INTRODUZIONE
Nel commissionare a un gruppo di qualificati studiosi la serie di scritti raccolti
nel presente volume, il Centro Studi Giuseppe Gioachino Belli ha inteso perseguire l’obiettivo – diranno i lettori quanto realizzato – di restituire alla figura del
Tribuno del Popolo Romano la complessità che lo caratterizza.
La molteplicità degli aspetti risultanti dalla sua biografia, dalle sue imprese politiche e dall’epistolario trova del resto un significativo riflesso nei numerosi e
complementari approcci con cui esperti di varie discipline si sono accostati a Cola
di Rienzo.
Ne è, tra l’altro, prova la bibliografia riprodotta in calce alla pubblicazione,
dalla quale emerge che, accanto alle fonti principali che dalla Cronica in poi si
sono via via interessate al personaggio, continuano a fiorire monografie e analisi:
segno che il “potenziale” insito in lui si è tutt’altro che esaurito.
La materia si può idealmente dividere in quattro sezioni, nella prima delle quali si esaminano il ruolo e la figura di Cola nella storia e nella fonte più nota, la
Cronica. Nel saggio di Gustav Seibt si intende spiegare la tesi secondo la quale
nel percorso di Cola si possono rintracciare due progetti, uno imperiale e un altro
curiale, o meglio anticuriale. Il primo è evidente e notissimo: si tratta della rivendicazione dell’elezione degli imperatori da parte del populus romanus. Il secondo è nascosto per ragioni tattiche e finora non bene interpretato: il richiamo della
donazione di Costantino basandosi sui diritti del populus romanus. Tutti e due i
progetti sono interdipendenti e formano un piano coerente e rivoluzionario per
una restitutio ad integrum della cristianità, combinando tradizioni ed elementi
comunali-romani, giuridici e spirituali. La nuova interpretazione dell’opera di Cola di Rienzo lo fa apparire più come erede di molteplici tradizioni medievali che
come precursore del Rinascimento e di un sentimento nazionale italiano. Lo scopo finale e quasi escatologico del progetto per la salvezza del mondo è, secondo
l’autore, la riunificazione di Chiesa, Impero e Populus Romanus sul suolo sacro
della città eterna.
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Il contributo di Andreas Rehberg tratta di un fatto poco noto della storia della
Roma trecentesca, con al centro l’azione violenta di un romano, Antonio Malavolta, solo apparentemente di origini semplici – come prova un documento inedito
presentato nel post scriptum, che attesta il Malavolta come podestà di Cori nel 1366
– che si fece chiamare tribuno sulle orme di Cola di Rienzo. Il testo prende avvio
dal 17 gennaio 1377, quando il papa Gregorio XI (1370-1378), da Avignone, dove
la curia risiedeva da circa 70 anni, finalmente era tornato a Roma, per la grande
gioia dei romani che in tale evento riposero le speranze di una veloce ripresa economica della loro città. Ma il ritorno del pontefice non risolse i tanti problemi che
minacciavano il potere pontificio: si pensi all’odio contro i funzionari francesi dello Stato della Chiesa, alle crudeltà delle truppe papali composte da mercenari stranieri, nonché alla guerra con Firenze (“guerra degli Otto Santi”). I fiorentini, in lotta aperta contro il Papato, colpiti dall’interdetto e perciò ufficialmente banditi da
Roma, cercarono di trarre profitto dal risentimento generale verso i piani del pontefice, sostenendo una serie di contatti cospirativi con alcuni romani preoccupati
per la sorte dell’autonomia comunale.
È in questo clima teso e pieno di sospetti che si verifica un episodio per il quale nuove informazioni si trovano nella raccolta – effettuata in Spagna – delle dichiarazioni di testimoni in merito allo svolgimento dell’elezione al soglio papale di
Urbano VI, avvenuta l’8 aprile 1378 in un clima infuocato dalla furia del popolo e
probabilmente da ciò influenzato; cosa che diede il pretesto per l’elezione di un
antipapa a settembre, da cui ebbe inizio formale il Grande Scisma d’Occidente, durato fino al 1417.
Dai documenti, poco conosciuti e in parte inediti, presentati nell’appendice, risulta che alla notizia della grave malattia di Gregorio XI – iniziata a fine gennaio
1378 e che avrebbe portato il papa alla morte il 26 marzo di quell’anno – alcuni romani si sarebbero radunati sotto la guida di un vignaiolo di nome Antonio Malavolta, presunto tribuno, per una sommossa contro il governo papale programmata
per il carnevale del 1378. Il piano degli insorti prevedeva una serie di massacri,
nonché saccheggi delle case dei cardinali, dei curiali e degli stranieri. Ma il piano
fu scoperto e il ribelle fu giustiziato immediatamente sulla piazza del Campidoglio.
