black pellicola (1,1)
ISSN 0391-5239
Annata LXXXIV
Gennaio-Febbraio 2009
N. 1
N. 1 - 2009 — I L D I R I T T O F A L L I M E N T A R E — Annata LXXXIV
dir. fall.
RIVISTA BIMESTRALE DI DOTTRINA E GIURISPRUDENZA
già diretta da ITALO DE PICCOLI (1924-1940), RENZO PROVINCIALI (1941-1981),
ANGELO BONSIGNORI (1982-2000) e GIUSEPPE RAGUSA MAGGIORE (1982-2003)
DIREZIONE
Girolamo Bongiorno, Concetto Costa,
Massimo Di Lauro, Elena Frascaroli Santi, Lino Guglielmucci,
Bruno Inzitari, Giuseppe Terranova, Gustavo Visentini
CEDAM - CASA EDITRICE DOTT. ANTONIO MILANI - PADOVA - 2009
Prezzo A 40,00
Poste italiane s.p.a. - Spedizione in Abbonamento Postale - D.L. 353/2003 (conv. in L. 27/02/2004
nº 46) art. 1, comma 1 - DCB Milano - Pubblicazione bimestrale - Con I.P.
RIVISTA BIMESTRALE DI DOTTRINA E GIURISPRUDENZA
già diretta da ITALO DE PICCOLI (1924-1940), RENZO PROVINCIALI (1941-1981),
ANGELO BONSIGNORI (1982-2000) e GIUSEPPE RAGUSA MAGGIORE (1982-2003)
DIREZIONE
Girolamo Bongiorno, Concetto Costa,
Massimo Di Lauro, Elena Frascaroli Santi, Lino Guglielmucci,
Bruno Inzitari, Giuseppe Terranova, Gustavo Visentini
VOLUME
(LXXXIV)
2009
CEDAM - CASA EDITRICE DOTT. ANTONIO MILANI - PADOVA - 2009
SOMMARIO DEL PRESENTE FASCICOLO (1/2009)
Parte Prima
ARTICOLI, BIBLIOGRAFIA, LEGISLAZIONE, RASSEGNE
Axel Flessner, La conservazione delle imprese attraverso il diritto fallimentare. Uno sguardo di diritto comparato ............ Pag.
1
Enrico Scòpesi, Il disegno di legge delega di riforma delle disposizioni penali in materia di procedure concorsuali ........... »
22
Luciano Panzani, Circolazione dei crediti, cessione delle revocatorie e concordato fallimentare ........................................... »
29
Michele Perrino, Cessioni «individuali» e «in blocco» dei diritti controversi come modalità liquidatoria concorsuale ....... »
51
Eugenio Forgillo, La nuova governance dell’impresa fallita:
il ruolo del fallito ................................................................... »
72
Rosa Pezzullo, Decorrenza degli effetti della dichiarazione di
fallimento ed iscrizione nel registro delle imprese ................. » 101
Corrado d’Ambrosio, L’impresa sociale insolvente .............. » 110
OSSERVATORIO STRANIERO
Gianvito Giannelli, Le soluzioni giudiziarie delle crisi di impresa. La gestione della crisi nel diritto spagnolo e italiano .
»
125
Parte Seconda
GIURISPRUDENZA
Principali note ed osservazioni a sentenza
Marina Cordopatri, Luci ed ombre della nuova esdebitazione Pag.
Antonino Fazio, La frode ai creditori ed il problema dell’imputazione dello stato di mala fede tra rappresentanza volontaria
ed immedesimazione organica ................................................ »
Stefano Fucile-Giuliano Scarselli, Il fallimento in estensione del socio occulto ............................................................ »
Stefano Nicita, Il pegno irregolare e la revocatoria fallimentare »
Giuseppe Positano, È ancora ammissibile il riferimento all’art.
1
11
28
40
2083 cod. civ. per delimitare la categoria degli imprenditori
esclusi dal fallimento? ............................................................ Pag. 49
Dario Restuccia, Grado dei privilegi e transazione fiscale .... »
66
Pasquale Brenca, Alcune osservazioni in tema di reclamo avverso il decreto di omologa del concordato preventivo .......... » 107
Ubalda Macrı̀, Brevi note in materia di estinzione del processo
societario. Una fattispecie particolare: la mancata notifica dell’istanza di fissazione dell’udienza al contumace ................... » 125
Pag.
Concordato preventivo
Creditori privilegiati – Differente
trattamento in base al grado di privilegio – Ammissibilità – Tribunale Pavia, 8 ottobre 2008, con nota
di D. Restuccia .........................
Decreto di omologa – Reclamo – Accoglimento – Revoca del decreto
di omologa – Ricorso in cassazione – Effetti – Tribunale Milano,
14 luglio 2008, con nota di P.
Brenca ........................................
Decreto di pagamento a favore dell’ausiliario del magistrato – Giudizio di opposizione – Art. 26 legge
fallim. – Applicabilità – Tribunale
Roma, 28 aprile 2006, con nota di
L. Albensi ...................................
Decreto di pagamento a favore dell’ausiliario del magistrato – Giudizio di opposizione – Legittimazione del P.M. – Ammissibilità – Tribunale Roma, 28 aprile 2006, con
nota di L. Albensi ......................
Decreto di pagamento a favore dell’ausiliario del magistrato – Giudizio di opposizione del P.M. – Decreto di pagamento fondato sulle
tabelle professionali – Annullabilità – Applicazione dei criteri previsti dal T.U. sulle spese di giustizia
– Accertamento plurimo – Pagamento di distinte liquidazioni –
Ammissibilità – Tribunale Roma,
28 aprile 2006, con nota di L.
Albensi ........................................
Transazione fiscale – Rispetto del
grado di privilegio – Equiparazio-
66
Pag.
ne di tutti i creditori con privilegio
generale – Ordine dei privilegi –
Irrilevanza – Tribunale Piacenza,
1 luglio 2008, con nota di D. Restuccia ........................................
Transazione fiscale – Pagamento in
percentuale del credito tributario
– Ordine dei privilegi – Rilevanza
– Ammissibilità – Tribunale Mantova, 30 ottobre 2008, con nota
di D. Restuccia .........................
66
67
107
Fallimento
111
111
111
Accertamento del passivo – Pegno irregolare – Concorso creditori –
Cause di prelazione – Mancanza
di interesse all’insinuazione al passivo – Compensazione – Tribunale
Roma, 3 luglio 2007, con nota di S.
Nicita ..........................................
Azione revocatoria – Riserva di agire
in revocatoria – Obbligatorietà –
Tribunale Roma, 3 luglio 2007,
con nota di S. Nicita .................
Garanzie – Pegno irregolare – Causa
negoziale – Garanzia patrimoniale
– Alienazione in garanzia – Cause
di prelazione – Titoli fungibili –
Inadempimento – Autotutela –
Mancanza di interesse all’azione
esecutiva – Compensazione – Tribunale Roma, 3 luglio 2007, con
nota di S. Nicita ........................
Azione revocatoria fallimentare –
Condizioni e presupposti – Conoscenza del pregiudizio da parte
dell’acquirente persona giuridica
40
40
40
Pag.
– Conoscenza da parte dell’amministratore – Rilevanza – Fondamento – Cassazione civile, 4 luglio
2006, n. 15265, con nota di A.
Fazio ............................................
Esdebitazione – Ricorso del debitore
– Notifica ricorso ai creditori concorrenti non soddisfatti integralmente – Assenza della previsione
– Illegittimità – Corte Costituzionale, 30 maggio 2008, n. 181,
con nota di M. Cordopatri .....
Fallimento delle società – Estensione
al socio occulto – Assunzione di
responsabilità illimitata – Onere
della prova – Curatore – Tribunale
Firenze, 7 novembre 2007, con
nota di S. Fucile e G. Scarselli
Fallimento delle società – Estensione
al socio occulto – Limite temporale per la dichiarazione di fallimen-
11
Pag.
to in estensione – Inapplicabilità
dei termini – Decorrenza dalla sola
esteriorizzazione presso terzi della
loro qualità – Tribunale Firenze,
7 novembre 2007, con nota di S.
Fucile e G. Scarselli ..............
Presupposto soggettivo – Piccolo imprenditore – Artigiano – Tribunale
Salerno, 7 aprile 2008, con nota di
G. Positano ...............................
28
49
1
Società
28
Rito societario – Contumace – Notifica dell’istanza di fissazione dell’udienza – Necessità – Mancanza
– Conseguenze – Rilievo officioso
dell’estinzione del processo – Limiti – Tribunale Napoli, 31 gennaio 2006, con nota di U. Macrı̀
125
INDICE CRONOLOGICO DELLE SENTENZE (*)
Pag.
Pag.
2006
Novembre
Gennaio
31 Tribunale di Napoli (*), in tema
di rito societario .........................
125
Aprile
111
Luglio
4 Cassazione civile, n. 15265 (*), in
tema di azione revocatoria .........
28
2008
Aprile
28 Tribunale di Roma (*), in tema di
concordato preventivo ...............
7 Tribunale di Firenze (*), in tema
di fallimento del socio occulto ..
7 Tribunale di Salerno (*), in tema
di piccolo imprenditore .............
49
Maggio
11
30 Corte Costituzionale, n. 181 (*),
in tema di esdebitazione ............
1
2007
Luglio
Luglio
3 Tribunale di Roma (*), in tema di
pegno irregolare e revocatoria ...
40
1 Tribunale di Piacenza (*), in tema di transazione fiscale ............
66
(*) Le sentenze contrassegnate con un asterisco sono corredate di nota od osservazione
di autore; tutte le altre sono annotate dalla Redazione.
Pag.
14 Tribunale di Napoli (*), in tema
di concordato preventivo ...........
107
Ottobre
8 Tribunale di Pavia (*), in tema di
classi nel concordato preventivo
66
Pag.
30 Tribunale di Mantova (*), in tema di transazione fiscale ............
67
IL DIRITTO FALLIMENTARE
E D E L L E S O C I E T À C O M M E R C I A L I
PARTE PRIMA
LA CONSERVAZIONE DELLE IMPRESE ATTRAVERSO
IL DIRITTO FALLIMENTARE.
UNO SGUARDO DI DIRITTO COMPARATO
di
Axel Flessner (*)
Nel marzo 1979 si incontrarono a Roma accademici e politici in occasione di un convegno sul trattamento giuridico delle crisi d’impresa. Il decreto-legge Prodi aveva appena due mesi e non era stato ancora convertito in
legge. Il titolo del convegno era: Il fallimento – un istituto da salvare? (1)
Particolarmente significativo era il punto interrogativo. Evidentemente gli
organizzatori avevano l’impressione che si stesse chiudendo una fase storica
del diritto fallimentare e che l’amministrazione straordinaria aprisse una
nuova epoca, nella quale ci si sentiva ancora insicuri da un punto di vista
di politica legislativa.
Come è diverso oggi! Non solo abbiamo nel frattempo una terza legge
Prodi, la cosiddetta Prodi-ter, ma l’amministrazione straordinaria è addirittura diventata un istituto riconosciuto a livello europeo e lo scopo di detta
procedura, il salvataggio dalla crisi di grandi imprese, è ormai incontestabilmente divenuto uno degli scopi tipici e legittimi del diritto fallimentare a
livello europeo. Di seguito traccerò un quadro internazionale ed europeo
di questo aspetto del diritto fallimentare.
I. Scopi e contesto del diritto fallimentare. – Nei 27 anni dal 1979 ad oggi
non solo è cambiato prepotentemente il quadro istituzionale e politico eu-
(*) Professore emerito della Humbolt Universität di Berlino. La traduzione della relazione del Prof. Axel Flessner è stata curata dall’Avv. Cecilia Carrara. (Lezione tenuta all’Università Roma Tre, in data 27 maggio 2006, nell’ambito del corso di Master per Giuristi d’impresa
di Roma Tre e di Dottorato in Diritto commerciale dell’Università Roma-Tor Vergata).
(1) Gli interventi e il materiale della discussione sono stati pubblicati da AREL – Agenzia di Ricerche e Legislazione: Il fallimento – un istituto da salvare?, Roma, Aprile 1980, DOC
(80) 1.
2
Il diritto fallimentare e delle società commerciali
ropeo – allora l’Unione Europea contava 6 Stati, oggi ne conta 25 – ma anche il diritto fallimentare è cambiato. Ormai è pacificamente riconosciuto
che il diritto fallimentare deve avere «due corsie». Prima il diritto fallimentare serviva per regolare l’uscita dal mercato delle imprese fallite e la loro
ordinata sepoltura. Oggi invece non può disciplinare solamente la classica
liquidazione dell’intero patrimonio del debitore, ma deve anche prevedere
come alternativa di pari rango la ristrutturazione delle obbligazioni del debitore e quindi, in particolare, il salvataggio dell’impresa debitrice. Tutte le
leggi fallimentari recenti europee seguono questa impostazione.
Il diritto fallimentare non è diventato solo a due corsie, ma anche europeo ed internazionale. L’avvento di un mercato europeo unico e la globalizzazione dei mercati del capitale hanno fatto sı̀ che quasi ogni episodio
di insolvenza di grande dimensione, dove vi sia l’opzione del salvataggio
dell’impresa, acquisti una dimensione europea ed internazionale. Il diritto
fallimentare applicabile, pertanto, pur essendo sempre il diritto nazionale
dei singoli Stati, è sempre più influenzato da aspetti internazionali, producendo a sua volta conseguenze in Europa ed all’estero in generale.
L’Unione Europea ha reagito a questa circostanza con l’emanazione del
Regolamento sulle procedure d’insolvenza transfrontaliere. Detto Regolamento ripartisce la giurisdizione a livello europeo per le procedure d’insolvenza ed impone il riconoscimento automatico delle procedure in tutta Europa. In altre parole, gli operatori coinvolti in una procedura d’insolvenza
di rilevanti dimensioni nel proprio Stato non sono più soli; operano, invece,
in un contesto europeo ed internazionale.
II. Un punto di vista storico e di diritto internazionale. – In sintesi, l’argomento di questa relazione si delinea come segue. Il diritto concorsuale
tradizionale, con il quale si mira alla liquidazione dell’intero patrimonio
del debitore e, quindi, anche della sua impresa per soddisfare la massa
dei creditori, è noto. La procedura d’insolvenza con cui si mira alla conservazione dell’impresa insolvente, è invece qualcosa di nuovo e tuttora in corso di evoluzione, e mostra da Stato a Stato, a livello europeo, notevoli differenze di disciplina, anche nei principi fondamentali dell’istituto. Pertanto
in questa parte della relazione intendo descrivere le caratteristiche di questa
procedura, cosı̀ da fornirne un quadro europeo. Talora compariranno in
questo quadro anche gli Stati Uniti. Per prima cosa, dobbiamo definire il
punto di partenza della nostra analisi, con riferimento sia all’evoluzione storica sia all’evoluzione teorica del diritto dell’insolvenza.
Alle origini del diritto fallimentare, il debitore ed il suo comportamento
erano al centro della disciplina. Il fallimento comportava l’infamia ed il debitore poteva essere condannato e persino incarcerato. Solo nel XIX secolo
l’attenzione del diritto fallimentare si spostò dal debitore al suo patrimonio
e quindi alla sua impresa commerciale. La società divenne più tollerante
Parte I - Dottrina
3
verso comportamenti fallimentari e debolezze. Inoltre, nel mondo degli affari si andavano diffondendo sempre più le società commerciali, in particolare le società per azioni, alle quali non si potevano comminare sanzioni penali, al di là della liquidazione del patrimonio. Contemporaneamente cominciò a mettersi in discussione il fatto che la liquidazione dovesse essere
l’unico scopo del diritto fallimentare. Soprattutto negli Stati Uniti le insolvenze delle compagnie ferroviarie, per nulla infrequenti, mostravano che la
liquidazione non era da prendere seriamente in considerazione. Al contrario, le pretese dei creditori dovevano essere ridotte fintanto che la totalità
dei debiti diventasse sostenibile per le compagnie ferroviarie. Di qui nacque
la concezione moderna a doppio binario del diritto fallimentare. In quest’ottica, l’insolvenza non è nulla di più che una discrepanza tra ciò che l’impresa può economicamente sopportare e ciò che giuridicamente sarebbe
obbligata a sopportare. Per porre rimedio a questa situazione si può eliminare l’impresa dal mercato (attraverso la liquidazione), oppure si può colmare la discrepanza portando la misura dei debiti dell’impresa in linea
con la misura dei debiti che l’impresa può sostenere (ammesso che residui,
in base ad una valutazione prognostica, una qualche capacità di adempiere).
Oggettivamente, il diritto fallimentare deve offrire la possibilità di scegliere
fra l’uno e l’altro tipo di rimedio all’insolvenza. La legge fallimentare americana del 1938 fu la prima legge nel mondo a stabilire questo doppio binario del diritto fallimentare per un ordine economico capitalistico e di economia del mercato.
Per quanto riguarda l’Europa, nel secolo scorso si è andato affermando
un nuovo punto di vista. Si radica sempre più l’impressione che l’insolvenza
di grandi imprese può esigere il coinvolgimento degli Stati, che sono corresponsabili dell’andamento economico del paese. Una grande impresa in crisi non può essere lasciata fallire senza alcuna riflessione; al contrario, il diritto fallimentare deve offrire la possibilità del risanamento dell’impresa anche nell’interesse del bene collettivo. In Europa, soprattutto il diritto fallimentare francese e quello italiano, con l’amministrazione straordinaria, sono guidati da questa idea.
Dobbiamo quindi constatare che la doppia finalità del diritto fallimentare, e cioè la conservazione dell’impresa quale obiettivo alternativo di pari importanza rispetto alla liquidazione, è giustificata sia da ragioni capitalistiche, sia politiche, sia statali, e quindi si ritrova in tutte le legislazioni
moderne.
III. I metodi giuridici. – Che cosa può fare dunque il diritto fallimentare
per la conservazione delle imprese in crisi? Salvare un’impresa dal fallimento richiede solitamente una combinazione di misure organizzative, commerciali, finanziarie e giuridiche. Il processo fallimentare risponde solo delle
misure giuridiche. In primo luogo, si tratta di rendere i debiti che gravano
4
Il diritto fallimentare e delle società commerciali
sull’impresa nuovamente sopportabili per la stessa, talora riducendoli cosı̀
tanto che possa essere conferito nuovo capitale. A tal fine può anche essere
necessario ridistribuire i diritti partecipativi nell’impresa, cosı̀ da consentire
l’ingresso di nuovo capitale e di nuovi proprietari.
1. L’impresa e l’imprenditore. – Esistono due tecniche per realizzare da
un punto di vista giuridico la conservazione di un’impresa. Dette tecniche si
differenziano nettamente tra loro sia riguardo ai presupposti, sia riguardo
alle conseguenze, anche se non di rado possono combinarsi tra loro. Per poterle distinguere, occorre prima tracciare un’altra distinzione e cioè quella
tra impresa ed imprenditore. L’impresa è costituita dall’insieme di mezzi
ed organizzazione dell’azienda, composta di persone e beni economici,
che rileva come unità operativa e fornisce prestazioni economiche, producendo o distribuendo prodotti o prestando servizi. L’imprenditore è quella
persona che conduce e possiede l’impresa e, nel caso di grandi imprese, è
perlopiù una società o una cooperativa.
La conduzione ed il possesso dell’impresa da parte dell’imprenditore
traggono il loro fondamento giuridico nella proprietà e negli altri diritti
che l’imprenditore ha sugli impianti, o nei contratti con cui se li è procurati
(es. locazione, affitto, licenze), o nei contratti con le persone che lavorano
per l’impresa (contratti di servizi e di lavoro).
Il punto di partenza del diritto fallimentare sono le obbligazioni inadempiute. Tecnicamente, da un punto di vista giuridico, queste obbligazioni non sono dell’impresa, bensı̀ dell’imprenditore (anche se talora, impropriamente, si parla di debiti dell’impresa), poiché solo le persone – fisiche
o giuridiche – possono essere soggetti passivi di obbligazioni. L’impresa,
cioè l’organizzazione, attraverso i profitti che realizza, serve alla persona obbligata, il debitore, per adempiere alle proprie obbligazioni, ad esempio gli
obblighi di pagamento. In caso di insolvenza, i risultati economici dell’impresa non bastano più per l’adempimento delle obbligazioni. Se a questo
punto non succede nulla, l’imprenditore dovrà cessare l’attività d’impresa,
o perché vengono a mancare i mezzi aziendali, o perché vi sarà costretto dai
procedimenti esecutivi o dalla liquidazione concorsuale.
2. Cessione dell’impresa. – Una delle tecniche giuridiche per la conservazione dell’impresa consiste nel trasferire l’impresa nella sua totalità, come
oggetto vivente, ad un nuovo proprietario. In questo caso l’impresa non deve più sopportare i debiti del precedente proprietario, mentre i profitti dell’impresa saranno sufficienti per quelli del nuovo, altrimenti il nuovo proprietario non l’avrebbe acquistata.
In sintesi, la conservazione dell’impresa avviene da un punto di vista
giuridico mediante un cambio del proprietario dell’impresa. Mediante la
cessione dell’impresa al nuovo proprietario, questi acquista il patrimonio
Parte I - Dottrina
5
dell’impresa e subentra nei diritti del precedente proprietario ed in particolare nelle posizioni contrattuali pendenti. Se intende proseguire nell’esecuzione dei contratti ceduti deve anche assumersi gli obblighi ivi connessi; per
quanto riguarda i rapporti di lavoro, la loro continuazione è addirittura prescritta da una direttiva europea – ma senza pregiudizio del diritto fallimentare applicabile (in alcuni Stati, tuttavia, l’obbligo di continuazione vale anche in caso di procedura d’insolvenza). Fatte salve queste previsioni di legge, spetta all’imprenditore organizzare l’impresa e trovare i mezzi finanziari,
in modo tale che la stessa possa utilmente perseguire i propri scopi e rimanere in vita.
Se guardiamo solo all’impresa salvata, l’operazione con ciò si chiude.
Cosa succeda con i debiti del vecchio proprietario, può non interessarci
più direttamente. Eppure occorre soffermarvisi brevemente, poiché è necessario completare il quadro considerando cosa ancora possono attendersi
i creditori. Se il nuovo proprietario ha pagato un prezzo per l’impresa, questo sarà distribuito fra i creditori del vecchio proprietario nell’ambito della
procedura fallimentare.
Un esempio di questo tipo di cessione dell’impresa è la celebre insolvenza della Swiss Air un paio di anni fa. Il curatore fallimentare cedette gli aeroplani e l’intera azienda a una società aerea svizzera più piccola, la Cross
Air AG, che successivamente assunse il nome Swiss AG e proseguı̀ la precedente attività propria, assieme a quella acquisita dalla Swiss Air AG, perlopiù riorganizzata, fino ad oggi sotto tale nuovo nome. Poté pagare l’acquisizione al curatore con del capitale che conferirono per suo conto il governo
svizzero ed alcune imprese leader del mercato. La Swiss Air AG è tuttora in
piena procedura fallimentare, fino a completa liquidazione del patrimonio e
distribuzione del ricavato (ivi incluso il prezzo della cessione). Il curatore
fallimentare ha addirittura contestato l’uso del nome Swiss AG da parte della cessionaria, ma il Tribunale di Zurigo gli ha dato torto.
Se invece, a fronte della cessione, non viene pagato alcun corrispettivo, i
creditori del vecchio proprietario rimarranno insoddisfatti. Tuttavia può
darsi che il cessionario offra qualcos’altro in cambio della cessione, per
esempio una partecipazione al proprio capitale, sotto forma di azioni, oppure titoli di debito, per esempio mediante l’emissione di obbligazioni da distribuire ai creditori del vecchio proprietario dell’impresa. Un esempio di
questa ipotesi è dato dal recente fallimento di Parmalat. Negli USA questa
fu la prima forma di conservazione delle compagnie ferroviarie fallite.
3. Ristrutturazione. – L’altra tecnica giuridica della conservazione dell’impresa non consiste nel cedere l’impresa ad un diverso proprietario liberandola per l’effetto dai debiti esistenti, bensı̀ nel ridurre i debiti del proprietario dell’impresa, fintanto che l’impresa stessa possa sostenerne il peso.
In altre parole, in questo caso la legge interviene per alleggerire il peso dei
6
Il diritto fallimentare e delle società commerciali
debiti del proprietario dell’impresa, e cioè in misura tale che possano essere
acquisiti nuovi mezzi finanziari, o facendo ricorso al credito o attraverso aumenti del capitale sociale. Pertanto in questo modo è lo stesso proprietario
dell’impresa che è messo nella situazione di provvedere alla conservazione
dell’impresa, organizzandola su nuove basi. Per quel che mi è dato intendere, in Italia questo metodo viene chiamato «ristrutturazione». A livello internazionale è anche utilizzato il termine «reorganisation», da intendersi
in senso stretto, in quanto designa solamente la riorganizzazione giuridica
della struttura del capitale. Di seguito parlerò di «ristrutturazione».
4. Ipotesi di applicazione. – In tutti i sistemi di diritto fallimentare avanzati possono utilizzarsi oggi alternativamente entrambe le tecniche giuridiche di conservazione dell’impresa. È possibile anche una combinazione delle tecniche, quando per esempio vengono ceduti singoli rami d’azienda dell’impresa, quindi solo una parte dell’impresa nella sua totalità, per la continuazione delle altre parti da parte del precedente proprietario e, al tempo
stesso, con una riduzione del suo debito.
Ognuna delle tecniche sopra citate ha i suoi vantaggi e le sue debolezze.
La cessione dell’impresa ad un terzo presuppone una disponibilità all’acquisto. Questa possibilità può quindi risultare esclusa per il semplice fatto
che non vi è alcun terzo che possa o voglia offrire un prezzo accettabile per
l’acquisto. Può inoltre risultare esclusa se l’impresa vanta diritti economicamente rilevanti in base a contratti con terzi, per esempio licenze, che non
possono essere trasferiti al cessionario senza il consenso delle controparti
contrattuali.
In casi simili, l’unica tecnica applicabile è quella della ristrutturazione.
Questa tecnica, tuttavia, può doversi escludere qualora coloro che in precedenza avevano apportato il capitale – i creditori e gli azionisti – non siano
pronti e non possano essere giuridicamente costretti a ridurre le loro pretese, o non in misura sufficiente. Anche il diritto tributario può assumere
rilevanza. In caso di cessione di un’impresa, può risultare dovuta un’imposta, quale l’imposta sul valore aggiunto. Qualora invece l’impresa rimanga
nelle mani della precedente società, dalla ristrutturazione, ossia dalla riduzione dell’esposizione debitoria, può risultare un utile di bilancio della debitrice, al quale si applica un’imposta sul reddito. La scelta della tecnica da
impiegare dipenderà quindi sempre dalle circostanze concrete del caso, dalla preferenza dei soggetti coinvolti e dalle norme applicabili.
IV. Poteri decisionali. – Dopo aver delineato i modelli giuridici della
conservazione delle imprese, posso passare a trattare specifici aspetti del diritto fallimentare che riguardano la conservazione dell’impresa. In particolare intendo evidenziare le differenze tra le due tecniche sopra citate. Innanzitutto faccio riferimento al diritto dei maggiori Stati dell’Unione Europea,
Parte I - Dottrina
7
il cui diritto fallimentare è stato modificato nel corso degli ultimi 10 anni.
Sono l’Inghilterra, la Germania, la Francia, la Spagna e adesso anche l’Italia,
con la sua riforma a tappe.
Il primo di questi aspetti del diritto fallimentare sono i poteri decisionali
nel processo: chi decide sulla scelta tra cessione e ristrutturazione ed a quali
condizioni viene attuata l’una o l’altra alternativa nel caso concreto? Per
quanto riguarda la cessione, le soluzioni sono molto eterogenee. Da un lato
c’è il diritto inglese: esso in generale si caratterizza per il fatto che nel diritto
fallimentare è riservato molto spazio al precedente investitore e il ruolo dei
tribunali e dello Stato è ridotto al minimo necessario. Un solo, importante
creditore ha la facoltà di decidere se l’impresa nella sua totalità può essere
ceduta ad un nuovo imprenditore per la continuazione dell’impresa. La ragione di questa impostazione riposa su un diritto di garanzia, proprio del
diritto inglese, la cosiddetta «floating charge», ciò che possiamo tradurre
con «garanzia rotativa». Questo diritto di garanzia può essere costituito
su tutto il patrimonio mobiliare di una società per azioni, mediante iscrizione nel registro delle imprese. La società può disporre liberamente del proprio patrimonio. Ma se il credito diviene sofferente, dunque anche in caso
di insolvenza, il creditore e titolare della floating charge può nominare, o far
nominare dal tribunale, un curatore che avrà il compito di liquidare i beni
che costituiscono il patrimonio gravato dalla floating charge, disponibile in
quel dato momento, per soddisfare il creditore. Spesso la liquidazione viene
attuata mediante la vendita in blocco dell’azienda, perché spesso la floating
charge si estende a tutta l’azienda nel suo complesso, ottenendo cosı̀ un
prezzo migliore rispetto ad una vendita del patrimonio per singoli beni.
In Inghilterra, la floating charge è una garanzia molto diffusa per le società
per azioni. La banca, che la ottiene dalla propria debitrice, può decidere
quindi quasi da sola, tramite la nomina del curatore, sulla conservazione
o meno dell’impresa mediante cessione della stessa. Infatti il curatore dovrà,
in primo luogo, attivarsi affinché la banca ottenga, a fronte del proprio diritto di prelazione, la soddisfazione più piena possibile.
Dall’altro lato dello spettro degli ordinamenti (pur cosı̀ vicino, dall’altra
parte della Manica) c’è il diritto francese. Esso, a far data dalla riforma del
1985, che recentemente è stata nuovamente ritoccata, vuole mirare alla conservazione delle imprese in crisi e dei posti di lavoro. In questa ottica i precedenti investitori, dunque i creditori ed i soci, sono solo un disturbo e vengono rigorosamente messi da parte per salvare l’impresa. Il potere decisionale nel processo spetta quasi esclusivamente al tribunale fallimentare. Solo
il giudice incaricato decide se deve tentarsi la strada della conservazione
dell’impresa e con quale metodo. Deve assumere anche il parere del rappresentante dei creditori (che ha nominato lo stesso tribunale), ma senza esservi vincolato.
Più al centro fra i due estremi si collocano quegli ordinamenti che ri-
8
Il diritto fallimentare e delle società commerciali
chiedono la cooperazione di più interessati per la cessione dell’impresa. Nel
diritto tedesco decide in primo luogo il curatore fallimentare, che solitamente è un giurista o un commercialista. Viene nominato dal tribunale all’inizio del processo, ma può essere sostituito dai creditori mediante una loro delibera assembleare. Per decidere sulla cessione dell’impresa, il curatore
fallimentare deve ottenere il consenso del comitato dei creditori nominato
dal tribunale. Infine, il debitore – e nel caso di una società, il suo management – può richiedere al tribunale che il consenso sia prestato non solo dal
comitato dei creditori ma dalla loro assemblea plenaria. Se il consenso dei
creditori non viene prestato, il curatore non può eseguire la cessione dell’impresa. Può tuttavia fare un nuovo tentativo e proporre la conclusione
di un contratto, che forse piacerà di più ai creditori. Anche nel diritto fallimentare spagnolo il potere decisionale è ripartito in maniera analoga.
E dove si colloca in questo spettro il diritto italiano? Se viene dichiarato
il fallimento di un’impresa, la legge consente al curatore anche la cessione
dell’intero patrimonio dell’impresa con l’autorizzazione del tribunale e, pertanto, anche la cessione dell’impresa. Ma non so se di questa possibilità si
farà veramente uso nel fallimento; tuttavia, questa nuova regola, che è entrata in vigore nel luglio di quest’anno, è volta a stimolare e favorire la cessione del patrimonio o dell’impresa nel loro complesso come forma di liquidazione. Con questa regola anche l’Italia si colloca al centro dello spettro,
tuttavia fa dipendere la cessione dall’autorizzazione del tribunale. Invece
con l’amministrazione straordinaria ha una posizione del tutto estrema, vicina a quella della Francia. È lo Stato a decidere, per mezzo del ministero
competente. Il Ministro nomina e supervisiona il commissario straordinario,
che, a sua volta, deve sottoporre al ministro un piano per la conservazione
dell’impresa e quindi eseguire il piano, autorizzato dal ministro, secondo le
condizioni poste da quest’ultimo. Pertanto il ministro decide anche se l’impresa debba essere salvata mediante la cessione degli attivi o la ristrutturazione dei passivi. Il suo potere cessa solo allorquando dispone di procedere
mediante la ristrutturazione dei passivi. Infatti, in tal caso, la ristrutturazione deve essere approvata dai creditori secondo le regole del concordato
preventivo.
Quest’ultima osservazione ci porta all’altra strada possibile per la conservazione dell’impresa, ossia la ristrutturazione. In questa ipotesi, due sono
le regole importanti in relazione ai poteri decisionali. La prima domanda è:
chi può proporre nel processo un piano di ristrutturazione ed ottenere sul
punto una decisione vincolante? La seconda domanda è: chi decide in maniera vincolante sull’accoglimento o sul rigetto di tale proposta?
Riguardo alla prima domanda esistono alcune differenze tra gli ordinamenti giuridici. In alcuni ordinamenti solo il debitore può presentare la
proposta (in caso di società, i loro organi direttivi), in altri anche i creditori,
perlopiù oltre ai creditori anche il curatore. L’Italia è divisa: nel concordato
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preventivo classico solo il debitore può presentare la proposta, nell’amministrazione straordinaria solo il commissario, e deve presentarla al ministro
per ottenerne l’autorizzazione. Il diritto francese è nuovamente estremo. Il
debitore e i creditori possono sı̀ presentare una proposta al curatore, che la
sottopone poi al tribunale, ma hanno solo il valore di suggerimenti. Il tribunale redige autonomamente il piano di ristrutturazione, che poi esegue; non
è vincolato in alcun modo alle proposte. Tuttavia, da quest’anno, grazie alla
recente riforma, esiste una procedura, letteralmente di salvaguardia dell’impresa («procédure de sauvegarde») che precede la procedura fallimentare vera e propria, che consente di porre in essere misure volte al salvataggio dell’impresa su richiesta del debitore, non solo in caso di stato di insolvenza
ma già fin da una situazione di insolvenza imminente. In questo caso il debitore stesso deve presentare una proposta per la ristrutturazione dei debiti,
sulla quale si deciderà poi nella procedura.
Relativamente alla seconda domanda – chi decide sulla proposta di ristrutturazione? – riscontriamo grosso modo un orientamento uniforme, ovvero la riduzione e la dilazione dei debiti devono essere deliberate dai creditori. Persino nell’amministrazione straordinaria italiana, che dà al ministro
cosı̀ tanto potere, si richiede per l’accettazione del piano di ristrutturazione
una delibera della maggioranza dei creditori in base alle regole del concordato preventivo. In questo, il diritto francese riveste davvero una posizione
isolata: cosı̀ come il tribunale può, in piena discrezionalità, definire il piano
di ristrutturazione, cosı̀ lo può anche attuare senza necessità di alcun coinvolgimento dei creditori. Tuttavia, questo potere decisionale del tribunale è
limitato dal fatto che possa disporre solo su dilazioni dei debiti (ma in alcuni casi per periodi temporali lunghissimi!) e non invece su riduzioni. Per le
riduzioni il diritto francese richiede il consenso di ogni creditore interessato. Con la procedura preventiva predetta il diritto francese si avvicina nuovamente allo standard europeo. In questo caso il tribunale può dare attuazione ad una proposta di dilazione contro il parere dei creditori, solo se due
comitati dei creditori – uno per le banche e l’altro per i fornitori – hanno
espresso il loro consenso.
Se si confronta la distribuzione dei poteri nelle due tecniche giuridiche
della conservazione dell’impresa, si evince che in caso di cessione dell’impresa i creditori hanno un potere di intervento quasi nullo, mentre il potere
decisionale è piuttosto in capo al curatore ed al tribunale (e in Italia al ministro competente), mentre in caso di ristrutturazione quasi sempre i creditori nella loro totalità (e cioè secondo le rispettive maggioranze) hanno un
potere decisionale vincolante. Questa differenza risponde ad una certa logica. Il metodo della cessione presuppone che si trovi un acquirente per
l’impresa ed, in generale, se ne deve trovare uno disposto a pagare. Coloro
che hanno interesse al destino dell’impresa nella procedura fallimentare ricevono, quindi, un certo controllo dalla presenza di una controparte che
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Il diritto fallimentare e delle società commerciali
deve essere convinta dell’investimento nell’impresa. Questo bilanciamento
esterno manca nel caso della tecnica della ristrutturazione dei debiti. Qui
sono gli stessi creditori che devono investire, nel momento in cui deliberano
a maggioranza sulla dilazione e sulla riduzione dei loro crediti, invece di respingere un piano di ristrutturazione, e procedere alla liquidazione in vista
di una percentuale del ricavato. Il loro investimento consiste nel fatto che
decidono di «lasciare nell’impresa» i loro crediti residui o quanto altrimenti
ricevono a fronte dei loro debiti.
V. Sacrificio contributivo. – Dopo aver esaminato la ripartizione dei poteri per la conservazione dell’impresa, arrivo adesso alla seconda domanda
fondamentale, ovvero: chi può, con detto potere decisionale, essere chiamato nella procedura fallimentare a sopportare dei sacrifici per la conservazione dell’impresa?
In caso di insolvenza il primo problema sono i debiti. Pertanto il peso
contributivo grava essenzialmente sui creditori; il loro sacrificio consiste nel
fatto che consentono a ridurre le proprie pretese. Se tutti i creditori lo facessero volontariamente, mediante accordo con il debitore, non ci sarebbe
bisogno per la conservazione dell’impresa del diritto fallimentare. Quest’ultimo, per la conservazione dell’impresa fa sı̀ che il contributo di ciascun creditore sia dovuto, anche contro la sua volontà. Ma l’impresa deve anche
avere dei proprietari, che siano capaci e desiderosi di salvare l’impresa. Poiché per la conservazione dell’impresa di regola è necessario trovare nuovo
capitale, non essendo però possibile in un sistema di libero mercato costringere alcuno ad apportare capitale mediante un atto di autorità, è compito
del diritto fallimentare fare in modo che i precedenti proprietari lascino
spazio all’ingresso di nuovo capitale (o conferendolo loro stessi, oppure mediante il conferimento di terzi investitori). Pertanto per le società per azioni
deve consentire una riduzione e successivo aumento del capitale sociale,
funzionalmente alla riorganizzazione dell’impresa, delle modifiche nella
composizione dei soci, la sostituzione degli organi della società e talora anche una modifica della forma giuridica dell’impresa. Di seguito espongo come e da chi possono essere attuate le citate tecniche, da un lato della cessione dell’impresa e dall’altro della ristrutturazione.
1. Cessione dell’impresa. – I primi interessati al superamento dell’insolvenza attraverso la liberazione dell’impresa dal peso dei debiti sono naturalmente i creditori. Nel metodo della cessione dell’impresa perdono l’impresa
quale patrimonio responsabile, perché passa nelle mani di una terza persona, che non risponde più nei loro confronti. Le loro pretese adesso si dirigono sul ricavato in denaro della cessione. Se questo non basta, perdono i
loro crediti, perlomeno in caso di società che sono persone giuridiche, come
ad esempio le società per azioni, dato che questo tipo di società all’esito del-
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la liquidazione del suo patrimonio, perde la propria personalità giuridica –
e senza debitore si estinguono anche i crediti. La tecnica della cessione, a
ben vedere, non è nulla di diverso dalla classica forma del processo concorsuale a fini liquidativi, ma in questo caso è l’intero patrimonio del debitore,
la sua impresa, ad essere liquidato con un solo atto.
Da questa natura della cessione si spiega anche il sacrificio dei proprietari come contributo alla conservazione dell’impresa. Se dopo la soddisfazione dei creditori non rimane nulla del ricavato – come avviene di regola,
poiché di solito neanche i creditori sono integralmente soddisfatti – i precedenti proprietari rimangono totalmente scoperti – in caso di società per
azioni, gli azionisti – poiché il principio generale è che in sede di liquidazione i proprietari hanno diritto a ricevere qualcosa solo dopo l’integrale soddisfazione dei creditori. Ma allora c’è un nuovo proprietario, il cessionario
dell’impresa, che ha pagato qualcosa per l’impresa e di regola è pronto ad
investire qualcosa. Quindi anche dal versante proprietario arriva un contributo per la conservazione dell’impresa, e precisamente dall’acquirente, su
richiesta del curatore.
2. Ristrutturazione. – Nel metodo della ristrutturazione il contributo dei
creditori alla conservazione dell’impresa è in altra forma. L’impresa rimane
come patrimonio a garanzia dei loro crediti. Il loro contributo alla conservazione dell’impresa consiste nel fatto che i loro crediti sono ridotti o soddisfatti con prestazioni diverse, ed i crediti ancora residui vengono dilazionati. Da un punto di vista economico, il sacrificio dei creditori consiste in
una parziale cancellazione dei crediti o nell’accettazione di una prestazione
diversa da quella prevista, ovvero in un investimento – solo se i crediti residui sono dilazionati o vengono esercitati rimedi alternativi nei confronti
dell’impresa. Fintanto che la ristrutturazione consente di coprire i debiti,
ad investire non sono i proprietari, bensı̀ i creditori.
Come si presenta questa tecnica dal punto di vista dei proprietari? Se si
coinvolgessero solo i creditori per ottenere il contributo sopra descritto, lasciando del tutto impregiudicati i proprietari, ciò significherebbe che in caso di successo della ristrutturazione dell’impresa, grazie a misure organizzative, commerciali e finanziarie, anche i proprietari beneficerebbero della
riuscita dell’impresa, senza aver apportato alcun contributo proprio. Se cosı̀
fosse, i creditori non sarebbero certo soddisfatti e renderebbero pertanto il
loro contributo condizionato dall’apporto di contributi dei precedenti proprietari.
Qui si determina una situazione difficile per il diritto fallimentare.
L’insolvenza è un elemento di disturbo tra creditori ed un debitore. Se
detto debitore è una società, allora ha anche una propria vita interna regolamentata, e cioè i rapporti dei soci tra loro e tra loro e la società, ma il
diritto fallimentare dell’Europa continentale tradizionalmente non si oc-
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Il diritto fallimentare e delle società commerciali
cupa di questa vita interna; la si considera una questione di diritto societario. Il diritto fallimentare considera ciascun debitore come unità, sia che
si tratti di un individuo, sia che si tratti di una società, e cerca di riordinare
i loro rapporti con il mondo esterno. Le leggi fallimentari che seguono
questa impostazione non contengono quindi disposizioni volte alla conservazione delle imprese in crisi che consentano una riorganizzazione degli assetti proprietari della società insolvente, quando appaia necessaria
per il risanamento dell’impresa, ad esempio una riduzione o un aumento
del capitale sociale con il conferimento delle azioni di nuova emissione a
terzi, quali i creditori. In altre parole, questa riorganizzazione con un contributo dei soci non può essere imposta dai creditori o da un’autorità fallimentare munita di poteri decisionali; è piuttosto rimessa agli stessi soci,
secondo le norme applicabili del diritto societario. Nella nuova legge fallimentare tedesca, entrata in vigore nel 1999, questo stato di cose è stato
mantenuto volutamente inalterato.
Questa ripartizione di competenze tra il diritto fallimentare ed il diritto
societario significa che qualora la conservazione dell’impresa possa avvenire
mediante una ristrutturazione, ma non si raggiunga la maggioranza dei soci
necessaria per la ristrutturazione societaria, a coloro che vogliano procedere
con il risanamento non rimane che la strada della cessione dell’impresa.
Contro questa scelta i soci non possono opporsi, poiché la relativa decisione
spetta esclusivamente agli interessati alla cessione e alle autorità a ciò preposte dalle regole di diritto fallimentare.
Questo problema viene trattato assai diversamente nel diritto fallimentare inglese e americano. Lı̀ si pensa in modo veramente «capitalistico». I
creditori sono finanziatori dell’impresa tanto quanto i soci, gli azionisti; i
creditori conferiscono capitale di rischio, come gli azionisti conferiscono
il capitale sociale. Qualora la conservazione dell’impresa necessiti di una ristrutturazione degli assetti proprietari, per esempio mediante il conferimento di nuovo capitale o mediante l’attribuzione ai creditori di partecipazioni
al capitale sociale a soddisfazione delle loro pretese, allora non si può evitare che i precedenti proprietari effettuino il loro contributo, riducendo la
loro partecipazione, in alcuni casi annullandola del tutto, e consentendo
l’ingresso di nuovi soci o dei creditori, mediante un relativo aumento di capitale. Le leggi fallimentari inglese e statunitense contengono perciò alcune
disposizioni che consentono di imporre ai soci simili sacrifici a seguito di
delibere assunte con la maggioranza dei voti dei creditori e decisioni del tribunale.
A me pare che quest’ultima impostazione sia la migliore – non perché
sia capitalista in maniera conseguente, ma perché lascia aperte in ugual misura a chi volesse provare a conservare l’impresa entrambe le alternative
giuridiche (e quindi protegge i soci, gli interessati da indebiti tentativi di ricatto da parte dei soci).
Parte I - Dottrina
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Come osservatore esterno non sono riuscito a farmi un quadro chiaro di
come il diritto italiano affronti questa questione. Certamente questo tipo di
sacrificio dei soci non può essere imposto dai creditori in base alle regole
generali del diritto fallimentare. In base al concordato preventivo, cosı̀ come riformato di recente, è previsto, per il vero, che i creditori possano venire soddisfatti anche mediante l’attribuzione di azioni e quote nella società
debitrice, ma le loro decisioni non possono modificare direttamente lo statuto della società né le partecipazioni societarie. Questo tipo di ristrutturazione segue piuttosto le regole del diritto societario ed è pertanto riservata
ai soci. Dell’amministrazione straordinaria non so abbastanza. Da un lato
dovrebbe consentire la conservazione dell’impresa anche mediante una ristrutturazione economica e finanziaria dell’impresa (Art. 27, comma 2, lett.
b) ed il piano di ristrutturazione, che presceglie questa via e viene approvato
dal Ministro, deve indicare, fra l’altro, le eventuali previsioni di ricapitalizzazione (Art. 56, comma 3). Dall’altro lato la legge non dice che il Ministro
è anche legittimato direttamente a modificare la struttura delle partecipazioni societarie. Infine, nel decreto legge Marzano, cosı̀ come avviene ora
per il concordato preventivo, si prevede che ai creditori possano essere attribuite azioni e quote a soddisfazione delle loro pretese, ma non si dice se
questo debba avvenire per atto del Ministro o dei soci. Tuttavia mi pare positivo che sia perlomeno accettato il principio che i creditori possano venire
soddisfatti mediante l’attribuzione di azioni della società. Nella stessa direzione va anche la nuova legge fallimentare spagnola del 2003. In Germania,
la nuova legge fallimentare esige, al contrario, che vi sia il consenso dei singoli creditori all’attribuzione di partecipazioni al capitale sociale, anche
qualora si tratti di quote che non comportino una responsabilità personale.
Questo approccio difensivo non si spiega nel contesto di un diritto fallimentare d’impresa moderno.
3. Creditori garantiti e privilegiati. – Particolarmente difficoltosa, nell’ambito di un processo di risanamento dell’impresa, è la posizione dei creditori garantiti da diritti reali e prelazioni sui beni dell’impresa, quali diritti
di pegno, ipoteche e diritti di ritenzione. Qualora sussistano simili diritti di
garanzia su beni funzionali dell’impresa e che sono necessari per la prosecuzione della sua attività, il diritto del creditore garantito ad ottenere la liquidazione immediata del bene dato in garanzia potrebbe rapidamente vanificare qualsiasi speranza di conservazione dell’impresa. Ma poiché ormai
la conservazione dell’impresa è considerata ovunque uno scopo di pari valore rispetto alla liquidazione, troviamo un po’ dappertutto delle disposizioni che impediscono ai creditori garantiti di procedere senz’altro alla vendita
dei beni oggetto della garanzia, fintanto che non venga deciso nella procedura fallimentare se l’impresa debba essere risanata ed come – in base alla
tecnica della cessione o della ristrutturazione. Le regole sono diverse da
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Il diritto fallimentare e delle società commerciali
paese a paese e secondo il tipo di garanzia che assiste i creditori. Alcune
legislazioni sospendono in via generale il diritto di vendita, altre prevedono
delle ordinanze ostative dei tribunali caso per caso. Alcune leggi prevedono
ulteriori regole, che dovrebbero proteggere i creditori da eventuali perdite
degli interessi e del valore dei beni oggetto delle garanzie, che potrebbero
subire come conseguenza della continuazione dell’uso di detti beni per l’attività dell’impresa. Fino a questo punto possiamo parlare di un diritto comune europeo: finquando nell’ambito di una procedura possa ancora tentarsi la via della conservazione dell’impresa, la liquidazione di singoli beni
funzionali all’attività dell’impresa può essere provvisoriamente bloccata.
Assai diversa è la situazione qualora alla fine debba decidersi per la conservazione dell’impresa. Possono costringersi anche i creditori garantiti a
prestare il loro sacrificio per la conservazione dell’impresa, cosı̀ come i creditori chirografari e i soci?
I creditori garantiti sono quei finanziatori dell’impresa ai quali l’ordinamento giuridico riconosce una posizione privilegiata al di sopra di tutti gli
altri finanziatori. Pertanto non meraviglia il fatto che l’idea che anche loro
possano rendere un contributo per la conservazione dell’impresa si sia andata affermando in modo molto lento e in maniera diversa da paese a paese.
Anche qui fa differenza se il risanamento dell’impresa avviene mediante una
cessione o una ristrutturazione degli assetti proprietari. In caso di cessione
dell’impresa, ai creditori garantiti non si chiede molto. Se all’impresa appartengono beni oggetti di garanzie reali e il loro trasferimento a un terzo, insieme all’impresa, è possibile solo mediante il consenso del creditore garantito, questi può far comprare anche il proprio consenso oppure si può far
costituire un nuovo diritto di garanzia su un altro bene. Pertanto in caso
di cessione non perde nulla. Se invece il diritto di garanzia non osta alla cessione del bene, ciò significa che esso sarà opponibile anche al terzo acquirente ed il suo valore non è pregiudicato dalla cessione. Ad esempio, questa
è la regola in diritto tedesco in tema di ipoteca. Se il curatore fallimentare
aliena un bene immobile dell’impresa gravato da un’ipoteca nell’ambito di
una procedura fallimentare, la proprietà viene trasferita all’acquirente assieme all’ipoteca, che pertanto pagherà un prezzo ridotto. Solamente qualora
un bene oggetto di una garanzia possa essere alienato e per l’effetto si estingua il diritto di garanzia, si pone il problema se il creditore garantito debba
sopportarne il peso. In Europa la risposta a questa domanda è generalmente che il creditore garantito avrà diritto ad essere soddisfatto sul ricavato
della vendita in maniera privilegiata, conformemente al grado di prelazione
vantato in base al diritto di garanzia poi estinto. Tuttavia potrebbe dover
sopportare alcuni costi relativi alla procedura. In questo senso si segnala
il diritto francese, per cui le pretese dei creditori garantiti sono subordinate
rispetto ai crediti per i salari dei dipendenti per un certo periodo di tempo,
e i crediti per i costi e gli oneri relativi alla procedura. Ma nel frattempo
Parte I - Dottrina
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anche in Francia questa regola viene considerata un’esagerazione, troppo
gravosa per i creditori garantiti.
La situazione internazionale ed europea in tema di conservazione dell’impresa mediante ristrutturazione dei debiti è meno uniforme. Finora la
soluzione classica è che i diritti di garanzia e i crediti garantiti non possono
essere toccati senza il consenso dei creditori garantiti. La ritroviamo in Inghilterra, in Francia (dove peraltro sono solo consentite dilazioni dei crediti), in Italia nel concordato preventivo, e, se ben capisco, anche nell’amministrazione straordinaria. La soluzione contraria – cosa non scontata – si
trova invece negli Stati Uniti. Lı̀ anche i creditori garantiti sono visti quali
finanziatori della società ed il presupposto generale è che tutti i finanziatori
(azionisti, creditori chirografari e creditori garantiti) fanno parte di una medesima comunità di rischio. Questa comunità fa sı̀ che quando il rischio si
realizzi, tutti i membri della comunità sopportino la perdita in misura diversa, ma non consente invece ad alcuni membri di mantenersi del tutto indenni rispetto ai tentativi di salvataggio. Come una volta disse un autore americano, è quanto accade in caso di avaria nel diritto marittimo: quando una
nave s’incaglia, per farla nuovamente navigare occorre liberarsi di parte del
carico, che appartiene a diversi proprietari. È tollerabile che un proprietario
voglia sottrarsi al sacrificio perché la sua merce è particolarmente di valore e
ben stivata. I diversi valori delle merci sono presi in considerazione solo
quando alla fine del viaggio si conteggiano i danni.
In base al diritto fallimentare americano, in base al famoso Chapter 11
sulla «reorganization», è possibile imporre un sacrificio anche ai creditori
garantiti, per esempio mediante riduzione dei crediti garantiti o modifiche
dei diritti di garanzia in misura tale che non arrechino pregiudizio alla conservazione dell’impresa. In Europa, la Germania segue questo modello con
la sua nuova legge fallimentare.
4. Riassunto e problemi consequenziali. – Riassumo qui la mia esposizione in tema di sacrifici contributivi in caso di conservazione dell’impresa. In
caso di cessione dell’impresa il contributo consiste per i precedenti finanziatori nell’accontentarsi di un prezzo per la cessione corrispondente al valore
attuale dell’impresa in crisi e alla situazione del mercato e che pertanto probabilmente non coprirà i loro crediti, con l’eccezione della posizione dei
creditori garantiti. In sede di successiva distribuzione del prezzo in base
ai principi della liquidazione i creditori chirografari possono attendersi di
essere soddisfatti solo in parte e i proprietari non riceveranno proprio nulla.
In caso invece di ristrutturazione manca del tutto la prova del mercato, cosicché il sacrificio non si misura solo sul ricavato, ma viene determinato giuridicamente nel corso della procedura sulla base di decisioni delle competenti autorità giudiziarie o amministrative oppure degli stessi finanziatori.
Questo metodo solleva una serie di problemi consequenziali, che qui
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Il diritto fallimentare e delle società commerciali
posso solo menzionare, ma non spiegare in dettaglio. Se si lascia decidere ai
proprietari, come si fa dappertutto tranne in Francia, occorre dividerli in
classi, che deliberano separatamente. Infatti, perlomeno i proprietari, i creditori garantiti e i creditori chirografari rappresentano nel processo degli interessi cosı̀ diversi, che il legislatore non può consentire che gli uni decidano
a pari titolo sui diritti degli altri. Le legislazioni più moderne, nella misura
in cui riconoscano il metodo della ristrutturazione, prevedono dappertutto
la suddivisione in classi di votanti; in Italia ciò è quanto è avvenuto mediante la recente riforma del concordato preventivo con il decreto legge del
marzo 2005.
Se si formano dei gruppi, deve regolarsi cosa deve succedere qualora i
risultati delle votazioni per singoli gruppi differiscano tra loro, per esempio
un gruppo vota a favore di una certa misura e un altro gruppo vota contro.
Inoltre, la legge deve stabilire dei criteri in base ai quali può essere consentito imporre al singolo finanziatore un sacrificio mediante una decisione altrui, ovvero mediante una decisione assunta dalla maggioranza del suo
gruppo di appartenenza, oppure dalla maggioranza di altri gruppi, oppure
attraverso una decisione dell’autorità giudiziaria o amministrativa. Anche
questo è stato previsto dalle legislazioni europee più moderne, e in Italia
dall’Art. 180 della legge fallimentare, cosı̀ come riformata.
Gli Stati Uniti d’America sono un modello per dette legislazioni. Lı̀ vi
furono le prime ristrutturazioni con le frequenti insolvenze delle compagnie ferroviarie nel secolo XIX. Quando falliva una grande compagnia ferroviaria, era chiaro, data la sua importanza, che non potesse semplicemente chiudersi e abbandonarsi la relativa attività. Però era anche chiaro che
solitamente non vi era nessuno che potesse comprare un’intera compagnia
ferroviaria, quale per esempio la rete ferroviaria intercontinentale e i vagoni e le locomotive della Northern Pacific Railway Co.. Pertanto doveva
escogitarsi giuridicamente una ristrutturazione dei debiti e delle partecipazioni societarie, in altre parole dell’intero capitale. Cosı̀, negli ultimi
150 anni, si sono andate sviluppando dottrina e giurisprudenza sul metodo della ristrutturazione ed in particolare sulla ripartizione degli oneri e
delle opportunità, che trovano oggi una loro sistemazione del famoso
Chapter 11 della legge fallimentare americana. Notoriamente oggi i fruitori più significativi non sono più le compagnie ferroviarie, bensı̀ le grandi
compagnie aeree intercontinentali. Ma anche la Chrysler è finita nel Chapter 11, come si dice in America, e da quel che si legge potrebbero finirvi
anche la Ford e General Motors.
I confini entro cui i diritti dei precedenti finanziatori possono essere ristrutturati sono disegnati nel diritto americano mediante complicate regole
di dettaglio; principalmente vanno nella direzione di garantire almeno il valore di liquidazione dell’impresa a fronte delle pretese dei creditori e degli
azionisti. Questo criterio tuttavia è di difficile applicazione, poiché in caso
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di ristrutturazione non dovrebbe proprio arrivarsi a una liquidazione dell’impresa, né potrebbe arrivarsi a una cessione dell’impresa a fini liquidatori, probabilmente per mancanza di un acquirente interessato. Quindi, nel
processo americano si discute molto per tracciare i sopra citati confini.
Nel nuovo diritto fallimentare tedesco viene assunta la garanzia del valore
della liquidazione, mentre la formulazione della riforma italiana mi sembra
essere più flessibile (Art. 180). Qui si esige solamente che i creditori appartenenti alle classi sfavorevoli alla ristrutturazione non vengano posti in una
posizione deteriore rispetto a quella che avrebbero in base alle alternative
procedurali praticabili nel caso concreto.
Da questa esposizione problematica necessariamente breve, si evince
chiaramente che il metodo della ristrutturazione è giuridicamente assai
più complesso del metodo della cessione. In Germania, in Inghilterra e apparentemente anche in Francia, il metodo della cessione è infatti molto più
diffuso nella prassi rispetto a quello della ristrutturazione, ed è quindi il più
utilizzato per la conservazione delle imprese in crisi.
VI. Ulteriori elementi di sostegno. – Finora ho descritto gli elementi fondamentali del processo fallimentare, che sono utilizzati per la conservazione
dell’impresa: il potere decisionale e la possibilità di esigere dei sacrifici giuridici dai finanziatori. A ciò si aggiunge, evidentemente, il fatto che abbiamo a che fare con il diritto fallimentare. Ciò significa sempre che l’impresa,
quando la procedura è in corso, beneficia di un attimo di respiro, poiché è
posta al riparo dalle procedure esecutive dei singoli creditori, e riceve una
cornice legale per la prosecuzione temporanea dell’attività.
Al di là di questi elementi, nella legge troviamo ulteriori elementi di sostegno per la conservazione dell’impresa. Di seguito intendo esaminarne tre
esempi.
1. Insolvenza? – Oggi il nostro tema di discussione è la conservazione
dell’impresa in crisi. Spesso si dice che la procedura comincia quando ormai è troppo tardi, se viene aperta solo in caso di insolvenza dell’impresa.
Si dovrebbe intervenire prima, se si volesse avere successo. Di qui si è andata affermato una tendenza internazionale per la facilitazione e l’anticipazione dell’apertura della procedura d’insolvenza.
Un esempio significativo è dato dal diritto americano. La procedura di
reorganization in base al Chapter 11 della legge fallimentare viene aperta, a
tutti gli effetti, già quando la stessa debitrice, la corporation, presenta un’istanza al tribunale. Il tribunale non accerta se è insolvente oppure no. La
direzione dell’impresa può dunque procurarsi la protezione e i mezzi che
offre la procedura, non appena preveda per il futuro una crisi finanziaria
non altrimenti superabile.
L’apertura della procedura senza previo accertamento dello stato di in-
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Il diritto fallimentare e delle società commerciali
solvenza da parte del tribunale è inoltre la regola in Inghilterra, laddove il
titolare della floating charge nomini il curatore speciale. Inoltre, se la società
debitrice può rinunciare alla protezione delle azioni esecutive dei creditori
che offre la procedura d’insolvenza (ad esempio perché i debiti principali
non sono ancora scaduti), può procurarsi di propria iniziativa una ristrutturazione dei debiti, possibile nella procedura d’insolvenza, ben prima che ricorra uno stato di insolvenza vero e proprio mediante un cd. creditors’ voluntary arrangement – in gergo giuridico inglese un «CVA».
In Germania e in Spagna non si vuole rinunciare a un accertamento del
tribunale dello stato di insolvenza. Ma le leggi consentono l’apertura della
procedura anche in caso di insolvenza imminente, laddove sia il debitore a
presentare l’istanza. La direzione dell’impresa può dunque elaborare un
progetto di risanamento anche in caso di un prevedibile stato di insolvenza
e presentarlo in tribunale e ai creditori anche congiuntamente all’istanza di
apertura. Similmente la recente riforma francese ha previsto che sia sufficiente un’imminente cessazione dei pagamenti per l’apertura della procedura preventiva della conservazione dell’impresa (procédure de sauveguarde).
In Italia, se ben capisco, l’apertura della procedura presuppone sempre
il previo accertamento dello stato di insolvenza, anche in caso di amministrazione straordinaria. Tuttavia il Decreto Marzano offre un accesso diretto al Ministro per le grandi imprese in crisi. Basta che il tribunale accerti
successivamente lo stato di insolvenza.
Pertanto può riconoscersi una tendenza internazionale ad ammettere
l’apertura della procedura d’insolvenza per volontà del debitore anche prima che sussista uno stato di insolvenza. Che l’Italia finora non partecipi a
questa tendenza non mi sembra cosı̀ importante. Comunque non può tracciarsi facilmente una linea netta tra stato di insolvenza attuale e preesistente.
In ultima analisi, il debitore può sempre presentare uno stato di crisi dei
pagamenti come stato di insolvenza, se è lui stesso a presentare l’istanza
di apertura. Mi sembra invece più importante distinguere se il tribunale accerti o meno lo stato di insolvenza. In proposito sussiste una chiara differenza tra il diritto inglese e quello americano da una parte, e il diritto degli Stati
dell’Europa continentale dall’altra. E la differenza non è neanche cosı̀ facilmente superabile.
2. Conduzione dell’impresa nel corso della procedura. – Altro tema importante è a chi spetti la conduzione dell’impresa nel corso della procedura.
Anche qui troviamo delle differenze significative. Solitamente negli Stati
Uniti la direzione dell’impresa rimane al suo posto, anche se dovrà tener
conto anche degli interessi dei creditori e sarà sorvegliata affinché lo faccia.
Anche in Germania questo è possibile, come pure nella nuova procedura
preventiva in Francia. In questi casi si fa leva su un interesse proprio della
direzione dell’impresa a presentare per tempo un’istanza di apertura della
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procedura e sull’esperienza dalla stessa già maturata per la conduzione temporanea dell’impresa. Nettamente contrario a questa impostazione è il diritto inglese. Laddove debba tentarsi l’apertura di una procedura d’insolvenza
per la conservazione dell’impresa, la precedente direzione dell’impresa non
merita più alcuna fiducia e deve essere pertanto sostituita da persona neutrale e indipendente, che possa anche agire energicamente contro la precedente cattiva gestione. Simile è l’approccio in Italia con l’amministrazione
straordinaria: viene sempre nominato un nuovo commissario.
3. Gruppi d’imprese. – Il terzo esempio sono i gruppi d’imprese. Come
noto, spesso il collegamento di gruppo è cosı̀ stretto, che la conservazione
di singole imprese del gruppo senza quella delle altre non è affatto possibile, oppure la conservazione del gruppo intero è più agevole o vantaggiosa mediante un unico piano. Il diritto fallimentare americano consente la
riunione delle procedure d’insolvenza di più imprese davanti a un solo tribunale e con un unico curatore, come anche fa il diritto italiano per l’amministrazione straordinaria. In Europa, l’Italia ha una posizione legislativa
isolata. Tuttavia in altri ordinamenti giuridici la riunione di distinte procedure o comunque la trattazione parallela delle stesse può avvenire anche
in assenza di specifiche disposizione normative, se per più imprese del
gruppo la competenza è dello stesso tribunale; cosı̀ ad esempio avviene
in Inghilterra e in Germania. Alla luce della diffusione sempre maggiore
e del significato dei gruppi nell’economia moderna, dovremo attenderci
anche negli altri Stati europei legislazioni che vadano nella stessa direzione
di quella italiana.
VII. Limiti giuridici della politica della conservazione dell’impresa. – Finora abbiamo parlato dei presupposti e dei mezzi di diritto fallimentare per
la conservazione dell’impresa. Quanto più questa parte del diritto fallimentare diventerà «normale», tanto più dovranno delinearsi i limiti che potrà
incontrare. Da un lato hanno natura costituzionale, dall’altro di diritto comunitario.
1. Diritto costituzionale. – Il diritto fallimentare opera mediante attacchi
drastici ai diritti dei debitori, dei loro proprietari e creditori. Pertanto possono venire in rilievo i diritti fondamentali della proprietà e della libertà di
associazione. Nella misura in cui l’impresa viene conservata mediante la tecnica della cessione e quindi la debitrice viene privata del proprio patrimonio, le pretese dei creditori vengono limitate al ricavato della cessione e la
società ora incapiente viene sciolta, ancora questo stato di cose non solleva
alcun dubbio di costituzionalità. È il classico metodo con cui viene affrontata l’insolvenza, con la sola particolarità che il ricavato viene ottenuto mediante un unico atto, ossia la cessione dell’impresa. L’evidenza che il rica-
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Il diritto fallimentare e delle società commerciali
vato non sia sufficiente per soddisfare interamente tutti i finanziatori accende invece dei dubbi di costituzionalità.
Diversa è la situazione nel caso di ristrutturazione. Qui manca il ricavato, quale rappresentazione spietata dell’attuale situazione economica, e il risultato del processo poggia piuttosto su aspettative future. Qui i dubbi costituzionali si profilano in relazione alla legittimità dei sacrifici e delle opportunità determinate in capo ai creditori, proprietari e nuovi finanziatori.
In Europa gli aspetti di diritto costituzionale del diritto fallimentare che
si occupa della conservazione dell’impresa non sono stati ancora consapevolmente esaminati. Anche in questo gli Stati Uniti sono dei precursori.
Qui il potere di ingerenza nei diritti dei creditori e dei soci è stato ritenuto
scevro da dubbi di costituzionalità, purché venga preservato agli stessi il valore della liquidazione corrispondente alla loro posizione giuridica. Tuttavia
in pratica spesso viene tollerato il fatto che ai precedenti proprietari, magari
per ragioni tattiche, venga mantenuta una posizione nell’assetto proprietario (seppur con minori diritti), anche qualora in caso di liquidazione sarebbero usciti del tutto. In altre parole, anche se i creditori non sono soddisfatti per intero con il valore della liquidazione. A mio avviso, ciò dovrebbe
condurre anche in Europa ad affermare solo con grande prudenza l’esistenza di un diritto costituzionalmente protetto al valore della liquidazione. A
ciò si aggiunga, in Europa, che il diritto di proprietà è protetto solamente
con la riserva dell’interesse sociale. Con ciò si lascia anche giustificare il fatto che gli interessi dei lavoratori possano prevalere su quelli dei creditori e
dei proprietari, come per esempio avviene in Francia.
Negli Stati Uniti è stato deciso che la sospensione del diritto dei creditori di porre in essere azioni esecutive individuali che consegue all’apertura
di una procedura d’insolvenza è pienamente legittima anche nel caso dei
creditori garantiti, fintanto che colpisca solamente la possibilità di esercitare
l’azione e non già la sostanza del diritto di garanzia. Anche in Europa dovrebbe facilmente registrarsi un consenso in tale direzione.
2. Diritto comunitario. – La dottrina economica finora ha guardato con
sospetto alla parte del diritto fallimentare che si occupa della conservazione
dell’impresa, sulla base dell’assunto che potrebbe impedire o ritardare l’uscita dal mercato delle imprese prive di successo, potendo quindi comportare un’alterazione della concorrenza e un’allocazione inefficiente dei fattori
della produzione. Tuttavia più recentemente anch’essa ha accettato il fatto
che la reazione all’insolvenza non debba necessariamente essere la liquidazione, potendo invece consistere in una riorganizzazione.
Un limite lo pone però il Trattato europeo, che proibisce gli aiuti di
Stato che possono alterare la concorrenza nel favorire determinate imprese (Art. 87). Anche la legislazione può costituire un aiuto. Notoriamente
,la Commissione europea aveva censurato in tal senso la prima Legge Pro-
Parte I - Dottrina
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di, con ciò inducendo l’Italia a dare una base di applicazione più generalizzata all’amministrazione straordinaria. Tuttavia il legislatore italiano rimane sotto osservazione dell’Europa a causa della sua predisposizione e
capacità ad emettere atti ad hoc, come ha nuovamente mostrato con il Decreto Marzano.
VIII. Retrospettiva e nuovo orizzonte. – La conservazione dell’impresa
attraverso il diritto fallimentare, venti o trenta anni fa, in Europa, era ancora
un argomento di politica legislativa, e si discuteva di più sul se che sul come.
Oggi si è affermato come un ramo del diritto fallimentare. I «Principles of
European Insolvency Law», di recente elaborazione, già descrivevano la
doppia corsia del diritto fallimentare come dato di fatto (2). Oggi si discute
dei diversi tipi di procedura per la conservazione dell’impresa, per esempio
su quelle a forte influenza statale e dei tribunali, e di quelle in cui le decisioni nel processo vengono perlopiù rimesse alle parti direttamente interessate. Bisognerà di continuo fare i conti con il diritto comunitario. Per il futuro il riconoscimento reciproco e il coordinamento internazionali di questa
parte del diritto fallimentare degli Stati sarà un tema molto importante.
(2) ‘‘Principles of European Insolvency Law’’, a cura di McBryde/Flessner/Kortmann.
Kluwer Legal Publishers: Deventer (NL) 2003.
IL DISEGNO DI LEGGE DELEGA
DI RIFORMA DELLE DISPOSIZIONI PENALI
IN MATERIA DI PROCEDURE CONCORSUALI
di
Enrico Scòpesi (*)
Alla fine di agosto è stato presentato, discusso ed approvato dal Consiglio dei Ministri un pacchetto di norme in materia di riforma delle procedure di amministrazione straordinaria delle grandi imprese in crisi e di
adeguamento della normativa penale fallimentare alla nuova disciplina introdotta nel 2006, anche al dichiarato fine di «superare l’inadeguatezza
delle relative sanzioni penali» (Consiglio dei Ministri n. 15, del 28 agosto
2008).
L’intervento del Governo, presentato in Parlamento alla fine di ottobre
ha suscitato in verità reazioni e commenti soprattutto per la previsione dettata alla lettera p) del disegno di legge delega, volta a limitare la equiparazione della dichiarazione dello stato di insolvenza delle grandi imprese in
crisi alla dichiarazione di fallimento, ai fini della punibilità delle condotte
indebite o ingiustificate tenute in corso di procedura, alla sola ipotesi di
conversione dell’amministrazione straordinaria in fallimento, in corso o al
termine della procedura, ovvero quando si riscontri la falsità dei presupposti per l’ammissione della procedura. (1)
Una disposizione che secondo alcuni – e tra questi i componenti del
Consiglio Superiore della Magistratura – riproporrebbe il contenuto dell’emendamento «salva-manager» al c.d. decreto Alitalia, con possibili negativi effetti sui processi attualmente in corso per i gravi dissesti finanziari
che hanno caratterizzato il recente passato italiano (Parmalat e Cirio in testa)
Un dibattito su di un punto del disegno di legge forse anche di concreta
rilevanza, ma che tuttavia ha un po’ distolto l’attenzione dal merito di un
(*) Avvocato in Genova.
Parte I - Dottrina
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progetto di riforma che contiene elementi di interesse e spunti meritevoli di
un approfondimento.
*
* *
L’esigenza di una rivalutazione organica delle disposizioni penali dettate
in materia di procedure concorsuali è stata d’altronde autorevolmente rappresentata e sostenuta già pochi anni dopo il varo della disciplina ancora
oggi vigente. Un primo progetto di riforma del Titolo VI del Regio Decreto
del 1942, ad opera del prof. M. Punzo, risalente agli anni ’50, proponeva
infatti alcuni temi ancora oggi di particolare attualità, quali l’abbandono
del sistema casistico nella costruzione delle diverse fattispecie e la previsione di un necessario legame causale tra la condotta illecita e la genesi o l’aggravarsi del dissesto dell’impresa.
Altre proposte di riforma si sono succedute, trovando impulso in iniziative dell’Ordine dei Dottori Commercialisti (alla fine degli anni ’60) o del
C.I.S.(Centro Interdisciplinare per lo Studio dei problemi giuridici, economici e sociali), che nei primi anni ’80 costituı̀, su incarico del Ministro di
Grazia e Giustizia, una commissione presieduta da Pietro Pajardi per la stesura di una bozza di legge delega, approdata – senza ulteriore esito – al
Consiglio dei Ministri nel 1989.
Più di recente, si possono segnalare due iniziative di fonte parlamentare,
avanzate nel corso della trascorsa legislatura, ed anch’esse rimaste senza seguito (si tratta della proposta di legge «Fassino», n. 970, presentata il 21
giugno del 2001 e ritirata il 22 luglio 2004, e della proposta n. 2342 «Cola»,
rimasta a lungo ferma in Commissione Giustizia).
Senza entrare nel merito di progetti di riforma che non hanno poi trovato uno sviluppo positivo, si può tuttavia osservare come entrambe le due
più recenti proposte, pur se diversamente strutturate e con apprezzabili differenze, si caratterizzassero per una semplificazione delle fattispecie, una
minore severità del trattamento sanzionatorio, e la previsione di un necessario legame causale, o quantomeno temporale, tra la condotta illecita e la
genesi o l’aggravamento del dissesto.
Cosı̀, la prima ipotesi di intervento (proposta n. 970), strutturata nella forma di delega al Governo per «la riforma delle procedure della crisi di impresa»,
si muoveva espressamente nella direzione di una «significativa riduzione degli
attuali margini di pena», e di una riduzione, semplificazione e razionalizzazione delle fattispecie di bancarotta nelle sue diverse articolazioni, con la eliminazione delle ipotesi colpose e la tendenziale circoscrizione dell’intervento penale ai soli comportamenti dell’imprenditore «privi di qualunque giustificazione economica e lesivi della garanzia dei creditori, in quanto posti in essere in
stato di insolvenza ovvero dotati rispetto ad essa di efficacia causale» (in questo
senso, la relazione illustrativa del progetto di legge).
24
Il diritto fallimentare e delle società commerciali
Anche la seconda e più recente proposta di riforma (n. 2342), che si poneva quale prima e dichiarata finalità la radicale modifica del sistema sanzionatorio, del quale lamentava la «irragionevole e sproporzionata severità»,
sottolineava comunque l’esigenza di «rimodulare e semplificare la fattispecie,
conferendo rilevanza penale a quelle sole condotte che possiedano realmente
efficacia causale rispetto al fallimento o al dissesto della società».
*
* *
Come si è visto, l’iter parlamentare dei due ultimi progetti di riforma
della normativa penale-fallimentarre non ha avuto seguito. Il disegno di legge delega varato dal Governo e sottoposto in ottobre all’attenzione del Parlamento riprende invece, in diversi punti, lo schema di delega originariamente dettato alla lettera d), del comma 6 del c.d. «maxi-emendamento»
al disegno di legge di conversione del decreto 14 marzo 2005, recante la delega al Governo per la riforma organica della disciplina delle procedure
concorsuali.
In una sua prima formulazione, la legge delega avrebbe infatti dovuto
investire il legislatore delegato anche della riforma della disciplina «dei reati
commessi dal fallito», nell’ambito di un organico ed apprezzabile riordino
della intera normativa fallimentare.
La specifica previsione, dettata appunto alla lettera d), è stata però stralciata in sede di approvazione definitiva, per il contrasto politico sorto sul
punto della determinazione dei limiti sanzionatori (solo per inciso, si segnala come il testo in esame prevedesse un cancello tra i due ed i sei anni di
reclusione per le ipotesi di bancarotta fraudolenta «patrimoniale» e «documentale», tra uno e quattro anni per la bancarotta fraudolenta «preferenziale» e da sei mesi a due anni per la bancarotta semplice).
Il progetto di riforma oggi all’esame del Parlamento si muove quindi nel
solco già tracciato dalle precedenti ipotesi di riforma e risponde in parte a
quelle esigenze di coordinamento sorte con la riforma di alcuni istituti della
legge fallimentare e la previsione ex-novo di altri. In questo senso, nell’opinione anche dei primi commentatori, ha il pregio di un certo equilibrio. Rimangono peraltro alcuni aspetti che, laddove il testo venisse approvato in
questa veste definitiva, dovrebbero essere ripresi ed approfonditi dal legislatore delegato.
*
* *
Il nucleo del nuovo apparato sanzionatorio si fonda su tre ipotesi di
bancarotta fraudolenta: patrimoniale, documentale e preferenziale.
1. La prima consiste, alternativamente, nel fatto dell’imprenditore che:
Parte I - Dottrina
25
«distrae, occulta, dissimula, distrugge o dissipa» il patrimonio che «a norma delle leggi civili, è destinato al soddisfacimento dei creditori», ma solo
se ciò avvenga «contemporaneamente allo stato di insolvenza o al concreto
pericolo del medesimo»; esponga o riconosca passività inesistenti, finalizzate ad arrecare pregiudizio ai creditori; cagioni intenzionalmente il dissesto
della società.
Neppure in quest’ultima formulazione viene quindi previsto, quale elemento costitutivo della fattispecie di reato, un necessario legame eziologico tra l’atto
distrattivo e la causazione del dissesto, cosı̀ come è invece richiesto dalla migliore dottrina (ed in parte anche da una più recente evoluzione giurisprudenziale,
che – quantomeno sotto il profilo soggettivo – richiede la dimostrazione della
consapevolezza dell’insolvenza come situazione di dissesto plausibilmente irreversibile; cosı̀, Cassazione Pen., Sez. V, 23 ottobre 2007, T.S.).
La più rigorosa delimitazione dell’arco temporale in cui l’atto distrattivo
può assumere rilevanza penale dovrebbe però determinare la non punibilità
di tutte quelle condotte risalenti nel tempo che, ancorché lesive del patrimonio dell’imprenditore, non abbiamo avuto nessuna diretta incidenza
sul sorgere di un dissesto che, al momento in cui furono commesse, non
era ancora emerso od anche solo paventato
È peraltro prevedibile che il dato testuale, se cosı̀ formulato anche nell’eventuale decreto delegato, sarà fonte di accesi dibattiti interpretativi,
quanto alla delimitazione oggettiva del concetto di «concreto pericolo» di
insolvenza, e – ancor più – della sua soggettiva percezione come tale da parte del fallito.
Viene poi introdotta tra le figure di bancarotta fraudolenta patrimoniale
la condotta del fallito che cagioni intenzionalmente il dissesto; con ciò sostanzialmente estendendo all’imprenditore persona fisica l’ipotesi oggi prevista per le sole società al comma II, n. 2, dell’art. 223 legge fallim.
2. Anche la nuova formulazione del reato di bancarotta fraudolenta documentale prevede una limitazione temporale delle condotte penalmente rilevanti. Secondo i principi dettati al punto 2 del disegno di legge delega,
potrà infatti risponderne il fallito che, allo scopo di arrecare pregiudizio
ai creditori, ovvero di occultare il dissesto o la commissione di altri fatti
di bancarotta fraudolenta, nei tre anni precedenti il provvedimento di apertura della procedura concorsuale, distrugga, sottragga, falsifichi od ometta
di tenere i libri o le scritture contabili previsti dalla legge, ovvero li tenga in
modo irregolare od incompleto.
La soglia dei tre anni, posta quale sbarramento per la punibilità di determinate condotte, introduce indubbiamente un elemento di certezza e
tassatività della fattispecie penale, che maggiormente si apprezza se raffrontato alla formula, ben più generica, dettata al precedente n. 1; una certezza
che, si è osservato, può tuttavia andare a scapito della pienezza della tutela,
26
Il diritto fallimentare e delle società commerciali
in tutti quei casi in cui le falsificazioni documentali siano state scientemente
poste in essere in spregio ai creditori, ma prima di tale termine (cosı̀, G.
Lunghini, in un commento al disegno di legge, su il sole 24 Ore del 31 ottobre 2008).
Si può infine osservare come venga elevata a bancarotta fraudolenta anche l’ipotesi di omessa od irregolare tenuta dei libri contabili – oggi punita
all’art. 217 solo come bancarotta semplice – purché sempre connotata dal
dolo specifico di danno ai creditori, o legata da un nesso teleologico con
altri reati di bancarotta fraudolenta.
3. La contestualità con lo stato di insolvenza, o con il concreto pericolo
del medesimo, è nuovamente richiesta per valutare il disvalore dei pagamenti o di altre prestazioni estintive di obbligazioni effetuate dall’imprenditore, nei cui confronti si apra successivamente una procedura concorsuale
(condizione, quest’ultima, posta per la punibilità di tutte le ipotesi di bancarotta).
Anche in tal caso però, stando ai criteri direttivi dettati dal progetto di
legge delega, i pagamenti posti in essere dal fallito potranno integrare una
ipotesi di bancarotta preferenziale solo se, si direbbe congiuntamente, finalizzati a favorire taluni dei creditori a danno di altri e comunque «indebiti»
o «non giustificati» sotto il profilo giuridico ed economico.
Verrà quindi nuovamente rimesso alla prassi applicativa il giudizio sulla
«giustificabilità» o meno di determinati atti dispositivi commessi dal fallito alle
soglie del dissesto, anche se non è agevole immaginare ipotesi in cui un pagamento, od altra prestazione estintiva di un’obbligazione, sia posto scientemente in essere al fine di ledere la par condicio, e non debba per ciò solo ritenersi
indebito e giuridicamente – se non economicamente – ingiustificato.
*
* *
Il corpo del progetto di riforma ripropone poi la figura della bancarotta
semplice, sostanzialmente limitata alla sola ipotesi dell’aggravamento del
dissesto per la omessa o ritardata presentazione dell’istanza per l’apertura
della procedura concorsuale.
È prevista invece soltanto come figura impropria di bancarotta, la condotta di chi – evidentemente soggetto qualificato – abbia cagionato od aggravato il dissesto della società con operazioni di pura sorte o manifestamente imprudenti, con la ulteriore previsione di limitare ancora la punibilità a quei soli fatti commessi in danno di società con azioni quotate in mercati regolamentati o diffuse tra il pubblico in misura rilevante.
La riforma sembra quindi orientare l’intervento sanzionatorio verso
quelle condotte maggiormente connotate da un intento fraudolento, non attribuendo più una penale rilevanza alle diverse ipotesi, oggi elencate all’art.
Parte I - Dottrina
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217 della legge fallimentare, tradizionalmente punite anche a titolo di mera
colpa (almeno nella costante interpretazione che la giurisprudenza ne offre).
In questo senso può leggersi anche la introduzione di un delitto di bancarotta fraudolenta impropria, ravvisabile nelle condotte dell’institore o di
chi svolga, anche di fatto, funzioni di amministrazione, direzione, controllo,
o liquidazione di una società o di un ente, commesse «mediante abuso dei
poteri o violazione dei doveri relativi alla carica rivestita». Una previsione
che appare però estremamente ampia, pur se limitata a quei soli casi in
cui tali condotte abbiano cagionato, aggravato od occultato il dissesto della
società.
Sarà dunque onere del legislatore delegato tratteggiarne meglio i limiti,
per non violare il precetto di tassatività della fattispecie penale, ma pur sempre nei limiti della delega conferitagli.
È invece una ipotesi del tutto nuova, e conforme alla esigenza di coordinamento con la riformata disciplina del fallimento, quella introdotta alla
lettera h), n. 1, del disegno di legge delega, e consistente nella esposizione di
informazioni false o nella omissione di informazioni imposte dalla legge, al
fine di potere accedere ad una procedura di concordato preventivo o per
ottenere l’omologazione degli accordi di ristrutturazione dei debiti, ai sensi
del nuovo articolo 182 bis della legge fallimentare.
In entrambe le ipotesi, si discute infatti ad oggi in che modo possano
essere sanzionate eventuali falsità nella relazione stesa dal professionista sulla veridicità dei dati aziendali ai fini della ammissibilità del concordato o
nella relazione dell’esperto sulla fattibilità dell’accordo di ristrutturazione
dei debiti.
In difetto di una specifica disposizione nel corpo della disciplina penalefallimentare, la dottrina è ricorsa alle figure «comuni» del falso in atto pubblico per induzione (con riferimento al provvedimento di omologa), o della
c.d. «truffa processuale» (ravvisata nell’induzione in errore dell’Autorità
Giudiziaria sulla sussistenza dei presupposti per la ammissibilità della procedura, con conseguente danno per i creditori). Ipotesi che, in difetto di
una prassi applicativa, non risultano però siano mai state sottoposte ad
un vaglio giurisprudenziale.
Sul punto, la riforma andrebbe quindi a colmare una delle lacune createsi con lo stralcio delle disposizioni penali dal testo della legge delega del
2005 per la riforma organica delle procedure concorsuali.
Sotto il profilo delle responsabilità soggettive, il testo del disegno di legge si segnala per la tipizzazione della figura dell’amministratore di fatto
(lett. d, n. 1), già ben tracciata dalla giurisprudenza penale, prima, e poi civile. Una previsione del resto in linea con il corpo della disciplina penale
societaria, come riformata nel 2002, che all’art. 2639 cod. civ. espressamente equipara al soggetto formalmente investito della qualifica o titolare della
funzione prevista dalla legge civile, sia «chi è tenuto a svolgere la stessa fun-
28
Il diritto fallimentare e delle società commerciali
zione, diversamente qualificata», sia «chi esercita in modo continuativo e significativo i poteri tipici inerenti alla qualifica o alla funzione».
Cosı̀ il riferimento al «dirigente preposto alla redazione dei documenti
contabili societari», ad oggi soggetto estraneo alla normativa penale fallimentare (in quanto non espressamente richiamato all’art. 223 legge fallim.),
riprende la speculare formula dettata agli articoli 2161 e 2622 cod. civ. in
materia di false comunicazioni sociali.
Un ultimo accenno deve essere fatto al rilievo attribuito dal disegno di
legge al fenomeno dei gruppi societari, ed al riconoscimento positivo, anche
in materia fallimentare, del principio già dettato all’art. 2634 cod. civ. per
l’ipotesi di «infedeltà patrimoniale» degli amministratori, e per il quale
non può considerarsi «ingiusto» il vantaggio dell’impresa collegata o del
gruppo, «se compensato da vantaggi conseguiti o fondatamente prevedibili,
derivanti dal collegamento o dall’appartenenza al gruppo».
Un principio già affermato in dottrina, ma che non risulta ad oggi recepito dalla giurisprudenza di legittimità, che ancora in una recente pronuncia
ha ribadito come «il trasferimento di risorse infragruppo, specialmente quando venga effettuato a vantaggio di una società già in difficoltà economiche,
non è consentito e deve essere qualificato come vera e propria distrazione ai
sensi e per gli effetti dell’art. 216 della legge fallimentare» (Cassazione
Pen., Sez. V, 29 gennaio 2008, S.A.).
*
* *
Sotto un profilo meramente sanzionatorio, il testo varato dal Governo
dovrebbe infine fugare il rischio, paventato da più parti, che la riforma
dei reati fallimentari, con la temuta riduzione dei limiti di pena ed in combinato con la recente riforma delle norme sulla prescrizione dei reati, potesse tradursi in un sostanziale colpo di spugna su i numerosi processi attualmente in corso per i gravi dissesti finanziari di cui si è già detto.
Nella attuale formulazione, la riforma prevede infatti, per le ipotesi di
bancarotta fraudolenta patrimoniale e documentale, la pena della reclusione
compresa tra un minimo variabile da due a quattro anni ed un massimo tra
gli otto ed i dodici anni (attualmente la pena è da tre a dieci anni); per la
preferenziale ed altri reati fallimentari da uno a cinque anni e per la bancarotta semplice da sei mesi a due anni di reclusione (riproponendo in entrambi i casi gli attuali limiti edittali).
Sul punto, che pure aveva determinato nel 2005 lo stralcio della parte
sui reati fallimentari dal testo della riforma organica delle procedure concorsuali, non sembra quindi che il progetto sottoposto all’esame del Parlamento abbia stravolto la attuale disciplina, della quale la migliore dottrina
aveva tuttavia sempre fermamente criticato, tra altri aspetti, l’eccessivo rigore del trattamento sanzionatorio.
CIRCOLAZIONE DEI CREDITI, CESSIONE DELLE REVOCATORIE
E CONCORDATO FALLIMENTARE (1)
di
Luciano Panzani
1. La cessione dei crediti in caso di fallimento è disciplinata dalle nuove
regole dettate per la liquidazione dell’attivo in termini assai più completi di
quanto fosse previsto prima della riforma.
Va anzitutto ricordato che la riforma ha stabilito come regola generale il
principio per cui la cessione delle attività deve avvenire in modo non atomistico. È favorita la cessione dell’azienda o dei beni in blocco, come chiaramente afferma l’art. 105, comma 1, legge fallim. (2).
(1) Il testo trae origine dalla relazione tenuta al Convegno La cessione delle azioni revocatorie, delle azioni di pertinenza della massa e dei diritti controversi: verso la creazione di un
nuovo mercato, tenutosi a Taormina il 9-10 maggio 2008, organizzato dall’Università di Messina – Dipartimento di Diritto Privato e Teoria del Diritto.
(2) Sulla cessione dell’azienda si vedano G. Bozza, La vendita dell’azienda nel fallimento, in Fall., 1987, pag. 283 seg.; Id., La vendita dell’azienda nelle procedure concorsuali, Milano, 1988; F. Dimundo-E. Cristiani, Affitto d’azienda e fallimento, in Fallimento, 2003,
6; F. Finmanò-C. Esposito, La liquidazione dell’attivo, Milano, 2006; L. Panzani, La tutela dei diritti nella liquidazione fallimentare, in AA.VV., La tutela dei diritti nella riforma fallimentare, a cura di M. Fabiani-A. Patti, Milano, 2006, 191; M. Sandulli, La riforma della
legge fallimentare, Torino, 2006, sub art. 105, pag. 627; F. Finmanò, Vendita di azienda, di
rami, di beni e di rapporti in blocco, in Il nuovo diritto fallimentare diretto da A. Jorio e coordinato da M. Fabiani, Bologna-Torino, 2007, 1731 e seg.; M.A. Perrino, Programma di liquidazione e tecniche di cessione in blocco, in Foro It., 2007, I, 2361; S. Bonfatti-P. Censoni, Manuale di diritto fallimentare, Padova, 2007, 336; C. Esposito, Il programma di liquidazione: profili applicativi, in Il nuovo diritto fallimentare diretto da A. Jorio e coordinato da
M. Fabiani, Bologna-Torino, 2007, 1689; R. Fontana, sub art. 105, in La legge fallimentare.
Commentario teorico-pratico, a cura di M. Ferro, Padova, 2007, pag. 796; A. Paluchowsky,
Vendita di azienda, di rami, di beni e di rapporti in blocco, in Codice commentato del fallimento
diretto da G. Lo Cascio, Milano, 2008, 974; M. Ravinale (A. Gallone), Vendita e affitto
d’azienda, Milano, 2008; L. Mandrioli, La liquidazione dell’attivo e l’esercizio provvisorio
dell’impresa, in La riforma organica delle procedure concorsuali, a cura di S. Bonfatti-L. Panzani, Milano, 2008, pag. 470; A. Caiafa, La legge fallimentare riformata e corretta, Padova,
30
Il diritto fallimentare e delle società commerciali
Per quanto concerne il trasferimento dei crediti l’art. 105, comma 6,
detta una disposizione conforme al disposto dell’art. 2559, comma 1,
cod. civ. stabilendo che la cessione dei crediti relativi alle aziende cedute,
anche in mancanza di notifica al debitore o di sua accettazione, ha effetto,
nei confronti dei terzi, dal momento dell’iscrizione del trasferimento nel registro delle imprese. Tuttavia il debitore ceduto è liberato se paga in buona
fede al cedente. Il settimo comma dell’art. 105 aggiunge che i privilegi e le
garanzie di qualsiasi tipo, da chiunque prestate o comunque esistenti a favore del cedente, conservano la loro validità e il loro grado a favore del cessionario, anche in questo caso dettando una regola conforme ai principi generali in materia.
Si è posta questione con riferimento al trasferimento dei crediti se essi
passino all’acquirente automaticamente, per effetto della cessione d’azienda, o se invece essi costituiscano beni che non ineriscono all’azienda in senso stretto, sı̀ che il loro trasferimento necessiti di un patto espresso. Una
parte della dottrina aderisce a tale secondo orientamento, affermando che
le parti possono limitare la cessione ad alcuni crediti singolarmente individuati, precisando anche se la cessione avviene pro soluto o pro solvendo,
operando in difetto l’art. 1267 cod. civ. (3). La giurisprudenza, tuttavia, si
è generalmente espressa nel senso che la cessione d’azienda comporti anche
trasferimento dei crediti ad essa inerenti (4). In forza della disciplina ora
esposta il conflitto tra il fallimento del cedente ed il cessionario in ordine
alla titolarità dei crediti dovrà essere risolto secondo le regole ordinarie,
sı̀ che il fallimento dovrà restituire quanto indebitamente incassato. La buona fede del debitore ceduto determinerà l’efficacia liberatoria del pagamento, perché la cessione non sarà a questi opponibile, ma ciò non toglie che
2008, pag. 16 seg.; A. Caiafa-R. Cosio, Diritto europeo: crisi d’impresa e sorte dei rapporti di
lavoro, Milano, 2008.
(3) F. Finmanò, Vendita di azienda, di rami, di beni e di rapporti in blocco, cit., 1753.
Nello stesso senso F. Dimundo-E. Cristiani, Affitto d’azienda e fallimento, cit., 6.
(4) La cessione dell’azienda, a norma dell’art. 2559 cod. civ., ha carattere unitario ed importa il trasferimento al cessionario, insieme a tutti gli elementi costituenti la «universitas» e
senza necessità di una specifica pattuizione nell’atto di trasferimento, di tutti i crediti inerenti
alla gestione dell’azienda ceduta. L’ostacolo al trasferimento dei crediti può derivare dalla
contraria volontà manifestata dalle parti del contratto di cessione, e non dal carattere personale del rapporto, menzionato, invece, dall’art. 2558 cod. civ., che disciplina la sorte dei contratti, mentre l’inerenza del credito alla gestione dell’impresa non è esclusa dalla sua natura
extracontrattuale, se il fatto illecito sia stata commesso ai danni dell’azienda. Cosı̀ Cassazione
13 giugno 2006, n. 13676; Cassazione 5 maggio 1995, n. 4873, in Mass. .giur. lav., 1995, 731;
Cassazione, 15 febbraio 1979, n. 1001, in Rep. Giust. civ. 1979, voce «azienda», n. 29; Cassazione 25 luglio 1978, n. 3723, in Mass. Foro It., 1978; Cassazione 13 luglio 1973, n. 2031, in
Mass. Foro It., 1973; Cassazione 22 gennaio 1972, n. 171, in Giur. It., 1973, I, 1, 262; Cassazione 4 marzo 1968, n. 707, in Giust. civ., 1969, I, 156.
Parte I - Dottrina
31
tale efficacia liberatoria riguardi soltanto i rapporti tra il cessionario ed il
terzo, sı̀ che in ogni caso a far tempo dalla cessione il fallimento sarà tenuto
alla restituzione al cessionario di quanto incassato.
Sarà comunque opportuno che il contratto di cessione dell’azienda stabilisca dei criteri temporali certi per l’attribuzione degli incassi, onde evitare
un numero eccessivo di situazioni di conflitto. L’azione del cessionario nei
confronti del fallimento per il recupero di quanto incassato comporterà l’insinuazione al passivo del relativo credito, posto il principio sancito dalla riforma che anche i crediti prededucibili debbono essere oggetto d’insinuazione al passivo (5).
È invece degna di nota l’espressa previsione della possibilità di alienazione di beni e rapporti giuridici individuabili in blocco. L’art. 105, comma
5, stabilisce infatti che il curatore possa procedere alla cessione delle attività
e passività dell’azienda o dei suoi rami, nonché di beni o rapporti giuridici
individuabili in blocco, esclusa comunque la responsabilità dell’alienante
prevista dall’art. 2560 cod. civ. Alla cessione congiunta di attività e passività, il legislatore aggiunge la previsione della cessione di beni e rapporti giuridici individuabili in blocco. Non si tratta di una novità in senso assoluto,
perché se la legge fallimentare del 1942 la prevedeva all’art. 106, comma 2,
soltanto per la vendita in massa delle attività mobiliari, la prassi già conosceva fattispecie di questo tipo, come nel caso della cessione dei crediti
d’impresa.
La novità è rappresentata piuttosto dal riconoscimento espresso che la
cessione possa avere ad oggetto, insieme alle attività, le passività aziendali.
La cessione di attività e passività ovvero di beni e rapporti giuridici
individuabili in blocco si distingue dal trasferimento dell’azienda o di
un suo ramo, con la conseguenza che ad essa non saranno in linea di massima applicabili gli artt. 2558 e segg. cod. civ., quanto piuttosto gli artt.
1406 e segg. e 1264 e segg. cod. civ. in tema di cessione del contratto e
dei crediti.
In dottrina (6) si è osservato che il legislatore aveva in mente le c.d. cessioni aggregate, previste dall’art. 90 t.u.b., vale a dire quelle situazioni nella
quale si procede alla cessione di «aggregati» identificabili in forza della loro
omogeneità e della loro riconducibilità ad uno specifico affare, anche se non
sempre classificabili come cessione di azienda per la mancanza del trasferimento dei rapporti di lavoro, di beni materiali, insomma degli elementi tipici dell’azienda. L’art. 90, comma 2 t.u.b., in materia di liquidazione coatta
(5) Cosı̀ G. Lo Cascio, Il fallimento e le altre procedure concorsuali. Aggiornamento al
d.lgs. 169/2007, Milano, 2008, 691.
(6) R. Fontana, in La legge fallimentare, a cura di M. Ferro, Padova, 2007, sub art. 105,
pag. 797 seg.
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Il diritto fallimentare e delle società commerciali
amministrativa degli istituti di credito (7), consente la cessione, oltre che
dell’azienda o di rami d’azienda, di attività e passività e rapporti giuridici
individuabili in blocco. Nella pratica il riferimento è agli «sportelli» (comprensivi di debiti, crediti e personale), allo scopo di agevolare la liquidazione dell’azienda creditizia cedente e conservarne la produttività attraverso la
continuazione dell’attività di impresa. In tal caso i rapporti facenti capo al
singolo sportello vengono considerati dal legislatore in modo unitario, quasi
un patrimonio della sede ai soli fini del trasferimento, circostanza che consente la sostituzione di uno dei soggetti del rapporto non con le forme proprie della successione particolare nel singolo rapporto, ma attraverso una
successione universale nel complesso dei rapporti (8). Va peraltro sottolineato che, mentre nella liquidazione coatta amministrativa delle aziende
bancarie, siffatta forma di cessione è normalmente finalizzata alla prosecuzione dell’attività, non altrettanto può dirsi nella fattispecie disciplinata dall’art. 105, comma 5.
Sotto tale profilo, il curatore può procedere all’alienazione anche di crediti riferibili all’attività d’impresa, fattispecie peraltro disciplinata anche dall’art. 106. Da questo punto di vista si può immaginare che in caso di prosecuzione dell’attività il curatore proceda alla fattorizzazione dei crediti.
Sotto tale profilo va ricordato che la legge 21 febbraio 1991, n. 52 consentiva nell’ambito di un contratto stipulato con una banca o un intermediario
finanziario la cessione di crediti non ancora venuti ad esistenza, derivanti da
contratti stipulati dal cedente nell’attività d’impresa con riferimento ai contratti da stipulare nell’arco di 24 mesi, purché fosse individuato il debitore
(7) Ai sensi dell’art. 90, comma 2, i commissari, con il parere favorevole del comitato di
sorveglianza e previa autorizzazione della Banca d’Italia, possono cedere le attività e le passività, l’azienda, rami d’azienda nonché beni e rapporti giuridici individuabili in blocco. La cessione può avvenire in qualsiasi stadio della procedura, anche prima del deposito dello stato
passivo; il cessionario risponde comunque delle sole passività risultanti dallo stato passivo. Ai
sensi dell’art. 58, commi 2-4, t.u.b., richiamato dalla norma, la banca cessionaria dà notizia
dell’avvenuta cessione mediante iscrizione nel registro delle imprese e pubblicazione nella
Gazzetta Ufficiale, salve ulteriori forme di pubblicità disposte dalla Banca d’Italia. Nei confronti dei debitori ceduti gli adempimenti pubblicitari producono gli effetti previsti dall’art.
1264 cod. civ. I privilegi e le garanzie di qualsiasi tipo, da chiunque prestati o comunque esistenti a favore del cedente, nonché le trascrizioni nei pubblici registri degli atti di acquisto dei
beni oggetto di locazione finanziaria compresi nella cessione conservano la loro validità e il
loro grado a favore del cessionario, senza bisogno di alcuna formalità o annotazione. Restano
altresı̀ applicabili le discipline speciali, anche di carattere processuale, previste per i crediti
ceduti.
(8) In tal senso, G. Fauceglia, La cessione di attività e passività nella liquidazione coatta
amministrativa delle banche e la successione nei rapporti contrattuali, BBTC, 1997, pag. 463
segg. Cfr. anche S. Bonfatti, Commento sub art. 90. Liquidazione dell’attivo, in F. Belli,
G. Contento, A. Patroni Griffi, M. Porzio, V. Santoro (a cura di), Testo unico delle leggi
in materia bancaria e creditizia, Bologna, 2003, pag. 1501 seg.
Parte I - Dottrina
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ceduto. L’art. 105 facendo riferimento ai «rapporti giuridici individuabili in
blocco» consente analogamente non soltanto la cessione di un credito già
venuto ad esistenza, ma anche la cessione di un credito non ancora sorto,
purché sia possibile la sua individuazione con riferimento ad un determinato rapporto giuridico o tipi di rapporti giuridici, ad esempio i crediti che
sorgeranno dalle future forniture che l’impresa fallita in esercizio provvisorio effettuerà a favore di un determinato cliente o gruppo di clienti.
La cessione di attività e passività ovvero di beni e rapporti giuridici individuabili in blocco comporta, ai sensi dell’art. 105, comma 5, che sia comunque esclusa la responsabilità dell’alienante per i debiti ai sensi dell’art.
2560 cod. civ. La formula adottata dal legislatore è infelice. È stato infatti
osservato (9) che in tanto può parlarsi di esclusione della responsabilità dell’alienante in quanto oggetto di trasferimento siano anche le passività inerenti ai beni o diritti oggetto di cessione. In difetto, infatti, l’effetto purgativo della vendita comporta che l’acquirente non risponda dei debiti ai sensi
del comma 4 dell’art. 105 e che i creditori debbano insinuarsi al passivo per
trovare soddisfazione nell’ambito dell’attivo fallimentare. Soltanto quando i
debiti siano oggetto di trasferimento si giustifica la liberazione dell’alienante
e la deroga alla disciplina dettata dall’art. 2560 cod. civ. che, peraltro, ove
non vi sia cessione di azienda o di un suo ramo, non potrebbe comunque
trovare applicazione.
Ha carattere innovativo e merita approvazione l’art. 105, comma 6, norma che stabilisce che il curatore può procedere alla liquidazione anche mediante il conferimento in una o più società, eventualmente di nuova costituzione, dell’azienda o di rami della stessa, ovvero di beni o crediti, con i
relativi rapporti contrattuali in corso, esclusa la responsabilità dell’alienante
ai sensi dell’art. 2560 del codice civile ed «osservate le disposizioni inderogabili contenute nella presente Sezione». Sono salve le diverse disposizioni
previste in leggi speciali.
In altri termini può essere più conveniente per il curatore conferire l’azienda ovvero beni o crediti in una o più società, anche di nuova costituzione, e procedere quindi all’alienazione delle quote o azioni di tale o di tali
società. Una scelta di questo tipo può essere funzionale alla prosecuzione
dell’attività senza ricorrere all’esercizio provvisorio, che è fonte di crediti
in prededuzione che possono mettere in pericolo le residue attività della
procedura, e senza avvalersi dell’affitto, dove l’attribuzione dell’azienda nella disponibilità dell’affittuario può pregiudicare l’esito della successiva gara
(9) F. Finmanò, Vendita di azienda, di rami, di beni e di rapporti in blocco, cit., 1746; M.
Ravinale (A. Gallone), Vendita e affitto d’azienda, cit., pag. 109 e segg.; L. Mandrioli,
La liquidazione dell’attivo e l’esercizio provvisorio dell’impresa, in La riforma organica delle
procedure concorsuali, Milano, 2008, pag. 459 segg.
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Il diritto fallimentare e delle società commerciali
di vendita per la posizione di miglior favore in cui di fatto nella maggior
parte dei casi quest’ultimo viene a trovarsi e dove rischi per la curatela possono derivare dall’omissione dei necessari interventi di manutenzione, dall’illecita utilizzazione di marchi e brevetti, da pratiche di storno della clientela (10). Ancora la costituzione di una società permette di conservare al management o di attribuire a nuovi amministratori dotati di specifiche competenze tecniche di cui il curatore può essere privo, la gestione dell’attività,
mantenendo il controllo tramite i poteri riconosciuti alla proprietà azionaria
secondo il diritto societario.
Il riferimento ai crediti consente di creare una società in cui possono
essere conferiti i crediti vantati dall’impresa fallita e di trasferire ai terzi acquirenti le azioni o quote di tale società. In talune ipotesi, quando i crediti
dell’impresa siano numerosi e sia complesso procedere alla loro riscossione
– si pensi al portafoglio clienti di una impresa che rifornisce una miriade di
dettaglianti – il curatore può profittare di tale soluzione, che rende più agevole il trasferimento in blocco di tali crediti mediante la vendita delle azioni
o quote della società conferitaria. In tal modo le spese di esazione dei crediti
vengono accollate all’acquirente e si accelerano i tempi della liquidazione,
anche se naturalmente il conferimento dei crediti nella società conferitaria
non accorcia automaticamente i tempi della liquidazione quando il reperimento dell’acquirente di questa vendita di secondo grado non sia agevole.
Va ricordato che una fattispecie per taluni versi analoga è prevista dall’art. 2447 bis, lett. a) per i patrimoni destinati ad uno specifico affare, per i
quali, in caso di fallimento della società di gestione, il curatore prosegue
l’attività «con gestione separata» al fine di provvedere successivamente alla
cessione a terzi. Ipotesi di costituzione di veicoli societari funzionali alla soluzione della crisi sono previste anche in tema di concordato preventivo
(art. 160, comma 1, lett. a e b) e concordato fallimentare (art. 124, comma
2, lett. c).
Il conferimento in società e la successiva alienazione della partecipazione non può avvenire a condizioni diverse da quelle che regolano il trasferimento dell’azienda. Ciò comporta la precisazione contenuta nell’art. 105,
comma 6, per cui vanno osservate «le disposizioni inderogabili contenute
nella presente sezione». Ad esempio il curatore dovrà scegliere l’affittuario
dell’azienda tramite procedure competitive, nel rispetto delle regole generali, anche quando abbia conferito l’azienda in una società di nuova costituzione. E procedure competitive dovranno essere adottate anche per l’alienazione della partecipazione.
(10) Si veda in proposito F. Finmanò, Vendita di azienda, di rami, di beni e di rapporti in
blocco, cit., 1769 e segg.
Parte I - Dottrina
35
I crediti possono essere ceduti separatamente sia in blocco, sia individualmente quando si procede alla liquidazione atomistica dei beni. L’art.
106 legge fallim. stabilisce infatti che il curatore può cedere i crediti anche
futuri ed i crediti fiscali, pure se contestati. Già nel vigore della vecchia disciplina non si dubitava che il curatore avesse facoltà di cedere i crediti, ma
ora tale facoltà è espressamente prevista dalla legge, anche per quanto concerne i crediti futuri o di natura fiscale ed anche quando siano oggetto di
contenzioso.
In dottrina (11) si è osservato che il legislatore ha espresso il suo favor per
la scelta del curatore di cedere i crediti, anziché procedere direttamente alla
loro riscossione. In realtà non mi pare che questo favor sia espressamente
ricavabile dalla legge, anche se indubbiamente la previsione espressa della
possibilità della cessione, che nella vecchia disciplina si ricavava dalla regola
generale di cui all’art. 1260 cod. civ., costituisce una maggior garanzia della
piena legittimità dell’operazione. Nella pratica il curatore dovrà porre attenzione al rischio connesso all’operazione di cessione dei crediti, specie nel caso in cui essa sia effettuata in blocco, con riferimento a tutti i crediti dell’impresa fallita, rischio che si traduce nella probabilità di una diminuzione del
ricavo rispetto ad una riscossione diretta, diminuzione che è però compensata dalla possibilità di immediato incasso del corrispettivo. In definitiva l’acquirente si accolla il rischio dell’esazione dei crediti e a fronte di tale accollo
provvederà a «scontare» il credito in misura più o meno rilevante.
Va sottolineato che la cessione in massa dei crediti dovrà essere prevista
nel programma di liquidazione, a mente dell’art. 104 ter, comma 2, lett. d)
ed e), che prevedono che il curatore nel programma specifichi le possibilità
di cessione unitaria di beni e rapporti giuridici individuabili in blocco e indichi le condizioni della vendita dei singoli cespiti. Sotto tale profilo va precisato che l’espressa previsione della cessione dei crediti in blocco nel programma di liquidazione discende non soltanto dal fatto che si tratta di uno
degli elementi che rientrano nel contenuto obbligatorio del programma
stesso, quale definito dall’art. 104 ter, comma 2, ma dal fatto che il comitato
dei creditori deve pronunciarsi in sede di approvazione del programma sulla soluzione di cessione in blocco dei crediti prescelta dal curatore. La cessione dovrà peraltro essere poi autorizzata dal giudice delegato, quale atto
di esecuzione del programma a mente dell’art. 104 ter, ultimo comma.
Per quanto concerne il prezzo della cessione si è osservato (12) che
(11) P. Liccardo e G. Federico, Vendita dei crediti, dei diritti e delle quote, delle azioni, mandato a riscuotere, in Il nuovo diritto fallimentare diretto da A. Jorio e coordinato da M.
Fabiani, Bologna-Torino, 2007, 1772.
(12) A. Paluchowsky, Cessione dei crediti, dei diritti e delle quote, delle azioni, mandato
a riscuotere, in Codice commentato del fallimento diretto da G. Lo Cascio, Milano, 2008, 990.
36
Il diritto fallimentare e delle società commerciali
poiché quest’ultima comporta un rischio variabile per il cessionario in
funzione dell’età del credito, del suo importo monetario, dell’ubicazione
e della solvibilità del debitore, dell’esistenza di contestazioni, sarà opportuno far luogo ad una due diligence, per munirsi del parere specializzato
di una società del settore in ordine al corrispettivo base della cessione, sul
quale potranno instaurarsi le procedure competitive previste dall’art. 107
legge fallim. Tale operazione rientra nell’ambito della stima preventiva richiesta dalla norma ora citata per tutte le operazioni di liquidazione dell’attivo.
Con riguardo alla tipologia dei crediti cedibili l’art. 106 legge fallim.
non pone, come si è detto, limiti particolari, se non quelli che derivano
dal codice civile. Deve quindi trattarsi di cessione lecita e possibile. Occorre
inoltre che l’oggetto della cessione sia determinato o determinabile (13). Di
conseguenza per la cessione dei «crediti futuri» è sufficiente la sola esistenza del rapporto giuridico da cui il credito si originerà, come nel caso del
prezzo di merce non ancora prodotta e consegnata purché sia già stato stipulato il relativo contratto. Tuttavia deve ritenersi, in conformità alla giurisprudenza, che il trasferimento del credito si realizzi non al momento in cui
si scambia il consenso tra le parti nel rispetto della disciplina dettata dalla
legge fallimentare, vicenda che ha effetti meramente obbligatori, ma quando il credito viene effettivamente ad esistenza (14).
È degno di nota, alla luce della Relazione illustrativa, che fa riferimento
alla cessione delle azioni «comunque dirette a conseguire incrementi di patrimonio del debitore», che il curatore può trasferire anche i crediti derivanti da un’obbligazione di natura risarcitoria come nel caso delle azioni
di responsabilità ex art. 146 legge fallim. Non è dubbio infatti che anche
un credito litigioso può essere oggetto di cessione. Dubbi in proposito sono
stati sollevati proprio con riferimento alle azioni di responsabilità per via del
disposto dell’art. 124, ultimo comma, legge fallim. che consente la cessione
delle azioni di massa soltanto come patto di concordato. In proposito, tuttavia, va sottolineato che l’azione sociale di responsabilità già esiste nel patrimonio del fallito e la legittimazione esclusiva del curatore ad esperirla ai
sensi dell’art. 2394 bis cod. civ. non toglie che si tratti di un credito litigioso
preesistente all’apertura della procedura concorsuale. Non pare pertanto
(13) P. Liccardo e G. Federico, Vendita dei crediti, dei diritti e delle quote, delle azioni, mandato a riscuotere, cit., 1774.
(14) Cosı̀ A. Paluchowsky, Cessione dei crediti, dei diritti e delle quote, delle azioni,
mandato a riscuotere, cit., 991. In giurisprudenza cfr. Cassazione 22 aprile 2003, n. 6422,
in Nuova giur. civ. comm., 2004, 755 con nota di E. Lanzi, Brevi note in materia di efficacia
ed opponibilità del credito futuro in garanzia; Cassazione 3 dicembre 2002, n. 17162, in Mass.
Giust. civ., 2002, 2109; Cassazione 19 giugno 2001, n. 8333, in Giust. civ., 2002, I, 2875.
Parte I - Dottrina
37
che si tratti veramente di un’azione di massa e che sussistano pertanto ostacoli alla sua cessione (15).
È stato osservato che la cessione dei crediti troverà di regola il suo inquadramento nella cessione pro soluto perché la cessione pro solvendo
espone il curatore al rischio che il cessionario si rivalga nei confronti del cedente nel caso di esito sfavorevole della riscossione. Soltanto con la cessione
pro soluto si realizzano gli scopi che il legislatore si è prefisso, vale a dire
un’accelerazione dei tempi della liquidazione, addossando il rischio della riscossione ad un terzo, estraneo alla procedura.
Infine va ricordato che il curatore dovrà garantire la sussistenza del credito ceduto, ai sensi dell’art. 1266 cod. civ. e dunque la veritas, anche se
non la bonitas.
