F. D'ALESSI - Letteratura latina - Parte III,1 - Il periodo imperiale - L'età dei Claudi
F. D'ALESSI
Letteratura latina
Parte III,1 : Il periodo imperiale
L'età dei Claudi
Agosto 2002
F. Dalessi © 2002
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F. D'ALESSI - Letteratura latina - Parte III,1 - Il periodo imperiale - L'età dei Claudi
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III - Il periodo imperiale da Tiberio ad Adriano
Quadro storico: da Tiberio a Nerone
IL PRINCIPATO DI TIBERIO dal 14 al 37 d.C.
* LA SUCCESSIONE DI AUGUSTO - * ELEZIONE DI TIBERIO
LE SPEDIZIONI IMPRESE DI GERMANICO TRIONFO DI GERMANICO - LA FINE DI GERMANICO IN ORIENTE
--------------------------------------------------------------------------------------------------------------(Nella Seconda Parte) IL GOVERNO DI TIBERIO - ELIO SAIANO - TIBERIO A CAPRI - MORTE DI
SEIANO
LA CRUDELTA' DI TIBERIO - LA MORTE DI TIBERIO
LA SUCCESSIONE DI AUGUSTO
Alla morte di Augusto nessuno pensò minimamente di ripristinare il governo repubblicano. La Repubblica
con l'avvento di Ottaviano, fin dal 27 quando gli erano stati dati pieni poteri, era morta per sempre, e il
Principato ormai aveva posto salde radici.
Nè vi fu alcuno che non pensasse a Tiberio come successore di Augusto. Anche se Tiberio aveva non pochi
nemici a Roma e nei vari ambienti militari nelle province.
Infatti come vedremo più avanti, appena eletto, fra le truppe stanziate ai confini ebbero luogo gravissime
sedizioni che misero in serio pericolo il suo principato.
Inoltre Tiberio - prima dell'assemblea che gli avrebbe conferita la nomina- temeva che la successione fosse
data ad Agrippa Postumo, che viveva relegato (punizione data da Augusto al prepotente nipote) a Pianosa,
e non poteva non pensare a sbarazzarsi del rivale, facendolo uccidere. Ma secondo quanto scrive
SVETONIO:
"...Lo uccise un tribuno militare che custodiva Agrippa dopo aver lette certe lettere che gli ordinavano di fare
ciò. E' dubbio se queste lettere siano state veramente lasciate da Augusto in punto di morte, affinchè, dopo
di lui, non ci fosse materia di discordie, o se le abbia dettate Livia in nome di Augusto e, in tal caso, se
Tiberio fosse o no consapevole della frode. Quando il tribuno scrisse a Tiberio di avere eseguito gli ordini da
lui ricevuti, Tiberio disse di non avergli ordinato nulla e aggiunse che il tribuno avrebbe reso conto al Senato
del suo operato. Ma forse disse questo per evitare l'indignazione del pubblico, e subito dopo mise la cosa a
tacere" (Svetonio).
Comunque libero da Agrippa, e temendo altri eventuali cospiratori, Tiberio assunse il comando delle guardie
del palazzo e delle coorti, poi, per far mostra di volere agire secondo le leggi, valendosi della sua qualità di
tribuno radunò il Senato; ma in questa prima assemblea, Tiberio, abilissimo commediante, non parlò di
successione e si limito a leggere il testamento di Augusto e un discorso d'occasione la cui lettura finse di non
poter condurre a termine per la commozione che lo attanagliava.
In una seconda assemblea, dovendosi procedere alla sua elezione come successore di Augusto, fece
un'altra commedia: (come aveva fatto Ottaviano a suo tempo) e si lasciò tanto pregare dagli amici e
dall'insistenza dei senatori, prima di accettare, "che era -disse- quella di Imperatore una incombenza
gravosa, e quasi lagnandosi della carica che gli veniva imposta, la accettò, ma aggiunse che era un incarico
duro e che l'Impero era una cattiva bestia".
Tiberio alla sua nomina aveva 56 anni. Alla notizia della morte di Augusto e alla successiva notizia
dell'elezione di Tiberio, fra le truppe stanziate ai confini dell'impero ebbero luogo delle gravissime sedizioni
che misero in serio pericolo il suo principato.
Alla morte di Augusto le venticinque legioni erano così distribuite: 8 al Reno, 3 nella Spagna, 4 in Oriente, 2
in Egitto, 1 in Africa, 4 nella Mesia e nell'Illiria e 3 nella Pannonia. Queste ultime (l'VIII la IX e la XV) erano
comandate da Giunio Bleso; le otto del Reno erano divise in due eserciti, di cui uno stanziato nella Germania
superiore al comando del legato Cajo Silio, l'altro nella Germania inferiore sotto Aulo Cecina. L'uno e l'altro
esercito però erano sotto il comando generale di Germanico, figlio di Druso.
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Tra le milizie stanziate ai confini settentrionali dell'Impero non poche erano le ragioni di malcontento. Alcune
di queste erano comuni a tutte le soldatesche: la lunghezza del servizio militare, il servizio di distaccamento
che veniva imposto anche dopo il congedo, il premio di congedamento che non veniva pagato puntualmente
e spesso consisteva in terreni incoltivabili. Altri motivi di malcontento erano propri delle legioni del Reno e
della Pannonia: qui i soldati trovavano grandi difficoltà nel provvedere al vitto, al vestiario e all'attendamento
e il loro servizio era più faticoso e pericoloso che altrove. Aggiungasi che alcune delle legioni della Pannonia
e della Germania inferiore erano composte di proletari, reclutati a forza da Augusto e in gran parte a Roma
dopo la disfatta di varo. Non avvezzi alle fatiche e non animati da forte sentimento di disciplina, questi
legionari si lagnavano, oltre che delle condizioni su esposte, del trattamento che loro veniva fatto, inferiore di
gran lunga a quello che godevano i pretoriani, i quali, pure stando nelle vicinanze di Roma, avevano un
soldo triplo, una ferma minore e un maggior premio di congedamento.
Se fra le truppe degli altri confini dell'Impero la notizia della successione di Tiberio fu accolta con grida di
gioia, tra le milizie del Reno e della Pannonia provocò un grave ammutinamento: Si rifiutarono di giurare
fedeltà al nuovo principe e chiesero che fossero migliorate le loro condizioni, col ridurre la ferma, con
l'aumento del soldo e con il pagamento in contanti all'atto del congedo.
Nella Pannonia Giunio Bleso cercò di ridurre le truppe all'obbedienza imprigionando i più scalmanati, ma il
provvedimento sortì l'effetto opposto perché - solidali con gli arrestati- la ribellione si estese, liberarono dalle
prigioni i compagni che avevano avuto il coraggio di parlare a nome di tutti, negli incidenti uccisero alcuni
centurioni e cacciarono i tribuni militari.
A reprimere la rivolta delle milizie pannoniche Tiberio mandò suo figlio Druso con due compagnie di
pretoriani. Giunto al campo e informato da un centurione dei desideri delle truppe, DRuso rispose che non
aveva la facoltà di decidere e mandò una commissione al padre, cercando nel medesimo tempo di tenere a
bada i rivoltosi con lusinghe e promesse. Ma queste furono vane, anzi riempirono di sdegno i legionari che lo
insultarono e lo minacciarono. Druso avrebbe certamente corso pericolo di vita se non fosse stato aiutato dal
caso. la notte del 26 settembre di quell'anno (14 d.C.) ebbe luogo un'eclisse di Luna che produsse un grave
sgomento nei legionari, ignoranti e superstiziosi. Tiberio ne approfittò ed aiutato da certe discordie che erano
sorte in seno alle truppe, riuscì a ridurle all'obbedienza e, messi a morte i caporioni della rivolta, gli altri
condurli ai quartieri d'inverno.
Ma molto più grave fu la sedizione militare in Germania. I primi ad ammutinarsi furono i soldati della XXI
legione di stanza sull'alto Reno. Con essi fecero ben presto causa comune le altri legioni dell'esercito
comandato da Aulo Cecina, al quale riuscì vano ogni tentativo di sedare la sommossa. Germanico si trovava
allora a Lugdunum occupato nelle operazioni di censimento delle Gallie. Essendogli giunto la notizia
dell'ammutinamento, si portò in fretta sul luogo della rivolta e poiché godeva la stima e l'affetto dei soldati,
sperava di ricondurli all'obbedienza con l'autorità della sua presenza e della sua parola. Radunate le truppe
e ascoltate le loro lagnanze, Germanico ricordò loro le vittorie passate ed aspramente li rimproverò per la
rotta disciplina.
Le sue parole invece di calmare gli animi delle milizie, provocarono ulteriori proteste, che si fecero sempre
più tumultuose. I soldati chiedevano le solite cose, aumento di paga, diminuzione della ferma e congedi e
improvvisamente si misero a gridare di volere come imperatore Germanico al posto di Tiberio.
Poteva rimanere lusingato Germanico da queste ovazioni, invece ne rimase inorridito. E se già prima i
soldati lo stimavano, quello che accadde dopo lasciò tutti i presenti molto turbati; soprattutto quando fecero
alcune riflessioni, aumentando così quella stima e affetto che fecero poi - e per molti decenni- di Germanico
il condottiero più leale e amato delle legioni.
Mentre arringava le truppe, al grido di "Germanico imperatore" , fu sdegnato, e fece l'atto di allontanarsi, ma i
soldati con le armi in pugno gli sbarrarono il passo; allora Germanico, gridando che voleva mantenersi fedele
all'imperatore, sguainò la spada e se la puntò al petto e si sarebbe certamente ucciso se alcuni ufficiali non
gli avessero strappata l'arma di mano e non l'avessero trascinato a forza nella sua tenda.
Animo nobile e natura leale, al solo pensiero di essere creduto traditore del padre adottivo, Germanico
preferiva morire così piuttosto che macchiarsi di una simile indegno inganno nei suoi confronti.
D'accordo con gli ufficiai Germanico, allo scopo di sedare la ribellione, finse di avere ricevuto lettere di
Tiberio che lo autorizzavano a congedare i legionari che avessero compiuti venti anni di servizio e a
raddoppiare a tutti il legato lasciato da Augusto, ma i soldati compresero che si voleva quietarli con l'astuzia
e chiesero che quelle concessioni venissero subito tradotte in atto.
Germanico, messo alle strette, accordò il congedo ai veterani e promise che avrebbe pagato il legato dopo il
ritorno delle truppe ai quartieri d'inverno. Parte dell'esercito si quietò, ma parte continuò a tumultuare
reclamando l'immediato pagamento ed anche questa volta Germanico dovette cedere. Il lascito imperiale fu
pagato con somme raccolte fra gli amici di Germanico. Le stesse concessioni accordate alle truppe della
Germania inferiore vennero fatte a quella superiore. Pareva sedata del tutto la ribellione quando un nuovo
moto scoppiò improvvisamente. Alcuni messi spediti da Roma per dar notizia a Germanico che gli era stata
conferita la potestà consolare e fargli le condoglianze per la morte di Augusto erano giunti a Colonia dove il
generale si trovava. Essendosi sparsa la voce che la deputazione portava l'ordine che fossero revocate le
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concessioni fatte, i legionari si levarono, assalirono la casa di Germanico, ne abbatterono le porte e
malmenarono il senatore Planco, capo della deputazione, che riuscì a stento a salvarsi.
Fattosi largo tra la turba dei rivoltosi, Germanico li rimproverò duramente delle violenza commesse e riuscì a
calmare gli animi più eccitati, poi, temendo che si rinnovassero i disordini, deliberò di mandare al sicuro nel
paese di Treviri la moglie Agrippina che le truppe adoravano e, per umiliare i legionari, anziché servirsi della
loro scorta, scelse un corpo di ausiliari celtici locali.
Umiliati e commossi, i veterani allora deposero le ire e, recatosi da Germanico, si dissero pentiti, implorarono
il perdono e supplicarono che non facesse partire Agrippina; poi deposero le armi e dichiararono di essere
pronti a consegnare nelle mani del loro capo i più riottosi.
Però due legioni, la I e la XXI, dislocate a Castra Vetera, continuarono nella ribellione. Germanico, sicuro
della fedeltà del resto dell'esercito, che spontaneamente era ritornato all'obbedienza, con la flotta e un buon
gruppo di legionari ed ausiliari si presentò a castra Vetera. Al suo apparire non pochi dei rivoltosi fecero atto
di sottomissione, gli altri vennero assaliti e ne seguì una mischia ferocissima che ebbe termine con la vittoria
degli uomini che si era portato Germanico. Molto sangue però era stato sparso e molti vincitori erano rimasti
disgustati da quella lotta tra fratelli. I cadaveri vennero bruciati e Germanico, per cancellare il ricordo di
quella mischia, stabilì di effettuare una incursione nei territori nemici oltre il Reno.
Con un esercito di 12.000 legionari, ventisei coorti di ausiliari ed otto squadroni di cavalleria passò il fiume e
invase fulmineamente il paese dei Marsi. Fu una strage più che una guerra. La regione venne messa a ferro
e fuoco, non si ebbe pietà né dell'età né del sesso, i villaggi furono ridotti in cenere e la popolazione fu
pressoché distrutta.
Alla notizia della sanguinosa spedizione, le vicine tribù degli Usipeti, dei Turbanti e dei Butteri corsero alle
armi e sbarrarono il passo ai Romani durante il loro ritorno, ma non riuscirono ad arrestare la marcia
dell'esercito di Germanico, il quale sbaragliati i nuovi nemici, raggiunse i quartieri da dov'era partito.
Ricominciava così, dopo cinque anni di tregua, la guerra contro i popoli della Germania.
LE GRANDI IMPRESE DI GERMANICO
Queste incursioni nel paese dei Marsi non era stato che il preludio della guerra. E questa ebbe inizio l'anno
seguente, il 15 d.C.
Germanico passò il Reno con un esercito di quattro legioni e 10.000 ausiliari, fece costruire il forte innalzato
da Druso su Tauno, e invase la regione dei Chatti; passato poi il fiume Adrana, incendiò Mattium sul Tauno,
la capitale del paese nemico. I Chatti non poterono opporre che una debole resistenza; pochi trovarono
scampo nella fuga, ricoverandosi nei boschi vicini, mentre altri si arresero, altri furono passati a fil di spada o
perirono tra le fiamme e le rovineMentre Germanico devastava la regione dei Chatti, Aulo Cecina con un esercito di pari forze fronteggiava i
Cheruschi, i quali si erano levati in armi, sconfiggeva i Marsi e proteggeva il proconsole, che, dopo la
sanguinosa incursione, poté tranquillamente ritornare alle sue basi del Reno.
Si inasprivano nel frattempo le discordie che tenevano divisa una delle più bellicose tribù germaniche, quella
dei Cheruschi. Non correvano buoni rapporti tra Arminio e lo zio Segeste, di cui il primo aveva rapita la figlia
Tusnelda per farla sua moglie, e dissensi gravissimi erano sorti tra Arminio e il fratello Flavo, che,
abbandonata la causa per cui combatteva il fratello, passò nel campo dei Romani. Venuto a guerra Arminio
con Segeste, stava questi per essere sopraffatto quando chiese aiuto a Germanico, il quale rispose
all'appello avanzando con un forte esercito verso la fortezza dove Segeste si trovava assediato.
Le legioni romane giunsero in tempo; Segeste venne liberato, Arminio fu sconfitto lasciando nelle mani
nemiche numerosi prigionieri, e venne recuperata gran parte delle spoglie dell'esercito di Varo. Ma la preda
migliore fu Tusnelda, la moglie di Arminio, che cadde in potere dei Romani. Nella sventura essa si mostrò
degna del valoroso consorte. Essa - come ci narra TACITO-- non versò una sola lacrima, non rivolse una
sola preghiera; con le mani al seno conserte, teneva fisso lo sguardo al gravido ventre, lagnandosi forse in
cuor suo che il proprio figlio dovesse nascere in schiavitù".
Inasprito dalla prigionia della moglie, Arminio chiamò alle armi i Cheruschi, i Brutteri, i Marsi ed altre
popolazioni vicine, trasse dalla sua parte lo zio Inguiomero che parteggiava per i Romani, e si apprestò a
vendicare l'onta subita e a difendere la libertà della propria nazione.
Ma Germanico non era un uomo da farsi intimorire da tali e tanti preparativi. Avanzando verso l'Ems, mise a
ferro e fuoco il territorio che si trova tra questo fiume e la Lippe; i Butteri che tentavano di assalirlo alla
sinistra furono attaccati e sconfitti da Lucio Stertinio che si impadronì dell'Aquila della XIX legione, caduta in
mano dei Germani sei anni prima, nella disfatta di Varo. Ottenuti questi successi, Germanico volle vedere i
luoghi dove le tre legioni erano state massacrate e si inoltrò nella foresta di Teutoburgo. Il terreno era
ricoperto dei miseri resti dell'esercito distrutto, che testimoniavano della disputa resistenza e della strage.
Germanico fece raccogliere pietosamente le misere ossa ed ordinò che fosse innalzato un tumulo, cui egli
pose la prima pietra; poi si mise sulla via della ritirata.
Ma poco mancò di finire anche questa spedizione in un modo disastroso. Una parte dell'esercito,
comandata da P. Vitellio, che doveva marciare lungo la costa, fu sorpresa dall'alta marea, a stento Vitellio
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riuscì a salvarsi, ma perdette tutti i bagagli; un'altra parte, comandata da Aulo Cecina, che attraversava un
terreno paludoso e difficile, si era diretta verso i ponti lunghi, trovatili guasti, ignorando che era una trappola,
si era fermata a ripararli quando venne improvvisamente circondata ed assalita dalle orde di Arminio. Cecina
corse il rischio di cadere nelle mani del nemico e dovette la sua salvezza al pronto intervento della I Legione.
La situazione dei Romani era talmente critica che i Germani si ritennero sicuri di distruggere l'intero corpo
dell'esercito. La voce che le legioni di Cecina erano state massacrate si sparse rapidamente e giunse fino ai
presidi del Reno. Temendo una invasione, i soldati volevano tagliare il ponte sul Reno costruito presso
Colonia e l'avrebbero fatto se Agrippina con energico contegno non l'avesse impedito; se la notizia non era
vera come avrebbero a rientrare le legioni. Ma le notizie del disastro di Cecina non erano vere. Sebbene in
condizioni difficilissime, egli seppe tenere testa agli assalti dei Germani, uscire, sia pure con la perdita dei
bagagli, dai luoghi paludosi e costruire un campo trincerato in una posizione favorevole. Assalito qui da
Arminio, Cecina passò alla controffensiva e sconfisse i Germani in una sanguinosa battaglia, nella quale uno
dei capi, Inguiomero, rimase gravemente ferito.
Tornato l'esercito sul Reno a Colonia, e sopraggiunto l'inverno, le operazioni guerresche ebbero sosta, della
quale approfittò Germanico per colmare i vuoti prodotti nelle sue truppe e preparare una nuova spedizione.
Venne costruita una grande flotta che ebbe come base l'isola dei Batavi, nuove fortezze erette tra Aliso e il
Reno e l'ara in onore di Druso, abbattuta dai germani, venne ricostruita.
Le operazioni belliche furono riprese nella primavera del 16. La flotta trasportò sulla foce dell'Ems otto
legioni e molte migliaia di ausiliari, che invasero il territorio degli Angrivarii e lo devastarono, poi marciarono
verso il corso del Weser, dove giunsero nell'estate.
Arminio con i suoi Cheruschi stava accampato sulla riva destra del fiume. I primi a passare il Weser furono i
Batavi guidati da Chiarovalda. Caduto in agguato dei Cherusci, il prode capo venne ucciso e le sue schiere
si trovarono a mal partito, assalite e circondate da un numero soverchiante di nemici. La cavalleria romana,
sopraggiunta a tempo, le salvò da certa morte: il resto dell'esercito di Germanico costrinse Arminio a ritirarsi
verso la pianura di Idisiaviso.
Qui, nell'agosto di quell'anno, si combatté una grandissima battaglia. Numerosissimi erano i barbari e, decisi
a vincere ad ogni costo, si batterono disperatamente e a lungo, ma non meno risoluti a disfare l'irriducibile
nemico e a vendicare la strage di Varo erano i Romani, che ai Germani opponevano valore, disciplina e
sapienza nell'arte della guerra. La vittoria fu dei Romani. Arminio, ferito, poté scampare tingendosi il viso col
proprio sangue; anche Inguiomero benché ferito trovò scampo con la fuga; ma oltre diecimila Cheruschi
trovarono la morte sul campo di battaglia. Dicesi che il terreno, per un tratto di dieci miglia, fu ricoperto di
cadaveri e dalle spoglie dei vinti.
I morti della Selva di Teutoburgo erano stati vendicati.
La sconfitta di Idisiaviso anziché scoraggiare i barbari li irritò. I Romani avevano innalzato sul campo un
trofeo con il nome dei popoli vinti; ma vinti non volevano considerarsi i Cheruschi. Radunate nuove forze, si
posero in agguato presso una foresta per la quale i Romani dovevano passare, ma Germanico, informato
dalle mosse del nemico, lo attaccò vigorosamente e lo sconfisse producendogli numerose perdite, rese più
gravi dall'ordine che il figlio di Druso aveva dato ai suoi di non fare prigionieri.
Germanico fece innalzare sul campo un altro trofeo con la iscrizione: "L'esercito di Tiberio Cesare, vinte le
popolazioni tra l'Elba e il Reno, consacrò questo monumento a Marte, a Giove e ad Augusto".
Sopraffatti i Cheruschi, Germanico mandò parte delle truppe verso il Reno per la via di terra, poi con il resto
delle milizie raggiunse l'Ems e salito sulle navi discese il corso del fiume fino al mare, dove una furiosa
tempesta colse la flotta, causando perdite, fortunatamente non gravi, di uomini e di navi.
La campagna si chiuse con una incursione nella regione dei Chatti e dei Marsi, i quali però, apparire delle
legioni, si dispersero nelle foreste.
Le notizie delle vittorie di Germanico, diffuse da appositi bollettini, facevano crescere in Roma le simpatie
che vi godeva il giovane figlio di Druso; ma il prestigio che questi con il suo valore si andava acquistando
non poteva non irritare Tiberio.
Sappiamo quanto costui aveva dovuto lottare per ottenere la successione al principato; sappiamo anche che
l'adozione di Germanico gli era stata imposta da Augusto.
In Germanico, Tiberio vedeva, oltre che un suo rivale, un rivale del vero figlio che aveva nome Druso (come
si chiamava il padre di Germanico); egli temeva che il figlio adottivo, che cos' popolare si era reso a Roma e
fra i legionari, potesse un giorno alla testa dell'esercito marciare su Roma e togliergli il potere.
Ma non era solo per questo che Tiberio non vedeva di buon occhio le imprese del figlio adottivo in
Germania. Tiberio seguiva una politica di pace e in questo non faceva che calcare le orme di Augusto. Il
tempo delle conquiste, per lui come per il suo predecessore si era chiuso. Contrastava quindi con la sua
politica pacifica la guerra che Germanico conduceva oltre il Reno, guerra che Tiberio considerava dannosa
per le finanze dello stato e inutile per tutto il resto. La Germania secondo lui, era di difficile conquista e lo
dimostrava la stessa guerra di Germanico: le tribù di quel paese, infatti malgrado le sanguinose sconfitte
subite, non si sottomettevano. Ma anche se la conquista definitiva avesse potuto avere luogo, la Germania
sarebbe rimasta un inutile peso per l'Impero, perché i Romani la consideravano poco adatta alla
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colonizzazione e non suscettibile di sfruttamento. Anche dal lato della difesa, Tiberio stimava inutile la
conquista della Germania: alla linea dell'Elba egli preferiva quella del Reno.
Consigliato dalle sue vedute politiche e dal timore che il crescente prestigio di Germanico gli incuteva,
Tiberio stabilì di richiamare il figlio adottivo da Reno. Per non mettersi in urto con i numerosi simpatizzanti
del giovane condottiero, egli propose in Senato che a Germanico venisse decretato il trionfo e conferito il
titolo di imperatore e che gli altri capitani, A. Cecina , L. Apronio e C. Silio, avessero gli ornamenti trionfali poi
scrisse al figlio pregandolo che tornasse a Roma per ricevere gli onori decretatigli.
Germanico avrebbe voluto restare ancora un anno al comando delle legioni del Reno per poter debellare
definitivamente tutto il territorio fino all'Elba, ma Tiberio non lo permise; l'onore di Roma era stato vendicato,
ora conveniva abbandonare quei popoli alle loro discordie e al loro destino, che per l'Impero sarebbero state
più utili delle vittorie.
Germanico ubbidì e lasciò il comando generale dei due eserciti del Reno che, con la sua partenza, venne
abolito. Le legioni della Germania superiore e quella della inferiore vennero messe alle dipendenze di due
legati dell'Imperatore.
Sul finire del maggio dell'anno 17 Germanico celebrò a Roma uno splendido trionfo e il popolo applaudì
freneticamente all'eroe che percorse le vie della metropoli sopra un carro magnificamente addobbato,
accanto alla moglie Agrippina e circondato dai suoi figlioletti, fra trofei di insegne e di armi, in mezzo alle
quali si ammiravano quelle perdute da Varo e da lui riconquistate. Lo seguivano i simulacri delle battaglie
combattute e lo precedevano numerosi prigionieri, fra i quali degni di attenzione la moglie di Arminio,
Tusnelda, col figlioletto Tumelico, e il fratello di lei Sigismondo.
Per rendere più solenne il trionfo Tiberio distribuì trecento sesterzi ai cittadini poveri e per premiare la pronta
obbedienza di Germanico gli fece innalzare un arco trionfale e fece coniar monete col motto: signis receptis,
devictis germanis. Quell'anno stesso Tiberio mandò suo figlio Druso al Danubio affinchè sorvegliasse
Maroboduo e vi svolgesse una politica abile e tendente a scuotere la potenza del barbaro monarca e a
disgregare l'impero Marcomanno.
Ma superflua fu l'opera di Druso. Cessate le molestie delle legioni romane, rinacquero le ataviche discordie
tra le tribù germaniche che, soltanto sotto il pericolo degli invasori, avevano dimenticato gli odi da cui erano
divise. Da queste discordie furono travolti i Cheruschi e i Marcomanni. I Sennoni e i Langobardi
abbandonarono Maroboduo e si schierarono dalla parte dei Cheruschi, che a loro volta furono abbandonati
da Inguiomero il quale fece lega coi Marcomanni. Tra l'uno e l'altro popolo si venne ad una sanguinosissima
battaglia tra la Saale e l'Elba. L'esito fu incerto, ma Maroboduo, dopo qualche combattimento, si ritirò verso
posizioni migliori e la sua ritirata, se non fu, parve una fuga e provocò numerosissime diserzioni dal suo
esercito che lo costrinsero a rifugiarsi sui monti della sua Boemia, dove egli chiese aiuto a Tiberio. Ma, come
era da aspettarsi l'imperatore preferì rimanere spettatore degli avvenimenti, i quali precipitarono.
Un nobile della tribù dei Gotini chiamato Matualda che odiava Maroboduo, approfittando della scemata
potenza del suo nemico, con una schiera di guerrieri penetrò audacemente in Boemia e, attirati dalla sua
non pochi capi Marcomanni, assalì la casa di Maroboduo, il quale vistosi tradito ed abbandonato dalla
maggior parte dei suoi, con quelli che gli erano rimasti fedeli si rifugiò nel Norico. Più tardi Matualda venne
scacciato dalla Germania con i suoi seguaci e si diede a Tiberio. Questi confinò Natualda a Frejus e
Naroboduo ad Ancona, dove visse diciotto anni; i loro seguaci vennero mandati fra il Maro e il Cuso,
nell'odierna Moravia, e fu loro dato come re un certo Vannio, della tribù dei Quadi.
Non fu migliore la sorte che toccò ad Arminio. Odiato dai Cheruschi per la sua smodata ambizione, combatté
parecchie volte contro i numerosi nemici che si era procurati e nel 21 fu ucciso dai suoi medesimi parenti.
LA FINE DI GERMANICO
Nello stesso anno in cui Tiberio mandava Druso al Danubio, Germanico veniva inviato in Oriente.
Tiberio insomma lo allontanava da Roma perché non era prudente lasciarvi un uomo che tante simpatie
aveva saputo procacciarsi in città e, se pur non era sembrava un emulo dell'imperatore; lo mandava in
Oriente perché là occorreva un uomo di provata energia, di grande prestigio e appartenente alla famiglia
imperiale; in modo da poter mettere termine alla situazione pericolosa che si era andata creando.
A VONONE, re dei Parti, cresciuto ed educato a Roma, dove era stato per molto tempo come ostaggio,
venuto in odio ai suoi sudditi perché aveva voluto introdurre nel suo regno costumanze occidentali era stato
contrapposto l'arsacide ATABANO III.
Vonone sconfitto in battaglia, si era rifugiato in Armenia dove nel 16 era stato proclamato re. Ma un forte
partito capeggiato dalla nobiltà armene, la quale si teneva in rapporti con Artabano, era ben presto sorto
contro Vanone. Tiberio, per evitare che i Parti si impadronissero dell'Armenia col pretesto di volerne
scacciare Vonone, aveva chiamato quest'ultimo nella Siria, governata allora da SILANO Cretico, lasciandogli
il titolo e gli onori regali. Nello stesso tempo erano venuti a morte Antioco re della Commagene e Filopatore
II re della Cilicia e le popolazioni di queste regioni si erano divise in due partiti, dei quali uno voleva che si
eleggessero i successori dei defunti sovrani, l'altro era intenzionato a farli incorporare nell'impero romano.
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Germanico doveva sottrarre l'Armenia dall'influenza che volevano esercitarvi i Parti, incorporare all'impero la
Cilicia e la Commagene e infine sedare le agitazioni che si erano moltiplicate in Siria e in Giudea per i gravi
tributi imposti.
Per misura di prudenza Tiberio richiamò dalla Siria SILANO Cretico, parente di Germanico, e al governo di
quella provincia mise GNEO PISONE, il quale senza dubbio doveva sorvegliare l'opera di Germanico e
moderarne gli spiriti bellicosi che avrebbero potuto provocare un conflitto non desiderato coi Parti.
Germanico era stato designato console, ma entrò in carica sul finire del 17 d.C. quando si trovava già in
Grecia dopo che Tiberio -dopo il suo rientro dalla Germania- aveva insistito molto che partisse subito per
l'Oriente. Oltre che console gli fece avere con decreto del Senato l' imperium maius su tutti i governatori
imperiali e senatoriali delle province d'Asia.
Germanico eseguì felicemente la missione che l'imperatore gli aveva affidata : fece tornare la calma nelle
province mitigandone i tributi, ridusse a province la Comagene, la Cappadocia e la Cilicia, al governo delle
quali mise dei legati imperiali, ed esaudendo un voto della popolazione dell'Armenia mise sul trono di questo
paese Zenone, figlio di Polemone re del Ponto, che col nome di ARTASSE incoronò solennemente nella
capitale, infine accordò amicizia al re dei Parti che gli promise di disinteressarsi dell'Armenia a patto che
Vonone venisse mandato via dalla Siria. Era questa una concessione che Germanico poteva fare: Vonone
venne confinato nella Cilicia e qui poi perdette la vita tentando, più tardi, di fuggire.
Ma questa missione di Germanico fu molto ostacolata da Gneo PISONE, il quale, forse eseguendo con
eccessivo zelo ed esagerazione gli ordini di Tiberio, forse spinto dal carattere superbo e violento che gli era
proprio, trattò il figlio di Druso con modi rudi e sprezzanti; si mostrò verso Germanico, che pur gli era
superiore nel comando, indisciplinato e non curò neppure di approntargli le legioni che questi aveva
richieste. Ad acuire il dissidio ben presto sorto tra Germanico e Pisone contribuì la moglie di questo,
Plancina, la quale, istigata certo dalla madre di Tiberio, Livia, di cui godeva l'amicizia, non trascurò
occasione per mostrare il suo odio e il suo di sprezzo verso Germanico e sua moglie Agrippina.
Germanico cercò di comporre il dissidio con Pisone e per venire ad una spiegazione con lui lo invitò a Cirra
ad un convegno, ma senza ottenere alcun risultato.
Dall'Asia, l'anno dopo, Germanico andò in Egitto. Questa provincia era afflitta da grande carestia ;
Germanico ribassò il prezzo del grano e nel farlo oltre che per altri provvedimenti presi in favore della
popolazione e per le sue maniere semplici si acquistò molte simpatie. Andava egli difatti per le vie privo di
scorta militare, rifuggiva dalle pompe e vestiva il costume del paese.
Approfittando poi del suo soggiorno in Egitto, Germanico volle visitare i luoghi e i monumenti che
testimoniavano l'antica grandezza di questo Paese; risalì il Nilo da Canopo a Syene e giunto a Tebe, si fece
spiegare i geroglifici che ricordavano il regno di Ramses.
Ma per questo suo viaggio in Egitto, Germanico non ebbe l'approvazione di Tiberio, il quale gli rimproverò di
aver messo piede in quella provincia violando la legge di Augusto che proibiva ai senatori e ai cavalieri di
recarvisi senza il permesso imperiale e si lamentò con lui per avere preso, senza autorizzazione alcuna,
provvedimenti tendenti a lenire gli effetti della carestia. Nonostante il suo risentimento, Tiberio non poteva
non riconoscere gli ottimi servigi di Germanico resi all'impero in Oriente e gli fece decretare a Roma una
ovazione.
Tornato dall' Egitto in Siria, Germanico non riuscì più a tollerare la condotta di Pisone, il quale, nell'assenza
del proconsole, aveva annullate tutte le sue disposizioni e gli aveva messo contro perfino i soldati delle
legioni.
Germanico, presentatosi coraggiosamente in mezzo alle truppe, con quell'arte già vista in Germania, le
ridusse con energia all'obbedienza, poi per mezzo di lettere fece capire, a quanto pare, a Pisone che era
necessario che si allontanasse dalla provincia.
Pisone partì, ma poco dopo Germanico si ammalò. Si sospettò che o da Pisone o da Plancina gli sia stato
propinato del veleno, ma le prove mancano né -pur volendo ritener fondati questi sospetti- si può dire se i
due coniugi avessero agito per iniziativa propria o dietro ordine di Tiberio o di Livia.
Vedendo prossima la sua fine, Germanico chiamò intorno al suo letto i capi del suo esercito, i suoi consiglieri
e gli amici e consigliò loro di denunciare alla giustizia del popolo e dei tribunali coloro che, secondo lui, erano
causa della sua morte : "Portate le vostre querele al Senato e, se è vero che mi amate, invocate le leggi. Il
primo dovere degli amici è, non di piangere i morti, ma di ricordare ed eseguire le loro ultime volontà".
Si narra che, dopo di aver in presenza di altri pregato la moglie Agrippina di mostrarsi coraggiosa e
rassegnata nella sventura che la colpiva e di non essere altera per non attirarsi l'odio dei più potenti,
mostrasse il desiderio ed ottenesse di parlar segretamente a lei, cui forse palesò i propri sospetti.
Germanico morì il 19 ottobre all'età di trentaquattro anni, lasciando sei figli, tra cui tre maschi: Serone, Druso
e Cajo.
La sua salma venne portata ad Antiochia e cremata; la provincia d'Asia e gli stati vicini presero il lutto.
Morto Germanico, i legati e i senatori che si trovavano nella provincia diedero il governo a Gneo SENZIO. La
notizia della fine del suo nemico trovò Pisone all' isola di Kos. Consigliato da Domizio Celere, anziché
proseguire per Roma, egli tornò indietro per riprendere il governo della Siria e, siccome Senzio gli proibì
l'ingresso nella provincia, egli occupò Celenduis, nella Cilicia, dove si diede a raccogliere molti soldati armati,
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ma da Gneo Senzio, che in quell'occasione spiegò la sua più grande abilità, fu costretto non molto tempo
dopo a fare ritorno in Italia.
A Roma già la notizia della malattia di Germanico aveva prodotta grande costernazione; quando poi arrivò
anche quella della sua morte, la città piombò nel più grande dolore. Prima che il Senato ordinasse il lutto
furono chiuse le case, le botteghe e i tribunali; il popolo che idolatrava l'eroe, sdegnato contro gli dèi, prese a
sassate i templi e ne ruppe gli altari; una turbe imponente si raccolse davanti alla reggia urlando che gli
fosse restituito Germanico come per mostrare che riteneva Tiberio responsabile della fine immatura del
giovane.
Per onorarne la memoria fu decretato che il nome di Germanico fosse messo nel carme saliare, che tre archi
trionfali gli venissero innalzati a Roma, in Siria e sul Reno, che la sua statua insieme con quelle delle altre
divinità fosse portata in processione nei ludi circensi. L'ordine equestre stabilì che la statua di Germanico
aprisse il corteo che il 15 luglio di ogni anno si recava dal tempio dell'Onore fuori porta Capena al
Campidoglio.
Al principio dell'anno 20 Agrippina sbarcò a Brindisi portando con sé le ceneri del marito. Per ordine di
Tiberio tutti i magistrati dell'Apulia, della Calabria e della Campania e due coorti di Pretoriani si recarono a
Brindisi per onorare la vedova e le reliquie dell'eroe che ritornavano in patria. Da Roma e da molte altre città
della penisola una grande folla accorse a Brindisi e volle scortare durante il viaggio l'infelice Agrippina, che
passando per le colonie e i municipi fu fatta segno a vivissime dimostrazioni di cordoglio e di simpatia. A
Terracina andò ad incontrarla Druso, figlio dell' imperatore, e fuori le mura di Roma i consoli, i magistrati, i
cavalieri e i senatori.
Tiberio con la madre Livia non si presentarono in pubblico; né -forse per disposizione dell'imperatore- si
fece vedere la vecchia madre di Germanico, Antonia. Le ceneri dell'estinto vennero tumulate nel mausoleo di
Augusto. Dopo i funerali imponentissimi, il popolo avrebbe continuato per parecchi giorni le manifestazioni di
cordoglio se Tiberio non le avesse bruscamente troncate con un editto in cui, ricordando la fermezza
d'animo con la quale gli antenati avevano saputo sopportare le sciagure e dicendo che gli uomini sono
mortali ed eterna invece è la repubblica, invitava la cittadinanza a riprendere le ordinarie occupazioni.
La vita di Roma tornò normale, ma nella calma covava l'ira della popolazione, che credeva
all'avvelenamento di Germanico, e non aspettava che l'occasione per prorompere in una rivolta generale.
L'occasione fa data dal ritorno di Pisone e di Plancina, i quali con il loro contegno lieto e con le feste e i
banchetti dati nella loro casa presso il Foro indignarono la cittadinanza e spinsero gli amici dell'estinto a
chiedere giustizia.
Fulcinio Trione accusò Pisone e Plancina di veneficio; l'accusa fu raccolta e presentata ufficialmente da
Publio Vitellio e Quinto Veranio e il processo contro i due coniugi fu rimesso al Senato. L'opinione pubblica,
decisamente contraria agli accusati, fece sì che Tiberio rimanesse per prudenza, estraneo al processo e
che parecchi senatori rifiutassero di far parte del collegio di difesa. Questo fu composto da Livineio Regolo,
Manio Lepido e Lucio Pisone, fratello dell' imputato. Iniziandosi il processo, Tiberio raccomandò il Senato
che si facesse giustizia. Tre erano le accuse che si facevano a Pisone: di avere rivolte ingiurie a Germanico
e avergli messo contro l'esercito, di aver tentato di rioccupare a mano armata la provincia, e infine di aver
cagionata la morte dell'eroico generale con scongiuri e veleno.
Non era difficile provare i primi due capi d'accusa, ma non fu possibile portar prove in favore dell'ultimo. La
folla però che si accalcava fuori della curia tumultuava, convinta della colpa di Pisone, e minacciava di far
giustizia da sé qualora i giudici lo avessero assolto. Per impedire al popolo di tradurre in atto le minacce,
finita la prima udienza, bisognò che Pisone fosse accompagnato a casa da un tribuno dei pretoriani.
Sebbene tutti fossero contro di lui, Pisone si presentò ancora in Senato sperando di essere salvato da
Tiberio, ma questi mostrò chiaramente di non volere influire nel dibattito ed allora l'imputato si vide perduto.
Tornato a casa, egli scrisse una lettera e ordinò ad uno dei suoi liberti di consegnarla a Tiberio. Il giorno
dopo Pisone fu trovato morto, con una larga ferita alla gola e una spada accanto.
L'imperatore lesse in Senato la lettera. In essa Pisone si dichiarava innocente dell'accusa di veneficio e
confessava di essere soltanto colpevole di aver tentato con le armi di penetrare nella Siria; infine
raccomandava i suoi figli all' imperatore.
Morto Pisone, il processo continuò a svolgersi, ma, per intercessione di Tibeno e di Livia, ai figli dell'imputato
vennero lasciati i beni patemi e Plancina fu assolta. Ma tredici anni più tardi essa farà la medesima fine del
marito.
La morte di Pisone rimase avvolta nel mistero più fitto. Ufficialmente si disse che l'ex-govematore della Siria
si era suicidato ma corse con insistenza la voce che Pisone fosse stato assassinato da SEIANO (forse per
questo che poi divenne potente) per ordine dell'imperatore perché Pisone come unico mezzo di salvezza
poteva produrre in giudizio le lettere scrittegli da Tiberio perché si sbarazzasse di Germanico.
Fonti:
PAOLO GIUDICI - STORIA D'ITALIA
APPIANO - BELL. CIV. STORIA ROMANA
CASSIO DIONE - STORIA ROMANA
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PLUTARCO - VITA DI BRUTO
SVETONIO - VITE DEI CESARI
SPINOSA - GIULIO CESARE
UTET - CRONOLOGIA UNIVERSALE
I. CAZZANIGA , ST. LETT. LATINA,
+ BIBLIOTECA DELL'AUTORE
(Seconda Parte) > > >
IL GOVERNO DI TIBERIO - * ELIO SAIANO - TIBERIO A CAPRI - MORTE DI SEIANO
LA CRUDELTA' DI TIBERIO - LA MORTE DI TIBERIO
IL PRINCIPATO DI TIBERIO dal 14 al 37 d.C. ( Seconda Parte)
IL GOVERNO DI TIBERIO - ELIO SAIANO - TIBERIO A CAPRI - MORTE DI SEIANO LA CRUDELTA' DI
TIBERIO - LA MORTE DI TIBERIO
--------------------------------------------------------------------------------------------------------GOVERNO DI TIBERIO
La figura di Tiberio è stata dipinta a colori forse troppo foschi da certi storici antichi, mentre alcuni storici
moderni hanno cercato di riabilitare la memoria del secondo imperatore romano. Non possiamo accogliere
ciecamente i foschi colori dei primi e le rosee tinte dei secondi, e forse e meglio dire che la verità sta nel
mezzo.
Tiberio ebbe dei grandi difetti ma anche dei meriti e se non si può escludere la ferocia dei suoi ultimi anni,
non può esser passata sotto silenzio tutta la parte buona del suo governo.
In politica estera egli cercò di seguire fedelmente le orme di Augusto, mantenendo la pace ai confini dell'
impero.
IN GERMANIA abbiamo visto che fu per opera sua che Germanico dovette lasciare incompiuta la guerra
contro i popoli germanici, la quale, se condotta a termine, avrebbe poi risparmiato tanti guai all'impero. Infatti
non sempre la pace poté essere mantenuta, nonostante i buoni propositi di Tiberio, e più d'una volta fu
necessario far parlare le armi.
In AFRICA un numida, chiamato Tacfarinate, che aveva militato sotto le insegne di Roma, tenne per più anni
sul piede di guerra le milizie imperiali. Prima, raccolte sotto il suo comando varie tribù e bande di predoni
fece base delle sue operazioni la zona montuosa dell'Aurasio (Gebél Aures) compiendo scorrerie sul
territorio dell'odierna provincia di Costantina, poi riunite sotto di sè tribù arabe ed elementi di altre tribù dell'
interno, cercò di ampliare il raggio della sua azione ed osò venire in aperta lotta contro le milizie romane. Le
sue soldatesche, sebbene numerose, non poterono misurarsi con vantaggio con i legionari e Tacfarinate
dovette rifugiarsi nel deserto, dal quale iniziò una serie di rapide e felici incursioni, che avevano per scopo
razzie e saccheggi. Pratico dei luoghi, con truppe non appesantite da bagagli, egli sfuggiva facilmente agli
attacchi e agli inseguimenti dei Romani e quando gli si presentava l'occasione buona e aveva probabilità di
successo assaliva il nemico. Una coorte romana, attaccata da lui con forze soverchianti, fu costretta alla
fuga; non pochi villaggi vennero saccheggiati e crebbe talmente l'audacia dell'avventuriere da osare di porre
un assedio a Thala, dove stavano di guarnigione cinquecento veterani. Ma questa volta ebbe la peggio.
Sconfitto, tornò alle razzie, spingendosi perfino presso le coste; respinto nell'interno, ricomparve a dar
molestia alle truppe proconsolari. A porre fine a questa guerriglia logorante fu inviato in Africa Giunio Bleso
che riuscì a catturare il fratello di Tacfarinate dopo aver posto numerosi presidi nei luoghi abitati dell' interno.
Parve che la calma fosse tornata in Africa e Giunio Bleso si ebbe a trionfo, ma, richiamate le truppe che vi
erano state mandate, Tacfarinate fece riparlare di sé raccogliendo gli armati della Mauritania e stringendo
rapporti con i Garamanti. La guerra avrebbe senza dubbio preso proporzioni allarmanti se l'esercito dei ribelli
non fosse stato sconfitto in una battaglia presso Anzea dalle legioni proconsolari aiutate dalle truppe di
Tolomeo, re della Mauritania, e se Tacfarinate in questa battaglia non fosse morto.
In GALLIA nel 21 scoppiò una insurrezione. Un nobile gallo di nome Giulio Floro sollevò alcune tribù di Belgi,
ma questi furono prontamente attaccati e sconfitti e cercarono scampo nelle foreste delle Ardenne, dove il
loro capo si diede la morte. Un altro nobile gallo, Giulio Sacroviro, cui era stata concessa la cittadinanza
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romana, sollevò nello stesso tempo gli Edui e i Sequani e riuscì a mettere in armi parecchie migliaia di
uomini. Contro gli insorti, il cui esercito -a quanto si dice- era forte di quarantamila armati, marciò con due
legioni Silio che nelle vicinanze di Augustodunum li sbaragliò. Sacroviro riuscì a fuggire, ma in una villa
presso la città, pose fine ai suoi giorni suicidandosi.
Ancora in GERMANIA sette anni dopo, nel 28, sulla destra del Reno, scoppiò una rivolta di Frisi la quale, se
non durò a lungo costò però moltissimo sangue ai Romani. A sedarla il legato della Germania inferiore Lucio
Apronio, mandò delle truppe ausiliarie, ma i ribelli combatterono accanitamente e le costrinsero a ripiegare;
ma attaccati nuovamente dalle legioni romane i Frisii dopo fiera resistenza furono battuti e ridotti
all'obbedienza.
In TRACIA la pace fu minacciata da Rascuporis e Cotys, fratello il primo, figlio il secondo del morto re
Remetalce, con i quali Augusto aveva diviso il regno. Dietro le intimazioni di Tiberio di posare le armi,
Rascuporis finse di rappacificarsi col nipote: e, invitatolo ad un banchetto, lo trasse prigioniero, poi, per non
consegnarlo ai Romani, lo uccise. Condotto a Roma e accusato dalla vedova di Cotys, Rascuporis nel 20 fu
confinato ad Alessandria dove morì in un tentativo di fuga. La Tracia venne divisa tra un| figlio di Rascuporis
e i figli di Cotys, ma essendo minorenni vennero posti sotto la tutela di Trebellino Rufo.
Un anno dopo, una sollevazione di tribù traciche, che avevano cinto d'assedio Filippopoli, venne domata da
P. Velleo. A questa rivolta un'altra, più grave, ne seguì alcuni anni dopo. I ribelli si fortificarono in alcune
posizioni e resistettero a lungo a O. Poppeo Sabino, ma stretti d'assedio e decimati in una sortita infelice,
furono costretti infine ad arrenderai.
In ASIA pure qui ci fu pericolo di una guerra, la quale si riuscì a scongiurarla grazie alla politica di Tiberio.
Venuto a morte Artasse, re d'Armenia, Artabano III aveva posto sul trono il proprio figlio ARCASE venendo
meno alle promesse fatte ad Augusto di non interessarsi dell'Armenia. Tiberio, a sua volta, suscitò contro il
re dei Parti un competitore, TIRIDATE, e spinde MITRIDATE a FARASMANE, re degli Iberi, contro Arsace, il
quale venne ucciso a tradimento. A vendicare Arsace fu mandato ORODE, altro figlio di Artabano, ma il
giovane fu ferito in battaglia e il suo esercito venne sconfitto. Vinte le sue milizie in Armenia, minacciato da
Lucio Vitellio dalla parte dell'Eugrate il regno partico, attaccato dentro gli stessi confini da un partito che
Tiberio aveva saputo mettergli contro, Artabano di diede alla fuga e Vitellio pose sul trono dei Parti
TIRIDATE
Anche nella politica interna Tiberio seguì fin che poté quella di Augusto. Suo primo pensiero fu di rafforzare il
principato; e lo fece con grandissima abilità. Tolse i comizi il diritto di eleggere i magistrati e affinchè questo
provvedimento non sembrasse rivolto a sopprimere la libertà concentrò il governo nelle mani del Senato,
sapendo però che questo non se ne sarebbe servito contro l'imperatore e senza consiglio dell'imperatore. Al
Senato e alle magistrature lasciò - come scrisse SVETONIO- la maestà e i privilegi " ...di qualunque affare,
piccolo o grande, pubblico e privato, rendeva conto al Senato. Lo consultava sulle imposte, sui monopoli,
sugli edifici da costruire o da riparare, sulle leve militari e sui congedi, sullo stato delle legioni e dei corpi
ausiliari, sulla proroga dei comandi, sulla condotta delle guerre, sulle risposte da darsi ai sovrani e sulla
forma delle lettre di risposta".
Ma lo stesso Svetonio ci dice che "...a poco a poco Tiberio assunse modi di principe e come tale si
comportò: sebbene in vario modo, pure per lo più si mostrò affabile e propenso al bene pubblico. Così
annullò certe deliberazioni del Senato; molte volte offrì i propri consigli ai magistrati che giudicavano in
tribunale e sedette tra loro o al posto d'onore, dirimpetto; e se si diceva che a qualche colpevole si desse a
torto l'assoluzione accorreva subito, e sul luogo o davanti a un tribunale d'inchiesta rammentava ai giudici le
leggi e la religione e il danno recato dal reo".
Nell'amministrazione finanziaria egli ebbe di mira che il denaro dello stato non fosse sperperato e che le
casse fossero sempre in floride condizioni, tuttavia non aumentò i tributi anzi sensibilmente li ridusse.
Per la pubblica sicurezza Tiberio prese apprezzabili provvedimenti: rinforzò in Italia i posti militari, fece
esercitare una sorveglianza rigorosa sugli stabilimenti ove erano impiegati degli schiavi, abolì l'uso degli asili
sacri che erano rifugio di malfattori, frenò i tumulti popolari, diede disposizioni perché si impedissero o
punissero severamente i disordini nei teatri e privò della libertà certe popolazioni che si erano rese colpevoli
di violenza contro cittadini romani.
Alle province tolse molte imposte e proibì che gli esattori esercitassero molto rigore nella riscossione dicendo
che le pecore dovevano tosarsi non scorticarsi. Inoltre per impedire che i governatori si arricchissero a spese
delle province lasciò che essi vi rimanessero a lungo e a giustificazione del suo punto di vista si dice che
narrasse l'apologo del ferito, il quale, ricoperto di mosche già sazie, pregava il viandante di non scacciarle
per non dare agio ad altre mosche di dissanguarlo.
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Non furono questi soltanto i meriti di Tiberio: egli ricoprì di onori coloro che ne erano degni, rifiutò molte
eredità, fu parco, non volle che gli fossero dedicati templi e statue, rifiutò il titolo di signore e di padre della
patria, si mostrò liberale con le popolazioni asiatiche danneggiate da un terremoto e con gli abitanti dei
quartieri del Celio e dell'Aventino distrutti da incendi, il primo nel 17, l'altro nel 26. Per quest'ultimo erogò
circa cento milioni di sesterzi. Moderò le spese dei giuochi e degli spettacoli, ridusse le paghe degli attori,
limitò il numero dei gladiatori, stabilì che il senato regolasse annualmente il prezzo dei viveri e punì con
l'esilio quelle matrone che per sfuggire alle pene riservate alle nobili dame dedite al libertinaggio, si erano
fatte iscrivere nel ruolo delle meretrici.
Ma se molti e indiscutibili furono i suoi meriti non poche furono le colpe di cui si macchiò specie negli ultimi
anni della sua esistenza. Non staremo qui ad elencare tutte quelle che gli storici hanno riportate nelle pagine
che Svetonio dedica alla libidine di Tiberio che, se fu descritta con esagerazione, non fu, come altri
pretendono, una invenzione dei nemici dell' imperatore ; ma ci limiteremo ad accennare ai processi di "lesa
maestà" che diedero luogo a quella triste fioritura di malvagi che furono i delatori. Per onor del vero questi
processi non furono molti, la maggior parte di essi ebbe luogo dopo la morte di Germanico, non pochi furono
voluti dal Senato e disapprovati dall' imperatore, parecchi non vennero coronati da sentenze capitali, altri
finirono con l'assoluzione degli imputati ; ma alcuni ce ne furono per i quali riuscirebbe vana ogni
giustificazione e che da soli basterebbero a coprire di eterna infamia la memoria di un principe.
ELIO SEIANO
Se Augusto ebbe la ventura di trovare in Agrippa e in Mecenate due collaboratori geniali, Tiberio ebbe la
disgrazia di non sapersi scegliere i ministri e di innalzare in potenza uomini corrotti, malvagi ed ambiziosi.
Uno di questi fu ELIO SEIANO. Apparteneva costui all'ordine equestre, di famiglia originaria di Volsinio. Suo
padre, Seio Strabone, era prefetto dei pretoriani e in questa carica, nei primi anni del principato di Tiberio, si
associò il figlio, il quale, morto il genitore, rimase capo delle coorti pretorie. Maestro nell'arte del fingere e
dell'adulare, Seiano aveva saputo con somma abilità entrare nelle grazie di Tiberio e guadagnarsene
l'amicizia. Niente faceva l' imperatore senza aver prima preso consiglio dal suo ministro del quale faceva
pubbliche lodi. Queste gli procurarono grandi onori da parte del Senato, e Seiano ne approfittò per formarsi
un suo numerosissimo partito. Ma più che sui suoi aderenti il furbo ministro contava sui pretoriani e per
potersene più facilmente servire li raccolse in un campo trincerato che appositamente fece costruire fra le vie
che conducevano a porta Viminale e porta Collina. Era tanta la fiducia che Tiberio gli aveva accordata e così
grande la potenza cui era riuscito a pervenire che nel 20 si parlò perfino di imparentare una di lui figlia con
l'imperatore maritandola con un figlio di Claudio, fratello di Germanico.
Molte cose sono state scritte intorno agli ambiziosi disegni di Seiano ; fra le altre che egli aspirasse alla
successione di Tiberio. Ma alla realizzazione di questo disegno ai opponevano ostacoli non lievi: l'imperatore
aveva un figlio, Druso ; e vivevano a Roma, molto amati dal popolo, i figli di Germanico e di Agrippina, donna
ambiziosa e bramosa di potere, intorno alla quale si era venuto formando un numeroso partito composto di
tutti coloro che non nutrivano simpatie per Tiberio. Ma l'ostacolo maggiore era rappresentato da Druso, che
un giorno, venuto a diverbio con Seiano, gli diede uno schiaffo. Druso aveva per moglie Livilla, sorella di
Germanico, donna di facili costumi ed amante di Elio Seiano. Nel 23 Druso morì. Molte leggende corsero
sulla sua fine. Secondo una di queste Seiano avrebbe detto a Tiberio che era intenzione del figlio di
avvelenarlo e che perciò si guardasse dal bere nella coppa che gli sarebbe stata offerta da Druso. Cenando
un giorno in casa del figlio ed essendogli stato offerto da questo una coppa di vino, in cui da Sciano era stata
messa una sostanza velenosa, Tiberio avrebbe ordinato a Druso di berne il contenuto. Secondo un'altra
leggenda la perdita di Druso sarebbe stata organizzata da Seiano e Livilla e sarebbe stata questa a
propinare al marito il veleno preparato da un medico greco. Tolto di mezzo il marito, Sciano avrebbe dovuto
sposare Livilla. Quanto ci sia di vero in quest'ultimo racconto non è facile sapere ; si sa però che Sciano
ripudiò la propria moglie Apicata e chiese in sposa la vedova di Druso. Ma Tiberio si oppose a questo
matrimonio.
Scrive Svetonio che Druso fosse di carattere debole e che perciò il padre non lo stimasse. Pare infatti che
Tiberio non provasse molto dolore per la morte del figlio. Non soltanto ritornò pochi giorni dopo alle cure del
governo, ma vietò che a Roma il lutto fosse di lunga durata. "Anzi, essendo più tardi venuti legati da Ilio a
presentargli le loro condoglianze, egli, quasi avesse già perduto il ricordo di quella disgrazia, rispose
scherzando che anche lui si doleva con loro perché avevano perduto l'illustre concittadino Ettore !".
Druso lasciava due gemelli, uno dei quali doveva morire quell'anno medesimo. Tiberio pronunziò davanti al
popolo e al Senato l'elogio funebre del figlio ; più tardi presentò al Senato i figli maggiori di Germanico,
NERONE e DRUSO, pregando i senatori che li proteggessero e guidassero.
Non sappiamo se ciò facendo Tiberio fosse sincero ; certo è però che dal quel giorno Sciano dovette odiare
maggiormente la famiglia di Germanico e meditarne la rovina. Il suo disegno veniva reso più facile dal
contegno di Agrippina, la quale apertamente mostrava di dolersi di esser tenuta in poca considerazione dall'
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imperatore. Sciano iniziò una lotta accanita contro gli amici della vedova di Germanico e contro la stessa
Agrippina, mettendola in cattiva luce presso Tiberio e Livia.
Narrasi che egli da una parte avvertisse la vedova che l'imperatore aveva in animo di avvelenarla e che
d'all'altra facesse sapere a Tiberio che Agrippina temeva di essere avvelenata. Un giorno, a cena,
l'imperatore le offrì certi frutti, ma lei li rifiutò e da allora Tiberio non la invitò più. Non possiamo garantire la
verità di questo fatto ma non ci meraviglieremmo che fosse vero.
Tiberio, istigato da Sciano e crucciato per il favore che la famiglia di Germanico godeva presso il popolo,
aveva cominciato a nutrire odio verso Agrippina e i parenti di lei, odio che doveva nell'animo suo diventar
grande ed esser causa della morte della vedova e dei figli ch'egli tanto calorosamente aveva raccomandato
al Senato.
Una delle prime vittime di quest'odio fu Claudia Pulcra, cugina di Agrippina, la quale fu accusata di lesa
maestà e di adulterio.
Invano Agrippina pregò l'imperatore di salvare l'accusata. Tiberio fu inflessibile ed avendogli essa detto che
non era degno di sacrificare ad Augusto chi ne condannava i congiunti; dicesi che egli le rispondesse :
"Figliuola, ti adiri, solo perché non regni".
Consigliato da Seiano, il quale rivolgeva nella mente ambiziosi disegni, e trovandosi a disagio a Roma dove
non era ben visto dalla cittadinanza, Tiberio decise di allontanarsi dalla metropoli. Col pretesto di dedicare il
tempio di Giove a Capua e quello di Augusto a Nola, lasciò Roma nell'anno 26 e si recò in Campania, donde
passò nell'isola di Capri, comprata da Augusto che vi aveva fatto costruire una grande villa. Tiberio si
avvicinava al suo settantesimo anno e conduceva con sé Seiano, il giureconsulto Cocceio Nerva, parecchi
cavalieri ed alcuni letterati greci. A Roma non doveva più tornarci neppure nel 29 quando finì di vivere la sua
vecchia madre i cui rapporti col figlio non erano da tempo cordiali.
Ma a Roma era tornato Elio Sciano. Investito dei pieni poteri, deciso più che mai di disfarsi della famiglia di
Germanico, il crudele ministro la circondò di guardie e di spie. Più d'ogni altro era sorvegliato il giovane
Nerone. Per rovinarlo con maggiore facilità si guadagnò l'animo della moglie di lui, Giulia, che era figlia di
Livilla, della quale Sciano era ancora l'amante, e suscitò contro Nerone, con arte abilissima, l'odio del fratello
Druso.
In quel tempo un cavaliere molto amico di Germanico, chiamato Tizio Sabino, ac cusato da quattro senatori
ligi a Seiano, venne condannato alla pena capitale. Da Ca pri Tiberio, saputa la condanna, si congratulava
col Senato e lo ringraziava di avere esemplarmente punito un "nemico della repubblica".
Questa condanna era il preludio della tragedia che doveva funestare la casa di Germanico.
Giunge un giorno al Senato una lettera di Tiberio. In essa l'imperatore accusava Agrippina di arroganza e
Nerone di condotta immorale. Il Senato, non conoscendo i propositi di Tiberio, non prese alcun
provvedimento ; i partigiani di Agrippina invece, sdegnati, inscenarono una dimostrazione popolare: i ritratti
dei due accusati furono portati per le vie di Roma e intorno alla curia con grandi acclamazioni gridando che
la lettera era falsa e infondata l'accusa.
Questa dimostrazione anziché giovare arrecò danno alla famiglia di Germanico. Eccitato da Sciano, il
Senato mise sotto processo per lesa maestà Agrippina e il figlio Nerone.
Dalla stessa accusa non riuscì salvarsi Druso alla cui rovina contribuì il tradimento della moglie Emilia
Lepida.
La sentenza non poteva essere che di condanna : Agrippina venne relegata nell'isola di Pandataria, Nerone
nell'isola di Ponza, Druso fu chiuso nel carcere sotterraneo del Palatino.
Nel 31 Nerone si tolse la vita ; l'infelice Agrippina, dopo aver subito infiniti maltrattamenti e aver perduto un
occhio per le percosse di un centurione, si lasciò mo rire di fame nel 33 ; nello stesso anno cessò di vivere
Druso, che, lasciato senza cibo, tentò di mangiare la lana dei materassi.
Seiano trionfava; ma la tempesta che doveva travolgerlo si avvicinava. In mezzo agli onori che tutti gli
tributavano, due uomini si ergevano davanti ai suoi ambiziosi disegni : Tiberio Gemello, figlio dell'
imperatore, e Cajo, l'ultimo dei figli maschi di Germanico.
Il diabolico ministro cercò di realizzare i suoi disegni tramando congiure con generali e senatori. Ma una
donna vegliava su Cajo e teneva d'occhio i segreti maneggi del pre fetto dii pretoriani : Antonia, la vecchia
madre di Germanico la quale aveva assistito con angoscia alla rovina della sua famiglia e tramava vendetta.
Antonia informò il cognato delle macchinazioni del ministro e Tiberio decise di sbarazzarsene. Ma occorreva
agire con la massima circospezione tanta era la potenza di Seiano, il quale aveva a sua disposizione nelle
coorti dei pretoriani un'arma terribile.
L'imperatore mise in opera tutta la sua astuzia. Per non far sorgere sospetti nell'animo di Sciano, lo ricoprì di
onori, lo innalzò, al pontificato e gli promise la potestà tribunizia, poi preparò con Nevio Sertorio Macrone,
comandante delle coorti urbane, il colpo che doveva abbattere l'ambizioso e malvagio ministro.
Macrone venne segretamente nominato capo dei pretoriani e si recò a Roma con una lettera di Tiberio per il
Senato. Giunto nella metropoli, Macrone si abboccò col console Mennio Regolo e con Grecinio Lacone,
comandante dei vigili, con i quali, dopo aver rivelato i propositi dell'imperatore, prese gli opportuni accordi.
Venuto il giorno stabilito, Mennio convocò il Senato nel tempio di Apollo sul Pa latino. Sulla porta del tempio
Macrone incontrò Seiano e gli comunicò che Tiberio gli aveva conferito la potestà tribunizia con una lettera
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che egli era stato incaricato di portare al Senato. Seiano, giubilante per la notizia, entrò nel tempio ed andò a
sedersi fra i senatori ; Ma crone invece, rimasto fuori, rimandò i pretoriani che erano di guardia intorno al
tempio e al loro posto mise i vigili di Lacene. Ciò fatto entrò nel tempio, consegnò la lettera al console e si
recò in fretta al campo dei pretoriani, fuori di porta Nomentana, per comunicar loro che era stato nominato
prefetto in sostituzione di Seiano. Quello che Ti berio temeva non si avverò: i pretoriani accolsero l'annunzio
con ubbidienza.
Nel frattempo Memmio Regolo leggeva al Senato la lettera dell' imperatore : era una lettera lunghissima in
cui Tiberio discorreva di tante cose e qua e là parlava del suo ministro ora lodandolo ora rimproverandolo ;
ma nella chiusa l'imperatore accusava di cospirazione il suo ministro ed ordinava che fosse tratto in arresto.
Quell'ordine inaspettato produsse dapprima un'immensa sorpresa nell'uditorio; poi i senatori, che un
momento prima si erano congratulati col ministro del nuovo onore di cui era stato colmato, si allontanarono
da lui lanciando ingiurie al suo indirizzo. Seiano annichilito da quell'improvviso colpo di scena, fu circondato
dai pretori e dai tribuni e, caricato di catene, venne dai vigili, per ordine del console, trascinato nel carcere.
Quel giorno stesso il Senato, radunatesi nel tempio della Concordia, fece un pro- cesso sommario contro il
ministro, che terminò con una sentenza di morte. Questa venne eseguita il 18 ottobre del 31, tra la gioia
grandissima del popolo che fece orribile scempio del cadavere dello scellerato ministro. Il Senato, decretò
feste a perpetuo ri- cordo della fine del ministro e stabilì che fosse innalzata una statua alla Libertà con la
seguente epigrafe : "Saluti perpetuae Augustae Libertatique populi romani Providentia Ti. Caesaris Augusti
nati ad aeternitatem romani nominis, sublato hoste perniciosissimo".
LA CRUDELTA' DI TIBERIO - LA SUA MORTE
La morte di Seiano fu seguita da numerosi processi. Se prima avevano da temere i nemici del ministro poi
furono i suoi amici coloro che videro infuriar contro sé stessi la vendetta.
I primi a cadere furono i congiunti di Seiano. Egli aveva due figli, un giovanotto e una fanciulla. Non colpevoli
d'altro che di appartenere alla famiglia del ministro, tuttavia fu rono condannati alla pena capitale. La
figlioletta, mentre veniva condotta al supplizio, levava alte grida e domandava dove la conducessero e che
non aveva commesso nessuna colpa. E siccome una legge antica proibiva che si condannassero a morte le
vergini, prima di essere uccisa, fu violata dal carnefice !
Apicata, che era stata ripudiata da Seiano, per vendicare la fine dei suoi figli innocenti, rivelò a Tiberio che
era stata Livilla ad avvelenare Druso. Livilla, fu processata, condannata incarcerata e fatta morire di fame.
Apicata si uccise.
Dopo la rivelazione sulla morte di Druso -scrive SVETONIO- la crudeltà di Tiberio non ebbe più freno. "Si
mostra in Capri il luogo dove commetteva le sue carneficine ; di là ordinava che i condannati, dopo aver
subito in sua presenza lunghi ed atroci tormenti, venissero precipitati nel mare, dove una schiera di marinai
li colpivano con picche e con queste e coi remi facevano a brani i corpi affinché nessuno rimanesse vivo".
Le crudeltà dell' imperatore e del suo degno ministro Macrone culminarono nel 33. In un solo giorno di
quell'anno ben venti persone furono messe a morte, tra cui delle donne e dei fanciulli.
In quel tempo, forse senza che a Roma ne giungesse la notizia, nella lontana Palestina moriva crocifisso, sul
Calvario, Gesù, il figlio di Dio, l'unto del Signore, che, nato a Betlemme sotto Augusto, aveva predicato
l'umiltà e l'amore tra le genti e sparso sulla terra il seme della religione nuova che doveva più tardi
espandersi nel mondo.