Anche se questo tentato golpe (sulla cui vera portata restano ancora dei dubbi)
fallì, esso contribuì probabilmente in misura non trascurabile a rendere teso il clima in città alla vigilia dell’apertura del conclave il 7 aprile 1378, ed ebbe perciò
profonde ripercussioni sulla storia di Roma e di tutta la cristianità.
L’autore conclude affermando che l’avventura di questo singolare epigono che
fu Antonio Malavolta costituisce una ulteriore prova del fascino che la figura di Cola di Rienzo esercitava ancora nell’immaginario collettivo, nonostante la damnatio
memoriae intervenuta nei suoi confronti.
Muzio Mazzocchi Alemanni esamina quel che è rimasto del carteggio PetrarcaCola di Rienzo nel monumentale Briefwechsel edito da K. Burdach e P. Piur in
Wom Mittelalter zum Reformation Forschungen zum Geschichte der deutschen
Bildung, cioè un manipolo di lettere inviate dal Petrarca al tribuno, oltre alla
lunga hortatoria al popolo romano e al tribuno, e una di Cola al Petrarca.
INTRODUZIONE 7
Le lettere del Petrarca tracciano il diagramma del percorso psicologico dagli
inizi entusiastici alla malinconica delusione. Fra l’altro le lettere petrarchesche ci
confermano l’ambiguo e contraddittorio rapporto con i Colonna stante l’amicizia
fra Cola e il poeta (di qui il titolo allusivo). La destinazione della lettera prima in
ordine cronologico ed erroneamente attribuita a Petrarca è stata naturalmente corretta.
Il saggio di Anna Modigliani, dedicato al concetto di popolo romano e di tribunato in Cola di Rienzo, prende le mosse da un giorno significativo, il 20 maggio
1347, data in cui Cola assume il potere su Roma con un atto di forza e diviene di
fatto signore della città. Egli emana poi una legislazione antimagnatizia (gli ordinamenti dello buono stato) e insieme al vicario di papa Clemente VI, il quale da
Avignone sostiene la sua azione, viene nominato tribuno del popolo. Dopo il 20
maggio, Cola di Rienzo governa da solo e lascia al vicario essenzialmente una funzione di controllo. Firma le lettere diplomatiche come Nicolaus severus et clemens,
libertatis pacis iusticieque Tribunus. Il saggio si propone di spiegare le ragioni per
cui fu recuperata in tale occasione l’antica carica tribunizia – unico caso nell’Italia
tardomedievale – a denominare e legittimare il potere straordinario assunto da Cola. La ragione principale di tale scelta appare il fatto che la carica di tribuno consentiva di accompagnare – attraverso il concetto di tribunicia potestas – quel trapasso verso un impero finalmente restituito a Roma, che già alcuni anni prima del
1347 era diventato il punto centrale del programma politico di Cola di Rienzo.
Giuseppe Porta dedica il suo articolo all’autore della Cronica e vi sostiene che,
esclusa la parte strettamente medica, retaggio del periodo universitario a Bologna,
non c’è ragione per credere che l’anonimo autore della Cronica avesse una cultura
diversa da quella di Cola: di questa qualche tenue traccia persiste ancora nei fondi
manoscritti delle biblioteche di Roma. Pur essendo uno storico fedele e un testimone fededegno, l’Anonimo, interessato soprattutto al progetto del tribuno del restauro dell’antica grandezza della città e del riscatto del «puopolo de Roma», sottolinea le influenze classiche e pone in ombra la competenza biblica e patristica di
Cola, senza dubbio per non dar peso a quella immagine di “buon pastore” e di
perseguitato che, sulla scorta di innumerevoli reminiscenze evangeliche, Cola ambiva a dare di sé nell’Epistolario e che l’Anonimo, col suo eccezionale realismo politico, trovava alquanto «fantastica». Porta conclude affermando che non trova sempre credito, presso l’Anonimo, la figura del messo dello Spirito Santo e del cristiano seguace delle false profezie, quanto l’assertore della dignità del progetto politico avanzato, ma non scevro di pentimenti sul di lui operato.