In difetto di una norma espressa che deroghi alla disciplina generale
dettata dal codice civile, occorrerà peraltro per l’efficacia della cessione
nei confronti del debitore ceduto la notifica o l’accettazione dell’atto di cessione. Il comma 6 dell’art. 105 prevede infatti che la cessione dei crediti relativi alle aziende cedute abbia effetto nei confronti dei terzi dal momento
dell’iscrizione del trasferimento nel registro delle imprese, anche in mancanza di notifica o di accettazione del debitore ceduto. Tale disciplina, peraltro, si applica soltanto in caso di cessione di azienda e non in tutti i casi in
cui è questione di cessione dei crediti.
2. L’art. 106, comma 1, ammette la cessione delle azioni revocatorie
concorsuali. Prima della riforma la cessione era prevista come possibile soltanto come patto di concordato (16). Ora l’art. 106, comma 1, pone il solo
limite che si tratti di azioni già intraprese e che si tratti pertanto di giudizi
pendenti. A differenza di quanto stabilito per il concordato fallimentare,
non è ammessa la cessione delle azioni revocatorie autorizzate, ma non iniziate.
Anche in questo caso lo scopo del legislatore è di consentire l’accelera-
(15) In questo senso G. Minutoli, in Aa.Vv., La legge fallimentare. Commentario teorico-pratico. Decreto legislativo 12 settembre 2007, n. 169. Disposizioni integrative e correttive a
cura di M. Ferro, Padova, 2008, 806. In senso contrario M. Sandulli, La riforma della legge
fallimentare, Torino, 2006, sub art. 106, pag. 634; V. Zanichelli, La nuova disciplina del
fallimento e delle altre procedure concorsuali, Torino, 2008, 305.
(16) L’art. 124, comma 2, legge fallim. 1942 stabiliva che la cessione delle azioni revocatorie come patto di concordato fosse ammessa a favore del terzo che si fosse accollato l’obbligo di adempiere il concordato e limitatamente alle azioni già proposte dal curatore. La cessione non era ammessa a favore del fallito e dei suoi fideiussori. In tal modo il legislatore del
1942 aveva risolto un annoso dibattito sulla legittimità della cessione che aveva coinvolto i
maggiori studiosi sotto il vigore del codice di commercio.
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Il diritto fallimentare e delle società commerciali
zione dei tempi della liquidazione (17), trasferendo su un terzo il rischio del
giudizio, anche per quanto concerne la sua durata.
L’espressione «azioni revocatorie concorsuali» ha portato ad escludere
che siano cedibili le azioni revocatorie ordinarie intraprese dallo stesso imprenditore prima della dichiarazione di fallimento (18). Saranno invece cedibili le azioni revocatorie ordinarie e fallimentari esperite dal curatore ai sensi degli artt. 66 e 67 legge fallim. nonché le azioni di inefficacia di cui agli
artt. 64 e 65 legge fallim. Tale conclusione pare peraltro troppo formalistica. Ove l’azione revocatoria ordinaria intrapresa dal fallito ante fallimento
sia proseguita dal curatore dopo l’apertura della procedura, non vi sono
motivi per ritenere che essa non possa essere oggetto di cessione, tantopiù
se si tratta di azione che il curatore avrebbe potuto egli stesso intraprendere
ai sensi dell’art. 66 legge fallim. In questo senso va anche la Relazione governativa che fa riferimento come cedibili a «tutte le azioni dirette a conseguire incrementi di patrimonio del debitore».
La Relazione aggiunge che le azioni revocatorie non possono essere cedute ai prossimi congiunti del debitore insolvente, dei soggetti cui è stata
estesa la procedura, alle società del gruppo di cui fa parte la società insolvente. Tuttavia tale eccezione, sicuramente opportuna, non risulta dal testo
di legge. Come vedremo, essa si ricava dalla disciplina del concordato fallimentare ed è collegata al principio che la cessione delle azioni revocatorie
non deve andare a vantaggio del fallito, cui è interdetto di proporre un concordato che preveda siffatta clausola. Nel caso della cessione in costanza di
fallimento, vale la stessa ratio. Occorre cioè che la cessione delle azioni revocatorie produca un risultato utile per i creditori, non per il fallito, sı̀ che
questi non può avvantaggiarsene indirettamente tramite la cessione a prossimi congiunti o a soggetti a lui collegati.
Si potrebbe obiettare che, come s’è detto, il divieto di cessione delle
azioni revocatorie al fallito ed a soggetti a lui collegati non è posto espressamente dall’art. 106 e che l’estensione della regola dettata dall’art. 124, ultimo comma, legge fallim. sarebbe arbitraria. Va però osservato che il divieto di cessione al fallito si giustifica, come ha affermato la dottrina ancora nel
vigore della legge fallimentare del 1942, con l’impossibilità logica che quest’ultimo possa avvantaggiarsi dell’inefficacia degli atti da lui stesso posti in
(17) Parla a tale proposito di «realizzazione anticipata dell’attivo» M. Fabiani, La cessione delle azioni revocatorie nel fallimento, nota a Cassazione, 28 aprile 2003, n. 6587, in Foro
it., 2003, I, 3027 segg. Nello stesso senso A. Briguglio-F. Guerrera, la cessione «autonoma» delle azioni revocatorie: problemi (processuali e sostanziali) e proposte di soluzione, in corso di pubblicazione su Dir. fall., 2008.
(18) Cosı̀ implicitamente M. Sandulli, Commento sub art. 106, in La riforma della legge
fallimentare diretto da A. Nigro e M. Sandulli, Torino, 2006, 635.
Parte I - Dottrina
39
essere (19). La stessa giurisprudenza costituzionale ha affermato che il sacrificio che l’azione revocatoria impone ai terzi «trova adeguata giustificazione
nelle esigenze di tutela della par condicio», che sole legittimano la dichiarazione d’inefficacia di atti validi e la deroga al principio di certezza e stabilità
dei negozi giuridici e che, pertanto, di essa non può giovarsi l’imprenditore
insolvente (20).
È poi evidente che alla cessione delle revocatorie debbono applicarsi i
principi stabiliti dall’art. 107 in tema di cessione dell’attivo e quindi il ricorso alle procedure competitive, previa stima e adeguata pubblicità. Della cessione delle azioni revocatorie come dei crediti dovrà dar conto il programma di liquidazione, ove occorrerà precisare le ulteriori modalità in base alle
quali seguirà la cessione.
Già nel vigore della legge fallimentare del 1942 dottrina e giurisprudenza hanno dibattuto il problema di quale sia l’oggetto della cessione. Si è discusso se per effetto della stessa al cessionario sia trasferita soltanto l’azione,
con la conseguenza che sarebbe poi problematico per quest’ultimo trarre
vantaggio dalla sentenza declaratoria dell’inefficacia dell’atto, posto che il
suo effetto tipico è soltanto di rendere l’atto impugnato inopponibile ed
inefficace nei confronti dei creditori, consentendone l’assoggettamento all’azione esecutiva collettiva, o se al cessionario sia trasferito anche il risultato utile della stessa (21). È evidente che ritenere che il trasferimento riguardi
soltanto la mera legittimazione all’esperimento dell’azione svuoterebbe la
previsione normativa di ogni contenuto concreto, perché, accertata l’inefficacia nei confronti dei creditori dell’atto impugnato, soltanto costoro e per
essi il curatore potrebbero trarre vantaggio dalla pronuncia giudiziale. Si
deve dunque concludere che insieme all’azione sia trasferito anche un quid
pluris. La giurisprudenza, invero piuttosto risalente, nel vigore della legge
fallimentare del 1942, ha affermato che la cessione dell’azione revocatoria
all’assuntore del concordato – ed evidentemente tali conclusioni valgono
(19) In tal senso cfr. F. Di Sabato, L’assuntore del concordato fallimentare, Napoli,
1960, 58 e seg.; E. Bran, Il concordato fallimentare, in Il fallimento e le altre procedure concorsuali, a cura di L. Panzani, Torino, 2000, IV, 52.
(20) Corte Cost., 27 luglio 2000, n. 379, in Foro It., 2000, I, 2722; Corte Cost., 21 aprile
2006, n. 172, in Corriere giur., 2006, 1227, con note di Poli e M. Rescigno. Sul punto si
veda anche L. Stanghellini, Proposta di concordato, in Il nuovo diritto fallimentare diretto
da A. Jorio e coordinato da M. Fabiani, Torino-Bologna, 2007, 1986 e segg.
(21) Nel senso dell’efficacia traslativa della cessione, prima della riforma, in dottrina L.
Devoto, L’assuntore e la cessione delle azioni revocatorie, Milano, 1980, 37 e segg. Nel senso
invece che il diritto sostanziale oggetto del trasferimento sarebbe il diritto a liquidare il bene
nelle forme dell’esecuzione forzata previste dal codice di procedura civile V. Di Cataldo, La
cessione delle revocatorie nel concordato fallimentare: diritti dell’assuntore e diritti del revocato,
in Giur. comm., 1981, II, 931.
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Il diritto fallimentare e delle società commerciali
anche per la nuova fattispecie disciplinata dall’art. 106, «non ha funzione
strumentale, ma liquidatoria, in quanto comporta, insieme con il trasferimento dell’azione, l’alienazione anticipata, da parte della massa fallimentare, del bene oggetto dell’atto revocando, subordinatamente all’esito positivo
dell’azione medesima (22). Tale conclusione è stata criticata da una recente
dottrina (23), già nel vigore della riforma, osservando che affermare che il
titolo d’acquisto del bene da parte del cessionario è costituito dal contratto
di cessione dell’azione revocatoria, condizionato al passaggio in giudicato
della sentenza costitutiva di revoca anche per quanto concerne la decorrenza degli effetti, violerebbe il principio per cui il contratto non può produrre
effetti nei confronti del terzo, quale è il terzo revocato rispetto alla cessione.
Di qui la conclusione che, poiché deve pur ammettersi che al cessionario sia trasferito un quid pluris, come già si è detto, oltre alla mera azione,
che da sola non gli consentirebbe di ottenere alcun risultato utile anche in
caso di esito vittorioso, oggetto del trasferimento sia il diritto ad agire esecutivamente sul bene oggetto di revoca nelle forme previste dal codice di
procedura civile. In tal modo si consentirebbe al terzo revocato di esercitare
il diritto di acquistare in sede esecutiva il bene nonché di evitarne la revoca,
pagando all’attore (curatela o cessionario dell’azione) il valore.
Tale conclusione lascia tuttavia perplessi. La cessione dell’azione revocatoria è negozio che interviene tra la curatela ed il cessionario, al quale il
terzo revocato rimane estraneo. È indubbio che tale atto non produce effetti diretti nei confronti del cessionario. Il nostro ordinamento tuttavia ammette la vendita del bene di proprietà di un terzo, vendita che ha effetti meramente obbligatori, non incidendo sul diritto del terzo, ma obbligando il
venditore a procurare la proprietà del bene al compratore. Nel caso in esame si determina un effetto del tutto analogo. Con la cessione la curatela trasferisce al cessionario il bene oggetto della revocatoria, condizionatamente
all’esito dell’azione, rispetto alla quale si verifica un fenomeno di sostituzione processuale del cessionario al cedente. Nel momento in cui la sentenza di
revoca passa in giudicato, si determina in virtù del precedente atto di cessione il trasferimento del bene al cessionario, non perché il negozio di cessione sia produttivo direttamente di effetti nei confronti del terzo revocato,
ma perché il diritto di quest’ultimo sul bene è venuto meno per effetto della
(22) Cassazione 24 novembre 1981, n. 6229, in Dir. fall., 1982, II, 291; Cassazione 22
novembre 1979, n. 6073, in Giust. civ., 1980, I, 934 con nota di F. Santulli, Sulla legittimazione dell’assuntore (nel concordato fallimentare) – cessionario dell’azione revocatoria – a
conseguire dal terzo il bene oggetto dell’atto revocato.
(23) M. Sandulli, Commento sub art. 124, in La riforma della legge fallimentare a cura
di A. Nigro e M. Sandulli, Torino, 2006, 636.
Parte I - Dottrina
41
sentenza di revoca, sı̀ che l’atto traslativo posto in essere dalla curatela, che
è già atto di esecuzione concorsuale, può produrre i suoi effetti.
Né si dica che in questo modo si pregiudica il diritto del terzo revocato
di rendersi acquirente del bene in sede di esecuzione individuale, perché il
terzo non può vantare maggiori diritti di quelli che gli sono riconosciuti in
sede concorsuale, ove l’accennato diritto non sussiste, mentre nel corso dell’esperimento dell’azione revocatoria egli ben potrà evitare la revoca, pagandone al cessionario il valore.
Nello stesso modo nell’ipotesi in cui l’azione oggetto di trasferimento
abbia ad oggetto un pagamento, deve ritenersi che il cessionario possa ottenere dal giudice la pronuncia della sentenza di condanna alla restituzione
della somma percetta, essendo anche tale diritto di credito oggetto di trasferimento, sempre condizionatamente alla pronuncia della sentenza costitutiva di revoca.
Altra e diversa questione riguarda le sorti del credito del terzo revocato
che abbia pagato. Ai sensi dell’art. 70, comma 2, legge fallim. (già art. 71
secondo la disciplina previgente) colui che per effetto della revoca ha restituito quanto aveva ricevuto, è ammesso al passivo fallimentare per il suo
eventuale credito. La cessione delle azioni revocatorie, come la cessione
dei crediti in blocco in generale, ha lo scopo di accelerare i tempi della liquidazione concorsuale, consentendo un più rapido soddisfacimento dei
creditori e la chiusura del fallimento. È peraltro chiaro che, una volta chiuso
il fallimento, il terzo revocato non ha più possibilità di insinuarsi al passivo e
potrebbe soltanto agire nei confronti del fallito tornato in bonis, con risultati probabilmente insoddisfacenti (24). È evidente che la chiusura del fallimento rende impossibile al terzo revocato insinuarsi al passivo nel caso che
la domanda di revoca sia accolta. Tale situazione potrebbe trovare rimedio
(24) Discutibile è se tale credito del terzo revocato sia ricompreso nell’esdebitazione disciplinata dagli artt. 142 e segg. Il credito nasce infatti per effetto dell’avvenuta restituzione
per effetto della revoca di quanto ricevuto ed è successivo all’apertura del fallimento. La possibilità di insinuazione al passivo, riconosciuta dall’art. 70, comma 2, legge fallim. ha carattere
eccezionale ed è dettata da evidenti finalità equitative. L’espressa volontà del legislatore di
equiparare il credito del terzo revocato agli altri crediti concorsuali potrebbe far ritenere
che tale credito rientri nell’esdebitazione che riguarda, ai sensi dell’art. 142, comma 1, legge
fallim. «i debiti residui nei confronti dei creditori concorsuali non soddisfatti». Si potrebbe
peraltro osservare che tale credito non deriva direttamente da un rapporto inerente all’esercizio dell’impresa e potrebbe pertanto rientrare tra i crediti esclusi dall’esdebitazione ai sensi
dell’art. 142, comma 3, lett. a). Ci pare tuttavia che di deroga all’esdebitazione si possa parlare soltanto quando l’originario atto revocato fosse estraneo all’attività d’impresa, perché altrimenti il nesso con tale attività non può venir meno per il solo fatto che in mezzo si è posto il
diaframma rappresentato dalla revoca, che è soltanto diretta a ripristinare la par condicio tra i
creditori e dunque non può far venir meno il carattere concorsuale del credito e la sua connessione con l’attività d’impresa.
42
Il diritto fallimentare e delle società commerciali
nell’ammissione del terzo al passivo in via condizionata, subordinatamente
all’esito del giudizio di revoca. Riteniamo che non vi siano motivi che impediscano di considerare il credito del terzo revocato un credito condizionale (25), posto che il suo avverarsi è soggetto ad un evento futuro ed incerto il
cui esito non dipende soltanto dal terzo e che, per altro verso, tale credito
ha sicuramente carattere concorsuale per effetto della disposizione speciale
dettata dall’art. 70. Inoltre ai sensi dell’art. 117, comma 2, legge fallim. «se
la condizione non si è ancora verificata ovvero se il provvedimento non è
ancora passato in giudicato, la somma è depositata nei modi stabiliti dal giudice delegato, perché, verificatisi gli eventi indicati, possa essere versata ai
creditori cui spetta o fatta oggetto di riparto supplementare fra gli altri creditori. Gli accantonamenti non impediscono la chiusura della procedura».
Se in questo modo, tuttavia, la cessione delle azioni revocatorie non impedisce la chiusura del fallimento, perché non lede il diritto del terzo revocato di insinuarsi al passivo, resta il fatto che la ragione stessa della cessione
ne resta in parte compromessa, perché la procedura dovrà disporre accantonamenti per gli importi per i quali il terzo revocato che si sia insinuato al
passivo possa concorrere, accantonamenti che in taluni casi potranno anche
essere di importo rilevante ed incidere su quanto verranno a percepire gli
altri creditori.
Nel caso del concordato, sia prima che dopo l’entrata in vigore della riforma, si è osservato che il terzo revocato ha diritto a pretendere dall’assuntore il pagamento del suo credito nei limiti della falcidia concordataria (26).
Tale conclusione non può evidentemente valere nell’ipotesi in cui la cessione delle revocatorie avvenga ai sensi dell’art. 106 legge fallim. al di fuori del
concordato, perché il cessionario, a differenza dell’assuntore, non assume
alcun obbligo nei confronti dei creditori del fallito. Di qui la conclusione
di autorevole dottrina che, al fine di tutelare la posizione del terzo convenuto in revocatoria, il cessionario debba accollarsi il debito eventuale nei
(25) Sulla nozione di crediti condizionali si veda G. Bozza, Commento sub artt. 96 e 97,
in Il nuovo diritto fallimentare diretto da A. Jorio e coordinato da M. Fabiani, Bologna-Torino, 2006, 1460 e segg. che, pur optando per la tesi che annovera tra i crediti condizionali i
crediti in cui l’evento futuro ed incerto influisce sulla stessa nascita del credito, afferma che la
nozione ora esposta non può essere dilatata sino a ricomprendere crediti che trovino la loro
fonte in fatti ed atti costitutivi successivi al fallimento. Nel caso del credito del terzo revocato,
tuttavia, occorre tener conto della disciplina speciale prevista dall’art. 70, comma 2, che
espressamente ne ammette il concorso, sı̀ che ci pare che non vi siano ostacoli, in pendenza
del giudizio di revoca, per l’ammissione in via condizionale.
(26) V. Di Cataldo, Il concordato fallimentare con assuntore, cit., 78; D. Vattermoli,
La cessione delle revocatorie nel concordato fallimentare con assuntore: aspetti processuali e sostanziali, in Giur. comm., 2001, I, 238; M. Fabiani, La cessione delle azioni revocatorie nel
fallimento, in Foro It., 2003, 2035.
Parte I - Dottrina
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confronti di quest’ultimo, nei limiti di quanto ripartito ai creditori chirografari (27). È stato anche sostenuto che per evitare una disparità di trattamento in danno del convenuto «revocato», che potrebbe ridondare anche in
una censura di illegittimità costituzionale dell’art. 106 legge fallim. per violazione del principio di ragionevolezza ex art. 3 Cost., appare indispensabile
postulare, in via interpretativa, la circolazione unitaria (e inscindibile) della
pretesa restitutoria derivante dall’azione revocatoria e della situazione giuridica passiva connessa ad essa, in forza della stessa previsione di legge (28).
Tale tesi non ci pare del tutto convincente, perché il pregiudizio del terzo
revocato potrebbe essere considerato conseguenza di una situazione di mero fatto, soprattutto in relazione alla possibilità per lo stesso di proporre domanda di insinuazione del suo credito in via condizionale prima della chiusura del fallimento.
Si è in ogni caso suggerito (29) di ovviare alle difficoltà di tutela del terzo
con un accordo tra la procedura cedente ed il cessionario in virtù del quale
quest’ultimo si obblighi a compensare il credito che egli vanti all’esito del
giudizio di revoca nei confronti del terzo con quanto questi sarebbe in grado di percepire per effetto dell’insinuazione al passivo, considerato ovviamente non nel suo ammontare nominale, ma nei limiti propri del concorso.
Tale soluzione appare peraltro di difficile realizzazione. Da un lato, infatti,
l’accordo tra cedente e cessionario si configura come un contratto a favore
del terzo, produttivo di effetti nei confronti di quest’ultimo soltanto nei limiti in cui questi dichiari di volerne profittare. Dall’altro il calcolo della misura in cui il credito del terzo avrebbe potuto trovare soddisfacimento in
caso di insinuazione al passivo e regolare riparto, sia pure all’esito dell’accantonamento, può essere complesso, perché non si tratta soltanto di applicare al creditore la medesima percentuale attribuita agli altri creditori aventi
il medesimo grado, ma anche di considerare in quale misura tale percentuale possa essere modificata dal fatto stesso del concorso del terzo revocato (30). Ove questi poi sia un creditore privilegiato, qualora si aderisca alla
(27) M. Sandulli, Commento sub art. 124, cit., 639.
(28) A. Briguglio-F. Guerrera, La cessione «autonoma» delle azioni revocatorie: problemi (processuali e sostanziali) e proposte di soluzione, cit.; nello stesso senso, con riferimento
alla disciplina della liquidazione coatta amministrativa bancaria M. Perrino, Le cessioni in
blocco nella liquidazione coatta bancaria, Torino, 2005, 291 segg.
(29) Cosı̀ anche A. Briguglio-F. Guerrera, La cessione «autonoma» delle azioni revocatorie: problemi (processuali e sostanziali) e proposte di soluzione, cit.
(30) A. Briguglio-F. Guerrera, La cessione «autonoma» delle azioni revocatorie: problemi (processuali e sostanziali) e proposte di soluzione, cit. osservano che se al terzo revocato
si riconoscesse soltanto la percentuale derivante dal prezzo pagato dal cessionario alla curatela, egli sarebbe pregiudicato perché in realtà il suo diritto sarebbe di concorrere per quanto
da lui effettivamente corrisposto all’esito della revocatoria. Di qui la necessità di riconoscere,
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Il diritto fallimentare e delle società commerciali
tesi che ammette la reviviscenza della garanzia accessoria al credito estinto
per effetto dell’atto oggetto di revoca (31), ancora occorrerebbe considerare
in che misura il credito trovi soddisfacimento nell’oggetto della garanzia e
quindi se debba essere oggetto di pagamento integrale o meno.
Come si è detto, la cessione delle azioni revocatorie è finalizzata ad una
rapida conclusione dell’attività liquidatoria ed alla chiusura del fallimento.
La cessione può essere configurata come un trasferimento a titolo particolare del rapporto controverso in capo al cessionario ai sensi dell’art. 111
cod. proc. civ. In tale ipotesi, com’è noto, la norma ora citata prevede
che il rapporto processuale prosegua tra le parti originarie, ferma restando
la facoltà del cessionario di intervenire nel giudizio pendente. Il cessionario
subisce gli effetti della sentenza che conclude il giudizio, ma il cedente, cioè
la curatela non vanta un diritto assoluto ad esserne estromesso, perché l’art.
111, comma terzo, cod. proc. civ. stabilisce che l’alienante può essere estromesso con il consenso delle altre parti. In difetto di tale consenso, pertanto,
la curatela continua ad essere parte del giudizio (32).
quale diritto derivante ex lege o in via pattizia, in capo al cessionario l’obbligo di ammettere la
compensazione del credito restitutorio derivante dalla revoca con il controcredito del terzo
revocato nei limiti della percentuale fallimentare.
(31) Sulla questione va osservato che la Cassazione ha affermato il principio per cui «All’inesistenza, in seno all’ordinamento civilistico, di un generale principio di reviviscenza delle
garanzie (reali o personali) allorché esse siano prestate da terzi nel caso di reviviscenza del
credito assistito consegue che, in tutte le ipotesi di reviviscenza dell’obbligazione principale
per sopravvenuta caducazione di una sua causa estintiva, rivivono, con l’originaria obbligazione, anche le relative garanzie se prestate dal debitore principale, mentre, per ciò che concerne
le garanzie prestate da terzi, quale (come nella specie) la garanzia fideiussoria ordinaria, il fenomeno della reviviscenza va senz’altro escluso, non potendo, all’uopo, invocarsi il disposto
dell’art. 2881 cod. civ., dettato, in via eccezionale, con riferimento alla sola ipoteca» (Cassazione 15 novembre 2004, n. 21585, in Corriere giur., 2005, 367, con nota di P. Mazza, Reviviscenza delle garanzie a seguito del risorgere dell’obbligazione principale). Dottrina e giurisprudenza si sono occupate della questione, prima della riforma, essenzialmente con riferimento alla reviviscenza della garanzia prestata dal fideiussore, giungendo di regola ad escluderla. Si veda sul punto, dopo la riforma, S. Bonfatti, Effetti della revocazione, in Il nuovo
diritto fallimentare diretto da A. Jorio e coordinato da M. Fabiani, Bologna-Torino, 2006,
1111. Per quanto concerne l’ipoteca, l’A. ora citato argomenta dal riferimento dell’art.
2881 cod. civ. alla sola ipotesi della nullità, per concludere che la norma, che consente
una nuova iscrizione della garanzia, non sia applicabile alla revoca. Nel senso invece che l’art.
2881 sia espressione di un principio generale, ma che in ogni caso non consenta altro che una
nuova iscrizione, che non consente al terzo revocato di prevalere nei confronti degli altri creditori anteriori all’apertura della procedura, la già citata Cassazione 15 novembre 2004, n.
21585.
(32) Cassazione 9 maggio 1983, n. 3186, in Dir. fall., 1983, 611, ha affermato che «il giudizio di revocatoria ordinaria o fallimentare, in cui il curatore agisce per conto dei creditori
che ne sono titolari e del quale il concordato non comporti l’improcedibilità per essere stata
l’azione ceduta all’assuntore in esecuzione del concordato stesso, prosegue tra le parti origi-
Parte I - Dottrina
45
Manca invero nella disciplina del fallimento una norma del tenore dell’art. 90, comma 2, t.u.b., secondo il quale in caso di liquidazione coatta amministrativa delle banche e di cessione di attività e passività, aziende, rami
d’azienda, beni e rapporti giuridici individuabili in blocco «...i commissari
liquidatori sono estromessi, su propria istanza, dai giudizi relativi ai rapporti
oggetto della cessione nei quali sia subentrato il cessionario» (33).
Come si è detto, la cessione dei crediti da parte della curatela è incentivata per accelerare la definizione della procedura concorsuale. Il curatore
è in grado di incassare il prezzo della cessione delle azioni revocatorie e di
ripartirlo tra i creditori, senza dover attendere l’esito del giudizio. Il rischio
dell’esito dell’azione sia in ordine al risultato che in ordine ai tempi grava
sul cessionario e gli organi della procedura possono disinteressarsene (34).
È evidente che se si ritiene che il curatore non possa essere estromesso
dal giudizio senza il consenso delle altre parti – l’art. 106, comma 1, prevede
che possano essere cedute soltanto le azioni revocatorie già instaurate, mentre solo in caso di concordato è ammessa la cessione delle azioni autorizzate,
ma non iniziate – la finalità stessa della cessione non potrebbe essere realizzata.
Per evitare di pervenire a tale conclusione in dottrina si è osservato che
la chiusura del fallimento determina il venir meno della procedura e che il
fallito, tornato in bonis, non potrebbe esperire le azioni revocatorie fallimentari, mentre i creditori riacquisterebbero la legittimazione soltanto
con riferimento alle azioni revocatorie ordinarie. Da tale punto di vista la
cessione delle azioni e la successiva chiusura del fallimento potrebbe essere
avvicinata ad una successione a titolo universale, sia pur con oggetto limitato alle sole azioni revocatorie (35). Una volta avvicinata la cessione delle
narie, secondo la disciplina dell’art. 111 cod. proc. civ., salva la facoltà dell’assuntore cessionario di intervenirvi o la facoltà delle altre parti di chiamarlo, con la possibilità di estromissione del dante causa».
(33) L’osservazione è di A. Briguglio-F. Guerrera, La cessione «autonoma» delle
azioni revocatorie: problemi (processuali e sostanziali) e proposte di soluzione, cit., che non sono contrari ad un’applicazione analogica della norma, peraltro problematica.
(34) È stato sottolineato da A. Briguglio-F. Guerrera, La cessione «autonoma» delle
azioni revocatorie: problemi (processuali e sostanziali) e proposte di soluzione, cit. che nella vecchia disciplina ante riforma, l’omologazione definitiva del concordato comportava automaticamente la chiusura del fallimento e quindi la decadenza degli organi della procedura (art.
131, comma 4, legge fallim.); mentre, secondo la nuova disciplina, occorre un successivo e
autonomo «decreto di chiusura» da parte del tribunale (art. 130, comma 2, legge fallim.).
Questa differenza non incide sulla questione oggetto d’esame nel testo, che si poneva già prima della riforma, ovviamente con riguardo alla sola cessione delle revocatorie per patto di
concordato.
(35) In tal senso A. Briguglio-F. Guerrera, La cessione «autonoma» delle azioni revocatorie: problemi (processuali e sostanziali) e proposte di soluzione, cit. secondo i quali «Non
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Il diritto fallimentare e delle società commerciali
azioni revocatorie ad una successione a titolo universale, non troverebbe
più applicazione la regola dettata dall’art. 111 cod. proc. civ. con la conseguenza che per effetto della cessione e della successiva chiusura del fallimento il cessionario subentrerebbe nei giudizi pendenti a seguito dell’interruzione e della successiva riassunzione degli stessi ovvero della sua diretta
costituzione negli stessi prima della dichiarazione di interruzione.
Tale conclusione, pur comportando un’indubbia forzatura del testo
normativo, appare ragionevole perché idonea ad assicurare la realizzazione
della ratio legis, vale a dire la chiusura della procedura e la distribuzione del
ricavato ai creditori, ratio legis che, come si è detto, si pone in netto contrasto con l’applicazione della regola dettata dall’art. 111 cod. proc. civ.
3. Nel concordato fallimentare i crediti e le revocatorie possono essere
ceduti all’assuntore. Per quanto concerne la cessione dei crediti non vi è da
aggiungere molto a quanto si è sin qui detto, perché la cessione dei crediti
all’assuntore non è oggetto di norme particolari e quindi varranno in linea
di principio le regole che si sono già esaminate con riferimento al fallimento, anche con riguardo al conferimento dei crediti in una società di apposita
costituzione, destinata ad essere poi trasferita all’assuntore, ove tale modalità possa riuscire più vantaggiosa.
Diverso è il discorso per quanto concerne la cessione delle azioni di
massa, che l’art. 124, comma 4, consente, a condizione che si tratti di azioni
già autorizzate. Vi è quindi differenza rispetto alla disciplina dettata dall’art.
106 con riferimento alla liquidazione dell’attivo, sia perché è consentita la
cessione di tutte le azioni di massa e non soltanto delle revocatorie, sia perché non è richiesto che il giudizio sia già radicato.
Va però aggiunto che occorre che l’azione sia stata autorizzata dal giudice delegato, con specifica indicazione dell’oggetto e del fondamento della
vi è propriamente una deroga all’art. 111, comma 1, cod. proc. civ., secondo cui in caso di
trasferimento del diritto controverso il processo prosegue nei confronti delle parti originarie,
bensı̀ una oggettiva impossibilità di applicazione di tale disposto dovuta appunto al venir meno della parte originaria (senza successione universale) in contemporanea al trasferimento del
diritto controverso».
Tale tesi trae spunto dai rilievi espressi da Cassazione 28 febbraio 2007, n. 4766, in Fallimento, 2007, 775 con nota di M.A. Perrino, Concordato fallimentare con assuntore, cessione delle azioni revocatorie ed inconsapevolezza dello stato di insovenza. Tale sentenza ha sottolineato in motivazione che «...La successione dell’assuntore è, d’altro canto, fenomeno complesso poiché alla successione a titolo particolare nel diritto si accompagna, con la chiusura
della procedura, la perdita della legittimazione processuale del curatore, con la conseguenza
che almeno da tale momento non è possibile la prosecuzione del giudizio tra le parti originarie prevista dall’art. 111 cod. proc. civ., comma 1, ...». L’analogia tra la successione universale
e l’ipotesi in esame discende dunque dal fatto che in entrambi i casi non è possibile, in via
strutturale, la prosecuzione del giudizio tra le parti originarie.
Parte I - Dottrina
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pretesa. Si è osservato (36) che questa autorizzazione non può essere identificata con quella prevista dall’art. 25 n. 6 legge fallim. perché la norma, pur
prevedendo l’autorizzazione del giudice delegato al curatore a stare in giudizio, non richiede la specifica indicazione dell’oggetto e del fondamento
della pretesa. Di conseguenza le autorizzazioni già in essere, ove il giudizio
non sia già stato instaurato, dovranno essere integrate in modo da soddisfare i requisiti previsti dall’art. 124 legge fallim.
Il secondo requisito richiesto è che si tratti di azioni di massa. Di conseguenza potranno essere cedute all’assuntore le azioni di simulazione e le
azioni risarcitorie attribuite al curatore ai sensi dell’art. 146 legge fallim. Ovviamente non saranno cedibili le azioni che spettano direttamente ai singoli
creditori e che il curatore non è legittimato ad esperire, come ad esempio
l’azione di danni per l’abusiva concessione di credito (37).
Come già si è accennato, la cessione delle azioni revocatorie e di massa
è limitata al caso in cui la proposta di concordato è presentata da uno o più
creditori o da un terzo. È pertanto escluso il caso in cui il fallito propone
egli stesso il concordato. La ratio della norma sta nella volontà del legislatore che intende evitare che il fallito lucri sotto qualsiasi forma per effetto
di atti da lui compiuti, fonte di pregiudizio per i creditori. Di qui la conclusione (38) che la cessione delle azioni di massa non è consentita neppure
a favore del fideiussore del fallito, perché in questo modo il suo credito nei
confronti del fallito stesso ne sarebbe influenzato, ed il fallito trarrebbe
quindi vantaggio indiretto dalla cessione delle revocatorie. Per la stessa ragione si è affermato che la cessione deve riguardare l’intero attivo fallimentare, perché altrimenti per effetto della cessione delle azioni di massa rimarrebbero beni in capo al fallito e dunque egli si avvantaggerebbe dalla
cessione di tali azioni.
Come si è accennato, tali conclusioni sono ora avvalorate dalla giurisprudenza costituzionale. Nell’amministrazione straordinaria è stato sollevato, com’é noto, il problema dell’ammissibilità dell’azione revocatoria
quando essa sia esperita in una procedura aperta secondo il decreto Marza-
(36) In questo senso S. Pacchi, Il concordato fallimentare, Milano, 2008, 91; G.B. Nardecchia, Crisi d’impresa, autonomia privata e controllo giurisdizionale, Milano, 2007, 200; L.
Stanghellini, Proposta di concordato, in Il nuovo diritto fallimentare, cit. 1990.
(37) Cosı̀ secondo Cassazione S.U., 28 marzo 2006, n. 7029, in Diritto e giustizia, 2006,
12, con nota di P. Filippi, Credito abusivo, il curatore è dimezzato. Sui danni può essere parte
civile ma non agire ex articolo 2043 cod. civ.; in Dir. banca e del mercato finanziario, 2007, 149
con nota di A. Nigro, Ancora sulla concessione «abusiva» di credito e sulla legittimazione del
curatore fallimentare.
(38) In questo senso L. Stanghellini, Proposta di concordato, in Il nuovo diritto fallimentare, cit. 1990; G.B. Nardecchia, Concordato fallimentare, in M. Ferro (a cura di), Le
insinuazioni al passivo, IV, Agg. Padova, 2006, 34.
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Il diritto fallimentare e delle società commerciali
no e sia questione di prosecuzione dell’attività ai fini della ristrutturazione,
ipotesi in cui ai sensi della legge 270/99 non è consentita. Nella vicenda
Parmalat nel concordato proposto dallo stesso commissario straordinario
era previsto, a fronte della sottoscrizione da parte dei creditori delle azioni
di società di nuova costituzione, il conferimento in tali società delle azioni
revocatorie esperite. Si sosteneva pertanto che in questo modo, pur proseguendo l’attività d’impresa, tale attività era finanziata anche con il provento
delle azioni revocatorie, in violazione dei principi stabiliti dalla legge 270/99
e dei canoni costituzionali di parità di trattamento.
La Corte costituzionale (Corte cost., 21 aprile 2006, n. 172) (39) ha risolto il problema, affermando la legittimità della disciplina costituzionale, perché destinataria del trasferimento era una società destinata, per patto di
concordato, ad essere partecipata dagli stessi creditori e dunque la cessione
delle azioni revocatorie non andava a vantaggio della società, che se ne avvaleva per finanziare la propria attività, ma dei creditori. Non era il fine
conservativo o liquidatorio della procedura concorsuale che rendeva legittima la procedura di revoca, ma la destinazione dei proventi, che dovevano
essere destinati al miglior soddisfacimento dei creditori e non andare a vantaggio del debitore.
Deve pertanto escludersi che la proposta presentata da un terzo sia legittima, quando per effetto della stessa sia il fallito o un soggetto a lui collegato a beneficiarne anche indirettamente.
4. Ulteriore e più ardua questione riguarda l’applicabilità della nuova
disciplina in tema di cessione delle azioni revocatorie ai fallimenti pendenti.
La nuova normativa in tema di cessione delle azioni revocatorie è stata introdotta nel nostro ordinamento dal d.lgs. 9 gennaio 2006, n. 5, che ha modificato gli artt. 106 e 124 legge fallim. Il decreto correttivo 12 settembre
2007, n. 169, non ha introdotto modificazioni su questa parte della disciplina. Essa è dunque entrata in vigore il 16 luglio 2006 ai sensi dell’art. 153 del
d.lgs. 5/2006. L’art. 150 di tale decreto stabilisce che le procedure di fallimento e di concordato fallimentare pendenti prima dell’entrata in vigore di
tale decreto sono definite secondo la legge anteriore.
Il legislatore ha dunque dettato una normativa che deroga al principio
tempus regit actum applicando ai fallimenti già pendenti la disciplina previgente. Di qui la conclusione che non sia possibile la cessione delle azioni
revocatorie per i vecchi fallimenti, se non nei limiti in cui il vecchio art.
124 legge fallim. 1942 ne ammetteva la cessione come patto di concordato,
limiti più ristretti di quelli attuali.
(39) Cfr. nota 19.
Parte I - Dottrina
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In senso contrario si è osservato che il credito relativo ad un’azione revocatoria è pur sempre un credito litigioso e che la cessione dei crediti, anche litigiosi, era ritenuta ammissibile anche prima della riforma. È ben vero
che era pacifica l’opinione che l’espressa previsione della cedibilità di tali
azioni come patto di concordato, contenuta nel vecchio art. 124 legge fallim. 1942, comportava a contrario la conclusione che tale cessione non potesse aver luogo al di fuori del concordato stesso. Tale interpretazione, tuttavia, non si fondava su un espresso divieto contenuto nella disciplina legislativa, ma sul dibattito che si era svolto in sede di lavori preparatori della
legge fallimentare del 1942 e sul silenzio del legislatore al riguardo. Senonché il nuovo art. 106 legge fallim. non si è limitato a rendere ammissibile la
cessione delle azioni revocatorie, ma ha subordinato tale legittimità alla circostanza che si tratti di azioni pendenti. Nell’ammettere il trasferimento ha
pertanto posto dei limiti, sı̀ che non è possibile ritenere che il legislatore abbia soltanto esplicitato una facoltà già ricavabile dal vecchio testo normativo
senza innovare la fattispecie. Inoltre in parte rilevante le azioni revocatorie
hanno carattere costitutivo (si pensi ai casi disciplinati dall’art. 67 legge fallim.), sı̀ che non è possibile ritenere, in difetto di un’espressa previsione legislativa, che il curatore possa trasferire ad un terzo cessionario un diritto
che ancora non è sorto e che egli soltanto è autorizzato a far valere.
Per ovviare a tali difficoltà è stata suggerita una diversa interpretazione (40), che poggia sull’asserito carattere sostanziale delle norme che facoltizzano la cessione delle azioni revocatorie. In linea di principio non si può
dubitare che la cessione di un diritto sia fattispecie che attiene non già alla
disciplina del processo, ma del negozio. La cessione del credito, infatti, è
prima di tutto un contratto le cui sorti esulano dalla pendenza di un giudizio. Sotto tale profilo appare pertanto ragionevole ritenere che le norme che
regolano tale cessione siano quelle che sono in vigore nel momento in cui il
negozio viene posto in essere. Tuttavia nel caso in esame non è questione di
un semplice contratto, ma del trasferimento di diritti nell’ambito di una
procedura di esecuzione forzata a carattere concorsuale. L’aspetto sostanziale e quello processuale della vicenda sono pertanto intimamente collegati, come dimostra il fatto che, con riferimento alla nuova disciplina, la cessione deve trovare adeguata previsione nel programma di liquidazione, deve
essere autorizzata dal comitato dei creditori, deve essere attuata nel rispetto
(40) Si accennano qui gli argomenti che sono stati sostenuti a favore della cessione delle
azioni revocatorie c.d. vecchio rito nel recente convegno tenutosi a Taormina il 9 e 10 maggio
2008, La cessione delle azioni revocatorie, delle azioni di pertinenza della massa e dei diritti controversi: verso la creazione di un nuovo mercato, organizzato dall’Università di Messina – Dipartimento di Diritto Privato e Teoria del Diritto, non senza avvertire che la questione merita
ben altro approfondimento.
50
Il diritto fallimentare e delle società commerciali
dei principi sanciti dall’art. 107 legge fallim., vale a dire tramite procedure
competitive, previa stima e con adeguate forme di pubblicità. La vendita
può essere sospesa dal curatore ai sensi dell’art. 107 e dal giudice delegato
ai sensi dell’art. 108 legge fallim. Il provvedimento che autorizza la vendita
o l’atto di esecuzione del curatore sono impugnabili nelle forme del reclamo. Ove si ritenga applicabile la disciplina previgente, le norme che regolano l’esecuzione concorsuale sono diverse: non esiste il programma di liquidazione, il curatore può decidere da solo tempi e modi della vendita, salvo l’autorizzazione del giudice delegato; non si applica la nuova disciplina
della sospensione; l’impugnazione del provvedimento autorizzativo è regolata in termini in parte differenti.
Sembra allora lecito dubitare che il negozio di cessione delle azioni revocatorie possa essere considerato soltanto come oggetto di una disciplina
di diritto sostanziale, che prescinde dal fatto che esso è posto in essere nell’ambito di un procedimento esecutivo a carattere concorsuale, con la conseguenza che non può non trovare applicazione l’art. 150 d.lgs. 5/2006.
Se cosı̀ stanno le cose, ci pare che la possibilità di cessione delle azioni
revocatorie perda gran parte del suo appeal. Com’è noto, il legislatore con la
riforma ha ridotto sensibilmente la possibilità di esperire le azioni revocatorie fallimentari, sia dimezzando il periodo sospetto previsto dall’art. 67 legge fallim. sia introducendo un rilevante numero di esenzioni. La cessione
delle azioni revocatorie sarebbe pertanto strumento utile soprattutto per
chiudere i vecchi fallimenti, cui si riferisce la maggior parte del contenzioso
pendente, mentre essa assume minor rilevanza per i fallimenti dichiarati dopo il 16 luglio 2006 cui si applica la nuova disciplina. La conclusione è che il
legislatore ha forse perso un’occasione per consentire una più rapida conclusione delle vecchie procedure pendenti, ma che appare difficile per l’interprete giungere alle medesime conclusioni in via esegetica. Oltretutto la
stessa opinabilità della tesi che ritiene applicabile la cessione ai vecchi fallimenti, porta a ritenere che difficilmente gli operatori economici potrebbero essere interessati a rendersi acquirenti di tali crediti in una situazione in
cui il terzo revocato potrebbe seriamente porre in dubbio la loro legittimazione.
CESSIONI «INDIVIDUALI» E «IN BLOCCO»
DEI DIRITTI CONTROVERSI
COME MODALITÀ LIQUIDATORIA CONCORSUALE (*)
di
Michele Perrino (**)
Sommario: 1. Premessa. – 2. La cessione dei diritti controversi. – 3. Cessione delle situazioni
giuridiche attive e attribuzione ex novo all’acquirente delle azioni a loro tutela. – 4. Clausole o patti di «cessione delle azioni civili». – 5. La cessione delle azioni revocatorie concorsuali. – 6. In particolare: la revocatoria di atti traslativi di cosa determinata, ancora
esistente nel patrimonio del terzo. – 7. (Segue) La cessione di azioni revocatorie dal
cui accoglimento sorga un credito della massa. – 8. Cessioni individuali e cessioni in
blocco. – 9. La preferenza assegnata dalla disciplina vigente alle cessioni in blocco. –
10. La cessione dei diritti controversi come possibile modalità liquidatoria. – 11. La disciplina: il limite delle azioni già pendenti. – 12. (Segue) Forma, pubblicità, tecniche di
circolazione. – 13. Necessità di una previsione o clausola espressa. (1)
1. Per accostarsi ad un tema cosı̀ delicato e complesso, converrà disgiungere ognuno dei segmenti che ne compongono l’estesa intitolazione, per farne oggetto di analisi separata, e cercare di comprendere di cosa si stia parlando.
Si tratta di chiedersi, nell’ordine: a) cosa significhi cessione dei diritti controversi; b) in che senso distinguere fra cessione «individuale» e cessione «in
blocco»; c) cosa significhi che la cessione costituisca una possibile modalità
liquidatoria; d) ed infine quale sia il regime, come ricavabile dalla disciplina
frutto della riforma, relativo fra l’altro a forma, pubblicità, tecniche di circolazione in blocco delle azioni di pertinenza della procedura concorsuale.
(*) Testo, con l’aggiunta di note bibliografiche essenziali, della relazione con lo stesso
titolo svolta al Convegno di studi tenutosi il 9 e 10 maggio 2008 a Taormina su «La cessione
delle azioni revocatorie, delle azioni di pertinenza della massa e dei diritti controversi: verso la
creazione di un nuovo ‘‘mercato’’».
(**) Professore ordinario di Diritto commerciale nell’Università di Palermo.
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Il diritto fallimentare e delle società commerciali
2. Anzitutto, occorre soffermarsi su cosa significhi «cessione dei diritti
controversi».
La locuzione scelta dagli organizzatori del Convegno è particolarmente
puntuale, nella misura in cui è stata preferita all’altra, corrente nella prassi e
nello stesso linguaggio legislativo, della «cessione delle azioni».
L’idea suggerita, quale che sia l’espressione usata, è quella che le azioni civili possano vedersi come elementi patrimoniali attivi oggetto di trasferimento.
L’improprietà del linguaggio consolidato nella prassi, ma anche nel testo legislativo (1), richiede alcune precisazioni, imponendo di distinguere in
particolare tra due situazioni: a) cessione delle attività (nel senso delle situazioni giuridiche attive, senza riferimento espresso alle azioni a loro tutela) e
attribuzione ex novo all’acquirente delle azioni a loro tutela; b) clausole o
patti di «cessione delle azioni» come indice della volontà di cessione delle
situazioni attive, attuali o potenziali, sottostanti.
Provo a spiegarmi meglio.
Da un lato (per quanto riguarda a), si tratta di comprendere se ed in che
senso possa parlarsi – in modo proprio e tecnico, al di là delle libertà lessicali della prassi – di «trasferimento» o «cessione» di tali azioni al cessionario, a prescindere da clausole ad hoc che un tale trasferimento prevedano,
bensı̀ quale riflesso della cessione della situazione giuridica o del compendio
aggregato di situazioni giuridiche sostanziali cui le stesse azioni attengono, o
comunque riconoscervi un subentro a carattere derivativo da parte del cessionario della situazione giuridica singola o del «blocco» di situazioni giuridiche in questione.
E, dall’altro lato (per quanto concerne b), dell’ammissibilità, del significato e degli effetti, invece, di vere e proprie pattuizioni espresse, previste
come patti o clausole ad hoc aventi per oggetto la programmazione di un
simile «trasferimento» o, più genericamente, della relativa successione dell’acquirente.
3. Sotto il primo profilo, è peraltro risalente e molto autorevole l’avvertimento, circa l’improprietà di un ragionare di «trasferimento» delle azioni
civili, per effetto della circolazione delle situazioni giuridiche cui le stesse si
(1) E cfr., in tal senso, già il vecchio art. 124 legge fallim.: «La cessione delle azioni revocatorie come patto di concordato è ammessa a favore del terzo che si accolla l’obbligo di adempiere il concordato e limitatamente alle azioni già proposte dal curatore». Cosı̀ ora anche il nuovo art. 124, di cui riporta il testo per comodità del lettore: «La proposta presentata da uno o
più creditori o da un terzo può prevedere la cessione, oltre che dei beni compresi nell’attivo fallimentare, anche delle azioni di pertinenza della massa, purché autorizzate dal giudice delegato,
con specifica indicazione dell’oggetto e del fondamento della pretesa». Nonché, in termini generali per il fallimento, ma con esclusivo riferimento espresso alle revocatorie, l’art. 106: «Il
curatore può cedere [...] le azioni revocatorie concorsuali, se i relativi giudizi sono già pendenti».
Parte I - Dottrina
53
collegano quali mezzi di tutela, quasi che l’azione fosse un accessorio del diritto circolante con questo (2).
Come rimedio posto a presidio della posizione giuridica sostanziale, si
fa notare, l’azione «spetta» – per cosı̀ dire, a titolo originario (3) – al titolare
attuale del diritto; di modo che, anziché trasferirsi anch’essa in caso di cessione del diritto, essa è perduta dal cedente, e compete piuttosto ex novo al
cessionario, senza che intercorra al riguardo alcuna vicenda giuridica traslativa (4).
In tal senso, con riferimento all’interrogativo in discorso, le azioni civili
poste a tutela delle situazioni giuridiche trasferite quali oggetto di liquidazione concorsuale, invece che anch’esse cedute per riflesso di queste, dovranno intendersi (rettificando l’impropria nomenclatura corrente nella
pratica) come spettanti in atto ed in via autonoma (non derivativa) al cessionario, quale titolare attuale della situazione giuridica protetta; mentre sarà l’accertamento circa l’avvenuta cessione di quest’ultima, ricostruendo il
contenuto volitivo della fattispecie traslativa in questione, il criterio decisivo
onde di volta in volta stabilire l’effettiva spettanza (non il trasferimento) anche della relativa azione al cessionario.
Nel qual caso – quando, cioè, la stessa situazione giuridica sottostante
all’azione risulti inclusa nella sfera traslativa dell’operazione – alle eventuali
clausole dell’atto di cessione, che integrassero la determinazione traslativa
con la precisazione che si intendono anche «cedute le azioni civili» inerenti
al bene o alla situazione giuridica trasferita, non potrà che riconoscersi un
carattere, oltre che atecnico, anche sostanzialmente pleonastico, per il fatto
di ribadire con terminologia impropria il fenomeno, di per sé automatico,
della perdita delle predette azioni in capo alla liquidazione cedente, e della
loro attribuzione (originaria, anziché derivativa) al cessionario.
Sicché il punto, in definitiva, è la ricostruzione della portata traslativa
della cessione concorsuale: ricostruzione particolarmente problematica, come dirò più avanti, allorché si tratti non di cessione atomistica di singole
posizioni giuridiche, bensı̀ di cessione in blocco o aggregata di situazioni attive e/o passive, individuate solo sinteticamente in virtù della mera indicazione dell’indice unitario che tutte le accomuna, e che consentirà ex post di
accertare quali situazioni debbano intendersi trasferite.
Ma tornerò sul punto.
4. In altri casi – venendo cosı̀ all’oggetto specifico del mio intervento –
(2) Cfr. W. Bigiavi, Note inutili sul c.d. trasferimento delle azioni civili, in Riv. dir. civ.,
1965, I, 137 seg.
(3) Cfr. Bigiavi, op. cit., 138.
(4) Cfr. Bigiavi, op. cit., 140.
54
Il diritto fallimentare e delle società commerciali
clausole o patti di «cessione delle azioni civili» ben possono dimostrare, invece, un assai più pregnante significato.
Si allude, essenzialmente, a due categorie di ipotesi.
La prima è quella in cui clausole o convenzioni siffatte non attengano,
come quelle prima indicate, ad azioni al servizio di situazioni giuridiche in
atto esistenti e già da intendersi incluse nella sfera traslativa dell’atto (incluse, nel caso di liquidazione aggregata, perché rientranti nel perimetro della
fattispecie in blocco, cosı̀ come individuato dal suo indice sintetico); bensı̀
riguardino attività, pur sempre attuali, e però ulteriori a quelle di per sé
comprese nel singolo bene o nel «blocco» ceduto.
Un secondo ordine di ipotesi attiene invece a clausole di «cessione di
azioni», le quali mettano capo a situazioni giuridiche qualificabili in termini
di aspettativa, o diritto condizionato o potenziale al conseguimento di un
«risultato utile», la cui attualità e consistenza è subordinato al positivo esperimento dell’azione: un risultato che, con la cessione dell’azione medesima,
si intende fin d’ora attribuire al cessionario (5).
Nell’una e nell’altra categoria di casi, peraltro, di nuovo alla stregua dell’indicato insegnamento, il linguaggio contrattuale espresso in termini di
«cessione delle azioni» altro non denota – con l’uso in sostanza di una metonimia, che pone l’accento su un riflesso del più ampio fenomeno traslativo della sottostante posizione sostanziale – se non la cessione delle stesse
situazioni giuridiche sottese: definitive ed attuali nell’un caso; in fieri e condizionate nell’altro.
Sicché è l’implicito trasferimento di queste situazioni giuridiche, a ben
guardare, a giustificare per conseguenza, con logica inversione rispetto alla
rappresentazione negoziale, l’attribuzione all’acquirente – ancora una volta
ex novo, invece che traslativa – della azione posta al servizio della posizione
giuridica attiva ceduta.
Cosı̀, quanto alle ipotesi della prima categoria (esempi delle quali possono rinvenirsi nella cessione di azioni di accertamento, o di rivendicazione,
o in genere di azioni reali relative a diritti su beni non ricompresi nella situazione giuridica o nel blocco ceduto), la clausola di cessione delle azioni
«si risolve» nel trasferimento del diritto, o più ampiamente della posizione
giuridica attiva oggetto della tutela espressamente richiamata (6).
Più complesso il ragionamento da farsi rispetto alle ipotesi della seconda categoria summenzionata, per il che conviene forse ragionare – per dare
maggiore compiutezza al discorso – con diretto e specifico riferimento ai
due più tipici esempi ad essa riconducibili: la cosiddetta «cessione delle
(5) Cfr. Bigiavi, op. cit., pag. 160 seg.
(6) Cfr. Bigiavi, op. cit., pagg. 143 seg., 159 seg.
Parte I - Dottrina
55
azioni revocatorie» esperibili dal curatore; e la cessione delle azioni di responsabilità contro gli organi sociali. Mi soffermerò solo sulla cessione delle
revocatorie, visto che la cessione delle azioni di responsabilità forma oggetto di un’altra relazione.
5. Orbene, ci riferiamo all’ipotesi, che può essere di un patto autonomo
di cessione o di una clausola dell’atto traslativo, con cui si disponga la «cessione» all’acquirente «delle azioni revocatorie» avverso atti pregiudizievoli
ai creditori, compiuti prima dell’inizio della procedura ed il cui esercizio
compete al Curatore.
L’art. 106 parla soltanto della cessione di tali azioni, in particolare, delle
«azioni revocatorie concorsuali», non anche delle altre azioni della massa, anche
se la rubrica dell’articolo discorre genericamente di «cessione [...] delle azioni».
Nella fattispecie «azioni revocatorie concorsuali» sembrano peraltro doversi includere sia le azioni di inefficacia ex artt. 64 e 65 l.fall.; sia le cosiddette azioni revocatorie fallimentari, ex art. 67 legge fallim.; sia le azioni revocatorie ordinarie esercitate dal curatore nel fallimento ex art. 66, legge
fallim. (7): tutte le azioni revocatorie, cioè, connotate come concorsuali in
quanto fatte segno di una disciplina peculiare e diversa (rispetto alle omonime azioni codicistiche) dalla legge fallimentare, in ordine, ad esempio, alla
legittimazione esclusiva in capo al curatore ed alla competenza funzionale
del Tribunale fallimentare.
Il primo interrogativo, al riguardo, è quello di fondo: quale sia l’esatto
significato di clausole siffatte; «che cosa», in ultima analisi, «si ceda»; e, correlativamente, che cosa in effetti «acquisti» il cessionario.
Un interrogativo, questo, con il quale gli interpreti hanno da tempo
avuto modo di misurarsi, con riferimento alla formula della «cessione delle
revocatorie», presente – com’è noto – già nel vecchio testo dell’art. 124,
commi 2 e 3, legge fallim., che ammetteva quale patto di concordato fallimentare la «cessione delle azioni revocatorie» a beneficio del terzo assuntore; pur limitando tale possibilità alle azioni già proposte dal curatore, e precludendola in favore del fallito e dei suoi fideiussori (8).
6. Ora, riguardo alla cessione concordataria delle revocatorie, e con riferimento all’ipotesi più semplice della revoca di atti traslativi di cosa determinata, si era da tempo consolidato nella giurisprudenza di legittimità l’o-
(7) Cfr. M. Sandulli, in La riforma della legge fallimentare, a cura di A. Nigro e M.
Sandulli, II, sub art. 106, Torino, 2006, pag. 635; nonché G. Tarzia, La cessione delle azioni
revocatorie prima e dopo la riforma, in Fallimento, 2008, pag. 865.
(8) In argomento cfr. diffusamente Devoto, L’assuntore e la cessione delle revocatorie,
Milano, 1980, passim.
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Il diritto fallimentare e delle società commerciali
rientamento, già del resto condiviso dalla dottrina dominante, secondo cui
il patto espresso di cessione di dette azioni implichi di per sé un patto di
alienazione anticipata all’acquirente/assuntore, subordinatamente all’esito
positivo della revocatoria, (direttamente) del bene oggetto dell’atto revocando; bene del quale l’assuntore acquisterebbe perciò la piena titolarità, in caso di pronuncia di revoca, con effetto retroattivo a partire dalla sentenza di
omologazione del concordato (9).
Non si tratta con ciò, peraltro, di configurare una sorta di riacquisto
del bene in capo al debitore fallito, e di suo ritrasferimento all’assuntore,
quasi ragionando – secondo remote e accantonate impostazioni – di un
vizio della fattispecie traslativa revocata: ciò che, com’è appena il caso
di rilevare, contrasterebbe con gli ormai pacifici approdi interpretativi,
circa la revocatoria come semplice dichiarazione di inefficacia relativa dell’atto, in cui la conseguente restituzione alla massa del bene, lungi dall’avere significato traslativo, allude al suo mero assoggettamento all’azione
esecutiva concorsuale, ferma restando la perdurante proprietà dell’acquirente soccombente, almeno fino alla vendita forzata o comunque all’alienazione coattiva (10).
Piuttosto, argomenta la suprema Corte, l’alienazione anticipata del bene
oggetto dell’atto revocando discende dalla funzione liquidatoria della cessione dell’azione (ecco qui emergere uno dei segmenti, in cui ho scomposto la
mia relazione): quel che il fallimento trasferisce anticipatamente all’assuntore, cioè, non è il diritto che allo stesso fallimento perviene dalla revoca, consistente nel poter sottoporre il bene alla liquidazione, bensı̀ il risultato stesso
dell’attività espropriativa, cosı̀ come consentita dall’inefficacia una volta
pronunciata; nel senso, ancora in altre parole, che lo stesso ufficio fallimentare, che dovrebbe alienare forzatamente il bene dopo dichiarata l’inefficacia dell’atto, lo trasferisce pur sempre coattivamente – lo liquida, cioè – e
però anticipatamente all’assuntore, sia pure sotto condizione della revoca
dell’atto impugnato.
(9) Cfr. Cassazione, 22 novembre 1979, n. 6073, in Giur. comm., 1981, II, 921; Cassazione, 24 novembre 1981, n. 6229, in Dir. Fall., 1982, II, 291; Cassazione, 24 novembre
1981, n. 6230, in Giur. Comm., 1982, II, 269; e più recentemente Cassazione, 28 aprile
2003, n. 6587, in Guida al Diritto, 2003, 26, 56, e in Foro it., 2003, I, 3027 segg. In dottrina,
il relativo insegnamento risale a G. Auletta, Revocatoria civile e fallimentare, Milano, 1939,
pag. 185 seg.; e v. poi per tutti S. Satta, Istituzioni di diritto fallimentare, Roma, SEFI,
1966, pag. 327; G. Terranova, L’assuntore di concordato fallimentare, Milano, Giuffrè,
1976, pagg. 9 seg., 20.
(10) Cfr. per tutti G. Terranova, Effetti del fallimento sugli atti pregiudizievoli ai creditori, I, in Comm. Scialoja-Branca legge fallim., Art. 64-71, Bologna-Roma, 1993, pagg. 77
seg., 199, 212 seg.; ed in giurisprudenza, fra le altre, Cassazione, 31 agosto 2005, n.
17590, in Fallimento, 2006, 4, 473.
Parte I - Dottrina
57
Un’anticipazione, in definitiva, del momento esecutivo/liquidatorio rispetto a quello recuperatorio, usualmente funzionale al primo.
Come ha chiarito, anche abbastanza di recente, la Suprema Corte (11),
in altri termini, «accanto al patto di cessione dell’azione, esiste necessariamente un patto, assorbente e parallelo, che riguarda la cessione dei beni oggetto dell’atto di cui viene chiesta la dichiarazione d’inefficacia» (anche se la
ricostruzione appare piuttosto ridondante, come subito dirò).
L’applicazione di siffatto orientamento al nuovo disposto dell’art. 106,
comma 1º, legge fallim., secondo cui «Il curatore può cedere [...] le azioni
revocatorie concorsuali, se i relativi giudizi sono già pendenti», consente allora di affermare che anche l’atto di «cessione delle revocatorie», o la clausola di pari oggetto apposta all’atto traslativo aggregato, implichi, analogamente, la cessione anticipata all’acquirente, atomistico o in blocco, del diritto – condizionato all’accoglimento dell’azione – sul bene oggetto dell’atto
revocando, nel senso della alienazione coattiva fin d’ora al cessionario del
bene in questione, sotto la condizione che la revoca lo restituisca ex tunc
(a partire dalla data della domanda giudiziale) alla disponibilità da parte
della procedura.
Con il che la cessione dell’azione, anziché denotare un separato e parallelo patto di cessione anticipata e condizionata del bene (come ipotizza, con
qualche ridondanza concettuale, la Cassazione), a ben vedere – secondo
l’impostazione qui preferita – si risolve in esso (12).
(11) Cfr. Cassazione, n. 6587/2003, cit. Annotando tale decisione, parla di una forma di
«realizzazione anticipata dell’attivo» M. Fabiani, La cessione delle azioni revocatorie nel fallimento, in Foro it., 2003, I, 3027 seg.
(12) Non può considerarsi, si noti, come un precedente in contrasto con l’orientamento
richiamato, la decisione della Cassazione, 11 settembre 1997, n. 8962, in Fallimento, 1998,
pag. 787, allorché la Corte precisa – come anche qui, del resto, si è rimarcato – che «l’accoglimento dell’azione revocatoria non determina alcun effetto restitutorio, in favore del disponente, né, tanto meno, alcun effetto traslativo in favore dei creditori. Esso comporta, infatti,
solo la parziale inefficacia dell’atto rispetto al creditore che agisce in giudizio, rendendo il bene trasferito assoggettabile alla sua azione esecutiva, senza peraltro caducare, ad ogni altro
effetto, l’acquisto dell’acquirente». Serve infatti rilevare – in ossequio all’elementare regola,
che prescrive l’esame integrale delle sentenze, tenendo conto anche delle peculiarità della fattispecie concreta – che si trattava colà di un assuntore di concordato fallimentare che, resosi
cessionario (non già delle revocatorie bensı̀) delle «attività fallimentari», pretendeva di ottenere la iscrizione in suo favore nel libro soci, relativamente alla quota oggetto di trasferimento
revocato due anni prima dell’apertura del concordato. L’assuntore, in tal senso, pretendeva
che fra le «attività fallimentari» cedutegli (senza che gli fossero state cedute, invece, le azioni
revocatorie da esperire) dovesse intendersi inclusa la quota oggetto dell’atto traslativo revocato. E la Suprema Corte negava allora correttamente tale pretesa, atteso che la Curatela non
aveva ovviamente conseguito, per effetto della revoca già in precedenza pronunciata, la titolarità della quota, bensı̀ il solo diritto di liquidarla: sicché solo tale diritto, non anche il bene
trasferito, poteva intendersi incluso nella successiva (a revocatoria pronunziata, cioè) cessione
58
Il diritto fallimentare e delle società commerciali
Sulla validità di tale ricostruzione possono aggiungersi due ulteriori ordini di rilievi.
Il primo è che, stante la possibile deformalizzazione dell’attività liquidatoria, con possibilità di prescindere in toto dalle forme dell’esecuzione forzata ordinaria, salvo opzione espressa per la loro applicazione, ai sensi del
nuovo art. 107 legge fallim., non sembra sussistere più l’ostacolo che altri in
passato opponeva alla suddetta giurisprudenza di legittimità, consistente in
ciò che, restando il bene di proprietà del terzo revocato, il fallimento non
avrebbe potuto liquidare anticipatamente il bene, attribuendolo al terzo acquirente/assuntore, poiché non avrebbe avuto il potere di disporre del bene
altrui se non osservando le regole dell’art. 602 segg. cod. proc. civ. (in tema
di espropriazione contro il terzo proprietario), in guisa da consentire un
coinvolgimento anche del terzo revocato (13).
Senza dire che un tale ostacolo forse non era insuperabile neppure nello
stesso ambito concordatario pre-riforma, per il quale veniva addotto, una
volta che nella previsione normativa della cedibilità delle azioni, già conte-
delle «attività fallimentari», e perciò pervenuto all’assuntore loro cessionario. Diversa avrebbe
potuto essere la soluzione, invece, nel caso in cui (non meramente le «attività» fallimentari,
ma) le azioni revocatorie proponibili fossero state espressamente cedute all’assuntore, ed il
trasferimento della quota in questione avesse formato oggetto di una delle azioni revocatorie
cedute: solo in tale ipotesi, infatti, la cessione della stessa quota sociale, oggetto del revocando
trasferimento, avrebbe potuto intendersi – nella richiamata chiave di anticipazione del momento liquidatorio rispetto a quello recuperatorio – quale risultato della cessione dell’azione
revocatoria relativa.
(13) Cfr. V. Di Cataldo, La cessione delle revocatorie nel concordato fallimentare: diritti
dell’assuntore e diritti del revocato, in Giur. comm., 1981, II, pag. 929 seg. Aderisce recentemente alla predetta opinione anche Sandulli, op. cit., pag. 636 seg., secondo cui «con la
cessione dell’azione revocatoria il curatore non trasferisce anticipatamente al terzo la proprietà del bene, ma solo il diritto di procedere esecutivamente sul bene ed incamerare il ricavato
della vendita» (pag. 637), altrimenti ne deriverebbe una disparità di trattamento, perché «il
convenuto verrebbe privato del diritto di acquistare in sede esecutiva il bene revocato nonché
del diritto di evitare la revoca pagando all’attore (curatela o cessionario dell’azione) il valore
del bene» (ivi, pag. 636). Un rilievo, quest’ultimo, cui può forse rispondersi che il convenuto
può comunque partecipare alla «procedura competitiva», comunque da ritenersi necessaria
per la cessione della revocatoria relativa al bene che il convenuto abbia acquisito. Da ultimo,
(parzialmente) nello stesso senso si esprime F. Fuerrera, Aspetti problematici della nuova
disciplina del concordato fallimentare, in Fallimento, 2008, pag. 1088 seg., per il quale il significato proprio della cessione delle azioni revocatorie sarebbe quello di attribuire al cessionario
‘‘il «diritto al valore del bene», [...] cioè, in definitiva, un credito («di valore») verso il terzo
revocato’’; ma con la precisazione che tale ‘‘credito di valore’’ potrebbe farsi valere nei confronti del terzo soccombente non soltanto attraverso l’esperimento della procedura esecutiva
diretta al recupero del bene in natura (sempre che lo stesso sussista nel patrimonio del terzo),
bensı̀ anche in quanto tale, cioè come ‘‘credito commisurato al valore del bene da recuperare
alla massa e, specularmente, un «debito di valore» del terzo’’ (ivi, pag. 1089).
Parte I - Dottrina
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nuta nel vecchio art. 124 legge fallim.., si fosse letta l’espressa autorizzazione legislativa al correlativo effetto liquidatorio anticipato.
Il secondo rilievo consiste in ciò, che il vedere nella cessione delle revocatorie – onde identificarne l’autentico nucleo traslativo – un’anticipata
espropriazione, l’alienazione forzata, cioè, dello stesso bene oggetto dell’atto
revocato, ancora prima della sua riacquisizione alla disponibilità dei commissari liquidatori, sia pure condizionatamente all’esito vittorioso della revoca, ben corrisponde all’inquadramento in termini di trasferimenti coattivi
delle vendite concorsuali, pure nel caso in cui le stesse si attuino, come ora
consentito dal nuovo art. 107, con modalità formalmente privatistiche.
Un inquadramento, questo delle cessioni concorsuali anche sotto la disciplina riformata, malgrado la loro (ora) ammessa «formale» negozialità, da tenere fermo alla stregua delle considerazioni, che ho già avuto modo di svolgere in altre sedi (14), e che sembrano trovare concorde la prevalenza degli
interpreti, tenuto conto dei caratteri di fondo delle vendite concorsuali: del
realizzarsi, cioè, senza la volontà del titolare del diritto; in virtù dell’intervento
di una potestà pubblica; e per fini di tutela sorretti da interesse generale.
7. Vero è che la revocatoria di atto traslativo di cosa determinata ed ancora esistente nel patrimonio del terzo, il cui esito positivo importi un diritto di riconsegna del bene alla procedura, onde farne oggetto dell’esecuzione
concorsuale, è solo una, e tutto sommato la più semplice delle ipotesi possibili.
Ed è solo ad essa, ovviamente, che si attaglia l’impostazione anzidetta,
per cui il «risultato utile» di cui la «cessione dell’azione» programma, in effetti, il trasferimento (condizionato e coattivo) al cessionario, è la stessa titolarità del bene; ciò che peraltro, in caso di mancata riconsegna da parte
del terzo revocato, giustificherà l’attivazione diretta da parte del cessionario
medesimo dei rimedi del caso, agendo ormai uti dominus della cosa.
Altre ipotesi sono invero configurabili, pur sempre nell’ambito di azioni
che mettano capo ad un «risultato» patrimoniale suscettibile di attribuzione
al cessionario (e perciò escludendo quelle in cui frutto della revocatoria sia,
ad esempio, la mera esclusione dal concorso di un credito, o di una garanzia
acquistati dal terzo in pregiudizio ai creditori): quali, per un verso, i casi in
cui il bene oggetto dell’atto revocato sia perito o sia stato ulteriormente alie-
(14) La conclusione, già da me sostenuta, con richiamo dei precedenti dottrinali sul punto, in Le cessioni in blocco nella liquidazione coatta bancaria, Torino, 2005, pag. 253 seg., e
successivamente in Il programma di liquidazione, in Dir. fall., 2006, pag. 1099 seg., è ora riproposta (pressoché con gli stessi argomenti, ma svalutando gli indizi tratti dagli artt. 107,
comma 4, e 108, comma 1, legge fallim.) da A. Castagnola, La natura delle vendite fallimentari dopo la riforma delle procedure concorsuali, in Giur. comm., 2008, I, pag. 372 seg.
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Il diritto fallimentare e delle società commerciali
nato, e non si trovi dunque più nel patrimonio del terzo soccombente in
revocatoria; e, per altro verso, le revocatorie di pagamenti pecuniari, o di
atti traslativi di cose generiche.
Tutte ipotesi, queste, in cui «risultato» dell’azione vittoriosa è il sorgere
di un vero e proprio credito della massa nei confronti del convenuto, alla
corresponsione del valore sottratto alla garanzia comune dei creditori (15).
Sicché, negli stessi casi, la «cessione» delle relative azioni revocatorie si
«risolverà» – alla stregua della trasposizione e, insieme, riduzione concettuale di cui si è detto – nella cessione all’acquirente della posizione giuridica
rispettivamente costituita, a seconda che l’azione revocatoria sia o no iniziata: dal diritto di credito; o dall’aspettativa in ordine al credito futuro in questione; posizione in entrambi i casi condizionata all’esito positivo dell’azione, per cosı̀ dire, «ceduta» (16).
8. «La cessione unitaria di rapporti giuridici», è stato osservato, «non ha
più carattere eccezionale e sembra anzi costituire il criterio prioritario della
liquidazione, pur nei casi in cui non sia possibile la cessione dell’intera
azienda» (17).
Com’è noto, nella vigenza della disciplina anteriore alla riforma 2006/7, era
esclusivamente prevista in termini espressi la possibilità di una vendita «in
massa» delle «attività mobiliari»; e ciò in seno all’alternativa, in entrambi i casi
con rinvio alle forme dell’esecuzione forzata previste dal cod. proc. civ., fra:
vendita di beni mobili (art. 106 legge fallim., testo previgente); vendita di beni
immobili (art. 108 legge fallim., testo previgente). Nessun cenno vi era, nella
previgente disciplina, all’azienda o ad altri complessi di beni, né in genere alla
possibilità di cessioni in blocco, previste invece con questa nomenclatura – «in
blocco», appunto – anzitutto dal Testo unico bancario, artt. 58 e 90.
Adesso, v’è invece negli artt. 105 segg. una espressa disciplina della liquidazione dell’azienda e di altri complessi o blocchi di situazioni giuridiche; nonché delle azioni che mettono capo ad un risultato patrimoniale
in favore della massa.
E non v’è dubbio che anche per la cessione di queste ultime – la cosiddetta cessione delle azioni, cioè, nel senso prima specificato – valga l’alternativa, ormai configurata in termini generali dall’art. 105, fra alienazione
(15) Cfr. G. Terranova, Effetti del fallimento sugli atti pregiudizievoli ai creditori, cit.,
pag. 213.
(16) Analogamente cfr. D. Vattermoli, Le cessioni «aggregate» nella liquidazione coatta
amministrativa delle banche, Milano, Giuffrè, 2001, pagg. 198, 201.
(17) Cfr. P. Liccardo-G. Federico, in Il nuovo diritto fallimentare, diretto da A. Jorio
e coordinato da M. Fabiani, II, sub art. 106, pag. 1773.
Parte I - Dottrina
61
atomistica e cessione in blocco, nonché la priorità legislativamente assegnata a quest’ultima.
Ma qual è il significato del connotarsi in blocco? E quale il senso della
preferenza per simili modalità di liquidazione?
Orbene, attingendo a riflessioni svolte a margine della prima organica disciplina delle alienazioni di situazioni giuridiche considerate in blocco, quella
contenuta nel T.U.B. cioè (18), serve ricordare che profilo distintivo comune
alle cessioni cosiddette aggregate o in blocco è un peculiare contenuto o oggetto dell’operazione negoziale, costituito dal disporre il subentro dell’acquirente in un complesso di rapporti e situazioni giuridiche, attive o passive, suscettibili di considerazione unitaria e sintetica, piuttosto che in singole posizioni
giuridiche, e sia pure in una mera somma, o in una serie conchiusa, o in una
pluralità atomistica di situazioni attive e passive, già intestate all’alienante.
Il complesso o blocco, cosı̀ come individuato sulla base del significato
obiettivo del negozio di cessione, esplica un ruolo per cosı̀ dire determinativo delle singole situazioni giuridiche coinvolte nella vicenda traslativa: nel
senso, cioè, che risulteranno oggetto di subentro da parte dell’acquirente
tutte quelle situazioni attive o passive delle quali (fossero o no già note alle
parti al tempo della cessione, e fossero state o no menzionate dall’atto, al
fine di espressamente includerle nel divisato trasferimento) sia stata anche
successivamente accertata la pertinenza al complesso ceduto.
È, in altri termini, la preidentificazione del complesso, e la obiettiva riconducibilità ed appartenenza al medesimo, a consentire ex post la determinazione analitica di ciò che viene effettivamente ceduto, vale a dire, delle
singole attività trasferite al cessionario, e delle specifiche passività da quest’ultimo assunte.
Di modo che tutti gli elementi che si dimostrino in tal senso «costitutivi»,
proprio in ragione della verificata riferibilità al complesso o blocco, risulteranno automaticamente attratti alle vicende giuridiche riguardanti il complesso o blocco medesimo, e perciò coinvolti nel contenuto della vicenda successoria aggregata, a prescindere da ogni preventiva ed esplicita inclusione, e salvo semmai specifica esclusione dalla sfera d’effetto della cessione.
Da questo punto di vista, può anche osservarsi allora come i singoli rapporti e le singole situazioni giuridiche non vengano qui in considerazione, se
non precisamente in quanto facenti parte del complesso assunto ad oggetto
di trasferimento, nella misura in cui si lascino ricondurre all’indice sintetico
o criterio di unificazione proprio della fattispecie di complesso o blocco di
volta in volta in gioco; e ciò a meno di non formare oggetto di una consi-
(18) Sia permesso il rinvio a M. Perrino, Le cessioni in blocco nella liquidazione coatta
bancaria, Torino, 2005, pag. 88 seg.
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Il diritto fallimentare e delle società commerciali
derazione specifica, in virtù di apposita identificazione e deduzione in clausole individuali – ai più diversi fini, e per lo più poi a finalità eccettuative –
del negozio traslativo.
Ed è proprio tale capacità del complesso o blocco di fungere da termine
di individuazione dei singoli elementi che lo compongono, a far giudicare
comunque soddisfatta l’essenziale istanza normativa, se non di determinatezza, quantomeno di determinabilità dell’oggetto del contratto di cessione (19), in quanto il criterio dell’appartenenza o riconducibilità al blocco,
tal quale individuato (per lo più sommariamente, ed in prospettiva solo
d’insieme) sulla base dell’atto, consenta ugualmente di pervenire, sia pure
in tempo successivo, ad una precisazione analitica delle situazioni giuridiche
finali oggetto di effettivo subentro da parte dell’acquirente, ancorché in ipotesi nient’affatto singolarmente indicate – nei loro esatti contorni – in seno
al testo negoziale (20).
9. Perché simili cessioni sono, ai sensi del nuovo art. 105, da preferire?
Il fatto è che alla rinnovata concezione della liquidazione concorsuale
sottesa alla riforma – una concezione, cioè, come attività gestionale di salvaguardia dei valori di impresa – si connette il riconoscimento di una sua funzione non più soltanto disgregativa e dispersiva dei valori dei beni in collegamento, in vista della celere monetizzazione degli stessi beni; bensı̀ anche,
ed anzi soprattutto conservativa e riallocativa dei valori di impresa coinvolti,
nel senso della loro salvaguardia in vista di una possibile ricollocazione pur
sempre imprenditoriale.
Di qui non solo l’ampliamento e la riconfigurazione del ventaglio delle
tecniche liquidatorie, all’insegna della semplificazione formale e procedimentale e della privatizzazione e negozialità (almeno delle forme), con tendenziale affrancamento dalle rigide forme dell’esecuzione individuale regolate dal cod. proc. civ.; ma anche la preferenza – in ossequio alla richiamata
idea conservativa e riallocativa della liquidazione – per le tecniche di cessione aggregata o in blocco (21), viste quale strumento per la conservazione (anziché dispersione) dei valori insiti nell’impresa, o in altre parole «strumenti
(19) Cfr. sul punto S. Fortunato, in Commentario al testo unico delle leggi in materia
bancaria e creditizia, I, 2a ed., a cura di F. Capriglione, sub art. 90, Padova, Cedam, 2001,
pagg. 705, 708.
(20) Esempi di individuazione sintetica o in blocco in materia potrebbero essere: tutte le
azioni revocatorie; o tutte le revocatorie di rimesse bancarie; o di pagamenti anormali; o tutte
le revocatorie ex art. 67 comma 1º, o comma 2º, legge fallim.; etc.
(21) Di esigenza di privilegiare la scelta di strumenti di liquidazione «funzionali alla conservazione e valorizzazione degli assets produttivi funzionanti (o funzionali ad altro imprenditore) per una più proficua vendita» parla F. Fimmanò, in Il nuovo diritto fallimentare, diretto
da A. Jorio e coordinato da M. Fabiani, II, sub art. 104, pag. 1578.
Parte I - Dottrina
63
di conservazione dinamica del complesso organizzato di beni e persone» (22), in vista di una maggior tutela degli interessi generali coinvolti e
specificamente della miglior tutela dei creditori, attraverso la valorizzazione
degli organismi produttivi e dei patrimoni.
Dispone infatti, ora, l’art. 105, che «la liquidazione dei singoli beni ai
sensi degli articoli seguenti del presente capo è disposta quando risulta prevedibile che la vendita dell’intero complesso aziendale, di suoi rami, di beni
o rapporti giuridici individuabili in blocco non consenta una maggiore soddisfazione dei creditori».
In tal senso, l’art. 105 assegna a simili tecniche di alienazione in blocco
ora espressamente contemplate, su un modello e con un linguaggio che risale al TUB, priorità rispetto alle liquidazioni atomistiche (queste ultime
praticabili, infatti, solo ove le prime non consentano una maggiore soddisfazione dei creditori): una priorità che risponde peraltro all’esigenza, come
detto attestatasi nella riforma, di conservazione anche nel quadro della procedura di insolvenza – anziché dispersione, come in passato – dei valori insiti nell’impresa, quella conservazione che le tecniche di cessione aggregata
consentono appunto elettivamente di realizzare (23).
10. Ho già ricordato come la cessione concorsuale dei diritti controversi
venga letta in prevalenza in chiave di anticipata attribuzione al cessionario
del risultato utile dell’azione, nel senso perciò di un’anticipazione del momento liquidatorio rispetto a quello recuperatorio.
In mancanza della cessione, almeno in tutti i casi in cui il bene considerato costituisca il cosiddetto «risultato utile» di un’azione da esperire, la
procedura dovrebbe: dapprima acquisire il bene o risultato utile frutto dell’esercizio dell’azione che le compete; quindi liquidarlo, al pari e con le stesse modalità degli altri beni che compongono l’attivo oggetto di liquidazione. Con la cessione, invece, la procedura cede anticipatamente all’acquirente lo stesso bene o risultato utile, lo liquida cioè, anticipatamente, sotto condizione del vittorioso esperimento dell’azione.
(22) Cfr. Fimmanò, op. cit., 1582.
(23) Ed è proprio al fine di favorire la più proficua vendita dell’azienda o di parte di essa,
conservandone i valori anche di avviamento per il tempo necessario alla effettiva alienazione,
che l’art. 104-bis prevede che, su proposta del curatore e previo parere favorevole del comitato dei creditori, il giudice delegato possa autorizzare l’affitto dell’azienda del fallito a terzi,
anche limitatamente a specifici rami, ancor prima della presentazione del programma di liquidazione: consacrando cosı̀ una prassi – questa, appunto, dell’affitto di azienda fallita – già
diffusa sotto la previgente disciplina, malgrado i rischi che la stessa comporta di compromettere o comunque condizionare la futura alienazione, stante il ragguardevole vantaggio competitivo cosı̀ attribuito all’affittuario, anche e soprattutto in relazione del diritto di prelazione
riconosciutogli ex art. 3, comma 4, l. 23 luglio 1991, n. 223.
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Il diritto fallimentare e delle società commerciali
In questo senso, si tratta di una modalità liquidatoria particolarmente
vantaggiosa, perché muove in direzione della semplificazione e accelerazione della liquidazione concorsuale.
Lo chiarisce la Relazione illustrativa della riformata disciplina: «Questa
soluzione, cosı̀ come quella della possibilità di cedere le azioni revocatorie, è
stata dettata dall’esigenza di evitare ritardi nelle chiusure delle procedure
concorsuali che, secondo il sistema previgente, sono spesso dovuti proprio
ai lunghi tempi connessi alla definizione, con sentenza passata in giudicato,
dei contenziosi fiscali e ordinari».
11. Della forma, della pubblicità, delle tecniche di circolazione delle
azioni di pertinenza della procedura concorsuale v’è ora un embrione di disciplina previsto nello stesso art. 106 legge fallim., più volte richiamato.
Infatti, nel consentire la cessione delle «azioni revocatorie concorsuali»
solo «se i relativi giudizi sono già pendenti», l’art. 106 riproduce ora nel fallimento la soluzione già prevista dal previgente art. 124 per l’ipotesi – l’unica espressamente prevista, prima della riforma – della possibile cessione
delle revocatorie al terzo assuntore del concordato fallimentare, che il vecchio art. 124 comma 2 consentiva «limitatamente alle azioni già proposte».
Un limite oggi ridimensionato nella stessa ipotesi concordataria dal novellato art. 124, che permette la cessione al terzo delle azioni di pertinenza della massa «purché autorizzate dal giudice delegato, con specifica indicazione
dell’oggetto e del fondamento della pretesa».
Converrà ricordare, al riguardo, che la ratio della limitazione prima prevista per la cessione concordataria delle azioni, ed oggi solo per la cessione
fallimentare delle stesse (la pendenza, cioè, del giudizio, in quanto l’azione
sia stata già non solo autorizzata, ma anche proposta dal curatore) – limitazione che, sia detto per inciso, non varrebbe ad impedire la cessione delle
azioni «per cui sia stata disposta la cancellazione, l’interruzione o la sospensione, in quanto devono ritenersi comunque pendenti» (24) – veniva in passato rinvenuta in varie giustificazioni, la principale delle quali atteneva al
dato della legittimazione esclusiva del curatore. Un dato, quest’ultimo, ritenuto tale da rendere improponibile una «cessione» (del risultato utile, nel
senso chiarito) «di azioni» future, il cui susseguente ed effettivo inizio sarebbe stato precluso dal venir meno dell’ufficio fallimentare, l’unico a ciò
attivamente legittimato, stante che il concordato fallimentare (con assuntore), è causa di chiusura del fallimento; ciò cui si aggiungeva l’istanza generale di determinatezza dell’oggetto della clausola.
La principale giustificazione del limite sembra oggi, per quanto perfino
(24) Cfr. Liccardo-Federico, op. cit., pag. 1776.
Parte I - Dottrina
65
espressamente dichiarato dal legislatore storico (25), quella, diversa, di scongiurare condotte speculative del cessionario, in ipotesi tipicamente interessato
ad una incontrollata moltiplicazione di ogni iniziativa giudiziale, idonea, per il
fatto di metter capo ad un risultato utile per l’attore, ad incrementare il ricavo
netto dell’acquisto delle azioni e delle sottostanti situazioni giuridiche.
Simile a quest’ultima è, del resto, anche la giustificazione che sembra
sorreggere oggi il limite posto dal nuovo art. 124, comma 4º, legge fallim.,
nel prevedere che «La proposta presentata da uno o più creditori o da un terzo può prevedere la cessione, oltre che dei beni compresi nell’attivo fallimentare, anche delle azioni di pertinenza della massa, purché autorizzate dal giudice delegato, con specifica indicazione dell’oggetto e del fondamento della
pretesa»: dove si tratta appunto di scongiurare, grazie al richiesto vaglio preventivo del Giudice delegato, una moltiplicazione meramente speculativa
ed azzardata di azioni, come sarebbe, invece, ove l’iniziativa fosse lasciata
all’arbitrio del cessionario, interessato a moltiplicare il proprio vantaggio.
E analoga è pure, del resto, la giustificazione ora espressamente indicata
dalla Relazione illustrativa con riferimento al limite della pendenza posto
dall’art. 106, nel precisare che «le revocatorie possono essere cedute limitatamente a quelle già pendenti, al fine di evitare che, in una materia cosı̀ delicata,
l’esercizio delle azioni – comunque non cedibili ai prossimi congiunti del debitore insolvente e dei soggetti cui è stata estesa la procedura o alle società del
gruppo di cui fa parte la società insolvente – possa assumere una connotazione
negativa di tipo speculativo».
Si è da qualcuno opportunamente aggiunto che, oltre alla «opportunità di
assicurare un certo controllo su iniziative potenzialmente ricattatorie e temerarie dell’acquirente», non può neppure trascurarsi la «necessità di valutare concretamente opportunità e convenienza della cessione e congruità del corrispettivo, valutazioni compiutamente esperibili solo a seguito dell’esercizio del’azione e della conseguente estrinsecazione dei suoi elementi essenziali» (26).
La giustificazione, in termini cosı̀ generali, non sembra però convincente, e induce ad una necessaria precisazione.
Cosı̀ ragionando, infatti, se l’esigenza sottesa al limite legislativo della
pendenza fosse davvero quella per cui solo azioni già pendenti possono formare oggetto di compiuta valutazione economica e perciò di un mercato
della loro circolazione, se cosı̀ fosse, dicevo, il limite dovrebbe riguardare
tutte le azioni indistintamente. Con la conseguenza paradossale, che il curatore non potrebbe cedere nessuna azione, rectius, nessun diritto controverso, se non dopo avere instaurato il relativo processo; il che si risolvereb-
(25) Cfr. Relazione illustrativa, infra nel testo.
(26) Cfr. Liccardo-Federico, op. cit., pag. 1777.
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Il diritto fallimentare e delle società commerciali
be in un incongruo aggravio per la procedura, che si vorrebbe invece affrancare da oneri e lungaggini dei giudizi.
Sembra allora evidente che il limite della pendenza del giudizio attiene
solo alle azioni – revocatorie o anche di diversa natura – propriamente concorsuali, come non a caso, allora, si specifica nell’art. 106 (ne avevo già detto in precedenza): quelle azioni, cioè, qualificabili come concorsuali perché
oggetto di una peculiare disciplina da parte della legge fallimentare, a partire dalla legittimazione esclusiva del Curatore e dalla competenza funzionale del Tribunale fallimentare; le azioni di specifico conio concorsuale, in altri termini, come le azioni revocatorie fallimentari o la revocatoria ordinaria
modificata ex art. 66 legge fallim., o le azioni di responsabilità ex art. 146
legge fallim., che la Suprema Corte, appunto, individua come azione di «peculiare conio concorsuale».
In questo senso, la giustificazione surricordata del limite della pendenza, quella cioè di scongiurare condotte speculative ed azzardate dell’acquirente, va saldata con la più tradizionale giustificazione che fa leva sulla peculiarità concorsuale dell’azione (in primis, la legittimazione esclusiva del
curatore). Nel senso che è rispetto ad azioni cosı̀ connotate, concorsuali
cioè, notoriamente caratterizzate da peculiare incisività e regolate in modo
diverso dai rimedi extraconcorsuali (in questo senso, dunque, va inteso il
riferimento della Relazione ad una «materia cosı̀ delicata»), che va scongiurato il rischio di un esercizio avventato, moltiplicatorio e speculativo, da
parte dell’acquirente, che voglia avvantaggiarsi della singolare incisività di
rimedi che, in difetto di una cessione espressa, gli sarebbero altrimenti preclusi, poiché appannaggio esclusivo della procedura concorsuale. Ed è solo
rispetto alle azioni come sopra connotate, concorsuali cioè, che ha senso
parlare anche di un limite alla cedibilità in favore del fallito, dei suoi congiunti o di società collegate alla società fallita.
A quest’ultimo riguardo, serve un’ulteriore precisazione. A dire il vero, il
limite della non cedibilità ai congiunti ed alle società del gruppo del quale fa
parte la società insolvente, limite di cui fa parola la Relazione anche con riferimento alla cessione fallimentare delle revocatorie concorsuali, non è contenuto
nell’art. 106. Esso può però forse ricavarsi per analogia dall’art. 124 legge fallim., anche se neppure qui la regola è espressa in forma diretta: la si desume
piuttosto dal collegamento fra il comma 4, là dove ammette che (solo) nella proposta presentata da un terzo possa essere prevista la cessione delle azioni di pertinenza della massa, ed il comma 1, dove si chiarisce che non sono terzi (al fine
della presentabilità della proposta prima di 1 anno dal fallimento) né il fallito, né
società cui egli partecipi, né società sottoposte a comune controllo (27).
(27) Cfr. in tal senso ancora Sandulli, op. cit., pag. 635.
Parte I - Dottrina
67
12. Per il resto, non v’è una disciplina ad hoc quanto a forme, pubblicità, tecniche di circolazione, relativamente alla fattispecie di cessione dei
diritti controversi.
D’altra parte, se è vero, per quanto prima osservato, che la formula della
«cessione delle azioni» si risolve nella alienazione e anticipata liquidazione,
condizionatamente all’esito positivo della controversia, delle situazioni giuridiche, attuali o solo potenziali e attese, che variamente configurano – in
modi diversi, a seconda che si tratti di azioni di accertamento, costitutive
o di condanna – il cosiddetto risultato utile dell’azione, se è vero tutto
ciò, la disciplina di forma, pubblicità e tecniche circolatorie non può che
essere quella delle situazioni giuridiche sottostanti, cosı̀ come delineata dagli artt. 105 segg. legge fallim.
Vediamo brevemente i tratti di questa generale disciplina, adattandoli
alla peculiarità dell’oggetto in esame.
Com’è noto, novità saliente della riforma è la liberazione dall’onere di
seguire forme di alienazione rigide e vincolanti per la generalità dei beni
dell’attivo e, in particolare, le troppo macchinose forme a suo tempo imposte dalla disciplina e, in assenza di questa, dalla Suprema Corte, ad esempio
per la vendita dell’azienda (28) e per le cessioni in blocco, foss’anche solo
mobiliari (cfr. gli artt. 106 seg., testo previgente). Oggi, la garanzia per fallito e creditori sta piuttosto nella pubblicità e trasparenza (29) e nel carattere
competitivo della procedura osservata (cfr. il nuovo art. 107), anziché nell’ossequio di particolari vincoli formali e procedurali.
Non v’è, d’altra parte, una disciplina ad hoc di forma, pubblicità e tecniche circolatorie dei diritti controversi, ulteriore a quella dettata dall’art.
107, che contiene – cosı̀ la rubrica dell’articolo – la disciplina base delle
«Modalità delle vendite».
Ora, fra i profili principale di tale disciplina di base (cui dunque si tratta
di fare pur sempre, anche rispetto al peculiare oggetto in discorso, riferimento), v’è anzitutto quello del necessario collegamento con il programma
di liquidazione, ex art. 104 ter legge fallim., nel senso che si tratta di atti di
liquidazione «posti in essere in esecuzione del programma di liquidazione», in
conformità cioè al programma approvato dal comitato dei creditori.
Viene poi in rilievo l’alternativa fra l’opzione, sempre possibile, per le
forme dell’esecuzione forzata secondo il cod. proc. civ., opzione che però
(28) Cfr. G. Terranova, La liquidazione fallimentare: prassi, giurisprudenza e dottrina,
in Riv. dir. fall., 2003, I, pag. 1665; e L. Panzani, Fallimento e tecniche di liquidazione dell’attivo, in Dir. fall., 2003, I, 1651 seg.
(29) Che tali fossero le garanzie per il fallito e i creditori, non il «fatto che venga rispettata la forma dell’incanto o della vendita senza incanto», segnalava già, sotto la disciplina previgente, Panzani, op. cit., pag. 1655.
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Il diritto fallimentare e delle società commerciali
dovrà essere stata prevista già nel programma («Il curatore può prevedere
nel programma di liquidazione che le vendite dei beni mobili, immobili e
mobili registrati vengano effettuate dal giudice delegato secondo le disposizioni del codice di procedura civile in quanto compatibili»: cosı̀ il comma
2º dell’art. 107, legge fallim., introdotto dal decreto correttivo, n. 169/
2007); o invece il ricorso a procedure competitive deformalizzate, secondo
schemi privatistici/negoziali.
Procedure, queste ultime, individuate dalla disciplina in discorso con i
seguenti caratteri distintivi: si tratta di «procedure competitive»; da attuare
«assicurando, con adeguate forme di pubblicità, la massima informazione e
partecipazione degli interessati»; procedure che il curatore può effettuare
«anche avvalendosi di soggetti specializzati»; e che deve realizzare «sulla base di stime effettuate, salvo il caso di beni di modesto valore, da parte di
operatori esperti».
Il carattere «competitivo» è il connotato saliente, rispetto a cui funge da
strumento la prevista necessità di assicurare, «con adeguate forme di pubblicità, la massima informazione e partecipazione degli interessati», in vista
dell’obbiettivo della massima competitività della procedura di liquidazione.
Dunque, qualunque modalità è possibile, purché «competitiva». Ma
quali sono, a tal fine, le caratteristiche «minime» della procedura? (30)
Si tratta, è stato osservato, di «garantire adeguate forme di pubblicità
delle modalità e condizioni di vendita ed assicurare la competizione sia nella
formulazione delle offerte iniziali che nella possibile successiva gara» (31).
Perciò sı̀ a procedure all’asta, o anche senza incanto ed a trattativa privata (32), purché sia sempre garantita la possibilità di competizione; no invece
a «procedure che prevedano offerte a buste chiuse e si concludano senza
un’ulteriore gara, ovvero che, in caso di inadempimento dell’originario aggiudicatario, non consentano il subingresso del secondo miglior offerente» (33). Dubbia sembra da ritenere la cosiddetta «licitazione privata», la gara cioè fra offerenti preselezionati, almeno allorquando la selezione a monte
non sia stata attuata in modo «competitivo».
Con la previsione, poi, che la vendita possa attuarsi «anche avvalendosi
di soggetti specializzati», sembra si renda possibile, ad esempio, la delega a
professionisti, come del resto deve ritenersi nell’ipotesi ex art. 534 bis cod.
(30) Cfr. F. Iozzo, La liquidazione dell’attivo, in Aa.Vv., Le nuove procedure concorsuali,
a cura di S. Ambrosini, Bologna, Zanichelli, 2008, pag. 273.
(31) Cfr. loc. cit.
(32) Da non considerarsi più, dunque, viziata da nullità nel caso di beni immobili, come
riteneva invece Cassazione n. 4584/1999, cit.; Cassazione, 24 febbraio 2004, n. 3624, in Fallimento, 2005, 3, 291.
(33) F. Iozzo, loc. ult. cit.
Parte I - Dottrina
69
proc. civ. per l’espropriazione mobiliare ed ex art. 591 cod. proc. civ. per
l’espropriazione immobiliare; ipotesi che, insieme alle altre modalità previste dal codice di rito, possono – come detto – formare oggetto di opzione
nel programma liquidatorio.
L’ultimo comma rinvia ad un futuro «regolamento del Ministro della
giustizia, da adottare ai sensi dell’articolo 17, comma 3, della legge 23 agosto 1988, n. 400», nel quale saranno «stabiliti requisiti di onorabilità e professionalità dei soggetti specializzati e degli operatori esperti dei quali il curatore può avvalersi ai sensi del comma 1, nonché i mezzi di pubblicità e
trasparenza delle operazioni di vendita».
Vi sono poi disposizioni di indole semplificatoria e agevolativa, parlo
del disposto dell’art. 105, commi 6 e 7, legge fallim., mutuate da un modello
già noto al TUB (artt. 58 e 90) ed allo stesso codice civile (cfr. l’art. 2559, su
cui tornerò subito), che trovano applicazione e ragione nel connotarsi in
blocco della cessione, e perciò anche nel caso di cessione in blocco dei diritti controversi (nella misura in cui, per quanto si è detto, la formula «cessione dei diritti controversi» o «delle azioni» equivalga a cessione delle situazioni giuridiche sostanziali sottostanti, e ad attribuzione ex novo delle relative azioni o rimedi al cessionario).
Il carattere, come anticipato, semplificativo ed agevolativo di un regime
siffatto, attraverso la sostituzione di formalità unitarie e generali rispetto a
molteplici adempimenti singolari, relativi a ciascuna situazione giuridica ceduta atomisticamente considerata, è di immediata evidenza; cosı̀ come chiaro è l’attagliarsi di tali regole alla connotazione «in blocco» della cessione, la
quale prescinde, già a livello di fattispecie, da una identificazione analitica
delle singole situazioni giuridiche incluse nel complesso ceduto, e perciò
non potrebbe richiedere una simile analitica scomposizione ai fini dell’attuazione degli indici formali di opponibilità e pubblicità costitutiva normalmente richiesti in sede di cessioni atomistiche.
Infine, troveranno applicazione, oltre alla disposizione tratta dall’art.
107 comma 3, legge fallim., in relazione alla peculiare natura del bene oggetto del diritto controverso (beni immobili e altri beni iscritti nei pubblici
registri), le peculiari regole della liquidazione concorsuale, quali il potere
di sospensione del curatore, ex art. 107 comma 4 (ove pervenga offerta
irrevocabile d’acquisto migliorativa per un importo non inferiore al dieci
per cento del prezzo offerto); e come la disciplina (artt. 107, comma 4, e
108, comma 1) secondo cui, a procedura di vendita già espletata, ed entro
dieci giorni dal deposito in cancelleria della relativa documentazione da
parte del curatore, il giudice delegato, su istanza proposta entro lo stesso
termine dal fallito, dal comitato dei creditori o da altri interessati, «può
impedire il perfezionamento della vendita quando il prezzo offerto risulti
notevolmente inferiore a quello giusto tenuto conto delle condizioni di
mercato».
70
Il diritto fallimentare e delle società commerciali
13. Un ultimo interrogativo. Perché l’azione di volta in volta in considerazione possa intendersi attribuita al cessionario, occorre una clausola o una
pattuizione espressa (inserita prima nel programma di liquidazione, poi nell’atto di alienazione o, se adottate le forme del cod. proc. civ., di aggiudicazione), quale che ne sia la formulazione (e cioè, secondo l’alternativa
già evidenziata, sotto forma di cessione dell’azione, sottintendendo cosı̀ la
cessione della situazione sottostante; ovvero sotto forma di cessione del diritto controverso o del risultato utile, cosı̀ implicitamente riconoscendo la
spettanza della legittimazione all’azione in capo all’acquirente)?
Il problema, evidentemente, si pone soprattutto nel caso di cessione in
blocco di azienda, rami di azienda, beni e/o rapporti giuridici in blocco: nel
senso che in tale ipotesi, a fronte di una individuazione sintetica e aggregata
dell’oggetto dell’atto traslativo, si tratta di stabilire se la «cessione» dell’azione o del diritto controverso, pur in assenza di pattuizione espressa, possa
desumersi semplicemente dalla riconducibilità della relativa situazione giuridica al blocco ceduto.
Sembra peraltro che una pattuizione ad hoc sia imprescindibile, quando
si parli di cessione di azioni concorsuali nel senso prima illustrato.
In particolare, credo che la cessione delle azioni revocatorie non possa
che aver luogo in virtù, prima, di una clausola espressa del programma di
liquidazione e della successiva procedura competitiva; poi, di una previsione espressa dell’atto traslativo: dunque, a mezzo di clausola ad hoc anticipata nelle fasi a monte della procedura liquidativa (programma di liquidazione
e procedura competitiva a forma negoziale o secondo il cod. proc. civ.) e
quindi appositamente inclusa nell’atto di cessione, al fianco delle determinazioni traslative in blocco cui, di volta in volta, afferisce (34).
Non parrebbe sufficiente, cioè, onde affermare il subentro del cessionario anche nel diritto condizionato o nell’aspettativa (rispetto alle azioni di là
da proporsi) in ordine al «risultato» dell’azione di revoca, la mera verifica –
in assenza di clausole ad hoc sul punto – della astratta pertinenza di una tale
posizione giuridica al «blocco» ceduto, per condivisione del relativo indice
di individuazione sintetica, per quanto prima argomentato relativamente alla successione in genere nelle situazioni giuridiche attive.
Ciò non solo e non tanto per il fatto che le «attività» corrispondenti al
frutto delle revocatorie cedute, almeno quanto alle azioni neppure iniziate,
non varcherebbero la soglia delle semplici aspettative; ché anche queste ben
potrebbero annoverarsi fra le posizioni attive esistenti, ancorché a carattere
preliminare e affievolito, al tempo dell’atto di cessione.
(34) Per la stessa soluzione cfr. Vattermoli, Le cessioni «aggregate», cit., pag. 202, ma
per ragioni diverse da quelle di cui più avanti nel testo.
Parte I - Dottrina
71
Più rilevante sembra l’esigenza, se si vuole d’indole pratica più che teorica, di fugare ogni incertezza in ordine al subentro dell’acquirente in situazioni giuridiche eccessivamente indeterminate, nella misura in cui condizionate all’esercizio eventuale, oltre che al positivo esito, di azioni dal canto
loro, al momento dell’atto, ancora tutte da individuare; nonché al conseguente snodarsi delle relative vicende processuali.
Ciò cui va aggiunto il rilievo che, trattandosi di azioni concorsuali, solo
una espressa pattuizione, come tale evidenziata e anticipata in sede di programma di liquidazione e di successiva autorizzazione del Giudice delegato
degli atti ad esso conformi – ex art. 104 ter, ultimo comma, legge fallim. –
potrebbe comportare il conferimento all’acquirente della legittimazione ad
esperire rimedi, che sono appannaggio esclusivo della procedura concorsuale, e che proprio in rapporto a tale esclusiva legittimazione formano oggetto di una disciplina diversa da quella ordinaria.
LA NUOVA GOVERNANCE DELL’IMPRESA FALLITA:
IL RUOLO DEL FALLITO (*)
di
Eugenio Forgillo (**)
Premessa. – Parlare di governance nel fallimento significa, in qualche
modo, confrontarsi con l’analogo concetto che interessa le imprese in bonis:
è intuitivo che intanto può parlarsi di governance nel fallimento in quanto si
vuol richiamare, in tutto o in parte, la definizione oramai d’uso corrente nel
sistema societario. (1)
L’operazione non è però agevole, nonostante il nuovo impianto delle
procedure concorsuali offra il destro a parallelismi di tal fatta; e ciò in particolare nel momento in cui si è persa quella visione chiaramente liquidatoria della legge antevigente per perseguire interessi dichiaratamente di «rilancio dell’economia», con una visione più dinamica dell’azienda nel suo
complesso e maggiormente orientata alla salvaguardia dei valori patrimoniali complessivi. Non a caso è stato posto in rilievo come gli organi di amministrazione della procedura fallimentare debbano propendere verso una visione maggiormente manageriale della gestione delle procedure. Non è un
caso, ancora, che si sia manifestata l’opinione che il nuovo curatore immedesimi funzioni molto simili a quelle di un amministratore di società di capitali mentre i componenti del comitato dei creditori svolgano funzioni richiamanti quelle dei sindaci.
In questa prospettiva , dunque, non appare affatto ardito tentare un approccio alle tematiche generali e sistematiche teso a verificare come possa
operare un concetto tipicamente utilizzato per le società in bonis in un am-
(*) Testo scritto dell’intervento svolto nel corso dell’incontro – dibattito tenutosi in Napoli, presso l’Unione Industriali, il 14 dicembre 2006 sul tema «La nuova governance dell’impresa fallita», aggiornato dopo l’intervento del decreto correttivo D.lgs. 12 settembre 2007
n. 169.
(**) Consigliere della Corte di Appello di Napoli.
Parte I - Dottrina
73
bito più specifico ed innovativo. Si anticipa sin d’ora che tale approccio
porterà alla luce aspetti di particolare complessità.
Nel corso dell’esame, poi, in considerazione delle caratteristiche innovazioni del contesto normativo, sarà utile verificare se ed in che modo il fallito
abbia una qualche relazione con la governance del fallimento. Ed è questo il
tema che ci si accinge a trattare nella seconda parte di questo intervento,
non senza aver prima calato il concetto di governance nel sistema concorsuale.
I - Considerazioni d’ordine generale. – Per governance comunemente
s’intende «l’insieme dei principi, delle regole e delle procedure in cui si
sostanzia il sistema di direzione, organizzazione e controllo delle imprese» (1).
La terminologia anglosassone è diventata talmente in uso che esiste oramai un Codice di Autodisciplina predisposto dal Comitato per la corporate
governance delle società quotate (2), fondato su basi di adesione volontaristica ma che costituisce, anche per l’autorevolezza dei compilatori, un sicuro parametro di riferimento per chiunque voglia approssimarsi allo studio
di queste problematiche.
All’interno di un’azienda (corporate) si definisce Corporate Governance
l’insieme di processi, politiche, abitudini, leggi e istituzioni che influenzano
le modalità in cui una società è amministrata e controllata. La corporate governance include anche le relazioni tra i vari players coinvolti (gli stakeholders, chi detiene un qualunque interesse nella società) e gli obiettivi per cui
l’azienda è amministrata. I players principali sono gli azionisti (shareholders), il management e il consiglio di amministrazione.
Tuttavia, il novero dei players coinvolti in senso lato nella governance
può essere molto elevato: le parti coinvolte nella corporate governance includono istituzioni statali (come la Consob), l’amministratore delegato, il
consiglio di amministrazione, il management e gli azionisti. Altri stakeholders
sono i dipendenti, fornitori, clienti, banche e altri creditori, controllori,
l’ambiente e la società in generale (3).
(1) Com’è noto la mancanza di una codificazione di questo concetto importa che spesso
si riconducano al nucleo della governance parecchie definizioni eterogenee. Per evitare di
adottare definizioni in qualche misura ideologicamente caratterizzate si è scelto, in questa sede, di riportare la definizione che ne da la libera enciclopedia Wikipedia, disponibile in Internet. Per la ricerca l’indirizzo è: http://wikipedia.it/wiki/wiki/Speciale:Search?search=corporate+governance.
(2) Lo si può rinvenire, nella sua ultima edizione, risalente al marzo 2006, all’indirizzo: http://www.borsaitaliana.it/documenti/ufficiostampa/percorsitematici/corporategovernance/corporategovernance.htm.
(3) Wikipedia, cit.
74
Il diritto fallimentare e delle società commerciali
Quali che siano le definizioni più appropriate si può comunque condividere la considerazione che una corporate governance ben strutturata
è uno strumento per mantenere un alto livello di fiducia tra gli stakeholders: se, infatti, i soggetti coinvolti hanno consapevolezza del corretto
uso dei procedimenti, dei meccanismi interni ed esterni di funzionamento, delle capacità dei gestori negli investimenti e in altri elementi di managment, è evidente che l’impresa sarà maggiormente apprezzata sul
mercato e godrà di più ampia fiducia anche in ordine al c.d. merito creditizio.
Traducendo il concetto in modalità operativa si può sostenere che la governance di un’impresa non sta tanto nell’enunciazione più o meno precisa
di regole e principi d’ordine generale, quanto piuttosto nella predisposizione di meccanismi di funzionamento per l’applicazione pratica in maniera
sinergica ed efficace.
La Corporate Governance, più precisamente, non attiene tanto alla forma di governo, quanto alle modalità empiriche del suo esercizio. La governance è, quindi, arte del governare, più che la forma di governo. Facendo un
paragone la forma di governo è, per esempio, la monarchia, la democrazia,
etc., mentre la governance attiene a come il potere è esercitato all’interno di
queste forme (4).
Nel fallimento l’applicazione di tali principi importa, in via di prima approssimazione, che, una volta stabilita la «forma del governo», debbano
enuclearsi le regole del buon governo (5).
Si cercherà di sostenere in questa sede come, nel nuovo sistema, è già
oltremodo complesso stabilire quale sia la reale forma di governo, talché
il passaggio successivo, per la ricerca delle regole del buon governo, è ancora più difficile da definire (6).
(4) Wikipedia, cit.
(5) Wikipedia, cit.
(6) Di recente è stata sollevata anche la questione di legittimità costituzionale degli artt.
35-41 legge fallim. Cfr. Tribunale Firenze 13 dicembre 2007, Fallimento, n. 2/2008, 194 con
nota C. Esposito. In generale sui possibili profili di incostituzionalità della riforma della legge fallimentare si veda Cafaro, Prime riflessioni sui rischi di illegittimità costituzionale della
riforma delle procedure concorsuali, in questa Rivista, 2006, 735 e nello scritto sono riportate
considerazioni anche in merito al parere approvato dal CSM plenum 9 novembre 2005. Per
un cenno ai possibili aspetti di incostituzionalità della marginalizzazione del Giudice delegato
vedasi Minutoli, Sub art. 25, in La legge fallimentare, a cura di Ferro, Padova 2007. Ancora, valutazioni di costituzionalità sono state poste in relazione alla circostanza che si determina un discrimine «per censo» impedendo agli altri creditori analogo potere di controllo:
cfr. Minutoli, Sub art. 41 legge fallim., in La legge fallimentare, a cura di Ferro, Padova
2007. In verità, però, il criterio di individuazione dei membri del comitato dei creditori imputa il potere in relazione alla misura del rischio rappresentato dalla esposizione creditoria,
non senza trascurare che la rappresentatività è in ordine alla «quantità» ma anche «qualità»
Parte I - Dottrina
75
Secondo il vecchio regime, non si poteva parlare di vera e propria governance in ambito fallimentare: di fatto quella legislazione non contemplava procedimenti e regole per una standardizzata conduzione dell’azienda
fallita né imponeva a chi aveva il compito di rilevare l’azienda decotta di
predisporre un programma di amministrazione e/o liquidazione coordinato
e regolato sin dal momento dell’apertura del fallimento.
In estrema sintesi, in quel sistema, quasi ogni atto di gestione e liquidazione del patrimonio del fallito importava la necessità della preventiva
autorizzazione del giudice delegato o del tribunale, quasi il curatore ne
fosse soltanto la longa manus ed il giudice l’effettivo gestore (7), senza
che però fosse chiara la visione programmatica e prospettica della gestione
dell’azienda fallita.
In linea di principio il legislatore prevedeva la liquidazione del patrimonio del fallito subito dopo l’approvazione dello stato passivo, sia pur con le
variabili, in presenza di alcune circostanze, dell’alienazione anticipata ex art.
104 o dell’esercizio provvisorio ex art. 91.
Superata la fase dell’approvazione del passivo, secondo la legge del
1942, il curatore aveva l’onere di procedere a liquidazione, di solito previa
scomposizione atomistica dell’azienda (8), senza che potesse intravedersi un
vero e proprio programma corrispondente a criteri di governance complessiva.
Anche in una visione meno «piramidale» della legislazione pregressa è
comunque agevole verificare in quel sistema come, se proprio si volesse
individuare una governance nel fallimento, questa stava nel binomio organo giudiziario / curatore, con un coinvolgimento certamente molto sfumato degli altri staheholder pur coinvolti (creditori, comitato dei creditori,
fallito) (9).
Verosimilmente questa visione risentiva del fatto che i compilatori non
tennero granché in conto dell’esistenza complessiva dell’impresa in quanto
la filosofia del sistema preludeva, anzi, alla sua dissoluzione. L’esame della
legislazione «pensionata» testimonia come il fallimento tendenzialmente
comportasse lo scioglimento dei rapporti in essere per favorire la dissoluzio-
del credito. Per dubbi di costituzionalità in merito alla riformulazione – in seno al decreto
correttivo – dell’art. 104 ter legge fallim. si veda la disamina di Fabiani, Il programma di liquidazione, in Il nuovo diritto fallimentare (aggiornamento al d.lgs. 169/2007) in Commentario Jorio-Fabiani, Bologna 2008, 33.
(7) L. Abete, «Il curatore fallimentare: linee di una possibile evoluzione», in Il fallimento
n. 9/2005.
(8) Tuttavia tenendo conto di quanto disponeva più recentemente l’art. 3 della Legge
223/1991.