Tiberio contava allora settantatré anni. Visse ancora altri cinque. Trovandosi ad Asturia, in Campania, si
ammalò ; rimessosi un po', si recò a Circe e per nascondere agli altri il suo male volle assistere ai giuochi
militari e scagliò pure delle frecce contro un cinghiale lanciato nell'arena. Passato a soggiornare a Miseno, la
sua malattia si aggravò, pur tuttavia Tiberio continuò la sua vita intemperante.
Da Miseno volle recarsi alla sua villa di Capri, ma fu trattenuto dal mare tempestoso.
Morì nella villa di Lucullo il 16 marzo del 37.
Secondo alcuni fu fatto avvelenare da Cajo, figlio di Germanico, secondo altri, essendo moribondo, fu da
Macrone ordinato che venisse soffocato con un guanciale.
Il popolo accolse con grandi manifestazioni di gioia l'annunzio della morte del sanguinario tiranno e avrebbe
voluto che il corpo fosse bruciato nell'anfiteatro di Atella ; ma i soldati lo portarono a Roma e qui venne arso
con pubbliche cerimonie.
FINE PERIODO DI TIBERIO
...il prossimo riassunto ( Caligola) periodo dall'anno 36 al 41 d.C > > >
Fonti:
PAOLO GIUDICI - STORIA D'ITALIA
APPIANO - BELL. CIV. STORIA ROMANA
CASSIO DIONE - STORIA ROMANA
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PLUTARCO - VITA DI BRUTO
SVETONIO - VITE DEI CESARI
SPINOSA - GIULIO CESARE
UTET - CRONOLOGIA UNIVERSALE
I. CAZZANIGA , ST. LETT. LATINA,
+ BIBLIOTECA DELL'AUTORE
IL PERIODO DI CALIGOLA dal 37 al 41 d.C.
* CAJO CALIGOLA * I PRIMI OTTO MESI * LA POLITICA DI CALIGOLA - IL DIVO CALIGOLA
* LA CRUDELTA' DI CALIGOLA - L'UCCISIONE DI CALIGOLA
---------------CAJO CESARE CALIGOLA
Due giorni dopo la morte di Tiberio il Senato nominava imperatore Cajo Cesare Caligola. Era questi l'ultimo
dei figli maschi di Germanico ed Agrippina e contava allora venticinque anni, essendo nato ad Anzio il 31
agosto del 12.
Ancora bambino, era stato portato dal padre in Germania; era cresciuto fra i soldati e da questi, a causa dei
calzari militari (dette caligae) che soleva portare, aveva ricevuto il soprannome di Caligola. Aveva
accompagnato il padre anche in Oriente; ritornato a Roma, aveva abitato con la madre; quando questa era
stata mandata in esilio era andato ad abitare con la bisavola Livia; morta costei, ne aveva pronunziato
l'elogio, poi s'era recato a convivere con la nonna Antonia (la madre di suo padre).
Chiamato nel 31, quand'era in età di diciannove anni, a Capri da Tiberio, in uno stesso giorno aveva vestito
la toga e si era lasciata crescere la barba senza alcuno degli onori che in simile occasione erano invece
toccati ai suoi fratelli. A Capri era vissuto umile e sottomesso; invano si era cercato di fargli dir male di
Tiberio; egli con una abilissima condotta aveva saputo evitare l'ira e i sospetti dell'imperatore, non aveva
neppure mostrato dolore per la morte della madre e dei fratelli ed era stata tale la sua sottomissione a
Tiberio che si disse poi di lui non essere mai stato né miglior servitore né peggior padrone.
Tuttavia -se dobbiamo credere a SVETONIO- neppure allora aveva potuto mitigare il suo carattere crudele:
"uno dei suoi divertimenti preferiti era quello di assistere ai supplizi di quelli che venivano torturati. Di notte
andava per le taverne e i postriboli, truccato con una parrucca ed una lunga zazzera; la più grande delle sue
passioni era la musica e la danza nei teatri e Tiberio sopportava tutto questo sperando che il gusto della
danza e della musica potesse mitigare il carattere feroce del nipote. L'intelligente vecchio lo conosceva così
bene che spesso diceva : "Cajo vive per la rovina sua e di tutti; io educo un serpente per il popolo romano,
un Fetonte per il mondo".
Giovanissimo aveva sposata Giunia Claudia, figlia di Marco Silano. Venuto Seiano in sospetto
dell'imperatore, Cajo era stato nominato àugure e poi creato pontefice. Avendo perduto la moglie in
conseguenza di un parto, Caligola era divenuto l'amante di Ennia Nevia, moglie di Sortono Macrone, e per
mezzo di lei aveva ottenuto l'appoggio del capo dei pretoriani. Morto Tiberio, fu appunto Macrone che
assicurò al nuovo imperatore la fedeltà delle coorti pretorie.
La fine del vecchio e crudele imperatore era stata accolta con gioia da tutti; l'elezione di Caligola veniva ora
considerata come il principio di una nuova era o meglio la continuazione del principato pacifico di Augusto.
Essa segnava il trionfo del fortissimo partito di Germanico, che tante persecuzioni aveva dovuto subire e che
finalmente vedeva a capo dello Stato il figliuolo dello sfortunato eroe, colui che per via materna discendeva
da Augusto.
Il testamento di Tiberio, che insieme con Caligola istituiva erede Tiberio Gemello, venne annullato; ma da
uomo accortissimo, Caligola per non suscitare malumori pagò i legati dell'estinto e quelli dell'imperatrice
Livia, pagò inoltre le somme promesse all'atto di vestire la toga virile ed elargì due volte trecento sesterzi ad
ogni cittadino povero.
Questi atti non potevano non conciliargli la simpatia del popolo, e poiché il popolo amava le feste e gli
spettacoli di cui Tiberio era stato avaro, Caligola dopo la sua elezione volle che seguissero numerosi
divertimenti per giorni e giorni.
I riti degli Egiziani, che dal passato imperatore erano stati aboliti, vennero permessi; gli istrioni furono
richiamati; vennero dati spettacoli di gladiatori, parte nell'anfiteatro di Tauro, parte nel Campo Marzio, e ai
gladiatori furono aggiunti Africani e atleti scelti della Campania; vennero dati spettacoli scenici sia di giorno
che di notte con l'illuminazione di tutta la città e abbondanti distribuzioni di doni; furono inoltre dati giuochi nel
Circo che duravano dalla mattina alla sera con intermezzi di cacce di belve africane e di ludi troiani. Alcuni di
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questi spettacoli rimasero famosi per la polvere d'oro e il minio sparsi sull'arena e perché i gladiatori furono
sostituiti dai senatori incolpati di reati o di lesa maestà.
Perché tutti potessero assistere agli spettacoli vennero rimandate le liti che cadevano nei giorni di festa e
perciò si videro i circhi e gli anfiteatri sempre pieni di gente plaudente.
Fu tanta la gioia della cittadinanza dopo l'ingresso del nuovo imperatore a Roma che -scrive SVETONIO- "in
meno di tre mesi furono immolate più di centosessantamila vittime".
Pochi giorni dopo, essendosi Caligola messo in viaggio per le isole della Campania, furono fatti i voti per il
suo ritorno per dar prova della sollecitudine e dell' interesse che il popolo aveva della sua salute.
Quando si ammalò, il popolo trascorreva le notti nelle vicinanze del palazzo e ci fu chi fece voto di
combattere, se egli guariva, e perfino di immolarsi.
All'amore grandissimo dei cittadini si aggiunse una grande benevolenza da parte degli stranieri. Difatti
Artabano, re dei Parti, che aveva sempre disprezzato e odiato Tiberio, cercò l'amicizia di Cajo, ebbe un
convegno col proconsole romano e, varcato l'Eufrate, adorò le aquile e le insegne di Roma e le immagini dei
Cesari.
I primi atti del nuovo imperatore furono di bontà e di clemenza: di Tiberio, la cui memoria avrebbe dovuto
odiare, fece invece l'elogio funebre e il figlio di Druso lo adottò e lo nominò principe della gioventù; volle
però, quasi condannando l'operato del defunto principe, rimettere in primo piano la propria famiglia onorando
la memoria dei suoi morti e ricoprendo di onori i vivi. Recatosi a Pandataria e a Ponza, raccolse le ceneri
della madre e del fratello che mise in urne preziose e portò per mare ad Ostia e poi lungo il Tevere a Roma
dove furono ricevute dai principali cittadini e collocate in due arche nel Mausoleo tra grande concorso di
popolo. In loro onore furono decretati sacrifici annui e in memoria di Agrippina giuochi circensi nei quali
l'immagine di lei doveva esser portata con gran pompa sopra un carro.
In onore del padre diede il nome di Germanico al mese di settembre, con un decreto del Senato fece
conferire alla nonna Antonia tutti gli onori ch'erano stati dati alla madre di Tiberio e prese come collega nel
consolato suo zio Claudio. Alle sue sorelle non decretò onori ma ordinò che i cittadini, giurando, dicessero:
"non amerò me stesso ne i miei figli più di quanto, amo Cajo e le sue sorelle" e che i consoli, nei loro
rapporti, scrivessero: "salute e felicità a Cajo Cesare e alle sue sorelle".
Tutto acceso dal desiderio di ricondurre la pace tra i cittadini e di cattivarsi la simpatia e la stima, concesse
un'amnistia generale, fece bruciare tutti gli atti dei processi fatti a sua madre e ai suoi fratelli dopo aver
giurato di non aver preso visione i nomi dei testimoni e dei delatori, e rifiutò una carta con la quale gli si
rivelava una congiura, dichiarando di non voler dare ascolto alle delazioni, concesse che si ricercassero,
leggessero, e diffondessero le opere di Tito Labieno, Cremuzio Cordo e Cassio Severo che il Senato aveva
proibite, pubblicò i bilanci dello stato seguendo l'esempio di Augusto, istituì una nuova decuria di giudici,
diede ampia libertà di giudizio ai magistrati, rimise in vigore la consuetudine di passare in rivista i cavalieri ed
abolì imposta sulle vendite.
Per tutte queste cose gli furono decretati molti onori, fra cui uno scudo d'oro che ogni anno i collegi
sacerdotali dovevano portare al Campidoglio accompagnati dai senatori e da fanciulli e fanciulle cantanti le
lodi dell' imperatore. Inoltre il giorno della sua elezione fu chiamato Parilia come se in quel giorno fosse stata
riedificata Roma.
In quanto alla politica estera il governo di Caligola non segnò che pochissime novità. Morto Tolomeo, la
Mauritania fu ridotta a provincia; a Remetalce, primogenito di Cotys, fu dato il regno di Tracia, al
secondogenito Polemone il Ponto Polemoniaco, al terzogenito Cotys l'Armenia minore; la Commagene, che
da Tiberio era stata confiscata, fu restituita ad Antioco, figlio del re, accresciuta delle coste della Ciucia.
Antioco ricevette inoltre cento milioni di sesterzi come indennizzo. Agrippa, principe di Giudea, ebbe, oltre il
titolo di re, la tetrarchia di Filippo II, il territorio di Abila e, più tardi, la Galilea da cui fece cacciare Erode
Antipa.
PAZZIE E CRUDELTÀ DI GALIGOLA
II buon governo di Cajo Cesare Galigola durò poco più di otto mesi. Dopo questo breve tempo, colui che
aveva abolita la legge di lesa maestà e dal popolo era stato chiamato stella, garzoncello, amore, pupilla degli
occhi, si trasformò in un pazzo e in un mostro di crudeltà.
Si volle attribuire questo mutamento ad una gravissima malattia che ridusse in fin di vita l'imperatore otto
mesi circa dopo ch'era stato assunto all'impero e certo questa infermità dovette influire sul carattere di
Caligola, ma anche senza questa malattia Cajo Cesare non sarebbe rimasto il buon principe dei primi tempi.
Noi crediamo che egli fingesse bontà e rettitudine per consolidare il suo potere; in realtà egli era di animo
crudele ed aveva in sé già i germi della pazzia. Di corpo e di spirito non era sano; soffriva di epilessia sin
dall'infanzia ; il corpo aveva tutte le caratteristiche del degenerato.
Che fosse di natura crudele è dimostrato dalla vita condotta nella sua prima giovinezza. Un uomo simile non
poteva tardare a rivelare i suoi istinti feroci. Dal giorno in cui egli si toglie la maschera dal viso, tutti i suoi atti
sono quelli di un depravato, di un demente e di un sanguinario.
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Libidinoso più del precedente imperatore, si unisce incestuosamente con le sorelle, Giulia ed Agrippina, e
viola la sorella Drusilla che dà in sposa al consolare Cassie Longino, ma poi la rivuole. Per costei ha un'
inclinazione particolare e la considera come moglie. Essendo infermo, la istituisce erede dei suoi beni e dell'
impero; quando Drusilla improvvisamente muore, ordina un lutto pubblico, decreta che i giuramenti siano
fatti nel nome di lei, la divinizza col nome di Pantea e le fa innalzare statue.
Invaghitesi di Livia Orestilla, mentre questa banchetta per celebrare le sue nozze col senatore Calpurnio
Pisone, la toglie allo sposo e la fa sua moglie, ma dopo pochi giorni la ripudia; la stessa sorte tocca alla
bellissima Lollia Paulina, che, strappata al marito, viene sposata e poco dopo ripudiata da Caligola. Sua
ultima moglie è Cesonia, già madre di tre figlio, né brutta né bella né giovane, ma piuttosto lussuriosa, che
riesce a ispirare al marito una passione morbosa e duratura.
Ma di quest'amore non è compagno il rispetto: l'imperatore la veste di clamide, l'arma di scudo e di casco e
la conduce fra i soldati; agli amici la mostra nuda. Né sono queste soltanto le prove della libidine del
principe. Ha turpi rapporti con Marco Lepido, col pantomimo Menestre, con Valerio Catullo e parecchi altri;
dedica il suo tempo ad orge scandalose in compagnia di Pirallide, notissima, prostituta, invita a pranzo le
matrone più illustri di Roma per strapparle ai loro mariti ed abusarne; e all'onta aggiunge lo scherno quando
incontrando i rispettivi mariti loda il corpo e le prestazioni lussuriose delle loro consorti.
La follia in Caligola è pari alla lussuria. Egli si crede dio. Dalla Grecia fa venire le statue più pregevoli delle
divinità maggiormente venerate, fra cui quella di Giove Olimpo, e fa sostituire la loro testa con la sua; fa
ingrandire la sua casa fino al Foro e la congiunge al tempio dei Dioscuri e fra le statue di Castoro e Polluce
si siede e si fa adorare.
Prende il titolo di Ottimo Massimo proprio di Giove e si fa salutare col nome di Giove Latino; si fa erigere un
tempio in cui pone una sua statua d'oro; istituisce uno speciale collegio di sacerdoti che in questo tempio
Sacrificano fagiani, pavoni, oche nere, galline d'India e d'Africa; invita la luna a congiungersi con lui, parla
con Giove, ordina che nelle province gli vengano eretti templi e che la sua statua abbia un posto nel tempio
dei Giudei a Gerusalemme.
La mania della grandezza gli suggerisce azioni grottesche: vieta che s'innalzino statue a persone viventi,
muove guerra alle opere di Omero, Livio e Virgilio perché non vuole essere oscurato dall'ingegno di questi
grandi; per superare Serse che aveva passato l'Ellesponto fa costruire sul mare tra Baia e Pozzuoli per un
tratto di tremila e seicento passi un ponte su navi ricoperto di terrapieno a somiglianza della Via Appia e vi
passa e ripassa per due giorni, prima sopra un cavallo magnificamente bardato, portando in capo una
corona di quercia, intorno al corpo una clamide dorata, nelle mani uno scudo gallico, una scure ed una
spada, poi sopra un ricchissimo carro, preceduto da un ostaggio dei Parti e seguito dai suoi pretoriani e dai
cocchi degli amici; disegna di ricostruire a Samo la reggia di Policrate, di fondare una città sulle Alpi e di
tagliare l'itsmo di Corinto, dice di voler muovere guerra ai Germani e, apprestato un esercito di circa
duecentomila uomini, va sul Reno, fa nascondere in un bosco un certo numero di soldati germanici della sua
guardia, finge di assalirli e ritorna al campo trionfante; venutagli l'idea di fare una spedizione in Britannia,
conduce le sue truppe sulle rive della Manica e qui, fatto dare il segnale dell'assalto, ordina ai soldati di
raccogliere conchiglie per ornarne il Campidoglio.
Né queste sono le sole stranezze da lui commesse: vuole trionfare per le due spedizioni non fatte contro i
Germani e i Britanni e traveste numerosi Galli, che serviranno a far la parte di prigionieri; fa svegliare una
notte alcuni senatori e, dopo averli convocati a casa sua, li licenzia dopo aver fatto davanti a loro alcune
capriole; fa costruire scuderie di marmo per il suo cavallo, lo nomina membro di un collegio di sacerdoti e lo
fa eleggere console, e, per non citare altro: durante uno spettacolo ordinò di toglere il velario del teatro
perché gli spettatori rimanessero esposti ai raggi del sole.
L'uomo feroce e sanguinario supera però di gran lunga il pazzo.
Cajo Caligola assume il titolo di dominus e si considera padrone di tutti, dal più alto magistrato all'ultimo
cittadino.
"Volle che molti senatori, che già avevano ricoperte le più alte cariche, corressero a piedi e in toga davanti al
suo cocchio per parecchie miglia e rimanessero ritti vicino la sua tavola o ai suoi piedi portando, come gli
schiavi, un grembiule; altri senatori fece morire segretamente e per un certo tempo continuò a chiamarli
come se fossero ancora vivi; poi fece credere che si fossero suicidati.
Destituì i consoli perché avevano dimenticato di annunziare con un editto l'anniversario della sua nascita, e
per tre giorni lo Stato rimase senza i supremi magistrati. Fece battere con le verghe il suo questore, lo
denudò e lo gettò sotto i piedi dei suoi soldati per esser battuto più fortemente solo perché il nome di lui era
stato pronunziato in una congiura. Con pari arroganza e crudeltà trattò gli altri ordini. Disturbato dal chiasso
prodotto da coloro che di notte si affrettavano ad occupare nel Circo i posti gratuiti, li fece scacciare a colpi di
bastone; nel tumulto che ne seguì perirono più di venti cavalieri romani, altrettante matrone e un gran
numero di plebei.
Per far sorgere liti tra l'ordine equestre e la plebe, faceva cominciare i giuochi prima dell'ora stabilita affinché
i posti destinati ai cavalieri fossero occupati dai primi arrivati" (Svetonio)".
Per non spendere troppo comprando gli animali per il pasto delle fiere, più di una volta ordinò che venissero
loro dati i detenuti. Condannò ai lavori forzati dopo averli fatti bollare con un ferro rovente o fece mettere in
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gabbie strettissime molti distinti cittadini colpevoli soltanto di non aver giurato in nome suo o di essersi
mostrati poco soddisfatti di uno dei suoi spettacoli.
Obbligava i genitori ad assistere al supplizio dei loro figli e uno di essi, dopo di essere stato spettatore dei
tormenti inflitti a un suo figlioletto, fu costretto da Caligola a sedere alla mensa imperiale e a stare allegro.
Assistendo un giorno ai sacrifici davanti ad un altare, brandì una scure e uccise il sacerdote; a un cavaliere,
condannato alle fiere, che si proclamava innocente fece tagliare la lingua; sospettando che gli esiliati gli
augurassero la morte, fece trucidare dai sicari tutti coloro che erano stati deportati nelle isole; voleva che i
supplizi fossero prolungati e squisiti affinché la morte dei condannati fosse meglio sentita: ogni dieci giorni
compilava l'elenco dei cittadini da giustiziare e diceva che metteva in ordine i suoi conti".
Adirato contro il pubblico, che in uno spettacolo aveva espresso parere diverso dal suo, esclamò : "Oh se il
popolo romano avesse una sola testa !" ; avendo una volta i due consoli che pranzavano con lui chiesto
umilmente perché ridesse, rispose : "rido perché penso che con un sol cenno potrei farvi scannare
entrambi", e tutte le volte che baciava il collo della moglie o di un'amante diceva : "questa bella testa cadrà
quando io vorrò".
E moltissime furono le teste che rotolarono per suo ordine, né si salvarono amici e parenti: furono trucidati il
re Tolomeo, cugino dell' imperatore, Ennia Nevia, Sertorio Macrone; la nonna Antonia fu -come si credeavvelenata e il suocero Silano fu costretto a darsi la morte; Tiberio Gemello per ordine di Caligola fu
assassinato da un tribuno militare. Solo lo zio Claudio e le sorelle scamparono, ma queste ultime saranno
più tardi mandate in esilio.
"Nello spendere - scrive SVETONIO- superò ogni altro dissipatore. Inventò nuovi modi di bagni, di cibi e di
banchetti; si lavava con essenze odorose, inghiottiva perle e pietre preziose con aceto, offriva ai commensali
pane e altri cibi d'oro, dicendo; "o si è uomini frugali o si è Cesari". Al popolo, per parecchi giorni consecutivi
dall'alto della basilica Giulia, gettò monete di molto valore. Fece costruire navi liburniche di cedro con le
poppe ingemmate e le vele di tela dipinta, in cui erano bagni, gallerie e ampie sale da pranzo, viti e alberi da
frutto d'ogni specie. Su queste navi egli costeggiava la Campania, seduto a mensa, tra musiche e danze.
Nel costruire ville e palazzi eccedeva ogni misura, e gli piaceva fare tutto quello che gli altri stimavano
impossibile a farsi. Gettò dighe in un mare profondo e tempestoso, fece tagliare le più dure rocce, spianare
montagne in pianure, mutar pianure in alture, con incredibile celerità perché considerava delitto capitale ogni
lentezza nei lavori. E per non enumerare ad uno ad uno gli sperperi chiudiamo dicendo che in meno di un
anno consumò immense ricchezze e la somma di ventisei milioni di sesterzi che Tiberio aveva accumulato".
Non deve recar meraviglia se, con un simile dissipatore, presto l'erario rimase vuoto. Pur di trovar denaro da
spendere Caligola non badò a mezzi. Condannò i più ricchi cittadini per poterne confiscarne i beni, fece
mettere il suo nome tra gli eredi nei testamenti e fece morire molti di coloro che, dopo di averlo istituito
erede, si ostinavano a vivere.
Eseguì vendite pubbliche, obbligando i cittadini a comprare gli oggetti al prezzo da lui stabilito; trovandosi
nelle Gallie, vendette i gioielli, i mobili, gli schiavi e i liberti delle sorelle e, spinto dal desiderio di guadagnare,
fece venire da Roma tutte le vecchie suppellettili della corte e le mise all'asta.
Non contento delle somme ricavate, impose nuovi tributi: una tassa su tutti i viveri che ai vendevano a
Roma, una del 2 e mezzo per cento sulle spese giudiziarie e un'altra del 12 e mezzo per cento sul reddito
che colpiva i facchini e le meretrici; e per non lasciar nelle mani dei funzionari pubblici le riscossioni delle
imposte, ordinò che le tasse venissero riscosse dai centurioni e dai tribuni delle coorti pretorie.
Fu tanto avido di guadagni che istituì - a quel che si dice- nel suo stesso palazzo un postribolo e mandò i
suoi servi per le case a invitare vecchi e giovani perché lo frequentassero.
Allo scopo di ricavar molto denaro dalle multe fece leggi ed ordinò che, scritte in minutissimi caratteri,
venissero affisse tanto in alto da non riuscir possibile ai cittadini di prenderne visione ed uniformarvisi.
Essendogli nata una figlia, pretese che fosse mantenuta e dotata dalla cittadinanza ed egli stesso si mise nel
vestibolo del palazzo per ricevere i doni che la folla gli recava.
Un pazzo così avido e sanguinario non poteva non attirarsi l'odio di tutti e non far sorgere nell'animo di
coloro che più degli altri erano presi di mira dal suo desiderio di vendetta.
Tre congiure furono ordite contro Caligola. La prima e la seconda fallirono. Marco Emilio Lepido, parente di
Augusto ed amante di una sorella dell' imperatore, insieme con Lentulo Getulico, già comandante delle
legioni del Reno, accusato di aver capeggiato la prima, venne messo a morte. Le sorelle di Caligola,
accusate anch'esse, furono mandate in esilio.
La terza congiura invece riuscì. Capo ne era Cassio Cherea, tribuno dei pretoriani, che l'imperatore soleva
continuamente schernire ed oltraggiare. Con lui erano Cornelio Sabino e Papiniano, ufficiati delle coorti
pretorie, il senatore Popedio, Valerio Asiatico, alcuni senatori e cavalieri, un liberto di Caligola e non pochi
soldati.
Fu stabilito di porre fine alla vita del tiranno il 24 gennaio del 41, in occasione delle feste augustali. Quel
giorno, verso l'ora settima, mentre l'imperatore passava in un corridoio, attraverso il quale si recava ad
assistere alla recita di un ditirambo che alcuni giovani asiatici dovevano fare, gli si fece incontro Cassio
Cherea col pretesto di chiedergli la parola d'ordine. Caligola, al solito, rispose con una parola di scherno. Il
tribuno allora estrasse la spada e lo colpì alla testa; a sua volta Cornelio Sabino con la sua lo feriva al petto.
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L'imperatore cadde a terra; ma non era morto: gli altri congiurati lo finirono con una trentina di colpi. Non
vennero risparmiate la moglie Cesonia e la figlioletta Drusilla. La prima fu trapassata con una spada, la
seconda venne sfracellata contro una parete.
Quando morì, Cajo Cesare Caligola aveva ventinove anni. Il suo impero era durato tre anni, dieci mesi ed
otto giorni. Il cadavere venne segretamente subito portato nei giardini di Lamia, bruciato a metà sopra un
rogo frettolosamente innalzato, poi sepolto e ricoperto con poca terra. Solo più tardi, quando le sorelle
tornarono dall'esilio, fu dissepolto, arso e le ceneri tumulate.
Quando i congiurati ebbero finito l'opera, uscirono per le strade di Roma gridando "Roma libera!".
Si ripeteva la scena delle idi di marzo quando fu assassinato Cesare.
Tutti appresero la notizia in silenzio senza fare alcun gesto; convinti che lo stesso Caligola avesse fatto
divulgare apposta la notizia per poi colpire chi festeggiava la sua morte.
IL PERIODO DI CLAUDIO dal 41 al 54 d.C.
(qui Prima Parte) * IL GOVERNO DI CLAUDIO * I PRIMI ATTI * LEGISLAZIONE CIVILE - * I PRIMI
CRISTIANI A ROMA * I DIVERTIMENTI A ROMA
( nella Seconda Parte) * LE GUERRE DI CLAUDIO - LA BRITANNIA PROVINCIA R. * I LIBERTI PADRONI LE MOGLI DI CLAUDIO * MESSALINA-AGRIPPINA - BRITANNICO E NERONE * LA MORTE DI CLAUDIO
CLAUDIO IMPERATORE - IL SUO GOVERNO
All'uccisione di Caligola, del corridoio del teatro, i congiurati riproposero la stessa scena già avvenuta molti
anni prima, dopo l'uccisione di Cesare; andarono nelle strade della città gridando "Roma Libera!".
I cittadini furono atterriti come allora, ma questa volta anche se tutti ormai speravano che il pazzo tiranno si
prendesse una o più coltellate da qualcuno, nessuno osò esternare manifestazioni di giubilo, sospettando
che quello era uno dei tanti diabolici espedienti di Caligola, cioè una notizia fatta circolare apposta per
scoprire chi lo odiava e chi era contento della sua morte per poi colpirli e confiscare i loro beni.
Fu sorpresa anche la coorte germanica, quella che formava la guardia dell'imperatore, e che accorse al
teatro e si mise ad uccidere tutti quelli che incontrava, fra cui alcuni senatori che non avevano minimamente
partecipato alla congiura; penetrarono dentro nella sala (Caligola era stato ucciso mentre percorreva il
corridoio per recarsi a teatro) minacciando una strage. Ma un araldo entrò annunciando la morte di Caligola.
Alcuni ufficiali presenti indussero alle ragioni i pretoriani, dicendo loro che era meglio che uscissero dal
teatro e di pensare semmai alle sorti dell'Impero e non a vendicare il tiranno che tutta Roma disprezzava; e
che rischiavano pure loro di essere fatti a pezzi dal popolo.
Della sorte dell'impero si interessarono subito così i pretoriani, i senatori e il popolo. Popolo e Senato ne
avevano avuto abbastanza delle crudeltà di Tiberio e di Caligola. L'idea di restaurare le antiche forme
repubblicane sorse nella mete dei più e, poichè Cassio Cherea e gli altri cospiratori si erano messi a
disposizione del Senato, questo venne subito radunato in Campidoglio, nel tempio di Giove Capitolino, e lì
vagamente fu decisa l'abolizione dell'impero e i consoli iniziarono già a dare alle milizie urbane il motto
libertà come parola d'ordine.
Mentre queste cose avvenivano in Campidoglio, i pretoriani placati ma non ancora con le idee chiare, si
agitavano e molti di essi si erano recati al palazzo imperiale. Un soldato, percorrendo le sale, trovò per caso
nascosto dietro una tenda, un uomo tremante di paura. Era CLAUDIO, zio di Caligola (ma anche fratello di
Germanico che i soldati non avevano mai dimenticato) che nel trambusto fatto dai congiurati si era nascosto,
e temendo di essere ucciso anche lui dai pretoriani inferociti, si gettò ai piedi del soldato implorandolo di
lasciargli salva la vita.
Il pretoriano non aveva nessuna intenzione di ucciderlo, anzi riconosciuto chi era (un vero discendente di
Cesare) chiamò i compagni e acclamarono lui imperatore; poi lo misero dentro una lettiga dei feriti e lo
trasportarono al loro campo fuori porta Nomentana, per fargli trascorrere in pace la notte.
Ora se il Senato avesse dimostrato nell'occasione una maggiore energia e il popolo di Roma fosse stato
dotato delle virtù dell'antica plebe, forse sarebbe rinata la Repubblica.
Ma il Senato, che era stato sorpreso dagli avvenimenti e non aveva alcun programma, agì con molta
debolezza e titubanza, e i suoi membri non si trovarono neppure d'accordo nella forma di governo da dare
allo stato. Ci furono persino tre senatori che posero la loro candidatura alla successione di Caligola. Solo
Cherea e Cornelio Sabino diedero prova in quella circostanza di una certa energia; ma nulla potevano fare
due uomini che contavano poco e non avevano che scarsissimo seguito. Tentò il Senato di opporsi alla
volontà dei pretoriani e intimò a Claudio di recarsi nella Curia e sottomettersi al volere dei padri; ma Claudio
rispose che lui non era più padrone di sé stesso.
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Ma anche se fosse stato libero di fare ciò che avesse voluto, lo zio di Caligola non avrebbe ubbidito
all'intimazione del Senato. Nel breve giro di poche ore egli aveva compreso che la situazione si faceva
sempre più favorevole a lui: al campo dei pretoriani accorrevano gladiatori e liberti a mettersi dalla parte del
nuovo imperatore; le milizie urbane che prima si erano dichiarate per il Senato e per la libertà ora
cominciavano a far causa comune coi pretoriani e abbandonavano la guardia del Foro e del Campidoglio per
raggiungere il campo di Porta Tomentana non prestando ascolto a Cherea, il quale invano si sforzava di
trattenerle dicendo loro essere una stoltezza il parteggiare per un imbecille dopo che si erano liberate da un
pazzo. E il popolino intanto si accalcava intorno alla Curia ed acclamava all'imperatore.
Quando fu sicuro che la forza e la maggioranza dei cittadini erano con lui, Claudio, ascoltando i consigli di
Erode Agrippa, rè dei Giudei, che allora si trovava a Roma, arringò le truppe, si fece prestare giuramento di
fedeltà e promise a ciascun soldato un premio di quindicimila sesterzi.
"Fu così -scrive uno storico latino- che il primo dei Cesari si accaparrò col denaro la fedeltà delle milizie".
La libertà romana non durò che un giorno solo. Vistosi impotente a ricostituire l'antica repubblica, il Senato
cedette; recatisi al campo di Porta Nomentana, i senatori, legalizzando l'operato dei pretoriani, conferirono i
poteri imperiali a Claudio e questi, alla testa dei suoi soldati, entrò in Roma.
Il nuovo imperatore era nato a Lugdunum il 1° di Agosto del 10 a.C, figlio di Druso ed Antonia la giovane, ed
aveva ricevuto il nome di Tiberio Claudio. Nella sua adolescenza aveva sofferto lunghe ed ostinate malattie
che lo avevano reso tanto debole di corpo e di spirito da farlo considerare incapace di qualsiasi pubblica
funzione.
Sua madre soleva dire del figlio che era un essere che la natura aveva lasciato incompiuto, e quando a
qualcuno voleva dare dello stupido, diceva: "è più scemo di mio figlio Claudio". La nonna Livia lo aveva quasi
sempre tenuto in disparte e la sorella Livilla, avendo sentito che il fratello avrebbe imperato, aveva
compianto il popolo.
Augusto non si era mai interessato alla sorte di questo nipote, e fanno fede le lettere scritte ad Antonia e
riportateci da Svetonio. Claudio dai parenti celebri non ci aveva guadagnato nulla, era stato tenuto sempre
lontano dalla vita pubblica e dalla famiglia ed era vissuto sotto la guida di precettori poco benigni, privo degli
affetti dei suoi familiari e della considerazione della corte. Da Tiberio aveva ricevuto gli onori e le insegne
consolari, ma non la carica, era stato eletto àugure e nominato erede di terzo grado; sotto Caligola era stato
due volte al consolato e infine era stato fatto senatore, ma queste cariche non l'avevano fatto crescere nella
considerazione del pubblico e della famiglia: a casa era lo zimbello dei suoi e in Senato era sempre l'ultimo
fra i consolari ad essere interrogato.
Aveva cinquant'anni quando fu eletto imperatore. Il primo atto del nuovo principe fu la condanna alla pena
capitale di Cherea e di due o tre che avevano avuto parte nell'uccisione di Caligola. Cassio Cherea affrontò
la morte con grande fortezza d'animo e volle essere ucciso con la stessa spada con la quale aveva colpito il
tiranno. Cornelio Sabino, che era stato invece graziato, volle morire anche lui disdegnando di vivere sotto la
tirannide.
Queste esecuzioni non furono però l'inizio di un governo crudele. Claudio si oppose, è vero, al desiderio del
Senato il quale voleva la damnatio memoriae del morto imperatore, ma ciò facendo non intendeva approvare
la condotta dello zio né tanto meno seguirla. Egli difatti fece togliere le statue di Caligola e concesse
un'amnistia per tutto quel che era stato detto e fatto il 24 e il 25 gennaio.
Richiamò gli esuli, fra cui le sorelle di Cajo, liberò dal carcere tutti coloro per cui non esistevano prove di
colpa, restituì i beni confiscati, consegnò ai loro padroni gli schiavi e i liberti che avevano denunziato i
padroni medesimi, rifiutò le eredità di quei cittadini che avevano congiunti ancora in vita, abolì i processi di
lesa maestà, le esose tasse imposte da Caligola e proibì severamente che i cittadini venissero torturati.
Di onori non si mostrò avido: non prese il titolo di Britannico né quello di padre del Senato e si fregiò soltanto
di quello di padre della patria e del popolo, proibì che il Senato giurasse nel nome di lui ed egli stesso giurò
sempre nel nome di Augusto ;
Il titolo di Augusto non volle che fosse portato dal figlio e dalla moglie e rifiutò gli onori divini. Onori divini
invece fece decretare alla nonna Livia e un carro tirato da elefanti nei ludi circensi, stabilì in onore del padre
giuochi annui nel Circo, in onore della madre il soprannome di Augusta e un carro nei ludi circensi; per
onorare la memoria del fratello Germanico fece rappresentare commedie greche a Napoli premiando la
migliore, fece celebrare l'anniversario della nascita di Druso che coincideva con quello della nascita di
Marc'Antonio e fece condurre a termine l'arco di trionfo in marmo in onore di Tiberio che era rimasto
incompiuto; ma vietò che il giorno della morte di Caligola fosse posto tra i festivi.
I PRIMI ATTI DI CLAUDIO
II governo di Claudio smentì la fama di stupido che questo principe aveva. Egli non fu certo un imperatore di
larghissime vedute, ma non fu neppure un inetto e se non si fosse lasciato dominare dai liberti e dalle mogli
avrebbe senza dubbio lasciato tracce non indifferenti dell' opera sua. Per quanto dicano coloro i quali hanno
voluto esagerare le deficienze di Claudio, egli ha il grande merito di avere impiegati negli studi gli anni della
sua vita, di essere stato animato dalla volontà di ben governare, di non aver dilapidato il pubblico erario, di
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aver mostrato amore e zelo grandissimi per la giustizia e di non essersi macchiato delle atrocità dei suoi
predecessori.
I suoi studi furono molti e pazienti. Consigliato da Tito Livio, cominciò una storia romana, la cui composizione
in seguito abbandonò per un'altra che cominciava dal principio della monarchia; scrisse in greco in venti libri
la storia di Cartagine e in otto quella degli Etruschi, compose otto volumi sulla sua vita dei quali Svetonio fa
risaltare lo stile elegante, scrisse una Difesa di Cicerone contro i libri di Asinio Gallo, fece introdurre
nell'alfabeto latino tre nuove lettere e proprio sull'alfabeto pubblicò un volume di studi.
Importanza non trascurabile ha la legislazione di Claudio. A difesa degli schiavi furono fatte leggi speciali: si
stabilì che si considerasse omicida e come tale si punisse chiunque uccideva il proprio schiavo, si decretò
inoltre che gli schiavi ammalati i quali venivano esposti presso il tempio di Esculapio nell' isola Tiberina
fossero dichiarati liberi. La cifra massima dell'onorario degli avvocati fu fissata a diecimila sesterzi e furono
comminate pene a carico di chi, redigendo un testamento, vi includesse legati in proprio favore; fu proibito
che si comperassero edifici per demolirli e venderne il materiale; il diritto di avere una statua in pubblico fu
limitato a quei privati che si fossero resi benemeriti con la costruzione di opere di pubblica utilità; fu
concesso di legittimar la prole ai soldati i quali non potevano contrarre matrimoni; fu proibito di conceder
mutui con interessi al figlio mentre il padre era vivo, venne stabilito che il patrimonio dei figli minorenni, in
caso di sequestro, fosse detratto dai beni del padre, si ammise la madre cui fossero morti i figli a succedere
ad essi insieme con gli altri parenti e vennero dichiarate nulle le obbligazioni delle mogli in favore dei mariti.
Perché la giustizia non subisse indugi si diede ai governatori delle province la giurisdizione in fatto di
fidecommessi ed ai procuratori imperiali il diritto giudicare in merito alle contestazioni; si accrebbe il numero
dei giorni destinati ai giudizi e furono ridotti i rinvii nei casi di contumacia.
Era tanto il suo amore per la giustizia che spesso Claudio assistette ai processi, spesso fece da giudice e
quando alcune cure di malanni gli impedirono di esercitare questa funzione delegava altri in sua vece
ratificandone le sentenze. Scrive SVETONIO: "rese sempre la giustizia con grande zelo, anche nei giorni di
feste sia casalinghe che religiose. E non si attenne sempre rigidamente alle leggi, ma qualche volta le mitigò
o le inasprì... Concesse la riaperture delle cause a quelli che l'avevano perduta davanti ai giudici privati
perché avevano trascurate le formalità prescritte e condannò al publico ludibrio i consapevoli di frode
maggiore, accrescendo la pena voluta dalle leggi". Lo stesso Svetonio ci dice che nei giudizi l'imperatore era
"ora acuto e prudente, ora volubile e furioso, ora leggero ed anche stravagante". Non vi è dubbio che le
parole dello storico rispondano a verità, ma è forse anche certo che tutte le stranezze le incongruenze e le
sciocchezze che vengono attribuite a Claudio siano frutto di esagerazione.
Sotto Claudio la censura risorse. Egli ricoprì la carica insieme col collega Lucio Vitellio per un anno e mezzo;
provvide che non avvenissero disordini nei teatri, diede severe (ma vane) disposizioni contro il lusso, fece
una revisione della lista dei senatori invitando alle dimissioni non pochi, creò nuove famiglie patrizie, passò
in rassegna l'ordine equestre e nel 48 fece il censimento della popolazione che diede la cifra di sei milioni
circa di cittadini, (un milione quasi in più di quella data dal censimento del 14) non compresi le donne e i
giovani che non avevano compiuto il diciassettesimo anno di età.
Della sicurezza pubblica e dell'annona Claudio si occupò con grande diligenza. Perché gli incendi fossero
sollecitamente estinti istituì una coorte di vigili a Pozzuoli ed un'altra ad Ostia. Durante l'incendio del
quartiere Emiliano, rimase due notti in piazza a dirigere le operazioni dei vigili e poiché il numero di essi non
era sufficiente, ordinò che venissero impiegati gli schiavi e la plebe degli altri quartieri, promettendo premi ai
più attivi.
Durante il suo principato più di una volta la carestia travagliò Roma e nel 51 fu così grave che la folla lo
circondò nel Foro e lo coprì d'ingiurie. L imperatore fissò al prezzo del grano una tariffa; non essendo più
sufficiente e sicuro l'approdo di Ostia, allo scopo di favorire, l'approvvigionamento fece costruire alla foce del
Tevere il porto romano, che, cominciato nel 42, fu terminato nel 46 e costò trenta milioni di sesterzi, inoltre
per dare impulso alla marina mercantile dispensò i cittadini dall'osservanza della legge Papia-Poppea,
accordò alle mogli dei costruttori i diritti concessi alle madri di quattro figli e assunse a proprio carico i danni
che le tempeste avrebbero cagionato ai mercanti.
Il bisogno del porto era davvero sentito. L'opera, che era stata idata da Giulio Cesare, riuscì più bella che
utile: due moli laterali vennero fabbricati e, di traverso, all'entrata, sopra un'enorme diga fu innalzata una
torre altissima, simile al faro di Alessandria, perché il lume acceso alla sommità servisse di guida ai
naviganti. Non fu questa la sola opera iniziata e condotta a termine da Claudio; altre di utilità pubblica e di
ornamento furono eseguite. Vennero costruite delle fontane, fu abbellito il Circo Massimo, furono riparati gli
acquedotti e due nuovi ne furono costruiti, che raccolsero due corsi d'acqua distanti da Roma uno di
quaranta e l'altro cinquanta miglia che presero il nome di Acqua Claudio e Anio Novus. Con quest'opera che
costò cinquantacmque milioni e mezzo di sesterzi, Roma, che era dotata già di 3.720.860 mc. di acqua, ne
ebbe in seguito 5.122.101 mc.
Opera più grandiosa e difficile fu il prosciugamento del Lago di Fucino. Purtroppo la grande impresa fallì. I
lavori durarono undici anni e vi furono impiegati trentamila uomini. Un canale lungo cinquemila e seicento
metri venne faticosamente scavato attraverso il monte perché le acque si scaricassero nel Liri, ma gli errori
commessi nella costruzione delle dighe provocarono l'allagamento delle circostanti campagne. Solo nella
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prima metà del 1900, per iniziativa della famiglia Torlonia e di Mussolini, l'opera di Claudio è stata ripresa e
condotta a termine.
Altre opere vanno aggiunte a quelle accennate: strade in Italia, nella Gallia e nella regione del Reno,
riparazione di templi e di altri edifici pubblici, restaurazione della diga del Lago Lucrino. E lavori importanti
vennero eseguiti per im-pedire o rendere meno dannosi gli straripamenti del Tevere.
Anche alla religione rivolse Claudio le sue cure. Fece ricostruire a spese dell'erario il tempio di Venere
Ericina in Sicilia, abolì il culto di Caligola, e ripristinò gli antichi riti: degni di nota fra questi il sacrificio d'una
scrofa e l'orazione dei Fedali nel Foro in occasione della firma dei trattati di alleanza, e la processione del
popolo con alla testa il pontefice massimo per placare l'ira degli dèi quando riuscivano contrari gli auspici in
Campidoglio.
Claudio proibì il culto druidico e il sacrificio di vittime umane in Gallia: fu invece tollerante degli altri culti e,
memore dei disordini sorti in Egitto e in Palestina sotto l'impero di Caligola, e seguendo la politica di Giulio
Cesare e di Ottaviano Augusto, accordò molti privilegi agli ebrei e fece processare e condannare a morte
Isidoro e Lampone che capeggiavano in Alessandria i moti antisemiti.
Anche nella stessa Roma permise libertà di culto agli Ebrei. Abitavano essi in gran numero in Trastevere, in
un quartiere presso porta Portese, vi vissero indisturbati per parecchio tempo e non avrebbero ricevuto noie
da Claudio se i seguaci della nuova religione di Cristo non avessero fatto nascere in mezzo ai Giudei gravi
tumulti. Per amore dell'ordine l'imperatore fu costretto a scacciare da Roma entrambi, Ebrei e Cristiani. Fra
questi ultimi la storia ricorda il tappezziere Aquila, nativo del Ponto, e la moglie Priscilla, i quali, espulsi, si
rifugiarono a Corinto, dove conobbero S. Paolo, di cui divennero amici e collaboratori.
I DIVERTIMENTI I GIOCHI
Al contrario di Tiberio, Claudio si acquistò la benevolenza del popolo con i giuochi e le pubbliche feste.
Diede numerosi e splendidi spettacoli, ripristinando quelli che erano caduti in disuso e inventandone di
nuovi. Agli spettacoli egli era assiduo, scherzava, si divertiva, non si mostrava superbo, ma affabile e
popolare, rivolgeva motti agli spettatori e distribuiva premi in denaro.
Fece ricostruire il teatro di Pompeo che le fiamme avevano distrutto ed egli stesso lo consacrò assistendo
allo spettacolo da una tribuna appositamente innalzata nell'orchestra donde diede il segnale dei giuochi
dopo aver celebrato un sacrificio.
"Spesso fece fare le corse del Circo sul Monte Vaticano e come intermezzi tra una corsa e l'altra fece
eseguire combattimenti di belve. Adornò il Circo Massimo di balaustre marmoree e di mète dorate
sostituendole a quelle di legno; assegnò posti ai senatori che prima non avevano seggi speciali. Ai
combattimenti dei carri aggiunse giuochi troiani, e la cavalleria pretoriana, comandata dai suoi tribuni e dallo
stesso prefetto, che combatterono contro le belve africane. Si videro anche cavalieri tessali inseguire nel
Circo tori infuriati, stancarli, saltare lor addosso, afferrarli per le corna ed abbatterli (Svetonio)".
Non pochi furono gli spettacoli dei gladiatori dati da Claudio. Uno annuo ne venne dato nel campo dei
pretoriani alla porta Nomentana, un altro nel campo Marzio e un'altro ancora che durò parecchi giorni. Nel
Campo Marzio inoltre fece rappresentare la presa e il saccheggio di una città e la sottomissione del re di
Britannia. A questo spettacolo l'imperatore assistette in abito di guerriero. Nell'anno 47 festeggiò l'ottavo
centenario della fondazione di Roma con la celebrazione dei giuochi secolari.
Due grandiosi spettacoli diede per festeggiare i lavori del prosciugamento del lago Fucino; una naumachia e
un combattimento di gladiatori. Alla prima presero parte cinquanta triremi di cui dodici della flotta di Sicilia ed
altrettante di quella di Rodi e il segnale della battaglia fu dato da una tromba entro cui soffiava un Tritone
d'argento. Per questo combattimento erano stati riuniti diciannovemila delinquenti ed una folla immensa,
accorsa da ogni parte d'Italia, gremì le rive munite di parapetto. Prima che s'iniziasse la lotta le navi sfilarono
davanti la tribuna dalla quale Claudio e la moglie Agrippina assistevano allo spettacolo e salutarono il
sovrano con la rituale frase dei gladiatori: Ave, Caesar imperator, morituri tè salutant. L'imperatore rispose al
saluto con le parole: Avete et vos e i combattenti interpretando le parole dell' imperatore come una
concessione di grazia, gettarono via le armi.
Claudio, pieno d'ira, minacciò d'incendiare le navi e solo dopo questa minaccia la battaglia ebbe inizio. Ben
presto le acque del Fucino rosseggiarono di sangue e pullularono di corpi trafitti. I superstiti del sanguinoso
gioco vennero graziati. Il combattimento dei gladiatori fu dato su ponti gettati sul lago; ma lo spettacolo
venne interrotto dalla furia, delle onde, le quali travolsero le dighe ed allagarono nuovamente la campagna.
Tutti questi divertimenti procurarono a Claudio grande popolarità. Il popolo romano non voleva che pane e
spettacoli e non poteva non dare il suo favore ad un principe che non lesinava nei doni e si prodigava per le
feste. Sebbene non gli fosse ignoto questo favore di cui godeva, tuttavia Claudio visse sempre fra i timori e i
sospetti e più d'una volta, vinto dalla paura, pensò di abdicare. Nei primi tempi del suo principato soleva
pranzare sotto la custodia dei pretoriani e si faceva servire dai soldati; nel visitare gli infermi faceva eseguire
accurate perquisizioni; rigorosamente perquisiti erano tutti coloro che lo avvicinavano e soltanto molto tardi e
con riluttanza concesse che dalle perquisizioni fossero esentate le donne e i fanciulli e lasciò agli scrivani,
che dovevano avvicinarlo, gli stili.
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I suoi sospetti erano specialmente rivolti verso i senatori, e non a torto: alcuni di essi infatti avevano
presentata la loro candidatura all' impero dopo la morte di Caligola e le insidie non potevano essergli tese
che dai componenti di quell'assemblea che per tradizione erano avversari della forma monarchica. Quanto
lui temesse dal Senato è provato dalle misure di sicurezza prese da Claudio quando si recava nella Curia,
dove entrava sempre scortato da fedeli ufficiali delle coorti pretorie. Queste misure però non distolsero alcuni
dall'attentare alla vita dell'imperatore. Agli attentati si aggiunsero congiure e sollevazioni e gli autori non
furono soltanto senatori, come Claudio temeva, ma plebei, cavalieri ed anche ufficiali dell'esercito.
Una notte, un uomo della plebe fu trovato armato di pugnale presso il letto dell'imperatore; nel 42 il
governatore della Dalmazia Furio Scriboniano tentò di ribellare a Claudio le due legioni che erano sotto il suo
comando e fece venire a sé non pochi senatori e cavalieri, e già aveva guadagnate le truppe alla sua causa
quando, all'ultimo momento queste si rifiutarono di seguirlo. Scribonio fu costretto a fuggire e, rifugiatesi nell'
isola d'Issa, vi morì.
Questo tentativo ebbe un lungo strascico di processi che furono coronati da sentenze capitali e da
condanne all'esilio; il senatore Annio Viniciano che nelle giornate del 24 e 25 gennaio del 41 aveva
presentata la candidatura alla successione di Caligola, accusato come capo della congiura, venne mandato
a morte.
Nel 46 un'altra congiura venne scoperta, di cui facevano parte molti schiavi e liberti. La capeggiavano Asinio
Gallo e Tauro Statilio Corvino, nipoti di Pollione e Messalla. Anche questa congiura venne seguita da
processi e condanne.
Nel 47 fu arrestato e messo alla tortura Gneo Nonio, cavaliere romano, il quale, introdottosi con altri visitatori
in casa dell' imperatore, era stato trovato in possesso di un'arma. Altri due cavalieri armati di coltello che
aspettavano Claudio per ucciderlo, l'uno all'uscita del teatro, l'altro nel tempio di Marte, furono arrestati.
Né questi soltanto furono i tentativi dei nemici di Claudio. Fortunatamente però nessuno di essi riuscì.
Doveva invece riuscire a spegnerlo la perfidia dei suoi familiari e degli stessi congiunti.
Fonti:
PAOLO GIUDICI - STORIA D'ITALIA
APPIANO - BELL. CIV. STORIA ROMANA
CASSIO DIONE - STORIA ROMANA
PLUTARCO - VITA DI BRUTO
SVETONIO - VITE DEI CESARI
SPINOSA - GIULIO CESARE
UTET - CRONOLOGIA UNIVERSALE
I. CAZZANIGA , ST. LETT. LATINA,
+ BIBLIOTECA DELL'AUTORE
( Seconda Parte) * LE GUERRE DI CLAUDIO - LA BRITANNIA PROVINCIA R.
* I LIBERTI PADRONI - LE MOGLI DI CLAUDIO
* MESSALINA-AGRIPPINA - BRITANNICO E NERONE
* LA MORTE DI CLAUDIO
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IL PERIODO DI CLAUDIO dal 41 al 54 d.C. (seconda parte)
(Seconda Parte) LE GUERRE DI CLAUDIO - LA BRITANNIA PROVINCIA R.
I LIBERTI PADRONI - LE MOGLI DI CLAUDIO - MESSALINA-AGRIPPINA - BRITANNICO E NERONE
LA MORTE DI CLAUDIO
-----------------------------------------------------------------------------------------------LE GUERRE DI CLAUDIO
Fra le cose buone del suo governo sono da porsi l'amministrazione delle province e la politica che egli seguì
perché queste si romanizzassero e fossero legate da rapporti sempre più stretti all' Italia.
Leggi severe fece per impedire e punire le prevaricazioni dei governatori, accordò il diritto di cittadinanza a
Spagnoli, a Galli e a Greci, ma volle che essi si rendessero degni dell'onore e del beneficio ricevuto
imparando la lingua e i costumi di Roma : a un personaggio ragguardevole della Grecia che non sapeva il
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latino fu tolta la cittadinanza e il suo nome venne cancellato dall'albo. Ammise nel 48 i nobili della Gallià
Chiomata alle magistrature, nel 46 generosamente confermò agli Anauni il diritto di cittadinanza che
avevano usurpato, ma fu inflessibile con altri che fece decapitare nel campo Esquilino ; proibì inoltre che i
forestieri assumessero nomi di famiglie patrizie romane e tolse i tributi ai Troiani perché consanguinei del
popolo romano.
Durante il principato di Claudio la pace dell' impero fu turbata da più di una guerra in cui le legioni romane
ebbero la ventura di esser comandate da valorosi capi tani come Svetonio Paulino, Osidio Geta, Aulo
Plauzio e Domizio Corbulone.
Nella Mauritania, dopo l'assassinio del re Tolomeo, la popolazione si era ribellata ed aveva proclamato re un
liberto dell'ucciso, per nome Edemone. Contro i ribelli Claudio mandò Marco Licinio Crasso al quale furono
concesse le insegne trionfali. A Crasso seguì Svetonio Paulino che battè gli insorti e riconquistò il paese fino
all'Atlante (nel 41) ; l'anno dopo (42) Osidio Geta sconfisse ancora i ribelli e li inseguì fino al Sahara, dove
però il suo esercito sarebbe perito per la sete se non fosse venuta una provvidenziale pioggia a salvarlo.
Terminata vittoriosamente la guerra, la Mauritania fu divisa in due province, che ebbero per confine comune
il corso del Maluchath : la Tingitana con capitale Tingi (Tangeri) ad Occidente e la Cesariense con capitale
Cesarea (Scherschel) ad Oriente. A ciascuna di esse fu preposto un procuratore imperiale.
Parecchi furono gli avvenimenti dell'oriente europeo ed asiatico. In Tracia, essendo stato ucciso il re
Remetalce III, le tribù si sollevarono, ma furono tosto ridotte all'obbedienza e la regione venne costituita in
provincia sotto il governo d'un procuratore imperiale. Torbidi, presto sedati dal Governatore della Siria
Ummidio Quadrato, ebbero luogo nella Palestina tra Samaritani e Giudei. Morto Soemo, re dell' Iturea,
questo paese venne incorporato alla Siria ; alla morte di Erode Agrippa (44) la Giudea fu ridotta a provincia,
il resto del regno, comprendente la tetrarchia della Traconitide, Batanea, Gaulonitide ed Abilene, fu data al
figlio Agrippa II ; Antioco riebbe da Claudio la Commagene. I Parti che avevano occupata l'Armenia vennero
cacciati dalle legioni romane col concorso di Farasmane re degli Iberi e sul trono armonico venne rimesso
Mitridate. Ma questi regnò poco ; lo uccise il nipote Radamisto, che fu poi scacciato dai Parti. Sul trono
d'Armenia venne posto l'ars acide Tiridate. Il regno del Bosforo, da cui era stato cacciato Mitridate II, era
stato dato a Cotys, suo fratello : Mitridate però alla testa di un esercito di Sarmati tentò di ritornare sul trono,
ma fu sconfitto dalle milizie romane comandate da Giulio Aquila ed aiutate da Cotys e da Gunones, re degli
Aorsi, che si spinsero nella Sarmazia, occuparono le città di Soza ed Upse e fecero prigioniero Mitridate II.
L'avvenimento più importante, del principato di Claudio fu la Guerra Britannica. Novantotto anni prima Giulio
Cesare aveva messo il piede - primo fra gli uomini civili- nella Britannia e ai popoli di quell' isola aveva fatto
sentire la forza delle legioni romane. Proposito del grande capitano era di isolare i Celti della Gallià dal loro
parenti d'oltremare che costituivano un serio pericolo per la sicurezza delle nuove conquiste, ma la guerra
gallica prima, la civile poi e la sua immatura morte non gli ave vano permesso che quel proposito fosse
attuato. Per la Gallia il pericolo britannico non era scomparso e dopo circa un secolo il Fretum Gallicum, di
cui la flotta romana non aveva il dominio, rappresentava ancora per l' impero il punto vulnerabile dei con fini
settentrionali.
Augusto, malgrado le esortazioni di poeti del suo tempo, non aveva potuto prima e voluto poi continuare
l'impresa di Cesare occupato com'era nelle guerre d'oltre Reno ; Tiberio aveva dovuto fermare la propria
attenzione sull'Oriente ; Caligola aveva pen- sato ad una spedizione britannica ma aveva fatto fermar
l'esercito a raccoglier conchi glie sulla spiaggia della Manica. Doveva toccare a Claudio l'onore di portare a
compi- mento l'opera iniziata da Cesare. Diedero occasione alla guerra di Britannia le intestine discordie
delle tribù di questa isola. Un principe di nome Borico, scacciato dai Britanni, era andato a Roma e,
desideroso di vendetta, aveva persuaso Claudio a fare una spedi zione oltre la Manica. L'imperatore diede il
governo della guerra al legato Aulo Plau zio, che si trovava nella Pannonia. Questi, raccolto un esercito di
circa settantamila uomini, sbarcò nella Britannia e con l'aiuto di un principe della regione, Claudio
Eogidunno, pose il campo nel paese dei Regni (Chichester nel Sussex), che diventò la base d'operazione
dell'esercito romano.
Le ostilità furono iniziate in due punti diversi ; a sud parte dell'esercito, comandato dal luogotenente
Vespasiano, investì ed espugnò Clausentum (Southampton) e con quistò l' isola di Vectis (Wight) ; Plauzio,
col rimanente delle truppe, attaccò i Trino vanti, si spinse fino alla Tamesa (Tamigi) e presso la foce di
questo fiume ingaggiò una battaglia con le milizie di Cataracato a Togoduno, figli del re Cunobellino, a cui
toccarono una grande sconfitta (nel 43). '
Nel frattempo Claudio s' imbarcava ad Ostia per recarsi sul teatro della guerra, ma presso le coste della
Liguria un impetuosissimo vento lo costrinse a riparare nelle isole Stecadi. Sbarcato poi a Massilia,
l'imperatore proseguì il viaggio per via di terra fino a Gesoriacum donde passò la Manica e arrivò in tempo
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ad assistere alle operazioni più importanti che culminarono con la presa di Camulodunum (Gloucester),
capitale dei Trinovanti (nel 44).
Claudio rimase diciassette giorni in Britannia, poi fece ritorno a Roma; vi era stato assente sei mesi. Il
Senato gli conferì il titolo di Britannico ma l' imperatore lo rifiutò e lo diede al figlio ; volle invece celebrare
uno splendido trionfo, al quale permise che assistessero i governatori delle province ed alcuni reduci. Sulla
sommità del suo palazzo, accanto alla corona civica, fece collocare una corona navale, quasi monumento
della vittoria riportata oltre l'oceano. Sua moglie Messalina seguì in un cocchio il carro del trionfatore ; molti
Romani che avevano meritato le insegne trionfali lo accompagnarono a cavallo. Fra questi era Marco
Grasso Fruge, il quale, essendo quella la seconda volta che riceveva gli onori militari, montava un cavallo
magnificamente bardato e portava una veste fregiata di palme. In quell'occasione, come più su abbiamo
detto, diede in Campo Marzio uno spettacolo in cui era rappresentata la presa di una città britannica ed
elargì doni al popolo. A perpetuare il ricordo dell' impresa vittoriosa fece erigere un arco trionfale i cui resti
anche oggi si conservano.
Aulo Plauzio rimase ancora tre anni nella Britannia per rendere più salda la conquista. Il territorio occupato
fu dichiarato provincia romana e di esso Plauzio medesimo fu il primo governatore. Il limite della nuova
provincia, nel 47, andava da Acquae Salis (Bath) a Londinum (Londra) e a Camulodunum. Ad Aulo Plauzio
successe nel governo della Britannia Astorio Scapula, il quale cominciò a costruire alcune fortificazioni ed
ordinò ai popoli vinti la consegna delle armi. Ma essi si ribellarono e con loro fecero causa comune gli Iceni
che si erano all'inizio dichiarati alleati dei Romani.
Ricominciò così la guerra. Una prima vittoria di Scapula, che circondò e conqui stò un campo nemico
trincerato, non valse a domare la rivolta. Le operazioni guerre sche si estesero contro le regioni, dei Ceangi,
dei Briganti, degli Ordovici e dei Siluri.
Questi ultimi opposero una fierissima resistenza. Li comandava quello stesso Cataracato che Plauzio aveva
sconfitto sul Tamigi. Il bellicoso principe, conoscendo per prova il valore del nemico e non osando affrontarlo
in campo aperto, si trincerò in un luogo diffi cile ; ma i Romani attaccarono vigorosamente il campo dei Siluri,
inflissero a questi una sanguinosa sconfitta (nel 60) e catturarono la moglie e a figlio di Cataracato. Questi
trovò scampo presso i Briganti ed ottenne ospitalità dalla regina, ma per breve tempo, tradito dalla stessa,
venne consegnato ai Romani e condotto a Roma.
Sebbene fossero rimasti senza capo, i Siluri non cedettero, ma cambiarono metodo di guerra. Questa si
mutò in guerriglia accanita e senza tregua nei boschi e tra le paludi che costò ai Romani non poche perdite.
Due coorti, sorprese mentre erano impegnate a far bottino, furono sbaragliate ; altre popolazioni presero le
armi e misero in serio pericolo la nuova provincia.
Nel 52 Ostorio Scapula morì e gli successe Didio Gallo. Questi condusse le operazioni con maggiore
energia e riuscì a cacciare dai confini della provincia i Siluri.
Mentre Aulo Plauzio si trovava in Britannia, avvenimenti di non lieve entità ac cadevano in Germania
provocando l'intervento dei Romani.
Un certo Gannasco, capo della tribù dei Canninefati, che era stato nell'esercito ro mano, con una flottiglia
armata si era messo a molestare le coste settentrionali della Gallia. Delle tribù germaniche il primato era dai
Cherusci passato ai Catti e ai Chauci. Questi, nel 41, avevano tentato d'invadere la zona romana del basso
Reno, ma erano stati respinti da Severo Sulpicio Galba e P. Gabinio Secondo.
Nel 47, i Cherusci man darono ambasciatori a Claudio a chiedere che fosse loro concesso come re Italico fi
glio di Flavo fratello di Arminio, che era stato educato a Roma. Italico si recò in mezzo al suo popolo mentre
era travagliato da gravi discordie e riuscì a metter la pace ; ma questa ebbe breve durata quando, parte della
popolazione ribellatasi al nuovo re, Italico dovette ricorrere alle armi. La sorte lo favorì, ma la sua superbia
fece schierare contro di lui lo stesso partito che l'aveva favorito. Cacciato dal regno, egli chiese l'aiuto dei
Lango bardi ed alla testa di numerose milizie riuscì a rioccupare il territorio Cherusco.
Era stato mandato in quel tempo a governare la Germania inferiore Domizio Corbulone. Generale risoluto ed
energico, egli iniziò il suo governo con una lotta spietata contro Gannasco, che ebbe distrutta la flotta e si
rifugiò tra i Chauci. Corbulone entrò in trattative coi Chauci : egli chiedeva la loro sottomissione e la
consegna o l'uccisione di Gannasco. Nello stesso tempo Domizio invase il paese dei Frisii, li battè più volte
si fece dare ostaggi e pose un forte presidio nella regione.
A questo punto pareva che le trattative coi Chauci dovessero dare ottimi risultati - Gannasco difatti era stato
ucciso- quando a Corbulone giunse da Roma l'ordine di ritirarsi con tutte le sue truppe sulla sinistra del
Reno. Ancora una volta un imperatore si rifiutava di sfruttare le vittorie dei suoi generali e ne troncava le
imprese. E pensare che i tempi erano propizi alla conquista della Germania fino al corso, almeno, dell' Elba,
dove le più gravi discordie regnavano tra le tribù e da un re dell' interno, Vannio, - il quale era amico dei
Romani, che lo avevano aiutato ad acquistare il regno dei Suebi- giungevano a Claudio richieste di soccorsi.
Vannio insidiato dai due suoi nipoti, Sidone e Vangione, ed assalito dai Tuegi e dagli Ermunduri, si era
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ritirato in certe località fortificate ed avrebbe visto volentieri i Romani venire m un suo aiuto. Una duplice
azione degli eserciti romani del Reno e della Pannonia avrebbe avuto ragione senza tante difficoltà degli
Ermunduri e dei Tuegi, avrebbe liberato Vannio consolidandone il potere ed avrebbe dato forse il colpo
decisivo all' indipendenza germanica.
Claudio non volle tentar l'avventura. A Palpellio Isto, governatore della Pannonia si comandò di rafforzare la
frontiera del Danubio e rimanere spettatore degli avvenimenti. Questi precipitarono : data battaglia, Vannio
fu sconfitto e, ferito, dovette cercare riparo con molti dei suoi in Pannonia, mentre il regno dei Suebi veniva
diviso fra Sidone e Vengione.
Costretto a ritirarsi, Corbulone impiegò il tempo facendo scavare dai suoi soldati un canale tra il Reno e la
Mosa. Per ricompensarlo degli utili servigi Claudio gli concesse le insegne trionfali.
Le guerre di conquista di Claudio erano finite e cominciavano i lavori di fortificazione delle frontiere del nord.
A renderle più salde furono fondate parecchie colonie militari : sul Reno Augusta Treverorum (Treviri) e
Colonia Agrippina (Colonia), nella Pannonia Claudia Savaria (Stein) e Scarbandia (Odenburgo). Altre colonie
vennero istituite nell'Oriente, nella penisola balcanica e nella Mauritania.
I LIBERTI CESAREI - LE MOGLI DI CLAUDIO - MESSALINA - AGRIPPINA
Col principato di Claudio cominciarono ad avere nella vita dell'impero parte importantissima i liberti. Sotto gli
altri imperatori, se si eccettui di questi Ottaviano Augusto che, un liberto, Mena, lo creò ammiraglio e un altro
liberto, Licinio, lo mandò procuratore in Gallia, i liberti non erano stati impiegati che nella corte, mentre ai
senatori e ai cavalieri erano affidate l'amministrazione dello stato e l'ufficio di consiglieri e ministri del
principe. Sospettoso per natura e ammaestrato dalle vicende dei suoi predecessori che fra i più pericolosi
nemici avevano avuto i loro stessi ministri, Claudio ai senatori e ai cavalieri, di cui sempre diffidò, preferì i
liberti. L' impiego di costoro sarebbe stato di grande utilità al principato perché avrebbe rafforzato il regime
monarchico se colui che se ne serviva fosse stato un uomo di provata energia e di forte volontà. A Claudio
invece facevano difetto l'una e l'altra qualità e fu perciò che, sotto il suo governo, i liberti diventarono potentis
simi e furono in realtà i veri padroni dell' impero. Anziché essere gli strumenti docili e laboriosi dell'
imperatore, i liberti cesarei si servirono del principe per i loro disegni e gli fecero fare tutto quello che vollero.