Lucio Felici, dopo un breve excursus sui problemi di identificazione dell’Anonimo, prende in esame gli aspetti strutturali e stilistici della Cronica, con particolari considerazioni sui motivi che portarono a estrapolare, dal Cinquecento in poi, i
capitoli su Cola di Rienzo, secondo il gusto rinascimentale delle “vite”e e dei “ritratti” di uomini illustri.
L’autore esamina poi il “primitivismo”, il tono biblico, gli elementi grotteschi e
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gli esiti espressionistici della Cronica, per la cui ascendenza suggerisce l’influsso
della tradizione cronachistica romana che fa capo al Liber pontificalis (sec. VI), al
Chronicon del monaco Benedetto di Sant’Andrea (sec. X), agli Annales e alle biografie pontificie dei secoli XI e XII. A suffragare questa ipotesi egli mette a confronto alcune pagine dell’Anonimo con quelle di Giovanni Villani e altri cronisti
fiorentini.
Della fortuna di Cola nella letteratura trattano tre saggi, il primo dei quali è di
Pietro Gibellini, dedicato a La vita di Cola di Rienzo di Gabriele D’Annunzio. Capolavoro a lungo misconosciuto, la Cronica dell’Anonimo romano attirò tuttavia la curiosità degli scrittori. Fra questi spicca Gabriele D’Annunzio che, dopo aver pensato
di comporre una tragedia sul tribuno, pubblicò La vita di Cola di Rienzo (su «Rinascimento» nel 1905-06, e in volume presso Treves nel 1913). Primo (e unico) anello
del progettato ciclo di Vite d’uomini illustri e d’uomini oscuri, l’opera è intrapresa
da D’Annunzio per rinnovare “l’arte latina” del biografo, che differisce dallo storico
quanto il ritrattista dal frescante, attento com’è a cogliere il particolare espressivo e
rivelatore. Alle ragioni artistiche si aggiungono ragioni ideologiche: sottolineare il
fascino “romanzesco” della storia italiana e recuperare la lingua della nostra tradizione (D’Annunzio utilizza la versione toscanizzata di Zefirino Re, sovrapponendovi il proprio stile, elaborato attraverso le fitte correzioni dell’autografo).
L’autore conclude affermando che pur documentandosi con varie fonti e studi,
D’Annunzio fa soprattutto opera di scrittore: è affascinato da Cola, modello di
umanista-tribuno cui si ispirerà il comandante di Fiume, ma lo dipinge anche come
un Superuomo mancato, vittima di patologie viziose e di meschinità plebea.
Alda Spotti rileva che Giuseppe Gioachino Belli dedica a Cola di Rienzo un solo
sonetto in dialetto romanesco, Lo scordarello, scritto nel 1835. Il Poeta non sembra
però aver avuto una conoscenza diretta della Cronica dell’Anonimo romano, pubblicata qualche anno prima da Zefirino Re, il quale con la sua traduzione in italiano
aveva contribuito alla diffusione della fama dell’ultimo tribuno romano. E sebbene
un manoscritto, non autografo, con una breve e incompiuta biografia di Cola, derivata in parte da quella edizione, sia stato ritrovato fra le carte belliane conservate
presso la Biblioteca Nazionale Centrale di Roma, si può affermare che il poeta romano non abbia tratto dalla figura del Rienzo quell’ispirazione che invece è all’origine di tante opere poetiche e drammatiche di letterati romantici italiani e stranieri.
Conclude la sezione Marcello Teodonio il quale riprende, approfondendoli, gli
spunti enunciati da Alda Spotti, sottolineando preliminarmente che nelle carte di
Belli (poesie in dialetto, poesie in italiano, scritti vari, lettere) il nome di Cola di
Rienzo ricorre pochissime volte. Precisamente: un sonetto, Lo scordarello, e la sintesi (trovata nelle sue carte ma non di sua mano) della vita di Cola di Zefirino Re.
Un’assenza dunque più che una presenza; ma intanto per quanto riguarda i sonetti bisogna ricordare come nel mondo belliano siano molte le assenze di personaggi anche importanti della storia; e poi che quella sola presenza, con tutto il suo valore di contestazione obiettiva del potere temporale, è decisamente importante,
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anche perché il sonetto costituisce una implicita affermazione di poetica: lo scordarello del titolo dimentica la storia del passato, ma vuole fortemente ricordarla,
facendo cioè esattamente la medesima operazione di Belli del “monumento”, al
tempo stesso documento, testimonianza, memoria, ammonizione.