(9) Non a caso, a proposito del comitato dei creditori, si è parlato di «organo fantasma»
o se ne descrive, icasticamente, la sua «atrofia».
76
Il diritto fallimentare e delle società commerciali
ne dell’azienda e la sua liquidazione. L’assenza di previsioni specifiche per
la vendita dell’azienda e la valorizzazione solo come ipotesi marginale della
vendita in massa (art. 106/2 legge fallim. previgente) testimonia la mancanza di prospettiva alienatoria complessiva da parte del legislatore del 1942.
In questo contesto, la governance stava, dal punto di vista soggettivo,
prevalentemente nel binomio giudice delegato / curatore, mentre creditori,
comitato dei creditori e, ancorpiù il fallito, seguivano la procedura in posizione certamente defilata se non deteriore.
Il contenuto di tale governance era conseguentemente tutto orientato
verso la realizzazione dell’obiettivo liquidatorio disegnato dal legislatore
del tempo.
*
* *
Le nuove norme hanno risentito della concezione, propugnata da alcuni
tra i compilatori della nuova disciplina ma di cui non si ritrova traccia nella
Relazione governativa al decreto delegato, secondo la quale la necessità di
assicurare un’adeguata governance dell’impresa permane anche dopo il fallimento (10).
Una dottrina di stampo aziendalistico – bancario (11) asserisce «.... la crisi asiatica insegna che, anche e soprattutto quando la gestione dell’insolvenza
viene assunta dalle autorità governative, il problema resta sempre di dare una
risposta ai creditori. L’intervento pubblico si risolve invariabilmente nell’alterare i termini del rapporto tra debitori e creditori, imponendo a questi ultimi
ulteriori costi oppure finanziandone la cancellazione dei debiti, o ancora con
una combinazione delle prime due misure».
Sottolinea questo autore che quando non si voglia ricorrere a modalità
di gestione della crisi di tipo statalista autoritativo occorre in definitiva consentire ai creditori di esercitare un reale controllo.
Sotto altro profilo si è sostenuto che anche quando l’impresa è insolvente non cessa di essere impresa e di porre, sia pure per la gestione della
procedura fallimentare e della liquidazione del patrimonio aziendale, i
problemi usuali delle imprese: assumere decisioni, regolando i rapporti
con i portatori di interessi (stakeholder). Ciò avviene con le modalità di
direzione e controllo, previste per il fallimento e che ne costituiscono la
governance (12).
(10) L. Panzani, Le linee principali dello schema di decreto delegato: gli organi fallimentari ed i poteri del giudice, in Il Fallimento, IV, 2006, pag. 488.
(11) P. Santella, Lezioni dall’Asia, 2005, reperibile in Internet.
(12) G. Cabras, La governance del fallimento nella riforma della legge fallimentare, in
www.dircomm.it, nov. 2005.
Parte I - Dottrina
77
Si è detto, a questo proposito, che nell’economia odierna il valore dell’impresa non sta tanto nei singoli cespiti che la compongono, il cui peso è
sempre minore e che sovente è rappresentato dai beni immateriali (marchi,
brevetti, know how, avviamento), quanto nella possibilità di assicurarne la
prosecuzione anche in capo a terzi come complesso unitario. Di qui la preferenza data alla vendita o all’affitto dell’azienda o di singoli rami della stessa intesi unitariamente ed anche al conferimento dei beni in società di nuova costituzione, le cui azioni saranno oggetto di alienazione a terzi. In questa
prospettiva il curatore viene visto come amministratore e gestore dei beni
nell’interesse dei creditori, sotto il diretto controllo, tramite il meccanismo
delle autorizzazioni, del comitato dei creditori, che costituisce espressione
del ceto creditorio (13).
Proprio per questo motivo l’art. 38 prevede che il curatore adempia ai
doveri del proprio ufficio, imposti dalla legge o derivanti dal piano di liquidazione approvato, con la diligenza richiesta dalla natura dell’incarico. La
formula ricalca quella prevista dall’art. 2392 cod. civ. per gli amministratori
di società per azioni, anche se il legislatore non ha ripreso la seconda parte
della disposizione, che fa riferimento alle «specifiche competenze» degli
amministratori (14). Poiché i compiti del curatore sono predeterminati per
legge ed egli riveste la qualifica di pubblico ufficiale, ben si comprende per-
(13) In merito S. Pacchi, in E. Bertacchini, L. Gualandi, S. Pacchi, G. Pacchi,
G. Scarselli, Manuale di Diritto Fallimentare, Milano, 2007, 91 osserva «...la riforma fallimentare del 2006 persegue l’idea di sfruttare ogni residua potenzialità del complesso aziendale,
senza per ciò ledere il soddisfacimento dei creditori e al contempo spinge verso una privatizzazione nella gestione della crisi. Ciò importa che il curatore assuma autonomo potere decisionale,
che i creditori partecipino alle scelte fondamentali e che il giudice delegato abbandoni la direzione della procedura mantenendone, insieme al comitato dei creditori, la vigilanza...». Sul tema
C. Esposito, Il programma di liquidazione nel decreto correttivo, Fallimento 2007, 1078.
(14) L. Abete, sub art. 38 legge fallim., in Il nuovo diritto fallimentare, commentario (diretto da), A. Jorio, Bologna-Roma, 2006, 643 ove si afferma che «...in primo luogo il dovere
generico di corretta amministrazione si prospetta con riferimento all’attività finalizzata a conservare l’integrità del patrimonio oggetto del pignoramento generale, sottratta, in rapporto alle singole esplicitazioni, al potere di autorizzazione ex art. 35 del comitato dei creditori, ma soggetta
alla vigilanza ex art. 31 del giudice delegato e dell’organo esponenziale del ceto creditorio e destina, a rigore, alla stregua delle positive indicazioni di cui all’art. 104 ter, ad esulare dal programma di liquidazione...» ed ancora «...l’adempimento dell’obbligo generico di corretta amministrazione attiene – si ribadisce – alla legittimità e non al merito delle scelte gestorie, ne discende inevitabilmente che la vigilanza che, in relazione a tale obbligo, ha da investire l’operato del
curatore, è elusivamente quella che l’art. 31 demanda all’organo giurisdizionale ed, ulteriormente, che la violazione dell’obbligo generico di buona amministrazione, in rapporto ai danni che
eventualmente ne sono scaturiti, non può far insorgere la solidale responsabilità, per concorso
omissivo, dei componenti del comitato dei creditori ai sensi del combinato disposto degli artt.
41, 7º comma e 2407, comma 2 cod. civ.».
78
Il diritto fallimentare e delle società commerciali
ché non si sia introdotta la limitazione di responsabilità derivante dal legame tra diligenza e specifiche competenze (15).
Va inoltre ricordato che l’art. 41, penultimo comma, prevede, per quanto concerne la responsabilità dei membri del comitato dei creditori, l’operatività, in quanto compatibile, dell’art. 2407, primo e terzo comma, cod.
civ., regolante la responsabilità del collegio sindacale nella società per azioni. I membri del comitato pertanto, devono adempiere i loro doveri con la
professionalità e la diligenza richieste dalla natura dell’incarico ed oltre all’obbligo del segreto sui fatti e i documenti di cui hanno conoscenza per
ragione del loro ufficio anche se, dopo il correttivo, non è più ipotizzabile
una loro corresponsabilità ex art. 2407, 2º comma cod. civ. (16).
A questo proposito va ricordato che il comitato dei creditori vigila sull’operato del curatore e ne autorizza gli atti (art. 41, comma 1) (17).
Il parallelo ipotizzabile tra il binomio amministratori-sindaci di società
per azioni e curatore-comitato dei creditori può, tuttavia, essere fuorviante,
come si rileva nel capitolo che segue.
II - Relazione con i creditori. – Basterà sottolineare che nella disciplina
(15) L. Abete, op. cit., 647, l’autore ritiene che «...l’omesso riferimento al parametro
«delle specifiche competenze», che viceversa si rinviene nel corpo del comma 1 dell’art. 2392
cod. civ., si spiega in dipendenza del rilievo per cui l’assunzione dell’ufficio di curatore postula,
ai sensi dell’art. 28, necessariamente il possesso di determinate qualifiche professionali ovvero il
possesso di un’adeguata capacità imprenditoriale palesata nell’esercizio delle funzioni di cui alla
lett. c) del comma 1 del medesimo art. 28 e, quindi, la titolarità di requisiti soggettivi che implicano di per sé il possesso di un determinato grado di «perizia». In ogni caso la commisurazione dello sforzo minimo di diligenza da profondere a quello – più elevato – «professionale», importa restrizione dell’area di esenzione da responsabilità, area, invece cui il riferimento alla figura del mandatario ovvero del bonus pater familias avrebbe assicurato più ampi confini».
(16) L. Abete, op. cit., 643 «...si manifesta pertanto appieno, in seno alla governance dell’impresa (societaria) in fallimento, in dipendenza della preposizione del giudice delegato alla
salvaguardia della legittimità, il differente ruolo cui attende il comitato dei creditori rispetto
a quello cui è deputato, nell’assetto gestorio di una soc. per az. in bonis, il collegio sindacale:
l’attività di vigilanza sulla gestione demandata ai sindaci, ancorché non estesa al merito delle
scelte gestorie, investe, per espressa indicazione dell’art. 2403 cod. civ., comma 1 cod. civ., il rispetto dei principi di corretta amministrazione ovvero come già si riconosceva in epoca antecedente la «riforma societaria»,sia la legittimità formale che la legittimità sostanziale della gestione degli amministratori. In secondo luogo il dovere generico di buona amministrazione si prospetta con riferimento all’attività di straordinaria amministrazione ossia con riferimento agli atti
da cui possono scaturire la diminuzione o la dispersione del complesso dei beni da destinare alla
liquidazione».
(17) Nonostante il potenziamento delle prerogative esercitabili dai creditori, il curatore
«non sembra essere diventato un mero mandatario dei creditori, non solo perché non opera nel
loro esclusivo interesse ed esercita poteri autonomi, ma anche perché il Tribunale può sempre
revocarlo ed inoltre la richiesta di sostituzione (da parte dei creditori), è limitata da determinate
condizioni oggettive e temporali». Cosı̀, C. Ferri, Gli organi del fallimento, Fall. 2006, 1225.
Parte I - Dottrina
79
della S.p.a. la pienezza ed esclusività del potere gestorio spetta agli amministratori, mentre i sindaci hanno una funzione esclusivamente limitata al
controllo per palesare subito come il binomio di cui si è discusso nell’ultimo
paragrafo del capitolo precedente non ha un diretto parallelismo.
Nel fallimento i poteri gestori del curatore sono limitati dalla necessità
di munirsi dell’autorizzazione del comitato dei creditori per una molteplicità di atti e dall’esigenza di procedere alla liquidazione dei beni nell’ambito
del programma di liquidazione, il cui contenuto è vincolato dall’approvazione del giudice delegato su parere favorevole del comitato dei creditori.
Ed il comitato dei creditori s’ingerisce direttamente negli atti di liquidazione, sı̀cché i poteri di quest’organo non si limitano soltanto alla vigilanza,
esercitata anche dal giudice delegato. Va poi aggiunto che in caso di inerzia,
di impossibilità di funzionamento del comitato o di urgenza, provvede il
giudice delegato (art. 41, comma 3), al punto che il quadro delineato dal
legislatore appare di gran lunga più complesso di quanto l’analogia sopra
indicata potrebbe far ritenere (18).
Ragionando in termini più generali occorre evidenziare come la suddivisione dei compiti sia immaginata in ragione della presenza del tribunale
fallimentare, del giudice delegato, del curatore e del comitato dei creditori.
Gli auspici del legislatore, indicati anche nella relazione al d.lgs. 5/2006,
si caratterizzano in quanto il «curatore ha l’amministrazione del patrimonio
fallimentare e compie tutte le operazioni della procedura sotto la vigilanza del
giudice delegato e del comitato dei creditori, nell’ambito delle funzioni ad esso
attribuite». Al tempo stesso viene affermato che «il giudice delegato non è
più l’organo motore della procedura essendo stata sostituita l’attività di direzione con quella di vigilanza e controllo» (cfr rel. Min. 2006). Il Tribunale è
invece «investito dell’intera procedura» ex art. 23 legge fallim. nell’adempimento dei propri poteri ordinatori e amministrativi del fallimento (19).
La nuova dimensione dei poteri del Giudice delegato e del Tribunale
non può comprendersi tuttavia dalla mera analisi letterale delle espressioni
appena citate in quanto lo spostamento del «baricentro»della governance a
favore dei «creditori» si completa grazie alla analisi delle norme in ragione
delle quali «il giudice delegato ed il tribunale non autorizzano più le riduzioni
dei crediti, le transazioni, i compromessi, le rinunzie alle liti, le ricognizioni di
(18) Le considerazioni che precedono sono di L. Panzani, op. cit. Sui nuovi poteri del
comitato dei creditori, si veda anche l’analisi di L. Guglielmucci, Diritto fallimentare, Torino, 2006, 78. Si veda anche Vigo, Poteri e responsabilità del nuovo comitato dei creditori,
Riv. dir. civ. 2007, 113; Stanghellini, Creditori forti e governo della crisi di impresa nelle
nuove procedure concorsuali, in Fall. 2006, 377.
(19) Marelli, sub art. 23 legge fallim., in Commentario Jorio, Bologna-Roma, 2006,
418.
80
Il diritto fallimentare e delle società commerciali
diritti di terzi, la cancellazione di ipoteche, ecc. Gli atti suddetti sono compiuti
dal curatore previa autorizzazione del comitato dei creditori» (20). La riformulazione dell’art. 35 legge fallim. è poi solo una traccia della diversa dimensione partecipativa dei creditori in seno alla procedura concorsuale in quanto altri riferimenti si trovano pure, solo per fare degli esempi, nell’ambito
dell’art. 104 legge fallim. in tema di condizionamento alla continuazione
dell’attività di impresa; o, ancora, nell’art. 104 ter in tema di approvazione
del programma di liquidazione.
Le regole della legge fallimentare realizzano, cosı̀, un sistema di partecipazione all’attività gestoria caratterizzato da diversi gradi di ingerenza nelle scelte «sulla» procedura, culminanti nella rappresentatività gestoria del
comitato dei creditori, quale massima espressione partecipativa.
Volendo tentare una schematizzazione, si rinvengono almeno a tre livelli
di partecipazione (21).
* Un primo grado d’ingerenza è di «tipo individuale» e si manifesta attraverso singoli atti come accade ad esempio in ipotesi di reazione dei creditori rispetto a scelte degli altri organi. Si pensi al reclamo ex art. 102, comma 3, legge fallim., col quale i singoli creditori possono reagire al decreto
del tribunale che dispone «non farsi luogo al procedimento di accertamento
del passivo»; o ancora alla possibilità da parte dei creditori, in qualità di
soggetti interessati, di reclamare contro gli atti del curatore, del comitato
dei creditori, del giudice delegato, del tribunale a norma degli artt. 36 e
26 legge fallim., o ancora di richiedere la sospensione delle operazioni di
vendita (cfr. art. 108 legge fallim.).
* Un secondo grado di ingerenza è consentito alla maggioranza dei creditori calcolata sulla base «dei crediti allo stato ammessi» i quali, pur non
essendo istituzionalizzati in organo, possono influire su talune specifiche
scelte di indirizzo, come testimonia l’art. 37 bis legge fallim. ove si dispone
testualmente «conclusa l’adunanza per l’esame dello stato passivo e prima della dichiarazioni di esecutività dello stesso i creditori presenti, personalmente o
per delega, che rappresentano la maggioranza dei crediti ammessi possono effettuare nuove designazioni in ordine ai componenti del comitato dei creditori
nel rispetto dei criteri di cui all’art. 40, nonché chiedere la sostituzione del curatore indicando al tribunale le ragioni della richiesta e un nuovo nominativo».
Ed analoghe considerazioni valgono, mutatis mutandis, per i membri
del comitato dei creditori che pure concorrono ad esprimere rilevanti poteri
(20) G. Schiavon, sub art. 40, Commentario Jorio, Bologna-Roma, 2006, 682.
(21) Tale ricostruzione è prospettata da C. Esposito in Il comitato dei creditori: la necessità dell’accettazione della carica ai fini della composizione di un organo non necessario, ne Il
Fallimento, 2007, I, 111.
Parte I - Dottrina
81
in seno alla procedura, come desumibile dalla semplice lettura di disposizioni quali gli artt. 35, 41, 104, 104 bis, 104 ter legge fallim. solo per citarne
alcune.
* Il più alto grado di partecipazione dei creditori alla «vita fallimentare», però, si ha attraverso la costituzione del comitato dei creditori, assumendo lo stesso una funzione rappresentativa degli interessi generali degli
stessi (22) attraverso l’esercizio di una serie di prerogative che incidono fortemente sulla gestione della procedura fallimentare presentandosi sottoforma di compiti di vigilanza (cfr. art. 41 legge fallim.), di partecipazione attiva
alla gestione realizzabile attraverso pareri vincolanti (cfr. ad esempio artt.
104, comma 2; 104 bis, comma 1; 104 ter, comma 4 legge fallim.) o ancora
autorizzazioni (cfr. art. 35 legge fallim.) e altre attività di controllo (cfr. art.
108 legge fallim.).
Dal riconoscimento al c.d.c. di tali poteri si può chiaramente desumere
l’attribuzione a tale organo della titolarità di un pregnante, ancorché concorrente con quello del curatore, potere di prospettazione e preselezione
delle opzioni, tra le molteplici concretamente possibili, a stimarsi più convenienti, e deve inoltre e soprattutto, connotarsi per la esclusiva titolarità
del potere di suggellare in via definitiva l’opportunità delle determinazioni
suggerite dal curatore.
A fronte o a corredo di tutto ciò vi è la previsione in ragione della quale
«ai componenti del comitato dei creditori si applica, in quanto compatibile,
l’articolo 2407 primo e terzo comma del codice civile. L’azione di responsabilità può essere proposta anche durante lo svolgimento della procedura» (cfr.
art. 41, comma 7, legge fallim.) (23).
Quanto affermato merita un’ulteriore precisazione dovendosi aggiungere che il livello di ingerenza secondo i modelli sopra classificati, è rimesso
alla scelta dei creditori stessi i quali esercitano un diritto alla selezione
del grado di partecipazione alla procedura, visto che essi non hanno l’obbligo, ma il diritto di reclamare, di designare un nuovo curatore, di accettare la
carica di membro del comitato dei creditori e cosı̀ via.
Si tratta di una serie di diritti che, in quanto tali, essi possono esercitare
o meno a seconda che ritengano il loro esercizio elemento di soddisfazione
(22) A dimostrazione del fatto che il comitato dei creditori rappresenti gli interessi generali dei creditori, depone il sistema di salvaguardia consacrato nella previsione e disciplina del
conflitto di interessi ex art. 40, comma 5, legge fallim.
(23) Sicché sui componenti del comitato grava la responsabilità sancita da quest’ultima
disposizione, laddove non vigilino secondo la professionalità richiesta dalla natura dell’incarico, con la precisazione che la carenza di vigilanza si ha anche nella ipotesi in cui il comitato
autorizzi, secondo un contegno antigiuridico esorbitante il business judgment rule, un atto poi
rivelatosi dannoso in quanto anche questo caso denota una carente vigilanza sul curatore.
82
Il diritto fallimentare e delle società commerciali
dell’interesse sul quale si fondano, sicché, come si vedrà, è possibile assistere a procedure nelle quali convivono i sistemi di intervento dei singoli, della
maggioranza e del comitato dei creditori (24).
E del pari possono esservi procedure ove i creditori decidano di non
esercitare tali prerogative non promuovendo «reclami» non dando vita a
«designazioni» ex art. 37 bis, non ritenendo utile l’accettazione della carica
di membri del comitato dei creditori facendo in modo che l’organo non si
costituisca (25).
Per dirla sinteticamente: procedure ad «assetto partecipativo forte» e
procedure ad «assetto partecipativo debole».
Nel caso di procedure ad «assetto partecipativo debole» il baricentro
della governance si sposta nuovamente a favore del Giudice delegato e la
gestione della procedura viene ripartita tra questi ed il curatore. Tanto avviene in ragione dell’art. 41, comma 4, legge fallim. ossia di un «meccanismo
di integrazione delle deficienze per cui l’attivtà del comitato viene incorporata
nella valutazione del giudice che lo sostituisce» (26). Si tratta di uno «strumento suscettibile di stravolgere il sistema concorsuale riattribuendo al giudice delegato poteri decisori che la novella ha, invece, ritenuto essere incompatibili
con le sue nuove funzioni (di mero controllore della legittimità del procedimento)» (27).
In conclusione, allora, si può ritenere che il legislatore immagini un sistema ove i poteri del Giudice delegato arretrano a vantaggio dei creditori (28) ma con la precisazione che – laddove questi non vogliano appropriar-
(24) Si pensi alle ipotesi di fallimenti con due soli creditori ovvero alla ipotesi, lo si anticipa, in cui nessuno si dichiari disposto all’accettazione. Sul tema C. Esposito, Il programma
di liquidazione, in F. Fimmanò-C. Esposito, La liquidazione dell’attivo, Milano 2006, 300.
Sul tema ci si consenta il rinvio a: E. Forgillo, Il ruolo del curatore fallimentare nella riforma, in www.ilfallimento.it, 2006. Si osserva ivi «È lecito pensare che solo i creditori istituzionali
privati (e segnatamente le banche) potranno effettivamente coltivare la possibilità, anche con
strutture tecnicamente organizzate, di esercitare il ruolo di componente del c.d.c., ammortizzandone anche i ben maggiori costi (rispetto a quelli conseguibili ex art. 41 comma 6)». Secondo
una dottrina: «Sotto la vigenza della precedente normativa, il problema di un numero di creditori inferiore a quello minimo veniva risolto, essendo il comitato dei creditori un organo con
poteri esclusivamente consultivi, inviando la richiesta di parere a tutti i creditori». (Cfr. F. Santangeli, Il nuovo fallimento, Milano, 2006, 202). In realtà, un comitato dei creditori composto da soli due membri non potrebbe funzionare correttamente in esito alla costante difficoltà di rinvenire una maggioranza.
(25) In tale ipotesi, la soluzione prospettata da una parte della dottrina, S. BonfattiP.F. Censoni, Manuale di diritto fallimentare, Padova, 2007, 81, consisterebbe «...in quella
di affidare al giudice delegato tutti i potere del comitato dei creditori, com’è previsto, in generale,
dall’art. 41, comma 4º, legge fallim. per le ipotesi di «impossibilità di funzionamento».
(26) C. Esposito, Il programma di liquidazione, cit.
(27) Fimmanò-Esposito, op. cit.
(28) Sul tema si è sostenuto «è corretto che i creditori abbiano poteri di indirizzo e control-
Parte I - Dottrina
83
si di tali prerogative – il giudice delegato stesso viene individuato quale organo deputato all’esercizio delle stesse in ragione della regola generale di
cui all’art. 41, comma 4, legge fallim. sicché il giudice si sostituirà in tutte
le attività provvedimentali del comitato quali quelle di cui all’art. 35, 104,
104 ter ecc.
Cosı̀ si ripartisce la governance endofallimentare.
Occorre pertanto prendere atto che a fronte di una lettura, in prima
battuta, che attribuirebbe al curatore il ruolo centrale di organo pieno e
completo d’amministrazione del patrimonio del fallito, una visione generale
d’insieme consente di rilevare come tale organo abbia ben poco in comune
con quello dell’amministratore di società di capitali, cui probabilmente il
legislatore del 2006 si è ispirato; ciò almeno nella considerazione che l’amministratore di società di capitali è oggi, a seguito della modifica del 2003,
soggetto tendenzialmente indipendente tanto rispetto agli assetti proprietari
tanto nei confronti degli organi di controllo; e lo è certamente nei confronti
dei creditori, sia pur nella consapevolezza che la sua attività deve essere improntata su criteri di assoluto rigore e correttezza.
Nel fallimento odierno, invece, il gestore del patrimonio si trova sovente
in una posizione, se non di subordinazione, quantomeno d’attività a contenuto vincolato o, comunque, predefinito da altri, talché il parallelismo appare forzato.
III - Relazione col fallito. – Se già questa prima scorsa denunzia un sistema decisamente eterogeneo della gestione, laddove il timone di comando
non è solo nelle mani di un unico gestore (sia pur col controllo esterno da
parte di altri organi, come avviene nel sistema societario), ma quasi si assiste
a sistemi di cogestione, gestione partecipata, stratificazione di competenze e
lo sullo svolgimento della procedura concorsuale» e ancora «non ha senso domandarsi se i creditori abbiano diritto di controllare ed influenzare ciò che viene fatto nell’ambito della procedura di fallimento, ma piuttosto occorre domandarsi perché essi non dovrebbero avere tale potere».
Stanghellini, Creditori forti e governo della crisi di impresa nelle nuove procedure concorsuali, in Fall. 2006, 377; Id., Il curatore: una figura in transizione, in Fall. 2007, 997; Minutoli,
Nuovi rapporti tra gli organi fallimentari, legittimazione processuale del curatore e nomina dei
legali del fallimento, in Fall., 2007, 677. Parla, invece, di espulsione degli organi giudiziari
dall’area di amministrazione del patrimonio fallimentare, Abete, Sub artt 27-39, in Il nuovo
diritto fallimentare, a cura di Jorio-Fabiani, Torino 2006, 518; Id, I rapporti con gli altri
organi della procedura, in Fall. 2007, 1003; Minutoli, Quale futuro per il giudice delegato
(la riforma del diritto fallimentare tra pretese di efficienza ed emarginazione della giurisdizione),
in Fall. 2005, 1460. L’autore osserva che una tale rimodulazione dei ruoli degli organi si sarebbe dovuta accompagnare alla preminenza di istituti di allerta e prevenzione. Da ultimo si è
sottolineato che «i creditori – che sono i beneficiari dell’attività di liquidazione – hanno poteri
di indirizzo e controllo sull’intera procedura». Cfr. Calvosa, Il comitato dei creditori, in
AA.VV., Diritto fallimentare (manuale breve), Milano 2008, 317.
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Il diritto fallimentare e delle società commerciali
possibilità di veti incrociati che possono condizionare una efficace governance – non fosse altro che per la continua possibilità di contestare, impugnare, reclamare atti e provvedimenti a tutto campo – altri elementi di rilevanza occorre considerare per una più completa visione d’insieme.
Si è già in precedenza rilevato come la posizione fallito (e per esso l’impresa in sé, quale entità economica suscettibile di circolazione) non abbiano
ricevuto nel contesto della legge appena abbandonata una posizione di rilievo. Volendo semplificare il fallito era sostanzialmente il soggetto passivo
della procedura, subiva conseguenze di carattere personale e patrimoniale e
solo per singoli circoscritti aspetti aveva vera e propria «voce in capitolo»
nel corso del procedimento.
L’impostazione era peraltro il logico portrato di una concezione che denotava negativamente il fallimento come evento che riguardava la «persona»
del fallito, caratterizzandone le conseguenze anche dal punto di vista soggettivo, pure nella misura in cui l’esercizio dell’attività d’impresa si svolgesse in
forma societaria (29). Nella nuova legislazione, che sposta il baricentro del
fallimento verso l’impresa in sé, con connotazione maggiormente oggettiva,
era naturale che anche la posizione del fallito venisse riguardata in modo diverso (con considerazione tendenzialmente «neutra» rispetto all’evento «dissesto»). Molto sinteticamente è agevole rilevare che se dal punto di vista patrimoniale non si registrano, in danno del fallito, rilevanti modificazioni attraverso i due interventi normativi del 2006 e del 2007, ben altre conseguenze sono state affermate in ordine al piano «personale», al punto che, la pressoché totale abolizione di effetti, ha fatto giustamente ipotizzare il parallelismo con l’esecuzione individuale, anch’essa priva di simile conseguenze.
In questa sede appare rilevante verificare come ad un cambiamento
piuttosto radicale del sistema di amministrazione del patrimonio del fallito
corrisponda anche una mutata rilevanza della sua posizione in seno alla procedura. Non interessa quivi rilevare quali e quante siano le differenze rispetto al passato, ma riassumere i principali livelli di interferenza con la gestione
al fine di verificare la posizione del fallito all’interno del sistema.
Anticipando le conclusioni, deve osservarsi come un primo livello di ingerenza (certamente più rilevante rispetto al passato) sia costituito dalle
possibilità di impugnativa dei provvedimenti dei vari «organi» fallimentari;
tanto può rilevarsi dalla lettura dell’art. 36 legge fallim. (per gli atti del curatore e del comitato dei creditori) e dell’art. 26 (per quelli del giudice delegato e del Tribunale) (30).
(29) Per una efficace sintesi della posizione del fallito nella precedente legislazione vedansi D. Mazzocca, il fallito e la sua procedura (studi in onore di G. Ragusa Maggiore), edito anche in http://www.ilfallimento.it/dottrina/05.htm.
(30) Autorevole dottrina, G.U. Tedeschi, Manuale del nuovo diritto fallimentare, Pado-
Parte I - Dottrina
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Nel caso in cui sia fallita una società, tale prerogativa verrà esercitata
dagli amministratori che continuano ad avere un potere di gestione e verifica quanto meno con riferimento agli atti della procedura che possano pregiudicare – oltremodo al di là delle funzioni della stessa – le ragioni sociali.
Non bisogna dimenticare, infatti, che le prerogative del fallito sono ridimensionate nei limiti in cui ciò sia funzionale alla soddisfazione degli interessi dei creditori, sicché – tanto per fare un esempio – anche il fallito ha
interesse alla massimizzazione dell’attivo in quanto potrebbe ambire ad un
residuo attivo una volta pagati i creditori. E questo interesse è manifestabile
anche con i reclami di cui si è detto, quando i contegni degli organi fallimentari non sia coerenti con le regole della procedura concorsuale.
Tanto, a maggior ragione ove si pensi al fatto che oggi il fallimento non
è sempre causa di scioglimento della società di capitali, sicché «la dichiarazione di fallimento non comporta il venir meno dell’organizzazione sociale né
la cessazione del rapporto che lega la società agli amministratori i quali conservano i poteri funzionali alle necessità della procedura concorsuale e all’esigenza di assicurare alla società fallita la possibilità di tutelare i propri interessi
nei confronti degli organi fallimentari. Chiusa la procedura dovrà poi verificarsi se essa ha lasciato effetti dissolutivi sull’ente societario. La norma assume, allora, anche un immediato valore precettivo. Ed invero non necessariamente la società in fallimento chiusa la procedura dovrà dirsi in liquidazione.
La società in fallimento non vede modificata la propria organizzazione se non
per i fini della procedura sicché questa viene funzionalizzata alla stessa. Eliminata questa viene a cadere la causa della funzionalizzazione e dovrà verificarsi
va 2006, ritiene che «l’attribuzione della legittimazione a proporre reclamo al fallito non può
essere intesa che come tutela degli interessi privati del debitore stesso, sempre prescindendo dalla
circostanza se la tutela dei suoi interessi particolari sia anche un mezzo per un migliore assetto
degli interessi collettivi. Come il curatore, cosı̀ il fallito è legittimato a proporre reclamo contro i
provvedimenti del giudice delegato anche indipendentemente dal pregiudizio che potrebbe derivargli dalla qualità assunta in concreta». In ogni caso, è bene evidenziare, come parte dottrina
ritenga che l’impugnativa ex art. 36 legge fallim. non possa essere utilizzata «per dolersi della
correttezza delle scelte del curatore (e del comitato dei creditori) sul piano del merito, cioè della
loro opportunità (cosı̀ dovrebbe essere se veramente si trattasse di una generica forma di doglianza); possono invece reclamarsi solo gli atti pronunciati in violazione di legge, illegittimi cioè sul
piano della corretta applicazione della legge». Cosı̀ testualmente, R. Tiscini, sub art. 36, in La
riforma della legge fallimentare (a cura), di M. Sandulli-A Nigro, Torino, 2006, I, 220. Analoga conclusione è sostenuta da M. Spiotta, Il curatore fallimentare, Bologna, 2006, 19, ove
si sostiene che «in caso di conflitti fra il curatore e il comitato dei creditori, al giudice delegato
spetta esclusivamente il potere di controllo di legalità della procedura, senza alcuna possibilità di
intromettersi nelle scelte riguardanti la gestione economica». Contra, però, S. Pacchi, in
AA.VV., Manuale di diritto Fallimentare, op. cit., 109, secondo la quale il reclamo potrà essere proposto sia per motivi di legittimità che di merito, contro gli atti che si ritengano inopportuni o pregiudizievoli oppure contro le omissioni del curatore.
86
Il diritto fallimentare e delle società commerciali
se questo adattamento è stato letale o meno. Nulla osta invero che alla chiusura della procedura la società – recuperata la propria piena funzionalità – decida di continuare nella propria attività la quale potrebbe anche non essersi
giammai interrotta in esito all’esercizio provvisorio ex art. 104 legge fallim.» (31). Il correttivo ha opportunamente revisionato il testo del comma
2 dell’art. 118 legge fallim., stabilendo che nel caso di fallimento di società
il curatore chiede la cancellazione della società dal registro delle imprese
nelle sole ipotesi di chiusura di cui ai numeri 3 e 4. La ragione della modifica è evidente: solo nel caso di ripartizione totale o d’insufficienza d’attivo
non v’è ragione che giustifichi la permanenza della società nell’ordinamento, mentre negli altri due casi, non solo è ben possibile che la società abbia
risorse sue proprie (art. 118 n. 1) per continuare l’attività, ma che, addirittura, possa disporsi la restituzione dell’attivo in esubero (art. 118 n. 1 o 2),
dimodocché non v’è ragione per impedire all’ente di continuare a svolgere
l’attività.
Per vero, solo nell’ipotesi contemplata dal n. 2 dell’art. 118 di conclusione della procedura con un residuo attivo, la norma prevede che il curatore dovrà restituirlo alla società (32); ma, a ben vedere, la regola è certamente applicabile anche nel caso del numero 1, dal momento che alla chiusura per mancanza di domanda dovrà sicuramente seguire la restituzione di
tutto quanto appreso all’atto dello «spossessamento».
Spetterà soltanto ai soci la scelta di riprendere l’attività con quel patrimonio residuato, di ricapitalizzare la società, oppure optare per lo scioglimento provvedendo alla nomina dei liquidatori.
(31) C. Esposito, La fase dello scioglimento, in Fimmanò-Esposito-Traversa, Scioglimento e liquidazione delle società di capitali, Milano 2005, 34. Non è di ostacolo a tale interpretazione la disposizione di cui all’art. 118, comma 2, legge fallim. in ragione del quale
«Ove si tratti di fallimento della società il curatore ne chiede la cancellazione dal registro delle
imprese». Giova, al riguardo, rifarsi all’insegnamento di chi A. Nigro, La riforma organica
delle procedure concorsuali e le società, Dir. fall. 2006, I, 791 ritiene «a mio avviso per assicurare un minimo di rispetto di coerenza sistematica e, d’altra parte, per evitare censure di incostituzionalità (vuoi per assoluta irragionevolezza, vuoi per eccesso di delega) l’art. 118 deve, non
può non essere sottoposto ad una interpretazione, per cosı̀ dire, adeguatrice. Precisamente nel
senso che al Curatore deve ritenersi sı̀ attribuito l’onere di procedere alla cancellazione della società ma solo quando da un lato, della cancellazione sussistano in punto di fatto i presupposti
vale a dire solo quando, al momento della chiusura del fallimento, tutto risulti essere stato liquidato e tutti i rapporti siano stati definiti e, dall’altro, i soci non abbiano manifestato la volontà di riattivare la società, in sostanza solo quando ormai della società residui un mero guscio
vuoto che nessuno mostra di volere utilizzare...».
(32) Le regole sono quelle del fallito persona fisica, con la specificazione, in questa ipotesi, che il curatore dovrà accertare (mediante misura al registro delle imprese) la permanente
legittimazione del legale rappresentante della società (che, in tesi, potrebbe essere stato anche
sostituito durante il fallimento). Anzi, a voler essere rigorosi, probabilmente dovrebbe esigere
anche la delibera di assemblea che prende atto.
Parte I - Dottrina
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Ciò posto, quello appena divisato è un grado di ingerenza costante nella
vicenda fallimentare che si manifesta tramite le impugnative, in misura oggi
più di ieri maggiormente rilevante.
Vi è di più.
Esiste un altro grado di ingerenza – una tantum – ossia in razione a specifiche ipotesi od operazioni che si vogliano compiere.
È opportuno ricordare che in conseguenza del fallimento, anche a cagione delle recenti modifiche del sistema civile intervenute nel 2003, ben
possono darsi ipotesi di atti efficacemente posti in essere dal fallito. Sinteticamente tra gli altri (33):
— se fallita è un’impresa individuale, il titolare può trasferire non soltanto la sua residenza personale (dandone comunicazione al curatore: nuovo
art. 49), ma anche la sede dell’impresa, qualora ciò sia funzionale allo svolgimento della procedura e, quindi, con il consenso del curatore;
— se fallita è una società di capitali, i suoi organi ordinari (assemblea ed
amministratori) possono, previa approvazione del curatore, procedere a:
trasferimento della sede sociale; trasformazione, fusione o scissione della società; emissione di obbligazioni o di warrant, con effetti dopo la chiusura del fallimento ed al servizio di tale chiusura.
Non va assolutamente tralasciato, da ultimo, la possibilità per il fallito di
presentare un concordato fallimentare e, quindi, la perdurante competenza
dell’assemblea (in caso di fallimento sociale), a deliberare la proposta.
Un ulteriore occasione di «interferenza» tra il fallito e gli organi della
società fallita sulle scelte della procedura può verificarsi allorquando il curatore decida, a norma dell’art. 105 VIII comma, legge fallim., «...di procedere alla liquidazione anche mediante il conferimento in una o più società
eventualmente di nuova costituzione, dell’azienda o di rami della stessa, ovvero di beni o crediti, con i relativi rapporti contrattuali in corso, esclusa la
responsabilità dell’alienante ai sensi dell’art. 2560 cod. civ. ed osservate le disposizioni inderogabili contenute nella presente sezione» (34).
In tale fattispecie, l’influenza degli organi societari potrebbe manifestarsi laddove si ritenga che l’operazione di conferimento debba essere approvata ex art. 2479 cod. civ. dai soci in quanto la stessa potrebbe palesarsi come operazione che incide in maniera rilevante sull’organizzazione sociale, sı̀
da esigere, per la sua la realizzazione, una decisione dei soci, trattandosi di
operazione sussumibile nell’alveo di applicazione dell’ipotesi delineata dal
(33) Esempi ripresi da Cabras, op. cit.
(34) Secondo autorevole dottrina, F. Fimmanò, La gestione e la liquidazione dell’azienda
nel fallimento, in F. Fimmanò-C. Esposito, La liquidazione dell’attivo fallimentare, op. cit.,
114, il conferimento in società, previsto dall’art. 105, comma 7, legge fallim., darebbe vita alla
«gestione di una massa separata».
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Il diritto fallimentare e delle società commerciali
numero 5 dell’art. 2479 cod. civ., che sancisce, infatti, la necessità di una
decisione dei soci allorquando si tratti «...di compiere operazioni che comportano una sostanziale modificazione dell’oggetto sociale o una rilevante modificazione dei diritti dei soci...» (35).
Il punto appena indicato, per vero, potrebbe essere diversamente interpretato; nel senso che tale regola non possa trovare applicazione allorquando l’operazione di conferimento sia decisa dalla procedura concorsuale, che
intravede nella realizzazione della stessa uno strumento volto a favorire la
massima soddisfazione delle ragioni dei creditori concorsuali.
In caso contrario, la procedura dovrebbe sottostare al veto dei soci, sı̀
da essere costretta a postergare la soddisfazione delle ragioni del ceto creditorio agli interessi dei soci stessi.
Si tratta invece di un’operazione di liquidazione dell’attivo in relazione
alla quale il governo è appannaggio esclusivo degli organi fallimentari essendo inverosimile che il fallito o i suoi soci possano condizionarla.
Ovviamente, operando nel contesto di tale diversa opzione argomentativa, non sussisterebbe un punto di particolare interferenza in siffatte ipotesi.
Un ulteriore operazione che potrebbe rendere necessario un’analisi di
compatibilità tra interessi della procedura e quelli della società fallita è costituita dalla fusione, visto che a tale operazione possono accedere anche società sottoposte a procedure concorsuali (36).
Ed invero l’ammissibilità di tale operazione risulta coerente con la tendenza legislativa volta a consentire alle procedure concorsuali – nell’ottica
della massimizzazione degli obiettivi prefissati dal legislatore – la possibilità
di avvalersi di operazioni straordinarie che valgano da strumenti di gestione
della procedura stessa (37).
Un primo riferimento di tale tendenza si rintraccia nell’art. 2499 cod.
civ. ove testualmente si dispone: «può farsi luogo alla trasformazione anche
in pendenza di procedura concorsuale, purché non vi siano incompatibilità
con le finalità e lo stato della stessa» (38). Relativamente alla fusione, analo-
(35) Sul tema si veda A. Nuzzo, sub art. 2479, in Società di Capitali (a cura di), G. Niccolini-A. Stagno D’Alcontres, Napoli, 2004, 1625.
(36) Per un’ampia panoramica sulla fusione nel fallimento M. Di Sarli, art. 2501, in
Commentario alla riforma delle società, diretto da Marchetti, Bianchi, Grezzi, Notari, 2006.
Da ultimo Guerrera-Maltoni, Concordati giudiziali e operazioni societarie di riorganizzazione, Riv. Soc., 2008, 17.
(37) D’altra parte, non bisogna dimenticare che non essendo più il fallimento causa di
scioglimento della società (v. il nuovo art. 2484 cod. civ.), non può certo escludersi che la
fusione sia una forma di liquidazione più efficace del patrimonio di una società.
(38) De Angelis, Le operazioni di trasformazione, fusione e scissione nella legge delega
per la riforma del diritto societario, Riv. soc., 2002, 41.
Parte I - Dottrina
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go favor legislativo viene desunto dall’abrogazione del comma 2 dell’art.
2501 cod. civ. che inibiva l’accesso, a tale operazione straordinaria, alle società sottoposte a procedure concorsuali. Ora, in questo contesto, la fusione
potrebbe avere analoga appetibilità visto che tramite la stessa potrebbero
essere soddisfatti, al meglio, gli obiettivi della procedura concorsuale (39).
I casi che si pongono nella pratica sono abbastanza eterogenei ed è difficile ricondurli ad unità. Tuttavia, l’affermazione che la fusione può essere
operata anche in seno a procedure concorsuali consente di affermare un
principio piuttosto innovativo e che può essere utilizzato nelle ipotesi specifiche, con l’unico filo conduttore che l’operazione non deve contrastare
con gli interessi dei creditori concorrenti ad una rapida definizione della vicenda fallimentare ed ad una liquidazione della percentuale distribuibile
non inferiore a quella spettante in caso di mancata fusione (40).
Ancora, la fusione potrebbe essere oggetto di una proposta di concordato
visto che, a norma dell’art.124, II comma, lett. c L.F. «la proposta può prevedere» anche «la ristrutturazione dei debiti e la soddisfazione dei crediti attraverso qualsiasi forma anche mediante ...operazioni straordinarie».
(39) Si pensi al caso in cui vi sia una partecipazione totalitaria della società fallita in altra
società dotata di un ingente patrimonio vertendosi nell’ipotesi opposta a quella prevista dall’art. 105, comma 8, legge fallim., laddove fosse utile per il fallimento incorporare la società
controllata e procedere alla liquidazione delle attività in essa esistenti sı̀ da realizzare un introito superiore a quello ottenibile con la liquidazione della semplice partecipazione.
Nella prospettiva opposta, la liquidazione potrebbe essere operata acconsentendo a
che una società terza incorpori la società fallita sı̀ da assicurare, nel contempo, il pagamento
dei creditori ammessi al passivo ovvero il loro consenso alla fusione mediante la desistenza
delle domande, sı̀ da dare atto ad una sorta di concordato stragiudiziale. In questo caso, si
andrebbe oltre la liquidazione dell’attivo in quanto – grazie alla fusione appunto – il fallimento verrebbe addirittura a chiudersi, e l’operazione sarebbe uno strumento di superamento della crisi.
(40) Di recente si è posto un caso che non è infrequente nella pratica: fallisce una s.n.c.
«capogruppo» di una serie di società di capitali (soc. a resp. lim.) interamente partecipate e
amministrate dai collettivisti falliti; risultando, quindi, le suddette partecipate prive tanto della base votante che degli organi amministrativi, effettuata la nomina da parte del curatore dei
nuovi organi di amministrazione, si è posto il problema di come liquidare il patrimonio di tali
società formalmente in bonis. All’uopo, se da un lato, la procedura di dismissione delle partecipazioni, consistente nel caso di specie nella cessione dell’intero pacchetto di quote, appariva la soluzione più semplice, in quanto si sarebbe tradotta nella cessione sostanziale dell’intera società, si è posto il problema della convenienza di siffatta operazione, posto che l’eventuale acquirente avrebbe dovuto subentrare negli stessi diritti del cedente con inevitabili sottovalutazione delle quote, per la potenziale pericolosità dell’operazione. È stata, pertanto,
ipotizzata una fusione con la società fallita, facendo in questo modo acquisire all’attivo del
fallimento nuovi beni vendibili in sede fallimentare senza il rischio del mercato della contrattazione; ciò, ovviamente, entro i limiti di convenienza dell’operazione e, quindi, a condizione
dell’inesistenza di debitorie rilevanti in capo alla società in bonis.. Prende in considerazione
questa ipotesi di fusione M. Di Sarli, op. cit., pag. 455.
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Il diritto fallimentare e delle società commerciali
Ciò posto – se è vero che la fusione si presta a diverse utilizzazioni in seno
alla «vicenda fallimentare» – è necessario che essa si realizzi in guisa da contemperare le esigenze della procedura fallimentare con quelle dei soci e dei creditori delle società coinvolte. Infatti, sotto un primo aspetto, è scontato che la
procedura concorsuale non possa subire la decisione dei soci di operare una
fusione in pendenza di fallimento, laddove ciò contrasti con le finalità stesse
della procedura. Sono esempi testuali di questa vicenda la regola di cui all’art.
2499 cod. civ. nonché il principio secondo cui il fallimento non è causa di scioglimento della società, ma una condizione nella quale questa opera, conformandosi alle esigenze della procedura tese alla ricostruzione e liquidazione
del patrimonio per la soddisfazione dei creditori accertati come tali.
In altra prospettiva, laddove siano le iniziative della procedura concorsuale a promuovere la fusione, queste non possono prevaricare gli interessi
dei creditori delle società coinvolte, né dei soci alla salvaguardia dell’investimento. Sicché deve ritenersi che gli uni e gli altri abbiano possibilità di
accesso ai sistemi di tutela previsti dalla legge. Non avrebbe senso, ad esempio, la fusione per incorporazione di una società fallita in una società in bonis allorquando la semplice lettura delle scritture contabili già farebbe prospettare il fallimento della incorporante.
Cosı̀, pare potersi affermare che la fusione debba coinvolgere la partecipazione dell’ufficio fallimentare (41), necessiti di una delibera assembleare,
salvo che la decisione non sia stata delegata, come accade nelle ipotesi di
«fusioni semplificate» agli amministratori ed inoltre i creditori possano
far valere il loro diritto di opposizione ex art. 2503 cod. civ.
Il fallimento difatti non ha il potere di incidere sulla sfera giuridica di
soggetto terzi alla procedura e cosı̀ se si sceglie la strada della fusione questa
non può che essere percorsa secondo il disegno legislativo tipicamente congegnato dal legislatore, il quale non è suscettibile di stravolgimenti (42).
Operando in questi termini, allora, l’operazione – essendo atto di
straordinaria amministrazione – dovrà essere decisa ex art. 35 legge fallim.
salvo che non sia stata fissata in seno al programma di liquidazione.
Il progetto di fusione dovrà essere redatto dal curatore fallimentare e
dagli amministratori della società tenuti a collaborare con la procedura.
(41) Partecipazione dell’ufficio fallimentare che assume diversa connotazione. Ed infatti,
nell’ipotesi in cui la fusione si innesti in una vicenda di concordato, il riferimento della partecipazione si trova nell’ambito degli artt. 124 e segg. legge fallim. Nell’ipotesi in cui l’iniziativa della fusione sia assunta dalla procedura ex art. 35 legge fallim. allora la partecipazione si
ritiene debba essere ancora più invasiva dovendo, il curatore, partecipare alla redazione del
progetto di fusione in uno agli amministratori i quali sono tenuti a ciò in reazione agli obblighi di collaborazione con il fallimento ad essi imposti dalla legge fallimentare.
(42) Sul tema di interesse è l’analisi di Guerrera, Gruppi di società, operazioni straordinarie e procedure concorsuali, Dir. fall., 2005, 34.
Parte I - Dottrina
91
Lo stesso accadrebbe per la redazione della relazione degli amministratori e
della situazione patrimoniale (43).
L’operazione dovrebbe essere decisa ex art. 2502 cod. civ. attraverso
l’approvazione del progetto ed i creditori potrebbero opporsi ex art.
2503 cod. civ.
Analoghi ragionamenti valgono per l’operazione di scissione societaria,
sicché anche in questo caso l’operazione – quale strumento di liquidazione
dell’attivo – vive la collaborazione degli organi fallimentari e di quelli sociali.
Sotto altra prospettiva la società fallita può realizzare operazioni anche
straordinarie che non siano in contrasto con le finalità della procedura (44).
Nulla osta cosı̀ che le quote sociali siano oggetto di cessione (45), ovvero
che la società deliberi un aumento di capitale sociale (46) a pagamento volto
al risanamento e quindi alla chiusura della procedura concorsuale.
Da ultimo, in tema di rilevanza degli interessi del fallito, non va sottaciuto come l’istituto di recente introdotto della «esdebitazione» del fallito
accentui l’interesse di quest’ultimo ad una composizione della vicenda fallimentare in termini tendenzialmente favorevoli alla possibilità di reintroduzione nel mercato economico, di talché è sotteso un corrispondente nuovo
(43) La soluzione seguita nel testo non ha sicuri addentellati dottrinari e men che meno
giurisprudenziali. Invero, ritenuta l’ammissibilità della fusione, non tutti sono d’accordo sul
procedimento e sulle competenze degli organi coinvolti. Esclude, ad esempio, la traslazione
del potere deliberativo dei soci agli organi fallimentari Guerrera, op. cit., pag. 36 – in tal
senso sembra anche Di Sarli, op. cit., pag. 460 – mentre proprio quest’ultimo esclude anche
che vi sia una concomitante competenza oppure obbligo di collaborazione degli amministratori, essendosi oramai il curatore appropriato dell’amministrazione del patrimonio del fallito.
A ritenere che i soci conservino il diritto di deliberazione sulla fusione si dovrebbe concludere, rispetto a coloro che non abbiano condiviso o consentito l’operazione:
a) nel caso di soc. a resp. lim., che la previsione dell’art. 2473 cod. civ. consente il recesso
in ragione del carattere personale della partecipazione;
b) nel caso di soc. per az. e di soc. acc. per az., che non sia consentito il recesso, salvo che
si tratti di fusione «eterogenea» o si riconduca la fusione ad una fattispecie di «modificazione
dello statuto concernente il diritto di voto o di partecipazione» (ex art. 2437 lett. g) – G.
Laurini, Manuale breve della s.r.l. e delle operazioni straordinarie, Padova, 2004, 126.
(44) A tal riguardo è stato efficacemente sostenuto, ad integrazione degli elementi sopra
esposti, come nel concetto di «operazioni straordinarie» di cui all’art. 2 lett. d) del D.L. 35/
2005 in tema di concordato preventivo e all’art. 114 lett. c) del D.lgs. 5/2006 in tema di riforma della disciplina del fallimento, può senz’altro includersi la fusione (peraltro espressamente invocata dall’art. 4 bis della legge 39/2004 – c.d. legge Parmalat): M. Di Sarli, op. cit.
(45) Si è ritenuto legittimo anche il recesso del socio in pendenza di fallimento C. Esposito, Brevi note in tema di configurabilità del recesso dalla società da parte del socio fallito, Riv.
not. 2002, 1036. Cfr. Tribunale di Napoli – Giudice del registro delle Imprese (dott. Lipani) 18 luglio 2001, Riv. not., 2001, 1036.
(46) Santagata, La fusione, in Trattato Colombo Portale, Torino 2004.
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Il diritto fallimentare e delle società commerciali
interesse ad una partecipazione attiva e non più meramente contemplativa
dell’iter concorsuale.
In via di prima approssimazione può ora rilevarsi come, in conseguenza
del mutato assetto normativo, sia oggi evidente un maggiore livello d’interferenza del fallito nell’ambito del nuovo procedimento fallimentare. Ora
d’appresso si cercherà di esaminare in che misura questo maggior crogiuolo
di poteri impatti con la governance del fallimento, accennando però, prima
di tutto, al conflitto d’interessi.
IV - I conflitti d’interesse. – Nel fallimento v’è in nuce conflitto tra l’interesse dei creditori all’espropriazione dei beni del debitore e quello di quest’ultimo alla conservazione dei medesimi beni.
Si è già visto come la migliore condizione del fallito in seno alla nuova
procedura amplifichi le ipotesi di possibile conflitto (quantomeno rispetto
al recente passato dove il fallito «subiva» pressoché inerme le conseguenze
della spoliazione).
Ma le situazioni di conflitto che sono fonte di preoccupazione, tanto dal
punto di vista processuale per la virtuale condizione di dilatazione dei tempi
e dei costi, tanto per l’essenza stessa della procedura, sono altre.
È stato posto efficacemente in rilievo (47) come «i possibili conflitti d’interessi dei creditori forti con la generalità dei creditori, allorché la loro posizione divenga «avversaria», e particolarmente in occasione della votazione
su proposte di concordato preventivo e fallimentare, non trovano argini sicuri
nelle nuove norme, nate in un paese in cui vi è scarsa sensibilità per i problemi
di distribuzione del valore».
In questo contesto è ben verosimile che alcune categorie forti di creditori (e segnatamente le banche), caduti i precedenti ostacoli normativi, a
causa della soppressione del requisito della maggioranza per numero dei
creditori, possano orientare unilateralmente l’approvazione di una proposta
di concordato anche quando essa sia sfavorevole per i creditori non garantiti da patrimoni «esterni». Ed è altrettanto verosimile che il fallito, in siffatte ipotesi abbia interessi contrapposti da far valere con gli strumenti di
reazione consentitigli dalla legge.
Di fatto, dunque, anche in questo contesto si percepisce come un’asimmetria nella rilevazione degli interessi in gioco, possa tendenzialmente introdurre ulteriori elementi perturbatori alla corretta enucleazione della governance.
(47) Addirittura da chi si è dimostrato immediatamente favorevole al nuovo sistema L.
Stanghellini, Creditori «forti» e governo della crisi d’impresa nelle nuove procedure concorsuali, in Il Fallimento, IV/2006, pag. 377.
Parte I - Dottrina
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V - Conclusioni. – Si è visto che, la governance nel fallimento è un elemento dinamico che opera secondo criteri non sempre uniformi in relazione a quelle che sono le procedure avanti definite ad «assetto partecipativo
forte» rispetto a quelle ad «assetto partecipativo debole» (48). La variabilità
di partecipazioni, ruoli e funzioni condiziona certo l’enucleazione di criteri
di governance uniformi.
A ciò si aggiunga che sull’assetto suindicato può incidere, in qualche misura ed a completare il quadro, anche il fallito:
— attraverso poteri di reazione agli atti degli organi;
— attraverso l’intervento in singole operazioni, quali la fusione, in via
collaborativa;
— attraverso atti autonomi come nel caso di aumento del capitale, trasferimento di sede sociale, mutamento di soci, di organi sociali, etc.
Il sommario esame che precede consente di affermare che anche la posizione del fallito può avere un peso di rilievo nella governance dell’impresa
fallita; oggi molto più che ieri!
Che questo sia il frutto di un mutato più favorevole atteggiamento sociale ed economico è certamente vero e apprezzabile. Che, però, tutto ciò
evolva positivamente sulla complessiva governance dell’impresa fallita è altamente opinabile.
Si è in premessa evidenziato che uno dei requisiti della governance è la
fiducia negli stakeholder e, precipuamente, nel ceto creditorio, laddove il
merito creditizio assume valore significativo per la buona riuscita dell’impresa economica. Nel fallimento si ha una significativa inversione di tendenza giacché ha poco senso di parlare di merito creditizio: anzi, per antonomasia, in caso di fallimento il merito creditizio è di solito scarso o nullo.
Al di là dei (statisticamente pochi) casi in cui l’insolvenza si è verificata
per specifica incapacità soggettiva (originaria o successiva che sia) dell’imprenditore è evidente che per l’impresa pervenuta al dissesto il merito creditizio è oramai scemato.
Sono certamente non frequenti i casi in cui il ceto creditorio continui a
conservare fiducia in una impresa a condizione che venga rimosso il gestore
/ amministratore / imprenditore.
Di regola, invece, è più frequente l’ipotesi in cui il creditore perda definitivamente fiducia nell’impresa cui ha fatto credito indipendentemente
dalle persone o dagli assetti che essa abbia.
Il fatto che talvolta, ob torto collo, il creditore, in presenza di condizioni
di crisi, sia di fatto costretto a continuare a far credito o ad accettare una
(48) C. Esposito, Il comitato dei creditori: la necessità dell’accettazione della carica ai fini
della composizione di un organo non necessario, op. cit., 113.
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Il diritto fallimentare e delle società commerciali
ricontrattazione dei patti originari al fine di non vedere definitivamente
compromessi i crediti a suo tempo fatti, non significa necessariamente
che il creditore nutra ancora fiducia in quell’attività d’impresa, ben potendo
semplicemente significare che il creditore ha effettuato delle scelte di campo per evitare di veder immediatamente disperso il proprio credito.
In chiave fallimentare, perciò, è ben difficile che il concetto di corretta
governance possa coincidere con quello tipicamente adottato per le imprese
in bonis (o, quantomeno, non si può ritenere che tale concetto costituisca
una «costante» per la definizione della governance fallimentare). E, tuttavia,
per poter comprendere qual è il «faro» cui dovrebbe dirigersi ogni ricerca
seria del senso di una procedura concorsuale cosı̀ impegnativa, è certamente da indagare quale sia la struttura della corporate governance fallimentare.
Se per corporate governance si indicano le regole e i processi con cui si
prendono le decisioni in una società e si fornisce anche la struttura con cui
vengono decisi gli obiettivi aziendali, nonché i mezzi per il raggiungimento
e la misurazione dei risultati raggiunti, nella procedura fallimentare questi
elementi dovrebbero tradursi in un complesso di principi e precetti coordinati per la soddisfazione di obiettivi coerenti.
Si è già visto nelle scorse pagine come una partecipazione allargata al
procedimento ha comportato un’amplificazione di ruoli e competenze, depositarie non sempre di esigenze omogenee, al punto che una certa tendenziale conflittualità dovuta al ruolo di plurimi interlocutori (creditori portatori di interessi diversi, creditori di «classi» diverse, creditori e debitore fallito, creditori / curatore e fallito) ben potrà comportare una moltiplicazione
di subprocedimenti e tensioni; con quali «costi» (in termini economici e di
tempo) è agevole percepire, ove si tenga conto che già le procedure del vecchio sistema erano tacciate di eccessiva lungaggine e scarsa remuneratività
per i creditori.
In un’impresa in bonis è pur sempre possibile enucleare principi e criteri rispetto ad interessi che in qualche misura sono tutti coordinati in senso
univoco verso la riuscita della «scommessa» economica iniziale – sia pur tenuto conto della complessità di ruoli e competenza dei vari soggetti chiamati a parteciparvi. Nelle procedure fallimentari v’è talmente tanta disomogeneità d’interessi e di procedimenti che appare concretamente difficile predeterminare fondamenti univoci.
Pertanto, risulta estremamente complesso applicare i principi ordinari
della governance al sistema fallimentare: tantoppiù che mentre per le imprese in vita esistono degli assetti determinati da norme di legge e di statuto, in
grado di prefigurare anticipatamente le regole di carattere generale destinate a soddisfare le esigenze di gestione, nel fallimento prima si ha uno spossessamento tendenzialmente completo del patrimonio dell’imprenditore,
poi si ha una determinazione degli obiettivi (mediante il piano di liquidazione, cui è partecipe il c.d.c. ed il tribunale, nella persona del G.D.), infine si
Parte I - Dottrina
95
ha una gestione in cui i portatori di interesse qualificato sono eterogenei e
spesso in tendenziale posizione di conflitto.
Appare allora necessario riconsiderare principi e regole di funzionamento onde stabilire, con sufficiente approssimazione, se un sistema di
tal fatta sia riconducibile a principi omogenei e coordinabili; successivamente, in caso d’insuccesso di tale approccio, verificare la permanente utilità e compatibilità di un sistema concorsuale, allargato alla partecipazione
di tanti interlocutori e da interessi centripeti.
Come è stato efficacemente dimostrato da chi si è peritato di esaminare
il passato, la legislazione attuale, in realtà, riecheggia lo spirito del sistema
del diritto fallimentare negli Stati Sardi (ma il discorso sarebbe uguale
per gli altri Stati preunitari e poi anche per lo Stato unitario, fino al primo
scorcio del Novecento) (49). Salvo per il fatto che in quei sistemi era addirittura il debitore a richiedere, nella gran parte dei casi, il proprio fallimento, la dinamica di quei procedimenti evidenziava che l’insolvenza era «affare» che riguardava il rapporto debitore / creditore; è soltanto con la legislazione del 1930 che si ha una inversione di tendenza in senso dirigistico, laddove, la volontà dello Stato si sovrappone alla volontà negoziale degli interessati.
L’ordinamento previgente era dunque cosa che atteneva soprattutto all’interesse privato dei creditori mentre la legislazione del 1930 e quella del
1942 hanno mutato il tradizionale modo di sentire: se la legge del 1930 aveva sottratto ai creditori la nomina del curatore, la legge del 1942 ha sottratto
loro anche la nomina del comitato. Di fatto i due sistemi stratificati tra loro
(del 1930 e 1942) hanno imposto, non senza ragionevolezza, una visione
autoritativa del procedimento, sottraendo sostanzialmente dalla liquidazione del patrimonio del fallito ogni altra voce efficace (50).
Nel nuovo sistema, invece, riportando il controllo dell’autorità nell’alveo giurisdizionale che le è proprio si è affermato che il curatore ed il comitato dei creditori, oltre ad aver rafforzato la loro autonomia, costituiscano
organi, più che della procedura, dell’impresa insolvente, insieme con il fallito (o con gli amministratori della società fallita) (51).
In questo contesto, che peraltro vede contestualmente scemare o addi-
(49) G. Cabras, op. cit.
(50) Osserva criticamente il Cabras, op. cit., «Il risultato di questa scelta è che in Italia
l’interesse pubblico fa da padrone sulla gestione delle crisi di impresa; in particolare, è sospeso,
per l’intera durata (invero, sempre più lunga) delle procedure concorsuali, il principio di autonomia privata. In tal modo, però, i conflitti tra debitore insolvente e creditori, anziché essere
composti e risolti efficacemente, sono definiti in modo autoritario, senza dar voce, non solo
al debitore, ma neppure ai creditori».
(51) Cabras, op. cit.
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Il diritto fallimentare e delle società commerciali
rittura annullarsi le conseguenze di carattere personali sulla persona del fallito, allora, si può preliminarmente condividere un’affermazione di Guido
Rossi che descrive il nuovo modello come «premiale» per l’imprenditore insolvente. Di fatto, l’abolizione delle sanzioni personali ed una valorizzazione
degli interessi precipui del fallito, può far sostenere che vi sia una elevazione
del ruolo di esso all’interno della procedura sino al punto da porlo quasi
sullo stesso piano dei creditori concorrenti (52).
Tra gli elementi più significativi di questo nuovo ruolo, in particolare, il
fallito può presentare osservazioni scritte al progetto di stato passivo (art.
95, 2º comma). Inoltre, il fallito va sentito, quando il fallimento si chiude
per la previsione di un insufficiente realizzo dell’attivo, senza effettuare la
verifica dei crediti (nuovo art. 102).
Il fallito ha diritto, altresı̀, di chiedere al giudice delegato di sospendere
per gravi motivi operazioni di vendita di beni, ovvero di impedirne il perfezionamento, se il prezzo offerto è notevolmente inferiore a quello giusto
(nuovo art. 108); di più può chiedere la sospensione della liquidazione dell’attivo nell’ambito del reclamo ex art. 18 legge fallim.
Acquista una valenza nuova anche la possibilità che il curatore si avvalga della collaborazione del fallito come coadiutore (art. 32).
Infine, la tesi favorevole alla legittimità della nuova attività d’impresa
del fallito pone certamente qualche problema pratico nelle ipotesi (verosimilmente non infrequenti) in cui debba accertarsi se i beni siano stati illecitamente arenati dall’impresa fallita sottraendolo allo spossessamento di
cui all’art. 42, 2º comma, consentendo la produzione di utilità che andrebbero attratte alla massa ex art. 44 L.F.
In definitiva, il fallito, pur privato del potere di disporre dei propri beni
e di amministrare l’impresa, non è più totalmente estraniato da essa; egli è
perciò responsabilizzato per collaborare e ricercare modi e forme per riallocare le risorse produttive, a vantaggio dei creditori e, in generale, del mercato. Ciò consente, non solo di considerare il fallito pienamente partecipe
circa la sorte della sua impresa, ma anche di riconoscergli poteri che non
intacchino il soddisfacimento dei creditori (53).
Detta in altri termini si può adombrare che il riporto del fallimento nell’ottica «preunitaria» dell’interesse dei creditori ed una maggiore valorizza-
(52) Sintomi di tale impostazione sono già presenti nella fase prefallimentare, laddove, ai
maggiori poteri defensionali attribuiti, sono riconosciute competenze e attitudini per l’eventuale fase di emissione delle misure cautelari, al punto che, una cogestione dell’azienda (il cui
nucleo riecheggia il troppo frettolosamente dismesso istituto dell’amministrazione controllata), si caratterizza proprio come ipotesi di valorizzazione di ambo i contrapposti interessi in
gioco.
(53) Cabras, op. cit.
Parte I - Dottrina
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zione della posizione del fallito, impone di riconsiderare la governance in
termini molto diversi da quelli in precedenza affermati. Il dualismo curatore
= amministratore / comitato dei creditori = sindaci non risolve l’intero assetto degli interessi che si volevano valorizzare. Basti ricordare, alla luce di
quanto sopra osservato, che anche il fallito, singoli componenti o gruppi di
creditori hanno compiti di controllo, proposta, impugnativa, etc. (sia pure
in certi casi limitati a singole operazioni) per alterare notevolmente la valenza del binomio sopra indicato.
Se per un verso è vero che la strutturazione delle funzioni del curatore e
del c.d.c. implica una professionalizzazione dell’incarico, con il conseguente
maggior rigore in tema di responsabilità, accentuandosi, per tal profilo, una
visione privatistica della procedura, nella quale sono valorizzati non più soltanto i valori pubblicistici ma soprattutto gli interessi dei creditori concorsuali quelli dell’impresa fallita e del fallito medesimo, non sembra altrettanto vero che in quei due organi (o in queste due funzioni) si risolve l’intero
assetto della governance del fallimento.
L’asset è allora determinato da un combinato mix di professionalità,
competenze, autorità e interlocutori i cui compiti sono ripartiti per ruoli anziché per funzioni, le cui attribuzioni sono predefinite dalla legge come limite esterno di competenza ma il cui contenuto va ricercato e riempito volta
per volta. Mentre per l’impresa in bonis la «costante» della ricerca del profitto costituisce il «faro» intorno a cui ruota l’intero assetto della governance, nel fallimento, se non per la costante dell’impossessamento del patrimonio del fallito, i componenti della governance e gli altri interessati possono
avere ruoli e partecipazioni asincroni, sicché non sembra che si possa rinvenire una direttiva di governance unitaria e standardizzata.
VI - Corollario alle conclusioni. - Il costo della procedura. – Se una procedura tendenzialmente più complessa ed articolata comporta la valorizzazione di maggiori interessi rispetto al passato, al punto che riesce difficile
trarre delle conclusioni univoche in termini di governance, occorre, da ultimo, interrogarsi sulla reale utilità di procedure cosı̀ complesse e con elevato rischio di conflittualità interne, dai costi certamente elevati e con prospettive di monetizzazione incerte.
In realtà, a fronte di procedure che importano certamente una maggiore
e più democratica partecipazione alla gestione del fallimento, a fronte di un
tendenziale allargamento del regime delle impugnazione, della devoluzione
di ogni impugnativa ad un organo diverso da quello che ha deciso il provvedimento impugnato (con ovvia dispersione, in ogni fase, di quel know
how conoscitivo «non scritto» che prima era patrimonio del giudice delegato), alla moltiplicazione degli avvisi e delle comunicazione del procedimento, alla possibilità di ottenere sospensive di atti emessi, alla remunerazione
istituzionalizzata dei membri del c.d.c., dovrebbe corrispondere un deciso
98
Il diritto fallimentare e delle società commerciali
miglioramento della «resa» della procedura in termini di costi, obiettivi e
tempi.
Non avrebbe altrimenti senso una novellazione che non tentasse di perseguire questi obiettivi. D’altra parte anche una semplice scorsa della relazione governativa al testo di legge, i lavori preparatori e la delega erano certamente informati (anche) da questi principi.
Si è sostenuto in altra sede (54) come le medie nazionali evidenziano
12.000/13.000 dichiarazioni di fallimento all’anno, con pagamenti del
12% per i creditori chirografari e una durata media di sette anni circa. Questo ovviamente scoraggia in particolar modo, gli investitori esteri; siamo di
fronte ad una delle ragioni più significative che spiegano come mai gli investimenti esteri non riescano a superare la soglia del 5% rispetto al totale degli investimenti effettuati nel nostro Paese. Le ragioni per cui i diritti dei
creditori e quindi i diritti e la difesa del credito, ingessato nelle procedure,
non riescono ad ottenere risposte più soddisfacenti, specie se paragonate ai
risultati che si ottengono in altri Paesi (55). È noto che la legge del 1942 è
stata promulgata come risposta a problemi di carattere sociale, di stabilità
occupazionale e di sicurezza, i quali conseguentemente, sono riusciti, talvolta, a prevalere sulla logica prettamente economica che dovrebbe governare
la capacità di stare sul mercato delle imprese; la loro competitività è stata
piegata ad esigenze di taglio diverso.
Tuttavia, a fronte di un sostanziale insuccesso «reddituale» del sistema
previgente occorre anche ricordare come una parte della dottrina «aziendalistica» aveva messo seriamente in discussione la stessa validità dell’istituto
del fallimento (56).
Si è posto in evidenza come nelle legislazioni occidentali il fallimento
tenda a rientrare tra gli strumenti dell’intervento pubblico nell’economia
in quanto i legislatori dei vari paesi sembrano essere convinti che spetti alle
autorità pubbliche affiancare al controllo decentrato dei creditori sulle imprese un controllo centralizzato. La disciplina della crisi d’impresa ripropone cosı̀ sotto altre vesti il dibattito sulla possibilità e l’utilità di introdurre
elementi di dirigismo in un’economia di mercato. Il problema è di decidere
se l’intervento pubblico debba essere sostitutivo o integrativo dell’attività
dei privati: «Ancor prima che Ronald Coase contestasse l’interpretazione tradizionale del ruolo dell’intervento pubblico rispetto ai fallimenti del mercato,
già Friedrik Hayek sottolineava la necessità di distinguere «tra una struttura
(54) E. Forgillo, Il ruolo del curatore fallimentare nella riforma, cit.
(55) Ghia, Gli obiettivi della Guida Legislativa sull’Insolvenza dell’UNCITRAL, Il Fall.
11/2005.
(56) Per un’ampia carrellata delle principali tesi sull’argomento P. Santella, Valutazione economica del fallimento, 2000.
Parte I - Dottrina
99
normativa volta a fornire i necessari incentivi perché l’iniziativa dei singoli risponda ad ogni cambiamento e un sistema nel quale tali adattamenti sono forniti da un organismo amministrativo».
Anche se potrebbe apparire decisamente forte la conclusione di chi sostiene che col nuovo sistema «svanisce l’interesse pubblico, da riconoscere
soltanto per l’esistere del sistema delle procedure concorsuali e per l’affidamento di funzioni di alta vigilanza all’autorità giudiziaria. Gli interessi che
devono orientare la gestione e del controllo sono interessi assolutamente privati e, più precisamente, particolari: dei creditori e dell’impresa fallita» (57),
non si può nascondere che tale assunto abbia un concreto contenuto.
Se, allora, le vecchie procedure erano scarsamente appaganti per i creditori, inutilmente dissolutorie del patrimonio aziendale e ingiustamente
punitive per i falliti, si dovrebbe oggi pensare che attraverso una combinazione eterogenea di soggetti ed elementi, da effettuare di fatto caso per caso, sia possibile strutturare, precipuamente (ma non solo) attraverso il «piano di liquidazione» una efficace governance del fallimento in grado di eliminare o anche solo ridurre gli inconvenienti del passato. Si dovrebbe, in sintesi, ipotizzare che attraverso questo mix di ruoli, funzioni e competenze,
nel rispetto di diritti e interessi, di ciascuno, in un contesto di maggiori poteri / doveri, con più ampia conflittualità consentita, sia possibile ricercare:
— una maggiore soddisfazione dei creditori;
— una tempistica più contenuta;
— minori aggravi per il fallito.
La scommessa appare decisamente ardita. A fronte del moltiplicarsi dei
players, dei sistemi di contestazione, dei possibili ostacoli e delle sospensioni
di procedimenti, non sembra far efficacemente da contraltare la trattazione
in camera di consiglio dei molteplici procedimenti possibili. È certo che,
quantomeno statisticamente, all’amplificazione di interlocutori, procedimenti e interessi, corrisponde un tendenziale aumento del conflitto endofallimentare, sicché è difficilmente diagnosticabile una contrazione delle tempistiche in mancanza di strumenti efficaci di miglioramento del sistema.
Alle stesse condizioni è anche difficile prevedere una migliore distribuzione per i creditori concorrenti giacché anche in questo caso, a fronte del
moltiplicarsi degli eventi e dei players e quantomeno statisticamente probabile che si moltiplichino i costi prededucibili di procedura nel loro complesso, sicché solo a condizione di una (per ora) indimostrata migliore capacità
liquidatoria potrebbe sostenersi l’efficacia del nuovo sistema (pur a fronte
di maggiori costi).
In quest’ottica realista la previsione del legislatore appare ricca d’inco-
(57) Cabras, op. cit.
100
Il diritto fallimentare e delle società commerciali
gnite: in particolare nel momento in cui il medesimo legislatore, risvegliandosi da un atavico sopore, ha finalmente contribuito a migliorare il sistema
delle vendite forzate, prevedendo norme e regole di concreta efficienza, al
punto che ci potrebbe interrogare sull’effettiva perdurante utilità del sistema del fallimento (pur essendo indubbia l’utilità degli altri istituti concorsuali).
D’altra parte, è vero che il fallimento attuale è disegnato per imprese
non piccole (ex art. 1 e 15 u.c. legge fallim.) ed è altrettanto vero che per
le imprese di maggiori dimensioni interviene l’amministrazione straordinaria – caratterizzata oggi da notevoli semplificazioni; se, quindi, verso il basso
il legislatore ha eliminato del tutto la fallibilità e verso l’alto ha realizzato
procedure un po’ più duttili, sorge legittimo il dubbio che le complesse procedure che riguardano imprese del livello intermedio possano essere realmente efficaci, soddisfacenti e satisfative.
Analogamente, se è «nozione elementare che il termine fallire derivi etimologicamente da «fallare» (con il suo intenso significato che è ingannare)
e che tradizionalmente si riteneva decoctor ergo fraudator» (58), la mutata
posizione del fallito nel contesto dovrebbe addirittura indurre il legislatore
oramai a definire diversamente l’imprenditore insolvente.
(58) Per questa notazione v. D. Mazzocca, op. cit.
DECORRENZA DEGLI EFFETTI
DELLA DICHIARAZIONE DI FALLIMENTO
ED ISCRIZIONE NEL REGISTRO DELLE IMPRESE (*)
di
Rosa Pezzullo (**)
Il D.Lgvo n. 5/2006, nel modificare significativamente la disciplina delle
procedure concorsuali, ha «razionalizzato» il sistema della decorrenza degli
effetti scaturenti dalla sentenza dichiarativa di fallimento, anche sulla spinta
delle diverse pronunce della S.C. e della Corte Costituzionale avutesi in relazione all’originario impianto di cui al R.D. n. 267/42. In tale opera di razionalizzazione, il legislatore, nel contempo, ha tenuto conto dell’importanza del ruolo che è venuto assumendo nel corso degli anni il registro delle
imprese, previsto dall’art. 2188 cod. civ., istituito con la legge 29 dicembre
1993 n. 580 ed operante presso ciascuna Camera di Commercio, Industria,
Artigianato e Agricoltura dal 19 febbraio 1996, a seguito dell’entrata in vigore del D.P.R. 581/1995. (1)
Per illustrare le novità introdotte dal D.Lgvo n. 5/2006, con riguardo
alla produzione degli effetti della sentenza dichiarativa di fallimento, occorre senz’altro prendere le mosse dal disposto degli artt. 16, 17 e 18 della novellata legge fallimentare.
L’art. 16, relativo alla sentenza dichiarativa di fallimento e specificamente al suo contenuto, per la parte che interessa, risulta mutato dal citato
D.Lgvo, mediante, la soppressione del comma 4º (circa la cattura del fallito)
e la modifica del comma 3º (secondo cui la sentenza è provvisoriamente esecutiva) nei seguenti termini: «La sentenza produce i suoi effetti dalla data della pubblicazione ai sensi dell’articolo 133, comma 1, del codice di procedura
(*) Testo dell’intervento al Convegno tenuto presso la Camera di Commercio di Napoli
in data 3 dicembre 2007 su: «Assetto pubblicistico delle procedure concorsuali nel nuovo
ruolo del registro delle imprese».
(**) Giudice del Tribunale di Napoli.
102
Il diritto fallimentare e delle società commerciali
civile. Gli effetti nei riguardi dei terzi si producono dalla data di iscrizione della sentenza nel registro delle imprese ai sensi dell’articolo 17, comma 2».
Il testo dell’art. 16, in vigore dal 1º gennaio 2008 – riguardante le sentenze dichiarative di fallimento emesse a partire da tale data – come modificato
dal D.Lgvo n. 169/2007, non risulta nella sostanza mutato, avendo il novello
legislatore provveduto solo a rendere più agevole la lettura dell’articolo in
questione, con qualche aggiustamento (cfr. la previsione dell’ulteriore termine perentorio sino a 180 giorni dalla pubblicazione della sentenza per l’adunanza dei creditori in caso di particolare complessità della procedura) (1).
L’art. 17, relativo alla comunicazione e pubblicazione della sentenza dichiarativa di fallimento, che risulta integralmente sostituito dal D.Lgvo n. 5/
2006 prevede, tra l’altro, che «entro il giorno successivo al deposito in cancelleria, la sentenza che dichiara il fallimento e’ notificata, su richiesta del cancelliere, ai sensi dell’articolo 137 del codice di procedura civile al debitore,
eventualmente presso il domicilio eletto nel corso del procedimento previsto
dall’articolo 15, ed è comunicata per estratto, ai sensi dell’articolo 136 del codice di procedura civile, al curatore ed al richiedente il fallimento. L’estratto
deve contenere il nome del debitore, il nome del curatore, il dispositivo e la
data del deposito della sentenza La sentenza è altresı̀ annotata presso l’ufficio
del registro delle imprese ove l’imprenditore ha la sede legale e, se questa differisce dalla sede effettiva, anche presso quello corrispondente al luogo ove la
procedura è stata aperta. A tale fine, il cancelliere, entro il termine di cui al
comma 1, trasmette, anche per via telematica, l’estratto della sentenza all’ufficio del registro delle imprese indicato nel comma precedente» (2).
(1) L’art. 16, nel testo in vigore dal 1º gennaio 2008, prevede, sotto la rubrica (Sentenza
dichiarativa di fallimento) che:
– Il tribunale dichiara il fallimento con sentenza, con la quale:
– 1) nomina il giudice delegato per la procedura;
– 2) nomina il curatore;
– 3) ordina al fallito il deposito dei bilanci e delle scritture contabili e fiscali obbligatorie,
nonché dell’elenco dei creditori, entro tre giorni, se non è stato ancora eseguito a norma dell’articolo 14;
– 4) stabilisce il luogo, il giorno e l’ora dell’adunanza in cui si procederà all’esame dello
stato passivo, entro il termine perentorio di non oltre centoventi giorni dal deposito della sentenza, ovvero centottanta giorni in caso di particolare complessità della procedura; 5) assegna
ai creditori e ai terzi, che vantano diritti reali o personali su cose in possesso del fallito, il termine perentorio di trenta giorni prima dell’adunanza di cui al numero 4 per la presentazione
in cancelleria delle domande di insinuazione. La sentenza produce i suoi effetti dalla data della pubblicazione ai sensi dell’articolo 133, comma 1, del codice di procedura civile. Gli effetti
nei riguardi dei terzi si producono dalla data di iscrizione della sentenza nel registro delle imprese ai sensi dell’articolo 17, comma 2».
(2) Il D.Lgvo n. 169/2007 non ha modificato l’art. 17, se non per l’aggiunta del pubblico
ministero tra i destinatari della notificazione della sentenza dichiarativa di fallimento.
Parte I - Dottrina
103
L’art. 18, infine, prevede, tra l’altro, che «contro la sentenza che dichiara
il fallimento può essere proposto appello dal debitore e da qualunque interessato con ricorso da depositarsi entro trenta giorni presso la corte d’appello» e
che «il termine per proporlo ‘‘decorre per il debitore dalla data della notificazione della sentenza a norma dell’articolo 17 e, per tutti gli altri interessati,
dalla data della iscrizione nel registro delle imprese, ai sensi del medesimo articolo’’».
Dal 1º gennaio 2008 il rimedio previsto avverso la sentenza dichiarativa
di fallimento non sarà più l’appello, bensı̀ «il reclamo» del fallito e di qualunque interessato, con ricorso da depositarsi nella cancelleria della corte
d’appello nel termine perentorio di trenta giorni. Resta ferma la previsione
che il termine per il «reclamo» decorre per il debitore dalla data della notificazione della sentenza a norma dell’articolo 17 e per tutti gli altri interessati
dalla data della iscrizione nel registro delle imprese ai sensi del medesimo articolo (3).
(3) «Art. 18 (Reclamo). – Contro la sentenza che dichiara il fallimento può essere proposto reclamo dal debitore e da qualunque interessato con ricorso da depositarsi nella cancelleria della corte d’appello nel termine perentorio di trenta giorni. Il ricorso deve contenere:
1) l’indicazione della corte d’appello competente;
2) le generalità dell’impugnante e l’elezione del domicilio nel comune in cui ha sede la
corte d’appello;
3) l’esposizione dei fatti e degli elementi di diritto su cui si basa l’impugnazione, con le
relative conclusioni;
4) l’indicazione dei mezzi di prova di cui il ricorrente intende avvalersi e dei documenti
prodotti.
Il reclamo non sospende gli effetti della sentenza impugnata, salvo quanto previsto dall’articolo 19, comma 1.
Il termine per il reclamo decorre per il debitore dalla data della notificazione della sentenza
a norma dell’articolo 17 e per tutti gli altri interessati dalla data della iscrizione nel registro delle
imprese ai sensi del medesimo articolo. In ogni caso, si applica la disposizione di cui all’articolo
327, comma 1, del codice di procedura civile.
Il presidente, nei cinque giorni successivi al deposito del ricorso, designa il relatore, e
fissa con decreto l’udienza di comparizione entro sessanta giorni dal deposito del ricorso.
Il ricorso, unitamente al decreto di fissazione dell’udienza, deve essere notificato, a cura del
reclamante, al curatore e alle altre parti entro dieci giorni dalla comunicazione del decreto.
Tra la data della notificazione e quella dell’udienza deve intercorrere un termine non minore di trenta giorni. Le parti resistenti devono costituirsi almeno dieci giorni prima della
udienza, eleggendo il domicilio nel comune in cui ha sede la corte d’appello.
La costituzione si effettua mediante il deposito in cancelleria di una memoria contenente
l’esposizione delle difese in fatto e in diritto, nonché l’indicazione dei mezzi di prova e dei
documenti prodotti.
L’intervento di qualunque interessato non può avere luogo oltre il termine stabilito per la
costituzione delle parti resistenti con le modalità per queste previste.
All’udienza, il collegio, sentite le parti, assume, anche d’ufficio, nel rispetto del contraddittorio, tutti i mezzi di prova che ritiene necessari, eventualmente delegando un suo componente.
104
Il diritto fallimentare e delle società commerciali
Dalla lettura congiunta degli artt. 16, 17, 18 legge fallim., si ricava innanzitutto il ruolo importantissimo che il legislatore ha inteso attribuire all’iscrizione presso il registro delle imprese della sentenza di fallimento: quello della decorrenza degli effetti nei confronti dei terzi.
Prima della riforma, l’art. 17 prevedeva la comunicazione da parte del
Cancelliere, entro il giorno successivo alla pubblicazione della sentenza, dell’estratto di essa anche al registro delle imprese per l’iscrizione, da farsi non
oltre il giorno successivo al ricevimento, ma a tale iscrizione non era connesso alcun effetto, se non quello cd. di una mera pubblicità notizia.
Il novello legislatore, attraverso l’iscrizione della sentenza di fallimento,
ha, invece, inteso finalmente «disciplinare» – ed a mio avviso «equilibrare»
– il sistema degli effetti della sentenza dichiarativa di fallimento, in passato
fonte di ingiustizie, specie nei confronti dei terzi, e di interpretazioni ambigue, scaturenti dalle diverse previsioni relative alla decorrenza degli stessi:
dalla pubblicazione della sentenza di fallimento, dalla affissione dell’estratto
della sentenza alla porta del Tribunale (previsione questa dichiarata incostituzionale, con sent. n. 151/80, quanto agli effetti per il fallito (4)) e dalla comunicazione della sentenza medesima.
In un sistema, indubbiamente poco chiaro, la S.C. e la Corte Costituzionale, più volte intervenute sulla questione del momento della produzione
degli effetti della sentenza dichiarativa di fallimento avevano puntualizzato,
nel corso degli anni, tra l’altro: che gli effetti sostanziali della sentenza dichiarativa di fallimento decorrono dalla data del deposito della sentenza,
ai sensi dell’art. 133 cod. proc. civ., e non da quella della sua pronuncia
in camera di consiglio, né dall’adempimento delle ulteriori forme di pubblicità previste dall’art. 17 legge fallim. (cfr. Cassazione civile, sez. I, 7 luglio
1981, n. 4434); che, in particolare, la data della dichiarazione di fallimento,
quale «dies a quo» – ai sensi dell’art. 43 r.d. 16 marzo 1942 n. 267 – del
verificarsi della perdita di capacità processuale del fallito, si identifica nel
La corte provvede sul ricorso con sentenza.
La sentenza che revoca il fallimento è notificata, a cura della cancelleria, al curatore, al
creditore che ha chiesto il fallimento e al debitore, se non reclamante, e deve essere pubblicata a norma dell’articolo 17.
La sentenza che rigetta il reclamo è notificata al reclamante a cura della cancelleria.
Il termine per proporre il ricorso per cassazione è di trenta giorni dalla notificazione.
Se il fallimento è revocato, restano salvi gli effetti degli atti legalmente compiuti dagli
organi della procedura.
Le spese della procedura ed il compenso al curatore sono liquidati dal tribunale, su relazione del giudice delegato, con decreto reclamabile ai sensi dell’articolo 26».
(4) «È illegittimo, per violazione dell’art. 24, comma 2 cost., l’art. 18 comma 1 r.d. 16 marzo 1942 n. 267, nella parte in cui prevede che il termine di quindici giorni per fare opposizione
decorra per il debitore dall’affissione della sentenza che ne dichiara il fallimento» (cfr. Corte
Cost. n. 151/80).
Parte I - Dottrina
105
giorno in cui la sentenza dichiarativa di fallimento viene, appunto, depositata in cancelleria (cfr. Cassazione 8616/92) e che tutti gli atti compiuti dal
fallito dopo il deposito della sentenza dichiarativa di fallimento sono inefficaci rispetto ai creditori, indipendentemente dal compimento delle formalità previste dall’art. 17 legge fallim., o dalla conoscenza della dichiarazione
da parte di terzi di buona fede, destinatari degli atti di disposizione del fallito (cfr. 4434/81); che non è fondata la questione di legittimità costituzionale degli art. 17, 42 e 44 legge fallim., in relazione all’art. 24 cost., nella
parte in cui non prevedono che gli effetti del fallimento per il terzo in buona fede – che abbia contrattato per o con il fallito – decorrano dall’affissione della sentenza dichiarativa di fallimento e non dalla sua pubblicazione
(cfr. Corte Cost. n. 228/2005) e che non è fondata – in riferimento all’art.
3 cost. – la q.l.c. dell’art. 44 legge fallim., nella parte in cui non esclude che
gli effetti del fallimento – quanto meno nel periodo intercorrente tra la pubblicazione e l’affissione della relativa sentenza – si riflettano sui terzi che, in
buona fede siano stati destinatari degli atti compiuti dal fallito o autori di
pagamenti ricevuti dallo stesso (cfr. Corte Cost. n. 234/98).
La riforma, nel tenere conto, come detto, delle problematiche e delle
pronunce susseguitesi nel corso degli anni, ha quindi: 1) confermato il dato
che il fallimento produce effetti nei confronti del fallito dal momento della
pubblicazione della sentenza di fallimento, privando il predetto dell’amministrazione e della disponibilità dei suoi beni esistenti alla data di dichiarazione del fallimento, ai sensi del disposto di cui all’art. 42 legge fallim.; 2)
previsto, comunque, per il fallito, che il termine per impugnare la sentenza
dichiarativa di fallimento decorra dalla notificazione della sentenza di fallimento (notificazione del testo integrale), al fine di consentire da parte dello stesso un compiuto espletamento del diritto di difesa, conoscendo esattamente le motivazioni in relazione alle quali è stato dichiarato il suo fallimento; 3) previsto, come detto, che nei confronti dei terzi, invece, gli effetti del fallimento decorrano dalla iscrizione della sentenza nel registro
delle imprese.
La riforma, pertanto, con tale ultima previsione, riconduce il «sistema
degli effetti nei confronti dei terzi» in ambito fallimentare alla previsione
di carattere generale di cui all’art. 2193 cod. civ., relativo all’efficacia dell’iscrizione, secondo cui, i fatti dei quali la legge prescrive l’iscrizione, se non
sono stati, appunto,iscritti, non possono essere opposti ai terzi, a meno che
non si provi che i terzi ne abbiano avuto conoscenza (cd. pubblicità dichiarativa, valida per rendere opponibile un atto ai terzi).
Con riguardo ai casi come quello in esame, la pubblicità suole definirsi
«pubblicità dichiarativa», in quanto, dal momento dell’iscrizione, l’atto o il
fatto del quale è stata data pubblicità è opponibile al terzo, indipendentemente dalla circostanza che i terzi ne abbiano avuto effettiva conoscenza.
Si è osservato, che la nuova previsione dell’art. 17 è finalizzata, attraver-
106
Il diritto fallimentare e delle società commerciali
so il richiamo allo strumento pubblicitario, ad istituire, in favore dei soggetti rimasti estranei all’istruttoria prefallimentare, una clausola di tutela nel caso in cui siano stati destinatari (legalmente ignari) di atti compiuti dal fallito
tra la data di deposito (e di conseguente efficacia) della sentenza dichiarativa
di fallimento e quella di pubblicazione della stessa nel registro delle imprese (5). I pagamenti, quindi, effettuati dal fallito prima dell’iscrizione non potranno ritenersi inefficaci (6), ai sensi dell’art. 44/2, ma potranno essere assoggettati solo a revocatoria, qualora ne ricorrano i presupposti (7).
Si è evidenziato, tuttavia, che, sebbene l’iscrizione della sentenza nel Registro delle imprese sia il momento oltre il quale nessun terzo può dichiararsi
ignaro del fallimento, ciò non inibisce gli effetti derivanti da altre forme di
legale conoscenza se precedenti all’iscrizione (8) (come ad esempio nel caso
in cui il curatore nominato con la sentenza dichiarativa di fallimento faccia
notificare con urgenza tale sentenza ai terzi) in linea, del resto, con quanto
previsto dall’art. 2193/1 cod. civ.
Venendo ad analizzare nel dettaglio le modalità della iscrizione/annotazione della sentenza dichiarativa di fallimento nel registro delle imprese
(l’art. 16 parla, infatti, di iscrizione della sentenza, laddove l’art. 17 parla
di annotazione e l’art. 18 di nuovo di iscrizione, ma sulla questione ci si soffermerà oltre), si rileva, innanzitutto, che l’attività di impulso per l’annotazione della sentenza è demandata, come del resto accadeva anche prima
della riforma, al Cancelliere, il quale, nel rispetto del termine di cui al comma 1 dell’art. 17 legge fallim. (ossia entro il giorno successivo al deposito in
cancelleria della sentenza), «trasmette anche per via telematica l’estratto della
sentenza all’ufficio del registro delle imprese».
Si noterà subito che la norma non prevede un termine nel quale, a sua
volta, l’Ufficio del Registro delle Imprese, ricevuto l’estratto della sentenza
di fallimento, debba provvedere alla iscrizione. Si tratta di una evidente «dimenticanza» del legislatore, la quale, se non si superasse con una attenta lettura del sistema, tale da far ritenere che l’Ufficio del Registro delle Imprese
è tenuto «immediatamente» a provvedere alla iscrizione, potrebbe seriamente vanificare quella «tempestività» delle informazioni che il legislatore
(5) Francesco De Santis in «Il nuovo Diritto fallimentare». Commentario diretto da
Alberto Jorio, Tomo primo, pag. 340.
(6) Mario Montanaro in «La riforma della Legge Fallimentare», a cura di Nigro-Sandulli, Tomo I, pag. 94.
(7) «È illegittimo, per violazione dell’art. 24, comma 2 cost., l’art. 18 comma 1 r.d. 16 marzo 1942 n. 267, nella parte in cui prevede che il termine di quindici giorni per fare opposizione
decorra per il debitore dall’affissione della sentenza che ne dichiara il fallimento» (Corte Cost.
n. 151/80).
(8) Francesco De Santis, op. cit., pag. 341.
Parte I - Dottrina
107
ha avuto senz’altro in mente, quando ha modificato il regime della decorrenza degli effetti nei confronti dei terzi.
La previsione normativa di una pressoché contestuale attività di pubblicazione della sentenza e di impulso da parte del Cancelliere della procedura
per la annotazione della sentenza stessa presso il registro delle imprese (il
tempo di «sfasatura» possibile previsto dalla norma è di appena un giorno),
richiede che alla «trasmissione, anche per via telematica» corrisponda la tempestiva annotazione presso l’Ufficio del registro delle imprese che riceve
l’atto da annotare, e ciò non solo sulla base di una interpretazione logica,
ma anche sulla base degli obblighi di carattere generale gravanti sull’Ufficio
in questione, come previsti dall’art. 11 del D.P.R. n. 581/95, secondo cui:
«l’iscrizione è eseguita senza indugio e, comunque, entro il termine di dieci
giorni dalla data di protocollazione della domanda. Il termine è ridotto alla
metà se la domanda è presentata su supporti informatici».
In tale contesto, dunque, se è pur vero, che il termine di cui all’art. 17/1
legge fallim. non risulta assistito da una sanzione (per quanto riferibile al
Cancelliere, ma per quanto detto, dopo la trasmissione, anche per quanto
riferibile all’Ufficio del Registro delle Imprese) e deve, pertanto, ritenersi
ordinatorio e non perentorio (cfr. in tal senso pure la Cassazione n. 554/
63, in relazione al disposto di cui all’art. 17 nella sua precedente formulazione, secondo cui: «l’osservanza dei termini di cui all’art 17 della legge sulla
disciplina del fallimento, relativi alla comunicazione e pubblicazione della
sentenza dichiarativa di fallimento, non è prescritta a pena di nullità, né tanto
meno costituisce un elemento che attenga all’essenza della sentenza»), è anche vero che il mancato rispetto di tale termine può essere valutato al fine
della responsabilità per i danni derivanti dalla ritardata iscrizione della sentenza nel registro delle imprese e dai conseguenti ritardati effetti della pubblicità (l’iscrizione è prevista come unica forma di pubblicità notizia data al
provvedimento).
Ben vengano, quindi, «accordi» o «protocolli» tra i Tribunali e gli Uffici
del Registro delle Imprese, finalizzati a realizzare, appunto, quella tempestività voluta dal legislatore per l’iscrizione della sentenza, riducendo in misura
strettamente indispensabile, il momento della pubblicazione della sentenza,
rispetto a quello della annotazione della sentenza nel registro delle imprese.
Deve, ancora, evidenziarsi come, dalla lettura congiunta del secondo e
comma terzo dell’art. 17, emerga che, sebbene il legislatore parli di annotazione della sentenza presso il registro delle imprese, in realtà deve aversi riguardo all’estratto della sentenza, posto che il cancelliere trasmette «anche
per via telematica» appunto, «l’estratto della sentenza». Quest’ultimo, poi, ai
sensi del comma 1 del medesimo art. 17, contiene: 1) il nome del debitore;
2) il nome del curatore; 3) il dispositivo; 4) la data di deposito della sentenza (coincidente con la sua pubblicazione ex art. 133 cod. proc. civ., secondo
la precisazione effettuata dall’art. 16 u.c.).
108
Il diritto fallimentare e delle società commerciali
Nella dizione «nome del debitore», si ritiene debba essere ricompresa
anche la sede ed il nome del rappresentante legale, in caso di ente collettivo;
nel «nome del Curatore», anche l’indirizzo, mentre il «dispositivo» è condizionato dalle statuizioni in esso contenute, per cui andranno inseriti, oltre,
ovviamente, alla pronuncia di fallimento, gli ulteriori provvedimenti idonei
ad incidere sui terzi (vedi ad esempio disposizioni ex art. 104 legge fallim.
circa l’esercizio provvisorio dell’impresa), tenuto conto altresı̀ del fatto che
il legislatore del 2006 ha previsto un’applicazione diffusa dell’art. 17; per la
«data», va ribadito che, l’ultima data che ha rilevanza giuridica, è quella della pubblicazione (mediante deposito in cancelleria), mentre la data di delibazione o decisione, non dovrebbe essere oggetto di pubblicità, al fine di
evitare confusioni per il decorso degli effetti (il legislatore ha ritenuto all’uopo di fare espressa menzione dell’art. 133 cod. proc. civ.).
Una particolare attenzione merita il disposto di cui al comma 3 dell’art.
17 legge fallim., secondo cui la sentenza è annotata presso l’ufficio del registro delle imprese ove l’imprenditore ha la sede legale e, se questa differisce
dalla sede effettiva, anche presso quello corrispondente al luogo ove la procedura è stata aperta. Nel caso in cui si verifichi la duplicazione ipotizzata dalla
norma – sede legale/sede effettiva – quale delle due annotazioni presso i
due distinti uffici del registro delle imprese ha rilevanza?
Condivido a tal proposito la tesi di chi ritiene significativa esclusivamente l’iscrizione nel registro delle imprese presso cui l’impresa fallita ha la sede
legale (9), sebbene il ragionamento in relazione al quale si perviene a tale
conclusione non sia completamente condivisibile. Ed invero, a mio avviso,
la congiunzione «anche» utilizzata dal legislatore dà sufficientemente conto
di tale impostazione ed è idonea a far ritenere che la doppia annotazione
non determina la decorrenza di effetti diversi, essendo la pubblicità dichiarativa realizzata esclusivamente attraverso l’iscrizione presso la sede legale,
laddove l’annotazione presso la sede effettiva ottempera alla funzione di
una mera notizia. La valutazione (10), secondo la quale, solo l’annotazione
presso la sede legale può determinare dal punto di vista contenutistico l’inserimento nella memoria dell’elaboratore dei dati contenuti nel modello
della domanda e la messa a disposizione del pubblico sui terminali per la
visura diretta, ai sensi dell’art. 11 del D.P.R. n. 581/95 – Regolamento di
attuazione dell’art. 8 della l. 29 dicembre 1993, n. 580, in materia di istituzione del registro delle imprese – e, quindi, solo l’annotazione nel registro
presso cui è anagraficamente censita l’impresa della notizia del fallimento
determina un’iscrizione con l’effetto di pubblicità dichiarativa, si presenta
(9) Mario Montanaro, op. cit., pag. 94.
(10) Mario Montanaro, op. cit., pag. 98.
Parte I - Dottrina
109
ancorata, piuttosto che ad un dato logico-giuridico, che tiene conto della
significatività della sede legale, ad un dato fattuale-operativo, che, dubito
sia stato sufficientemente considerato dal legislatore con la previsione in
parola.
D’altra parte, interpretare la differente accezione usata dal legislatore,
«iscrizione» negli artt. 16 e 18 e «annotazione» nell’art. 17, nel senso di
far scaturire degli effetti dall’uno, piuttosto che dall’altro termine, non pare
corrispondente ad una diversità tra «istituti».
Dal sistema si ricava che il termine «annotazione» viene adoperato solo
con riguardo alle imprese artigiane e mai più, per cui appare condivisibile la
tesi che riporta la differente terminologia ad una tecnica redazionale poco
raffinata (11).
Altra considerazione che occorre svolgere è quella secondo cui, sebbene
sia da valutare favorevolmente, come già evidenziato, la scelta legislativa di
far decorrere gli effetti del fallimento per i terzi dalla iscrizione della sentenza di fallimento nel registro delle imprese, tuttavia, tale scelta, non è perfetta, nella misura in cui, applicandosi il fallimento all’imprenditore commerciale, ossia a chi esercita di fatto l’attività d’impresa e non all’imprenditore
iscritto nel registro delle imprese, si pone, comunque, il problema di conciliare il sistema previsto dal legislatore, quanto agli effetti, con la mancata
iscrizione nel registro delle imprese del soggetto fallito (es. società irregolare, associazione non riconosciuta, ecc. che abbiano esercitato attività di impresa), per il quale, probabilmente, non potrà procedersi all’iscrizione della
sentenza dichiarativa, non essendo l’impresa registrata (12).
In tale ipotesi, da quando decorreranno gli effetti per i terzi, anche con
riguardo al termine per l’impugnazione della sentenza dichiarativa di fallimento ex art. 18 legge fallim.?
Correttamente è stato osservato (13) che non sarà possibile, in tale ipotesi, applicare tout court il disposto di cui all’art. 2193 cod. civ., atteso che
tale norma si riferisce a fatti non iscritti, ma ad imprese pur sempre registrate e, per quanto concerne il termine per proporre impugnazione avverso la
sentenza dichiarativa di fallimento, l’unica via di uscita sarà quella dall’applicazione del termine lungo annuale di cui all’art. 327 cod. proc. civ., richiamato in via residuale dal medesimo art. 18 legge fallim. (anche nella
nuova formulazione in vigore dal 1º gennaio 2008 ex D.Lgvo n. 169 /2007).
(11)
to Jorio,
(12)
(13)
Massimo Fabiani, in «Il nuovo diritto fallimentare». Commentario diretto da Albertomo I, pag. 368.
Massimo Fabiani, op. cit., pag. 369.
Massimo Fabiani, op. cit., pag. 369.
L’IMPRESA SOCIALE INSOLVENTE
di
Corrado d’Ambrosio (*)
Sommario: 1. La l.c.a. quale procedura concorsuale degli enti titolari di imprese sociali in
stato di insolvenza. – 2. Le modalità di liquidazione dell’attivo patrimoniale. – 3. I soggetti illimitatamente responsabili. – 4. L’azione di responsabilità verso gli amministratori.
1. La l.c.a. quale procedura concorsuale degli enti titolari di imprese sociali
in stato di insolvenza. – In caso di insolvenza dell’impresa sociale, la scelta
del legislatore delegato è stata nel senso di sottoporla alla procedura concorsuale speciale di liquidazione coatta amministrativa, dettando una norma
di semplice rinvio (art. 15 d.lgs. 24 marzo 2006 n. 155) alla disciplina di cui
agli artt. 194 segg. legge fallim. (1).
L’art. 15 d.lgs. 24 marzo 2006 n. 155 si chiude, inoltre, con una disposizione volta ad orientare la destinazione dell’avanzo di liquidazione , canalizzandolo secondo la disciplina dell’art. 13, comma 3, il quale afferma che,
(*) Giudice del Tribunale di Napoli.
(1) Si tratta di una scelta che asseconda l’esigenza di sottrarre all’autorità giudiziaria la
competenza a presiedere la gestione della crisi d’impresa, una volta che ne abbia accertato
la sussistenza attraverso la dichiarazione dello stato di insolvenza (articolo 195, comma primo,
legge fallim.), e di attribuire tale competenza all’autorità amministrativa. La collocazione dell’autorità amministrativa al vertice della procedura concorsuale risponde, all’evidenza, alla necessità di preservare in capo alla stessa la funzione di vigilanza anche nel momento patologico
della vita dell’impresa, con il preciso obiettivo di propiziare la soluzione della crisi senza trascurare gli interessi generali, a spiccata collocazione pubblicistica, a vario titolo sollecitati da
una iniziativa a rilevanza sociale: più precisamente, in modo da contemperare questi ultimi
interessi con gli altri generalmente coinvolti da una iniziativa di natura imprenditoriale, senza
correre il rischio che ai primi venga riservata un’opposizione deteriore rispetto ai secondi, e,
in particolare, a vantaggio dei creditori. Sul punto si veda La nuova disciplina dell’impresa sociale. Commentario al D.lgs. 24 marzo 2006, n. 155, a cura di M. V. De Giorgi, Padova, 2006,
pag. 491.
Parte I - Dottrina
111
in caso di cessazione dell’impresa, il patrimonio residuo è devoluto ad organizzazioni non lucrative di utilità sociale, associazioni, comitati, fondazioni o enti ecclesiastici, secondo quanto previsto dallo statuto (2).
Indubbiamente, tale soluzione normativa desta stupore, in quanto il legislatore delegato si limita, in sostanza, a rinviare alla legge fallimentare,
omettendo, però, di formulare le dovute precisazioni e specificazioni, che
solitamente integrano quella disciplina, consentendone l’applicazione concreta.
In realtà, la ragione per cui la scelta della procedura concorsuale sia ricaduta sulla l.c.a. è da ritenersi non diversa da quella che è tipicamente alla
base dell’analoga scelta che ricorre in altri contesti che condividono, con
quello in questione, la circostanza di essere caratterizzati dalla presenza
di un eterocontrollo pubblicistico.
Si tratta di una scelta che asseconda l’esigenza di sottrarre all’autorità
giudiziaria la competenza a presiedere la gestione della crisi d’impresa,
una volta che ne abbia accertato la sussistenza attraverso la dichiarazione
dello stato di insolvenza (art. 195, comma 1º, legge fallim.), e di attribuire
tale competenza all’autorità amministrativa (3).
La quale, nel silenzio del dato normativo speciale, in seguito alla recente
separazione tra Ministero del Lavoro e Ministero della Solidarietà Sociale, è
(2) Poiché l’obbligo di devoluzione ha ad oggetto il patrimonio residuo senza eccezioni,
sembra corretto che non si debba prima procedere alla restituzione dei conferimenti ai soci;
nello stesso senso, Bonfnte, in Società, 2006, 930. Sono fatte salve tuttavia le regole in tema
di devoluzione del patrimonio delle cooperative.
(3) In luogo di molti, pur con diverse sfumature in ordine ai poteri dell’autorità amministrativa, Bavetta, voce Liquidazione coatta amministrativa, in Enc. dir., XXIV, Milano,
1974, pag. 753 seg., spec. pag. 767 seg.; Belviso, Tipologia e normativa della liquidazione
coatta amministrativa, Napoli, 1973, pag. 4 seg.; Bonfatti, La liquidazione coatta amministrativa, in Diritto fallimentare coordinato da Maffei Alberti, Bologna, 2002, pag. 499 seg.,
spec. pag. 500 seg.; Bonsignori, voce Liquidazione coatta amministrativa, in Digesto IV
ed., Disc. priv., Sez. comm., IX, Torino, 1993, pag. IlI seg., spec. pag. 134 seg.; Ferrara e
Borgioli, Il fallimento, Milano, 1995, pag. 90 seg.; Pajardi, Manuale di diritto fallimentare,
a cura di Bocchiola e Paluchowski, Milano, 2002, pag. 753 seg.; Satta, Diritto fallimentare*,
Padova, 1996, pag. 541 segg. Peraltro, se non si può dubitare che la norma in commento trovi
applicazione anche nei confronti delle organizzazioni titolari di un’impresa sociale di natura
esclusivamente agricola, non altrettanto certo è che essa disponga la liquidazione coatta amministrativa con esclusione del fallimento con riguardo alle organizzazioni titolari di un’impresa sociale di natura commerciale, riproponendo nei contesti in questione il problema di
coordinamento tra l’art. 2, comma 2º e l’art. 196 legge fallim. Tuttavia, l’opinione prevalente
è ormai orientata nel senso che l’esclusione del fallimento possa essere anche implicita ossia
che debba ritenersi in tutti i casi in cui tale procedura non sia espressamente ammessa: in
luogo di molti, Bonsignori, Disposizioni generali. Della dichiarazione di fallimento, Art. 122, in Commentario della legge fallim. Scialoja-Branca, a cura di Bricola, Galgano e Santini,
Bologna-Roma, 1974, pag. 129 seg.; Id., Della liquidazione coatta amministrativa. Art. 194215, ivi, Bologna-Roma, 1974, pag. 65 seg., ove i termini del dibattito.
112
Il diritto fallimentare e delle società commerciali
in quest’ultimo che deve essere individuata, essendo quella che ha ereditato
la competenza ad esercitare la funzione di controllo sulle imprese sociali.
Resta comunque in forse se quanto precede sia riferibile alle cooperative sociali che acquisiscono la qualifica di impresa sociale, atteso che tali cooperative sono assoggettate alle disposizioni del provvedimento in commento
«nel rispetto della normativa specifica delle cooperative» (art. 17, comma
4º, d.lgs. 24 marzo 2006 n. 155): di conseguenza, esse, non solo potrebbero
alternare alla l.c.a. il fallimento, secondo il noto criterio di prevenzione di
cui agli artt. 196 legge fallim. e 2545 terdecies, comma 2º, cod. civ., ma potrebbero rimanere sotto la vigilanza del Ministero delle attività produttive
(art. 1, comma 1º, d.lgs 2 agosto 2002, n. 220) (4).
La collocazione dell’autorità amministrativa al vertice della procedura
concorsuale risponde alla necessità di preservare in capo alla stessa la funzione di vigilanza anche nel momento patologico della vita dell’impresa, con
il preciso obiettivo di propiziare la soluzione della crisi senza trascurare gli
interessi generali, a spiccata colorazione pubblicistica, a vario titolo sollecitati da un’iniziativa a rilevanza sociale: più precisamente, in modo da contemperare questi ultimi con gli altri generalmente coinvolti da un’iniziativa
di natura imprenditoriale, senza correre il rischio che ai primi venga riservata una posizione deteriore rispetto ai secondi, e, in particolare, a vantaggio dei creditori (5).
2. Le modalità di liquidazione dell’attivo patrimoniale. – Poiché la disciplina prevista dall’art. 13, 3º comma, d.lgs. 24 marzo 2006 n. 155, consente
di pervenire al patrimonio residuo senza vincolare lo svolgimento della fase
di liquidazione a particolari modalità operative, può ritenersi acquisito che
le modalità in concreto utilizzabili nell’ambito della procedura concorsuale
in questione sono amplissime, spaziando da quelle improntate allo smembramento del patrimonio, cioè basate sulla realizzazione delle singole entità
da cui è costituito, a quelle improntate, invece, al mantenimento dell’unitarietà, quanto meno parziale, di tale patrimonio, cioè basate sull’alienazione
dell’intero complesso aziendale o di uno o più rami da esso enucleati, eventualmente facendo precedere l’alienazione da uno o più contratti di affitto.
(4) Il punto è sottolineato da Di Cecco, Le molte ambizioni (e gli altrettanti chiaroscuri)
della nuova disciplina dell’impresa sociale: qualche spunto ricostruttivo, in Riv. dir. impr., 2006,
pag. 67 segg. spec. pag. 91).
(5) Interessi che possono essere identificati, ad esempio, nei (non member) patrons, ai
quali occorre assicurare che i finanziamenti elargiti vengano utilizzati correttamente per finanziare la produzione di beni e servizi offerti nel mercato sociale, nei beneficiari dei beni
e servizi resi, ai quali occorre assicurare che il livello qualitativo degli stessi sia quello più elevato in relazione alle risorse finanziarie disponibili, nei lavoratori svantaggiati e/o disabili
eventualmente impiegati nell’impresa; ecc.
Parte I - Dottrina
113
E può ritenersi acquisito, altresı̀, che la scelta dell’una o dell’altra tecnica
liquidatoria, o un’opportuna combinazione di esse, è pressoché interamente
rimessa alla discrezionalità del commissario liquidatore, la quale può essere
temperata solo da eventuali limitazioni disposte dall’autorità amministrativa
(art. 210, comma 1º, legge fallim.).
Tuttavia, il commissario liquidatore deve esercitare un siffatto potere in
funzione del raggiungimento del più adeguato contemperamento dei diversi
interessi sollecitati dall’iniziativa assoggettata alla procedura concorsuale in
questione, che, nei casi che qui interessano, impone di guardare, non solo la
convenienza sul piano della realizzazione e, quindi, in ultima istanza, degli
interessi creditori, ma anche la possibilità di destinare il patrimonio (residuo) ad altre iniziative socialmente rilevanti.