" Onori cariche, grazie, castighi, - sono parole di SVETONIO- tutto dipendeva da essi, tutto era fatto per loro
capriccio e per loro vantaggio, spesso senza che Claudio ne sapesse nulla.... I suoi atti erano revocati, i suoi
giudizi erano cancellati, e si inventarono e si cambiarono lettere sue con cui venivano concessi pubblici
uffici.... Claudio così firmò la condanna capitale di trentacinque senatori e di oltre trecento cavalieri con sì
grande leggerezza che, essendo un centurione venuto ad annun ziargli la morte di un consolare e dicendogli
di avere eseguito i suoi comandi, egli ri spose di non aver dato nessun ordine , tuttavia approvò questo
omicidio perché dai liberti fu assicurato che i soldati, vendicando spontaneamente imperatore, avevano fatto
il loro dovere".
I più potenti liberti erano NARCISSO, PALLANTE, CALLISTO, POLIBIO, Antonio Felice, Arpocrate e
Pasides. Narcisso aveva la funzione di primo ministro e dirigeva l'ufficio di corrispondenza. Egli aveva
saputo costituirsi un patrimonio ingentissimo che era valutato ad alcune centinaia di milioni di lire. Pallante
presiedeva al fisco ed aveva accumulato una ricchezza di trecento milioni di sesterzi. Era venuto in tanta
superbia che osava affermare di esser discendente di Evandro, re degli Arcadi, stabilitesi nel Lazio, secondo
la leggenda, settant'anni prima della guerra di Troia. Era tale la sua faccia to sta che giunse a rifiutare
parecchi milioni offertigli in dono dal Senato, dicendo di voler viver nella sua povertà! Lagnandosi Claudio
una volta delle tristi condizioni in cui versava l'erario, gli fu argutamente risposto che l'erario se voleva esser
ricco doveva far società con Narcisso e Pallante.
Callisto era maestro delle cerimonie ; Polibio era bibliotecario e aveva tanta influenza sull' imperatore, di cui
era stato amico di scuola, che Seneca, esiliato in Corsica, per ottenere la grazia dovette ricorrere a lui.
Spesso egli fu visto camminare per le vie di Roma in mezzo dei consoli che si tenevano altamente onorati
della sua compagnia. Antonio Felice era fratello di Pallante e solo perché tale fu nominato procuratore
imperiale della Giudea, della Samaria e della Galilea. In origine umile liberto, salì a tale potenza da sposare
successivamente tre regine ! Grandi onori ebbe pure Arpocrate al quale Claudio concesse di andare per le
vie di Roma in lettiga e di dare spettacoli. Non minori onori ottenne l'eunuco Pasides che in occasione del
trionfo sui Britanni ricevette dall' imperatore un'asta.
I liberti furono la piaga più terribile del principato di Claudio e a questi vanno aggiunte le ultime due mogli dell
imperatore, le quali comandarono insieme con i liberti e con essi si resero colpevoli di tutte le scelleratezza
commesse sotto il governo dello zio di Caligola.
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Claudio ebbe due fidanzate e quattro mogli. Le fidanzate furono Emilia Lepida, pronipote di Augusto, la
quale fu abbandonata per offese recate dalla famiglia di Lepido alla casa imperiale, e Livia Medullina,
discendente del dittatore Marco Furio Camillo, che morì il giorno stesso che era stato fissato per le nozze. La
prima moglie fu Plauzia Urgulanilla la quale fu ripudiata per sospetto di omicidio e per la sua infedeltà
coniugale. Da Plauzia ebbe due figli : Druso, che fu fidanzato alla figlia di Seiano ed ancor giovinetto morì, si
dice, soffocato da una pera o come altri vuole per volontà del futuro suocero, e Claudia che nacque cinque
mesi prima del divorzio della madre e che l'imperatore, sospettandola frutto degli amori della moglie col
liberto Botere, non volle riconoscere e la fece esporre ignuda davanti alla porta della suocera. La seconda
moglie fu Elia Petina che lo fece padre di Antonia e fu anch'essa ripudiata. Antonia fu poi sposa a Gneo
Pompeo ed ebbe in seconde nozze Fausto Silla.
La terza moglie fu Valeria MESSALINA. Era, questa, figlia di Valerio Messalla Barbato, cugino dell'
imperatore, e discendeva, per parte della madre Domizia, da Ottavia e Marc'Antonio. Messalina fu una delle
donne più corrotte del suo tempo. Amante degli spettacoli e dei divertimenti, si dilettava di correre sul
cocchio nel Circo e in una delle sue pazze corse, rovesciatesi il cocchio, essa cadde. Priva di pudore,
sensualissima, insaziabile, essa passava con estrema facilità da un amore all'altro senza far mistero della
sua turpe condotta, girava per le vie di notte, in cerca di avventure, non disdegnava di concedersi ai suoi
liberti, dei quali si era accaparrato il silenzio e la complicità, innalzava i suoi amanti o si vendicava
ferocemente di coloro che osavano rifiutarsi alle insane sue voglie.
Al marito essa diede due figli : Ottavia e Britannico. Quest'ultimo nacque venti giorni dopo che Claudio ebbe
il principato e fu molto amato dal popolo, il quale, vedendolo spesso nei teatri sulle ginocchia dell'
imperatore, applaudiva freneticamente il piccino e faceva voti per lui.
Per la sua libidine sfrenata e per la ferocia del suo animo Messalina si macchiò dei più truci delitti. Guai a
colui che osasse attraversare i disegni di lei o mostrasse il proposito di denunziarne al marito le colpe o ne
suscitasse la gelosia ! Catorio Giusto, prefetto del pretorio, che aveva minacciato di svelar le tresche dell'
imperatrice, venne ucciso. Vittime della gelosia della funesta donna furono la bellissima Giulia, figlia di
Germanico e l'altra Giulia, figlia di Druso e moglie di un figlio di Germanico. Entrambe rivaleggiavano in
bellezza con Messalina e non volevano esser guardate come inferiori a lei. Contro di loro venne mossa
accusa di adulterio e senza che fossero invitate a discolparsi furono mandate in esilio e poi uccise. Seneca,
il filosofo, accusato di tresca con una delle due Giulie, venne confinato in Corsica.
Vittima di Messalina fu anche il patrizio Appio Silano, che dicesi di aver rifiutato di diventar l'amante della
crudele imperatrice e ne aveva sposata la madre Domizia.
"Messalina e Narcisso, che avevano stabilito di sopprimerlo - così narra SVETONIO- si divisero le parti :
questi allarmato entrò prima dell'alba nella camera di Claudio, con aria spaventata dicendo di aver sentito
che Appio voleva attentare alla vita dell' imperatore, Messalina, fingendosi agitata e sorpresa, aggiunse che
lei faceva da parecchi giorni lo stesso sogno. Poco dopo fu annunziato l'arrivo Appio, il quale, il giorno prima,
aveva ricevuto l'ordine proprio da Messalina di recarsi da loro. Claudio che non sapeva nulla, convinto che
egli venisse per tradurre in realtà il sogno, lo fece arrestare e mettere a morte. L'indomani narrò in Senato il
fatto e ringraziò il liberto che, anche nel sonno, vegliava sulla salvezza del padrone".
Sorte uguale ebbe Gneo Pompeo, marito di Antonia figlia di Claudio. Istigato da Messalina, l'imperatore fece
uccidere il genero e i genitori di lui.
Volendo venire in possesso dei magnifici giardini luculliani, di cui era padrone il console Valerio Asiatico,
Messalina lo fece accusare di tresca con la bella Poppea Sabina e di aver tentato di amicarsi le truppe.
Invano Valerio si difese e addusse in suo favore le imprese compiute in Britannia. Fu condannato alla pena
capitale e ottenne solo di morire facendosi tagliare le vene. Si narra che, prima di morire, Valerio Asiatico
visitasse il rogo su cui il suo corpo doveva essere arso ed ordinasse di farlo innalzare in altro punto affinché
le piante non fossero danneggiate dalle fiamme. In un tempo di tanta corruzione e decadimento morale
piace vedere come qualche romano desse prova di saper morire con stoica indifferenza.
Poppea Sabina fu sacrificata alla gelosia dell'imperatrice ed anche lei venne messa a morte. Pure a morte fu
messo il liberto Polibio pur avendo goduto i favori di Messalina.
Un po' di tregua ebbero le crudeltà dell'imperatrice solo quando fu presa da morbosa passione per Cajo
Silio. Era considerato questi il più bell'uomo di Roma e seppe ispirare tanta simpatia nell'animo di Messalina
da farle perder la testa. Come tutti gli altri amori della malvagia donna anche questo era conosciuto dalla
cittadinanza : solo Claudio non sapeva nulla. Ma di informarlo si incaricarono i suoi liberti. Questi temevano
le conseguenze della funesta passione, temevano che Messalina si sbarazzasse del marito, ne facesse
perire i consiglieri e, sposato Silio, lo innalzasse all' impero.
Narrano gli storici che, trovandosi l'imperatore ad Ostia, Messalina contrasse pubblico matrimonio con
l'amante dando feste magnifiche nei giardini luculliani ; ma questo racconto forse è solo una favola. Può
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darsi che gli storici abbiano ritenuto per vero quello che i liberti si inventarono a Claudio per far decidere
Claudio a disfarsi sia di Silio che della moglie.
È certo che ad Ostia si recarono le cortigiane Cleopatra e Calpurnia e il ministro Narcisso e resero edotto
Claudio della turpe condotta di Messalina. Claudio fu talmente spaventato da chiedere - secondo quel che si
narra- se lui o Silio fosse l'imperatore.
In questa circostanza Narcisso diede mirabile prova di avvedutezza e di energia. Sapendo quanto peso
contassero nelle cose dell' impero i pretoriani e quanto ascendente avesse Messalina sull'animo del marito,
stabilì di assicurarsi la fedeltà delle milizie e di non dar tempo all'adultera di parlarne all'imperatore. Chiese
pertanto a Claudio che gli si desse per poco tempo il comando delle coorti pretorie, poi condusse
l'imperatore in casa di Silio e gli mostrò gli oggetti di valore che Messalina aveva sottratti dalla casa
imperiale e regalati al suo amante, infine condusse Claudio al campo dei pretoriani.
Qui l'imperatore radunò le truppe e pronunziò, dietro suggerimento di Narcisso, un discorso col quale
informò i pretoriani della condotta della moglie e giurò loro che non avrebbe più sposato nessuna donna,
aggiungendo che autorizzava i soldati ad ucciderlo se avesse violato il giuramento.
I pretoriani chiesero a gran voce la punizioe dei colpevoli e vennero ordinati dei processi immediati e
sommari a carico di Messalina e di tutti i suoi amanti.
Cajo Silio venne portato davanti ai tribunali. Era inutile scusarsi e difendersi ; la sua sorte era decisa. Egli
chiese soltanto che lo facessero morire senza indugio.
Come lui furono condannati alla pena di morte il senatore Giunco Virgiliano, Sau rello Trogo, Sulpizio Rufo,
Decio Calpurniano, Tazio Proculo, Pompeo Urbico e Vezio Valente, i quali ascoltarono la sentenza senza
batter ciglio. Solo il mimo Mnestere volle difendersi : egli disse di avere eseguito gli ordini dell' imperatore
cedendo a Messalina ; e Claudio, difatti, pregato da lei, aveva comandato al mimo che obbedisse in tutto alla
imperatrice !
Convinto da queste ragioni Claudio stava per perdonare a Mnestere. Narcisso però gli fece notare che non
era giusto che un istrione fosse risparmiato quando tanti ca valieri venivano uccisi ; e Mnestere seguì la
sorte degli altri.
Aveva Messalina cercato di salvarsi mandando da Claudio i figlii, Ottavia e Bri tannico, e la più vecchia delle
Vestali, Vibidià affinchè ottenessero da lui di potersi difendere ; ma Narcisso aveva fatto allontanare i figli
dell' imperatore e la Vestale.
Claudio, fatta tacere l'ira, dopo tutte quelle condanne, disse a tavola : " fate sapere a quella disgraziata che
venga domani a scolparsi".
A quelle parole Narcisso si vide perduto. Egli sapeva che Messalina sarebbe stata perdonata se fosse
riuscita a parlare all' imperatore. Bisognava impedire ad ogni costo che Claudio la vedesse.
Narcisso uscì e diede ordine a un tribuno e ad alcuni centurioni di recarsi da Mes salina e di ucciderla.
Credendo che quell'ordine fosse partito dall'imperatore, il tri buno ubbidì e si recò coi centurioni negli orti
luculliani. Trovarono qui la perfida im peratrice, in compagnia della madre Domizia Lepida la quale
consigliava la figlia di prevenire la condanna togliendosi la vita. Messalina però era una donna vile e non
osava mettere in pratica il consiglio della madre; ma quando, visti i centurioni, comprese che non c'era più
scampo per lei, impugnò il ferro che la madre le porgeva e si vibrò con mano tremante alcuni colpi i quali
non produssero che lievissime ferite. Allora il tribuno rivolse contro di lei la spada e la finì (Ottobre del 48).
A Claudio, ch'era ancora a tavola, fu portata la notizia della morte di Messa lina. L'imperatore rimase calmo,
quasi indifferente ; ma si dice che alcuni giorni dopo, trovandosi a cena, domandasse ai servi perché la loro
padrona fosse assente.
Il Senato, per ricompensare Narcisso, gli decretò le insegne questorie.
AGRIPPINA - FINE DI CLAUDIO
Claudio aveva giurato ai pretoriani che non si sarebbe più sposato ; ma ben presto dimenticò il giuramento e
manifestò il proposito di prendere una quarta moglie.
I liberti avrebbero preferito che lui rimanesse vedovo, ma, visto l'imperatore risoluto a contrarre un nuovo
matrimonio, fecero a gara per trovargli una sposa. Narcisso gli proponeva di riprendere Elia Retina ; Callisto
sosteneva Lollia Paulina, che era stata moglie di Cajo Cesare; Fallante gli consigliava Agrippina. Era,
quest'ultima, figlia di Germanico e perciò nipote di Claudio. Essa era nata a Colonia, era bellissima,
intelligente, colta ed avida di "denaro e di onori. Come abbiamo detto, era stata l'amante del fratello Caligola
; sposa di Gneo Domizio Enobardo ne aveva avuto un figlio cui aveva posto nome Domizio ; rimaritatasi con
Crispo Passiono, presto era rimasta vedova e ricca ; accusata di aver tramato contro il fratello, era stata
mandata in esilio e soltanto quando Claudio era stato eletto imperatore aveva potuto fare ritorno a Roma.
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F. D'ALESSI - Letteratura latina - Parte III,1 - Il periodo imperiale - L'età dei Claudi
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Non era sfrenatamente lussuriosa come Messalina, ma neppure pudica. La sua scaltrezza la fece essere
vittoriosa delle sue competitrici. Frequentando come parente la casa imperiale, seppe con le sue seduzioni
ammaliare Claudio che ben presto acquistò su di lui un grande ascendente.
Giunse perfino a persuaderlo perché desse la figlia Qttavia in sposa a Domizio, figlio del primo marito.
Ottavia era già fidanzata al giovane pretore Lucio Giuno Silano. Questi fu accusato d'immoralità, il censore
Vitellio gli ordinò di dimettersi dalla carica di pretore prima del 29 dicembre del 48 e il fidanzamento fu rotto.
Nei primi giorni dell'anno seguente Silano si diede la morte.
Lo stesso giorno in cui l'infelice giovane si toglieva la vita, Claudio sposava Agrip pina. L'unica difficoltà che
si opponeva al matrimonio era stata facilmente superata.
La legge considerava come incestuose le nozze tra zio e nipote, ma fu riunito un senato consulto e il divieto
fu abrogato
Con Agrippina più che una moglie Claudio veniva ad avere un collega nell'impero.
Fredda, calcolatrice, ambiziosissima, fu lei dal primo giorno del matrimonio la padrona di Roma. Si ebbe il
titolo di Augusta, partecipò attivamente alla vita politica ed eser citò il comando insieme al marito. Assisteva
alle udienze imperiali, riceveva gli amba sciatori, assisteva ai giuochi pubblici, saliva al Campidoglio in
vettura; un diritto questo esclusivamente riservato alle Vestali ed ai sacerdoti, e discuteva coi ministri ed i se
natori intorno alle faccende dello Stato.
Anche, lei, al pari di Messalina, salita in potenza non conobbe freni ; ebbe amanti sebbene non ostentasse le
sue tresche, si vendicò delle rivali e tolse di mezzo quanti - uomini e donne- le facevano ombra. Lollia
Paulina, che aveva aspirato alla mano di Claudio, venne prima mandata in esilio e poi uccisa ; la nobile e
bella Calpurnia le cui grazie erano state lodate dall'imperatore con un pretesto venne messa a morte; la
stessa sorte, toccò a Lepida e a tutte quelle matrone che primeggiavano per bellezza e che proprio per
questo rappresentavano un pericolo. Tutti coloro invece che as secondavano i suoi capricci e si prestavano
ai suoi intrighi ricevettero onori e favori
Narcisso e Callisto che l'avevano osteggiata prima del matrimonio, pur rima nendo alla corte, non vi ebbero
più quella posizione potente che si erano acquistata. Al contrario, Pallante salì in altissima considerazione,
divenne anche l'amante dell' im- peratrice e si guadagnò dal Senato le insegne pretorie.
Ma non pensò Agrippina a render salda la sua posizione soltanto : le premeva anche l'avvenire del figlio e
per poter continuare a regnare dopo la morte del marito faceva di tutto per assicurare la successione al figlio
Domizio.
Un ostacolo si opponeva ai suoi ambiziosi disegni : Britannico, che nel popolo aveva una forte corrente
favorevole. Per guadagnarsi l'appoggio dei pretoriani fece destituire il loro prefetto Lucio Gota e in sua vece
fece nominare Afranio Geta. Ma prima di far passare il comando delle coorti pretorie nelle mani di un suo
fedele, ottenne con l'aiuto di Pallante che Domizio venisse adottato da Claudio. L'adozione ebbe luogo il 26
febbraio del 50 e poiché questa, rendendo Domizio fratello di Ottavia, veniva ad ostacolare il loro futuro
matrimonio, Ottavia venne adottata da un altro famiglia. DOMIZIO -che era entrato nella casa imperiale col
nome di NERONE- quando prese la toga virile fu designato console dal Senato col diritto di entrare in carica
appena compiuti vent'anni; ricevette il titolo di principe della gioventù, l'impero proconsolare fuori di Roma e
fu ammesso nei collegi dei sacerdoti. In quell'occasione, per guadagnare al figlio la popolarità e la simpatia
dei soldati, Agrippina distribuì premi ai pretoriani e denari al popolo.
All'adozione di Domizio(Nerone) si era opposto Narcisso, che godeva sempre la fiducia di Claudio ; ma vana
fu la sua opposizione ; anzi aveva danneggiato la posizione del vero erede, Britannico. Agrippina infatti per
isolare il giovane e togliergli gli amici che ancora gli rimanevano, fece mandare in esilio i precettori di lui e
metterne a morte uno, Sosibio, poi gli diede come educatori persone di sua fiducia.
Narcisso però non era uomo da abbandonare la lotta. Valendosi del favore che godeva presso l'imperatore,
cominciò a perorare la causa di Britannico e tanto seppe fare che Claudio, riconoscendo i suoi torti verso il
vero figlio, mostrò il desiderio di ripararli.
Da SVETONIO sappiamo che l'imperatore fece capire di essersi pentito del matrimonio con Agrippina e
dell'adozione di Domizio( Nerone) e che, rispondendo un giorno ai liberti, -i quali lo lodavano di avere
condannato una donna impudica, disse esser suo destino aver mogli colpevoli ma impunite. Lo stesso storico ci informa che una volta, abbracciato teneramente Britannico, Claudio gli dicesse in greco :
"colui che ha ferito guarirà la piaga" e che si proponesse di dargli prima dell'età stabilita la toga virile
"affinchè il popolo romano avesse finalmente il vero Cesare".
Ma Agrippina vegliava ; dalle numerose spie che aveva a corte seppe dei mutati sentimenti del marito in
favore di Britannico e si preparò alla lotta contro Narcisso. La salute del liberto la aiutò. Narcisso si era
ammalato e, proprio quando la sua presenza era indispensabile a corte per il trionfo di Britannico, fu
costretto a recarsi ai bagni di Sinuessa.
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F. D'ALESSI - Letteratura latina - Parte III,1 - Il periodo imperiale - L'età dei Claudi
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Agrippina approfittò dell'assenza del suo nemico per disfarsi finalmente di Claudio.
Questi venne a morte il 13 ottobre del 54.
Fu detto da alcuni che egli venne avvelenato dall'eunuco Aiolo mentre banchet- tava con i pontefici in
Campidoglio. Secondo altri, Agrippina somministrò al marito in un piatto di funghi, di cui egli era ghiottissimo,
un potentissimo veleno preparato da una certa Locusta, e poiché l'effetto tardava a prodursi chiamò il fido
medico Senofonte che, fingendo di voler dare all'imperatore una medicina, gli fece ingoiare un altro veleno.
Claudio aveva sessantaquattro anni ed era nel quattordicesimo del suo principato.
...il prossimo riassunto (gli anni di NERONE) dal 54 al 68 d.C. > > >
Fonti:
PAOLO GIUDICI - STORIA D'ITALIA
APPIANO - BELL. CIV. STORIA ROMANA
CASSIO DIONE - STORIA ROMANA
PLUTARCO - VITA DI BRUTO
SVETONIO - VITE DEI CESARI
SPINOSA - GIULIO CESARE
UTET - CRONOLOGIA UNIVERSALE
I. CAZZANIGA , ST. LETT. LATINA,
+ BIBLIOTECA DELL'AUTORE
IL PERIODO DI NERONE dal 54 al 68 d. C.
(Qui Prima Parte) * NERONE IMPERATORE - MORTE DI BRITANNICO
*POPPEA E LA MORTE DI OTTAVIA * SENECA E IL GOVERNO - * POPPEA IMPERATRICE * VIZI E
ORGE DI NERONE
( la Seconda Parte) * LE GUERRE DI NERONE * INCENDIO DI ROMA - * PERSECUZIONI CRISTIANI * LA
CONGIURA CONTRO NERONE * LA RIVOLTA DEGLI EBREI - STRAGI IN PALESTINA * LA FUGA E LA
MORTE DI NERONE
NERONE IMPERATORE - FINE DI BRITANNICO E AGRIPPINA
Dopo l'assassinio dell'imperatore, mentre nella casa imperiale, al cospetto di Britannico, di Antonia e di
Ottavia, la moglie Agrippina fingeva un grande dolore per la morte di Claudio, poi la coorte che stava di
guardia al palazzo, ad un cenno di Burro, acclamava imperatore il NERONE.
Ma Agrippina volle temporeggiare, chiamò alcuni suoi amici astrologi di corte che ammonirono i presenti
che non si poteva fare una immediata proclamazione di NERONE perché il momento non era propizio e
questo ritardò la diabolica funerea notizia al popolo della morte di Claudio. Si disse che era caduto
gravemente ammalato. Intanto Agrippina impartiva precise istruzioni a Seneca per prepararsi a un discorso
di circostanza per la morte del marito ma anche fare contemporaneamente quello inaugurale dell'investitura
di Nerone. Il trionfo di Agrippina era ormai vicino! E Seneca gli era accanto!
Nerone intanto si recò nel campo dei pretoriani, arringò i soldati e promise loro ricchi doni. L'indomani, a
mezzogiorno, il Senato, diede l'annuncio della morte e confermando la decisione delle coorti pretorie,
proclamava imperatore il poco più che sedicenne NERONE.
Discendeva Nerone da quel Domizio Eriobarbo che aveva parteggiato per Pompeo ed era morto nella
battaglia di Farsalo e da quell'altro Domizio che prima della giornata di Azio, abbandonato Antonio, aveva
abbracciato la causa di Ottaviano (Augusto).
Nerone declamando il suo discorso d'investitura davanti ai pretoriani esultanti, trovò i senatori subito disposti
ad andare oltre quella semplice investitura e gli diedero subito l'appellativo di Padre della Patria.
Il "maturo" Seneca (suo maestro) scrivendogli il discorso, spinto da zelo e adulazione per il suo allievo,
aveva inserito alcune frasi pretenziose per un giovane principe che aveva solo 16 anni. La sua elezione
venne presentata come personificazione dei princìpi della tradizione augustea, ed era - Nerone- indicato
come una reincarnazione di Giulio Cesare e del divino Augusto
Nerone nel discorso ufficiale prende sacre queste parole di Seneca, e afferma di essere cosciente di questa
eredità, e che nel governare l'Impero prenderà a modello il divino Augusto.
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NERONE
Suo nonno fu quel Domizio che nella guerra germanica si guadagnò le insegne trionfali e che per gli
spettacoli gladiatori dati con inusitata ferocia provocò un editto di Augusto; suo padre, Domiizio anch'egli di
nome, accompagnando Cajo Cesare in Oriente, uccise un suo liberto perché si rifiutava di bere quanto a lui
piaceva; schiacciò nella via Appia intenzionalmente un bambino, cavò un occhio nel foro a un cavaliere
romano perchè era venuto a diverbio e fu accusato d'incesto con la sorella Lepida. NERONE nacque ad
Anzio il 13 dicembre del 38. Si narra che il padre agli amici che si congratulavano con lui dicesse : "Da me e
da Agrippina non può nascere che una creatura detestabile, un pubblico flagello". A tre anni perdette a padre
e, poiché la madre venne esiliata da Caligola, egli fu educato da sua zia Lepida che gli diede come precettori
un ballerino ed un barbiere. Sotto il principato di Claudio ricuperò i beni paterni che Galigola gli aveva
usurpati, raccolse la ricca eredità del patrigno Crispo Passieno e, adottato dall'imperatore, ebbe a maestro
Seneca con cui studiò declamazione.
Aveva appena diciassette anni quando fu proclamato imperatore. I primi suoi atti furono ispirati dalla madre.
Fu lei che per smentire l'accusa di uxoricidio fece fare esequie magniflche a Claudio, fu lei che fece
pronunziare al figlio l'elogio funebre dell'imperatore, fu lei, infine, che ordinò a Narcisse di uccidersi e si
sbarazzò di Marco Silano, discendente di Augusto.
Il vero capo dell' imperò era Agrippina, l'ambiziosa donna che di tanti delitti si era macchiata pur di esercitare
in modo assoluto il suo dominio. Nerone era ancora un ragazzo e lasciava fare alla madre, ma l'assolutismo
della donna non lo potevano tollerare i due consiglieri di Nerone, Seneca e Burro alle cui ambizioni era di
ostacolo la madre dell' imperatore. Ben presto, per opera di costoro, cessò l'accordo tra madre e figlio:
istigato dal filosofo e dal prefetto dei pretoriani, Nerone volle uscire da quella specie di severissima tutela in
cui era tenuto da Agrippina, e i suoi consiglieri per poterlo meglio dominare, cominciarono ad assecondarne
gli istinti perversi che aveva avuto dalla natura e favorirono gli amori di lui per una libertà di nome Atte.
La prima vittima del dissidio tra l'imperatore e la madre fu Pallante: questi fu licenziato e al suo posto,
nell'amministrazione del tesoro, venne messo il liberto Claudio Etrusco, uomo furbo ed abile che riuscì a
conservare la carica fino al tempo di Domiziano.
Il licenziamento di Pallante e l'ascendente che Atte aveva saputo guadagnarsi sull'animo del principe resero
Agrippina furiosa. Essa avrebbe potuto ottenere qualche cosa lasciandosi guidare dal freddo calcolo o
dall'arte di fingere in cui era maestra e di cui aveva dato prove insuperabili, ma questa volta si lasciò vincere
dallo sdegno e minacciò il figlio dicendogli che avrebbe sostenuto i diritti di Britannico. Fu un' imprudenza
imperdonabile che cagionò la rovina del giovane figlio di Claudio.
La morte di Britannico venne decisa: come il padre egli doveva perire di veleno. A prepararlo venne
chiamata la medesima Locusta, e poiché, somministrato una prima volta, non aveva prodotto effetto, Nerone
volle che Locusta sotto gli occhi di lui preparasse un altro veleno più potente, che la sera, a cena, venne
propinato all'infelice giovane in presenza dell' imperatore.
Appena bevutolo, Britannico stramazzò morto e quella notte stessa, mentre pioveva dirrottamente, il
cadavere venne mandato al rogo (68).
Per comprare il silenzio dei cortigiani Nerone distribuì fra loro i beni del morto e al popolo disse che la causa
della fine di Britannico era stata l'epilessia di cui egli sin da l'infanzia soffriva; al Senato poi pronunziò un
discorso -opera forse di Seneca- con il quale esprimeva il suo dolore per la morte del fratello. Locusta ebbe
in premio l'impunità e vasti possedimenti.
Dal giorno della morte di Britannico la lotta tra la madre e l'imperatore fu aspra ed aperta. Agrippina cercò di
formare intorno a sé un partito capace di fronteggiare il monarca e si diede a dispensare doni, ad accarezzar
le famiglie patrizie, a cattivarsi il favore del popolo e delle milizie e a stringer rapporti con centurioni e tribuni.
I suoi tentativi però non riuscirono che ad inasprire maggiormente il figlio. Questi gli tolse le guardie d'onore,
la relegò in un appartamento del palazzo, poi la mandò ad abitare in una casa remota e la sottopose ad una
vigilanza rigorosissima.
Vedendola caduta in disgrazia, i nemici di lei crebbero di numero e ci fu chi credette guadagnarsi la stima
dell' imperatore inventando accuse contro la madre di lui. Fra questi vanno ricordati Domizia, zia patema di
Nerone, e Giulia Silana, le quali indussero l'istrione Paride ad accusare Agrippina di aver congiurato contro il
figlio per dare l'impero a Rubellio Plauto, nipote di Tiberio.
Ma non fu difficile ad Agrippina dimostrare la sua innocenza. Convinto Nerone che la madre era vittima della
malignità altrui mandò in esilio gli accusatori.
POPPEA
Una donna fatale entrava intanto nella vita dell' imperatore. Era, questa, Poppea Sabina, figlia della donna
dello stesso nome, perita vittima dell' invidia e della gelosia di Messalina. "Nulla -come scrisse TACITOmancava a questa donna, eccetto l'onestà; era colta, spiritosa, elegante, ricca e bellissima al pari della
madre. Per farsi ardentemente desiderare e darsi l'aria di persona pudica soleva uscire col viso ricoperto da
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un velo e per mantenere fresca e morbida la sua pelle dicesi che si lavasse con latte di giumenta. Glielo
fornivano -se non è una favola quello che si narra- le cinquecento giumente che lei manteneva.
Poppea era stata moglie del cavaliere Crispino Rufo; poi lo aveva lasciato per unirsi in matrimonio col
ricchissimo Salvio Otone, compagno di orge dell'imperatore.
Era stato Otone, con le lodi sperticate che faceva della bellezza della moglie a Nerone, a farlo invaghire di
lei.
L'imperatore allora volle liberarsi del marito e lo allontanò da Roma, mandandolo come governatore nella
Lusitania (58). Poppea però non era Atte. Essa non voleva diventare l'amante dell' imperatore, ma la moglie
e giocò d'astuzia per far crescere nell'animo di Nerone il desiderio di possederla.
Crebbe la passione di lui a tal punto che egli si senti capace di fare qualsiasi cosa pur di avere la bellissima
donna. Ma non c'era che un mezzo: il matrimonio. Due donne però erano di ostacolo ai disegni di Poppea:
Ottavia ed Agrippina. Il primo ostacolo era facile rimuoverlo con un divorzio, ma Agrippina non avrebbe mai
permesso che il figlio sposasse Poppea. Occorreva dunque sopprimere la madre dell' imperatore. Forse fu
Poppea che insinuò nella mente di Terone l'idea del matricidio, e forse l'ardente passione fece sorgere
nell'animo del figlio il perverso proposito.
La sorte di Agrippina fu segnata. Era però impresa difficilissima a disfarsi di lei. Ucciderla con le armi non si
poteva, si sarebbe gridato al delitto, era quindi necessario ricorrere al veleno; ma Agrippina era prudente,
stava all'erta, era guardata e circondata da persone fedelissime ed era fornita di gran copia di antidoti.
Chi trovò un ingegnoso mezzo per uccidere Agrippina senza che alcuno pensasse ad un delìtto fu Aniceto,
comandante della flotta di Miseno e nemico della vedova di Claudio, il quale fece costruire una navicella in
cui, grazie ad un congegno si poteva produrre una falla che avrebbe mandato a fondo l'imbarcazione.
Desideroso di affrettare la morte della madre, Nerone finse di riconciliarsi con Agrippina e, ricorrendo le feste
di Minerva, si recò a Baia per celebrarle. Di là scrisse alla madre invitandola affettuosamente a raggiungerlo.
Agrippina andò con una nave propria e fu accolta con grandissime manifestazioni di gioia dal figlio. Questi la
trattenne a cena fino a tarda sera; quando Agrippina, levate le mense, espresse il desiderio di ritornare nella
sua villa di Bauli una notizia si sparse: la nave con la quale era venuta era stata urtata per caso e sfasciata
da una nave della flotta. Nerone allora fece venire la nave appositamente costruita da Aniceto e vi
accompagnò la madre, e si staccò da lei dopo molti saluti e numerose carezze.
La nave si mosse dalla riva nella notte serena e silenziosa: Crepereio Gallo, familiare dell' imperatrice, era al
timone, ai remi c'erano dei marinai fedeli a Aniceto; stava in compagnia di Agrippina la fida ancella
Acerronia. A un tratto un gran rumore rompe il silenzio della notte e la coperta sprofonda schiacciando il
timoniere; ma il congegno manovrato male fece tardare la nave ad affondare. orse Volendosi salvare,
Acerronia gridò nel buio e nella confusione invocando soccorso dicendo di essere Agrippina. Un colpo di
remo sulla testa la fece scomparire nei flutti. Mentre l'Agrippina vera, sospettando forse l'inganno non
chiama aiuto ma in silenzio nuotando vigorosamente riesce a raggiungere una barca con la quale giunse al
lago Lucrino.
Agrippina aveva ormai capito che il naufragio della nave era stato preparato dal figlio ma, finse, per
prudenza, di non essersene accorta e mandò a Nerone un messo, Lucio, Agerino, mettendolo al corrente del
naufragio e che lei si era salvata.
Nerone aveva passato in ansia tutta la notte e quando per altra via -prima ancora che arrivasse il messoseppe che la madre non era morta ebbe una grande paura che il fatto si risapesse. Ma Aniceto aveva mente
fervidissima ed era maestro di ritrovati. Giunto Lucio Agerino col messaggio, il comandante della flotta gettò
ai piedi di lui un pugnale, poi gridò che Agrippina aveva mandato un suo liberto con l'incarico di assassinare
Nerone. Agerino venne preso ed ucciso; poi Aniceto con un manipolo di sicari si recò a Bauli e irruppe nella
villa dell' imperatrice. Due centurioni. Erculeo ed Olcarito, penetrarono nella stanza dove lei si trovava. Al
vederli Agrippina disse: "se venite a trovarmi per informarvi della mia salute riferite a Nerone che mi sono
rimessa; se venite per uccidermi non credo che mio figlio vi abbia ordinato di farlo". Erculeo la colpi con una
bastonata al capo ed Olcarito le si accostò con la spada in pugno. A quest'ultimo Agrippina, sporgendo il
ventre (che aveva partorito il mostro), gli gridò : "ferisci qui". E cadde trafitta (19 marzo 69).
Si disse che Nerone, recatesi nella villa della madre, dopo avere attentamente osservato il cadavere di lei,
esclamasse che non aveva mai saputo che Agrippina fosse così bella. Ma forse è leggenda.
Tolta di mezzo Agrippina, si pensò di occultare il delitto; Burro mandò a Nerone i tribuni militari e i centurioni
per congratularsi con lui dello scampato pericolo, Seneca scrisse al Senato che Agrippina aveva attentato ai
giorni dell' imperatore e, non essendo riuscita, si era data la morte. Il Senato volle prestar fede a quella
versione che della fine della vedova di Claudio veniva data e decretò ringraziamenti agli dèi. Chi non volle
credervi fu il senatore Trasea Peto, oppositore costante di Nerone, che, mentre si leggeva la lettera di
Seneca, in segno di protesta, si allontanò dalla Curia.
Nerone, ritornato a Roma, vi fu accolto trionfalmente, ma il giorno dopo si trovarono scritti sui muri di certe
case i nomi dei matrici Alcmeone ed Oreste e nel Foro si vide la statua dell'imperatore con il sacco di cuoio
dei matrici al braccio destro. Ciò mostra che c'era in città della gente che non credeva alla favola del suicidio
ed accusava Nerone come autore del delitto.
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Non furono però quelle proteste anonime che gli tolsero la pace dell'anima, bensì i rimorsi. Scrive
SVETONIO: "Malgrado le congratulazioni del Senato, del popolo e dei soldati, non riuscì né allora né dopo
sfuggire al rimorso di un così orrendo delitto. Confessò che dal quel giorno l'immagine della madre lo
perseguitava e che le Furie lo percuotevano con delle fiaccole ardenti. Cercò di evocare e di placare i Mani
di lei con un sacrificio e nel suo viaggio in Grecia non ebbe il coraggio di farsi iniziare ai misteri Eleusini,
atterrito dalla voce del banditore che era noto nell'ordinare agli empi e ai sacrileghi di allontanarsi".
POPPEA IMPERATRICE - MORTE DI OTTAVIA
Eliminata Agrippina, non rimaneva a Nerone che di disfarsi di Ottavia per poter condurre al talamo imperiale
Poppea. Burro, che non a torto temeva l'ambizione e l'invadenza di costei, sconsigliava all'imperatore il
divorzio, si narra anzi che un giorno, insistendo Nerone nel suo proposito di divorziare, il prefetto dei
pretoriani gli dicesse di restituire ad Ottavia l'impero che in dote gli aveva portato. Ma Nerone era troppo
innamorato della moglie di Otone per dare ascolto ai consigli di Burro e poiché questi contrastavano con i
disegni dell'imperatore questi ben presto si sbarazzò anche del suo consigliere.
Burro mori nel 62 di una malattia alla gola, ma corse voce -e non si hanno motivi di ritenerla falsa- che la sua
morte fosse causata da un veleno fornito a Burro, in luogo di una medicina, dallo stesso Nerone.
A Burro successero nella prefettura del pretorio Perno Rufo e Sofonio Tigellino, uomo tristissimo
quest'ultimo, il quale si adoperò molto in favore di Poppea e a danno di Ottavia.
Nerone ripudiò l'infelice moglie col pretesto di sterilità e la confinò in Campania. Dodici giorni dopo il ripudio
di Ottavia, Poppea Sabina divenne imperatrice e si ebbe il titolo di Augusta. Non contenta di avere raggiunto
il suo scopo sacrificando la rivale, la fece mettere sotto processo per adulterio, ma la sfortunata donna risultò
innocente. Allora il popolo commosso dalla sorte dell'onesta Ottavia, cui erano stati uccisi il padre, il fratello e
la madre e in età di vent'anni, per la male arti d'una donna impudica, veniva cacciata dal talamo e dal trono,
e tumultuò in suo favore.
Spaventato dal contegno del popolo, Nerone ordinò che Ottavia fosse richiamata dall'esilio. Il popolo
applaudì all'imperatore e manifestò il suo sdegno contro Poppea abbattendone la statua; ma la nuova
imperatrice, per nulla atterrita, volle immediata vendetta: costrinse il marito a far cacciare e frustare coloro
che abbattevano le statue di lei e fece mettere nuovamente sotto processo Ottavia.
Chi si prestò a infangarla fu sempre quell'Aniceto, il quale inventò dinanzi ai giudici di essere stato l'amante
di Ottavia. All'accusatore, che si rivelava nel medesimo tempo colpevole, venne data una punizione che fu
però un premio: infatti venne mandato in esilio in Sardegna, dove ebbe però grandi ricchezze; mentre
Ottavia fu confinata nell' isola di Pandataria e poco dopo fu dato ordine che si uccidesse.
Sulla fine di lei scrive TACITO : "Quando si conobbe la sua nuova condanna, nessuna donna esiliata strappò
agli astanti maggior copia di pianto che lei. Si ricordavano Agrippina esiliata da Tiberio e Giulia da Claudio;
ma queste erano in età matura ed avevano goduta la vita. Per Ottavia invece lo stesso giorno del matrimonio
era stato un funereo giorno, e il palazzo in cui venne ad abitare non le offrì che immagini dolorose: il padre
avvelenato, il fratello ucciso allo stesso modo, lei dimenticata per una schiava e poi ripudiata. Da ultimo
un'accusa più terribile della morte stessa. E questa giovane, a venti anni, circondata da centurioni e da
sicari, vedeva che la fine della sua vita si approssimava ma non aveva la quiete della morte. Però quando le
giunse da Roma l'ordine di morire, non seppe rassegnarsi a lasciare la vita sebbene per lei fosse stata un
continuo tormento. Scongiurò Nerone come sorella più che come moglie, invocò i comuni ricordi da
Germanico ad Agrippina; ma invano. Le si aprirono le vene e poiché il sangue, agghiacciato dalla paura,
veniva fuori lentamente, essa venne messa in un bagno caldo, i cui vapori la soffocarono. Per imperdonabile
eccesso di crudeltà, la sua testa fu tagliata e mandata a Poppea e per questa morte vennero decretati doni e
ringraziamenti alle divinità, che si era soliti ringraziare per ogni condanna all'esilio o alle morti volute dall'
imperatore". (Tacito)
Ma Poppea Sabina doveva godere per poco del suo trionfo. Essa diedé una figlia al marito, Claudia
Augusta, che gli fu grato, ma tre anni dopo, nel 65, pagò il fio dei suoi misfatti. Trovandosi incinta, rimproverò
un giorno l'imperatore di esser tornato tardi da una corsa di cocchi e in risposta si ebbe un calcio nel ventre
che la uccise.
Alla estinta furono rese esequie solenni. Lo stesso imperatore dai rostri ne lesse l'elogio e la proclamò
madre di una figlia divina. Ma il ricordo di lei ben presto si cancellò dall'animo di Nerone, il quale,
innamoratesi di Antonia, figlia di Claudio, cui aveva ucciso il marito, la chiese in sposa. Ma Antonia lo rifiutò
e venne fatta morire. Lo accettò come marito, invece, Statilia Messalina, pronipote di Tauro, donna corrotta
al pari di lui, sposa del console Attico Vestine, il quale, rappresentando un ostacolo al matrimonio dell'
imperatore, venne messo a morte dallo stesso Nerone che oramai era diventato un mostro inarrivabile di
crudeltà (sempre se crediamo agli storici del tempo!)
SENECA - IL PRINCIPE ISTRIONE
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F. D'ALESSI - Letteratura latina - Parte III,1 - Il periodo imperiale - L'età dei Claudi
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Nel 62 l'anno in cui moriva Burro, L. ANNEO SENECA, temendo di fare la medesima fine sebbene
l'imperatore lo avesse una volta rassicurato col dirgli: "io preFerirei morire che farti del male" ed essendo la
sua posizione molto critica, si ritirava dalla vita politica e si chiudeva nell'intimità della sua casa sorrretto dal
conforto dei suoi studi e dall'amore della moglie Paolina.
Seneca era nato a Cordova da quell'Anneo Seneca, maestro di eloquenza, detto il Vecchio; venuto presto a
Roma, aveva studiato filosofia sotto lo stoico Attalo e il pitagorico Sozione, poi si era dato alla carriera
forense, rivelandosi un valentissimo oratore. Nel 39, avendo recitato in Senato una magnifica orazione,
aveva messo in pericolo la sua vita; infatti Caligola roso dall' invidia, ne aveva decretata la morte. Ma una
favorita del principe, la quale assicurava che Seneca sarebbe morto presto perché era molto malato, lo
aveva salvato.
Nel 41, travolto dal processo contro Giulia Livilla provocato da Messalina, era stato relegato in Corsica, dove
era rimasto per otto anni; richiamato a Roma nel 49 per intercessione di Agrippina, era stato creato pretore e
nominato maestro di Nerone. Per cinque anni egli era stato l'educatore dell'anima e della mente dell'erede di
Claudio: la mente gliela aveva educata con l'esercizio della declamazione che era poi il "pascolo
intellettuale" del tempo e che Nerone, ambizioso, invidioso com'era si lasciò plagiare. L'anima invece aveva
cercato di preparargliela alle funzioni di futuro principe
Se l'educazione impartita da Seneca all'augusto discepolo non sortì i risultati cui tendeva il maestro, a
Seneca non va data tutta la colpa, ma alla natura dell'alunno e all'ambiente corrotto della corte; ma per
amore della verità bisogna riconoscere che qualche buon frutto essa diede e che non poche furono le
benemerenze dell'opera politica del filosofo.
Dal 64 al 62, per un periodo cioè di otto anni, Seneca ebbe effettivamente se non ufficialmente la direzione
politica dell'impero. L'impero aveva bisogno di una buona politica, di una politica che facesse dimenticare le
malefatte dei passati governi, bisogno di un governo basato sull'equità, sull'umanità e sulla concordia tra il
principe e i sudditi. Questi princìpi Seneca li riportava nel trattato De Clementia scritto nel 65 ed essi sono
come l'annunzio dell'indirizzo politico che voleva si inaugurasse col principato di Nerone, il quale doveva
distinguersi dai precedenti in specialmodo per la clemenza. Per fortuna Nerone non aveva vendette da
compiere quando fu assunto all'impero. Le vendette vennero dopo, quando il desiderio di indipendenza e gli
istinti malvagi ebbero il sopravvento e lo allontanarono dalla via tracciata da Seneca. L'opera del filosofo
lasciò una traccia non lieve nella vita politica dell' impero e a quella si deve senza dubbio tutto quello che di
buono ci fu nei primi anni del governo di Nerone.
La casa imperiale fu separata dallo Stato, fu data libertà ed autorità al Senato e ai consoli, i quali
conservarono le loro attribuzioni, e, perché il governo fosse il risultato di una collaborazione tra Senato e
principe e diarchia e non una monarchia assoluta, fu dato un gran colpo all'invadenza e alla potenza che si
erano sviluppate con i liberti e le donne della corte. Ma da questo indirizzo dato da Seneca alla politica
nacquero i primi dissidi tra l'imperatore ed Agrippina.
All'amministrazione dell'erario furono preposti due prefetti scelti fra coloro che avevano esercitato la pretura;
provvedimenti furono presi per impedire gli abusi fiscali; furono esentate dalle imposte le navi mercantili; fu
ridotta a un quarto la ricompensa ai delatori fissata dalla legge Papia; ai senatori poveri venne assegnata
una pensione annua; fu provveduto perché non venissero alterati e falsificati i testamenti; pene furono
comminate contro coloro che dopo aver provocato processi ritirassero l'accusa; si stabilì un deposito per
quelli che si appellavano al Senato; e si cercò di migliorare la posizione dei liberti insidiata dal
conservatorismo del patriziato. Fra le cose buone del governo di Nerone, diretto da Seneca, va messa la
rigorosa vigilanza sotto la quale fu tenuta l'opera dei governatori delle province.
Dal 66 al 61 otto governatori vennero processati: di questi tre furono assolti, uno, Publio Celere,
governatore della provincia d'Asia, morì prima della discussione, quattro vennero condannati: Vipsaio
Lenate, governatore della Sardegna, Comiziano Capitone, della Cilicia, Tarquizio Rosco, della Bitinia, e
Pedio Bleso. Quest'ultimo venne anche espulso dal Senato.
Con la morte di Burro e il ritiro di Seneca, uomini che ebbero pur essi dei difetti -Seneca fu accusato di
predicar bene e razzolar male e di aver messo da parte una fortuna di trecento milioni di sesterzi- Nerone
rimase in balìa di tristi consiglieri e dei suoi istinti, privo di due preziosi ministri, i quali, se non gli avevano
impedito due delitti come l'uccisione di Britannico e di Agrippina, anzi avevano cercato di giustificarli, pure
avevano saputo esercitare un gran freno sull'imperatore.
Ora Nerone da sfogo a tutte le malvagie qualità della sua natura. La storia del mondo non conosce forse un
uomo così depravato come Nerone.
"Dapprima -scrive SVETONIO- si diede solo per gradi e nascostamente al disordine, al libertinaggio, al
lusso, all'avarizia e alla crudeltà, come se questi fossero difetti di gioventù, ma anche allora nessuno dubitò
che quelli fossero vizi della natura di lui, non dell'età. Dopo il tramonto si copriva con un cappello o un
berretto e faceva il giro delle taverne e dei vicoli rumoreggiando e oltraggiando la gente; era solito battere
coloro che tornavano dalle cene e, se facevano resistenza, ordinava che fossero bastonati e immersi nelle
fogne; devastava e saccheggiava le botteghe e vendeva a casa il bottino. Spesso nelle risse fu in procinto di
lasciarci gli occhi o la vita e per miracolo non fu ucciso da un senatore, sulla cui moglie aveva messe le
mani; in seguito a questo incidente quando usciva di sera si faceva scortare alla lontana dai tribuni. Di giorno
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si faceva portale in teatro in lettiga chiusa e dal proscenio guardava e incoraggiava le sommosse eccitate dai
pantomimi; e quando il pubblico veniva alle mani e spaccava ogni cosa e gettava pezzi di panche, anch'egli
ne scagliava sulla folla. Perì così un pretore alla testa. Ben presto però i suoi vizi si fecero più gravi e
numerosi e furono messi da parte gli scherzi e le finzioni. Stava a banchettare da mezzogiorno fino a sera;
sovente faceva bagni caldi. Talora pranzava in un luogo pubblico che faceva chiudere, nel Campo Marzio o
nel Circo Massimo, facendosi servire da meretrici e da cantatrici di tutta la città.
Ogni volta che sul Tevere scendeva ad Ostia o navigava nel golfo di Baia ordinava che sulle rive fossero
innalzate piccole capanne abitate da matrone dell'alta società, le quali imitando le mercantesse, lo
chiamavano e lo invitavano. Ordinava cene ai suoi amici e uno di questi, in una vivanda composta di miele,
spese quattro milioni di sesterzi; in un'altra cena una bevanda di rose costò di più. Tacendo del suo infame
commercio, con i giovani liberi e dei suoi amori adulterini, dirò che violò una vestale, di nome Rubria. Fu in
procinto di sposare la sua libertà Atte e indusse dei consolari a giurare che essa era di sangue reale. Come
per cambiargli sesso, fece evirare un giovinetto chiamato Spora e lo sposò con dote e velo e con gran
pompa lo condusse a casa e lo tenne in luogo di moglie. In quell'occasione qualcuno disse molto a proposito
che sarebbe stata una fortuna pel mondo se Domizio, padre di Nerone, avesse avuta una simile moglie"
(Svetonio)
Ne a queste si limitarono le oscenità di Nerone: prese il liberto Doriforo come marito, ebbe in animo, ma ne
fu dissuaso dai consiglieri, di unirsi incestuosamente con Agrippina e diede prova insuperabile di libidine
nelle numerose orge in cui passava il giorno e la notte. Nerone non era soltanto un uomo depravato.
Volendo imitare i Greci, prostituì la sua dignità di principe ed abbassò quella del Senato, dei patrizi e dei
cavalieri con la partecipazione ai giucohi e agli spettacoli. Egli stesso partecipò con l'auriga, e indusse
quattrocento senatori e seicento cavalieri a combattere come gladiatori in un anfiteatro di legno
appositamente fatto nel Campo Marzio; e costrinse i più ricchi e reputati cittadini a misurarsi con le fiere
dell'arena e una matrona ottantenne a ballare sulle scene fra i lazzi e le risa degli spettatori.
Appassionatissimo degli spettacoli, istituì i giuochi giovenali, i giuochi da lui detti neroniani, da celebrarsi a
spese dello stato ogni cinque anni, e gare di musica e di poesia. Nella prima di queste gare a Nerone venne
assegnata la palma dell'eloquenza e della poesia.
Ma ancor più che degli spettacoli era appassionato della musica, del canto e della poesia. Era convinto di
essere un grande artista, ma la voce l'aveva rauca ed era un mediocre compositore di versi, tuttavia volle
cantare sulle pubbliche scene e le sue poesie fece incidere a lettere d'oro e le dispose nel tempio di Giove
Capitolino; pretese lodi ed applausi e invidiò e perseguitò coloro che credeva suoi rivali.
Questi era l'uomo che reggeva le sorti del più vasto impero del mondo (sempre secondo quegli storici che ne
hanno scritto tutto il male, dopo però. Anche perchè Nerone capitò proprio mentre si cercava un capio
espiatorio ad ogni cosa ritenuta corruttrice: feste, balli, giuochi, inni alla sensualità o alla ricchezza, ai lascivi
sport, alla letteratura profana, al godimento della vita terrena.
* LE GUERRE DI NERONE * INCENDIO DI ROMA - * PERSECUZIONI CRISTIANI* LA CONGIURA
CONTRO NERONE * LA RIVOLTA DEGLI EBREI - STRAGI IN PALESTINA * LA FUGA E LA MORTE DI
NERONE
(Qui la Seconda Parte) > > >
IL PERIODO DI NERONE Seconda Parte
LE GUERRE DI NERONE - INCENDIO DI ROMA - PERSECUZIONI CRISTIANI
LA CONGIURA CONTRO NERONE - LA RIVOLTA DEGLI EBREI - STRAGI IN PALESTINA
LA FUGA E LA MORTE DI NERONE
--------------------------------------------------------------------------------LE GUERRE DURANTE IL PRINCIPATO DI NERONE
Sotto l'impero di Nerone -durato 14 anni- , Roma dovette sostenere più di una guerra e fu gran ventura che
non le mancassero prodi generali, che fosse ancora saldo il suo esercito e che, quando ci fu bisogno di
prendere le armi, fossero ancora al fianco del principe Seneca e Burro.
Regnava nell'Armenia Mitridate, fratello di Farasmane rè degli Iberi. Quest'ultimo spinto dal proprio figlio
Radamisto, mosse guerra al fratello, lo costrinse a venire a patti nella fortezza di Gorneas, lo fece poi
uccidere con i figli e la moglie e pose sul trono Radamisto. Questi fatti provocarono l'intervento di Vologeso
re dei Parti, il quale mandò in Armenia suo fratello Tiridate. Questi occupò senza colpo ferire Artassata e
Tigranocerta (54), ma essendo sorta una grave epidemia di peste, fu costretto a ritirarsi e l'Armenia ritornò
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ancora in potere di Radamisto. Poco tempo dopo però gli Armeni che parteggiavano per Vologeso si
ribellarono e Radamisto dovette cercare scampo nella fuga e lasciare che il regno venisse rioccupato da
Tiridate.
Roma non poteva rassegnarsi alla perdita della sua influenza in quell'estrema e delicata regione del suo
impero e, poiché pareva cha Radamisto avesse deposta l'idea di ritornare in campo per risalire sul trono
perduto, decise d' intervenire. Da un canto cercò di procurare fastidi a Vologeso mettendogli contro il figlio
Vardane, dall'altro diede ordine al governatore della Siria Unmidio Quadrato e ai principi dell'Asia di
approntare truppe e inviò in Oriente, affidandogli il governo della Galazia e della Cappadocia, Domizio
Corbulone con sei legioni.
Intimorito da questi preparativi, Vologeso ordinò alle sue milizie di lasciare l'Armenia e chiese pace a
Corbulone mandandogli ostaggi.
Più che una pace fu tregua. Nella primavera del 58 la guerra ricominciò. A Corbulone si era unito Faresmane
coi suoi Iberi e invano Tiridate cercò di vincere i Romani stancandoli con una implacabile guerriglia:
l'Armenia fu invasa, tre piazzeforti furono prese d'assalto in un giorno, furono uccisi gli uomini validi e venduti
all'asta le donne e i fanciulli e la capitale Artassata, impetuosamente investita, essendo stato l'esercito di
Tiridate sbaragliato, si arrese il 30 aprile del 59. La città venne distrutta dalle fondamenta. Tiridate, che si era
rifugiato nella Media, tentò di muovere alla riscossa, ma fu respinto, i Mardi che avevano prese le armi
contro i Romani furono vinti dagli alleati Iberi e Corbulone con una marcia faticosissima portò il suo esercito
a Tigranocerta la occupò e la ridusse in suo potere.
Conquistata l'Armenia e messo sul trono Tigrane, nipote di Archelao re della Cappadocia, Domizio
Corbulone partì per la Siria, il cui governo gli era stato assegnato essendo morto Unmidio Quadrato. La
guerra però non tardò a riaccendersi : tortissimo era in Armenia il partito contrario al nuovo re e Tiridate
aspirava sempre a risalire sul trono perduto. Vologeso era stato fino allora impegnato in una guerra contro i
Saci e gli Ircani; appena ebbe libertà d'azione, egli decise di aiutare il fratello e, stretta alleanza con gli
Adiabeni, radunò un fortissimo esercito, di cui una parte al comando di Monese mandò in Armenia, l'altra la
guidò egli stesso verso l'Eufrate per impedire ai Romani di correre in aiuto di Tigrane. Questi però si era
ridotto a Tigranocerta, vi si era fortificato e teneva testa agli Adiabeni che avevano assediata la piazzaforte,
mentre due legioni romane mandate dalla Siria, guidate da Verulano Sebero e Vettio Belano ostacolavano le
operazioni del nemico. Sull'Eufrate intanto Corbulone provvedeva alla difesa del confine e minacciava di
invadere il regno dei Parti. Di fronte al contegno del generale romano, Vologeso venne ad una tregua con
Corbulone, fece ritirare Monese da Tigranocerta e spedì ambasciatori a Roma per trattare la pace. Fallite
però le trattative, la guerra fu ripresa. Riunitisi i due corpi in un solo esercito, Vologeso marciò verso
l'Armenia. A contendergli il passo fu inviato Cesennio Peto, il quale, passato l'Eufrate, puntò su Randeja.
Superiori di forze erano i Parti e Peto chiese soccorsi urgenti a Corbulone, ma, tardando questi a giungere, e
trovandosi le truppe romane d'Armenia in difficili condizioni, Cesennio venne a patti col nemico, gli cedette le
vettovaglie, sgombrò i luoghi fortificati e si ritirò precipitosamente lasciandosi dietro i feriti.
Dopo questo successo, Vologeso offrì la pace a Corbulone a patto che questi ritirasse le truppe dalla sinistra
dell' Eufrate: le proposte vennero rifiutate e Corbulone, ricevuto da Roma il governo assoluto della guerra,
passò all'offensiva con grande energia. L'Armenia fu invasa dai legionari, ma la guerra non ebbe ulteriori
sviluppi : tra Corbulone e Tiridate si venne ad un accordo e si stabilì che Tiridate avrebbe regnato in qualità
di vassallo dell' imperatore e che si sarebbe recato a Roma per ricevere da Nerone le insegne regali.
Così aveva fine la guerra contro i Parti con Tiridate che partiva per Roma.
Oltremodo solenne fu l' incoronazione del re d'Armenia. ]Nel foro, tra le coorti pretorie e alla presenza di una
gran folla, ebbe luogo la grandiosa cerimonia. Nerone era seduto sopra uno scanno d'avorio, in abito
trionfale, circondato dalle aquile e dalle insegne militari. Tiridate salì i gradini della tribuna e si gettò ai piedi
dell' imperatore, -che, lo fece rialzare e abbraciatolo, gli pose sul capo il diadema, mentre un interprete
traduceva al spopolo le parole con le quali il sovrano vassallo giurava obbedienza e fedeltà. Dal Foro
Tiridate venne condotto in teatro prendendo posto alla destra di Nerone, il quale, quel giorno stesso, portò la
sua corona di allòro in Campidoglio e chiuse il tempio di Giano.
Meno lunga ma non meno drammatica fu la guerra in Britannia.
Capo militare della provincia britannica era Svetonio Paulino. Preso nel 59 il comando delle legioni, rivolse le
armi contro le popolazioni occidentali che ostacolavano fieramente la conquista romana, entrò nel Wales
costruì per la III Legione un campo (Chester) alla confluenza del Dee, fortificò Segonzio (Caer Seiont) e
passò il Menay, abbattendo con grande energia la resistenza degli indigeni.
Si trovava nell'isola di Mona, sede del druidismo al quale aveva dato un fierissimo colpo, quando gli giunse
la notizia che le popolazioni orientali si erano ribellate. Causa della insurrezione erano state l'avidità e la
ferocia dei conquistatori. Era morto Prasutago, rè degli Iceni (filoromano) il quale aveva lasciati suoi eredi le
sue due figlie e l'imperatore; ciò nonostante i Romani ne avevano invaso il territorio, lo avevano
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saccheggiato, i parenti del re erano stati fatti schiavi, la vedova malmenata ed oltraggiate le figlie. A
vendicare gli oltraggi patiti era sorta Budicca, moglie di Pratusago, la quale era riuscita a sollevare gli' Iceni e
i vicini Trinobanti, mettendo su un esercito di contomila uomini e marciando su Camulodunum. Qui stavano
di presidio pochi veterani romani, i quali dopo una vana resistenza si erano asserragliati nel tempio di
Claudio; ma dopo due giorni il tempio era stato espugnato, i difensori massacrati e la città data al
saccheggio e alle fiamme. Petilio Ceriale, legato della IX Legione, accorso in aiuto, era stato a sua volta
sconfitto e costretto a fuggire con la cavalleria; mentre Cato Deciano anche lui aveva ripreso il mare alla
volta della Gallia.
A marce forzate Svetonio Paulino si diresse verso il teatro della rivolta. Giuntovi, tentò di salvare Londinium
e Verulanium, ma i suoi sforzi non furono coronati dal successo e le due località caddero in mano dei ribelli.
Allora il generale marciò su Camulodunum, dove gli insorti avevano radunato la maggior parte delle loro
forze; qui Paulino costrinse i ribelli ad una battaglia campale e li sconfisse sanguinosamente. Budiccam
uscita salva dalla disfatta, si diede la morte ingoiando un potente veleno. La giornata di Camulodunum
segnò la fine dell'insurrezione ma anche l'inizio di feroci repressioni romane.
Rivolte che consigliarono il procuratore Giulio Classiciano, succeduto nel governo a Deciano, di chiedere a
Roma il richiamo di Svetonio Paulino, che venne mandato subito in Britannia al posto di Petronio Turpiliano; i
presidi furono rinforzati e si inaugurò con il nuovo comandante delle legioni una politica di conciliazione, che
doveva dare ottimi risultati.
In GERMANIA invece non avvennero per i Romani fatti di grande importanza e i legionari dedicarono la loro
attività ad opere pacifiche, fra le quali va ricordata la costruzione di una diga, che Druso aveva iniziata per
regolare il corso del Reno e che venne continuata da Paulino Pompeo, comandante delle legioni della
Germania inferiore.
Solo nel 57 fu necessario prender le armi per ricacciare un'invasione di Frisi. Guidati da Verrito e Malorige, i
due avevano occupate alcune terre destinate ai veterani, e, poiché Dubio Avito, che aveva il governo della
Germania inferiore, aveva intimato loro di tornare indietro, i Frisii si erano rivolti direttamente a Nerone per
ottenere il permesso di rimanere nel territorio occupato. Non avendolo ottenuto, si erano rifiutati di
sgombrare le terre invase. Allora Dubio Avito mandò contro di loro la cavalleria ausiliaria: non pochi Frisii
caddero uccisi o prigionieri, mentre gli altri dovettero abbandonare i luoghi. Ma un'altra popolazione
germanica si affrettò ad occuparli quella degli Ampsivari, guidata da Boiocalo, che aveva servito
nell'esercito romano al tempo di Tiberio e Germanico. Una popolazione quella di Boiocalo che era stata
costretta dai Chauci a cercarsi una nuova sede dopo averli cacciati dal loro territorio.
Avito cercò di corrompere Boiocalo ma si ebbe una fierissima risposta: "Potrà mancarci una terra in cui
vivere, ma non una terra in cui morire".
Boiocalo tentò di spingere i Tencteri e Bructeri contro i Romani, ma Avito non diede loro il tempo di
intervenire e gli Ampsivari furono costretti a ritirarsi nelle terre dei Tubanti e degli Usipii tra l'Amisia, il Vidrus
e la Luppia, poi in quelle dei Chatti e dei Cherusci, combattuti e cacciati da queste tribù germaniche, che li
ridussero ad un numero assai ridotto.
INCENDIO DI ROMA E PRIME PERSECUZIONI DEI CRISTIANI
Nella notte dal 18 al 19 luglio del 64 un terribile incendio scoppiò a Roma in vicinanza del Circo Massimo
dalla parte del Celio e del Palatino. Alimentato dall'olio, di cui erano pieni i magazzini di quel quartiere, e da
un vento fortissimo, in breve le fiamme si estesero su quasi tutta la città
Sei giorni e sei notti durò, poi sembrò che fosse cessato, ma improvvisamente si riaccese presso gli orti di
Tigellino e infuriò per altri tre giorni ed altre tre notti ancora:
Delle quattordici regioni di Roma solo le tre esterne, la I, V e VI e in parte la XIV di Trastevere furono
risparmiate dalle fiamme; le tre regioni tra il Circo e l' Esquelino, cioè la III, la X e la XI furono completamente
distrutte; le altre, più o meno, furono tutte danneggiate.
Nerone ricevette la notizia mentre era ad Anzio e quando seppe che il suo palazzo era minacciato dalle
fiamme corse a Roma, ma la sua presenza e i provvedimenti presi per salvare la reggia a nulla valsero ed
essa fu ridotta a un cumulo di rovine.
"Con essa vennero distrutte le case degli antichi generali, ornate delle spoglie dei nemici vinti, i templi
costruiti dai re di Roma o al tempo delle guerre di Gallia e di Cartagine, e tutti i più importanti monumenti
dell'antica repubblica (Svetonio).
TACITO afferma che l'imperatore durante una intera notte andò in giro senza guardie per dirigere i soccorsi.
I poveri e coloro che erano rimasti senza tetto, furono per ordine di Nerone ricoverati nella mole di Agrippa e
nei giardini imperiali: capanne e baracche vennero costruite ed arredate con tutto ciò che si riuscì a far
venire da Ostia e da altre località vicine; il prezzo del frumento fu portato a tre sesterzi a moggio. Qualche
storico riferisce (SVETONIO) che l'imperatore proibì alla gente di avvicinarsi alle rovine perché egli voleva
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prendere per sé quanta più roba poteva, e che certi consolari non osarono arrestare gli schiavi di Nerone
sorpresi nelle case con stoppa e fiaccole, convinti che fosse stato l'imperatore ad ordinare l'incendio.
Svetonio lo afferma recisamente- "urtato dal brutto stile degli antichi edifici e dall'angustia ed irregolarità delle
vie Nerone mise a fuoco la città".
Che fosse l'imperatore a volere l'incendio fu l'opinione di molti e qualcuno pensa che Nerone prese i
provvedimenti su accennati per soccorrere i danneggiati non per generosità d'animo ma per smentire le voci
che l'accusavano di essere l'autore dell'immane incendio.
Secondo altri, Nerone, in abito d'istrione, dall'alto della torre di Mecenate, contemplò a lungo l'orrendo
spettacolo, cantando la distruzione di Troia.
Nessuna prova però abbiamo della colpevolezza di Nerone, ma le voci che facevano ricadere sopra di lui la
rovina della città corsero e così insistenti che il governo per non far ricadere sull'Imperatore i sospetti,
accusò come autori dell' incendio i Cristiani.
I seguaci della nuova religione erano stati sotto Claudio espulsi dalla città, ma noi dobbiamo pensare che
non tutti si allontanassero. La morte di Claudio, la permanenza di S. Paolo a Roma che, arrestato a
Gerusalemme, vi era stato condotto perché come citttadino romano si era appellato al tribunale
dell'imperatore, la bontà della nuova dottrina che tanto eco doveva trovare nell'animo degli schiavi e dei
liberti di cui Roma abbondava, avevano influito moltissimo nel far sorgere una comunità cristiana nella
capitate dell'impero e la setta era senza dubbio numerosissima.
Essa reclutava la maggior parte degli adepti nello strato più basso della società, praticava segretamente i
suoi riti, ed era invisa agli Ebrei ed alle classi elevate: tutto ciò contribuì molto a dar credito accusa (se è poi
vera questa accusa
A questa seguì una persecuzione feroce, moltissimi cristiani vennero arrestati e vennero messi a morte fra i
più atroci tormenti; alcuni, ricoperti di pelli di fiere, vennero dati in pasto ai cani, altri furono crocifissi, altri
ancora legati in cima ad alti pali confitti lungo i viali dei giardini imperiali e bruciati.