Dall’analisi letteraria si passa a quella della fortuna teatrale di Cola sia nel nostro Paese sia nella cultura tedesca. In Germania, infatti, come ben evidenzia Italo
M. Battafarano, soprattutto prima della rivoluzione del 1848, è stato grande l’interesse per alcune figure popolari della nostra storia. Apre questa parte l’articolo di
Laura Biancini che esamina la figura di Cola “personaggio teatrale” attraverso la lettura di tragedie, drammi in prosa, in versi o anche per musica
La sua, sottolinea l’autrice, non è un’indagine storica o letteraria, ma teatrale, indirizzata cioè ad evidenziare la resa scenica delle vicende del tribuno romano, la
loro traducibilità in un linguaggio che ha vita esclusivamente sulla scena e quindi
la capacità dei vari drammaturghi a realizzare tutto ciò. La sua indagine è inevitabilmente limitata all’Ottocento, dal momento che la fortuna di Cola a teatro, tranne
poche ricadute nel Novecento, non ha superato l’àmbito cronologico che vide il
sorgere e l’affermarsi delle istanze risorgimentali.
Ed è infatti a due drammi ottocenteschi che è dedicato il contributo di Paola Barone.
Nel primo, Cola di Rienzo l’ultimo dei tribuni (1848) Paolo Giacometti considera gli ultimi mesi di vita del tribuno – settembre e ottobre 1354 – dal suo ritorno
a Roma come senatore alla morte sul Campidoglio in fiamme. Quella del Giacometti è una rivisitazione densa di spiriti libertari, anticlericali e patriottici che forzano ed eroicizzano la figura di Cola, retoricamente presentato dall’autore che lo vede alla luce delle tensioni dei suoi tempi.
Il secondo dramma preso in considerazione è il poema drammatico in cinque
atti e un prologo Cola di Rienzo, composto da Pietro Cossa nel 1874. L’azione
comprende l’arco di tempo che vede da parte di Cola le prime elaborazioni ideologiche antitiranniche nel nome della giustizia e della grandezza di Roma, l’assunzione del tribunato, l’abbandono di Roma, il ritiro sulla Maiella, il ritorno da senatore
e la definitiva rovina. Secondo l’autrice, il Cola visto da Cossa è animato da fiero disprezzo per la curia e il Papato; ad ogni costo vuole liberare Roma dal giogo feudale dei baroni e recuperare il senso della sua antica grandezza. Scritta dopo l’unità, conclude l’autrice, il dramma sintetizza la linea laica e anticlericale del nostro
Risorgimento.
Il Cola risorgimentale di Goffredo Franceschi (1868) è l’opera affrontata da Anne-Christine Faitrop-Porta. In questa tragedia di cinque atti in versi, pubblicata a
Bologna e dedicata a un conte, senatore del Regno, attraverso i personaggi del traditore Loredano, di Laura – figlia di Cola, innamorata di un Colonna il cui padre ha
ucciso il fratello –, del Nunzio cospiratore e dei nobili Colonna, padre e figlio in
conflitto; attraverso gli scenari, dal Colosseo notturno ad un cimitero; attraverso i
richiami petrarcheschi, foscoliani e leopardiani, la profusione delle immagini e la
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solennità dei ritmi, si affaccia un Cola di Rienzo sconfitto dal clero, dal patriziato e
più ancora dal popolo, vittima delle utopie di libertà e giustizia. Ne risulta, conclude l’autrice, un dramma complesso, tale da rimettere in causa ogni lotta civile, da
Cola a Garibaldi, e lo stesso senso esistenziale.
Per quel che riguarda la presenza del personaggio di Cola in àmbito tedesco,
Italo Michele Battafarano rileva che l’interesse degli scrittori tedeschi per la figura
storica del tribuno romano tra la rivoluzione parigina del 1830 e il Quarantotto matura in circoli liberali e radicali in senso rivoluzionario. L’accentuato interessere dei
tedeschi per l’Italia nel corso dell’Ottocento (Goethe, i romantici, Heine, tra gli altri
numerosissimi) trova, come già accennato, anche nell’analisi di talune figure carismatiche della storia italiana una fonte di continua riflessione letteraria. Gli eroi
popolari che combattono contro la tirannide a capo del popolo in rivolta (dapprima Masaniello, poi Cola di Rienzo, quindi Garibaldi) esprimono quel mito della libertà politica che rappresentava la dimensione sociale della libertà individuale e
artistica, esperita in tanta letteratura tedesca d’ambiente italiano da Wackenroder a
Wilhelm Müller, da Waiblinger a von Platen.