Sicché, è ragionevole ritenere che la liquidazione dell’attivo debba essere espletata favorendo, anzitutto, il mantenimento dell’unitarietà del patrimonio o di una parte di esso (6), e riservando, invece, lo smembramento del
(6) Invero, il mantenimento totale o parziale dell’unitarietà del patrimonio e la relativa
conservazione, nei limiti in cui sia possibile, della sua capacità produttiva costituisce spesso
una condizione imprescindibile per la salvaguardia di interessi diversi da quelli creditori coinvolti in un’iniziativa in stato di dissesto: ed infatti, non è escluso che l’utilizzo di una tecnica
liquidatoria in grado di preservarla possa essere preferita anche nelle eventuali ipotesi in cui
è dubbio che la corrispondente modalità di liquidazione dell’attivo sia quella più vantaggiosa
sul piano realizzativo. Non a caso, a tale modalità di liquidazione fa esplicito riferimento il dato
normativo nelle procedure concorsuali che si prefiggono il contemperamento tra diversi ed eterogenei interessi. Basti ricordare che la cessione totale o parziale del complesso aziendale è prevista nella specifica disciplina della liquidazione coatta amministrativa delle imprese assi-curatrici (art. 257, comma 2º, c.a.p.) e delle imprese bancarie (90, comma 2º, t.u.b.) (sulle ragioni di
tale cessione nella liquidazione coatta bancaria, in luogo di molti, Costi, L’ordinamento bancario*, Bologna, 2007, pag. 759 seg.; Ferrino, Le cessioni in blocco nella liquidazione coatta
bancaria, Torino, 2005, pag. 17 seg.; Vattermoli, Le cessioni «aggregate» nella liquidazione
coatta amministrativa delle banche, Milano, 2001, pag. 15 seg.), nonché in quella dell’amministrazione straordinaria delle grandi imprese in stato di insolvenza (art. 27, comma 2º, lett. a,
d.lgs. 8 luglio 1999, n. 270), la quale, peraltro, subordina l’ammissione alla procedura concorsuale proprio alla sussistenza di una concreta possibilità di cedere in tutto o in parte il complesso aziendale alle condizioni alle condizioni previste dall’art. 63 d.lgs. n. 2707/1999 (sul punto,
in luogo di molti, Rondinone, Art. 27, in La nuova disciplina della amministrazione straordinaria delle grandi imprese in stato di insolvenza. Commentario al d.lgs. 8 luglio 1999, n. 270, a
cura di Castagnola e Sacchi, Torino, 2000, pag. 169 seg., spec. pag. 172 seg., ove sottolinea che
l’ammissione alla procedura è ottenibile anche nel caso in cui la cessione «unitaria» sia meno
conveniente della cessione «frazionata»). Pertanto, nei casi che qui interessano, come in quelli
testé ricordati, la liquidazione improntata sul mantenimento dell’unitarietà del patrimonio riposa su logiche non sempre coincidenti con quelle che sono alla base del ricorso alla medesima
tecnica liquidatoria nel fallimento (art. 105, comma 1º, legge fallim.), che è subordinata esclusivamente al fatto di essere (almeno presumibilmente) quella più conveniente sul piano realizzativo (sul punto, Nuzzo, Art. 105, in La nuova legge fallimentare annotata, a cura di Terranova e altri, Napoli, 2006, pag. 200 seg., spec. pag. 202 seg.).
114
Il diritto fallimentare e delle società commerciali
patrimonio medesimo alle sole ipotesi in cui sia ictu oculi evidente o di fatto
accertata l’impossibilità di conseguire l’anzidetto obiettivo: e cioè, quando
non si riesca a trovare un potenziale acquirente del complesso aziendale
o di un suo ramo, ovvero lo si riesca a trovare a condizioni che comporterebbero un sacrifico eccessivo per i creditori (7).
Peraltro, nell’ambito di una liquidazione coatta, l’eventuale alienazione
dell’azienda, o di uno o più rami, dovrà realizzarsi sempre secondo i principi desumibili dall’art. 13, comma 1º, e dalle emanande linee guida dell’autorità di vigilanza (art. 13, comma 2º): quindi, a favore di soggetti che siano
in grado. e eventualmente si impegnino al momento dell’acquisto, ad utilizzare il complesso aziendale per continuare a perseguire le finalità di interesse generale alla base del decreto legislativo de quo, attravèrso la prosecuzione dell’iniziativa ad esso riferibile (8); condizione, quest’ultima, che deve essere valutata dall’autorità amministrativa, nel momento in cui deve dare
l’autorizzazione all’operazione, una volta che ha acquisito il parere del comitato di sorveglianza (art. 210, comma 2º, legge fallim.).
Di conseguenza, nell’ambito di un eventuale concordato preventivo al
quale l’ente titolare di impresa sociale (di natura commerciale) potrebbe
chiedere l’ammissione ai sensi degli artt. 160 segg. legge fallim., soprattutto
se lo stato di crisi in cui versa non sia ancora configurabile come stato di
insolvenza, ben poco realistica appare la possibilità di porre in essere le suddette operazioni. Infatti, in questo caso, l’alienazione dovrebbe essere disposta a favore dei creditori (art. 160 lettera a e b, legge fallim.) o, in alternativa, di un assuntore (9) tipicamente mosso da un intento speculativo, che
(7) Infatti, il complesso produttivo, se non è più recuperabile nel suo equilibrio economico e finanziario, nemmeno se inserito all’interno di un altro complesso produttivo o, eventualmente, solo con costi di ristrutturazione troppo elevati, non può essere collocato sul mercato o può esserlo ad uh prezzo ben inferiore spetto al valore complessivo delle singole entità
patrimoniali da cui è costituito: da qui la preferenza per la cessione «frazionata» in luogo di
quella «unitaria».
(8) Peraltro, resta da verificare se la cessione totale o parziale dell’azienda di un ente titolare di impresa sociale assoggettato a liquidazione coatta amministrativa avvenga in deroga
all’art. 2560, comma 2º, cod. civ., cioè senza la responsabilità dell’acquirente per i debiti riferibili all’azienda o al ramo ceduto, per i quali, beninteso, non sia stato operato un accollo.
Questione alla quale dovrebbe darsi risposta affermativa, ove si aderisca all’idea, ormai confortata dal dato normativo relativo all’analoga operazione in ambito fallimentare (art. 105,
comma 4º, legge fallim.), secondo cui tale deroga sarebbe necessaria per evitare una lesione
della par candido (in questo senso, Rivolta, L’affitto e la vendita dell’azienda nel fallimento,
Milano, 1973, pag. 136 seg.; in senso contrario, Bozza, La vendita dell’azienda nelle procedure concorsuali, Milano, 1988, p, 105 seg., ove i riferimenti alla giurisprudenza).
(9) Sul concordato preventivo «riformato» e sulle sue modalità di attuazione, Ambrosini e Demarchi, II nuovo concordato preventivo e gli accordi di ristrutturazione dei debiti,
Milano, 2005, pag. 2 seg.; Tedeschi, Manuale del nuovo diritto fallimentare, Padova,
2006, pag. 535 seg.
Parte I - Dottrina
115
ben difficilmente potranno trovare conveniente rinunciare ai propri crediti
o effettuare un investimento per avere in contropartita un complesso aziendale che deve essere mantenuto nell’ambito dei settori di attività ritagliati
dall’art. 2, comma 1º, o con almeno il 30% dei dipendenti nelle condizioni
di cui all’art. 2, comma 2º. Cosı̀ come, d’altro canto, la clausola non lucrativa, che caratterizza gli enti in questione, rende poco appetibili anche i piani dı̀ ristrutturazione che s’imperniano sulla conversione dei crediti in partecipazioni (art. 160, lett. a, legge fallim.) e, quindi, a fortiori, gli accordi di
ristrutturazione di cui all’art. 182 bis legge fallim. (10). Peraltro, non può essere trascurato che queste ultime forme di soluzione della crisi non sono
sempre percorribili nei contesti riguardati, dovendo essere confezionate
senza incorrere nella violazione del divieto di attribuire il controllo dell’impresa sociale ad un’impresa for profit o alla pubblica amministrazione (art.
4, comma 3º).
3. I soggetti illimitatamente responsabili. – Un’altra rilevante indicazione
del D.lgs. n. 155/2006 deriva dal fatto che nella l.c.a., a prescindere da talune opinioni minoritarie (11), non sarebbe possibile l’estensione della procedura ai soci illimitatamente responsabili, oppure ai gestori di associazioni
non riconosciute responsabili ex art. 38 cod. civ.
Peraltro, il decreto n. 5/2006 solo in un caso prevedeva che l’obbligazione di responsabilità potesse essere fatta valere certamente dagli organi
della procedura, e, quindi, ad indistinto vantaggio dei creditori ammessi
a concorso: il caso era quello della responsabilità dei soci di una società. Infatti, era questa l’ipotesi in cui trovava applicazione l’art. 211 legge fallim.,
ai sensi del quale il commissario liquidatore, autorizzato dall’autorità amministrativa, doveva richiedere ai soci i versamenti delle somme che riteneva
necessarie per l’estinzione delle passività, una volta che gli sembrasse evidente l’esuberanza della massa debitoria accertata nello stato passivo rispetto all’attivo patrimoniale, o che una tale esuberanza dovesse emergere in
concreto dopo il completamento della liquidazione dell’attivo (12).
(10) Presti, Gli accordi di ristrutturazione dei debiti, in Banca, borsa, tit. cred., 2006, I, p.
16 seg., spec. pag. 22 seg.
(11) Il rinvio va, per tutti, a Piscitello, La revocatoria fallimentare nei confronti del socio non assoggettato a procedura concorsuale, in Riv. Comm., I, 1987, 455 segg.
(12) Infatti, il tenore «facoltizzante» della norma (il commissario liquidatore (...) può
chiedere) non dev’essere inteso nel senso del riconoscimento al commissario liquidatore della
più ampia discrezionalità ne! decidere se richiedere o meno il versamento delle somme necessarie per l’estinzione delle passività, bensı̀ come semplice possibilità di subordinare la richiesta contributiva all’esito della valutazione dell’esposizione debitoria accertata nello stato passivo in rapporto con l’attivo patrimoniale o al concreto emergere di un deficit patrimoniale
dopo la liquidazione dell’attivo (per la dimostrazione dell’assunto, sia consentito rinviare a
116
Il diritto fallimentare e delle società commerciali
Era chiaro, al contempo, che in questi casi il commissario avrebbe potuto trovarsi a concorrere, nel processo esecutivo ordinario, con altri soggetti, portatori di distinte ragioni: i creditori particolari del responsabile.
Era facile rilevare, tuttavia, come i creditori particolari, concorrendo
con il commissario con gli strumenti esecutivi ordinari, sarebbero stati irrimediabilmente danneggiati, data l’elevata capacità di coordinamento interno al gruppo dei creditori sociali, e l’importo presumibilmente ingente del
debito vantato da questi ultimi.
Di questa richiesta, in effetti, sono stati resi incerti i profili piu’ strettamente procedurali, atteso che le relative modalità di espletamento erano
mutuate per relationem dal vecchio art. 151 legge fallim.: dalla norma, cioè,
che disciplinava in modo analogo l’attuazione della responsabilità illimitata
o multipla dei soci di una cooperativa assoggettata a fallimento, che è stata
abrogata dal decreto n. 5/2006, in quanto ritenuta non più attuale dopo che
la riforma del diritto societario ha escluso per le cooperative la possibilità di
prevedere regimi patrimoniali diversi da quello della responsabilità limitata
(art. 2518 cod. civ.), nonostante qualche critica al riguardo. Ma da questa
modifica emerge l’obiettivo di orientare l’agire della cooperativa verso il
soddisfacimento di bisogni dei soci, per cui si tratta di innovazioni finalizzate a garantire e a rafforzare nelle cooperative il perseguimento dello scopo
mutualistico (13).
La stessa ratio, anche se, ovviamente, in un contesto diverso, sembra
aver pervaso il legislatore del 2007, il quale, con il decreto correttivo n.
169/2007, ha abrogato l’art. 211 legge fallim. contenuto nel decreto n. 5/
2006, per cui oggi non sarà più possibile l’estensione della procedura di
l.c.a. neppure ai soci di una società: si tratta anche qui, dunque, di una innovazione finalizzata a garantire e a rafforzare nelle imprese sociali il perseguimento dello scopo sociale.
Di certo – obietterà qualcuno – la scelta del legislatore di affidare alla
Cetra, L’impresa collettiva non societaria, Torino, 2003, pag. 348 seg., pur se con specifico
riferimento all’analogo potere del giudice delegato per l’attivazione dell’obbligazione di responsabilità dei soci di cooperativa o dei membri del gruppo europeo di interesse economico). Perciò, tale richiesta non può essere procrastinata, anzi dev’essere eventualmente corroborata da un’azione esecutiva sui patrimoni personali dei soggetti responsabili, una volta che
una siffatta situazione dovesse configurarsi (in questo senso, pur se con specifico riferimento
all’art. 151 legge fallim., testo originario, Bassi, Delle imprese cooperative e delle mutue assicuratrici, in Commentario Schlesinger, Milano, 1988, pag. 840 seg.; Bonfante, Delle imprese
cooperative (art. 2511-2545), in Commentario Scialoja-Branca, Bologna-Roma, 1999, pag. 693
seg.; Provinciali, Trattato di diritto fallimentare, III, Milano, 1974, pag. 2166; in senso contrario, tra gli altri, Racugno, La responsabilità dei soci nelle cooperative, Milano, 1983, pag.
89 seg.).
(13) Cosı̀ Gian Paolo La Sala, La costituzione delle cooperative, in Liber amicorum
G.F. Campobasso, vol. IV, Torino, 2007, pag. 699.
Parte I - Dottrina
117
sola responsabilità limitata la funzione di incentivare la crescita delle imprese sociali, è largamente discutibile; soprattutto considerando, altresı̀, l’ostacolo alla capacità di reperire finanziamenti costituito dal divieto di distribuire utili.
Ma la scelta è discutibile anche per la mancanza, in taluni modelli astrattamente utilizzabili, di una disciplina idonea ad abbattere il rischio, per i
creditori, che l’ente divenga insolvente.
Ma evidentemente, ad avviso del legislatore, il divieto di distribuzione
renderà scarsamente configurabile una situazione di questo tipo.
I finanziatori bancari e professionali potranno ottenere preventivamente
il rilascio di garanzie personali e reali da coloro che hanno agito, mentre i
creditori particolari, non essendo organizzati, potrebbero avere problemi, e
questo punto è sempre stato al centro di forti contrasti.
A parere di chi scrive, un correttivo a questa discrasia di sistema potrebbe essere dato dall’art. 213, comma 2, legge fallim., cosı̀ come novellato dal
d.lgs. n. 169/2007, in cui si afferma che, coloro che intendono contestare i
risultati della liquidazione, sono tenuti a proporre le loro contestazioni presentando ricorso al tribunale competente entro 20 giorni dalla pubblicazione dell’avviso. Le contestazioni possono avere ad oggetto la graduazione dei
crediti nei riparti, anche parziali, la mancata assegnazione di una quota di
riparto, ma anche tutto ciò che attiene alla gestione della procedura da parte del commissario, con eccezione delle risultanze dello stato passivo (14).
Tali contestazioni vengono trasmesse all’autorità di vigilanza, al comitato di sorveglianza e al commissario, i quali, a loro volta, possono presentare
in cancelleria entro ulteriori venti giorni osservazioni in replica. Una volta
acquisite le contestazioni e le osservazioni, il tribunale provvede con decreto, osservate le regole del procedimento di cui all’art. 26, in quanto compatibili.
L’art. 213 legge fallim. rinvia all’art. 117 legge fallim., di guisa che deve
ritenersi certamente possibile procedere alla chiusura della l.c.a. pendenti
giudizi sui crediti, visto che la norma prevede espressamente gli accantonamenti. Piuttosto va osservato che la facoltà di disporre accantonamenti dovrebbe essere logicamente consentita anche in occasione dei riparti parziali,
pur in assenza di una esplicita previsione di legge (15).
4. L’azione di responsabilità verso gli amministratori. – L’esercizio dell’azione di responsabilità per danni è attribuito specificamente al commissario
liquidatore, previa autorizzazione dell’autorità amministrativa, dall’art. 206,
(14) Cassazione, 19 aprile 2001, n. 5769.
(15) Cosı̀ M. Fabiani, G. Nardecchia, Formulario commentato della legge
fallimentare, Milano, II edizione, pag. 2000.
118
Il diritto fallimentare e delle società commerciali
comma 1º, legge fallim.: da una norma, cioè, che, come la versione originale
dell’equivalente art. 146, comma 2º, legge fallim., rinvia alle norme di diritto societario prescritte in materia di società azionaria (artt. 2393 e 2394 cod.
civ.). Il che, perciò, solleva, almeno prima facie, dei problemi di coordinamento nell’ipotesi in cui l’ente assoggettato a liquidazione coatta non sia
una società azionaria o una cooperativa assoggettata alla disciplina di quest’ultima (art. 2519, comma 1º, cod. civ.), ma sia, come peraltro dovrebbe
normalmente accadere nei casi che qui interessano, un ente diverso e, tipicamente, un ente del libro I del cod. civ. Tuttavia, si tratta di problemi almeno parzialmente superabili, solo che si consideri che la legittimazione all’esercizio dell’azione di responsabilità prevista dalla disciplina «di soggetto» dei diversi enti può ritenersi attribuita al commissario, prima ancora
che dall’art. 206, comma 1º, legge fallim., dall’art. 200, comma 2º, legge fallim., in base al quale la capacità processuale, relativamente alle controversie
di natura patrimoniale, anche in corso, spetta al commissario liquidatore (16), e, tra questi diritti, rientra certamente l’azione in questione (17).
Ciò nondimeno, il fatto che il commissario subentri nell’esercizio di detti diritti, cosı̀ come preesistenti all’apertura della procedura concorsuale,
comporta, quale immediata conseguenza, che egli potrà concretamente
esercitarli alle stesse condizioni e con gli stessi limiti con cui potevano essere
esercitati prima dell’inizio del procedimento. Circostanza, quest’ultima, che
potrebbe avere ripercussioni negative, allorché riferita all’azione di responsabilità, atteso che questa potrebbe essere stata depotenziata, in ipotesi azzerata del tutto, da pregressi, eventuali atti interni di disposizione del diritto
al risarcimento dei danni cagionati all’ente (18).
Proprio nell’ottica di porre (un seppur parziale) rimedio ad un siffatto
fenomeno, si comprende allora la ragione dell’art. 206, comma 1º, legge
fallim., che è quella di riconoscere al commissario, non tanto il potere
di esercitare l’azione sociale di responsabilità (art. 2393 cod. civ.), quanto
(16) In questo senso, Jorio, Le crisi d’impresa, I, II fallimento in Tratt. ludica-Zatti, Milano, 2007, pag. 355; Vassalli, Diritto fallimentare, I, Presupposti, sentenza dichiarativa, organi, effetti per il creditore e per i debitori, Torino, 1997, pag. 269 seg.
(17) Si identifica, dunque, l’azione di responsabilità per i danni cagionati dalla gestione
come parte del patrimonio compreso nella procedura concorsuale.
(18) Infatti, è idea pressoché pacifica – almeno in dottrina – quella secondo cui la responsabilità degli amministratori in sede concorsuale continui ad essere governata dagli stessi
principi di diritto sostanziale, limitandosi gli artt. 146, comma 2º e 206, comma 1º, legge fallim., a trasferire al curatore o al commissario liquidatore la sola legittimazione all’esercizio di
tale azione (con specifico riferimento all’azione sociale di responsabilità, in luogo di molti,
Bonelli, Art. 1462 legge fallim.: l’azione di responsabilità del curatore contro gli amministratori di soc. per az. fallita, in Giur. comm., 1982, II, pagg. 780 segg. e 787 segg.; Cassottana,
La responsabilità degli amministratori nel fallimento di soc. per az., Milano, pag. 498.
Parte I - Dottrina
119
piuttosto quello di esercitare quest’ultima azione congiuntamente con l’azione dei creditori (art. 2394 cod. civ.): di modo che il commissario, anche
nei casi in cui la prima sia stata resa impotente per effetto di atti di disposizione dell’obbligazione risarcitoria, possa recuperare comunque, attraverso la seconda, quanto meno i danni astrattamente riconducibili all’inosservanza degli obblighi inerenti alla conservazione dell’integrità del patrimonio, allorché questo risulti insufficiente per l’integrale soddisfacimento
dei crediti (19).
Tuttavia, come è noto, un’azione come quella contemplata dall’art.
2394 cod. civ. presenta, ormai, un ambito «soggettivo» circoscritto ai soli
tipi azionari (e, di riflesso, agli enti cui si applica la relativa disciplina). Tale
azione, infatti, non è conosciuta, perlomeno in forma esplicita, da nessun’altra disciplina di ente diverso. Sicché, occorre chiedersi se, in tutti questi altri casi, l’assenza dı̀ un meccanismo che consenta di «blindare», ossia sottrarre dalla disponibilità dell’organizzazione, almeno parte della pretesa risarcitoria e, segnatamente, quella legata alla violazione degli obblighi di
conservazione dell’integrità del patrimonio, abbia come conseguenza, in
ambito concorsuale, quella di incidere, in senso negativo, sul quantum (se
non proprio sull’an) del risarcimento in concreto ottenibile dal commissario, posto che questo potrebbe risentire delle pregresse, eventuali vicende
che hanno interessato l’azione di responsabilità, finanche con riferimento
all’anzidetta tipologia di danni.
In altre parole, un’eventuale prescrizione dell’azione di responsabilità
cosı̀ come, ove è prefigurabile, una sua rinuncia o transazione, costituirebbero una sorta di «zona franca» per gli amministratori, cioè un’area dalla
quale essi sarebbero immuni da ogni responsabilità persino in ambito concorsuale. Una simile area può formarsi certamente nella s.r.l. consegnata dal
legislatore della riforma del diritto societario del 2003, sebbene il processo
di «privatizzazione» del controllo sulla gestione, e, in particolare, il potere
accordato al singolo socio di esercitare l’azione sociale di responsabilità (art.
2476, comma 3º, cod. civ.), abbiano ridotto fortemente le probabilità dı̀ formazione (e, di riflesso, accresciuto per «via interna» i poteri dell’organo legittimato ad esercitare l’azione di responsabilità in ambito concorsuale). A
questo proposito, è stato osservato che l’accennata «privatizzazione» fun-
(19) Sul punto si veda Nigro, Le società per azioni nelle procedure concorsuali, in Tratt.
soc. per az., diretto da Colombo e Portale, IX, 2, Torino, 1993, pag. 207 seg., spec. pag. 373;
Provinciali, op. cit., pag. 2042 seg.; Salanitro, Responsabilità degli amministratori durante il fallimento della società per azioni, in Riv. società, 1962, pag. 766 seg., spec. pag. 767 seg.;
Tedeschi, op. cit., pag. 513 seg.; in giurisprudenza, Cassazione 28 maggio 1998, n. 5287, in
Giust. civ., 1998, 1, pag. 1154; Cassazione, sez. un., 6 ottobre 1981, n. 5241, in Giur. comm.,
1982, II, pag. 768.
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ziona solo se esiste un «privato» che eserciti, o che abbia interesse ad esercitare, il relativo controllo (20).
Ma non è difficile immaginare ipotesi in cui la funzione di «autotutela»
riconosciuta al socio rimanga del tutto inesercitata. Sia sufficiente far riferimento alla fattispecie marginale ed estrema della «nuova» soc. a resp. lim.,
ossia ad una società unipersonale priva dı̀ organo di controllo e in cui l’unico socio è anche l’unico amministratore: in tal caso, è di tutta evidenza
che il socio non avrebbe alcun interesse ad esercitare l’azione di responsabilità ex art. 2476, comma 3º, cod. civ. e, di conseguenza, nella prospettiva
di ritenere che tale azione venga esercitata in via derivativa, essa non potrebbe essere esercitata nemmeno dall’organo concorsuale competente (21).
In effetti, anche in tutti i contesti che, come i tipi azionari, consentono
lo svolgimento di un’impresa in regime di responsabilità limitata, è da ritenersi cogente una disciplina, particolarissima per tecnica e contenuto, di organizzazione del patrimonio, finalizzata a vincolare, attraverso opportune
regole comportamentali, la produzione dell’azione verso il raggiungimento
di un adeguato contemperamento degli interessi tipicamente coinvolti in
una realtà imprenditoriale. Disciplina che, nella società a responsabilità limitata, è già insita in quella «di soggetto», essendo questa approntata sul
presupposto di dare forma giuridica all’impresa; mentre negli enti del libro
I del cod. civ., è sollecitata dallo stesso insediamento del fatto «impresa»,
dovendosi impedire che l’intensità e il grado di tutela degli interessi in gioco
possa scontare l’inadeguatezza delle regole giuridiche dell’agire dell’ente
«imprenditore».
Se cosı̀ è, è evidente che un’eventuale violazione dell’integrità del patrimonio dev’essere sanzionata a prescindere dalla presenza di un’azione analoga a quella di cui all’art. 2394 cod. civ., che allora può essere considerata
solo un modo per attuare tale sanzione. Si tratta soltanto di comprendere in
che modo possa essere raggiunto il medesimo obiettivo nei contesti diversi
(20) Cosı̀, Rescigno, Osservazioni sulla riforma del diritto societario in tema di società a
responsabilità limitata, in La riforma del diritto societario. Atti del convegno di Courmayeur,
Milano, 2003, pag. 245 seg., spec. pag. 267 seg.
(21) Sul punto, Ibba, La società a responsabilità limitata con un solo socio (Commento al
d.lgs. 3 marzo 1993, n. 88), Torino, 1995, pag. 122 seg.; Camuzzi, L’unico azionista, in Tratt.
soc. per az., diretto da Colombo e Portale, 11, 2, Torino, 1991, pag. 665 seg., che sottolineano
come nelle società uni-personali la condotta illegittima dell’amministratore, che ha operato
nell’interesse o con il consenso del socio, sia sanzionabile solo con l’azione dei creditori). Invece, come meglio diremo alla fine di questo par., l’ipotesi che il commissario liquidatore possa trovarsi nell’impossibilità di esercitare l’azione di responsabilità contemplata dal diritto sostanziale e, tramite essa, recuperare tutti i danni prodotti dalla gestione può immaginarsi solo
in alcuni contesti non societari e, segnatamente, in quelli associativi, ed è, peraltro, resa poco
realistica dalla recisa separazione che, almeno tipicamente, dovrebbe sussistere tra gestori e
base as-sociativa, allorché detti contesti siano utilizzati nelle iniziative cui si fa riferimento.
Parte I - Dottrina
121
dai tipi azionari, dovendosi verosimilmente scartare l’idea che esso possa essere recuperato guardando ai principi generali del diritto dell’agire dei privati, tanto caro alle raffigurazioni anglosassoni (22).
Pertanto, una tale questione pone l’interprete davanti ad un bivio: o
mantiene ferma l’idea secondo cui l’art. 206, comma 1º, legge fallim. – come
l’equivalente art. 146, comma 2º, legge fallim. – sia una norma di mero rinvio e, quindi, verifica nell’ambito dei singoli contesti relativi a ciascun ente
titolare di impresa in che modo venga presidiata l’integrità del patrimonio;
oppure si affranca dal postulato appena accennato, anche per evitare la non
agevole ricerca che esso sottende, e, quindi, vede nell’art. 206, comma 1º,
legge fallim. una vera e propria norma di responsabilità: una norma, cioè,
che legittima l’organo concorsuale a recuperare alla massa quanto meno i
danni derivanti dalla violazione degli obblighi di conservazione dell’integrità del patrimonio, indipendentemente dagli atti di disposizione compiuti in
ordine al risarcimento spettante all’ente e dal decorso del termine ordinario
di prescrizione dell’azione.
In particolare, si tratterebbe di stabilire se sia possibile generalizzare
l’applicazione dell’art. 2394 cod. civ., che tuttavia – accedendo alla lettura
della norma testé segnalata – dovrebbe essere attentamente valutata quanto
(22) A conferma di questa perplessità, basti ricordare che il tentativo di ricondurre l’azione di responsabilità dei creditori in una delle due categorie tradizionali dell’azione diretta
o dell’azione surrogatoria ha finito per assumere i connotati di una gara di destrezza dall’inevitabile esito paritario: senza vincitori né vinti. È forte invece l’impressione che non sia possibile avvicinarsi al rimedio di cui all’art. 2394 cod. civ. con la «lente» del civilista e occorre,
invece, prendere atto, (anche) in subiecta materia, dell’autonomia del diritto societario e, più
in generale, del diritto dell’impresa rispetto alle classificazioni ed ai concetti elaborati dal diritto civile classico. In questa prospettiva di affrancamento si è affermato convincentemente
che l’azione dei creditori è un’azione composita o bifronte, presentando tale azione caratteristiche proprie tanto dell’azione surrogatoria quanto dell’azione diretta (si tratta dell’opinione
originariamente formulata da Allegri, L’azione di responsabilità della società per azioni verso
gli amministratori e le scelte del legislatore, in Riv. società, 1971, pag. 302 seg., spec. pag. 331
segg. e riaffermata, successivamente, in Id., Contributo allo studio della responsabilità civile
degli amministratori, Milano, 1979, pag. 103 seg.; Id., in Diritto commerciale, Bologna,
2004, pag. 221 seg.; adde, Weigmann, Responsabilità e potere legittimo degli amministratori,
Torino, 1974, pag. 216 seg.; più di recente anche Mucciarelli, L’azione sociale di responsabilità contro gli amministratori di società quotate, in Giur. comm., 2000, 1, pag. 59 seg., spec.
pag. 69, nt. 31. In particolare, essa si presenta, sul piano della struttura, come un’azione di
«tipo surrogatorio», in quanto l’art. 2394 cod. civ. legittima i creditori ad agire per violazioni
degli obblighi di prestazione che gli amministratori hanno verso la società ed a chiedere che
questi ultimi vengano condannati per i danni sofferti dal patrimonio sociale; sul piano della
disciplina, invece, è governata da principi diversi da quelli dell’art. 2900 cod. civ., in quanto
l’art. 2394 cod. civ. rende in certa misura autonoma la posizione degli agenti rispetto a quella
della società, tanto da precludere agli amministratori la proposizione delle eccezioni che essi
avrebbero potuto sollevare nei confronti di quest’ultima (e quindi nei confronti degli stessi
agenti in forza dei principi di cui all’art. 2900 cod. civ.).
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Il diritto fallimentare e delle società commerciali
meno alla luce del principio di eccezionalità delle legittimazioni processuali
sostitutive sancito dall’art. 81 cod. proc. civ.; o se, invece, una tale operazione ermeneutica trovi ostacolo nella considerazione che nella «nuova» soc. a
resp. lim. il legislatore abbia inteso introdurre, a presidio dell’integrità del
patrimonio, nuovi e diversi meccanismi. Non può trascurarsi, infatti, che
l’azione dei creditori si colloca in un contesto tipologico (come quello azionario) in cui la funzione di garanti dell’osservanza degli obblighi di conservazione dell’integrità del patrimonio, e, più in generale, della corretta gestione dell’impresa, è inequivocabilmente attribuita all’organo amministrativo, giustificandosi perciò la loro esclusiva responsabilità (ormai codificata
nell’art. 2364, comma 1», n. 5, cod. civ.).
Non è detto, invece, che la nuova disciplina della soc. a resp. lim. sia
caratterizzata dal medesimo connotato tipologico: anzi, è forte la sensazione
che la soc. a resp. lim. sia stata affrancata dalla soc. per az. proprio sotto
questo profilo, con la scelta di attribuire al socio una posizione di assoluta
centralità sul piano organizzativo. In questa mutata prospettiva di fondo,
non sembra azzardato ritenere che il valore dell’integrità del patrimonio
debba essere presidiato, non tanto (o non solo) dal filtro esercitato dagli
amministratori – come avviene nella soc. per az. – ma ancor prima dagli
stessi soci e da quello di maggioranza in particolare. Con la conseguenza
che, se i soci decidono o autorizzano atti di disposizione del patrimonio, suscettibili di mettere in gioco persino la capacità stessa della società di soddisfare i creditori, sono direttamente responsabili per i danni arrecati ai creditori: proprio in questo senso sembra infatti deporre la norma che, decretando il definitivo tramonto del tradizionale e sedimentato pregiudizio del
socio irresponsabile, responsabilizza, in solido con gli amministratori, i soci
che hanno intenzionalmente deciso o autorizzato il compimento di atti dannosi per la società, i soci ed i terzi (art. 2476, comma 7º, cod. civ.). Se cosı̀
fosse – come peraltro sembrerebbe alla luce del nuovo art. 146, comma 2º,
legge fallim. –, è evidente che ci si troverebbe di fronte a più modelli per
risolvere l’analoga questione per gli enti non societari, a seconda che il singolo ente considerato presenti maggiori affinità organizzative con la soc. per
az. o con la soc. a resp. lim. (23).
Non altrettanto agevole è stabilire se la possibilità dı̀ superare gli atti di
disposizione computi in ordine al risarcimento da parte del commissario
(23) Cosı̀ Abbadessa, La gestione dell’impresa nella società per azioni. Profili organizzativi, Milano, 1975, pag. 61 seg.; Bonelli, Gli amministratori di soc. per az. dopo la riforma
delle società, Milano, 2004, pag. 7 seg.; Calandra Buonaura, Potere di gestione e potere di
rappresentanza degli amministratori, in Tratt. soc. per az., diretto da Colombo e Portale, IV,
Torino, 1991, pag. 105 seg., spec. pag. 108 seg.; Calcano, La società per azioni, in Tratt. dir.
comm. e dir. pubbl. econ. Colgano, VII, Padova, 1988, pag. 200 seg.
Parte I - Dottrina
123
possa essere estesa anche ad ipotesi di violazione di obblighi diversi da quelli sin qui considerati (e, ovviamente, a prescindere dall’insufficienza del patrimonio), ma che con questi condividono la duplice, concorrente circostanza di rientrare, da un lato, nella funzione amministrativa, e di essere,
dall’altro, strumentali alla tutela di interessi esterni all’organizzazione. Si
tratta di obblighi che possono considerarsi tipici nei contesti deputati allo
svolgimento di un’iniziativa (imprenditoriale) a rilevanza sociale, nei quali,
come è noto, possono configurarsi doveri fiduciari nei confronti, ad esempio, dei cd. multistakeholders.
Tali interessi, in quanto generalmente tesi alla continuazione dell’attività, possono entrare in urto con quelli dei creditori, i quali invece, potrebbero prediligere soluzioni radicalmente liquidative (24).
Si evidenzia, in tal modo, una situazione di potenziale conflittualità fra
interessi collegati all’insolvenza, che potrebbe giustificare trattamenti differenziati, ad es., nel caso di favorire la liquidazione in blocco, in modo da far
perseguire l’attività tipica, una volta depurata dai debiti (25).
A parere di chi scrive, tale problema oggi è risolto dal nuovo articolo
214 del d.lgs. 169/2007 summenzionato, il quale ha lo scopo di adeguare
la disciplina del concordato previsto nella liquidazione coatta amministrativa, uniformandola, per quanto possibile, alla nuova disciplina del concordato fallimentare, e rendendola più rispettosa delle garanzie della difesa e del
contraddittorio.
Vi è, in effetti, una profonda innovazione per quanto riguarda la disciplina in tema di concordato.
L’articolo 214, infatti, prevede che l’autorità che vigila sulla liquidazione, su parere del commissario liquidatore, sentito il comitato di sorveglianza, può autorizzare l’impresa in liquidazione, uno o più creditori o un terzo
a proporre al tribunale un concordato, a norma dell’articolo 124 legge fallim., osservate le disposizioni dell’articolo 152 legge fallim., se si tratta di
società.
La proposta di concordato è depositata nella cancelleria del tribunale
col parere del commissario liquidatore e del comitato di sorveglianza, comunicata dal commissario a tutti i creditori ammessi al passivo nelle forme
(24) Pur dovendo riscontrare la bassa propensione alla materializzazione degli investimenti delle imprese sociali, dunque la maggiore probabilità che l’attivo sia assai scarso, e
la liquidazione una prospettiva poco appetibile, un quanto idonea ad abbattere il valore degli
assetts immateriali (fra i quali, deve ritenersi, il capitale sociale).
(25) L’osservazione sembra intercettare quelle affermazioni, frequenti in dottrina, per cui
pur l’esistenza di uno stato di insolvenza non obbligherebbe l’Autorità di Vigilanza a disporre
la l.c.a., quando l’impresa sia comunque in grado di perseguire i suoi obiettivi tipici; trattasi,
tuttavia, di un assetto assai discutibile, e visibilmente in contrasto con i caratteri di un moderno diritto concorsuale.
124
Il diritto fallimentare e delle società commerciali
previste dall’articolo 26, comma 3, e pubblicata mediante inserzione nella
Gazzetta Ufficiale e depositata presso l’ufficio del registro delle imprese.
I creditori e gli altri interessati (ecco il riferimento ai c.d. multistakeholders di cui sopra), possono presentare nella cancelleria le loro opposizioni
nel termine perentorio di trenta giorni, decorrente dalla comunicazione fatta dal commissario per i creditori e dalla esecuzione delle formalità pubblicitarie di cui al comma 2 per ogni altro interessato.
Il tribunale, sentito il parere dell’autorità che vigila sulla liquidazione,
decide sulle opposizioni e sulla proposta di concordato con decreto in camera di consiglio. Si applicano, in quanto compatibili, le disposizioni degli
articoli 129, 130 e 131.
Gli effetti del concordato sono regolati dall’articolo 135.
Il commissario liquidatore, con l’assistenza del comitato di sorveglianza,
sorveglia l’esecuzione del concordato.
Inoltre, è bene evidenziare che soltanto nella l.c.a. è presente un organo,
il comitato di sorveglianza, che non è destinato a porsi come esponenziale
esclusivamente delle ragioni dei creditori (come invece avviene nel fallimento, per il comitato dei creditori), dovendo lo stesso essere composto da
«persone particolarmente esperte nel ramo di attività» (art. 198 legge fallim.),
scelte solo «possibilmente» fra i creditori.
Ciò potrebbe, in teoria, dar luogo ad una forma di rappresentanza, intranea alla procedura, per gli interessi degli stakeholders non aventi rango
creditorio.
OSSERVATORIO STRANIERO
LE SOLUZIONI GIUDIZIARIE DELLE CRISI DI IMPRESA.
LA GESTIONE DELLA CRISI NEL DIRITTO SPAGNOLO
E ITALIANO (*)
di
Gianvito Giannelli (**)
Sommario: 1. Premessa. – 2. La legittimazione a presentare la proposta di concordato. – 3.
La competenza a deliberare sulla proposta di concordato nelle società a responsabilità
limitata, nelle società di persone... – 4. ...e nelle società azionarie. – 5. Ristrutturazione
del debito e vendita dell’azienda. – 6. Approvazione della proposta di concordato da
parte dei creditori e poteri di controllo del tribunale. (1)
1. Che ci sia un favor del legislatore verso le soluzioni della crisi di impresa è considerazione tanto vera quanto scontata. L’argomento che mi accingo
a trattare impone però una preventiva selezione della fattispecie perché di soluzioni giudiziarie della crisi di impresa si può parlare sia con riferimento a
quei rimedi in cui il giudice è chiamato a svolgere un ruolo stabilizzatore dell’accordo raggiunto tra il debitore e i propri creditori, cosicché gli atti posti in
essere in esecuzione dell’accordo e gli effetti dell’accordo medesimo non siano travolti da un eventuale successivo fallimento; sia con riferimento a quei
rimedi in cui l’intervento del giudice si esplica nell’attribuire, oltre all’effetto
stabilizzatore di cui sopra, efficacia vincolante alla soluzione della crisi anche
nei confronti dei soggetti che vi sono estranei o non vi hanno aderito.
È evidente la differenza tra le due fattispecie, perché nel primo caso la
soluzione della crisi è la conseguenza di un accordo destinato a vincolare
solo gli aderenti, cosicché l’effetto vincolante è il frutto della loro volontà
negoziale, mentre i terzi non aderenti all’accordo ne possono solo risentire
gli effetti come conseguenza di mero fatto: tale è il caso degli accordi di ri-
(*) Il lavoro riproduce, con alcune revisioni e l’aggiunta delle note, la relazione tenuta al
Convegno Dialoghi ispano – italiani sulla crisi d’impresa, Napoli, 18 – 19 gennaio 2008.
(**) Ordinario di Diritto Commerciale nell’Università di Bari.
126
Il diritto fallimentare e delle società commerciali
strutturazione del debito ex art. 182-bis, legge fallim., i quali conservano natura negoziale pura, nonostante dall’omologazione da parte del tribunale
consegua una certa stabilizzazione degli effetti, nel senso di inattaccabilità
degli atti e degli effetti dall’azione revocatoria in caso di fallimento del debitore. Nel secondo caso, l’intervento del giudice è condizione necessaria
perché i soggetti non aderenti alla proposta di soluzione della crisi ne siano
comunque vincolati: è questa l’ipotesi dei concordati preventivi e fallimentari (1).
Nell’ordinamento italiano il favor del legislatore verso soluzioni negoziate della crisi, sottoposte o meno al controllo dell’autorità giudiziaria trova
una prima conferma nel novellato (dal decreto correttivo d. lgs. 12 settembre 2007 n. 169) art. 1, legge fallim., laddove si introduce tra le condizioni
negative di non fallibilità anche l’avere un ammontare di debiti anche non
scaduti non superiore a euro cinquecentomila (2).
L’inserimento di questo ulteriore requisito che si aggiunge, congiuntamente agli altri due e cioè l’avere avuto nei tre esercizi antecedenti la data
di deposito dell’istanza di fallimento o dall’inizio dell’attività, se di durata
inferiore, un attivo patrimoniale di ammontare complessivo annuo non superiore a euro trecentomila (a) e l’aver realizzato, in qualunque modo risulti, nei tre esercizi antecedenti la data di deposito dell’istanza di fallimento o
dall’inizio dell’attività, se di durata inferiore, ricavi lordi per un ammontare
complessivo annuo non superiore a euro duecentomila (b), si giustifica sicuramente per ovviare ad una critica puntualmente mossa alla prima stesura
dell’art. 1, approvata nel gennaio 2006: e cioè che l’utilizzo dei soli parametri del capitale investito e dei ricavi indipendentemente dai debiti avrebbe
finito per favorire gli imprenditori che di fronte ad una rilevante esposizione debitoria avevano dissipato o distratto (o distrutto) il patrimonio, cosı̀
ponendosi al di sotto delle soglie di fallibilità.
La novella dell’art. 1, legge fallim. però introduce un ulteriore argomento di riflessione perché finisce per premiare l’imprenditore che abbia utilizzato il proprio patrimonio (cosı̀ portandolo al di sotto della soglia critica di
trecentomila euro) per soddisfare anche parzialmente i creditori (portando
le passività al di sotto della soglia di cinquecentomila euro) ponendosi al di
sotto delle soglie di non fallibilità. È cioè premiato l’imprenditore che utilizza il patrimonio (o i ricavi) per pagare i creditori e, oserei direi, è premiato anche se tale utilizzo avviene in modo disuguale, cioè senza rispettare le
(1) L. Stanghellini, Le crisi di impresa fra diritto ed economia, Bologna, 2007, pag.
335.
(2) In argomento M. Notari, in Diritto fallimentare. Manuale breve, Milano, 2008, pag.
104 seg.; S. Fortunato, Commento all’art. 1, in Il nuovo diritto fallimentare. Commentario,
diretto da A. Jorio e coordinato da M. Fabiani, Bologna, 2006, pag. 58.
Parte I - Dottrina
127
regole di concorso. Si noti infatti che: i) per l’ammontare delle passività non
è richiesto il persistere al di sotto della soglia minima di cinquecentomila
euro per almeno tre esercizi, a differenza di quanto è previsto per gli altri
due requisiti; cosicché anche il pagamento dei creditori (di alcuni dei creditori) a ridosso della presentazione della istanza di fallimento consente
di evitare la dichiarazione di fallimento; ii) il possesso degli altri due requisiti di non fallibilità (e cioè l’aver conseguito ricavi lordi inferiori a duecentomila euro per anno e l’avere un attivo patrimoniale inferiore a trecentomila euro) è richiesto invece per i tre esercizi precedenti alla dichiarazione
di fallimento, cosicché non si può correttamente affermare che ad essere
premiata è la soluzione della crisi a ridosso (cioè immediatamente prima)
della dichiarazione di fallimento, se nei tre anni precedenti l’attivo conservava una certa consistenza; ma si può rispondere all’obiezione individuando
una lettura in chiave economica della norma secondo la quale il legislatore
sembra privilegiare soluzioni della crisi di lunga durata che vedano già da
oltre tre anni prima della dichiarazione di fallimento l’utilizzo delle risorse
dell’impresa (cioè dell’attivo) per soddisfare i creditori; non è cioè premiato
l’imprenditore che di fronte ad una elevata patrimonializzazione si riduce
all’ultimo momento per abbattere, anche in maniera consistente, l’esposizione debitoria (portandola cioè al di sotto di cinquecentomila euro), quanto l’imprenditore che programma un impiego delle risorse nel lungo periodo in modo tale che oltre tre anni prima della presentazione dell’istanza di
fallimento utilizza l’attivo del patrimonio portandolo al di sotto della soglia
critica anche per pagare i creditori, purché anche a ridosso della presentazione dell’istanza di fallimento l’esposizione complessiva sia stata portata al
di sotto dei cinquecentomila euro.
Se questa lettura è corretta ne derivano alcune considerazioni: i) l’imprenditore che utilizza questo percorso non è assoggettabile a fallimento,
quindi vi è un favor del legislatore per la programmazione della gestione
delle crisi di lunga durata, cioè per atteggiamenti di tipo preventivo; il
che è coerente con la disciplina delle soluzioni giudiziali che tende ad anticipare al nascere della crisi, non necessariamente coincidente con l’insolvenza (3), la presentazione di ipotesi di soluzioni non solo giudiziali; ii) in questa
prima fase (tre anni prima della presentazione dell’istanza) non vi è alcun
obbligo di rispettare la par condicio perché, per il legislatore, non esiste
un conflitto tra creditori sulla ripartizione delle risorse dell’imprenditore (4);
(3) G. Terranova, Stato di crisi, stato di insolvenza, incapienza patrimoniale, in questa
Rivista, 2006, I, pag. 547 seg.; G. Lo Cascio, Il concordato preventivo, Milano, 2007, pag.
213.
(4) In argomento G. Ferri jr., in Diritto fallimentare. Manuale breve, cit., pag. 31 seg.;
G. Guizzi, ivi, pag. 275 seg.
128
Il diritto fallimentare e delle società commerciali
iii) la tutela delle esigenze concorsuali dei creditori è tanto più urgente
quanto più ci si avvicina al maturare dell’insolvenza cioè quando si entra
nel periodo sospetto, ai fini dell’esercizio dell’azione revocatoria, anteriore
alla dichiarazione di fallimento. In questo caso la presentazione di una proposta di soluzione della crisi deve rispettare regole di concorso tra i creditori sia pure con un annacquamento della par condicio e purché: i) negli accordi di ristrutturazione dei debiti sia attestata l’esistenza di risorse per soddisfare regolarmente i creditori (il che dovrebbe escludere, in ipotesi, la situazione di conflitto tra i creditori: art. 182-bis); ii) nel concordato preventivo e nel concordato fallimentare il sacrificio dei creditori sia approvato
dalla maggioranza dei creditori e, ove previsto, dalla maggioranza delle classi dei creditori perché il trattamento stabilito per ciascuna classe non alteri
l’ordine delle cause legittime di prelazione; iii) nel concordato preventivo e
in quello fallimentare se vi sono creditori privilegiati o muniti di pegno o
ipoteca che debbano essere soddisfatti solo parzialmente, la proposta preveda il soddisfacimento di questi soggetti in misura non inferiore alle alternative astrattamente realizzabili.
Il favor del legislatore nei confronti delle soluzioni della crisi e direi delle soluzioni giudiziarie è dimostrato non solo dalla preferenza per la presentazione della proposta di concordato anche in pendenza di dichiarazione di
fallimento, non codificata nel diritto italiano ma che, nell’applicazione giurisprudenziale, comporta l’obbligo del tribunale di pronunciarsi preventivamente sulla ammissibilità della domanda dichiarando improcedibile il ricorso per fallimento (5); nel diritto spagnolo, una previsione in questo senso è
contenuta nell’art. 106.2 della Ley concursal n. 22/2003 de 9 de julio ma con
una importante differenza e cioè che in ogni modo la presentazione della
proposta di convenio deve avvenire contestualmente o subito dopo la presentazione di istanza di apertura del concorso (art. 104.1) (6).
2. Il favore del legislatore nei confronti delle proposte di soluzione delle
crisi di impresa è desumibile anche dalla scelta dei soggetti legittimati a presentare la proposta di concordato.
In dottrina è con forza diffusa l’idea che, in caso di insolvenza, l’impren-
(5) In argomento S. Scarafoni, Il giudizio d’ammissione al concordato preventivo: riflessioni sul decreto legislativo correttivo della legge fallimentare, in questa Rivista, 2007, I, pag.
909.
(6) A. Rojo, La legitimaciòn para presentar propuesta de convenio, in Revista Jurı̀dica de
Catalunya, n. 2004/4, pag. 205 seg.; Id., El contenido esencial del convenio, in Anales (V)
2002-2003 del Centro para Investigaciòn y Desarollo del Derecho Registral, Imobiliar y Mercantil, Barcelona, 2004, pag. 228 seg.; M. Astillero Fuentes, Propuesta anticipada de convenio, in Revista de Derecho Concursal, 2006, pag. 325 seg.; E. Beltràn, El derecho concursal
español. La ley concursal de 9 de julio 2003, in questa Rivista, 2004, pag. 795.
Parte I - Dottrina
129
ditore se sceglie di continuare a gestire l’impresa non possa che farlo a vantaggio del ceto creditorio, nel senso che, di fronte ad una insolvenza conclamata, l’eventuale lievitazione dell’attivo, purché questo sia inferiore alle passività, non possa che andare a vantaggio di tutti i creditori (7) e non dell’imprenditore medesimo il quale si potrebbe appropriare dei vantaggi dell’attività economica solo quando i creditori sono stati soddisfatti.
Nel diritto italiano, occorre fare una distinzione: nell’ambito del concordato preventivo, la considerazione che precede si traduce nell’esigenza di
controllo sull’operato del debitore da parte dei creditori, ma tale controllo
si esprime solo, sul piano collegiale, in una valutazione della proposta (8).
Il discorso è più complesso per il concordato fallimentare in cui vi è, come è noto, la legittimazione concorrente di un terzo o di uno o più creditori o
del fallito, con esclusione della legittimazione di quest’ultimo, però, nell’anno
successivo alla dichiarazione di fallimento e purché non siano decorsi due anni dal decreto che rende esecutivo lo stato passivo (art. 124 legge fallim.) (9).
La legittimazione di un terzo a presentare la proposta di concordato è
prevista per il concordato fallimentare e non per il concordato preventivo
(per il quale la legittimazione sembra attribuita unicamente al titolare dell’impresa in crisi) e ricalca analoghe soluzioni dettate nella disciplina dell’amministrazione straordinaria delle grandi imprese insolventi, in cui l’art. 78, comma 1, d. lgs. n. 270 del 1999, prevede da un lato la legittimazione concorrente
al terzo a proporre il concordato, dall’altro poneva il dubbio se anche in questo caso occorresse osservare l’art. 152 legge fallim. nel testo anteriore alle riforme del 2005-2007, il che postulava (all’epoca) la necessità di una delibera
dell’assemblea della società sottoposta a procedura; quesito al quale qualcuno
ha inteso dare risposta positiva, in base all’assunto che potendo il trasferimento dell’impresa in sede di ristrutturazione della crisi dare luogo alla modifica dell’oggetto sociale della società sottoposta a procedura, necessiterebbe
comunque della preventiva approvazione dei soci in sede straordinaria (10).
(7) L. Stanghellini, Le crisi di impresa fra diritto ed economia, cit., pag. 177 seg.; G.
Ferri jr., Ristrutturazione dei debiti e partecipazioni sociali, in Riv. dir. comm., 2006, I, pag.
747 seg.
(8) F. Guerrera (- M. Maltoni), Concordati giudiziali e operazioni societarie di ristrutturazione, in Studi e materiali del Consiglio nazionale del notariato, n. 2/2007, pag. 999.
(9) L. Stanghellini, Commento all’art. 124, in Il nuovo diritto fallimentare, cit., pag.
1949; il limite iniziale è stato modificato dal d. lgs. 12 settembre 2007, n.169, che lo ha prolungato da sei mesi come previsto con la riforma del 2006 ad un anno; v. C. Mascariello, Il
concordato fallimentare: le novità del decreto «correttivo», in Le nuove procedure concorsuali, a
cura di S. Ambrosini, Torino, 2008, pag. 462; S. Sanzo, Il nuovo concordato fallimentare, ivi,
pag. 427.
(10) R. Alessi, L’amministrazione straordinaria delle grandi imprese insolventi. Commento sistematico al d. lgs. 8 luglio 1999, n. 270, Milano, 1999, pag. 282 seg.
130
Il diritto fallimentare e delle società commerciali
Contro questa opinione, che comunque riguardava solo una delle possibilità modalità di ristrutturazione della crisi, è stato suggerito che cosı̀ argomentando si sarebbe svuotata la reale portata della novità introdotta dal
d. lgs. n. 270, dovendosi piuttosto ritenere che il conferimento ad un terzo
della legittimazione alla proposta di concordato svincolava la validità di
quest’ultima dalla preventiva approvazione o collaborazione del debitore
insolvente (11).
La stessa idea della riallocazione del capitale di rischio nelle mani dei
creditori ispira la scelta del Chapter 11 statunitense (12) e riflette la convinzione che a seguito dell’insolvenza i creditori sono oramai i veri fornitori di
capitale di rischio e, dunque, a loro dovrebbe essere attribuita la proprietà
dell’impresa. Se l’impresa non ha valore, ciò non può peggiorare la situazione dei creditori, se essa ha, invece, un valore è giusto che siano costoro a
beneficiarne. Con una metafora particolarmente efficace, si è soliti dire
che mentre nelle procedure di liquidazione si procede a una vendita virtuale
del patrimonio del debitore sul mercato (13), nelle procedure di riabilitazione si procede a una vendita fittizia del patrimonio, sono cioè i creditori che
normalmente acquistano un diritto, di varia tipologia, sul patrimonio del
debitore, pagandolo con un loro credito (14).
Nel diritto concorsuale spagnolo, la proposta di convenio come accordo
di ristrutturazione dei debiti cioè come fattispecie negoziale, può essere o
anticipata e cioè prima dello scadere del termine per i creditori di precisare
i crediti o presentata in un momento successivo.
La ratio appena descritta si traduce, sia nel diritto concorsuale spagnolo
che in quello italiano, in una legittimazione concorrente dell’imprenditore e
dei creditori a presentare la proposta di concordato, però con alcune significative differenze. Nella disciplina spagnola, il debitore, con l’istanza di
concurso volontario, o il cui concurso necessario sia già stato dichiarato,
può presentare al giudice istanza anticipata di convenio (cui debbano aderire i creditori che rappresentino un quinto dei crediti) fino allo spirare del
termine di comunicazione dei crediti (artt. 104.1, 108.1, 109). Spirato questo termine la legittimazione spetta ancora al debitore ma con la legittimazione concorrente da parte dei creditori che rappresentino un quinto dei
(11) S. Tricomi, Sul concordato nell’amministrazione straordinaria nelle grandi imprese,
in questa Rivista, 2005, pag. 1105.
(12) L. Stanghellini, Le crisi di impresa fra diritto ed economia, cit., pag. 56, 109, 194
seg.; C. Ferri, L’esperienza dei Chapter 11. Procedura di riorganizzazione dell’impresa in prospettiva di novità legislative, in Giur. comm., 2002, I, pag. 65 seg.
(13) F. Guerrera, Il concordato fallimentare nella riforma: novità, problemi, prospettive
anche alla luce del «decreto correttivo», in questa Rivista, 2007, pag 815.
(14) L. Stanghellini, Le crisi di impresa fra diritto ed economia, cit., pag. 50; F. Guerrera (- M. Maltoni), Concordati giudiziali, pag. 993.
Parte I - Dottrina
131
crediti vantati. La proposta anticipata deve essere accompagnata dall’inventario, da una relazione illustrativa e dalla elencazione (relazione) dei crediti.
Mentre l’unico legittimato a presentare la proposta anticipata di convenio è il debitore (art. 104.1) ma con la precisazione di cui in appresso, nel
caso della tramitacion ordinaria del convenio o tramitacion durante la seconda fase, la Ley concursal riconosce una duplice legittimazione sia al debitore
concorsuale che ai creditori i cui crediti superino anche congiuntamente
una quinta parte del totale delle passività (art. 113).
Peraltro, anche nella proposta anticipata di convenio si richiede come
condizione di ammissibilità per inoltrare la proposta l’adesione da parte
di tanti creditori che rappresentino una percentuale del quinto delle passività. Occorre inoltre chiarire che la percentuale del quinto dei crediti sia
calcolata solo sui crediti che subiscano una qualche decurtazione nella proposta (15).
Occorre quindi che, prima della dichiarazione giudiziale, il debitore
spieghi ai suoi creditori o almeno ad alcuni di essi che versi in stato di insolvenza o che tale stato sia imminente, e negozi la proposta anticipata sollecitando adesioni preventive alla medesima.
Si noti inoltre che, sempre nella prima fase, i creditori non acquistano
una legittimazione autonoma nemmeno se hanno presentato istanza di liquidacion, cosı̀ come il debitore può presentare istanza di convenio anticipata
con la medesima istanza con la quale presenta istanza di dichiarazione giudiziale di concorso volontario (art. 104.1) o entro dieci giorni dalla notifica
all’imprenditore della dichiarazione di apertura giudiziale del concorso.
Nella fase successiva, si è anticipato, la legge riconosce una legittimazione concorrente ai creditori purché non siano subordinati, cosı̀ come la
proposta del debitore anticipata è inammissibile se il passivo è formato
per oltre l’ottanta per cento da crediti subordinati cioè se le adesioni da
parte dei creditori provengano per meno del venti per cento da creditori
i cui crediti siano postergati. I creditori subordinati, cioè, non solo non votano sulla proposta (art. 122.1-1) ma non hanno legittimazione ad aderire
alla proposta.
Questo significa che, nel diritto spagnolo, la legittimazione concorrente
alla presentazione della proposta è consentita solo a quei creditori il cui interesse all’accrescimento delle risorse del creditore non assuma più accentuati profili partecipativi, il che accade, per l’appunto, in tutte le ipotesi
di crediti subordinati e, io credo, anche nel caso di strumenti finanziari partecipativi (nella attribuzione dei quali ai creditori può, invece, anche consistere la proposta di convenio).
(15) A. Rojo, La legitimaciòn para presentar propuesta de convenio, cit., pag. 205 seg.
132
Il diritto fallimentare e delle società commerciali
La disciplina spagnola ammette la possibilità di presentazione di più
proposte fino a un massimo di cinque (una da parte del debitore e fino a
quattro da parte di gruppi di creditori ciascuno dei quali rappresentino
più di un quinto dei crediti (16).
In realtà, anche per la proposta anticipata vi è la effettiva possibilità che
i creditori presentino proposta di convenio anche concorrendo con la proposta anche anticipata del debitore. La concorrenza di proposte di tipo diverso è resa possibile per il particolare meccanismo dei termini che, per la
proposta anticipata da parte del debitore, spira con lo scadere del termine
per quantificare i crediti, mentre per la proposta dei creditori il termine scade con la scadenza del termine per impugnare l’inventario o lo stato passivo
(art. 113 comma 1 ley concursal) o quaranta giorni prima della data fissata
(fecha señalada par la sua celebracion: art. 113 comma 2) ma la legge riconosce al debitore la possibilità di precludere ai creditori la presentazione della
proposta esercitando il diritto a chiedere la liquidazione dell’attivo (art.
113.1), entro il quinto giorno da che ha avuto comunicazione della presentazione della proposta.
A parte questo caso, che resta l’unica ipotesi di preclusione alla presentazione di una proposta di convenio, per il resto possono concorrere la presentazione di una proposta di convenio anticipata da parte del debitore con
la presentazione di una proposta di convenio ordinario da parte dei creditori.
Viceversa, contro la volontà del debitore di chiedere la liquidazione dei
beni e dei diritti che compongono la massa attiva non può prevalere la volontà dei creditori qualunque sia la percentuale dei crediti da loro rappresentata.
L’esercizio del diritto potestativo del creditore a chiedere la liquidazione concorsuale esige, però, la concorrenza di due presupposti: uno positivo,
la presentazione di una proposta da parte di una percentuale legittimata e
uno negativo, cioè che il debitore non abbia presentato una propria proposta. In sostanza la necessità di trovare un punto di equilibrio tra interesse
dei creditori a gestire la crisi e interesse dell’imprenditore a non vedersi
espropriato dell’impresa, esigenza che già ha sollevato in Italia qualche perplessità in ordine alla previsione della esclusione della legittimazione dell’imprenditore a presentare la proposta di concordato contenuta nel decreto Marzano (17) nonché, per un anno dopo la dichiarazione di fallimento,
nell’art. 124 comma 1 legge fallim., trova una soluzione da un lato nella le-
(16) A. Rojo, La legitimaciòn para presentar propuesta de convenio, cit., pag. 205 seg.
(17) S. Triconi, Sul concordato nell’amministrazione delle grandi imprese, cit., pag.
1108; G.U. Tedeschi, Piano di risanamento e concordato nell’amministrazione straordinaria
speciale, ivi, pag. 751 e seg. che ritiene ingiustificata tale esclusiva legittimazione.
Parte I - Dottrina
133
gittimazione concorrente con la possibilità di presentare pluralità di proposte, dall’altro nella netta preferenza accordata alla liquidazione concursal su
richiesta del debitore.
Ambedue i punti meritano qualche ulteriore riflessione. Innanzi tutto,
la presentazione di una pluralità di proposte (e, si è visto, anche di
convenio anticipato da parte del debitore rispetto al convenio nell’ambito
del concurso necessario da parte dei creditori) costituisce una soluzione presente anche nella prassi italiana e, per quanto riguarda il concordato fallimentare recepita anche dall’art. 125, comma 3, legge fallim. nel testo modificato dal d.lgs.n. 9 del 2006, ma abrogato dal d.lgs. n. 169 del
2007 (18); si ritiene, in sostanza, che la presenza di una pluralità di proposte
favorisca la migliore allocazione dell’azienda o delle risorse della medesima.
In secondo luogo, la presentazione di una proposta di convenio impedisce la liquidazione concorsuale, purché sia accompagnata da una istanza di
apertura del concorso, ma soccombe di fronte ad una istanza di liquidazione presentata dal debitore. Insomma l’unica possibilità che ha il debitore di
sottrarsi alla proposta di convenio presentata dai creditori è di presentare
una migliore proposta o di sottoporsi alla liquidazione concorsuale che, però, è pur sempre di tipo espropriativo. Ne deriva, quindi, che l’idea che la
definizione giudiziale nella disciplina spagnola goda del favor del legislatore,
sia pure orgogliosamente ribadita nella c.d. exposicion de motivos (VI) della
Ley n. 22/2007 rispetto ad altre forme di liquidazione concorsuale va considerata quantomeno con un minimo di cautela. Pare più corretto ritenere
che la liquidacion judicial costituisce una soluzione residuale da applicare
ogni volta che il debitore ne faccia istanza o che durante la pendenza di
una proposta si renda conto della impossibilità di onorare i pagamenti promessi o le obbligazioni contratte e da eseguire posteriormente alla approvazione della proposta. Si noti che l’impossibilità di onorare la proposta non
porta alla dichiarazione di fallimento ma solo alla applicazione dello strumento, per certi versi più flessibile, della liquidacion judicial.
Il problema, allora, sembra porsi in questi termini: se un debitore intende presentare una proposta di ristrutturazione del debito deve da un lato
accettare l’idea di aprire un procedimento che riveste carattere unitario;
dall’altro accettare il rischio che finisca per prevalere una proposta diversa
cioè una delle quattro (fino a quattro) proposte presentate dai creditori; a
questa scelta il debitore può sottrarsi solo optando per la liquidazione giudiziaria (su istanza dello stesso debitore). Va ancora sottolineato che la proposta di convenio è alternativa alla liquidazione giudiziaria, tanto è vero che
(18) In argomento F. Guerrera, Il concordato fallimentare nella riforma, cit., pag. 828
secondo cui spetterebbe al comitato dei creditori, nell’esprimere il parere vincolante, la scelta
finale di selezionare la proposta più vantaggiosa.
134
Il diritto fallimentare e delle società commerciali
la prima non può avere ad oggetto la cessione dei beni o la liquidazione dell’azienda.
3. Nel diritto spagnolo, la legittimazione dei creditori a presentare una
proposta di convenio in concorrenza con quella presentata dal debitore si
giustifica sia per l’identità del presupposto oggettivo (l’insolvenza) sia per
la unicità di procedura concorsuale (a differenza di quanto è previsto nel
diritto italiano) (19).
La scelta del legislatore spagnolo pare sempre sorretta dalla considerazione secondo la quale, in caso di insolvenza, da un lato ogni accrescimento
del patrimonio del debitore non può che andare a vantaggio dei creditori e
ogni aumento del rischio per nuove iniziative economiche non può che scaricarsi sui creditori e non sul debitore; dall’altro che si apre una situazione
di conflitto tra i creditori cosicché è corretto ritenere che dai processi decisionali siano esclusi i creditori più partecipi (in senso giuridico) al rischio di
impresa (20).
Un ulteriore corollario di questa premessa di fondo è costituito dalla
competenza del consiglio di amministrazione e non dell’assemblea ad approvare la proposta di concordato di una società di capitali. Se il debitore
è una persona giuridica, la decisione sulla presentazione della proposta è di
competenza dell’organo di amministrazione o di liquidazione (arg. ex art.
3.1, ii, Ley concursal n. 22/2003), senza che sia necessaria l’autorizzazione
o la ratifica posteriore da parte della junta dei soci.
Anche la circostanza che una società sia in liquidazione non impedisce
che i liquidatori presentino una proposta di convenio (che, per esempio,
possa prevedere l’assunzione da parte di un terzo della gestione di una determinata unità produttiva con pagamento parziale dei creditori: art. 100.2,
ii) senza necessità che la junta deliberi sulla revoca dello stato di liquidazione.
La competenza del consiglio di amministrazione riconosciuta dall’art.
3.2, ii della Ley concursal appare coerente con il generale principio della
competenza esclusiva degli amministratori in tutti gli atti di gestione, non
esclusa anzi, mi sembra, rafforzata dal riconoscimento contenuto nell’art.
44, comma 1, lett. h, Ley n. 2/1995 e dalla esplicita previsione di autorizzazioni assembleari contenute nell’art. 44, comma 2, ley n. 2/1995, tanto più
alla luce dell’atteggiamento cauto della dottrina spagnola nel riconoscere un
generale potere di direttiva ai soci (alla junta general) specie per quanto riguarda la gestione ordinaria (21).
(19) E. Beltràn, El derecho concursal español, cit., pag. 778 seg.
(20) A. Rojo, La legitimaciòn para presentar propuesta de convenio, cit., pag 209 seg.
(21) Cuenca Garcia y Ferrando Villalba, Las competencias de los òrganos sociales
Parte I - Dottrina
135
Se mai la competenza esclusiva del consiglio di amministrazione, cosı̀
come delineato dall’art. 152 legge fallim., stride con la generale competenza
gestoria riconosciuta ai soci di soc. a resp. lim., indipendentemente da ogni
distinzione tra alta e corrente amministrazione, dall’art. 2479, comma 1,
cod. civ.; nonché ancora, con quelle letture, peraltro, non da tutti condivise,
secondo cui anche nella società per azioni residuerebbe un potere generale
di gestione in capo all’assemblea (22).
Le obiezioni esposte, a nostro avviso, non colgono nel segno. Non la
prima, perché nelle società a responsabilità limitata da un lato la gestione
spetta normalmente ai soci, tanto è vero che potrebbe anche non esservi
un organo di gestione (23) e, in questo caso, la amministrazione spetterebbe
pur sempre ai soci; dall’altro l’art. 152 legge fallim. non impedisce che tanti
soci che rappresentino un terzo del capitale sociale possano chiedere che
sull’argomento si pronuncino i soci (art. 2479, comma 1, cod. civ.), ovviamente assumendosene la responsabilità.
Il problema della competenza a deliberare sulla proposta di concordato
non può che essere risolto alla luce da un lato del principio secondo cui
ogni atto di gestione, nell’ipotesi di incapienza del patrimonio della società,
non può che risolversi a vantaggio o a danno principalmente dei creditori e
non dei soci a responsabilità limitata i quali hanno già perso il valore dell’investimento e potrebbero non avere alcun interesse ad assumere decisioni
salvifiche per la società; dall’altro in base al corollario che coloro che assumono delle decisioni di tipo gestorio non possano che assumersene anche le
conseguenze.
Non richiede allora particolari argomentazioni la tesi secondo cui la assunzione di decisioni di carattere gestorio, lato sensu intese, si traduce in
una normale assunzione di responsabilità (24), come d’altro canto è dimostrato dall’art. 2476 cod. civ. e con specifico riferimento alla attività degli
organi gestori delle società insolventi negli atti di aggravamento del dissesto
en las sociedades mercantiles de capital, Valencia, 2005, pag. 168 seg.; Uria-Menendez, Curso de Derecho Mercantil, Madrid, 1999, I, pag. 1113; G. Guizzi, L’assemblea: ovvero delle
competenze dei soci e del modo di esercitarle nella società a responsabilità limitata riformata
(due esperienze a confronto), in Riv. dir. soc., n. 3/2007, pag. 27 seg.; non si può non registrare
l’autorevole opinione contraria di G.B. Portale, Rapporti tra assemblea e organo gestorio
nei sistemi di amministrazione, in Il nuovo diritto delle società. Liber amicorum Gianfranco
Campobasso, Torino, 2006, vol. 2, pag. 5 seg.
(22) Per tutti G.B. Portale, Rapporti tra assemblea e organo gestorio, cit., pag. 5 seg.
(23) G. Guizzi, L’assemblea, cit., pag. 27 seg.
(24) Sulla correlazione tra rischio di impresa e potere di gestione F. Denozza, Responsabilità dei soci e rischio di impresa nelle società personali, Milano, 1973; A. Nigro, Il fallimento del socio illimitatamente responsabile, Milano, 1974; G. Vassalli, Responsabilità d’impresa e potere di amministrazione, Milano, 1973.
136
Il diritto fallimentare e delle società commerciali
o addirittura negli orientamenti giurisprudenziali che ipotizzano la responsabilità degli amministratori per ritardata dichiarazione di auto(fallimento) (25).
D’altro canto non mi sembra si possa escludere una responsabilità degli
amministratori che non hanno tempestivamente presentato la dichiarazione
di fallimento sulla scorta dell’argomento invero discutibile per cui la stessa
dovrebbe essere presentata dall’assemblea (arg. ex artt. 217 e 224 legge fallim.) (26); cosicché, per quanto la presentazione di una proposta di concordato non sia assolutamente da considerarsi obbligatoria, mi sembra coerente che ad approvare la proposta di concordato siano i soggetti investiti della
gestione e che potrebbero essere chiamati a rispondere per non aver tempestivamente attivato tutti gli strumenti per risolvere lo stato di crisi.
Il discorso è più complesso per quanto riguarda la competenza dei soci
di società di persone a deliberare a maggioranza la proposta di concordato
preventivo o fallimentare come previsto dall’art. 152 legge fallim. perché
non tutti gli soci di società di persone sono amministratori e rispondono
del dissesto della società.
Non vi è dubbio, però che i soci illimitatamente responsabili comunque:
i) abbiano in via naturale la gestione della società; ii) siano patrimonialmente coinvolti nel dissesto, ancorché la loro responsabilità si poggi su presupposti affatto diversi (27), cosicché la competenza a deliberare sulla proposta
di concordato mi sembra si poggi sulla correlazione tra potere e rischio, dove il rischio deriva non dalla gestione ma dal regime legale di responsabilità
illimitata cui si può aggiungere anche una responsabilità da gestione, ancorché di minor impatto pratico; correlazione tra potere e rischio che invece
viene meno per definizione per le società di capitali, perché in caso di insolvenza il rischio non è più della società e non si riverbera più sulla aspettativa dei soci a preservare il valore delle rispettive partecipazioni, quanto si
scarica, per quanto abbiamo detto, sul ceto creditorio.
Nelle società di capitali, però, la gestione della società insolvente da un
lato non va a vantaggio/svantaggio dei soci ma direi unicamente dei creditori, dall’altro proprio perché la società è insolvente accentua i profili di responsabilità dell’organo di gestione, cosicché la presentazione di una proposta di ristrutturazione dei debiti, ancorché non obbligatoria non può
(25) Tribunale Genova, 21 gennaio 2005, in Giur. merito, 2006, 3, 712; Cassazione 26
maggio 2005, n. 154; in argomento A. Nigro, La riforma «organica» delle procedure concorsuali e le società, in questa Rivista, 2006, pag. 788.
(26) Mi permetto di rinviare a G. Giannelli, in Diritto fallimentare. Manuale breve, cit.,
pag. 183.
(27) F. Denozza, Responsabilità dei soci e rischio di impresa nelle società personali, Milano, 1973.
Parte I - Dottrina
137
che impingere, positivamente o negativamente sulla responsabilità degli amministratori.
Ne deriva che nelle società di capitali sembra incongruo riconoscere ai
soci la competenza di assumere delle decisioni i cui effetti si riverberano sul
patrimonio dei creditori e non hanno effetti immediati nella loro sfera patrimoniale (28).
Se questa è l’idea ne deriva un importante corollario e cioè che nelle società in accomandita semplice pare più corretto limitare la legittimazione a
votare ai soli soci accomandatari e non attribuirla ai soci accomandanti.
La tesi qui sostenuta non è smentita dalla lettera della legge che fa riferimento ad un criterio di calcolo delle maggioranze basato sulla partecipazione al capitale perché la norma indica appunto un criterio di formazione
delle maggioranze ma non detta, invece, un criterio di selezione della legittimazione, nel senso di limitare la partecipazione al voto ai soci di capitale
(o ai soli soci di capitale). Diversamente opinando, ne deriverebbe che da
un lato la norma escluderebbe dal voto i soci d’opera i quali però, in quanto
soci illimitatamente responsabili, risentirebbero delle conseguenze negative
dell’eventuale dissesto senza la possibilità di determinare una diversa scelta
di ristrutturazione della crisi della quale potrebbero beneficiare ex art. 184
legge fallim, dall’altro la scelta di adottare una decisione potrebbe essere del
contro approvata con il voto (anche determinante) dei soci accomandanti il
cui rischio sarebbe però limitato alla perdita del valore dell’investimento.
Tale conclusione è però inaccettabile e pertanto appare preferibile ritenere che: i) l’art. 152 legge fallim. ammetta la legittimazione al voto dei soci
d’opera, purché il loro apporto sia stato capitalizzato (29); ii) nel caso in cui
tutti i soci della società siano soci d’opera, per il calcolo delle maggioranze
si recuperi il criterio della partecipazione agli utili; iii) nelle società in accomandita semplice la decisione sia approvata dai soli soci accomandatari; iv)
ove il contratto sociale ammetta la legittimazione al voto dei soci accomandanti, costoro rispondano per gli eventuali danni derivanti dalla ingerenza
nella gestione.
4. Le considerazioni che precedono trovano ulteriore, anche se indiretta, conferma nell’art. 152, comma 2, lett. b, legge fallim. che attribuisce an-
(28) Osserva giustamente B. Libonati, Prospettive di riforma sulla crisi d’impresa, in
Giur. comm., I, 2001, pag. 327 seg., che se è equilibrato fornire il potere di gestire l’impresa
a chi fornisce il capitale di rischio, stante il maggior rischio che corre, nel momento in cui le
perdite abbiano bruciato il capitale investito, né i soci intendano investire nuove risorse, pare
legittimo attribuire la gestione della crisi ai titolari del capitale di credito.
(29) F. Guerrera, Commento all’art. 152, in Il nuovo diritto fallimentare, cit., pag.
2209.
138
Il diritto fallimentare e delle società commerciali
che nelle società in accomandita per azioni la competenza ad approvare la
proposta di concordato agli amministratori, e ciò perché sono pur sempre
costoro, a prescindere dalla soluzione che si voglia dare al problema se l’essere amministratori costituisca fattispecie dell’essere soci illimitatamente responsabili o viceversa, con un regime di responsabilità in quanto amministratori e soci accomandatari (art. 2455, comma 2, cod. civ.) a sopportare
il rischio della gestione cosicché, ancora una volta, il potere decisionale è
attribuito a chi sopporta le conseguenze economiche dell’agire (30).
Né deve stupire l’apparente contraddizione emergente da una lettura
affrettata dell’art. 152 legge fallim. che attribuisce ai soci delle società di
persone la competenza ad approvare la proposta di concordato secondo
un criterio che privilegia l’investimento nella partecipazione al capitale di
rischio, perché la partecipazione al capitale nelle società di persone non
funge da criterio di delimitazione del rischio, bensı̀ da criterio di riparto
delle perdite e quindi del rischio di impresa (artt. 2263, comma 1, 2280,
comma 2, cod. civ.).
Il discorso è più complesso per le società per azioni e non perché il problema non sia già risolto dall’art. 152 legge fallim. che per l’appunto prevede la competenza del consiglio di amministrazione ad approvare la proposta
di concordato, quanto perché qualsiasi esegesi della norma deve fare i conti
da un lato con quelle diverse letture che perseverano nell’attribuire una
competenza gestoria residuale all’assemblea dei soci, dall’altro con la possibilità (da considerare allo stato solo come un’ipotesi di lavoro) di individuare dei limiti alla competenza degli amministratori.
Nelle società per azioni la competenza sulle decisioni di carattere gestorio è attribuita, almeno in prima istanza, se non in via esclusiva, agli amministratori, anche per le decisioni di carattere gestorio straordinario, tra le
quali non esiterei a fare rientrare anche gli atti di riorganizzazione di impresa; considerazione che mi sembra confortata nell’assenza di ogni distinzione
tra competenze gestorie ordinarie e straordinarie come emerge dagli artt.
2380-bis e 2479, comma 1, cod. civ.
La scelta normativa è coerente con le accresciute competenze del consiglio di amministrazione in tutto ciò che riguarda la gestione della società, in
un quadro di più accentuata divisione di competenze tra assemblea ed amministratori che attribuisce a questi ultimi tutto ciò che attiene alla sfera dell’amministrazione e dell’alta gestione e si pensi alla emissione di obbligazioni o alla costituzione di patrimoni destinati, mentre a tutela dei soci la legge
predispone idonei rimedi quali l’esercizio dell’azione di responsabilità (artt.
(30) G. Ferri jr., Commento agli artt. 2452 seg., in Società di capitali. Commentario, a
cura di G. Niccolini e A. Stagno d’Alcontres, Napoli, 2004, sub art. 2452, pag. 1319 seg.; sub
art. 2455, pag. 1359 seg.
Parte I - Dottrina
139
2392 segg. cod. civ.), la denuncia al tribunale ex art. 2409 cod. civ. e l’impugnativa delle delibere di consiglio lesive dei diritti dei soci ex art. 2388,
comma 4, cod. civ.
La soluzione imposta dall’art. 152 legge fallim. conferma la scelta di sistema di accentrare nel consiglio di amministrazione le decisioni di gestione (31) incluse quelle di carattere strategico, già operata dal d. lgs. 310 del
2004 in sede di riformulazione dell’art. 2409-terdecies cod. civ. che ha attribuito al consiglio di sorveglianza il potere, ove previsto esplicitamente dallo
statuto, di deliberare in ordine ai «piani strategici, industriali e finanziari
della società, predisposti dal consiglio di gestione», ferma in ogni caso la
responsabilità di questo per gli atti compiuti (32) e quindi ribadisce da un
lato che, in assenza di previsione statutaria, la deliberazione del piano strategico e finanziario è di competenza del consiglio di amministrazione; dall’altro che l’attribuzione per statuto al consiglio di sorveglianza delle deliberazioni in ordine alle operazioni strategiche e dei piani industriali e finanziari non comporta il venire meno della responsabilità del consiglio di amministrazione per gli atti compiuti; nonché, ancora, dall’art. 2381 che prevede
che il consiglio di amministrazione, in presenza di organi delegati, «quando
elaborati, esamina i piani strategici, industriali e finanziari della società», cosicché si può affermare che: a) la redazione e predisposizione del piano strategico è di competenza dell’amministratore delegato o del comitato esecutivo; b) che il consiglio di amministrazione esamina il piano strategico e (ma
la legge non lo specifica) lo approva.
In sostanza, l’approvazione delle proposte di concordato fallimentare e
preventivo è di competenza del consiglio di amministrazione al pari delle
altre scelte di carattere strategico e l’accomunamento delle due tipologie
di decisioni non è certo casuale perché si tratta pur sempre di scelte che
attengono alla gestione dell’impresa.
La soluzione adottata dal legislatore della riforma della legge fallimentare è indice non solo di una mutata considerazione dei rapporti attinenti
(31) F. Guerrera, Commento all’art. 152, cit., pag. 2208; Id, Il concordato fallimentare
nella riforma: novità problemi prospettive alla luce del « decreto correttivo», in questa Rivista,
2007, I, pag. 826; e V. Caridi, Commento all’art. 152, in La riforma della legge fallimentare,
cit., pag. 939 e seg.
(32) P.P. Ferraro, Consiglio di sorveglianza ed alta gestione nell’amministrazione della
società per azioni, in questa Rivista, 2006, pag. 373; l’A. chiarisce che la disciplina in esame
implica una delimitazione del potere deliberativo del consiglio di sorveglianza limitato alle
sole materie di competenza degli amministratori, con la conseguenza di escludere che tra
le operazioni prese in considerazione dalla norma possano rientrare anche quelle di competenza assembleare nonostante le stesse possano avere una qualche rilevanza strategica (si pensi ad una trasformazione finalizzata a conseguire benefici normativi di favore ad una fusione
opportuna per aumentare la competitività sul mercato ecc.)
140
Il diritto fallimentare e delle società commerciali
alla gestione dell’impresa ma anche di una diversa considerazione dei rapporti tra gestione dell’impresa e gestione della società.
Mi spiego. La diversa opzione del legislatore del 1942 per la competenza dell’assemblea straordinaria dei soci era stata giustificata dalla dottrina in
base alla caratteristica comune delle procedure di concordato (oltre all’amministrazione controllata) di costituire in ogni caso, per i vincoli che ne derivano sul piano della gestione e o della liquidazione del patrimonio sociale,
atti sicuramente esorbitanti dall’amministrazione normale della società e,
quindi eccedenti i poteri «normali» degli amministratori tali pertanto da richiedere l’intervento dei soci (33).
Inoltre, la dottrina si era posta il problema se la proposta di concordato
potesse comprendere la continuazione dell’attività di impresa, non essendo
stato riprodotto l’art. 853 cod. comm. 1882 che testualmente prevedeva che
«nel fallimento di società anonima che non si trovi in stato di liquidazione il
concordato può avere ad oggetto la continuazione o la cessione dell’attività di
impresa», il che aveva indotto alcuni autori (34) ad escludere l’ammissibilità
della continuazione, altri ad ammetterla solo a condizione che vi fosse l’unanimità dei consensi dei soci, apprezzandosi tale decisione come revoca
implicita dello stato di liquidazione.
Questa soluzione era importante sia perché non considerava la disciplina dell’art. 152 legge fallim. come di per sé esaustiva; sia perché, limitata al
concordato fallimentare, giustificava la competenza dell’assemblea straordinaria in funzione della rimozione di una causa di scioglimento quale era, nel
vigore della vecchia disciplina, considerato il fallimento.
Sul piano sistematico, la competenza del consiglio di amministrazione si
giustifica nel mutato contesto legislativo, sia perché dopo la novella dell’art.
2484 cod. civ., il fallimento non comporta lo scioglimento della società (35)
cosicché anche la proposta di un concordato (fallimentare) che comporti un
ripristino della situazione patrimoniale della società non potrebbe apprez-
(33) A. Nigro, Le società per azioni nelle procedure concorsuali, in Trattato delle società
per azioni, diretto da G.E. Colombo e G.B. Portale, vol. 9, t. 2, Torino, 1993, pag. 262.
(34) Cosı̀ R. Provinciali, Trattato di diritto fallimentare, Milano, 1974, vol. III, pag.
2179; favorevoli all’ammissibilità invece De Semo, Diritto fallimentare, pag. 523; Maisano,
Il concordato preventivo, cit., pag. 54 segg.
(35) A. Nigro, Diritto societario e procedure concorsuali, in Il nuovo diritto delle società,
cit., pag. 177 seg.; Id., La riforma «organica» delle procedure concorsuali, cit., pag. 791. La
dottrina (G. Racugno, Lo «scorporo» d’azienda, cit., Milano, 1994, pag. 25) aveva sottolineato come lo scorporo dell’azienda nelle procedure concorsuali consentisse una netta separazione tra il momento liquidatorio, che fa capo agli organi della procedura e quello gestorio, reso
autonomo e distinto dal precedente attraverso lo scorporo, destinato far confluire il complesso aziendale integro e funzionante in un’apposita società conferitaria le cui partecipazioni rimangono nelle mani degli organi della procedura concorsuale fino alla definitiva immissione
nel mercato.
Parte I - Dottrina
141
zarsi come revoca dello stato di liquidazione (il che avrebbe potuto invece
giustificare, nel previgente contesto normativo, la persistenza della competenza dell’assemblea, sia pure con deliberazione all’unanimità); sia perché,
anche dopo la dichiarazione di fallimento, la continuazione dell’attività di
impresa non costituisce più un’eccezione ed infatti può essere autorizzata
dal tribunale già con la sentenza dichiarativa di fallimento (art. 104 legge
fallim.), o ancora essere oggetto di specifica previsione nel programma di
liquidazione (art. 104-ter legge fallim.) o, ancora, sempre nel programma
di liquidazione può essere prevista la continuazione dell’azienda da parte
dell’affittuario (art. 104-bis legge fallim.) o la alienazione in blocco dell’azienda o di suoi rami (art. 105 legge fallim.) o la continuazione o la alienazione di singoli segmenti o specifici progetti dell’attività di impresa (e mi
riferisco alla disciplina della alienazione o della continuazione di specifici
progetti imprenditoriali a fronte dei quali siano stati costituiti dei patrimoni
destinati o sia stato concluso un finanziamento destinato ad uno specifico
affare, tutte ipotesi nelle quali la continuazione della gestione del progetto
imprenditoriale, da parte del curatore o del terzo cessionario, costituisce la
regola piuttosto che l’eccezione mentre solo in via residuale si prevede la
liquidazione del patrimonio destinato o lo scioglimento del contratto di finanziamento destinato: artt. 155 e 72-ter legge fallim.) (36).
La disciplina esaminata allora comporta un mutamento della prospettiva in cui tradizionalmente si inquadrava la materia delle soluzioni giudiziali
della crisi perché si passa dalla visione del momento satisfattivo dei creditori
(che è coerente con una visione esclusivamente liquidatoria dei concordati)
al momento della ristrutturazione del debito (che potrebbe anche andare
disgiunto dal momento satisfattivo) (37), attraverso la continuazione dell’attività di impresa e, quindi, da una disciplina dell’atto a una disciplina dell’attività di impresa; in secondo luogo e proprio perché l’attenzione si concentra piuttosto sulla continuazione dell’attività di impresa, se necessario
anche attraverso la riallocazione del complesso aziendale, si passa da una
visione soggettiva del fenomeno ad una visione oggettiva che pone al centro, in via primaria, la continuazione dell’attività di impresa nel suo complesso anche attraverso la eventuale ricollocazione dei complessi aziendali.
5. La ristrutturazione della crisi dell’impresa richiede quindi una visione
oggettiva del fenomeno che guardi in primo luogo alla continuazione del-
(36) G. Ferri jr., Ristrutturazione dei debiti, cit., pag. 747 seg.; N. Abriani – G. Rescio, in Diritto fallimentare. Manuale breve, cit., pag. 73; A. Paciello, ivi, pag. 330 seg.;
mi sia permesso rinviare a G. Giannelli, ivi, pag. 354.
(37) G. Ferri jr., Ristrutturazione dei debiti, cit., pag. 747 seg.
142
Il diritto fallimentare e delle società commerciali
l’attività di impresa ma questo non necessariamente da parte dello stesso
soggetto o della stessa società.
Analogamente, nella disciplina spagnola la proposta oltre ad avere un
contenuto minimo essenziale di tipo dilatorio (espera) o remissorio (quita)
o misto (quita y espera) incontra, comunque, alcuni limiti i quali dipendono
dalla natura non liquidatoria del concordato nonché ancora dalla incompatibilità per forme di soddisfazione dei creditori attraverso l’assegnazione di
beni produttivi come datio in solutum.
Sono cosı̀ vietate: i) proposte che abbiano per oggetto la liquidazione
globale dell’attivo, dei beni e diritti della massa; ii) accordi che abbiano
per oggetto la liquidazione diretta o indiretta del patrimonio concorsuale;
iii) accordi che abbiano per oggetto la continuazione dell’attività di impresa
con attribuzione ai creditori, nel caso in cui il risanamento non riesca, del
potere di procedere alla alienazione dei beni aziendali. Sono invece ammessi
accordi che abbiano per oggetto la liquidazione parziale del patrimonio
concorsuale.
I limiti legali della proposta di concordato sono i seguenti: i) la quita
non deve essere superiore alla metà del credito; ii) la espera non deve essere
superiore a cinque anni a decorrere dalla approvazione giudiziale. Entrambi
i limiti presuppongono valori considerati, per scelta legislativa, ottimali, di
fattibilità finanziaria dell’operazione, sempre nell’ottica del recupero dell’attività di impresa. Si può sostenere cioè che vi è una presunzione assoluta
che una dilazione nei pagamenti superiore al quinquennio o l’imposizione
ai creditori di una falcidia superiore alla metà del credito non siano considerati parametri ottimali ai fini del recupero dell’attività di impresa.
Tuttavia, il superamento di questi limiti può essere autorizzato dal giudice, sia in caso di proposta anticipata di convenio, sempre che il plan de
viabilidad contempli una rinuncia o una dilazione superiore e nell’ottica
di assicurare la continuazione dell’attività di impresa (38), sia in caso di proposta ordinaria di convenio purché riguardi un’impresa di interesse per l’economia nazionale.
L’art. 100.2 della Ley concursal spagnola prevede che la proposta di convenio possa avere per oggetto l’offerta ai creditori di conversione dei loro crediti in azioni, quote o partecipazioni o crediti partecipativi. La proposta potrà
inoltre contenere la previsione del trasferimento di beni inerenti all’esercizio
dell’attività di impresa e di unità produttive a favore di altri soggetti persone
fisiche o giuridiche, purché l’acquirente si faccia carico della continuazione
dell’attività di impresa, secondo i termini della proposta e di un allegato plan
de viabilidad. È fatto esplicito divieto di prevedere nella proposta la cessione
(38) A. Rojo, El contenido esencial del convenio, cit., pag. 22.
Parte I - Dottrina
143
dei beni ai creditori in funzione solutoria o qualsiasi altra forma di liquidazione globale dei creditori in funzione satisfattoria degli stessi.
In sintesi, l’alienazione dei complessi aziendali può essere prevista come
oggetto della proposta di convenio solo in funzione della continuazione dell’attività di impresa, in cui il soddisfacimento dei creditori passi attraverso l’attuazione di un piano industriale e cioè la continuazione o la ripresa dell’attività
imprenditoriale, non invece attraverso un’attività meramente liquidatoria.
È certo comunque che nella disciplina spagnola sono ravvisabili due
momenti, uno relativo al trasferimento o se si preferisce alla riallocazione
dei beni e dei complessi produttivi, che si attua quindi sotto forma di trasferimento di valori o beni dalla impresa debitrice all’assuntore, l’altro che
riguarda la proprietà delle partecipazioni (altre forme di partecipazione al
rischi di impresa) della società titolare dei processi produttivi, sia il debitore
originario o l’assuntore, che potrà essere ricollocata presso i creditori.
Nella disciplina italiana, l’art. 160 legge fallim. prevede che la ristrutturazione dei debiti possa avvenire sia mediante cessione dei beni (lett. a), sia mediante trasferimento delle attività dell’impresa ad un assuntore (lett. b), nonché ancora mediante attribuzione ai creditori o a società da queste partecipate di azioni, quote, obbligazioni, anche convertibili in azioni, altri strumenti
finanziari o titoli di debito o della società in crisi (lett. a), o di una società
di nuova costituzione che si proponga come assuntore del concordato.
L’intervento dei creditori, d’altro canto, può non essere limitato alla mera
ricezione passiva di una proposta che possono approvare o meno, ma può essere loro riservato un ruolo attivo nella gestione della crisi, che si può attuare
in modi diversi; la partecipazione diretta nella società ammessa alla procedura
mediante assegnazione di quote, azioni o strumenti finanziari e cioè mediante
assegnazione di titoli di partecipazione o di equity ed ancora, proponendosi
come assuntori diretti del concordato o mediante partecipazione ad una società che si propone come assuntore del concordato ed al tempo stesso cessionario dei beni dell’impresa in crisi: con l’evidente obiettivo di pagare i creditori e
gestire le attività della società il cui ricavato sarà destinato al soddisfacimento
dei creditori assunti e, per il residuo, agli stessi creditori – a titolo di quota di
liquidazione – partecipanti al capitale della società assuntore. Peraltro, non si
può nemmeno escludere che la soddisfazione dei creditori avvenga mediante
erogazione di nuova finanza da parte degli stessi – e mi riferisco evidentemente al ceto bancario – in cambio della gestione dei beni aziendali attraverso la
costituzione di una società nella cui gli stessi vengono attribuiti, anche a titolo
di conferimento, realizzando cosı̀ il duplice obiettivo della soddisfazione dei
creditori e della preservazione dell’organismo produttivo (39).
(39) Mi permetto di rinviare a G. Giannelli, Concordato preventivo, accordi di ristrut-
144
Il diritto fallimentare e delle società commerciali
Come già visto nella disciplina spagnola, le operazioni sopra descritte si
pongono su piani diversi, perché in un caso oggetto di cessione e trasferimento sono i beni che compongono il patrimonio dell’impresa, nelle altre
ipotesi, invece, oggetto di attribuzione ai creditori sono azioni, strumenti finanziari obbligazioni o titoli di debito sia della società in crisi, che dell’assuntore cessionario della attività, cioè titoli di debito o strumenti di partecipazione al rischio di impresa della società che potrebbe continuare la gestione delle attività imprenditoriali.
Ebbene, mentre nella prima categoria di ipotesi, la ristrutturazione dei
debiti avviene attraverso il trasferimento (come si è visto non necessariamente ai creditori) dei beni aziendali (ma non solo, nel caso dell’imprenditore persona fisica), nella seconda ipotesi la ristrutturazione avviene attraverso l’assegnazione ai creditori di beni per cosı̀ dire di secondo grado,
che rappresentano cioè forme di partecipazione al capitale (nel caso delle
azioni) o a diverso titolo al rischio di impresa o al capitale di debito della
società in crisi o della nuova società che si propone come assuntore (40).
A ben riflettere, in entrambe le ipotesi considerate si assiste ad un trasferimento di valori, solo che nel primo caso la proposta di concordato ha
per oggetto il trasferimento di valori aziendali, inclusa l’azienda, i diritti in
contenzioso e, almeno nel caso del fallimento, le azioni c.d. di massa (art.
124 legge fallim.) ad altro soggetto (l’assuntore del concordato, sia questi
un creditore o una società costituita dai creditori o ancora altro soggetto),
con conseguente svuotamento totale o parziale della società in crisi o insolvente (41), e va detto che in questa prima ipotesi una variante può ricorrere
quando il trasferimento avviene a favore di un’altra società che concorre nel
processo di riorganizzazione d’intesa con la società in crisi o insolvente o
che deriva dal processo riorganizzativo; in questo caso, la riallocazione della
attività avviene attraverso operazioni di scissione totale o parziale, trasformazione, fusione per incorporazione in cui i trasferimenti patrimoniali, l’assunzione di crediti e debiti e partecipazioni sono il risultato di un processo
costituito da operazioni straordinarie (42).
turazione dei debiti, piani di risanamento dell’impresa nella riforma delle procedure concorsuali.
Prime riflessioni, in questa Rivista, 2005, I, 1158; M. Arato, La domanda di concordato preventivo dopo il d. lgs. 12 settembre 2007 n. 169, in questa Rivista, 2008, pag. 53 seg.; F.
Guerrera (- M. Maltoni), Concordati giudiziali e operazioni societarie di ristrutturazione,
cit., pag. 991.
(40) F. Guerrera (- M. Maltoni), Concordati giudiziali e operazioni societarie di ristrutturazione, cit., pag. 991.
(41) Di riorganizzazione novativa parla F. Guerrera (- M. Maltoni), Concordati giudiziali e operazioni societarie di ristrutturazione, pag. 996.
(42) F. Guerrera (- M. Maltoni), Concordati giudiziali e operazioni societarie di ristrutturazione, cit., pag. 998.
Parte I - Dottrina
145
Nel secondo caso, la società in crisi rimane proprietaria degli assets
aziendali ma la società viene rifinanziata e ad essere trasferite sono le azioni,
anche di nuova emissione con esclusione del diritto di opzione a favore dei
vecchi soci, o ancora strumenti finanziari, obbligazioni, titoli di debito ecc.
Come si è anticipato, si pone il problema di individuare eventuali limiti
alla competenza degli amministratori occorrendo pur sempre verificare se la
competenza degli amministratori prevista dall’art. 152 legge fallim. si estenda a tutte le operazioni di carattere straordinario in cui si può articolare la
proposta di concordato.
Nella prima categoria delle ipotesi considerate, la competenza è sicuramente degli amministratori, in quanto investiti per il compimento di tutti gli
atti di gestione straordinaria, mentre ci si può chiedere se essa si possa
estendere alla cessione liquidativa dell’azienda.
Il dubbio non è ozioso, non solo perché nel diritto spagnolo, come si è
visto, la proposta di convenio non può avere per oggetto la liquidazione totale dell’azienda, ma anche perché nella disciplina italiana, a parte il caso
del concordato fallimentare in cui evidentemente non si pone un problema
di competenza degli organi della società a disporre dei beni aziendali, nel
concordato preventivo da un lato il presupposto può non essere necessariamente l’insolvenza cosicché non è detto che la gestione dei beni attivi debba
andare necessariamente a vantaggio dei creditori, dall’altro la cessione o la
liquidazione dell’azienda comporterebbe di fatto l’impossibilità di conseguire l’oggetto sociale e l’insorgere di una causa di scioglimento della società o comporterebbe un mutamento dell’oggetto sociale e legittimerebbe il
diritto di recesso dei soci (art. 2361 cod. civ.).
Nonostante le perplessità sopra evidenziate, al quesito va però data riposta negativa. L’art. 2361 cod. civ. nella vecchia formulazione è stato letto
come una tutela contro l’alterazione fattuale delle condizioni oggettive di
rischio formalmente definite nel programma statutario (43); o, autorevolmente, ne è stata suggerita una lettura di sistema della norma per cui essa
proibirebbe anche la modifica della concreta struttura organizzativa e finanziaria della società (44).
(43) E. Grippo, Il recesso del socio, in Trattato delle società per azioni, diretto da G.E.
Colombo e G.B. Portale, vol. 6, t. 1º, 1993, pag. 151 seg.; è stato sostenuto che il passaggio
della società da un ruolo di tipo produttivo ad un ruolo finanziario come l’assunzione e gestione di partecipazioni comportasse modifica dell’oggetto sociale e legittimasse il diritto di
recesso dei soci: G. Racugno, Lo «scorporo» d’azienda, cit., pag. 39.
(44) A. Pavone La Rosa, Le attribuzioni dell’assemblea della società per azioni in ordine
al compimento degli atti inerenti alla gestione sociale, in Riv. soc., 1997, pag. 413; v. anche A.
Mirone, Commento all’art. 2361, in Società di capitali. Commentario cit., pag. 413, nota 8.
Peraltro non sono mancate letture limitative che circoscrivono la ratio al divieto di trasformazione delle società operative in holding finanziarie: Mucciarelli, «Holdings», società finan-
146
Il diritto fallimentare e delle società commerciali
Dopo la novella del 2003, la ratio dell’art. 2361 cod. civ. sembra quella,
più specifica, di prevenire per i soci di minoranza la perdita dei tipici diritti
di controllo (azione di responsabilità, denunzia al tribunale) sull’attività
operativa dimessa, ormai trasferiti sull’attività di gestione delle partecipazioni o di direzione e coordinamento delle controllate (45).
Le riflessioni che precedono consentono, però, di collocare il problema
della cessione liquidativa dell’azienda nel suo giusto contesto. Infatti, da un
lato la semplice assunzione di partecipazioni in altra società non rientra di
per sé nella competenza assembleare, dall’altro la sottoscrizione di partecipazioni rientra nelle competenze del consiglio di amministrazione se è prodromica alla continuazione dell’attività di impresa.
Per quanto riguarda però la gestione concorsuale delle crisi di impresa,
l’assunzione di partecipazioni in altre società è espressamente contemplata
dall’art. 105, penultimo capoverso, legge fallim. in cui la cessione dell’azienda in altra società passa pur sempre attraverso la sottoscrizione da parte del
curatore, del capitale della società newco, ancorché in funzione di un collocamento delle azioni o quote sul mercato; dall’art. 124, comma 2, legge fallim., in cui la soddisfazione dei creditori avviene attraverso la cessione di
azioni o quote di una nuova società cui siano stati ceduti i beni aziendali;
dall’art. 160 lett. a legge fallim. che prevede la medesima soluzione nell’ambito del concordato preventivo; dall’art. 160 lett. b che prevede la cessione
delle attività ad una società che si propone come assuntore del concordato.
Ebbene, nella disciplina italiana del fallimento prevale la logica della
continuazione dell’attività di impresa (46) anche attraverso il trasferimento
dell’azienda ad altre società costituite per l’occasione, né almeno nel caso
del fallimento, si può porre un problema di sottrazione dell’attività di impresa al controllo dei soci, perché il trasferimento dell’azienda è espressamente previsto nella disciplina della liquidazione dell’impresa fallita, né si
può dubitare dei poteri degli organi della procedura concorsuale di poter
ziarie e articolo 19 della legge 7 giugno 1974, n. 216, in Riv. soc., 1985, pag. 973 seg.; sembra
cioè che nella stessa ottica anche il conferimento di azienda a società controllate possa rilevare
come operazione vietata ex art. 2361 cod. civ.; infatti, tale operazione richiede a monte la costituzione di una controllata o l’acquisto di partecipazioni di controllo, decisioni a loro volta
tendenzialmente assoggettate a competenza assembleare. Peraltro, se l’operazione viene spezzata in due fasi ma rimane logicamente unitaria l’art. 2361 comma 1 dovrebbe restare applicabile; se invece si tratta di conferimento d’azienda in una controllata già operante nel settore,
se ne deduce che la prima delibera assembleare – che di fatto autorizza la trasformazione in
holding mista – esporrebbe i soci a rischio di future dismissioni con trasformazione della società in holding pura: A. Mirone, op. loc. cit., nota 26.
(45) A. Mirone, op. ult. cit.; in altre parole, ad essere vietata non è l’assunzione di partecipazioni ma il cambiamento dell’oggetto sociale da attività operativa in finanziaria: Mucciarelli, «Holdings», società finanziarie, cit., pag. 973 seg.
(46) G. Pellegrino, La riforma della legge fallimentare, in questa Rivista, 2006, pag. 349.
Parte I - Dottrina
147
disporre, nell’ambito del programma di liquidazione, dei beni dell’imprenditore insolvente.
Il discorso potrebbe essere diverso nel caso del concordato preventivo,
sia perché la cessione dell’azienda non è espressamente menzionata, sia perché la gestione di una crisi, non tramutatasi ancora in insolvenza, non pare
debba necessariamente andare a vantaggio dei creditori (il che è vero anche
se si considera che la riorganizzazione di un’impresa in crisi non ha necessariamente valenza satisfattiva per i creditori).
Le perplessità che precedono acquisterebbero però maggior peso se alla
competenza degli amministratori a deliberare sulla proposta di concordato
si attribuisse carattere eccezionale, il che però sarebbe stato giustificabile
alla luce della disciplina societaria anteriore alla riforma del 2003 in cui, anche alla luce della diversa formulazione dell’art. 2364 cod. civ., sembravano
legittimate letture che attribuissero agli amministratori la gestione ordinaria
e all’assemblea la c.d. alta gestione o gestione straordinaria (47). Il rigetto
della premessa comporta, invece, il rigetto delle conseguenze perché, dopo
la riforma del 2003, tutta la gestione dell’impresa sociale è attribuita alla
competenza degli amministratori anche in regime di società in bonis cosicché non si vede perché in regime di crisi, quando più accentuate sono le
responsabilità degli amministratori, debbano applicarsi diverse regole (48).
Ne discende in primo luogo che, sia nel caso di concordato preventivo
che fallimentare, la definizione dell’esposizione debitoria della società non
passa necessariamente attraverso la liquidazione e non solo perché la riforma sembra abbandonare la logica meramente liquidatoria della vecchia legge fallimentare (argomento di per sé non decisivo), ma anche perché lo stesso fallimento non è più causa di scioglimento per le società di capitali (art.
2484 cod. civ.).
Ne derivano alcuni corollari: innanzi tutto, la sistemazione della crisi di
impresa attraverso un programma remissorio non comporta una modifica
dell’oggetto sociale ma, se mai vi da attuazione. Lo stesso si dovrebbe dire
dell’attività di costituzione di società di capitali con allocazione presso il ceto
creditorio delle partecipazioni in funzione satisfattiva (49), perché in questo
caso non vi è per i soci l’assunzione di un rischio ulteriore mediante la modifica dell’oggetto sociale, quanto piuttosto la sistemazione e definizione di
un rischio di impresa attraverso il passaggio da società operativa a holding.
Per lo stesso motivo, la proposta di concordato con cessione dei beni
(47) Per una ricostruzione del dibattito v. C. Montagnani, Commento all’art. 2364, in
Società di capitali. Commentario, cit., pag. 446 seg.
(48) B. Libonati, Assemblea e patti parasociali, in Riv. dir. comm., 2002, I, pag. 468.
(49) V. già prima della riforma delle procedure concorsuali, A. Nigro, Le società per
azioni nelle procedure concorsuali, cit., pag. 262.
148
Il diritto fallimentare e delle società commerciali
non comporta necessariamente la modifica dell’oggetto sociale, nemmeno
quando in tale modifica sia contemplata la cessione del complesso aziendale, e neanche il conferimento dell’azienda in società conferitaria senza una
successiva allocazione delle azioni presso i creditori potrebbe ritenersi configurare una modifica dell’oggetto sociale, se l’operazione si propone di
consentire la creazione di un flusso finanziario per soddisfare i creditori.
L’operazione di scorporo potrà essere qualificata come momento dell’organizzazione dell’impresa e come tale compresa nei poteri di amministrazione
e gestione dell’organo amministrativo, ove determini la permanenza di
un’attività operativa principale in capo alla società scorporante, di guisa
che lo scorporo, con il connesso ruolo di finanziaria che la scorporante viene ad assumere, sia strumentale rispetto all’attività principale.
Infine, qualora la proposta di concordato preventivo o fallimentare si
traduca in una modifica dell’oggetto sociale ciò dovrebbe comportare l’insorgere del diritto di recesso dei soci (art. 2361, 2437 e 2473) il cui diritto
alla liquidazione della quota, però, sarebbe pur sempre postergato al soddisfacimento dei creditori sociali (50). Analogamente, in caso di impossibilità
di raggiungimento dell’oggetto sociale per cessazione dell’attività di impresa
a seguito della definitiva alienazione dei processi produttivi si verificherà lo
scioglimento della società.
La riconosciuta competenza degli amministratori al compimento delle
operazioni di ristrutturazione attinenti alla gestione dell’impresa e del patrimonio aziendale ne segna al tempo stesso il limite, perché né gli amministratori, né gli organi della procedura potranno incidere sullo strumento societario che resta nella disponibilità dei soci, né modificare la struttura organizzativa o patrimoniale della società quali, per esempio, l’emissione di strumenti finanziari partecipativi, l’approvazione di proposte di aumento del
capitale, o operazioni di fusione o scissione o altre eventuali modifiche statutarie che possono essere deliberate successivamente all’assemblea straordinaria come esecuzione della proposta di concordato (51).
Il soddisfacimento dei creditori, allora, potrà avvenire attraverso forme
di riorganizzazione novativa che comportino un trasferimento o comunque
una modifica della proprietà delle quote di partecipazione della impresa debitrice e ai creditori potranno essere assegnate azioni o altri strumenti finanziari di società già costituite o costituite ad hoc cui siano già stati trasferiti i
beni sociali, o gli stessi potranno sottoscrivere il capitale di società preesistenti (inclusa quella fallita, previa esclusione del diritto di opzione) com-
(50) G. Racugno, Lo «scorporo» d’azienda, cit., pag. 40.
(51) F. Guerrera (- M. Maltoni), Concordati giudiziali e operazioni societarie di ristrutturazione, cit., pag. 1001
Parte I - Dottrina
149
pensando il debito di conferimento con il credito vantato nei confronti della
società fallita o della società assuntore (52).
Ebbene, ancorché sul piano pratico l’effetto di queste operazioni possa
essere simile, in quanto la sottoscrizione da parte dei creditori di azioni di
una società di nuova costituzione cui sia stata trasferita l’azienda non raggiunge risultati diversi rispetto ad un aumento di capitale riservato ai creditori con esclusione del diritto di opzione, cosı̀ come le operazioni di fusione
e scissione con lo scopo di parcellizzare l’impresa sociale collocando poi i
singoli pezzi sul mercato sono fattispecie che, almeno sul piano sostanziale,
anche se non certo su quello formale, riecheggiano quanto previsto dall’art.
105 ult. comma in tema di vendita di rami di azienda a società di nuova costituzione per facilitarne il collocamento sul mercato, resta ferma la competenza dell’assemblea a deliberare su operazioni di modifica statutaria straordinarie (aumento del capitale, trasformazione, fusione e scissione, emissione
di strumenti finanziari partecipativi) anche in pendenza della procedura
concorsuale, cosı̀ come sarà comunque richiesto il consenso dei soci in caso
di assegnazione di vecchie azioni ai creditori della società (53).
Se il limite alla competenza degli amministratori va allora individuato
nella necessità di una deliberazione assembleare straordinaria (ad es., delibera di fusione, scissione o trasformazione) si registra un’inversione – ed
una ben precisa delimitazione di confini – tra le modifiche statutarie che,
in alcuni casi, possono essere attribuite alla competenza degli amministratori purché lo statuto lo preveda (art. 2365), e l’approvazione della proposta di
concordato preventivo o fallimentare che resta di competenza del consiglio
di amministrazione salva diversa previsione statutaria.
Se ne ricava allora, sul piano sistematico, una indicazione non trascurabile e cioè non solo che la competenza degli amministratori è naturale e incontra un limite in una diversa previsione dello statuto ma, più in generale,
incontra un limite nel riparto di competenze organizzative per scelte statutarie o di legge.
L’esistenza di questi limiti non comporta però che le decisioni debbano
essere assunte prima dell’approvazione della proposta di concordato, viceversa, le deliberazioni possono essere assunte dopo e direi anche dopo l’omologazione da parte del tribunale (54).
(52) L. Stanghellini, Commento all’art. 124, cit., pag. 1962.
(53) Conforme F. Guerrera (- M. Maltoni), Concordati giudiziali e operazioni societarie di ristrutturazione, cit., pag. 1001, contra G. Ferri jr., Ristrutturazione dei debiti, cit.,
pag. 762.
(54) In argomento F. Guerrera (- M. Maltoni), Concordati giudiziali e operazioni societarie di ristrutturazione, cit., pag. 1001 seg.; M. Castellano, Commento agli artt.152-154,
in Il nuovo fallimento, a cura di F. Santangeli, Milano, 2006, pag. 687.
150
Il diritto fallimentare e delle società commerciali
6. Le soluzioni giudiziarie della crisi di impresa possono comportare, si
è detto, un trasferimento di valore a favore dei creditori sia sotto forma di
assegnazione di beni o altri valori (ma abbiamo visto come tale soluzione
non sia contemplata dalla disciplina spagnola, almeno quando comporti
una liquidazione globale dell’azienda), sia sotto forma di assegnazione di
azioni o altri titoli di partecipazione al rischio dell’attività di impresa. Anche
quando il momento satisfattivo dei creditori non sia di immediato oggetto
della proposta di concordato (come accade nelle proposte di convenio con
espera o nei concordati meramente dilatori nella disciplina italiana), la ristrutturazione del debito costituisce pur sempre un progetto di continuazione dell’attività di impresa, intesa nel suo significato oggettivo, in funzione
di un recupero dell’equilibrio finanziario.
Anche la continuazione dell’attività da parte di un’impresa in crisi cioè
deve andare a vantaggio del ceto creditorio e ciò giustifica la scelta legislativa di un trasferimento, totale o concorrente, del governo delle crisi dagli
organi di gestione dell’impresa ai creditori.
Questo trasferimento si attua secondo due modalità: attraverso una legittimazione concorrente dei creditori a presentare la proposta di concordato ed è questo il caso previsto per il concordato fallimentare dall’art. 125
legge fallim., nonché, nel diritto spagnolo, ove si riconosce la legittimazione
ai creditori i cui crediti superino anche congiuntamente una quinta parte
del totale delle passività (art. 113, Ley concursal); o attraverso il potere di
approvare la proposta di concordato (artt. 128 e 177, legge fallim.)
Nella disciplina spagnola, l’approvazione della proposta da parte dei
creditori coinvolge due distinti livelli, in quanto si richiede, come condizione di ammissibilità per inoltrare la proposta anticipata di convenio, l’adesione preventiva da parte di tanti creditori che rappresentino una percentuale
del quinto delle passività; successivamente, ciascuna proposta dovrà essere
messa in votazione e sottoposta all’approvazione da parte della junta dei
creditori (art. 121 Ley concursal).
In entrambe le discipline, la approvazione della proposta finisce cosı̀ essere rimessa a coloro che ne sono i destinatari effettivi e cioè i creditori, con
un arretramento sensibile del potere di valutazione da parte del giudice, però con qualche importante specificazione.
Nella disciplina spagnola, il giudice potrà sindacare la proposta esclusivamente per vizi di legittimità, o in via preventiva (art. 106.3 per la proposta
anticipata di convenio e 114 per il convenio ordinario), o in sede di decisione
sull’opposizione da parte dei creditori, o di ufficio, anche nel caso in cui la
proposta sia approvata dalle maggioranze prescritte e non siano proposte
opposizioni, in caso di violazione di legge attinente al contenuto della proposta, alla forma o al contenuto delle adesioni dei creditori o alla costituzione o funzionamento dell’adunanza dei creditori (art. 131, Ley concursal).
Questo potere si aggiunge a quello, già esaminato, di autorizzare il su-
Parte I - Dottrina
151
peramento dei limiti di legge, sia in caso di proposta anticipata di convenio,
sempre che il plan de viabilidad contempli una rinuncia o una dilazione superiore e nell’ottica di assicurare la continuazione dell’attività di impresa (55), sia in caso di proposta di convenio che riguardi imprese che rivestano particolare interesse per l’economia nazionale.
In sostanza, nella disciplina spagnola, l’intervento del giudice da un lato
assolve in alcuni casi ad una funzione di facilitazione di presentazione della
proposta, dall’altro in sede di controllo è strettamente legato ad una verifica
di legittimità, nelle diverse fasi, anteriore e posteriore all’approvazione da
parte dei creditori, anche se riveste un più marcato carattere di officiosità
rispetto all’ordinamento italiano.
Nella disciplina italiana, nonostante le iniziali e comprensibili incertezze
interpretative, dovute anche al non chiarissimo testo del primo d.l. n. 30 del
2005 (56), dopo l’entrata in vigore delle modifiche apportate dal d. lgs. n.
169 del 2007, si è sostanzialmente imposta una lettura che demanda al tribunale, in sede di ammissione dell’imprenditore alla procedura, il controllo
meramente formale della proposta e, in sede di omologazione, il controllo
sulla fattibilità della proposta, esclusa ogni valutazione sul merito cioè sulla
convenienza della stessa, mentre tuttora oggetto di discussione è se il controllo del tribunale in questa seconda fase debba essere subordinato alla
presenza di opposizioni da parte dei creditori (57).