Questi erano le fiaccole viventi che ardevano nella notte e facevano lume al feroce Nerone che sul suo
cocchio dorato si divertiva a percorrere i viali. Ma dalla bocca dei primi martiri non giunse all'orecchio del
truce imperatore una parola, un gemito, una preghiera. È il pagano Seneca che ce lo afferma: "Inter haec
tamen aliquis non gemuit; parum est: non rogavit; parum est; non respondit; parum est: risit et quidem ex
animo". La "martiorologia" fece poi il resto.
Ma abbiamo visto che anche molti fieri romani, morivano stoicamente.
Placata l'ira del popolo con la condanna e i supplizi dei Cristiani, Nerone pensò a ricostruire la città
incendiata. I famosi architetti Severo e Celerò tracciarono il nuovo piano regolatore e la nuova Roma iniziò
ad avere le vie larghe e diritte, case non molto alte fabbricate con pietra di Alba e di Gabio e portici davanti
gli edifici perché dalla sommità di quelli si potessero più facilmente spegnere gli incendi. Con le macerie
vennero in parte colmate le paludi di Ostia.
Con i quartieri distrutti della città risorse anche la reggia dell'imperatore. Nerone volle che la sua casa
superasse in grandezza e fasto tutte le regge del mondo; trentamila condannati vennero impiegati nei lavori
e le spese furono a carico di Roma e delle provincie, cui furono imposti nuovi tributi e nuove tasse. Due
liberti furono mandati in Grecia e nell'Asia Minore per scegliere le statue che dovevano servire di ornamento
alla nuova casa.
Questa fu chiamata col nome di domus aurea e si stendeva dal Palatino al Celio e all'Esquilino. "Per farne
conoscere la grandezza e la magnificenza -scrive SVETONIO- basti dire che nel vestibolo sorgeva una
immensa statua di Nerone alta centoventi piedi, che i portici, a tre Ordini di colonne, avevano una lunghezza
di mille passi; e il palazzo racchiudeva uno stagno vasto come un lago, edifici che pareva formassero una
grande città, con prati, campi, vigne, pascoli, boschetti popolati di armenti e di fiere. L'interno era tutto
dorato, con lavori in gemme e madreperla. Il soffitto della sale da pranzo era circolare ed aveva una cupola
girevole che come in cielo avvicendava il giorno e la notte. C'erano anche serbatoi di acqua albana e di
acqua marina. Quando ebbe terminato questo palazzo, nel consacrarlo Nerone lo lodò. con queste sole
parole: "che finalmente egli aveva una casa degna di un uomo". (Svetonio)
LA CONGIURA DI PISONE - PROCESSI E MORTI
Un principe malvagio come Nerone -ci viene narrato non certo dagli amici- non poteva non avere nemici.
Molti erano quelli che lo adulavano, ma moltissimi erano coloro che lo odiavano. Non tutti gli odi certamente
erano conseguenza dell'iniqua condotta dell' imperatore. Qualcuno, animato dall' ideale repubblicano, odiava
il tiranno, qualche altro, perché danneggiato nelle sostanze (chissà come messe insieme), odiava il prodigo
principe; chi l'odiava per oltraggi patiti, e chi per insoddisfatte ambizioni, chi perché si vedeva sacrificato ad
altri negli onori, e chi perché col suo ingegno aveva suscitato invidia nell'animo dell'imperatore.
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Fin dal 62 il malcontento serpeggiava a Roma e fin da allora forse cominciarono ad esser tessute le prime
fila della congiura che doveva esser scoperta nei. 65.
Ne facevano parte senatori, cavalieri, ufficiali delle coorti pretorie. Il capo era Cajo Calpumio Pisone, di
illustre famiglia, ricco, generoso, di bell'aspetto; primeggiavano tra i congiurati il senatore Plauzio Laterano,
console designato, Fenio Rufo, prefetto del pretorio, geloso del collega Tigellino, Subio Flavio, tribuno dei
pretoriani, ed Anneo Lucano, il più grande poeta del tempo.
Lucano era nato a Cordova, nel 39 da un fratello di Seneca; venuto a Roma in tenerissima età, era cresciuto
alla scuola dei più famosi maestri e presto si era fatto notare per la vivacità del suo ingegno, per un poema
Iliaca sulla caduta di Troia, e per un carme, Catachtonion. Da Atene, dov'era andato a perfezionarsi, era
stato richiamato a Roma da Nerone, che lo aveva nominato àugure e questore e lo aveva ammesso nel
ristretto numero dei suoi amici poi nel 60 lo aveva perfino incoronato nel teatro di Pompeo. Ben presto però
era venuto in odio all' imperatore, che per rivalità aveva -a quanto si dice- proibito al poeta di recitare versi o
difendere cause. Ostacolato nella sua carriera e nelle sue legittime ambizioni, Lucano era entrato nella
congiura di Pisone e in essa, ci dice Tacito, odia vivida intulit.
Secondo un biografo, il poeta aveva promesso ai compagni che avrebbe colpito per primo il principe; una
simile promessa aveva fatta pure il senatore Flavio Scovino che per uccidere il tiranno aveva sottratto da un
tempio un pugnale. Ma ne l'uno ne l'altro ebbero il tempo e la gioia di vibrare il colpo. Perché nel 65 la
congiura fu scoperta.
Era consapevole della trama e con molta probabilità vi partecipava, una liberta di nome Epicari. Questa,
trovandosi in Campania, tentò di fare entrare nella congiura un ufficiale della flotta di Miseno, che, avendo
avuto parte nell'assassinio di Agrippina e non essendo stato da Nerone adeguatamente ricompensato, non
nascondeva il suo malcontento. Ma costui, sperando di esser premiato dall'imperatore, denunziò Epicari la
quale venne immediatamente arrestata, ma, messa a confronto col delatore, lo confuse. L'arresto della
liberta fu tuttavia mantenuto, ma poiché nessun nome era stato fatto dalla donna all'ufficiale, non fu possibile
alla polizia neroniana di ottenere alcun risultato nelle sue attivissime indagini.
Fu il liberto Milico, cui a senatore Scevino aveva dato da arrotare il pugnale col quale durante i giucchi
circensi voleva colpire il tiranno, che denunziò la congiura. Flavio Scevino fu arrestato, ma interrogato, negò.
Siccome il giorno prima Scevino era stato visto a colloquio con Antonio Natale, anche questi venne chiamato
e subì un lungo e stringente interrogatorio sulle cose dette durante quel colloquio. Scevino e Natale caddero
in parecchie contraddizioni; Natale, minacciato della tortura, non seppe mantenersi sulla negativa e fece i
nomi di Pisone e di Seneca; Flavio Scevino, sapute le rivelazioni fatte da Natale, credendo ormai scoperta la
congiura, fece altri nomi, fra i quali quelli di Quinziano, Sessio Senecione e Lucano. Arrestati tutti e tre ed
allettati ognuno dalla promessa del condono, i primi due fecero i nomi dei loro migliori amici. Mentre Lucano
accusò sua madre innocente.
Il numero e la qualità dei congiurati spaventò non poco Nerone. Temendo per la vita e per il trono, si affidò
alla custodia della sua fedele guardia germanica ed arruolò nuovi soldati. Guardie furono messe nei templi,
fu raddoppiata la sorveglianza alla reggia, le vie furono percorse giorno e notte da ronde armate e gli arresti
fioccarono. Agli arresti seguivano gli interrogatori e le torture e a queste le condanne. Qualcuno dei
congiurati tentò di negare, poi di commuovere ed infine, condannato alla pena capitale, poi vi andò incontro
lamentandosi. Esempio di grande debolezza d'animo diede Fenio Rufo. Gli altri ufficiali delle coorti pretorie
diedero invece lezione di fermezza al loro indegno capo. Uno di essi il tribuno Subio Flavo, scagliò in faccia
a Nerone queste parole : "Io ti odio: nessun soldato mi superò in fedeltà fino a che tu la meritavi; ma
cominciai ad odiarti quando diventasti matricida, auriga, commediante e incendiario".
Insomma non erano soli i cristiani a morire con fierezza e con il sorriso sulle labbra, ma anche i "pagani"
romani; la dignità e la dirittura morale non è monopolio di una religione.
Epicari, messa alla tortura, continuò a negare e non si lasciò sfuggire dalla bocca alcun nome; infine con una
fascia che le avvolgeva il seno si strozzò da sola.
Calpurnio Pisone, pure lui non si lasciò prendere: quando seppe che i soldati venivano per arrestarlo, si
tagliò le vene e morì dissanguato. Era il suicidio di moda. Plauzio Laterano invece fu tradotto davanti al
tribunale imperiale e messo a morte senza che potesse salutare l'ultima volta i suoi cari.
Ad Anneo Lucano, la cui madre Acilia non venne molestata, fu dato da Nerone l'ordine di morire; il giovane
poeta si tagliò le vene dei polsi ed aspettò tranquillamente la morte.
Sentendo che le estremità gli si raffreddavano per l'abbondante perdita di sangue, cominciò a recitare un
suo carme, in cui descriveva la morte simile di un guerriero, e così cantando passò all'altro mondo.
Seneca era consapevole ma non partecipe della congiura, ma Nerone prestò fede alla denuncia di Antonio
Natale e volle che il suo antico maestro morisse. Non gli fu neppure concesso di far testamento. Il filosofo,
che alcuni avevano rimproverato di predicare, senza praticarla, la virtù, confermò con il contegno tenuto
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durante gli ultimi momenti della sua vita quel che aveva scritto nel De constantia, sapientis, che cioè le
ingiurie della sorte e gli oltraggi dei vili non valgono a turbare le anime generose (ma altri storici riferiscono
che Seneca piagnucolando implorò più volte il suo ex allievo, di lasciarlo vivere).
Al pari del nipote Lucano e di Plauzio si tagliò le vene dei polsi; ma il sangue non usciva in abbondanza per
cui egli si fece recidere le vene delle gambe; poi chiamò i suoi servi e dettò loro un discorso. Tardando la
morte a sopraggiungere, bevve, secondo l'esempio di Scorate, la cicuta; da ultimo per mettere fine alla vita
che non voleva andarsene si fece portare nel bagno dove cessò di vivere soffocato dai caldi vapori.
La moglie del filosofo, la buona e fedele Paolina, che gli era stata di conforto dopo che si era ritirato dalla
vita politica, volle seguire il marito. Condotta per ordine di Seneca in un'altra stanza, essa si fece tagliare le
vene; ma, saputo questo, Nerone ordinò che non fosse lasciata morire. Le sue ferite vennero fasciate e la
virtuosa donna visse ed ereditò una parte dei beni del filosofo.
Morte simile a Seneca fece il console Vestine, marito di Statilia Messalina. Egli non faceva parte della
congiura, ma Nerone era innamorato di sua moglie e per poterla sposare doveva sbarazzarsi del marito.
Ordinò quindi che fosse ucciso. Vestine venne arrestato e chiuso nella stessa sua stanza; quivi gli vennero
recise le vene, poi il disgraziato fu messo in un bagno caldo.
A queste, altre condanne colpirono gente che era invisa all'imperatore: Rufrio Crispino, già marito di Poppea,
fu cacciato da Roma; la medesima sorte toccò al retore Virginio Flavio, al filosofo Mozonrio Rufo e a
parecchi altri che vennero confinati nelle isole egee.
Premi vistosi ebbe il liberto Milico, Gervasio Proculo, che aveva denunziato Fenio Rufo, e il congiunto
Antonio Natale, vennero graziati; il Senato decretò ringraziamenti agli dei, stabilì che i giuochi fossero
celebrati con maggior numero di corse, che il mese di aprile, durante a quale era stata scoperta la congiura,
prendesse il nome di Nerone e, infine, che fosse eretto un tempio alla Salvezza.
Ma tutto non era finito: altri processi ed altre condanne vide l'anno 66. Cajo Cassio venne esiliato; Lucio
Giunio Silano confinato a Bario nell'Apulia venne trucidato dai soldati; pure all'esilio fu condannato P. Gallo,
amico di Fenio Rufo; Giulio Vetere, messo sotto processo, si diede la morte e con lui perirono la suocera
Vestia e la figlia Pollitta, vedova di Rubellio Plauto che era perito vittima, quattro anni prima, di Tigellino.
Perirono di lì a poco Anneo Mela, padre di Lucano, Rufrio Crispino, Ceriale Anicio e P. Anteio. Ostorio
Scapula, che si era distinto nella Britannia, trovandosi in Liguria, ebbe l'ordine di darsi la morte. Egli si fece
reciderete vene, poi, uscendo poco sangue dalle ferite, con l'aiuto d'un servo si diede una pugnalata alla
gola.
Famosa è rimasta la fine di Cajo Petronio, cui Tacito dedica due capitoli (18 e 19) degli Annali: "La sua
giornata era un continuo dormire; di notte attendeva ai bisogni della vita e ai divertimenti. Giunto con
l'ignavia a quella notorietà che ad altri è procurata dal lavoro, egli non era, a giudizio degli uomini, un
crapulone e un dissoluto come sono tanti consumatori delle proprie sostanze, ma un voluttuoso raffinato, e i
suoi atti e le sue parole tanto più avevano piacevole sembianza di semplicità quanto più mostravano di
trascuratezza e di abbandono. Proconsole della Bitinia e poi console, diede prova di fermezza e di capacità.
Tornato in seguito ad una vita che era o voleva essere depravata, ricevuto tra i non molti favoriti di Nerone,
fu nella corte dell' imperatore l'arbitro del buon gusto, il regolatore di tutto ciò che nello sfarzo fosse
leggiadria e finezza. Tigellino lo odiò avendo in lui visto il rivale, un rivale più esperto nell'arte della voluttà.
Egli pertanto eccitò la crudeltà, quel sentimento cioè che era più forte nell'animo del principe, e accusò
Petronio di amicizia con Scevino. Fu corrotto uno schiavo perché facesse da delatore, fu proibita la difesa; la
maggior parte dei servi venne arrestata. Era l'imperatore in quei giorni partito per la Campania; Petronio, che
lo seguiva ebbe a Cuma l'ordine di fermarsi. Ma egli non fu trattenuto dal timore o dalla speranza né, d'altro
canto, volle morire precipitosamente. Si tagliò le vene, poi le legò, indi di nuovo le riaprì: e si intrattenne con
gli amici a parlare giovialmente di cose né gravi ne grandi che restassero ad esempio della sua fermezza; né
rimase ad ascoltare sentenze di filosofi o precetti sull' immortalità dell'anima, ma canzonette e facili poesie.
Premiò alcuni schiavi, altri ne punì. Volle pranzare e dormire affinché la morte, sebbene imposta, sembrasse
naturale, Nei suoi codicilli non adulò Nerone o Tigellino come soleva fare la maggior parte dei condannati
alla pena capitale, ma sotto i nomi di giovinastri e di cortigiane egli scrisse il racconto delle turpitudini
imperiali fino alle ultime vergogne. Poi sigillò e mandò lo scritto a Nerone e ruppe l'anello perché non
servisse in seguito a far delle vittime".(Tacito, Annali).
Fra i processi del 66 degni di ricordo sono quelli contro Barea Sorano e Trasea Peto. Barea Sorano era stato
proconsole in Asia, ed era stato accusato di amicizia con Plauzio e di non aver punito i cittadini di Pergamo, i
quali avevano cercato d'impedire che Acrato portasse via dalla città quadri e statue per abbellire il nuovo
palazzo dell'imperatore. A Barea Sorano venne dato l'ordine di morire e lo stesso ordine fu dato alla figlia
Servilia, moglie di un esiliato, che era stata accusata di aver chiesto agli indovini quale esito avrebbe avuto il
processo del padre.
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Più gravi erano le accuse che si facevano a Trasea Peto. Egli era un senatore e fra tanti adulatori era il solo
che osasse mostrare la sua avversione all'imperatore. Quando il pretore Antistio era stato processato per
ingiurie a Nerone, egli con la parola era riuscito a render mite la condanna: invece che a morte Antistio era
stato condannato all'esilio. Dopo l'assassinio di Agrippina, in segno di protesta si era allontanato dalla Curia,
durante la lettura dell'epistola di Seneca; non era intervenuto quando erano stati resi onori divini a Poppea,
ne si era fatto vedere ai funerali dell'imperatrice, morta l'anno avanti. Né per questi motivi soltanto era inviso
a Nerone; Trasea Peto, padovano, aveva cantato e fatto l'attore nei teatri della sua città, era quindi dall'
imperatore considerato come suo rivale e questa era una colpa gravissima.
Quando Nerone tornò dalla Campania a Trasea Péto fu impedito di andare incontro al principe. Da quel dì la
sua sorte fu segnata. Un giorno di quell'anno (66) furono visti picchetti armati nelle basiliche, ronde di soldati
nelle vie e nelle piazze e due coorti pretorie intorno al tempio di Venere Genitrice. Qui era radunato il
Senato. Ai senatori un questore lesse una lettera di Nerone in cui fra le altre cose l' imperatore muoveva
rimprovero ai padri di poca assiduità alle sedute senatoriali. La lettera era un pretesto. Finita la lettura,
Capitone Comizione ed Espio Marcello si levarono a parlare ed accusarono Trasea Peto e il genero Elvidio
Prisco. All'accusa seguì la condanna: di esilio per quest'ultimo, di morte per l'altro.
Andò a portargli la sentenza un questore. Trasea Peto mostrò grande serenità: entrato nella sua camera, tra
la moglie Azzia e il filosofo Demetrio, suo amico, si fece recidere le vene. Al questore è fama che dicesse:
"Libiamo a Giove liberatore! O giovane, ascolta: tenga il cielo lontano il presagio, ma è tuo destino vivere in
tempi pei quali è cosa utile fortificare gli animi con esempi di fermezza".
LA RIVOLTA DELLA PALESTINA
Forse per dar tregua ai rimorsi, o forse anche per brama di veder nuove cose e di ricevere nuovi applausi,
Nerone partì per la Grecia. Qui partecipò ai giuochi istmici, nemei, olimpici, pitici, argolici, fece l'auriga e
l'attore, cantò e suonò sulle scene, applaudito sempre e dichiarato vincitore in ogni gara dai degeneri nipoti
di Temistocle. E Nerone, per premiare quasi i Greci delle soddisfazioni che gli avevano .procurate, proclamò
libera l'Acaja e venne adorato sotto il nome di Giove Liberatore.
Neppure in mezzo agli spettacoli e agli onori però tacque la sua ferocia. Durante il soggiorno in Grecia dell'
imperatore una nuova ed illustre vittima cadde: Domizio Corbulone. Non è detto che egli facesse parte della
congiura tramata a Benevento dal suo genero Vinicio alla quale accenna Svetonio, ma sappiamo perché un
ufficiale di lui Arrio Varo, di cui ci dà notizia Tacito, lo denunziasse. Corbulone fu richiamato dall'Asia e
appena giunse in Grecia ricevette da Nerone l'ordine di darsi la morte. Il prode generale impugnò la spada e
coraggiosamente si uccise esclamando: "Ne sono degno!".
Mentre si trovava in Grecia, Nerone ebbe notizia che una grave rivolta era scoppiata in Palestina.
Da tempo questa regione versava in tristi condizioni economiche. Le campagne pullulavano di affamati che
si erano dati al brigantaggio rendendo malsicure le vie ed i commerci; le città erano travagliate dai partiti che
si facevano una lotta spietata. Quello che aveva il sopravvento era il partito dei Sadducei, formato
dall'aristocrazia del paese che teneva le più alte cariche sacerdotali ed amministrative. Di contro ai Sadducei
stavano i Farisei che capeggiavano il partito democratico, forte del gran numero dei poveri. Accato a questi
due partiti, un altro se ne era formato che aveva carattere eminentemente religioso, quello degli Zeloti, che
aveva fatto moltissimi proseliti nelle campagne e che dicevano essere giunto il tempo della venuta del
Messia vaticinato dai profeti, che doveva salvare il popolo eletto e liberarlo dalla dominazione degli infedeli.
Nell'estate del 66 delle sommosse scoppiarono a Cesarea. Era questa città abitata da Greci ed Ebrei.
Nazionalità e religioni diverse che si odiavano e si contendevano l'amministrazione della città. La vittoria, per
decisione del governo di Roma, fu dei Greci che costituivano la maggioranza. Ma i Giudei non si
rassegnarono: dei moti scoppiarono in tutta la regione e fu a gran fatica che il re, Erode Agrippa II, ligio ai
dominatori, con l'aiuto dei Farisei, potè domare la rivolta più con la persuasione che non con la forza. Gli
animi, nell'attesa che Cestio Gallo, governatore della Siria, riesaminasse la situazione di Cesarea, erano
molto eccitati. Ad eccitarli ancora di più venne un ordine di Gessio Fioro, procu-ratore imperiale della
Giudea, il quale ingiungeva che si pagassero immediatamente di- ciassette talenti dei quaranta dei tributi
arretrati, minacciando di metter mano sui tesori del tempio di Gerusalemme. Il popolo si ribellò; si venne alle
armi ed ebbero luogo zuffe furiose in cui perdettero la vita tremila e seicento persone. Il tempio fu occupato
dagli Zeloti capitanati dal feroce Eleazar, figlio di Anania; costrinsero alla resa il castello di Masada
(settembre del 66) massacrandone il presidio.
La coorte romana, lasciata da Floro a custodia di Gerusalemme, dovette arrendersi ma poi fu barbaramente trucidata. A questi avvenimenti seguirono immediate e sanguinose rappresaglie antisemitiche; a
Tiro, ad Acri, ad Ascalona, a Hippo, a Gadera e a Cesarea agli Ebrei venne data una caccia spietata;
ventimila ne furono uccisi nella sola Cesarea. Ad Alessandria il popolo e i soldati fecero strage di Ebrei; ne
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perirono circa settantamila. Dal canto loro gli Ebrei vendicarono queste morti sulle popolazioni greche e sirie
di Filadelfia, Gerosa, Hesebon, Pella e Scitopoli.
Intervenne allora Cestio Gallo che affidò un forte esercito ad Erode Agrippa. Questi, entrato in Palestina,
mise a ferro e a fuoco parecchie città, poi si accampò a Gabaon, dove dovette sostenere un furioso
combattimento coi ribelli che gli cagionarono delle considerevoli perdite. Agrippa mandò a Gerusalemme
due parlamentari promettendo agli abitanti il perdono purché deponessero le armi, ma uno fu ucciso e l'altro
ferito.
Cestio Gallo allora assalì la città e ne occupò i quartieri bassi, ma quando volle impadronirsi della parte alta,
venne vigorosamente respinto e dovette battere precipitosamente in ritirata in direzione di Antipatri
(novembre del 66).
La notizia di questa sconfitta trovò Nerone in Grecia. L'imperatore richiamò Cestio Gallo e mandò al governo
della Siria Cajo Licinio Muciano. Il comando della guerra in Palestina venne affidato a Tito Flavio
Vespasiano, che nel 51 era stato console, governatore della provincia d'Africa nel 61 e aveva combattuto
valorosamente contro i Britanni nell'esercito di Svetonio Paulino.
Vespasiano entrò in Palestina alla testa di sessantamila soldati. Il comando della Galilea era stato dai ribelli
affidato allo storico Giuseppe, ma, comparsi i Romani, gli Ebrei fuggirono e solo una parte si asserragliò
entro le mura di Jotapat, dove resistettero accanitamente per quarantasette giorni perdendo quarantamila
uomini. Ma alla fine dovettero capitolare. Giuseppe, fatto prigioniero, sposò la causa dei nemici della sua
patria.
Caduta Iotapat, la Galilea fu perduta pei ribelli che pur tuttavia difesero molto valorosamente le loro città.
Furono espugnate Giaffa, Joppe, Gamala, Tiberiade e Tarichea: in quest'ultima città dodicimila vecchi furono
trucidati e trentamila Giudei uccisi. Vespasiano credeva con questi atti di ferocia di atterrire il nemico e non
fece che inasprirlo. In Gerusalemme il partito dei moderati (Farisei) che voleva venire a patti coi Romani fu
sopraffatto e gli Zeloti, guidati da un altro Eleazar, figlio di Simone, e da Giovanni di Giscala chiamarono in
aiuto la fortissima tribù degli Idumei, al cui arrivo Gerusalemme divenne teatro di ferocissime lotte: dodicimila
Farisei vennero trucidati; fra questi il supremo sacerdote.
A Vespasiano non potevano non piacere queste lotte intestine nelle quali i suoi nemici s'indebolivano. Egli
ne approfittò: l'Idumea, la Perea e la Samaria caddero nelle sue mani; Gerico resistette a lungo, ma nel
maggio del 68 cadde anch'essa. Non rimaneva da conquistare che Gerusalemme. Vespasiano si preparava
a fare l'ultimo sforzo quando l'annuncio di un gravissimo avvenimento gli fece sospendere le operazioni
guerresche.
Nelle province occidentali dell'impero era scoppiata la rivoluzione.
RITORNO DALLA GRECIA - LA MORTE DI NERONE
RIVOLTA DI SULPICIO GALBA E DI VINDICE
Verso la fine del 67 Nerone lasciò la Grecia e fece ritorno in Italia. A Napoli entrò come un trionfatore, sopra
un carro tirato da cavalli bianchi, attraverso una breccia praticata nelle mura.
Soggiornava a Napoli quando gli giunse la notizia che in Gallia era scoppiata la rivoluzione. Nerone non
mostrò preoccuparsene e solo dopo otto giorni scrisse a Roma ordinando ai senatori di punire i ribelli. Poi
partì da Napoli e si diresse alla volta della capitale.
Ad Anzio e ad Albano entrò trionfalmente. Per l' ingresso a Roma usò il carro di Augusto.
"Nerone era vestito di porpora, indossava un manto tempestato di stelle d'oro e portava sul capo la corona
vinta nei giuochi olimpici; nella mano destra teneva quella guadagnata nei giuochi pitici ; le altre corone
erano portate davanti a lui con iscrizioni che dicevano dove, da chi, con quali canti e con quali argomenti egli
le avesse meritate. Una folla plaudente seguiva il carro gridando il trionfo di Cesare. Fatta abbattere la porta
del Circo Massimo, attraversò il Foro per recarsi al tempio di Apollo Palatino. Lungo il percorso venivano
immolate vittime e gettati profumi, uccelli, ornamenti e confetti.
Giunto a casam collocò le sue corone nella sua camera, attorno al letto e vi fece porre la sua statua in abito
di musico" (Svetonio).
Terminate le feste del suo ritorno, non convocò ne i Comizi ne il Senato, ma chiamò accanto a sé alcuni tra i
principali cittadini e passò il resto della giornata ascoltando certi strumenti musicali ad acqua di recente
inventati. Intanto giungevano dalla Gallia gravissime notizie. Nerone però non sapeva che consiglio seguire.
Ebbe per un mo mento il pensiero di ordinar la morte di tutti i governatori delle province, di far tru cidare tutti
gli esuli e i Galli che si trovavano a Roma, di incendiare la città e far divorare il popolo dalle belve ; poi
destituì i consoli, fece apprestare i fasci ed annunziò di volersi recare sul teatro della rivolta, dichiarandosi
sicuro che i ribelli al solo ve derlo si sarebbero pentiti.
Facendo i preparativi della partenza, il suo primo pensiero fu, quello di provve dere a i carri che dovevano
portare gli strumenti musicali ; fece tagliare i capelli alle cortigiane che avrebbe condotte con sé e le armò di
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targhe e di scuri a guisa di amaz zoni ; fece prestare il giuramento di fedeltà alle tribù di Roma e ordinò la
leva, ma sic come non si presentava nessuno obbligò i padroni a fornirgli un certo numero di schiavi.
Per trovare denaro fece pagare prima del tempo le imposte, ordinò che i proprietari di case versassero
immediatamente all'erario i tributi dovuti e si diede a raccogliere tra i cittadini monete d'argento e d'oro. I
provvedimenti fiscali presi accrebbero gli odi contro di lui. Una mattina si trovò sotto la statua dell' imperatore
questa iscrizione: " Ora è tempo di combattere e di riportare la palma", e sulle colonne del Foro quest'altra: "
I galli, cantando, lo hanno svegliato".
Di notte molti, fingendo di litigare con gli schiavi, chiedevano ad alta voce un Vindice.
Cajo Giulio VINDICE era il promotore e il capo della rivolta gallica. Proveniva da nobile famiglia aquilana ed
aveva il governo della Gallia Lugdunense. Fra le popolazioni della Gallia meridionale e centrale aveva
raccolti circa centomila armati e con questi si proponeva di scuotere il giogo del tiranno e di ripristinare
l'autorità del Senato e del popolo, e nel marzo del 68 giurò fedeltà con gli insorti.
Il moto insurrezionale della Gallia ebbe immediate ripercussioni nella Spagna, dove un altro ne scoppiò
capitanato da Galba, governatore della Provincia Tarraconese. Antica e nobile era la sua famiglia, Galba
diceva che discendeva da Giove. Alla casa Sulpicia apparteneva quel Sergio Galba che aveva massacrato
settemila Lusitani ed aveva dato origine alla guerra di Viriato.
SULPICIO GALBA era nato in una villa presso Terracina. Sua madre, Mumsuia Acaica, discendeva da Lucio
Mummio distruttore di Corinto, la sua matrigna Livia Ocella era della famiglia di Augusto. Rimasto vedovo di
una Lepida, aveva rifiutato di passare a seconde nozze con la madre di Nerone ; era stato governatore
dell'Aquitania per un anno e poi console per sei mesi ; trovandosi al comando delle legioni del Reno, durante
il principato di Caligola, aveva respinto una invasione di Germani ; morto il crudele pazzo, non aveva voluto
seguire i consigli di coloro che lo spingevano a presentarsi alla successione ; console una seconda volta, era
stato per un biennio in Africa, dove aveva lasciato una fama di severità ma anche di equità. Da Nerone era
stato mandato al governo della Provincia Tarraconese dove si trovava da otto anni.
Avuta notizia della insurrezione di Vindice, innalzò anch'egli il vessillo della rivolta ; proclamato imperatore
dalle sue truppe, si disse legato del popolo e del Senato di Roma e, poiché non aveva con sé che una sola
legione, tre coorti e due squadroni di cavalleria, si diede a radunare truppe ausiliarie e si formò una guardia
del corpo di giovani cavalieri scelti cui pose il nome di Evocati.
Fecero causa comune con Galba il governatore della Lusitania Salvie Otone, cui Nerone aveva tolta la
moglie Poppea, Aulo Cecina, questore della Betica, e L. Clodio Macro, legato di Africa.
Malgrado questi aiuti il moto di Galba non presentava molte probabilità di successo. Ignote erano le
intenzioni delle legioni d'Oriente e decisamente avverse erano le truppe del Reno che costituivano il nerbo
più numeroso ed agguerrito delle truppe imperiali. Erano queste legioni comandate da Virginio Rufo.
Chiamato dai Lugdunesi che si erano rifiutati di seguire Vindice, Virginio Rufo alla testa di trentamila uomini
invase la regione dei Sequani e nel maggio del 68, sotto le mura di Vesonzio (Be sancon), sconfisse
l'esercito di Giulio Vindice, il quale, visto fallito il suo moto, si uccise.
Con la morte di Vindice e la sconfitta dei Galli la rivoluzione riceveva un fiorissimo colpo. Ma Nerone non era
uomo da trarre profitto dagli avvenimenti e da sfruttare la fedeltà delle legioni del Reno ; egli anzi, come
abbiamo già viso, si rendeva odioso a Roma e cominciava a perder terreno fra gli stessi pretoriani.
TIGELLINO, che se avesse saputo le vere condizioni di Galba si sarebbe forse mantenuto fedele a Nerone,
ma credendo insostenibile la situazione di Nerone, avviava segreti maneggi con un amico di Sulpicio Galba,
e Nimfidio Sabino, prefetto del pretorio, prometteva trentamila sesterzi a testa a nome di Galba alle coorti dei
pretoriani.
Le notizie di quanto avveniva a Roma posero fine alla fedeltà delle milizie del Reno, le quali si ribellarono
proclamando imperatore il loro comandante ; ma Virgi nio Rufo non accettò, lasciando mano libera a Galba.
La causa di Nerone era irrime diabilmente perduta.
L' imperatore perse la testa ; fece preparare navi ad Ostia e invitò i tribuni e i centurioni dei pretoriani a
fuggire con lui ; ma i primi ricusarono e i secondi gli diedero un aperto rifiuto, anzi uno di loro gli disse : " È
dunque cosa tanto difficile il morire ?". Nerone non sapeva più a quale partito appigliarsi. Voleva ritirarsi tra i
Parti, voleva andare a gettarsi ai piedi di Galba, pensava di vestirsi a lutto e domandar perdono al popolo
delle colpe commesse e, infine, se questo gli veniva negato, di chiedere il governo dell' Egitto. Temeva però
che la folla lo uccidesse.
Era il 18 di giugno. Nerone andò a letto senza ancora avere deciso nulla. A mezza notte si svegliò e dai suoi
servi apprese che la guardia lo aveva abbandonato ; allora mandò in cerca dei suoi amici, ma nessuno si
fece vivo. Uscì allora lui con pochi servi e si recò a bussare alle porte degli amici, ma queste rimasero
chiuse. Ritornato al palazzo, è fama che esclamasse : " Dunque non ho più un amico ? ". Temendo pure di
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rimanere in casa, cercò un luogo dove potersi celare. Il suo liberto Faonte gli offrì asilo in una villa tra la via
Salaria e la Nomentana, a quattro miglia da Roma.
Senza perder tempo, l'imperatore si mette addosso un logoro mantello, si maschera il viso con un fazzoletto
e salito sopra un cavallo, in compagnia di quattro persone tra cui è Sporo si mette in strada.
Un lampo, annunciatore di sventura, gli balena improvviso davanti agli occhi ; passando vicino al campo dei
pretoriani sente rumori di voci : sono alcuni soldati che imprecano a lui ed augurano a Galba la vittoria.
Un passante, scorgendo la comitiva, esclama: " Costoro inseguono Nerone"; un altro domanda : "Ci sono
novità a Roma su Nerone?". Nessuno dei fuggiaschi risponde. Un cadavere giace abbandonato sulla via : il
cavallo dell' imperatore si impenna e il fazzoletto cade a Nerone dal viso ; un pretoriano congedato lo
riconosce e lo saluta. Giunto ad una svolta della via, Nerone smonta e rimanda i cavalli, poi, strisciando tra i
cespugli e i canneti, perviene dietro la villa di Paone, passa per una breccia praticata nel muro e si stende
sopra un giaciglio in una stanza angusta e nuda.
Ma non può riposare. Paone ed altri lo esortano a fuggire : è un ospite pericoloso quell'uomo prima così
potente ed ora abbandonato da tutti. Nerone prega che gli si scavi lì accanto una fossa e il suo desiderio è
subito appagato.
Ed ecco giungere un messo con alcune lettere ; portano notizie gravissime : il Senato ha dichiarato Nerone
nemico della Patria e ha dato ordine che venga preso e punito secondo le antiche leggi, che sia cioè appeso
ad una forca e fustigato a morte. " Ah ! Quale artista muore con me !" esclama il principe impugnando due
pugnali. Ma non ha il coraggio di trafiggersi : piange, si dispera, si accusa di viltà. A un tratto uno scalpitare
di cavalli gli ferisce l'orecchio : sono i soldati che lo cercano. L'ultima ora del tiranno è suonata. Nerone
improvvisa un verso greco ed aiutato dallo scrivano Epafrodito si fa penetrare un pugnale nella gola. Un
centurione entra in quel momento nella stanza. Ha avuto l'ordine di prendere vivo l'imperatore e, vedendolo
ferito, cerca di arrestarne il sangue col mantello. "È tardi! Questa è dunque la tua fedeltà?" rantola Nerone. E
muore.
È il 19 giugno, l'anniversario della morte di Ottavia.
Nerone aveva pregato che non si consegnasse la sua testa ai nemici e che il suo corpo venisse subito
cremato. Icelo, un liberto che era stato imprigionato alle prime notizie della rivoluzione, permise che l'ultimo
desiderio dell'estinto imperatore venisse appagato.
...proseguiamo con gli anni (di GALBA ecc.) dal 68 al 69 d.C. > > >
L'ANNO 69 d.C.
Qui il riassunto PERIODO DEI FLAVI (Vespasiano, Tito, Domiziano) 69-96 d.C. * L'IMPERO DI
VESPASIANO - LA RIVOLUZIONE GALLICA * IL GOVERNO DI VESPASIANO-AMMINISTRAZIONE. * LA
GUERRA GIUDAICA - * TITO STERMINA GLI EBREI * MORTE DI VESPASIANO - TITO IMPERATORE *
L'ERUZIONE DEL VESUVIO - * MORTE DI TITO* GOVERNO DI DOMIZIANO - * AGRICOLA IN
BRITANNIA * L'UCCISIONE DI DOMIZIANO
-----------------------L'ANNO 69
*** QUATTRO IMPERATORI A ROMA *** GALBA - VITELLIO - OTONE - VESPASIANO *** INIZIA LA
DINASTIA DEI FLAVI
Il 1° GENNAIO inizia molto male per il nuovo imperatore GALBA. Due legioni romane sul Reno a Magonza,
chiamate a fare il solito giuramento dell'inizio anno, fanno una rivolta, abbattono la nuova statua
dell'imperatore appena giunta da Roma, e minacciano di scendere in Italia con un nuovo imperatore;
rifiutano Galba per il motivo che dopo aver dato l'appoggio a Vindice e ottenuto il suo scopo, molte
promesse non sono state mantenute, alcune tribù romanizzate che vi avevano partecipato, i Treveri e i
Lingoni del Reno, furono privati perfino del loro territorio dai sostituti subentrati a Galba. In questo
malcontento generale trovarono un nuovo capo che difendeva le loro ragioni, VITELLIO, ma forse costui
anche per tentare un colpo di stato a Roma.
Dalla stessa Roma del resto giungono notizie non molto buone. Galba sta comportandosi peggio di Nerone.
Non ha tatto con nessuno, nemmeno con chi lo ha favorito a prendere il potere. Quel capo dei pretoriani che
aveva persuaso i soldati ad acclamare Galba imperatore, promettendo ad ognuno 30.000 sesterzi, convinto
che il nuovo imperatore lo avrebbe fatto suo braccio destro, non solo viene destituito da un suo protetto,
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Cornelio Lacone, ma Galba rifiuta di pagare i soldati adducendo il motivo che lui "i soldati li sceglieva, non li
comprava".
Non pensa minimamente che ora agendo così li ha tutti nemici.
E di diplomazia e tatto Galba non ne ha nessuna quando dai cittadini esige, per riempire le casse dello
stato, la restituzione delle somme che Nerone ha loro distribuito. Altri potenziali nemici!
Intanto intuito il pericolo proveniente dalla Germania, Galba (ha 73 anni) subito nomina il 10 GENNAIO suo
successore, Pisone Liciniano. Deluso qui rimase SALVIO OTONE il governatore della Lusitania (quel marito
che Nerone allontanò da Roma per avere prima come amante e poi come moglie Poppea). Per rancore e
per vendetta postuma, Otone aveva dunque aiutato Galba nella sua impresa, sperando di essere nominato
suo successore. Ora vedendosi ignorato dalla sua ingratitudine, decise invece di agire. Galba si è fatto così
un altro nemico!
Otone trovò subito dei buoni alleati in quei pretoriani che non avevano ricevuto i soldi e che erano stati
anche umiliati. Siamo così dunque al 15 GENNAIO, dove 23 pretoriani dopo aver fatto accomodare Otone
nella lettiga lo portano all'accampamento fuori Roma e lo proclamano come nuovo imperatore.
Nel palazzo giunse la notizia, e Galba era senza speranza, truppe a disposizione non ne aveva, la sua
legione imprudentemente era stata mandata in Pannonia e i soldati che aveva maltrattato non erano certo
una garanzia per affrontare il rivale. Sembrava spacciato, quando giunse la notizia che Otone era stato
catturato e ucciso, e lo si invitò a scendere con tutti i suoi amici nel foro, dove si era radunata molta gente
per festeggiare il suo scampato pericolo. Era la trappola tesa da Otone che voleva che tutta Roma vedesse
cadere sotto i pugnali dei suoi soldati Galba e tutta la sua compagnia. Fu un massacro.
Otone ricevette subito buona accoglienza da chi era stato angariato e umiliato nei 7 mesi dal meschino e
rozzo Galba, del resto Otone era intelligente e vantava antica nobiltà. Ma sul Danubio c'era Vitellio, gia'
proclamato imperatore sia dalle sue truppe che da quelle della Germania superiore e della Rezia cui si
affiancarono quelli dell'Aquitania, della Spagna e della Britannia. Tutte si erano già mosse verso l'Italia
ancora prima dell'assassinio di Galba.
Otone gli inviò incontro messaggeri con proposte di pace, di accordi, qualche compromesso, ma i 100.000
avevano in più parti varcate già le Alpi con una furia scatenata. Ai primi di MARZO erano a nord del Po a
Piacenza dove incontrarono sull'altra sponda le truppe di Otone che avevano a disposizione numerosi
generali, ma tutti incapaci e invidiosi l'un l'altro, non si misero nemmeno d'accordo dove attraversare il fiume
da Cremona a Piacenza, punto cruciale dell'invasione.
Le truppe di Vitellio invece di affrontare le truppe di Otone che venivano da est, dalla strada Postumia
cominciò a costruire un ponte sul Po, vicino a Cremona, un ponte che avrebbe permesso di attraversare il
fiume e prendere alle spalle le truppe otoniane.
La sorpresa riuscì con la battaglia di Bedriacum (l'odierno paese di Calvatone), il 16 APRILE: Fu sbaragliato
l'esercito di Otone, che storicamente ebbe il grande torto di non essere presente di persona, non sfruttando
così il grande vantaggio dell'attaccamento che le sue truppe avevano nei suoi confronti, li lasciò in mano a
degli incompetenti comandanti, perfino potenziali traditori; infatti, Cecina, Valente e Paolino quando
incontrarono Vitellio dissero che la battaglia era stata persa grazie al loro tradimento. Non così molti soldati
di Otone che lo amavano e quando lui nella disfatta prima di essere catturato si tolse la vita, molti lo vollero
seguire nella tomba.
VITELLIO che si trovava ancora in Gallia, ma sempre pronto ad una eventuale avanzata di soccorso in Italia,
venne raggiunto dalla bella notizia. Ma alle truppe vittoriose che vi avevano partecipato dislocate e ora
inoperose a Cremona e a Bologna, mandò a dire, umiliandole (un altro privo di tatto) di prendere piccone e
badile e costruire sul posto un grande anfiteatro a suo nome. Poi commise un altro grave errore, quello di
disarmare le truppe scelte di Otone, tutti pretoriani, e di congedarle. L'umiliazione per questi soldati che si
consideravano parte vitale di un celebrato corpo scelto fu molto sentita. Comunque i frutti di questa
amarezza li seppe poi cogliere molto bene Vespasiano.
VITELLIO scese poi in Italia, fece una frettolosa sua presenza a Cremona e Bologna per assistere più che
alle feste della vittoria, al massacro dei gladiatori nelle due arene che in tempi da record aveva fatto
costruire, poi con 60.000 uomini, quattro legioni, dodici distaccamenti di cavalleria e trentaquattro coorti di
fanteria, marciò verso Roma, dando il permesso alla sua masnada di razziare quanto c'era di buono lungo il
percorso. La marcia fu una serie di delitti e di scempi. Quando giunsero nella capitale, molti accorsero per
salutare i vincitori, ma il troppo ingenuo zelo dei romani e il sangue che era arrivato alla testa di questa orda
inferocita, si ritrovarono tutti con le donne stuprate e molti di loro massacrati.
Il nuovo imperatore iniziò a comportarsi come un volgare tiranno, altro che Nerone! Attirò su di sé il
disprezzo e il disgusto, e la sua insaziabile avidità costò ai romani 900 milioni di sesterzi.
Ma durò poco, 75 giorni! Gli insulti che avevano ricevuto gli altri soldati, sia i pretoriani che i germani che
erano stati rimandati anche loro a casa a mani vuote, fomentò la vendetta. E questo malcontento camminò
lungo tutto il Danubio, fino in Asia, fino all'Eufrate e fino in Egitto. Crebbe l'intolleranza, e proprio dal
governatore d'Egitto, Giulio Alessandro, giunse l'appoggio di quattordici legioni che si mettevano a
disposizione per un nuovo candidato imperatore, che venne indicato dal governatore della Siria, Muciano
con VESPASIANO comandante dell'esercito in Galilea.
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Messosi in marcia sia Muciano che Vespasiano fulmineamente risalirono l'Asia minore, via terra tutta la
Dalmazia ed entrarono in Italia ad Aquileia, dove dalla Postumia raggiunsero prima Ostiglia, poi Cremona.
Qui trovarono l'esercito di Vitellio sfaldato e demotivato ancora con i calli nelle mani per i lavori umili cui
erano stati costretti a fare, per di più questi erano originari della Pannonia e della Dalmazia. Non ci volle
molto per aggregarli.
Vitellio a Roma non trovò altro buon generale che quel Cecina che prima aveva tradito Otone a Cremona,
ma già meditava un altro tradimento. Lo scoprirono i suoi stessi subalterni a Ostiglia mettendo nello
sconforto i pochi soldati ancora fedeli. Alcuni disertando, altri riunendosi con quelli di Cremona, aprirono
proprio ad Ostiglia la prima falla dentro l'esercito di Vitellio, che permisero a Vespasiano di passare il Po,
mettere in trappola i riottosi, vincere per poi proseguire su Bologna quindi verso Roma.
Nel frattempo ANTONIO PRIMO con le sue fresche truppe dalla Dalmazia entrava in SETTEMBRE a
Padova, proseguiva per Verona e mise lo sbarramento alla Val d'Adige che portava al Brennero per
prevenire una eventuale discesa dei Germani ancora fedeli a Vitellio, poi si diresse a Cremona. Una città
che era stata invasa in un anno due volte, che aveva dovuto sopportare abusi, razzie e stupri per dare il vitto
e i piaceri a 100.000 soldati. Poi questi irriconoscenti, per essere stati derisi quando costruivano il teatro, la
rasero persino al suolo.
Era il 18 OTTOBRE e a Roma Vitellio e i suoi uomini cercarono di preparare la difesa della capitale, mentre
le truppe di Antonio ormai camminavano spedite sugli Appennini senza incontrare resistenza. Il 18
DICEMBRE raggiunsero i Saxa Rubra, al di là del ponte Milvio. Il 20 DICEMBRE entrarono nella città. Lo
spettacolo per i romani fu assicurato non più nelle arene ma sulle pubbliche strade e piazze affollate di
spettatori. Il culmine lo si raggiunse quando catturato Vitellio, portato nello stesso foro dove era stato ucciso
Galba, fu ucciso tra le urla della folla delirante, beffarda e inferocita nello stesso tempo.
Con l'appoggio del Senato il 22 DICEMBRE fu nominato ufficialmente Imperatore VESPASIANO che si
trovava però ancora in Egitto. Inizia così la dinastia del FLAVI (gli seguiranno TITO e DOMIZIANO). A
guidare il governo fino a al suo arrivo a Roma assumono il potere il figlio DOMIZIANO e MUCIANO.
Roma chiude così uno dei suoi più movimentati anni della sua storia, vissuti dal primo all'ultimo giorno pieno
di colpi di scena. Anni drammatici come mai in passato, anche se non gli ultimi, infatti accadrà qualcosa di
simile nel 193.
====================
In Grecia si svolgono i CCXII giochi delle OLIMPIADI
PROSEGUI NELL'ANNO 70 >
Il PERIODO di GALBA - OTONE - VITELLIO dal 68 al 69 d.C.
* GALBA IMPERATORE - * L'UCCISIONE DI GALBA* OTONE CI PROVA MA C'E' VITELLIO ED E'
GUERRA CIVILE * L'IMPERO DI VITELLIO -* LA BATTAGLIA A BEDRIACUM * LA DISTRUZIONE DI
CREMONA * LA BRUTTA FINE DI VITELLIO
SULPICIO GALBA IMPERATORE
Mentre Vespasiano in Giudea ha già rallentato le operazioni di assedio di Gerusalemme, per seguire gli
avvenimenti politici a Roma dopo la morte di Nerone (e già le sue truppe in Galilea lo hanno proclamato
imperatore), in Gallia GALBA, dopo essere stato anche lui informato della morte da Icelo, e dopo aver
sconfitto Vindice che aveva anche lui certe ambizioni alla porpora, iniziò a marciare alla volta di Roma dove
vi giunse nell'ottobre e disponendo di un forte esercito (anche se poco fidato), il Senato allarmato gli
concesse i poteri imperiali.
Le legioni che risiedevano nelle province quasi tutte riconobbero il nuovo imperatore e più sollecitamente
delle altre quelle della Gallia, un po' meno nelle Legioni sul Reno che rifiutarono di riconoscerlo e
proclamarono per acclamazione il loro comandante Vitellio, che forte di un esercito iniziò anche lui a
muoversi per scendere su Roma.
Vespasiano invece dalla Galilea inviò presso Galba il figlio Tito per ricevere istruzioni.
GALBA aveva fatto questo grande passo alla maniera di Giulio Cesare, ma la situazione del nuovo principe
non era delle più floride; malgrado vantasse discendenza divina, mancava a lui quel prestigio che ai suoi
predecessori era dato dalla famiglia di Augusto né questa mancanza era compensata da grande fama e da
popolarità. Era un militare. Si aggiunga che Galba non disponeva di un numero considerevole di truppe
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fidate, che in grave deficit era il bilancio dello Stato e che molti erano gli appetiti di coloro che a Roma lo
avevano appoggiato appena era comparso nella capitale.
I primi atti del nuovo imperatore ci rivelano un uomo di corte vedute, privo di tatto, e di gretta politica. Egli è
dotato di una certa energia ma non ne ha tanta quanta ne occorrerebbe al capo di un impero così vasto; la
sua è un'energia di vecchio soldato che se può bastare per il governo di una piccola provincia o per il
comando di un gruppo di legioni è però insufficiente e inadatta per un organismo politico, amministrativo e
militare così grande, complesso e multiforme come era l'impero romano che nonostante le varie crisi, era pur
sempre organizzato con l'impronta che gli aveva dato Cesare prima e Augusto poi.
Gli fa anche difetto a Galba il senso dell'opportunità tanto necessaria per i tempi in cui egli vive, per gli
uomini fra i quali deve governare; e per un principe che non ha largo seguito e basi sicure.
Galba credette di agire con accortezza premiando le popolazioni che avevano risposto all'appello di Vindice,
alle quali condonò un quarto dei tributi e concesse la cittadinanza romana, ma punì sconsideratamente e
severamente Lugdunum e le altre città, che non avevano preso parte alla rivolta, cui confiscò parte dei beni.
E questo provocò il malcontento delle legioni di Rufo che in quei provvedimenti videro una disapprovazione
chiarissima alla loro azione.
Errori ne commise molti poi anche a Roma; invece di premiare Ninfidio Sabino che gli aveva preparato il
terreno favorevole, e che chiedeva la prefettura del pretorio a vita, se lo inimicò negandogliela, anzi dando il
comando dei pretoriani a Cornelio Lacene. Ninfidio cercò di ribellare le sue ex coorti all'imperatore, ma
queste forse per opportunismo rimasero fedeli a Galba e misero a morte il sobillatore. Un console designato,
accusato di complicità con Ninfidio, fu ucciso anche lui per ordine di Galba. Né fu il solo a perire: due capi
militari che non avevano voluto riconoscere il nuovo imperatore, Fontejo Capitone e Clodio Macro
governatore d'Africa, perdettero la vita.
L'amministrazione della cosa pubblica la abbandonò nelle mani di Tito Vinio Bufino, Cornelio Lacone e Icelo,
uomini avidi ed arroganti che vendettero favori e privilegi, impunità e condanne e contro il desiderio del
popolo che chiedeva si punissero Aloto e Tigellino, i sicarii neroniani, quest'ultimo lo protessero e al primo
concessero un lucrosissimo impiego.
Ai pretoriani - che lo avevano appoggiato sollecitati proprio da Ninfidio e che erano stati promessi lauti
donativi (30mila sesterzi): Galba, che era noto per la sua avarizia, disse loro con arroganza che era sua
abitudine arruolare i soldati non comprarli. Fiera risposta in verità e degna di un romano antico, ma
inopportuna e dannosa in un tempo in cui le coorti pretorie avevano in pugno il destino di un imperatore.
A Roma si trovava una legione composta di marinai che Nerone aveva tolti alla flotta di Miseno: Galba
ordinò che questi tornassero alle navi, e li invitò a lasciare le aquile e le insegne a Roma, e al rifiuto di questi
li fece caricare dalla cavalleria. La strage della legione marina suscitò un vivissimo malcontento nella I
Legione Adiutrix, che era anch'essa composta di marinai, che l'imperatore aveva condotti dalla Spagna.
Così GALBA si alienava gli animi delle poche truppe sulle quali in caso di bisogno avrebbe potuto e dovuto
contare e, non comprendendo che la sua vera forza era riposta in esse, licenziò senza premio la guardia
germanica accampando come pretesto la devozione che queste milizie nutrivano per Gneo Dolabella, e
rimandò in Spagna proprio quei legionari che lo avevano acclamato imperatore.
Innalzando il vessillo strappato alla rivolta, Galba aveva dichiarato di volere essere il legato del popolo e del
Senato, dando, come Giulio Vindice, al moto un carattere repubblicano; salito sul trono dell'Impero, anziché
dare autorità al Senato, mostrò il proposito di volere accentrare nelle sue mani tutti i poteri, facendo svanire
le speranze dei senatori e, con questo, le loro simpatie per il nuovo imperatore.
Fra tutti gli errori commessi, quello che doveva trarlo alla rovina fu il trattamento fatto a Virginio Rufo.
Vedendo in lui un futuro competitore, Galba lo richiamò dalla Germania superiore e mandò al suo posto il
vecchio e gottoso Ordeonio Flacco.
Le legioni, che erano state di Rufo, il 1° gennaio del 69, quasi per protesta, si rifiutarono di prestare
giuramento di fedeltà a Galba e fecero comprendere che loro volevano un principe eletto dal Senato e dal
Popolo. Qualche giorno dopo, le legioni delle Germania inferiore, di cui era stato capo Fontejo Capitone,
acclamarono il loro generale Aulo Vitellio imperatore e che venne riconosciuto tale dall'esercito dell'Alto
Reno.
Galba per conquistare il favore del Senato e far sì che non sorgessero aspiranti all'impero, pensò di
designare un successore e, poiché non aveva figli, adottò Cajo Pisone Liciniano, giovane di trentadue anni,
di severi costumi e discendente da Pompeo e da Crasso.
Il 10 gennaio Galba presentò il figlio adottivo al Senato e al campo dei pretoriani, ma se quello fu contento
della scelta, lieti non potevano essere questi che già credevano di avere acquistato il diritto di nominare gli
imperatori e con quell'adozione se lo vedevano sfuggire di mano. Inoltre la severità di costumi del designato
non era una qualità che potesse piacere ai pretoriani e al popolo, amanti dei donativi e delle feste.
SALVIO OTONE CI PROVA ANCHE LUI
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Del malcontento delle soldatesche e del popolo approfittò un uomo ambizioso e carico di debiti. Era questi
Salvio Otone, marito di Poppea, che per vendicarsi di Nerone aveva subito aderito al movimento di Galba e
sperava di esserne il successore.
Avendo visto, con l'adozione di Pisone Liciniano, fallire le sue speranze ed essendo premuto dai debitori,
Otone formò l'audace disegno di impadronirsi del supremo potere con una congiura. Aiutato dal liberto
Onomasto, guadagnò alla sua causa quindici pretoriani, a ciascuno dei quali regalò mille sesterzi. Questi a
loro volta procurarono ad Otone altri aderenti dentro le coorti pretorie, ma non erano molto sicuri che, giunto
il momento,altri si sarebbero uniti a loro.
Il 16 gennaio del 69 Galba faceva un sacrificio nel tempio di Apollo, quando nel Foro, presso la pietra miliare
dorata, un esiguo nucleo di pretoriani acclamò Otone imperatore e lo portò in lettiga al campo di porta
Nomentana, dove le coorti si dichiararono, pronte a seguirio.
Saputa la notizia, Galba mandò alcuni tribuni militari perché riducessero all'obbedienza le coorti pretorie e
diede incarico a Pisone Liciniano di curare che la rivolta non si propagasse alla guardia del palazzo. Le vie
della città intanto si riempivano di popolo, il quale, forse spinto dai senatori che non approvavano il moto,
forse perché si era sparsa la voce che la sedizione era stata domata, improvvisò una dimostrazione di
simpatia al vecchio imperatore e volle accompagnarlo al Foro.
Si narra che durante il tragitto, essendosi un soldato di nome Giulio Attico accostato alla lettiga in cui stava il
principe ed avendogli mostrata una spada insanguinata con la quale asseriva di avere ucciso Otone, Galba
gli dicesse: "Camerata, chi te lo aveva ordinato?"
Ma Otone non era stato ucciso e nemmeno era stata domata la rivolta. Ai ribelli si erano uniti i marinai e le
legioni; tutte queste truppe comandate da Salvie Otone entrarono in Roma.
Galba non aveva nessun corpo di soldati da poter opporre ai sediziosi; c'era il popolo dalla sua, ma il popolo
che lo accompagnava acclamante verso il Foro quando vide le soldatesche ribelli si dileguò e la lettiga
imperiale venne circondata dai soldati.
Galba, tratto fuori a forza, ricevette un colpo di spada nella gola. Stramazzato al suolo, il corpo del povero
imperatore fu straziato dalla soldataglia inferocita.
Morto Galba, sui suoi consiglieri ed amici si sfogò la furia dei rivoltosi. Tito Vinio fu trovato davanti il tempio di
Cesare e, nonostante gridasse di aver preso parte alla congiura, fu trucidato. Pisone, ferito in varie parti del
corpo, era riuscito a rifugiarsi nel tempio di Vesta con l'aiuto di un suo fedele centurione, ma, raggiunto, fu
trascinato fuori e nell'atrio venne ucciso.
Il popolo (come spesso capita) prese allora le parti del vincitore e cominciò a gridare: "Otone Cesare
Augusto" e il Senato, stupito dalla rapidità degli avvenimenti, si affrettò a radunarsi nel Campidoglio per
ratificare la elezione del nuovo imperatore.
Le teste di Galba, di Pisone e di Vinio, staccate dal corpo e infisse su picche vennero dai soldati portate in
trionfo per la città; il giorno dopo quella di Galba fu trovata presso la tomba di Patrobio, che l'imperatore
aveva fatto uccidere, e fu sepolta con le ceneri del corpo.
Degli altri amici di Galba, Aulo Lacone fu mandato in esilio e poi messo a morte, Icelo venne giustiziato,
Marco Celso invece fu salvo e ricevette molti onori. Tigellino non ebbe scampo e si uccise.
Otone, salito sul trono dell' impero per opera dei pretoriani, lasciò ad essi la nomina dei loro comandanti e
del prefetto di città. A questa carica venne innalzato Flavio Sabino fratello di Flavio Vespasiano che
comandava le legioni della Palestina, prefetti delle coorti pretorie furono fatti Plozio Firmo e Licinio Proculo.
VITELLIO E LA GUERRA CIVILE
Era Salvie Otone appena salito metaforicamente sul primo gradino del trono, quando giunse a Roma la
notizia che VITELLIO era stato acclamato imperatore dalle legioni della Germania Inferiore.
Dapprima Otone tentò di persuadere Vitellio a deporre l'imperio datogli dalle truppe, poi gli chiese in moglie
la figlia e gli promise onori e ricchezze, ma poiché il rivale gli rispondeva invitandolo a sua volta con molte
promesse a lasciargli il supremo potere, Otone stabilì di affidare la decisione alle armi. Egli aveva dalla sua
le legioni d'Africa, dell'Egitto, della Giudea, della Siria, del Danubio, della Spagna e dell'Aquitania, e se fin da
principio ne avesse richiamata una parte avrebbe senza dubbio impedito all'esercito avversario l'ingresso in
Italia.
Ma Otone indugiò parecchio e soltanto quando si accorse che la guerra non poteva essere evitata chiamò le
legioni danubiane e ne costituì due nuove con i gladiatori e gli schiavi.
Si erano schierate con Vitellio oltre che le truppe delle due Germanie, quelle della Britannia, della Gallia
Belgica, della Gallia Lugdunense e della Rezia; cosicché un potente esercito di settantaduemila uomini
marciava verso l'Italia.
Esso era diviso in due corpi: uno di trentaduemila soldati, al comando di Fabio Valente, entrava in Italia per il
valico del Cenisio; l'altro di quarantamila, guidato da Cecina Alveno, facendosi strada attraverso il paese
ostile degli Elvezi, raggiunta Martigny, passava le Alpi per il valico del Gran San Bernardo. Dietro venivano
le riserve sotto il diretto comando di Aulo Vitellio.
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All'annuncio dell'avanzarsi delle truppe avversarie, Otone lasciò al governo di Roma suo fratello Salvio
Tiziano, convocò in solenne assemblea il Senato e il popolo, sacrificò alle divinità, prese con sé Lucio
Vitellio, fratello del suo nemico e parecchi magistrati ed uomini consolari che dovevano servigli da ostaggi
più che da compagni, e partì dalla città.
Come quello nemico, così il suo esercito era diviso in due parti, una delle quali con la flotta doveva assalire
le coste della Gallia. Se si eccettui Licinio Proculo, prefetto dei pretoriani, l'esercito di Otone era fornito di
eccellenti comandanti: Svetonio Paulmo, Marco Celso, Annio Gallo, Marcio Macione e Spurinna. Mancava,
però, un capace generalissimo: ma non in migliori condizioni si trovava l'esercito di Vitellio tra i cui capi non
correvano buoni rapporti (inoltre Vitellio personalmente con c'era)
L'andamento della guerra pareva che fosse favorevole a quelle di Vitellio: la Spagna e l'Aquitania lo avevano
riconosciuto imperatore e i presidi della regione transpadana si erano schierati in suo favore; inoltre in
qualche scaramuccia di avanguardie i suoi avevano avuto facilmente ragione dei nemici. Saccheggiata difatti
la Liguria, questi vinsero Valente tra Antipoli (Antibes) ed Albigauno (Albenga); il presidio di Piacenza,
comandato da Spurinna, assalito da Cecina, al cui fianco cavalcava la moglie Solonina, si difese
valorosamente e costrinse il nemico a ripassare il Po e dirigersi alla volta di Cremona; nelle vicinanze di
questa città Marcio Macione, traversato il fiume, assalì improvvisamente le milizie di Cecina e inflisse loro un
notevole scacco.
Per rifarsi delle sconfitte patite Cecina cercò di far cadere il nemico in un' insidia, ma Svetonio Paulino la
sventò e, venuto a battaglia coi vitelliani, procurò loro una grave disfatta che si sarebbe mutata in un
irreparabile disastro se il duce degli otoniani avesse sfruttato la vittoria inseguendo i vinti.
Furono questi successi dell'esercito di Otone che consigliarono Valente e Cecina di mettere da parte le
gelosie e riunire le loro forze. Buona armonia non regnava invece tra i comandanti otoniani e discordi erano i
loro pareri sulla condotta della guerra: Svetonio Paulino, Annio Gallo e Spurinna volevano che si
temporeggiasse in attesa dell'arrivo delle legioni della Dalmazia e della Pannonia che avrebbero minacciato
le spalle e il fianco sinistro del nemico, invece Salvie Tiziano, che da Roma si era trasferito al campo,
Proculo e lo stesso Otone, imbaldanziti dai primi successi, erano di parere che si dovesse dar senza indugio
battaglia al nemico e porre fine sollecitamente alla guerra.
Prevalse il parere di questi ultimi: Otone, con parte delle troppe, dietro consiglio di alcuni dei suoi generali, si
ritirò a Brixellum (Brescello), il grosso dell'esercito si mise in marcia verso il nemico tra Bedriacum e
Cremona.
LA BATTAGLIA DI BEDRIACUM
Tra il Po e l'Adige ebbe luogo furiosa e cruenta battaglia che a Otone doveva costare l'impero. I suoi soldati
erano ancora in marcia e affaticati dal cammino quando si videro costretti ad accettare il combattimento dal
nemico di gran lunga superiore di numero. Pur tuttavia gli otoniani si batterono con grande bravura e la
legione della marina assalì con tanto furore la XXI Legione di Cecina da ributtarla e toglierle l'aquila.
Ma i vitelliani ritornarono all'attacco, respinsero sanguinosamente i marinai, tolsero loro parecchie insegne e
uccisero il comandante Orsidio Benigno. Allora la battaglia cominciò a volgere in favore di Vitellio. Stanco,
sfiduciato e decimato dopo aspra e non breve lotta, l'esercito di Otone ripiegò su Bedriacum. Quarantamila
uomini giacevano sul campo di battaglia.
Il giorno dopo i resti dell'esercito otoniano aprivano il campo alle truppe di Vitellio e facevano causa comune
con loro.
Malgrado ciò non tutto era perduto per Otone: gli rimanevano la guarnigione di
Piacenza e le milizie condotte con sé a Brescello, inoltre gli giungeva la notizia che le legioni del Danubio
erano arrivate ad Aquileja. Un uomo dotato di tempra più forte avrebbe deciso di resistere e di preparare la
riscossa; Otone invece si perse d'animo, si considerò senza scampo perdente e stabilì di darsi la morte.
Bruciò tutte le lettere che potevano compromettere i suoi amici, consigliò i soldati di affrettarsi a fare atto di
sottomissione a Vitellio, non volle dare ascolto agli incoraggiamenti di chi lo incitava a resistere, scrisse una
lettera alla sorella ed un'altra a Statilia Messalina, vedova di Nerone, che aveva intenzione di sposare,
distribuì ai suoi servi il denaro che aveva e, presi due pugnali, si ritirò nella sua camera. Dormì
tranquillamente alcune ore. Svegliatesi durante la notte, si vibrò una pugnalata sotto la mammella sinistra
nella notte del 16 aprile del 69
Aveva trentasette anni. Il suo impero era durato novantacinque giorni.
Al corpo del morto imperatore non vennero fatte esequie solenni, ma i soldati che avevano imparato ad
amare il giovane imperatore ne piansero la morte, gli baciarono, prima che fosse arso, le mani ed i piedi e
non pochi -si dice- per il dolore perirono volontariamente tra le fiamme del rogo.
L'IMPERO DI VITELLIO
Non si conosce con precisione l'origine della famiglia di Vitellio. Dicono alcuni che i Vitellii discendono da
Fauno, rè degli Aborigeni e da Vitellia che era adorata come dea; che regnarono nel Lazio, che stabilitisi a
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F. D'ALESSI - Letteratura latina - Parte III,1 - Il periodo imperiale - L'età dei Claudi
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Roma furono ammessi nell'ordine dei patrizi, che da soli difesero contro gli Equi una colonia; altri invece
sostengono che il capostipite fu un liberto o un ciabattino.
Il primo dei Vitelli di cui si abbiano notizie sicure fu Publio, di Nuceria, cavaliere romano, procuratore di
Augusto. Ebbe quattro figli: Aulo che morì mentre era console con Domizio padre di Nerone, Quinto che da
Tiberio venne rimosso dal Senato, Publio che accusò Gneo Pisone quale autore dell'avvelenamento di
Germanico e complottò con Seiano, e Lucio che fu console e censore sotto Claudio e grande adulatore di
Caligola.
Figlio di Lucio fu Aulo Vitellio. Visse fanciullo a Capri presso Tiberio, fu amico di Caligola col quale guidava i
cocchi e di Claudio con cui soleva giocare ai dadi e amicissimo di Nerone. Sposò prima una Petronia, poi
una Galena, di Fondi. Amico di Tito Vinio, ottenne per mezzo di lui il governo della Germania inferiore, ed
essendo pieno di debiti (in mano agli strozzini - vedi poi più avanti come li trattò) dovette affittare la grande
casa che possedeva e lasciare la moglie e i figli in una casa più piccola e modesta presa in affitto. Giunto
nella sua provincia si rese così popolare fra le legioni per la sua clemenza e prodigalità che un mese dopo fu
gridato imperatore.