Sulla tracce dello scrittore inglese George Edward Bulwer-Lytton, la figura di
Cola di Rienzo subentra nella Germania degli anni Trenta e Quaranta dell’Ottocento a quella di Masaniello, sulla quale si erano esercitate da ormai quasi due secoli
le aspirazioni drammaturgiche e libertarie degli scrittori tedeschi. Come già il pescatore napoletano, anche il tribuno romano, eroe della libertà contro la corruzione e il malgoverno del clero e della nobiltà romana, arriva al massimo potere dal
basso, per ricadere poi drammaticamente nella polvere, sopraffatto da intrighi e
ucciso infine da quello stesso popolo che egli aveva cercato di liberare dalla tirannide. Alla soluzione drammatica di questa parabola esemplare si applicarono i migliori ingegni della sinistra tedesca prima del 1848, a testimonianza di una presenza italiana nella cultura tedesca dell’Ottocento che è tutta pervasa di ideali rivoluzionari, perché esprime la promessa di liberazione in senso repubblicano. In particolare sono quattro gli autori tedeschi che «costruiscono il mito di Cola di Rienzo in
Germania»: Friedrich Engels, Julius Mosen, Karl Gaillard e Richard Wagner.
Il saggio di Battafarano prende in esame i primi tre, mentre l’opera di Wagner è
il tema del contributo di Franco Onorati che prende le mosse dal romanzo di
Bulwer-Lytton per approdare al libretto di Wagner.
Terzo dei libretti scritti dal musicista, il Rienzi chiude il trittico delle opere giovanili di Wagner, in cui è preceduto da Die Feen (1833-34) e da Das Liebesverbot
(1834). Iniziato a Dresda nell’estate del 1837, fu ultimato a Parigi all’inizio del 1840.
Ispirato al romanzo Rienzi, the last of the Roman Tribunes (1835) di Bulwer-Lytton
nella traduzione tedesca (1836) di G.N. Bärmann, da quella fonte si distacca, eliminando ad esempio tutte le componenti sentimentali riguardanti il protagonista (e
così la moglie del tribuno non figura tra i personaggi).
Sulla genesi del libretto, così come della partitura, lo stesso Wagner fornisce
molte indicazioni sia nello scritto autobiografico Mein Leben sia nel saggio Eine
Mitteilung an meine Freunde, dai quali risultano chiare le ragioni per cui il musici-
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sta ripudiò successivamente questa creatura – che in una lettera del 1845 arrivò a
definire un «mostro» – vietandone la rappresentazione al Festspiele di Bayreuth.
La vicenda di Cola di Rienzo vi viene descritta in cinque atti, struttura caratteristica del grand-opéra a cui, per esplicita ammissione del compositore, l’Autore volle attenersi. Sulle vicende individuali del protagonista fanno aggio le componenti
collettive, che offrono al Wagner librettista il pretesto per ampi squarci corali, non
escluse – per alcuni inni religiosi – citazioni latine.
Nella conclusione l’autore sottolinea che il libretto del Rienzi si presta anche ad
interessanti considerazioni sul concetto che aveva Wagner dell’epoca medievale.
La più volte richiamata “fortuna” del personaggio di Cola di Rienzo non ha
mancato di influenzare anche le arti figurative.
Ed è questo l’aspetto di cui si occupa Flavia Matitti nella quarta parte del volume. La studiosa parte dalle descrizioni che del tribuno offre la Cronica: qui, sottolinea, a parte qualche accenno iniziale, ed escludendo la raccapricciante scena finale, l’Anonimo romano non si sofferma a descrivere nei particolari l’aspetto fisico
di Cola di Rienzo. Semmai è interessato all’abbigliamento, mentre il corpo riflette
simbolicamente la vicenda morale dell’eroe: prima semplicemente bello, poi grasso in modo spropositato, preludio a una fine vile.
Neppure si conoscono ritratti coevi di Cola, forse andati distrutti in séguito alla
damnatio memoriae che ha colpito il personaggio dopo la morte. Nel ritrarre Cola
di Rienzo, perciò, l’assenza sia di una descrizione letteraria che di un modello figurativo hanno lasciato agli artisti ampio margine di immaginazione.
Secondo quanto la studiosa ha potuto appurare, i primi ritratti noti di Cola di
Rienzo risalgono solo al Cinquecento, epoca in cui si assiste ad un primo risveglio
di interesse per la figura del tribuno.