L’indubbio arretramento dei poteri del giudice, rispetto alla disciplina
del 1942, oltre che rispondere a una precisa opzione di politica del diritto,
ha sicuramente una spiegazione di sistema, perché la proposta di concordato, in conseguenza delle riforme del 2005-2007, ha un contenuto sempre
più destrutturato e si presenta come programmazione di un segmento di
un’attività di impresa o, se si preferisce, come un piano industriale che
ha per oggetto la ristrutturazione del debito, ma che, proprio per questi
(55) A. Rojo, El contenido esencial del convenio, cit., pag. 22.
(56) In tema L. Guglielmucci, La riforma in via d’urgenza della legge fallimentare,
Torino, 2005, pag.109 seg.; S. Pacchi, in Aa.Vv., Il nuovo concordato preventivo: dallo stato di crisi agli accordi di ristrutturazione, a cura di S. Pacchi, Milano, 2005, pag. 142; G.
Giannelli, Concordato preventivo, cit., pag. 1159 seg.; S. Ambrosini, La domanda di concordato preventivo, l’ammissione alla procedura e le prerogative del tribunale, in Aa.Vv., La
riforma della legge fallimentare. Profili della nuova disciplina, a cura di S. Ambrosini, Bologna-Roma, 2006, pag. 322; P. Censoni (S. Bonfatti). La riforma della disciplina dell’azione revocatoria fallimentare, del concordato preventivo e degli accordi di ristrutturazione, Padova, 2006, pag. 240 seg.; G. Fauceglia, Incertezze valutative in tema di nuovo concordato
preventivo tra risentimento dei giudici ed incertezze del legislatore, in questa Rivista, 2006,
II, pag. 130; G. Schiavon, La nuova disciplina del concordato preventivo in seguito al decreto legge n. 35 del 2005, in questa Rivista, 2005 pag. 819; S. Scarafoni, La riforma del
concordato preventivo, ivi, pag. 832.
(57) F. Guerrera, Le soluzioni concordatarie, cit., pag. 147.
152
Il diritto fallimentare e delle società commerciali
motivi, difficilmente può essere oggetto di valutazione da parte del tribunale sotto il profilo della convenienza, a differenza della proposta molto più
ingessata e con finalità esclusivamente solutorie disciplinata dal previgente
art. 160 legge fallim., che era più facilmente valutabile dal tribunale anche
sotto il profilo della meritevolezza. In altre parole, quanto più la proposta di
concordato si presenta come legislativamente destrutturata, quanto più la
sua valutazione diventa discrezionale e comporta l’adozione di scelte di tipo
gestorio per le quali sono meglio qualificati i titolari dell’interesse economico sotteso (cioè i creditori), mentre al tribunale finisce per essere demandato il controllo del rispetto delle regole, di tipo meramente formale ed estrinseco nella prima fase di delibazione sommaria (58), di tipo sostanziale, nel
senso di rispetto di regole di buona amministrazione, in fase di omologazione (59). Il controllo sulla fattibilità della proposta, cioè, consiste in un sindacato, di legalità sostanziale, sulle condizioni di autoregolamentazione della
crisi o dell’insolvenza e sul corretto trattamento di tutti i creditori (60) e costituisce applicazione specifica del controllo del rispetto delle regole di corretta gestione imprenditoriale e societaria sempre demandato al tribunale in
sede di valutazione della responsabilità per la gestione dell’impresa (artt.
2392, 2476, comma 7, 2486, 2489, comma 2, 2497 cod. civ.). Né il richiamo
di questa disciplina deve destare particolari preoccupazioni, perché, in sede
di valutazione della proposta di concordato, il tribunale effettua un controllo del rispetto delle regole di corretta gestione (e, quindi, di fattibilità della
proposta) nella autoregolamentazione della crisi di impresa, la cui violazione, cosı̀ come la mancata adozione di un piano di ristrutturazione del debito, può comportare l’insorgere di responsabilità a carico di coloro che sono
preposti alla gestione della crisi.
(58) Ritengono però che anche nella fase di valutazione dell’ammissibilità della proposta
il tribunale debba valutare non il merito della stessa ma la credibilità della relazione del professionista S. Scarafoni, Il giudizio d’ammissione al concordato preventivo, cit., pag. 915; M.
Ferro, Commento all’art. 161, in La legge fallimentare. Commentario, a cura di M. Ferro,
Padova, 2007, pag. 1201.
(59) Parla di valutazione di «conformità estrinseca» della domanda alle norme di legge,
che comporta la sommaria disamina della proposta, del piano e degli allegati, F. Guerrera,
Le soluzioni concordatarie, cit., pag. 147, ma esclude ogni apprezzamento sulle condizioni offerte e sul programma elaborato dal debitore.
(60) F. Guerrera, Le soluzioni concordatarie, cit., pag. 165.
IL DIRITTO FALLIMENTARE
E D E L L E S O C I E T À C O M M E R C I A L I
PARTE SECONDA
CORTE COSTITUZIONALE
30 maggio 2008, n. 181
Pres. F. Bile - Rel. P.M. Napolitano
Fallimento - Esdebitazione - Ricorso del debitore - Notifica ricorso ai creditori concorrenti non soddisfatti integralmente - Assenza della previsione - Illegittimità
(Art. 143 legge fallim. e art. 24 Cost.)
In caso di procedimento di esdebitazione attivato ad istanza del debitore, è
costituzionalmente illegittimo l’art. 143 legge fallim. nella parte in cui esso
non preveda la notificazione, a cura del ricorrente e nelle forme previste dagli
artt. 137 segg. cod. proc. civ., ai creditori concorrenti non integralmente soddisfatti, del ricorso con il quale il debitore chiede di esservi ammesso nonché
del decreto con il quale il giudice fissa l’udienza in camera di consiglio (1).
[Massima non ufficiale]
Ritenuto in fatto. – 1. Con ordinanza depositata il 13 luglio 2007 la
Corte di appello di Venezia ha sollevato, in riferimento all’art. 24 della Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell’art. 143 del regio decreto 16 marzo 1942, n. 267 (Disciplina del fallimento, del concordato preventivo e della liquidazione coatta amministrativa), nel testo introdotto a seguito della entrata in vigore del decreto legislativo 9 gennaio 2006, n. 5 (Riforma organica della disciplina delle procedure concorsuali a norma dell’articolo 1, comma 5, della legge 14 maggio 2005, n. 80).
1.1. Riferisce la Corte rimettente di essere chiamata a giudicare in merito al reclamo interposto da A.P. avverso il decreto col quale il Tribunale
ordinario di Vicenza ha dichiarato inammissibile la istanza dalla medesima
presentata al fine di essere ammessa al beneficio della esdebitazione. Tale
decreto interpretava l’art. 150 del d.lgs. n. 5 del 2006 nel senso che l’art.
142 della legge fallimentare, il quale, appunto, ha introdotto nel nostro or-
(1) Luci ed ombre della nuova esdebitazione.
Ancora una volta la Corte costituzionale è stata chiamata a pronunciarsi sulla legittimità
del nuovo istituto dell’esdebitazione, come è a tutti noto, di derivazione anglosassone (per
una disamina sotto il profilo comparatistico e sulla evoluzione dell’istituto, v. C. Ferri, L’esdebitazione, in Il fallimento, 2005, 1085; A. Castagnola, L’esdebitazione del fallito, in
Giur. comm., 2006, I, 448 seg.; per l’analisi dell’esdebitazione in altre esperienze v. F.H.
Buckley, The American Fresh Start, in Cal. Interdis. L.J., 1994, 67; W.W. McBryde-A.
2
Il diritto fallimentare e delle società commerciali
dinamento l’istituto della esdebitazione, non sarebbe applicabile in caso di
procedura fallimentare che, pur conclusa nella vigenza della riforma, sia
sorta anteriormente a questa.
La Corte rimettente ritiene, invece, che, stante la natura sostanziale della predetta previsione legislativa, l’istituto in questione sia applicabile alle
procedure che, anche se sorte anteriormente, siano dichiarate chiuse nella
vigenza della normativa riformata.
1.2. Ciò premesso il giudice a quo, brevemente illustrati i profili della
nuova figura giuridica, preordinata alla liberazione del fallito persona fisica
dai debiti fallimentari residuati parzialmente insoddisfatti alla chiusura del
fallimento, potendo, peraltro, essa spiegare effetti, sia pure minori, anche
nei confronti dei creditori anteriori al fallimento che non abbiano partecipato alla procedura, osserva che, ai sensi dell’art. 143 della legge fallimentare, la esdebitazione può essere pronunciata o contestualmente alla chiusura del fallimento, ovvero, con separato provvedimento – emesso previa verifica delle condizioni previste dall’art. 142 della legge fallimentare e «sentito il curatore ed il comitato dei creditori» – ove il debitore abbia, a tale
scopo, presentato ricorso entro un anno dalla chiusura del fallimento.
Rileva a questo punto il rimettente come la previsione normativa, la
quale non contempla come necessaria la partecipazione al predetto procedimento dei creditori concorsuali, mentre non creerebbe problemi, a suo
avviso, nel caso di esdebitazione pronunziata contestualmente alla chiusura
del fallimento, essendo in tal caso il provvedimento emesso a conclusione di
una procedura alla quale i creditori hanno partecipato con potere di interlocuzione, sarebbe, viceversa, pregiudizievole del diritto dei medesimi creditori se pronunziata successivamente alla chiusura del fallimento, su istanza del debitore; ciò in quanto non è previsto alcuno strumento idoneo a informare i creditori concorsuali dell’inizio di un procedimento destinato, in
caso di accoglimento dell’istanza, a produrre effetti sostanziali nei loro confronti.
Ritiene, pertanto, il rimettente che, in relazione alla non necessarietà
della partecipazione al procedimento di esdebitazione dei creditori concor-
Flessner, Principles of European Insolvency Law and General Commentary, in Principles of
European Inssolvency Law, a cura di McBryde, Flessner e Kortmann, Deventer, 2003,
15; e, ancora, A. Castagnola, La liberazione del debitore (discharge) nel diritto fallimentare
statunitense, Milano, 1993).
L’istituto in discorso ha prestato il fianco a diverse critiche da parte della dottrina che lo
ha ritenuto frutto di un «ingiustificato trapianto» da un ordinamento estero, e comunque non
armonizzabile con i principi e la tradizione propri del nostro corpus juris [sui precedenti storici, però, anche nel diritto italiano intermedio, quanto al fallimento, v. V. Santoro, in
AA.VV., La riforma della legge fallimentare (a cura di Nigro-Sandulli), Torino, 2006, sub
art. 143, 848].
Parte II - Giurisprudenza
3
suali o, quantomeno, alla mancata previsione della loro messa a conoscenza,
con idoneo mezzo, dell’instaurazione del procedimento, sı̀ da consentire loro la partecipazione ad esso, si pongano dubbi sulla compatibilità costituzionale dell’art. 143 della legge fallimentare con il diritto di agire in giudizio
per la tutela dei propri diritti, presidiato dall’art. 24 della Costituzione, in
quanto non è garantita al titolare del diritto di credito, inciso dal provvedimento che viene richiesto dal debitore, la possibilità di partecipare al giudizio, con facoltà di interlocuzione.
Né il vulnus è eliso dalla attribuzione riservata ai creditori insoddisfatti
della facoltà di interporre reclamo avverso il provvedimento di esdebitazione. Infatti, il rimettente osserva che – superate «le pur legittime riserve sia
sulla doverosità, per l’ipotesi di procedimento instaurato su istanza del debitore successivamente alla chiusura del fallimento, degli strumenti predisposti dalla legge per rendere conoscibile il decreto di chiusura del fallimento [recte: il decreto di accoglimento della domanda di esdebitazione], che
dell’idoneità degli stessi ad assicurare un’utile (considerati i ristrettissimi
termini concessi per l’impugnazione) conoscenza del provvedimento, rimane comunque il fatto che la piena esplicazione del diritto di difesa dei creditori è preclusa per il procedimento di primo grado».
2. È intervenuto in giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dalla Avvocatura generale dello Stato, il quale ha concluso per l’inammissibilità o la infondatezza della questione.
2.1. Preliminarmente la difesa erariale ritiene che la questione non sia
rilevante nel giudizio a quo in quanto, non risultando che ci sia stata alcuna
richiesta di intervento di creditori ammessi al passivo o, comunque, non risultando eccezioni da parte di costoro in ordine alla presunta lesione del
loro diritto di difesa, il rimettente non è chiamato a «decidere in ordine alle
questioni rispetto alle quali ha sospettato di illegittimità costituzionale la
norma censurata». Da ciò deriva che la questione sarebbe inammissibile.
Invero, sotto un primo profilo, sono sorti dei dubbi sulla sua legittimità costituzionale,
sotto il riflesso della parità di trattamento di cui all’art. 3 Cost., poiché verrebbero esclusi dall’ammissione a questo beneficio i soggetti che non siano fallibili e dunque non interessati dai
limiti «qualitativi» e quantitativi di cui all’art. 1 della legge fallim. (in questo senso v. L. Panzani, in AA.VV., Il nuovo diritto fallimentare (diretto da Alberto Jorio), Torino, 2007, 2099,
sub art. 142; A. Castagnola, L’insolvenza del debitore civile nella responsabilità patrimoniale, in AGE, 2004, 255; V. Santoro, La riforma cit., 850. Cfr. anche G. Lazzara, Della esdebitazione, in Santangeli (a cura di), Il nuovo fallimento, Commentario al R.D. 16 marzo
1942, n. 2267, in Le nuove leggi civili, Giuffré, 2006, 646; V. Ianniello, Il nuovo diritto fallimentare, Milano, 2006, 425 seg., che rilevano come il legislatore non si è dato cura di estendere il beneficio de quo anche al debitore civile o all’imprenditore che non rientri nei limiti di
cui sopra; in particolare, E. Frascaroli Santi, L’esdebitazione del fallito: un premio per il
4
Il diritto fallimentare e delle società commerciali
Essa sarebbe, peraltro, anche infondata nel merito. L’Avvocatura osserva che, in primo luogo, il rimettente non avrebbe considerato l’esistenza o
meno di un diritto vivente il quale consenta, o vieti, l’intervento del terzo
nel procedimento di esdebitazione, intervento che, ritiene sempre l’Avvocatura, involgendo la tutela di un diritto soggettivo, se ci fosse, sarebbe ammissibile.
Ma dalla detta tutela non può farsi derivare la necessarietà della partecipazione dei creditori al procedimento, essendo sufficiente, per il rispetto
dell’art. 24 della Costituzione, che sia attribuita loro la facoltà di intervento.
Neppure significativo sarebbe il profilo relativo alla assenza di forme di
pubblicità della pendenza del procedimento di esdebitazione; infatti, posto
che il procedimento deve essere introdotto presso una sede specifica ed entro ben precisi limiti temporali, non sarebbe eccessivamente gravoso l’onere
gravante sui creditori non integralmente soddisfatti di verificare l’eventuale
presentazione di una istanza di esdebitazione da parte del debitore. In tali
casi, utilizzando la normale diligenza, il creditore, se l’istanza risultasse presentata, sarebbe in grado di intervenire in giudizio e tutelare il suo diritto.
Considerato in diritto. – 1. La Corte di appello di Venezia dubita,
con riferimento all’art. 24 della Costituzione, della legittimità costituzionale
dell’art. 143 del regio decreto 16 marzo 1942, n. 267 (Disciplina del fallimento, del concordato preventivo e della liquidazione coatta amministrativa), nel testo introdotto a seguito della entrata in vigore del decreto legislativo 9 gennaio 2006, n. 5 (Riforma organica della disciplina delle procedure
concorsuali a norma dell’art. 1, comma 5, della legge 14 maggio 2005, n.
80), nella parte in cui esso, in caso di procedimento di esdebitazione attivato ad istanza del debitore nell’anno successivo al decreto di chiusura del fallimento, non preveda, secondo quanto è riportato testualmente nella ordinanza di rimessione, se non la necessità «della partecipazione dei creditori
concorsuali al procedimento di liberazione dei debiti, quantomeno [... la]
messa a conoscenza degli stessi, con idoneo mezzo, dell’instaurazione del
procedimento».
fallito o un’esigenza del mercato?, in questa Rivista, 2008, I, 40, evidenzia che la «ratio che è
alla base dell’istituto dell’esdebitazione e le finalità che si intendono realizzare con il medesimo non divergono sostanzialmente a seconda che l’esecuzione promossa contro il debitore
sia singolare o, invece, collettiva»; contra, nel senso che il legislatore italiano abbia volutamente e consapevolmente limitato il beneficio della discharge agli imprenditori fallibili per evitare
l’aumento del costo del credito ai soggetti economicamente più deboli, v. per tutti V. Santoro, op. loc. cit., 851; M. Marcucci, Insolvenza del debitore civile e «fresh start». Le ragioni di una regolamentazione, in AGE, 2004, 233 seg.). Il Tribunale di Bolzano, con ordinanza del 21 dicembre 2006, ha investito della questione la Consulta. Esso riteneva l’illegittimità
Parte II - Giurisprudenza
5
Tale mancata previsione, ad avviso del rimettente, comporta una lesione
del diritto di difesa giudiziale, costituzionalmente tutelato, non tanto poiché
non è previsto che i creditori concorsuali, non integralmente soddisfatti in
sede fallimentare, debbano necessariamente partecipare al procedimento di
esdebitazione, quanto perché, a causa della mancata tempestiva informazione ai medesimi della pendenza della procedura, non sarebbe consentito a
questi di tutelare in giudizio il loro diritto alla esigibilità del residuo credito
vantato.
2. Preliminarmente, va disattesa la eccezione di inammissibilità dedotta
dalla intervenuta difesa pubblica.
2.1. Essa è argomentata sulla base della circostanza che non vi siano state richieste di intervento nella procedura di esdebitazione de qua agitur da
parte di creditori ammessi al passivo e non integralmente soddisfatti, ovvero
che non siano state sollevate esplicite eccezioni da parte di costoro relativamente alla lesione del loro diritto di difesa derivante dalla assenza di forme
di pubblicità che rendessero loro nota la pendenza della procedura.
Da ciò l’interveniente difesa farebbe derivare la irrilevanza nel giudizio a
quo della sollevata questione di legittimità costituzionale, non dovendo il rimettente applicare la norma nella parte censurata.
2.2. La eccezione è priva di pregio: in realtà, il rimettente, dubitando
della legittimità costituzionale della norma censurata proprio nella parte
in cui non prevede che i creditori concorsuali non integralmente soddisfatti
in sede fallimentare siano informati della intervenuta pendenza della procedura di esdebitazione, volta alla dichiarazione di inesigibilità della parte di
credito rimasta insoluta all’esito della ripartizione dell’attivo fallimentare,
dà per presupposto che tali creditori, in quanto ignari di tale pendenza,
non abbiano partecipato alla procedura stessa. Diversamente da quanto ritenuto dalla Avvocatura dello Stato, l’eventuale intervento dei creditori nella procedura in discorso, lungi dal fondare la rilevanza della presente questione di legittimità costituzionale, viceversa la escluderebbe, non emergendo da quella fattispecie concreta, diversa dall’ipotesi esaminata dal giudice a
quo, una reale violazione del diritto di difesa.
3. Nel merito, la questione è parzialmente fondata.
3.1. Giova premettere che attraverso l’istituto della esdebitazione, del
dell’art. 142 sotto il profilo della «carenza di razionalità» per avere il legislatore ordinario
adottato un differente criterio di trattamento fra imprenditori fallibili e non fallibili; ovvero,
per aver creato, all’interno della generale categoria di soggetti debitori, un «sottoinsieme di
debitori di serie A», per i quali è ora prevista la possibilità di essere ammessi al beneficio dell’esdebitazione. Tuttavia, la Corte, con ordinanza n. 441 del 2007, ha ritenuto che non sussi-
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Il diritto fallimentare e delle società commerciali
tutto nuovo nel nostro ordinamento, il legislatore ha inteso dettare una disciplina applicabile, successivamente alla chiusura del fallimento, alle eventuali parti di debito che, all’esito della procedura concorsuale, a causa dell’incompleto adempimento delle obbligazioni del fallito, continuino a gravare su di lui.
Ricorrendo determinate condizioni – che non essendo oggetto di alcuna
contestazione da parte del rimettente non si ritiene di dover esaminare – ed
avendo il debitore presentato al riguardo ricorso al tribunale competente
per il fallimento (ricorso che può essere introdotto in pendenza della procedura concorsuale ovvero entro l’anno successivo alla pubblicazione del
decreto di chiusura del fallimento), il tribunale medesimo, sentito il curatore del fallimento e il comitato dei creditori, secondo la vigente previsione
dell’art. 143 della legge fallimentare, è chiamato a dichiarare inesigibili
nei confronti del ricorrente i residui debiti concorsuali.
Il tenore letterale della disposizione da ultimo citata non fa sorgere dubbi che l’effetto della esdebitazione sia quello di escludere la possibilità per i
creditori concorsuali rimasti solo parzialmente soddisfatti di pretendere,
dopo la chiusura del fallimento, il pagamento del loro residuo credito da
parte del «debitore già dichiarato fallito».
Evidente è, pertanto, l’effetto pregiudizievole che, sotto l’aspetto sostanziale, l’applicazione dell’istituto ha sulla posizione soggettiva dei creditori concorsuali non integralmente soddisfatti.
Il rimettente lamenta che, nell’ipotesi in cui il ricorso sia presentato nell’anno successivo alla chiusura del fallimento, tale effetto negativo possa determinarsi anche in assenza di qualsivoglia, sia pur potenziale, coinvolgimento dei soggetti incisi da tale decisione (cioè i creditori) nella procedura
giurisdizionale volta alla dichiarazione di esdebitazione.
Il legislatore della riforma del diritto fallimentare, nel disciplinare, al
censurato nuovo art. 143 della legge fallimentare, la struttura del procedimento di esdebitazione, non ha infatti previsto che il ricorso introduttivo
del giudizio debba essere portato a conoscenza dei creditori concorsuali
stessero le condizioni di ammissibilità della questione che le permettessero di addivenire ad
una pronuncia sul merito che fugasse ogni dubbio.
D’altra parte e sotto diverso profilo dubbi di incostituzionalità sono stati anche avanzati
sugli aspetti più prettamente processualistici dell’esdebitazione.
Già prima della pronuncia in epigrafe era stato autorevolmente sostenuto che non solo
l’istituto dell’esdebitazione presentasse dei (fondati?) dubbi di incostituzionalità, ma che anche il procedimento per la concessione dello stesso beneficio, come disegnato dall’art. 143
legge fallim., non andasse esente dagli stessi dubbi.
Il punctum dolens attiene alla mancata previsione della necessaria partecipazione alla procedura dei soggetti nei confronti dei quali il provvedimento andrà a spiegare i suoi effetti,
Parte II - Giurisprudenza
7
non integralmente soddisfatti, onde consentire loro, se credono, di intervenire nel giudizio stesso al fine di tutelare, avversando l’istanza di esdebitazione, la loro posizione.
3.2. Tale omissione, per ciò che riguarda i creditori ammessi al passivo,
che hanno cioè manifestato un interesse a partecipare alla procedura concorsuale ritenuto meritevole di tutela da parte degli Organi preposti al
suo corretto andamento, e di cui sono, quindi, note le generalità e il domicilio, si pone in contrasto con l’art. 24 della Costituzione.
Più volte, infatti, questa Corte ha affermato che la legittimità costituzionale di un procedimento avente natura giurisdizionale, quale certamente è
quello relativo alla esdebitazione, si misura, fra l’altro, sull’indefettibile rispetto delle garanzie minime del contraddittorio, la prima e fondamentale
delle quali consiste nella necessità che tanto l’attore quanto il contraddittore
partecipino o siano messi in condizione di partecipare al procedimento (si
veda in modo specifico l’ordinanza n. 183 del 1999).
La possibilità di tale partecipazione è, in linea generale, garantita, riguardo al contraddittore, attraverso forme di pubblicità dell’atto col quale
il procedimento stesso viene introdotto; forme di pubblicità che, ogniqualvolta ciò sia possibile, sia per la identificabilità dei possibili contraddittori
che per il loro numero ragionevolmente contenuto, si ritengono idonee allo
scopo ove esse siano portate direttamente a conoscenza di ogni singolo contraddittore, o quanto meno siano portate nella sua sfera di conoscibilità.
Di tutta evidenza è che la disciplina censurata non prevede alcun adempimento volto ad assicurare, attraverso la conoscenza, ovvero la conoscibilità, della pendenza della procedura, detta partecipazione, ponendosi in tal
modo in contrasto con l’art. 24 della Costituzione.
3.3. Né tale omissione può considerarsi giustificata – rientrando la scelta
di essa nella sfera di discrezionalità riservata al legislatore nella conformazione degli istituti processuali – in ragione delle pur presenti esigenze di celerità e speditezza che, sotto più profili, caratterizzano le procedure concorsuali. Al riguardo è sufficiente osservare che l’ipotesi normativa oggetto di
esame da parte di questa Corte riguarda espressamente fattispecie nelle
cioè, di tutti quei creditori che non siano stati integralmente soddisfatti all’interno della procedura concorsuale e di quelli anteriori all’apertura della procedura di liquidazione.
La «distrazione» del legislatore è stata subito individuata dalla dottrina più attenta, alla
quale è apparsa in contrasto con il principio di difesa costituzionalmente garantito all’art. 24
(su cui, v., per tutti e autorevolmente, E. Fazzalari, Istituzioni di diritto processuale, Padova,
1996, 85; A. Proto Pisani, Giusto processo e valore della cognizione piena, in Riv. dir. civ.,
2002, I, 265; e Gius. Tarzia, L’art. 111 Cost. e le garanzie europee del processo civile, in Riv.
dir. proc., 2001, 1). È stato ritenuto, infatti, che la legittimazione passiva nel procedimento per
la pronuncia dell’esdebitazione dovesse essere attribuita in relazione agli effetti che tale prov-
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Il diritto fallimentare e delle società commerciali
quali la procedura concorsuale già si è esaurita con la dichiarazione di chiusura del fallimento, sicché sarebbe il frutto di una scelta manifestamente arbitraria far perdurare oltre misura gli effetti delle ricordate esigenze.
Né può convenirsi con la difesa pubblica nella affermazione che, stante
il relativamente breve termine – si tratta di un anno dalla chiusura del fallimento – entro il quale può essere presentata dal debitore già fallito la
istanza di esdebitazione, non vi è una reale lesione del diritto di difesa
dei creditori di costui, potendo i medesimi, utilizzando l’ordinaria diligenza
e tramite periodici accessi agli uffici giudiziari ove il ricorso dovrebbe essere
presentato, avere contezza della pendenza o meno della procedura.
Un siffatto onere di informazione, infatti, travalica ampiamente i margini della diligenza ordinariamente esigibile, solo che si consideri la possibilità, che – attesa l’ampia platea del «ceto creditorio» – non è infrequente
che, nei fallimenti, la sede di taluno dei creditori fallimentari non coincida
con la sede dell’organo giudiziario, corrispondente a quella ove si è svolta la
procedura concorsuale, competente per la esdebitazione; situazione questa
che imporrebbe, in maniera ingiustificatamente vessatoria, periodici accessi
del creditore del fallito in una sede giudiziaria eventualmente estranea a
quella di ordinaria pertinenza.
3.4. Non può, altresı̀, ritenersi soddisfacente, ai fini della tutela costituzionale del diritto di difesa, il fatto che l’ultimo comma dell’art. 143 della
legge fallimentare preveda la possibilità per i creditori non integralmente
soddisfatti di presentare reclamo, ai sensi dell’art. 26 della medesima legge
fallimentare, avverso il decreto col quale è stata disposta la esdebitazione.
Infatti, a prescindere sia dai brevissimi termini normativi entro i quali essa
è legittimamente esercitabile sia dalla problematica compatibilità costituzionale di una forma di tutela giurisdizionale di tipo esclusivamente impugnatorio (in cui, cioè, l’onere probatorio graverebbe sul reclamante) – e
non già, come altrove, oppositorio – tale facoltà può essere resa concretamente possibile solo nell’ipotesi in cui coloro che hanno interesse a farne
uso siano a conoscenza della esistenza di un provvedimento soggetto a re-
vedimento spiegherebbe. In questo modo, ai sensi del combinato disposto degli artt. 144 legge fallim. – il quale, si ricorda, indica in tutti i creditori concorsuali i soggetti che subiscono
gli effetti dell’esdebitazione – e 143 cit., dovrebbe pervenirsi alla conclusione per cui sarebbe
stato corretto disporre tale audizione per tutti i creditori concorsuali, abbiano essi, o non abbiano proposto domanda di insinuazione allo stato passivo (cosı̀, G. Scarselli, La esdebitazione della nuova legge fallimentare, in questa Rivista, 2007, I, 39 seg.). Altri (G. Costantino, L’esdebitazione, in AA.VV., Il d. lgs. 5/06 di riforma della legge fallimentare, in Foro it.,
2006, V, 209) ha sostenuto che la necessarietà della preventiva audizione dovesse essere prevista dal legislatore solo per i creditori concorrenti non integralmente soddisfatti e per quelli,
fra i creditori concorsuali, che abbiano quanto meno proposto domanda di ammissione al
Parte II - Giurisprudenza
9
clamo; ipotesi questa che, stante la mancata previsione della informazione
relativa alla instaurazione del procedimento, non trova nei fatti un adeguato fondamento.
4. Va, a questo punto, considerato che il riferimento, contenuto nel già
menzionato ultimo comma dell’art. 143 della legge fallimentare, al reclamo
– strumento tipico delle procedure svolte secondo il rito camerale – quale
mezzo di reazione avverso il provvedimento di esdebitazione, conduce alla
conclusione che è questo il modello attraverso il quale si svolge il relativo
procedimento. Applicando a tale modello la specifica disciplina dettata
dal citato art. 143 della legge fallimentare, che prevede la formalità istruttoria della audizione sia del curatore del fallimento che del comitato dei creditori (organi questi, peraltro, ormai cessati a seguito della chiusura del fallimento), deriva che debba essere dal giudice fissata almeno un’udienza nella quale svolgere siffatta attività.
L’esame della disciplina delle procedure camerali consente dunque di
ravvisare, come necessario strumento di pubblicità della pendenza della
procedura nei confronti dei controinteressati, la notificazione ad essi del ricorso introduttivo e del pedissequo decreto col quale l’organo giudiziario
fissa l’udienza in camera di consiglio per la discussione del ricorso stesso.
Tenuto conto del petitum contenuto nella ordinanza di rimessione della
Corte di appello di Venezia, relativo alla ipotesi di procedimento di esdebitazione introdotto con ricorso entro l’anno dall’avvenuta dichiarazione di
chiusura del fallimento, deve, pertanto, conformemente al descritto modello procedimentale, affermarsi la illegittimità costituzionale dell’art. 143 della
legge fallimentare limitatamente alla parte in cui non prevede la notificazione, a cura del ricorrente e nelle forme previste dagli artt. 137 e seguenti del
codice di procedura civile (ivi compresa, ricorrendone i requisiti, anche
quella di cui all’art. 150 cod. proc. civ.), ai creditori concorrenti non integralmente soddisfatti, del ricorso col quale il debitore, già dichiarato fallito,
passivo, ancorché in seguito rigettata. Ed invero tutti gli altri creditori concorsuali hanno inteso «esporsi al rischio dell’estinzione del diritto», quando hanno omesso di presentare la richiesta domanda di insinuazione al passivo.
Con la pronuncia che si annota la Corte ha ritenuto fondati i dubbi di costituzionalità,
ma non nei limiti e nei termini proposti dalla dottrina sopra richiamata. Essa ha, infatti, ritenuto che il diritto di difesa, per il modo in cui è stato congegnato il procedimento per l’esdebitazione, richiesta dal debitore con ricorso entro l’anno dalla data della chiusura del fallimento, debba assumersi violato solo con riguardo ai creditori concorrenti non integralmente
soddisfatti e non già con riferimento anche a tutti gli altri i creditori concorsuali.
La soluzione potrebbe riuscire non adeguatamente garantista dei diritti dei creditori concorsuali che abbiano proposto rituale domanda di insinuazione e questa sia stata rigettata per
motivo a loro non imputabile. Sta di fatto che il provvedimento sollecitato dal debitore finisce
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Il diritto fallimentare e delle società commerciali
chiede, nell’anno successivo alla dichiarazione di chiusura del fallimento, di
essere ammesso al beneficio della liberazione dai debiti residui nei confronti
dei medesimi creditori, nonché del decreto col quale il giudice fissa l’udienza in camera di consiglio.
P.Q.M., la Corte Costituzionale dichiara la illegittimità costituzionale
dell’art. 143 del regio decreto 16 marzo 1942, n. 267 (Disciplina del fallimento, del concordato preventivo e della liquidazione coatta amministrativa), nel testo introdotto a seguito della entrata in vigore del decreto legislativo 9 gennaio 2006, n. 5 (Riforma organica della disciplina delle procedure
concorsuali a norma dell’art. 1, comma 5, della legge 14 maggio 2005, n.
80), limitatamente alla parte in cui esso, in caso di procedimento di esdebitazione attivato, ad istanza del debitore già dichiarato fallito, nell’anno successivo al decreto di chiusura del fallimento, non prevede la notificazione, a
cura del ricorrente e nelle forme previste dagli artt. 137 e seguenti del codice di procedura civile, ai creditori concorrenti non integralmente soddisfatti, del ricorso col quale il debitore chiede di essere ammesso al beneficio
della liberazione dai debiti residui nei confronti dei medesimi creditori,
nonché del decreto col quale il giudice fissa l’udienza in camera di consiglio.
inevitabilmente per produrre effetti anche nei confronti di tutti coloro che vantassero diritti
di credito al momento dell’apertura della procedura di liquidazione. Con la conseguenza che
costoro dovrebbero essere posti tutti nella possibilità di ‘dire e contraddire’.
La stessa sentenza, peraltro, laddove ha contemplato la notificazione del ricorso a cura
del ricorrente, ha previsto la notifica – ancor qui ai soli creditori concorrenti non integralmente soddisfatti – del provvedimento con il quale il giudice fissa per la discussione l’udienza in
camera di consiglio. Per questa via i giudici di legittimità (adeguandosi alla dottrina più attenta: vd. per tutti G. Scarselli, op. cit., 39 seg.) hanno inteso reiterare quest’ulteriore garanzia, ancorché soltanto per alcuni dei soggetti destinatari del provvedimento.
Non resta che chiedersi, a questo punto, cosa e quanto sopravvivrà dell’istituto dell’esdebitazione, una volta che la nostra Corte avrà terminato la sua (auspicabile) opera di restyling
di questa norma, alla luce dei principi costituzionali.
Marina Cordopatri
Dottoranda di ricera in Diritto commerciale
presso la Scuola dottorale Tullio Ascarelli
CORTE DI CASSAZIONE
Sezione III Civile
4 luglio 2006 n. 15265
Pres. Duva - Est. Durante
Cised Soc. a resp. lim. (ricorrente principale) - G. Granieri (ricorrente
incidentale) c. Banca Dell’Umbria 1462 Soc, per az. (resistente)
Fallimento - Azione revocatoria - Condizioni e presupposti (esistenza del
credito, eventus damni, consilium fraudis et scientia damni) - Conoscenza del pregiudizio da parte dell’acquirente persona giuridica - Conoscenza da parte dell’amministratore - Rilevanza - Fondamento.
In tema di azione revocatoria ordinaria, il requisito della scientia damni,
qualora l’acquirente sia una società, va accertato avendo riguardo all’atteggiamento psichico della (o delle) persone fisiche che la rappresentano, giusta il
principio stabilito dall’art. 1391 cod. civ., applicabile all’attività delle persone
giuridiche (1).
La Corte ecc. (Omissis)
Svolgimento del processo. – I fratelli Giovanni e Luigi Granieri vendevano per il prezzo di lire 460.000.000 alla soc. a resp. lim. CISED il complesso
costituito da terreno pertinenziale e magazzini in Roma, via Tor Cervara 50.
La Cassa di risparmio di Perugia, che accreditava lire 350.000.000 dalla
soc. per az. Ilfe serramenti e da Giovanni Granieri in forza di decreto ingiuntivo immediatamente esecutivo emesso dal presidente del Tribunale
di Perugia, conveniva innanzi al Tribunale di Roma Giovanni Granieri e
la CISED; assumendo che la vendita era preordinata ai suoi danni, chiedeva
(1) La frode ai creditori ed il problema dell’imputazione dello stato di mala fede tra
rappresentanza volontaria ed immedesimazione organica.
1. Il caso deciso dalla Suprema Corte. – La vicenda può essere cosı̀ sintetizzata. La Ilfe
serramenti soc. per az. ed il suo presidente del consiglio d’amministrazione (G. Granieri) erano debitori – nelle rispettive qualità di obbligato principale e di fideiussore – dell’ente creditizio (Cassa di Risparmio di Perugia, successivamente Banca dell’Umbria 1462 soc. per az. ed
infine Unicredit soc. per az.) per la somma di lire 350.000.000, esigibile in forza di decreto
ingiuntivo immediatamente esecutivo. Il Granieri era proprietario con il fratello (L.) di un
complesso immobiliare che entrambi vendevano alla società CISED soc. a resp. lim., di cui
il secondo era presidente del consiglio di amministrazione, e che già godeva dell’immobile
in quanto affittuaria. Il creditore eccepiva la nullità di tale compravendita per simulazione
o, in ogni caso, la sua inefficacia ex art. 2901 cod. civ.. La domanda, rigettata in primo grado,
era accolta dalla Corte d’Appello, che riteneva «nei fatti» provati gli estremi dell’azione revo-
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Il diritto fallimentare e delle società commerciali
che ne venisse dichiarata la nullità per simulazione o l’inefficacia ai sensi
dell’art. 2901 cod. civ.
Nella resistenza dei convenuti il tribunale rigettava la domanda; su gravame della banca dell’Umbria, già Cassa di risparmio di Perugia, la Corte di
appello di Roma dichiarava l’atto di vendita inefficace nei confronti della
banca, considerando quanto segue.
La vendita è posteriore al sorgere del credito; pertanto, l’«eventus damni» è costituito da qualsiasi atto che incida negativamente sulla ricostituzione della garanzia patrimoniale, mentre il «consilium fraudis» è dato dalla
consapevolezza da parte del terzo che l’atto diminuisce la sostanza patrimoniale e la garanzia dell’altrui credito; nella specie Giovanni Granieri era presidente del consiglio di amministrazione della soc. per az. Ilfe Serramenti,
debitrice principale; Luigi Granieri era presidente del consiglio di amministrazione della CISED, terzo acquirente del complesso immobiliare di Giovanni Granieri, fideiussore della Ilfe serramenti; le due società operavano
nel medesimo settore dell’edilizia; nell’aprile 1988 veniva iscritta ipoteca
giudiziale su beni di Giovanni Granieri e nell’agosto successivo venivano
sottoposti ad esecuzione forzata altri suoi beni; lo stesso Granieri ha ammesso lo stato di crisi economica allorquando ha affermato che la banca
«avrebbe potuto agire prima evitando l’azione di altri»; anche la Ilfe versava
in stato di crisi tanto che era assoggettata prima ad amministrazione controllata e poi a procedura concorsuale; l’«eventus damni» è nelle cose e,
cioè, nella incapienza del patrimonio del Granieri; anche per quanto concerne l’aspetto soggettivo dell’azione revocatoria rispetto alla CISED la prova è nei fatti; Luigi e Giovanni Granieri, oltre ad essere fratelli, operavano
nello stesso settore, sicché è da presumere che l’uno sapesse dell’altro e del-
catoria. L’eventus damni consisteva nel pregiudizio recato al creditore dalla fuoriuscita del
bene dal patrimonio del fideiussore, in una situazione di dissesto tanto del debitore principale
(Ilfe soc. per az. era stata assoggettata ad amministrazione controllata e successivamente a
procedura concorsuale) quanto di costui (già soggetto ad altre procedure esecutive). La sussistenza del consilium fraudis tra le parti veniva affermata in via presuntiva, evidenziando circostanze soggettive (vincolo di sangue tra le persone fisiche contraenti; rappresentanza organica nelle rispettive società; qualifica soggettiva dell’acquirente, affittuario) ed oggettive (operatività nell’identico settore di mercato; sospensione degli effetti della vendita in funzione delle pregresse trascrizioni; tempo dell’atto e sua natura totalmente discrezionale). Frode da ritenersi comune all’ente rappresentato, ai sensi dell’art. 1391 cod. civ.. La Cassazione conferma tali assunti.
2. La fattispecie. – Il debitore si spoglia del bene avvalendosi del congiunto, il quale stipula nella doppia veste di comproprietario alienante e rappresentante legale dell’acquirente:
ci si chiede se sia possibile, e con quale strumento, sanzionare tale negozio in frode ai creditori.
Parte II - Giurisprudenza
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le «traversie» della Ilfe; da qui la natura fraudolenta della vendita che si colora di ulteriori elementi quali la «sospensività degli effetti della vendita
stessa in funzione di pregresse trascrizioni» ed il breve lasso di tempo in
cui l’atto è stato concluso; a nulla rileva 1) che la CISED avesse il complesso
in affitto; 2) che i germani Granieri non convivessero; 3) che le società operassero in località diverse; 4) che Giovanni Granieri possedesse altri beni sui
quali la banca poteva soddisfarsi; infatti, la vendita ben poteva innestarsi su
immobile in affitto ed anzi l’affitto valeva a meglio garantire la regolarità
apparente dell’operazione; la mancanza di convivenza ha scarsa importanza,
trattandosi di operazione commerciale-imprenditoriale, «nella quale la parentela costituisce il logico collante della reciproca consapevolezza e del naturale soccorso. Il comune stato imprenditoriale (oltre la parentela) rende
ininfluente la diversità dei luoghi (comunque non lontani: Roma e Perugia).
Luigi Granieri, presidente del consiglio di amministrazione della CISED
era perfettamente a conoscenza dell’operazione. Il fatto che Giovanni Granieri possedesse altri beni non ha rilievo: da un lato, la revocatoria è ammissibile anche a fronte della messa in pericolo della garanzia patrimoniale; da
un altro, l’incapienza a soddisfare qui i creditori è ammessa dallo stesso
Giovanni Granieri allorché afferma che la banca appellante avrebbe potuto
garantirsi agendo prima degli altri creditori sui suoi beni».
L’apparenza è di un contratto con se stesso, fattispecie riconducibile al conflitto d’interessi
ai sensi degli artt. 1394 e 1395 cod. civ. (1), non essendovi menzione di alcun procedimento
(1) Dell’istituto generale del conflitto d’interessi il contratto con se stesso è figura tipica (C.M. Bianca, Diritto Civile, 3, Il contratto, Milano 2000, pag. 97). Per la necessità, almeno in ipotesi di questo tipo, di una lettura
combinata delle due disposizioni v. da ultimo M. Maltoni, Ancora in tema di applicabilità dell’art. 1394 cod. civ.
al rappresentante legale di società, nota a Cassazione 1 febbraio 1992, n. 1089, in Giur. Comm. 1995, I, 30; F.
Parrella, Art. 2475 ter, in M. Sandulli-V. Santoro (a cura di), La riforma delle società, Torino 2003, t.
3, pag. 116. In contrario si è osservato che le due norme disciplinerebbero fattispecie diverse: l’art. 1394 il conflitto di interessi ex ante o «da posizione», preesistente alla conclusione dell’affare, per la titolarità di interessi ab
origine incompatibili con la cura dell’interesse del rappresentato; l’art. 1395 il conflitto ex post o «da risultato»,
determinato dall’attività gestoria (P. Sirena, Alienità dell’affare e conflitto d’interessi fra rappresentante e rappresentato ex art. 1394 cod. civ., in Riv. dir. civ. 1994, II, 85).
Oggi la fattispecie troverebbe esatto riscontro nel nuovo art. 2475-ter cod. civ.; ininfluente è l’inapplicabilità
ratione temporis di tale norma, attesa la sua valenza meramente riproduttiva del principio sancito in linea generale
dall’art. 1394 cod. civ. (cfr. N. Abriani, Conflitto d’interessi e rappresentanza nella nuova società a responsabilità
limitata, in Soc. 3/2003, pag. 420; G. Capo, Il governo dell’impresa e la nuova era della società a responsabilità
limitata, in Giur. Comm. 2003, I, 512-513; M. Irrera, Art. 2475 ter, in G. Cottino-G. Bonfante-O. Cagnasso-P. Montalenti (diretto da), Il nuovo diritto societario, Bologna 2004, pag. 1870). Altra opinione ha sottolineato una pur limitata portata innovativa della disposizione, che mirerebbe a rendere certa l’applicazione della
regola generale, precedentemente rimessa, nel silenzio della previgente disciplina della soc. a resp. lim., alla discrezionalità del giudicante (G. Manzo, Art. 2475-ter, in G. Lo Cascio (a cura di), La riforma del diritto societario, Milano 2003, vol. 8, pag. 192).
14
Il diritto fallimentare e delle società commerciali
La CISED e Giovanni Granieri hanno proposto separati ricorsi per cassazione; la prima ha dedotto quattro motivi; il secondo ha aderito al ricorso
della prima; ad entrambi i ricorsi ha resistito la banca dell’Umbria; la CISED ha depositato memoria.
Motivi della decisione. – 1. I ricorsi proposti contro la medesima sentenza vanno riuniti (art. 335 cod. proc. civ.).
2. Il ricorso della CISED, notificato prima, va considerato principale;
quello del Granieri, notificato dopo entro i termini previsti dal combinato
disposto degli artt. 370 e 371 cod. proc. civ., assume il ruolo di incidentale.
3. Con il primo motivo del ricorso principale si denuncia violazione e
deliberativo interno alla società acquirente (2). Tuttavia il solo profilo formale non è sufficiente
per l’applicazione di tale disciplina, occorrendo a tal fine dimostrare che il rappresentante persegua interessi propri o di terzi incompatibili con quelli del rappresentato, sicché all’utilità conseguita o conseguibile dal rappresentante o dal terzo corrisponda o possa corrispondere il danno del rappresentato (3). Più precisamente, si richiede che l’interesse di cui l’amministratore sia
titolare (in proprio o per conto di terzi) orienti l’operazione in una certa direzione o verso determinate condizioni, diverse da quelle richieste per la realizzazione dell’interesse sociale (4).
L’indagine va condotta non in termini astratti ed ipotetici, ma con specifico riferimento al singolo atto, le cui intrinseche caratteristiche consentano l’utile di un soggetto solo passando attraverso il sacrificio dell’altro, e con esclusivo riferimento al tempo del perfezionamento del
(2) Tra la disciplina generale (artt. 1394-1395) e quella societaria (art. 2391 cod. civ.) v’è un rapporto di
reciproca esclusione (C. Angelici, Amministratori di società, conflitto di interessi e art. 1394 cod. civ., in Riv.
Dir. Comm. 1970, I, 105). Il conflitto in sede deliberativa determina un vizio del procedimento di formazione
della volontà dell’ente, che si riverbera in vizio di volontà del negozio (Tribunale Milano 20 giugno 1983, in Banca
borsa tit. cr. 1984, II, 240). Ne consegue che la caducazione della delibera (atto presupposto) è pregiudiziale rispetto all’annullamento del negozio. Ciò induce a ritenere che la disciplina dettata dall’art. 2391 cod. civ. sia incentrata esclusivamente sui rapporti tra amministratori e società (profilo interno); sicché, in assenza di una deliberazione, si riespande l’ambito applicativo della disciplina generale di cui all’art. 1394 cod. civ. [cfr. G. Frè,
Società per azioni, in A. Scialoja-G. Branca (a cura di), Comm. cod. civ. (artt. 2325-2461), Bologna-Roma,
1982, pag. 406; F. Bonelli, La responsabilità degli amministratori, in G.E. Colombo-G.B. Portale (a cura
di), Trattato delle società per azioni, vol. 4, Torino 1993, pag. 375. Costante la giurisprudenza; v. da ultimo Cassazione 26 gennaio 2006 n. 1525, in Riv. Not. 2006, 4 1077, con nota di G. Carlini; Cassazione 10 aprile 2000 n.
4505, in Giur. It. 2000, 477; Tribunale Catania 9 settembre 1999, in Riv. Dir. Comm. 2001, II, 37, con nota di D.
Macrı̀].
(3) Cassazione 7 dicembre 1999 n. 13708, in Riv. notar. 2001, 465, con nota di L. Mattiangeli, Il conflitto di interessi nella rappresentanza volontaria. Altra giurisprudenza tende ad anticipare la tutela del rappresentato al «mero pericolo» di danno, senza pertanto richiedere la prova di una attuale lesione patrimoniale (Cassazione 27 gennaio 1979 n. 614, in Foro it. 1979, I, 2069; Cassazione 26 novembre 2002, n. 16708, Giust. civ. Mass.
2002, 2056). Si è, in specie, ritenuto che «la sussistenza di un pregiudizio è implicita nel fatto stesso del contrasto
di interesse» e che il concreto ricorso del pregiudizio economico rileverebbe unicamente come «argomento dimostrativo della sussistenza del conflitto» (Appello Trieste 13 agosto 1962, in Giust. civ. Rep. 1962, v. Mandato e
rappresentanza, n. 62).
(4) Cosı̀, in motivazione, Cassazione 26 settembre 2005 n. 18792, in Giust. civ. Mass. 2005, 9.
Parte II - Giurisprudenza
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falsa applicazione degli artt. 2901, comma 1, 2730 cod. civ., 41 Cost., 116
cod. proc. civ. in relazione all’art. 360, n. 3, stesso codice; non basta l’astratta possibilità dell’insolvenza a concretare il presupposto obiettivo della revocatoria rappresentato dal pregiudizio arrecato alle ragioni del creditore,
ma occorre un pericolo attuale e concreto che i beni del debitore diventino
insufficienti a soddisfare le ragioni del revocante; nel caso di specie la quota
parte del bene oggetto della vendita, se pur libera da vincoli, era «comunque funzionalmente destinata alla garanzia del medio credito dell’Umbria»;
tale circostanza non è stata presa in considerazione dalla corte di merito, la
quale ha affermato in modo apodittico che «l’evento danno collegato all’azione revocatoria è nelle cose: cioè nella manifesta incapienza del patrimonio del Granieri»; la corte anzidetta 1) non avrebbe dovuto limitarsi a presumere in astratto l’incapienza, ma avrebbe dovuto compiere un’indagine
contratto, restando irrilevanti le vicende successive (l’atto idoneo al conseguimento degli obiettivi del rappresentato non è invalidabile a posteriori, per eventi sopraggiunti che possano contrapporre interessi prima paralleli) (5). In secondo luogo, va considerato che la valutazione è
rimessa esclusivamente al rappresentato, unico legittimato a sindacare la congruità rispetto al
proprio interesse dell’operato del rappresentante, ed a decidere pertanto per la ratifica o l’annullamento del contratto da questi concluso. Ciò preclude l’iniziativa ex officio, nonché del creditore o del terzo che con il rappresentato sia venuto in rapporti (6); e supera, già sul piano processuale, ogni eventuale valutazione in ordine alla congruità del prezzo ed al vantaggio patrimoniale per la società acquirente (la cui resistenza in giudizio, in adesione alla posizione processuale del rappresentante legale, può peraltro considerarsi manifestazione della volontà di ratificare il contratto, o comunque di farne propri gli effetti).
Escluso il conflitto d’interessi, poteva ipotizzarsi il ricorso ad altri rimedi per gli atti compiuti in frode: illiceità della causa per frode alla legge (artt. 1343-1344 cod. civ.); illiceità del
motivo comune alle parti – giusta l’alterità soggettiva tra rappresentante legale e società – (art.
1345 cod. civ.). Ciò avrebbe richiesto la dimostrazione del perseguimento di una finalità vietata dall’ordinamento, perché contraria a (o elusiva di) norma imperativa, ordine pubblico o
buon costume. La giurisprudenza in materia segue un orientamento restrittivo, chiarendo
che, fuori da tali ipotesi, l’intento delle parti di recare pregiudizio ad altri non può conside-
(5) Cassazione 26 agosto 1998 n. 8472, in Not. 1999, 7, con nota di F. Tassinari; Foro it. 2000, I, 2938,
con nota di G. La Rocca. In definitiva, l’atto va valutato nella sua interezza, sia sotto il profilo oggettivo (natura
e portata delle pattuizioni; tempo della stipula e dell’esecuzione) sia sotto quello soggettivo (qualifiche rivestite
dai contraenti; sussistenza di ulteriori rapporti giuridici e/o personali quali parentela, coniugio, convivenza: cfr.
Cassazione 5 maggio 2003, n. 6755, in Giust. Civ. Mass. 2003, 5). La giurisprudenza, pronunciandosi espressamente sulla questione, ha conseguentemente escluso che il conflitto d’interessi sanzioni il mero «uso malaccorto o
non proficuo» dei poteri rappresentativi (Cassazione 17 aprile 1996 n. 3630; Cassazione 16 febbraio 1994 n.
1498).
(6) Cassazione 4 novembre 1991, n. 11741, in Giur. it. 1992, I, 1, 1525. Cfr. G. Di Rosa, Rappresentanza e
gestione. Forma giuridica e realtà economica, Milano 1997, pag. 181, n. 63, il quale rileva che, se la cura dell’interesse altrui avesse davvero rivestito un ruolo determinante ed un valore indisponibile per l’ordinamento, la legge avrebbe previsto la nullità assoluta e radicale del negozio.
16
Il diritto fallimentare e delle società commerciali
approfondita anche mediante c.t. per stabilire se i beni vincolati alla garanzia ipotecaria non potessero considerarsi più nella libera disponibilità giuridico-economica del debitore; 2) in definitiva ha errato perché ha valutato
il «coefficiente di copertura» del credito della banca includendo nel compendio complessivo del debitore un bene già vincolato a garanzia di un credito vantato dall’Istituto medio credito dell’Umbria nei confronti di Giovanni Granieri e quindi già sottratto di fatto alla sua libera disponibilità economico-giuridica; 3) non ha argomentato circa l’idoneità del bene stesso a
costituire elemento della generica garanzia patrimoniale del credito della
banca nei confronti del Granieri; l’interesse del debitore alla libera disponibilità dei suoi beni prevale sull’astratto interesse dei creditori a conservare
intatto l’oggetto della loro garanzia; quest’ultimo interesse diventa rilevante
quando l’attività o l’inerzia del debitore pregiudicano effettivamente il soddisfacimento del credito; il parametro normativo dell’art. 2740 cod. civ. va
inteso nel senso che la garanzia patrimoniale non comporta vincoli obbligatori o reali e trova fondamento nell’esigenza di salvaguardare il principio
della libera circolazione dei beni considerato nell’art. 41, comma 1, Cost.;
nella specie la nota situazione debitoria di Giovanni Granieri avrebbe dovuto indurre la banca a precostituirsi una causa legittima di prelazione volta
ad ottenere la realizzazione del credito con preferenza rispetto ad altri cre-
rarsi illecito (7), non rinvenendosi nell’ordinamento una norma che sancisca, come per il contratto in frode alla legge, l’invalidità del contratto in frode ai terzi (8), ai quali invece l’ordinamento appresta altri rimedi a tutela dei loro diritti. V’è dunque un principio di tipicità delle
tutele, il cui numerus clausus costituisce limite invalicabile alla teorizzazione di un rimedio generale contro la frode. Solo specifiche e puntuali previsioni di legge «consentono loro di reagire contro l’apparenza contrattuale e farne valere la nullità (per simulazione o contrasto con
norme imperative) o di far dichiarare l’inefficacia del negozio a loro danno (azioni revocatorie
o pauliane)» (9).
3. Rappresentanza volontaria, rappresentanza organica ed imputazione di «stati soggettivi»
(7) In specie si afferma che non può automaticamente ricondursi all’elusione di una norma imperativa o alla
contrarietà all’ordine pubblico il solo intento di frodare i creditori, come intenzione di prevalere su diritti di privati di origine negoziale (dunque soggetti al limite del principio dispositivo) tramite il contratto (specie se tipico e
dunque già presuntivamente strumento meritevole di tutela): v. per tutte Cassazione SS.UU. 25 ottobre 1993 n.
10603, in Corr. Giur. 1994, pag. 182 seg., con nota di F. Caringella.
(8) La dottrina distingue tra contratto in frode al terzo «in senso stretto» («per mezzo del contratto le parti
eludono, aggirano, la situazione soggettiva di cui è titolare il terzo, situazione soggettiva conferita al terzo da una
norma imperativa») e contratto in danno al terzo («il contratto medesimo è, in ragione della sua conclusione,
strumento produttivo di un danno ingiusto al terzo»): cfr. V. Velluzzi, Il contratto in frode al terzo: individuazione della fattispecie e rapporti con la frode alla legge, in Rass. Dir. Civ. 1/2004, p.183 et ivi 202.
(9) Cfr. Cassazione SS.UU. 25 ottobre 1993 n. 10603, cit.; Cassazione 16 giugno 1981, n. 3905.
Parte II - Giurisprudenza
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ditori; in tale prospettiva deve essere valutata la dichiarazione resa da Giovanni Granieri circa il suo stato di crisi economica e, cosı̀ valutata, non costituisce confessione, come ritenuto dalla corte di merito, e ciò a prescindere dal fatto che difetta l’«animus confitendi».
4. Con il secondo motivo del ricorso principale si lamenta omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione circa punto decisivo della controversia; la corte di merito – si sostiene – ha affermato che il pregiudizio connesso all’esperibilità dell’azione revocatoria è nelle cose senza evidenziare
l’iter logico-giuridico seguito; è ben vero che la prova dell’«eventus damni»
può essere data mediante presunzioni, ma è anche vero che il giudice è tenuto a motivare e nella specie dalla sentenza impugnata non si evincono le
ragioni per le quali si è ritenuta l’incapienza del patrimonio di Giovanni
Granieri a soddisfare il credito della banca; pur riconoscendo che il bene
alienato alla CISED era gravato da ipoteca giudiziale in favore del medio
credito dell’Umbria, la corte di merito ha contraddittoriamente affermato
che «l’eventus damni è costituito da qualsiasi atto che incida negativamente
sulla ricostituzione della garanzia patrimoniale».
5. I motivi, da esaminare congiuntamente per connessione, non possono
essere accolti.
(art. 1391 cod. civ.). – Optando per la revocatoria si prospettano però alcuni salti logici, che la
Corte tenta di superare facendo ampio ricorso allo strumento della fictio e della prova presuntiva. Per dimostrare il consilium fraudis si riqualifica l’intento fraudolento dello stipulante
con se stesso come «accordo» collusivo cui prenda parte, a mezzo del proprio rappresentante
(quello stesso individuo) la società; per la scientia damni si è costretti a fingere che la conoscenza di informazioni da parte del rappresentante (difficoltà finanziarie del debitore e pregiudizio per il creditore) possa per ciò solo – senza cioè che venga in rilievo una circolazione
delle informazioni all’interno di una struttura organizzativa articolata (10) – reputarsi comune
alla società rappresentata.
Si coglie una insanabile contraddizione: il primo assunto si fonda sulla alterità soggettiva
tra amministratore e società; il secondo sul rapporto di immedesimazione organica, incompatibile con le regole in tema di rappresentanza volontaria.
Rappresentante e rappresentato sono soggetti distinti che esprimono distinte volontà;
l’organo è elemento intrinseco alla persona giuridica; esprime una unica volontà, che è quella
della persona giuridica. Astraendo dall’organo, questa non potrebbe né avere, né esprimere,
una volontà (11): esternamente (è questo il profilo che rileva, occorrendo tutelare i terzi) non
vi può essere posizione di conflitto «perché è la stessa persona giuridica che agisce» (12).
(10) M. Campobasso, L’imputazione di conoscenza nelle società, Milano 2002.
(11) F. Messineo, Manuale di diritto civile e commerciale, I, Dottrine generali, Milano 1957, pag. 533.
(12) G. Ferri, Fideiussioni prestate da società, oggetto sociale, conflitto di interessi, in Banca borsa tit. cred.
1958, II, 35 (nota a Cassazione 25 ottobre 1958 n. 3271).
18
Il diritto fallimentare e delle società commerciali
5.1. Le argomentazioni svolte rendono opportuna la premessa che
quanto più nell’interpretazione dell’art. 2901 cod. civ. si amplia la nozione
di pregiudizio tanto più si riduce la libertà di iniziativa del debitore tutelata
dall’art. 41 Cost.
È perciò sul terreno del pregiudizio che si realizza l’equilibrio fra le esigenze di tutela del credito ed i diritti di libertà del debitore.
La giurisprudenza e la dottrina prevalenti ritengono che il pregiudizio
menzionato dall’art. 2901 cod. civ. va oltre il concetto di danno e comprende quello di semplice pericolo di danno (ex plurimis Cassazione 2 aprile
2004, n. 6511; Cassazione 15 giugno 1995, n. 6777).
In questa direzione si evidenzia che al creditore interessa non semplicemente la conservazione della garanzia patrimoniale costituita dai beni del
debitore, ma anche il mantenimento di uno stato di maggiore fruttuosità
ed agevolezza dell’azione esecutiva.
Questo rilievo induce i giudici (d’Appello e di Cassazione) ad applicare l’art. 1391 cod.
civ. fingendo che lo stato soggettivo della persona fisica si «comunichi» alla persona giuridica:
cosı̀ incorrendo in un vero e proprio salto logico, perché ad essere imputato all’ente non è un
fatto di conoscenza, cioè la disponibilità di una determinata informazione rilevante ai fini dell’applicazione di una data norma; ma uno «stato soggettivo», cioè un fatto psichico, un fatto
di sentimento (13), cioè una particolare condizione psichica che sia conseguenza diretta della
disponibilità di quella informazione. Ciò dovrebbe giustificare un diverso regime giuridico
delle fattispecie fondate sulla rilevanza di una conoscenza (coscienza riferita ad una verità)
rispetto a quelle fondate sulla rilevanza di un fatto di sentimento (coscienza riferita ad un valore) (14).
La pronuncia si conforma invece all’orientamento tradizionale («non può non farsi riferimento che alla persona fisica che ha compiuto o ha concorso a compiere l’atto riferibile alla
persona giuridica in virtù del nesso di rappresentanza organica»: Cassazione Sez. Un. 28 aprile
1973 n. 1169), applicando all’immedesimazione organica una regola propria della rappresentanza volontaria (15): l’art. 1391 cod. civ.. Tale disposizione sembra porre sullo stesso piano
«lo stato di buona o di mala fede, di scienza o d’ignoranza di determinate circostanze», ed
accenna ad ipotesi in cui tali «stati» sarebbero «rilevanti», senza però chiarire di che tipo
di rilevanza si tratti (16).
(13) V. per tutti i due saggi di A. Falzea, Fatto di sentimento e Fatto di conoscenza, oggi in Ricerche di
teoria generale del diritto e di dogmatica giuridica, Milano 1997, pagg. 533 e 437.
(14) A. Falzea, cit., 448.
(15) L’assimilazione è criticata da C.M. Bianca, op. ult. cit., pag. 93, n. 82, il quale osserva che «la possibile
predeterminazione dell’atto da parte del rappresentato può cogliersi negli enti giuridici quando l’atto sia deliberato da un organo interno», ritenendo perciò «non giustificata» la massima delle Sezioni Unite.
(16) Un fatto può assumere rilevanza come componente dell’elemento fattuale della fattispecie (rilevanza
sub specie facti), quando la sua presenza determini la produzione di effetti giuridici che altrimenti non si produrrebbero o avrebbero contenuto diverso; ovvero come componente dell’elemento effettuale (rilevanza sub specie
effectus), quando il fatto in sè sia previsto dalla norma come l’evento che il diritto tende a conseguire mediante il
comportamento permesso o imposto (cosı̀ per il fatto di conoscenza A. Falzea, cit., 568-569).
Parte II - Giurisprudenza
19
Si ritiene, pertanto, che il pregiudizio (eventus damni) può essere costituito
da una variazione sia quantitativa che qualitativa del patrimonio del debitore, purché comporti una maggiore difficoltà o incertezza nella esazione
coattiva del credito oppure ne comprometta la fruttuosità (Cassazione 29
ottobre 1999, n. 12144; Cassazione 8 luglio 1998, n. 6676; Cassazione 6
maggio 1998, n. 4578).
In questa prospettiva l’onere probatorio del creditore che agisce in
revocatoria si restringe alla dimostrazione della variazione quantitativa
o qualitativa del patrimonio del debitore senza estendersi a quella dell’entità e natura del patrimonio stesso dopo l’atto di disposizione, non trovandosi il creditore nelle condizioni di valutarne compiutamente le caratteristiche.
La prova è libera nel senso che può essere fornita con ogni mezzo, non
escluse le presunzioni.
È, invece, onere del debitore che voglia sottrarsi agli effetti dell’azione
revocatoria provare che, nonostante l’atto di disposizione, il suo patrimonio
ha conservato valore e caratteristiche tali da garantire il soddisfacimento
delle ragioni del creditore senza difficoltà (Cassazione 6 maggio 1998, n.
4578).
L’accertamento dell’«eventus damni» costituisce giudizio di fatto riser-
Più felice appare la formulazione della norma da cui questa disciplina trae origine. Il §
166 BGB precisa che il problema dell’imputazione degli stati soggettivi si pone «quando gli
effetti giuridici di una dichiarazione di volontà sono influenzati da un vizio del volere, dalla conoscenza o dal dovere di conoscere determinate circostanze...»; implica perciò la preventiva individuazione del soggetto che sia da considerarsi il vero autore della manifestazione di volontà. L’alternativa si pone tra la rilevanza della sfera psicologica del rappresentato (Geschäftsherrntheorie), del rappresentante (Repräsentationstheorie), ovvero di entrambi (Vermittlungstheorie) (17); il legislatore tedesco accoglie la seconda soluzione: «...non si fa riguardo alla persona del rappresentato, ma del rappresentante». In secondo luogo, precisa quali fatti siano rilevanti: vizio del volere, conoscenza effettiva, o conoscibilità doverosa; sotto questo profilo
l’imputazione degli effetti della dichiarazione al rappresentato assume valenza lato sensu sanzionatoria e trova la sua ratio, come è stato esattamente rilevato, nell’uso che il rappresentato
abbia fatto o possa fare di una determinata informazione, traendone vantaggio (18). Infine
chiarisce che tali fatti rilevano in quanto determinanti, cioè a condizione che la loro presenza
abbia alterato (significativamente) il regime di efficacia della dichiarazione di volontà. La norma prosegue disponendo che, qualora il potere rappresentativo sia stato conferito per negozio (procura) ed il rappresentante abbia agito su precise indicazioni del dominus, costui «non
potrà eccepire l’ignoranza del rappresentante in relazione a quelle circostanze che egli stesso co-
(17) M. Campobasso, cit., 201 segg.
(18) Id., 212.
20
Il diritto fallimentare e delle società commerciali
vato al giudice di merito, insindacabile in sede di legittimità se congruamente e correttamente motivato (Cassazione 10 maggio 1995, n. 5095).
5.2. Nella specie la corte di merito ha considerato che il debitore Giovanni Granieri ha affermato – evidentemente negli scritti difensivi – che la
nosceva. Lo stesso vale per le circostanze che il rappresentato aveva il dovere di conoscere, quando il dover conoscere è equiparato alla conoscenza» (19).
Il codice italiano traduce tali previsioni in due disposizioni (artt. 1390 e 1391 cod. civ.),
che attribuiscono rilevanza prevalente, ma non esclusiva (cosı̀ superando il principio di rappresentazione tedesco), alla sfera psichica del soggetto che abbia concretamente determinato
l’elemento della dichiarazione di volontà negoziale rilevante nelle diverse ipotesi. Cosı̀ il vizio
della volontà non sarà invocabile dal rappresentante qualora cada su elementi «predeterminati» dal rappresentato («predeterminazione» che corrisponde sostanzialmente alle «indicazioni» impartite dal dominus secondo la norma del BGB, che appare meno ermetica); né, simmetricamente, il rappresentante ed il rappresentato potranno eccepire la conoscenza o l’ignoranza di fatti e circostanze ricadenti nelle rispettive sfere di controllo per tentare di negare
proprie eventuali responsabilità. Le due norme divergono però nella portata e negli effetti,
che per l’art. 1390 si esauriscono nel sancire l’annullabilità del negozio qualora il vizio del
consenso sia determinante, e nel precludere tale rimedio al soggetto cui il fatto viziante sia
imputabile. L’art. 1391 pare di portata più ampia, attribuendo rilievo alla conoscenza ed alla
mala fede del rappresentato a prescindere dalla sua partecipazione alla determinazione del
contenuto dell’atto: è questa una condizione necessaria, ma non sufficiente, perché gli effetti
giuridici siano imputati al rappresentato (20). La conoscenza o ignoranza del fatto cui la norma astrattamente ricolleghi un effetto potrebbe, in concreto, restare irrilevante.
La norma tedesca, come s’è detto, richiede espressamente un nesso eziologico tra il fatto
di conoscenza e la produzione (o l’alterazione) degli effetti: l’incidenza causale del fatto di conoscenza giustifica l’imputazione di determinate conseguenze giuridiche al destinatario degli
effetti finali del negozio (dominus). L’art. 1391 non è altrettanto esplicito; si potrebbe pertanto pensare che l’imputazione degli effetti consegua automaticamente all’accertamento del fatto di conoscenza, come pare abbia ritenuto la Corte (21).
(19) BGB § 166.
(20) Cfr. M. Campobasso, 210.
(21) Nell’ordinamento tedesco tale automatismo caratterizza la Absolute Wissenstheorie, ove costituisce l’esito di tre regole di imputazione: il principio del cumulo di conoscenza (Wissenszusammenrechnung), secondo cui
la conoscenza dell’organo è conoscenza dell’ente indipendentemente dalla titolarità di un potere rappresentativo
e dalla partecipazione dell’organo al compimento dell’atto; il principio di indivisibilità del sapere, secondo cui
ogni conoscenza dell’organo è conoscenza dell’ente, i.e. anche se si tratti di informazioni apprese privatamente,
dunque non nell’esercizio di poteri d’ufficio; il principio di perpetuazione della conoscenza, secondo cui la conoscenza dell’organo si reputa conoscenza dell’ente anche dopo che il titolare dell’organo sia cessato dalle funzioni. Ad analoghe conclusioni perviene la dottrina inglese, che non usa il concetto di organo ma quello di agency.
Si definisce tale la relazione intersoggettiva tra rappresentato (principal) e rappresentante (agent), articolata non in
uno schema contrattuale ma in un rapporto sviluppatosi nell’ambito dell’equity (F. De Franchis, Dizionario giuridico inglese-italiano, Milano 1984). L’agent rispetto al quale sia configurabile un rapporto di immedesimazione
con la società viene qualificato director o directing mind, rilevando che «una società non ha una propria mente, ha
solo quella degli amministratori»; sicché ogni conoscenza del director è da considerarsi, per ciò solo, conoscenza
della società, anche in assenza di un obbligo di comunicazione (duty to communicate).
Parte II - Giurisprudenza
21
banca «avrebbe potuto agire prima evitando l’azione di altri» ed ha ritenuto
che siffatta affermazione, implicando ammissione dell’incapienza del proprio patrimonio, costituisca prova dell’«eventus damni».
Pur riconoscendosi che in relazione alla sua provenienza l’affermazione
non costituisce confessione ed è semplicemente fonte di elementi indiziari,
si esclude che valga a mettere in discussione l’univocità e concordanza degli
indicati elementi il tentativo di ricondurre l’affermazione ad una valutazione
del comportamento della banca contrassegnato da negligenza nella cura dei
propri affari e si ritiene che non merita censura la corte di merito per avere
concluso che è raggiunta la prova dell’«eventus damni», mentre rimane assorbita e superata ogni diversa prospettazione.
6. Con il terzo motivo del ricorso principale si denuncia violazione e falsa applicazione degli artt. 2901, comma 1, numero 2, cod. civ., 38 L. 392/
1978 in relazione all’art. 360, n. 3, cod. proc. civ.; l’atto di alienazione – si
deduce – è intervenuto non già fra i germani Granieri, ma fra essi e la società CISED; i criteri di imputazione di conoscenza in ambito societario risentono della particolare complessità della struttura istituzionale – organizzativa dell’ente collettivo e non possono prescindere da valutazioni circa l’e-
4. Imputazione della fattispecie ed imputazione degli effetti. – Contro tale automatismo
può rilevarsi che la disciplina in commento si attaglia esclusivamente ai rapporti intersoggettivi, presupponendo la rappresentanza il concorso o il conflitto, attuale o potenziale, di due
volontà. Nell’ambito delle persone giuridiche postula che tali volontà siano espresse da due
organi, come risulta dalla disciplina del conflitto di interessi in sede deliberativa, in cui la società manifesta una propria volontà – dell’organo assembleare o consiliare – distinta da quella
del singolo rappresentante. Quando invece l’amministratore sia unico o, come nel caso di
specie, il conflitto si verifichi in sede extrasociale, quelle regole non possono essere utilmente
richiamate, difettandone il presupposto applicativo. In relazione all’organo, pertanto, più che
di rappresentanza si dovrebbe parlare di immedesimazione, per significare l’assenza di quella
alterità soggettiva (22) che costituisce l’elemento determinante la diversità delle forme di imputazione. Nella rappresentanza l’effetto è imputato a (id est: si svolge nella sfera giuridica di)
un soggetto diverso da quello cui è imputato l’atto; quando ricorre il fenomeno dell’organo,
invece, coincidono i soggetti delle due imputazioni, in quanto anche l’atto è imputato all’ente
collettivo nell’ambito del quale l’organo ha agito (23). È legittimo allora ipotizzare che a disci-
(22) «Qui la fondamentale differenza fra il rapporto organico, che non è un rapporto fra soggetti, e il rapporto rappresentativo, che è invece un rapporto fra soggetti»: F. Santoro-Passarelli, Dottrine generali del diritto civile, IX ed., Napoli 1966, pag. 44.
(23) A. Falzea, Capacità, ora in Ricerche, cit., pag. 290 seg.: «La rappresentanza non è un mezzo in grado
di provare che gli enti collettivi possono diventare titolari di fattispecie giuridiche. Anzi è un fenomeno che prova
esattamente il contrario, perché l’atto posto in essere dal rappresentante resta sempre e soltanto un atto del rappresentante». Da qui la diversità dell’imputazione giuridica (v. infra, nel testo) e la constatazione che «quando si
dice che la persona giuridica agisce attraverso i suoi organi, si impiega null’altro che una rapida espressione figurata» per descrivere tale fenomeno.
22
Il diritto fallimentare e delle società commerciali
sclusiva convenienza dell’affare; nella specie la corte di merito 1) ha ritenuto
con eccessiva semplificazione che il legame di parentela fra l’alienante ed il
rappresentante legale della società ha costituito «il logico collante della reciproca consapevolezza» e quindi il necessario presupposto della conoscenza del pregiudizio da parte della società; 2) non ha considerato che, essendo
il complesso immobiliare condotto in locazione dalla società, l’alienazione
ha costituito legittimo esercizio del diritto di prelazione di cui all’art. 38
L. 392/1978 e come atto compiuto in adempimento di un’obbligazione è
sottratto al potere di revoca del creditore; 3) ha omesso qualsiasi motivazione sul punto, affermando che la vendita si poteva innestare sui beni in affitto con evidente petizione di principio.
7. Con il quarto motivo si lamenta omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione su un punto decisivo; la prova della conoscenza del pregiudizio da parte del terzo è a carico del creditore che agisce in revocatoria;
l’accertamento della esistenza di tale conoscenza è riservato al giudice di
merito il quale è tenuto a fornire motivazione congrua ed esente da vizi logico-giuridici; la corte di merito si è limitata ad affermazioni apodittiche e
prive di riscontro probatorio.
pline e fenomeni distinti corrispondano distinte regole di imputazione (24). Può allora distinguersi tra imputazione c.d. psicologica ed imputazione in senso giuridico. L’imputazione c.d.
psicologica dell’atto al suo autore avviene su base, per cosı̀ dire, naturalistica (essendo l’atto il
prodotto dell’attività volitiva di un determinato soggetto) e costituisce una regola rilevante ai
soli fini del giudizio sugli elementi essenziali della fattispecie dipendenti dalle condizioni del
soggetto (25), non incidendo sulla imputazione degli effetti, che possono essere riferiti a soggetti diversi (26). L’imputazione in senso giuridico è invece il fenomeno, di portata esclusivamente normativa – non essendo ipotizzabile una «capacità di volere» degli enti (27) – dell’at-
(24) Si è osservato che «...la distinzione non si pone fra rappresentanza organica o volontaria, bensı̀ fra rappresentanza (organica e volontaria) degli enti e rappresentanza delle persone fisiche» (M. Campobasso, cit., pag.
181, in nota; cfr. P. Spada, La tipicità delle società, Padova 1974, pag. 228) e che «...l’ordinamento-soggetto non è
costituito nello stesso modo nelle persone fisiche e in quelle giuridiche» (F. D’Alessandro, Persone giuridiche e
analisi del linguaggio, Padova 1989, pag. 26).
(25) Ad esempio, ai fini della disciplina dei vizi del volere.
(26) A. Falzea, Il soggetto nel sistema dei fenomeni giuridici, Milano 1939, pag. 163.
(27) «...atti che nessun artificio può impedire di considerare prodotti dagli organi, nella loro accezione soggettiva (imputazione psicologica) e successivamente imputati, vale a dire attribuiti, all’ente (imputazione giuridica). Una riprova si ha nel fatto che anche nel rapporto organico viene in rilievo un fenomeno di capacità di agire:
ma non dell’ente, bensı̀ dell’organo-soggetto, che perciò il diritto considera, sotto il profilo psicologico, come
l’unico autore dell’atto» (A. Falzea, Capacità, pag. 293-294). Ciò è confermato anche da chi contesta la diversità
del regime di imputazione, affermando che «non v’è norma che possa mutare la circostanza storica d’essere la
fattispecie realizzata dal titolare dell’organo e non dall’ente» (M. Campobasso, op. loc. ult. cit.) e che «un atto
si produce, non si imputa; esso è una vicenda, non una posizione giuridica che possa essere ascritta a questo od a
quell’altro soggetto di diritto» (P. Spada, cit., pag. 227).
Parte II - Giurisprudenza
23
8.1. I motivi, da esaminare in un contesto unitario per l’evidente connessione, pongono fondamentalmente due questioni: la prima concerne la
revocabilità della vendita dell’immobile locato al conduttore che esercita
il diritto di prelazione derivante dalla L. 392/1978; la seconda attiene alla
prova della «scientia damni» con riferimento ad una società di capitali
che si renda acquirente di un bene.
8.2. Per quanto concerne la prima questione va rilevato che la revocatoria è diretta a colpire gli atti che il debitore compia superando i limiti della sfera di libertà che gli è assegnata; non sono, pertanto, suscettibili di revocazione gli atti in relazione ai quali il debitore non ha margini di discrezionalità e, cioè, gli atti che egli è tenuto a compiere per adempiere un’obbligazione.
In questo ambito concettuale la giurisprudenza di questa Corte da tempo ritiene che non sono soggetti a revocazione a norma dell’art. 2901 cod.
tribuzione, a un soggetto diverso dall’autore dell’atto, non solo degli effetti ma dell’intera fattispecie (28). Questi due momenti, scissi nella rappresentanza volontaria in ragione dell’alterità soggettiva che la caratterizza, si riunificano, di regola (v. infra, § 5), nelle persone giuridiche, in virtù dell’immedesimazione organica.
Nella medesima prospettiva può trovare chiarimento la nozione di «stato soggettivo».
Buona e mala fede in senso giuridico non sono, a rigore, fenomeni psichici. Esse piuttosto presuppongono fenomeni psichici, ipotizzabili solo rispetto agli esseri umani (29), e precisamente
(28) La «scissione tra il momento statico della titolarità, che pertiene tout court al soggetto collettivo, e il
momento dinamico dell’attuazione delle situazioni giuridiche sostanziali» (F. Guerrera, Illecito e responsabilità
nelle organizzazioni collettive, Milano 1991, pag. 117) fa sı̀ che l’imputazione alla persona giuridica sia un’imputazione incompleta, determinando il solo elemento materiale del comportamento (ciò che deve essere fatto od
omesso) e non anche l’elemento personale (chi deve fare od omettere), che risulterà individuato dall’ordinamento
interno dell’ente (F. D’Alessandro, cit., pagg. 14-15 e 66). Ciò però riguarda il momento dell’imputazione degli
effetti dell’atto. L’esigenza di una imputazione in senso giuridico nasce dalla constatazione che il fenomeno giuridico si articola in due momenti: una situazione di fatto, che postula il riconoscimento formale da parte dell’ordinamento (qualificazione giuridica; momento della rilevanza), ed un effetto che ad essa viene attribuito (momento della efficacia). Perché l’effetto dell’atto compiuto dal legale rappresentante possa essere imputato alla persona
giuridica è necessario che questa sia preliminarmente qualificata dall’ordinamento come soggetto di diritto, cioè
come presupposto di qualificazione della fattispecie. In questa prospettiva si elabora il concetto di imputazione
giuridica (della fattispecie): l’atto negoziale viene imputato non come attività (che è riferibile sempre e soltanto
all’individuo che ne sia autore, e che attiene al momento della capacità di agire) ma come fattispecie pertinente alla
sfera giuridica dell’ente, consentendo di attuare quel passaggio logico preliminare all’imputazione degli effetti che
è dato dalla capacità giuridica dell’ente (cfr. A. Falzea, Il soggetto, cit., pag. 8-9; 164 seg.).
Di imputazione giuridica parla anche G. Minervini, Alcune riflessioni sulla teoria degli organi delle persone
giuridiche, in Riv. Trim. Proc. Civ., 1953, pag. 936, secondo cui «...anche a voler ritenere che si tratti di fictio iuris
ne resta ferma la realtà giuridica». Critiche sono espresse da P. Spada, cit., che ritiene l’imputazione di fattispecie
costruzione artificiosa.
(29) Cassazione 22 novembre 1996, n. 10359, Giur. Comm. 1998, II, 482; M. Campobasso, cit., 185;
193-194.
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Il diritto fallimentare e delle società commerciali
civ. i contratti conclusi dal debitore in esecuzione di un contratto preliminare di vendita, non essendosi in tale caso in presenza di una decisione del
venditore caratterizzata da arbitrarietà, sempre che non sia provato il carattere fraudolento del negozio con il quale il debitore ha assunto l’obbligo poi
adempiuto (Cassazione 18 ottobre 1991, n. 11025).
Nella vendita di immobile locato ad uso non abitativo, invece, il locatore è libero di vendere o non vendere e, solo se decide di vendere, è obbligato a vendere al conduttore, il quale abbia esercitato il diritto di prelazione
di cui all’art. 38 L. 392/1978.
In altri termini, in questo tipo di vendita la decisione di vendere è libera,
mentre vincolata è la scelta dell’acquirente nel senso che, una volta che abbia deciso di vendere, il locatore non ha la facoltà di sceglierlo, essendo obbligato a vendere al conduttore che abbia esercitato il diritto di prelazione.
Essendo, pertanto, discrezionale, la vendita dell’immobile locato, nel
il complesso processo motivazionale che orienta la condotta dell’individuo (30). Sono perciò
locuzioni che esprimono un giudizio di valore sulla condotta tenuta da un dato soggetto, sul
presupposto che questi disponesse di elementi (informazioni) sufficienti per poter scegliere tra
più comportamenti possibili (31). Poiché allo stato attuale delle conoscenze e tecniche scientifiche non è possibile accertare direttamente ciò che esiste ed avviene nella psiche altrui (32),
tali fenomeni restano confinati all’interno della sfera psichica individuale e non assumono alcuna rilevanza giuridica diretta. Ciò che rileva, per il diritto, è unicamente un comportamento
percepibile all’esterno (33). Dal grado di conoscenza individuale, inteso come disponibilità di
informazioni necessarie per orientare la condotta (34), la legge formula un giudizio di valore a
carattere necessariamente ipotetico ed ex post (verifica del comportamento alternativo), desumendo dal comportamento tenuto il processo motivazionale dell’individuo e qualificando
cosı̀, in termini positivi o negativi, il suo c.d. «stato soggettivo» al solo fine di ritenere presente il presupposto per l’applicazione di una data norma.
Se questa norma è l’art. 2901 cod. civ., l’imputazione della frode alla società, non essendo legittima l’applicazione analogica dell’art. 1391 cod. civ. (per l’incompatibilità tra le discipline della rappresentanza volontaria e della immedesimazione organica), avrebbe richiesto il
positivo riscontro di una manifestazione di volontà dell’ente distinta da quella del rappresentante, formalizzata in una deliberazione assembleare o consiliare di autorizzazione o ratifica;
(30) «Il sentimento [...] riflette la polarizzazione della nostra coscienza valutante tra valori positivi e valori
negativi, tra beni e mali della esistenza. [...] Sentimento è coscienza di un valore qualunque» (A. Falzea, cit.,
pag. 445 seg.).
(31) Il sentimento, come giudizio di valore individuale, «è a sua volta suscettibile di essere valutato (ab extra), in funzione di quel sistema di valori che è un ordinamento giuridico» (A. Falzea, cit., 455). L’ordinamento
considera i giudizi manifestati dall’individuo (tramite fatti che valgano a renderli oggettivamente osservabili: c.d.
fatti manifestativi) al fine di valutarne la conformità o il contrasto con interessi fondamentali della collettività.
(32) A. Falzea, cit., pag. 511.
(33) ibidem, pag. 494. È il principio di esteriorità del comando giuridico (M. Campobasso, cit., 141).
(34) Principio di accessorietà del sapere: M. Campobasso, cit., 361-362.
Parte II - Giurisprudenza
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concorso delle condizioni previste dall’art. 2901 cod. civ. è revocabile ad
istanza del creditore del venditore anche se acquirente ne sia il conduttore
nell’esercizio del diritto di prelazione.
8.3. In relazione alla seconda questione va rilevato che per accertare il
requisito della «scientia damni» con riferimento ad una società occorre avere riguardo all’atteggiamento psichico della o delle persone fisiche che la
rappresentano, giusta il principio stabilito dall’art. 1391 cod. civ., applicabile all’attività delle persone giuridiche.
Se, pertanto, l’amministratore di una società o, comunque, l’organo che
la rappresenta sia consapevole del fatto che l’acquisto di un bene immobile
da parte della società può pregiudicare le ragioni del creditore, tale consapevolezza si comunica alla società, esponendo l’atto di acquisto a revoca da
parte del creditore.
Ne consegue che correttamente la corte di merito ha accertato l’esistenza del requisito in relazione al presidente del consiglio di amministrazione
(non è contestato che il medesimo disponesse di poteri rappresentativi della
società).
8.4. Ribadito che la conoscenza del pregiudizio può essere dimostrata a
mezzo di presunzioni aventi i requisiti previsti dall’art. 2729 cod. civ. (Cassazione 10 luglio 1997, n. 6272) e che l’apprezzamento del giudice di merito, se congruamente e correttamente motivato, è insindacabile in sede di
legittimità (Cassazione 10 maggio 1995, n. 5095), va rilevato che la corte di
ovvero dell’effettiva circolazione di quelle informazioni nella struttura societaria e della loro
vantaggiosa utilizzazione (35). Nel caso in esame – in cui peraltro un vantaggio appare ravvisabile prevalentemente, se non esclusivamente, per il debitore – la sostanziale estraneità della
società alla fattispecie avrebbe potuto, forse, suggerire una ricostruzione diversa.
5. Ipotesi alternativa: simulazione. – Il creditore aveva eccepito la nullità del negozio per
simulazione. Ed in effetti sembrerebbe ricorrere un’ipotesi di apparenza contrattuale finalizzata all’elusione di diritti o aspettative di terzi, tramite la sottrazione dei beni alla garanzia dei
creditori (36). Alla realizzazione di tale effetto mirava anzi proprio la stipulazione nella qualità
di legale rappresentante dell’acquirente, che avrebbe consentito di far apparire come parte
contrattuale la società come soggetto formalmente terzo: dalla lettura della sentenza si evince
che a qualificare l’alienazione come atto di esercizio del diritto di prelazione riconosciuto al
conduttore dall’art. 38 L. 392/1978 siano unicamente circostanze – godimento dell’immobile
da parte della società; stipulazione da parte del rappresentante – non riconducibili ad una
manifestazione di volontà dell’ente (37). È legittimo ritenere che l’atto stipulato dal rappresen-
(35) M. Campobasso, cit., 229.
(36) C.M. Bianca, cit., 697.
(37) V. il § 6 della sentenza.
26
Il diritto fallimentare e delle società commerciali
merito ha valutato analiticamente gli elementi indiziari sottoposti al suo esame, pervenendo alla conclusione che essi forniscono sufficiente prova del
requisito in parola.
Sotto il profilo della correttezza ed adeguatezza dell’iter motivazionale il
detto accertamento è coerente con il principio della regolarità causale, cui
deve informarsi la prova presuntiva, essendo stata evidenziata la rilevante
probabilità della conoscenza della situazione patrimoniale del venditore
da parte del legale rappresentante di una società, ove fra essi esista uno
stretto rapporto parentale (fratelli), operino nello stesso ramo di attività,
uno dei due abbia prestato garanzia a favore dell’altro per alleggerire la
sua posizione debitoria.
8.5. I motivi non possono, pertanto, ricevere accoglimento.
9. In conclusione, il ricorso principale è rigettato.
10. Il ricorso incidentale è pienamente adesivo di quello principale e subisce la medesima sorte di esso.
tante possa produrre effetti nella sfera giuridica dell’ente pur quando non venga in rilievo il
perseguimento di finalità istituzionali e dunque l’effettivo esercizio del potere rappresentativo, ma unicamente il perseguimento di un «dolo egoistico» (l’intento di favorire il congiunto)? Ciò implicherebbe che la sola qualifica di rappresentante valga a far presumere che ogni
e qualsiasi atto sia compiuto nell’esercizio dei relativi poteri; il che, oltre a cozzare con l’art.
1388 cod. civ., condurrebbe ad una indebita ed eccessiva estensione della responsabilità dell’ente, specie nelle ipotesi in cui manchi (come nel caso in esame) ogni possibilità di ingerenza
da parte del (presunto) rappresentato (38). Appare preferibile fondare il criterio di inquadramento della fattispecie sulla considerazione dell’interesse pratico effettivamente perseguito, sı̀
da escludere che possano essere imputate all’ente condotte finalisticamente orientate alla realizzazione di un fine proprio dell’autore (39). Queste condotte – qualificabili come abuso del
potere rappresentativo se produttive di un danno all’ente ovvero, in caso contrario e più in
generale, come atti compiuti in carenza di potere in concreto – valgono ad interrompere il nesso organico, sicché gli effetti dell’atto andrebbero imputati, in ogni caso, esclusivamente all’autore (40): e ciò perché non verrebbe in rilievo quella relazione tra più soggetti interni alla
società in cui si risolve la disciplina della persona giuridica (41), ma soltanto interessi, fatti psichici, fatti di conoscenza, esclusivamente individuali.
(38) Cfr. F. Guerrera, Illecito e responsabilità nelle organizzazioni collettive, Milano 1991, pag. 333.
(39) Ibidem, 341.
(40) Contra M. Campobasso, cit., 243 seg. Si è ritenuto di utilizzare l’espressione «carenza di potere in
concreto» per designare le ipotesi in cui il rappresentante persegua esclusivamente il proprio interesse individuale, con ciò ponendosi al di fuori della portata della norma attributiva del potere rappresentativo. In dottrina si è
desunta, dall’art. 2031 cod. civ. interpretato come norma di chiusura, l’esistenza del principio per cui «quel che
conta per legittimare l’effetto rappresentativo è la circostanza obiettiva della cura di interessi altrui» (G. Guizzi,
Gestione rappresentativa e attività d’impresa, Padova 1997, pag. 60).
(41) Cfr. T. Ascarelli, Personalità giuridica e problemi delle società, in Problemi giuridici, Milano, 1959, I,
259.
Parte II - Giurisprudenza
27
11. Per il principio della soccombenza le spese del giudizio di cassazione vanno poste a carico dei ricorrenti.
P.Q.M. la Corte riunisce i ricorsi e li rigetta; condanna i ricorrenti in solido al pagamento delle spese del giudizio di cassazione liquidate in euro
5100, di cui euro 5000 per onorari, oltre spese generali ed accessori di legge. (Omissis)
Si poteva perciò, probabilmente, colpire il negozio con la nullità per simulazione (soggettiva relativa) o – con difficoltà forse maggiori – per illiceità della causa (superando l’orientamento restrittivo di cui s’è detto) (42). Soluzioni queste certamente meno «intuitive» ma forse in grado di evitare finzioni, presunzioni e salti logici cui costringe il ricorso all’azione revocatoria.
Dott. Antonino Fazio
Dottorando di ricerca in Diritto commerciale
nell’Università di Catania
(42) Supra, § 2.
TRIBUNALE DI FIRENZE
7 novembre 2007
Pres. D’Amora - Rel. est. Riviello
Fall.to Tourbillon Soc. acc. sempl. c. Folino Gallo Luigi e altri
Fallimento - Fallimento delle società - Estensione al socio occulto - Assunzione di responsabilità illimitata - Onere della prova - Curatore
(Legge fallim. art. 147)
Fallimento - Fallimento delle società - Estensione al socio occulto - Limite
temporale per la dichiarazione di fallimento in estensione - Inapplicabilità dei termini - Decorrenza dalla sola esteriorizzazione presso terzi
della loro qualità
(Legge fallim. art. 147)
Deve essere dimostrata dal curatore che ne prende l’iniziativa l’avvenuta
assunzione di responsabilità illimitata del socio occulto del quale si chieda la
declaratoria di fallimento in estensione (1).
Il limite temporale per la dichiarazione di fallimento in estensione previsto dall’art. 147 legge fallim. non si applica ai soci occulti, per i quali non vi
sono limiti temporali per la dichiarazione di fallimento in estensione se non a
decorrere dalla esteriorizzazione presso terzi con mezzi idonei che questi abbiano eventualmente fatto della loro qualità. Ne consegue che è irrilevante
il momento temporale scelto dalla curatela per avviare domanda di estensione
del fallimento una volta dimostrato che il socio non ha compiuto atti di messa
a conoscenza dei terzi della sua qualità compiendo le attività idonee (2).
(Omissis) – Motivi della decisione. – 1. I presupposti per la pronuncia di
estensione. Come è noto l’art. 147 legge fallim., dopo aver sancito al comma
1 «che la sentenza che dichiara il fallimento della società con soci a responsabilità illimitata produce anche il fallimento dei soci illimitatamente responsabili» al comma 2 dispone che «se dopo la dichiarazione di fallimento della
società risulta l’esistenza di altri soci illimitatamente responsabili il tribunale,
su domanda del curatore o d’ufficio, dichiara il fallimento dei medesimi dopo
averli sentiti in camera di consiglio».
(1-2) Il fallimento in estensione del socio occulto.
La approfondita e interessante sentenza del Tribunale di Firenze che qui viene pubblicana ci offre l’occasione per fare il punto su talune questioni concernenti il fallimento in
estensione del socio occulto, soprattutto dopo che la recente riforma di diritto fallimentare
Parte II - Giurisprudenza
29
È altresı̀ noto che la Corte costituzionale, prima con sentenza 12 marzo
1999, n. 66 e quindi con sentenza 21 luglio 2000, n. 319, ha dichiarato l’infondatezza della questione di legittimità costituzionale dell’art. 147 legge
fallim., in relazione agli artt. 10 e 11 legge fallim., dovendo tale disposizione
interpretarsi nel senso che, a seguito della dichiarazione di fallimento della
società e di quella dei soci illimitatamente responsabili defunti o per i quali
sia cessato il vincolo sociale, può disporsi l’apertura di detta procedura concorsuale soltanto entro il termine di un anno decorrente da tali eventi e successivamente l’illegittimità costituzionale del comma 2, nella parte in cui
prevede che il fallimento dei soci a responsabilità illimitata di società fallita
possa essere dichiarato dopo il decorso di un anno dal momento in cui essi
abbiano perso, per qualsiasi causa, la responsabilità illimitata.
Ad esse hanno fatto seguito altre decisioni della Corte costituzionale
che, con ordinanze del 5 luglio 2002 n. 321 e 4 febbraio 2003 n. 36, ha
meglio precisato il suo pensiero, dichiarando la manifesta infondatezza
della questione di legittimità costituzionale dell’art. 147 legge fallim. Nella
parte in cui non prevedeva un limite temporale, decorrente dalla data della sentenza dichiarativa del fallimento principale, per la dichiarazione di
fallimento in estensione del socio occulto, ravvisando situazioni del tutto
diverse tra quella del socio receduto da un società regolarmente costituita
e registrata, nel rispetto delle forme d pubblicità prescritte dalla legge e
quella del socio occulto di una società irregolare perché non iscritta nel
registro delle imprese.
Collocandosi in tale solco la S.C. ha precisato che il principio di certezza
delle situazioni giuridiche impone che la decorrenza del termine annuale
per il socio occulto receduto non possa farsi risalire alla data del suo recesso
né a quella di dichiarazione di fallimento della società ma al momento in cui
lo scioglimento del rapporto sia stato portato a conoscenza dei terzi con
mezzi idonei, con la ulteriore conseguenza che occorre tener conto della data dell’eventuale pubblicizzazione del recesso o di quella in cui i creditori ne
abbiano avuto conoscenza o lo abbiano colpevolmente ignorato (Cassazio-
ha novellato l’art. 147 nel rispetto della sentenza Corte cost. 21 luglio 2000 n. 319 (1) e in
conformità degli orientamenti giurisprudenziali che sul tema si erano avuti (2).
(1) Vedila in Foro it., 2000, I, 2723; Giur. cost., 2000, 2384; Dir. fall., 2000, 2, 665; Giust. civ., 2000, I,
2789; Giur. comm., 2001, II, 5.
(2) In argomento v. Cecchella, Il diritto fallimentare riformato, Milano, 2007, 31 e seg.; Caridi, in La
riforma della legge fallimentare (a cura di Nigro e Sandulli), Torino, 2006, II, 893 e seg.; Castellano, in Il nuovo
fallimento (a cura di Santangeli), Milano, 2006, 673.
30
Il diritto fallimentare e delle società commerciali
ne, 28 maggio 2004 n. 10268; Cassazione, 26 novembre 2004 n. 22347; Cassazione, 28 settembre 2005 n. 18927). (Omissis)
Si afferma che al fine di poter individuare la figura di socio accomandatario di fatto di una società in accomandita semplice e di assoggettarlo al
fallimento, per effetto di quello dichiarato dalla società, è necessario accertare che tale soggetto abbia compiuto atti di amministrazione e di gestione
generale dell’ente e non è sufficiente, invece, che egli abbia compiuto negozi giuridici ricollegabili a particolari esigenze sociali oppre a deleghe formali
(Tribunale Perugia, 3 maggio 1991, in Il Fallimento n. 12, anno 1991, pag.
1304).
Non cosı̀ immediata però è la soluzione se gli estremi del rapporto societario (occulto o apparente) vengono desunti da circostanze di fatto che di
per se stesse non concretizzino ipotesi di ingerenza nell’amministrazione
della società (ad es. la partecipazione agli utili, l’effettuazione di conferimenti ed il compimento di semplici attività di controllo).
La prima novità da segnalare concerne l’iniziativa, poiché mentre il vecchio testo dell’art.
147 legge fallim. prevedeva che il fallimento del socio occulto potesse esser dichiarato «su
domanda del curatore o d’ufficio», la nuova disposizione prevede che il tribunale possa procedere «su istanza del curatore, di un creditore, di un socio fallito».
La riforma dell’art. 147 legge fallim. è, sotto questo profilo, conforme alla riforma degli
artt. 6, 7 e 8 legge fallim., relativa alla consacrazione del principio costituzionale della domanda ex art. 24 Cost. (3).
Poiché oggi, differentemente da ieri, non è possibile la dichiarazione di ufficio del fallimento, allo stesso modo non può essere possibile la dichiarazione di fallimento d’ufficio in
estensione del socio occulto.
Da ciò, il nuovo testo dell’art. 147 legge fallim.
Solo che il legislatore sembra essersi dimenticato, in questo caso, di compensare il venir
meno dell’iniziativa officiosa con l’iniziativa del pubblico ministero, poiché mentre per la dichiarazione di fallimento pura e semplice la riforma dell’art. 6 legge fallim. è stata bilanciata
con la riforma dell’art. 7 (e conseguente abolizione dell’art. 8) legge fallim., che ha esteso l’iniziativa di fallimento al pubblico ministero anche nelle ipotesi nelle quali l’insolvenza emerga
in un procedimento civile, per la dichiarazione del fallimento in estensione nulla si dice sul
punto, ed anzi l’art. 147 legge fallim. non menziona il pubblico ministero tra i soggetti legittimati a proporre domanda.
Quid iuris?
(3) In questo, senso, se vuoi, v. anche Scarselli (Bertacchini-Gualandi-Pacchi-Scarselli), Manuale di diritto fallimentare, Milano, 2007, 47, il quale evidenzia come il vecchio meccanismo della dichiarazione di
ufficio era considerato da gran parte della dottrina in contrasto con il principio della domanda di cui agli artt. 24
Cost. e 99 e 112 cod. proc. civ., poiché è regola generale del nostro sistema che nessun provvedimento possa
essere assunto dal giudice se non v’è qualcuno che questo provvedimento chieda, pena altrimenti (anche) la violazione dell’art. 111 Cost. circa il principio di terzietà e imparzialità del giudice.
Parte II - Giurisprudenza
31
Le occasioni in cui la giurisprudenza e la dottrina hanno avuto modo di
affrontare la questione sono piuttosto rare.
Consta un lontano caso, risalente agli anni cinquanta, che dette origine
ad una pronunzia della Corte d’appello di Firenze (Appello Firenze, 24
gennaio 1957, in Dir. Fall. 1957, II, 724), poi sottoposta al vaglio della Suprema Corte, che la cassò (Cassazione, 18 giugno 1958, n. 2094).
La Corte d’appello di Firenze aveva sostenuto che, per qualificare come
accomandatario di fatto (o comunque come illimitatamente responsabile) il
socio occulto di una società in accomandita semplice, si sarebbe dovuta riscontrare in concreto una manifestazione verso l’esterno dell’attività gestoria del socio stesso (con spendita del nome della società nei rapporti con i
terzi) e ciò perché l’art. 2320 cod. civ. collegherebbe la sanzione della responsabilità illimitata a carico del socio non accomandatario «per contratto» al compimento appunto da parte del medesimo di atti di amministrazione verso l’esterno.
Ed a questi effetti il socio occulto dovrebbe essere considerato alla stregua di chi accomandatario «per contratto» non sia.
La Corte di cassazione, nel giudizio di impugnazione avverso quella sen-
Chi scrive ritiene che i principi generali di cui agli artt. 6 e 7 legge fallim. possano applicarsi alla dichiarazione di tutti i fallimenti, e quindi anche di quelli in estensione del socio
occulto.
Conseguenza di ciò è che la domanda per il fallimento del socio occulto può esser fatta
dal curatore, da altro socio fallito o dai creditori, ma se nessuno di questi soggetti prende l’iniziativa, e dal fascicolo del fallimento, o in altro modo, risulta la fallibilità di uno o più soci
occulti, il giudice (o il tribunale), ai sensi dell’art. 7 legge fallim., ben può segnalare la questione al pubblico ministero, perché questo presenti domanda di fallimento in estensione.
*
*
*
Precisato che il fallimento in estensione non può essere dichiarato d’ufficio (seppur l’iniziativa possa esser presa anche dal P.M.), va precisato che è onore di chi agisce in giudizio
dar prova dei fatti che costituiscono il fondamento della domanda di fallimento in estensione (4).
È questo un punto particolarmente battuto dai giudici fiorentini, che non può non essere condiviso, e che a questo punto discende dagli stessi principi generali di cui all’art.
2697 cod. civ.
(4) In senso conforme v. già Tribunale Perugia, 13 ottobre 1992, in Fallimento, 1993, 649, con nota di
Ruggeri, per il quale «Poiché il socio occulto di una società in accomandita semplice non si presume accomandatario, spetta al curatore fornire la prova che detto socio, al quale si intende estendere la dichiarazione di fallimento, abbia svolto atti di amministrazione di natura gestoria».
32
Il diritto fallimentare e delle società commerciali
tenza, rilevò come in realtà la portata dell’art. 2320 cod. civ. sia più estesa di
quella indicata dalla Corte d’appello di Firenze e vieti al socio accomandante (palese od occulto) di compiere atti amministrativi in genere, siano essi
rivolti verso l’esterno o siano anche solo meramente interni.
La Suprema Corte ha avuto modo di tornare ancora sull’argomento
(Cassazione, 19 gennaio 1991, n. 508) e, invertendo il proprio precedente
orientamento ha evidenziato come nell’accomandita semplice la regola sia
la coesistenza delle due categorie di soci ed ha negato che il preteso interesse del socio accomandatario a rimanere occulto sia di per sé un elemento
sufficiente per trarre una presunzione (sia pure semplice) di responsabilità
illimitata, desumendone, quindi, che, ravvisata l’esistenza di un socio occulto in una accomandita semplice, occorre accertare di volta in volta quale
posizione il medesimo abbia concretamente assunto e quest’ultima pare
in effetti la soluzione da condividere.
L’art. 2297 cod. civ. per la società in nome collettivo irregolare dispone
che alla medesima si applicano bensı̀ le disposizioni relative alla società semplice, ma che comunque resta «ferma... la responsabilità illimitata e solida,e
di tutti i soci»: non sono cioè ammessi i patti di limitazione della responsabilità consentiti invece nella società semplice.
L’art. 2317 cod. civ. per la società in accomandita semplice irregolare
richiama il citato art. 2297, ma nel contempo precisa a chiare lettere che
(al contrario di quanto avviene per la collettiva irregolare) una categoria
di soci mantiene comunque ferma la limitazione di responsabilità che le è
propria (salva ovviamente la sanzione per la violazione del divieto di ingerenza).
Nella società n accomandita la limitazione di responsabilità consegue direttamente all’appartenenza ad una determinata categoria di soci e a coesistenza delle due diverse categorie è caratteristica essenziale per l’esistenza
della società, al punto che se non vi sono più soci (anche solo) di una delle
Il curatore che agisca per il fallimento in estensione del socio occulto deve dar prova
della responsabilità illimitata del socio del quale si chieda la declaratoria di fallimento in
estensione.
Lo stesso onere della prova hanno gli altri soggetti legittimati a chiedere una simile dichiarazione di fallimento: i creditori, un altro socio fallito, lo stesso P.M.
E tuttavia, poiché oggi (in modo inequivocabile con il nuovo testo dell’art. 147 legge fallim.) il fallimento in estensione non può essere pronunciato se non nel rispetto della procedura pre-fallimentare di cui all’art. 15 legge fallim., va da sé che tale prova va fornita con le
modalità (e/o le facilitazioni) di quelle regole, cosicché l’esistenza dei presupposti costitutivi
del fallimento in estensione può essere data tanto con i mezzi istruttori richiesti dalle parti
quanto con quelli disposti d’ufficio dal giudice.
Al contrario, il curatore, o chi prenda l’iniziativa, non ha l’onere di dimostrare che il socio occulto possiede i parametri di fallibilità oggi fissati dal plurinovellato art. 1 della legge
fallim.
Parte II - Giurisprudenza
33
due categorie (e la pluralità non si ricostituisce nei sei mesi) la società stessa
si scioglie (art. 2323 cod. civ.).
La limitazione di responsabilità, quindi, non dipende dalla deroga ad un
principio che opererebbe in assenza di diverse pattuizioni: al contrario, è la
normale ed ineluttabile conseguenza della scelta di quel tipo di società ed
opera indiscriminatamente nei confronti di tutti i terzi, indipendentemente
dalla pubblicità che se ne sia data, o dalla conoscenza che i terzi medesimi
ne abbiano avuto.
Se tutto questo è – come pare al collegio essere – corretto, non ha allora
alcuna ragione di essere una presunzione di responsabilità illimitata a carico
del socio occulto della società in accomandita (palese).
Occorrerà di volta in volta stabilire a quale delle due categorie di soci il
medesimo appartenga.
È evidente che, a questi effetti, l’onere della prova incombe a chi, dall’appartenenza del socio occulto all’una o all’altra categoria, intenda trarre
le conseguenze fatte valere in giudizio (art. 2697 cod. civ.), sicché, se oggetto della domanda è la declaratoria di fallimento in estensione del socio occulto di cui si assuma la responsabilità illimitata, dovrà essere dimostrata dal
curatore che ne prende l’iniziativa anche l’avvenuta assunzione della stessa
responsabilità illimitata.
Va peraltro aggiunto che per comune interpretazione, una volta accertata a sussistenza delle condizioni dianzi descritte, il fallimento dei soci illimitatamente responsabili consegue in modo automatico a quello della so-
E tuttavia, a parere di chi scrive, anche il fallimento in estensione ex art. 147 legge fallim.,
in tanto può esser pronunciato, in quanto il soggetto, o la società, che si voglia far fallire possieda i parametri generali di fallibilità di cui alla nuova legge fallimentare.
È pacifico, comunque, che detti parametri non costituiscono, se si vuole anche ai sensi
dell’art. 2697 cod. civ., fatti costitutivi per la dichiarazione di fallimenti, bensı̀ solo fatti impeditivi della stessa, con la conseguenza che è il convenuto in estensione che deve dare l’eventuale prova, quale eccezione, di non essere soggetto fallibile per l’assenza del parametri
(e salvo ogni giudizio di legittimità costituzionale del decreto correttivo in tema di art. 1 legge
fallim.).
*
*
*
Se dunque, nel rispetto dei principi generali, l’onere della prova cade su chi prenda l’iniziativa per la dichiarazione del fallimento del socio occulto in estensione, v’è poi da vedere
su cosa cada la prova, ovvero quale sia l’oggetto della prova idoneo a far sı̀ che il giudice possa dichiarare il fallimento del socio occulto.
A chi scrive tre sembrano essere, soprattutto, i criteri:
a) la sussistenza della affectio societatis da intendersi come esercizio in comune dell’attività sociale;
34
Il diritto fallimentare e delle società commerciali
cietà, a prescindere dall’accertamento della loro personale insolvenza.
(Omissis)
2. Il termine annuale per la dichiarazione di estensione. (Omissis) – La
Corte di cassazione, proprio alla luce delle decisioni della Corte costituzionale richiamate nel § precedente e con particolare riferimento all’ipotesi di
socio occulto, dopo aver ricordato (nella sentenza 28 agosto 2006 n. 18618)
che l’effetto delle decisioni del giudice delle leggi comporti che la regola generale da applicare in tema di declaratoria di fallimento dell’imprenditore,
sia esso individuale che collettivo, sia nel senso che a tutti si applichi il termine di un anno dalla cessazione dell’attività, computato dal momento in
cui la cessazione ha avuto pubblicità con l’iscrizione nel registro delle imprese, pone la questione della mancanza di pubblicità, la quale di per sé,
non può avere quale conseguenza quella di escludere l’applicabilità del termine, pervenendo alla conclusione, condivisa da questo Tribunale, che in
tal caso la decorrenza se non può farsi risalire alla data del recesso, può essere ricondotta a quella in cui lo scioglimento del rapporto sia stato portato
a conoscenza dei terzi con mezzi idonei.
Tale orientamento si caratterizza per l’espressa valorizzazione del principio della certezza delle situazioni giuridiche e per la conseguente estensio-
b) la creazione di un fondo comune, attraverso conferimenti in denaro o altri beni, al fine
di consentire l’esercizio dell’attività societaria e/o il perseguimento degli scopi sociali;
c) la ripartizione tra i componenti della compagine sociale di utili e perdite (5).
In questo contesto è da segnalare che la giurisprudenza ritiene che «la posizione di socio
occulto di società in accomandita semplice non è situazione di per sé idonea a fare presumere
la sua illimitata responsabilità quale socio accomandatario (6), e tuttavia «il socio occulto che
si sia ingerito nell’amministrazione della società in accomandita è assoggettabile all’estensione
automatica del fallimento pronunciato a carico di quest’ultima» (7).
La prova dell’ingerenza può emergere anche da «manifestazioni esteriori» (8), a nulla, se
del caso, «rilevando che di fatto l’amministrazione della società sia stata esercitata da altri» (9),
atteso che «si ha la presenza del socio occulto in una società in accomandita semplice, quando
risulti dagli atti che un soggetto apparentemente estraneo alla società si è immischiato nella
gestione di essa, assumendo personale responsabilità e rimanendo quindi assoggettabile a fallimento» (10).
(5) In questo senso v. anche Ianniello, Il nuovo diritto fallimentare, Milano, 2006, 328.
(6) Cosı̀ Cassazione, 19 gennaio 1991 n. 508, Dir. fall. 1991, II, 433 con nota di Ragusa Maggiore; ed in
Giur. it., 1991, I, 1, 899; ed in Giust. civ., 1991, I, 860; ed in Fallimento, 1991, 489.
(7) Cosı̀ Cassazione, 28 maggio 1991 n. 6028, Fallimento, 1991, 1146.
(8) Cosı̀ Tribunale Catania, 21 giugno 1990, Dir. fall., 1992, II, 1162.
(9) Cosı̀ Tribunale Udine, 18 marzo 1989, Dir. fall., 1989, II, 914.
(10) Cosı̀ Tribunale Firenze, 20 gennaio 1988, Dir. fall., 1989, II, 188, con nota di Vindigni.
Parte II - Giurisprudenza
35
ne dell’applicabilità del termine annuale non solo ai casi in cui vi sia stata
pubblicità della cessazione del vincolo sociale (invero inimmaginabile in
ipotesi di società occulta o di socio occulto accomandatario di fatto) sul registro delle imprese, ma anche ai casi in cui tale cessazione sia stata portata
a conoscenza dei terzi con mezzi idonei.
La questione, allora, sembra potersi risolvere dal complesso delle disposizioni dettate dal codice civile in materia di società di persone (artt. 2193,
2290 e 2300 cod. civ.), dal quale si evince che l’omessa iscrizione di vicende,
societarie o personali e, più in generale, di fatti relativi all’attività di imprenditore impedisce che il fatto possa essere opposto ai terzi salvo che non si
dia la prova che i terzi, nonostante l’omessa registrazione, ne abbiano avuto
conoscenza cosı̀ che il termine di un anno dalla cessazione dell’attività può
trovare applicazione anche alle società non iscritte (o nei confronti dei soggetti che non appaiano quali soci) e decorre dal momento in cui detta cessazione sia stata portata a conoscenza dei terzi, come detto, o sia stata da
essi conosciuta anche in relazione ai segni esteriori attraverso i quali si è manifestata.