Si trovava nella Gallie quando gli giunse la notizia della battaglia presso Bedriaco e del suicidio di Otone.
Così s'imbarcò sopra una nave parata a festa e, messosi in viaggio sulla Saóne, si diresse alla volta di
Lugdunum. Qui gli vennero incontro Cecina e Valente e i capi dell'esercito di Otone. Licinie Proculo e
Svetonio Paulino, per aver salva la vita, gli dissero che a loro era dovuta la vittoria di Bedriaco ed ottennero
lo scopo.
Intanto a Roma era pervenuto l'annunzio della sconfitta e del suicidio di Otone e forse anche della
sottomissione di Proculo. Era in corso la celebrazione dei ludi ceriali: i pretoriani e le coorti urbane
prestarono giuramento di fedeltà al nuovo imperatore, il popolo gremì il Foro applaudendo e, siccome Vitellio
era stato da Galba mandato in Germania e veniva considerato come una creatura del morto principe, si
infiorarono le immagini di Galba e sul luogo dove era caduto trafitto furono deposte numerose corone. Il
Senato, radunatisi in fretta, conferì a Vitellio il potere imperiale e tutti gli onori, furono decretati ringraziamenti
alle legioni del Reno e fu nominata una numerosa commissione che doveva andare a congratularsi a nome
dei padri col nuovo imperatore.
Mentre le legioni germaniche vittoriose si abbandonavano a saccheggi e a devastazioni nella valle del Po,
Vitellio, lasciata Lugdunum, scendeva in Italia.
Visitato il campo di Bedriaco, prese la via per Roma, seguito da numerose truppe.
Vitellio era un uomo famoso per la sua ghiottoneria: il suo viaggio attraverso la penisola fu una interminabile
serie di banchetti costosissimi, le cui spese andarono tutte a carico delle città. Famosa rimase la veglia data
nei gioghi dell'Appennino.
Entrò in Roma in abito da guerra, al suono delle trombe, tra le aquile e le insegne, alla testa delle truppe che
tenevano le spade sguainate. Il fratello Lucio Vitellio diede in onore di lui un grandioso banchetto in cui
furono, tra gli altri cibi, serviti duemila pesci scelti e settemila uccelli.
Ammaestrato dall'esperienza fatta da Galba, prima cura di Vitellio fu di circondarsi di truppe fedeli. La
legione dei marinai spagnoli venne mandata in Spagna; molti centurioni delle legioni illiriche vennero messi a
morte e le legioni stesse rimandate verso il Danubio; la XIV Legione, famosa per la repressione della rivolta
britannica, essendo più turbolenta delle altre, fu inviata in Britannia ed ebbe alle costole, durante il viaggio in
Italia, le coorti dei Batavi con le quali non era in buoni rapporti. A Torino, fra la legione e le coorti avvenne
una zuffa che avrebbe prodotto gravissime conseguenze se a frenare l'atteggiamento dei Batavi non fossero
accorse due coorti pretorie.
Il corpo dei pretoriani fu sciolto e fu ricostituito in sedici coorti di mille uomini ciascuna con elementi tolti alle
fidate legioni germaniche; anche le coorti urbane furono sciolte e rifatte con legionari del reno. In questi
mutamenti circa ventimila dei migliori soldati furono tolti alle legioni delle province germaniche. A Roma si
fidavano più dei germanici che degli italici.
Coi suoi nemici politici Vitellio volle esser clemente e non permise, difatti, che si toccasse il fratello di Otone,
e lasciò nella carica di console Mario Celso, ma fu severissinìo con gli astrologhi e coi suoi creditori. "Non
risparmiò -scrive SVETONIO- quasi nessuno degli usurai che avevano reclamato da lui cinicamente il loro
avere... Ne mandò al supplizio uno nel momento in cui veniva a salutarlo; poi, improvvisamente, ordinò che
tornasse indietro e, mentre tutti lodavano la sua generosità, egli comandò che fosse giustiziato sul posto per
godere della morte. Implorando due figli di un condannato la grazia del loro padre, fece morire anche loro.
Un cavaliere romano, che veniva condotto a morte, gli disse: "Ti ho fatto mio erede"; Vitellio volle leggere il
testamento e, avendo costatato che il cavaliere lo aveva nominato erede insieme con un liberto, fece
uccidere lui e il liberto".
Delle faccende dell'impero egli si curò molto poco e lasciò che se ne occupassero Valente e Cecina. Fu per
per merito di costoro se due moti di rivolta, uno nella Mauritania, l'altro nella Gallia, furono stroncati sul
nascere. In Mauritania venne ucciso il procuratore imperiale Lucio Albino che col nome di Juba voleva farsi
rè della provincia; in Gallia un certo Maricco aveva raccolto intorno a sé alcune migliaia di aderenti
proponendosi di dare la libertà alla sua patria, ma la ribellione fu prontamente repressa da alcune coorti
romane aiutate dagli Edui.
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Vitellio invece dedicava tutto il suo tempo alle feste e ai banchetti nei quali, durante il breve spazio di pochi
mesi, sciupò circa novecento milioni di sesterzi. Spesso egli si faceva invitare a pranzo, e ogni pranzo non
costava meno di quarantamila nummi. Scrive TACITO "....tutta l'Italia, dall'uno all'altro mare, fu saccheggiata
perché il grande ghiottone avesse squisite vivande; e le più autorevoli persone delle città e le città medesime
andarono in rovina a furia di imbandir mense".
Rimase famoso un piatto che Vitellio fece presentare in un banchetto e che per la sua straordinaria
grandezza fu chiamato lo scudo di Minerva: era pieno di fegati di certi pesci chiamati scauri, di cervelli di
fagiani e di pavoni, di lingue di fenicotteri e di animelle di murene pescate nel Mediterraneo dalla Siria alla
Spagna.
Scrisse a ragione uno storico che se Vitellio fosse rimasto più a lungo a capo dell'Impero questo sarebbe
stato divorato.
Lungo però non poteva essere il suo impero. Il popolino, è vero, era contento di lui per le feste che dava e
scontento non era il Senato, la cui autorità era cresciuta; ma il Senato e il popolo contavano pressoché
niente come Sostegno di un imperatore, le cui sorti riposavano sul favore dell'esercito.
Vitellio aveva l'appoggio dei pretoriani e delle legioni della Germania, ma era malvisto dalle milizie che
erano state favorevoli ad Otone, specialmente da quelle dislocate nelle regioni danubiane e dalle legioni
della Siria.
Queste ultime temevano di essere trasferite dall'Oriente in Germania; era insistente questa voce e loro non
potevano tollerare che solo le legioni germaniche si arrogassero sempre il diritto di eleggere l'imperatore.
Anch'esse facevano parte dell'esercito e non erano da meno delle legioni del Reno e della Spagna o di quei
pretoriani che comodamente vivevano a Roma, anzi avevano reso grandi servigi all' impero con la vittoriosa
guerra della Palestina e per ultima cosa avevano alla testa del loro esercito il più rinomato generale del
tempo: Vespasiano.
Su VESPASIANO corsero gli sguardi delle milizie d'Oriente, indignate dal vedere l'impero sotto la direzione
di un ignobile ghiottone. Il primo di luglio del 69 Tiberio Alessandro, che comandava le due legioni d'Egitto,
proclamò Vespasiano imperatore e a lui fece prestare dalle milizie il giuramento di fedeltà; il 9 dello stesso
mese le legioni di Giudèa giurarono pure queste nelle mani del loro generale, poi il loro esempio fu
immediatamente seguito da quelle di Siria, il cui governatore, Licinio Muciano, aveva caldeggiato l'elezione
di Vespasiano. A lui giurarono fedeltà anche le legioni della Mesia, della Pannonia e della Dalmazia; Soemo
re della Sofene, Erode Agrippa II e Antioco della Commagene si schierarono per il nuovo imperatore e
Vologeso, re dei Parti, offrì all'esercito di Vespasiano un aiuto di quarantamila arcieri, che però furono
rifiutati.
VESPASIANO non era di nobile famiglia; il suo avo Tito Flavio Petronio, di Rieti, aveva partecipato col grado
di centurione nell'esercito di Pompeo alla battaglia di Farsalo e, tornato in patria, aveva fatto il banchiere:
Sabino fìglio di questo, era stato riscuotitore d'imposte in Asia, poi aveva esercitato l'usura in Elvezia, dove
era morto lasciando la moglie Vespaia Polla e due figli, Sabino e Vespasiano. Quest'ultimo era nato a
Falacrine, presso Rieti; giovine cadetto in Tracia era poi stato nominato tribuno militare; creato questore, era
stato mandato a Cirene e sotto Caligola aveva ricoperto la carica di pretore. Dalla moglie Flavia Domitilla
aveva avuto tre figli, Tito, Domiziano e Domitilla.
Sotto Claudio aveva comandato una legione in Germania, poi era passato in Britannia e al comando di Aulo
Plazio aveva preso parte a numerose battaglie, ricevendo in premio del suo valore gli ornamenti trionfali e il
consolato. Aveva tenuto da proconsole il governo della provincia d'Africa, aveva accompagnato Nerone in
Grecia e -come abbiamo letto nelle pagine precedenti- si trovava qui quando venne mandato a comandare
le legioni della Palestina a fare stragi di Ebrei.
Eletto dai suoi soldati imperatore, Vespasiano tenne consiglio di guerra con Muciano a Berito (Beirut). Fu
stabilito che Vespasiano sarebbe andate in Egitto e in Africa, che Tito sarebbe rimasto in Giudea a terminare
la guerra contro gli ebrei e che Licinio Muciano, attraverso la Cappadocia e la Frigia, avrebbe marciato verso
l'Italia.
Il re dei Parti promise che non avrebbe molestati i confini della Siria. Poi si diede da fare con alacrità a
raccoglier denaro e a preparare armi.
Mentre in Oriente si discutevano i piani e si facevano i preparativi, le legioni della Pannonia e della
Dalmazia, che con entusiasmo si erano schierate con Vespasiano, desiderose di vendicare su Vitellio la
sconfitta di Bedriacum, accettavano la proposta di Antonio Primo detto Becco di Gallina, comandante della
XIII Legione, e stabilirono di non aspettare l'arrivo di Muciano ma di marciare ssubito verso l'Italia. Furono
sollecitate le legioni della Mesia a mettersi in cammino e perché i confini di questa regione nell'assenza delle
truppe non venissero molestati dalle popolazioni sarmatiche si diede posto nelle legioni ai principi dei
Sarmati Jazigi. Anche Sidone e Italico, re dei Suebi, vollero partecipare all'impresa.
Il primo a muoversi fu Antonio Primo cui era stato dato il comando della spedizione.
Ambizioso lui desiderava giungere prima di Muciano per ottenere una posizione di prim'ordine sotto il nuovo
imperatore. Antonio partì con due legioni e con un forte nerbo di cavalleria, superò a marce forzate le Alpi, e
penetrato nel Veneto, occupò Aquileja, Padova e Vicenza, guadagnò alla sua causa tre coorti vitelliane che
stavano sulle rive del Po e si rese padrone di Verona.
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Preoccupato dagli avvenimenti, Vitellio aveva dato ordine alle legioni della Britannia, della Germania, delle
Gallie e della Spagna di accorrere in Italia, ma nessuno dei comandanti si era mosso aspettando tutti
prudentemente che la guerra si delineasse in favore dell'uno o dell'altro imperatore; poi Vitellio comandò di
raccogliere truppe in Italia e mandò Cecina con otto legioni a fronteggiare le milizie di Antonio.
Cecina presidiò Cremona con due legioni, la I e la XXI; con le altre sei pose il campo ad Ostiglia; però non
era animato da grande entusiasmo per quella guerra: la preferenza che l'imperatore aveva accordato a
Valente aveva fatto intiepidire la sua devozione per Vitellio; d'altro canto egli si era anche accorto della
critica posizione di Vitellio che aveva contro di sé la maggior parte delle province. Era intento a
temporeggiare quando gli giunse la notizia che la flotta di Ravenna, comandata da Lucio Basso, si era
ribellata facendo causa comune con Antonio Primo. Allora stabilì di allacciare segrete trattative con Antonio
e, riuniti ad Ostiglia alcuni centurioni, li indusse a sposar la causa di Vespasiano.
Le legioni però si rifiutarono di abbandonare Vitellio, legarono Cecina chiamandolo traditore, cercarono due
nuovi capi e, levato il campo da Ostiglia, si diressero alla volta di Cremona per unirsi alle altre due legioni.
Se avessero avuto il tempo di congiungersi, le forze di Vitellio avrebbero forse avuto ragione di Antonio
Primo, ma questi con rapidità sorprendente marciò su Cremona, attaccò le due legioni che la difendevano e,
messe in rotta entrambe, le costrinse a riparare dentro le mura.
Avuta notizia di quella sconfitta, le sei legioni di Ostiglia affrettarono il passo e giunsero sul far della sera a
Cremona e, sebbene stanche dalla lunga marcia, attaccarono il nemico.
Fu una battaglia accanita e sanguinosa che durò tutta la notte. Dapprima parve che la sorte volgesse in
favore dei vitelliani, ma Antonio, raccolto un forte nerbo di scelti soldati, fece attacchi impetuosi sugli
avversari e rinfrancò i suoi. Si diradavano le tenebre quando le legioni di Vitellio, premute e decimate dalle
milizie di Antonio, si ritirarono nel campo, sotto le mura della città; ma neppure qui poterono rimanere: dopo
una resistenza accanitissima vennero sloggiate e si chiusero dentro le mura Cremona.
Spuntava l'alba. Gli ufficiali dell'esercito vinto, visto che era impossibile resistere, decisero di venire a patti
con Antonio, liberarono Cecina perché si recasse al campo avversario e ottenesse che la città non venisse
saccheggiata.
Invece non fu così: quarantamila uomini, dopo aver distrutte le ville circostanti, entrarono in Cremona con le
armi in pugno e per quattro giorni la saccheggiarono orribilmente. Antonio aveva dato ordine che non si
facessero prigionieri i cittadini cremonesi, ma solo i soldati, ma non venne ubbidito e poiché era stato
convenuto fra gli italici che non si potevano né vendere né comperare i cittadini catturati, molti di questi
furono trucidati dalle soldatesche ebbre di sangue, gli altri vennero segretamente riscattati. L'infelice città,
dopo il saccheggio venne data alle fiamme.
Fabio Valente si trovava a Pisa con le milizie ausiliario che conduceva verso il Po quando gli giunse la
notizia della sconfitta e della distruzione di Cremona. Allora pensò di passare nella Gallia e continuare di là
la guerra. Imbarcatesi con le truppe, fece vela verso la Provincia Narbonese, ma il procuratore di questa
regione, ch'era amico di Vespasiano, lo fece catturale alle isole Stecadi e mettere a morte. Il suo capo venne
mandato ad Arimino (Rimini) e mostrato alle legioni vitelliane che la difendevano.
Ormai Vitellio non poteva fare assegnamento che sulle coorti dei pretoriani, sulla flotta di Miseno e su poche
altre truppe, che sarebbe stato difficile alle legioni germaniche forzare i valichi delle Alpi guardati dalle
soldatesche pannoniche. L'imperatore ordinò che quattordici coorti pretorie andassero a fortificarsi
nell'Umbria per ostacolare la discesa alle milizie di Antonio. Il campo fu posto a Mevania (Bevagna) dove
anche Vitellio si recò; ma vi rimase poco. Saputo che la flotta di Miseno si era ribellata e i marinai avevano
occupato Terracina e Puteoli, fece levare il campo e si mise in marcia alla volta di Roma. A Narni lasciò i due
prefetti del pretorio con parte delle truppe, e col resto si ridusse alla capitale. Appena giunto, mandò il fratello
in Campania per domare la ribellione; poi diede ordini che si arruolassero soldati tra la popolazione di Roma.
Nel frattempo Antonio Primo scendeva attraverso la penisola e giungeva a Corsule, a dieci miglia da Narni. I
Pretoriani lasciati da Vitellio, vedendo che non era possibile una resistenza contro le forze avversarie
soverchianti, passarono al nemico; i prefetti fuggirono a Roma.
Vitellio allora si vide perduto e non pensò che a salvare la vita sua e dei suoi. Prefetto della città era Flavio
Sabino, fratello di Vespasiano: per mezzo di questo, Vitellio concluse con Antonio un accordo col quale,
rinunziando egli all'' impero, gli veniva concesso di vivere da ricco privato in una villa della Campania.
Era il 18 dicembre del 69. Poiché, per l'accordo intervenuto, non era più necessario affrettarsi a marciare su
Roma, Antonio si fermò ad Otricoli per festeggiare con il suo esercito i Saturnali.
Quel giorno stesso Vitellio abbandonò la casa dei Cesari sul Palatino per andare al Senato a deporre le
insegne e il potere e recarsi poi all'abitazione del fratello. Già tutta la città sapeva dell'abdicazione, il console
Quinzio Attico aveva pubblicato un editto in lode di Vespasiano e pieno di insulti contro Vitellio mentre la
casa di Flavio Sabino (fratello di Vespasiano) era piena di senatori e cavalieri e custodita dalle coorti urbane
e dai vigili. Ma i pretoriani, che si trovavano a Roma, e il popolino che amava Vitellio per la prodigalità e le
feste che soleva dare, avevano mostrato grande malcontento alla notizia della rinunzia di Vitellio all'impero e
crebbe in breve a tal punto il loro malumore che decisero di protestare vivamente e di fare annullare
l'accordo.
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Col popolo e coi pretoriani tumultuanti si incontrò per via Vitellio e fu costretto a tornare alla casa dei Cesari.
Flavio Sabino volle fare rispettare i patti e uscì alla testa delle scarse truppe di cui disponeva; ne seguì una
zuffa violenta in cui i partigiani del nuovo imperatore ebbero la peggio e a stento Flavio Sabino col nipote
Domiziano, il console Attico e un grosso drappello dei suoi riuscì a salvarsi rifugiandosi nella rocca capitolina
dalla quale spedì messi ad Antonio Primo per informarlo degli avvenimenti.
I pretoriani posero l'assedio alla rocca, malmenarono un messo che Sabino inviava a Vitellio per ricordargli i
patti, poi diedero l'assalto alla fortezza e per la rupe Tarpea giunsero al tempio di Giove e lo incendiarono.
Atterriti dalle fiamme, alcuni tra i difensori della rocca, fra cui Domiziano, riuscirono a fuggire, gli altri invano
si opposero con accanimento alla furia dei nemici che, penetrati nelle mura, fecero orribile strage dei seguaci
di Vespasiano.
Flavio Sabino e Quinzio Attico, ricoperti di catene, furono trascinati davanti al palazzo dei Cesari, e al
cospetto di Vitellio, impotente a frenare l'ira popolare, il fratello di Vespasiano fu trucidato e il suo cadavere
venne gettato nei rifiuti.
Intanto, per la via Flaminia, Antonio Primo accorreva in aiuto di Sabino; giunto ai Saxa Rubra apprese la fine
miseranda di Flavio e decise di vendicarla.
Della tremenda vendetta temeva pure Vitellio. Egli cercò di guadagnar tempo inviando ad Antonio
ambasciatori e Vestali a pregarlo di concedergli almeno un giorno per venire ad un accordo. Ma dopo la
morte di Flavio non era più il caso di riprendere le trattative.
Mille cavalieri al comando di Petilio Ceriale furono mandati innanzi di corsa, ma a Porta Salaria stavano i
pretoriani che contesero il passo all'avanguardia nemica e la ributtarono indietro.
Avanzava intanto il grosso dell'esercito di Antonio diviso in tre corpi: uno procedeva lungo il Tevere, l'altro
per la via Flaminia, il terzo per la via Salaria.
Quest'ultima colonna incontrò la maggiore resistenza: i pretoriani, protetti dai giardini, si difendevano
accanitamente, ma quando videro che la cavalleria di Antonio, entrata da porta Collina, minacciava di
prenderli alle spalle, si ritirarono, sempre combattendo verso il Campo Marzio, dove la lotta continuò aspra e
sanguinosa. Vani sforzi però erano quelli dei pretoriani. Sloggiati anche di qua, si ridussero al loro campo di
porta Nomentana, dove tutti poi perirono con le armi nel pugno il 20 dicembre del 69.
Mentre furiosa ferveva la lotta alle porte della città, Vitellio si teneva nascosto nel palazzo imperiale.
All'annunzio che il nemico si avvicinava uscì e si avviò all'Aventino dove sorgeva la casa del fratello; due soli
uomini lo accompagnavano, il cuoco e il fornaio. Per via gli giunse la notizia che una tregua era stata
conclusa ed egli si lasciò ricondurre alla casa dei Cesari, che trovò deserta.
Ma falsa era la notizia e si facevano sempre più vicini il rumore delle armi e le grida dei vincitori. Allora
Vitellio, abbandonato da tutti, sì cinse una fascia piena di monete d'oro, si rifugiò nella cella del portinaio,
legò un cane davanti alla porta e dietro questa mise il letto.Vana precauzione! Venne scoperto e riconosciuto
dai soldati di Antonio. Cercando di sfuggire alla morte, l'imbelle principe implorò la salvezza e disse di avere
segreti importantissimi da rivelare a Vespasiano, ma non fu creduto e non trovò misericordia. Gli vennero
legate le mani dietro la schiena, gli fu messa una grossa fune al collo e mezzo ignudo per la via Sacra fu
trascinato al Foro, fra due fitte ali di popolo che lo facevano bersaglio di lazzi e d'ingiurie.
"Al Foro gli annodarono i capelli dietro la nuca come si soleva fare ai delinquenti; alcuni gli alzarono il mento
con la punta della spada perché la sua faccia si vedesse meglio; altri gli gettarono addosso dello sterco
chiamandolo ghiottone; altri ancora gli rinfacciarono i suoi difetti fisici, poiché era di altissima statura, aveva
sempre il viso paonazzo dal troppo bere, il ventre buzzo e un fianco debole per una ferita riportata guidando
un cocchio con Cajo Caligola.
Infine fu finito presso le gemonie, e dopo essere stato seviziato con numerosissimi colpi, di là fu tratto con un
uncino e buttato nel Tevere" (Svetonio).
VITELLIO Aveva cinquantasei anni.
Sta iniziando ora l'impero dei FLAVI, con VESPASIANO
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M. Manilio
Cenni biografici
Di Manilio non si sa praticamente nulla. Nessun elemento autobiografico risulta dalla sua opera.
Opere
Il poema didascalico Astronomica è in cinque libri, per complessivi 4200 esametri. Verosimilmente
è incompiuto, almeno a giudicare da come si interrompe bruscamente. Probabilmente un sesto
libro è andato perso.
Datazione più probabile quella tra gli ultimi anni di Augusto e i primi di Tiberio (cf. 5,763 segg.).
Alcuni critici vi ravvedono l'influsso delle Metamorfosi di Ovidio, pubblicate nel ā€¦ā€¦
Il primo libro contiene una descrizione del cosmo e alcune teorie sulla sua origine secondo
caratteri che oggi verrebbero considerati astronomici.
Il secondo, invece, è già connotato in senso astrologico: tratta in effetti dei segni dello zodiaco e
delle loro congiunzioni.
Il terzo parla delle dodici sorti e del modo di tracciare l'oroscopo e di calcolare l'ascendente.
Il quarto passa in rassegna i tre decani di ciascun segno con le relative conseguenze sui caratteri
umani.
Il quinto libro descrive i segni extrazodiacali e le grandezze stellari.
Riassunti da Edizione Mondadori FV
Sommario
LIBRO I
Dopo una protesta di originalità nella scelta del tema, ttilanílío traccia una storia della scienza astronomica,
toccando altresì la cosmologia e le vicende dell'umanità primitiva. Segue il disegno della mappa celeste, con
la rassegna ordinata delle costellazioni e dei segni dello zodiaco, e un breve cenno ai pianeti. Tra i cerchi
celesti, un grande spazio viene riservato alla questione della natura e delle funzioni della Via Lattea. A
comete e meteore, e al significato delle loro comparse in cielo, è dedicata la parte conclusiva del libro, in cui
spiccano i riferimenti alla grande pestilenza che afflisse Atene nel V secolo e alle recenti guerre civili di
Roma, chiuse da Augusto.
LIBRO Il
Il carattere del libro è rigorosamente tecnico, a parte il cospicuo proemio, in cui si parla nuovamente
dell'originalità del soggetto prescelto e si allude al diverso carattere di molta della letteratura precedente. Si
passa quindi alla disamina dei segni zodiacali, dei quali vengono presentati con minuzia aspetti e varie
caratteristiche. Dopo di ciò Manilio espone la dottrina (lei dodecatemoria, con l'elogio del metodo didattico da
lui seguito per rendere edotto al meglio il suo lettore. Punti cardinali, quadranti e segmenti del relativo circolo
vengono trattati in chiusura, con riferimento alle implicazioni che tutto questo comporta per i destini degli
uomini.
LIBRO III
1-4: invocazione alle Muse prina di percorrere vie non battute
8-13: Manilio nega di voler cantare argomenti mitologici (come le lotte fra gli dei, le vicende troiane, i
sortilegi di Medea)
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14-30: o argomenti storico-epici (le guerre messeniche, lo vicende tebane, la saga degli A tridi, le guerre
persiane, l'origine di Roma)
31-42: il materiale celeste è ostico e la resa poetica difficile; la terminologia tecnica sovente non può
essere tradotta
48-55 la natura ha creato un cosmo in cui le differenti parti mantengono un'armonía cos tante,
dipendendo una dall'altra
56-67: perciò la natura ha vincolato ai segni rocliacali ariche il destino degli uomini
68-85: la natura ha suddiviso la circonferenza zodiacale in dodici settori contigui che sono legati o
diversi settori dell'esistenza umana e che variano per ogni individno, in dipendenza dei dati natali
86-95: i dodici settori risentono degli influssi, benefici o malefici dei pianeti in transito e determinano le
variazioni nelle vite umane
96-101: il primo settore inizia dalla posizione del punto di fortuna, e condiziona il patrimonio e la gloria
102-4: il secondo settore è legato alla vita militare e quanto può accadere in città straniere
105-10: il terzo settore denota l'impegno civile dell'individuo
111-9: il quarto settore contempla il mondo dei tribunali
120-2: il quinto settore significa la socialità dell'individuo, matrimonio, amicizie, legami di ospitalità
123-6: li' sesto settore indiviclua i proventi per vivere e l'eventuale ricchezza
127-8: il settimo settore nanífesta i pericoli
129-31: l'ottavo settore indica la nobiltà, la fama e la condizione sociale
131-3: il nono settore comprende i problemi inerenti l'cducazione dei figli:
134-7: il decimo settore segnala la condizione di vita, le abitudini, la tradizione familiare
138-41: l'undicesimo settore denota la salute
142-59: il dodicesimo settore interpreta il successo e le realizzazioni in tutte le sue forme
160-04: i settori sono chiamati athla nella lingua greca
162-202: metodo pcr calcolare il punto dí Fortuna, differenziato per nascite diurne e notturne: distanza
angolare fra sole e luna (per le nascite diurne), o fra luna e sole (per le nascite notturne) poi riportata sulla
circonferenza zodiacale a partire dall'ascendente
203-17: importanza del calcolo esatto dell'ascendente
218-24: calcolo dell'ascendente col metodo più diffuso: presupponendo che i tempi di ascensione dei segni
sono tutti uguali (2 ore), alla posizione del sole si aggiunge il numero delle ore che intercorrono tra l'alba e il
momento natale, in ragione di un segno ogni due ore
225-37 tale metodo è errato perché non tiene conto dell'obliquità dell'eclitrica e delle differenze dei tempi
ascensionali dei segni
238-74: anche la durata oraria non è costante, ma varia col variare del tempo di illuminazione diurna nel
corso dell'anno e col variare della latitudine: all'equinozio giorno e notte hanno identica durata, ma al
solstizio invernale il tempo di illuminazione è di 9h30, e la notte di 14 h 30' alla latitudine di Alessandria l in
realtà il dato riguarda il parallelo di Rodil
275-300: vengono forniti i tempi di ascensione e di tramonto dei singoli segni: i dati seguono il principio di liti
aumento progressivo di 16' nei tempi ascensionali per l'emiciclo compreso fra Ariete e Vergine, e di un
decremento progressivo di 16' per l'emiciclo compreso fra Bilancia e Pesci. I tempi di tramonto dei singoli
segni sono complementari ai tempi di ascensione
301-22: il tempo di illuminazione di urna varia col variare della latitudine geogratica all'equatore í segni
sorgono tutti in due ore, e giorno e notte registrano identica durata
323-336: allontanandosi dall'equatore (dove i poli giacciono sulla linea dell'orizzonte) in direzionc nord, un
viaggiatore vedrà gradualmente alzarsi sull'orizzonte il polo nord; quanta più strada avrà percorso, tanto più
saranno alti nel cielo i segni settentrionali, mentre i segni meridionali resteranno bassi e si discosteranno
poco dall'orizzonte
336-43: la durata del tempo di illuminazione è inversamente proporzionale alla distanza: l'arco percorso
sopra l'orizzonte dai segni invernali è minore, mentre più ampio l'arco percorso dai segni estivi, che sono a
noi più vicini
344-55: Progredendo verso il polo, i segni invernali raggiungono l'orizzonte per poi tramontare
immediatamente e, se ci si avvicina ancora di più al polo, i segni invernali non raggiungono l'orizzonte e si
avrà notte per trenta giorni
356-84: al polo nord sei segni (l'emiciclo compreso fra Ariete e Vergine) resteranno sempre sopra l'orizzonte
e il tempo di illuminazione sarà continuo per sei mesi; quando poi il sole percorre l'emiciclo compreso fra
Bilancia e Pesci, la notte dura sei mesi, perché il sole rimane sotto l'orizzonte
385-94 la conoscenza dei tempi d'ascensione dei segni è necessaria per definire l'ascendente; per
individuarli Manilio rivendica un metodo infallibile
395-403: Per qualsiasi località terrestre bisogna dividere per sei la durata del tempo di illuminazione del
giorno più lungo, ossia del solstizio d'estate. Il risultato della divisione corrisponde al tempo di ascensione
del Leone. La durata della notte più corta va divisa per sei; il risultato corrisponde al tempo di ascensione del
Toro
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404-9: un terzo della differenza fra i tempi di ascensione dei Leone e del Toro, aggiunto al tempo del Toro,
corrisponde al tempo di ascensione dei Gemelli. La stessa quantità, aggiunta ai tempi (lei Gemelli, dà i tcmpi
di ascensione del Cancro. Lo stesso valore, sommato ai tempi del Cancro, porta ai tempi di ascensione del
Leone, e, aggiunto ai tempi del Leone, determina il tempo di ascensione della Vergine.
410-8: nell'emicido compreso fra Bilancia e Pesci il valore trovato va sottratto; per conoscere i tempi di
tramonto di ogni segno basta conoscere i tempi di ascensione del segno opposto
419-42: per convertire i tempi di ascensione in archi equatoriali viene consigliato di calcolare il rapporto fra la
durata del giorno più lungo e le 24 ore; un sesto della cifra che presenterà lo stesso rapporto rispetto ai 720
stadi della circonferenza (= 360°) corrisponderà al numero di stadi cercati: un sesto del valore ricavato il
giorno del solstizio d'estate corrisponde all'arco equatoriale che ascende col Leone, mentre per conoscere la
lunghezza dell'arco che ascende col Toro si opera lo stesso calcolo, ma valutando la durata della notte più
corta il giorno del solstizio. Della differenza tra i due valori, un terzo sarà aggiunto al numero degli stadi che
fanno riscontro al Toro, per conoscere la lunghezza dell'arco che ascende in corrispondenza dei Gemelli.
Così si procede incrementando i valori sino alla Vergine, rnentre nell'emiciclo compreso tra Bilancia e Pesci
si registra un decremento dei valori. Tali calcoli permetteranno di definire l'ascendente a qualsiasi latitudine.
443-48: la velocità di ascensione dei segni invernali e dei segni dell'equinozio è diversa
449-54: viene illustrato l'incremento delle ore di illuminazione dal solstizio, invernale all'equinozio di
primavera (Capricorno-Acquario- Pesci): bisogna calcolale la durata oraria che separa il giorno più corto e la
norte più lunga dalle 12 ore dell'equinozio: un terzo della circonferenza sarà aggiunto al segno centrale,
metà dell'incremento del segno centrale corrisponderà all'incremento del primo segno- e all'incremento del
segno successivo rispetto al segno centrale
467-82 si propone il calcolo per una località dove la dilferenza fra il giorno più corto e la notte più lunaga è di
6 ore: il Capricorno presenta un incremento di mezzora, l'Acquario di un'ora e i Pesci di un'ora e mezzo;
l'incremento progressivvo dei tre segni è quindi ai tre ore: l'numento del primo segno corrisponde a un sesto
dell'incremento progressivo, col secondo segno lā€™incremento viene triplicato rispetto al primo segno e col
terzo l'aumento raddoppia rispetto al valore registrato col secondo
467-82: nel quadrante successivo che, iniziando con l'equinozio di primavera vede un incremento del giorno
rispetto alla notte. Ariete. Toro e Gemelli presentano rispettivamente l'incrcmento di Pesci, Acquario a
Capricorno. Col Cancro, ossia col solstizio d'estate, si registrano valori inversi rispetto al solstizio dā€™inverno: il
giorno più lungo del solstizio d'estate ha la stessa durata della notte più lunga del solstizio d'inverno
483-502: Per individuare l'ascendente esatto. per una nascita di giorno si consiglia di moltiplicare l'ora natale
per 15 (con una conversione in tempi equinoziali, visto che un'ora equinoziale è formata da 15 tempi
equinoziali), perché in un'ora equinoziale transitano 15 gradi dell'equatore. Al prodotto ottenuto va
aggiunto il numero di gradi corrispondenti alla posizione del sole nel segno in cui transita. La cifra
raggiunta va riportata alla circonferenza, a partire dalla posizione del sole natale. Il punto di arrivo dellā€™
operazione sarà l'esatto grado ascendente.
503-9 una volta individuato l'ascendente, si ricava facilmente il meridiano e quindi gli altri angoli
dell'oroscopo: il Medium Coeli, il discendente e l'Imum Coeli
510-36: viene esposto un sistema di progressioni che colloca sul grafico natale tutta la vita di un individuo:
il primo anno di vita corrisponde al segno che ospita il sole, il secondo al segno successivo così via. Per il
calcolo dei mesi si parte dal segno che ospita la luna, che corrisponde al mese natale, e si continua il
riporto nella direzione dei segni dello zodiaco (ossia antioraria); identico procedimento per i giorni, con
l'inizio dal segno asendente, che è punto di partenza anche per le ore. L'esistenza di più cieli indipendenti
giustifica la presenza di eventi favorevoli e sfavorevoli che si verificano nel corso dell'esistenza anche
contemporaneamente
537-59: alcuni studiosi preferiscono impostare il sistema delle progressioni partendo sempre dal segno
ascendente per il riporto di anni, mesi, giorni e ore; in tal caso si valutano quattro cicli di di versa velocità pur
con lo stesso inizio, che motivano eventi anche contradditori che si possono verificare nello stesso periodo
560-80: un altro sistema assegna ai singoli segni zodiacali un numero di anni di vita: all'Ariete corrispondono
10 anni e 8 mesi, al Toro 12 anni e 8 mesi, ai Gemelli 14 anni e 8 mesi, al Cancro 16 anni e 8 tnesi, al Leone
18 anni e 8 mesi, alla Vergine 20 anni e 8 mesi. La Bilancia è identica alla Vergine, lo Scorpione al Leone, il
Sagittario al Cancro, il Capricorno ai Gemelli, l'Acquario al Toro e i Pesci all'Ariete
581-617: il calcolo della durata della vita umana deve basarsi anche sul numero di anni assegnati alle
singole case quando la luna vi transita al momento natale: alla I casa (o ascendente) sono assegnati 78
anni, alla X (o Medium Coeli) 77 anni, alla VII (o discendente) 75 anni, alla IV (o imum Coeli) 72 anni. Alla IX
casa (o trigono destro dell'ascendente) corrispondono 68 anni, alla V (o trigcmo sinistro) 63 anni, alla XI
casa 57 anni, alla III 50 anni, alla II (sotto l'ascendente) 42 anni, all'Vlll (sopra il discendente) 33 anni, alla XII
(sopra l'ascendente) 23 anni e alla VI (sotto il discendente) 12 anni
618-24: importanza dei segni tropici, dove hanno luogo solstizi ed equinozi
625-36: col Cancro ha luogo il solstizio d'estate e si verifica il giorno più lungo; maturano le messi, il mare è
calmo, il periodo è adatto alle guerre, si verifica la piena del Nilo
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637-43 col Capricorno e con il solstizio d'inverno si registra la notte più lunga; c'è freddo, il mare non è
navigabile, la natura riposa
644-57 con l'Aricte e con l'equinozio di primavera giorno e notte registrano identica durata, il transito del sole
dall'Ariete al Cancro coincide con un incremento progressivo della durata del tempo di illuminazione; il mare
comincia a placarsi e la terra si riveste di fiori, gli animali si accoppiano, i boschi verdeggiano
658 65: con la Bilancia e con l'equinozio d'autunno giorno e notte registrano identica durata, il transito dei
sole dalla Bilancia al Capricorno coincide con un decremento progressivo della durata del tempo di
illuminazione; è il rnomento della vendemmia e della semina
666-82: solstizi ed equinozi coincidono con i quattro punti tropici, e si verificano in un grado preciso (e in un
solo giorno) dei segni zodiacali corispondenti; per la sua individuazione esistono varie ipotesi: a 8°, a 10°, a
1°.
LIBRO IV
1-22: inutilità delle ansie e degli affanni dell'esistenza, visto che il destino governa la vita umana
23-42: rassegna di eventi storici a dimostrazione che la nascita e la grandezza di Roma sono volute dal
destino: Enea fuggito dall'incendio di Troia, la lupa nutrice di Romolo e Remo, Muzio, Orazio Coclite, Clelia,
gli Orazi, le guerre contro .Annibale, la conquista di Cartagine, le guerre civili, Mario, Pompeo
43-70: elenco di personaggi il cui destino ha subìto gravi alternanze: Mario, Pompeo, Cesare, Creso,
Priamo, Serse
71-121: ogni essere umano ha un proprio destino, con proprie inclinazioni e proprie tendenze, con maggiori
o minori fortune, con diverse caratteristiche somatiche
122-3: viene preannunziata l'esposizione delle caratteristiche dispensate dai singoli segni zodiacali
nell'indole, nel fisico, nelle inclinazioni e nelle attività lavorative
124-39: caratteristiche dispensate dal segno zodiacale dell'Ariete
140-51: caratteristiche dispensate dal segno zodiacale del Toro
152-6: caratteristiche dispensate dal segno zodiacale dei Gemelli
162-75: caratteristiche dispensate dal segno zodiacale del Cancro
176-88: caratteristiche dispensate dal segno zodiacale del Leone
189-202: caratteristiche dispensate dal segno zodiacale della Vergine
203-16: caratteristiche dispensate dal segno zodiacale della Bilancia
217-29: caratteristiche dispensate dal segno zodiacale dello Scorpione
230-42: caratteristiche dispensate dal segno zodiacale del Sagittario
243-58: caratteristiche dispensate dal segno zodiacale del Capricorno
259-72: caratteristiche dispensate dal segno zodiacale dell'Acquario
273-93: caratteristiche dispensate dal segno zodiacale dei Pesci
294-309 l'esame delle caratteristiche dei singoli segni zodiacali non basta, perché ogni segno è suddiviso in
tre archi di dieci gradi chiamati decani e ciascun decano è posto sotto la tutela di un segno; per questo,
all'influenza del segno stesso si associa l'influenza del segno sotto la cui tutela sta il decano
310-5: il primo decano dell'Ariete è posto sotto la tutela dell'Ariete stesso, il secondo è governato dal Toro, il
terzo dai Gemelli
316-9: decani del Toro
320-2: decani dei Gemelli
323-9: decani del Cancro
330-3: decani del Leone
334-7: decani della Vergine
338-43: decani della Bilancia
3444-6 decani dello Scorpione
347-9: decani del Sagittario
350-3: decani del Capricorno
354-7: decani dell'Acquario
358-62: decani dei Pesci
363-86: la presenza dei decani e l'azione combinata del segno zodiacale che ospita il decano e del segno
che governa il decano spiegano le differenze fra individui che nascono sotto lo stesso segno zodiacale
387-407: lo studio della tecnica astrologica richiede intensi sforzi e fatiche, al pari di altre attività che
aspirano a grandi risultati
408-29: assieme ai segni zodiacali e ai decani è bene analizzare anche i singoli gradi di ogni segno con le
loro precipue componenti di freddo, caldo, umido e secco
430-43: incapace di elencare le caratteristiche dei 360 gradi della circonferenza, il poeta si limita a segnalare
i gradi nocivi dei singoli segni zodiacali
444-8: gradi nocivi dell'Ariete
449-53: gradi nocivi del Toro
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454-8: gradi nocivi dei Gemelli
459-63: gradi nocivi del Cancro
464-8: gradi nocivi del Leone
469-72: gradi nocivi della Vergine
473-6: gradi nocivi della Bilancia
477-80: gradi nocivi dello Scorpione
481-5: gradi nocivi del Sagittario
486-9: gradi nocivi del Capricorno
490-3 gradi nocivi dell'Acquario
494-7 gradi nocivi dei Pesci
498-501: un aspetto di Marte, Saturno e del sole sui gradi nocivi provoca sterilità
502-4: importanza del segno zodiacale ascendente al momento della nascita nella definizione delle
peculiarità dell'individuo
505-17: influenza dell'Ariete quando è ascendente
518-24: influenza del l'oro quando è ascendente sui primi gradi
525-9: influenza dei Gemelli quando sono ascendente
530-4: influenza del Cancro quando è ascendente nei gradi della nebulosa del Presepe
535-41: influenza del Leone quando è ascendente in corrispondenza delle fauci dell'animale
542-6: influenza della Vergine quando è ascendente
547-52 influenza della Bilancia quando e ascendente
553-9: influenza dello Scorpione quando e ascendente con le ultitile stelle del pun giglione
560-7: influenza del Sagittario quando è ascendente in corrispondenza dell'estremità del mantello
568-70: influenza del Capricorno quando è ascendente con le ultime stelle della coda
571-2: influenza dell'Acquario quando è ascendente sui primi gr adi
573-84: influenza dei Pesci quando sono ascendente sui primi gradi
585-94 i segni esercitano la loro influenza anche sulle varie: parti della terra; il cielo è cielo è diviso
in quattro partì che corrispondono ai punti cardinali, da ciascuno dei quali soffia un vento
595-601: descrizione della costa africana sul Medìterraneo: Numidia, Libia, Sirti sino alla foce del Nilo
602-18: descrízíone delle coste settentrionali del Mediterraneo: Spagna, Gallia, Italia (costa tirrenica fino alla
Sicilia e costa adriatica), Illiria, Epiro, Corinto, Peloponneso. Tessagla, Ellesponto, Mar Nero e palude
Meotide
619-29: descrizione della costa asiatica sul Mediterraneo: Ellesponto, Cilicia, Siria, Fenicia Egtto fino alla
foce del Nilo
630-41: descrizione delle isole del Merliterraneo: .Sardegna. Sicilia, Eubea, Creta, Cipro, Cicladi. Delo, Rudi,
Aulide, Tenedo, Corsica, Ibiza, Baleari
642 57: descrizione dei mmì insinuati fra le tel re: Mai Caspio, Mar Nero, Golfo l'ersico, Mar Rosso
658-70: descrizione della Libia (Africa) e dei suoi animali feroci
671-80: descrizione dell'Asia e delle sue ricchezze: India, 1'artia, catena del Tauro, Scizia fino al Don, palude
Meotide, Mar Nero
671: descrizione dell'Europa: Atene, Sparta, Tbe, Tessaglia, Epiro, Illiria, Tracia. Germania, Gallia, Spagna,
Italia
681-95: le terre nominate sono poste Sotto (a tuteía Ilei scYni zuclicacali, come le parti del corpo umano
711-43: ditierenze etnogratiche dei popoli, nel colorito, nel fisico, nelle attitudini, nel linguaggio, nelle
abitudini, ncl cibo, nelle coltivazioni
744-52: località poste sotto la tutela dell'Ariete
75 3-4: località poste sotto ln tutela del Toro
753-7 località poste sotto la tutela dei Gemelli
758 -9: località poste sotto la tutela dei Cancro
759-62: località poste ',otto là tutela del Leone
763-72: località poste sotto la tutela della Vergine
773-7: località poste sotto la tutela della Bilancia
818-65: la fecondità delle terre è soggetta a variazioni, il mare avanza o si ritrae dalla costa; anche
i segni presentano alternativamente influssi intensificati o indeboliti: la causa risiede nelle eclissi; il
segno cha ospita la luna al momento dell'eclissi e il segno ad esso opposto manifestano una
riduzione di influenza
866-85: utilitìt delle conoscenza del destino, visto c he la natura permette di c<mosccre i suoi
segreti
886-910 uno spirito divino abita nell'uorno e gli consente di conoscere gli arcani del mondo, come
gli ha dato la parola, l'intelligenza e gli ha permesso tante realizzazioni
911-35 Lā€™astronomia non è inferiore alle altre tecniche divinatorie e le sue potenzialità sono
immense.
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LIBRO V
1-31 : Un altro pocta passerebbe all'esame dei pianeti; Manilio preferiscr prima analizzare le
costellazioni extrazodiacali e i loro influssi quando sorgono e quando tramon tano, e definirne la
posizione in rapporto alla circonferenza zodiacale
32-56: Argo: posizione e influssi astrulogici
57-66: Orione (ma si tratta di Perseo]: posizione e influssi astrologicí
67-101: Auriga: posizione e influssi astrologicí
102-17: Capretti posizione e influssi astrologici
118-27: l;mli: posizione e influssi astrologici
128-39: Capellaa: posizione e influssi astrologici
140-56: Pleiadi: posizione e influssi astrologici
157-73: Lepre: posizione e influssi astrologici
174-96: Iugule=Orione posizione e influssi astrologici
197-205: 1'rocionc: posiZione c influssi as[roloā€¢ici
206-33: Sirio: posìzione c° influssi astrologici
234-50: Cratereposizione e influssi astrologici
zSt-Gy: Corona Boreale: posizione e influssi astrologici
270-92: Spiga: posizionc e influssi astrologici
293-310: Sagitta; posizione e intlussi astrologici
311-23: Capro [= Bilancial: posizione e influssi astrologici
324-38 Lira: posizione e influssi astrologici
339-47 Altare: posizione e influssi astrologici
348-56: Centauro: posizione e influssi astrologici
357-63: Arturo: posizione e influssi astrologici
364-88: Cigno: posizione e influssi astrologici
389-93: Serpentario: posizione e influssi astrologici
394-408: Pesce Australe: influssi astrologici
409-15: Lira: influssi astrologici
416-48: Delfino: influssi astrologici
449-85: Cefeo: posizione e influssi astrologici
486-503: Aquila: posizione e influssi astrologici
504-37: Cassiopea: posizione e influssi astrologici
538-618: Andromeda: posizione e racconto del mito con la liberazione da parte di Perseo
619-30: Andromeda: influssi astrologici
631-44: Pegaso: posizione c influssi astrologici
645-55 Engonasin [= Eracle]: posizione e influssi astrologici
656-92: Balena: posizione e influssi astrologici
693-709: Orsa: posizione e influssi astrologici
710-5: elenco delle stelle di terza grandezza
716-33: le stelle di quarta e quinta grandezza sono le più numerose
734-45: esiste nel cielo per le stelle una gerarchia celeste.
Osservazioni
Di ispirazione stoica, almeno nella ricerca e nell'accettazione di una ratio cosmica che sarebbe
sottesa all'universo.
Il modello didascalico è prevalentemente quello di Lucrezio, almeno per quanto riguarda il
prevalere della volontà didattica su quella puramente descrittiva.
Testi e testimonianze
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I, 892-905 (citazione disfatta di Teutoburgo)
talia significant lucentes saepe cometae:
funera cum facibus veniunt, terrisque minantur
ardentis sine fine rogos, cum mundus et ipsa
aegrotet natura hominum sortita sepulcrum.
quin et bella canunt ignes subitosque tumultus
et clandestinis surgentia fraudibus arma,
externas modo per gentes ut, foedere rupto
cum fera ductorem rapuit Germania Varum
infecitque trium legionum sanguine campos,
arserunt toto passim minitantia mundo
lumina, et ipsa tulit bellum natura per ignes
opposuitque suas vires finemque minata est.
I, 7-10; 385 e 922-6. (riferimenti a Ottaviano, morto il 14 d.C., come ancora vivente)
hunc mihi tu, Caesar, patriae princepsque paterque,
qui regis augustis parentem legibus orbem
concessumque patri mundum deus ipse mereris,
das animum viresque facis ad tanta canenda.
sed satis hoc fatis fuerit: iam bella quiescant
atque adamanteis discordia vincta catenis
aeternos habeat frenos in carcere clausa;
sit pater invictus patriae, sit Roma sub illo,
cumque deum caelo dederit non quaerat in orbe.
IV, 547 (segno zodiacale della Bilancia, lo stesso di Augusto e Tiberio, proprio di un ā€œfeliceā€
predestinato allā€™impero)
Sed, cum autumnales coeperunt surgere Chelae,
felix aequato genitus sub pondere Librae.
iudex examen sistet vitaeque necisque
imponetque iugum terris legesque rogabit.
illum urbes et regna trement nutuque regentur
unius et caeli post terras iura manebunt.
IV, 763 (per la datazione e riferimento a Tiberio)
Virgine sub casta felix terraque marique
est Rhodos, hospitium recturi principis orbem,
tumque domus vere Solis, cui tota sacrata est,
cum caperet lumen magni sub Caesare mundi;
Sotto la casta Vergine prospera per la terra e per il mare
È Rodi, ospite dimora del principe che reggerà lā€™universo
A allora davvero dimora di quel Sole cui è consacrata,
quando ospitava la luce dellā€™impero sotto Cesare grande;
Manil., astr., I, 1-90. Il proemio
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Carmine divinas artes et conscia fati
sidera diversos hominum variantia casus,
caelestis rationis opus, deducere mundo
aggredior primusque novis Helicona movere
cantibus et viridi nutantis vertice silvas
hospita sacra ferens nulli memorata priorum.
hunc mihi tu, Caesar, patriae princepsque
paterque,
qui regis augustis parentem legibus orbem
concessumque patri mundum deus ipse mereris,
das animum viresque facis ad tanta canenda.
iam propiusque favet mundus scrutantibus ipsum
et cupit aetherios per carmina pandere census.
hoc sub pace vacat tantum. iuvat ire per ipsum
aera et immenso spatiantem vivere caelo
signaque et adversos stellarum noscere cursus.
quod solum novisse parum est. impensius ipsa
scire iuvat magni penitus praecordia mundi,
quaque regat generetque suis animalia signis
cernere et in numerum Phoebo modulante referre.
bina mihi positis lucent altaria flammis,
ad duo templa precor duplici circumdatus aestu
carminis et rerum: certa cum lege canentem
mundus et immenso vatem circumstrepit orbe
vixque soluta suis immittit verba figuris.
Quem primum interius licuit cognoscere terris
munere caelestum. quis enim condentibus illis
clepsisset furto mundum, quo cuncta reguntur?
quis foret humano conatus pectore tantum,
invitis ut dis cuperet deus ipse videri,
sublimis aperire vias imumque sub orbem
et per inane suis parentia finibus astra?
tu princeps auctorque sacri, Cyllenie, tanti;
per te iam caelum interius, iam sidera nota
nominaque et cursus signorum, pondera, vires,
maior uti facies mundi foret, et veneranda
non species tantum sed et ipsa potentia rerum,
sentirentque deum gentes qua maximus esset.
et natura dedit vires seque ipsa reclusit
regalis animos primum dignata movere
proxima tangentis rerum fastigia caelo,
qui domuere feras gentes oriente sub ipso,
[quas secat Euphrates, in quas et Nilus abundat]
qua mundus redit et nigras super evolat urbes.
tum qui templa sacris coluerunt omne per aevum
delectique sacerdotes in publica vota
officio vinxere deum; quibus ipsa potentis
numinis accendit castam praesentia mentem,
inque deum deus ipse tulit patuitque ministris.
hi tantum movere decus primique per artem
sideribus videre vagis pendentia fata.
singula nam proprio signarunt tempora casu,
longa per assiduas complexi saecula curas:
nascendi quae cuique dies, quae vita fuisset,
in quas fortunae leges quaeque hora valeret,
quantaque quam parvi facerent discrimina motus.
postquam omnis caeli species, redeuntibus astris,
percepta, in proprias sedes, et reddita certis
fatorum ordinibus sua cuique potentia formae,
per varios usus artem experientia fecit
exemplo monstrante viam, speculataque longe
deprendit tacitis dominantia legibus astra
et totum aeterna mundum ratione moveri
fatorumque vices certis discernere signis.
Nam rudis ante illos nullo discrimine vita
in speciem conversa operum ratione carebat
et stupefacta novo pendebat lumine mundi,
tum velut amisso maerens, tum laeta ren<ato;
surgentem neque enim totiens Titana fug>atis
sideribus, variosque dies incertaque noctis
tempora nec similis umbras, iam sole regresso
iam propiore, suis poterat discernere causis.
necdum etiam doctas sollertia fecerat artes,
terraque sub rudibus cessabat vasta colonis;
tumque in desertis habitabat montibus aurum,
immotusque novos pontus subduxerat orbes,
nec vitam pelago nec ventis credere vota
audebant; se quisque satis novisse putabant.
sed cum longa dies acuit mortalia corda
et labor ingenium miseris dedit et sua quemque
advigilare sibi iussit fortuna premendo,
seducta in varias certarunt pectora curas
et, quodcumque sagax temptando repperit usus,
in commune bonum commentum laeta dederunt.
tunc et lingua suas accepit barbara leges,
et fera diversis exercita frugibus arva,
et vagus in caecum penetravit navita pontum,
fecit et ignotis iter in commercia terris.
tum belli pacisque artes commenta vetustas;
semper enim ex aliis alias proseminat usus.
Segue Testo e Traduzione di Riccardo Scarcia, Milamo, Mondadori, 1996
Manil., astr., I, 1-90. Il proemio
Carmine diuinas artes et conscia fati
sidera diuersos hominum uariantia casus,
caelestis rationis opus, deducere mundo
aggredior primusque nouis Helicona mouere
cantíbus et uirídi nutantis uertice síluas
hospita sacra terens nulli memorata priorum.
Hunc mihi tu, Caesar, patriae princepsque paterque,
qui regis augustis parentem legibus orbem
concessumque patri mundum deus ipse mereris,
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F. D'ALESSI - Letteratura latina - Parte III,1 - Il periodo imperiale - L'età dei Claudi
das animum uiresque facis ad tanta canenda.
lam propíusque fauet mundus scrutantibus ipsum
et cupit aetherios per carmina pandere cens us.
Hoc sub pace uacat tantum. Iuuar ire per ipsum
aera et immenso spatiantem uiuere caelo
signaque et aduersos stellarum noscere cursus.
Mi volgo con questo mio canto a trarre dall'universo le arti
arcane, le stelle conscie del destino che variano
i differenti casi degli uomini, attivo effetto della ragione
celeste, e a sollecitare per primo con parola inaudita
Elicona e le sue selve, trepide nelle verdi cime,
peregrine offerte non evocate innanzi da alcuno.
Tu, Cesare, padre della patria e sovrano, che governi
un mondo obbediente alle tue leggi auguste e acquisti
per tua natura divina la sede beata concessa a tuo padre,
me ne dai l'ardire e ne svegli la forza per l'ardua impresa.
L'universo arride benigno a chi vi fissa intensi gli sguardi
e spinge ad aprire agli accenti del verso l'esame degli spazi eterei.
E ne dà agio la pace. Non altro mi è caro che andare nel colmo
dell'aere e vivere errando per il cielo infinito e distinguere
il contrapposto movimento di costellazioni e pianeti.
Quod solum nouisse parum est. Impensius ipsa
scire iuuat magni penitus praecordia mundi,
quaque regat generetque suis animalia signis
cernere et in numerum Phoebo modulante referre.
Bina mihi positis lucent altaría flammis,
ad duo templa precor duplici circumdatus aestu
carminis et rerum: certa cum lege canentem
mundus et immenso uatem círcumstrepit orbe
uixque soluta suis immittit uerba figuris.
Quem primum interius licuit cognoscere terris
munere caelestum. Quis enim condentibus illis
clepsisset furto mundum, quo cuncta reguntur?
Quis foret humano conatus pectore tantum,
inuitis ut dis cuperet deus ipse uideri,
subimis aperire uias imumque sub orbem
et per inane suis parentia finibus astra?
Tu princeps auctorque sacri, Cyllenie, tanti;
per te iam caelum interius, iam sidera nota
nominayue et cursus signorum, pondera, uires,
maior uti facies mundi foret, et ueneranda
non species tantum sed et ipsa potentia rerum,
sentirentque deum gentes qua maximus esset.
Et natura dedit uires seque ipsa reclusit
regalis animos primum dignata mouere
proxima tangentis rerum fastigia caelo,
qui domuere feras gentes oriente sub ipso,
Pure è poco il sapere da solo. Più assai mi è caro conoscere
fino nell'intime fibre il segreto della potenza dell'universo
e discernere a quali figure sideree si debba il governo
di ciascuno degli esseri, e la genitura, e volgerlo in ritmi ispirati da Febo.
Due altari per me rilucono di fiamme compostevi, supplice
guardo a due templi, avvolto da duplice calore: della poesia
e della natura. Al vate che canta con fisse misure è intorno
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il fragore dell'universo nel suo orizzonte immenso, che poco
anche in parole prive di legge consente di calare le sue forme.
Conoscere il quale più nell'intimo fu per la prima volta lecito ai terrestri
per concessione dei celesti. E chi mai infatti, qualora essi
l'avessero celato, avrebbe colto di furto il mistero del reggimento del tutto?
Chi avrebbe tentato con le sole forze di uomo il desiderio
di sembrare egli quasi un dio contro il volere degli dei,
e sgombrare le vie del nostro firmamento e l'emisfero al di sotto
e svelare gli astri che nel vuoto rispettano i propri limiti?
Di questo prodigioso sapere tu sei, o Cillenio, l'ispirato principio:
per te già è noto quanto il cielo contiene, già lo sono le stelle,
i nomi e le rotte delle costellazioni, il loro peso, le virtù,
perché più maestoso fosse l'aspetto del mondo e venerabile
non l'apparenza soltanto ma l'energia dell'universo
e avvertissero i popoli dove fosse la grandezza intera di Dio.
E la natura stessa ne fornì le forze e spontaneamente si dischiuse,
degnandosi di sollecitare per prime regali menti
che sfioravano vertiginose altezze ai limiti del cielo,
che soggiogarono genti selvagge là dove proprio è l'oriente,
quas secat Euphrates, in quas et Nilus inundat,
qua mundus redit et nigras super euolat urbes.
Tum qui templa sacris coluerunt omne per aeuum
delectique sacerdotes in publica uota
officio uinxere deum; quibus ipsa potentis
numinis acrendit castam praesentia mentem,
inque deum deus ipse tulit patuitque ministris.
Hi tantum mouere decus primique per artem
sideribus uidere uagis pendentia fata.
Singula nam proprio signarunt tempora casu,
longa per assiduas complexi saecula curas:
nascendi yuae cuique dies, quae uita fuisset,
in quas fortunae leges quaeque hora ualeret,
quantaque quam paruí facerent discrimina motus.
Postquam omnis caeli species, redeuntibus astris,
percepta, in proprias sedes, et reddita certis
fatorum ordinibus sua cuique potentia formae,
per uarios usus artem experientia fecit
exemplo monstrante uiam, speculataque longe
deprendit tacitis dominantia legibus astra
et totum aeterna munduun ratione moueri
fatorumyue uices certis discernere signis.
Nam rudis ante illos nullo discrimine uita
in speciem conuersa operum ratione carebat
quelle che solca l'Eufrate, e quelle su cui il Nilo trabocca,
per cui ritorna il sistema delle stelle e trascorre al di sopra di brune città.
Allora coloro che per il tempo intero della vita ebbero sacra cura dei templi,
sacerdoti eletti per pregare a nome del pubblico bene,
avvinsero Dio col loro zelo: ad essi infiammò gli animi puri
la diretta presenza della potenze divina,
e Dio stesso li levò fino a Dio e s'aperse ai suoi ministri.
Costoro soltanto dettero impulso all'onorata sapienza e primi con l'arte
loro videro il fato imminente dal vagare dei pianeti.
Contrassegnarono essi infatti empi degli individui con i relativi accidenti,
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per il corso di lunghe generazioni assorti in assidui studi:
quale fosse il dì natale di ciascuno, quale ne fosse stata la vita,
quali regole di destino determinasse ciascun'ora,
quanto grandi le differenze provocate da minimi spostamenti.
Poi che ogni aspetto del cielo fu ben percepito, al ritornare degli astri
alle sedi lor proprie, e restituita a determinate
categorie di destini la potenza specifica d'ogni ligura celeste,
attraverso molteplici pratiche l'esperienza creò l'arte,
additando con esempi il cammino e, osservando lontano,
colse le leggi segrete della dominazione degli astri
e che nel suo insieme era mosso il cosmo da una logica eterna
e che con predisposti segnali distingueva l'alternanza dei fati.
Infatti, prima di loro la rozza esistenza, senza distinguere nulla,
era volta all'apparenza, mancandole il senso di quell'operare,
et stupefacta nouo pendebat lumine mundi,
tum uelut amissis maerens, tum laeta renatis
sideribus, uariosque dies incertaque noctis
tempora dissimilisque umbras, iam sole regresso
iam propiore, suís poterant nec cernere causis.
Necdum etiam doctas sollertia fecerat artes,
terraque sub rudibus cessabat uasta colonis;
tumque in desertis habitabat montibus aurum,
immotusque nouos pontus subduxerat orbes,
nec uitam pelago nec uentis credere uota
audebant; se quisque satis nouisse putabant.
Sed cum longa dies acuit mortalia corda
et labor ingenium miseris dedit et sua quemque
aduigilare sibi iussit fortuna premendo,
seducta in uarias certarunt pectora curas
et, quodcumque sagax temptando repperit usus,
in commune bonum commentum laeta dederunt.
Tunc et lingua suas accepit barbara leges,
et fera di uersis exercita frugibus arua,
et uagus in caecum penetrauít nauita pontum,
fecit et ignotis iter in commercia terris.
Tum belli pacisque artes commenta uetustas;
semper enim ex aliis alias proseminat usus.
e stupefatta restava allo strano illuminarsi del cielo,
ora dolendosi come d'averli perduti, ora lieta del rinnovarsi
degli astri, e che vari fossero í giorni e non fissi i tempi
della notte e dissimile il buio coll'arretrare ora del sole
ora col suo accostarsi, neanche potevano discernerlo nelle sue cagioni.
Né aveva ancora l'applicazione suscitato tecniche e conoscenze
e la terra si estendeva desolata sotto i coltivatori inesperti;
e allora dimorava l'oro entro deserte montagne,
e il non solcato mare manteneva riposti mondi sconosciuti,
né osavano affidare la vita alle rotte marine né ai venti
le loro speranze; credevano ognuno di saperne abbastanza.
Ma quando un lungo spazio di tempo acuì lo spirito dei mortali,
e fornì ingegno ai miseri lo stento e il premere
della sorte di ognuno gli prescrisse di badare a sé stesso,
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in diverse imprese gareggiarono le suddivise energie,
e ogni qual cosa ebbe scovato a forza di prove la pratica sagace,
esultanti ne davano conoscenza quale bene comune.
Allora anche la lingua balbettante ricevette sue leggi,
e i campi selvatici furono messi a prova da raccolti variati,
e l'errabondo navigante penetrò in cupi mari,
e per incognite regioni tracciò il cammino ai commerci.
E allora il volgersi del tempo delineò le regole della guerra e della pace:
perché sempre dalle une alle altre ne propaga i semi la pratica.
Traduzione e testo di Riccardo Scarcia, Milano, Mondadori, 1996
Manil., astr., 4,1-22. Il destino degli uomini (CD LL d'Anna)
Quid tam sollicitis vitam consumimus annis
torquemurque metu caecaque cupidine rerum
aeternisque senes curis, dum quaerimus, aevum
perdimus et nullo votorum fine beati
victuros agimus semper nec vivimus umquam,
pauperiorque bonis quisque est, quia plura requirit
nec quod habet numerat, tantum quod non habet
optat,
cumque sibi parvos usus natura reposcat
materiam struimus magnae per vota ruinae
luxuriamque lucris emimus luxuque rapinas,
et summum census pretium est effundere
censum?
solvite, mortales, animos curasque levate
totque supervacuis vitam deplete querellis.
fata regunt orbem, certa stant omnia lege
longaque per certos signantur tempora casus.
nascentes morimur, finisque ab origine pendet.
hinc et opes et regna fluunt et, saepius orta,
paupertas, artesque datae moresque creatis
et vitia et laudes, damna et compendia rerum.
nemo carere dato poterit nec habere negatum
fortunamve suis invitam prendere votis
aut fugere instantem: sors est sua cuique ferenda.
Perché dissipiamo la vita in anni colmi di angoscia
e nei tormenti dell'ansia e nella cieca cupidigia di avere
e invecchiati da eterne sofferenze per avidità diamo fondo
alla nostra esistenza, e senza appagarci mai del successo sperato
facciamo la parte di chi vivrà sempre e non viviamo mai?
E chiunque è più povero a causa dì una ricchezza sempre più ricercata,
e non tiene conto di quel che ha, di quel che non ha solo cupido,
e mentre natura domanda un parco uso di sé,
con la nostra ambizione cumuliamo materia per un'immane frana
e acquistiamo la lussuria col lucro e col lusso la rapacità
e massimo pregio del censo è espandere il censo.
Liberatevi l'anima, mortali, e alleviate i vostri patimenti
e svuotate la vita di tante vane Iagnanze.
I fati reggono il mondo, tutto sta fisso sotto legge gia decisa
e i lunghi periodi sotto il sigillo di già definiti casi.
Dalla nascita è la morte, e la fine dipende dal principio.
Di qui per le creature il fluire del fasto e dei regni e, più spesso,
le origini della miseria e le concesse arti e i costumi
e i vizi e le glorie, e le perdite e gli acquisti di patrimoni.
Nessuno può mancare del concessogli o avere il negato
o catturare con le proprie preghiere una svogliata fortuna
o evitarla se incalza: la propria sorte ognuno ha da sopportare.
