’angelo di Dio (vv.17s.); la madre alza il suo grido …e Dio ascolta la voce del
fanciullo (v.17a). Questi archi narrativi creano un contrasto tra azione dell’uomo (vv.14-16)
e azione di Dio (vv.17-19)” 5 .
Accanto al racconto che narra la nascita di Isacco, il figlio della promessa, il
narratore riserva un ampio spazio alla promessa che Dio rivolge ad Agar di fare di Ismaele
una grande nazione (v.18) e all’affermazione che Dio è con Ismaele (v.20) non meno che
con Abramo (v.22). Ci troviamo di fronte ad un racconto poeticamente commovente. Dio si
prende cura di una povera, oppressa ed emarginata come Agar: Egli non smentisce la sua
identità, rivelandosi anche in questo caso come colui che ascolta il grido del povero e lo
libera da tutte le sue angosce (cf Sal 34,7-8).
È evidente in questo racconto il riferimento all’etimologia del nome Ismaele, “Dio
ascolta”. Anche Elia aveva provocato l’intervento di JHWH coricandosi sotto un ginepro nel
deserto di Bersabea: l’atteggiamento disperato di Agar che colloca Ismaele “sotto uno dei
cespugli” riecheggia il racconto tratto dal “libretto di Elia” in 1Re 19,4-8.
“Il racconto ci mantiene in quello stato di tensione che ricorre spesso nella Bibbia, la
tensione tra l’eletto e il non-eletto che però è ugualmente amato. Certo, la promessa che
riceve Ismaele è inferiore a quella di Isacco. Ma è comunque una promessa notevole, da
non disdegnare” 6 .
Lettura del libro dei Proverbi (10,28-32)
L’insegnamento di questa pericope privilegia il registro della contrapposizione tra i
giusti e gli empi, la loro speranza, il loro futuro e perfino il loro modo di parlare. I giusti
sono gioiosi, raccolgono frutti per le cose che sperano, nella certezza della loro
realizzazione. Gli empi non possono godere molto, perché la loro speranza svanisce
presto.
Il tema della speranza è rilevante in questo capitolo. Alla sua luce l’espressione “via
del Signore” può essere intesa come la provvidenza con cui Dio governa il mondo, la sua
legge, o meglio ancora come progetto di vita. Il disegno di Dio diventa per i giusti uno
stimolo che li rende coraggiosi e fedeli, quasi un “abito” mentale che dona tranquillità e
sicurezza. Lo stesso progetto è, al contrario, causa di spavento e di paura per i malvagi,
5
BORGONOVO G., “Genesi”, in La Bibbia, Piemme, Casale Monferrato (AL) 1995, 114-115.
6
BRUEGGEMANN W., Genesi, Commentari 9, Claudiana, Torino 2002 (titolo originale: Genesis. Interpretation,
Knox, Atlanta 1982), 221-222.
consapevoli di non aver osservato la legge di Dio e per questo di andare incontro a sicura
rovina.
La consapevolezza di agire correttamente, secondo il progetto divino, rende stabile il
cuore del giusto. Nel Sal 112,6 la frase si riferisce alla sicurezza che viene dalla fedeltà.
Lo stesso “abitare la terra” è il segno di una vita benedetta in Sal 137,3.9 e in Pr 20,20-22:
Il giusto vivrà non vacillerà mai,
ma gli empi non dureranno sulla
terra.
Qui «terra», oltre al senso naturale geografico, ha anche quello spirituale o
anagogico e indica la felicità eterna.
Gli ultimi due versetti del capitolo descrivono le parole del giusto e del malvagio in
modo molto plastico con la coppia fissa di bocca e lingua. La bocca del giusto, come terra
feconda, produce la sapienza che è qualcosa di stabile ed eterno; ma la lingua perversa,
poiché pronunzia cose inutili, insulse ed empie, come albero sterile e nocivo, merita di
essere strappata e bruciata. Il giusto considera ciò che piace a Dio e agli uomini e lo
proclama con grazia e decoro, perciò piace a tutti e tutti lo applaudono; ma la bocca
dell'empio dice cose perverse che dispiacciono a Dio e agli uomini, perciò è rifiutato da
tutti.
La conclusione appare evidente: i comportamenti antitetici preannunciano sorti
diverse. Tuttavia, non ci viene proposta una sapienza puramente umana, bensì la rilettura
dell’esperienza e della sapienza alla luce della rivelazione. Il vero giudizio sui nostri
comportamenti viene illuminato dalla rivelazione e da essa riceve anche la forza di sperare
e gioire nella benevolenza del Signore.