Ad avviso del Collegio una siffatta esteriorizzazione non può essere rappresentata dall’iniziativa adottata dal curatore nella proposizione della domanda di estensione, che rappresenta unicamente lo strumento per l’estensione della responsabilità illimitata nei confronti dei soggetti che si assumono aver compiuto occultamente attività di natura societaria ma che non co-
In particolare, poi, la cassazione ha sentenziato che la fallibilità in estensione ex art. 147
legge fallim. «può risultare da indici rilevatore quali le fideiussioni e i finanziamenti in favore
dell’imprenditore, allorquando essi, per la loro sistematicità e per ogni altro elemento concreto siano ricollegabili ad una costane opera di sostegno dell’attività di impresa, qualificabile
come collaborazione di un socio al raggiungimento degli scopi sociali». E si è aggiunto «Tale
sistematicità non deve essere intesa in senso meramente quantitativo, potendo pochi interventi di finanziamento o di prestazione di garanzie costituire un idoneo indice rilevatore del rapporto societario» (11).
*
*
*
E veniamo al tema principale trattato dalla sentenza del Tribunale di Firenze, che è
quella del termine entro il quale il fallimento in estensione del socio occulto può essere dichiarato (12).
La soluzione della questione deve tener conto non solo del dettato normativo di cui al-
(11) V. sul punto Cassazione, 14 febbraio 2007 n. 3271, Fallimento, 2007, 8, 970; Impresa, 2007, 6, 940.
(12) V. anche sul punto Calderazzi, in La nuova legge fallimentare annotata (a cura di Terranova, Ferri jr.,
Giannelli, Guerrera, Perrino, Sassani), Napoli, 2006, 305 e seg.
36
Il diritto fallimentare e delle società commerciali
stituisce forma alcuna di pubblicità cosı̀ come dianzi delineata e richiesta
dalla giurisprudenza costituzionale e di legittimità.
Collocandosi in tale ottica il Tribunale di Messina con sentenza 8 gennaio 2003 in Il Fallimento n. 6, anno 2003, pag. 673 ha ritenuto che qualora
successivamente alla dichiarazione di fallimento sia scoperta l’esistenza di
un socio di un impresa di una società individuale, non risulta applicabile
il temine dell’art. 10 legge fallimentare.
A prescindere dalle peculiarità della fattispecie (socio occulto di impresa individuale, a fronte di pretesi soci occulti di una società di persone nel
caso di specie) non vi sono ragioni per andare di diverso avviso e si deve
concludere che non vi siano limiti temporali per il fallimento in estensione
l’art. 147 legge fallim. bensı̀ anche di quello degli artt. 10 e 11 legge fallim., nonché degli
orientamenti che sul punto vi sono stati da parte della Corte costituzionale e della corte di
cassazione (13).
(13) Al riguardo, va in primo luogo ricordato l’orientamento di Cassazione, 28 agosto 2006, n. 18618, in
Dir. fall., 2007, 5, 355; in Fallimento, 2007,1, 99, e 3, 294, con nota di Zanichelli; e in Notariato, 2007, 1,
10, per il quale, in base alla sentenza della Corte costituzionale 21 luglio 2000 n. 319 e successive ordinanze,
il termine di un anno dalla cessazione dell’attività ai fini della dichiarazione di fallimento di cui all’art. 10 legge
fallim. si applica anche alle società non iscritte nel registro delle imprese, per le quali il dies a quo decorre dalla
data in cui la cessazione dell’attività è portata a conoscenza dei terzi con mezzi idonei, o comunque è stata dagli
stessi conosciuta, anche in relazione ai segni esteriori attraverso i quali si è manifestata.
In senso conforme v. anche, precedentemente, Cassazione, 26 novembre 2004 n. 22347, Dir. e prat. Soc.,
2005, 14/15, 90, con nota di Di Rocco; Cassazione, 28 maggio 2004 n. 10268, Impresa, 2004, 1644, per la quale
«nel caso di socio occulto, il termine decorre dal momento in cui il dato concernente la perdita della sua responsabilità illimitata ...i terzi ne siano venuti a conoscenza o lo abbiano colpevolmente ignorato».
Sempre in questo senso v. Cassazione, 28 settembre 2005 n. 18927, Fallimento, 2006, 4, 476, per la quale
«In tema di dichiarazione del fallimento del socio illimitatamente responsabile di società di persone, il principio
di certezza delle situazioni giuridiche... impone che la decorrenza di detto termine per il socio occulto receduto
non possa farsi risalire alla data del suo recesso, ne’, tanto meno, a quella della dichiarazione di fallimento della
società, poiché l’evento fallimentare non scioglie il vincolo societario, ma piuttosto a quella in cui lo scioglimento
del rapporto sia portato a conoscenza dei terzi con mezzi idonei. Occorre pertanto, in concreto, tener conto della
data della eventuale pubblicizzazione del recesso o di quella in cui i creditore ne abbiano avuto conoscenza o lo
abbiano colpevolmente ignorato».
Conforme anche Cassazione, 19 settembre 2005 n. 18458, Ragiufarm, 2007, 2, 49.
Parimenti v. infine Cassazione, 5 aprile 2005 n. 7075, Nuova giur. civ., 2006, 3, 286, con nota di Sabatelli;
e in Impresa, 2006, 2, 276, con nota di Tabladini, per la quale «In tema di dichiarazione di fallimento del c.d.
socio occulto di una società irregolare, è manifestamente infondata l’eccezione di illegittimità costituzionale dell’art. 147, comma 2 legge fallim. nella parte in cui, per la dichiarazione di fallimento di detto socio, non prevede
un limite temporale, decorrente dalla data del recesso dalla società, in quanto, come affermato dalla corte costituzionale, le situazioni del socio receduto da una società regolarmente costituita e registrata e quella del socio
occulto di una società irregolare non sono comparabili, in quanto il principio di certezza delle situazioni giuridiche impone di ritenere che la decorrenza di detto termine per il socio occulto receduto debba farsi risalire esclusivamente alla data in cui lo scioglimento del rapporto sia stato portato a conoscenza dei terzi con mezzi idonei,
con la conseguenza che occorre, in concreto, tenere conto della data della eventuale pubblicizzazione del recesso
o di quella in cui i creditori ne abbiano avuto conoscenza o lo abbiano colpevolmente ignorato».
Parte II - Giurisprudenza
37
del socio occulto se non a decorrere dalla (nella specie mancata) esteriorizzazione della sua qualità.
In primo luogo perché il fallimento della società non comporta di per sé
il venir meno dell’illimitata responsabilità del socio occulto, né costituisce il
dies a quo per la decorrenza di un limite temporale alla sua dichiarazione di
fallimento in estensione: l’evento fallimentare, infatti, non scioglie il nesso
fra socio e società, ma rappresenta precisamente il luogo istituzionalmente
deputato far valere l’illimitata responsabilità di tutta la compagine sociale.
Inoltre perché al socio occulto non si applica la nuova formulazione dell’art. 147, comma 1, legge fallim. In tema di limitazione temporale della sua
fallibilità per ripercussione.
Da un lato, infatti, si deve rilevare che la fattispecie, in ambito fallimentare è regolata dal comma 2 dell’art. 147, e non dal comma 1, esclusivo oggetto di intervento della Consulta di cui si è detto in precedenza.
Ciò avvalora l’opinione per cui la sentenza costituzionale n. 319/2000
non si applica al caso in questione.
Dall’altro lato poi, si può sostenere che il socio occulto non può invocare a suo favore il principio di certezza delle situazioni giuridiche (per contrastare l’esigenza, posta dai creditori sociali o dal curatore fallimentare, di
estendere la garanzia anche al suo patrimonio mediante l’estensione del fallimento), perché per sua stessa scelta si è sottratto alla disciplina approntata
dal legislatore per le società ed i soci regolari, nonché alle disposizioni sulla
pubblicità a favore dei terzi, esponendosi cosı̀ volontariamente alle relative
conseguenze.
In sostanza, egli non si trova nella stessa situazione giuridica soggettiva
Il Tribunale di Firenze ha fatto tesoro di tutto ciò, giungendo ad una soluzione che non
può non trovare il plauso del commentatore.
In particolare il Tribunale fiorentino ha scritto che, al fine di una «valorizzazione del
principio di certezza delle situazioni giuridiche» la decorrenza di un anno di cui all’art. 10
con riferimento ai soci occulti «non può farsi risalire alla data del recesso» ma deve, inevitabilmente, farsi decorrere dal momento «in cui lo scioglimento del rapporto sia portato a conoscenza dei terzi con mezzi idonei».
E tale esteriorizzazione, a parere del Tribunale di Firenze, «non può essere rappresentata
dall’iniziativa adottata dal curatore nella proposizione della domanda di estensione, che rappresenta unicamente lo strumento per l’estensione della responsabilità illimitata nei confronti
dei soggetti che si assumono avere compiuto occultamente attività di natura societaria ma che
non costituisce forma alcuna di pubblicità cosı̀ come richiesta dalla giurisprudenza costituzionale e di legittimità».
E dunque, conclude il Tribunale di Firenze: «a prescindere dalla peculiarità della fattispecie... non vi sono limiti temporali per il fallimento in estensione del socio occulto se non a
decorrere dalla esteriorizzazione della sua qualità»; o sotto altro profilo: «è irrilevante il momento temporale endofallimentare scelto dalla curatela per avviare la domanda di estensione,
38
Il diritto fallimentare e delle società commerciali
dei soci che hanno perso, per qualsiasi causa regolarmente pubblicizzata, la
propria qualità di illimitatamente responsabili e, quindi, non può fruire del
medesimo trattamento.
Ciò non costituisce irragionevole discriminazione, perché è frutto di una
scelta consapevole del singolo, mentre la possibilità di ottenere senza limiti
il fallimento di chi ha volutamente occultato la propria qualità di socio risulta non essere altro che un mezzo di rafforzamento della garanzia patrimoniale per i terzi.
Dal complesso di ragioni che precedono si ricava che, ai fini che qui rilevano, è irrilevante il momento temporale, endofallimentare, scelto dalla
curatela per avviare la domanda di estensione, una volta che si sia dimostrato che il socio (accomandante e asserito accomandatario di fatto oppure occulto) nei cui confronti sia stata avviata la medesima, non abbia compiuto
una volta che si sia dimostrato che il socio occulto nei cui confronti sia stata avviata la medesima, non abbia compiuto atti di messa a conoscenza dei terzi della sua qualità compiendo
le attività idonee di cui vi è ripetuta menzione nelle decisioni della S.C. ampiamente commentate in precedenza».
Chi scrive ritiene che la posizione dei giudici fiorentini sia da accogliere non solo perché
conforme ai precedenti orientamenti giurisprudenziali, anche costituzionali, ma altresı̀ perché
in linea con il dettato normativo del nuovo art. 147 legge fallim., in base al quale il fallimento
in estensione non può essere dichiarato decorso un anno dallo scioglimento del rapporto sociale o dalla cessazione della responsabilità illimitata, anche in caso di trasformazione, fusione
o scissione», solo se «sono state osservate le formalità per rendere noti ai terzi i fatti indicati» (14).
E dunque, se non sono state osservate formalità per rendere noto a terzi lo scioglimento
del rapporto sociale, il termine dell’anno non decorre, e bene può essere affermato, come ha
fatto il Tribunale di Firenze, che «non vi sono limiti temporali per il fallimento in estensione
del socio occulto se non a decorrere dalla esteriorizzazione della sua qualità» (15).
Sotto il profilo della prova, infine, mentre, come detto, i presupposti del fallimento del
socio occulto gravano sulla parte attrice del procedimento, la conoscenza con mezzi idonei
del recesso o dello scioglimento oltre l’anno rappresenta un fatto impeditivo della dichiara-
(14) Le sezioni unite precisano altresı̀ che «la successiva dichiarazione di fallimento in estensione del socio
occulto ha effetto ex nunc, in virtù del carattere autonomo che, pur nel simultaneus processus, va ad essa riconosciuto» (v. infatti Cassazione, sez. un., 7 giugno 2002 n. 8257, Dir. fall. 2003, 2, 34, con nota di Rago.
In senso contrario, precedentemente, v. Tribunale Verona, 26 febbraio 1982, Fallimento 1983, 456, per il
quale gli effetti «devono farsi decorrere dal momento della pronuncia originaria del socio medesimo».
(15) In senso specifico eguale alla sentenza qui pubblicata v. Tribunale Messina, 8 gennaio 2003, in Giur.
it., 2003, 1192, con nota di Iozzo, per il quale «Il termine di cui all’art. 10 della legge fallim. non si applica alla
dichiarazione di fallimento di un socio occulto di una società di fatto occulta successivamente alla dichiarazione di
fallimento di un imprenditore individuale».
V. anche Tribunale Udine, 25 giugno 2002, Fallimento, 2003, 5, 566, con nota di Plenteda, per il quale
«la sentenza dichiarativa di fallimento non determina l’estinzione della società, ne’lo scioglimento del rapporto
sociale del socio accomandatario occulto».
Parte II - Giurisprudenza
39
atti di messa a conoscenza dei terzi della sua qualità compiendo le attività
idonee di cui vi è ripetuta menzione nelle decisioni della S.C. ampiamente
commentate in precedenza. (Omissis)
zione di fallimento in estensione, e non costitutivo della pronuncia, cosicché, sotto questo
profilo, è il socio occulto che deve dimostrare di esser receduto con mezzi idonei da oltre
un anno, e non il curatore a dover fornire la prova contraria (16).
Stefano Fucile
Avvocato in Firenze
Giuliano Scarselli
Ordinario di diritto processuale civile
nell’Università di Siena
(16) V. anche, sul punto, Tribunale Padova, 9 maggio 2001, Giur. merito, 2001, 978, per il quale «è il socio
di fatto (occulto o palese) a dover dimostrare di aver receduto dalla società in epoca anteriore a un anno dal fallimento sociale, con data certa anteriore al fallimento, ai fini dell’applicazione dell’art. 10 legge fallim. non potendosi gravare i terzi delle conseguenze della mancata adeguata pubblicizzazione della sua carica».
TRIBUNALE DI ROMA
Sez. fallimentare
3 luglio 2007
Giudice Unico dott. Maurizio Manzi
Fallimento Dragomar Soc. per az. (Avv. Alessandro Di Majo)
c. Banca PopolareE Antoniana Veneta Soc. coop. a resp. lim.
(Avv. Roberto Maraffa)
Fallimento - Garanzie - Pegno irregolare - Causa negoziale - Garanzia patrimoniale - Cause di prelazione - Titoli fungibili - Inadempimento Autotutela - Mancanza d’interesse all’azione esecutiva - Compensazione
(Art. 1851 cod. civ.)
Fallimento - Accertamento del passivo - Pegno irregolare - Concorso creditori - Cause di prelazione - Mancanza d’interesse all’insinuazione al
passivo - Compensazione
(R.d. 16 marzo 1942, n. 267, artt. 52, 53, 56; Art. 2741 cod. civ.)
Fallimento - Azione revocatoria - Riserva di agire in revocatoria - Obbligatorietà
(Legge fallim., art. 67)
Attraverso il negozio costitutivo di pegno irregolare, ex art. 1851 cod. civ.,
al creditore è trasferita la proprietà di denaro o di titoli fungibili con vincolo
di garanzia accessoria al credito principale (1).
Il creditore munito di pegno irregolare, in caso d’inadempimento dell’obbligazione principale o di fallimento del debitore, ha un autonomo potere di
auto-soddisfacimento esercitabile direttamente sui titoli. Egli, inoltre, ha l’obbligo di ritrasferire solo l’eccedenza rispetto all’ammontare dei crediti garantiti. Avvenuta, cosı̀, la confusione tra i titoli oggetto del pegno irregolare ed
il patrimonio del creditore, manca a questi interesse all’azione esecutiva e
non trova applicazione il regime degli artt. 52 e 53 legge fallim. (2),
Ove, tuttavia, il creditore munito di pegno irregolare ponga domanda
(1-3) Il pegno irregolare e la revocatoria fallimentare.
Sommario: 1. La vicenda. – 2. Il pegno irregolare e il fallimento. – 3. Il pegno irregolare e la
revocatoria fallimentare. – 4. La responsabilità patrimoniale e la garanzia negoziale.
1. La vicenda. – Tra marzo e agosto del 2000, una s.p.a. costituisce tre pegni irregolari
obbligazionari a favore di un Istituto di credito. Tali pegni irregolari sono posti a garanzia
Parte II - Giurisprudenza
41
d’insinuazione al passivo per l’obbligazione principale, gli organi della Curatela sono tenuti ad esplicitare la volontà di esercitare l’eventuale azione revocatoria del pegno irregolare già in sede di udienza di verifica dei crediti, dovendosi altrimenti postulare «l’irretrattabilità» dell’ammissione al passivo
fallimentare del credito garantito ormai passata in giudicato (3).
(Omissis) – Svolgimento del processo. – (Omissis) – Premesso che con
sentenza del Tribunale di Roma del 28 gennaio 2002 era stato dichiarato
fallimento della Dragomar soc. per az.:
che dall’esame della documentazione della società fallita, ed in particolare dall’analisi della contabilità stessa, era emerso che, nei due anni antecedenti il fallimento, la Dragomar soc. per az. aveva costituito in favore della
Banca Nazionale dell’Agricoltura soc. per az. (ora Banca Antoniana Popolare Veneta Società Cooperativa per azioni a responsabilità limitata)a garanzia di fideiussioni rilasciata quest’ultima banca (in seguito BNA) nell’interesse dalla Dragomar soc. per az. tre pegni su obbligazioni della stessa
BNA valore di A 485.468,77 e precisamente:
a) pegno costituito in data 6 marzo 2000 su obbligazioni BNA cod.
207080, per l’importo di A 304.709,57 (lire 590.000.000) a garanzia della
fideiussione di A 612.089,84 (lire 1.1185.171.200) rilasciata dalla BNA a favore della Finagen soc. per az. in data 23 febbraio 2000;
dell’ingente credito, non ancora esigibile, sorto per tre preesistenti fideiussioni Bancarie concesse dalla Banca in favore della Società.
Nel gennaio del 2002, interviene il fallimento della soc. per az. debitrice.
Il credito della Banca (intenzionata presumibilmente ad insinuarsi in via cautelativa) viene ammesso al passivo fallimentare con garanzia pignoratizia, senza riserve da parte della Curatela.
La Banca, ciò nonostante, dopo aver soddisfatto direttamente il proprio credito sui titoli
obbligazionari oggetto del pegno irregolare a norma dell’art. 1851 cod. civ., comunica alla
Curatela di rinunciare a concorrere per il credito ammesso al passivo.
La Curatela fallimentare, a questo punto, si risolve a proporre revocatoria ex art. 67,
comma 1 n. 3 legge fallim., contro l’atto costitutivo di pegno irregolare.
Con sentenza del luglio 2007, il Tribunale respinge la domanda.
Il Tribunale, a motivo della decisione di rigetto pone un ragionamento complesso che si
articola su due piani, uno sostanziale ed uno procedimentale.
Da una parte, infatti, come riconosciuto da consolidata giurisprudenza delle SS. UU.
(cfr. Cassazione SS.UU. 202 del 2001), il creditore munito di pegno irregolare, a norma dell’art. 1851 cod. civ., non solo è proprietario dei titoli trasferiti in pegno irregolare ma è anche
dotato di autonomo potere di auto-soddisfacimento in caso d’inadempimento o fallimento
del debitore.
Mancando l’interesse ad agire esecutivamente, il creditore non ha né il potere né tantomeno l’onere d’insinuarsi al passivo fallimentare. Non è, quindi, soggetto alle regole previste
dall’art. 53 legge fallim. in tema di pegno.
42
Il diritto fallimentare e delle società commerciali
b) pegno costituito in data 6 giugno 2000 su obbligazioni BNA cod.
207080 per l’importo di A 103.290,67 (lire 199.998.626) a garanzia della fideiussione di A 458.169,57 (lire 887.139.993) rilasciata dalla BNA a favore
della Hyundai Engineering and Construction Co. Ltd in data 31 maggio
2000;
c) pegno costituito in data 8 agosto 2000 su obbligazioni BNA cod.
203080 per l’importo di A 77.468,53 (lire 150.000.000) a garanzia della fideiussione di R.G. (Rial Oman) 114.300,00 (A 336.103,57) rilasciata BNA a
favore della Oman Arab Bank in data 31 luglio 2000;
che le predette fideiussioni erano state escusse dai creditori e successivamente i crediti delle BNA erano stati ammessi al passivo della procedura
con garanzia pignoratizia;
che, avendo i predetti pegni natura irregolare, con la acquisizione immediata della proprietà dei titoli, quali beni fungibili da parte della BNA,
quest’ultima aveva provveduto a soddisfarsi sugli stessi;
D’altra parte, però, nel caso qui analizzato, il creditore munito di pegno irregolare pone,
malgrado tutto, domanda d’insinuazione al passivo per l’obbligazione principale.
A questo punto – afferma il Tribunale nella sentenza – la Curatela, nell’udienza di verificazione dei crediti, sarebbe stata tenuta a contestare l’ammissibilità del credito pignoratizio
per carenza d’interesse oppure avrebbe dovuto manifestare in tale sede la volontà di esercitare l’eventuale azione revocatoria del negozio costitutivo di pegno irregolare. Non essendo
ciò avvenuto, si deve, ad avviso del giudice, postulare «l’irretrattabilità» dell’ammissione al
passivo fallimentare del credito pignoratizio, avvenuta senza riserva né impugnazione ex
art. 98 e segg. legge fallim. e ormai passata in giudicato.
Per meglio approfondire la questione, occorrerà analizzarne separatamente alcuni tratti
salienti: la natura del pegno irregolare in relazione al fallimento; il rapporto tra pegno irregolare e revocatoria fallimentare; la responsabilità patrimoniale e la funzione di garanzia del negozio costitutivo di pegno irregolare.
2. Il pegno irregolare e il fallimento. – Il creditore munito di pegno irregolare (1) acquista
la proprietà dei titoli fungibili con funzione di garanzia e, nel caso di inadempimento o fallimento del debitore, non è tenuto a restituire l’eadem res ma soltanto il tantundem limitatamente alla parte eccedente il credito.
Il pegno irregolare, quindi, non costituisce uno di quei diritti di prelazione, contemplati
nell’art. 52 legge fallim., rilevanti nel concorso fallimentare ed incidenti sul patrimonio del
debitore.
Le caratteristiche di tale istituto, invece, hanno spinto gli interpreti ad avvicinarne la natura, più che al pegno regolare, ad una forma di datio in solutum o ad una fiducia cum creditore ovvero, da ultimo, ad una vera e propria alienazione in garanzia.
(1) Per un analisi dell’istituto v. Realmonte, Il pegno, in Trattato di diritto privato, a cura di Rescigno,
Torino, XIX, 1985; Vittoria, voce Pegno: Pegno irregolare, Enc. Giur. Trec.
Parte II - Giurisprudenza
43
che, difatti, in data 2 dicembre 2002 la BNA, tramite il proprio legale,
aveva informato il Curatore del fallimento della Dragomar soc. per az. che
essa banca, in considerazione delle escussioni delle corrispondenti fideiussioni, aveva provveduto ad escutere i pegni relativi alle fideiussioni rilasciate
nell’interesse della Dragomar soc. per az. a favore della Finagen soc. per az.
e della Oman Arab Bank e di essere intenzionata ad escutere il pegno costituito a garanzia delle fideiussioni rilasciate, sempre nell’interesse della
Dragomar soc. per az. a favore della Hyundai Engineering and Construction Co. Ltd rinunciando, per l’effetto, ai relativi crediti già ammessi al passivo;
che i predetti pegni, del valore complessivo di A 485.468, 77 erano revocabili ai sensi dell’art. 67 comma legge fallim. in quanto erano stati costituiti nei due anni antecedenti la dichiarazione di fallimento dalli Dragomar
s.p.a. per debiti preesistenti non scaduti alla data della loro costituzione;
(Omissis)
tanto esposto [il Fall. Dragomar, ndr.] chiedeva revocarsi ai sensi dell’art. 67 comma 1 nº 3 legge fallim., per le causali di cui all’istanza, i pegni
costituiti dalla Dragomar soc. per az. in favore della BNA, analiticamente
descritti, del valore complessivo di A 485.468,77 con ogni consequenziale
profilo restitutorio;
in via gradata, nell’ipotesi di mancato pagamento della somma di A
485.468,77 chiedeva condannarsi la Banca Antoniana Popolare Veneta So-
Nel pegno regolare, infatti, l’effetto reale si esaurisce nella creazione di un diritto reale
di prelazione su cosa altrui. La proprietà della cosa data in garanzia non passa al garantito,
poiché la garanzia reale è un vincolo di destinazione che grava sulla cosa. Tale garanzia è un
diritto che incide, limitandolo, sul diritto di proprietà del garante. La cosa gravata da pegno
regolare, inoltre, una volta intervenuto il fallimento, resta a far parte del patrimonio fallimentare.
Nel pegno irregolare, invece, si realizza fin da principio, allo scopo di garanzia, un vero e
proprio trasferimento di proprietà delle cose che, cosı̀, entrano a far parte del patrimonio del
creditore con potere di disposizione. Secondo la Corte di legittimità, infatti: «il trasferimento
della proprietà delle cose in garanzia, è una anomalia che può ammettersi solo se prevista dalla
legge e alle condizioni da questa previste, come ad esempio, nell’ipotesi di pegno irregolare (articolo 1851 cod. civ.) il quale richiede, però, per la sua configurabilità che il deposito di danaro
vincolato a garanzia del credito non sia stato individuato o che sia stata conferita alla Banca la
facoltà di disporne. In mancanza di tali condizioni il deposito di danaro vincolato a garanzia
deve essere qualificato pegno regolare» (cosı̀: Cassazione 2006, n. 5290).
La dottrina ha dato tre diverse letture dell’istituto, attribuendo al negozio di pegno irregolare rispettivamente una funzione di garanzia, una funzione compensatoria o una funzione
solutoria.
Dalla dottrina contemporanea la causa del negozio costitutivo di pegno irregolare, traslativo di proprietà, è ricollegata ad un’autonoma funzione di garanzia, idonea a giustificare
un’attribuzione in proprietà non meno delle tradizionali cause dei negozi di compravendita
44
Il diritto fallimentare e delle società commerciali
cietà Cooperativa per azioni a resp. lim. alla restituzione in favore del fallimento della Dragornar soc. per az. dei titoli obbligazionari costituiti in pegno con conseguente richiesta di pagamento delle cedole maturate successivamente alla costituzione dei pegni In questione;
(Omissis)
Si costituiva la Banca Antoniana Popolare Veneta società cooperativa
per azioni a responsabilità limitata (incorporante per fusione la Banca Nazionale dell’Agricoltura) e, con comparsa di risposta, evidenziava che i crediti relativi ai tre pegni erano stati riscossi a seguito della ammissione al
passivo dal fallimento della Dragomar soc. per az. donde l’immodificabilità dello stato passivo della procedura se non con le modalità di cui agli
arti. 98, 100 e 102 legge fallim., rimedi processuali non attuati nel caso in
esame (peraltro, trattandosi di pegni irregolari, non sarebbe stata necessaria l’inserzione nello stato passivo del fallimento atteso che il credito de
quo era sottratto al concorso con gli altri crediti ammessi al passivo dalla
procedura);
in ogni caso la procedura concorsuale non aveva fornito la prova dal
danno risentito dalla massa dei creditori in ragione della riscossione dei predetti pegni irregolari;
(Omissis)
o donazione. Fine perseguito negozialmente, in tal modo, sarebbe quello di evitare, nell’interesse di entrambi i contraenti, il ricorso al procedimento esecutivo nell’eventualità dell’inadempimento (cfr. Vittoria, voce Pegno: Pegno irregolare, Enc. Giur. Trec.).
Parte della dottrina, invece, ha esaltato l’effetto compensativo ed escluso che l’atto costitutivo del pegno irregolare abbia funzione di solutio anticipata del credito garantito.
Da un lato, infatti, al momento del trasferimento di denaro o degli altri beni fungibili
non esiste un credito esigibile; dall’altro lato, l’eccedenza oggetto di restituzione da parte
del creditore pignoratizio si determina in relazione al valore che le merci o i titoli consegnati
in garanzia hanno al tempo della scadenza dei crediti, anziché a quello della consegna, come
dovrebbe essere se quest’ultimo coincidesse con il tempo della solutio (cosı̀ Molle, I contratti Bancari, in Tratt. Cicu-Messineo, Milano, 1981, 363; v. anche Simonetto, I contratti di credito, Padova, 1953, 410; Bianca, Il divieto del patto commissorio, Milano, 1957, 163; Colombini, Pegno irregolare e fallimento, in Società e diritto 1993, 418 e seg.).
Altra parte della dottrina, in fine, ha ritenuto che la consegna dei beni fungibili costituisca un pagamento anticipato da parte del debitore, poiché il creditore riceve già condizionatamente quanto gli è dovuto (cosı̀: Gorla-Zanelli, Del Pegno, in Commentario del codice
civile, a cura di Scialoja e Branca, Bologna-Roma, 1992, 36 e seg.; Dalmartello, Il pegno
irregolare o cauzione in senso stretto, in Banca, borsa, tit., cred. 1950, I, 315; Id., Ancora sul
pegno irregolare, ivi, 1956, II, 301). Secondo tale impostazione il debitore con l’adempimento
dell’obbligazione originaria e garantita caducherebbe retroattivamente il pagamento effettuato in via anticipata, mentre al creditore spetterebbe di restituire il tantundem.
Qualora si seguisse, infatti, l’opinione di chi dà rilevanza solo all’effetto compensativo,
risulterebbe limitato il diritto del debitore di adempiere alla scadenza al di fuori del mecca-
Parte II - Giurisprudenza
45
Motivi della decisione. – Ritiene il giudicante che la proposta domanda
([I - ndr.] volta ad ottenere la declaratoria di inefficacia nei confronti della
massa dei creditori ex art. 67 comma 1 nº 3 legge fallim. dei pegni costituiti
dalla Dragomar soc. per az. in favore della B.N.A. per l’importo complessivo di A 485.468,77 nonché [II - ndr.] ex art. 67 comma 2 legge fallim. del
versamento effettuato dalla Dragomar soc. per az. per l’importo di A
110.005,31 sul conto corrente intrattenuto con la B.N.A.) possa trovare accoglimento per quanto di ragione;
I – Opina, infatti, il decidente che i capi sub 1) 2) e 3) delle conclusioni
dell’atto introduttivo del giudizio non possano trovare accoglimento perché
infondati; giova, in proposito, considerare che sia il Curatore del fallimento
della Dragomar soc. per az. (cfr. pag. 2 della istanza di nomina di legale)
che il difensore della procedura (cfr. pag. 2 dell’atto introduttivo del giudizio) hanno concordato nel ritenere che i pegni de quibus avessero natura
nismo compensatorio e, soprattutto, sarebbe difficile spiegare il caso di pegno irregolare costituito dal terzo.
Per la giurisprudenza delle S.S.U.U., comunque, il pegno irregolare «...esaurisce in limine l’interesse del creditore a percorrere la via della esecuzione forzata» (2).
Il meccanismo di autotutela cosı̀ predisposto entra, dunque, in funzione alla scadenza
dell’obbligazione principale o nel caso di suo inadempimento ovvero quando si raggiunga
la certezza della impossibilità giuridica di tale adempimento a causa di sopravvenuta dichiarazione di fallimento del debitore. È soltanto allora, infatti, che il pegno irregolare produce il
suo «effetto endogeno di compensazione», senza ricorrere al ben più complesso congegno satisfattivo della realizzazione di un pegno regolare ex art. 53 legge fallim.
In buona sintesi, il credito munito di pegno irregolare è soddisfatto senza entrare in concorso con crediti concorsuali e senza essere, quindi, sottoposto alla disciplina fallimentare.
La responsabilità dell’inadempimento incombe, infatti, sulla garanzia reale costituita da
titoli già entrati nel patrimonio del creditore, poiché a differenza del pegno regolare, come già
visto, il pegno irregolare non costituisce causa di prelazione operante all’interno della procedura concorsuale come diritto reale su cosa altrui ma un contratto traslativo di titoli fungibili
con funzione di garanzia (3).
(2) Tale principio, per cui il creditore assistito da pegno irregolare, a differenza di quello assistito da pegno
regolare, non può (per carenza di interesse) e non è tenuto ad insinuarsi nel passivo fallimentare, ai sensi dell’art.
53 legge fallim., per il soddisfacimento del proprio credito, è stato affermato nella citata: Cassazione sez. un. 14
maggio 2001, n. 202, v. in Giust. civ. 2001, I, 2076, Fallimento 2001, 1239, con nota di Panzani, Giur. it. 2002,
551, con nota di Sanzo, Dir. fall. 2001, I, 1168, con nota di Ragusa Maggiore, Foro it. 2001, I, 2511, Arch.
civ. 2001, 1134, Banca, borsa 2003, II, 648, con nota di Lupacchino.
(3) Esso (salvo che per la confusione dei patrimoni che il negozio costitutivo di pegno irregolare realizza)
potrebbe essere anche avvicinato, per gli effetti finali, ad un negozio istitutivo di trust interno di garanzia con cui
venga segregato un patrimonio destinato, fin da principio, a soddisfare il creditore ed a sciogliere il debitore dall’obbligazione nel caso d’inadempimento della prestazione dovuta in origine. Nel pegno irregolare, però, al contrario del trust, alla Banca non è consentito di sostituire i titoli dati a pegno o di porre in essere una gestione di
patrimoni.
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Il diritto fallimentare e delle società commerciali
irregolare con la conseguente acquisizione immediata dei titoli, quali beni
fungibili, da parte della Banca Nazionale dell’Agricoltura.
Tanto premesso mette conto richiamare l’orientamento giurisprudenziale consolidato in subiecta materia secondo cui «il creditore assistito da
pegno irregolare, a differenza di quello assistito da pegno regolare, non
può, per carenza di interesse, e non è tenuto ad insinuarsi nel passivo del
fallimento ex art. 53 legge fallim. per il soddisfacimento del proprio credito» (Cassazione Sez. Un. nº 202 del 14 maggio 2001);
in altri termini l’odierno istituto di credito, una volta escusse le fideiussioni prestate a garanzie del debito contratto dalla Dragomar soc. per az.,
avrebbe potuto, a sua volta soddisfarsi a mezzo della monetizzazione della
garanzia reale apprestata dalla società personalmente garantita senza la necessità di partecipare al concorso con i creditori del fallimento della Dragomar soc. per az. (trattandosi nel caso in esame non di pegno regolare con la
conseguente acquisizione immediata del bene mobile sul quale era stata costituita la garanzia reale).
Non tenendo conto di siffatti principi è stata richiesta (ed ottenuta)
l’ammissione al passivo del fallimento della Dragomar soc. per az. per il valore pari all’ammontare dei crediti garantiti da pegno successivamente, a se-
3. Il pegno irregolare e la revocatoria fallimentare. – Al contrario della revocatoria ordinaria, scopo della revocatoria fallimentare non è tanto quello di reintegrare la garanzia patrimoniale originaria (cfr. artt. 2740 e 2901 cod. civ.), ma precipuamente quello di ristabilire la
parità ovvero l’equa distribuzione degli effetti dell’insolvenza presso i creditori (cfr. Cecchella, La nuova azione revocatoria tra conferme e limitazioni alla teoria antindennitaria,
in Diritto e pratica del Fallimento, n. 3/2008).
Come è ovvio, quindi, in una figura giuridica quale il pegno irregolare, l’esperibilità di
tale rimedio risulta problematica. In esso, infatti, «l’effetto endogeno di compensazione» prescinde dal rispetto della disciplina concorsuale e della par condicio creditorum.
In merito, tuttavia, la giurisprudenza della Suprema Corte appare variegata e rivolta più
a valutare l’utilizzabilità della revocatoria fallimentare avverso l’effetto compensativo endogeno, ex art. 1851 cod. civ., che avverso l’iniziale atto costitutivo di pegno irregolare.
La giurisprudenza di legittimità, infatti, partendo dall’assunto secondo cui la compensazione nel pegno irregolare sia la modalità tipica di esercizio della «prelazione» predisposta, ha
escluso che l’estinzione del credito vantato dalla Banca attraverso la compensazione sia assoggettabile a revocatoria fallimentare (cosı̀ Cassazione civ., sez. I, 6 dicembre 2006, n. 26154,
conformi nell’impianto complessivo Cassazione civ., sez. III, 24 maggio 2004, n. 10000 –
RV573096, Cassazione civ., sez. III, 16 giugno 2005, n. 12964 – RV581807, Cassazione
civ., sez. Unite, 14 maggio 2001, n. 202 – RV546634; contraria Cassazione civ., sez. V, 7 marzo 2002, n. 3366 – RV552913). La revocatoria fallimentare è, invece, stata ammessa per «l’incameramento» delle somme che siano state versate su un libretto di risparmio dopo la data di
costituzione di pegno irregolare sul libretto stesso, trattandosi di un’operazione di compensazione, a norma dell’art. 1853 cod. civ., la quale può essere oggetto di azione revocatoria, ai
sensi e nei casi di cui all’art. 67, comma 2, legge fallim.: (v. Cassazione civ., Sez. I, 20 aprile
2006, n. 9306, Cassazione 2004, n. 21237, Cassazione 13 aprile 1977, n. 1380, in Banca, borsa
Parte II - Giurisprudenza
47
guito di informativa al Curatore, sono stati riscossi gli importi garantiti con
contestuale rinuncia dell’istituto di credito all’ammissione al passivo della
cennata procedura concorsuale.
Si ribadisce che, stante la natura del credito azionato, non era richiesta
alcuna autorizzazione ex art. 53 legge fallim., prodromica al soddisfacimento del credito, da formularsi al Giudice Delegato.
In ogni caso è da evidenziare che quello della formazione dello stato
passivo (in forma tempestiva e tardiva) è un procedimento a contraddittorio
pieno sicché le statuizioni ivi adottate risultano irretrattabili se non rimosse
con gli strumenti processuali apprestati dall’ordinamento (artt. 98, 100 e
102 legge fallim.); nel caso in discorso il credito relativo alle predette garanzie pignoratizie è stato ammesso in sede di udienza di verificazione dei crediti senza obiezione alcuna essendo orientamento tralaticio quello secondo
cui se si intende agire in sede di revocatoria non si ammette il relativo credito al passivo della procedura contestualmente esplicitandosi la volontà
dell’ufficio concorsuale di agire giudizialmente nel termini innanzi indicati.
Con riferimento al caso oggetto di controversia, invece, il cennato credito è stato ammesso senza riserva alcuna e non è stato fatto oggetto di alcun mezzo di contestazione (non potendo certamente la odierne domanda
ex art. 67 1º cammei nº 3 legge fallim. esser qualificata quale domanda ex
art. 102 legge fallim., difettando la ricorrenza dei presupposti giuridici richiesti dalla predetta norma) sicché ne va postulata la irretrattabilità.
In forza dei superiori rilievi vanno, pertanto, respinti i capi sub 1), 2) e
3) delle conclusioni dell’atto introduttivo del giudizio valutandosi la piena
1978, II, 419, con nota di Bouche, Dir. fall. 1977, II, 404, Foro it. 1977, I, 2713, Giust. civ.
1977, I, 1392, Riv. dir. comm. 1978, II, 341).
La giurisprudenza di merito, d’altronde, ha negato la revocabilità in base al principio
giurisprudenziale, per cui, in caso di pegno irregolare, «ove la Banca abbia alienato il titolo
soddisfacendosi sul ricavato per quanto dovutole a seguito della revoca dell’affidamento concesso
al debitore poi fallito, l’estinzione del credito vantato dalla Banca si sottrae alla revocatoria fallimentare, giacché nel pegno irregolare – il quale implica che il creditore garantito acquisisca la
somma portata dal titolo o dal documento... – la compensazione costituisce la modalità tipica di
esercizio della prelazione» (cosı̀ Tribunale di Milano, Sezione 2ª civile, Sentenza 4 giugno
2007, n. 6943). La compensazione, pertanto, costituisce lo strumento attraverso il quale si
esercita la prelazione pignoratizia e «l’incameramento» costituisce un legittimo atto di realizzazione del credito in via di prelazione opponibile agli altri creditori, insensibile al sopravvenuto fallimento del debitore (v. C. Appello Milano 17 maggio 1985, in Banca, borsa, tit. cred.
1987, II, 32).
Riepilogando, nel caso di pegno irregolare, si verifica la compensazione tra credito della
Banca e controcredito del costituente il pegno e «tale effetto compensativo che, in ipotesi di
fallimento del debitore principale, si realizza il giorno della dichiarazione di fallimento, contestualmente alla scadenza ex art. 55 legge fallim. dei debiti pecuniari del fallito, non è soggetto a
revocatoria fallimentare, trattandosi di un effetto che l’ordinamento giuridico fa discendere dalla
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Il diritto fallimentare e delle società commerciali
legittimità della condotta adottata dall’istituto di credito, consistita nel trarre soddisfacimento del proprio credito senza arrecare alcun vulnus alla massa dei creditori.
II – Diversamente ritiene il decidente che il residuo capo di domanda
possa trovare accoglimento perché fondato. (Omissis)
P.Q.M., respinge la domanda sub 1), 2) e 3) delle conclusioni dell’atto
introduttivo del giudizio. (Omissis)
specifica fattispecie prevista dalla legge fallimentare in consonanza con l’esigenza di assicurare
tutela a chi venga a porsi di fronte al fallimento nella posizione di creditore-debitore» (cfr. Cassazione n. 5845/2000).
4. La responsabilità patrimoniale e la garanzia negoziale. – Secondo la classica visione bettiana, al concetto di responsabilità per l’inadempimento del dovere di prestazione (debito,
Schuld) è consustanziale quello di garanzia (Haftung), intesa come destinazione giuridica di
un bene (corpo, patrimonio, cosa) a servire di soddisfazione a un’altra persona per un evento
da questa atteso o temuto (cfr. Betti, Teoria generale delle obbligazioni, II, 1953, Milano).
Nel caso in esame, invece, con la costituzione del pegno irregolare si era realizzata negozialmente una scissione tra il debito e la responsabilità, individuata consensualmente nella garanzia reale predisposta a risarcire per equivalente l’illecito della mancata prestazione.
Con la pronuncia in oggetto, il Tribunale sembra ritenere che, una volta ammesso definitivamente al passivo il credito della Banca, tale scissione si ricomponga almeno sotto l’aspetto del concorso fallimentare, pur restando in capo al creditore l’autonomo potere auto-satisfattorio ex art. 1851 cod. civ. La Curatela, nell’ottica del Tribunale, avrebbe dovuto coltivare
l’azione revocatoria fallimentare del negozio costitutivo di garanzia fin dalla fase di verifica
del passivo, onde evitare il sopraggiungere (come conseguenza del passaggio in giudicato
del provvedimento che rendeva esecutivo lo stato passivo) dell»’irretrattabilità» dell’ammissione al passivo fallimentare del credito e della conseguente cristallizazione, all’interno della
procedura concorsuale, della causa di prelazione ad esso annessa (4).
Stefano Nicita
Avvocato in Roma
(4) A margine di tali argomentazioni, resta un interrogativo.
C’è da chiedersi se la domanda di revocatoria fallimentare, ove fosse stata ritenuta ammissibile, avrebbe
potuto trovare accoglimento nei termini proposti dalla Curatela o se, invece, realizzatosi in concreto l’effetto solutorio della garanzia, non sarebbe stata percorribile la strada dell’accertamento d’inefficacia ex lege dei pagamenti a norma dell’art. 65 legge fallim., interpretando, cosı̀, i pegni irregolari come trasferimenti predisposti in via
condizionata alla solutio.
In termini di fattispecie astratta, d’altronde, si potrebbe anche vagliare la percorribilità dei rimedi indicati
dagli artt. 66 (ove si fosse dimostrata la conoscenza, da parte del debitore, del pregiudizio che l’atto arrecava ai
creditori), ovvero 67, comma 2 (ove ne ricorressero in concreto tutti i requisiti), della legge fallim.
TRIBUNALE DI SALERNO
IV Sezione Civile
7 aprile 2008
Pres. Chianese - Est. Iannicelli
M.G.A. c. I.P.
Fallimento - Presupposto soggettivo - Piccolo imprenditore - Artigiano
(Artt. 22 legge fallim., 2083 e 2221 cod. civ.)
L’imprenditore commerciale giudicato piccolo ai sensi dell’art. 2083 cod.
civ. non è di regola sottoposto a fallimento ex art. 2221 cod. civ., a meno che
il creditore istante non fornisca la prova del superamento di una delle soglie
dimensionali previste dal comma 2 dell’art. 1, legge fallim. ovvero tale superamento risulti all’esito dell’istruttoria prefallimentare (1).
Con ricorso depositato in data 9 gennaio 2008, M.G.A. adiva il Tribunale di Salerno per la dichiarazione di fallimento di I.P., imprenditore individuale, titolare della omonima ditta individuale (...). All’esito dell’istruttoria prefallimentare, ritiene il collegio che il ricorso debba essere rigettato
per insussistenza del presupposto soggettivo. L’art. 1 comma l della legge
fallimentare, modificato dall’art. 1 comma l del D.L.vo 12 settembre
2007 n. 169 (c.d. decreto correttivo) e vigente nell’attuale formulazione a
far data dal l gennaio 2008, prevede, quale presupposto soggettivo per la
dichiarazione di fallimento, la qualità di imprenditore esercente «una attività commerciale», esclusi gli enti pubblici. Rispetto alla formulazione anteriore, non modificata dal D.L.vo n. 5 del 2006, non contempla l’esclusione
(1) È ancora ammissibile il riferimento all’art. 2083 cod. civ. per delimitare la categoria
degli imprenditori esclusi dal fallimento?
Sommario: 1. Premessa: l’individuazione del problema e le ragioni di interesse del decreto
annotato. – 2. Le argomentazioni apportate a sostegno della decisione. – 3. Il riferimento alla nozione civilistica di piccolo imprenditore desumibile dall’art. 2083 cod. civ. ai
fini della delimitazione dell’area della non fallibilità: analisi critica. – 4. Ulteriori rilievi
critici. – 5. Conclusioni.
1. Premessa: l’individuazione del problema e le ragioni di interesse del decreto annotato. –
Il decreto in commento si segnala in quanto, ai fini della delimitazione dell’impresa fallibile,
utilizza ancora come parametro di riferimento la nozione civilistica di piccolo imprenditore
desumibile dall’art. 2083 cod. civ., nonostante il d.lgs. 169 del 12 settembre 2007 abbia de-
50
Il diritto fallimentare e delle società commerciali
dei «piccoli imprenditori». Questa categoria è, però, ancora sottratta alla
procedura fallimentare, secondo il disposto dell’art. 2221 cod. civ., che
sul punto è rimasto immutato. L’apparente discrasia nel sistema normativo
deve trovare composizione in una ragionata interpretazione delle norme secondo i criteri ermeneutici, letterale e sistematico, indicati dall’art. 12 delle
preleggi. Le possibili interpretazioni sono diverse e vanno singolarmente
considerate. Una prima opzione consiste nel ritenere che la modifica introdotta dal decreto correttivo abbia implicitamente abrogato parzialmente
l’art. 2221 cod. civ., per incompatibilità con la legge successiva, nella parte
in cui esclude la categoria dei piccoli imprenditori dalla procedura fallimentare (e di concordato preventivo). Secondo questa posizione, non vi è ragione di operare, nell’attuale disciplina, alcun discrimine in base alle caratteristiche di organizzazione dei fattori di produzione al fine di escludere dall’area della fallibilità l’azienda modesta che risponde ai canoni dell’art. 2083
cod. civ. Il legislatore avrebbe superato il precedente criterio di selezione
delle imprese degne di innescare, in caso di insolvenza, la complessa e dispendiosa procedura concorsuale introducendo nuovi requisiti di esonero.
Non più un criterio restrittivo, basato sulla rilevanza dei fattori di produzione estranei al lavoro proprio dell’imprenditore e della sua famiglia, ma precisi requisiti dimensionali di superamento dei valori indicati dal comma 2
dell’art. 1. Questa interpretazione, però, contrasta proprio con l’altra modi-
finitivamente eliminato dal contesto normativo dell’art. 1 legge fallim. ogni richiamo ai «piccoli imprenditori» (1).
In particolare, i Giudici salernitani ritengono, attraverso un articolato e motivato ragionamento, che le modifiche apportate dal Decreto correttivo non avrebbero attratto nell’area
della fallibilità (anche) il piccolo imprenditore secondo la definizione data dall’art. 2083 cod.
civ., il quale ne resterebbe di regola escluso in forza dell’art. 2221 cod. civ. (ancora in vigore),
ma avrebbero più semplicemente circoscritto questa categoria di imprenditori attraverso l’introduzione di determinate soglie di patrimonio, ricavi o indebitamento, espressamente previste dal novellato comma secondo dell’art. 1 legge fallim.
In altri termini, la soppressione di ogni riferimento al piccolo imprenditore nella norma
di esordio della legge fallimentare non avrebbe comportato l’abrogazione tacita (sia pure parziale) dell’art. 2221 cod. civ. che continuerebbe ad escludere dal fallimento (e dal concordato
preventivo) tale tipologia di imprenditori, ma risponderebbe piuttosto ad una logica di delimitazione della categoria stessa.
Pertanto, dalla combinazione sistematica delle due norme (artt. 1 legge fallim. e 2221
cod. civ.) scaturirebbero due regole generali in materia di presupposti soggettivi del fallimen-
(1) È noto, invece, che l’art. 1 legge fallim., tanto nel testo originario del r.d. 16 marzo 1942, n. 267, quanto
in quello riformato dal d.lgs. 9 gennaio 2006, n. 5, escludesse espressamente i «piccoli imprenditori» dal novero
delle imprese assoggettate alle procedure concorsuali.
Parte II - Giurisprudenza
51
fica del presupposto soggettivo apportata dal decreto correttivo con l’introduzione, nel comma 2 dell’art. 1, di requisiti di non fallibilità ancorati a soglie elevate di valori patrimoniali e reddituali. Non si può ritenere che il legislatore abbia voluto estendere la procedura fallimentare a categorie in
precedenza escluse, come i piccoli imprenditori, nel momento stesso in
cui ha espulso gli esercenti un’attività commerciale che, negli ultimi esercizi,
non hanno superato il limite di 300 mila euro di attivo patrimoniale né quello di 200 mila euro di ricavi lordi e non presentano un indebitamento complessivo di almeno 500 mila euro. Si tratta, infatti, di valori riscontrabili di
regola nell’impresa speculativa e non in quella volta al mero guadagno tratto prevalentemente o esclusivamente dal lavoro proprio dell’imprenditore e
dei familiari. Non è coerente con la novità legislativa neppure la tesi opposta, secondo la quale l’art. 2221 cod. civ. ha conservato intatto il suo con-
to: quella della fallibilità delle medie e grandi imprese e quella della non fallibilità delle piccole imprese, per tali dovendosi intendere quelle individuate attraverso i parametri qualitativi
dell’art. 2083 cod. civ. Il nuovo comma secondo dell’art. 1 legge fallim. avrebbe introdotto,
allora, una deroga rispetto alla prima regola (quella della generale fallibilità delle imprese
commerciali), mentre rispetto alla seconda regola (quella della non fallibilità delle piccole imprese) avrebbe avuto la funzione di delimitare ulteriormente la nozione civilistica di piccolo
imprenditore, escludendo dalla sfera di non operatività della legge fallimentare quelle imprese che, pur organizzate prevalentemente col lavoro proprio del titolare e della sua famiglia (ex
art. 2083 cod. civ.), abbiamo tuttavia superato le soglie dimensionali ivi previste.
L’interpretazione seguita dal Tribunale di Salerno risulta, poi, foriera di conseguenze applicative di non poco momento anche in ordine alla connessa questione della distribuzione
dell’onere probatorio. Infatti, operando la fallibilità del piccolo imprenditore come eccezione
(rispetto alla regola generale della non fallibilità di cui all’art. 2221 cod. civ.), non incomberebbe sul medesimo (nella specie artigiano) l’onere di provare il possesso congiunto dei requisiti del comma secondo dell’art. 1 legge fallim., ma al contrario spetterebbe al creditore
istante o all’indagine istruttoria disposta d’ufficio (ex art. 15, comma 6, legge fallim.) (2) dimostrare il superamento di uno dei parametri dimensionali contemplati dalla legge. Con la
conseguenza che, in mancanza di siffatta prova positiva, l’imprenditore giudicato piccolo ai
sensi dell’art. 2083 cod. civ. non potrebbe, comunque, essere dichiarato fallito.
Al contrario, per le imprese non aventi le caratteristiche indicate nell’art. 2083 cod. civ.,
la regola generale della fallibilità (contenuta nel comma primo dell’art. 1 legge fallim.) imporrebbe al debitore, che contesti il mancato rispetto delle soglie quantitative, l’onere non solo di
allegazione, ma anche di prova del possesso congiunto dei parametri dimensionali previsti
dalla legge (arg. ex art. 2697, comma secondo, cod. civ.).
(2) Sulla permanenza dei poteri officiosi e del carattere lato sensu inquisitorio del nuovo procedimento per
la dichiarazione di fallimento, v. M. Montanari, La nuova disciplina del giudizio di apertura del fallimento: questioni aperte in tema di istruzione e giudizio di fatto, in Fallimento, 2007, 568 segg. Sulla questione del rapporto fra
onere della prova circa i parametri di fallibilità ex art. 1 cpv. legge fallim. ed istruttoria officiosa ex art. 15 legge
fallim., v. infra al § 4.
52
Il diritto fallimentare e delle società commerciali
tenuto normativo, sı̀ che il presupposto soggettivo risulta dall’integrazione
della disciplina della legge speciale con la previsione generale sull’insolvenza contenuta nello statuto delle imprese commerciali dettato dal codice civile. Ponendosi in una tale prospettiva, si dovrebbe riconoscere che la novella ha ulteriormente ridotto l’ambito di applicazione della legge fallimentare, già esclusa per tutti i piccoli imprenditori, ad imprese che, se pure non
aventi le caratteristiche organizzative previste dall’art. 2083 cod. civ., presentino tuttavia limiti dimensionali tali da consentire una gestione dell’insolvenza al di fuori delle procedure concorsuali. In altri termini, il fallimento è
escluso per tutti i piccoli imprenditori, indipendentemente dal loro patrimonio, dal reddito e dall’ammontare dei debiti mentre per gli altri l’assoggettabilità dipende da requisiti dimensionali. Inteso in tal senso, però, l’intervento riformatore che ha espunto dall’art. 1 il riferimento ai piccoli imprenditori non avrebbe alcun significato. L’armonizzazione del complesso
delle modifiche normative al presupposto soggettivo, con il superamento
da un lato dell’espressa previsione della non fallibilità dei piccoli imprenditori e l’introduzione dall’altro di requisiti dimensionali validi per tutte le imprese, deve essere ricercata in una diversa lettura sistematica, che intende la
soppressione del riferimento ai piccoli imprenditori nell’art. 1 legge fallim.
rispondente ad una logica di delimitazione della categoria esclusa. La norma del codice civile, secondo questa scelta ermeneutica, non è stata parzial-
2. Le argomentazioni apportate a sostegno della decisione. – Il ragionamento seguito dai
Giudici salernitani nella decisione in commento si fonda principalmente sul rilievo che l’art.
2221 cod. civ. che, come è noto, esclude dal fallimento (e dal concordato preventivo) i piccoli
imprenditori (oltre agli enti pubblici), non sarebbe stato toccato dalla Riforma fallimentare e,
quindi, conserverebbe intatto il suo contenuto precettivo. Né tanto meno – si assume – sarebbe configurabile un’abrogazione tacita (sia pure parziale) della norma de qua per sopravvenuta incompatibilità con la legge successiva (id est d.lgs. 169 del 2007), in quanto cosı̀ ragionando si estenderebbe la procedure fallimentare a soggetti precedentemente esclusi, come
i piccoli imprenditori, con ciò disattendendo il principio generale contenuto nell’art. 1 della
legge delega n. 80 del 2005, il quale richiedeva al legislatore delegato di estendere i «soggetti
esonerati dalla applicabilità dell’istituto» del fallimento.
La conferma dell’attuale presenza nel sistema concorsuale della regola generale di non
fallibilità dei piccoli imprenditori si desumerebbe, inoltre, sempre secondo la decisione annotata, dalla circostanza che il comma primo dell’art. 1 legge fallim. (in ciò per nulla modificato
dalla Riforma) prevede la fallibilità dei soli imprenditori «commerciali», per tali dovendosi
intendere soltanto quelli indicati nell’art. 2195 cod. civ., con conseguente esclusione (quanto
meno) degli imprenditori artigiani, rispetto ai quali difetterebbe il requisito della industrialità
di cui al n. 1 della citata disposizione.
3. Il riferimento alla nozione civilistica di piccolo imprenditore desumibile dall’art. 2083
cod. civ. ai fini della delimitazione dell’area della non fallibilità: analisi critica. – L’opzione interpretativa accolta dalla decisione annotata, per quanto suggestiva, suscita non poche per-
Parte II - Giurisprudenza
53
mente abrogata dalla disciplina della legge fallimentare ma ha assunto un
diverso significato, inferente anche sulla corretta interpretazione della nuova disposizione. Nel senso che le norme sul presupposto soggettivo affermano due regole generali: la fallibilità delle medie e grandi imprese (con esclusione di quelle soggette alla sola liquidazione coatta amministrativa o alla
procedura di amministrazione straordinaria) e la non fallibilità delle piccole
plessità. Invero, la tesi che riteneva ancora possibile ricorrere, ai fini dell’individuazione degli
ambiti soggettivi del fallimento, alla definizione civilistica del piccolo imprenditore desumibile dall’art. 2083 cod. civ. (3), se poteva reputarsi plausibile dopo la Riforma fallimentare
del 2006 (4), altrettanto non può esserlo dopo il Decreto correttivo del 2007 che, come si
è detto, ha soppresso dal contesto normativo dell’art. 1 legge fallim. ogni riferimento alla figura del «piccolo imprenditore».
In effetti, il dato testuale dell’art. 1 legge fallim. nel testo riformato dal d.lgs. n. 5 del
2006, consentiva di affermare con certezza soltanto che le imprese che superavano almeno
uno dei due parametri dimensionali allora previsti (id est investimenti nell’azienda e ricavi lordi) non erano piccoli imprenditori ai fini dell’applicazione della legge fallimentare, ma non
anche che gli imprenditori sotto-soglia erano necessariamente, sempre ai fini fallimentari, pic-
(3) In tal senso, in giurisprudenza, cfr. Tribunale Firenze, 31 gennaio 2007, in www.fallimentonline.it; Tribunale Firenze, 15 marzo 2007, ivi; Tribunale Firenze, 27 settembre 2007, ivi; Appello Firenze, 23 gennaio 2008,
ivi; in dottrina hanno ritenuto sostenibile questa impostazione G. Bailetti, La nozione di piccolo imprenditore
dopo l’approvazione della riforma delle procedure concorsuali, in www.ilquotidianogiuridico.it; G. Marasà, Prime
notazioni sui presupposti soggettivi del fallimento nel nuovo art. 1, legge fallim., in Riv. dir. civ., 2006, 581 seg.,
spec. 589; S. Bonfatti-P.F. Censoni, Manuale di diritto fallimentare, 2ª ed., Padova, 2007, pag. 35; M. Vacchiano, Fallimento delle piccole società commerciale e legittimità costituzionale, in Fallimento, 2006, 263 seg.,
266; A. Silvestrini, I presupposti soggettivi del fallimento a seguito della legge di riforma, ivi, 2007, 230 seg.,
il quale (ivi, 236), però, reputa possibile ricorrere alla nozione civilistica di piccolo imprenditore solo in via sussidiaria, quando, cioè, dall’istruttoria prefallimentare non è emersa alcuna certezza in ordine ai parametri quantitativi previsti dal novellato comma 2 dell’art. 1 legge fallim., e ciò pur nella consapevolezza di tutte le difficoltà
derivanti dall’applicazione del criterio civilistico dell’art. 2083 cod. civ. (anche) alle imprese collettive.
(4) Contra, nel senso che ai fini della delimitazione soggettiva dell’impresa fallibile dovesse aversi riguardo
esclusivamente ai parametri quantitativi introdotti dal nuovo comma 2 dell’art. 1 legge fallim., senza alcuna possibilità (o necessità) di far riferimento alla nozione civilistica di piccola impresa dettata dall’art. 2083 cod. civ., cfr.
S. Fortunato, sub art. 1, in Il nuovo diritto fallimentare. Commentario diretto da A. Jorio e coordinato da M.
Fabiani, t. 1, Bologna, 2006, pag. 61; A. Rossi, Il presupposto soggettivo del fallimento, in Giur. comm., 2006,
I, 777 seg.; F. Santangeli, sub art. 1, in Il nuovo fallimento, a cura di F. Santangeli, Milano, 2006, pag. 6;
G. Cavalli, La dichiarazione di fallimento. Presupposti e procedimento, in La riforma del fallimento, a cura di
S. Ambrosini, Bologna, 2006, pag. 9; A Nigro, La riforma «organica» delle procedure concorsuali e le società,
in Dir. Fall., 2006, I, 783; L. Guglielmucci, Diritto fallimentare, Torino, 2006, pag. 27; A. Caiafa, Nuovo
diritto delle procedure concorsuali, Padova, 2006, pag. 44; M. Fabiani, L’impresa «fallibile», in nota a Tribunale
Torino, 11 gennaio 2007, in Fallimento, 2007, 322 seg., 327; nello stesso senso, in giurisprudenza, cfr. Tribunale
Mantova, 1º febbraio 2007, in www.ilcaso.it, per il quale «il mancato raggiungimento dei parametri dimensionali
previsti dall’art. 1 legge fallim. comporta la sottrazione dell’imprenditore al fallimento senza che occorra ulteriormente indagare se costui sia da considerare piccolo alla stregua dei criteri previsti dall’art. 2083 cod. civ.»; Tribunale Bologna, 20 febbraio 2007, ivi, ove si ribadisce che «l’attuale formulazione «in negativo» dell’art. 1 della
legge fallimentare esclude che per la definizione di piccolo imprenditore sia necessario raccordarsi anche con la
disposizione di cui all’art. 2083 cod. civ.».
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Il diritto fallimentare e delle società commerciali
imprese. Il comma 2 dell’art. 1 legge fallim., rispetto alla prima regola introduce una deroga, rispetto alla seconda regola circoscrive ulteriormente la
nozione di piccolo imprenditore non fallibile, escludendo dalla sfera di inoperatività della legge fallimentare quelle imprese che, pur lavorando in via
esclusiva o principale con il lavoro proprio del titolare e dei familiari, abbiano tuttavia raggiunto determinati livelli di patrimonio, ricavi o indebitamento. In favore di questa interpretazione militano ragioni di coerenza, logicità
coli imprenditori. Questo, infatti, era il risultato, in termini logico – lessicali, della formulazione «in negativo» della norma («non sono piccoli imprenditori...») (5), che sarebbe stato ben
diverso ove il legislatore avesse avuto l’ardire di affermare che «sono piccoli imprenditori» coloro che si mantenevano al di sotto della no failure line. (6) Ne conseguiva, secondo questa
impostazione, che mentre coloro che superavano le soglie quantitative dettate dall’art. 1,
comma secondo, legge fallim. (nel testo del 2006), erano senz’altro assoggettabili a fallimento,
coloro che fossero rimasti al di sotto non erano automaticamente esonerati dal fallimento, essendo a tal uopo necessario che rispettassero (anche) i requisiti organizzativi dell’art. 2083
cod. civ. In mancanza, l’impresa ancorché al di sotto dei parametri dimensionali dell’art. 1,
comma secondo, legge fallim., doveva essere ugualmente assoggettata a fallimento (7).
Per la verità, a quest’ultima conseguenza, dai più contestata (8), sembrano sottrarsi i Giudici di Salerno nel provvedimento annotato, per i quali, infatti, in assenza della qualità di piccolo imprenditore di cui art. 2083 cod. civ., il debitore potrebbe, in ogni caso, sottrarsi al
fallimento, provando, però, di non aver raggiunto le soglie contabili di cui al comma secondo
dell’art. 1 legge fallim. (9).
(5) Sul punto, infatti, Tribunale Firenze, 31 gennaio 2007, cit.; Fortunato, sub art. 1, cit., pag. 60, il quale, infatti, rileva come sia stata proprio «la tecnica definitoria in negativo, utilizzata per delimitare verso l’alto l’area di assoggettabilità al fallimento» ad aprire la via a nuovi dubbi interpretativi.
(6) In tal senso A. Rossi, Il presupposto soggettivo, cit., 787.
(7) Tribunale Firenze, 31 gennaio 2007, cit.; G. Marasà, Prime notazioni, cit., 586, 589.
(8) A. Rossi, Il presupposto soggettivo, cit., 787 seg.; M. Fabiani, L’impresa «fallibile», cit., 327; S. Fortunato, sub art. 1, cit., pag. 61, per il quale ove si ritenesse che il comma 2 dell’art. 1 legge fallim. (nel testo del
2006) individuasse una presunzione assoluta di non piccolezza, al di sotto della quale occorrerebbe far riferimento al criterio qualitativo dell’art. 2083 cod. civ. per individuare il piccolo imprenditore sottratto al fallimento, ci si
troverebbe di fronte ad «un’area grigia costituita dai soggetti che eventualmente non integrano gli estremi del
piccolo imprenditore ai sensi dell’art. 2083 cod. civ.», ma neppure del «non piccolo imprenditore» ai sensi della
legge fallimentare. Ma cosı̀ opinando «l’indicazione delle soglie quantitative non assolverebbe ad alcuna apprezzabile funzione definitoria e si rileverebbe del tutto inutile rispetto al criterio qualitativo dell’art. 2083, che resterebbe l’unico vero criterio definitorio». Inoltre, l’opzione interpretativa in parola tradirebbe lo spirito stesso della
legge delega (v. art. 1, comma 6, lettera a, n. 1, della legge 14 maggio 2005, n. 80) che, come noto, imponeva di
estendere l’area della non fallibilità, in quanto «riproponendo il criterio qualitativo, in nulla innoverebbe rispetto
al sistema previgente in termini di ampiezza dei soggetti non fallibili».
(9) In altri termini, secondo il ragionamento seguito dal Tribunale di Salerno, solo per l’imprenditore giudicato piccolo ex art. 2083 cod. civ. opererebbe il regime probatorio agevolato, consistente nell’esonero dall’onere di provare, in sede di istruttoria prefallimentare, il possesso congiunto dei requisiti di cui al comma 2 dell’art. 1 legge fallim., ricadendo lo stesso sul creditore o sull’iniziativa officiosa del giudice. Per le altre imprese non
aventi le caratteristiche indicate nell’art. 2083 cod. civ., invece, la regola generale della fallibilità imporrebbe al
resistente, che contesti il superamento delle soglie numeriche previste dalla legge, l’onere di fornire la prova al
riguardo.
Parte II - Giurisprudenza
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e ragionevolezza del sistema normativo. In primo luogo, la riproposizione
della precedente formulazione del comma 1 dell’art. l avrebbe avuto, come
conseguenza, l’esclusione in toto della categoria, senza alcun riguardo alla
presenza di quei requisiti che il comma 2 dell’art. l mostra di ritenere decisivi nella scelta delle imprese fallibili. La conseguenza, irragionevole, sarebbe stata l’esclusione dal fallimento di soggetti qualificabili piccoli imprenditori ai sensi dell’art. 2083 cod. civ. (il cui lavoro personale ha carattere pre-
Ebbene, non sembra che questo stesso percorso interpretativo possa riproporsi mutatis
mutandis dopo l’entrata in vigore (1º gennaio 2008) del Decreto correttivo n. 169 del 2007.
Innanzitutto, come si è visto, è venuto meno il principale argomento testuale a sostegno della
riferita ricostruzione teorica (10), dal momento che l’art. 1, comma primo, legge fallim., non
contempla più fra i soggetti esclusi dal fallimento (e dal concordato preventivo) i «piccoli imprenditori» (a differenza del testo del 2006) (11), ma soltanto gli enti pubblici (12).
Inoltre, anche il comma secondo del vigente art. 1 legge fallim. non definisce più, a differenza della versione precedente del 2006 (13), gli imprenditori qualificati «non piccoli» ai
fini fallimentari (14), ma si limita più semplicemente a delimitare una categoria di imprenditori
«minori» (15) che non sono soggetti alle disposizioni sul fallimento e sul concordato preventivo; e lo fa attraverso l’utilizzo di taluni parametri quantitativi (attivo patrimoniale, ricavi lordi ed indebitamento) che non hanno alcuna relazione diretta o indiretta con l’art. 2083 cod.
civ. (16).
Del resto, estremamente chiara sul punto è anche la Relazione governativa al Decreto
correttivo (sub art. 1) ove si legge, infatti, che «in questo modo, si superano i contrasti interpretativi sorti riguardo all’individuazione dei criteri di qualificazione delle nozioni di piccolo imprenditore (art. 2083 del cod. civ.), da una parte, e di imprenditore non piccolo (art. 1 legge fallim.), dall’altra; concetti entrambi contemplati dall’articolo 1 della legge fallimentare, come modificato dal decreto legislativo n. 5 del 2006».
Né tanto meno sembra plausibile recuperare la figura civilistica del piccolo imprenditore (17) assumendo che si tratti di una fattispecie «autonoma» di imprenditore, per cui, avendo
(10) Sul quale v., infatti, G. Marasà, Prime notazioni, cit., 589.
(11) Ai sensi del quale, come è noto, erano «soggetti alle disposizioni sul fallimento e sul concordato preventivo gli imprenditori che esercitano un’attività commerciale, esclusi gli enti pubblici ed i piccoli imprenditori» (art. 1,
comma primo, legge fallim.).
(12) S. Ambrosini, L’onere della prova nell’istruttoria prefallimentare, in Le nuove procedure concorsuali.
Dalla riforma «organica» al decreto «correttivo», a cura di S. Ambrosini, Bologna, 2008, pag. 25; M. Vitello,
I presupposti del fallimento, ivi, pag. 14.
(13) Fortunato, sub art. 1, cit., pag. 60, per il quale, infatti, la nuova disciplina fallimentare, nel testo introdotto dalla Riforma del 2006, non ha introdotto semplicemente una «presunzione» di «piccolezza» come per il
passato («sono considerati»), ma una definizione di «non piccolezza» «ai fini del comma 1».
(14) Fortunato, sub art. 1, cit., pag. 60.
(15) L’espressione è di M. Sandulli, La rilevanza dimensionale dell’impresa nel fallimento e nel concordato
preventivo, in I soggetti esclusi dal fallimento, a cura di M. Sandulli, Milano, 2007, pag. 40.
(16) Cosı̀ M. Fabiani, L’impresa «fallibile», cit., 327, già nel testo anteriore all’entrata in vigore del Decreto
correttivo del 2007; F. Aprile, sub art. 1, in La legge fallimentare. Commentario teorico-pratico, a cura di M. Ferro, II, Padova, 2008, pag. 3.
(17) In tal senso sembrerebbe orientato, invece, il Tribunale di Salerno nella decisione annotata.
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Il diritto fallimentare e delle società commerciali
valente sugli altri fattori produttivi) che avessero conseguito ricavi lordi superiori ad euro 200 mila o accumulato debiti per oltre 500 mila euro. Il
mantenimento dell’espressa esclusione nella norma codicistica non ha lo
stesso significato, poiché la clausola di salvezza ivi contenuta («salve le disposizioni delle leggi speciali») consente di ravvisare nel comma 2 dell’art. l
una deroga alla regola generale della non fallibilità dei piccoli imprenditori
posta dall’art. 2221 cod. civ. In secondo luogo, posta la regola generale di
non fallibilità della piccola impresa, la delimitazione del suo ambito operata
dalla legge speciale non può essere concepita, come per le medie imprese,
alla stregua di fatto impeditivo (di natura meramente processuale, o sostanziale se si ritiene che la nuova disciplina fallimentare abbia attribuito al creditore un diritto soggettivo al fallimento del proprio debitore imprenditore
insolvente), che spetta al debitore dimostrare per paralizzare l’azione del
creditore. Viene cosı̀ superata un’altra incongruenza nella quale ricade l’interpretazione abrogativa, che è quella di imporre al piccolo imprenditore,
che risulti tale dagli elementi acquisiti, l’onere di dimostrare comunque il
possesso congiunto dei requisiti di cui all’art. l comma 2 legge fallim. per
evitare il fallimento. Con la paradossale conseguenza di pervenire ad una
dichiarazione di fallimento di un soggetto che in precedenza, alla stregua
l’art. 1, comma primo, legge fallim., previsto il fallimento del solo imprenditore (art. 2082
cod. civ.) che esercita un’attività commerciale (art. 2195 cod. civ.), avrebbe inteso escludere
dal fallimento «il piccolo imprenditore» quale figura tipizzata dall’art. 2083 cod. civ. L’assunto è smentito dal rilievo, di ordine sistematico, che il piccolo imprenditore non costituisce una
categoria concettuale autonoma e distinta rispetto all’imprenditore, bensı̀ una «parte» della
medesima categoria, anzi un «momento» (definitivo o anche transitorio) dell’attività dell’imprenditore (18). Per cui la sua mancata espressa menzione nell’art. 1 legge fallim. costituisce,
piuttosto, una formula di unificazione della disciplina dell’impresa ai fini del fallimento (19),
nel senso che vi sono assoggettati tutti quegli imprenditori commerciali (esclusi gli enti pubblici) che superano i valori-soglia ivi previsti.
Invero, l’unico elemento normativo ancora esistente a sostegno della riferita impostazione, sembrerebbe essere costituito, cosı̀ come la decisione annotata non ha mancato di rilevare,
dall’art. 2221 cod. civ. (lasciato inalterato dalla Riforma), il quale continua a sottrarre dall’ambito di applicazione delle procedure concorsuali il piccolo imprenditore (oltre all’ente pubblico). Sennonché, il segnalato contrasto normativo (artt. 2221 e 1 legge fallim.) potrebbe
più agevolmente risolversi ricorrendo ai principi generali in tema di successioni delle leggi
nel tempo (20).
(18) Cosı̀, efficacemente, M. Sandulli, La rilevanza dimensionale, cit., pag. 41, per il quale, infatti, «il passaggio dalla dimensione piccola alla non piccola avviene in un regime di continuità e in ragione di una sopravvenuta situazione oggettiva, eventualmente anche inconsapevole».
(19) M. Sandulli, La rilevanza dimensionale, cit., pag. 41.
(20) In tal senso M. Sandulli, La rilevanza dimensionale, cit., pag. 42, ove ulteriori riferimenti.
Parte II - Giurisprudenza
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degli elementi raccolti, sarebbe stato ritenuto non fallibile ma che non abbia
potuto o voluto assolvere all’onere probatorio che le nuove disposizioni
porrebbero a suo carico. Si pensi alle ipotesi della contumacia volontaria
o inconsapevole del piccolo imprenditore (ad es. l’imprenditore non rintracciabile, citato con il rito degli irreperibili) o all’impossibilità di fornire
la prova dei requisiti (es. per mancata tenuta dei libri contabili o palese irregolarità). In questi casi il giudice non potrebbe sopperire neppure con l’istruzione officiosa, perché preclusa dalla non condivisibile interpretazione
parzialmente abrogativa dell’art. 2221 cod. civ., che finisce per far ricadere
In effetti, è sufficiente confrontare il nuovo comma primo dell’art. 1 legge fallim. con
l’art. 2221 cod. civ. per rendersi conto che le due norme disciplinano la stessa materia,
con le stesse parola, salvo il riferimento, soppresso nell’art. 1 legge fallim., al piccolo imprenditore (21). Considerato che una legge ordinaria può essere abrogata da un’altra legge ordinaria (o da una legge costituzionale), non sembra dubitabile che una norma del codice civile
(id est art. 2221 cod. civ.) possa essere «tacitamente» abrogata (sia pure in parte) da una
legge «speciale» successiva di pari grado (id est art. 1 legge fallim.), con la quale risulti (anche parzialmente) incompatibile (ex dell’art. 15 delle preleggi) (22). Ed al riguardo non è revocabile in dubbio che la disposizione civilistica dell’art. 2221 cod. civ. nella parte in cui
esclude dal fallimento (e dal concordato preventivo) la categoria civilistica dei piccoli imprenditori, si ponga oramai in evidente contrasto con la nuova legge fallimentare, cosı̀ come
scaturita dal Decreto correttivo, di guisa che ogni riferimento alla nozione di piccolo imprenditore di cui all’art. 2083 cod. civ., per quanto attiene alle procedure concorsuali, dovrebbe intendersi abrogato (23).
(21) L. Panzani, Le imprese soggette al fallimento, in La riforma organica delle procedure concorsuali, a cura
di S. Bonfatti e L. Panzani, Milano, 2008, pag. 16, il quale rileva, inoltre, come un’altra differenza fra le due norme risieda nel fatto che l’art. 2221 cod. civ. contempla lo stato di insolvenza, quale presupposto oggettivo delle
procedure di fallimento e di concordato preventivo, mentre l’art. 1 legge fallim. non contiene alcun riferimento in
proposito, dal momento che, come è noto, per accedere al concordato preventivo non è più necessario lo stato di
decozione, ma è sufficiente una situazione di crisi (art. 160, comma primo, legge fallim.).
(22) Cosı̀ M. Sandulli, La rilevanza dimensionale, cit., pag. 42, il quale, a questo riguardo, correttamente
rileva come la nuova formulazione dell’art. 1 legge fallim. risulti solo parzialmente incompatibile con il disposto
dell’art. 2221 cod. civ., la cui disciplina, in effetti, non è totalmente stravolta dalla nuova norma fallimentare, sicché potrebbe configurarsi un’ipotesi di abrogazione parziale della norma «generale» anteriore; in una prospettiva
de iure condendo E. Mattei, L’articolo 2083 del cod. civ. e la sua (in)compatibilità con la disciplina fallimentare, in
www.fallimentonline.it, 2007, 5.
(23) In tal senso A. Jorio, in Il nuovo diritto fallimentare. Commentario diretto da A. Jorio e coordinato da
M. Fabiani, Aggiornamento al d.lgs. 169/2007, Bologna, 2008, pag. 7; F. Aprile, sub art. 1, cit., pag. 3; M. Notari, Le imprese di piccole dimensioni, in Diritto fallimentare [Manuale breve], Milano, 2008, pag. 107; F. Vassalli, Il decreto correttivo della riforma della legge fallimentare, in www.fallimentonline.it, 2007, 15, per il quale
la soppressione di ogni riferimento alle nozioni di piccolo imprenditore (art. 2083 cod. civ.) e di imprenditore
non piccolo (art. 1, comma 2, legge fallim., come modificato dal D.lgs. n. 5/2006) onde configurare l’area dei
soggetti esonerati dal fallimento, induce, senz’altro, a reputare abrogato l’inciso «e i piccoli imprenditori» di cui
all’art. 2221 cod. civ., da intendersi sostituito con «e gli imprenditori di cui all’articolo 1, comma 2, della legge
fallimentare».
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Il diritto fallimentare e delle società commerciali
anche sul piccolo imprenditore l’onere probatorio del fatto impeditivo. Anche a voler ritenere possibile un’iniziativa officiosa del giudice, non vi è di
fatto la disponibilità di validi strumenti di indagine. In particolare, non si
può compiere un accertamento di ufficio sull’attivo patrimoniale o sui ricavi
lordi in mancanza, ad esempio, di scritture contabili e, anche nelle ipotesi in
cui ciò sia possibile, è estremamente difficile acquisire d’ufficio la prova dell’ammontare dei debiti. All’illogica conseguenza non si perviene attraverso
l’interpretazione propugnata dal collegio che, ritenendo ancor oggi valida la
regola generale di non fallibilità dei piccoli imprenditori, reputa sufficiente
l’accertamento di tale qualità per escludere di norma l’assoggettabilità a fallimento, a meno che non vi sia la prova positiva del possesso di almeno uno
dei requisiti indicati dal comma 2. In terzo luogo, la tesi dell’interpretazione
abrogativa della regola generale di esclusione dei piccoli imprenditori pone
4. Ulteriori rilievi critici. – D’altra parte, nel senso che ai fini della delimitazione dell’area
soggettiva della fallibilità debba aversi riguardo ai soli parametri quantitativi (24) (attivo patrimoniale, ricavi lordi ed indebitamento complessivo) previsti dal nuovo art. 1 legge fallim. (25)
depongono ulteriori considerazioni di ordine esegetico, logico e sistematico. Innanzitutto,
un’interpretazione, come quella suggerita dal provvedimento annotato, che volesse attribuire
rilevanza, anche ai fini fallimentari, alla categoria tradizionale del «piccolo imprenditore» cosı̀
come disegnata dal codice civile (art. 2083 cod. civ.), si porrebbe in aperto contrasto con lo
spirito della Riforma fallimentare (26).
Infatti, sotto il profilo della mens legis, appare indubbio che la modifica apportata all’art.
1 legge fallim. tenda ad una semplificazione del procedimento istruttorio prefallimentare e ad
una chiara ed agevole identificazione della fattispecie di fallibilità (27). In questa direzione si
colloca, infatti, sia la legge delega n. 80 del 2005, che come primo criterio direttivo impartito
al legislatore delegato contemplava, appunto, la semplificazione della relativa disciplina (art.
1, comma 6, lett. a, n. 1), sia il Decreto correttivo del 2007, che eliminando ogni riferimento
alla nozione di piccolo imprenditore si proponeva come obiettivo (proprio) quello di superare
i contrasti interpretativi scaturiti dallo equivoco testo normativo del 2006 (in tal senso v., infatti, la citata Relazione governativa al d.lgs. n. 169, sub art. 1).
Del resto, non può nemmeno trascurarsi la circostanza che, diversamente opinando, si
dovrebbe tornare a fare riferimento, ai fini dell’individuazione dell’imprenditore fallibile, ai
(24) Cosı̀, in particolare, F. Aprile, sub art. 1, cit., pag. 3; M. Notari, Le imprese di piccole dimensioni,
cit., pag. 107.
(25) Sui quali cfr., in particolare, M. Sandulli, La rilevanza dimensionale, cit., pag. 45 seg., il quale parla
coerentemente, a questo proposito, di «requisiti dimensionali minori».
(26) M. Sandulli, La rilevanza dimensionale, cit., pag. 40, per il quale, infatti, se si volesse ancora far sopravvivere nel nuovo sistema la vecchia nozione civilistica del piccolo imprenditore, significherebbe «remare contro quello che era il proposito» della Riforma.
(27) M. Fabiani, L’impresa «fallibile», cit., 327; M. Sandulli, La rilevanza dimensionale, cit., pag. 40; G.
Fauceglia, Condizioni soggettive ed oggettive di fallibilità: la nuova nozione di piccolo imprenditore. La piccola
società commerciale. La crisi e l’insolvenza, in Dir. fall., 2006, 1039 seg., 1044.
Parte II - Giurisprudenza
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tutte le imprese sullo stesso piano, anche ai fini dell’applicazione della deroga posta dal comma 2 dell’art. l, privando di fatto il giudice di quei poteri
istruttori officiosi che pure sono stati ribaditi dalla legge fallimentare. Se è
sufficiente, quale presupposto soggettivo, la qualità di imprenditore commerciale per dichiarare il fallimento, impedito solo dall’assolvimento dell’onere probatorio posto a carico del resistente, non vi è margine per attivare i
poteri istruttori affidati al giudice dalla legge. Anche per tale verso, trova
logica conferma la tesi della non fallibilità dei piccoli imprenditori, che in
quanto regola generale e non fatto impeditivo, consente un’ iniziativa istruttoria officiosa diretta a verificare l’effettiva natura dell’impresa (ad es. attra-
tradizionali criteri qualitativi individuati dall’art. 2083 cod. civ. nella «prevalenza» del lavoro proprio e dei propri familiari sul lavoro altrui e sui capitali investiti (28), con le ben note
incertezze interpretative ed inevitabili difformità di trattamento dovute alla sede giudiziaria
di competenza. Inconvenienti ai quali la Riforma fallimentare si proponeva, appunto, di
porre rimedio proprio attraverso l’introduzione all’art. 1 legge fallim. delle nuove soglie
di fallibilità (29).
Sotto il profilo sistematico, poi, l’asserita sopravvivenza, anche ai fini concorsuali (30),
della nozione civilistica di piccolo imprenditore imporrebbe di adattarla anche alle piccole
società commerciali, visto che il novellato art. 1 legge fallim. ha oramai definitivamente unificato il destino dell’imprenditore individuale e collettivo, e ciò con tutte le conseguenti difficoltà derivanti dall’applicazione del criterio della «prevalenza» ad una dimensione plurisoggettiva dell’impresa (31).
Peraltro, anche da un punto di vista processuale, se si ritenesse ancora vigente nel sistema la regola generale della non fallibilità dei piccoli imprenditori (ex art. 2221 cod. civ.), sia
(28) Sui quali cfr., fra gli altri, G. Capo, La piccola impresa, in Trattato di dir. comm., diretto da V. Buonocore, I/2.III, Torino, 2002, pag. 104 seg.; F. Ferrara jr.-A. Borgioli, Il fallimento, 5ª ed., Milano, 1995,
pag. 118 seg.
(29) Cosı̀ Fortunato, sub art. 1, cit., pag. 59; L. Potito-M. Sandulli, sub art. 1, in La riforma della
legge fallimentare, a cura di A. Nigro e M. Sandulli, I, Torino, 2006, pag. 5 seg.; Silvestrini, I presupposti soggettivi, cit., 230 seg., il quale opportunamente ricorda come all’indomani della dichiarazione (da parte di Corte
Cost., 22 dicembre 1989, n. 570, in Fallimento, 1990, 260) d’incostituzionalità dell’art. 1, comma 2, legge fallim.,
nella parte in cui prevedeva il criterio del capitale investito quale parametro di identificazione del piccolo imprenditore, la giurisprudenza avesse cercato di ridurre i margini di discrezionalità che competevano ai tribunali fallimentari in sede di applicazione dell’art. 2083 cod. civ., ancorando i giudizi ad un paramero numerico sostitutivo
di quello travolto dal Giudice delle leggi, pervenendo, però, a risultati non sempre apprezzabili e condivisibili.
(30) Essendo indubbio, invece, che la nozione civilistica di piccolo imprenditore conservi ancora la sua valenza al di fuori del fallimento: L. Potito-M. Sandulli, sub art. 1, cit., pag. 6, nota 10; Fortunato, sub art. 1,
cit., pag. 58; F. Santangeli, sub art. 1, cit., pag. 6.
(31) Sul punto M. Sandulli, La rilevanza dimensionale, cit., pag. 35, per il quale l’applicazione dell’art.
2083 cod. civ. anche agli imprenditori collettivi, salvo a voler insistere in una sottodistinzione tra società di capitali e società di persone (che la legge invero non contempla), non appare certamente logicamente e strutturalmente concepibile; Fortunato, sub art. 1, cit., pag. 62; A. Rossi, Il presupposto soggettivo, cit., 788; M. Fabiani, L’impresa «fallibile», cit., 322, il quale rileva la difficoltà di applicare i valori dell’art. 2083 cod. civ. alla
società per azioni, anch’essa ormai astrattamente riconducibile al catalogo dei piccoli imprenditori non fallibili.
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Il diritto fallimentare e delle società commerciali
verso accertamenti a mezzo della guardia di finanza o presso pubblici uffici
sul numero dei dipendenti, sulle dichiarazioni dei redditi e Iva, sui beni
strumentali, sui locali ove si svolge l’attività, ecc.). In quarto luogo, la conferma della presenza nel sistema della regola generale di non fallibilità dei
piccoli imprenditori si ricava, almeno per le imprese di produzione di beni
o servizi, da un altro dato normativo. Secondo l’art. 1 comma l legge fallim.
è soggetto alle procedure concorsuali l’imprenditore che esercita «una attività commerciale». In mancanza di una definizione nella stessa legge fallimentare, per stabilire cosa debba intendersi per impresa esercente attività
commerciale non si può che fare riferimento alla regola generale posta dall’art. 2195 comma 2 cod. civ., che recita «le disposizioni della legge che fan-
pure con la delimitazione quantitativa imposta dal nuovo art. 1 legge fallim., si dovrebbe supporre (come difatti fanno i Giudici salernitani nel decreto in commento) che in assenza della
prova (positiva) in ordine al superamento di uno dei parametri dimensionali introdotti dalla
Riforma, sarebbe sufficiente che risultasse, anche da elementi acquisiti d’ufficio, la qualità di
piccolo imprenditore del debitore ex art. 2083 cod. civ., perché il ricorso di fallimento fosse
rigettato per carenza del presupposto soggettivo (32).
Una tale conclusione, però, non può condividersi, in quanto invertirebbe di fatto l’onere
della prova della «non piccolezza» sul creditore o sul pubblico ministero richiedente, ponendosi in aperto contrasto col dato normativo (33) che, come è noto (dopo il Decreto correttivo
del 2007), pone siffatto incombente a carico del solo debitore (34). Soluzione, quella da ultimo
seguita, sostanzialmente condivisibile (35) in quanto pone l’onere della prova a carico della
parte per cui è più agevole assolverlo (c.d. principio della vicinanza), senza però che ciò valga
ad esonerare il giudice dall’utilizzare i poteri istruttori conferitigli dall’art. 15 legge fallim.,
(32) In tal senso v. Tribunale Varese, 15 dicembre 2006, in Fallimento, 2007, 553.
(33) Cosı̀ M. Sandulli, La rilevanza dimensionale, cit., pag. 45.
(34) L’opzione legislativa di assegnare al debitore l’onere di fornire la prova del rispetto delle soglie di non
fallibilità costituisce una semplificazione dovuta alla necessità di porre fine ad un acceso dibattito sorto all’indomani della novella legislativa del 2006, adottando peraltro la soluzione tendenzialmente prevalsa in dottrina e giurisprudenza (in tal senso, infatti, Tribunale Vicenza, 10 maggio 2007, in www.fallimentonline.it; Tribunale Torino, 11 gennaio 2007, in Giur. it., 2007, 2223 e 2271; G. Canale, L’art. 1 legge fallim. e l’onere della prova, in
Giur. it., 2007, 2273; M. Fabiani, sub art. 18, in Il nuovo diritto fallimentare. Commentario diretto da A. Jorio e
coordinato da M. Fabiani, t. 1, cit., pag. 382; G. Fauceglia, Condizioni soggettive, cit., 1048; M. Montanari,
La nuova disciplina, cit., 561 seg., 569 seg.; ponevano l’onere a carico del creditore istante o del P.M. richiedente,
invece, Tribunale Varese, 15 dicembre 2006, cit.; Tribunale Napoli, 6 novembre 2006, in Fallimento, 2007, 560;
in dottrina v. S. Fortunato, sub art. 1, cit., pag. 68 seg.).
(35) Diversamente orientato, invece, il Tribunale di Napoli, che in una recente pronuncia (23 aprile 2008, in
www.fallimentonline.it) ha sollevato la questione di legittimità costituzionale dell’art. 1, comma secondo, legge
fallim., in relazione agli artt. 3 e 76 della Costituzione, nella parte in cui addossa al debitore l’onere di provare
la propria non assoggettabilità a fallimento ovvero prevede il fallimento dell’imprenditore commerciale insolvente
che non dimostri il possesso congiunto dei requisiti di non fallibilità ivi previsti. In particolare, la scelta operata
dal legislatore delegato viene reputata dai giudici partenopei in contrasto, non solo col principio di ragionevolezza, in quanto finirebbe col far dipendere la dichiarazione di fallimento dal mero comportamento del debitore, ma
anche in contrasto con la direttiva della legge delega 80/2005 concernente l’estensione del novero dei soggetti
esclusi dal fallimento.
Parte II - Giurisprudenza
61
no riferimento alle attività e alle imprese commerciali si applicano, se non
risulta diversamente, a tutte le attività indicate in questo articolo e alle imprese che le esercitano». Dunque, l’impresa commerciale fallibile è quella
indicata dall’art. 2195 comma 1 cod. civ. che, con particolare riferimento
alle imprese di produzione di beni e servizi, qualifica commerciale quella
esercente un’attività «industriale». Non tutte le imprese di produzione sono
imprese commerciali ma solo quelle aventi il requisito dell’industralità. Tale
ogni qualvolta gli elementi forniti dalle parti non consentano di porre rimedio ad una situazione di incertezza (36).
5. Conclusioni. – Da quanto esposto può trarsi la conclusione che ai fini fallimentari sia
divenuta oramai irrilevante la tradizionale categoria civilistica del piccolo imprenditore (37), la
quale conserva la sua valenza solo ad altri fini (esonero dalla tenuta delle scritture contabili ex
art. 2214 cod. civ. ed iscrizione nella sezione speciale del registro delle imprese con funzione
di pubblicità notizia ex art. 8 legge n. 580 del 1993), in quanto il legislatore fallimentare, recidendo ogni contatto col passato, ha posto dei parametri quantitativi che assumono una valenza assoluta ed esclusiva ai fini della individuazione degli imprenditori (individuali o collettivi) esclusi dalla procedura (38). Con la conseguenza che per coloro che si collocano al di sotto delle nuove soglie di fallibilità, deve ritenersi assolutamente interdetto l’accesso alle procedure concorsuali, a prescindere dal fatto che si tratti o meno di piccoli imprenditori ex art.
2083 cod. civ. (39).
D’altra parte, la tesi che assegna all’art. 1, comma secondo, legge fallim. e all’art. 2083
cod. civ. due ambiti di applicazione distinti, rilevando l’uno ai fini dell’accesso alle procedure
(36) M. Fabiani, Il decreto correttivo della riforma fallimentare, in Foro it., 2007, V, 226 seg., 227, per il
quale l’uso dello strumento di giudizio fondato sull’onere della prova è pur sempre residuale, visto che sui fatti
allegati dalle parti si innesta il potere istruttorio officioso del tribunale; S. Ambrosini, L’onere della prova, cit.,
pag. 26 seg., per il quale l’inerzia assoluta del debitore non implicherebbe ex se il suo assoggettamento al fallimento, dovendo il tribunale comunque procedere ad accertamenti officiosi; L. Panzani, Le imprese soggette
al fallimento, cit., pag. 36, per il quale la previsione che il tribunale conserva i suoi poteri istruttori d’ufficio evita
che l’onere della prova costituisca nulla di più che un’extrema ratio per la decisione, dovendo altrimenti il giudice
reperire comunque gli elementi mancanti ai fini dell’istruttoria; G. Lo Cascio, L’intervento correttivo ed integrativo del decreto legislativo 5/2006, in Fallimento, 2007, 865 seg., 866; M. Montanari, La nuova disciplina, cit.,
568; F. Vassalli, Il decreto correttivo, cit., 14 seg.; G.E. Colombo, L’esenzione dalle procedure concorsuali per
ragioni dimensionali, in Fallimento, 2008, 625 seg., 635, per il quale «se non risulti, né dalle prove fornite dall’imprenditore né dagli accertamenti d’ufficio compiuti dal Tribunale, che le tre soglie non sono state superate,
il soggetto va dichiarato fallito».
(37) In tal senso M. Sandulli, La rilevanza dimensionale, cit., pag. 43; M. Notari, Le imprese di piccole
dimensioni, cit., pag. 107.
(38) M. Fabiani, L’impresa «fallibile», cit., 326; F. Aprile, sub art. 1, cit., pag. 3; M. Sandulli, La rilevanza dimensionale, cit., pag. 40 seg., per il quale potrebbe anche «ritenersi, qualora si volesse sostenere la sopravvivenza dell’art. 2221 cod. civ. nella parte qua, che ai fini del fallimento la figura del piccolo imprenditore
resti assorbita in quella dell’imprenditore commerciale che non raggiunga determinati livelli dimensionali e di
debitoria. Per chi ama le sistematizzazioni teoriche, si potrebbe pensare che i dati quantitativi di cui al comma
secondo dell’art. 1 legge fallim., se superati, per presunzione assoluta, escludono la presenza di un piccolo imprenditore».
(39) F. Aprile, sub art. 1, cit., pag. 3.
62
Il diritto fallimentare e delle società commerciali
requisito non può intendersi riferito a tutte le attività di produzione di beni
diversa da quella agricola ma solo alle attività non artigiane, aventi un ciclo
produttivo che prescinde dal lavoro del titolare. Anche per tale verso, risulta confermata, come regola generale, l’esclusione del piccolo imprenditore
(nella specie, l’artigiano) dall’universo dei fallibili. L’interpretazione accolta
è foriera di conseguenze in ordine all’esatta individuazione del presupposto
soggettivo per la dichiarazione di fallimento e alla distribuzione dell’onere
probatorio. Le modifiche del decreto correttivo non hanno attratto nell’area della fallibilità anche il piccolo imprenditore, secondo la definizione data dall’art. 2083 cod. civ., che ne resta di regola escluso (art. 2221 cod. civ.),
ma hanno posto un confine alla definizione di piccolo imprenditore rilevabile dall’art. 2083 cod. civ., dato dal superamento di determinate soglie di
patrimonio, ricavi o indebitamento. Operando come eccezione, non incombe al piccolo imprenditore l’onere di provare il possesso congiunto dei requisiti di cui al comma 2 dell’art. 1 legge fallim. ma, al contrario, spetta al
concorsuali e l’altro ai fini dello statuto civilistico del piccolo imprenditore, non è certamente
nuova, essendo stata avanzata (40) anche nel vigore del testo originario dell’art. 1 legge fallim.,
prima, cioè, che la Riforma fiscale del 1974 (41) e l’intervento della Corte Costituzionale del
1989 (42) abrogassero i criteri di «piccolezza» ivi previsti. Con la sostanziale differenza, però,
che le obiezioni che alla stessa venivano mosse a quel tempo, non sembrano più riproponibili
nell’attuale contesto normativo (43).
Era stato, infatti, criticamente osservato che – essendo il piccolo imprenditore, secondo
la disciplina del codice civile, esonerato non solo dal fallimento (art. 2221 cod. civ.), ma anche dall’obbligo della tenuta delle scritture contabili (art. 2214 cod. civ.) e dell’iscrizione nel
registro delle imprese (art. 2202 cod. civ.) – il debitore ritenuto piccolo sulla base dei parametri qualitativi dell’art. 2083 cod. civ., ma che fosse stato tuttavia dichiarato fallito per aver
superato le soglie quantitative dell’art. 1, comma secondo, l.fall., sarebbe incorso automaticamente nel reato di bancarotta semplice ai sensi dell’art. 217, comma secondo, legge fallim.,
per non aver tenuto i libri e le scritture contabili (44) ovvero (prima del fallimento) non
avrebbe potuto accedere alla procedura del concordato preventivo, perché non iscritto
(40) Fra gli altri da G. Valeri, Manuale di diritto commerciale, Firenze, 1950, pag. 38; N. Jaeger, in Riv.
dir. comm., 1942, II, 292; G. Ferri, in Giur. compl. cass. civ., 1945, I, 266 seg.
(41) Introdotta con il d.p.r. 29 settembre 1973, n. 597, che ha soppresso l’imposta di ricchezza mobile, sostituendola con l’imposta sul reddito delle persone fisiche (Irpef).
(42) Corte Cost., 22 dicembre 1989, n. 570, in Foro it., 1990, I, 1132, che ha riconosciuto l’incostituzionalità del criterio del capitale investito nell’azienda non superiore a lire 900.000, in quanto non più idoneo, in seguito alla svalutazione monetaria, a fungere da scriminante fra gli imprenditori commerciali soggetti al fallimento
e quelli esonerati.
(43) In argomento G. Marasà, Prime notazioni, cit., 583.
(44) In tal senso, infatti, Cassazione pen., 13 giugno 1953, in Giust. pen., 1953, III, 459; Cassazione pen., 29
maggio 1968, in Foro it., 1968, II, 219; Cassazione pen., 16 dicembre 1970, in Giust. pen., 1971, II, 827; Cassazione pen., 17 marzo 1987, in Riv. pen., 1988, 87.
Parte II - Giurisprudenza
63
creditore o all’iniziativa officiosa del giudice l’acquisizione della prova positiva del possesso di almeno uno di quei requisiti. In mancanza di tale prova contraria, è sufficiente che risulti, anche da elementi acquisiti d’ufficio,
che il resistente sia piccolo imprenditore ai sensi dell’art. 2083 cod. civ.
per il rigetto del ricorso. Al contrario, per le imprese non aventi le caratteristiche indicate dall’art. 2083 cod. civ., la regola generale di fallibilità impone al resistente, che contesti il superamento delle soglie, l’onere non solo
di allegazione ma anche di prova del possesso congiunto dei requisiti. La
questione esaminata e risolta ha indubbio rilievo nel caso in esame, poiché
dagli atti acquisiti emerge la qualità di piccolo imprenditore, nella specie di
artigiano, del resistente che esclude la dichiarazione di fallimento per carenza del presupposto soggettivo pur in mancanza di una prova positiva, per
essere rimasto contumace, del possesso congiunto dei requisiti di cui all’art.
l legge fallim. Il debitore, come risultante dal registro delle imprese, è imprenditore individuale esercente attività nel settore edile, iscritto nell’albo
delle imprese artigiane. Tale dato è necessario ma non deciso, secondo l’indirizzo giurisprudenziale dominante, poiché l’impresa, pur se rientrante
nella nozione di impresa artigiana di cui alla legge 8 agosto 1985 n. 443
ed iscritta all’albo delle imprese artigiane, è da ritenersi assoggettata al fallimento se per dimensioni e giro di affari debba essere considerata impresa
commerciale (Cassazione 10 novembre 1998 n. 11306). Decisivi, al riguardo, sono i profili relativi alla organizzazione aziendale e al guadagno. Oc-
nel registro delle imprese cosı̀ come, invece, prescritto dall’art. 160, comma primo, n. 1 (vecchio testo), legge fallim. (45).
Ebbene, le rilevate distorsioni sistematiche che avevano indotto a dubitare della fondatezza di una simile interpretazione, non sono più prospettabili oggi, dal momento che l’obbligo della tenuta delle scritture contabili è stato esteso dalla normativa fiscale anche alle piccole imprese (46), mentre l’iscrizione nel registro delle imprese, non solo non costituisce più
condizione per l’ammissione al nuovo concordato preventivo (v. art. 160 legge fallim. nel testo riformato dal d.l. n. 35 del 2005), ma dopo l’istituzione del registro delle imprese (legge n.
580 del 1993) riguarda anche i piccoli imprenditori (47).
Le considerazioni sinora esposte consentono, inoltre, di conseguire un ulteriore risultato,
anch’esso in linea con il più volte richiamato principio della semplificazione affermato dalla
legge delega n. 80 del 2005 (48). L’impossibilità, infatti, di invocare ai fini fallimentari la di-
(45) G. Marasà, Prime notazioni, cit., 583, nota 2.
(46) E. Mattei, L’articolo 2083, cit., 5.
(47) I quali, come è noto, devono ora iscriversi in una sezione speciale del registro delle imprese con funzione di regola di pubblicità notizia (art. 8 della legge 29 dicembre 1993, n. 580). In argomento, fra gli altri,
G.F. Campobasso, Diritto commerciale, 1, Diritto dell’impresa, 5ª ed. a cura di M. Campobasso, Torino, 2006,
pag. 59.
(48) Sul quale, cfr. G. Marasà, Prime notazioni, cit., 581 seg.
64
Il diritto fallimentare e delle società commerciali
corre distinguere, infatti, tra un’organizzazione aziendale modesta dalla
quale l’imprenditore tragga un mero guadagno, ed un’organizzazione di tipo industriale (caratterizzata dalla prevalenza del capitale sul fattore lavoro
e dall’autonoma capacità produttiva dell’impresa, nella quale l’opera personale del titolare non è essenziale o principale) che costituisce base di una
intermediazione speculativa fonte di profitto. Nel caso concreto si è in presenza di un artigiano piccolo imprenditore, e non di una impresa commerciale, desumibile dall’unico ricorso proposto, dalla natura del rapporto di
lavoro con il ricorrente accertata dal giudice del lavoro (M.G.A. ha svolto
le mansioni di manovale in favore dell’imprenditore individuale da febbraio
2000 a maggio 2001), dal dissolvimento dell’impresa (il verbale di pignoramento negativo del 13 settembre 2007), non rilevante ai fini dell’art. 10 della legge fallim. (non vi è, infatti, cancellazione dal registro delle imprese) e
sposizione civilistica dell’art. 2083 cod. civ., dovrebbe porre fine anche all’annosa querelle
sulla fallibilità dell’artigiano, poiché se per delimitare la categoria degli imprenditori (commerciali) fallibili, rilevano i soli presupposti numerici previsti dal comma secondo dell’art.
1 legge fallim., non ha più alcuna valenza significativa interrogarsi sulla natura artigiana o meno dell’attività esercitata (49).
Né tanto meno sembra possibile (50) giustificare l’esonero dal fallimento delle imprese
artigiane qualificandole alla stregua di imprese civili (e, quindi, non commerciali) per difetto
del requisito della industrialità (51). Al riguardo, infatti, è stato correttamente rilevato (52) come l’imprenditore artigiano non sia, in realtà, che un piccolo industriale e, quindi, giuridicamente, rientri nella categoria concettuale e logica degli imprenditori commerciali, come del
(49) In tal senso S. Fortunato, sub art. 1, cit., pag. 56; M. Fabiani, Il decreto correttivo, cit., 228; Id.,
L’impresa «fallibile», cit., 327; G. Fauceglia, Condizioni soggettive, cit., 1047. Diversamente, però, G. Pellegrino, La riforma della legge fallimentare, in Dir. fall., 2006, I, 357, per il quale continuerebbero ad essere esonerati dalle procedure concorsuali gli imprenditori agricoli e gli artigiani, anche se superano le piccole dimensioni
previste dall’art. 1, comma secondo, legge fallim.; dubbiosi sul problema della fallibilità dell’artigiano sono, invece, S. Bonfatti-P.F. Censoni, Manuale di diritto fallimentare, cit., pag. 35.
(50) Come, invece, fanno i Giudici di Salerno nel provvedimento in commento.
(51) In tal senso, in passato, M. Casanova, Impresa e azienda, in Trattato di dir. civ., fondato da F. Vassalli,
Torino, 1974, pag. 121 seg.; A. De Martini, Corso di diritto commerciale, vol. 1, Milano, 1983, pag. 166; nonché, in giurisprudenza, Tribunale Bologna, 9 marzo 1988, in Giur. comm., 1989, II, 499; Tribunale Foggia, 17
marzo 1989, in Dir. fall., 1989, II, 964.
(52) G. Oppo, Impresa e imprenditore, in Enc. giur., XVI, Treccani, Roma, 1989, pag. 7 e 13 segg., il quale
esclude che gli elementi di delimitazione delle imprese commerciali possano cogliersi sul piano delle dimensioni
dell’impresa; A. Genovese, L’artigiano e le attività commerciale, in Riv. dir. comm., 1968, I, 169 seg.; V. Allegri, Impresa artigiana e legislazione speciale, Milano, 1990, pag. 151; G. Capo, La piccola impresa, cit., pag. 103,
per il quale l’opposta opinione sembra sovrapporre, ai fini della distinzione fra impresa industriale ed impresa
artigiana, i due diversi piani, quello qualitativo e quello dimensionale, in cui si sviluppa la disciplina delle attività
imprenditoriali nel codice civile; G.F. Campobasso, Diritto commerciale, 1, cit., pag. 70 seg.; V. Buonocore,
L’imprenditore in generale, in Manuale di diritto commerciale, a cura di V. Buonocore, Torino, 2007, pag. 85; in
giurisprudenza, fra le altre, Tribunale Genova, 18 novembre 1988, in Giur. comm., 1990, II, 174; Tribunale Napoli, 5 dicembre 1991, ivi, 1993, II, 5; Tribunale Milano, 2 marzo 1999, in Banca e borsa, 2001, II, 214 seg.
Parte II - Giurisprudenza
65
dalle risultanze dell’anagrafe tributaria, che attesta negli ultimi anni solo la
percezione di redditi da lavoro dipendente (euro 18.375 per l’anno 2005) e
l’assenza dal 1998 di dichiarazioni (modelli 730, Unico, Iva). È evidente in
ciò, senza bisogno di ulteriori approfondimenti istruttori, che I.P. ha svolto
in passato attività di imprenditore individuale nel settore edile avvalendosi
di mezzi aziendali modesti e, oltre al prevalente lavoro personale, dell’opera
di un manovale. Non vi era, dunque, un’organizzazione aziendale di capitale e lavoro avente una capacità produttiva autonoma rispetto al lavoro
personale dell’imprenditore. Di qui il rigetto del ricorso proposto nei confronti dell’artigiano.
P.Q.M. rigetta il ricorso per difetto del presupposto soggettivo del fallimento (...).
resto emerge dal fatto che alcune delle attività esercitabili dall’impresa artigiana (ad esempio,
quella di trasporto) sono espressamente ricomprese nell’elenco delle attività commerciali di
cui all’art. 2195 cod. civ. Pertanto, al pari di ogni imprenditore commerciale, anche l’impresa
artigiana (individuale o collettiva che sia) dovrebbe essere esclusa dal fallimento solo se, in
concreto, non superi i valori contabili indicati dal nuovo comma secondo dell’art. 1, legge
fallim. (53).
Giuseppe Positano
Prof. Aggregato di Diritto Commerciale
nella Università del Salento
(53) In tal senso G.F. Campobasso, Diritto commerciale, 1, cit., pag. 71; M. Fabiani, L’impresa «fallibile»,
cit., 327; sostanzialmente M. Sandulli, La crisi dell’impresa, in Manuale di diritto commerciale, a cura di V. Buonocore, cit., pag. 1132.
I
TRIBUNALE DI PIACENZA
1 luglio 2008
Pres. Est. Bersani
Concordato preventivo - Transazione fiscale - Rispetto del grado di privilegio - Equiparazione di tutti i creditori con privilegio generale - Ordine dei privilegi - Irrilevanza
Al fine di valutare l’ammissibilità della transazione fiscale di cui all’art.
182 ter legge fallim., occorre tenere presente che il rispetto del grado del privilegio è questione diversa dal rispetto dell’ordine dei privilegi di cui agli artt.
2777 e 2778 cod. civ., con la conseguenza che i creditori che hanno privilegio
generale sui beni mobili devono essere considerati di pari grado. Sarà quindi
inammissibile la transazione fiscale che preveda per i crediti dell’erario con
privilegio generali sui beni mobili un trattamento deteriore rispetto ai crediti
di cui all’art. 2751 bis cod. civ. (1).
II
TRIBUNALE DI PAVIA
8 ottobre 2008
Pres. Lombardi, Rel. Balba
Concordato preventivo - Creditori privilegiati - Differente trattamento in
base al grado di privilegio - Ammissibilità
Benché i crediti dei lavoratori e quelli dell’erario sia entrambi assistiti da
(1-3) Grado dei privilegi e transazione fiscale (*).
Le sentenze in epigrafe si occupano, tra l’altro, della dibattuta questione (1) relativa al
(*) La norma di cui all’art. 182 ter legge fallim. è stata, di recente, parzialmente modificata dall’art. 32, comma V, decreto-legge 29 novembre 2008, n. 185 (c.d. piano anti-crisi), pubblicato nella Gazzetta Ufficiale n. 280
del 29 novembre 2008 – Suppl. Ordinario n. 263/L. L’intervento normativo ha, in sostanza, espressamente stabilito che la transazione fiscale possa prevedere un pagamento dilazionato oltre che parziale, che possa avere ad
oggetto anche i contributi amministrati dagli enti gestori di forme di previdenza e assistenza obbligatorie ed infine
che – e questa sembra essere la novità maggiormente rilevante, visto l’ampio dibattito che era sorto in argomento
sia in dottrina che in giurisprudenza – la transazione fiscale possa avere ad oggetto anche i tributi Iva, ma in tal
caso la proposta potrà prevedere esclusivamente la dilazione del pagamento e mai un pagamento parziale.
(1) In argomento vedi Del Federico, Articolo 182 ter, Transazione fiscale, in Il nuovo diritto fallimentare,
Parte II - Giurisprudenza
67
privilegio generale sui mobili, nell’ambito del concordato preventivo la diversità del grado di privilegio è di per sé idonea a giustificare una differenziazione
della loro posizione giuridica e quindi la previsione di differenti percentuali di
pagamento (2).
III
TRIBUNALE DI MANTOVA
30 ottobre 2008
Pres. Bernardi, Rel. Laura De Simone
Concordato preventivo - Transazione fiscale - Pagamento in percentuale
del credito tributario - Ordine dei privilegi - Rilevanza - Ammissibilità
In ipotesi di transazione fiscale, il criterio indicato nell’art. 182 ter legge
fallim., per cui il credito tributario assistito da privilegio può essere pagato in
percentuale purché non siano offerte condizioni e garanzie inferiori a quelle
offerte ai creditori che hanno grado di privilegio inferiore o posizione giuridica ed interessi economici omogenei a quelli delle agenzie fiscali, può dirsi
rispettato anche nell’ipotesi in cui siano attribuite percentuali differenti e
maggiori ad altri creditori aventi uguale privilegio generale sui mobili, a condizione che risulti rispettato l’ordine di soddisfazione sancito dagli artt. 2777
e segg. cod. civ. (3).
I
Letto il ricorso per concordato preventivo presentato dal liquidatore di
***soc. per az. in liquidazione in data 7 maggio 2008;
trattamento dei crediti privilegiati tributari nella transazione fiscale di cui all’art. 182 ter legge
fallim.
Di particolare interesse è la circostanza che i Tribunali di Mantova e Pavia giungano, in
Commentario diretto da Jorio e coordinato da Fabiani, Bologna, 2007, pag. 2561 e seg.; Marini, Transazione
fisale, in La riforma della legge fallimentare, a cura di Nigro e Sandulli, Torino, 2006, pag. 1118 e seg.; Magnani, Transazione fiscale, in Il diritto fallimentare riformato, a cura di Schiano Di Pepe, Padova, 2007, pag.
683 e seg.; Mandrioli, in Giur. comm., 2008, I, pag. 312 e seg.; relativamente al ruolo dell’Amministrazione
finanziaria v. Tosi, Il delicato rapporto tra autorità e consenso in ambito tributario: il caso della transazione fiscale,
in Giust. Tributaria, 2008, pag. 25 e seg.
68
Il diritto fallimentare e delle società commerciali
letta la relazione e la documentazione integrativa depositate in data 26
maggio 2008;
letto il parere favorevole del Pubblico Ministero pervenuto in data 5
giugno 2008;
sentite le parti all’udienza in camera di consiglio del 18 giugno 2008;
lette le memorie integrative depositate in data 28 giugno 2008 dal professionista presentatore della relazione ex art. 161 (dott.ssa E. ***) e del difensore della società ricorrente (avv. A. ***);
dato atto che il giudizio di ammissibilità della procedura si deve svolgere, secondo il Tribunale (e secondo la prevalente giurisprudenza) nella verifica:
a) della sussistenza del presupposto soggettivo, vale a dire della qualità
di imprenditore commerciale, non piccolo, del ricorrente;
b) della sussistenza del presupposto oggettivo, cioè dello stato di crisi
dell’imprenditore;
c) della sussistenza di un piano proposto dal debitore alla massa dei creditori;
d) della completezza e regolarità della domanda (es: requisiti ex art. 152
legge fallim.);
e) della regolarità e completezza della documentazione depositata;
f) della sussistenza della relazione del professionista asseveratore;
g) dell’esame del giudizio del professionista asseveratore il quale deve
articolarsi in diverse fasi (ispettivo – ricognitiva, valutativa della regolarità,
comminatoria, con pubblica esplicitazione del giudizio espresso) e deve
consentire la ricostruzione dei controlli effettuati. In tale prospettiva il Tribunale dovrà verificare che il professionista: a) dia atto della documentazione esaminata; b) indichi i controlli compiuti; c) ricostruisca l’iter logico posto a base delle proprie valutazioni; d) attesti «la veridicità dei dati aziendali
e la fattibilità del piano»; h) della veridicità dei dati contabili; i) della fattibilità del piano; l) della sussistenza dei presupposti per un pagamento non
integrale dei creditori privilegiati incapienti.