Traduzione di Riccardo Scarcia, Milamo, Mondadori, 1996
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Manil., astr., 5, 538-631. Andromeda e Perseo
Andromedae sequitur sidus, quae Piscibus ortis
bis sex in partes caelo venit aurea dextro.
hanc quondam poenae dirorum culpa parentum
prodidit, infestus totis cum finibus omnis
incubuit pontus, fluitavit naufraga tellus,
et quod erat regnum pelagus fuit. una malorum
proposita est merces, vesano dedere ponto
Andromedan, teneros ut belua manderet artus.
hic hymenaeus erat, solataque publica damna
privatis lacrimans ornatur victima poenae
induiturque sinus non haec ad vota paratos,
virginis et vivae rapitur sine funere funus.
at, simul infesti ventum est ad litora ponti,
mollia per duras panduntur bracchia cautes;
astrinxere pedes scopulis, iniectaque vincla,
et cruce virginea moritura puella pependit.
servatur tamen in poena vultusque pudorque;
supplicia ipsa decent; nivea cervice reclinis
molliter ipsa suae custos est visa figurae.
defluxere sinus umeris fugitque lacertos
vestis et effusi scapulis haesere capilli.
te circum alcyones pinnis planxere volantes
fleveruntque tuos miserando carmine casus
et tibi contextas umbram fecere per alas.
ad tua sustinuit fluctus spectacula pontus
assuetasque sibi desit perfundere rupes,
extulit et liquido Nereis ab aequore vultus
et, casus miserata tuos, roravit et undas.
ipsa levi flatu refovens pendentia membra
aura per extremas resonavit flebile rupes.
tandem Gorgonei victorem Persea monstri
felix illa dies redeuntem ad litora duxit.
isque, ubi pendentem vidit de rupe puellam,
deriguit, facie quem non stupefecerat hostis,
vixque manu spolium tenuit, victorque Medusae
victus in Andromeda est. iam cautibus invidet ipsis
felicisque vocat, teneant quae membra, catenas;
et, postquam poenae causam cognovit ab ipsa,
destinat in thalamos per bellum vadere ponti,
altera si Gorgo veniat, non territus illa.
concitat aerios cursus flentisque parentes
promissu vitae recreat pactusque maritam
ad litus remeat. gravidus iam surgere pontus
coeperat ac longo fugiebant agmine fluctus
impellentis onus monstri. caput eminet undas
scindentis pelagusque vomit, circumsonat aequor
dentibus, inque ipso rapidum mare navigat ore;
hinc vasti surgunt immensis torquibus orbes
tergaque consumunt pelagus. sonat undique
Phorcys
atque ipsi metuunt montes scopulique ruentem.
infelix virgo, quamvis sub vindice tanto
quae tua tunc fuerat facies! quam fugit in auras
spiritus! ut toto caruerunt sanguine membra,
cum tua fata cavis e rupibus ipsa videres
adnantemque tibi poenam pelagusque ferentem
quantula praeda maris! quassis hic subvolat alis
Perseus et semet caelo iaculatur in hostem
Gorgoneo tinctum defigens sanguine ferrum.
illa subit contra versamque a gurgite frontem
erigit et tortis innitens orbibus alte
emicat ac toto sublimis corpore fertur.
sed, quantum illa subit, semper, iaculata
profundo,
in tantum revolat laxumque per aethera ludit
Perseus et ceti subeuntis verberat ora.
nec cedit tamen illa viro, sed saevit in auras
morsibus, et vani crepitant sine vulnere dentes;
efflat et in caelum pelagus mergitque volantem
sanguineis undis pontumque exstillat in astra.
spectabat pugnam pugnandi causa puella,
iamque oblita sui metuit pro vindice tali
suspirans animoque magis quam corpore pendet.
tandem confossis subsedit belua membris
plena maris summasque iterum remeavit ad
undas
et magnum vasto contexit corpore pontum,
tum quoque terribilis nec virginis ore videnda.
perfundit liquido Perseus in marmore corpus,
maior et ex undis ad cautes pervolat altas
solvitque haerentem vinclis de rupe puellam
desponsam pugna, nupturam dote mariti.
hic dedit Andromedae caelum stellisque sacravit
mercedem tanti belli, quo concidit ipsa
Gorgone non levius monstrum pelagusque levavit.
Quisquis in Andromedae surgentis tempora
ponto
nascitur, immitis veniet poenaeque minister
carceris et duri custos, quo stante superbe
prostratae iaceant miserorum in limine matres
pernoctesque patres cupiant extrema suorum
oscula et in proprias animam transferre medullas.
carnificisque venit mortem vendentis imago
accensosque rogos, cui stricta saepe securi
supplicium vectigal erit, qui denique posset
pendentem e scopulis ipsam spectare puellam,
vinctorum dominus sociusque in parte catenae
interdum, poenis ut noxia corpora servet.
Segue la costellazione dā€™ Andromeda, che allā€™ascesa dei Pesci
al dodicesimo dei gradi compare come d'oro sulla destra del cielo.
Un tempo la colpa dei genitori sciagurati l'espose
al supplizio, quando ostile sopra la sua patria intera il mare
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tutto si distese, allora ebbe timore la naufraga terra,
un unico flutto fu ciò ch'era regno. Sola proposta
per compensare il flagello, affidare al mare impazzito
Andromeda, che una belva le dilaniasse le tenere membra.
Qesti erano i suoi sponsali; placata la pubblica sventura
con la sua propria, fra le lagrime la vittima si adorna al sacrificio
si drappeggia di veli non preparati con questo augurio,
e d'una adolescente viva senza funerale si snoda il funebre corteo.
Ma come si fu giunti alla riva della nemica marea
Le sono allargate le morbide braccia sopra la dura scogliera;
le serrarono i piedi alle rocce, legami caddero a ricoprirla,
e la fanciulla destinata alla morte fu sospesa a questa croce verginale.
Le resta pur nel supplizio la verecondia dei tratti;
perfino la sofferenza le dona; reclinando il collo di neve
con grazia si prende attenta cura del suo atteggiamento.
Le scivolarono dagli omeri le pieghe acconciate, e lungo le braccia sfuggì
La veste e larga sulla schiena le si posò la massa dei capelli.
Attorno per tre volte strepitò di ali il volo degli alcìoni,
ed essi piansero la tua sorte con un canto di compassione
e ombra ti fecero con l'intreccio delle penne.
Al contemplarti trattenne l'oceano le proprie ondate
e cessò di cospargerne i dirupi che gli erano avvezzi,
e la Nereide sollevò il volto dalla limpida superficie
pietosa delle tue pene le onde stesse inumidì di stille.
Persino l'aria, ristorandone con alito lieve le membra
sospese, fece echeggiare in tono di pianto i lembi della scogliera.
Finalmente Pérseo vincitore della Gòrgone prodigiosa
condusse di ritorno a quelle spiagge quel giorno fortunato.
E come vide la fanciulla pendere a picco sullo scoglio,
impietrò quale non l'aveva irrigidito con la sua faccia Ia nemica,
a mala pena trattenne la spoglia nel pugno, e il vincitore di Medusa
fu in Andromeda vinto. Geloso già si sente delle rocce
e beate chiama le catene che ne avviluppino il corpo;
poi che da lei stessa apprese le cagioni di quella punizione,
decide di entrarle nel letto nuziale facendo guerra al mare,
venisse anche una seconda Gòrgone, non atterrito dalla sua ira.
Affretta l'aerea corsa e i genitori in lagrime
anima con la promessa di salvarla, e pattuite le nozze
ritorna alla costa. Già rigonfio lā€™abisso aveva preso
a sollevarsi e in lunga schiera rifuggivano i flutti
la spinta di una massa mostruosa. Emerge il capo dell'essere
che fendeva i marosi e fiotti rigurgita, tutto attorno con le zanne
fa strepitare onde, e risucchi di mare mulinano nelle sue fauci;
affiorano volute gigantesche di spire smisurate
e il dorso cancella la distesa dell'acqua. Grida d'ogni lato la prole di Nettuno
e perfino ne teme l'alta ripa scoscesa l'assalto.
Sventurata adolescente, benché sotto l'ala di così grande campione,
quale allora s'era fatto il tuo volto: l'abbandonò in un soffio
il respiro! Come restarono prive di tutto il sangue le membra,
quando vedevi dal cavo dello scoglio l'inesorabile fine
e appressartisi a nuoto il giustiziere e sospingere le onde,
tu, preda míserella del mare! Addosso gli vola con un frullo d'ali
Pèrseo e sospeso in cielo contro il nemico appunta
Il ferro macchiato del sangue della Gòrgone, e glielo infigge.
Il mostro gli s'erge contro e distolta la fronte dai gorghi,
la drizza e, in su sostenendosi con le attorte spire,
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guizza e con tutto il suo corpo si slancia in alto.
In quanto gli s'alza contro, con scatti ripetuti dagli abissi,
Altrettanto arretra volando e l'illude nell'aria senza confini
Pèrseo e sferza il muso del cetaceo scatenato.
Pur esso non s'arrende all'eroe, ma smania mordendo
Lā€™aria, e a vuoto sbattono i denti senza potere offendere;
Sbuffa anche zampilli verso il cielo e sommerge il volante
avversario con getti sanguigni e spruzza fino agli astri l'oceano.
Osservava il combattimento la fanciulla, causa del combattimento,
già dimentica di sé trepidò per quel suo campione
sospirando e più con l'animo che col corpo è sospesa.
Affondò alfine la belva con le membra trafitte
ricolma di mare, e di nuovo risalì sul filo delle onde
e ne coprì la vasta distesa con il suo corpo gigantesco,
anche allora paurosa e da non reggerne la vista la fanciulla.
Bagna nel terso bagliore Pérseo il proprio corpo
E più maestoso dalle acque trasvola verso l'alta scogliera
E scioglie dai legami la giovinetta riversa sulla rupe,
a lui promessa col pegno della battaglia, dal marito dotata sua prossima sposa.
Egli fece dono ad Andromeda del cielo e consacrò alle stelle
La mercede di tanto eroica guerra, per cui cadde della stessa
Gorgone un portento non minore e ne rese liberi i mari.
Chiunque nasca al momento del levarsi di Andromeda
dalle onde, si rivelerà acerbo dispensatore di punizioni
guardiano di carcere duro, davanti a cui, eretto nel suo orgoglio,
prostrate giacciano sulla soglia le madri degli infelici
per notti intere desiderino i padri gli ultimi baci
dei loro figli e raccoglierne l'anelito nell'intimo delle loro fibre.
Ne viene anche la figura del carnefice che dà a prezzo la morte
e le fiamme appiccate ai roghi, per cui, la scure serrata nel pugno,
sarà gabella il supplizio, tale infine d'aver potuto soffrire
di guardare la stessa fanciulla pendere dagli scogli,
signore di chi è in catene e condividendone in parte
la prigionia, assicura talora alla pena corpi innocenti.
Traduzione di Riccardo Scarcia, Milamo, Mondadori, 2001
Letture critiche
A. Maranini, Filologia fantastica, Manilio ei suoi Astronomica, Bologna, Il Mulino, 1994, pp. 35-55.
3. L'astrologia maniliana
I cinque libri degli Astronomica narrano di stelle, computi astronomici ed influssi astrali, che
l'autore inserisce nella storia dell'uomo e nel ricordo dei miti del mondo antico. La poesia non è
sempre facile e lieve, perché aggravata da elementi di scienza, la cui comprensione richiede
nozioni di astronomia antica. Parte di questa speculazione si ritrova in autori di trattati
successivi, come Tolomeo (Tetrabiblos) 32 e Firmico Materno (Mathesis), e nelle più tarde
teorie astrologiche arabe, ma né le indicazioni che si traggono da queste opere né i resti dei
trattati che precedettero gli Astronomica, e che fornirono al suo autore parte del materiale,
aiutano a chiarire tutti gli aspetti singolari della speculazione maniliana.
Risale al Cinquecento (e a Scaligero) il tentativo di individuare le differenze tra le teorie
maniliane e quelle precedenti e successive, e tra i primi a indicare le analogíe con le teorie arabe
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ci fu F. Giuntini (Junctinus, 1523-1590) 33 , ma le caratteristíche singolari maniliane furono
interpretate subito come errori nella visione astrologica del suo mondo ed imputate al
pressapochismo dell'autore, di cui venne dileggiata per secoli l'ignoranza in materia.
Fino al Novecento, le qualità dell'astrologo Manilio si riassunsero nelle parole di Lanson, che
Manilio «etsi multa de astronomia legit, pauca intellexisse»: attualizzavano un vecchio giudizio di
Scaligero, trascinatosi fino al 1937 e alla seconda edizione degli Astronomica di A.E. H3ousman,
il quale, pur nella profondità della sua indagine filologica, dimenticò che lo stesso Scaligero
aveva superato l'accusa di ignoranza lanciata contro il poeta ed indicato un'origine degli errori
molto più antica, nelle fonti stesse degli Astronomica 34.
È merito degli studi successivi a quelli di Housman, a Huebner in particolare, se, attraverso
l'analisi complessiva dell'astrologia antica, sono stati defínití i complessi rapporti tra gli
Astronomica e le sue fonti: i due sistemi babilonesi chiamati da Neugebauer A e B 35 , le ricche
fonti egiziane, latine e greche 36, - Teucro, almeno per il libro V 37 - e, tra le latine, anche
qualche lavoro perduto che elencava i segni zodiacali «alla latina», cioè, come fa Manilio,
dall'Ariete e non dal Cancro 38. Infine Nigidio Figulo e probabilmente il Disciplinarum liber sextus
di Varrone, da cui il poeta può aver tratto la costellazione della Libra 39 .
Le linee generali del metodo manílíano sono state enucleate in ciò che è comune e in ciò
che è differente dalla tradizione astrologica più antica. Le caratteristiche del tutto originali sono il
sistema esclusivamente zodiacale, dove gli altri autori fanno intervenire i pianeti, i decani messi
sotto la tutela degli altri segni, l'accordo delle tutele dei segni alle dodici divinità del lectisternium
greco-romano e non ai pianeti 40 ; quanto alle ormai celebri contraddizioni, alle incertezze e agli
errori di questa visione astrologica del mondo, esse sono comuni alle più antiche fonti astrologiche, soprattutto a quelle egiziane 41.
Manilio fu dunque il conservatore di una parte della tradizione e tramandò dottrine
antichissime relative, soprattutto, all'inquadramento filosofico dell'astrologia, che con fluirono più
tardi nei trattati arabi del Medioevo. Egli rappresentava, già ai suoi tempi, un legame con il
passato; tramite il suo poema molte notazioni astrologiche passarono al futuro, ad esempio la
teoria dei decani, eliminata da Tolomeo ma riattualizzata dagli arabi e da celebri manuali di
magia astrologica come Picatrix, che fornì molto materiale di discussione alle Disputationes
adversus astrologiam divinatricern di G. Pico della Mirandola (1463-1494), ai commentari
maniliani di Scaligero, e ai decoratori artistici del Palazzo Schifanoia di Ferrara 42.
Su Manilio, oggi, non pende più la taccia d'ignoranza, anzi, gli si riconosce un'ampia
dottrina astronomica, astrologica e mitografica 43, sia per i passi astrologici in cui si scoprono
analogie con altri autori, sia dove si scoprono criteri singolari. Infatti «qui cherche dans les
Astronotniques, comme auprès des astrologues de l'Antiquíté, un exposé cohérent, une
réponse unique, ne peut qu'étre déçu. A l'exception peut-étre de la Tétrabible, les écrits
astrologiques se présentent non comme des manuels s'efforçant de dissimuler faiblesses et
incertitudes, mais comme des compilations de toutes les sources antérieures, accumulant l es
théories différentes données pour preuves de l'antiquité de la science» 44. Perciò, anche í suoi
cosiddettí errori erano (e sono considerati ora) in linea con la tradizione astrologi ca e con la
complessità cosmologíca e mitografica del mondo antico, che li prevedeva e li proponeva ai
suoi lettori come tali.
4. Incompletezza degli «Astronomica»
Lo stato in cui la tradizione ha trasmesso il testo latino ha acuito le difficoltà che esso offre
alla lettura e ha fatto sì che, nel secolo scorso, Thomas ne g iudicasse il contenuto «obscur,
aride et rebutant», e lo stile non particolarmente brillante «ní par la clarté ni par la gràçe» 45:
era un'opinione discutibile, ma sottolineava, ancora in pieno Ottocento, che uno dei giudizi di
Scaligero - «le texte de I'ouvrage nous est parvenu dans un état déplorable» 46 -era stato
anche troppo ben assimilato.
Anche per questi motivi, i giudizi espressi sugli Astronomica non sono mai stati univoci;
prima di Housman, che arrivò al punto di scongiurare R. Bridges di non perdere tempo a
leggere tutto il poema, bastando i vv. 1,483-531 («he has nothing else so good, and little that
is nearly so good») 47, Ci furono quelli lusinghieri di Scaligero, Giunio, Borrichius, Barthius, Du
Fay, Huet e quelli assai critici di Vives, Vossius, Giraldi, Castelvetro 48. Furono sintetizzati
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tutti da Bechert che, nel 1900, concluse: «singulare esse Manilii genus dicendi, modo
aenigmatum subtilitate obscurum, modo diffluens nimia verbositate, nunc exíle et aridum, nunc
tumidum verborumque iteratione molestissimum nec raro colore poetico destitutum haud
negaverim ... inveniri, qui eum poetae nomine indignum esse iudicent» 49 . Quanta colpa di ciò
debba essere attribuita allo stato della trasmissione e quanta allo stile dell'autore, che
potrebbe aver lasciato incompleto il poema, sono ancora temi di discussione ed interrogativi
che impediscono di risolvere, una volta per tutte, molti problemi testuali.
Un'antica opinione, fondata su alcuni elementi di contenuto e di stile, tra cui aspettative
programmatiche non soddísfatte 50, suggerì che gli Astronomica non fossero finiti. In questo
senso scrissero Bonincontri, Giraldi e Scalígero, e quest'ultimo avvalorò anche l'ipotesi che il
quinto libro fosse seguito da un sesto, dedicato al tramonto delle stelle extrazodiacali. Fu
un'ídea che ebbe gran seguito, anche per una malintesa necessità di parallelismo strutturale
con il De rerum natura di Lucrezio 51, e nonostante la voce contraria di C. De Saumaíse
(Salmasius, 1588-1653), si fece sentire fino a Du Fay, Fabricius, Bechert, Skutsch e Housman
52 , finché Flores e Luehr, indicando nell'epilogo del quinto libro (vv. 734-45) il manifesto della
concezione politica di Manílio, lo vollero considerare un preciso indicatore della fine del poema
53.
L'incompletezza venne addebitata sia a cause oggettive - quelle stesse che servirono a
giustificare il silenzio delle fonti antiche, cioè la morte improvvisa dell'autore 54 e vari ostacoli
politici e sociali 55 - sia alle condizioni della trasmissione, ma se le aspettative non soddisfatte
ríspecchiarono, invece, un semplice mutamento nelle intenzioni poetiche, il motivo
dell'incompletezza viene a cadere. Così, índipendentemente dalla reale esistenza di un sesto
libro perso nel corso della trasmissione, Huebner ha potuto mettere in discussione la
composizione unitaria degli Astronomica, e indicarli scritti in più riprese 56; il fatto che, per
alcuni versi, sia stato recentemente proposto un mutamento di posizione - ad esempio, per gli
ultimi 35 del libro quinto 57 - non si riduce quindi più a un semplice problema di trasmissione.
La stesura in cui gli Astronomica ci sono giunti può essere l'esempio di un progetto poetico
«interrotto» fin dall'ínizío 58, «imperfectum» come scrisse Giraldi 59, il che implica una serie di
conseguenze, come l'essere originale così come è stato tramandato e il non esser mai stato
pubblicato e pubblicizzato per un largo pubblico 60 .
Anche i concetti di incompletezza e imperfezione formale, dunque, sono da mettere
nuovamente in discussione; una soluzione ai dubbi potrà venire, forse, dalla trasmissione
medievale e umanistica, se si riusciranno a svelare le verità più segrete degli excerpta
maniliani che quest'ultima ha tramandato: il frammento conservato nel codice uma nistico
Parmensis Palat. 283 si riferisce, ad esempio, ad un codice di Spira che avrebbe fatto da
antigrafo e ha questo explicit: «sunt libri sex ultimus est completus». Il suo ritrovamento ha
contribuito non poco a riaprire una questione che sembrava per buona parte risolta proprio
sulle cause oggettive e sulle indicazioni programmatiche dell'autore latino.
5.
Angoscia creativa e pubblico
Leggendo gli Astronomica ci si accorge che il poeta incita il suo pubblico ad una
continua attenzione e manifesta una forte angoscia creativa; si rammarica di non riuscire a
inserire perfettamente i dati astronomici e astrologici nel contesto lirico, con espressioni che
fanno certamente parte della strumentazione tecnica topica del poeta latino, di cui s'è già
indicato una cultura di fondo assai complessa e ricca 61 , ma che possono essere anche
giudicati relitti letterari di una sensazione psicologica autentica. Egli manifesta una viva e
angosciante impotenza nei confronti di un materiale eterogeneo e di difficile
omogeneizzazíone, che l'egestas della lingua latina, da lui stesso lamentata, ma «un
problema reale che interessa tutta la poesia scientifica latina» soprattutto quella didascalíca
a cui gli Astronomica appartengono 62, non contribuiva a risolvere.
Manilio è consapevole che la sua arte risente delle difficoltà di rendere attuale e viva una
materia storica, amalgamata con concetti filosofici, miti e nozioni astrologiche, e il timore di
perdere lettori, messi in difficoltà dagli intensi esametrí, può averlo indotto ai con tinui
incoraggiamenti, nel tentativo di tener desto l'interesse per una materia che diventa talora
molto più complessa che in Arato, Cicerone, Germanico, Avieno.
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F. D'ALESSI - Letteratura latina - Parte III,1 - Il periodo imperiale - L'età dei Claudi
70
Inoltre, se i miti e le vicende storiche che rivivono negli Astronomica potevano non creare
problemi al lettore del I secolo legato alla scuola e alla tradizione letteraria 63, che rileggeva
volentieri le storie degli antichi eroi legate dentro un destino stellare o riviveva i momenti
delle guerre civili sottoposte al crudele influsso delle comete, gli argomenti strettamente
tecnici e caratteristici della scienza potevano disinteressarlo, anche se era colto e ne
possedeva una conoscenza generale. Tuttavia, anche altri trattati astrologící proponevano
incongruenze, differenze ed errori, come s'è detto, ed è assai probabile che la conoscenza
astrologica di chi si sentiva attratto dalla lettura degli Astronomica fosse pari a quella del
suo autore e che le caratteristiche astrologiche, comuni o singolari, fossero acquisite come
tali, senza nessuna angoscia intellettuale. Parte dei suoi lettori potevano, dunque, trovarsi a
proprio agio anche nelle parti astrologiche più difficili, se vi riconoscevano una disciplina in
continua evoluzione, come si aspettavano che fosse 64 o se provavano davvero, come chi
leggeva Arato, «il sottile piacere del dotto nel riconoscere le nozioni più rare e ricercate e nel
cogliere le intricate allusioni poetiche» 65.
Forse gli appelli non erano rivolti a tutti i lettori, ma solo a coloro che meno conoscevano
dell'astrologia tradizionale 66 : in ogni modo l'unico lettore «sicuro» degli Astronomica, di
cui conosciamo anche il nome, Firmico Materno, visse troppo tardi per poter essere
considerato un rappresentante tipico per il periodo in cui il poema fu presumibilmente scritto,
ed è discutibile una recente ipotesi che lo indica come un divulgatore degli Astronomica 67.
Può darsi inoltre, che l'attenzione dei lettori potesse venir coinvolta nella tematica filosofica e
nella «peculiare visione del mondo» che il poeta offriva 68, in particolare nelle tematiche
stoiche (come avrebbero fatto i poeti cristiani dei secoli successivi) piuttosto che nella
struttura scientifica o nella ricerca delle differenze astrologiche con le fonti (Arato in partico lare). Queste ultime, d'altra parte, erano note ai letterati colti di corte, cui era indirizzato il
poema nel suo complesso, che non possedevano un testo unico d'astrologia ma fonti
diverse, dalle quali potevano elaborare liberamente le proprie conoscenze.
Se il poeta Manilío si augurava di essere apprezzato da un lettore che sapesse cogliere
la qualità del suo dettato poetico in tutte le sue sfumature, non ha torto chi ha recen temente
scritto che le stesse difficoltà che egli dichiara nell'esprimere idee matematiche e
astronomiche in esametri latini, possono aver avuto anche la funzione di eccitare l'interesse
del pubblico e che di questo fatto l'antico poeta sia stato «fully conscious and - not wholly
justífiably - proud» 69.
6. L'«Erstheitsmotiv»
In Manílio l'angoscia creativa sembra grande quanto la vanità di esser il primo a cantare in
versi il suo difficile argomento caelestis rationis opus, deducere mundo / aggrodior
primusque novis Helicona movere / cantibus (w. 1,3 ss.; cfr. anche 2,49-59; 3,2;
3,393 s.). Egli era consapevole di far parte di una tradizione che aveva a capo Omero,
conosceva bene parte dell'antico mondo astrologico ed è perciò dífficile che potesse
misconoscerne la preminenza temporale rispetto ai suoi Astronomica, almeno per quelle
opere gre che e latine che erano state sue fonti, Arato, Varrone, Cícerone.
La sua sicurezza di essere princeps era perciò, oltre e più di un Erstheitsmotiv topico e
retorico, davvero comune nella letteratura latina soprattutto didascalica 70, la coscienza di
essere davvero il primo in qualcosa, nel tentare quello che a nessuna delle sue antiche fonti era
mai riuscito: organizzare ed amalgamare i dati astrologici, inglobarli in un poema che
appartenesse al genere didattico ma che, insieme a nozioni di mitologia e a racconti di vera
storia, non temesse di «farsi carico delle tensioni sociali e ideologiche del tempo» 71 né di
leggere il reale anche in termini di speculazione stoica 72. Nella sua insoddisfazione dunque coscienza di grandi difficoltà oggettive per lo più di tipo linguistico 73 - va inserita una complessa
serie di dati, tra cui emozioni testuali, tensioni irrisolte, tendenze contrastanti, spunti «talora mai
condotti alle loro più coerenti conseguenzeā€ 74 .
Eā€™ difficile stabilire quanto la funzione didattica sia stata davvero attiva nell'opera maniliana e
quanto reale fosse l'intento dell'autore di far proseliti alla sua dottrina e di dar vita a un
messaggio ideologico paragonabile a quello di un'altra sua fonte, Virgilio: lo sforzo di
«presentarsi quale testo didascalico a ogni costo tradisce forse la difficoltà di ricreare una vera
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71
situazione didatticaā€ 75 . È tuttavia innegabile che nel poema ci siano quelle tracce di
un'íntenzione verso l'insegnamento, e verso un pubblico di discenti, formulata in itinerari
pedagogici «in cui il discente è parte implicita ma non esplicitamente sollecitata ad impegnarsi in
compiti ardui » 76: l'intenzione non sembra affatto esser mancata al poeta e le difficoltà su cui
egli attirò continuamente l'attenzione del lettore sembrano essere state proprio quelle di un
maestro che voleva insegnare e dilettare, e che doveva, nel contempo, far comprendere e far
amare attraverso la parola poetica.
Anche questi motivi possono giustificare le incoerenze e le contraddizioni del testo degli
Astronomica: in parte comuni agli antichi trattati di astrologia, in Manilio sono anche il risultato
degli sforzi di cogliere una domanda e d'incontrare i gusti del pubblico, fondendo insieme il
soggetto, allora moderno, dell'astrologia, con tematiche educative rivestite di mito.
Le difficoltà più grandi che incontrò il poeta latino dovettero essere le stesse dei suoi lettori,
e risiedere, soprattutto, nella materia astrologica, fondamentale in un poema il cui fine era
d'«exposer comment, par la science sacrée du ciel» e dove «l'homme peut accéder a
l'explication de l'univers, comprendre le pourquoi des choses et abandonner l'angoisse de sa
destinée dans la contemplation de l'ordre universel» 77. Manilio fu indubbiamente conteso tra la
sua arte e le sue fonti latine e greche, tra l'integrazione dei miti e quella della storia, tra la
rielaborazione metrica e il desiderio di non mostrarsi un imitatore delle sue fonti bensì un vero
innovatore, tra la sua concezione fondamentalmente elitaria del sociale e il realismo con cui
descrive la vita degli uomini 78 ma si discute ancora se abbia mancato nel compito di rendere
perfettamente leggibile la sua poesia.
Un'ípotesi di Adorno ha indicato in Manilio un vero artista, che è stato capace di creare un
nesso letterario strettissimo tra storia, mito e tradizioni astrologiche, contribuendo anche a
portare a compimento un processo di «scíentificizzazione» dell'astrologia, e a ridurre «in unità» i
diversi aspetti in cui erano penetrati in Roma astrologia e oroscopia, razionalízzandolí e
svuotandoli del loro «mordente magico e operativo» 79: se ai tempi di Augusto e Tiberio la
tematica maniliana rappresentò proprio questo, non è più chiaro quali danni il poeta potesse
ricevere dalla politica imperiale, a meno che il proemio del libro primo, che dichiara invece il
carattere sacro e magico della poesia e deriva forza e originalità da fonti più importanti del
potere politico - la stessa materia astrologica -, fosse sentito, com'è ipotesi di Flores, difforme
dall'ideologia augustea ufficiale, nonostante l'invocazione a Caesar del v. 1,7 80. Secondo
recenti ricerche, inoltre, la «vera novità» offerta dal poema di Manilio po trebbe consistere proprio
nell'inserimento di alcune pratiche magiche nelle artes, ed è stata posta anche la questione se il
poeta latino abbia voluto compiere un atto di sfida e pretendere per la magia «quel diritto di
cittadinanza nel novero delle artes, negatole da più parti da una dichiarata ed ostinata
avversione» 81.
Nella letteratura astrologico-maniliana più recente, infine, sembra essere iniziato un processo
che esclude Manilio dal novero dei grandi che scrissero di astrologia 82, e fa sentire la sua voce
anche chi pensa che la supremazia della prosa sulla poesia come «proper medium for
instruction», in epoca augustea, «is not seríously contested by learned tours de force such as
Maniliusā€™ On the Stars» 83: Manilio sembra ad alcuni dei suoi lettori moderni un normalizzatore
e riordinatore non compiuto o, nella migliore delle ipotesi, un artista dimidiato, che sentì cioè il
bisogno di essere tale nella sua integrità ma che non fu capace di realizzare i suoi intenti. A
queste teorie, che non mettono in conto neppure l'ipotesi dell'incompiutezza dovuta a cause
esterne, e che indicano negli Astronomica solo una fonte dell'astrología antica, sono state
recentemente contrapposte altre ipotesi, di esiti artisticamente compiuti, realizzatisi in «immagini
pregnanti e in essenzialità, talora oscura, di trapassi», secondo uno stile volutamente
«compendiario» che individua negli Astronomica gli ultimi apporti di un alessandrinísmo ormai
tanto raffinato da «rasentare l'oscurità espressiva ā€œ 84 .
7. Manilio e Germanico
I limiti cronologici augusteo-tiberiani degli Astronomica, cioè gli anni 9-22 d.C., sono oggi
prevalenti, anche se la data finale non è suffragata né da elementi esterni al testo né dalla
cronologia delle tradizioni astrologiche coeve; secondo una teoria, il poema latino rimase inedito
per la maggíoranza dei lettori almeno fino all'età di Costantino, quando Firmico Materno, come
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accertò tra i primi A. Turnebus 85, ne consultò una copia per la sua Mathesis astrologica e lo
trovò così interessante per i suoi scopi da utilizzarlo senza remore e senza citare l'autore 86.
In realtà gli Astronomica sembrano aver esercitato la loro influenza su altri, oltre che su
Firmico, almeno su Seneca, Lucano, il poeta dell'Aetna, V. Flacco, Giovenale e poi Nemesiano,
Claudiano, Commodiano 87, M. Capella 88; ebbero contatti, pare, anche con quegli autori
cristiani che vennero influenzati dal pensiero stoico, come Orienzio, Draconzio, C.M. Vittore 89,
e con quella parte della cultura cristiana che, venuta in contatto con l'antico codice Lipsiensis
degli Astronomica (XI sec.), vi chiuse il poema latino con i versi medievali carmina praeclaras
signant caeli regiones / fistula quas cecinit Christiani docta magistri 90 e forse, molto più tardi,
corruppe il v. 4,87 dedicato a Catone (invictum devicta mort e per l'esatto invicta
devictum mente) 91.
In ogni modo, gli influssi non appaiono sempre univocamente attribuibili e spesso non
aggiungono che somiglianze solo formali ai rapporti tra Manilio, la sua opera,
il suo tempo e le sue fonti latine che, dal punto di vista stilístíco, si riassumono nell'influsso di
Cicerone, Virgilío, Ovidio, e in quello talora più forte di Lucrezio 92.
Le incertezze maggiori nell'attribuzione di tali influssi riguardano gli autori a lui
contemporanei, in particolare Germanico (15 a.C.-19 d.C.), perché negli Aratea, la sua
traduzione dei Fenomeni di Arato, si notano forti analogie con gli Astronomica 93.
Tuttavia, la loro cronologia - generalmente stabilita, quanto alla pubblicazione, nel periodo
che segue la morte di Augusto, nel 14 d.C., e quanto al momento della composizione, nei
tre o quattro anni precedenti il 16-17 94 - non è accettata da tutti gli studiosi ed anche per
loro può valere una datazione di mezzo tra l'età di Augusto e quella di Tiberio.
Alcuni critici hanno indicato la loro composizione nel periodo 14-19 sul fondamento dei w.
558-60, che celebrano la divinizzazione di Augusto", altri negli anni 13-14 96 e altri ancora
non vedono nessun motivo per non arretrare la datazione al 12, durante le sue missioni in
Germania e in Gallia: «quelques capsae pouvaient lui suffire, si ses sources sont bien celles
que décrivent les spécialistes. Et on n'oubliera pas yu'Agríppine étaít venue le rejoindre;
deux ou trois de leurs enfants sont nés en pays trévire» 97.
Tutti questi periodi sono successivi all'anno della disfatta di Varo, il 9, che può valere, per
eventuali influenze di Manílio su Germanico, solo per il primo libro degli Astronomica : tuttavia
anche il loro proemio, con i versi 1,9, che per alcuni sono legati alla deificazione di Augusto,
potrebbe indicare un periodo successivo al 14; la datazione degli altri libri è però assai incerta,
come s'è visto, quella del quinto indeterminabile 98, e l'anno 22, data finale presunta e
discussa, è assai lontano dal 17, e anche dal 19 in cui morì Germanico. Anche l'ipotesi che
Manilio fosse già vecchio quando compose il poema e che quindi abbia potuto influenzare il più
giovane Germanico 99 è stata talora esclusa, almeno per Manil. 1,113 segg.: hoc mihi surgit
opus non ullis ante sacratum / carminibus faveat magno fortuna labori, / annosa et molli
contingat vita senecta.100
La quaestio è un'altra di quelle ancora irrisolte, e può essere passata sotto silenzio anche la
celebre opinione di Lachmann, che indicò addirittura Germanico tra gli amici di Manilio 101;
neppure Bechert fu completamente convíncente quando ipotizzò che il poema di Germanico non
fosse ancora pubblicato quando Manilio era giunto alla metà del primo libro degli Astronomica
perché quest'ultimo conserva, appunto, i vv. 1,113 ss. La pubblicazione dell'opera di Germaníco
avrebbe dovuto, infatti, indurre Manilío a cancellare almeno il v. 1,113, quello in cui il poeta si attribuisce la paternità del poema latino di tipo astrologico 102, ma il nostro autore può non aver
affatto letto Germanico, non aver rícorretto il proprio originale, aver inteso il poema arateo come
una semplice traduzione dal greco, aver edito il suo lavoro solo a fascicoli staccati, aver voluto
correggersi senza poterlo più fare, o, come abbiamo visto, aver seguito molte altre motivazioni.
Certamente gli Aratea di Germanico furono pubblicati e pubblicízzati, fruirono della
popolarità già enorme di Arato e, come opera di un membro della dinastia imperiale, ebbe ro
maggior fortuna degli Astronomica , che, anche nella assai improbabile ipotesi che siano stati
distribuiti ad un più vasto pubblico, nel testo in cui ci sono stati tramandati paiono di più
disagevole lettura.
Sul problema del rapporto Manilío-Germanico dunque, possono solo esser espresse delle
opinioni, da un lato quelle di chi pensa che Germanico abbia conosciuto Manilio ma che il
fenomeno non sia «reversibile» 103, o indica (o ha indicato) la priorità di Manilio 104 o di
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Germanico da reciproci prestiti 105, dall'altro í prudenti giudizi di chi ha suggerito che «per
quanto ci siano somiglianze tra Germanico e Manilio non si può dire quale dei due sia stato
fonte dell'altro» 106.
31
C. Salemme, Introduzione, cit., p. 69, propende per una datazione tardo augustea.
32 In 7,olar (i. e. B. King), The History of Astrology, London, 1972, p. 801a traduzione in inglese dei vv.
4,698-706 serve a dirnostrare che sono simili alla speculazione di Tolomeo.
33
F. Junctinus, Speculum astrologràe quod attrnet ad iudzéiariam rationem natívítatum atque annuarum
revolutionum: cum nonnullis approbatzs astrologo rum sententirs, Lugduni, 1573, p. 14.
14 G. Lanson, De Manilró, cit., pp. 55 s.; Ilousrnanz, pp. ix s., xiii, xìx, xx.
5
j O. Neugehauer, A History of Ancient Mathemutreal Astronomy, I, Berlin, 1975, pp. 718, 722 (su cui
anche A. Graftou, ]oseph .Scaltger, cit., p. 329, n. 108). Per i rapporti con lpparco e Eudosso v. ora anche S.
Feraboli, Il coluro equinoziale secondo Eudosso, Ipparco e Manilró, in «Maia», n.s., 42 (1990), n. 1, pp.
562 ss.
}° A. Grafton, ]oseph ,Scalzger, cit., p. 203. Secondo Kleinguentlver (Quaestrónes, ci[., p. 13) e R. Blum
(Manrlíus' Quelle im errten Buche der "Astronomica", diss. Berlin, 1934, citato in Salernme, Introduzione,
ci[., p. 14) Manilio usò anche dei compendi. V. anche A. Bartalucci, Una fonte egizia di età tolemat*ca nell a
geografia zodrvcale di Manilró, in «Studi italiani di filologia classica», 33 (1961), pp. 90-I(x).
37 W. Hiibner, Die Paranatellonten im Lrher Flermetzs, in «Sudhoffs Archiv», 59 (1975), pp. 387 -414.
js Ipotesi di Lanson (De Manilró, cit., pp. 54 s.) sull'autorità di Gruppe e Letronne. Kleinguenther
(Quaesttónes, cit., p. 11) aggiunse altre indicazioni bibliografiche con le opere di Diels, Malchin, Martin
(«Rhein. Mus.», 52, 1897, p. 353, n. 2), Maass (ed. di Arato, Berlino, 1893), Wieck (diss. Gryl>h., 1897),
Mueller, Moeller, Boll. Gli studi più recenti sulle fonti dell'astrologia maniliana sono di W. Hiibner, Die
Ergenschaften der Tierkreiszereben in der Antike, cit.; Id., Manilius, cit.; Id., Die Rezepttón des
astrologischen Lehrgedrchts des Manilrús, cit., tutti con un'ampia bibliografia astrologica.
39
Per questa costellazione v. W. Iliibner, Das Sternbild der Waage bei den rómischen Drchtern, in
«Antike und Abendland», 23 (1977), pp. 50-63; per Varrone v. Id., Die Begrrffe "Astrologie" und
"Astronomie" in der Antike. Wortgeschichte und Wissenschaftssystematzk mit einer Ilypothese zum
Terminus "Quadriuium", Stuttgart, 1990 (Abhandlungen der Akademie der Wissenschaften und der
Literatur, 7, 1989), p. 17.
^° \Xt. Hiibner, Munilius, cit., p. 147.
4
' Un elenco degli "errori astrologici" maniliani è in W. Iliibner, Manilius, cit., pp. 147 s. e n. 80, in J.H. Abry,
L'astrologie à Rome, cit., pp. 51 s. e in A. Grafton, Joseph Scalrger, cit., pp. 201 ss. C. Salernrne (in
Introduzione, cit., p. 90) ha aggiunto alle inesattezze individuate da Goold Manilius, quella dei vv. 5,487-489
comune anche a Hyg. astr., 2,16. V. anche J. Hieroz, Manílrús et la tradrtrón astrologiyue, Nice, 1941 e
ora S. Costanza, Ci fu un sesto libro degli «Astronomica» di Manihó?, in AA.VV., Filologia e forme
letterarie. Studi offerti a F. Della Corte, Urbino, 1987, 3, 1). 237, n. 23.
4
' V.W. Hiibner, Manilíus, cit., pp. 145-149 e A. Grafton, Josepb Scalrger, cit., pp. 208, 210, 219, 336 s. Per
la teoria dei decani v. W. Gundel, Dekane und Dekansternbílder. Ein Beítrag zur Geschzehte der
,Sternbilder der Kulturvólker, Gliickstadt-Ilamburg, 1936 (Stttdien der Bibliothek Warburg 19), Darmstadt,
1969; zper Pico v. G. Pico della Mirandola, Drsputatzónes adversus astrologiam dzvznatrrcem libri, a cura di
4
E. Garin, Firenze, 1946-1952; per Schifanoia v. qui, nella parte terza. } C. Salemme, Introduzione, ci[., p. 92.
44 J.H. Abry, L'astrologie à Rome, cit., pp. 52 s. V. anche R. Turcan, Littérature astrologz'que et
astrologie lzttéraire dans l'Antr guité classrgue, in «Latornus», 27 (1968), n. 2, pp. 392-405.
°5
P. Thomas, Notes et conjectures sur Manrlius, Bruxelles, 1892, p. 3. 46 Espresso in una lettera a Dupuy
del 30 giugno 1577: v. A. Grafton, Joseph Scalrger, cit., p. 186. Per lo stile di Manilio v. la ricca bibliografia
fornita da Salernme nella sua Introduzione (in particolare, A. Cramer, De Manilii qui diaÍur elocuttóne, diss.
Argentorati, 1882); v. anche C. Giovine, Note sulla tecnica imitativa di Manílio, in «Rivista di filol. ed istr.
class.», 106 0978),p. 98 e W. Iliibner, Manilius, cit., pp. 138, 214. Una raccolta di giudizi è in G.B.A. Fletcher,
Manilrús, in «Durham }lniversi[y Journal», 65 (1973), p. 129 (devo questa indicazione a W. Iliibner). Per il
lernma profundus v. I'. Mantovanelli, Profundus, Roma, 1981, pp. 167 s., 169 s.
47 In II. Maas, The Letters of A.E. Housman, Cambridge (Mass.), 1971, p. 222. Le vicende che legarono
Housman all'edizione degli Astronomica sono narrate in G. Richards, Ilousman 1897-193<, cit., passim.
4
" Tranne quello di Vives, tutti i giudizi sono ricordati nella Vita di Manilio di Ar gelati. Per i riferimenti
maniliani di Vives, compresi nel terzo libro del De tradendrs drscz'plznzs (seconda parte del De corruplis
artibus tomi tres, c. 1531) v. J.L. Vives Valentinus, Opera in duos drstincta tomos, Basilea, 1555, 1, p. 483.
Essi furono ricordati anche in Gesner, p. 495 ([voce: «M. Manilij Astronornicón»] Manilij astronomicon - inquit
Lod. Vives - grave est, sed didascalicon e[ sine motu, yuernadmodum de Arato Quintilianus inyuit: etsi hic nos[er
assurgit nonnunyuam, et ardentius spirat») e in T. Ctenius, Animadversíones, ci[., 12 (1704), p. 8. II luogo di
Quintiliano è inst. orat. 10,1,55 Arati materia motu raret, ut in qua nulla varíetas, nullus adfectur, nul la
persona, nulla cuiusyuam sii oratio, sufficz't tamen operi, cui se aequalem credrdit.
49
M. Bechert, Prolegomena, cit., pp. 297 s. Per una parte dei giudizi moderni sugli Astronomica v. ora W.
Iliibner, Manilíus, cit., pp. 133, n. 28, 147, n. 79, 214, n. 242.
3°
Ad esempio la promessa di cantare anche i pianeti (v. 2,965 ss.): v. W. Hiibner, Manílius, cit., pp. 245-247
e E. Romano, La struttura, cit., pp. 52, 54 s., 63, 65, 69.
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3
74
' Su questo v. ancora G.B. Conte, E. Pianezzola, Storia e testi, cit., 3, pp. 71 s.; sui rapporti ManilioLucrezio v., in particolare, 11.1ā€” Rósch, Manilius und Lukrez, diss. Kiel, 1911 e F.F. Liihr, Ratio und Fatum
IJr'chtung und Lehre bei Manilius, diss. Frankfurt a.M., 1969, su cui E. Romano, Recenti studt; cit., pp. 3943.
Il Su questi problemi v. ora anche S. Costanza, Ci fu un sesto libro, cit., pp. 223-263.
13 E. Flores, Contributi, cit., p. 83; F.F. Liihr, Ratio und Fatum, cit., p. 68; E. Romano, Recenti studi, cit.,
p. 43. Un'ipotesi sul quinto libro venne formulata da A. Reeh, Interpretationen zu den Astronomica des
Manilius mit besonderer Berúcksicht:'gung der philorophischen Partien, diss. Marburg-Lahn, 1973, p. 154,
secondo il quale «zwischen dem IV un V Buch ist cine scharfe Z~sur anzusetzen». Contrario all'esistenza di un
sesto libro si mostra ora L. Landolfi, Manilío e la gerarchia delle stelle (Astr. 5,734 -745), in «Prometheus», 17
(1991), p. 256, n. 45.
5
° H. Kleinguenther, Quaestiones, cit., pp. 10 s.; C. Brakman, Manilzàna, in «Mnernos.», 50 (1922), p. 78. V.
ora anche S. Costanza, Ci fu un sesto libro, cit., p. 245, n. 43.
ss Manilio sembra essere rimasto allineato, nel complesso della sua opera, alla politica di Augusto, che
scorgeva negli astri la giustificazione dell'ordine sociale e metteva l'astrologia a disp osizione della propaganda
politica (v. W. Iliibner, 1.'astrologie dans l'antigufté, in «Pallas», 30, 1983, p. 6, e C. Salemme, Introduzione,
cit., p. 65), rna anche 1'irnperatore Tiberio ebbe la mano assai pesante contro chi esercitava l'astrologia, e non si
sa quanto considerasse diverso lo scrivere di poesia astrologica e il fare vaticini od oroscopi. V. anche R.S.
Rogers, The Date of the Bantshment of Astrologers, in «Class. Phil.», 26 (1931), pp. 203 ss., e, sul
problema, in generale, F.II. Cramer, Astrology rrr Roman Law and Politics, Philadelphia, 1954 (The American
Philosoplucal Society 37). Una breve sintesi dei rapporti tra astrologi e potere imperiale è ora in L. 7.usi,
L'astrologia in Roma nei primi secoli dell'impero, in «Cultura e scuola», 30, 117 (1991), pp. 24-31 (mi è
stato indicato da U. Montanari).
sb W. Hiibner, Manilius, cit., pp. 242 ss.
57 S.J. Tester, A Flrstory, cit., p. 32 li ha attribuiti al primo.S" Per questo concetto v. V. Branca e J.
Starohinski, La filologia e la critica letteraria, Milano, 1977, p. 173.
39 L.G. Giraldi, De htstnria poetarum, cit., dial. IV.
6
° L. Ilerrmann, Ilypothèse, cit., p. 88 ha visto una caricatura di vv.maniliani in Petron. 35,1-5, il che sarebbe
indicativo della buona circolazione degli Astronomica in età petroniana, se fosse vero. La portata
«zodiacale» della cena trirnalcionica prevede ceci aretini sull'Ariete, un pezzo di rnanzo sul Toro, testicoli e
rognoni sui Gernelli, una corona sul Cancro e così via; gli influssi esercitati dai segni in Petron . 39,5-13 prevedono, inoltre, che chi nasce sotto il segno dell'Ariete possiederà, oltre ad una testa dura, a una faccia di
bronzo e alle corna sempre diritte, molte pecore e rnolta lana, che sotto il segno del Cancro sia nato
Trimalcione, che si regge su molti piedi e possiede molti beni per terra e per mare, che sotto la Vergine
nascano anche gli schiavi che scappano e quelli che vengono stretti in ceppi, e così via, ma se si cfr. Manil.
4,124 s. per ]'Ariete, 4,140 s. per il Toro, 4,165-175 per il Cancro, 4,190 per la Vergine, si nota che tra i
due autori non sembra esserci alcuna corrispondenza né formale né contenutistica, e non offre appigli
neppure l'influsso del l'oro di Petron. 39,6-7, che fa nascere scontrosi, bifolchi e quelli che bastano a sé. Il
verso maniliano di confronto, infatti, immundosque greges agrtant per sordida rura (5,125) mette in
carnpo un preciso riferimento a Iadi ed Ariete. Sul passo di Petronio v. I;.F.C. Rose e J.P. Sullivan,
Trimalchro's Zodràcal Drsh (Petronius, "Sai.' 35,1 -5), in «Class. Quart.», 18 (1968), pp. 180-184; sul v.
5,125 s. A. Maranini, Nel laboratorrofilologzeo degli umanisti e nell'officina moderna: storia e pro blemi
della tradriione di «Maral.» 5,12(), in «Schede urnanistiche. Archivio umanistico rinascimentale
bolognese», quad. n. 1 (1988), pp. 9-71.
6
' Su questi problerni v. E. Romano, La struttura, cit., pp. 9-20, 43 s., 46, n. 80; Ead., Gli appelli al lettore
negli "Astronomria" di Manilio, in «Pan», 6 (1978), pp. 115-125; Ead., Recenti studi, cit., p. 41. Sulla topica
letteraria maniliana v. P. Dams, Dzcbtungskritik bei nachaugusterschen Dichtern, Marburg, 1970, p. 34.
62 E . Romano, Recenti studi, cit., p. 44. Sul poema didascalico v. B. Effe, Dichtung und Lehre.
Ilntersuchungen zur Typnlogie des antiken Lehrgedzchts, Miinchen, 1977 (Zetemata 69); A. Cox, Didactic
Poetry, in AA.VV., Greek and Latin Lz'terature. A Comparative Study, a cura di J. Iligginbotham, London,
1969, p. 155 s., e ora anche C. De Meo, Lrngue tecnr'cbe dellatrrro, Bologna, 1986, pp. 238-242. C'è chi,
come N. Campion, An Introduction, cit., p. 33, ha indicato l'utilità pratica degli Astronomica («the Romans
discovered the practical uses of astrology in a way unknown io its previous initiates» ), portando ad estrerne
conseguenze un discutibile giudizio di A. Bouché-Leclercq, Hzstoire de la divination dans l'Antiqur'té, 1,
Aalen, 1978 (Paris, 1879), p. 253: «le poème de Manilius, dont ori a comparé la foi enthousiaste à l'ardente
conviction de I,ucrèce, mettait alors les dogmes astrologiques à la portée de tous».
63
V.L. Baldíni Moscadi, Il poeta fra storia e ideologia, Manilro e le
guerre civili, in AA.VV., Cultura e ideologia da Cicerone a Seneca, Firenze, 1981 (Quaderni di filol. lat. 1), pp.
39, 42, 50.
6
° S.J. Tester, A History, cit., p. 44: essa era «in the early stages of its growth from crude beginnings witlr
yuadrants and various influences from the stars io more precise use of the signs of the zocíiac, and more and more
coni k)licated subdivision into different sorts of dodecatemoria, down to half-,i of signs».
bs A. Perutelli, Il testo come maestro, in AA.VV., Lo spazio letterario di Roma antica, 1, Roma, 1989, p.
307.
" Comunque stessero le cose, appelli e incoraggiamenti scompaiono progressivamente nel quinto libro, proprio
dove la materia diviene prevalentemente mito, dove la scrittura perde il rigore scientifico che l'ha caratterizzata e
l'astrologia diviene un pretesto per dare spazio alla fantasia e alla poesia: v. E. Romano, Recenti studi, cit., p. 42; L.
Landolfi, Manilró e gli eroi della via lattea: tra doctrina e ideologia, in «Giorn. it. di filo].», 42 (1990), pp. 8798, e Id., Manilzó e la gerarchia delle stelle, cit., p. 257, n. 46.
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67 N. Campion, An Introductron, cit., p. 36: «his most enduring achievement, apart from publicising the work of
Manilius, was his publication of ... the Mathesis».
6
" C. Salemrne, Introduzione, cit., pp. 45, 82 ss. e n. 12. 69 S.J. Tester, A History, cit., p. 30.
" Per cui v. ancora ILL. Rósch, Manílius und Lukrez, cit., p. 67; M. Pauer, Zur Frage der Datierung des
astrologírchen Lehrgedrehter des Manilius, diss. Miinchen, 1951, p. 8; W. Wirnmel, Kallimachor in Rom. Die
Nachfolge seínes apologettschen Dtehtens in der Augusteerzeit, Wiesbaden, 1960 (Hermes. Einzelschriften.
Hft. 16), p. 229; F.F. Liihr, Ratio und Fatum, cit., pp. 31-43; A. Reeh, Interpretatronen, cit., pp. 28 ss.; E. Romano,
Recenti studi, cit., p. 45.
L. Landolfi, Numyuam futtilrhus excandult r'gnibus aether (Man. Astr. L,87(). Comete, pesti e guerre
civili, in «Studi italiani di Filologia Classica», 8 (1990), n. 2, p. 248.
2
t C. Salemme, Letteratura Latina imperiale da Manilio a Boezró, Napoli, 1993 (Studi latini 9), p. 13.
L. L.andolfi, Manílro e le ansie dell'insegnamento: l'uexcursus» me todologrio (Artr. Il, 750-878), in
«Pan», 10 (1990), p. 30: «Manilio appare tormentato dalla difficoltà di introdurre nell'esametro vocaboli
prosodicamente riluttanti alle leggi metriche».
71 C. Salernme, Introduzione, cit., pp. 7, 11; a pp. 94 s. lo studioso indica un segno evidente di successive
evoluzioni poetiche in alcuni catasterisrni che, condannati in 2,25-38, «ricorrono altrove con una propria storia
evolutiva».
A. Perutelli, Il testo come maestro, cit., pp. 307 s.: il progetto di Manilio fu quello «assai più contenuto» di «proporre
una concezione dell'universo». Tuttavia, Perutelli stesso ha indicato (p. 309) che «la forma didascalica... è
intimamente connessa con la propria funzione, quella di comunicare un contenuto scientifico» e non c'è alcun du bbio
che Manilio avesse davvero intenzione di cornunicare un vero contenuto scientifico. Su questo v. ora L. Landolfi,
Manilio e le ansie dell'insegnamento, cit., p. 28.
76 L. Laudolfi, Manilio e le ansie dell'insegnamento, cit., pp. 36 s. 77 J.II. Abry, L'astrologie à Rome,
cit., p. 49.
w
7" C. Salemnre, Letteratura Latina imperiale, cit., p. 15. F. Adorno, La filosofia antica, cit., pp. 238 s. Uno
degli strumenti utilizzati fu il catasterismo, la trasformazione dell'eroe in una costellazio ne, un atto creatore
della fantasia che diventò anche un elemento della memoria e si conciliò con la realtà ideologica imperiale e
con le credenze stoiche della divinità degli astri: C. Santini, Il segno e la tradizione in Germanico
scrittore, Roma, 1977, p. 1. V. anche J. Bayet, L'immortalíté astrale d'Auguste ou Manilius
conzmentateur de Virgzle, in «Revue des ét. lat.», 17 (1939), p. 163, e ora P. Domenicucci, Astra
Cnesarum_ Note sul catasterismo a Roma, Chieti, 1989 (Collana di studi degli Istituti di Lettere).
no L. 1'lores > Dallato alla storia, Maniltó e la sacralità del potere augusteo fra poetica e ideologia, in
«Viclviana», n.s., 11 (1982), pp. 109-13(l. Sui proemi maniliarri in genere, v. almeno A. Dawson,
L'mendatróns in Manzlrús 11 Proem, in «Class. Rev.», 22 (1972), pp. 159-164 (su cui v. I;. Flores, Per la
ricostruzione, cit., p. 126); A. Marchi, Struttura dei proemi degli «Astronomica» di Manilró, in «Anazetesis»,
6-7 (1983); P.lí. Schrijvers, Le chant du monde. Remaryues sur Astronomrea I 1 -24 de Munrlius, in
«Mnernos.», 36 (1983), n. 1-2, pp. 143-150; A.M. Wilson, 7b.e Prnlogue io Manilius 1, in «Papers of the
Liverpool Latin Seminar», 5 (1')85), pp. 283-298: l.. Baldini Moscadi, Manìlío e i poeti auRu.stei.
Considerazioni sul proennó del !I e del 111 lib ro degli Astronomica, in AA.VV., Munus anzfcztiae. ,Scritti
in rnemortà di A- Rnnconf, Firenze, 1986, pp. 3-22; D.
Liuzzi, Rilettura del Proemio del L.II degli 'Astronomica" di Manilzó, Galatina, 1990.
"r G. Flammini, La "Praefattó" agli «Astronomica» di Manrlio, in AA.VV., Prefazioni, prologhi; proemi di
opere tecnt~o-scientrficbe latine, a cura di C. Santini e N. Scivoletto, 1, Roma, 1990 (Biblioteca del «Giornale
italiano di filologia», 7), pp. 58 s. L'autore ha preferito concludere, tuttavia, che il riferimento alla magia di 1,9195 è finalizzato solo a «sottolineare la forza della sollertzà [cfr. 1,95 omnia conando docilrs sollertia vz'czt] e
ad additarne le strabilianti proprietà». Per questo argomento cfr. anche L. Baldini Moscadi, A proposito di
Manrlró 196-104 e Orazio carm, 1,3,37-40, in «Atene e Rorna», n.s., 25 (1980), pp. 163-166.
Sz V ., ad esempio, in T. Hungad, A Brief Hrstory of AstroloRy, in AA.VV., The Beginnzngs of AstroloRy in
America Astrology and the Reemergence of Cosmtc; Relrgrón, a cura di J.R. Lewis, New York-London,
1990, p. 2: «among the great Romans who snujied and wrote on file subject of Astrology are Galen, Propertius,
Virgil, Horace, Cicero, Nigidius Figulus, I'liny and Macrohius».
a} K. Quinn, Texts and Contexts. The Roman Wríters and theri Audfence, London, Boston and Ilenley,
1979, p. 143. A p. 127: «In addition io the poems which survive [Virgilio, Ovidio, Manilio] wc hear of a nunrber
of others... llidactic poetry seems indeed io have become, like mythological epic, a ge nre for tbe dilettante poet,
something tlrat a filali who was of a bookislr turn of mind and possessed of rnodest talent for verse could work
away ai happily for a long tirne».
s
° C. Salemme, Letteratura Latina imperiale, cit., p. 15.
R
s A. 'hurnebus, Adversartórum tomus secundus duodecim libros cr>ntinens, Parisiis, 1565, pp. 261 ss.
G.G. Scaligero confrontò il libro 8" della Mathesz's con gli Astronomica identificandone í passi conntni
(v. A. Grafton, Joseph Scaltger, cit., p. 325, n. 79), Reiuesius nelle lettere a Bosio indicò l'ottavo libro di
Firmico come una compilazione del quinto di Manilio e Argelati nella Vita maniliana trovò che il proemio
del terzo libro <li Firrnico è uguale al proemio del quarto di Manilio.
R6
Ora non si considera più l'utilizzo di I'irmico corne una mera irnitazione, dopo quanto ne anticipò
Housman V (1930), pp. xliii ss.: Manilio è una delle fonti dell'ottavo libro sul fondamento dell'identità del
lessico e non degli assiomi astrologici, che potevano provenire da una fonte co nmne; la prova che Manilio
non fu l'unica fonte non sta nelle loro divergenze perché rnolte possono essere «laid ai the door of
1'irmicus' scrihes»; altre divergenze sono congetture di Firmico, che corregge erro ri di Manilio, altre ancora
sono alterazioni deliberate. La più recente rivalutazione di Firrnico, sulla scorta delle comuni fonti, è in W. i
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liibner, Manrlius, cit., pp. 139-144 (Firmico non compilò la sua Mathesis solo su Manilio, né Manilio fu una
sua fonte primaria e le fonti connuri dei due aut ori latini sono, in particolare, Teucro e la Sfera BJrbaWv); v.
anche
Id., Zur neuplatontschen Deutung und astrologischen Verwendung der Dodekaoros, in AA.VV., Studien zur
Geschr'schte und Kultur des Altertums. Fest-schrtft M. Sicherl, Paderborn-Miinchen-Wien-Zii rich, 1990, p.
92; Id., voce Frrmicus Maternus (lulius Frímicus Maternus iunior), in AA.VV., Handbuch der
Altertumsumssenschaft, VIII: Restauratrón und Erneuerung. Die lateínrsche Llteratur von 284 bis 374 n. Gr,, a
cura di R. llerzog, Miinclren, 1989, pp. 84-93. V. ora anche F. Fontanella, A proposito di Manil:ó e Ftrms'co,
in «Prometheus», 17 (1991), n. 1, pp. 75-92.
Comm. carmen de duob, pop. 1 s.: guis poterrt unum proprie Deum nosse caelorum, / nlsi quem rs tulerrt
*** ah errore nefando? (cfr. Manil. 2,115 s.; v. anche Manil. 1,802 per Cornm. 116 e Mani]. 2,896 per Conun.
712).
e" Per M. Capella v. il giudizio di Eyssenhardt in prefazione alla sua edizione (Leipzig, 7866, p. Ivi),
secondo cui l'ottavo libro di Marziano Capella «mirum in modum Ma nilio consentiat»; per gli altri autori v.
l'ampia bibliografia fornita da Salemme nella sua cit. Introduzione.
ey Per Orienzio v. Commonitorium 1,603 (clausole «mollia dttris» e «componere magna» per cui cfr.
Manil. 5,550 e 4,53). Per M. Vittore v. Mar. Victor aleth. 3,250 s. nullus terreno vesttÍus corpore caelum /
ascendtt, nisi qui caelo descenderit alto (cfr. Mariti. 4,817); l'edizione Martin (Turnlrolti, 1960, p. 278) offre
altri luoghi per confronti maniliani. Sull'influenza del pensiero stoico nell a prima cristianità v. almeno M.
Lapidge, A Store Metaphor in Late Latin Poetry: the Bindrrrg of tbe Cosmos, in «Latonnts», 29 (1980), n. 4,
pp. 826-831. Si possono ricordare poi l'ignoto autore del Carmen de providentia divina (clausole «condita
causis» 121, cfr. Manil. 4,196 e «motus alít» 123, cfr. Manil. 2,80), Prudenzio e la clausola di Ilamartrgentv
236 «foedere certo» (cfr. Manil. 2,478); Alcimo Avito e le clausole di Poema de Mosazcae historiae gestr's
1,60, 3,85, 4,33, «foedere nnrndum» (cfr. Manil. 1,493) e «{oedere rupto» (cfr. Manil. 1,898), per i quali v.
ancora M. Lapidge, A .Stoic Metaphor, cit., pp. 826831.
9
° V. sul codice e in M. Bechert, De M. Manilii emendandi rattóne, in «Leipz. Stuei.», 1 (1878), p. 11. P.
Zambelli, Introducttón: Astrologers Theory of History, in AA.VV., `Astrologi halluctnati", cit., p. 21, n. 58 ha
messo in rilievo che anche s. Agostino potrebbe aver avuto come fonte
Manilio. Penso elle un passo significativo, al riguardo, potrebbe essere il rifcrimento agli antipod i, in De civ. Dei
16,9 (a meno che esso non si debba riferire solo a Plinio o a Varrone), in particolare «neyue hoc lilla historica
cognitione didicisse se adfirmant sed quasi ratiocinando conìcctant eo quod rrttra convexa caeli terra
suspensa sii eundemyue locum nrundus habeat et rrtjlmum et medium; et ex hoc opinantttr alteram terrae
hartern quae infra est Iiahitatione hominum carere non posse», per cui cfr. Mauil. 1,180 ss.; 1,200-2i3; 1,550.
v
' La corruttela, dovuta alle interpretazioni cristianizzate della figura di Catone, che avevano snaturato la vera
realtà storica, si trova in alcuni codici maniliani recentróres ed è essa stessa assai recente. Fu emendata da
Bentley e Ilousman. V. L. Baldini Moscadi, Il poeta fra storia e ideologia, cit., pp. 62 s. Devrctus è fornntla
cristiana secondo A. Blaise, Drctrónnaire latrrt fran~-ars des auleurs cbrétiens, Strasbourg, 1954, alla voce.
9' V., tra le maglie di una ricchissima bibliografia, W. Biihler, Manilrana, in « Ilermes», 87 (1959), pp. 475494; B. Effe, Labor rmprobus. Earr Grundgedanke der Georgtca in der Stcbt des Mantlrús, in «
Gyrnnasiurn», 78 (1971), pp. 393-399; D. Liuzzi, Echi degli "Aratea" di Cicerone negli "Astronomica" di
Manilró, in «Rudiae. Ricerche sul mondo classico», I (1988), pp. 117-159. Inoltre J. Tolkiehn, Manilius
Astron. 1,880-91, in «Wochenschr. Klass. Plvilol.», 1897, pp. 782-784 (rapporti con Tucidide); E. Flores,
Quaedam de Andromedae excursu in Manilil Astronomteon libro quinto yuaestiones selectae, in Id.,
Contribuii di filologia maniltàna, cit., pp. 17-34 (rapporti con Euripide, per i quali v. anclie E. Mueller, Zur
Charakterzstík des Manzlrtts, in «Philologus», 62, 1903, pp. 85 ss.; Id., Die Andromeda des Eurr'ptdes, in
«Plvilologus», 66, 1907, pp. 48-66 e ora F. Bubel, Eurtptdes Andronteda, Stuag:rrt, 1991, pp. 100, 107,
109, 113, 116, 123, 132, 149); C. De Meo, .Strle c pnestà nel I secolo, in «Atene e Roma», n.s. 21 (1976),
p. 29; G-B. Conte, I:. Pianczzola, Storia e testi, cit., 3, p. 72.
93
Indicate in G. Mauraeh, Germanreus und sein Arai, Eine ver
glerehende Auslegung von V. 1 -327 der "Phaenomena", in «Wisseuscliaftliche Kommentare zu griechischen
und lateinischen Sclnriftstellern», Ileidelberg, 1978, pp. 25, 30, 31, 34, 36, 43, 50, 54, 98, 110: v. ai vv. 3
(tibi sacra fero cfr. Manil. 1,6 hospita sacra ferens); 11 (in (aelum cfr. Manil. 1,388 in magnam caeli
tendentem hracchrà partem HousmanZ); 15 (dum... conor cfr. Mani). 3,4 conor et); 19 (immotus semper
cfr. Manìl. 1,282 immotus ai ille); 20 (libratasque tenet terras cfr. Manil. 1,173 quod ni librato penderei
pondere tellus); 23 (celsa cfr. Manil. 3,180 celsior); 24 (dextra laevaque cfr. Manil. 3,184 dextra laevayue);
39-40 (nomi: flelice Cynosuraque e Grars cfr. Manil. 1,296 ss. Helzce, Craiae, Cynosura Housmanz); 66
(non cognita causa laborrs cfr. Manil. 1,316 sibi conscia causae HousmanZ e I, 1903); 80 (cingens cfr.
Mani]. 5,389 HousmanZ Anguttenens magno circumdatus orbe draconrr); 235 (donum... Nili cfr. Manil.
4,779 Housmanz donataque rura). Molte analogie, tuttavia, sono comuni ad altri autori del tempo, e I'egestas
della lingua latina può aver provveduto a rendere onxogeneo la resa poetica, tanto più che Arato era una fonte
connrne. Così Gertn. 3, può esser raffrontato anche coli Verg. georg. 2,476 (da cui anche Manilio?); Germ. 11
con Cic., Arai. 1(W; Gerrn. 15 con Lucr. 1,25 e Ov. fast. 1,15 ed è topico; in Germ. 19, Germanico e Manilio
traducono ambedue nello stesso modo da Arato 22 s., e così via. Su Maurach v. C. Santini, Intorno a
Germanico scrittore, in «Giornale italiano di filologia», 32 (1980), pp. 301 ss.
9
^ C. Santini, Il segno, cit., pp. 32 s. V. ora anche S. Costanza, Appunti sulla fortuna dl M. Manilio "Astr."
I,13 in Germanico, in Caipurnio Siculo e in Tertulliano, in «Vichiana», n.s., 13 (1984), p. 43.
93 G.B. Conte e E. Pianezzola, Storia e testi, cit., 2, p. 71.
yb L. Cicu, La data dei "Phaenomena"di Germanico, in «Maia», n.s. 31 (1979), p. 142.
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77
97 H. Zehnacker, D'Aratos à Aviénus: astronomie et ideologie, in «Illinois Classic. Stud.», 14 (1989), n.
1-2, p. 319.
9
" Un'antica annotazione a matita, superstite sulla carta di guardia del piatto anteriore dell'incunabolo Parmensrr
824 della Biblioteca Palatina di Parma, evidenzia i nova compendia scrittorii di Manil. 4,199 exczpràt longas
nova per compendia voces, che possono essere indicatori di un'età augustea almeno per il quarto e penultimo
libro, mentre per il terzo e il quinto (presumibilrnente ultimo) libro non ci sono riferimenti cronologici certi, se si
esclude quello, indiretto, del bando tiberiano contro gli astrologi dell'anno 16 (v. L. Herrmann, ffypothèse, cit., p.
86).