È però il Seicento a dare finalmente un “volto” riconoscibile a Cola. La seconda
edizione della Vita (Bracciano, 1631) contiene infatti due tavole incise: una raffigura Cola in piedi, ma è un’immagine che non ha avuto séguito, mentre l’altra, che è
riuscita almeno in parte ad imporsi come iconografia “riconosciuta” del tribuno, lo
ritrae come un antico romano, a mezzo busto, di profilo, con corazza e corona
d’alloro. Proprio grazie alla diffusione della Vita, questo ritratto ha goduto di una
certa notorietà ed è stato spesso utilizzato per illustrare la fisionomia di Cola di
Rienzo ma, a differenza di quanto si potrebbe pensare, non si tratta di un “ritratto
immaginario”, almeno nel senso che non è frutto dell’invenzione dell’incisore. L’anonimo incisore si è infatti limitato a copiare fedelmente un bassorilievo rinascimentale che allora (e almeno fino all’Ottocento) era di proprietà dei Barberini. Secondo una tradizione di cui si ignora l’origine, il bassorilievo raffigurava Cola di
Rienzo e perciò il tipografo Andrea Fei ne inserisce la riproduzione nella seconda
edizione della Vita. Nel Settecento, soprattutto francese, prosegue la fortuna letteraria di Cola di Rienzo, ma non pare si possa riscontrare nelle arti figurative un
analogo interesse per il personaggio.
Il saggio affronta quindi il secolo successivo: è infatti nell’Ottocento che trionfa
l’immagine di Cola di Rienzo, anche per la suggestione esercitata dal romanzo di
Bulwer-Lytton e dal dramma di Wagner, che danno respiro europeo alla figura del
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tribuno e offrono agli artisti nuovi spunti di immaginazione. Mentre all’estero il
soggetto è trattato anche dal celebre pittore preraffaellita inglese William Holman
Hunt, in Italia hanno raffigurato Cola di Rienzo, fra gli altri, i pittori Federico Faruffini, Angelo Pietrasanta e Lodovico Pogliaghi e gli scultori Ambrogio Borghi, Ettore
Ferrari e Girolamo Masini (a quest’ultimo si devono sia il busto al Pincio che la statua posta lungo la scalinata del Campidoglio).
La studiosa osserva che nessuno di questi ritratti idealizzati di Cola è riuscito
davvero ad imporsi sugli altri nella memoria collettiva, fatta forse eccezione, ma
solo in àmbito romano, per la statua del Masini, che comunque è penalizzata sia
dalle piccole dimensioni che dalla posizione defilata.
Nel Novecento scema nuovamente l’interesse degli artisti per il personaggio,
che resta privo di un interprete memorabile.
In breve, sembra alla Matitti che nei secoli non si sia venuta affermando un’immagine “standard”, immediatamente riconoscibile, di Cola di Rienzo.
Al contrario, ogni artista ha immaginato il suo Cola di Rienzo, ritraendolo giovanissimo o in età matura, presentandolo in atteggiamento malinconico o volitivo,
come sognatore o come oratore, nei panni dell’erudito o in quelli del rivoluzionario, come se la complessità e sfaccettatura del personaggio rendessero difficile,
non solo formulare un giudizio sul suo operato, ma perfino coglierne e fissarne la
fisionomia. Del resto – afferma in conclusione l’autrice – il ritratto di un personaggio storico non è mai solo una riproduzione “fotografica” del suo aspetto esteriore,
è anche una visualizzazione dei valori e degli ideali che a lui vengono associati, e
che perciò variano a seconda delle epoche e dei diversi interpreti.
Conclude la pubblicazione un saggio interdisciplinare di Luigi Ceccarelli, il
quale passa in rassegna quanto è rimasto, oggi, del mito di Cola di Rienzo nelle celebrazioni laiche, nella poesia dialettale, nello spettacolo. Il suo testo chiude in bellezza questa raccolta di saggi, consegnandoci la testimonianza dello stile lieve con
cui ha saputo rivisitare il “mito” di un personaggio storico.
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Al termine di questa rapida ricognizione, che deve non poco alle riflessioni degli stessi autori, il Centro Studi Giuseppe Gioachino Belli ringrazia vivamente tutti
gli autori.
Un grato pensiero va a Gabriele Scalessa, curatore del volume.
Vivo apprezzamento esprimiamo all’editore e alla sua professionalità; mentre
rivolgiamo una ideale “menzione d’onore” alla vigile collaborazione e al competente rigore della Sig.ra Lucia Maresca.
Franco Onorati
Centro Studi Giuseppe Gioachino Belli
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