Rilevato che nell’ambito del giudizio di cui sopra da parte del Tribunale
di Piacenza sono state evidenziate alcune carenze documentali, tanto che è
stato concesso il termine massimo previsto dalla legge di giorni 15 per l’integrazione delle documentazione mancante ed un ulteriore termine di giorni 10 per memorie integrative ed esplicative;
argomento, a conclusioni diametralmente opposte a quelle sostenute dal Tribunale di Piacenza. Quest’ultimo, in particolare, si è pronunciato per l’inammissibilità di una proposta di transazione fiscale, nell’ambito di un concordato preventivo, che prevedeva il pagamento dei crediti tributari in misura percentuale inferiore ad altri crediti, ugualmente muniti di privilegio
Parte II - Giurisprudenza
69
rilevato che – a seguito dell’ulteriore termine concesso – è stata prodotta la documentazione integrativa richiesta e sono state effettuate alcune integrazioni alla domanda; in particolare:
1) è stata prodotta la stima dei beni immobili che costituiscono una delle principali voci di attivo della procedura (cfr. doc. 2 prod. integrativa);
2) i creditori privilegiati sono stati suddivisi nel ricorso in diverse classi e
sono state effettuate le indicazioni percentuali del pagamento al fine di determinare la percentuale votante (cfr. doc. 2 prod. integrativa);
3) per i creditori ipotecari indicati nella classe 3 è stata previsto il declassamento al rango di chirografari (cfr. doc. 2 prod. integrativa (creditori ***,
****, **** soc. in acc. sempl.); il credito di ***** è stato inserito nella classe 3 sopra citata;
4) con riferimento alla formazione della classe di crediti erariali, per cui
viene previsto il pagamento dell’89% (credito privilegiato) e del 31% del
credito, da parte del ricorrente, è stata depositata l’istanza di transazione
fiscale ex art. 182 ter legge fallim.;
5) da parte del ricorrente si sono opportunamente specificate e quantificate le spese che vengono indicate in «prededuzione» per personale, collegio sindacale, costi di gestione ecc.;
6) da parte della dott.ssa *** si è specificato – nella memoria del 28 giugno 2008 – come «...le poste indicate dalla società nel ricorso siano state verificate ed analiticamente esposte nella attestazione del professionista, che pertanto, in questa sede se ne intende confermarne la effettiva ed esistenza veridicità con i limiti sopra indicati. In altre parole i dati esposti da ***soc. per az.
in liquidazione sono certificati come veridici, ma la sottoscritta non può indicare come valore assoluto e indiscutibile ciò che è oggetto di valutazione» (cfr.
memoria cita pag. 1).
Alla luce dell’integrazione effettuata occorre svolgere alcune considerazioni preliminari in tema di ammissibilità del concordato preventivo come
modificato dal d.lgs. n. 5/06 e dal d.lgs. n. 169/2007.
generale, ai sensi dell’art. 2751 bis cod. civ. (2). Secondo il giudice piacentino una tale previsione costituirebbe diretta ed espressa violazione dell’art. 182 ter legge fallim. nella parte in
cui sancisce che i crediti tributari privilegiati non possano essere trattati (3) in maniera deteriore rispetto ai crediti che hanno un grado di privilegio inferiore o che hanno una posizione
(2) L’art. 2751 bis cod. civ. indica specificatamente i crediti che godono di privilegio generale, quali quelli
per retribuzione da lavoro o provvigioni. Nel caso di specie la proposta di transazione fiscale veniva offerta in
pagamento, con riferimento ai crediti tributari, una percentuale dell’89%, mentre per i crediti per retribuzione
da lavoro subordinato veniva previsto un pagamento pari al 90%.
(3) In relazione alla percentuale, ai tempi di pagamento ed alle eventuali garanzie.
70
Il diritto fallimentare e delle società commerciali
Si osserva in via preliminare come il debitore sia gravato di un onere
probatorio particolarmente stringente quanto alla prova della fattibilità
del piano e alla veridicità dei dati aziendali, prova che dev’essere data, oltre
che con la produzione della documentazione di cui all’art. 161, comma 2,
anche e soprattutto attraverso la relazione di un professionista indipendente
ed imparziale; il tribunale, però, non è vincolato a tale prova proprio perché, come tutte le prove dev’essere valutata e ogni valutazione non può che
entrare nel merito della proposta e, quindi, anche della relazione del professionista ove il Tribunale dovesse ritenere che la medesima, non fornisca sufficienti e tranquillizzanti elementi per ritenere che il piano sia fattibile e/o i
dati aziendali non siano veridici (ciò risulta coerente con la possibilità di
concedere al debitore un termine non superiore a quindici giorni (termine
concesso nel caso concreto) per apportare integrazioni al piano e produrre
nuovi documenti, e cioè porre in essere un’attività che non può che essere
conseguente, com’è del tutto evidente, a contestazioni sollevate proprio in
ordine alla fattibilità e/o veridicità dei dati aziendali).
In tale prospettiva interpretativa si rende sempre prospettabile e possibile la nomina di un CTU al fine di verificare in concreto la fattibilità (id est
«la tenuta») del piano proposto.
Pertanto, anche seguito delle modifiche apportate dal d.lgs. 169/2007
rispetto alla l. 80/2005, il controllo del Tribunale non è più limitato entro
i limiti della verifica della «completezza e regolarità della documentazione»,
ma è stato «ricalibrato», confermando un potere tradizionalmente riconosciutogli e cioè quello della verifica nel merito della fondatezza (cioè della
fattibilità) della proposta.
In altre parole – cosı̀ come osservato in dottrina – se proprio si vuole
parlare di privatizzazione della procedura, si può solo affermare che è stato
«privatizzato» il requisito della convenienza nel senso che, ora, la suddetta
valutazione rientra nella discrezionalità del ceto creditorio che la esprime
attraverso la votazione.
Al contrario non è stato, invece, «privatizzato» il requisito del controllo
della fattibilità del piano: sotto tale profilo, la funzione pubblicistica deve
essere individuata nel fatto che i creditori devono essere messi nelle condizioni di votare in modo informato sulla proposta e tale obiettivo non può
raggiungersi che consentendo al tribunale un vaglio della fattibilità.
Al Tribunale viene, pertanto, riservato oltre che un controllo di legittimità – con riferimento alla sussistenza dei presupposti di ammissibilità del
giuridica o interessi economici omogenei a quelli delle agenzie fiscali. Secondo il Tribunale di
Piacenza, infatti, i crediti tributari e quelli dei lavoratori avrebbero il medesimo grado di privilegio, trattandosi in entrambi i casi di privilegio generale; né sembrerebbe rilevare, a seguire
Parte II - Giurisprudenza
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concordato [su cui cfr. infra par. 1), 2) e 3)], anche un giudizio di fattibilità
del medesimo che costituisce la concreta idoneità della proposta concordataria a realizzare le complesse ipotesi dell’art. 160 legge fallim. attraverso strumenti astrattamente idonei e giuridicamente leciti: si tratta di un vaglio che
deve essere fatto una prima volta con l’ammissione, integrando essa uno dei
presupposti o fatti costitutivi della procedura concordataria, ma che può essere effettuato nuovamente fino all’omologa (in tal senso cfr. Tribunale di
Palermo, Sez. IV, decr., 18 maggio 2007 Pres. Marino – Rel. Nonno – Legno Market F.lli Scalia soc. a resp. lim., in Il fallimento, 2008 pag. 75 seg.,
secondo cui «in sede di omologazione, il collegio deve compiere una nuova
verifica dei requisiti di ammissibilità previsti dalla legge e già sommariamente esaminati nel decreto emesso in epoca immediatamente successiva al deposito del ricorso, nel contraddittorio con le parti dissenzienti»); in tale sede
potrà, in ogni caso, essere effettuato un giudizio ex art. 173 legge fallim.
Ritiene il Tribunale, come già sopra evidenziato, che poiché rientra nella
propria competenza anche un giudizio in ordine alla fattibilità del piano
concordatario (in giurisprudenza tale giudizio è stato definito come «resistente»: in tale senso, tra le altre: Tribunale Sulmona 6 giugno 2005, decr.,
in Fall., 2005, 793; Tribunale Pescara 20 ottobre 2005, ivi, 2006, 56; Tribunale Milano 2 ottobre 2006, decr., ivi, 2007, 331; Appello Bologna 30 giugno 2006, ivi, 2007, 470, s.m.; in dottrina cfr. Rago, I poteri del tribunale
sul controllo della fattibilità del piano nel concordato preventivo dopo il decreto correttivo, in Il fallimento, 2008 pag. 264, secondo cui «In altri termini, già a livello di interpretazione letterale, il cambiamento di rotta impresso
dal d.lgs. 169/2007 rispetto a quello della l. 80/2005, è notevole perché,
ora, il controllo del Tribunale non è più limitato entro gli angusti limiti della
verifica della «completezza e regolarità della documentazione», ma si riappropria di quello che era sempre stato un potere tradizionalmente riconosciutogli e cioè quello della verifica nel merito della fondatezza (rectius: la
fattibilita‘») della proposta), appare preliminare verificare la sussistenza dei
presupposti di ammissibilità del concordato nel caso concreto, consistente
nella «completezza» della documentazione.
Come già ricordato è stato infatti permessa la integrazione della documentazione mancante al momento della presentazione del ricorso, concedendo al ricorrente un termine ulteriore di 15 giorni ed un ulteriore termine
di giorni 10 per depositare memorie integrative.
detto ragionamento, il combinato disposto degli artt. 2777 e 2778 cod. civ., secondo cui i crediti di cui all’art. 2751 bis cod. civ., tra cui quelli da lavoro, sono sempre preferiti agli altri
crediti. Ad opinione del Tribunale, infatti, tali norme non farebbero riferimento al grado
del privilegio, ma prevedrebbero semplicemente un ordine di pagamento dei crediti assistiti
da privilegio generale. Ciò significherebbe, in altri termini, che il privilegio avrebbe solamente
72
Il diritto fallimentare e delle società commerciali
Pertanto, in via preliminare il sindacato del Tribunale non può prescindere da una verifica di completezza e di regolarità della documentazione
prodotta e prevista a pena di inammissibiltà.
Tale controllo che deve essere attento e puntuale, (sotto i profili di completezza e di regolarità) e deve avere ad oggetto – in primo luogo – la documentazione allegata al ricorso, ed in particolare la relazione di accompagnamento del professionista ex art. 161 legge fallim., la quale – come è noto
– deve attestare:
a) la veridicità dei dati aziendali;
b) la fattibilità del piano, ai sensi dell’art. 161, comma 3 legge fallim.
È dato acquisito e da tempo evidenziato in dottrina ed in giurisprudenza, che tale relazione si articola in un duplice contenuto; di attestazione di
veridicità (sul piano della verifica di rispondenza del dato esposto a quello
effettivamente risultante e quindi dell’esatta e completa informazione) e di
fattibilità del piano (sul diverso piano della capienza delle risorse offerte,
rispetto al fabbisogno e pertanto della prognosi di realizzazione).
L’operazione interpretativa da compiere è allora quella di intendere se
questo (duplice) contenuto sia interamente rimesso al sindacato del tribunale, ovvero se soltanto la sua prima parte (informativa): e ciò, si ribadisce,
alla luce della necessaria verifica di completezza e di regolarità della documentazione.
In questa prospettiva, il controllo giudiziario con riferimento alla relazione del professionista ex art. 161 legge fallim. deve avere ad oggetto:
1. il profilo della regolarità, sull’accertamento della rispondenza dei dati
considerati ed attestati dal professionista qualificato, ai sensi dell’art. 161,
comma 3 legge fallim., alla documentazione di supporto o degli elementi
comunque acquisiti;
2. sotto il profilo della completezza, sull’accertamento dell’offerta di
un’informazione, esauriente ed argomentata, dell’effettiva situazione economica e finanziaria del debitore richiedente, in relazione al piano proposto ai
creditori, di modo che esso sia davvero (e non soltanto apparentemente o
apoditticamente) spiegato, sulla base di un’indicazione, critica e ragionata
(con illustrazione dei criteri e delle metodologie di controllo seguite), dei
mezzi offerti rispetto agli obiettivi perseguiti (cfr. in giurisprudenza Tribunale Palermo 17 febbraio 2006, decr., in Fall., 2006, 570).
La finalità di questa informazione, garantita nella chiarezza (perché
grado generale o speciale, senza che sia possibile una ulteriore classificazione in grado all’interno di dette categorie. Da qui la immediata conseguenza di considerare la transazione fiscale come capace di prevedere il pagamento percentuale solo per i crediti assistiti da privilegio
speciale.
Parte II - Giurisprudenza
73
comprensibile nelle sue fonti e nella sua rappresentazione), nella genuinità e
nell’esaustività oltre che dall’attento e critico sindacato del tribunale, trova
la sua giustificazione nel fatto che la stessa è destinata alla formazione di un
reale «consenso informato» dei creditori, posti cosı̀ in condizione di esprimere il loro libero convincimento, con una volontà non viziata (cfr. Tribunale Ancona 13 ottobre 2005, in Fall., 2005, 1405).
Da ciò deriva che al Tribunale è ora riconosciuto dalla legge fallimentare non meramente formale, bensı̀ di controllo di legalità che si estrinseca
anche nella sussistenza della fattibilità del piano: pertanto il compito del
Tribunale è quello di garantire – in primo luogo – che venga fornita una
corretta, chiara, completa, veridica ed esaustiva, informazione ai creditori,
a garanzia della genuina e consapevole possibilità di formazione dell’accordo tra il debitore ed i suoi creditori.
Pertanto se è evidente che l’obbligo di giudicare l’attendibilità dei dati
contabili e la fattibilità del piano sono attribuiti dal legislatore al professionista esterno all’impresa, il giudizio su tale relazione deve essere estremamente rigoroso da parte del Tribunale, in quanto è altresı̀ evidente che la
relazione del professionista è quindi la prima (e forse l’unica) garanzia della
serietà della proposta concordataria.
In questa prospettiva va letto un autorevole intervento dottrinale secondo il quale i creditori «...non possono che confidare principalmente nella
competenza, nell’onestà, e nell’effettiva autonomia dell’esperto (peraltro di fiducia del debitore e vincolato sostanzialmente ai dati contabili da questi forniti)».
Conseguentemente – ad avviso del Tribunale – il professionista non deve limitarsi ad una formale verifica della regolarità della documentazione
ma deve – al fine di tutelare i creditori – svolgere un controllo di merito
verificando – ad esempio – la congruenza tra i dati contabili allegati alla
proposta di concordato preventivo e la contabilità effettiva.
La soluzione da ultimo fornita appare coerente con il fatto che nel sistema novellato, la relazione del professionista sostituisce il deposito delle scritture contabili, cosı̀ come la sua attestazione di fattibilità sostituisce l’accertamento che nel precedente sistema il Tribunale doveva operare in base al
combinato disposto degli artt. 161 e 162, comma 1, primo periodo: un accertamento che proprio su quelle scritture (allo stato non più presenti) si
fondava e che materialmente veniva effettuato – nell’esperienza del Tribu-
Diversamente le sentenze emesse dai Tribunali di Mantova e Pavia, pur riconoscendo
che i crediti dei lavoratori e quelli dell’erario godano del medesimo privilegio generale, sostengono che il diverso ordine di soddisfazione di determinati crediti, enunciato dagli artt.
2777 e segg. cod. civ., dimostra una posizione giuridica non omogenea, giustificata, a seguire
74
Il diritto fallimentare e delle società commerciali
nale di Piacenza – mediante redazione di CT (in cui il CT veniva, tuttavia,
nominato dal Tribunale).
L’importanza della relazione sotto questo aspetto, pertanto, emerge dalla circostanza che, tale relazione costituisce un filtro preventivo, diretto ad
impedire ammissioni facili di procedure destinate ad esito infausto, ma che,
per il solo fatto della intervenuta ammissione, nel frattempo sarebbero idonee
a porre in essere effetti paralizzanti delle azioni dei creditori.
Del resto, che la relazione debba essere vagliata attentamente e con
estremo rigore da parte del Tribunale, risulta confermato anche dall’ulteriore circostanza, evidenziata in dottrina, che il professionista asseveratore non
ha alcuna ulteriore veste nel corso della procedura: egli non solo non compare alla adunanza dei creditori, ma non partecipa nemmeno al giudizio di
omologazione.
Le affermazioni rese in ordine ai dati aziendali, pertanto, se non adeguatamente motivate e controllare, rischiano di rimanere, nell’ambito della procedura, come un dato intangibile per anni.
In merito al livello di approfondimento della relazione del professionista
osserva il Tribunale come si siano delineati tre orientamenti prima del decreto correttivo n. 169/2007:
a) da parte di alcuni (cfr. Tribunale Torino, sentenza 17 novembre 2005
n. 436/2005, in Il Fallimento, 2006, 691) si osservava che, era necessario
soltanto che nelle attestazioni del professionista compisse una motivata assunzione di responsabilità (essendo il livello di approfondimento della sua
relazione rimesso alla sua discrezionalità professionale); quindi, non era sufficiente che il professionista attestasse che i dati esposti erano stati reperiti
nella contabilità dell’imprenditore perché occorreva anche che egli effettuasse una motivata assunzione di responsabilità in ordine al risultato, in ordine alla veridicità dei dati aziendali ed alla fattibilità del piano, tale da qualificarla come non meramente apparente;
b) altra giurisprudenza (Tribunale di Ancona, decr. 13.10.2005, Pres.
L. Moretta Rel. E. Ragaglia, in il Fallimento, 2005, 1405), rivendicando
invece al Giudice il «...ruolo di controllore formale della esistenza di un
valido consenso...», riteneva che il controllo giudiziario si dovesse estendere alla verifica del fatto che «i creditori ... siano posti in condizione
di esprimere il proprio libero convincimento sulla base di un’effettiva co-
l’orientamento in esame, da un differente rilievo economico e sociale che hanno determinati
crediti. In ipotesi di transazione fiscale, pertanto, il criterio indicato dall’art. 182 ter legge fallim. potrebbe dirsi rispettato qualora si preveda un trattamento differenziato dei crediti muniti di privilegio generale, purché sia rispettato l’ordine di soddisfazione di cui agli artt. 2777
e segg. cod. civ.
Parte II - Giurisprudenza
75
noscenza della situazione prospettata dal debitore, cosı̀ che la volontà non
ne risulti viziata».
c) da parte di altri Giudici di merito si (cfr. Tribunale di Messina, seconda sezione civile, decreto 29 dicembre 2005) si evidenziava come nella relazione il professionista dovesse: I) attestare «la veridicità dei dati aziendali
e la fattibilità del piano medesimo»; II) rendere «...ricostruibile l’iter logico... posto a base delle sue valutazioni...» dando «...conto dei riscontri e
della documentazione esaminata, nonché della metodologia seguita nei controlli effettuati...»; III) compiere una serie di controlli «...articolati nelle seguenti fasi: 1) accertamento delle scritture contabili e della regolare tenuta
dei libri sociali obbligatori, 2) controllo (sia formale che sostanziale) della
rispondenza dei dati esposti nella situazione economico finanziaria della società, prodotta a sostegno della proposta di concordato, con le scritture
contabili del corrente anno; rilevazione del contenuto dei verbali di verifica
redatti dal Collegio Sindacale e delle relazioni di quest’ultimo organo per
verificare l’attendibilità delle scritture contabili e dei libri sociali, nonché
la corretta redazione dei bilanci di esercizio chiusi negli anni precedenti
al presente; controllo incrociato delle esposizioni debitorie al 30 settembre
2005 attraverso il riscontro della documentazione contabile d’appoggio della debitrice con i documenti provenienti dagli stessi creditori; 3) riesame del
passivo e predisposizione del prospetto relativo al «passivo rettificato» allegato alla proposta; indicazione, infine, delle passività potenziali, riferibili a
contenziosi pendenti o prevedibili; 4) attestazione della veridicità dei dati
aziendali e della fattibilità del piano medesimo; dar «...conto dei riscontri
e della documentazione esaminata, nonché della metodologia seguita nei
controlli effettuati...».
La soluzione più rigorosa appare – a giudizio del Tribunale – preferibile, in quanto – alla luce di quanto sopra sottolineato ed evidenziato circa la
necessità di una corretta informazione al creditore – egli non riceve una
proposta di concordato preventivo dal debitore, bensı̀ una convocazione
da parte del Commissario Giudiziale nelle forme descritte dall’art. 171 legge fallim. ed ha quindi la ragionevole aspettativa di avere di fronte un documento sul quale poter riporre la propria fiducia in quanto da lui comunque avvertito come di provenienza giudiziale e dallo stesso Tribunale preventivamente valutato in modo favorevole ai fini dell’ammissibilità della procedura.
Appare opportuno, a questo punto, al fine di meglio comprendere e valutare le argomentazioni espresse dalle sentenze offerte in rassegna, analizzare l’istituto del privilegio nella
sua definizione del codice civile e conseguentemente indagare sul richiamo, da parte della legge fallimentare, al grado del privilegio.
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Il diritto fallimentare e delle società commerciali
Ad avviso del Tribunale, pertanto, il vaglio dell’affidabilità della proposta deve essere sempre rigoroso anche alla luce delle modifiche apportate dal
d.lgs. n. 169/2007 (anche perché chi sarà ammesso alle nuove procedure di
concordato preventivo non è e non sarà soltanto l’imprenditore individuale
onesto e sfortunato ma, potenzialmente, anche la persona giuridica reduce
da speculazioni compiute con limitato capitale di rischio; cfr. in tal senso
Tribunale di Roma 24 aprile 2008 – Pres. Severini, Est. La Malfa, secondo
cui «Nella fase di ammissione del concordato preventivo, al tribunale fallimentare compete un controllo di merito sulla veridicità dei dati esposti e
sulla fattibilità del piano. L’esistenza di tale controllo è stata vieppiù confermata dalle modifiche apportate dal d.lgs. n. 169/2007 posto che i) all’art.
162 legge fallim. è prescritto che il tribunale, decidendo in sede di ammissione, deve verificare i presupposti previsti dall’art. 161, tra i quali la veridicità dei dati aziendali e la fattibilità del piano; ii) nell’art. 163 è stato abrogato l’inciso «verificata la completezza e la regolarità della documentazione», cui la dottrina e la giurisprudenza contrarie riconducevano, sul piano
letterale, la volontà normativa di restringere il campo d’indagine del tribunale alla sola correttezza formale e documentale della proposta).
Appare dunque preferibile e condivisibile quell’orientamento giurisprudenziale secondo cui «sempre a proposito della relazione del professionista va
detto che appare opportuna l’assimilazione dell’attestazione in essa contenuta
alla verifica e al giudizio al quale è tenuto il revisore contabile delle società per
azioni ai sensi dell’art. 2409-ter lett. b) e lett. c), atteso che, come quella, deve
articolarsi in diverse fasi (ispettivo – ricognitiva, valutativa della regolarità,
comminatoria, con pubblica esplicitazione del giudizio espresso) e necessita
della possibilità di ricostruire i controlli effettuati».
In tale prospettiva interpretativa va richiamato anche un altro orientamento (cfr. Tribunale di Palermo, C. P. 1/2006, Decreto del 17 febbraio
2006, Pres. V. I. Marino, Rel. G. M. Nonno, in Il Fallimento, 2006, 571),
ove si è precisato che la relazione ex art. 161, comma 3, legge fallim., nell’attestare la veridicità dei dati aziendali nonché la fattibilità del piano, deve
necessariamente dar conto dell’iter logico-argomentativo utilizzato dei criteri e
delle metodologie seguite in concreto, alla luce delle moderne tecniche di revisione contabile, per la formulazione del relativo giudizio.
Si affaccia, a questo punto, il quesito se il professionista che redige la
relazione ex art. 161 legge fallim. assuma una qualificazione pubblicistica.
Come è noto, il nostro sistema di responsabilità patrimoniale si fonda sul principio della
par condicio creditorum, che trova espressa manifestazione nell’art. 2741 cod. civ., secondo il
quale i creditori «hanno eguale diritto di essere soddisfatti sui beni del debitore», il quale a
sua volta «risponde dell’adempimento delle obbligazioni con i suoi beni presenti e futuri».
Come sembra chiaro sin da una prima lettura, l’applicazione concreta di tali norme deve
Parte II - Giurisprudenza
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Il Tribunale è consapevole della varietà di opinioni sorte in dottrina ed
in giurisprudenza in ordine a tale aspetto.
Va tuttavia evidenziato che il controllo che il Commissario della procedura svolge, stando al testo letterale della riforma (art. 172), si risolve in una
sommaria verifica di sostanza quanto alla tenuta ed all’attendibilità delle
scritture contabili e che al professionista è assegnato – come sopra ricordato
– un compito di tutela degli interessi sicuramente non formale.
A favore di un ruolo «pubblico» del professionista che redige la relazione
ex art. 161 legge fallim. milita il collegamento con il Commissario che è
espressamente definito pubblico ufficiale (art. 165) e – per il medesimo richiamo dell’art. 28 – l’estraneità dagli interessi del privato committente.
Secondo alcuni autori, la funzione chiaramente certificativa della relazione del professionista, quanto alla «veridicità» dei dati aziendali esposti
dal ricorrente, la quale costituisce il fondamento delle valutazioni disponibili per i creditori e dell’AG in ordine all’ammissibilità della procedura.
Infine, la disciplina derivante dalle norme di diritto pubblico, quali sono
quelle contenute nella legge fallimentare protesa alla soluzione di plurimi e
configgenti interessi concorsuali ed alla disciplina, anche penale, delle evidenziate patologie.
A ciò si aggiunga che tali elementi appaiono avvalorati nel caso concreto, ove il Tribunale ha ritenuto di devolvere al professionista la specificazione di punti non ritenuti esaurientemente raccolti nel primo elaborato, a tale
richiesta il professionista ha risposto depositando una elazione integrativa;
in casi quale quello oggetto del presente giudizio, pertanto, si viene a determinare una relazione, assai più stretta e qualificata con il Tribunale, al quale
in sostanza, il professionista fornisce una risposta ad una precisa domanda.
In tal caso il professionista viene, in definitiva, a rivestire una funzione
di consulenza (seppure impropria) a favore della procedura, con le possibili
responsabilità descritte dall’art. 64 cod. proc. civ.
Tale considerazione rileva – indubbiamente – anche per qualificare la
necessariamente essere riferita alla fase di realizzazione coattiva del credito (4) particolarmente nel caso di mancanza di solvibilità e capienza del patrimonio del debitore. Proprio in tale
circostanza si manifesta il conflitto di interessi, esistente tra i vari creditori, la cui aspettativa
di integrale soddisfazione del credito si scontra necessariamente con l’insufficienza dell’attivo
patrimoniale a soddisfare tutti i creditori (5).
(4) V. in argomento Nicolò, Responsabilità patrimoniale, sub artt. 2740-2741, in Commentario del codice
civile diretto da Scialoja e Branca, Bologna-Roma, 1955.
(5) V. tra gli altri Ciccarello, Privilegio del credito e uguaglianza dei creditori, Milano, pag. 13 e seg.
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Il diritto fallimentare e delle società commerciali
natura della relazione resa dal professionista: anche nell’ipotesi in cui egli
sia ritenuto soggetto privato, difficilmente potrà negarsi la fattispecie di
cui all’art. 483 c.p., in quanto la relazione è diretta al Tribunale ed è destinata a provare la veridicità dei dati aziendali.
In ogni caso – deve richiamarsi la funzione di consulenza nell’interesse
della procedura che, di fatto, svolge il professionista di ci all’art. 161 legge
fallim.: discorso che non risulta inappropriato se si considera che, per quanto attiene alla limitrofa disciplina del piano di risanamento, l’art. 67 comma
2 lett. d) dispone un richiamo espresso all’art. 2501 bis cod. civ., il quale a
sua volta rinvia alla figura dell’esperto suscettibile di sanzione penale (sia a
titolo di consapevole falsità peritale sia a titolo di colpa grave nella sua redazione) ex art. 64 cod. proc. civ., essendo parificato al consulente tecnico
nominato nel processo civile dal giudice.
Alla luce dei principi interpretativi sopra richiamati occorre ora accertare, in fatto, il grado di «livello informativo» della relazione depositata in
data 7 maggio 2008 fornito dal professionista incaricato dalla ***soc. per
az. in liquidazione anche alla luce delle precisazioni depositate in data 28
giugno 2008.
Osserva il Tribunale come nel caso di specie il professionista nella relazione ex art. 161 si limiti ad affermare la «sostanziale veridicità» dei dati
aziendali senza predere esplicità posizione in ordine alla veridicità formale
(cfr. relazione dott.ssa *** ove a pag. 17 si legge «...che i dati esposti dalla
società ***soc. per az. in liquidazione nel ricorso con il quale ha richiesto l’ammissione al concordato preventivo, riferiti alla data del 17.3.2008, tenuto conto delle variazioni apportate nella presente relazione, nei limiti e con tutte le
riserve esposte nella presente attestazione che dovranno essere sciolte entro
la data comunicata da codesto spett. Tribunale, sono sostanzialmente veridici ed atti a permettere la comprensione, indirizzata ad esprimere un giudizio sulla fattibilità del piano, nel senso che i valori di realizzo esposti sono
ragionevoli e quindi realizzabili sul mercato»).
Ad avviso del Tribunale l’attestazione fornita dal professionista nel caso
concreto non coincideva con quanto richiesto dalla legge, la quale prevede
che il professionista non solo fornisca una illustrazione dei dati aziendali finalizzata al voto favorevole o contrario dei creditori, ma certifichi la veridicità dei dati; pertanto il professionista che redige la relazione ex art. 1616
legge fallim. – con la dichiarazione di «veridicità» – si assume la responsa-
In tale situazione, il principio di uguaglianza della par condicio è mitigato dalla esistenza
di cause legittime di prelazione, legate, in alcuni casi, all’incidenza dell’autonomia privata, in
altri, all’esigenza da parte dell’ordinamento di riservare un trattamento differenziato e privilegiato per alcune particolari situazioni creditorie.
Parte II - Giurisprudenza
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bilità di attestare che i dati aziendali (fra cui rientrato anche le scritture contabili) sono oltre che «sostanzialmente», anche «formalmente» veritieri.
Nel caso concreto, come si ricava da quanto sopra riportato, il giudizio
di «veridicità» espresso in un primo momento dal professionista incaricato
ex art. 161 legge fallim. era elusivo tali principi, limitandosi ad accertare la
«sostanziale» veridicità, ed inoltre appare sottoposto a «limiti» e «riserve»
(cfr. rel. cit. «...nei limiti e con tutte le riserve esposte nella presente attestazione che dovranno essere sciolte...»), che non sono compatibili con i principi di chiarezza ed esaustività sopra richiamati.
Del resto – come sopra ampiamente osservato – è proprio sulla base di
tale attestazione di «veridicità» del professionista che viene effettuato un
primo giudizio di ammissibilità – anche alla luce delle eventuali verifiche
ex art. 173 legge fallim. che possono essere effettuate fino alla dichiarazione
di omologa del concordato – da parte del Tribunale. (cfr. in tal senso cfr.
Trib. Torino 30 novembre 2006), affermando che «...la relazione, essendo
diretta a sostituire l’attività istruttoria del Tribunale e a garantire che i creditori siano adeguatamente e correttamente informati sugli esatti termini
della proposta, non può essere un ...mero atto di fede dei dati aziendali»).
Pertanto, ad avviso del Tribunale è evidente che, se al professionista che
redige la relazione ex art. 1616 legge fallim., viene demandata l’attestazione
della veridicità dei dati aziendali, ciò non può che essere il risultato di una
verifica puntuale ed analitica dei medesimi e quindi anche delle scritture contabili.
Limitarsi, pertanto, a riferire che i dati contabili sono «sostanzialmente
veritieri» (nei limiti e con tutte le riserve esposte nella presente attestazione
che dovranno essere sciolte), significa eludere la precisa funzione di garanzia
che la legge ha attribuito alla relazione ex art. 161 legge fallim. ed al ruolo
del professionista nel «nuovo» concordato preventivo.
L’art. 2741 cod. civ. colloca il privilegio tra le cause legittime di prelazione (6), mentre
l’art. 2745, rubricato «fondamento del privilegio», stabilisce che la ragione giustificativa
del privilegio deve essere rintracciata nella «causa» (7) del credito. In forza di una valutazione,
sul piano economico e sociale, delle esigenze di protezione di determinate posizioni credito-
(6) Cfr. Di Sabato, I privilegi, in Trattato di diritto civile del Consiglio Nazionale del Notariato diretto da
Perlingieri, Napoli, 2008, pag. 29 e seg.
(7) La causa di cui si tratta in argomento «si scioglie nei termini di giustificazione etica della determinazione
normativa» (cosı̀ Ciccarello, op. cit., pag. 26, nota 34) ed è pertanto profondamente diversa dal concetto di
causa quale elemento essenziale del contratto. La causa del credito quale fondamento del privilegio «si identifica
con la ratio legis e costituisce la motivazione che è a sostegno dell’intervento normativo diretto ad accordare il
privilegio», cosı̀, testualmente, Di Sabato, op. cit., pag. 32.
80
Il diritto fallimentare e delle società commerciali
Va da ultimo evidenziato che figura del professionista è qui richiamata –
atteso il contesto sistematico – non per il rapporto fiduciario che lo lega
al cliente, bensı̀ per la sua competenza professionale: anche perché quale tecnico ed esperto è posto in un regime di indipendenza tra il versante degli
interessi del debitore e quello proprio dei creditori (pertanto, il professionista dovrà sottoporre a vaglio l’informazione fornita dal debitore, non bastando sicuramente che l’attestazione di veridicità si limiti al riscontro della
provenienza dal ricorrente del dato).
Il professionista assume, quindi, la funzione di garante nell’interesse non
tanto del debitore/proponente quanto degli interessi dei terzi.
In tal senso si è espressa recentemente anche la dottrina, (cfr. Genoviva,
I limiti del sindacato del tribunale nel concordato preventivo alla luce del
«correttivo», in Il Fallimento, n. 6/08 pag. 688 seg.) la quale, al fine di chiarire i limiti del sindacato del tribunale nella fase iniziale della procedura di
concordato preventivo, ha affermato che «...a norma dell’art. 162 legge fallim., cosı̀ come modificato dal d.lgs. n. 169/2007, il tribunale deve verificare
la sussistenza dei «presupposti» di cui all’art. 161 legge fallim., tra i quali vi
è appunto la relazione dell’esperto, attestante la veridicità dei dati aziendali
e la fattibilità».
Secondo la citata dottrina «...l’art. 162 legge fallim., nel condizionare
l’esito positivo del giudizio di ammissibilità alla accertata ricorrenza di determinati «presupposti», ricomprende tra questi l’attestazione dell’esperto
sulla veridicità dei dati aziendali e sulla c.d. «fattibilità» del piano, correttamente da intendersi come un «requisito attinente alla costituzione e allo
svolgimento del rapporto processuale», nello specifico della procedura di
rie, la legge stabilisce che un credito debba essere preferito, nella sua soddisfazione, rispetto
ad altri crediti cui, evidentemente, la legge attribuisce una minore rilevanza sociale (8).
Il privilegio altro non è, insomma, che una previsione da parte del legislatore (9) il quale,
in relazione alla natura ed al valore sociale di un determinato credito, stabilisce una graduazione tra i crediti, attribuendo ad alcuni un trattamento preferenziale (10).
(8) Cfr. Miglietta-Prandi, I privilegi, in Giurisprudenza Sistematica di Diritto Civile e Commerciale, fondata da Bigiavi, Torino, 1995, p.25 e seg.
(9) La legge è dunque fonte del privilegio, anche quando scaturisce dalla volontà dei privati, in quanto il
privilegio «attinge il suo fondamento immediatamente nella volontà del legislatore», cosı̀ Gaetano, I privilegi, in
Trattato di diritto civile diretto da Vassalli, Torino, 1956, pag. 53.
(10) Secondo Andrioli, sub art. 2745, in Commentario del codice civile diretto da Scialoja e Branca, Bologna-Roma, 1956, pag. 58 e seg., è anzi proprio in riferimento agli effetti di cui all’art. 2741 cod. civ. che si può
individuare il dato caratterizzante del privilegio. Secondo Ciccarello, op. cit., pag. 25, la causa del credito e la
prelazione sono due elementi intrinseci alla struttura, capaci di descrivere e caratterizzare il privilegio, mentre la
provenienza legislativa è una qualità dello stesso.
Parte II - Giurisprudenza
81
concordato preventivo. È allora logico e coerente ritenere che l’oggetto del
giudizio di ammissibilità da parte del tribunale non possa essere la mera esistenza materiale del «documento»-relazione del professionista incaricato
dall’imprenditore, ma il suo contenuto, cioè l’attestazione sulla veridicità
dei dati aziendali e sulla prospettata fattibilità del piano. In altri termini,
lo screening da parte dell’autorità giudiziaria non può e non deve limitarsi
alla constatazione dell’allegazione tra i documenti di cui all’art. 161 legge
fallim. della relazione dell’esperto, ma deve avere come oggetto proprio il
contenuto dell’attestazione di veridicità dei dati aziendali e contabili esposti
e della prognosi di coerenza e concretezza del piano in essa contenuta».
Secondo tale autore «...lo scopo della relazione dell’esperto ex art. 161
legge fallim. non può essere altro che quello di fornire al tribunale elementi
di giudizio sulla veridicità dei dati aziendali posti a base della proposta concordataria e sulla concreta fattibilità e praticabilità della stessa, al fine di verificare l’esistenza di tali fondamentali presupposti di ammissibilità della
proposta stessa. È infatti evidente che dati aziendali incompleti, lacunosi
o addirittura falsi e/o ingannevoli rendono del tutto inattendibile la ricostruzione del patrimonio e dei debiti dell’imprenditore ed impediscono
ogni verifica sulla serietà stessa della proposta concordataria, mentre è
del pari evidente che un piano inattuabile o non idoneo a garantire ai creditori quelle utilità promesse non può trovare ingresso e spazio, sin dalle
prime battute della procedura».
Evidenzia poi il citato autore come le esigenze di speditezza della procedura non possono portare all’ulteriore ed aberrante conclusione «...che il
tribunale debba limitarsi a prendere acriticamente per buone le conclusioni
del professionista, senza poter autonomamente valutare, sia pure sulla scorta del solo materiale fornito allo stesso imprenditore, se sussistano o meno i
fondamentali presupposti di ammissibilità della procedura costituiti dalla
Cosı̀ ricostruendo il fenomeno, la causa del credito giustifica la collocazione preferenziale
nell’ambito dei crediti che il debitore è tenuto a soddisfare con il suo patrimonio (11) ed il
privilegio consente una graduazione di preferenza tra interessi creditori tra loro configgenti
e concorrenti (12). La legge, in altri termini effettua un giudizio di meritevolezza sul diritto
di credito e, cogliendone un valore preminente, stabilisce, in ragione della sua ragione giustificativa, che quella determinata fattispecie debba godere di una tutela poziore nel confronto
con gli interessi degli altri creditori (13).
(11) Cosı̀ Ciccarello, op. cit., pag. 27.
(12) Cfr. Di Sabato, op. cit., pag. 106.
(13) Si può dire, in breve, che dove c’è privilegio vi è uno spazio sottratto al regime di uguaglianza in senso
formale (di cui all’art. 3, comma 1, Cost.). Cosı̀ Ciccarello, op. cit., pag. 29.
82
Il diritto fallimentare e delle società commerciali
veridicità e trasparenza dei dati aziendali esposti e dalla concreta fattibilità
del piano proposto. Se tali requisiti difettano, è giusto arrestare la procedura sin dal suo nascere, con tutte le ulteriori conseguenze previste dall’art.
162 legge fallim.» (cfr. Genoviva, op. cit.).
Va peraltro osservato che la dott.ssa *** nella relazione del 28 giugno
2008 ha tuttavia precisato che «...le poste indicate dalla società nel ricorso
siano state verificate ed analiticamente esposte nella attestazione del professionista, che pertanto, in questa sede se ne intende confermarne la effettiva ed
esistenza veridicità con i limiti sopra indicati. In altre parole i dati esposti
da ***soc. per az. in liquidazione sono certificati come veridici, ma la sottoscritta non può indicare come valore assoluto e indiscutibile ciò che è oggetto di
valutazione».
Tale ultima precisazione appare idonea a superare le insuficienze della
relazione alla luce delle considerazini sopra espresse ed indicate nell’udienza del 18 giugno 2008, poiché il professionista si è assunto, con tale dichiarazione, la responsabilità in ordine alla veridicità dei dati aziendali della società ricorrente.
Va altresı̀ rilevato che in modo del tutto corretto la dott.ssa *** ha evidenziato nell’integrazione del 28 giugno 2008 (cfr. pag. 4) come sia stato avviato
il procedimento di dichiarazione di interesse culturale nei confronti dell’immobile denominato Complesso industriale già *** in data 4 giugno 2008 e
quindi successivamente all’inizio della presente procedura, circostanza che
potrà verosimilmente rendere meno appetibile dal punto di vista commerciale l’immobile stesso e quindi portare ad un ridimensionamento dei valori di
stima.
Ad avviso del Tribunale, tuttavia, sussistono – pur alla luce delle precisazioni contenute nella memoria del professionista e del difensore del 28
giugno 2008 – altre cause di inammissibilità della procedura che vengono
di seguito esposte:
1) Mancato rispetto dei criteri di pagamento previsti dall’art. 182 ter legge
fallim. Inammissibilità del concordato. Aspetti di non fattibilità del piano. –
A) Nel caso di specie – come si ricava dalla integrazione depositata – sussi-
Ma nonostante tale impostazione sembra configurare una eccezione al principio di uguaglianza, di cui la par condicio creditorum è espressione, in realtà la presenza di privilegi nel
nostro ordinamento è in perfetta aderenza al principio di uguaglianza sostanziale di cui all’art.
3 Cost., in forza del quale a fronte di diversità di fattispecie e situazioni è necessario fornire
risposte e trattamenti diversi (14).
(14) Cosı̀ ancora Ciccarello, op. cit., pag. 45.
Parte II - Giurisprudenza
83
stono crediti erariali muniti di privilegio generale per euro 1.589,13 (cfr.
certificazione Equitalia ex art. 182 ter legge fallim. aff. 50) e per tali crediti
viene previsto il pagamento nella misura dell’89% a fronte della percentuale
del 90% prevista per la categoria «professionisti ed artigiani» (classificati
come classe 4); per gli altri crediti tributari che vengono definiti come «debiti erario potenziali» (cfr. pag. 2 memoria integrativa 28 giugno 2008, dott.
***) viene previsto il pagamento nella misura del 31% (cfr. ricorso pag. ...).
Occorre pertanto domandarsi, in via preliminare, in quali termini la
transazione fiscale di cui all’art. 182 ter legge fallim., possa essere esercitata
e, soprattutto, a quali condizioni possa essere positivamente recepita nella
fase di ammissione della procedura.
È infatti indubbio che lo strumento innovativo della transazione fiscale
di cui all’art. 182 ter legge fallim. si risolva in una modalità collaterale ed
interna alla procedura di concordato preventivo, tanto che si rende necessario individuare in modo concreto, il suo compiuto utilizzo nel corso della
procedura, quale parte del più generale piano proposto.
Secondo la giurisprudenza la transazione fiscale – infatti – non è un
autonomo accordo, ma costituisce una fase endoconcorsuale, che si chiude
con l’adesione o il diniego alla proposta di concordato mediante voto
espresso nell’adunanza dei creditori; inoltre l’inserimento della transazione
fiscale nel piano concordatario e l’espressione del voto, da parte dell’Agenzia delle Entrate e del concessionario in sede di adunanza dei creditori,
«procedimentalizzano» «....la formazione della volontà amministrativa ma
non devono far perdere di vista il fatto che l’accordo si identifica con il concordato stesso e non può che condividerne gli effetti e le sorti nelle sue varie
fasi fisiologiche (esecuzione) e patologiche (risoluzione ed annullamento). A
ciò consegue che, confluendo nel concordato preventivo, la transazione fiscale finisce per partecipare a pieno titolo della natura di esso, posto che
l’accordo si realizza (e non può che realizzarsi) nel concordato preventivo,
con conseguente identificazione degli effetti e dei rimedi per esso stabiliti
dalla legge»; ulteriore conseguenza consisterà nel fatto che l’Agenzia delle
Entrate ed il concessionario resteranno soggetti all’esito della votazione
concordataria (ancorché contrastante con il proprio voto, poiché altrimenti,
non avrebbe senso prevedere comunque la – loro – partecipazione alla delibera dei creditori ed all’eventuale decreto di omologazione del concordato
Ma, come prima evidenziato, è al momento della realizzazione coattiva del credito che si
manifesta l’esistenza e la ragion d’essere di una causa di prelazione; il creditore privilegiato,
insomma, è un normale creditore che, in virtù della esistenza della causa di prelazione, gode
di una ragione di preferenza all’atto della distribuzione della somma ricavata. Cosı̀, proprio in
relazione alla categoria dei crediti derivanti da rapporto di lavoro, il legislatore, nella riforma
84
Il diritto fallimentare e delle società commerciali
(cfr. Tribunale di Bologna, decreto del 26 ottobre 2006); pertanto l’eventuale omologazione della procedura di concordato preventivo determinerà
la cessazione della materia del contendere nelle liti relative ai tributi definiti
(art. 182 ter, 58 comma, legge fallim.).
Da tali premesse deriva che la transazione fiscale, in quanto costituente
parte integrante del piano concordatario produrrà o meno i suoi effetti se la
proposta di concordato sarà o non omologata.
Da parte di alcuni autori – soprattutto prima dell’entrata in vigore del
d.lgs. n. 169/2007 – si era ritenuto che il pagamento parziale dei creditori
privilegiati (e quindi anche dei debiti erariali) fosse possibile anche alla luce
di quanto disposto dall’articolo 124 legge fallim., da applicarsi in via analogica.
In via del tutto incidentale si osserva come avviso del tribunale l’applicazione analogica cui si è fatto sopra cenno, non era corretta, in quanto il
concordato fallimentare è istituto collocato all’interno di una procedura liquidatoria di cui determina la chiusura, mentre il concordato preventivo
mira, quale strumento di tendenziale salvaguardia dell’azienda, a risolvere
preventivamente situazioni di crisi o di insolvenza, nella finalità di consentire l’imprenditore di sottrarsi al fallimento attraverso una concertata composizione con i creditori.
Peraltro tale soluzione non è – attualmente – più proponibile alla luce
del disposto del d.lgs. n. 169/2007, che ha espressamente previsto l’ipotesi
del pagamento parziale di crediti privilegiati limitatamente ai crediti speciali
incapienti (cfr. anche le considerazioni al par. succ.).
A ciò si aggiunga, comunque, che anche volendo ritenere applicabile in
via analogica i principi di cui all’articolo 124 legge fallim. va rilevato come
«...tale disposizione inerente al concordato fallimentare non ha di certo sancito un principio indeterminato di possibile decurtazione dei crediti privilegiati, sovvertendo o violando cosı̀ il contrastante principio di centrale rilevanza, acquisito alla legge civile generale, per esserci invece circoscritta
una evenienza siffatta ad un’ipotesi di favorevole raffronto dal totale credito
vantato alle concrete prospettive di un suo effettivo recupero in sede di ri-
del 1975 (15), ha stabilito, all’art. 2777 cod. civ., in attuazione del principio di tutela del lavoro
e dei lavoratori di cui agli artt. 35 e 36 Cost., che detti crediti debbano essere privilegiati e
dotati di una tutela poziore rispetto a tutti gli altri crediti (16), al fine di garantire che, in caso
(15) L. 29 luglio 1975 n. 426, che ha razionalizzato ed esteso criteri previsioni già effettuati da l. 153 del
1969, in particolare all’art. 66.
(16) Ai sensi dell’art. 2777 cod. civ., solo le spese di giustizia hanno una posizione ulteriormente privilegiata.
Parte II - Giurisprudenza
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parto della liquidazione dei beni/diritti presidianti la prelazione: esito, questo, da verificarsi con attendibili modalità, alla stregua di cocenti e definite
condizioni» (cfr. Corte di Appello di Milano, sez. IV, 14 maggio 2008).
Osserva, pertanto il Tribunale che la previsione nell’ambito del concordato preventivo di un’ipotesi di transazione fiscale non equivale all’introduzione nella disciplina fallimentare di una generale possibilità di pagamento
parziale dei crediti privilegiati, bensı̀ consiste nella possibilità di un «pagamento parziale condizionato», subordinandolo all’insufficienza dei beni vincolati al soddisfacimento integrale spettante creditori nel rispetto del grado assegnato dalla legge al credito tributario.
Tale soluzione ha trovato l’avallo della giurisprudenza la quale – proprio con riferimento alla prospettazione del pagamento percentuale di un
debito privilegiato tributario – ha affermato che «...né sarebbe del resto dato
di vedere sulla base di quali elementi logici, ancor prima che normativi, poter mai trattare il debito tributario privilegiato, specificamente denotato
dall’indisponibilità che è notoria del rapporto pubblicistico, in maniera diseguale e persino nella fattispecie accentuatamente deteriore ... rispetto ai
crediti di identica natura di pertinenza degli altri soggetti coinvolti nella
procedura, circa i quali si sottolinea, l’articolo 124 cit. esige altresı̀ che il
trattamento stabilito per ciascuna classe non può avere l’effetto di alterare
l’ordine delle cause legittime di prelazione: prescrizione ripetuta in significativi termini identici nell’odierno (ampliato) articolo 160 successivo, ed a
cui si accorda, in sostanziale simmetrica, il similare vincolo imperativo imposto nella transazione fiscale quanto alla misura paritetica dell’offerta di
pagamento percentuale» (cfr. Corte di Appello di Milano cit.).
Il Tribunale ben conosce la soluzione fornita da altra giurisprudenza,
richiamata anche nella memoria del 28 giugno 2008 difensore della procedura, secondo cui «...la transazione ex art. 182 ter può prevedere il pagamento percentuale di crediti tributari privilegiati»; tale corrente interpretativa tale ha fatto discendere anche la possibilità di prevedere, nel concorda-
di insolvenza del datore di lavoro, ai lavoratori sia assicurata una posizione preferenziale (17).
Sembra allora potersi sostenere che le norme di cui agli artt. 2777 e 2778 cod. civ. prevedano un graduazione della tutela degli interessi creditori, in seguito ad una valutazione di
meritevolezza, effettuata dal legislatore, della rilevanza del credito e degli interessi sociali ed
economici coinvolti.
(17) Sui rapporti tra le norme degli artt. 2753 2754 cod. civ. e le norme costituzionali v. Cassazione, 17
marzo 1992, n. 3252, in questa Rivista, 1990, II, pag. 708 e seg,, con nota di Ragusa Maggiore, I privilegi
nel fallimento e il modo di fare sentenza.
86
Il diritto fallimentare e delle società commerciali
to preventivo, ante ultima riforma, il pagamento parziale dei crediti privilegiati, in analogia a quanto testualmente previsto dall’art. 124, legge fallim.
per il concordato fallimentare (questa possibilità è peraltro ora espressamente prevista, per il concordato preventivo, dal 2 comma dell’art. 160, come novellato dal d.lgs. n. 169/2007).
In realtà come si vedrà al paragrafo n. 3), e per le medesime ragioni ivi
indicate, non appare prospettabile – allo stato del dato normativo – il pagamento percentuale dei creditori privilegiati diversi da coloro che sono titolari di ipoteca, pegno e privilegio.
Nel piano proposto nel caso concreto, sussiste – con riferimento ai crediti tributari per cui viene offerta in pagamento una percentuale dell‘89%,
– un pagamento percentuale inferiore rispetto alla percentuale offerta ai creditori muniti di privilegio generale ex art. 2751 bis cod. civ. indicati nella classe 4), per cui viene previsto il pagamento del 90%. (cfr. aff. 48 fasc. ufficio).
Ciò costituisce una violazione dell’art. 182 ter (oltre che dell’art. 124
legge fallim. qualora lo si ritenesse applicabile analogicamente) nella parte
in cui si vieta di «alterare» l’ordine delle cause legittime di prelazione
con riferimento alle ragioni dell’Erario.
È evidente la ratio dell’art. 182 ter: impedire che i debiti tributari, privilegiati o chirografari, siano trattati peggio dei creditori di analogo grado od
inferiori (cfr. art. 182 ter comma 2 legge fallim.).
È infatti opportuno ricordare che il privilegio è una causa legittima di
prelazione (cfr. articolo 2741 del codice civile), accordata dalla legge in considerazione della causa del credito, ovvero del rapporto da cui è sorto (articolo 2745 del codice civile).
Ai sensi dell’articolo 2746 del codice civile, il privilegio può essere generale o speciale, a seconda che gravi su tutti i beni mobili del debitore oppure su determinati beni mobili o immobili. Ciò premesso, i crediti tributari
privilegiati sono, riconducibili alle seguenti ipotesi:
— Irpef, Ires, Irap e Ilor: limitatamente all’imposta o alla quota proporzionale di imposta imputabile ai redditi immobiliari, i crediti Irpef, Ires e
Ilor hanno privilegio speciale sugli immobili siti nel territorio del Comune
In altri termini, il rispetto delle cause legittime di prelazione ed il riferimento al grado del
privilegio enunciato dall’art 182 ter legge fallim. deve tenere conto della graduazione dei crediti assistiti da privilegio generale (18) prevista dall’art. 2777 cod. civ. Detti crediti, infatti, pur
essendo muniti di uguale garanzia, hanno un «substrato giuridico ed economico-sociale di-
(18) In questo senso sembrano essere sia Tribunale Pavia che Tribunale Mantova.
Parte II - Giurisprudenza
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in cui il tributo si riscuote e sopra i frutti, i fitti e le pigioni degli stessi immobili (articolo 2771, comma 1 del codice civile); limitatamente all’imposta
o alla quota proporzionale di imposta imputabile al reddito d’impresa, i crediti Irpef, Ires e Ilor hanno privilegio speciale sopra i beni mobili che servono all’esercizio dell’impresa e sopra le merci (articolo 2759 del codice civile); i restanti crediti Irpef, Ires, Irap e Ilor godono di un privilegio generale sui beni mobili (articolo 2752 del codice civile);
— Iva la quale tuttavia – come si vedrà più avanti – deve considerarsi
esclusa dalla transazione fiscale, mentre vi rientrano i relativi interessi e sanzioni): il credito Iva, incluse le sanzioni, gode di un privilegio generale sui
beni mobili (articolo 2752, comma 3 del codice civile), nonché, in caso di
infruttuosa esecuzione, di collocazione sussidiaria con precedenza rispetto
ai crediti chirografari, sul prezzo degli immobili (articolo 2776, comma 3
del codice civile); infine, in caso di responsabilità solidale del cessionario,
i crediti Iva dello Stato hanno privilegio sugli immobili che hanno formato
oggetto della cessione o ai quali si riferisce il servizio (articolo 2772, comma
secondo del codice civile);
— Tributi indiretti: i crediti dello Stato per ogni tributo indiretto hanno
privilegio speciale sui beni mobili (articolo 2758 del codice civile) e sugli
immobili (articolo 2772, comma 1, del codice civile) ai quali si riferiscono;
— Invim: il credito Invim, incluse le sanzioni, gode di un privilegio speciale sugli immobili ai quali si riferisce (articolo 2772, comma 1, del codice
civile e articolo 28 del decreto del Presidente della Repubblica del 26 ottobre 1972, n. 643).
Va peraltro osservato che secondo la giurisprudenza solo le somme dovute
a titolo di sanzioni danno origine a crediti di natura chirografaria.
Tale interpretazione si allinea altresı̀ con il noto orientamento giurisprudenziale favorevole alla «non estensione del privilegio alle soprattasse se
non nelle ipotesi espressamente previste e cioè in materia di Iva e di Invim,
da intendersi come disposizioni eccezionali e non applicabili in via analogica ad ipotesi tributarie diverse» (Cassazione, SS.UU., n. 5246 del 6 maggio
1993; Cassazione n. 838 del 24 gennaio 1995).
verso tanto da giustificare un diverso trattamento» (19) e l’ordine dei privilegi indica, in sostanza, il grado di intensità che la legge assegna a ciascuno di essi (20). La diversa considerazione, da parte del legislatore, consente pertanto che posizioni giuridiche non omogenee sia-
(19) Cosı̀, testualmente, Tribunale Pavia.
(20) In questo senso Di Sabato, op. cit., pag. 105.
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Il diritto fallimentare e delle società commerciali
Nel caso di specie i crediti tributari e quelli dei lavoratori hanno il medesimo grado di privilegio trattandosi di privilegio generale (quanto meno con
riferimento ai crediti tributari) anche se per i crediti di cui all’art. 2751 bis
n. 1) viene previsto dal combinato disposto degli dall’art. 2777 e 2779 cod.
civ. il pagamento con preferenza rispetto a quelli di cui all’art. 2752 cod.
civ. (crediti per tributi diritti dello Stato, per imposta sul valore aggiunto e
per tributi degli enti locali).
Osserva tuttavia il Tribunale come il rispetto del grado del privilegio è
qualcosa di diverso dal rispetto dell’ordine del pagamento previsto dagli articoli 2777 e 2778 cod. civ.; nel caso di specie tale «grado» paritetico di creditore privilegiato generale non viene rispettato, in quanto per i crediti erariali muniti di privilegio generale viene previsto il pagamento nella misura
dell’89% e del 31% rispetto al 90% previsto per altri creditori portatori
di analogo privilegio generale (sebbene preferiti al momento del pagamento); viene previsto, in altre parole il pagamento in misura inferiore rispetto
ai crediti dei lavoratori, creditori privilegiati di pari grado (si tratta di infatti
di crediti aventi il «grado» di privilegio generale ex art. 2751 bis cod. civ. al
pari del credito tributario; cfr. certificazione Equitalia) con la conseguenza
che la proposta di transazione fiscale appare – sotto questo aspetto – inammissibile in quanto effettuata in violazione dei criteri indicati dell’art. 182
ter legge fallim.
B) La proposta di transazione fiscale contenuta nel concordato preventivo appare inammissibile anche sotto un altro profilo: l’articolo 182-ter
esclude espressamente dalla transazione fiscale i «tributi costituenti risorse
proprie dell’Unione europea.
Il Tribunale ben conosce la giurisprudenza secondo cui «...la quota di
Iva dovuta dallo Stato Membro alla Unione Europea nulla ha a che vedere
con il tributo Iva dovuto dal contribuente italiano ed amministrato dalle
Agenzie fiscali. L’imponibile Iva di uno Stato Membro della Comunità Europea è solo il parametro cui applicare una aliquota concordata da tutti i
paesi membri... (parametro) che prescinde dalla riscossione dell’imposta
dovuta dal singolo contribuente italiano e, quindi, qualunque sia la percentuale di pagamento del credito Iva proposta dal ricorrente nella transazione
fiscale ex art. 182 ter, legge fallim. essa non modificherà mai l’imponibile
nazionale su cui calcolare la risorsa spettante alla CEE. Conseguentemente
no trattate diversamente, e che tale diversità di trattamento sia rintracciabile anche nell’ambito della transazione fiscale e del concordato preventivo.
In forza di tali considerazioni allora, non sembra condivisibile l’orientamento espresso in
argomento dal Tribunale di Piacenza nella sentenza in commento ed in particolare la ricostruzione, peraltro fondata sul semplice elemento formale, secondo la quale vi è una differenzia-
Parte II - Giurisprudenza
89
l’Iva, quale imposta nazionale amministrata dalle Agenzie Fiscali, non rientra tra le risorse proprie dell’Unione Europea; da ciò discende che l’Iva può
essere oggetto di transazione fiscale ex art. 182 ter e, quindi, di pattizia previsione di pagamento percentuale (cfr. Tribunale di Milano sentenza ult.
cit.; si osserva inoltre da parte del Tribunale di Milano come «...la transazione ex art. 182 ter può comprendere tutti i tributi erariali (ad es. Irpef,
Ires, Iva, Registro etc.) e non erariali (ad es. Irap), dovendosi intendere
per «amministrazione... il fascio dei poteri funzionali al controllo, all’accertamento ed alla riscossione del tributo».
Va peraltro evidenziato come la Circolare dell’Agenzia delle Entrate del
18 aprile 2008 n. 40/2008 (Direzione centrale normativa e contenzioso), citata anche dal difensore della società ricorrente nella memoria del 28 giugno 2008, ha disciplinato i casi suscettibili di transazione fiscale, evidenziando come «...l’articolo 182-ter individua i crediti suscettibili di transazione
fiscale in base alla tipologia di imposta, includendovi i soli tributi «amministrati dalle agenzie fiscali».
Secondo la citata circolare restano esclusi dall’ambito applicativo della
transazione fiscale in primo luogo le somme dovute per i tributi locali
(ad esempio, Ici, Tarsu, Tosap, imposta sulle pubblicità e diritto sulle pubbliche affissioni).
Va evidenziato come l’articolo 182-ter pone l’accento sulla circostanza
che il tributo sia amministrato dalle agenzie fiscali, prescindendo dalla tipologia del gettito che si origina dal tributo. Ciò costituisce ulteriore connotato di distinzione rispetto alla previgente disciplina di cui al d.l. n. 138
del 2002, che ammetteva la transazione per i soli tributi amministrati dall’Agenzia delle entrate il cui gettito fosse di esclusiva spettanza dello Stato.
Va inoltre ricordato che l’articolo 182-ter esclude espressamente dalla
transazione fiscale i «tributi costituenti risorse proprie dell’Unione europea»: devono, pertanto escludersi dalle ipotesi di transazione fiscale anche
le somme dovute all’erario a titolo di Iva, in quanto l’ottavo considerando
della Direttiva CEE del 28 novembre 2006, n. 112 («Direttiva CE del Consiglio relativa al sistema comune d’imposta sul valore aggiunto») afferma
che «in applicazione della decisione 2000/597/CE, Euratom del Consiglio,
del 29 settembre 2000, relativa al sistema delle risorse proprie delle Comunità europee, il bilancio delle Comunità europee, salvo altre entrate, è inte-
zione concettuale tra rispetto dell’ordine di pagamento cosı̀ come previsto dagli artt. 2777 e
2778 cod. civ. ed il rispetto del grado del privilegio.
Le norme in esame, come spiegato, esprimono una graduazione della protezione di interessi diversi e sembra, allora, che proprio a detta graduazione si sia riferito il legislatore della riforma fallimentare nel richiamo, all’art. 182 ter legge fallim., al rispetto del grado del privilegio e dell’omogeneità della posizione giuridica e degli interessi economici.
90
Il diritto fallimentare e delle società commerciali
gralmente finanziato da risorse proprie delle Comunità. Dette risorse comprendono, tra l’altro, quelle provenienti dall’Iva, ottenute applicando un’aliquota comune ad una base imponibile determinata in modo uniforme e
secondo regole comunitarie.
Nel caso di specie alla luce della precisione contenuta nella memoria
della dott.ssa ***** del 28 giugno 2008 vi sono consistenti somme di denaro dovute all’erario a titolo di Iva, ammontanti quantomeno a 168.167,00
euro (cfr. pag. 2) ed euro 40.000,00 (cfr. pag. 3).
Il mancato rispetto nella proposta di transazione fiscale della lettera della norma nella parte in cui prevede il pagamento parziale di crediti erariali
per cui la transazione non è possibile rende – in definitiva – inammissibile
l’intera proposta di concordato, attesa la natura endoprocessuale dell’istituto di cui all’art. 182 ter legge fallim. di cui si è parlato in esordio.
Alla luce delle considerazioni che precedono, ad avviso del Tribunale,
non si rende necessario attendere l’esito della consultazione dell’Erario in
ordine all’istanza di transazione fiscale in quanto la stessa, essendo stata formulata – per le ragioni sopra indicate – in palese violazione del disposto
dell’art. 182 ter legge fallim.; il ricorso appare, sotto questo aspetto, inammissibile.
2) Inammissibilità della previsione del pagamento percentuale di creditori
privilegiati diversi da quelli «speciali», muniti di pegno privilegio o ipoteca. –
Il concordato appare inammissibile anche con riferimento alla previsione –
non disciplinata dalla legge – del pagamento dei crediti muniti di privilegio
generale ex art. 2751 bis cod. civ. (previsti dalla classe 4) in misura percentuale (cioè al 90% cfr. aff. 48): si tratta di creditori diversi da quelli muniti
di privilegio speciale (pegno privilegio o ipoteca) e per tali crediti il decreto
correttivo nulla ha innovato rispetto al passato essendosi limitato nel c.d.
«decreto correttivo» a prevede la possibilità di pagamento parziale solo
per i privilegiati c.d. «speciali».
Come è noto, dottrina e giurisprudenza, a seguito delle modifiche apportate nel 2005, con la radicale riscrittura dell’art. 160 (che non prevede
più alcun vincolo di contenuto del piano concordatario e consente la suddivisione in classi dell’intero ceto creditorio ai fini della proposizione di
trattamenti differenziati per le varie classi), si sono domandate se l’art.
177 comma 3 (che continua ad escludere dal voto i crediti in senso lato pri-
Se ciò è vero, appare necessario indagare se una tale ricostruzione sia, o meno, compatibile con l’impianto normativo di soluzioni alle crisi d’impresa disciplinato dalla legge fallimentare.
La norma di cui all’art. 182 ter legge fallim. ha introdotto nel nostro ordinamento un
istituto nuovo, quello della transazione fiscale, ampiamente dibattuto in dottrina ed oggetto
di differenti valutazioni anche da parte dei diversi Tribunali che si sono espressi in mate-
Parte II - Giurisprudenza
91
vilegiati) costituisse o meno (ancora) espressione di un principio normativo
sostanziale di necessaria integrale e immediata soddisfazione dei crediti ivi
contemplati, e quindi integra un limite formale all’ammissibilità di piani
concordatari che prevedano la soddisfazione parziale o dilazionata di tali
crediti.
Prima dell’entrata in vigore del d.lgs. n. 169/2007 a favore di tale soluzione si sono espresse parte della dottrina e della giurisprudenza, affermando che sarebbe lesivo dei diritti dei creditori privilegiati (con tutti i conseguenti problemi di compatibilità con gli artt. 3, 24 e soprattutto 42 Cost.)
un sistema che consentisse il soddisfacimento non integralmente satisfatorio
dei loro crediti senza consentire ai creditori falcidiati di esprimere il voto
sulla proposta.
Altra parte della dottrina – cui ha fatto seguito un preciso filone giurisprudenziale (che tendeva a valorizzare la volontà del riformatore del 2005
di facilitare l’accesso alla procedura concordataria) ha optato per interpretazioni che hanno attribuito risalto alla nuova configurazione del concordato preventivo come proposta a contenuto non vincolato; in tale ottica interpretativa, si era valorizzata la possibilità di differenziare i trattamenti dei
creditori sulla base di una loro classificazione privatistica che si affianca a
quella legislativa derivante dal sistema delle cause di prelazione.
In tal modo si cercava di conciliare le esigenze di tutela dei creditori
esposti ad effetti esdebitatori con le esigenze di carattere più generale avute
di mira dalla riforma.
Si è – pertanto – ritenuto (cfr. Tribunale Messina 30 dicembre 2005,
idem 29 dicembre 2006, in Fallimento 2007, 6, 663, con nota di Marelli)
ammissibile un pagamento dilazionato o differito dei creditori privilegiati,
con corresponsione degli interessi legali e senza effetti sul diritto di voto,
affermando che «...nella proposta di concordato preventivo, in sede di forma-
ria (21), che trova il suo indubbio elemento di forte innovazione nella possibilità della falcidia
dei crediti tributari, generalmente considerati assolutamente indisponibili. L’idea ispiratrice,
(21) Trib. Bologna 26 ottobre 2006, in Fall., 2007, pag. 579 e seg., con nota di Zanichelli, Transazione
fiscale e pagamento percentuale dei crediti privilegiati nel concordato preventivo: più dubbi che certezze; Tribunale
Venezia, sez. fall., 27 febbraio 2007, in Fall., 2007, pag. 464 e seg.; Tribunale Torino 20 dicembre 2006, in Fall.,
2007, pag. 431 e seg., con nota di Censoni, Concordato preventivo e coinvolgimento dei creditori con diritti di
prelazione; Appello Bologna 27 giugno 2006, Tribunale Messina 29 dicembre 2006 e Tribunale Verona 13 ottobre 2006, in Fall., 2007, pag. 661 e seg., con nota di Marelli, Transazione fiscale, principi generali del concorso e
soddisfazione parziale dei creditori privilegiati nel concordato preventivo; Tribunale Milano, Sez. II, 13 dicembre
2007, in Fall., 2008, 333, con nota di Lo Cascio, La disciplina della transazione fiscale: orientamenti interpretativi
innovativi e Del Federico, La nuova transazione fiscale secondo il Tribunale di Milano: dal particolarismo tributario alla collocazione endoconcorsuale.
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Il diritto fallimentare e delle società commerciali
zione delle classi di creditori, non può essere previsto il pagamento parziale dei
creditori privilegiati, posto che questi, ai sensi dell’art. 177 legge fallim. non
hanno diritto di voto».
Secondo tale filone interpretativo nessuna preclusione sussisterebbe, invece, al pagamento parziale, qualora la prelazione non possa essere fatta
concretamente valere sul ricavato dei beni vincolati (e dunque nel caso di
privilegio speciale incapiente ovvero di crediti assistiti da privilegio speciale
mobiliare nel caso di totale mancanza del patrimonio del debitore) o quando il consenso dei creditori privilegiati ad un trattamento non integralmente
satisfatorio possa essere ricercato anche in corso di procedura (escludendo,
quindi, la previsione della necessaria soddisfazione integrale dal novero delle condizioni di ammissibilità, per ravvisare nel mancato conseguimento del
consenso individuale dei creditori interessati una causa sopravvenuta di non
fattibilità del piano).
Da parte di altri interpreti si è sottolineato che, non sussistendo nella
nuova disciplina alcun obbligo di soddisfare integralmente ed immediatamente i crediti (in senso lato) privilegiati, sia possibile un loro soddisfacimento parziale e non immediata mediante la creazione di apposite classi,
con il solo limite del rispetto dell’ordine delle preferenze fissate dalla legge,
non derogabili attraverso la classificazione negoziale (cfr. Tribunale Modena 13 aprile 2006).
Sempre da parte della giurisprudenza (cfr. Tribunale Pescara 8 novembre 2006), si è osservato come tali ultime interpretazioni trovino argomenti
di conferma «letterali» nella riforma della legge fallimentare operata dal
d.lgs. 5/2006, che, da un lato, ha introdotto l’art. 182-ter, rubricato «Transazione fiscale», e, dall’altro lato, ha modificato gli artt. 124 e 127 in materia
di concordato fallimentare.
In tale prospettiva si è sottolineato, pertanto, che il legislatore della riforma aveva previsto espressamente che alcuni crediti privilegiati potessero
essere sacrificati in misura percentuale, con ciò ponendo in dubbio la persistente intangibilità di qualsiasi credito munito di privilegio.
Ulteriore argomento di tipo «sistematico» in favore del pagamento percentuale del creditore privilegiato, si rinveniva nella formulazione del «nuo-
«consistente nel favorire la dialettica tra fisco e contribuente» (22) si innesta, divenendone
parte integrante e sostanziale, nel progetto di riforma dei rimedi alle crisi d’impresa. L’inserimento di una transazione fiscale, in un concordato preventivo o in un accordo di ristruttu-
(22) Cosı̀, testualmente, Marini, op. cit.
Parte II - Giurisprudenza
93
vo» art. 124 legge fallim. ove è stata introdotta la regola per cui il concordato fallimentare può prevedere il pagamento parziale dei crediti muniti di
diritto di prelazione, a condizione che il piano indichi una misura di soddisfacimento non inferiore a quella realizzabile sul ricavato della vendita del
bene oggetto della garanzia (secondo il valore di mercato stimato con relazione giurata da un esperto o da un revisore contabile designato dal tribunale) e che non venga alterato l’ordine delle cause legittime di prelazione.
Si è poi sottolineato come il nuovo art. 127 legge fallim. limiti il divieto
di voto (salva rinuncia) ai creditori prelazionari dei quali sia stabilito l’integrale pagamento stabilendo, poi, che i creditori di cui sia prevista la soddisfazione non integrale siano considerati, per la parte non soddisfatta del
credito, il pagamento in misura percentuale (e quindi prevedendo per tali
creditori il diritto di voto).
Sulla scorta di tali importanti modifiche si era dunque affermato che
poteva ricavarsi un criterio «interpretativo utile ad avvalorare le opinioni favorevoli ad un trattamento non integralmente e/o immediatamente satisfatorio dei crediti privilegiati».
In dottrina (cfr. Ambrosini, Il concordato preventivo, Concordato preventivo: profili generali e limiti del controllo giudiziale in www.ilcaso.it) si
era evidenziato come «...l’impostazione in base alla quale i titolari di crediti
muniti di prelazione, in quanto privi del diritto di voto (e come tali indifferenti all’esito del concordato), andrebbero soddisfatti per intero è stata tuttavia messa in discussione dalla riforma organica del 2006», sottolineando peraltro come tale conclusione «è oggi resa meno sicura per effetto dell’introduzione, ad opera del d.lgs. n. 5 del 2006, dell’art. 182-ter, rubricato «Transazione fiscale», il cui comma 1, nel consentire al debitore di proporre, con la
domanda di concordato, il pagamento parziale o differito dei debiti tributari, stabilisce che, se il credito è assistito da privilegio, la percentuale, i tempi di pagamento e le eventuali garanzie non possono essere inferiori a quelli
offerti ai creditori che hanno un grado di privilegio inferiore o a quelli che
razione del debito (23), consente il pagamento in percentuale dei crediti fiscali, rendendo cosı̀
più appetibile ed efficace il ricorso a tali strumenti (24).
Ma il vero problema sembra essere il trattamento dei crediti assistiti da causa legittima di
prelazione. Il dettato normativo poteva certamente essere più chiaro, cosı̀ come sarebbe stato
(23) L’applicabilità dell’art. 182 ter anche agli accordi di ristrutturazione del debito è stata previsto dal correttivo d.lgs. n. 169/2007 in vigore dal primo gennaio 2008.
(24) Nello stesso senso Tribunale Pavia 8 ottobre 2008, cit., che vede la transazione fiscale come uno dei
punti di forza dell’istituto del concordato preventivo, cosı̀ come scaturito dalla riforma.
94
Il diritto fallimentare e delle società commerciali
hanno una posizione giuridica ed interessi economici omogenei a quelli delle agenzie fiscali. Il fatto che la legge preveda ora espressamente la sacrificabilità dei crediti privilegiati, seppur con specifico riferimento alle sole
pretese del fisco, induce in effetti a dubitare della persistente intangibilità
di questo genere di crediti e a domandarsi se, per tale via, non si sia invece
inteso configurare la possibilità di proporre, con la domanda di concordato,
il pagamento parziale di qualsiasi credito munito di privilegio».
Pertanto, secondo tale dottrina la possibilità di prevedere il pagamento
in percentuale dei crediti privilegiati «generali» si ricaverebbe dalla lettera
dell’art. 182 ter legge fallim.
A tal fine si è affermato che «...l’art. 182 ter rubricato «transazione fiscale», nel suo comma 1, pur nella sua non felice formulazione, consente
– se interpretato letteralmente – il pagamento parziale dei crediti tributari.
Nella sua prima proposizione, il comma prende in considerazione il pagamento parziale di detti crediti «limitatamente alla quota di debito avente
natura chirografaria». La seconda proposizione tratta degli stessi crediti e
si riferisce al pagamento dilazionato di essi. La terza proposizione prevede
il caso in cui detti crediti siano muniti di privilegio e stabilisce che essi possano essere pagati in «percentuale» e che debbano essere soddisfatti in misura non inferiore a quella dei crediti che abbiano un grado di privilegio
inferiore o a quelli che abbiano una posizione giuridica o interessi economici omogenei a quelli delle agenzie fiscali. Quest’ultima previsione istituisce
dunque una comparazione, il cui primo termine è costituito dai crediti tributari privilegiati ed il secondo è costituto (trascurando, per semplicità, i
«crediti che hanno una posizione giuridica o interessi economici omogenei
a quelli delle agenzie fiscali») dai crediti che godono di un privilegio di grado inferiore a quello dei crediti tributari».
A ciò conseguirebbe che sarebbe stato inserito nel «sistema fallimentare» il principio per cui possono esistere una o più categorie di creditori privilegiati, diversi dal fisco, per cui è ammissibile la proposta di soddisfacimento in misura non integrale.
Sulla scorta di tale interpretazione si è affermato che verrebbe meno la
necessità del soddisfacimento integrale di tutti i privilegiati la quale non sarebbe più una condizione di ammissibilità della proposta concordataria.
Quest’ultima soluzione non appare corretta per le seguenti ragioni; in
primo luogo perché il ragionamento tende a «provare troppo», in quanto
si ritiene di interpretare l’art. 160 legge fallim. (principio generale) mediante
auspicabile che il decreto correttivo fosse intervenuto a chiarire un nodo evidenziato sin da
subito come centrale e problematico.
D’altro canto il decreto correttivo è intervenuto in maniera decisa nell’ambito del con-
Parte II - Giurisprudenza
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l’art. 182 ter, legge fallim. (ipotesi particolare); come si è evidenziato nel paragrafo precedente, la transazione fiscale costituisce una modalità applicativa (eventuale) del concordato preventivo; appare pertanto coerente con
i principali canoni interpretativi ritenere che sia la prima fattispecie che deve essere letta alla luce della «cornice» dettata dall’isituto generale delinato
dall’art. 160 legge fallim. e non il contrario.
Nel caso concreto, la «cornice» che si ricava dall’art. 160 legge fallim.
(alla luce della modifica prevista dal decreto correttivo) prevede che solamente i creditori privilegiati speciali potranno essere pagati in misura percentuale non prevedendo la norma la diversa ipotesi del pagamento percentuale generalizzato per il creditori privilegiati.
Ma ogni dubbio interpretativo sul punto è stato superato grazie al Legislatore del 2007 il quale – attraverso l’art. 12 del d.lgs. n. 169/2007 che ha
modificato l’art. 160 della legge fallimentare – ha espressamente esteso la
possibilità, in caso di concordato preventivo, di prevedere il pagamento parziale solo dei creditori muniti di privilegio speciale per la parte in cui gli stessi
non risultino soddisfatti integralmente, con ciò ponendo – ad avviso del
Tribunale – definitivamente termine alla questione interpretativa sollevata
in dottrina ed in giurisprudenza.
Come emerge chiaramente dal testo legislativo (disciplina di cui si chiede l’applicazione anche nella presente proposta di concordato preventivo),
la proposta concordataria può prevedere che solo i creditori muniti di pegno o ipoteca, non vengano pagati integralmente, sempre che il piano ne
preveda la soddisfazione in misura non inferiore a quella realizzabile, in ragione della collocazione preferenziale, sul ricavato in caso di liquidazione,
avuto riguardo al valore di mercato attribuibile ai beni o diritti sui quali sussiste la causa di prelazione indicato nella relazione giurata di un professionista in possesso dei requisiti di cui all’art. 67, comma 3, lettera d).
La modifica legislativa contenuta nel d.lgs. n. 169/2007 che ha disciplinato il pagamento parziale dei crediti muniti di pegno, privilegio o ipoteca,
consente di escludere in modo definitivo la possibilità di un pagamento parziale per i creditori privilegiati diversi da quelli specificati dal legislatore del
d.lgs. n. 169 del 2007; a tale conclusione si giunge in forza della stessa «let-
cordato preventivo, sempre più avvicinandolo, negli elementi distintivi, al concordato fallimentare (25). In particolare è stato espressamente previsto che la falcidia concordataria possa
abbattersi sui crediti privilegiati e che il parametro valutativo rilevante sia quello del valore di
(25) Per cui v. Catalozzi, La falcidia concordataria dei crediti assistiti da prelazione, in Fall., 2008, pag.
1009 e seg.
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Il diritto fallimentare e delle società commerciali
tura» della legge che limita tale possibilità ai crediti privilegiati speciali; del
resto se il legislatore avesse voluto prevedere tale possibilità per tutti i crediti privilegiati si sarebbe espresso in tal senso, e non si sarebbe limitato ad
indicare nell’art. 12 del d.lgs. n. 169/2007 solo una specifica e limitata categoria (cioè i crediti privilegiati muniti di pegno ipoteca e privilegio).
Si è inoltre evidenziato come l’interpretazione contraria a quella che appare preferibile e sopra indicata, non sia accettabile, in quanto introduce
una disparità di trattamento, quanto al diritto di voto, inammissibile tra diverse categorie di creditori privilegiati. In altre parole, se si ammette, come
per le innanzi esposte ragioni si ammette, che l’introduzione dell’art. 182 ter
legge fallim. imponga di includere, nel novero delle classi a cui il debitore
può proporre un soddisfacimento non integrale (in breve: classi falcidiabili), anche classi di creditori privilegiati non tributari, ancorché solo, in ipotesi, con un grado di privilegio inferiore a quello (o quelli) del fisco, allora
diviene giuridicamente contraddittorio ed inaccettabile pervenire ad una
lettura che attribuisca il diritto di voto nel concordato preventivo, nell’ambito dei privilegiati soggetti a falcidia, solo al fisco e non anche alle altre
eventuali classi di privilegiati a cui si propone un analogo sacrificio.
Tale interpretazione non porta all’abrogazione dell’istituto della transazione fiscale, in quanto si deve ritenere (al fine di mantenere un significato
all’art. 182 ter legge fallim. compatibile con l’art. 160 legge fallim. cosı̀ come
evidenziato dal difensore della società ricorrente a pag. 8 e 9 della memoria
del 28 giugno 2008) che il riferimento al credito privilegiato (non tributario)
di cui all’art. 182 ter legge fallim. è necessariamente al credito privilegiato
«speciale», in quanto esso è l’unico che attualmente può essere pagato in
percentuale alla luce della lettera della legge: analogamente la transazione
fiscale potrà trovare applicazione – nel rispetto dei criteri ivi indicati – potrà
avere ad oggetto i crediti tributari muniti di privilegio fiscale (ma diversi da
quelli esclusi dalla circolare del 4 aprile 2008).
Per quanto riguarda il concordato preventivo, pur concordando con il
mercato attribuibile «ai beni o diritti» su cui sussiste la causa di prelazione, facendo cosı̀
espresso riferimento (26) alla possibilità che il pagamento non integrale del credito interessi
anche i creditori muniti di privilegio generale (27).
(26) La stessa Relazione ministeriale al decreto correttivo precisa che «il debitore ha la possibilità di offrire
un pagamento in percentuale non solo ai creditori muniti di privilegio speciale, nella parte in cui il credito sia
incapiente, ma anche a quelli muniti di privilegio generale».
(27) In questo senso Catalozzi, op. cit., pag. 1013; v. anche Norelli, Il concordato fallimentare riformato
e corretto, in www.judicium.it; sul concordato preventivo v. Demarchi, Il concordato preventivo alla luce del decreto correttivo, in Le nuove procedure concorsuali, a cura di Ambrosini, Milano, 2008, pag. 491 e seg.
Parte II - Giurisprudenza
97
difensore della società ricorrente in ordine alla difficoltà di trovare soluzioni
che non siano da un lato in contrasto con la lettera della legge e dall’altro
con la ratio dell’istituto riformato (cfr. memoria citata del 28 giugno 2008
pag. 10, secondo cui «...ci si rende conto dell’impossibilità di trovare una soluzione che non presti il fianco a censure e critiche, ma ciò probabilmente è il
frutto di una tecnica legislativa non sempre coerente on gli obiettivi pur chiaramente enunciati»), si ritiene, da parte del Tribunale, preferibile la soluzione ancorata al dato legislativo, che, come già sopra rilevato, consente – attualmente – la proposizione di un pagamento percentuale solo per il creditori
muniti di privilegio «speciale» (pegno ipoteca e privilegio).
Pertanto, anche sotto tale aspetto, la proposta di concordato appare
inammissibile in quanto prevede il pagamento percentuale di creditori privilegiati previsti dalla classe quarta (id est pagamento parziale di crediti muniti di privilegio generale ex art. 2751 bis cod. civ.); ma tale possibilità – alla
luce di quanto sopra detto – non appare prevista dall’art. 160 legge fallim.
3) Deposito nel caso di specie di una relazione di stima che attesta l’incapienza dei beni oggetto di privilegio, pegno o ipoteca a firma della dott.ssa ***,
e quindi da parte del medesimo professionista che ha presenta la relazione ex
art. 161 legge fallim. – Da ultimo si rileva come nel decreto del 9 maggio
2008 – con cui veniva chiesta una integrazione della documentazione già
presentata – si osservava che ai sensi delle nuove disposizioni legislative appare possibile degradare i creditori privilegiati (ma solo quelli muniti di pegno, ipoteca o privilegio) solo quando sia stata predisposta:
a) una tutela preventiva costituita dalla relazione di stima che attesti l’incapienza;
b) una tutela successiva costituita dal vaglio del Tribunale, ai sensi del
comma 1 dell’art. 163 legge fallim., sulla ragionevolezza del trattamento differenziato.
Dato atto che nel caso di specie, è stata depositata (in sede di integrazione) una relazione di stima che attesta l’incapienza a firma della dott.ssa
***, e quindi del medesimo professionista che ha presenta la relazione ex art.
161 legge fallim. (cfr. doc. 4 prod. integrativa).
Rilevato che nel decreto del 9 maggio 2008 si dava atto che «Ulteriore
aspetto problematico che non è stato esaminato nel ricorso riguarda la specifica indicazione del professionista idoneo a fornire l’attestazione all’autorità
giudiziaria sulla incapienza del bene oggetto di privilegio; nel ricorso si fa riferimento ad una stima in corso di redazione da parte del geom. *** *** (cfr.
Rimane però aperta la questione circa il reale significato del rispetto dell’ordine delle
cause legittime di prelazione, in particolare nell’ambito della suddivisione dei creditori in classi nel riformato concordato preventivo.
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Il diritto fallimentare e delle società commerciali
ricorso pag. 15); tuttavia il Legislatore – attraverso il richiamo effettuato dall’art. 67 legge fallim. all’art. 28 legge fallim. – ha previsto che la valutazione
circa l’incapienza del bene oggetto di ipoteca (al fine di stabilire e quantificare
la parte di credito ipotecario incapiente) sia realizzata da un professionista
iscritto al registro dei revisori contabili nonché alternativamente nell’albo o
degli avvocati, o dei dottori commercialisti o dei ragionieri o dei ragionieri
commercialisti».
Rilevato che – attese la ragioni di terzietà del soggetto incaricato di svolgere il controllo sul piano concordatario le sono poste a fondamento di tale
ulteriore valutazione (prevista solo nelle ipotesi in cui il concordato preveda
il pagamento percentuale di creditori privilegiati) – la citata attestazione
non può essere compiuta dal medesimo professionista che ha prestato la relazione ex art. 161, in quanto l’ulteriore adempimento previsto a garanzia dei
creditori si risolverebbe – di fatto – in una inutile duplicazione di quanto già
attestato nella relazione ex art. 161 legge fallim.
Rilevato pertanto che si rende necessario, cosı̀ come sottolineato in dottrina e per le ragioni sopra indicate, la necessaria differenziazione fra la figura del professionista che predispone la relazione di cui all’art. 160 comma 2
legge fallim. e quella del soggetto che deve attestare la veridicità dei dati
aziendali e la fattibilità del piano ex art. 161 legge fallim.
Del resto la necessità della redazione di una «stima di incapienza» da
parte di un «diverso» professionista rispetto a quello che ha presentato la
relazione ex art. 161 legge fallim., – seppure non prevista esplicitamente
dalla legge – è stata ritenuta anche da parte di quella dottrina che, in casi
analoghi a quello di specie, ha ritenuto necessaria una plurima valutazione
del bene seppure sotto diversi aspetti; si è a tale proposito affermato che
una prima valutazione sarà compiuta dal professionista che effettua la stima
del bene (nel caso concreto è stata effettuata dal geom. ***); una seconda
valutazione sarà effettuata dal redattore del piano ex art. 161 legge fallim.
(professionista iscritto al doppio albo ex art. 28 legge fallim.; nel caso di
specie è stata effettuata dalla dott.ssa ***); una terza valutazione sarà compiuta dal professionista che effettuerà la dichiarazione di incapienza (nel caso concreto è stata effettuata ancora dalla dott.ssa ***); una quarta valutazione (eventuale) sarà infine effettuata dal Tribunale e dal Commissario giudiziale che dovrà verificare la correttezza dei valori espressi nel piano.
Appare pertanto evidente come la produzione documentale integrativa sia,
L’intero impianto normativo scaturente anche dal decreto correttivo sembra, in realtà,
far riferimento al divieto di alterazione delle cause legittime di prelazione, come espressione
della necessità che gli strumenti concordatari non possano, in alcun modo, prevedere per i
creditori posti ad un livello inferiore un trattamento migliore di quelli posti ad un livello
Parte II - Giurisprudenza
99
anche sotto questo aspetto, carente, in quanto la relazione di stima di incapienza è stata redatta dal medesimo professionista che ha presentato la relazione ex art. 161 legge fallim.
P.Q.M. letto l’art. 161 legge fallim. dichiara inammissibile la proposta
di concordato preventivo proposta da ***soc. per az. in liquidazione in persona del liquidatore dott. Claudio Cappanelli, per le ragioni indicate in motivazione. (Omissis)
II
(Omissis)
Sui poteri del tribunale. – Il Tribunale condivide e fa proprio l’orientamento giurisprudenziale secondo cui:
1. «...il debitore sia gravato di un onere probatorio particolarmente stringente quanto alla prova della fattibilità del piano e alla veridicità dei dati
aziendali, prova che deve essere data, oltre che con la produzione della documentazione di cui all’art. 161, comma 2, anche e soprattutto attraverso la relazione di un professionista indipendente ed imparziale...»;
2. «...il tribunale non è vincolato a tale prova proprio perché, come tutte le
prove deve essere valutata e ogni valutazione non può che entrare nel merito
della proposta e, quindi, anche della relazione del professionista ove il Tribunale dovesse ritenere che la medesima, non fornisca sufficienti e tranquillizzanti elementi per ritenere che il piano sia fattibile e/o i dati aziendali non
siano veridici (ciò risulta coerente con la possibilità di concedere al debitore
superiore (28). Tale impostazione sembra avere il pregio di meglio soddisfare le esigenze,
poste alla base della riforma fallimentare, di offrire agli operatori degli strumenti di solu-
(28) In questo senso Stanghellini, L’approvazione dei creditori nel concordato preventivo: legittimazione al
voto, maggioranze e voto per classi, in Fall., 2006, pag. 1061 e seg.; Ferri, I crediti privilegiati nella disciplina del
nuovo concordato preventivo, in nota a Tribunale Torino 17 novembre 2005, in Fall., 2007, pag. 291 e segg. Di
particolare interesse è la ricostruzione effettuata da Bozza, La proposta di concordato preventivo, la formazione
delle classi e le maggioranze richieste dalla nuova disciplina, in Fall., 2005, pag. 1208 e seg., secondo il quale il
divieto di alterazione dell’ordine dei privilegi deve essere inteso nel senso dell’impossibilità di riconoscere alcun
pagamento ai creditori di rango inferiore qualora sia stato proposto un pagamento in percentuale al creditore di
rango superiore. Cosı̀ il pagamento di un creditore può essere previsto solo in caso di integrale pagamento del
creditore posto ad un livello superiore. In arg. v. Paluchowski, I poteri del tribunale in sede di ammissione e nel
corso della procedura di concordato preventivo con particolare riferimento all’ipotesi di conversione della procedura
in fallimento, in questa Rivista, 2006, I, pag. 589 e seg.
100
Il diritto fallimentare e delle società commerciali
un termine non superiore a quindici giorni...per apportare integrazioni al piano e produrre nuovi documenti)...»;
3. «...anche seguito delle modifiche apportate dal d.lgs. 169/2007 rispetto
alla l. 80/2005, il controllo del Tribunale non è più... entro i limiti della verifica della «completezza e regolarità della documentazione», ma è stato «ricalibrato», confermando un potere tradizionalmente riconosciutogli e cioè
quello della verifica nel merito della fondatezza... della proposta...»;
4. Non è più necessario, differentemente, una valutazione in termini di
convenienza del piano presentato, attività oggi spettante ai creditori e da
effettuarsi con apposita votazione;
5. Al Tribunale permane sia un controllo di legittimità della proposta,
avente ad oggetto il riscontro dei requisiti di ammissibilità, nonché un giudizio di fattibilità del piano.
(In questi termini Tribunale di Roma 24 aprile 2008, Tribunale di Palermo, Sez. IV, decr., 18 maggio 2007, Tribunale Sulmona 6 giugno 2005,
Tribunale Pescara 20 ottobre 2005, Tribunale Milano 2 ottobre 2006, Appello Bologna 30 giugno 2006).
Ritiene il Tribunale che la documentazione depositata, come integrata
in seguito al termine concesso a seguito dell’udienza del 19 settembre
2008, sia idonea a dimostrare la fattibilità del piano, potendosi in questa sede fare espresso richiamo alle valutazioni espresse dal perito ex art. 161 legge fallim. ed alla relazione giurata di stima beni immobili ex art. 160 legge
fallim.
In particolare il professionista incaricato:
1. ha attestato la veridicità dei dati aziendali esposti nel ricorso per l’ammissione alla presente procedura e nella documentazione ad esso allegata
dando atto della effettiva situazione patrimoniale, economica e finanziaria
della società;
2. ha riscontrato la fattibilità economica del piano proposta con riferi-
zione delle crisi d’impresa caratterizzati da duttilità ed elasticità (29). Tale intento è stato
perseguito mediante l’assottigliamento delle differenze tra il concordato preventivo e quello
fallimentare (30).
(29) Cosı̀ Catalozzi, op. cit., pag. 1015.
(30) La norma di cui all’art. 124 legge fallim. sul concordato fallimentare, infatti, pur aderendo alla tesi sostenuta dal tribunale piacentino che non sia direttamente applicabile in via analogica (in senso contrario in dottrina v. Sandulli, sub art. 160, in La riforma della legge fallimentare a cura di Nigro e Sandulli, 2006, pag. 986 e
seg.; in giurisprudenza Tribunale Messina e Tribunale Verona, commentate da Marelli, cit.), è sicuramente indice
ermeneutico ai fini di una corretta interpretazione della norma di cui all’art. 160 legge fallim. sul concordato preventivo.
Parte II - Giurisprudenza
101
mento alle classi individuate, in coerenza con l’utile percepibile dalla cessione dei beni come indicata.
Ciò detto in punto fattibilità del piano occorre analizzare, anche alla luce del contrasto giurisprudenziale in atto, l’eventuale inammissibilità della
previsione del pagamento percentuale di creditori aventi il medesimo privilegio nonché la legittimità della transazione fiscale cui è subordinata la fattibilità del piano stesso.
Sul primo aspetto si osserva quanto segue.
Nella proposta presentata dall’azienda ricorrente i creditori, per quanto
di interesse, sono stati divisi in 4 classi. La prima contenente i creditori privilegiati ex art. 2751 bis cod. civ. e gli Istituti Previdenziali per i crediti assistiti da privilegio ex art. 2751 bis cod. civ. con previsione di pagamento
integrale. La terza classe con previsione di pagamento del 36% per crediti,
Irap, Irpef ed Iva.
Recentemente, il Tribunale di Piacenza 1 luglio 2008 ha cosı̀ statuito:
«...Nel caso di specie i crediti tributari e quelli dei lavoratori hanno il medesimo grado di privilegio trattandosi di privilegio generale (quanto meno con
riferimento ai crediti tributari) anche se per i crediti di cui all’art. 2751 bis
n. 1) viene previsto dal combinato disposto degli dall’art. 2777 e 2779 cod.
civ. il pagamento con preferenza rispetto a quelli di cui all’art. 2752 cod.
civ. (crediti per tributi diritti dello Stato, per imposta sul valore aggiunto e
per tributi degli enti locali).
Osserva tuttavia il Tribunale come il rispetto del grado del privilegio è
qualcosa di diverso dal rispetto dell’ordine del pagamento previsto dagli articoli 2777 e 2778 cod. civ.; nel caso di specie tale «grado» paritetico di creditore privilegiato generale non viene rispettato, in quanto per i crediti erariali
muniti di privilegio generale viene previsto il pagamento nella misura
dell’89% e del 31% rispetto al 90% previsto per altri creditori portatori di
analogo privilegio generale (sebbene preferiti al momento del pagamento);
viene previsto, in altre parole il pagamento in misura inferiore rispetto ai crediti dei lavoratori, creditori privilegiati di pari grado (si tratta di infatti di crediti aventi il «grado» di privilegio generale ex art. 2751 bis cod. civ. al pari del
credito tributario; cfr. certificazione Equitalia) con la conseguenza che la proposta di transazione fiscale appare – sotto questo aspetto – inammissibile in
quanto effettuata in violazione dei criteri indicati dell’art. 182 ter legge fallim.
Ritiene il Collegio che tale interpretazione non sia accoglibile.
L’art. 182 ter legge fallim. prevede espressamente che «...se il credito tributario è assistito da privilegio, la percentuale, i tempi di pagamento e le even-
Inoltre, come correttamente la stessa sentenza del Tribunale di Piacenza in commento
afferma, la norma di cui all’art. 182 ter legge fallim. sulla transazione fiscale, deve essere letta
102
Il diritto fallimentare e delle società commerciali
tuali garanzie non possono essere inferiori a quelli offerti ai creditori che hanno un grado di privilegio inferiore o a quelli che hanno una posizione giuridica
ed interessi economici omogenei a quelli delle agenzie fiscali...».
Dal combinato disposto degli artt. 2751 bis e e 2777 e segg. cod. civ.
emerge come i crediti dei lavoratori e quelli dell’erario godano si della medesima garanzia consistente nel privilegio generale sui mobili ma con grado
di soddisfazione diverso. Ritiene il Collegio che anche la sola diversità di
grado sia idonea a differenziare la posizione giuridica come richiesto dalla
normativa richiamata ai fine della predizione di diverse percentuali di pagamento in sede di concordato preventivo.
La ratio che sottende la progressività del grado, infatti, presuppone una
diversa considerazione da parte del legislatore di crediti che, seppur muniti
della stessa garanzia, hanno un substrato giuridico ed economico-sociale diverso tanto da giustificare un diverso trattamento.
All’evidenza, quindi, posizione giuridiche non omogenee sono passibili
di diverso trattamento in sede di concordato preventivo in aderenza al dettato normativo da interpretarsi, ad avviso del Collegio, anche in coerenza
con la ratio della riforma che ha nella transazione fiscale uno dei punti di
forza dell’istituto del concordato preventivo.
Sulla transazione fiscale. – Sul punto pare consolidato, ed il Tribunale
non ha motivo di discostarsene, il filone interpretativo secondo cui lo strumento innovativo della transazione fiscale di cui all’art. 182 ter legge fallim.
si risolve in una modalità collaterale ed interna alla procedura di concordato
preventivo, quale parte del più generale piano proposto.
La transazione fiscale non è, infatti, un autonomo accordo, ma costituisce una fase endoconcorsuale, che si chiude con l’adesione o il diniego alla
proposta di concordato mediante voto espresso nell’adunanza dei creditori.
Dall’inserimento della transazione fiscale nel piano concordatario e dall’espressione del voto, da parte dell’Agenzia delle Entrate e del concessionario in sede di adunanza dei creditori, deriva, come conseguenza logica
che l’accordo si identifica con il concordato stesso e non può che condividerne gli effetti e le sorti nelle sue varie fasi fisiologiche e patologiche.
Ulteriore conseguenza consiste nel fatto che l’Agenzia delle Entrate ed il
concessionario resteranno soggetti all’esito della votazione concordataria (in
questo senso Tribunale di Bologna, decreto del 26 ottobre 2006 e la più recente giurisprudenza del Tribunale di Milano).
L’eventuale omologazione della procedura di concordato preventivo
ed interpretata nella «cornice» del concordato preventivo, di cui costituisce fase endoconcorsuale.
Il richiamo effettuato dall’art. 182 ter legge fallim., al grado del privilegio sembra allora
Parte II - Giurisprudenza
103
determinerà la cessazione della materia del contendere nelle liti relative ai
tributi definiti (art. 182 ter, 58 comma, legge fallim.).
Da tali premesse deriva che la transazione fiscale, in quanto costituente
parte integrante del piano concordatario produrrà o meno i suoi effetti se la
proposta di concordato sarà o non omologata.
Altra e più complessa questione attiene alla tipologia di tributi che possono formare oggetto di transazione fiscale in particolare, e per quanto di
interesse nella presente procedura, l’Iva.
Secondo una giurisprudenza (Tribunale Piacenza 1 luglio 2008) «...Va
inoltre ricordato che l’articolo 182-ter esclude espressamente dalla transazione
fiscale i ‘‘tributi costituenti risorse proprie dell’Unione europea’’: devono, pertanto escludersi dalle ipotesi di transazione fiscale anche le somme dovute all’erario a titolo di Iva, in quanto l’ottavo considerando della Direttiva CEE
del 28 novembre 2006, n. 112 (‘‘Direttiva CE del Consiglio relativa al sistema
comune d’imposta sul valore aggiunto’’) afferma che ‘‘in applicazione della decisione 2000/597/CE, Euratom del Consiglio, del 29 settembre 2000, relativa
al sistema delle risorse proprie delle Comunità europee, il bilancio delle Comunità europee, salvo altre entrate, è integralmente finanziato da risorse proprie delle Comunità. Dette risorse comprendono, tra l’altro, quelle provenienti dall’Iva, ottenute applicando un’aliquota comune ad una base imponibile
determinata in modo uniforme e secondo regole comunitarie...».
Secondo una diversa e condivisibile giurisprudenza, invece, «...la quota
di Iva dovuta dallo Stato Membro alla Unione Europea nulla ha a che vedere
con il tributo Iva dovuto dal contribuente italiano ed amministrato dalle
Agenzie fiscali. L’imponibile Iva di uno Stato Membro della Comunità Europea è solo il parametro cui applicare una aliquota concordata da tutti i paesi
membri... (parametro) che prescinde dalla riscossione dell’imposta dovuta dal
singolo contribuente italiano e, quindi, qualunque sia la percentuale di pagamento del credito Iva proposta dal ricorrente nella transazione fiscale ex art.
182 ter, legge fallim. essa non modificherà mai l’imponibile nazionale su cui
calcolare la risorsa spettante alla CEE. Conseguentemente l’Iva, quale imposta
nazionale amministrata dalle Agenzie Fiscali, non rientra tra le risorse proprie
dell’Unione Europea; da ciò discende che l’Iva può essere oggetto di transazione fiscale ex art. 182 ter e, quindi, di pattizia previsione di pagamento percentuale (in questo senso la Giurisprudenza del Tribunale di Milano).
Ritiene il Collegio di condividere tale ultima impostazione per la ragione
assorbente che la c.d. Iva comunitaria non è calcolata sul riscosso Iva nazio-
essere alla graduazione prevista in caso di esecuzione coattiva del credito. La norma in esame
usa la dizione «grado di privilegio» in senso di causa legittima di prelazione, cosı̀ come il richiamo all’omogeneità della posizione giuridica e degli interessi economici, sembra riferirsi
104
Il diritto fallimentare e delle società commerciali
nale cosı̀ che la rinuncia dalla riscossione di parte dell’imposta sul valore
aggiunto è rinuncia propria dello Stato Italiano senza nessuna incidenza diretta o indiretta sul sistema di finanziamento comunitario.
D’altra parte la direttiva comunitaria citata dal tribunale di Piacenza, e
che prevede come il finanziamento delle Comunità avvenga anche tramite
risorse provenienti dall’Iva, prevede unicamente che tali somme debbano
essere calcolate applicando un’aliquota comune su di una base imponibile
determinata da regole comunitaria. Base imponibile che, come sopra detto,
non è data dall’Iva riscossa in concreto.
Da ciò l’accoglibilità della transazione fiscale anche se avente ad oggetto
l’Imposta sul Valore Aggiunto.
P.Q.M. visto l’art. 163 legge fallim.; dichiara aperta la procedura di concordato preventivo della B. & C. soc. in acc. sempl.; delega alla procedura il
dott. Andrea Balba; ordina la convocazione dei creditori per il giorno e stabilisce il termine per la comunicazione agli stessi del presente provvedimento entro il giorno; nomina il commissario giudiziale in persona; stabilisce il
termine di giorni 10 per il deposito in cancelleria del 50% delle spese che si
presumono necessarie per l’intera procedura. (Omissis)
III
(Omissis)
Nel procedimento n. 232/2008 reg. conc. prev. promosso con ricorso ex
art. 160 legge fallim. depositato il 22 ottobre 2008 dalla società V. soc. a
resp. lim. in liquidazione ha pronunciato il seguente decreto.
Considerato che con ricorso depositato il 22 ottobre 2008 il rag. F.M.,
in qualità di liquidatore della società V. soc. a resp. lim. in liquidazione, con
sede in **, via **, ha proposto domanda di ammissione dell’indicata società
alla procedura di concordato preventivo;
valutato che sussistono i presupposti e le condizioni di cui all’art. 160
legge fallim., ed in particolare rilevato che la società si trova in stato di insolvenza, come emerge dalla consistenza dei debiti dalla stessa esposti nella
situazione patrimoniale-economica-finanziaria al 31 agosto 2008, dai dati di
bilancio al 31 dicembre 2005, al 31 dicembre 2006 e al 31 dicembre 2006,
nonché dalle iscrizioni ipotecarie giudiziali documentate;
proprio alle valutazioni fatte dal legislatore per l’individuazione dell’ordine di preferenza per
il soddisfacimento del credito. È la qualità degli interessi protetti che consente alla norma di
funzionare.
Parte II - Giurisprudenza
105
ritenuta la documentazione depositata, in conformità alla previsione
dell’art. 161 legge fallim., completa e regolare;
rilevato che la relazione ex art. 161 legge fallim. redatta dal dott. **,
professionista in possesso dei requisiti di legge, che attesta la veridicità
dei dati esposti dalla società e la fattibilità del piano, appare logica, coerente
e congruamente motivata;
osservato che la proposta prevede la suddivisione in classi dei creditori,
e quindi il Tribunale è chiamato a pronunciarsi, a mente dell’art. 163 comma 1 legge fallim., con riguardo alla correttezza dei criteri di formazione
delle diverse classi;
valutato che nella proposta è previsto il pagamento integrale dei creditori privilegiati ex art. 2751 bis cod. civ. ed ex art. 2777 cod. civ. nonché del
creditore ipotecario Dal Maschio soc. per az. che in caso di esecuzione della
proposta di concordato otterrebbe l’integrale soddisfazione del suo credito,
mentre per gli ulteriori creditori è prevista la suddivisione in 5 classi con
previsione di trattamenti differenziati e contestuale transazione fiscale (depositata il 22.10.2008 al competente Ufficio delle entrate):
Classe 1 – enti Inps e Inail con soddisfazione nella percentuale del 65%
Classe 2 – Erario e Enti Locali con soddisfazione nella percentuale del
25%
Classe 3 – Banca Popolare di Bergamo con soddisfazione nella percentuale del 61,5%
Classe 4 – Sandretto con soddisfazione nella percentuale del 25%
Classe 5 – creditori chirografari con soddisfazione nella percentuale del
10%
considerato che la differenziazione proposta può trovare ragionevole
giustificazione nella omogeneità della posizione giuridica e degli interessi
economici degli appartenenti alla medesima classe, nonché nel rispetto
dei titoli di prelazione vantati, e dunque può ritenersi accertato che sono
stati correttamente utilizzati i criteri di formazione delle diverse classi, secondo la previsione dell’art. 160 lett. c) legge fallim.,
valutato, in particolare, che risulta rispettato il criterio indicato nell’art.
182 ter legge fallim. con riguardo al prospettato pagamento parziale del cre-
Ciò significa, in altri termini, che la transazione fiscale, cosı̀ come chiarito anche da un
recente intervento dell’Agenzie delle Entrate (31), al fine di consentire un soddisfacente ambito concreto di applicabilità, può riguardare, prevedendone il pagamento in percentuale,
(31) Circolare delle Agenzie delle Entrate 18 aprile 2008, in www.agenziaentrate.gov.it.
106
Il diritto fallimentare e delle società commerciali
dito tributario assistito da privilegio, atteso che risulta offerta per detto credito la medesima percentuale e le medesime modalità di pagamento previste per i creditori con identica posizione giuridica ed interessi economici
omogenei,
considerato che questo Tribunale condivide l’orientamento per cui non
può affermarsi che i crediti dei lavoratori, privilegiati ex art. 2751 bis cod.
civ. (per i quali è offerto il pagamento integrale), i crediti degli enti previdenziali ex art. 2753 cod. civ., per la quota capitale (per i quali è offerto il
pagamento nella misura del 68%), e i crediti tributari (per i quali è offerto il
pagamento nella misura del 25%) si trovino in «grado» paritetico, atteso
che quand’anche tutti i crediti indicati godano del medesimo privilegio generale sui mobili, essi presentano un ordine di soddisfazione diversa, sancito dagli art. 2777 e segg. cod. civ., e quindi la loro posizione giuridica – giustificata da un differente rilievo economico-sociale – deve valutarsi non
omogenea (in questo senso Tribunale Pavia 8 ottobre 2008, contra Tribunale Piacenza 1 luglio 2008),
visti gli artt. 160 e 163 comma 1 legge fallim., dichiara aperta la procedura di concordato preventivo della società V. soc. a resp. lim. con sede in
**, in persona del liquidatore rag. F.M.;
nomina giudice delegato per la procedura di concordato la dott.ssa Laura De Simone;
nomina Commissario Giudiziale il dott. *;
determina in euro 150.000,00, pari al 30% dell’importo per spese che si
presumono necessarie per l’intera procedura, la somma che entro il termine
di giorni quindici dalla comunicazione del presente decreto, la società ricorrente dovrà versare su libretto bancario nominativo intestato alla procedura
di concordato preventivo della V. soc. a resp. lim. – Commissario Giudiziale dott. *, mediante deposito in Cancelleria del libretto medesimo, importo
determinato tenuto conto del presumibile compenso del commissario giudiziale, delle spese di registrazione e di ogni ulteriore onere di procedura;
fissa per l’adunanza dei creditori l’udienza del 26 novembre 2008 ore
9.30 presso lo studio del Giudice Delegato, assegnando termine sino al
17 novembre 2008 per la comunicazione ai creditori a cura del commissario
giudiziale. (Omissis)
tutti i crediti tributari muniti di prelazione, anche quelli muniti di privilegio generale, al cui
interno la graduazione di riferimento è necessariamente quella di cui agli artt. 2777 e 2778
cod. civ., espressione di valutazione da parte del legislatore in relazione agli interessi da proteggere.
Dario Restuccia
Università degli Studi di Milano-Bicocca
TRIBUNALE DI MILANO
14 luglio 2008
Pres. Est. Bartolomeo Quatraro
Foto Cine Ottica Soc. a resp. lim. (di seguito Giovenzana)
Concordato preventivo - Decreto di omologa - Reclamo - Accoglimento Revoca del decreto di omologa - Ricorso in cassazione - Effetti
(Art. 183 legge fallim. - Artt. 741 e 742 cod. proc. civ.)
La pronuncia con cui la Corte d’appello dichiara, in sede di reclamo ex
183 legge fallim., l’inammissibilità della proposta di concordato preventivo
deve essere intesa, se fondata su ragioni di merito, quale revoca del decreto
di omologazione del concordato stesso, con la conseguenza che, nulla disponendo l’art. 183 legge fallim., il provvedimento reso in sede di reclamo acquisterà efficacia solo all’esito del giudizio per cassazione (1).
Il G.D.
– premesso in fatto quanto riferito nel ricorso;
– considerato:
a) che la Corte d’Appello di Milano, con decreto 14 maggio 2008 ha
dichiarato inammissibile la proposta di concordato preventivo della Giovenzana, non per ragioni di «rito» ma per ragioni di «merito» e, quindi,
la pronuncia va rettamente interpretata come «revoca» del decreto di omologa emesso dal Tribunale;
b) che il decreto della Corte d’Appello non ha contestualmente dichiarato ne ha rimesso gli atti al Tribunale per la dichiarazione di fallimento della Giovenzana;
c) che l’art. 183 legge fallim. (come novellato dal d.lgs. n. 169/2007)
(1) Alcune osservazioni in tema di reclamo avverso il decreto di omologa del concordato preventivo.
Il provvedimento in commento offre l’occasione per affrontare alcune questioni emerse a
seguito della nuova formulazione dell’art. 183 legge fallim. intervenuta col d. lgs. n. 169 del
12 settembre 2007 (c.d. decreto correttivo alla riforma del fallimento). In primo luogo viene
in rilievo l’affermazione secondo cui la dichiarazione di inammissibilità della proposta di concordato preventivo, in sede di reclamo camerale ex 183 legge fallim., per motivi attinenti al
merito, e non al rito, deve ritenersi come revoca del decreto di omologa emesso dal tribunale
ai sensi dell’art. 180 legge fallim.. In merito a tale aspetto occorre, preliminarmente, svolgere
alcune considerazioni di carattere generale.
Il nuovo impianto normativo dell’art. 183 non prevede una disciplina particolare in relazione alla forma che il reclamo ivi previsto deve seguire. Il procedimento, pertanto, sarà
108
Il diritto fallimentare e delle società commerciali
non prevede il ricorso per Cassazione avverso il decreto della Corte d’Appello; ma ciò nonostante, la Giovenzana ha proposto questo ricorso;
soggetto, almeno nelle ipotesi in cui il tribunale omologhi il concordato oppure rigetti l’omologazione (senza che allo stesso consegua il fallimeno), alle norme generali di cui agli artt. 737
segg. cod. proc. civ. (1). La prospettiva testè descritta implica l’applicabilità dell’art. 742 cod.
proc. civ., in virtù del quale i decreti possono essere in ogni momento modificati e revocati (2).
Quanto al concetto di revoca esso viene definito, dalla dottrina processual-civilistica, come
quel provvedimento mediante il quale il giudice, nel caso di specie la corte d’appello, intervenendo su una stessa fattispecie, elimina, o ritira, la statuizione rilevante per la regolamentazione del caso concreto (3). Deve osservarsi, inoltre, che la revoca può essere disposta, oltre
che su iniziativa di parte, anche d’ufficio (4), può avere ad oggetto, ulteriormente, una migliore valutazione del merito (5) e riguardare sia i decreti di accoglimento che quelli con contenuto negativo. Nel caso in cui sia stato proposto reclamo sul quale si sia pronunciato il giudice di secondo grado, parte della dottrina considera proprio quest’ultimo giudice quale competente a decidere sulla istanza di revoca posto che tale fase rappresenta solo una «prosecuzione» del procedimento camerale di primo grado (6). Si ritiene, poi, che, nonostante l’espressione «in ogni momento» contenuta nel testo dell’art. 742 cod. proc. civ., il potere di revoca
possa essere esercitato solo fino a quando non abbia prodotto i propri principali effetti (7).