99 S. Costanza, Appunti, cit., p. 43.
roo Goold, Mantlius, p. 182 (index) «Manilìus cum scrilclro nondum senex 1,115».
oi «Sub Tiberio Manilius floruit, qui unus ex Ccrnranici sociis fuit atyue una cum Germanico orientem visit»,
comc ricordò M. Bechert, De M. Maníltó Astron. poeta, cit., p. 12.
c
roz M. Becbert, Prolegomena, cit., p. 2 )8. Su questi problemi v. ancora M. Pauer, Zur Frage, cit., e A. Traglia, Il
linguaggio poetico-astronomico di Germanico, in «flelikon», 20-21 (1980-81), pp. 43-62.
I° M. Scarsi, Metafora e ideologia negli "Astronomica" di Manilio, in Analystc, 1: Didascalica, a cura di
T. Mantero, Genova, 1987 (istituto di filo]. class. e mediev. 104), p. 96, n. 16.
1
°° M. Pauer, Zur Frage, cit. (e in C. Salenune, Introduzione, cit., p. 151); v. anche J. Mocller, Studia
Manthàna, Marburg, 1901, pp. 38 ss. ros 11. Wempe, Die ltterarrschen Bezíehungen und das
chronolo~;tsche Verhaeltnir zwischen Germanícus un d Ma ni ius, in «Rhein. Mus.», 84 (1935), pp. 89-96
prova la priorità di Germanico (la un prestito di Manilio agli Aralea.
"o° N. Terzaghi, Storia della letteratura latina, Torino, 1957", p. 245. Sul problema v. anche R.B. Steele,
777e Date of Manílius, in «Amer. Journ. of Philol.», 52 (1931), pp. 157-162; E. Flores, Augusto, cit., pp. 566; L.
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da A. Maranini, Filologia fantastica, Manilio ei suoi Astronomica, Bologna, Il Mulino, 1994, pp. 3555. (BCTV)
Nota sulla cosmologia di Manilio
L'eterna regolarità e inalterabilità del fenomeno celeste costituisce la premessa
dell'astrologia: le rigorose norme che governano i movimenti cosmici consentono infatti di
prevedere per ogni tempo le posizioni stellari; in concomitanza con i fenomeni celesti altri
fenomeni hanno luogo sulla terra e nell'atmosfera, i cambiamenti delle stagioni, le variazioni
meteorologiche, l'evoluzione e la crescita di piante e animali. Dalla perpetua e costante
ripetitività dei fenomeni e dei movimenti celesti scaturisce quindi la possibilità della
previsione. Questo è il presupposto contenutistico della poesia astrologica di Manilio (I, 515
sgg. Omnia mortali mutantur lege creata, /... At manet incolumis mundus suaque omnia seruat, /...
idem semper erit quoniam semper fuit idem); questa la tranquillizzante concezione filosofica
che aggancia l'apparente mutevolezza dell'evento terrestre e l'incertezza della vita umana a
una realtà eterna e immutevole, che garantisce un elemento confortante per lo spirito umano
(I, 478-9 Nec quicquam in tanta rnagis est mirabile mole / quarra ratio et certis quod legibus omnia
parent). Prima di affrontare il compito primario dell'astrologia, che è quello di chiarire la
natura delle sincronie tra fenomeni celesti ed eventi terrestri, Manilio dedica il primo libro
della sua opera alla conoscenza di questa realtà eterna che è l'universo che ci circonda.
All'atteggiamento didascalico della descrizione del cosmo si abbina la certezza filosofica
dell'eternità e dell'inalterabilità del fenomeno celeste; il collante è il dogma della conoscenza.
Basti pensare alla descrizione dell'età primitiva, allo stupore quotidiano dell'uomo che prima
vedeva e poi perdeva la luce in uno stesso giorno, tuffato in una realtà inspiegabile, in cui
variavano le ore di illuminazione e di oscuramento, variava la lunghezza delle ombre, variava
lo spettacolo notturno del firmamento; anche il sole che si spostava nel cielo non seguiva
sempre lo stesso percorso, poiché si mostrava ora più basso ora più alto (I 66 sgg.). Questa
descrizione dell'umanità primitiva, definita rudis per la sua ignoranza, implica dunque che la
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conoscenza è progresso, che l'insegnamento contribuisce alla crescita e all'evoluzione dello
spirito.
L'estesa descrizione del cosmo è sorretta dal presupposto della inalterabile regolarità d ei
movimenti celesti e dell'eterna e ineluttabile legge cosmica che tutto governa (1, 22 certa cum
lege; 1, 110 certa sub sorte; 1, 479 certis... legibus omnia parent; 1,33 suis parentia finiibus
astra). All'esposizione di una serie di ipotesi sulle origini e sulla formazione dell'universo segue
la trattazione ulla terra, sulla sua posizione rispetto al cosmo, sulla sua forma, sulla divisione
delle sue parti abitate. Gli argomenti sfruttati dal poeta, mirati a dimostrare la forma sferica
della terra e la sua posizione centrale rispetto al cosmo, manifestano sovente punti di contatto
con la trattazione degli stessi temi in Cleomede e Tolomeo; il confronto dei versi di Manilio con
le esposizioni offerte dal trattato astronomico di Cleomede e dalla Syntaxis di Tolomeo, ben
più articolate e più approfondite, permette alcune considerazioni. Se viene dimo strata infatti
una matrice a tutti comune negli studi astronomici, probabilmente gli scritti di Posidonio (più
volte citato espressamente come fonte da Cleomede), risulta anche che sovente Manilio ne
fraintende gli argomenti scientifici o li espone in maniera incompleta. Tra le prove della sfericità
della terra, posta al centro dell'universo, Manilio invoca, per esempio, lā€™orbita circolare del sole,
della luna e dei pianeti, per poi aggiungere che la regolarità della natura si manifesta nel
dispensare metodicamente la luce del giorno alle diverse parti della terra e nell'allontanare
progressivamente il punto della levata o del tramonto del sole se si viaggia verso oriente o
verso occidente (I 173-93). Le fonti parallele in realtà non citano l'orbita circolare dei corpi
celesti, bensi le differenze dí orizzonti per tutte le località terrestri (confermate, tra altri
argomenti, dal fatto che i punti di levata e di tramonto dei corpi celesti variano col variare delle
coordinate geografiche del punto di osservazione). Dall'argomentazione completa sulla
molteplicità di orizzonti per una terra non piatta, ma sferica, e all'interno di una serie di ragioni
che provano tale ipotesi, Manilio stralcia dunque l'immagine di un viaggiatore che si sposta
verso oriente o verso occidente e vede allontanare progressiwnmente il punto di levata o di
tramonto del sole, senza rendersi conto che tale descrizione vale soltanto per il tramonto,
perché, procedendo verso est, ossia avvicinandosi al punto di levata del sole, l'alba sarà
registrata prima, e non dopo.
A riprova della sfericità della terra Manilio chiama in causa le eclissi lunari. L'argomento era
già stato sfruttato da Aristotele, perché il contorno della terra, riflesso sulla luna durante
l'eclisse, è circolare (Cael. 297 b). Manilio sembra invece ritenere prova della sfericità della
terra il fatto che l'oscuramento è registrato prima dai popoli orientali e poi da quelli occidentali;
se infatti la terra fosse piatta - sostiene il poeta -l'eclissi sarebbe contemporanea (pariter) in
tutte le località terrestri; la sfericità della terra è dunque dimostrata, secondo Manilio, dal fatto
che la luna appare prima ad alcune terre e poi ad altre, sorgendo e poi tramontando ( I, 22134), In primo luogo, bisogna rilevare che nel passo di Manilio convergono curiosamente il
concetto della visibilità della luna dopo un'eclissi e quello della sua visibilità dopo la levata.
L'argomento esposto da Manilio fu sfruttato a riprova della sfericità della terra, ma solo perché
esso testimonia una differenza di orizzonti: Cleomede e Tolomeo (probabilmente con fonte
posidoniana) ricavano un'ulteriore conferma dal fatto che l'eclissi, pur es sendo visibile
contemporaneamente in tutte le località terrestri, non viene registrata in ogni località alla
stessa ora, variando sia la distanza dal meridiano dei corpi celesti coinvolti nelle eclissi, sia la
durata oraria delle località proporzionalmente al variare della latitudine geografica. A proposito
della prima variabile, le differenze di longitudine terrestre, Cleomede fornisce un esempio
probabilmente già presente nella sua fonte: una stessa eclissi registrata in Spagna alla prima
ora e in Persia alla quinta ora (1, 5, 40-3). Altrettanto probabilmente tale esempio (o un
esempio analogo) sta alle origini del fraintendimento di Manilio, che sostiene erroneamente
che l'eclissi viene registrata prima dai popoli orienaàli e poi da quelli occidenta li, ma non
contemporaneamente in tutte le località. Inoltre Manilio sovrappone in modo improprio il
sorgere e il tramonto dei corpi celesti all'est e all'ovest geografico, indicati con i popoli orientali
e occidentali, pervenendo così alla assurda convergenza del concetto di visibilità della luna
dopo unā€™ eclissi e di quello della sua visibilità dopo la levata.
A questa sezione cosmologica segue l'estesa descrizione delle costellazioni che formano lo
zodiaco e di quelle a nord e a sud dell'eclittica, una sezione che allenta il rigore della
trattazione scientifica grazie all'abbondante impiego dell'elemento mitologico che illustra e
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spiega i catasterismi. La componente scientifica ritorna nella descrizione dei circoli che
attraversano il cielo, paralleli, coluri, meridiani, orizzonte, zodiaco, Via Lattea, per terminare
con un lungo excursus sulle comete che conclude il primo libro. Ogni argomento della sezione
attinge a una sua fonte: Arato è sovente riecheggiato nella descrizione delle costellazioni della
volta celeste (ma della confusione del Lupo con la Balena solo Manilio è responsabile: ved.
nota a 1,443); mentre l'insegnamento astronomico di Eudosso trapela nell'esame dei cerchi
che percorrono il cielo, come si ricava, ad esempio, dall'impiego della suddivisione della
circonferenza in sessantesimi (1, 566-93), quale era stata seguita da Eudosso, che il poeta
non si preoccupa nemmeno di convertire nella poi canonizzata suddivisione in 360 gradi,
sempre usata nel corso del poema ed espressamente esposta in modo didascalico ( 1, 681-2,
2, 307-8). La fonte Eudosso, per la quale naturalmente non si può escludere da parte di
Manilio una conoscenza in maniera mediata, risulta anche da alcune strette corrispondenze
verbali con frammenti di Eudosso a noi pervenuti grazie ad Ipparco e inglobati dall'astronomo
nel commento ad Arato; ciò vale per la definizione dei coluri (I 603-6), ricalcata da Manilio
sulla definizione di Eudosso, ma non per la descrizione delle costellazioni toccate dai coluri
stessi, perché il meridiano descritto dal poeta tiene conto delle rettifiche di Ipparco sul testo di
Eudosso. Poco importa chiedersi come Manilio abbia conosciuto l'opera di Ipparco, se
direttamente o tramite la mediazione di Posidonio; è sufficiente ipotizzare, in modo più
semplice, che il planisfero che Manilio aveva a disposizione fosse tracciato sulla scorta di
indicazioni astronomiche ipparchee, con la collocazione di equinozi e solstizi all'inizio (e non al
centro) dei segni cardinali.
La pluralità delle fonti seguite da Manílio emerge anche nella trattazione propriamente
astrologica. Talvolta il poeta stesso, di fronte a metodi diversi o contraddittori, espone le varie
teorie senza intervenire criticamente, come accade nel calcolo dell'ascendente: Manilio
presenta la uulgata ratio, un metodo che tuttavia definisce inesatto (3, 214-46), per poi
dilungarsi in un secondo metodo basato sull'aumento progressivo e regolare dei tempi di
ascensione dei segni, e concludere con un terzo sistema che altro non è che la uulgata ratio,
precedentemente rigettata in quanto falsa (III, 483-509). Anche nell'individuazione dei
dodecatemoria planetari, cosciente della pluralità dei sistemi tramandati (2, 722,Nec genus est
unum, ratio nec prodita simplex) Manilio suggerisce che operazioni che approdano a un
risultato e poi una terza operazione che conduce allo stesso risultato raggiunto dalle prime
due, in un'esposizione sorretta da graziose ingenuità dottrinali, come quando consiglia una
moltiplicazione per dodici, perché dodici sono i segni dello zodiaco, senza rendersi conto che
la moltiplicazione per dodici equivale alla ben più scomoda divisione per 2° 30ā€™, che nel calcolo
in esame guida al medesimo risultato (12, 693-737).
Altrove la pluralità delle fonti risulta da dati astronomici che costituiscono la premessa
dell'argomentare. Nel poema di Manilio equinozi e solstizi figurano ora al centro ora all'inizio
dei segni cardinali, evidentemente in dipendenza delle fonti di volta in vol ta impiegate dal
poeta: la suddivisione dei segni uidentia e audientia presuppone un sistema centrato a 15 ° dei
segni cardinali (2, 485 segg.), mentre il calcolo delle ascensioni e delle variazioni delle ore di
illuminazione è valido per una posizione di equinozi e solstizi all'inizio dei segni (I II, 286 segg.,
395 segg., 433-5, 449, 480); cfr. I 568, 622; ved. note a I 568-74, 609-17), per non parlare
della classificazione dei segni amantia, sicuro lascito di un sistema ben più antico, centrato a
30° dei segni cardinali (2, 485 sgg.), del quale emergono tracce anche nella trattazione delle
ripartizioni zodiacali (ved. note a 2, 175-96, 265-9).
Assieme all'elemento contenutistico del poema, alla descrizione del cosmo, all'esposizione
delle minuziose classificazioni zodiacali trasmesse dall'astrologia, all'insegnamento delle
tecniche, in tutto il corso dell'opera, dove è evidente l'entusiasmo di fronte alla materia e una
fede sicura nelle possibilità dell'astrologia, traspare la convinzione di una missione didascalica
da adempiere. Manilio si pone come mediatore fra natura e umanità, traduttore e interprete del
linguaggio cosmico, nella duplice veste di discepolo e maestro, ulteriore anello di passaggio in
un universo tutto coeso, strumento di conoscenza al servizio della natura, ma didascalo di
fronte a chi ancora non conosce, con un atteggiamento cosciente ma umile nei confronti di tale
missione. La mediazione della conoscenza si intreccia col dogma stoico della cohaerentia
cosmica: non è l'uomo che scopre i segreti del mondo che lo circonda, ma la natura stessa che
permette di permeare i propri arcani ( 2, 2, 5-6 Quis caelum posset nisi caeli munere nosse/ et
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reperire deum, nisi qui pars ipse deorum est?; cfr. I, 25-6), perché il mondo è favorevole a chi
lo studia e per un moto spontaneo ambisce ad espandersi e a far conoscere i propri tesori (1,
11-2... fauet mundus scrutantibus ipsum l et cupit aetherios per carmina pandere census; cfr.
1, 40). L'individuo umano è Ia prova vivente di tale certezza. All'uomo la natura ha donato
infatti gli occhi della mente che possono vedere e capire la realtà dell'universo;l'uomo studia
1'universo ma ne è anche parte, fruendo di una condizione privilegiata perché indagando guarda
sé stesso. L'oggetto della conoscenza è la realtà naturale; ma è la benevolenza di questa stessa
natura a fornire i mezzi di tale conoscenza, con un movimento circolare in cui l'essere umano è
strumento e protagonista, materia e indagatore di questa stessa materia (2, 122-3 ni sanctos
animis oculos natura dedisset / cognatamque sibi mentem vertisset ad ipsam). In questa
concezione è implicita la convinzione filosofica di una condizione divina presente nell'uomo ( 2,
107-8 ā€¦quem denique in unum / descendit deus atque habitat seque ipse requirit? ), sorretta da
una incontestabile evidenza: la conoscenza dí una materia divina è consentita soltanto se in chi si
accosta ad essa esiste una componente divina: 2, 115-6 Quis caelum posset nisi caeli munere
nosse / et reperire deum, nisi qui pars ipse deorum est? (cfr. I, 29).
L'uomo, la natura, tutto il creato sono parte di un unico disegno. La macchina mondiale respira e
vive nella pluralità dei suoi elementi, in un perfetto equilibrio cosmico (1, 142 discordia discors)
dove le singole parti ricevono forza una dall'altra e, pur nelle loro difformità, manifestano affinità e
somiglianze e concorrono all'unitarietà del cosmo ( 1, 252-54 mutuaque in cunctas dispensat
foedera partes l altera ut alterius uires fuciatque feratque / summaque per uarias maneat cognata
figuras). Questo universo che vive di concordia fra i suoi elmenti, dove la complementarità crea un
vortice di risonanze che autorizzano a ritrovare sulla terra i rapporti e le corrispondenze celesti,
non può che essere frutto di una volontà divina, anzi necessariamente deve avere una natura
divina (I 484-5 ā€¦patetat mundum divino numine verti / atque ipsum esse deum..). La divinítà
stessa permea i cicli e le terre che governa con un esemplare equilibrio ( 2, 60-5 Namque canam
tacita naturae mente potentem / infusumque deum caelo terrisque fretoque / ingentem aequali
moderantem foedere molem / totumque alterno consensu vivere mundum / et rationis agi motu...),
e una ratio suprema presiede il cosmo in modo che tutto obbedisca a un ordine certo (1, 64; cfr. 1,
478-9, 2, 66-7, 82-6).
Questa concezione religiosa del mondo, che nulla lascia al caso e tutto affida a una mente
regolatrice superiore, comporta come inevitahile corollario la possibilità della previsione attraverso
la dottrina astrologica: Hoc quoque fatorum est, legem perdiscere fati (2, 149).
Simonetta Feraboli (edizione Mondadori FV) (BCTV)
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Edizione: Editio altera , Cantabrigiae : Typis Academiae, 1937
M. Manilii Astronomicon liber primus / recensuit et enarravit A. E. Housman
Edizione: Editio altera , Cantabrigiae : typis Academiae, 1937
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scriptorum Graecorum et RomanorumTeubneriana
Des Marcus Manilius Himmelskugel, oder der als ein Ganzes fur sich bestehende astronomische Theil
seines Werkes : im Versmasse des Originals zum ersten Male ubersesst und mit Anmerskungen begleitet /
von Joseph Merkel
Edizione: 2. verbesserte Auflage mit zwei lithogr. Abbildungen der Farnesischen Himmelskugel ,
Aschaffenburg : von C. Krebs, 1857
M. Manilii Astronomicon liber secundus / recensuit et enarravit A. E. Housman , Londinii : apud Grant
Richards, 1912
M. Manilii Astronomica : in het nederlandsch vertaald / door J. van Wageningen , Leiden : Brill, 1914
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Universita degli studi diLecce, Dipartimento di filologia classica emedioevale ; [poi] Universita degli studi
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Note Generali: Con testo orig.
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Universita degli studi diLecce, Dipartimento di filologia classica emedioevale ; [poi] Universita degli studi
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1: Libri 1.-2. / Manilio ; introduzione e traduzione di Riccardo Scarcia ; testo critico a cura di Enrico Flores ;
commento a cura di Simonetta Feraboli e Riccardo Scarcia
Edizione: 2. ed , [Milano] : Fondazione Lorenzo Valla : A. Mondadori
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Fa parte di: Il poema degli astri / Manilio
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TV0114 - Biblioteca comunale - Treviso - TV
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Liuzzi, Stefania Pecorella , Galatina : Congedo, stampa 2002 , Testi e studi / Universita degli studi diLecce,
Dipartimento di filologia classica emedioevale ; [poi] Universita degli studi diLecce, Dipartimento di filologia
classica edi scienze filosofiche
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F. D'ALESSI - Letteratura latina - Parte III,1 - Il periodo imperiale - L'età dei Claudi
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Note Generali: Con il testo.
Nomi: Liuzzi, Dora
Pecorella, Stefania
Manilius , Marcus
Soggetti: Manilio, Marco . Astronomicon. L. 1. - Metrica
2: Libri 3.-5. / Manilio ; testo critico a cura di Enrico Flores ; traduzione di Riccardo Scarcia ; commento a
cura di Simonetta Feraboli e Riccardo Scarcia , [Milano] : Fondazione Lorenzo Valla : A. Mondadori, 2001
Note Generali: Trad. italiana a fronte.
Fa parte di: Il poema degli astri / Manilio
TV0114 - Biblioteca comunale - Treviso - TV
Astronomica / Manilius ; edited and translated by G. P. Goold
Edizione: [Reprinted with revision of text and translation] , Cambridge, Mass. , The Loeb classical library
Note Generali: Testo orig. a fronte.
Intorno agli "Astronomica" di Manilio / curati da Dora Liuzzi , Galatina, Le
"Manilio¸ Marco - Castaldi",
Marco Manilio
(sec. I a.C ā€“ I d.C.)
Scrisse, sotto Augusto e Tiberio, un poema didascalico in esametri, "Astronomica" (interrotto al V libro), in
cui espone le vicende delle costellazioni e lā€™influsso degli astri sul destino degli uomini. Di orientamento
stoico, è ovviamente in polemica con Lucrezio ā€“ che tuttavia rimane il suo modello letterario ā€“ credendo, di
contro, che lā€™universo sia retto e governato dalla divina ragione. Lā€™opera rivela abilità tecnica e un certo
talento letterario.
"Manilio¸ Marco - Encarta",
Manilio, Marco (I secolo a.C. ā€“ I secolo d.C.), poeta latino. La sua biografia è quasi del tutto oscura:
sappiamo che visse sotto Ottaviano Augusto e Tiberio, e che scrisse un poema didascalico in cinque libri di
esametri ā€“ probabilmente incompiuto ā€“ intitolato Astronomica. Lā€™opera, che tratta di astronomia e astrologia,
ha come modello strutturale il De rerum natura di Lucrezio, ma è impregnata di filosofia stoica.
Riposati
Maggiore entusiasmo e piú robusta tempra di poeta rivela Marco Manilio (M. Manillus) negli Astronomtca, il
suo canto sul mondo degli astri, il mondo della luce, della pace, della razionalità, dei ritmi eterni.
Della sua vita nulla conosciamo: si ignora persino il nome preciso di lui (ManiltVus o Manltus); il cognome
Boethus di un codice di Madrid è senza dubbio errato. Comunque, non ci sono motivi per ritenere ch'egli non
fosse romano, vissuto con tutta probabilità tra l'impero di Augusto e quello di Tiberio (1), e che proprio
durante questi due principati egli abbia composto il suo lungo poema in esametri, diviso in cinque libri, gli
Astronomtca, in cui tutta raccolse la scienza astronomica e astrologica fino allora conosciuta.
I primi due libri, dopo una breve cosmogonía, sviluppano origine e significato delle dodici costellazioni dello
zodíaco e precisano le varie parti del corpo umano ai loro influssi soggette. Di carattere piú propriamente
didattico è il terzo libro, manuale di interpretazione astrologica: insegna a ricavare l'oròscopo con i dati
dell'ossenazione astronomica. II quarto e quinto libro estendono lo studio degli influssi astrali dall'individuo ai
diversi popoli della terra in ordine al loro carattere, alle loro inclinazioni, alle loro virtú e difetti: i costumi dei
vari popoli sono perciò in connessione con la posizione dei singoli segni zodiacali, dominanti nelle diverse
regioni.
Un fervore di apostolo anima tutta la poesia di Manilio, che ha la coscienza-e ne gode ltebbrezza-d'essere il
primo banditore e profeta agli uomini delle nascoste verità dei cieli: si ripete, a distanza di parecchi decenni,
lo stesso atteggiamento pugnace di Lucrezio, ma in tutt'altra posizione spirituale: ché una risposta polemica
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al ' poeta della natura' vuole essere quella del ' poeta del cielo': al determinismo casualistico della dottrina
epicurèa egli oppone la predeterminazione fatalistica della dottrina stoicaad Epicúro si sostituisce Posidònio,
il filosofo stoico, 'che aveva riportato il cielo sulla terra'. E tutta pervasa da queste illuminazioni stoiche è la
poesia di Manilio. Egli è convinto che il destino dell'uomo è legato indissolubilmente agli influssi degli astri
dallo spirito divino, che riempie il cosmo. L'uomo non può né sfuggire né modificare il suo destino, fissato dal
Fatum; può semplicemente, conoscendo il mondo astrale, rendersi conto della sua condizione di '
predestinato ' e rasserenarsi al pensiero che la sua sorte non subirà variazioni nella vicenda della vita:
ognuno attende la sua sorte: sors est sua cuique ferenda. In questa luminosa visione cosmica e ultraterrena
l'anima del poeta si accende spesso di lirico entusiasmo, che tocca punte di viva commozione, specialmente
quando indàga i reciproci rapporti tra uomo e mondo e cielo e Dio, quando riconosce nel mondo la presenza
di una ' ragione demiúrgica ', che tutto sostiene e governa, quando sente l'uomo come (< parte degli dèi )>
(pars ipse deorum), e perciò capace di " conoscere il Cielo ", dove è nascosto il fato, di cui " son conscie le
stelle, che guidano gli umani eventi )>, quando fissa le nostre mète nel prowidenziale governo del fato, e
ammonisce con tono sacerdotale: " Rinunziate, o mortali, alle vostre abitudini e liberatevi dalle vostre
angustie . . .; il destino regge il mondo, e tutto è governato da una legge immutabile; anche gli eventi piú
remoti sono stabiliti a fisse scadenze; si muore già dal nascere, la fine dipende dall'inizio: nascentes
mortmurfi finisque ab origine pendet " (t).
Poeta di entusiasmo, poeta di scienza e di fede è Manilio, ma anche poeta di umanità, perché egli mira
all'uomo, alla sua parte piú nobile, e di lui canta la grandezza dello spirito, la sua compartecipazione alla vita
del Cielo e degli astri che lo popolano. Concezione altamente aristocratica e spiritualistica, che si distacca
dalla linea tradizionale. Ed è anche artista scaltro ed aweduto, che sa variare la difficile ed arida materia
espositiva con digressioni piacevoli e con racconti leggendari, quali il ricco repertorio mitologico intorno alle
costellazioni gli offriva: cosi ltepisodio di Andròm eda e Pèrs eo, inserito nel V libro, a proposito della stella di
Andròmeda (w. 538-631) e quello di Fet ónt e, a proposito della Via Lattea (1, 735 sgg.), oppure la vivace
descrizione delle attività umane nella vita sociale (5, 251 sgg.).
Ricercare le fonti in Manilio è impresa non facile, data la sua immensa cultura, che ha utilizzato senza
dubbio la dottrina stoica con al centro Posidonio e Varrone, e i manuali mitologici ed astrologici per gli
elementi scientifici, nonché le sue esperienze poetiche su Lucrezio, su Virgilio ed Ovidio.
Peraltro, anche Manilio è figlio dei tempi e indulge agli allettamenti retorici, che in lui tuttavia si compongono
e si correggono nella forte personalità poetica che lo distingue; se mai, la difficoltà della materia, la rigidezza
e il tecnicismo dei concetti lo condannano spesso a toni descrittivi oscuri ed involuti, dove egli par che non
sia riuscito a penetrare col suo tócco interiore. Anche la lingua e lo stile si appesantiscono di espressioni
dure, di strutture insolite, di forme antiquate e grezze, che, se pur conferiscono un certo qual tono di maestà
arcaicheggiante a questa ' dotta ' poesia del cielo, in contrasto, forse voluto, col manierismo sdolcinato del
tempo, non paiono allinearsi nelle migliori espresslom del momenti piú felici della poesia maniliana. Forse
anche per questo egli non piacque ai suoi contemporanei; ma già Lucano, e poi Fírmico Materno nel IV
secolo, ne sentirono i pregi e ne subirono l'influsso; il Medio Evo lo esaltò tra i grandi poeti della scienza
astronomica.
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Germanico
Cenni biografici
Germanico, nato nel 15 a.C. era figlio di Druso Maggiore. Per raccomandazione di Augusto fu
adottato dall'imperatore Tiberio nel 4 d.C..
Eletto console nel 12, ricoprì diversi importanti incarichi militari, assegnatigli da Augusto e, dopo la
morte di questi, da Tiberio. Nel 16, pur non essendo riuscito a riportare una vittoria decisiva contro
l'esercito dei Cherusci capeggiati da Arminio, fu richiamato a Roma e conobbe, anche per il
notevole ascendente guadagnatosi presso il popolo, l'onore del trionfo
Morì nel 19 d.C. nel corso di una spedizione in Oriente, pare per avvelenamento, accusa dalla
quale il principale imputato, Calpurnio Pisone, fu peraltro assolto.
Dalla moglie, Agrippina Maggiore, Germanico ebbe sei figli, tra cui il futuro imperatore Caligola e
Agrippina Minore, madre di Nerone.
Opere
Il poemetto astronomico Aratea o Phaenomena, di cui ci sono arrivati solo 725 esametri, può
considerarsi la traduzione, in alcuni punti assai libera, del poema di Arato di Soli che comprende
ca. 1154 versi. La seconda parte del poema di Arato fu sicuramente anch'essa tradotta o meglio
rielaborata da Germanico, visto che ci restano frammenti di un certo rilievo per ca. 200 versi,
indicati nelle edizioni moderne con il titolo di Prognostica.
La traduzione del poemetto di Arato era già stata affrontata da Cicerone e più tardi verrà ritentata
da Avieno.
Oltre ai materiali riportabili alla traduzione di Arato restano due epigrammi (708 e 709 ed. Riese)
Il primo è dedicato a Ettore, l'altro lamenta la morte di un bambino.
Secondo Svetonio (Cal., 3,2), Germanico avrebbe composto anche delle commedie greche.
Testi e testimonianze
Suet., Cal., 1-7
Germanicus, C. Caesaris pater, Drusi et minoris Antoniae filius, a Tiberio patruo adoptatus, quaesturam
quinquennio ante quam per leges liceret et post eam consulatum statim gessit, missusque ad exercitum in
Germaniam, excessu Augusti nuntiato, legiones uniuersas imperatorem Tiberium pertinacissime recusantis
et sibi summam rei p. deferentis incertum pietate an constantia maiore compescuit atque hoste mox deuicto
triumphauit. consul deinde iterum creatus ac prius quam honorem iniret ad componendum Orientis statum
expulsus, cum Armeniae regem deuicisset, Cappadociam in prouinciae formam redegisset, annum agens
aetatis quartum et tricensimum diuturno morbo Antiochiae obiit, non sine ueneni suspicione. nam praeter
liuores, qui toto corpore erant, et spumas, quae per os fluebant, cremati quoque cor inter ossa incorruptum
repertum est, cuius ea natura existimatur, ut tinctum ueneno igne confici nequeat. obiit autem, ut opinio fuit,
fraude Tiberi, ministerio et opera Cn. Pisonis, qui sub idem tempus Syriae praepositus, nec dissimulans
offendendum sibi aut patrem aut filium, quasi plane ita necesse esset, etiam aegrum Germanicum
grauissimis uerborum ac rerum acerbitatibus nullo adhibito modo adfecit; propter quae, ut Romam rediit,
paene discerptus a populo, a senatu capitis damnatus est. omnes Germanico corporis animique uirtutes, et
quantas nemini cuiquam, contigisse satis constat: formam et fortitudinem egregiam, ingenium in utroque
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eloquentiae doctrinaeque genere praecellens, beniuolentiam singularem conciliandaeque hominum gratiae
ac promerendi amoris mirum et efficax studium. formae minus congruebat gracilitas crurum, sed ea quoque
paulatim repleta assidua equi uectatione post cibum. hostem comminus saepe percussit. orauit causas
etiam triumphalis; atque inter cetera studiorum monimenta reliquit et comoedias Graecas. domi forisque
ciuilis, libera ac foederata oppida sine lictoribus adibat. sicubi clarorum uirorum sepulcra cognosceret,
inferias Manibus dabat. caesorum clade Variana ueteres ac dispersas reliquias uno tumulo humaturus,
colligere sua manu et comportare primus adgressus est. obtrectatoribus etiam, qualescumque et
quantacumque de causa nanctus esset, lenis adeo et innoxius, ut Pisoni decreta sua rescindenti, clientelas
di[u]uexanti non prius suscensere in animum induxerit, quam ueneficiis quoque et deuotionibus impugnari se
comperisset; ac ne tunc quidem ultra progressus, quam ut amicitiam ei more maiorum renuntiaret
mandaretque domesticis ultionem, si quid sibi accideret. quarum uirtutum fructum uberrimum tulit, sic
probatus et dilectus a suis, ut Augustusā€“omitto enim necessitudines reliquasā€“ diu cunctatus an sibi
successorem destinaret, adoptandum Tiberio dederit; sic uulgo fauorabilis, ut plurimi tradant, quotiens aliquo
adueniret uel sicunde discederet, prae turba occurrentium prosequentiumue nonnumquam eum discrimen
uitae adisse, e Germania uero post compressam seditionem reuertenti praetorianas cohortes uniuersas
prodisse obuiam, quamuis pronuntiatum esset, ut duae tantum modo exirent, populi autem Romani sexum,
aetatem, ordinem omnem usque ad uicesimum lapidem effudisse se. tamen longe maiora et firmiora de eo
iudicia in morte ac post mortem extiterunt. quo defunctus est die, lapidata sunt templa, subuersae deum
arae, Lares a quibusdam familiares in publicum abiecti, partus coniugum expositi. quin et barbaros ferunt,
quibus intestinum quibusque aduersus nos bellum esset, uelut in domestico communique maerore
consensisse ad indutias; regulos quosdam barbam posuisse et uxorum capita rasisse ad indicium maximi
luctus; regum etiam regem et exercitatione uenandi et conuictu megistanum abstinuisse, quod apud Parthos
iusti<ti> instar est. Romae quidem, cum ad primam famam ualitudinis attonita et maesta ciuitas sequentis
nuntios opperiretur, et repente iam uesperi incertis auctoribus conualuisse tandem percrebruisset, passim
cum luminibus et uictimis in Capitolium concursum est ac paene reuolsae templi fores, ne quid gestientis
uota reddere moraretur, expergefactus e somno Tiberius gratulantium uocibus atque undique concinentium:
salua Roma, salua patria, saluus est Germanicus. et ut demum fato functum palam factum est, non solaciis
ullis, non edictis inhiberi luctus publicus potuit durauitque etiam per festos Decembris mensis dies. auxit
gloriam desideriumque defuncti et atrocitas insequentium temporum, cunctis nec temere opinantibus
reuerentia eius ac metu repressam Tiberi saeuitiam, quae mox eruperit. habuit in matrimonio Agrippinam, M.
Agrippae et Iuliae filiam, et ex ea nouem liberos tulit: quorum duo infantes adhuc rapti, unus iam puerascens
insigni festiuitate, cuius effigiem habitu Cupidinis in aede Capitolinae Veneris Liuia dedicauit, Augustus in
cubiculo suo positam, quotiensque introiret, exosculabatur; ceteri superstites patri fuerunt, tres sexus
feminini, Agrippina Drusilla Liuilla, continuo triennio natae; totidem mares, Nero et Drusus et C. Caesar.
Neronem et Drusum senatus Tiberio criminante hostes iudicauit.
I. Germanico, padre di Caio Cesare, figlio di Druso e di Antonia Minore, adottato da suo zio Tiberio, esercitò
la questura cinque anni prima dell'età legale e quindi, immediatamente dopo, il consolato, e fu messo a capo
dell'esercito di Germania.
Alla notizia della morte di Augusto, dimostrò non sappiamo se maggiore pietà filiale o maggiore fermezza
quando mantenne nel loro dovere tutte le legioni che rifiutavano accanitamente Tiberio come imperatore, e
offrivano a lui il sommo potere.
In seguito, sconfitti i nemici, ottenne il trionfo. Nominato quindi console per la seconda volta, prima ancora di
prendere possesso della carica, venne allontanato col compito di regolare gli affari d'Oriente, e, dopo aver
completamente sconfitto il re d'Armenia, diede costituzione di provincia alla Cappadocia.
Morì ad Antiochia, a trentaquattro anni, dopo una lunga malattia, non senza sospetto di avvelenamento.
Infatti, oltre alle macchie che gli coprivano il corpo e alla bava che gli sfuggiva di bocca, il cuore, quando
venne cremato, rimase intatto in mezzo alle ossa, e si crede che sia insito nella natura di quell'organo il non
poter essere distrutto dal fuoco quando sia impregnato di veleno.
II. Del resto, fu comune opinione che la sua morte fosse dovuta a una delittuosa macchinazione di Tiberio,
eseguita per mano di Gneo Pisone, che in quell'epoca, posto a capo della Siria, non nascondeva di trovarsi
costretto dalla necessità a dispiacere al padre oppure al figlio, e che, mentre Germanico era ammalato, lo
insultò con le parole e coi fatti, senza alcuna misura: motivo per cui, tornato a Roma, fu quasi sbranato dalla
folla e condannato a morte dal Senato.
III. Tutti dicono che Germanico, più di chiunque altro, abbia riunito in sé tutte le qualità del corpo e
dell'animo: di bellezza e di valore singolarissimi, eccelleva in entrambe le lingue per eloquenza e per cultura.
Riusciva a conciliarsi l'amore di tutti per la sua straordinaria bontà e per l'arte incomparabile di attirarsi le
simpatie. La magrezza delle sue gambe non era in armonia col resto della persona, ma era riuscito a farle
un po' ingrossare andando assiduamente a cavallo dopo i pasti. Affrontò spesso nemici in combattimenti
corpo a corpo.
Difese cause anche dopo il suo trionfo e lasciò anche alcune commedie greche a testimonianza della sua
cultura.
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Estremamente semplice sia in privato che in pubblico, entrava senza littori nelle città libere o federate.
Quando veniva a conoscenza che in qualche località c'erano i sepolcri di uomini illustri, andava a fare delle
offerte ai loro Mani. Quando fece raccogliere in un solo tumulo i resti antichi e dispersi dei caduti nel disastro
di Varo, andò per primo a cercarne le ossa e trasportarle con le proprie mani.
Fu sempre buono e mite, persino nei confronti dei propri detrattori, quali che fossero, e per quanto grave
fosse l'offesa; a tal punto che quando vide che Pisone revocava i suoi decreti e perseguitava i suoi clienti,
non fu indotto a dimostrargli il proprio risentimento che dopo aver saputo che stava tramando contro di lui
persino con atti di magia e di veneficio. E anche allora non fece nessun altro gesto se non quello di
rinunciare alla sua amicizia, secondo il costume degli antichi, e di pregare i propri amici di vendicarlo in caso
di disgrazia.
IV. Queste virtù diedero un frutto meraviglioso: fu tanto amato e stimato dai suoi che Augusto, per non
parlare degli altri, meditò a lungo se designarlo come proprio successore all'impero; alla fine, diede ordine a
Tiberio di adottarlo.
Fu tanto amato dal popolo che, come moltissimi raccontano ogni volta che andava o partiva da qualche
posto; accorrevano a frotte a riceverlo o ad accompagnarlo, fino al punto di fargli correre il pericolo di
rimanere soffocato.
Quando tornò dopo aver pacificato la rivolta in Germania, tutte le coorti pretoriane andarono a incontrarlo,
benché soltanto due avessero ricevuto l'ordine di uscire. Il popolo romano si riversò lungo tutta la strada, fino
al ventesimo miglio, senza distinzione di sesso, di età e di classe sociale.
V. Ma i sentimenti che aveva ispirato si dimostrarono più forti e più grandi quando egli morì e dopo la sua
morte.
Quel giorno, vennero rovesciati gli altari degli dèi e lanciati sassi contro i templi. Qualcuno giunse fino al
punto di buttare in mezzo alla strada i propri Lari familiari e di esporre i neonati.
Si dice che persino i barbari, quasi colpiti da un lutto domestico e comune, abbiano fatto una tregua, sia che
stessero combattendo tra di loro, sia che fossero in guerra contro di noi; e che alcuni reucci si tagliarono la
barba e fecero radere ì capelli alle mogli, in segno di gravissimo lutto, e persino il Re dei Re' si astenne
dall'andare a caccia e dall'invitare i grandi del regno: il che, per i Parti, equivale alla nostra sospensione delle
udienze.
VI. A Roma, poi, tutta la popolazione che, al primo annuncio della sua inalattia, era stata colpita da stupore e
da tristezza, seguiva con ansia dolorosa il succedersi delle notizie.
Quando improvvisamente, verso sera, non si sa come, si diffuse la voce della sua guarigione, una folla
accorsa in Campidoglio da ogni parte, con torce e offerte, sfondò quasi le porte del tempio per non subire
ritardi nel ringraziare gli dèi. Tiberio venne svegliato nel sonno dal vocio gioioso dei cittadini che cantavano
dappertutto: «Roma è salva! Salvo è Germanico! Salva è la patria!».
Quando però fu noto che egli era morto, nulla riuscì a consolarli e nessuno editto poté impedire che il lutto
del popolo si prolungasse perfino durante le feste del dicembre.
L'atrocità dei tempi successivi rese ancor maggiore la gloria e il rimpianto di lui, perché tutti credettero, non
senza ragione, che il timore e il rispetto per Germanico avevano frenato fino allora la crudeltà di Tiberio, che
si palesò quasi subito.
VII. Sposò Agrippina, figlia di Marco Agrippa e di Giulia, e da lei ebbe nove figli, due dei quali morirono
appena nati e uno mentre era ancora bambino e già si faceva notare per la sua grazia.
Livia dedicò nel tempio di Venere Capitolina un ritratto del bambino nelle sembianze di Cupìdo e Augusto,
postane una copia nella propria camera da letto, le dava un bacio ogni volta che vi entrava.
Gli altri figli, che sopravvissero al padre, furono tre femmine, Agrippina, Drusilla e Livilla, nate a un anno di
distanza l'una dall'altra, e tre maschi, Nerone, Druso e Caio Cesare.
Nerone e Druso vennero condannati dal Senato come nemici della patria, su accusa di Tiberio.
Trad. di F. Dessì, Milano, BUR, 1982, 2000.
Tac., ann. 1,33
Quippe Drusi magna apud populum Romanum memoria, credebaturque, si rerum potitus foret, libertatem
redditurus; unde in Germanicum favor et spes eadem. nam iuveni civile ingenium, mira comitas et diversa ab
Tiberii sermone vultu, adrogantibus et obscuris.
Druso aveva lasciato ai Romani un ottimo ricordo e molti pensavano che se fosse arrivato al potere avrebbe
restaurato la repubblica; di qui, da questa stessa speranza, nasceva la popolarità di Germanico. Il giovane si
comportava come un semplice cittadino, con straordinaria affabilità, molto diverso da Tiberio, sempre duro
nel volto, enigmatico nei discorsi.
Ov., fast., 1, 1-6 (dedica dei Fasti a Germanico) ???
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Tempora cum causis Latium digesta per annum
lapsaque sub terras ortaque signa canam.
excipe pacato, Caesar Germanice, voltu
hoc opus et timidae derige navis iter,
officioque, levem non aversatus honorem,
en tibi devoto numine dexter ades.
Ov., fast., 1, 23
Plin., nat., 8,155
Quint., inst. 10,1, 88 segg.
Lasciuus quidem in herois quoque Ouidius et nimium amator ingenii sui, laudandus tamen partibus.
Cornelius autem Seuerus, etiam si est uersificator quam poeta melior, si tamen ut est dictum ad exemplar
primi libri bellum Siculum perscripsisset, uindicaret sibi iure secundum locum. Serranum consummari mors
inmatura non passa est, puerilia tamen eius opera et maximam indolem ostendunt et admirabilem praecipue
in aetate illa recti generis uoluntatem. Multum in Valerio Flacco nuper amisimus. Vehemens et poeticum
ingenium Salei Bassi fuit, nec ipsum senectute maturuit. Rabirius ac Pedo non indigni cognitione, si uacet.
Lucanus ardens et concitatus et sententiis clarissimus et, ut dicam quod sentio, magis oratoribus quam
poetis imitandus.
Hos nominamus quia Germanicum Augustum ab institutis studiis deflexit cura terrarum, parumque dis uisum
est esse eum maximum poetarum. Quid tamen his ipsis eius operibus in quae donato imperio iuuenis
secesserat sublimius, doctius, omnibus denique numeris praestantius? Quis enim caneret bella melius quam
qui sic gerit? Quem praesidentes studiis deae propius audirent? Cui magis suas artis aperiret familiare
numen Minerua? Dicent haec plenius futura saecula, nunc enim ceterarum fulgore uirtutum laus ista
praestringitur. Nos tamen sacra litterarum colentis feres, Caesar, si non tacitum hoc praeterimus et
Vergiliano certe uersu testamur
'inter uictrices hederam tibi serpere laurus.'
Ci sono autori più recenti e più utili per raggiungere lo scopo di cui parliamo. Ovidio è frivolo, a dire il vero,
anche nella poesia esametrica, è troppo amante del proprio talento, ma merita di essere lodato in alcune
parti. 89. Cornelio Severo, poi, pur essendo migliore come versificatore che come poeta, se tuttavia (come è
stato detto) avesse scritto tutto il Bellum Siculum come il primo libro, reclamerebbe a buon diritto il secondo
posto. La morte precoce non ha consentito a Serrano di raggiungere la perfezione, tuttavia le sue opere
giovanili dimostrano doti grandissime e un'inclinazione a un genere corretto di stile ammirevole soprattutto in
un giovane di quell'età. 90. Abbiamo perso molto con la recente scomparsa di Valerio Flacco. Veemente e
poetica fu l'indole di Saleio Basso, ma neppure essa ebbe la possibilità di maturare con la vecchiaia. Rabirio
e Pedone meritano di essere conosciuti, se si ha tempo. Lucano- è ardente, veemente e assai splendido
nelle massime, e, per dire quello che penso, merita di essere imitato più dagli oratori che dai poeti.
91. Citiamo questi autori perché Augusto Germanico fu distolto dagli studi intrapresi dal governo del mondo
e perché agli dèi parve insufficiente il fatto che fosse il più grande dei poeti. Tuttavia cosa c'è di più elevato,
colto, di più eccellente sotto ogni profilo, insomma, di queste stesse sue opere per dedicarsi alle quali si era
ritirato, da giovane, dopo aver deposto il potere? Chi infatti avrebbe cantato le guerre meglio di chi sa
condurle in quel modo? Chi avrebbero ascoltato con maggior favore le dee protettrici degli studi letterari? A
chi avrebbe rivelato maggiormente le sue arti Minerva, divinità di famiglia? 92. Le generazioni future lo
diranno meglio: oggi questo merito è offuscato dallo splendore delle altre virtù. Ciononostante, Cesare,
tollererai che noi, cultori dei riti delle lettere, non passiamo questo merito sotto silenzio e lo testimoniamo
almeno con un verso di Virgilio:
«L'edera si intreccia all'alloro del trionfo».
Trad. C.M. Calcante, Milano, Rizzoli, 1997, 20012.
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Bibliografia
ed. E. Baehrens, Poetae Latini Minores, 1, 1879, pp. 142-200.
ed. A. Breysig, Berlin 18671, Leipzig 18992, (rist. Hildesheim 1967)
ed. A. Le Boeuffle, Paris 1975
ed. D.B. Gain, London 1976.
FPL Blansdorf 1995, p. 306, solo per notizie di riferim.
Studi
M. Gelzer ā€“ W. Kroll, RE X, 1917, 435-464
Strumenti
Germanici Iulii Caesaris operum Concordantia / curavit Pedro Jose del Real Francia , Hildesheim
[etc.]: Olms-Weidmann, 2002, Alpha-omega. Reihe A, Lexika, Indizes,Konkordanzen zur
klassischen Philologie
ICCU per Soggetto
Il volto di Germanico : a proposito del restauro del bronzo / [a cura della] Soprintendenza Archeologica per
l'Umbria , Roma : Cedis Editrice, [1987?] , Immagini e Riflessioni
Note Generali: Catalogo della Mostra tenuta ad Amelia nel 1987.
Sul front.: Ministero per i Beni Culturali e Ambientali
Dell'Era, Antonio, Una caeli descriptio d'eta carolingia / Antonio Dell'Era , Palermo : [s.n.], 1974 (Roma : Tip.
S. Pio X) , Quaderni della Facolta di magisterodell'Universita di Palermo. Serie difilologia latina
Note Generali: Con il testo del De ordine ac positione stellarum in signis.
Soggetti: Germanico , Giulio Cesare . Aratea - Scolii - Sec. 9
Gallotta, Bruno, Germanico / Bruno Gallotta , Roma : L'Erma di Bretschneider, [1987] , Monografie / Centro
ricerche e documentazionesull'antichita classica
Bellandi, Franco , Iustissima Virgo : il mito della Vergine in Germanico e Avieno : saggio di commento a
Germanico: Arati Phaen. 96-139 e Avieno: Arati Phaen. 273-352 / Franco Bellandi, Emanuele Berti, Maurizio
Ciappi , Pisa : Giardini, [2001] , Biblioteca di Materiali e discussioni perl'analisi dei testi classici
Note Generali: Con i testi orig. e la trad. italiana a fronte.
Soggetti: Avieno, Rufo Festo . Aratea - Germanico , Giulio Cesare . Aratea
La commemorazione di Germanico nella documentazione epigrafica : convegno internazionale di studi,
Cassino 21-24 ottobre 1991 / a cura di Augusto Fraschetti , Roma : L'Erma di Bretschneider, 2000 , Saggi di
storia antica
Soggetti: CONGRESSI - CASSINO - 1991 GERMANICO , GIULIO CESARE - CONGRESSI - 1991
Germanico: la persona, la personalita, il personaggio nel bimillenario dalla nascita : Atti del Convegno :
(Macerata-Perugia, 9-11 maggio 1986) / a cura di Giorgio Bonamente, Maria Paola Segoloni , Roma : G.
Bretschneider, 1987 , Pubblicazioni della Facolta di lettere efilosofia / Universita degli studi diMacerata
Pubblicazioni della Facolta di lettere efilosofia / Universita degli studi diMacerata. Atti di convegni
Soggetti: Germanico , Giulio Cesare - Congressi - Macerata-Perugia - 1986
TV0114 - Biblioteca comunale - Treviso - TV
Christ, Karl, Drusus und Germanicus: der Eintritt der Romer in Germanien / Karl Christ, Paderborn :
Schoningh, 1956
Nomi: Christ, Karl
Soggetti: Druso, Nerone Claudio - Germanico , Giulio Cesare
F. Dalessi © 2002
F. D'ALESSI - Letteratura latina - Parte III,1 - Il periodo imperiale - L'età dei Claudi
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Possanza, D. Mark, Studies in the Aratea of Germanicus Caesar / D. Mark Possanza , Ann Arbor : University
Microfilms International, 1992
Note Generali: Ripr. facs. della tesi per il conseguimento del Ph. D., presso The University of North Carolina,
Chapel Hill, 1987.
Banal, Luisa, Cesare Germanico : il vendicatore di Teutoburgo, 15 av. C.-19 d. C. / Luisa Banal , Torino
[etc.] : G. B. Paravia, stampa 1938 , Collana di romanzi storici i condottieri
Real Francia, Pedro Jose : del, Germanici Iulii Caesaris operum Concordantia / curavit Pedro Jose del Real
Francia , Hildesheim [etc.] : Olms-Weidmann, 2002 , Alpha-omega. Reihe A, Lexika, Indizes,Konkordanzen
zur klassischen Philologie
Haffner, Mechthild, Ein antiker Sternbilderzyklus und seine Tradierung in Handschriften vom fruhen
Mittelalter bis zum Humanismus: Untersuchungen zu den Illustrationen der Aratea des Germanicus /
Mechthild Haffner, Hildesheim [etc.] : G. Olms, 1997 , Studien zur Kunstgeschichte
Maurach, Gregor, Germanicus und sein Arat : Eine vergleichende Auslegung von V. 1-327 der Phaenomena
/ Gregor Maurach , Heidelberg : C. Winter, Universitatsverlag, 1978 , Wissenschaftliche Kommentare zu
griechischenund lateinischen Schriftstellern
Santini, Carlo, Il segno e la tradizione in Germanico scrittore / Carlo Santini , Roma : Cadmo, [1977] ,
Biblioteca di scienze storiche e morali
Suetonius Tranquillus, Gaius, La vita di Caligola / Gaio Svetonio Tranquillo ; a cura di Gianni Guastella ,
Roma : NIS, 1992 , Studi superiori NIS
Nomi: Suetonius Tranquillus, Gaius
Guastella, Gianni
Soggetti: CALIGOLA, GAIO GIULIO CESARE GERMANICO - Biografia
SVETONIO TRANQUILLO, CAIO - Vita di Caligola - Studi
ICCU per Autore
The Aratus ascribed to Germanicus Caesar / edited with an introduction, translation & commentary by D. B.
Gain, London: The Athlone Press. University of London, 1976 , University of London classical studies
Bellandi, Franco, Iustissima Virgo: il mito della Vergine in Germanico e Avieno : saggio di commento a
Germanico: Arati Phaen. 96-139 e Avieno: Arati Phaen. 273-352 / Franco Bellandi, Emanuele Berti, Maurizio
Ciappi , Pisa : Giardini, [2001] , Biblioteca di Materiali e discussioni perl'analisi dei testi classici
Note Generali: Con i testi orig. e la trad. italiana a fronte.
Germanicus, Iulius Caesar, Aratea : Kommentar zum Aratus des Germanicus, Ms. Voss. Lat. Q. 79,
Bibliotheek der Rijksuniversitet Leiden. Der Text / Edition von Bernhard Bischoff ; Ubersetzung von Thomas
A.-P. Klein , Luzern : Faksimile Verlag, [1989?]
Note Generali: Trad. in tedesco con testo orig. a fronte.
Les phenomenes d'Aratos / Germanicus ; texte etabli et traduit par Andre Le Boeuffle , Paris : Les Belles
Lettres, 1975 , Collection des universites de France
Note Generali: Testo orig. a fronte
TV0114 - Biblioteca comunale - Treviso - TV
Real Francia, Pedro Jose : del, Germanici Iulii Caesaris operum Concordantia / curavit Pedro Jose del Real
Francia , Hildesheim [etc.] : Olms-Weidmann, 2002 , Alpha-omega. Reihe A, Lexika, Indizes,Konkordanzen
zur klassischen Philologie
Germanici Caesaris Aratea / iterum edidit Alfredus Breysig ; accedunt Epigrammata , Lipsiae : in aedibus B.
G. Teubneri, 1899 , Bibliotheca scriptorum Graecorum et RomanorumTeubneriana
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Capella, Martianus Mineus Felix, [ De nuptiis philologiae et Mercurii] / Martianus Capella ; Franciscus
Eyssenhardt recensuit ; accedunt Scholia in Caesaris Germanici Aratea , Lipsiae : in aedibus B. G. Teubneri,
1866 , Bibliotheca scriptorum Graecorum et RomanorumTeubneriana
Nomi: Capella, Martianus Mineus Felix
Eyssenhardt, Franz
Germanicus, Iulius Caesar
Aratea cum scholiis / edidit A. Breysig , Berlin : Reimer, 1867
Nomi: Germanicus, Iulius Caesar
Breysig, Alfred
PHI
"Germanico¸ Giulio Cesare - Encarta"
Germanico, Giulio Cesare (Roma 15 a.C. - Antiochia 19 d.C.), generale romano, figlio del generale Druso
Maggiore. Adottato dall'imperatore Tiberio nel 4 d.C., nel 12 divenne console e, l'anno seguente, l'imperatore
Augusto lo nominò comandante delle otto legioni romane stanziate sul fiume Reno. Nel 14, alla morte di
Augusto, dovette sedare una rivolta scoppiata all'interno delle legioni. Sconfisse i marsi, una tribù germanica,
e l'anno seguente si scontrò con l'esercito di Arminio, capo della tribù dei cherusci, che nel 9 d.C. aveva
sconfitto tre legioni romane guidate dal generale Publio Quintilio Varo. Non riuscendo a riportare una vittoria
decisiva, nel 16 fu richiamato a Roma da Tiberio; accolto con grande entusiasmo, gli fu tributato un trionfo, la
tradizionale celebrazione per i generali vittoriosi. Tiberio lo inviò quindi nelle province orientali per risolvere
una disputa sorta tra armeni e parti, ma morì nel corso di questa missione. Dalla moglie, Agrippina Maggiore,
ebbe sei figli, tra cui Caligola, divenuto poi imperatore, e Agrippina Minore, madre del futuro imperatore
Nerone.
"Germanico¸ Giulio Cesare - Treccani"
Germanico Giulio Cesare (15 a.C. - 19 d.C.). Iulius Caesar Germanicus, figlio di Nerone Claudio Druso e di
Antonia Minore, fu adottato da Tiberio, assumendo il nome dei Giulii e conservando il cognome paterno di G.
Console per la prima volta a 25 anni, era proconsole nelle Gallie quando, alla morte di Augusto, dovette
domare la sedizione delle legioni del Reno. In seguito condusse al di là del fiume spedizioni che valsero a
restaurare il prestigio di Roma, scosso dalla strage di Teutoburgo ad opera di Arminio (v.), e procurarono a
G. gli onori del trionfo. Mandato in Oriente, nel 18 d.C. divenne console per la seconda volta, avendo come
collega lo stesso Tiberio. La saggia politica di lui condotta in Armenia, Cappadocia e Commagene aggiunse
nuova popolarità a quella di cui godeva in Roma. L'ostilità tra G. e Calpurnio Pisone, proconsole di Siria, e
tra le loro rispettive mogli Vipsania Agrippina e Munazia Plancina, precedette di poco la morte di G.,
avvenuta per malattia. Calpurnio Pisone e sua moglie vennero tuttavia accusati di veneficio, ma il processo
celebrato in Roma li mandò assolti. G. è anche ricordato come autore di commedie greche e di epigrammi. Il
poco che di lui ci è giunto attraverso Arato ne dimostra l'ottima preparazione anche scientifica. Da Agrippina
aveva avuto nove figli, tra cui Caligola e Agrippina Minore, madre di Nerone.
Riposati
Più vivace è la figura di Giulio Cesare Germanico (Iulius Caesar Germantcus), che lasciò anche in Tacito un
vivo rim, pianto per la sua morte immatura, a soli 34 anni (1). A valore di condottiero univa prestigio ed
eccellenza di oratore, buona cultura greca e latina e facilità di ingegno poetico. Scrisse infatti commedie ed
epigrammi nelle due lingue, rivelando una raffinata perizia metrica. Ma egli è particolarmente ricordato per i
suoi Aratea, un rifacimento in esametri, di classica fattura, dei Fenomeni di Aràto di Soli, che descrivevano le
costellazioni e i fenomeni celesti; ce ne rimangono 725 versi, nei quali è facile sorprendere la libertà che
Germanico ha tenuto dinanzi al modello, ampliando, integrando, interpretando, forse col sussidio di scholia o
di altri testi astronomici, e infondendo, soprattutto, qua e là, un afflato poetico, non indegno di alcuni squarci
delle Georgiche virgiliane. Queste caratteristiche differenziano la fatica di Grmanico da quella anàloga di
Cicerone e, piú tardi, di Avièno.
Di un secondo poemetto, anch'esso didascalico-scientifico, i Prognosttca, ci rimangono circa 200 versi. Si
nota una maggiore indipendenza dal modello alessandrino, una piú trasparente e piú elevata sensibilità
spirituale, che porta il poeta a scettiche riflessioni sui miti e sulle superstizioni tradizionali. Par che in lui,
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come in Manilio, la ricerca delle ' cose ' celesti apra una piú equilibrata e serena contemplazione delle ' cose'
terrene. Anche qui si nota una tecnica metrica finemente elaborata, un'attenta precisione scientifica di
linguaggio, nonostante le difficoltà della materia. Palese è in Germanico l'influenza di Lucrezio, di Virgilio e,
in molta parte, anche di Ovidio.
Grattio Falisco
Cenni biografici
Opere
Grattio Falisco fu autore di un poemetto sulla caccia, il Cynegeticon o Cynegetica, di cui restano
541 esametri.
Composto prima dell'esilio di Ovidio, che lo cita nelle Epistulae ex Ponto, il poemetto tratta
soprattutto dell'allevamento di cavalli e cani per la caccia.
L'esposizione, piuttosto tecnica, è interrotta talora e alleggerita da alcune digressioni mitologiche.
Testi e testimonianze
Ov., ex Ponto, 4,16,31-41
Cum Varius Graccusque darent fera dicta tyrannis,
Callimachi Proculus molle teneret iter,
Tityron antiquas Passerque rediret ad herbas
aptaque uenanti Grattius arma daret,
Naidas a satyris caneret Fontanus amatas,
clauderet inparibus uerba Capella modis,
cumque forent alii, quorum mihi cuncta referre
nomina longa mora est, carmina uulgus habet,
essent et iuuenes, quorum quod inedita cura est,
adpellandorum nil mihi iuris adest.
Vario e Gracco colpivano i tiranni con parole feroci, Proculo seguiva il dolce cammino di Callimaco,
Grattio spingeva il pastore Titiro ai pascoli d'un tempo e dava al cacciatore arm i adatte; Fontano
cantava le Naiadi amate dai Satiri, Capella fissava le sue parole in versi ineguali; c'erano molti altri, di
cui sarebbe troppo lungo ricordare tutti i nomi; i loro versi sono nelle mani di tutti; vi erano anche
giovani, di cui l'opera è ancora inedita e perciò io non ho il diritto di citare.
Bibliografia
ed. M. Haupt (Ovidii 'Halieutica'. Gratii et Nemesiani 'Cynegetica'), Leipzig 1838.
ed. P. Vollmer, Poetae Latini Minores, 2/1, 1911, pp. 20-45.
ed. P.J. Enk, Gratti 'Cynegeticon' quae supersunt, Zutphen 1918.
ed. Aldo Marsili, Pisis, In aedibus Pacini Mariotti, 1958
ed. R. Verdière, Gratti 'Cynegeticon' libri I quae supersunt, Wetteren 1964 (con Index nominum et
verborum).
ed. M. Cacciaglia, Roma 1970 (con tr. it. e note).
ed. C. Formicola, Bologna 1988 (con tr.it e note e concordantia)
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Strumenti
Formicola, C., Gratti Cynegeticon concordantia, Bologna : Patron, 1988.
Riposati 459, Bettini 2, 764
PHI
ICCU Soggetto
Formicola, Crescenzo, Gratti Cynegeticon concordantia / Crescenzo Formicola, Bologna : Patron, 1988,
Edizioni e saggi universitari di filologiaclassica
Note Generali: Pubbl. con: Il Cynegeticon di Grattio.
Formicola, Crescenzo, Studi sull'esametro del Cynegeticon di Grattio / Crescenzo Formicola, Napoli :
Loffredo, [1995], Studi latini
Capobianco, P., Grazio Falisco ed il suo Cinegetico : studio critico e traduzione in versi del poema / P.
Capobianco, Napoli : tip. Muca, 1907
ICCU Autore
Il Cynegeticon di Grattio / introduzione, testo critico, traduzione e commento a cura di Crescenzo Formicola ,
Bologna : Patron, 1988 , Edizioni e saggi universitari di filologiaclassica
Note Generali: Pubbl. con: Gratti Cynegeticon concordantia, di Crescenzio Formicola.
Cinegetica / Gratio . Halieutica / P. Ovidio Nason . Bucolicas / T. Calpurnio Siculo . Bucolicas Einsidlenses .
Bucolicas, Cinegetica, De la caza de los pajaros / M. Aurelio Olimpio Nemesiano . De la mortandad de
bueyes / Severo Santo Endelequio , Madrid : Editorial Gredos, 1984 , Biblioteca clasica Gredos
Note Generali: Introducciones, traducciones y notas de Jose A. Correa Rodriguez.
Altri titoli collegati: [Pubblicato con] Halieutica / P. Ovidio Nason.
[Pubblicato con] Bucolicas / T. Calpurnio Siculo.
[Pubblicato con] Bucolicas Einsidlenses.
[Pubblicato con] Cinegetica / Gratio.
[Pubblicato con] Bucolicas, Cigenetica, De la caza de los pajaros / M. Aurelio Olimpio Nemesiano.
[Pubblicato con] De la mortandad de bueye / Severo Santo Endelequio.
Formicola, Crescenzo
Gratti Cynegeticon concordantia / Crescenzo Formicola , Bologna : Patron, 1988 , Edizioni e saggi
universitari di filologiaclassica
Note Generali: Pubbl. con: Il Cynegeticon di Grattio.
Il Cynegeticon di Grattio / introduzione, testo critico, traduzione e commento a cura di Crescenzo Formicola ,
Bologna : Patron, 1988 , Edizioni e saggi universitari di filologiaclassica
Note Generali: Pubbl. con: Gratti Cynegeticon concordantia, di Crescenzio Formicola.
Gratti Cynegeticon / edidit Aldo Marsili , Pisis : In aedibus Pacini Mariotti, 1958
Grattius Faliscus, Priapeorum poetae , Pisa : Giardini, 1976 , Scriptorum Romanorum quae extant omnia
Note Generali: Contiene: Gratii Falisci Cynergeticon, Priapeorum poetae / a cura di F. Serra.
Altri titoli collegati: [Variante del titolo] Priapeorum poetae
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Il Cinegetico / di Grattio ; introduzione, testo, traduzione, note [a cura di ] Mario Cacciaglia , Roma : [s.n.],
1970 (Subiaco : Tip. dei Monasteri)
Note Generali: Testo orig. a fronte.
Titolo uniforme: Cynegeticon.
Il cinegetico di grazio falisco : Versione italiana e commento di Giuseppe Chimienti , Trieste : Casa Ed. C. N.
Trani, 1943 , Letteratura venatoria classica
Cinegeticon quae supersunt : cum prolegomenis, notis criticis, commentario exegetico / edidit P. J. Enk ,
Zutphaniae : Thieme & C., 1918
Nomi: Enk, Peter Johann
Paese di pubblicazione: NL
Gratti Cynegeticon quae supersunt : cum prolegomenis, notis criticis, commentario exegetico / edidit P. J.
Enk , Zutphaniae : apud W. J. Thieme & C., 1918
Titolo uniforme: Cynegeticon.
Comprende: 1: Prolegomena et Textum continens
2: Commentarium continens
Nomi: Enk, P. J.
Altri titoli collegati: [Variante del titolo] Cynegeticon quae supersunt
Paese di pubblicazione: NL
Il cinegetico / volgarizzato dal prof. Pietro Dona , Padova : tip. del Seminario, 1873
Lentulo Getulico, Cornelio
Cenni biografici
Console nel 26 d.C.
Opere
Tre versi trasmessi da Probo commento a Verg. Georg.
Testi e testimonianze
Tac., ann., 6, 30, 2-4
Mart. Praef.1,1
Spero me secutum in libellis meis tale temperamentum, ut de illis queri non possit quisquis de se bene
senserit, cum salva infimarum quoque personarum reverentia ludant; quae adeo antiquis auctoribus defuit,
ut nominibus non tantum veris abusi sint, sed et magnis. Mihi fama vilius constet et probetur in me
novissimum ingenium. Absit a iocorum nostrorum simplicitate malignus interpres nec epigrammata mea
scribat: inprobe facit qui in alieno libro ingeniosus est. Lascivam verborum veritatem, id est epigrammaton
linguam, excusarem, si meum esset exemplum: sic scribit Catullus, sic Marsus, sic Pedo, sic Gaetulicus, sic
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quicumque perlegitur. Si quis tamen tam ambitiose tristis est, ut apud illum in nulla pagina latine loqui fas sit,
potest epistula vel potius titulo contentus esse. Epigrammata illis scribuntur, qui solent spectare Florales.
Non intret Cato theatrum meum, aut si intraverit, spectet.
Traduzione
Plin. iun. 5,3,2
An ego uerear neminem uiuentium, ne quam in speciem adulationis incidam, nominabo, sed ego uerear ne
me non satis deceat, quod decuit M. Tullium, C. Caluum, Asinium Pollionem, M. Messalam, Q. Hortensium,
M. Brutum, L. Sullam, Q. Catulum, Q. Scaeuolam, Seruium Sulpicium, Varronem, Torquatum, immo
Torquatos, C. Memmium, Lentulum Gaetulicum, Annaeum Senecam et proxime Verginium Rufum et, si non
sufficiunt exempla priuata, diuum Iulium, diuum Augustum, diuum Neruam, Tiberium Caesarem?
Traduzione
Sidon., ep. 2,10, 6
Id. carm. 9,260
Bibliografia
E. Stein ā€“ F. Skutsch, RE IV, 1900, 1384-1386
FPL Blansdorf 1995, pp. 307-08.
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Apicio
Cenni biografici
Probabilmente l'autore del nucleo originario del De re coquinaria si chiamava Marco Gavio.