Lettura del Vangelo secondo Matteo (6, 19-24)
Il brano di vangelo su cui oggi la liturgia ci invita a riflettere introduce il tema del
possesso con un ulteriore, pressante invito ad abbandonarsi alla paternità provvidente e
tenera di Dio.
“Non accumulate per voi tesori sulla terra, dove tarma e ruggine consumano e dove
ladri scassinano e rubano” (v.19): accumulare tesori corrisponde ad un istinto umano che
porta ad ammassare, a bramare di possedere denaro e cose. Ma queste cose sono tutte
destinate a deperire: la tarma – animale già assunto quasi a simbolo della distruzione
terrena in Isaia (cf Is 51,8) – riuscirà a mangiare inesorabilmente tutti i vestiti accumulati.
In Oriente, ma in genere in tutto il mondo, i vestiti sono, in particolare per la donna, una
naturale espressione di ricchezza, di agiatezza e la bellezza di un corredo, la qualità delle
stoffe sono importanti proprio per definire l’appartenenza sociale. Quanto poi al denaro,
che spesso in Palestina veniva sotterrato, questo rischia di essere corroso dalla ruggine
insieme alle casse in cui viene custodito (cf Gc 5,2-3) e diventare così inutilizzabile
sempre che prima non se ne impossessino i ladri scavando e facendo irruzione nella casa.
“Accumulate invece per voi tesori in cielo dove né tarma né ruggine consumano e
dove ladri non scassinano e non rubano” (v.20): in cielo i tesori accumulati non corrono
rischi. Anche i rabbini parlavano di tesori da accumulare in cielo intendendo con questo le
opere buone: è interessante però l’interpretazione che non si tratti qui della
contrapposizione tra un tesoro terrestre ed uno celeste. I beni tesaurizzati in cielo sono le
stesse ricchezze di quaggiù ma non ammassate bensì date in elemosina. Il tesoro nel
cielo è quindi un tesoro separato dall’io, dall’egoismo e si ottiene dedicandosi ai fratelli.
“Perché, dov’è il tuo tesoro, là sarà anche il tuo cuore” (v.21): occorre tenere
presente che il termine “tesoro” è uno dei favoriti da Matteo ed in alcuni casi (cf 12, 35) sta
per “cuore”. Anche il racconto di Luca presenta un versetto identico ma al plurale e questo
può far pensare che Matteo abbia utilizzato invece il singolare per introdurre il passaggio
al versetto successivo. Si trova qui il vertice dell’esortazione di Gesù: il nostro cuore, la
nostra attenzione, la nostra preoccupazione sono rivolti a quanto abbiamo di più prezioso
ed è quindi per noi essenziale sapere dove si trova. Per Gesù il “dove” è identificabile solo
con Dio e con il suo regno, quel regno in cui il nostro tesoro – e quindi il nostro cuore – non
può correre rischi: le altre ricchezze non meritano certo l’adesione del cuore perché sono
destinate a perire.
“La lampada del corpo è l’occhio; perciò se il tuo occhio è semplice, tutto il corpo
sarà luminoso; ma se il tuo occhio è cattivo, tutto il tuo corpo sarà tenebroso. Se dunque la
luce che è in te è tenebra, quanto grande sarà la tenebra!” (vv.22-23): siamo di fronte a
due versetti di difficile interpretazione, che possono essere definiti come una sentenza
generale o una massima parabolica. Il termine “lampada” può indurre a pensare alla
convinzione, molto diffusa nell’antichità, che l’occhio umano contenesse una luce propria
per illuminare l’oscurità circostante e consentire all’uomo di vedere. Non è l’occhio la
lampada, questo è comunque evidente, ma l’occhio è l’organo che percepisce e riflette la
luce in tutto il corpo, come appunto una lampada – posta sul candeliere – fa luce a tutta la
casa. Qui Gesù non parla tanto di un occhio sano, e quindi in grado di assolvere la sua
funzione fisiologica, o malato ma di un occhio semplice o cattivo.
L’occhio è dunque una metafora anche perché non illumina l’esterno ma l’interno
del corpo. L’aggettivo usato e tradotto con “semplice” – ἁπλοῦς – si incontra solo qui e nel
parallelo brano di Luca (cf Lc 11,34) in tutto il Nuovo Testamento. “Se si risale al suo
modello veterotestamentario, troviamo anche qui l’ebraico tām, tāmîm che è la stessa
matrice di τέλειος: «integro, perfetto» (5,48). L’occhio «semplice» è quello che non si
lascia sedurre dalla cupidigia o dalla gelosia: i rabbini parlano di «occhio buono»” 7 .