In tale ordine appare, sotto il profilo sistematico, perfettamente coerente e corretta la
ricostruzione in termini di revoca della pronuncia della corte d’appello effettuata dal provvedimento oggetto del presente breve commento.
Ciò nonostante secondo altra, e più fondata, prospettiva ad impedire nella materia de
(1) Appello Milano 11 ottobre 2006 e 12 ottobre 2006, Fa, 2007, 27; cfr. anche Cassazione 16 giugno 1983,
n. 4130, CED RV 429079; in dottrina Grossi, La riforma della legge fallimentare, Milano, 2008, 1591; Cecchella, Opposizione di terzo e appello avverso una sentenza di omologazione del concordato preventivo, Fa, 2008, 318;
Fauceglia, Brevi considerazioni su alcuni profili del nuovo concordato poreventivo: il rebus del legislatore e le resistenze dei giudici, nota a sentenza Tribunale Salerno, 4 giugno 2006, GI, 2006, 2084 seg., secondo cui «proprio
in presenza di sviste evidenti o dimenticanze del legislatore sembra che il richiamo alla disciplina generale possa
consentire il superamento dell’esistenza di aporie»; vedi, più in generale, anche Micheli, Camera di consiglio
(dir. proc. civ.), EdD, V, Milano, 1959, 981 seg.; Verde, La volontaria giurisdizione, Padova, 1989, 13 seg.
(2) Sulla revocabilità, in generale, dei provvedimenti ex art. 742 cod. proc. civ., cfr. Di Florio, Volontaria
giurisdizione e rito camerale, Milano, 2004, pag. 125 seg.; Montesano-Arieta, Trattato di dir. proc. civ., 2. Riti
differenziati di cognizione, Tomo II, Padova, 2002, 1225 seg.; Cerino Canova, Per la chiarezza delle idee in tema
di procedimento camerale e di giurisdizione volontaria, in Studi in onore di Enrico Allorio, I, Milano, 1989, 39 segg.
(3) Pagano, Contributo allo studio dei procedimenti in camera di consiglio, Dir. Giur., 1988, 81; Chizzini,
La revoca dei provvedimenti di volontaria giurisdizione, Padova, 1994, 301.
(4) Di Florio, Volontaria giurisdizione e rito camerale, cit., pag. 125-126; Cassazione 21 marzo 1970 n.
751, FI, I, 1650.
(5) Iannuzzi, Manuale di volontaria giurisdizione, Milano, 1984, pag. 780; Chizzini, La revoca dei provvedimenti di volontaria giurisdizione, cit., pag. 341 seg.; cfr. anche Cassazione 28 gennaio 1995, n. 1026, CED RV
490060, che ammette, in merito ai provvedimenti ex art. 330, 332, 333, 336 cod. civ., ancorché adottati dalla
corte d’appello in esito al reclamo, un riesame nel merito degli stessi.
(6) Cfr. Montesano-Arieta, Trattato di dir. proc. civ., 2. Riti differenziati di cognizione, Tomo II, cit., pag.
1211; Appello Milano, 22 aprile 1981, Dir. Fam., 1982, 503.
(7) Di Florio, Volontaria giurisdizione e rito camerale, cit., pag. 129; Cerino Canova, Per la chiarezza
delle idee in tema di procedimento camerale e di giurisdizione volontaria, cit., pag. 44, nota 127.
Parte II - Giurisprudenza
109
d) che mentre il comma 5 dell’art. 180 dispone che «il decreto di omologazione... è provvisoriamente esecutivo», l’art. 183 legge fallim. non dispone analogamente per il decreto della Corte d’Appello;
e) che, stante la natura eccezionale della disposizione dell’art. 180, questa non sembra estensibile al decreto emesso dalla Corte d’Appello ai sensi
dell’art. 183 legge fallim.;
f) che, in mancanza di analoga disposizione, si reputa applicabile la norma dell’art. 741 cod. proc. civ. (dettata in via generale per i provvedimenti
camerali) a mente della quale «i decreti acquistano efficacia quando sono
decorsi i termini di cui agli articoli precedenti, senza che sia stato proposto
reclamo»;
quibus l’impiego dello strumento della revoca di cui all’art. 742 cod. proc. civ., concorre da
un lato la necessità di stabilità sottesa al dcreto che definisce il giudizio di omologazione e,
dall’altro lato, l’ammissibilità, anche in assenza di un riferimento testuale, in tal senso da parte
dell’art. 183, del ricorso per cassazione avverso il decreto della corte d’appello (8).
In relazione all’esperibilità o meno del ricorso in cassazione si è affermato, infatti, che la
questione deve considerarsi ormai superata posta la capacità del provvedimento del giudice
del riesame di incidere sui diritti soggettivi e manifestando, pertanto, un contenuto di carattere decisorio (9).
Per quanto concerne, infine, il profilo dell’efficacia del decreto reso in sede di reclamo,
occorre osservare che l’art. 183 legge fallim. nulla dice sul punto. Diversamente il comma 5,
dell’art. 180 legge fallim., afferma che il decreto di omologazione è provvisoriamente esecutivo, ciò comportando l’eseguibilità del piano concordatario anche in pendenza di un eventuale gravame che interessi il medesimo provvedimento. Su tali premesse il provvedimento in
esame, nel considerare applicabile la norma dell’art. 741 cod. proc. civ., nega la provvisoria
esecutività del decreto emesso dalla corte d’appello ai sensi dell’art. 183 legge fallim.
A questo proposito è sufficiente rilevare che il richiamo all’art. 741 cod. proc. civ. è giustificato proprio dalla lacunosa formulazione dell’art. 183 la quale si limita solo ad enunciare
il reclamo camerale senza prevederne una disciplina di dettaglio, cosı̀ come avviene, per converso, in merito al giudizio di omologazione ad opera dell’art. 180 legge fallim. La norma del
codice di rito richiamata, pertanto, trova applicazione, in questo caso, in forza dell’efficacia
espansiva che l’art. 742-bis cod. proc. civ. riconosce agli artt. 737 segg. cod. proc. civ., i quali
formano, come è noto, le cosiddette «disposizioni comuni ai procedimenti in camera di consiglio» (10). Quanto dianzi detto trova conferma in un orientamento giurisprudenziale secondo cui la disciplina generale del rito camerale è estesa, sulla base dell’art. 742-bis cod. proc.
(8) Cfr. Pajardi-Paluchowski, Manuale di diritto fallimentare, Milano, 2008, pag. 883; Fabiani-Nardecchia, in Formulario commentato della legge fallimentare, II ed., Milano, 2007, pag. 1844; Commento sub art.
183, in Codice commentato del fallimento, diretto da Lo Cascio, Milano, 2008, pag. 1649; Cassazione 17 aprile
1993, n. 4541.
(9) Bonfatti-Panzani, La riforma organica delle procedure concorsuali (a cura di), Milano, 2008, pag. 734.
(10) Mandrioli, Diritto processuale civile, vol. IV, ed. XVIII, Torino, pag. 316 seg.; v. però: MontesanoArieta, Trattato di dir. proc. civ., 2. Riti differenziati di cognizione, Tomo II, cit., pag. 1101 e 1203-1204.
110
Il diritto fallimentare e delle società commerciali
g) che avendo la Giovenzana proposto ricorso per Cassazione, il decreto
della Corte d’Appello non ha efficacia immediata e l’acquisterà solo al termine del relativo giudizio;
– ritenuto, pertanto, che il decreto della Corte d’Appello non ha prodotto l’immediata caducazione del proposto concordato preventivo e/o
del decreto del Tribunale che l’aveva omologato;
– condiviso il parere del commissario giudiziale (che va considerato parte integrante, nel merito, di questo provvedimento).
P.Q.M. autorizza la cessione del ramo d’azienda alle condizioni del contratto 3 novembre 2006 e della sua integrazione in data 12 dicembre 2006.
civ., a tutti quegli atti per i quali è prevista la decisione in camera di consiglio ancorché diano
luogo ad un procedimento di natura decisoria e definitiva (11).
È evidente, poi, che la previsione di una disciplina speciale da parte dell’art. 183 legge
fallim., avrebbe precluso ogni possibile spazio per un eventuale estendibilità delle norme generali e, qundi, dell’art. 741 cod. proc. civ. (12).
In conclusione le affermazioni contenute nel provvedimento in commento, che ritengono
applicabile alla fattispecie delineata dall’art. 183 legge fallim. la disciplina generale contenuta
negli artt. 737 segg. cod. proc. civ., sembrano pienamente condivisibili salvo tener conto delle
specifiche esigenze che si presentano nello svolgimento di una procedura concorsuale, e/o
concordataria, che possono costituire un temperamento all’utilizzo delle norme in questione
fino a portare, come nel caso della revoca, ad una loro esclusione.
Dott. Pasquale Brenca
Studio legale Fauceglia
Iscritto al Dottorato di ricerca
Università di Siena
(11) Cassazione 16 giugno 1983, n. 4130 cit..
(12) Cfr. Di Florio, Volontaria giurisdizione e rito camerale, cit., pag. 147-148; Micheli, Camera di consiglio, cit., pag. 981 seg.; Verde, La volontaria giurisdizione, cit., pag. 13 s.
TRIBUNALE DI ROMA
28 aprile 2006 (decreto)
Pres. - Rel. Severini
Concordato preventivo - Decreto di pagamento a favore dell’ausiliario del
magistrato - Giudizio di opposizione - Art. 26 legge fallim. - Applicabilità
(Art. 26 r.d. 16 marzo 1942 n. 267; artt. 2, 229 d.p.r. 30 maggio 2002, n. 115)
Concordato preventivo - Decreto di pagamento a favore dell’ausiliario del
magistrato - Giudizio di opposizione - Legittimazione del P.M. - Ammissibilità
(Artt. 26; 162 r.d. 16 marzo 1942 n. 267)
Concordato preventivo - Decreto di pagamento a favore dell’ausiliario del
magistrato - Giudizio di opposizione del P.M. - Decreto di pagamento
fondato sulle tabelle professionali - Annullabilità - Applicazione dei
criteri previsti dal Testo Unico sulle Spese di Giustizia - Accertamento
plurimo - Pagamento di distinte liquidazioni - Ammissibilità
(Art. 26 r.d. 16 marzo 1942 n. 267; artt. 2, 5, 52 d.p.r. 30 maggio 2002,
n. 115)
Poiché la legge fallimentare costituisce un sistema chiuso ed il Testo Unico
sulle Spese di Giustizia non ha previsto alcuna specifica deroga, al giudizio di
opposizione avverso il decreto di pagamento a favore dell’ausiliario del magistrato è applicabile l’art. 26 legge fallim. ed è quindi competente il tribunale
fallimentare in composizione collegiale (1).
Poiché si deve ritenere che l’art. 162 legge fallim. sia tuttora vigente, l’obbligo di sentire il P.M. rimane valido e previsto a pena di nullità sia nel caso
in cui il Tribunale intenda dichiarare l’inammissibilità del concordato preventivo, sia nel caso in cui intenda dichiarare l’ammissione del debitore alla procedura. Ne consegue che, anche in considerazione delle caratteristiche della
procedura di concordato preventivo, al P.M. spetta la legittimazione ad esprimere giudizi ed a proporre istanze (2).
È annullabile il decreto di pagamento a favore dell’ausiliario del magistrato che si fonda sulle tabelle professionali. La liquidazione deve, invece, basarsi
sulle tabelle previste dal Testo Unico sulle Spese di Giustizia. Qualora poi si
tratti di accertamento plurimo ed all’ausiliario siano stati richiesti distinti accertamenti, possono essergli corrisposte distinte liquidazioni (3).
(1-3) La decisione in rassegna, confermata per altro dal medesimo tribunale con analogo
112
Il diritto fallimentare e delle società commerciali
(Omissis)
Con atto depositato il 15 febbraio 2006 il Procuratore della Repubblica
presso questo Tribunale proponeva opposizione al decreto di pagamento
emesso il 29/30 novembre 2005 dal G.D. alla procedura di concordato preventivo n. 6/2005 della I.I. soc. per az. a favore dell’ausiliario del magistrato
dott. M.C., in relazione ad incarico peritale, rilevando che:
— lo stesso era stato nominato CTU il 20 ottobre 2005 per verificare
l’esattezza delle scritture e della documentazione contabili depositate a corredo della domanda di concordato in relazione alla fattibilità del piano di
ristrutturazione del debito;
— il CTU aveva depositato la relazione in data 18 novembre 2005 ed
aveva chiesto la liquidazione dell’onorario, su un valore della consulenza
di A 60.618.431,86, proponendo la duplice alternativa: A 327.365,63 ai sensi
dell’art. 31 n. 1 lett. a) (tariffa professionale) ovvero A 112.559,26, raddoppiato ai sensi dell’art. 5 della l. 319/1980 in A 225.118,52, ai sensi del TU
delle spese di giustizia, in particolare del D.M. 30 maggio 2002;
— il G.D. aveva liquidato l’onorario di A 320.000,00, ai sensi del citato
art. 31;
— il G.D. aveva errato sotto l’aspetto normativo, non avendo considerato il Consulente nominato dal G.D. come «ausiliario» del magistrato (art.
3 lett. N – D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115) e, conseguentemente, non avendo applicato il D.M. 30 maggio 2002, richiamato dagli artt. 49 e 50;
— il Consulente, rilevava sempre il P.M., aveva, comunque, richiesto, in
alternativa, «l’applicazione dell’art. 2 del D.M. cit. per ben 11 volte (e per il
suo importo massimo) a fronte di analisi aventi ad oggetto le stesse fattispecie...)».
Il P.M. entrava quindi nel merito della relazione («di appena 14 pagine»), nel valutarne il valore, rilevava la sua legittimazione ad impugnare e
chiedeva che fosse emesso provvedimento di liquidazione sulla base di
una corretta interpretazione dell’art. 2 del D.M. citato, proponendo la somma di A 10.256,32, tuttavia raddoppiabile ex art. 5 citato, sospendendo,nelle more, l’esecuzione del provvedimento impugnato.
Il Collegio disponeva la comparizione delle parti.
Il P.M., con memoria depositata il 15 marzo 2006 eccepiva ancora l’incompetenza del tribunale in composizione collegiale, ai sensi dell’art. 170
del D.P.R. 115/2002 ed invitava formalmente il giudice che aveva emesso
decreto di pochi mesi successivo (Tribunale di Roma, Sez. Fall., 23 giugno 2006), nell’affrontare tre differenti questioni di diritto, prende avvio dall’analisi di quella attinente la corretta
qualificazione della domanda e la correlativa competenza del tribunale adito. Viene dunque
affermata l’applicabilità dell’art. 26 legge fallim. in luogo dell’art. 170 D.P.R. 115/2002 in me-
Parte II - Giurisprudenza
113
il decreto di liquidazione ad astenersi, con riferimento all’art. 51 n. 4 cod.
proc. civ.
Si costituiva il Consulente dott. C. che eccepiva:
1 - la carenza di legittimazione del P.M., ai sensi degli artt. 69, 70, 72
cod. proc. civ.;
2 - l’inapplicabilità del D.P.R. 115/2002, riferibile alla legge fallimentare
soltanto nei casi espressamente previsti (artt. 2, 146, 147);
3 - l’applicabilità, invece, dell’art. 26 legge fallim., come dimostravano,
da un lato, l’esclusione di tale norma da quelle espressamente abrogate dal
D.P.R. 115 (art. 299), dall’altro l’atto processuale dello stesso P.M., che
aveva depositato l’opposizione secondo il rito previsto dallo stesso art. 26
legge fallim.;
4 - la tardività dell’opposizione per violazione del termine di cui all’art.
26 legge fallim., avendo avuto conoscenza il P.M. del provvedimento fin dal
30 gennaio 2006, con la trasmissione degli atti ad opera della Cancelleria,
mentre ha proposto l’opposizione soltanto il 15 febbraio 2006;
5 - la esattezza dell’applicazione della tariffa professionale in luogo di
quella stabilita dal D.P.R. 115/2002, citato;
6 - rilevava comunque la validità della sua opera, consistente nella relazione e negli allegati.
Richiamava, infine, lo scritto depositato personalmente dal dott. C., che
si dichiarava disposto a rinunciare a parte del proprio compenso (liquidato
dal G.D., lo stesso giorno, in riferimento a due procedure di C.P., rispettivamente, in A 320.000,00 per la procedura di C.P. Infotel Italia soc. per az.
ed in A 180.000,00 per il C.P. I. soc. a resp. lim., per complessivi A
500.000,00), se calcolato (diversamente da quanto aveva ritenuto il G.D.)
ai sensi del D.M. 115: precisava la entità della rinuncia agli onorari, con riferimento ad entrambe le procedure, in complessivi A 49.762,96, precisando che trattavasi di mero atto unilaterale, di stretta interpretazione e che
comunque non rappresentava «la volontà di vedere ricalcolato il proprio
compenso».
Si costituiva il liquidatore della società debitrice rilevando la carenza di
interesse e di legittimazione del P.M., attesa la mancanza della qualità di
rito al reclamo avverso il decreto di pagamento a favore dell’ausiliario del magistrato, sancendo la competenza del tribunale in composizione collegiale rispetto alla diversa composizione
monocratica richiesta invece dall’art. 170 D.P.R. 115/2002.
Tale affermazione risulta essere supportata dall’esame delle disposizioni contenute nello
stesso Testo Unico sulle Spese di Giustizia (D.P.R. 115/2002). Da un lato, infatti, vi è l’art. 2
che, nel prevedere il proprio ambito di applicazione, non fa espresso riferimento alla materia
fallimentare, richiamando viceversa esplicitamente i processi penale, civile, amministrativo,
contabile e tributario ai quali deve applicarsi.
114
Il diritto fallimentare e delle società commerciali
parte di questo, il cui intervento o parere non doveva ritenersi obbligatorio
se non nella ipotesi in cui il Tribunale intendesse pronunciare la inammissibilità del ricorso e dichiarare il fallimento del debitore (artt. 162, 163 legge
fallim.), attesa anche la novella che aveva accentuato la natura privatistica
della procedura di concordato preventivo. Propendeva per l’applicabilità
nella specie dell’art. 26 legge fallim., come riconosciuta norma di chiusura,
salva la irriferibilità della legittimazione a reclamare, attribuita dall’inciso
‘chiunque vi abbia interesse’, alla non prevista ipotesi di libero intervento
del P.M.
Nel merito rilevava il proprio difetto di interesse alla liquidazione, in
quanto a carico del deposito costituito ex art. 163 legge fallim. di cui la debitrice aveva perso la disponibilità, in forza del provvedimento di ammissione al C.P.; valutava, infine la rinuncia del consulente come «nuova istanza
di liquidazione».
Il Commissario eccepiva la carenza di legittimazione del P.M.
Motivi. – La qualificazione della domanda – e la connessa competenza
che ne può derivare – costituisce una valutazione che deve precedere quella
sulla legittimazione, in quanto quest’ultimo giudizio deve essere emesso da
un giudice competente.
Nella memoria il P.M. richiama l’art. 170 D.P.R. 30 maggio 2002 n. 115
ed eccepisce l’incompetenza del tribunale in composizione collegiale ex art.
26 legge fallim.
La eccezione non ha fondamento.
Innanzitutto, dal punto di vista formale, il ricorso non è stato depositato
presso la cancelleria del Presidente del Tribunale di Roma, come avrebbe
comportato la corretta applicazione del relativo procedimento speciale invocato dal P.M., ma presso quella del giudice che ha emesso il provvedimento impugnato, lasciando presupporre la proposizione del reclamo ex
D’altro lato, non può neanche ritenersi come implicito il rinvio alla legge fallimentare per
ricomprenderla nel raggio di azione dell’art. 170, dal momento che il testo unico fa ad essa
espresso riferimento unicamente all’art. 229 quando dispone l’abrogazione di alcune norme
primarie tra le quali gli articoli 21, comma 3, 91 e 133, comma 2, del R. D. 267/1942.
È evidente dunque che l’assenza di ogni riferimento all’art. 26 della legge fallim., anche
in tale ultima circostanza, conferma la volontà di mantenere in vita nella sua interezza l’istituto del reclamo.
Ultima notazione, nell’ambito di questa prima questione, deve essere rivolta alla valutazione della tempestività dell’impugnazione effettuata alla luce del disposto dell’art. 26. Già
con la riforma della legge fallimentare (D.lgs. 5/2006) era stato accolto, e con il decreto integrativo e correttivo della normativa fallimentare (D.lgs. 169/2007) ribadito, l’orientamento
giurisprudenziale aperto dalla Corte di Cassazione a Sezioni Unite (sent. n. 2255/1984, in
Parte II - Giurisprudenza
115
art. 26 e 164 legge fallim., con convocazione delle parti a cura della cancelleria e non con notifica.
Ritiene comunque il Collegio legittima la procedura seguita originariamente e formalmente dal P.M., con esclusione dell’applicabilità al caso in
esame dell’art. 170 T.U. cit., richiesta con la seconda memoria, malgrado
l’ampiezza della previsione del T.U. sulle spese di giustizia; due norme
ed il principio della specialità della materia sembrano militare in favore
di tale tesi.
L’art. 2, del citato D.P.R. n. 115, nel prevedere l’ambito di applicazione
della disposizione, stabilisce che «le norme del presente testo unico si applicano al processo penale, civile, amministrativo, contabile e tributario,
con l’eccezione di quelle espressamente riferite dal presente testo unico
ad uno o più degli stessi processi...», e non richiama esplicitamente la legge
fallimentare né rinvia implicitamente ad essa che, invece, è espressamente
menzionata nella parte IV («Processi particolari»: v. artt. 146 e 147 le prenotazioni a debito, anticipazioni e recupero delle spese e il recupero delle
spese in caso di revoca del fallimento), sia pure ad altro titolo.
L’art. 229 – «Abrogazione di norme primarie» –, sempre del D.P.R. n.
115, dispone che, dalla data di entrata in vigore del testo unico, sono abrogate le disposizioni di una serie di norme, ivi specificatamente e tassativamente elencate e tra queste vi è il Regio Decreto 16 marzo 1942 n. 267
(Legge Fallimentare), limitatamente agli articoli 21, comma 3 e 91 e 133
comma 2.
Ebbene, anche in tale ultima circostanza, l’assenza di ogni riferimento
all’art. 26 della legge fallim., sia pure limitatamente ai reclami, peraltro di
non rara applicazione, avverso la liquidazione di onorari ad ausiliari del magistrato ad opera del G.D., conferma la volontà di mantenere in vita nella
sua interezza questo istituto del reclamo, atto speciale, frequentemente ri-
Dir. fall., 1984, II, 760, con nota di G. Ragusa Maggiore; in Giur. comm., 1984, II, 501,
con nota di E. F. Ricci) e confermato dall’intervento della Corte Costituzionale di poco successivo (Corte Cost. 303/1985, in Foro it., 1985, I, 3066, con nota di G. Pagano; in Fall.,
1986, 21, con nota di G. Lo Cascio). La Consulta dichiarò infatti l’illegittimità costituzionale
dell’art. 26 nella parte in cui faceva decorrere il termine per il reclamo al tribunale, originariamente di tre giorni, dalla data del decreto del giudice delegato, anziché dalla data della
comunicazione dello stesso ritualmente eseguita. Attualmente quindi il termine per il reclamo
è fissato dal comma 3 dell’art. 26 in dieci giorni decorrenti appunto dalla comunicazione o
dalla notificazione del provvedimento.
La seconda questione, affrontata dal Tribunale di Roma, attiene invece alla legittimazione o meno del pubblico ministero all’impugnazione del decreto, emesso dal giudice delegato,
di liquidazione degli onorari dell’ausiliario. Nel risolvere positivamente tale quesito, il tribunale si sofferma sullo studio della partecipazione del pubblico ministero al procedimento cosı̀
come disciplinato dall’art. 162 legge fallim.
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Il diritto fallimentare e delle società commerciali
chiamato e di natura urgente, previsto per le procedure concorsuali, in tutta
la sua ampiezza di applicazione; la legge fallimentare prevede un sistema
chiuso, all’interno del quale sono espressamente contemplati i rimedi esperibili avverso tutti i provvedimenti del G.D. – oltre tutto decisi in composizione collegiale – e l’art. 26 legge fallim. costituisce una tipica norma di
«chiusura», destinata ad operare in tutti quei casi in cui il legislatore non
abbia previsto un diverso mezzo di impugnazione contro i decreti del Giudice Delegato (Cassazione civ., Sez. I, del 20 giugno 1996, n. 5719).
La circostanza che esista un rimedio tipico avverso gli atti del G.D. deve
necessariamente portare a ritenere che il rimedio di carattere generale, pur
introdotto successivamente dal T.U. citato, non può essere considerato prevalente rispetto ad esso; né vale il rilievo che l’art. 26 «fa espressamente salve le disposizioni contrarie», in quanto l’inciso che è ammesso reclamo «salvo disposizione contraria» contenuta nello stesso comma 1 non vuole certo
significare che vi sono altri casi di inapplicabilità di tale norma, che sarebbe
in contraddizione con la sua pacifica natura di norma di chiusura, ma è evidentemente riferito alle ipotesi – contenute nella stessa legge fallimentare –
in cui il reclamo avverso provvedimenti del G.D. non è ammissibile, in
quanto sono previsti altri specifici mezzi di impugnazione dalla stessa legge
fallimentare (artt. 98, 100, 102 legge fallim.).
Ritenuta, dunque, la competenza di questo tribunale, in composizione
collegiale, ai sensi dell’art. 26 legge fallim., occorre esaminare ora la complessa questione sollevata da più parti sulla legittimazione del P.M. ad impugnare il provvedimento di liquidazione degli onorari del Consulente
emesso dal G.D., questione che coinvolge numerosi istituti, quali il ‘parere’
richiesto al P.M., nel duplice riferimento alla legge fallimentare e al codice
di rito, la diversa natura dello stesso parere, obbligatoria o facoltativa, a seconda dei casi, la sopravvivenza dell’art. 162 legge fallim. e, nel caso di risposta affermativa a quest’ultimo quesito, la validità della giurisprudenza,
consolidata sotto la vecchia normativa, circa la necessità ‘generale’ di sentire
il P.M. nei casi di ammissione alla procedura di C.P. e non solo quando il
tribunale intendeva dichiarare il fallimento del debitore, come letteralmente
la norma poteva essere intesa.
Tematica questa che molto ha interessato dottrina e giurisprudenza in relazione alla natura necessaria o facoltativa di tale intervento (per una compiuta disamina si veda G. Lo Cascio, Il concordato preventivo, Milano, 2002, 226). L’originaria formulazione dell’art. 162
prevedeva che il tribunale procedesse alla dichiarazione di inammissibilità della proposta
di concordato preventivo una volta «sentito il pubblico ministero». La Corte di Cassazione
è intervenuta sul punto ponendo in relazione tale locuzione con la previsione dell’art. 70,
n. 5, cod. proc. civ. e dal loro combinato disposto interpretava come obbligatorio l’intervento
del pubblico ministero, da ritenersi, per altro, operante in ogni fase del procedimento, con la
Parte II - Giurisprudenza
117
Iniziando l’esame dall’art. 162 legge fallim., si deve subito osservare che
la norma è stata volutamente – e non per errore del legislatore – lasciata in
vita senza modifiche e continua a prevedere il fallimento d’ufficio del debitore, da dichiararsi da parte del tribunale con decreto non soggetto a reclamo, come automatica conseguenza della inammissibilità della proposta («se
non ricorrono le condizioni previste dal comma 1 dell’art. 160 ...o se la proposta di concordato non risponde alle condizioni indicate nel comma 2 dello stesso articolo» ovvero del mancato raggiungimento delle maggioranze,
ai sensi dell’art. 179 legge fallim.): è evidente che le condizioni originariamente previste non sono più quelle richieste dalla novella, ma, a parte la
ricerca di una più consona terminologia, ed un rafforzato obbligo del tribunale di convocare previamente il debitore in camera di consiglio per esercitare il diritto di difesa (C. Cost. 27 giugno 1972, n. 110), ben possono essere
qualificate come ‘condizioni’ lo stato di crisi, la qualità di imprenditore, la
presentazione di un piano, l’obbligo del debitore di presentare la documentazione di cui alle lettere a) fino a d) e la relazione del professionista (v. la
rubrica dell’art. 160 non modificata).
La sopravvivenza dell’art. 162 mantiene in vita l’obbligo di sentire il
pubblico ministero (simul stabunt), ma, a ben vedere, si tratta di effetti reciproci, uno che conforta l’altro autonomamente, senza cadere in una petizione di principio, nel senso che la caduta dell’obbligo di esprimere un parere da parte del P.M. (di antica tradizione, in vigore già con l’art. 3 della
legge sul concordato preventivo del 24 maggio 1903, n. 197) non sembra
potersi concepire, indipendentemente dalla sopravvivenza dell’art. 162 legge fallim., senza che tale effetto appaia sicuramente voluto o espressamente
dichiarato dal legislatore; del resto, se si ritenesse l’abrogazione dell’art. 162
citato, non si comprenderebbe neppure il rinvio operato dall’art. 179 legge
fallim., anch’esso sopravissuto alla riforma, che, nella ipotesi di mancata approvazione del concordato da parte dei creditori, impone al giudice delegato di «riferire immediatamente al tribunale che deve provvedere a norma
dell’art. 162, comma 2» («in tali casi il tribunale dichiara d’ufficio il fallimento del debitore»).
conseguenza che una sua mancanza avrebbe comportato la nullità della sentenza stessa (Corte
di Cassazione, n. 11439/1992, in Fall., 1993, pag. 690, con osservazioni di S. Marchetti;
Corte di Cassazione, n. 4699/1992, in Fall., 1992, pag. 996).
A seguito della riforma del diritto fallimentare, pur essendo rimasta immutata la formulazione dell’art. 162, il differente contesto in cui ora si veniva a trovare, nel quale cioè la legge
demandava esclusivamente ai creditori la valutazione sul merito della proposta, aveva suscitato perplessità sulla necessità di tale intervento. Parte della dottrina considerava infatti indiziante, ed applicabile anche al concordato preventivo, l’abrogazione dell’art. 132 legge fallim.
relativamente all’intervento del pubblico ministero nel concordato fallimentare (G. Lo Ca-
118
Il diritto fallimentare e delle società commerciali
Ritenuta la vigenza dell’art. 162 legge fallim., si deve valutare la concreta
legittimazione del P.M. ad impugnare il decreto di liquidazione degli onorari emesso dal G.D. in favore di un ausiliario del magistrato stesso.
Il CTU e il liquidatore della società debitrice rilevano il difetto di legittimazione attiva del P.M. (artt. 69, 70 e 72 cod. proc. civ.) in quanto, sostanzialmente:
a - la legge non riconduce la norma che impone la richiesta del parere
del P.M. nel concordato al potere di azione ex art. 69 cod. proc. civ.;
b - la procedura è «privatizzata» anche a voler ritenere sussistente l’art.
162 legge fallim.;
c - il P.M. ha quindi soltanto poteri di intervento (art. 72, II comma cod.
proc. civ.), obbligatorio o facoltativo che sia, con possibilità di concludere
«nei limiti delle domande proposte dalle parti», in un rapporto di sussidiarietà e subordinazione rispetto al potere di azione di queste, sul presupposto dell’affievolimento dell’interesse pubblico che il P.M. tutela;
d - conseguentemente il P.M. è carente del potere di impugnazione
autonomo, come da pacifica giurisprudenza.
Le parti che contestano la legittimazione del P.M. si sono richiamate ai
principi generali del codice di rito: il P.M. «ha gli stessi poteri che competono alle parti», quando esercita l’azione civile, solo nei casi stabiliti dalla
legge (art. 69 cod. proc. civ.) e quando interviene nelle cause che egli stesso
avrebbe potuto proporre (art. 70 n. 1 cod. proc. civ.); quando interviene
nelle cause matrimoniali, comprese quelle di separazione personale dei coniugi (art. 70 n. 2 cod. proc. civ.), nelle cause riguardanti lo stato e la capacità delle persone (art. 70 n. 3 cod. proc. civ.), negli altri casi previsti dalla
legge (art. 70 n. 5 cod. proc. civ.), davanti alla Corte di cassazione (art. 70 II
comma cod. proc. civ.) e in ogni altra causa in cui ravvisi un pubblico interesse (art. 70 III comma cod. proc. civ.) è semplice interveniente, distinguendosi poi, ma senza conseguenze in ordine alla questione che qui interessa, l’intervento in obbligatorio (art. 70 I e II comma cod. proc. civ.) e
facoltativo (art. 70 III comma cod. proc. civ.: «Può infine intervenire...»).
scio, Il concordato preventivo, Milano, 2007, 293); del pari non mancava di considerare come
la sopravvivenza stessa dell’art. 162 dovesse essere messa in dubbio in considerazione dello
stretto collegamento che la norma poneva rispetto allo stato di insolvenza ed alla dichiarazione di ufficio del fallimento in conseguenza dell’inammissibilità della domanda di concordato
preventivo; G. Bozza, Le condizioni soggettive ed oggettive del nuovo concordato, in Fall.,
2005, 952).
Al contrario, altra parte della dottrina ha ritenuto tale disposto comunque applicabile,
dovendo tenersi conto tanto della permanenza del dato letterale, quanto della perdurante necessità di assicurare tutela ad interessi collettivi o pubblici – ad esempio nel caso dell’art. 173
legge fallim. relativamente agli atti di frode come causa di arresto della procedura che il pub-
Parte II - Giurisprudenza
119
Ritiene il Collegio non esatta tale ricostruzione sistematica se riferita all’intervento del P.M. nel concordato, sia per la sicura specialità della intera
normativa sulle procedure concorsuali, sia perché il P.M. sembra essere
considerato parte, necessaria, quanto meno in senso formale, del processo,
per cui possono essergli preclusi soltanto atti processuali che la legge riserva
alla parte in quanto titolare del diritto controverso.
La espressione «sentito il pubblico ministero», inserito in una procedura concorsuale, il cui carattere di urgenza è insito nella natura e nella definizione dello stesso istituto, sembra intendere un istituto processuale distinto da quello previsto, in generale, per il rito civile, quando vengono attribuiti al P.M., appunto, un’azione, un intervento obbligatorio, un intervento facoltativo, da proporsi «nei modi previsti nell’art. 267 del Codice» (art. 2
disp. att. cod. proc. civ.) ovvero, quando l’intervento è spiegato, come è
in facoltà dello stesso P.M., davanti al collegio, «mediante comparsa da depositarsi in cancelleria o all’udienza» (art. 3, disp. att. cod. proc. civ.): non
sembra proprio trattarsi dello stesso istituto che vediamo attuato nel caso in
esame, dove l’intera procedura ha ritmi e articolazioni totalmente diversi,
per sua stessa natura e perché «l’omologazione deve intervenire nel termine
di sei mesi dalla presentazione del ricorso ai sensi dell’art. 161; il termine
può essere prorogato per una sola volta dal tribunale di sessanta giorni»
(art. 181 II comma legge fallim.).
Secondo questa interpretazione il P.M., che deve essere obbligatoriamente – quindi a pena di nullità – sentito, acquista la legittimazione a esprimere giudizi e proporre istanze (anche istruttorie) come ritenuto più opportuno – o addirittura a non intervenire affatto (Cassazione, 19 ottobre 1992
n. 11439; Cassazione, 17 aprile 1985 n. 2742) – con le conseguenti facoltà
di esprimere censure relativamente ai provvedimenti emessi.
Ma anche a non voler accettare la tesi ora espressa della peculiarità della
figura del P.M. allorché debba essere «sentito» nella procedura di concordato preventivo ed a voler ritenere tale figura inserita nella più generale previsione dell’intervento del P.M., disciplinata nel codice di rito, sembra evidente che il fondamento del parere richiesto al P.M. non possa che consistere nell’art. 70, I comma, n. 5 cod. proc. civ. (Cassazione, 11439/1992,
cit.; Cassazione, 7 agosto 1989 n. 3613), in quanto non può non trattarsi
blico ministero può contribuire ad individuare – nonché, inoltre, dell’inidoneità dell’abrogazione dell’art. 132 a privare di giustificazione l’intervento del pubblico ministero (S. Bonfatti-P. F. Censoni, La riforma della disciplina dell’azione revocatoria fallimentare del concordato e degli accordi di ristrutturazione, Padova, 2006, 206; U. De Crescienzo-L. Panzani, Il
nuovo diritto fallimentare, Milano, 2005, 38). Alla stessa stregua la prevalente giurisprudenza
di merito ha continuato a risolvere la questione nel senso dell’obbligatorietà dell’intervento
del pubblico ministero (cosı̀ il decreto in commento ma anche: Tribunale Bologna, 17 gen-
120
Il diritto fallimentare e delle società commerciali
di intervento «obbligatorio» nel senso che il parere del P.M. deve obbligatoriamente essere richiesto da parte del Tribunale, a pena di nullità, come
unanimemente riteneva la giurisprudenza formatasi sotto la vecchia normativa, peraltro sempre valida, dal momento che si ritengono non abrogate le
norme su cui quella interpretazione si basava (artt. 162, 173, 179 legge fallim.); al contrario, l’istituto dell’intervento non può fondarsi sull’ultimo
comma dello stesso art. 70 cod. proc. civ., che consente facoltativamente
al P.M. di «intervenire in ogni altra causa in cui ravvisa un pubblico interesse», proprio per il tenore letterale della norma di legge (art. 162 cit.)
che perentoriamente prevede «l’intervento», senza lasciare spazio ad alcuna
facoltatività o discrezionalità in tale richiesta (ovviamente nella richiesta e
non nella risposta, come si è visto) al giudice obbligato e perché il «pubblico interesse» potrebbe comunque essere ravvisato in qualsiasi procedura,
fallimentare o di concordato preventivo, dalla quale emerga, per la sua rilevanza, quella caratteristica.
Dunque l’intervento del P.M. deve essere comunque ritenuto obbligatorio.
Il quesito che pone allora la difesa del dott. C. investe i casi della richiesta obbligatoria del parere del P.M., se cioè lo sia soltanto nella ipotesi letteralmente prevista dall’art. 162 (e 179), quando cioè, il tribunale intenda
dichiarare il fallimento, ovvero lo sia in ogni caso.
La risposta peraltro che ha dato finora univocamente (la permanenza in
vita dell’art. 162 legge fallim., come si è visto, sembra confermarne la validità) la giurisprudenza è stata nel senso che «l’interesse pubblico di cui il
P.M. è portatore si manifesta fin dal primo atto della procedura, e cioè dalla
domanda di concordato... che gli deve essere comunicata nella sua interezza, proprio per l’espressione del parere» (Cassazione, 11439/1992, cit.) a
pena di nullità, che può essere ugualmente dichiarata nella ipotesi di mancata comunicazione della sentenza sull’omologazione del concordato [mentre la comunicazione dell’atto iniziale soddisfa l’esigenza dell’art. 71 per tutto il procedimento fino alla chiusura in primo grado della fase di omologazione del concordato» (Cassazione, 11439/1992, cit.)], atteso che l’esigenza
dell’intervento nel giudizio in cui si fa questione di legittimità dell’ammis-
naio 2007, ined.; Tribunale Pescara, 8 novembre 2006, ined.; Tribunale Palermo, 17 febbraio
2006, in Fall., 2006, 570).
Attualmente, però, a seguito del decreto correttivo ed integrativo alla legge fallimentare
(D.lgs. 169/2007), il disposto dell’art. 162 è stato interamente riscritto ed è venuta meno, al
comma 1, la locuzione che imponeva al tribunale di sentire il pubblico ministero, cosı̀ come è
stato integralmente abrogato il comma 2 che, in contrasto con l’art. 6 legge fallim., prevedeva
ancora la possibilità per il tribunale di dichiarare officiosamente il fallimento a seguito della
non ammissione della proposta di concordato.
Parte II - Giurisprudenza
121
sione alla procedura di concordato preventivo, permane nella fase del giudizio di appello (Cassazione, 11439/1992, cit.; Cassazione, 3613/1989): deve dunque ritenersi che l’obbligatorietà della richiesta di parere sussista sia
che il tribunale intenda dichiarare l’inammissibilità del concordato preventivo, sia che voglia dichiarare l’ammissione del debitore a tale procedura.
La finalità pubblicistica della normativa appare dunque di tutto rilievo,
anche cosı̀ inquadrato l’istituto del «parere» richiesto, con la conseguenza
che la legittimazione del P.M. ad intraprendere tutte le iniziative all’interno
della procedura si pone con evidenza, sia per attuare il generale fine di «vegliare alla osservanza delle leggi» e alla «regolare amministrazione della giustizia» (art. 73 O.G.), sia per controllare la legittimità della concessione del
beneficio del concordato al debitore in difficoltà.
Nel caso di specie il P.M. era già intervenuto esprimendo il suo parere
motivato sull’ammissibilità e la fondatezza del C.P. e dunque gli competevano i poteri di istanza e istruttori di un soggetto processuale ritualmente
costituito.
Nell’esaminare, ora, tali poteri, contestati dai reclamati, anche rimanendo nell’ambito del codice di rito, si deve rilevare che l’art. 72 II comma cod.
proc. civ., che consente al P.M. di concludere soltanto «nei limiti delle domande proposte dalle parti», sembra porre al P.M. soltanto i limiti di non
poter concludere oltre le domande delle parti (omologare o non il concordato proposto, dichiarare il fallimento), mentre la lettera dello stesso comma («può produrre documenti, dedurre prove») sembra proprio autorizzare qualsiasi altra iniziativa (contestare i documenti prodotti ex adverso, contestate le prove dedotte, rilevare la inammissibilità o incapacità dei testi,
chiedere una CTU, contestarne i risultati, rilevare la erroneità di una liquidazione di CTU che danneggi i creditori, in quanto ridurrebbe la somma a
questi offerta dal debitore ed accettata dai creditori in sede di voto, nella
fondata opinione che la liquidazione del CTU, posta in ultima analisi a loro
carico, sarebbe stata effettuata secondo legge: non appare infatti sostenibile
la tesi del liquidatore che non vi sarebbe danno «per alcuno» nella ipotesi di
una liquidazione eccessiva).
Il fatto dunque che nel nuovo articolo non sia stato mantenuto il disposto relativo all’audizione del pubblico ministero ha fatto ritenere ad alcuni che l’intervento di quest’ultimo non
fosse più da considerarsi come obbligatorio in riferimento alla inammissibilità della proposta
di concordato od alla sua revoca, omologazione, risoluzione od annullamento, ritenendosi invece l’attività del pubblico ministero unicamente riferibile alla possibilità di richiedere il fallimento del debitore, ove il tribunale abbia ritenuto sussistente una ipotesi di mancata realizzazione del concordato (C. Esposito, L’intervento «obbligatorio» del pubblico ministero nel
procedimento di concordato preventivo alla luce del decreto correttivo, in Fallimento, 2007,
1404).
122
Il diritto fallimentare e delle società commerciali
La legittimazione del P.M. si confonde allora con il suo interesse, dichiarato sussistente ope legis per la espressa previsione di richiesta di parere
obbligatorio ed espresso per tabulas mediante il suo concreto intervento
con cui si costituisce e rende tale parere quale parte: a nulla rileva quindi
che le spese di CTU non siano poste a suo carico e difetti quindi un qualsiasi interesse concreto, in quanto l’interesse ritenuto dalla legge che fissa
l’obbligatorietà dell’intervento è di natura pubblicistica e, prescindendo
dalla concreta collocazione delle spese a carico della parte, si riferisce, come
si è visto, alla retta applicazione delle norme e al corretto svolgimento del
concordato.
In sostanza, se il P.M. «agente» è considerato «come la parte» ed è titolare di tutti i relativi poteri, compreso quello di impugnazione della decisione finale, il P.M. interveniente ha una «posizione circoscritta dall’azione
della parte», nel senso che può svolgere, peraltro anch’esso pienamente, attività processuale all’interno del giudizio promosso dalla parte (le limitazioni emergeranno eventualmente con riferimento ad un suo potere di autonoma impugnazione del provvedimento decisorio finale).
Si eccepisce ancora che l’impugnazione del P.M. debba essere ritenuta
inammissibile in quanto tardivamente esperita in violazione del termine perentorio di gg. 10 previsto dall’art. 26 legge fallim. in quanto il P.M. ha avuto conoscenza del provvedimento in data 30 gennaio 2006, con la trasmissione degli atti ad opera della cancelleria, per la richiesta del «parere» sul
concordato ed ha proposto reclamo con atto depositato il 15 febbraio 2006.
La eccezione non è fondata in quanto, non essendo stato comunicato al
P.M. l’atto di liquidazione, il termine non è iniziato a decorrere: la Corte
costituzionale (sent. 303/1985) ha dichiarato la illegittimità dell’art. 26 legge
fallim. nella parte in cui non fa decorrere il termine per il reclamo «dalla
data di comunicazione dello stesso ritualmente eseguita», a nulla rilevando
che non sia previsto alcun obbligo di comunicazione di atti di liquidazione
al P.M., in quanto l’unica conseguenza del mancato invio rimane l’assenza
di un dies a quo per la decorrenza dei 10 giorni di cui all’art. 26 legge fallim.
al fine di proporre reclamo.
Dunque il reclamo del P.M. è ammissibile e tempestivo, e, nel merito,
nei limiti di cui si dirà, parzialmente fondato.
In realtà, però, a fronte della non riproposizione della formula in discussione all’interno
dell’art. 162, il decreto correttivo ha aggiunto all’art. 161 un comma 5, ai sensi del quale «la
domanda di concordato è comunicata al pubblico ministero», introduzione questa che, secondo altri, risulta invece essere sufficiente al fine di eliminare dubbi in merito alla necessità
di ascoltare il pubblico ministero all’interno della procedura (S. Amrosini, Il concordato preventivo e gli accordi di ristrutturazione dei debiti, in Trattato di Diritto Commerciale a cura di
G. Cottino, vol. 11, Padova, 2008, 73).
Parte II - Giurisprudenza
123
Per quanto attiene alla scelta delle tabelle su cui basare la liquidazione
degli onorari, non sembra dubbio che, per pacifica giurisprudenza, debbano essere applicate le tabella approvate con decreto del Ministro della giustizia, di concerto con il Ministro dell’economia e delle finanze, ai sensi dell’art. 17, commi III e IV, legge 400/1988, come specificato dal D.P.R. 115/
2002, art. 50, di portata chiaramente generale, e, in ogni caso, di interpretazione anche analogica, con assoluta esclusione di ogni tariffa professionale, fonte, anche, di disparità di trattamento economico di ausiliari del magistrato, eventualmente iscritti in albi diversi.
Del resto deve rilevarsi che, correttamente, il CTU, in sede di costituzione, ha dichiarato di rinunciare alla liquidazione effettuata secondo la tariffa professionale, con la conseguenza che, al di là della legittimità di una
condizione posta a questa rinuncia – che la liquidazione basata su nuove
norme arrivi ad uno specifico risultato quantitativo – la nuova liquidazione
non può non avvenire ad opera del Collegio, con le tariffe espresse dal
D.P.R. 115/2002 e dalle relative tabelle ministeriali, con una nuova autonoma valutazione, ovviamente con riferimento alla istanza presentata dal
CTU.
In conclusione, la liquidazione operata dal G.D. deve essere annullata in
quanto fondata su tabelle professionali, mentre occorre procedere nel merito ad una nuova liquidazione; a seguito dell’incarico affidato dal G.D. al
dott. C., di «verificare l’esattezza delle scrittura contabili e della documentazione contabile e di quella depositata a corredo della domanda di concordato in relazione alla fattibilità del piano di ristrutturazione del debito»,
questi ha domandato, su un valore di consulenza di A 60 milioni e sulla base
dell’art. 2 del D.M. 30 maggio 2002, n. 11 liquidazioni distinte, relative alla
verifica dell’attivo al 31 maggio 2002 e al 9 novembre (n. 2 liquidazioni), del
passivo, privilegiato e chirografario al 31 maggio 2005, allegato alla domanda di concordato (2 liquidazioni), del passivo, privilegiato e chirografario al
14 luglio, allegata alla presentazione della domanda di concordato (2), del
Se, dunque, a fronte della modifica apportata dal decreto correttivo, resta aperta la questione in merito alla doverosità o meno dell’intervento del pubblico ministero, non essendovi,
per altro, allo stato degli atti, nuove sentenze giurisprudenziali in materia, si può almeno affermare che questi sia comunque legittimato ad intervenire in tutte le fasi del procedimento,
ex art. 70, ultimo comma, cod. proc. civ. (da ultimo: Corte di Cassazione, n. 16396 del 24
luglio 2007, ined.); salvo sempre non ricostruire l’istituto del concordato preventivo in maniera ancor più accentuatamente privatistica.
Infine il Tribunale affronta la questione relativa alla liquidazione dell’onorario dell’ausiliario del magistrato, risolvendola, nel solco del pacifico orientamento giurisprudenziale (Corte di Cassazione, Sez. U., n. 10124/1994, in Corriere giur., 1995, 619, con nota di O. Forlenza), disponendo l’applicabilità delle tabelle approvate con decreto del Ministro della giu-
124
Il diritto fallimentare e delle società commerciali
passivo, privilegiato e chirografario aggiornata al 9 novembre (2), del piano
di fattibilità di ristrutturazione dei debiti (1), della verifica dei movimenti
finanziari dopo la domanda (1), della verifica di atti suscettibili di revocatoria (1), per un totale di A 112.559,26, da raddoppiarsi ex art. 5 legge
319/1980 per un importo massimo di A 225.118,52.
Con riferimento al reclamo del P.M., che non contesta la corretta applicazione dell’art. 2 del D.M. citato (per un massimo di A 10.256,32), eventualmente raddoppiabile, ritiene il Collegio che, conformemente a quella
giurisprudenza che ha ritenuto legittima la liquidazione degli onorari sommando quelli relativi a ciascuno dei distinti accertamenti richiesti, quando si
tratti di accertamento plurimo, per il quale necessitino distinte valutazioni,
tutte richieste dal giudice (Cassazione, 18092/2002; Cons. Stato 3709/
2004), sempre con il limite del miliardo che non è possibile superare (Cassazione, 10745/2001), tenendo anche conto che il deposito della relazione è
avvenuto, in ritardo, il giorno stesso dell’adunanza dei creditori, 18 novembre 2005, non consentendone in tal modo l’esame al commissario giudiziale
(v. conclusioni della relazione di questo del 15 novembre 2005), possano
essere accordate al CTU quattro distinte liquidazioni in ordine alla verifica
delle scritture contabili, della documentazione contabile depositata a corredo della domanda di concordato, alla fattibilità del piano di ristrutturazione
del debito e alla verifica degli atti suscettibili di revocatoria, per un totale di
A 41.025,28, aumentabile, per la difficoltà del lavoro e per il valore rilevante, in virtù dell’art. 52 del D.P.R. 115/2002, ad A 70.000,00, oltre IVA e
Cassa di Previdenza. (Omissis)
stizia, di concerto con il Ministro dell’economia e delle finanze, ai sensi dell’art. 17, commi III
e IV, legge 400/1988, cosı̀ come specificato dal D.P.R. 115/2002, art. 50, con assoluta esclusione di ogni tariffa professionale, fonte, per altro, di disparità di trattamento economico per
gli ausiliari del magistrato eventualmente iscritti in albi diversi.
Viene inoltre prevista la corresponsione di distinte liquidazioni in ragione del fatto che ci
si trova innanzi ad un accertamento plurimo, ritenuto necessario per il corretto esperimento
delle diverse valutazioni, tutte necessariamente richieste dal giudice (Corte di Cassazione,
18092/2002, in Mass., 2002, 1987-2002; Cons. Stato, 3709/2004, in Foro amm.-Cons. Stato,
2004, 1655), e sempre con il limite del miliardo (A 500) che non è possibile superare (Corte di
Cassazione,, 10745/2001, in Mass., 2001, 1987-2001). [Lavinia Albensi].
TRIBUNALE DI NAPOLI
31 gennaio 2006
Pres. Frallicciardi - Est. Pica
Tufano Francesco c. Mimosa 83 Soc. coop. a resp. lim.
Società - Rito societario - Contumace - Notifica dell’istanza di fissazione
dell’udienza - Necessità - Mancanza - Conseguenze - Rilievo officioso
dell’estinzione del processo - Limiti
(D.lgs. 17 gennaio 2003, n. 5, artt. 8 comma 4, 12 comma 5, 13 comma 2)
Nel processo societario l’istanza di fissazione dell’udienza va notificata anche al contumace. Il potere di rilevare d’ufficio l’estinzione è precluso solo se
una delle parti del processo partecipa all’udienza di discussione davanti al collegio, non quando le parti sono state convocate all’uopo dal giudice relatore, ai
sensi dell’art. 12 comma 5 D.Lgs. 5/03 (1).
(Omissis)
1) Preliminarmente, il reclamante ha eccepito che il giudice relatore
avrebbe assunto la decisione impugnata in carenza di poteri, posto che l’estinzione del processo potrebbe essere dichiarata dal giudice relatore solo a
seguito di espressa eccezione di parte.
Ad avviso del collegio, tale conclusione non può condividersi.
(1) Brevi note in materia di estinzione del processo societario. Una fattispecie particolare: la mancata notifica dell’istanza di fissazione dell’udienza al contumace.
L’ordinanza del Tribunale di Napoli si segnala perché prende posizione su due temi assai
spinosi, la posizione del contumace ed i meccanismi e le modalità di estinzione del processo
societario.
Il caso è molto semplice: Tufano Francesco propone un’azione societaria nei confronti di
due soggetti, Mimosa 83 soc. coop. a resp. lim. e C.O.P.E.C soc. coop. a resp. lim. Mimosa
83 rimane contumace nel corso del giudizio e Tufano notifica l’istanza di fissazione d’udienza
solo a C.O.P.E.C.
Il Giudice relatore convoca le parti innanzi a sé, ai sensi dell’art. 12, comma 5, D.Lgs.
5/2003, e, con ordinanza depositata fuori udienza, dispone la separazione delle cause
(Tufano-Mimosa, Tufano-C.O.P.E.C.), per poi dichiarare l’estinzione del giudizio Tufano-Mimosa.
Avverso tale ordinanza, il Tufano propone reclamo ai sensi dell’art. 308 comma 2 cod.
proc. civ.
Seguendo l’iter argomentativo del Tribunale partenopeo, si prenderà in considerazione
prima il problema del rilievo officioso dell’estinzione del processo e, nell’ambito di questo, si
affronterà l’ipotesi specifica, che vi ha dato causa, della mancata notificazione dell’istanza di
fissazione dell’udienza al contumace.
126
Il diritto fallimentare e delle società commerciali
La mancata notificazione dell’istanza di fissazione dell’udienza, entro i
termini indicati dalla legge, determina l’estinzione del giudizio, rilevabile
anche d’ufficio, ai sensi dell’art. 8 comma 4 d.lgs. n. 5/2003.
La sanzione dell’estinzione del giudizio, di cui all’art. 8 comma 4 cit.,
non opera soltanto automaticamente, come avviene nel giudizio di cognizione ordinario, ma è rilevabile anche d’ufficio, in deroga a quanto previsto
dall’art. 307 ult. comma cod. proc. civ.
D’altronde, lo stesso reclamante ha evidenziato che la previsione di tale
fattispecie estintiva è resa necessaria, onde far cessare la situazione di stallo
in cui il processo si verrebbe a trovare per l’inattività delle parti, stante l’inapplicabilità, alla fase preparatoria del cd. processo societario, dell’art. 309
cod. proc. civ., che presuppone un processo che si snoda attraverso la consecuzione di udienze successive.
Secondo il reclamante, però, il potere officioso del giudice potrebbe
Com’è noto, parzialmente divergenti da quelle previste per il processo di cognizione ordinario e per il processo di esecuzione, e molto più complesse, sono le regole dell’estinzione
nel processo societario (1).
Innanzi tutto, è possibile rilevare l’estinzione d’ufficio in ipotesi di inattività delle parti.
Secondo l’art. 8, comma 4, D.Lgs. 17 gennaio 2003, n. 5 (d’ora innanzi D.Lgs. 5/2003), la
mancata notifica dell’istanza di fissazione dell’udienza nei venti giorni successivi alla scadenza
(1) Sulla rilevabilità d’ufficio dell’estinzione nel processo civile ordinario, A. Attardi, Diritto processuale
civile, Padova, 1994, 62 e seg.; G. Balena, Su un progetto di riforma dell’estinzione del processo civile, in Riv.
trim. dir. e proc. civ., 1982, 614 e seg.; M. G. Canella, Sul potere del giudice di rilevare d’ufficio l’estinzione
del processo, Id., 2002, 345 e seg.; sull’art. 307 comma 2 cod. proc. civ., C. Consolo, Spiegazioni di diritto processuale, Bologna, 1998, 198; G. Costantino, Scritti sulla riforma della giustizia civile (1982-1995), Torino,
1996, 100; R. Oriani, Eccezione, voce del Dig. Civ., VII, Torino 1991, 269; Id., Eccezione rilevabile d’ufficio
e onere di tempestiva allegazione: un discorso ancora aperto, in Foro it., 2001, 1, 127; A. Proto Pisani, Lezioni
di diritto processuale civile, Napoli, 2002, 197; F. Cipriani-M.G. Civinini-A. Proto Pisani, Una strategia per
la giustizia civile, in Foro it., 2001, V, 84; D. Turroni, Inattività qualificata ed estinzione del processo, in Giur. it.,
2002, 927.
Nel processo societario, Arieta, De Sanctis, Diritto processuale societario, Padova, 2004, 170-171; G. Balena, Prime impressioni sulla riforma dei procedimenti in materia societaria. La fase introduttiva del processo di
cognizione, in Giur. Ital. 2003 e in www. judicium.it; A. Carratta, La conseguenza della contumacia: la «non
contestazione» dei fatti ex adverso allegati, in Comm. Chiarloni, 2004; G. Costantino, Il nuovo processo commerciale: la cognizione ordinaria in primo grado, in Riv. Dir. Proc., 2003; E. Dalmotto, Sub art. 13, in Il nuovo
processo societario, a cura di Cottino, Bologna, 2004; F. De Vita, Le preclusioni nel processo societario a cognizione piena, in www. judicium.it.; M. Fabiani, La partecipazione del giudice al processo societario, in Riv. Dir.
Proc., 2004; Id., Il valore probatorio della non contestazione del fatto allegato, in Corr. giur., 2003; M.C. Giorgetti, Fase introduttiva e fissazione dell’udienza nel processo societario, in www.judicium.it; E. Picaroni, cit.,
Sub art. 13; B. Poliseno, Sub art. 13, in Le Nuove Leggi Civ. Comm., Milano, 2005; A. Proto Pisani, Allegazione dei fatti e principio di non contestazione nel processo civile, in Foro it., 2003; B. Sassani, Sub art. 13, in La
riforma delle società, Il processo, a cura di B. Sassani, Torino, 2003; G. Trisorio Liuzzi, Il nuovo rito societario:
il procedimento di primo grado davanti al tribunale, in www.judicium.it; N. Ventura, in I procedimenti in materia
commerciale a cura di G. Costantino, Padova, 2005, sub art. 8, 149 e seg.
Parte II - Giurisprudenza
127
esercitarsi solo nel caso in cui nessuna parte sia comparsa all’udienza collegiale prevista dall’art. 8 comma 4 cit. o a quella preliminare, innanzi all’istruttore, ex art. 12 comma 5 d.lgs. n. 5/2003.
E però, l’art. 12 comma 5 cit., che disciplina le modalità di dichiarazione dell’estinzione del processo, relativamente a fattispecie estintive perfezionatesi nel corso della fase preparatoria, stabilisce che «ove l’eccezione di
estinzione proposta da una parte appaia fondata e nei casi previsti dall’art.
8, comma 4, e 13, comma 1, il giudice relatore, convocate le parti costituite,
dichiara l’estinzione del processo con ordinanza reclamabile nel termine di
dieci giorni dalla comunicazione».
Ad avviso del collegio, questa norma va letta, perché abbia un significato logico, attribuendo alla congiunzione «e» la funzione di spartiacque tra
dei termini di cui ai commi precedenti o del termine per il deposito della memoria di controreplica del convenuto di cui all’art. 7, comma 2, D.Lgs. 5/2003 ovvero dalla scadenza del termine massimo di cui all’art. 7, comma 3, D.Lgs. 5/2003 determina l’estinzione del processo
rilevabile anche d’ufficio.
Si tratta di una vera e propria novità, perché il testo originario della norma, prima della
modifica del Decreto legislativo 6 febbraio 2004, n. 37, non prevedeva nessuna sanzione nel
caso di tardiva notificazione dell’istanza.
Guardando all’ambito applicativo della norma, il primo problema che si pone è relativo
alla indicazione tassativa o meno dell’ipotesi dell’art. 8, comma 4, D.Lgs. 5/2003. Invero, oltre a quella espressamente prevista, vi sono ulteriori ipotesi di estinzione che si annidano nelle
pieghe della riforma o che sono enucleabili dalle regole e dai principi generali del codice di
procedura civile per il mancato rispetto di termini perentori, e cosı̀ ad esempio, il deposito
tardivo dell’istanza di fissazione dell’udienza, il mancato rispetto dell’ordine di integrazione
del contraddittorio in un litisconsorzio necessario, la mancata riassunzione nei termini di
una causa cancellata, etc. (2).
È evidente che la singolare previsione del primo periodo dell’art. 8, comma 4, D.Lgs. 5/
2003 risponde ad un’esigenza fondamentale: delimitare la fase preliminare per cosı̀ dire «in-
(2) Per una ricostruzione sistematica delle varie ipotesi, G. Costantino, Il nuovo processo commerciale:
la cognizione ordinaria in primo grado, in www.judicium.it. Di particolare interesse, il problema del mancato
tempestivo deposito dell’istanza di fissazione dell’udienza notificata, su cui si veda la soluzione proposta da
F. De Vita, cit., secondo cui la mancanza di una previsione espressa nel senso dell’estinzione imporrebbe
di ricercare altrove la soluzione del problema e cioè di fare riferimento analogicamente all’ipotesi della mancata
costituzione delle parti, disciplinata dall’art. 13 comma 3 con la conseguenza che l’estinzione del giudizio è
causata dalla mancata riassunzione nell’anno (artt. 171 e 307 cod. proc. civ.) del giudizio caduto in uno stato
di quiescenza. Ritiene, invece, preferibile, sia pure in formula dubitativa, la soluzione dell’estinzione, E. Picaroni, cit., sub art. 9. È riconosciuto il potere d’impulso delle altre parti, interessate ad una pronuncia di merito, Arieta, De Sanctis, cit., 221, N. Sotgiu, cit., 184, secondo i quali è possibile far proseguire il processo
per mezzo delle note di cui all’art. 10 e di chiedere la pronuncia del decreto di fissazione dell’udienza, E. Picaroni, cit., sub art. 9, secondo cui è preferibile interpretativamente una soluzione che consenta l’esercizio del
potere d’impulso anche alle altre parti. In giurisprudenza, Tribunale Lucca, sez. distaccata di Viareggio 18 ottobre 2004, in www.judicium.it; per un caso particolare, Tribunale Santa Maria Capua Vetere, 29 novembre
2005, Rel. De Matteis, in www.judicium.it.
128
Il diritto fallimentare e delle società commerciali
ipotesi distinte: l’ipotesi generale, il caso previsto dall’art. 8 cit., il caso previsto dall’art. 13 comma 1 d.lgs. n. 5/2005.
Si vuol dire che, in prima battuta, detta norma ripropone la regola generale, già stabilita per il processo, per cosı̀ dire, ordinario dall’art. 307 ult.
comma cod. proc. civ., secondo cui va esclusa la rilevabilità ex officio dell’estinzione del processo. In via generale, quindi, eccezione di estinzione deve essere sollevata dalla parte interessata «prima di ogni altra sua difesa»
(ossia deve essere formulata nel primo atto processuale successivo al perfezionarsi della fattispecie estintiva) e, in tal caso, il giudice relatore (ove ritenga l’eccezione fondata) convoca le parti davanti a sé prima di dichiarare
l’estinzione.
Nell’ipotesi di mancata notificazione nei termini dell’istanza di fissazione
di udienza (che, ai sensi dell’art. 8 comma 4, comporta appunto l’estinzione
del processo, rilevabile anche d’ufficio), detta norma, invece, deroga alla regola generale appena indicata e va intesa nel senso che il giudice relatore,
ove rilevi il mancato rispetto del termine per la notifica dell’istanza di fissazione, provvede d’ufficio, dopo aver convocato le parti costituite, onde consentire l’esercizio del diritto di difesa sul punto.
Infine, nell’ipotesi di mancata tempestiva costituzione dell’attore, l’art. 13
comma 1 d.lgs. n. 5/2005 impone al convenuto di eccepire l’estinzione nella
comparsa di risposta e di chiedere la fissazione dell’udienza, al fine di otte-
terna ai legali»e controllare l’inizio della fase cd. apud iudicem. Nella relazione illustrativa, si
legge «...si è accolta, cosı̀, l’opzione per una forma di contingentamento della durata della fase
preliminare benché sia chiaro che, ai fini del rispetto della direttiva costituzionale, fino a
quando una delle parti non chiede la fissazione dell’udienza non ci può essere ritardo imputabile all’Amministrazione della giustizia, rimanendo il processo totalmente nella disponibilità
degli antagonisti» (3).
Sembrerebbe, quindi, che il potere officioso serva solo a questo e cioè a verificare la tempestiva instaurazione della fase giudiziaria. La norma non a caso è dettata nell’ambito dell’istanza di fissazione dell’udienza ed attiene piuttosto alle caratteristiche di forma che essa deve
presentare per poter essere valutata favorevolmente dal giudice relatore. Il legislatore ha voluto dare un avvertimento alle parti: che lo scambio di memorie non può andare avanti in
eterno e che, ad un certo punto, bisogna adire l’autorità giudiziaria. L’avvertimento non è
però particolarmente stringente (del resto significativa a tal proposito è la concessiva della
relazione illustrativa), perché se il giudice relatore si distrae e non si avvede del mancato rispetto dei termini, il secondo periodo della norma citata, restituisce alla disponibilità delle
parti la decisione sulla prosecuzione o meno della lite.
Peraltro, non può non sottolinearsi che nelle altre ipotesi espresse di estinzione, si parla
sempre di eccezione di parte (art. 12, comma 5 e 13, comma 1, D.Lgs. 5/2003).
(3) Relazione illustrativa, pag. 3.
Parte II - Giurisprudenza
129
nere la declaratoria di estinzione del processo, innescando il procedimento
di cui all’art. 12 comma 5 cit., che appunto prevede la previa convocazione
delle parti costituite da parte del giudice relatore.
In buona sostanza, dal combinato disposto di cui agli artt. 8 comma 4 e
12 comma 5 cit., discende senz’altro che il giudice relatore, investito della controversia, a seguito del deposito dell’istanza di fissazione di udienza, può rilevare d’ufficio la sussistenza della fattispecie estintiva di cui all’art. 8 cit. In tal
caso, egli, anziché procedere al deposito del decreto di fissazione dell’udienza innanzi al collegio, convocherà le parti costituite innanzi a sé e dichiarerà l’estinzione del processo con ordinanza.
Del resto, la previsione dell’ultima parte del citato art. 8 comma 4 (secondo cui il rilievo d’ufficio dell’estinzione del giudizio è precluso se l’udienza si svolge con la partecipazione di almeno una parte) non può che
riferirsi all’ipotesi in cui l’udienza di discussione della causa davanti al collegio si sia svolta comunque, nonostante la causa di estinzione (evidentemente per l’omesso rilievo da parte del giudice relatore), e non già all’ipotesi in cui sia stato proprio il giudice istruttore a fissare l’udienza (ex art. 12
cit.), al fine di pronunciare l’estinzione del processo (in tal senso cfr. Tribunale Roma 16 febbraio 2005 e 26 aprile 2005).
Se tale è la ratio legis, allora l’indicazione dell’art. 8, D.Lgs. 5/2003 non è suscettiva di
interpretazione estensiva (4).
Sotto il profilo funzionale, l’art. 8, comma 4, D.Lgs. 5/2003 consente al processo di uscire da un eventuale fase di stallo. Si pensi al caso in cui nessuno notifica l’istanza di fissazione
di udienza e poi, ad un certo punto, la parte che ha interesse a rimuovere gli effetti della domanda che conseguono alla notificazione dell’atto di citazione, prende l’iniziativa. Se questa è
tardiva, il giudice non dovrà sprecare attività processuale davanti al collegio e potrà procedere al rilievo officioso. Analogamente in un processo contumaciale, dove la parte, verosimilmente, non depositerà le note ai sensi dell’art. 10 D.Lgs. 5/2003 per formulare l’eccezione
di estinzione.
Si pongono, però, ulteriori problemi.
Se nessuno notifica in termini l’istanza di fissazione dell’udienza e, poi, ad un certo punto, tutte le parti del processo decidono di presentare istanza congiunta di fissazione dell’udienza ai sensi dell’art. 11 D.Lgs. 5/2003?
(4) Non prende espressamente posizione sul punto G. Costantino, cit., secondo il quale appare ragionevole ritenere che l’estinzione possa essere dichiarata, (non rilevata d’ufficio, sembrerebbe intendersi, n.d.e.) ancora dallo stesso giudice relatore, qualora, nei termini all’uopo dal medesimo fissati, l’attore non rinnovi la notificazione della citazione, non la integri, non siano regolarizzati i difetti di rappresentanza, di assistenza o di autorizzazione, nonché in tutte le ipotesi nelle quali la fattispecie estintiva si sia perfezionata innanzi a lui. Appare
anche ragionevole ritenere che il giudice relatore debba, in ogni caso, dichiarare l’estinzione con ordinanza reclamabile ai sensi dell’art. 308 cod. proc. civ., «convocate le parti costituite».
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Il diritto fallimentare e delle società commerciali
Altrimenti, non si comprenderebbe il senso di una disposizione che, da
un lato, consente il rilevo d’ufficio dell’estinzione e, dall’altro, impone di
convocare le parti per vedere se queste intendono eccepire l’estinzione
del giudizio.
È evidente che la necessità del rilievo officioso si presenta soltanto nel
caso in cui, nonostante si sia perfezionata la fattispecie estintiva, tale eccezione non sia stata sollevata dalle parti.
D’altronde, a maggior ragione quanto detto vale in caso di contumacia
di una delle parti (come nella specie), posto che l’unica parte eventualmente
interessata all’estinzione, quella contumace, non avrebbe alcuna possibilità
di sollevare tale eccezione in udienza, non avendo ricevuto notifica dell’istanza di fissazione dell’udienza e non ricevendo alcuna comunicazione in
merito alla fissazione di essa.
2) Venendo, per cosı̀ dire, al merito, il reclamante ha dedotto che il giudice relatore avrebbe errato nel ritenere obbligatoria la notifica dell’istanza
di fissazione dell’udienza anche al convenuto contumace e, quindi, nel dichiarare l’estinzione del processo.
Appare opportuno esaminare le censure del ricorrente cercando di seguire l’ordine in cui sono state articolate nel reclamo.
a. Anzitutto, ad avviso del reclamante, la contumacia non è il risultato di
un giudizio della parte, ma è un fatto obiettivo, ricollegato dalla legge alla
Se, infatti, le parti non intendono ottenere una pronuncia sulla questione dell’estinzione
del processo, ma pongono all’attenzione del giudicante altre questioni che evidenziano l’interesse alla prosecuzione della causa, può il giudice esercitare il potere officioso che gli deriva
dall’art. 8, comma 4, D.Lgs. 5/2003?
A ritenere preminente l’esigenza del controllo dei tempi della fase preliminare, la risposta
sarà positiva, viceversa, a dare rilievo all’interesse delle parti alla prosecuzione della causa –
nell’eccessiva lunghezza del processo non si computa la fase preliminare –, la risposta non
potrà che essere negativa (5).
Passando all’esegesi testuale della norma, deve rilevarsi che la mancata notifica di cui si
parla è senz’altro la notifica tardiva, e cioè quella che non rispetta i termini di scadenza fissati
dalla legge (6).
Va parificata a questa ipotesi quella della notifica per cosı̀ dire irrituale, cioè quella in cui
la notifica esiste ed è anche tempestiva, ma non è regolare perché ad esempio non compiuta
(possono rilevare tutti i vizi già noti secondo le regole del codice di procedura civile) o effet-
(5) In questo senso, M. Fabiani, La partecipazione del giudice al processo societario, cit.
(6) Sull’interpretazione relativa alla decorrenza dei termini, si veda Tribunale Milano, 2 dicembre 2004, Rel.
D’Isa; in www.judicium.it, con nota di commento e riferimenti bibliografici ivi, Tribunale Ivrea, 11 novembre
2004, Rel. Marra, in www.giurisprudenzapiemonte.it, nonché altri riferimenti bibliografici in F. De Vita, cit., nota 55 del testo.
Parte II - Giurisprudenza
131
mancata notifica della comparsa di risposta, ovvero al mancato rispetto dei
termini fissati per detta notifica, ovvero al mancato deposito in cancelleria:
tutte situazioni che vanno riscontrate in relazione al mero decorso del tempo e che non richiedono nessun’attività interpretativa.
Al riguardo, osserva il collegio che, purtroppo, non è vero che accertare
la volontarietà della contumacia o la tempestività della notifica della comparsa di risposta o la ritualità della costituzione in giudizio non comporti,
spesso, la risoluzione di controverse questioni di fatto e di diritto.
All’uopo, basti pensare che la contumacia volontaria presuppone la validità della notifica della citazione e che, in merito alla nullità o alla cd. inesistenza giuridica delle notificazioni, i repertori di giurisprudenza danno
ampiamente conto delle tante opinabili questioni che possono proporsi.
Ancor più problematico può rivelarsi l’accertamento della validità e della tempestività della notifica della comparsa di risposta (e della conseguente
costituzione in giudizio del convenuto), specie laddove le parti si avvalgano
dei nuovi sistemi di trasmissione degli atti e, in particolare, del fax, stanti le
tuata a mezzo telefax o e-mail, senza il rispetto delle modalità procedimentali fissate dalla legge (7). Mentre vanno escluse dall’ambito applicativo della norma, l’ipotesi in cui non vi sia
stata affatto la notifica dell’istanza di fissazione dell’udienza perché in questo caso il fascicolo
non viene neanche portato all’attenzione del presidente per la designazione ed assegnazione
al giudice relatore (8) e l’ipotesi in cui il notificante non cura il deposito dell’istanza notificata,
perché anche in tal caso il fascicolo non viene portato all’attenzione del presidente e non si
innesca la fase cd. apud iudicem (9). Riepilogando, non rileva l’applicazione dell’art. 8, comma
4, D.Lgs. 5/2003 se, dopo lo scambio delle memorie, nessuna delle parti notifica l’istanza di
fissazione di udienza o deposita l’istanza notificata, perché il magistrato non prenderà in carico il fascicolo che ha impegnato nelle attività di ricezione atti solo la cancelleria. Rileva, invece, quando nessuna delle parti notifica in termini l’istanza di fissazione dell’udienza, perché
qui il giudice relatore, all’uopo designato dal presidente, deve dichiarare l’estinzione del giudizio. Se, però, il giudice relatore, distratto, non rileva da subito l’estinzione, e fissa comunque l’udienza di discussione davanti al collegio, questo, se non compare nessuno, può pro-
(7) Sull’argomento, il dibattito giurisprudenziale è animato: si vedano tra le altre Tribunale Milano, 1º marzo 2006, Pres. A. M. Vanoni, Rel. S. Brat, in www.judicium.it., Tribunale Milano, 14 dicembre 2005, Pres. F.
Ciampi, Rel. E. Consolandi, in www.judicium.it; Tribunale Bari, 2 giugno 2005, Giud. Rel. F. Cassano, in
www.altalex.it, Tribunale Napoli, 28 novembre 2005, Rel. Celentano, inedita.
(8) Massimo Fabiani, La partecipazione del giudice al processo societario, cit.
(9) Laddove, invece, si verifichino tali due ultimi casi, il processo entra in una fase di stallo, non dissimile da
quella che si determina con la cancellazione della causa dal ruolo, che è rimuovibile solo se una delle parti decide
di adire il giudice con la notifica tardiva o con il deposito tardivo dell’istanza notificata. Il meccanismo seguente è
quello dell’art. 12 comma 5 (per un’ipotesi specifica si veda l’art. 13 comma 1), in dottrina, sull’argomento, E.
Picaroni, cit., pagg. 103 e segg., G. Costantino, cit.; in giurisprudenza, Tribunale Milano, 12 gennaio
2007, Rel. E. Consolandi, in www.judicium.it, Tribunale Lucca, 18 ottobre 2004, Rel. Fornaciari, in www.judicium.it.
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Il diritto fallimentare e delle società commerciali
lacune nella vigente normativa in tema di sottoscrizione e trasmissione dei
documenti teletrasmessi (cfr., infatti, per divergenti soluzioni in merito alla
ritualità di notifiche eseguite via fax: Tribunale Monza 30 dicembre 2004,
Tribunale L’Aquila 30 marzo 2005, Tribunale Bari 2 giugno 2005, tutte
pubblicate su www.judicium.it).
Pertanto, posto che effettivamente nel cd. rito societario la contumacia
non va accertata e dichiarata da alcuno nella fase cd. preparatoria, non appare per niente peregrina l’opinione accolta nel provvedimento reclamato,
secondo cui l’interpretazione, per la quale l’istanza di fissazione dell’udienza vada notificata a tutti, si fa preferire anche per ragioni di opportunità e di
economia processuale. Si vuol dire che, sotto questo profilo, ove sussistessero dubbi in merito all’interpretazione più corretta del dato normativo, sembra preferibile non affidare allo stesso interessato il compito di stabilire se la
controparte debba o meno giudicarsi contumace volontaria e, all’esito, di
decidere se notificarle o meno l’istanza di fissazione dell’udienza.
b. Il fatto è che dubbi, sull’interpretazione da accogliere, non ve ne
sono.
Va tenuto ben presente, infatti, che nel rito disciplinato dal d.lgs. n. 5/
2003 la notifica dell’istanza di fissazione dell’udienza rappresenta uno snodo fondamentale, nel senso che comporta il passaggio dalla fase cd. preparatoria alla fase apud iudicem.
Vero è che il legislatore ha lasciato all’esclusiva disponibilità delle parti
il potere di dare impulso alle diverse fasi del processo, tuttavia ha anche
nunciare l’estinzione d’ufficio, se compare anche una sola parte, può pronunciare l’estinzione
solo a seguito dell’eccezione di parte da proporsi a pena di decadenza entro la stessa udienza (10).
Queste sono le ipotesi che si possono presentare nella pratica all’udienza di discussione
davanti al collegio:
1) non compare nessuno, il collegio dichiara l’estinzione (potere officioso al pari di quello del giudice relatore che deve sorvegliare sulla tempestività dell’introduzione della fase cd.
apud iudicem);
2) compare una sola parte, ad esempio quella che ha notificato in ritardo l’istanza di fissazione dell’udienza, il collegio deve provvedere nel merito, se non vi sono altre questioni,
perché gli è precluso il rilievo officioso; la parte sana il vizio in cui è incorsa, avvantaggiandosi
della distrazione del giudice relatore e della mancata comparizione delle controparti;
3) compare una sola parte, ad esempio quella che ha ricevuto la notifica dell’istanza di
fissazione dell’udienza, il collegio dichiara l’estinzione solo su eccezione della parte in quella
stessa udienza;
(10) Sul punto si veda F. De Vita, cit., in www.judicium.it, pagg. 20-22.
Parte II - Giurisprudenza
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previsto un termine massimo (perentorio) entro il quale la fase introduttiva
si deve, comunque, concludere – mediante la fissazione dell’udienza -, allo
scopo di contenere la durata del processo entro termini ragionevoli e di evitare che una prolungata inerzia delle parti comporti un’indefinita «pendenza» del giudizio.
Va anche evidenziato che il tenore letterale dell’art. 8 cit. è tale da indurre a ritenere che non siano stati previsti regimi diversi (con riguardo all’individuazione dei termini e delle modalità per la notifica dell’istanza di
fissazione dell’udienza), a seconda che si tratti di processi tra due sole parti
o di processi con pluralità di parti.
Pertanto, se si sostiene che l’attore non debba notificare l’istanza di fissazione dell’udienza al convenuto contumace, si finisce inevitabilmente col
rendere l’attore non vincolato al rispetto dei termini perentori fissati dall’art. 8 d.lgs. n. 5/2003 e, di conseguenza, al rispetto del termine perentorio
di cui all’art. 9 d.lgs. n. 5/2003 per il deposito dell’istanza de quo in cancelleria. Non occorrono troppe parole per dimostrare che tale conclusione sarebbe in stridente contrasto con il sistema congegnato dal legislatore a garanzia della ragionevole durata del processo, che è valore tutelato sia dalla
Costituzione, che dalla normativa comunitaria.
La verità, piuttosto, è che la legge onera le parti di fare tempestivamente
quanto necessario per giungere alla decisione finale e prevede una sanzione
in caso d’inattività. Questa sanzione, l’estinzione del processo, è connessa
all’inosservanza di un precetto cruciale: la notifica dell’istanza di fissazione
dell’udienza entro i termini. Tale adempimento, infatti, non comporta solo
il passaggio da una fase processuale ad un’altra, non determina solo gli effetti di cui agli artt. 10 e 13 d.lgs. n. 5/2003, ma vale ad evitare, per converso, l’estinzione del processo.
Stante la centralità del ruolo di detto adempimento nell’ambito del cd.
rito societario, si spiega anche perché il legislatore non abbia previsto differenziazioni ed abbia imposto che la notifica di detto atto venga fatta a tut-
4) compaiono tutte le parti o solo alcune di esse (ma tra queste anche chi ha notificato
l’istanza di fissazione dell’udienza), il collegio provvede analogamente al punto 3).
La norma non è molto rigorosa, perché detta una controregola (rilievo su eccezione di
parte) che opera sul presupposto dell’inerzia e disattenzione del giudice relatore. Il meccanismo correttivo però non è all’interno dell’ordine giudiziario, sicché il vizio non può essere
rimosso automaticamente dallo stesso giudice o dal collegio, ma deve essere rimosso su richiesta della parte. Il ritardo della parte che intende dare impulso al giudizio rientra, per cosı̀ dire,
nella disponibilità della controparte che potrà scegliere se far valere o meno il fatto estintivo e
quindi se far proseguire o meno il giudizio, a seguito dell’inerzia del giudice relatore.
Orbene, mentre nel rito ordinario, l’inattività della parte è sempre nella disponibilità della controparte interessata, nel rito societario, dove è preminente l’esigenza di concentrazione
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Il diritto fallimentare e delle società commerciali
te le parti (costituite o meno). E questa scelta appare vieppiù opportuna,
come segnalato nel provvedimento reclamato, proprio nei casi di dubbi sulla volontarietà o meno della contumacia, essendo in tali ipotesi ancor meno
tollerabile che l’attore rimanga (di fatto) svincolato dal rispetto dei termini
fissati dalla legge per la prosecuzione del processo e ciò sebbene la contumacia non sia stata accertata, né dichiarata da alcuno.
c. Ad avviso del reclamante, poi, contrariamente a quanto affermato nel
provvedimento impugnato, anche dal disposto di cui all’art. 17 comma 2-bis
d.lgs. n. 5/2003 (secondo cui «nel processo con pluralità di parti, le comparse
e le memorie devono essere notificate a tutte le parti costituite») può trarsi
conferma del fatto che la regola è quella per cui al contumace non vanno
notificati gli atti del processo, salvo quelli per i quali vi sia un’espressa previsione di legge.
In realtà, la norma citata (come il novellato art. 8 comma 5-bis d.lgs. n.
5/2003) è stata introdotta solo per evitare «sfasature» nell’ambito dei processi con pluralità di parti, potendo altrimenti accadere che una parte (ad
esempio uno dei convenuti) notifichi una memoria solo alla controparte direttamente interessata (ad esempio all’attore) e che, nella pendenza dei termini per la replica, una delle altre parti (ad esempio un altro convenuto)
notifichi l’istanza di fissazione dell’udienza, intralciando cosı̀ lo svolgimento
ordinato ed unitario del processo.
A ben vedere, infatti, detta norma non è posta direttamente a tutela del
principio del contraddittorio o del diritto di difesa, tant’è vero che nel processo di cognizione, per cosı̀ dire, ordinario non esiste alcuna norma che
prescriva ad un convenuto di notificare agli altri, insieme con lui chiamati
in causa dall’attore, le proprie difese (ovviamente quando non sussista tra
gli stessi, nella dialettica processuale, alcuna contrapposizione).
processuale, l’inattività della parte è innanzi tutto valutata dal giudice relatore; in mancanza
entra nella disponibilità della controparte interessata, cosicché il principio della rapida definizione del procedimento che giustifica il rilievo officioso dell’estinzione viene immediatamente sconfessato dalla previsione del rilievo di parte, che può avvantaggiarsi dell’errore
del giudice.
L’art. 8, comma 4, D.lgs. 5/2003, relativo alla patologia dell’istanza di fissazione dell’udienza, deve essere messo in relazione con l’art. 12, comma 5, D.Lgs. 5/2003 che si occupa di disciplinare le attività del giudice relatore quando esamina l’istanza di fissazione
dell’udienza.
Secondo tale ultima norma, il giudice può trovarsi di fronte a tre ipotesi:
a) la parte interessata propone l’eccezione di estinzione – è bene ricordare che quando
una parte riceve l’istanza di fissazione dell’udienza, ai sensi dell’art. 10 D.Lgs. 5/2003, deve
depositare in cancelleria, nei dieci giorni successivi, una nota contenente le definitiva formulazione delle istanze istruttorie, delle conclusioni di rito e di merito già proposte, esclusa ogni
loro modificazione –,
Parte II - Giurisprudenza
135
La suddetta norma, quindi, non è affatto decisiva ai fini della risoluzione della questione qui dibattuta. Tuttavia, certamente dalla stessa non può
desumersi che al contumace non vada notificata nemmeno l’istanza di fissazione dell’udienza e ciò perché la citata disposizione, essendo volta, come
detto, solo ad evitare una «disarticolazione»dei processi litisconsortili, ha riguardo essenzialmente agli atti difensivi e alle memorie che le parti si «scambiano» all’interno della fase preparatoria, ossia prima della chiusura di detta
fase, determinata appunto dalla notifica dell’istanza di fissazione dell’udienza. Tenendo conto della ratio del dato normativo, dunque, è evidente che le
memorie e gli scritti difensivi, di cui si occupano gli artt. 8 comma 5-bis e 17
comma 2-bis cit., sono tutti quelli (e solo quelli) che precedono l’istanza di
fissazione dell’udienza.
d. Inoltre, il reclamante ha dedotto che neanche vi sono ragioni per riservare un trattamento diverso al contumace, a seconda che ci si trovi nella
fase cd. preparatoria o nella fase apud iudicem, posto che in entrambi i casi
ben possono applicarsi le regole ordinarie del processo, spettando alla stessa parte di prendere atto responsabilmente della mancata costituzione della
controparte.
Anche questo rilievo non pare del tutto condivisibile.
Anzitutto, occorre tener conto del fatto (ampiamente evidenziato nel
provvedimento reclamato) che il d.lgs. n. 5/2003 sembra accogliere una nozione tutta particolare di contumacia. Per via della peculiare struttura del
processo societario, il convenuto viene definito contumace sia se non notifica (o anche se notifica tardivamente) la propria comparsa di risposta, sia
b) ricorre uno dei casi dell’art. 8, comma 4, D.Lgs. 5/2003 già esaminati;
c) ai sensi dell’art. 13, comma 1, D.Lgs. 5/2003 l’attore non si costituisce nel termine di
cui all’art. 3, D.Lgs. 5/2003 mentre il convenuto si costituisce nel termine a lui assegnato a
norma dell’art. 5, comma 1, D.Lgs. 5/2003 eccepisce nella comparsa di costituzione e risposta
l’estinzione del processo e ribadisce tale eccezione nell’istanza di fissazione d’udienza che andrà a depositare.
In queste tre ipotesi, se l’eccezione di estinzione è fondata, il giudice relatore, convocate
le parti costituite, dichiara l’estinzione del processo con ordinanza reclamabile entro dieci
giorni dalla comunicazione innanzi al collegio che provvede ai sensi dell’art. 308 cod. proc.
civ. (11).
(11) Va però evidenziato che in realtà vi è tutta una serie di ipotesi per le quali il legislatore non ha espressamente previsto la sanzione dell’estinzione, come ad esempio quella evincibile dall’art. 9 comma 3 relativa al
tardivo deposito dell’istanza di fissazione d’udienza notificata, dove l’estinzione dovrebbe comunque conseguire
al mancato rispetto del termine perentorio, sicché non si vede il motivo per il quale non dovrebbe operare il meccanismo dell’art. 12 comma 5. Si veda amplius, M. Fabiani, cit.; G. Costantino, cit.
136
Il diritto fallimentare e delle società commerciali
se non si costituisce in cancelleria, il che certamente rappresenta un dato di
cui tener conto allorché si deve effettuare il cd. giudizio di compatibilità (di
cui all’art. 1 comma 4 d.lgs. n. 5/2003).
Inoltre, non può sottacersi che nella fase apud iudicem la «compatibilità» tra il rito societario e quello ordinario è certamente maggiore, se non
altro perché questa fase comporta l’avvenuto accertamento giudiziale della
volontarietà della contumacia (arg. ex art. 12 comma 7 d.lgs. n. 5/2003).
Ovviamente, non si vuol negare che in questo processo, caratterizzato
effettivamente dal rafforzamento del potere dispositivo dei contraddittori,
ciascuna parte debba responsabilmente verificare (prima del giudice) se
la controparte possa o meno considerarsi contumace (nella duplice accezione che sembra presupposta da detto rito), anche al fine di seguire una determinata strategia processuale ovvero un’altra (cfr. art. 13 d.lgs. n. 5/2003).
Il fatto è, però, che questo argomento non è decisivo. Ciò che conta è che,
ad avviso del collegio, l’interpretazione letterale e sistematica delle norme
induce a far ritenere che l’istanza di fissazione dell’udienza vada notificata
al contumace.
e. Ed ecco il punto fondamentale.
Secondo il reclamante la genericità del dato normativo non varrebbe a
fondare la tesi accolta dal primo giudice e anche l’argomento tratto dall’art.
8 comma 1 lett. a) d.lgs. n. 5/2003 sarebbe fragile.
Il collegio non condivide detti assunti.
Anzitutto, non può considerarsi privo di rilievo il fatto che l’art. 8 comma 1 stabilisca che l’attore debba notificare l’istanza «alle altre parti» e non
«alle altre parti costituite».
Il fatto che nelle ipotesi a) e c) sia escluso il rilievo officioso dell’estinzione potrebbe far
leggere il particolare meccanismo dell’ipotesi b) nel senso che anche il ritardo nella notifica
dell’istanza di fissazione dell’udienza richiederebbe l’eccezione di parte, per la qual cosa, il
potere officioso sarebbe relegato all’ipotesi in cui nessuna delle parti sia comparsa innanzi
al giudice istruttore nell’udienza, ai sensi dell’art. 12, comma 5, D.Lgs. 5/2003 o al collegio,
ai sensi dell’art. 8, comma 4, D.Lgs. 5/2003. Secondo un orientamento dottrinale (12), la necessaria convocazione delle parti all’udienza farebbe ritenere che l’esercizio del potere officioso rimanga circoscritto all’ipotesi in cui nessuna delle parti si presenti in udienza. La portata
dell’art. 8, comma 4, D.Lgs. 5/2003 andrebbe, cioè, ulteriormente ridimensionata nel senso
che, perché il giudice relatore possa ricorrere al suo potere officioso, non solo l’istanza deve
essere tardiva, ma nessuna delle parti deve essersi presentata in udienza. In altri termini,
(12) E. Picaroni, cit, pagg. 137 e segg., ma si vedano poi anche A. Briguglio, Commento sub art. 8
D.lgs. 5/03, in La riforma delle società. Il processo (a cura di Bruno Sassani), Torino, 2003, 95-96; N. Sotgiu,
Riv. trim. suppl. al n. 1, 2005, 177 e segg.
Parte II - Giurisprudenza
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Invero, quando il legislatore ha inteso limitare le notificazioni o le comunicazioni alle sole parti costituite, lo ha espressamente indicato (cfr. l’art.
17 comma 2-bis cit., l’art. 133 comma 2 cod. proc. civ., etc.).
D’altronde, anche in altre occasioni, la medesima espressione è stata intesa nel senso che la comunicazione spetti pure al contumace. Ad esempio,
nel procedimento di scioglimento della comunione, l’art. 789 comma 2 cod.
proc. civ. genericamente prescrive la comunicazione «alle parti», eppure si
ritiene che il decreto del giudice istruttore (che ordina il deposito del progetto di divisione e fissa l’udienza per la discussione dello stesso) debba essere comunicato a tutti i condividenti, anche se non costituiti (cfr. Cassazione, 7 maggio 1991 n. 5014, 3 settembre 1993 n. 9305, 7 marzo 1996 n.
1818, etc.).
In secondo luogo, come correttamente rilevato dalla prevalente giurisprudenza, soccorre il combinato disposto di cui all’art. 8 comma 1 lett.
a) (che individua come dies a quo per la notifica dell’istanza di fissazione
dell’udienza, da parte dell’attore, la data di notifica della comparsa di risposta, per il caso che il convenuto non sia contumace, ovvero «la scadenza del
termine per la notifica della comparsa di risposta», per l’ipotesi che il convenuto sia rimasto contumace) e di cui all’art. 8 comma 4 (che sanziona con
l’estinzione la mancata notifica dell’istanza nel rispetto delle suddette scadenze) (cfr. Tribunale Napoli, 2 febbraio 2005, e, incidentalmente, Tribunale Napoli, 13 giugno 2005).
Secondo il reclamante quest’ultima conclusione non sarebbe corretta,
poiché la norma di cui all’art. 8 cit. va letta per intero. La detta norma, infatti, regola anche l’ipotesi in cui l’istanza sia presentata dal convenuto o da
un terzo e, in tal caso, poiché «l’attore si deve essere necessariamente costi-
quando viene proposta un’istanza tardiva di fissazione dell’udienza è come se si riassumesse il
processo che è entrato in quiescenza; si rimette in moto il meccanismo dell’art. 12, D.Lgs. 5/
2003; il processo approda dinanzi al giudice relatore, il quale emette il decreto di fissazione
dell’udienza con la conseguenza che spetterà al Tribunale dichiarare con sentenza l’estinzione. Tale dichiarazione di estinzione potrà avvenire d’ufficio, se nessuna delle parti sarà comparsa all’udienza o su eccezione di parte, se almeno una parte si sarà presentata. Se, invece, il
processo viene riassunto al solo fine della dichiarazione di estinzione, attraverso la presentazione di una specifica istanza in tal senso, allora sarà il giudice relatore a fissare l’udienza innanzi a sé per l’esame della sola questione dell’estinzione.
È questa la tesi che intende portare avanti il reclamante.
Ma tale ricostruzione, a giudizio del Tribunale di Napoli, non ha fondamento normativo,
dal momento che la congiunzione «e» dell’art. 12, comma 5, D.Lgs. 5/2003 va letta per quello che è. Svolge la funzione di legare l’ipotesi dell’eccezione di estinzione formulata dalla parte in generale, a quella officiosa di cui all’art. 8, comma 4, D.Lgs. 5/2003 salvo il meccanismo
davanti al collegio, a quella ancora dell’eccezione di parte nell’ipotesi della contumacia dell’attore.
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Il diritto fallimentare e delle società commerciali
tuito» (sic), la norma non potrebbe interpretarsi nel senso che l’istanza vada
notificata al contumace (perché l’attore è costituito), ma nel senso che riguarda le parti diverse dall’attore.
Ad avviso del collegio, invece, anche dal complessivo tenore dei primi
tre commi dell’art. 8 cit. può trarsi conferma della correttezza dell’interpretazione adottata dal giudice relatore.
Anzitutto, non è vero che l’attore deve essersi necessariamente costituito, ben potendo accadere che anche l’attore, dopo la notifica della citazione, rimanga contumace (nell’accezione propria del codice di rito).
Né può sostenersi che, in tal caso, l’attore contumace non abbia il diritto di ricevere la notifica dell’istanza di fissazione dell’udienza. L’art. 8 cit.,
infatti, consente a ciascuna delle parti, qualora la causa sia ritenuta sufficientemente istruita, di notificare alle altre l’istanza di fissazione dell’udienza, provocando in tal modo l’intervento del giudice nel processo. La norma
citata prende in considerazione le diverse esigenze delle varie parti del giudizio
e stabilisce, per ciascuna, termini distinti per effettuare la notifica della predetta istanza, al fine di mantenere l’equilibrio tra i contrapposti interessi e di garantire il principio del contraddittorio. Il termine perentorio di venti giorni
per la notificazione dell’istanza decorre, infatti, da momenti diversi, a seconda del ruolo assunto dalla parte – attore, convenuto, terzo chiamato – e della
situazione processuale in cui questa si trova. In generale, semplificando, cia-
Questo sistema funziona bene proprio rispetto alla contumacia della parte interessata all’estinzione, perché qui il giudice relatore, diligentemente, potrebbe sanzionare il ritardo o la
non compiuta notifica dell’istanza di fissazione dell’udienza a tutela di un soggetto che comunque non ha ricevuto la notifica dell’istanza di fissazione dell’udienza (13).
Sarebbe infatti difficilmente comprensibile una norma che consenta il rilevo d’ufficio di
tale fattispecie estintiva e stabilisca al tempo stesso che occorre convocare le parti per vedere
se queste intendono eccepire l’estinzione del giudizio. La necessità dell’eccezione d’ufficio si
presenta soltanto nel caso in cui, nonostante si sia perfezionata la fattispecie estintiva, tale rilievo non sia stato sollevato dalle parti.
Risolto il problema preliminare sulla legittimazione del giudice relatore alla dichiarazione
dell’estinzione del giudizio, il tribunale partenopeo si occupa della questione della notifica
dell’istanza di fissazione dell’udienza anche al contumace. L’orientamento è nel senso positivo
sulla base di vari e pregevoli argomenti, sistematici e letterali, che cosı̀ possono sintetizzarsi:
(13) In termini, Tribunale Napoli, 2 febbraio 2005, Rel. Tricomi, in www.judicium.it, con nota di commento di Chiara Muti, secondo cui «la preclusione al rilevo d’ufficio di cui all’ultima parte del citato art. 8, comma 4,
riguarda l’udienza di discussione della causa davanti al Collegio che si sia svolta comunque, nonostante la causa di
estinzione, e non già l’udienza fissata dal giudice istruttore ex art. 12, comma 5, al fine di pronunciare l’estinzione
del processo (in tal senso si è successivamente pronunciato anche il Tribunale di Roma, con ordinanze del 16
febbraio 2005 e del 26 aprile 2005, entrambe in Bucci, Il Processo societario, Padova, 2004, 125).
Parte II - Giurisprudenza
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scuna parte può notificare l’istanza di fissazione dell’udienza decorsi venti
giorni dalla notifica dell’ultimo scritto difensivo della controparte a cui non
intenda replicare, ovvero dalla scadenza del relativo termine.
Ebbene, nel caso in cui l’attore non si sia costituito e non ricorrano le
altre ipotesi previste dall’art. 8 comma 2, il convenuto può notificare l’istanza entro venti giorni dalla data della propria costituzione in giudizio (cfr.
art. 8 comma 2 lett. c)) e cosı̀ deve fare il terzo chiamato o intervenuto
(cfr. art. 8 comma 3 lett. b)). Pertanto, anche da tali disposizioni si trae conferma del fatto che l’istanza di fissazione dell’udienza può e deve essere notificata anche alla controparte (sia essa il convenuto o l’attore o il terzo) rimasta contumace.
Per completezza va sgombrato il campo da un possibile equivoco. L’art.
13 comma 1 d.lgs. n. 5/2005, nell’ipotesi di mancata tempestiva costituzione
dell’attore, sancisce che il convenuto può eccepire l’estinzione nella comparsa
di risposta e può chiedere la fissazione dell’udienza ovvero può procedere a
norma dell’art. 4 d.lgs. n. 5/2005. Pertanto, se il convenuto intende ottenere
la declaratoria di estinzione del processo, l’art. 13 cit. gli impone di notificare
la comparsa di risposta, di costituirsi e di depositare l’istanza di fissazione dell’udienza: questa istanza (che va solo depositata e non notificata alle altre parti) non è, però, l’istanza di fissazione dell’udienza di discussione innanzi al
collegio, bensı̀ l’istanza per la fissazione dell’udienza innanzi al giudice relatore, richiamata dall’art. 12 comma 5 cit. (che regola, appunto, il sub-procedimento volto a far dichiarare l’estinzione del procedimento da parte del giudice
relatore). In definitiva, va rimarcato che neanche dall’art. 13 cit. possono trarsi argomenti per sostenere che l’istanza di fissazione dell’udienza collegiale
non debba essere notificata al contumace (allorché questi sia l’attore).
f. Il reclamante ha contestato, poi, la sussistenza di altri dati normativi
dai quali desumere l’obbligo della notifica dell’istanza de quo al contumace.
a) il legislatore ha sı̀ lasciato «nella esclusiva disponibilità delle parti il potere di dare impulso alle diverse fasi del processo, ma, allo stesso tempo, ha previsto un termine massimo –
perentorio – entro cui la fase introduttiva si deve comunque concludere, mediante la fissazione dell’udienza, allo scopo di contenere la durata del processo entro limiti ragionevoli e di
evitare che una prolungata inerzia delle parti comporti un’indefinita pendenza del giudizio»
(sic, in sentenza);
b) le norme che impongono l’obbligo di notificazione personale al contumace intendono
mettere quest’ultimo a conoscenza di atti del processo da cui potrebbe scaturire il suo interesse a costituirsi e a difendersi attivamente. Esse presuppongono, com’è ovvio, che il contumace possa ancora costituirsi in giudizio perché ha dei poteri da utilmente esercitare (si veda
l’articolato sistema delineato dagli artt. 290 e segg. cod. proc. civ.). Nella fattispecie, potrebbe
ad esempio aver interesse a sollevare l’eccezione di decadenza di cui all’art. 10, comma 2,
D.Lgs. 5/2003 ovvero aver interesse ad eccepire l’estinzione ai sensi dell’art. 13, comma 1,
D.Lgs. 5/2003;
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Il diritto fallimentare e delle società commerciali
Ad avviso del collegio, invece, l’art. 5 comma 2 d.lgs. n. 5/2003 sembra
presupporre che l’istanza di fissazione dell’udienza debba notificarsi quantomeno al convenuto che abbia notificato la propria comparsa, ma che non
si sia poi costituito in giudizio (rimanendo pur sempre contumace, nel significato proprio del codice di rito). Altrimenti, non si comprende come detta
norma possa applicarsi (specie in un processo tra due parti): se non sussistesse l’obbligo di notifica dell’istanza, giammai il convenuto (contumace)
potrebbe costituirsi entro dieci giorni dalla notifica dell’istanza effettuata
dalla controparte.
Ma vi è di più. Invero, come ampiamente evidenziato dal giudice relatore, l’art. 13 comma 2 d.lgs. n. 5/2003 prevede espressamente la notifica
anche al convenuto contumace nell’accezione peculiare del rito societario
(ossia al convenuto che non abbia tempestivamente notificato la propria
comparsa di risposta). Tale norma vale sı̀ a provocare la cd. ficta confessio,
ma anche, in caso di mancata notifica, l’estinzione del processo ex art. 8
comma 4 cit.
Al riguardo, può osservarsi che «la durata ragionevole del processo»è
un valore che il legislatore intende tutelare in modo obiettivo e non, per cosı̀
dire, secundum eventum litis. Lo stesso meccanismo (la notifica dell’istanza
di fissazione dell’udienza al convenuto contumace), infatti, è congegnato
per addivenire in ogni caso ad una rapida definizione del processo: da un
lato, può comportare uno snellimento dell’istruttoria (allorché si provoca
la ficta confessio), dall’altro, determina l’estinzione del processo (allorché
non si effettua la notifica nei termini).
g. Il reclamante ha sostenuto, inoltre, che l’interesse del contumace a
costituirsi (dopo la notifica dell’istanza di fissazione dell’udienza) non di-
c) dal tenore letterale dell’art. 8 D.Lgs. 5/2003 si evince che «non sono stati previsti regimi diversi, con riguardo all’individuazione dei termini e delle modalità per la notifica dell’istanza di fissazione dell’udienza, a seconda che si tratti di processi tra due sole parti o di
processi con pluralità di parti» (sic, in sentenza). Ne consegue che, se si escludesse l’obbligo
di notifica al convenuto contumace, si finirebbe per rendere l’attore non vincolato al rispetto
dei termini perentori fissati dagli artt. 8 e 9 D.Lgs. 5/2003;
d) l’art. 17, comma 2 bis, D.Lgs. 5/2003 secondo cui nel processo con pluralità di parti, le
comparse e le memorie devono essere notificate a tutte le parti costituite, è stato introdotto solo
per evitare sfasature nell’ambito dei processi con pluralità di parti, onde evitare che l’accavallarsi di memorie e di istanze di fissazioni d’udienza intralci lo svolgimento unitario e ordinato
del processo;
e) l’art. 8, comma 1, D.Lgs. 5/2003 stabilisce che l’attore debba notificare l’istanza alle
altre parti, e non alle altre parti costituite. Quando il legislatore ha inteso limitare le notificazioni o le comunicazioni alle sole parti costituite, lo ha espressamente indicato (art. 17, comma 2 bis, D.Lgs. 5/2003, art. 133 cod. proc. civ., etc.). Per contro, laddove ha utilizzato solo
l’espressione «parti», come ad esempio nell’art. 789 comma 2 cod. proc. civ. relativo al de-
Parte II - Giurisprudenza
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scenderebbe dalla notifica di detto atto, bensı̀ dalle pregresse richieste e
dalle difese delle controparti.
Questa deduzione è vera solo in parte. Vi sono, infatti, eccezioni che la
parte può (e deve) sollevare solo dopo la notifica dell’istanza de quo, tra cui
l’eccezione di decadenza di cui all’art. 10 comma 2 d.lgs. n. 5/2003.
Ma non è questo il punto. Il giudice relatore, nell’individuare taluni dei
poteri di cui il contumace si può ancora avvalere, pur in un processo caratterizzato da stringenti preclusioni e decadenze, ha solo voluto sgombrare il
campo dal dubbio che detta notifica potesse essere, ancorché imposta dalla
legge, inutile. È noto, infatti, che la ratio delle norme che prevedono l’obbligo di notificazione personale al contumace è quella di consentire a quest’ultimo di conoscere tempestivamente gli atti compiuti nel processo, dai
quali potrebbe scaturire il suo interesse a costituirsi ed a difendersi attivamente. Ne consegue che dette norme presuppongono, ovviamente, che il
contumace possa ancora costituirsi in giudizio. Sulla scorta di questa premessa, non appare peregrino il rilievo del giudice relatore, secondo cui
nel processo societario il contumace ben può costituirsi anche dopo la notifica dell’istanza di fissazione dell’udienza e può avere interesse a farlo,
avendo a disposizione molteplici poteri da esercitare.
h. Infine, il reclamante ha dedotto che il nostro sistema processuale conosce altri modelli, quale quello del processo amministrativo, caratterizzati
creto con cui il giudice ordina il deposito del progetto di divisione e fissa l’udienza per la discussione dello stesso, la giurisprudenza non ha avuto dubbi sulla comunicazione del provvedimento anche al contumace;
f) l’art. 8, comma 1, lett. a), D.Lgs. 5/2003 individua due termini per la notifica dell’istanza di fissazione dell’udienza da parte dell’attore: la data di notifica della comparsa di risposta per il caso in cui il convenuto non sia contumace e la scadenza del termine per la notifica della comparsa di risposta per l’ipotesi in cui il convenuto sia rimasto contumace. L’art.
8, comma 4, D.Lgs. 5/2003 sanziona, poi, con l’estinzione la mancata notifica dell’istanza nel
rispetto delle scadenze (14);
g) l’art. 13, comma 1, D.Lgs. 5/2003 disciplina il diverso caso dell’attore che non si è
costituito nel termine di cui all’art. 3, D.Lgs. 5/2003 ed il convenuto, costituendosi nel termine a lui assegnato a norma dell’art. 5, comma 1, D.Lgs. 5/2003 può, nella comparsa di risposta eccepire l’estinzione del processo e depositare l’istanza di fissazione dell’udienza. Tale
istanza, che va solo depositata e non notificata alle altre parti, non è però l’istanza di fissazione dell’udienza davanti al collegio, bensı̀ l’istanza per la fissazione dell’udienza innanzi al giudice relatore, richiamata dall’art. 12, comma 5, D.Lgs. 5/2003 che regola il sub-procedimento
per far dichiarare l’estinzione del procedimento innanzi al giudice relatore;
(14) si vedano anche Tribunale Napoli, 2 febbraio 2005 e, incidentalmente 13 giugno 2005, citate dal provvedimento in commento.
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Il diritto fallimentare e delle società commerciali
dalla previsione, dopo l’atto introduttivo, di un’istanza di fissazione dell’udienza, che può seguire anche a distanza di tempo dalla notifica dell’atto
introduttivo e di cui non va data notizia alla parte non costituita.
Anche questo, pur perspicace, rilievo non appare decisivo.
La cd. istanza di prelievo, prevista nel processo amministrativo, è volta
solo a sollecitare la fissazione dell’udienza di comparizione delle parti per la
discussione del ricorso ed il legislatore ha espressamente stabilito che, a seguito della stessa, vada comunicato, a cura dell’ufficio, alle sole parti costituite il decreto del giudice di fissazione dell’udienza.
Tutt’affatto diversa è l’istanza de quo, che non contiene solo la richiesta
di fissazione di un’udienza e di cui è prevista la notifica, a cura della parte,
entro circoscritti termini perentori. Ben più complessi sono gli effetti di detta istanza, dalla quale dipendono il passaggio da una fase processuale ad
un’altra, le decadenze di cui all’art. 10 cit., gli effetti sul piano probatorio
di cui agli artt. 10 comma 2-bis e 13 cit. ed, infine, l’eventuale estinzione
del processo. Insomma, l’istanza di fissazione dell’udienza rappresenta nell’ambito del processo cd. societario uno snodo fondamentale, attorno al
quale ruota la funzionalità stessa del meccanismo predisposto dal legislatore, incentrato sulla consecuzione tra varie fasi (quella preparatoria e quella
apud iudicem).
Stanti le indicate differenze tra i due modelli processuali, ben può ritenersi che una diversa disciplina sia stata dettata con riguardo alla posizione
del contumace, rispetto all’istanza di fissazione dell’udienza.
Per tutte le suesposte considerazioni il reclamo va rigettato.
h) l’art. 5, comma 2, D.Lgs. 5/2003 secondo cui In assenza di documenti da depositare, di
domande riconvenzionali o di chiamata di terzi, il convenuto che abbia tempestivamente notificato la comparsa di risposta può costituirsi entro dieci giorni dalla notificazione dell’istanza di
fissazione dell’udienza a cui abbia provveduto altra parte farebbe chiaramente intendere che il
convenuto, benché abbia notificato la comparsa di costituzione e risposta, non si sia costituito. La legge gli consente, comunque, di costituirsi nei dieci giorni dalla notificazione dell’istanza di fissazione dell’udienza a cui abbia provveduto l’altra parte;
i) l’art. 13, comma 2, prima parte, D.Lgs. 5/2003 secondo cui Se il convenuto non notifica
la comparsa di risposta nel termine stabilito a norma dell’art. 2, comma 1, lett. c), ovvero dell’art. 3, comma 2, l’attore, tempestivamente costituitosi, può notificare al convenuto una nuova
memoria a norma dell’art. 6, ovvero depositare, previa notifica, istanza di fissazione dell’udienza, è chiaro nel prevedere la notifica dell’istanza di fissazione dell’udienza anche al convenuto
contumace.
In definitiva – e a differenza che nel processo amministrativo dove la cd. istanza di prelievo, che pure può seguire a distanza di tempo dalla notificazione del ricorso, è volta solo a
sollecitare l’udienza di comparizione delle parti per la discussione del ricorso e per questo il
decreto del magistrato di fissazione dell’udienza va comunicato solo alle parti costituite – l’istanza di fissazione dell’udienza nel processo societario svolge un ruolo fondamentale, perché
Parte II - Giurisprudenza
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Nulla deve disporsi in merito alle spese, essendo rimasta contumace la
convenuta. (Omissis)
costituisce lo snodo imprescindibile tra la fase preliminare tra gli avvocati e la cd. fase apud
iudicem, determina le decadenze di cui all’art. 10 D.Lgs. 5/2003 gli effetti sul piano probatorio di cui agli artt. 10, comma 2 bis, e 13 D.Lgs. 5/2003 e, infine, l’eventuale estinzione del
processo (15).
Ubalda Macrı̀
Giudice del Tribunale di Nola
(15) In dottrina, ritengono necessario notificare l’istanza di fissazione dell’udienza al contumace, E. Picaroni, cit., sub art. 8, 100, la quale ritiene l’applicabilità della regola dell’art. 292 comma 1 cod. proc. civ., al fine
di rendere edotta la parte contumace della conclusione della fase preparatoria e consentirle l’eventuale costituzione tardiva; B. Poliseno, in I procedimenti in materia commerciale, a cura di G. Costantino, Padova 2005, sub
art. 12, 225; A. Raganati, Il processo contumaciale tra eccessivo garantismo e principio di autoresponsabilità, in
www.judicium.it.
In giurisprudenza, Tribunale Napoli, ordinanza 24 aprile 2006, Rel. Tricomi, in www.altalex.it, con nota di
commento di Mario Valentino, Tribunale Santa Maria Capua Vetere, decreto 13 dicembre 2005, Rel. De Matteis,
in www.santamariagiustizia.com e in www.judicium.it, con nota di Elena Bossi secondo cui, in ipotesi di mutamento del rito, è necessaria la notifica dell’istanza di fissazione dell’udienza al contumace il quale deve essere reso
edotto della nuova situazione processuale, per le importanti conseguenze previste dal rito societario proprio a
carico del contumace; Tribunale Milano, decreto 21 settembre 2005, Rel. Consolandi, in www.associazionepreite.it, secondo cui valgono alcuni degli argomenti svolti anche dal Tribunale di Napoli (artt. 8, comma 1 lett. a), 13
comma 2) per ritenere la necessità della notifica dell’istanza di fissazione dell’udienza anche al contumace, con la
conseguenza che, in caso di omissione deve essere dichiarata l’estinzione anche d’ufficio; Tribunale Terni, ordinanza 28 febbraio 2005, Rel. Porreca, con commento di R. Giordano, in Il corriere di merito, 2005, 676-680, e in
Foro it., 2006, 937, con nota di B. Poliseno; Tribunale Verona, ordinanza 14 gennaio 2005, Rel. Rizzuto, in Foro
it., 2006, 937, con nota di B. Poliseno; contra Tribunale Viterbo, sentenza 6 aprile 2005, Pres. Pascolini Est. Lo
Sinno, in Foro it., 2006, 937, con nota di B. Poliseno.
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