Al contrario l’occhio cattivo è quello sempre invidioso dei beni altrui e fa diventare
tenebroso tutto il corpo. Non può sfuggire qui il ricordo del richiamo che Gesù ha fatto per
il sale che può diventare insipido e venire quindi meno al suo scopo: anche l’occhio
cattivo, lungi dall’illuminare, fa diventare tutto tenebroso. La qualità dell’occhio decide
quindi la qualità di tutto il corpo in una forte contrapposizione luce/tenebra che in Matteo
ha sempre una connotazione etica.
Matteo vuole dire alla sua comunità ed a noi che l’integrità e la rettitudine del
comportamento umano, in particolare nel rapporto con i propri beni, decide quello che
siamo nel complesso. Non è quindi possibile anteporre l’uomo al suo comportamento
come se l’uomo fosse qualcosa di diverso da ciò che fa. In definitiva il messaggio può
essere questo: la vita intera dell’uomo rischia di sprofondare nel buio delle tenebre se
l’occhio non è semplice, buono, perfetto ed allo stesso modo rischia di sprofondare nelle
tenebre l’uomo che non guarda più a Dio con cuore indiviso perché lascia che i suoi tesori
terreni lo distolgano da Lui.
“Nessuno può servire due padroni, perché o odierà l’uno e amerà l’altro, oppure si
affezionerà all’uno e disprezzerà l’altro. Non potete servire Dio e la ricchezza” (v.24): per
comprendere bene questo denso, anche se lapidario versetto, bisognerà tenere presente
che per un domestico “servire” vuol dire appartenere al suo padrone, al suo signore e che
quindi questo servizio tocca la sua persona non soltanto la sua, usando un termine
moderno, attività professionale. Questo concetto è presente anche in Luca, in forma
sostanzialmente identica, ma con una importante differenza: nel racconto di Luca è infatti
presente il termine servitore che non esiste in Matteo e tale voluta omissione trasforma le
7
A. MELLO, Evangelo secondo Matteo. Commento midrashico e narrativo, Qiqajon, Magnano (BI) 1995, 133.
parole di Gesù in una massima di valore universale da applicare a tutti gli uditori ed al loro
rapporto con μαμωνᾶς, con la ricchezza.
Le parole di Gesù sono decisamente esclusive: Dio è uno solo e chi vuole servirlo
non può avere un altro padrone accanto a lui. “Che «odiare» e «amare» non siano usati
qui in una accezione eminentemente affettiva e sentimentale, ma definiscano la decisione
a favore dell’uno e a sfavore dell’altro (cf anche 10,37 e insieme Lc 14,26) è qui
chiaramente indicato dalle perifrasi: «attenersi all’uno» e «trascurare, avere disprezzo per
l’altro». Il contrasto è reso tanto più acuto proprio dal fatto che, in ambito linguistico
ebraico, «māmôn» non ha connotazioni negative di sorta. Si tratta della ricchezza in
genere, e non solo di quella acquistata disonestamente o malamente amministrata” 8 .
Il termine māmôn peraltro è una parola che potremmo definire postbiblica: si trova
solo nel testo ebraico di Siracide e ricorre invece parecchie volte nel racconto di Luca che
lo definisce però come μαμωνᾶ τῆς ἀδικίας, espressione tradotta con «disonesta
ricchezza» (Lc 16,9). Il contesto di Matteo sembra invece voler quasi personificare
μαμωνᾶς (μαμωνᾶς è termine maschile) e suggerirci che soltanto la parola di Gesù riesce
a smascherare l’idolatria che trasforma la ricchezza in idolo, in un padrone in cui riporre la
propria fiducia ed addirittura il proprio amore, il proprio cuore e la propria vita. Infatti Gesù
ha appena ricordato che “dov’è il tuo tesoro, là sarà anche il tuo cuore” (v.21).
A noi, in cammino quaresimale, il compito di interrogarci con più coraggio e maggior
impegno sui μαμωνᾶς della nostra vita per scoprire quanti e quali possano essere
purtroppo gli idoli a cui diamo il nostro cuore: l’attaccamento a quanto abbiamo, il
successo, il giudizio degli altri, la ricerca esasperata dell’immagine…. Sono tanti gli idoli,
piccoli e grandi, tenacemente presenti nella nostra vita: solo alla luce della Parola
possiamo scoprirli e togliere loro un po’ di spazio con costante perseveranza e con
l’abbondanza del perdono richiesto ed ottenuto dall’unico Signore della nostra vita. A Lui,
Signore del mondo, possiamo rivolgerci con il termine, tenero e quasi inaudito, di Padre.
8
E. SCHWEIZER, Il Vangelo secondo Marco, Paideia, Brescia 1971, 93.
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