Secondo alcuni il nome di Apicio sarebbe quello di un buongustaio vissuto alla fine del II sec. d.C.
Tacito ci parla di un altro Apicio dives e prodigus; Seneca ce ne descrive la morte degna di una
vita all'insegna di lusso e stravaganza e ci fa intendere che il suo nome indicasse per antonomasia
organizzatore di banchetti speciali quanto il proverbiale Lucullo.
Verosimilmente nacque intorno al 25 a.C.
Opere
Sotto il nome di Apicio ci è stata tramandata con il titolo di De re coquinaria una raccolta in dieci
libri di circa 500 ricette che non possono essere tutte attribuite al personaggio di cui parlano
Seneca e Tacito. Alcuni critici identificano in due trattatelli, l'uno sulle salse, l'altro sull'elaborazione
completa di alcuni piatti, il contributo dell'Apicio al De re coquinaria.
L'ultima riorganizzazione del testo a noi pervenuto potrebbe risalire al IV secolo dopo Cristo: così
farebbero pensare motivi di ordine linguistico e riferimenti almeno al II secolo.
Osservazioni
Tra le fonti del De re coquinaria ce ne sono anche di carattere medico, considerata la natura
dietetica o terapeutica di molte ricette, e di origine greca.
Testi e testimonianze
Tac., ann., 4,1
Initium et causa penes Aelium Seianum cohortibus praetoriis praefectum cuius de potentia supra memoravi:
nunc originem, mores, et quo facinore dominationem raptum ierit expediam. genitus Vulsiniis patre Seio
Strabone equite Romano, et prima iuventa Gaium Caesarem divi Augusti nepotem sectatus, non sine
rumore Apicio diviti et prodigo stuprum veno dedisse, mox Tiberium variis artibus devinxit adeo ut obscurum
adversum alios sibi uni incautum intectumque efficeret, non tam sollertia quippe isdem artibus victus est
quam deum ira in rem Romanam, cuius pari exitio viguit ceciditque.
Lā€™inizio e la ragione del cambiamento [di Tiberio] vanno ricercati in Elio Seiano, comandante delle coorti dei
pretoriani. Ho già parlato della sua influenza politica, ora illustrerò la sua origine, il suo carattere e il crimine
che lo avviò a usurpare un potere illimitato. Nato a Bolsena da Seio Strabone, cavaliere romano, allā€™inizio
della giovinezza aveva fatto parte della cerchia di Gaio Cesare, nipote del Divo Augusto, e ci fu chi disse che
si era prostituito per denaro al ricco e prodigo Apicio.
Trad. L. Lenaz, Einaudi Pléiade, 2003.
Sen., dial., 7,11,4
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Aspice Nomentanum et Apicium, terrarum ac maris, ut isti uocant, bona conquirentis et super mensam
recognoscentis omnium gentium animalia; uide hos eosdem e suggestu rosae despectantis popinam suam,
aures uocum sono, spectaculis oculos, saporibus palatum suum delectantis; mollibus lenibusque fomentis
totum lacessitur eorum corpus et, ne nares interim cessent, odoribus uariis inficitur locus ipse in quo luxuriae
parentatur. Hos esse in uoluptatibus dices, nec tamen illis bene erit, quia non bono gaudent.
4. Guarda Nomentano ed Apicio, che vanno alla ricerca dei beni (come loro li chiamano) della terra e del
mare, e che sulla mensa passano in rassegna gli animali di tutti i popoli; guarda queste medesime
persone, che (sul seggio imbottito di rose) guardano giù la sfilata della loro cucina, allietando le orecchie
con il suono delle voci, con gli spettacoli gli occhi, con i sapori il palato; con molli e leggeri fomenti viene
stimolato tutto il loro corpo e, affinché neppure le narici se ne restino frattanto in ozio, di odori vari viene
impregnato proprio il luogo in cui si fanno sacrifici funebri che soddisfino il lusso. Dirai che costoro si
trovano fra i piaceri, ma per loro non andrà bene, dato che gioiscono di un non bene.
Trad. G. Viansino, Mondadori, 1990, 2001
Sen., dial., 12,10,8
Scilicet minus beate uiuebat dictator noster qui Samnitium legatos audit cum uilissimum cibum in foco ipse
manu sua uersaretā€“illa qua iam saepe hostem percusserat laureamque in Capitolini Iouis gremio reposueratā€“quam Apicius nostra memoria uixit, qui in ea urbe ex qua aliquando philosophi uelut corruptores
iuuen-tutis abire iussi sunt scientiam popinae professus disciplina sua saeculum infecit.' Cuius exitum nosse
operae pretium est. Cum sestertium milliens in culinam coniecisset, cum tot congiaria principum et ingens
Capitolii uectigal singulis comisationibus exsorpsisset, aere alieno oppressus rationes suas tunc primum
coactus inspexit: superfuturum sibi sestertium centiens computauit et uelut in ultima fame uicturus si in
sestertio centiens uixisset, ueneno uitam finiuit. Quanta luxuria erat cui centiens sestertium egestas
8. Si capisce, viveva in modo meno felice il nostro dittatore (che dette udienza ai legati Sanniti mentre
personalmente rimescolava sul focolare cibo vilissimo, con quella stessa mano con cui spesso aveva
colpito il nemico ed aveva deposto la corona d'alloro in grembo a Giove Capitolino) di quanto visse Apicio
ai nostri tempi. In quella città, dalla quale un tempo fu ordinato ai filosofi di andarsene, come se fossero
corruttori della gioventù, facendo professione di scienza culinaria costui con l'insegnamento impartito
avvelenò la sua generazione». Vale la pena conoscerne la morte.
9. Dopo aver gettato in cucina
cento milioni di sesterzi, dopo essersi divorato in singole crapule tante elargizioni di principi e le grosse
entrate del tempio capitolino, schiacciato dai debiti, fu costretto, allora per la prima volta, a fare i conti di
cassa: risultò che gli sarebbero rimasti dieci milioni di sesterzi. Come se fosse destinato a vivere nella
fame estrema, se avesse dovuto vivere nei limiti di dieci milioni di sesterzi, pose fine alla vita con il veleno.
10. In che lusso viveva, chi considerò miseria dieci milioni di sesterzi? va' ora, e credi pure che sia la
delimitazione del denaro ad aver importanza per la sostanza della questione, non quella dell'animo!
qualcuno ebbe paura di dieci milioni di sesterzi e da ciò, cui altri aspirano nei loro voti, fuggì con il veleno!
per quell'uomo dalla volontà così storta, la bevanda più salubre fu l'ultima: mangiava e beveva veleni
allora, quando di smisurati banchetti non solo si dilettava, ma si gloriava, quando ostentava i suoi vizi,
quando attirava l'attenzione della città sul suo lusso, quando stuzzicava la gioventù (portata già di per sé
ad apprendere anche senza cattivi esempi), a ché lo imitasse.
11. Ciò capita a chi riconduce il denaro non alla ragione (i cui limiti sono definiti), ma ad abitudini viziose, il
cui arbitrio è immenso ed inabbracciabile. Al desiderio nulla basta, alla natura basta anche ciò che sembra
essere troppo poco. La povertà dell'esule non comporta dunque in sé alcun disagio: nessun luogo d'esilio
è tanto povero, da non essere abbondantemente fertile per nutrire l'uomo.
Trad. G. Viansino, Mondadori 1990, 2001.
Sen., ad Lucil., 95,41
Eadem res, si gulae datur, turpis est, si honori, reprensionem effugit; non enim luxuria sed inpensa sollemnis
est. Mullum ingentis formaeā€“quare autem non pondus adicio et aliquo-rum gulam inrito? quattuor pondo et
selibram fuisse aiebantā€“ Tiberius Caesar missum sibi cum in macellum deferri et venire iussisset, 'amici,'
inquit 'omnia me fallunt nisi istum mullum aut Apicius emerit aut P. Octavius'. Ultra spem illi coniectura
processit: liciti sunt, vicit Octavius et ingentem consecutus est inter suos gloriam, cum quinque sestertiis
emisset piscem quem Caesar vendiderat, ne Apicius quidem emerat. Numerare tantum Octavio fuit turpe,
F. Dalessi © 2002
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non illi qui emerat ut Tiberio mitteret, quamquam illum quoque reprenderim: admiratus est rem qua putavit
Caesarem dignum.
Inoltre i precetti ti permetteranno, forse, di fare il tuo dovere, ma non nel modo dovuto: e non si
giunge alla virtù se non si ottiene questo. Ricevuto l'insegnamento, uno farà ciò che deve, l o
ammetto; ma non basta, poiché il merito non consiste nel fare una cosa, ma nel modo in cui si fa.
Che più riprovevole del comportamento di un cavaliere che dilapida le sue sostanze in una cena
sontuosa? Che c'è di più degno del biasimo da parte dei censo ri se, come dicono i crapuloni, ci si
mette a spendere solo per soddisfare un capriccio? Eppure uomini molto parsimoniosi,
nell'assumere una carica dettero cene molto costose. Così la stessa azione, se serve a soddisfare
la gola, è turpe, ma è irreprensibile se fatta per l'assunzione di una carica, poiché non si tratta di
lusso, ma di una spesa che la tradizione considera dove rosa. All'imperatore Tiberio fu inviata in
regalo un'enorme triglia (perché non aggiungo il peso per solleticare la gola di qualcu no? Si dice
che pesasse quattro libbre e mezzo). Egli ordinò che fosse inviata al mercato e venduta, dicendo:
«Amici, mi gioco la testa che questa triglia sarà comprata da Apicio o da Ottavio». La sua
previsione si realizzò perfettamente: si fecero le offe rte all'incanto e il pesce non toccò ad Apicio,
ma fu aggiudicato per cinquemila sesterzi ad Ottavio, che ne ebbe grande gloria fra i suoi. In questo
caso, chi compì l'azione riprovevole fu Ottavio, sborsando tanto denaro, e non chi aveva comprato
la triglia da offrire a Tiberio (sebbene neppure lui sia del tutto esente da biasimo): quella triglia gli
era sembrata una cosa così straordinaria da ritenerla degna dell'imperatore.
Sen. ad Lucil., 120,20
Quidam alternis Vatinii, alternis Catones sunt; et modo parum illis severus est Curius, parum pauper
Fabricius, parum frugi et contentus vilibus Tubero, modo Licinum divitis, Apicium cenis, Maecenatem delicis
provocant.
Vedendo un uomo così coerente, senza dubbio ci colpirebbe la bellezza del suo carattere
eccezionale, specie se questa sua coerenza rendesse ben manifesto che si tratta di vera
grandezza. Il vero è sempre uguale, il falso è mutevole. Alcuni sono ora Vatinii, ora Catoni; e per
essi ora è poco austero Curio, poco povero Fabrizio, poco frugale e sobrio Tuberone; ora sfidano
Licino nella ricchezza, Apicio nelle gozzoviglie, Mecenate nelle mollezze. Un indizio sicuro di un
animo viziato è quell'ondeggiare ed agitarsi continuamente fra la simulazione della virtù e l'amore
dei vizi. «Portava con sé ora duecento schiavi, ora appena dieci; ora parlava di cose grandi, di re,
di tetrarchi; ora diceva: mi basta un tavolino a tre piedi, una conchiglia di sale schietto, e un
mantello anche rozzo, purché mi ripari dal freddo. Ma se uno gli avesse dato un mili one di sesterzi,
quest'uomo sobrio e contento del poco in cinque giorni avrebbe scialacquato tutto.»
Trad. G. Monti, BUR, 1974, 1999.
Iuv., 4, 18-28
Consilium laudo artificis, si munere tanto
praecipuam in tabulis ceram senis abstulit orbi;
est ratio ulterior, magnae si misit amicae,
quae uehitur cluso latis specularibus antro.
nil tale expectes: emit sibi. multa uidemus
quae miser et frugi non fecit Apicius. hoc tu
succinctus patria quondam, Crispine, papyro?
hoc pretio squamae? potuit fortasse minoris
piscator quam piscis emi; prouincia tanti
uendit agros, sed maiores Apulia uendit.
Molte colpe noi vediamo, che non commise il disgraziato e ā€¦frugale Apicio!
Iuv., 11,1-3
Atticus eximie si cenat, lautus habetur,
si Rutilus, demens. quid enim maiore cachinno
excipitur uolgi quam pauper Apicius?
Attico se offre cene in modo raffinato, è considerato un signore; se lo fa Rutilio, un pazzo (cosaè
infatti accolto dal popolo con risate maggiori, che un povero comportantentesi come Apicio?
F. Dalessi © 2002
F. D'ALESSI - Letteratura latina - Parte III,1 - Il periodo imperiale - L'età dei Claudi
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Giovenale 11, 1-55 è analisi critica della vita lussuosa a tavola di poveri e ricchi; si presta dunque a
utilizzo per approfondimenti.
Mart., 2, 69, 1-4
Invitum cenare foris te, Classice, dicis:
Si non mentiris, Classice, dispeream.
Ipse quoque ad cenam gaudebat Apicius ire:
Cum cenaret, erat tristior ille, domi.
Anche Apicio era felice quando andava fuori a cena:
quando cenava a casa era molto malinconico
(perché doveva spendere; lā€™epigramma è dedicato a un parassita).
Mart., 2, 89, 3-6
Carmina quod scribis Musis et Apolline nullo,
Laudari debes: hoc Ciceronis habes:
Quod vomis, Antoni: quod luxuriaris, Apici.
Hai il vizio di tirare in lungo le notti a forza di bere troppo vino: ti perdono, Gauro, in fondo era il vi zio
di Catone.
Scrivi poesie che non hanno nulla a che vedere né con le Muse né con Apollo: ti lodo, Gauro, era il
vizio di Cicerone.
Vomiti: era il vizio di Antonio. Gozzovigli: era quello di Apicio.
Lecchi i cazzi: e dimmi, di chi era questo vizio?
Mart., 3, 22
Dederas, Apici, bis trecenties ventri,
Et adhuc supererat centies tibi laxum.
Hoc tu gravatus ut famem et sitim ferre
Summa venenum potione perduxti.
Nihil est, Apici, tibi gulosius factum.
Per la tua pancia sessanta milioni di sesterzi,
Apicio, avevi speso, e te n'erano rimasti dieci.
Troppo poco per la tua fame e la tua sete:
hai scelto di fare l'ultimo brindisi con una coppa di veleno.
Il tuo più grande peccato di gola, Apicio.
Tr. S. Beta, Milano Mondadori 1995
Mart. 10,73
Littera facundi gratum mihi pignus amici
Pertulit, Ausoniae dona severa togae,
Qua non Fabricius, sed vellet Apicius uti,
Vellet Maecenas Caesarianus eques.
Una lettera mi ha portato il gradito regalo di un amico avvocato,
il dono severo di una toga italica,
che indosserebbe volentieri Apicio e non Fabrizio,
che vorrebbe Mecenate, il cavaliere di Augusto.
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F. D'ALESSI - Letteratura latina - Parte III,1 - Il periodo imperiale - L'età dei Claudi
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Tr. S. Beta, Milano Mondadori 1995
Plin., nat., 8, 209
Adhibetur et ars iecori feminarum sicut anserum, inventum M. Apici, fico arida saginatis ac satie necatis
repente mulsi potu dato. neque alio ex animali
Si usa anche per il fegato delle femmine [dei maiali], come per quello delle oche, una tecnica speciale,
procedimento inventato da Marco Apicio: esse vengono ingrassate con fichi secchi e fatte morire di nausea
dando loro all'improvviso da bere vino mielato.
Trad. E. Giannarelli, Torino, Einaudi, 1983.
Plin., nat., 9,66
Mullum expirantem versicolori quadam et numerosa varietate spectari proceres gulae narrant, rubentium
squamarum multiplici mutatione pallescentem, utique si v<i>tro spectetur inclusus. M. Apicius, ad omne
luxus ingenium <n>a<t>us, in sociorum garonam ea quoque res cognomen invenitā€“necari eos praecellens
putavit atque e iecore eorum allecem excogitare.
I buongustai narrano che, mentre spira, la triglia si vede passare per una determinata e numerosa varietà di
colori: essa acquista progressivamente un colore pallido, attraverso molteplici mutamenti delle sue squame
rosseggianti, soprattutto se la si osserva chiusa in un vetro. Marco Apicio, ingegnoso inventore di ogni
raffinatezza, ritenne cosa squisita far morire le triglie nel "garo degli alleati" - infatti anche quel prodotto ha
trovato il suo soprannome - ed escogitar di trarre dal loro fegato l'allec.
Trad. A. Borghini, Torino, Einaudi, 1983.
Cf. anche Ov., Hal. 123
Atque avium phycis nidos imitata sub undis
Et squamas tenui suffusus sanguine mullus,
e Aus., Mos.,117
Testo e Traduzione
Plin., nat., 10,133
Phoenicopteri linguam praecipui saporis esse Apicius docuit, nepotum omnium altissimus gurges.
Apicio, il più grande ghiottone fra tutti gli scialacquatori ci ha informati che la lingua del fenicottero è dotata di
un sapore squisito.
Trad. di E. Giannarelli, Torino, Einaudi, 1983.
Il passo di Apicio in questione non è stato tramandato, ma in Apicio ci sono due ricette per il
fenicottero 6,6, 1 - 2.
IN PHOENICOPTERO
Phoenicopterum eliberas, lavas, ornas, includis in caccabum, adicies aquam, salem, anethum et aceti
modicum. dimidia coctura alligas fasciculum porri et coriandri, ut coquatur. prope cocturam defritum mittis,
coloras. adicies in mortarium piper, cuminum, coriandrum, laseris radicem, mentam, rutam, fricabis,
suffundis acetum, adicies caryotam, ius de suo sibi perfundis. reexinanies in eundem caccabum, amulo
obligas, ius perfundis et inferes. idem facies et in psittaco.
Aliter: assas avem, teres piper, ligusticum, apii semen, sesamum frictum, petroselinum, mentam,
cepam siccam, caryotam. melle, vino, liquamine, aceto, oleo et defrito temperabis.
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Cf. anche Sen., ep. 110,12
Non magnam rem facis quod vivere sine regio apparatu potes, quod non desi-deras milliarios apros nec
linguas phoenicopterorum et alia portenta luxuriae iam tota animalia fastidientis et certa membra ex singulis
eligentis: tunc te admirabor si contempseris etiam sordidum panem, si tibi persuaseris herbam, ubi necesse
est, non pecori tantum sed homini nasci, si scieris cacumina arborum explementum esse ventris in quem sic
pretiosa congerimus tamquam recepta servantem.
e Marz. 13,71
LXXI Phoenicopteri
Dat mihi pinna rubens nomen, sed lingua gulosis
Nostra sapit. Quid si garrula lingua foret?
e Suet., Vitell.,13,1-3.
Sed uel praecipue luxuriae saeuitiaeque deditus epulas trifariam semper, interdum quadrifariam dispertiebat,
in iantacula et prandia et cenas comisationesque, facile omnibus sufficiens uomitandi consuetudine.
indicebat autem aliud alii eadem die, nec cuiquam minus singuli apparatus quadringenis milibus nummum
constiterunt. famosissima super ceteras fuit cena data ei aduenticia a fratre, in qua duo milia lectissimorum
piscium, septem auium apposita traduntur. hanc quoque exuperauit ipse dedicatione patinae, quam ob
immensam magnitudinem clipeum Mineruae polioÚcou dictitabat. in hac scarorum iocinera, phasianarum et
pauonum cerebella, linguas phoenicopterum, murenarum lactes a Parthia usque fretoque Hispanico per
nauarchos ac triremes petitarum commiscuit.
Traduzione
Plin., nat., 19, 37
Brassica toto anno seritur, quoniam et toto secatur, utilissime tamen ab aequinoctio autumni, transferturque,
cum V foliorum est. cymam a prima satione praestat proximo vere. hic est quidam ipsorum caulium delicatior
teneriorque cauliculus, Apici luxuriae et per eum Druso Caesari fastiditus, non sine castigatione Tiberi patris.
Traduzione
HA, Ael. Spart., Aelii Veri vita, 5, 10 (riferito a Elio Vero)
Atque idem Ovidii libros Amorum ad verbum memoriter scisse fertur, idem Apicii, ut ab aliis relatum, in lecto
semper habuisse, idem Martialem epigrammaticum poetam, Vergilium suum dixisse.
Traduzione
HA, Ael.Lampr., Ant. Heliog. vita, 19,1
De huius vita multa in litteras missa sunt obscaena, quae quia digna memoratu non sunt, ea prodenda
censui, quae ad luxuriam pertinebant, quorum aliqua privatus, aliqua iam imperator fecisse perhibetur, cum
ipse privatus diceret se Apicium, imperatorem vero <Neronem>, Othonem et Vitellium imitari. nam primus
Traduzione
HA, Ael.Lampr., Ant. Heliog. vita, 20,4
Hic solido argento factos habuit lectos et tricliniares et cubiculares. comedit saepius ad imitationem Apicii
calcanea camelorum et cristas vivis gallinaceis demptas, linguas pavonum et lusciniarum, quod qui ederet
<a> pestilentia tutus diceretur. exhibuit et Palatinis <patinas> ingentes extis mullorum refertas et cerebellis
foenicopterum et perdicum ovis et cerebellis turdorum et capitibus psittacorum et fasianorum et pavonum.
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barbas sane mullorum tantas iubebat exhiberi, ut pro nas<tur>ti<i>s, apiasteris et fa<s>elaribus et f[o]eno
Graeco exhiberet plenis fabatariis et discis.
Traduzione
Internet- Alain Canu 2001
Le garum, appelé aussi liquamen, était une sauce à base de poisson et de saumure, proche sans doute du nuoc-mam
vietnamien. Le garum, présent dans de très nombreuses recettes, fournissait à la cuisine de lā€™époque un sel aromatisé.
Pline nous décrit ce précieux produit dans son Histoire naturelle (XXXI, 93 sqq) :
Aliud etiamnum liquoris exquisiti genus, quod garum vocavere, intestinis piscium ceterisque quae abicienda essent, sale
maceratis, ut sit illa putrescentium sanies. Hoc olim conficiebatur ex pisce, quem Graeci gā€¹ron vocabant [. . .]
Nunc e scombro pisce laudatissimum in Carthaginis spartariae cetariis ā€“ sociorum id appellatur ā€“, singulis milibus
nummum permutantibus congios fere binos. nec liquor ullus paene praeter unguenta maiore in pretio esse coepit,
nobilitatis etiam gentibus.
« Il y a une autre sorte de produit liquide très recherché de nos jours : cā€™est celui quā€™on appelle garum. On fait macérer
dans le sel les intestins et les autres déchets de poisson, ce que lā€™on jette habituellement, pour obtenir un jus dû à leur
putréfaction. On tirait autrefois ce produit du poisson que les Grecs appelaient garon [...]. De nos jours, le plus réputé est
tiré du maquereau en provenance des pêcheries de Carthagène, celui que lā€™on appelle garum des alliés. Il est vendu au
prix de mille sesterces pour deux conges [6,5 l] environ. Aucun produit liquide ou presque ne possède de valeur plus
élevée, le parfum mis à part, même chez les gens de la noblesse ».
(GARVM) SOC(IORVM)
AIIIA
C C(ORNELI) H(ERMEROTIS)
Garum des alliés. Vieux de trois ans. Produit de Gaius Calpurnius Placidus.
Amphore retrouvée à Pompéi - CIL IV, 5651
Scombros et Mauretania Baeticaeque etiam Carteia ex oceano intrantes capiunt, ad nihil aliud utiles. Laudantur et
Clazomenae garo Pompeique et Leptis, sicut muria Antipolis ac Thurii, iam vero et Dalmatia.
« On pêche les maquereaux uniquement pour la fabrication du garum lorsquā€™ils arrivent du large en Maurétanie et à
Cardeia de Bétique [Gadès]. Sont également réputés pour leur garum Clazomène, Pompéi et Leptis, de même
quā€™Antibes et Thurii pour leur saumure, ainsi que désormais la Dalmatie ».
Vitium huius est allex atque inperfecta nec colata faex. Coepit tamen et privatim ex inutili pisciculo minimoque confici :
apuam nostri, Žfæhn Graeci vocant, quoniam is pisciculus e pluvia nascatur. Foroiulienses piscem, ex quo faciunt, lupum
appellant.
« Lā€™allec, résidu imparfait qui reste quand on a recueilli le garum, en fournit une qualité inférieure. On commence
néanmoins à en produire pour la consommation domestique avec de très petits poissons peu comestibles, par exemple
ceux que nous appelons anchois et que les Grecs appellent aphuè parce que ce petit poisson naîtrait de la pluie [de
Žpñ- et ìei « il pleut » !]. Les gens de Fréjus nomment « loup »le poisson avec lequel ils produisent lā€™allec ».
HALLEX
OPTVMA
Allec de premier choix.
CIL IV, 5717
Transiit deinde in luxuriam, creveruntque genera ad infinitum, sicuti garum ad colorem mulsi veteris adeoque suavitatem
dilutum, ut bibi possit. aliud vero est castimoniarum superstitioni etiam sacrisque Iudaeis dicatum, quod fit e piscibus
squama carentibus.
« Le garum devient un produit de luxe et ses variétés sā€™accroissent à lā€™infini, par exemple le garum qui prend la couleur
du vin vieux au miel, ou celui qui est préparé pour atteindre une douceur telle quā€™on peut le boire.
Il en existe encore une variété produite pour satisfaire la recherche superstitieuse de pureté dans les rites juifs, et que
lā€™on fabrique avec des poissons sans écailles ».
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GAR(VM) CAST(VM)
SCOMBRI [AB VMBRICIA] FORTUNATA
Garum casher de maquereau, fabriqué par [Umbricia] Fortunata.
CIL IV, 5662.
Sic allex pervenit ad ostreas, echinos, urticas maris, mullorum iocinera, innumerisque generibus ad sapores gulae coepit
sal tabescere.
« Ainsi peu à peu, on se met à produire de lā€™allec avec des huîtres, des oursins, des orties de mer, des foies de surmulet
: le sel en vient à se mélanger avec dā€™innombrables espèces pour le plaisir de notre palais ».
De très nombreux vases (urcei) qui contenaient du garum ou de lā€™allec ont été retrouvés à Pompéi. La famille Umbricius
a édifié une bonne partie de sa fortune sur la production de ces sauces : un Umbricius Scaurus fut duumvir sous le
règne de Claude et son magnifique monument funéraire conserve le souvenir de son goût pour les jeux de
lā€™amphithéâtre.
A(VLO) VMBRICIO A(VLI) F(ILIO) MEN(ENIA)
SCAVRO
II VIR ID
HVIC DECVRIONES LOCVM MONVM[ENTI]
ET HS MM IN FVNERE ET STATVAM EQVESTR[EM]
IN FORO PONENDAM CENSVERUNT
SCAVRVS PATER FILIO
CIL X, 1024
Aulus Umbricius, fils dā€™Aulus, de la tribu Menenia, duumvir disant le Droit. Les décurions ont décidé de donner cet
emplacement pour son tombeau, ont voté une subvention de 2000 sesterces pour ses funérailles et quā€™une statue
équestre lui soit érigée sur le forum. Ce tombeau a été élevé par Scaurus le père pour son fils.
Les inscriptions des amphores mentionnent souvent aussi une Umbricia Fortunata. Il semble que le garum
commercialisé sous une marque, Scaurus par exemple, ait été produit dans différents ateliers dirigés par des affranchis.
Les inscriptions sur les vases distinguent la qualité supérieure (flos flos, « fleur de fleur ») des autres et précise lā€™espèce
de poisson ayant servi à la préparation, maquereau le plus souvent, mais aussi thon ou murène :
GAR(VM) F(LOS)
FLOS
MVREN(AE)
SALVSTI
Fleur de fleur de garum
de murène. Produit par Salustus.
CIL IV, 5673
Bien sûr, si le garum donnait une certaine saveur à la cuisine, il devait aussi avoir un effet sur lā€™haleine des convives et
parfois sur leur digestion :
Quid? illud sociorum garum, pretiosam malorum piscium saniem, non credis urere salsa tabe praecordia? Quid? illa
purulenta et quae tantum non ex ipso igne in os transferuntur iudicas sine noxa in ipsis visceribus extingui? Quam foedi
itaque pestilentesque ructus sunt.
Quant au « garum des alliés », précieuse pourriture de mauvais poissons, ne brûle-t-il pas les entrailles de sa saumure
putréfiée ? Ces purulences qui, à peine sorties du feu, passent directement dans la bouche, peuvent-elles sans
dommages s'éteindre au sein de notre organisme ? Après cela, quels renvois écœurants et pestilentiels! Sénèque,
Lucilius, 95.
Faut-il aller jusquā€™en Extrême-Orient pour retrouver le goût du garum ?
Non ! Il suffit dā€™aller à Nice. Voyez sur le site « Le meilleur de la France », qui propose un inventaire du patrimoine
culinaire français, les pages consacrées à la pissaladière.
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Carlito Ferrari ; con 140 ricette di Apicio , Milano : Alexa, stampa 1999
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editoriale italiano, stampa 1930 , Collezione romana
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Titolo uniforme: De re coquinaria
Classificazione: 641.692 - Cucina di specifici alimenti. Pesce
Les dix livres de cuisine d'Apicius : traduits du latin pour l apremiere fois et commentes / par Bertrand
Guegan , Paris : Rene Bonnel, 1933
Nomi: Apicius , Coelius
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Metge, 1990 , Colleccio catalana dels classics grecs illatins
L' arte culinaria : manuale di gastronomia classica / Apicio ; a cura di Giulia Carazzali ; presentazione di
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Edizione: 3. ed , Milano : Tascabili Bompiani, 2003
Manuale di gastronomia / Apicio , Milano : Rizzoli Editore, 1967 , BUR
F. Dalessi © 2002
F. D'ALESSI - Letteratura latina - Parte III,1 - Il periodo imperiale - L'età dei Claudi
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L' arte della cucina : manuale dell'esperto cuoco della Roma imperiale / Apicio ; introduzione, traduzione e
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Note Generali: Testo orig. a fronte ; in appendice: Mondo di Apicio.
L' arte culinaria : manuale di gastronomia classica / Apicio ; a cura di Giulia Carazzali ; presentazione di
Francesco Maspero , Milano : Gruppo editoriale Fabbri-Bompiani-Sonzogno-Etas, 1990 , Tascabili
Bompiani. C
Note Generali: Testo orig. a fronte.
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L' art culinaire / Apicius ; texte etabli, traduit et commente par Jacques Andre , Paris : Klincksieck, 1965 ,
Etudes et commentaires
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Edizione: Ed. integrale , Roma : Tascabili economici Newton, c1994 , Centopaginemillelire
Apicii Decem libri qui dicuntur De re coquinaria et excerpta a vinidario conscripta / edidit Mary Ella Milham ,
Leipzig : B.G. Teubner, 1969 , Bibliotheca scriptorum Graecorum et RomanorumTeubneriana
De re coquinaria libri decem : novem codicum ope adiuctus auxit ... interim / esplanavit Chr. T. Schuch
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Nomi: Apicius , Coelius
Schuch, Christian Theophilus
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Note Generali: Testo orig. a fronte.
Decem libri qui dicuntur De re conquinaria et Excerpta a Vinidario conscripta / edidit Mary Ella Milham ,
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Note Generali: Testo orig. a fronte.
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Vasselli, Gio. Francesco , L' Apicio : overo il maestro de'conviti / Gio. Francesco Vasselli ; introduzione di
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Olms-Weidmann, 1992 , Alpha-omega. Reihe A, Lexika, Indizes,Konkordanzen zur klassischen Philologie
Numeri: ISBN - 3487095424
"Apicio¸ Marco Gavio - Castaldi",
Marco Gavio Apicio
(sec. I d.C.)
Autore di un "De re coquinaria", in cui, più che allo stile (piuttosto pedestre), lā€™attenzione è rivolta alla
creatività e alla elaborazione scenografica dei piatti.
"Apicio¸ Marco Gavio - Corso"
Marcus Gavius Apicius.
Ad Apicio, vissuto nel I secolo dopo Cristo ai tempi di Tiberio, ma di cui si hanno notizie veramente incerte, è
attribuita una raccolta di ricette culinarie tramandata con il titolo di De re coquinaria (La cucina); in realtà
numerose sezioni della silloge, alquanto discontinua anche per lo stile, sembrano decisamente posteriori,
alcune addirittura databili al IV secolo.
Il De re coquinaria è comunque importante perché costituisce testimonianza pressochè singolare delle
abitudine culinarie romane del I secolo.
"Apicio¸ Marco Gavio - Encarta",
Apicio, Marco Gavio (I secolo d.C.), scrittore latino. Vissuto sotto l'impero di Tiberio, a lui viene attribuito
quantomeno il nucleo originario del corpus di ricette culinarie che va sotto il nome di De re coquinaria (La
cucina), frutto di una stratificazione di redazioni successive sino al IV secolo d.C. Nell'opera confluiscono
trattati di carattere medico nella definizione delle proprietà dietetiche dei singoli ingredienti, così come
indicazioni tratte dalla tradizione gastronomica greca. A parte la curiosità per le abitudini culinarie nella
Roma del I secolo, l'opera suscita interesse per l'attenzione che rivolge alla manipolazione degli ingredienti e
all'elaborazione scenografica delle portate. Il De re coquinaria ci è giunto diviso in dieci libri, alquanto
disorganici nella disposizione della materia e difformi nello stile; quest'ultimo è nel complesso privo di
eleganza, alquanto elementare e disseminato di volgarismi in parte attribuibili al compilatore.
Della sua vita si sa ben poco: forse si riferisce a lui Tacito quando nel libro IV degli Annales parla di un
Apicio ricco e prodigo che conduceva una vita corrotta; a questa nota si aggiunge la notizia fornita da
Seneca di un famoso e vizioso buongustaio che si diede la morte perché improvvisamente caduto in miseria.
"Apicio¸ Marco Gavio - Treccani"
Apicio. Soprannome d'un ricco romano, tale M. Gavio, quasi certamente vissuto ai tempi di Tiberio, famoso
nel suo tempo per grandiosi banchetti e orge. Gli si attribuisce il trattato Dell'arte del cucinare,
interessantissimo per una ricostruzione del gusto gastronomico dell'antica Roma.
Apicio - Riposati
Ad una generazione successiva, quella di Tiberio e Caligola, appartengono Apicio e GiuIio Grecino . Del
primo ci sono giunti dieci libri De re coquinarta, assai rimaneggiati nel corso del IV secolo, ed un ritratto di
maniera ad opera di Seneca il Filosofo, per il quale l'autore lisciplinai sua saeculum infecit: quasi che un
innocente ricettario di cucina avesse da solo provocato il decadimento dei costumi nel gran secolo di
Seneca. II De re coquinarza non ha pretese stilistiche: esso presenta invece qualche vivo interesse per la
storia del costume. Occorre però tenere presente che Aplcio mira soprattutto alla cucina raffinata e signorile
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F. D'ALESSI - Letteratura latina - Parte III,1 - Il periodo imperiale - L'età dei Claudi
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del tempo, come attestano le numerose ricette troppo elaborate e di difficile esecuzione. La rimanipolazione
tardiva del quarto secolo sfrondò, decurtò, semplificò molte delle ricette originarie, adattandole a mense
indubbiamente piú modeste.
All'enologia invece si riallaccia Giulio Grecíno che scrisse due libri, andati perduti, sulla coltivazione delle
vigne (De vineVis).
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Antonio Musa
Cenni biografici
Fu medico personale di Augusto, che salvò nel 23 a.C. da una grave malattia e da cui ebbe lā€™onore
di una statua in bronzo nel Palatium; paraticò una medicina di scuola dietetica sulle linee dei greci
Asclepiade e Temisione; nei cenni che Svetonio raccoglie ai capp. 81-83 della Vita Augusti sulla
dieta dellā€™imperatore abbiamo forse riflesso delle teorie di A.M.
Opere
Fu autore di una raccolta in più libri di Pharmaka (Medicamenti) di cui restano oggi solo frammenti
(ed. Baldani), ma che ebbero notevole fortuna nellā€™alto medioevo.] Oltre alla Precatio terrae sono
stati attribuiti Ad A.M. anche il De herba vettonica e la così detta Epistula ad Maecenatem.]
Testi e testimonianze
Su Antonio Musa abbiamo notizie da scrittori tecnici come Plinio, Scribonio Largo, Galeno,
Teodoro Prisciano, Cassio Felice e Marcello Empirico, ma anche da autori non medici: Orazio,
Svetonio e Cassio Dione.
Suet., Aug. 59
Medico Antonio Musae, cuius opera ex ancipiti morbo conualuerat, statuam aere conlato iuxta signum
Aesculapi statuerunt.
Suet. Aug. 81-82
Graues et periculosas ualitudines per omnem uitam aliquot expertus est; praecipue Cantabria domita, cum
etiam destillationibus iocinere uitiato ad desperationem redactus contrariam et ancipitem rationem medendi
necessario subiit: quia calida fomenta non proderant, frigidis curari coactus auctore Antonio Musa.
Quasdam et anniuersarias ac tempore certo recurrentes experiebatur; nam sub natalem suum plerumque
languebat; et initio ueris praecordiorum inflatione temptabatur, austrinis autem tempestatibus grauedine.
quare quassato corpore neque frigora neque aestus facile tolerabat. hieme quaternis cum pingui toga tunicis
et subucula e<t> thorace laneo et feminalibus et tibialibus muniebatur, aestate apertis cubiculi foribus ac
saepe in peristylo saliente aqua atque etiam uentilante aliquo cubabat. solis uero ne hiberni quidem patiens,
domi quoque non nisi petasatus sub diuo spatiabatur. itinera lectica et noctibus fere eaque lenta ac minuta
faciebat, ut Praeneste uel Tibur biduo procederet; ac si quo peruenire mari posset, potius nauigabat. uerum
tantam infirmitatem magna cura tuebatur, in primis lauandi raritate; unguebatur enim saepius aut sudabat ad
flammam, deinde perfundebatur egelida aqua uel sole multo tepefacta. at quotiens neruorum causa marinis
Albulisque calidis utendum esset, contentus hoc erat ut insidens ligneo solio, quod ipse Hispanico uerbo
duretam uocabat, manus ac pedes alternis iactaret.
Bibliografia
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Edizioni dei frammenti (greci?) Baldani. Controllo.
Studi
I. Mazzini, La medicina dei Greci e dei Romani, 1, Roma, Jouvence, 1997, pp. 39-40.
Cornelio Celso
Cenni biografici
Vissuto in epoca tiberiana, ma nulla o quasi si sa della sua biografia.
Opere
Il De medicina è quanto resta di un manuale enciclopedico che trattava di agricoltura, medicina
appunto, arte militare, oratoria, filosofia e giurisprudenza: corrispondono, in particolare, ai libri VIXIII dell'opera originaria.
Libro I: scuole di pensiero nella medicina; norme di igiene;
II: semeiotica e terapia generale;
III: malattie interne;
IV: malattie interne;
V: farmacologia;
VI: farmacologia
VII: chirurgia;
VIII: chirurgia.
Lā€™opera di Celso è pragonabile, come bacino di raccolta di informazione sugli autori perduti di
epoca ellenistica, a quelle di Galeno, Celio Aureliano e Oribasio.
Osservazioni
La medicina razionale e l'evoluzione del pensiero medico a Roma
Eā€™ di Celso, Aulus Cornelius Celsus, l'espressione «medicina razionale» contrapposta alla medicina teurgica
ed irrazionale. Rationalem puto medicinam esse debere: ritengo che la medicina debba essere razionale
(CEL. Med Proemium). Con il termine medicina razionale, Celso sottolineava la necessità di conoscere le
cause dirette e nascoste delle malattie, quindi le manifestazioni evidenti, le funzioni fisiologi che, infine. le
parti interne del corpo: abditarum et morbos continentium causarum notitiam: deinde evidentium; post haec
etiam naturalium actionum; novissime partium interiorum (CEL. 1.c.).
Celso rifiutava la credenza secondo cui le malattie derivavano dalla collera degli del immortali e che si
potessero implorare gli stessi dèi per ottenerne la guarigione: morbos tum ad iram Deorum immortalium
relatos esse, et ab iisdem opem posci solitam (CEL. 1. c. ).
G.Penso, La medicina romana, Ciba-Geigy, 1984, p. 74 BCTV
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Testi e testimonianze
Quint., 10,1,124
Scripsit non parum multa Cornelius Celsus, Sextios secutus, non sine cultu ac nitore.
Cornelio Celso, seguace dei Sestii, ha scritto parecchio, e non è privo di raffinatezza ed eleganza.
[I Sestii furono esponenti di una scuola stoico-pitagorica]
Quint., 12,11,24 [Citato dopo Catone e Varrone come esempio di poliedricità culturale]
Quid plura? cum etiam Cornelius Celsus, mediocri uir ingenio, non solum de his omnibus conscripserit
artibus, sed amplius rei militaris et rusticae et medicinae praecepta reliquerit, dignus uel ipso proposito ut
eum scisse omnia illa credamus.
Perchè dilungarmi? Anche Cornelio Celso, uomo di limitate capacità, non solo scrisse su tutte queste
discipline, ma ci ha lasciato, in aggiunta, una precettistica relativa all'arte militare, all'agricoltura e alla
medicina, ed è degno di essere creduto competente in tutti quei campi se non altro in considerazione
dell'obiettivo che si era prefisso.
Trad. C.M. Calcante
Colum., 1,1,15
Non minorem tamen laudem meruerunt nostrorum temporum uiri Cornelius Celsus et Iulius Atticus, quippe
Cornelius totum corpus disciplinae quinque libris conplexus est, hic de una specie culturae pertinentis ad
uitis singularem librum edidit. cuius uelut discipulus duo uolumina similium praeceptorum de uineis Iulius
Graecinus conposita facetius et eruditius posteritati tradenda curauit.
Colum., 3,17,4
Mox Iulius Atticus et Cornelius Celsus, aetatis nostrae celeberrimi auctores, patrem atque filium Sasernam
secuti, quicquid residui fuit ex uetere palma per ipsam commissuram, qua[e] nascitur materia noua, raserunt
atque ita cum suo capitulo sarmentum depresserunt.
Colum., 9, 2,1
Venio nunc ad aluorum curam, de quibus neque diligentius quicquam praecipi potest quam ab Hygino iam
dictum est, nec ornatius quam Vergilio, nec elegantius quam Celso. Hyginus ueterum auctorum placita
secretis dispersa monimentis industrie colligit, Vergilius poeticis floribus inluminauit, Celsus utriusque
memorati adhibuit modum. quare ne adtemptanda quidem nobis fuit haec disputationis materia, nisi quod
consummatio susceptae professionis hanc quoque sui partem desiderabat, ne uniuersitas inchoati operis
nostri, uelut membro aliquo reciso, mutila atque imperfecta conspiceretur.
Scelta di brano Celso con traduzione. Di sicuro il PROEMIO ma è molto lungo
Cels., praef.
Ut alimenta sanis corporibus Agricultura, sic sanitatem aegris Medicina promittit. Haec nusquam quidem non
est: siquidem etiam imperitissimae gentes herbas, alia que promta in auxilium vulnerum morborum que
noverunt. Verumtamen apud Graecos aliquanto magis, quam in ceteris nationibus, exculta est; ac ne apud
hos quidem a prima origine, sed paucis ante nos saeculis; utpote quum vetustissimus auctor Aesculapius
celebretur. Qui, quoniam adhuc rudem et vulgarem hanc scientiam paulo subtilius excoluit, in Deorum
numerum receptus est. Hujus deinde duo filii, Podalirius et Machaon, bello Trojano ducem Agamemnonem
sequuti, non mediocrem opem commilitonibus suis attulerunt. Quos tamen Homerus (Il.), non in pestilentia,
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neque in variis generibus morborum aliquid attulisse auxilii, sed vulneribus tantummodo ferro et
medicamentis mederi solitos esse, proposuit. Ex quo apparet, has partes medicinae solas ab iis esse
tractatas, eas que esse vetustissimas. Eodem que auctore disci potest, morbos tum ad iram Deorum
immortalium relatos esse, et ab iisdem opem posci solitam. Veri que simile est, inter nulla auxilia adversae
valetudinis, plerumque tamen eam bonam contigisse ob bonos mores, quos neque desidia, neque luxuria
vitiarant: siquidem haec duo, corpora, prius in Graecia, deinde apud nos, afflixerunt. Ideo que multiplex ista
medicina, neque olim [apud Graecos], neque apud alias gentes necessaria, vix aliquos ex nobis ad
senectutis principia perducit.Ergo etiam post eos, de quibus retuli, nulli clari viri medicinam exercuerunt;
donec majore studio literarum disciplina agitari coepit, quae, ut animo praecipue omnium necessaria, sic
corpori inimica est. Primo que medendi scientia sapientiae pars habebatur, ut et morborum curatio, et rerum
naturae contemplatio sub iisdem auctoribus nata sit: scilicet iis hanc maxime requirentibus, qui corporum
suorum robora quieta cogitatione, nocturna que vigilia minuerant. Ideo que multos ex sapientiae
professoribus peritos ejus fuisse accepimus; clarissimos vero ex iis Pythagoram, et Empedoclem, et
Democritum. Hujus autem, ut quidam crediderunt, discipulus Hippocrates Cous, primus quidem ex omnibus
memoria dignis, ab studio sapientiae disciplinam hanc separavit, vir et arte et facundia insignis.Post quem
Diocles Carystius, deinde Praxagoras et Chrysippus, tum Herophilus et Erasistratus sic artem hanc
exercuerunt, ut etiam in diversas curandi vias processerint. Iisdem que temporibus in tres partes medicina
diducta est: ut una esset, quae victu; altera, quae medicamentis; tertia, quae manu mederetur. Primam gdiaitÛtikÛn, secundam g-pharmakeutikÛn, tertiam g-cheirourgikÛn Graeci nominarunt. Ejus autem, quae
victu morbos curat, longe clarissimi auctores, etiam altius quaedam agitare conati, rerum quoque naturae
sibi cognitionem vindicarunt, tamquam sine ea trunca et debilis medicina esset. Post quos Serapion, primus
omnium, nihil hanc rationalem disciplinam pertinere ad medicinam professus, in usu tantum et experimentis
eam posuit. Quem Apollonius, et Glaucias, et aliquanto post Heraclides Tarentinus, et alii quoque non
mediocres viri sequuti, ex ipsa professione se g-empeirikous appellaverunt. Sic in duas partes ea quoque,
quae victu curat, medicina divisa est, aliis rationalem artem, aliis usum tantum sibi vindicantibus: nullo vero
quidquam post eos qui supra comprehensi sunt, agitante, nisi quod acceperat, donec Asclepiades medendi
rationem ex magna parte mutavit. Ex cujus successoribus Themison nuper ipse quoque quaedam in
senectute deflexit. Et per hos quidem maxime viros salutaris ista nobis professio increvit.
Testo latino Teubner C. Daremberg, 1891, BTL3
1-2 La medicina; 3-5 Origini della medicina. Rapporto medicina-colpa. 6-8 Breve storia della
medicina fino a Ippocrate e al periodo ellenistico. 9-11 Tripartizione della medicina. Bipartizione
cori Eracilde di Taranto. Asclepiade e Ternisone.
1. Come l'agricoltura assicura alle persone sane gli alimenti, allo stesso modo la medicina
promette la salute agli ammalati. Non c'è in verità nessun luogo, in cui la medicina non esiste,
poiché anche i popoli più ignoranti conoscono erbe e altri mezzi che hanno a disposizione per
rimediare alle ferite e alle malattie. 2. In verità tuttavia la medicina è stata alquanto più coltivata
presso i Greci che presso rutti gli altri popoli, e nemmeno presso di noi fìn dalla prima origine, ma
qualche generazione prima di noi: infatti l'autorità celebrata come più antica è Esculapio, che, per
aver coltivato in modo appena più raffinato questa scienza ancora rozza e volgare, fu assunto nel
novero degli dei. 3. I due figli di questi, Podalirio e Macaone, che avevano seguito nella guerra di
Troia il loro capo Agamennone, apportarono un aiuto non trascurabile ai loro commilitoni. Omero
tuttavia li ha rappresentati non che apportavano un qualche aiuto in occasione della pestilenza né
nelle diverse specie di malattia, ma mentre erano soliti sforzarsi di arrecare sollievo alle ferite solo
con interventi chirurgici e con medicamenti. 4. Da questo risulta che solo queste parti della
medicina (cioè la chirurgia) sono state praticate da essi e che questa parte della medicina è la più
antica. Si può altresì apprendere dallo stesso autore che allora le malattie erano messe in
relazione con la collera degli dei immortali, e che ai medesimi si era soliti chiedere aiuto: ed è
verosimile che in mancanza di aiuto contro le malattie, la buona salute sia acquisita tuttavia in
relazione a buone regole di vita, che non erano state corrotte né dall'ozio né dagli eccessi; 5. dal
momento che questi sono due difetti che prima hanno abbattuto i corpi in Grecia, poi presso di noi.
Così la nostra medicina complessa, di cui non vi era bisogno una volta e di cui non vi era bisogno
presso altri popoli, riesce a condurre appena qualcuno di noi alla soglia della vecchiaia.
Dunque dopo quelli di cui ho riferito, nessuno studioso di fama esercitò la medicina, fino a che non
ci si dedicò a studiare con maggior ardore lo studio delle lettere, 6. studio che, come è rispetto alle
altre discipline precipuamente necessario allo spirito, così è davvero dannoso al corpo. In un primo
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momento la scienza della medicina era ritenuta una parte della filosofia, come se sia la cura delle
malattie sia la contemplazione della natura siano nate sotto i medesimi autori: 7. Senz'altro
investigando molto questa coloro che avevano sminuito le forze dei loro corpi con una quieta
ricerca e veglie notturne. Per questo abbiamo appreso che furono esperti di essa molti filosofi: i più
famosi in verità tra questi Pitagora e Empedocle e Democrito. 8. Discepolo di questo, come alcuni
credettero, Ippocrare di Cos, primo tra tutti degno di memoria, separò questa disciplina dalla
filosofia, uomo insigne e per arre e per facondia. Dopo di lui Diocle Caristio, di poi Prassagora e
Crisippo, poi Erofilo ed Erasistrato, esercitarono quest'arte in modo tale da aver compiuto dei
progressi in diverse direzioni delle pratiche terapeutiche.
9. Nello stesso periodo la medicina fu suddivisa in tre indirizzi: I'una si occupa del regime di vita, la
seconda dei medicamenti, la terza curante attraverso l'azione delle mani. I Greci hanno chiamato
la prima ā€˜dietetica', la seconda ā€˜farmacologia', la terza ā€˜chirurgia'. Ma i maestri di quel ramo che
cura i pazienti attraverso il regime dietetico, di gran lunga i più celebri, sforzandosi anche di
approfondire certe questioni, si sono arrogati anche il diritto dello studio della natura, ritenendo che
senza la conoscenza di essa la medicina fosse mutila e impotente. 10. Dopo di questi Serapione,
primo tra tutti a dichiarare che questa scienza razionale non concerneva in niente la medicina,
fondò l'arte medica unicamente sulla pratica e i fatti di esperienza. A cui facendo seguito Apollonio
e Glaucia e alquanto dopo Eraclide di Taranto e altri studiosi di valore, conformemente alla dottrina
stessa che professavano, presero il nome di etnpirici. 11. Così anche la stessa branca della
medicina che cura con il regime di vita si divise in due parti, gli uni reclamando soltanto un'arte
teorica, gli altri rivendicando a sé solo la pratica, ma nessuno invero dopo quelli che [io nominato
esaItando altro, se non ciò che aveva appreso dalla tradizione, fino a che Asclepiade trasformò in
grande parte i metodi della scienza medica. Tra i suoi successori Temisone poco tempo fa, lui
stesso, nella stia vecchiaia ha deviato a sua volta su alcuni punti dalla dottrina del suo maestro. Ed
a questi uomini sono dovuti principalmente i progressi di questa professione che ci apporta la
salute.
Trad. da Ars et professio medici. Humanitas, misericordia, amicitia nella medicina di ieri e di oggi,
a cura di D. Lippi e S. Sconocchia, pp. 64-65, Bologna, Clueb, 2003 [Baldin]
Cels, 7, praef. 1-4. Ritratto del chirurgo ideale
Tertiam esse medicinae partem, quae manu curet, et vulgo notum, et a me propositum est. Ea non quidem
medicamenta atque victus rationem omittit; sed manu tamen plurimum praestat: est que ejus effectus inter
omnes medicinae partes evidentissimus. Siquidem in morbis quum multum fortuna conferat, eadem que
saepe salutaria, saepe vana sint; potest dubitari secunda valetudo medicinae, an corporis beneficio
contigerit. In iis quoque, in quibus medicamentis maxime nitimur, quamvis profectus evidentior est, tamen
sanitatem et per haec frustra quaeri, et sine his reddi saepe, manifestum est: sicut in oculis quoque
deprehendi potest; qui a medicis diu vexati, sine his interdum sanescunt. At in ea parte, quae manu curat,
evidens est, omnem profectum, ut aliquid ab aliis adjuvetur, hinc tamen plurimum trahere. Haec autem pars,
quum sit vetustissima, magis tamen ab illo parente omnis medicinae Hippocrate, quam a prioribus exculta
est: deinde, posteaquam diducta ab aliis habere professores suos coepit, in Aegypto quoque increvit,
Philoxeno maxime auctore, qui pluribus voluminibus hanc partem diligentissime comprehendit. Gorgias
quoque et Sostratus et Heron et Apollonii duo et Ammonius Alexandrinus, multi que alii celebres viri, singuli
quaedam repererunt. Ac Romae quoque non mediocres professores, maxime que nuper Tryphon pater, et
Euelpistus, et, ut ex scriptis ejus intelligi potest, horum eruditissimus Meges, quibusdam in melius mutatis,
aliquantum ei disciplinae adjecerunt. Esse autem chirurgus debet adolescens, aut certe adolescentiae
propior; manu strenua, stabili, nec umquam intremiscente, ea que non minus sinistra, quam dextra promtus;
acie oculorum acri clara que; animo intrepidus, misericors sic, ut sanari velit eum, quem accepit, non ut
clamore ejus motus vel magis, quam res desiderat, properet, vel minus, quam necesse est, secet; sed
perinde faciat omnia, ac si nullus ex vagitibus alterius affectus oriatur.
Testo latino Teubner C. Daremberg, 1891, BTL3
1. È comunemente noto ed è da me già stato esposto (prohoem. 9), che la terza parte della medicina è
quella che cura con l'utilizzo delle mani (cioè la chirurgia). Quella in realtà non trascura i medicamenti e il
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sistema razionale di vita, ma si avvale soprattutto dell'abilità manuale, e i suoi effetti sono tra tutte le parti
della medicina i più evidenti. Se è vero che nelle malattie, giuocando un ruolo importante la fortuna, e le
medesime cure essendo spesso salutari, spesso inutili, si può dubitare se uno stato favorevole di salute
capiti per beneficio della medicina o delle risorse del corpo. 2. Anche in quei casi nei quali moltissimo
confidiamo nei medicamenti, sebbene il beneficio sia alquanto evidente, tuttavia è spesso manifesto e che lo
stato di buona salute viene cercato inutilmente attraverso di essi e che spesso è ripristinato senza di essi:
così come si può vedere anche negli occhi, che, vessati a lungo dai medici (con le loro cure), talvolta
guariscono da soli senza il loro intervento. Ma in quella branca della medicina che cura appunto con le mani
(la chirurgia) è evidente che ogni progresso tuttavia trae da questa per la maggior parte, ma in modo da
trarre qualche giovamento anche dalle altre branche. Questo ramo della medicina (la chirurgia) poi, pur
essendo molto antica, fu tuttavia più coltivata da quel padre di tutta la medicina, Ippocrate, di più rispetto ai
suoi predecessori. 3. Di poi, dopo che separata dalle altre branche, cominciò ad avere quelli che la
professavano specialisticamente, si sviluppò in Egitto soprattutto grazie all'autorità di Filosseno, che in molti
volumi tratta con molta precisione di questa parte della medicina. Anche Gorgia e Sostrato ed Erone e i due
Apollonii e Ammonio medici Alessandrini e molti altri celebri studiosi fecero singolarmente notevoli scoperte
(relative alla chirurgia). <Ed> anche a Roma studiosi che la professavano in modo insigne, e soprattutto
poco tempo fa Trifone padre ed Evelpisto e, come si può ben comprendere dalle sue opere, il più esperto di
tutti questi, Megete, mutati in meglio alcuni principi, incrementarono alquanto questa parte della medicina.
4. Quanto al chirurgo questi deve essere giovane, o almeno alquanto vicino alla giovinezza; di mano valida,
ferma, né che mai tremi, e pronto e abile non meno con la sinistra che con la destra; di forza visiva acuta e
chiara, di animo intrepido; dotato di umanità così da voler guarire quello che ha preso in cura, non in modo
tale da affrettarsi mosso dalle grida di quello o più di quanto la situazione lo richieda, o in modo tale da
tagliare meno di quanto sia necessario; ma da comportarsi così per tutte le necessità (dell'operazione),
come se nessuna emozione derivasse a lui dalle urla del paziente.
Trad. da Ars et professio medici. Humanitas, misericordia, amicitia nella medicina di ieri e di oggi,
a cura di D. Lippi e S. Sconocchia, pp. 93-94, Bologna, Clueb, 2003 [Baldin]
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F. Dalessi © 2002
F. D'ALESSI - Letteratura latina - Parte III,1 - Il periodo imperiale - L'età dei Claudi
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Cornelius Celsus uber Grundfragen der Medizin / herausgegeben und mit einer Einleitung versehen von Th.
Meyer-Steineg , Leipzig : R. Voigtlander, [1912] , Voigtlanders Quellenbucher
I proemi del De Medicina / [Aulo Cornelio Celso] ; introduzione, testo, traduzione e appendice a cura di
Giovanni Baffioni , Frascati : Tip. Laziale, 1971
La preface du De medicina de Celse / texte, traduction et commentaire [di] Philippe Mudry , Roma : Institut
suisse de Rome, 1982 , Biblioteca helvetica romana / Istitutosvizzero di Roma
Nomi: Celsus , Aulus Cornelius
Mudry, Philippe
Auli Cornelii Celsi De Medicina , Pisa : Giardini, 1976Note Generali: A cura di Fabrizio Serra.
Comprende: 3: libri 5.-8. / [Aulus Cornelius Celsus]
1: Prooemium, libri 1.-2
[2.]: Libri 3.-4.
Nomi: Celsus , Aulus Cornelius
3: libri 5.-8. / [Aulus Cornelius Celsus] , Pisa : Giardini, 1977 , Scriptorum Romanorum quae extant omnia
De medicina. Libro 4. / Aulo Cornelio Celso ; a cura di Rita Maria Ciulla , Palermo : Sellerio, 1990 , Prisma
Note Generali: Trad. italiana seguita dal testo orig.
De medicina / with an English translation by W. G. Spencer , Cambridge, Mass. , The Loeb classical library
Nomi: Celsus , Aulus Cornelius
Spencer, Walter George
Paese di pubblicazione: US
Della medicina : Libri otto. Volgarizzamento del dott. Angiolo Del Lungo, pubblicato col testo latino per cura
del Figlio Isidoro [del Lungo] , Firenze : G. C. Sansoni Edit., 1904, Stab. Tip. Carnesecchi e Figli
Descrizione fisica: 16. p. XL, 575, con ritratto.
Della medicina : libri otto / di Aulo Cornelio Celso ; volgarizzamento del dott. Angiolo Del Lungo ; pubblicato
col testo latino per cura del figlio Isidoro , Firenze : Sansoni, 1904
Del Lungo, Angelo <1808-1884>
La chirurgia : libri 7. e 8. del De medicina / A. Cornelio Celso ; testo, traduzione, commento a cura di
Innocenzo Mazzini , Macerata : Universita degli studi, 1999 Pubblicazioni della Facolta di lettere efilosofia /
Universita degli studi diMacerata
Pubblicazioni della Facolta di lettere efilosofia / Universita degli studi diMacerata. Testi e documenti
Della medicina : libri otto / Aulo Cornelio Celso ; traduzione di Angiolo Del Lungo ; presentazione di Dino
Pieraccioni
Edizione: Nuova ed , Firenze : Sansoni, 1985 , Nuova carducciana
Nomi: Celsus , Aulus Cornelius
Pieraccioni, Dino
Del Lungo, Angelo <1808-1884>
Auli Cornelii Celsi quae supersunt / Aulus Cornelius Celsus ; recensuit Fridericus Marx , Leipzig : Teubner,
1915 , Corpus medicorum Latinorum
Della medicina / Aulo Cornelio Celso ; presentazione di Dino Pieraccioni , Firenze : Sansoni, 1990
Descrizione fisica: XL, 575 p. ; 19 cm , Universale Sansoni
Note Generali: Testo orig. in calce.
Attualita di Aulo Cornelio Celso : il proemio al De medicina , Pisa : Giardini, 1966 , Scientia veterum
Note Generali: A cura di Giuseppe Caturegli, il nome del quale figura prima del tit. .
De la medicine / Celse ; texte etabli, traduit et commente par Guy Serbat , Paris : Les belles Lettres, 1995 ,
Collection des universites de France
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Celsus, Aulus Cornelius , De medicina. Libro 4. / Aulo Cornelio Celso ; a cura di Rita Maria Ciulla , Palermo :
Sellerio, [1990] , Prisma
Note Generali: Con la trad. italiana di Rita Maria Ciulla.
Celsus, Aulus Cornelius , Uber die Arzneiwissenschaft in acht Buchern / Ubersetzt und erklart von E.
Scheller , Hildesheim : G. Olms, 1967
Note Generali: Ripr. dell'ed.: Braunschweig, 1906.
Nomi: Celsus , Aulus Cornelius Scheller, Eduard
Celsus, Aulus Cornelius , A. Cornelii Celsi Quae supersunt / recensuit Fridericus Marx , Lipsiae et Berolini :
in aedibus Teubneri, 1915 , Corpus medicorum Latinorum
Nomi: Celsus , Aulus Cornelius Marx, Friedrich
A. Cornelii Celsi De medicina : libri octo / ad fidem optimorum librorum denuo recensuit adnotatione critica
indicibusque instruxit C. Daremberg , Lipsiae : In aedibus B.G. Teubneri, 1959
Nomi: Celsus , Aulus Cornelius - Daremberg, Charles
Celsus, Aulus Cornelius , A. Cornelii Celsi De medicina : libri octo / ad fidem optimorum librorum denuo
recensuit adnotatione critica indicibusque instruxit C. Daremberg , Lipsiae : in aedibus B. G. Teubneri, 1859 ,
Bibliotheca scriptorum Graecorum et RomanorumTeubneriana
Auli Cornelii Celsi de medicina libri octo ex recensione Leonardi Targae quibus accedunt versio italica, de
Celsi vita et opere ... : tomus primus / Salvatore De Renzi , Neapoli : typis "del Filiatre, 1851
Nomi: Celsus , Aulus Cornelius
Celsus, Aulus Cornelius , Di A. Corn. Celso i libri otto della medicina volti in italiano con l'aggiunta di alcune
osservazioni sopra Celso ... : tomo secondo / a cura di salvatore De Renzi , Napoli : dalla Stamperia del
Vaglio, 1852
Auli Cornelii Celsi De medicina : libri octo / ex recensione Leonardi Targae quibus accedunt versio Italica; de
Celsi vita et opere; pharmacopea et armamentariorum chirurgicum; bibliotheca Celsiana Latina et Italica;
adnotationes criticae et historicae; indices locupletissimi, et lexicon Celsianum ; curante Salvatore De Renzi ,
Neapoli : apud G. Regina, 1872
A. Cornelii Celsi De medicina libri octo / ad fidem optimorum librorum denuo recensuit adnotatione critica
indicibusque instruxit C. Daremberg , Lipsiae : in aedibus B.G. Teubneri, 1891 , Bibliotheca scriptorum
Graecorum et RomanorumTeubneriana
Auli Cornelii Celsi de medicina libri octo : ex recensione Leonardi Targae quibus accedunt versio italica; de
Celsi vita et opere; pharmacopoea et armamentarium chirurgicum; bibliotheca Celsiana latina et italica;
adnotationes criticae et historicae; indices locupletissimi, et lexicon Celsianum / curante Salvatore De Renzi ,
Neapoli : Sebezio, Del Vaglio, 1851-1852
"Celso¸ Aulo Cornelio - Castaldi",
Cornelio Celso
(età tiberiana)
Fu autore di una vasta enciclopedia ā€“ "Artes" o "Cesti" ā€“ che trattava di filosofia, diritto, agricoltura, medicina,
retorica e arte militare. Ci restano, integralmente, gli 8 libri del "De medicina" (in cui si cerca di mantenere
una posizione equidistante fra lā€™ "indirizzo empirico" e quello "razionalistico") e frammenti delle altre sezioni.
Riguardo il suo stile, si pensi solo che C. fu detto "Cicero medicorum".
"Celso¸ Aulo Cornelio - Corso"
Aulus Cornelius Celsus.
Aulo Cornelio Celso visse nella prima metà del I secolo d.C. . Fu uomo di molteplici interessi e sappiamo che
si occupò di retorica e filosofia, come di medicina, giurisprudenza e arte militare. Sua un'opera
enciclopedica, intitolata Artes, di cui rimane solo la sezione relativa alla medicina, il De medicina, in otto libri.
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E' uno dei testi fondamentali della medicina antica, assieme ai trattati di Ippocrate e a quelli di Galeno, e si
distingue per la sua chiarezza e il suo ragionato utilizzo delle fonti greche.
"Celso¸ Aulo Cornelio - Encarta"
Celso, Aulo Cornelio (Prima metà del I secolo d.C), scrittore latino. Compose un'opera enciclopedica
dedicata alle artes (agricoltura, medicina, arte militare, retorica, filosofia, giurisprudenza), che nel corso dei
secoli fu smembrata, andando in gran parte perduta. Rimangono integri solo gli otto libri sulla medicina,
certamente basati su fonti greche, ma integrati da osservazioni personali: costituiscono uno dei testi
fondamentali della medicina antica, accanto ai trattati di Ippocrate e della sua scuola, e a quelli di Galeno.
Per la chiarezza e fluidità dell'esposizione, furono ammirati e imitati nel Rinascimento.
"Celso¸ Aulo Cornelio - Treccani"
Celso Aulo Cornelio. (Aulus Cornelius Celsus). Scrittore encliclopedico latino del I sec. d.C. Visse all'epoca
dell'imperatore Tiberio e fu considerato fra i più completi eruditi del suo tempo, ma proprio per questa sua
erudizione Quintiliano lo indica come mediocri vir ingenio (uomo di mediocre intelligenza). C. redasse una
raccolta enciclopedica di studi, dal titolo Artes (Le arti) o De artibus, che abbracciava tutti i campi delle
conoscenze umane.
A noi è pervenuta solo una parte della sua opera, cioè i libri compresi fra il VI e il XIII che trattano
della medicina. I primi cinque libri si suppone che trattassero dell'agricoltura e dessero precetti di economia
rurale. Anzi, almeno in base a quello che leggiamo in Columella, ci sarebbe da pensare che ai suoi tempi C.
fosse apprczzato più per le conoscenze di agricoltura che di medicina. Columella infatti lo giudica non solum
agricolationis sed universae naturae prudentem virum ("uomo esperto non solo dell''agricoltura ma anche di
tutte le scienze naturali").
I libri sulla medicina trattavano, nell'ordine, la dietetica, la patologia e la terapia clinica e chirurgica.
Possono essere considerati i primi scritti più o meno scientifici dell'arte medica, in quanto i precetti di
medicina che Catone aveva pur dato nel De re rustica e nei Praecepta ad filium avevano carattere piuttosto
magico e esorcistico, e poco probabile appare il fatto che il liberto di origine greca Antonio Musa, che fu alla
corte dell'imperatore Augusto nel 23, guarendolo da una affezione epatica, abbia scritto un libro sull'arte
medica in latino.
Celso - Riposati
Aulo Cornelio Celso è un erudito di varia cultura uno spirito eclèttico, che di tutto seppe occuparsi
decorosamente pur senza raggiungere l'eccellenza in alcun campo da lui trattato. Ai tempi del principato di
Tiberio fu a volta a volta rètore, filosofo, critico militare, esperto in medicina, giurisprudente e agrònomo.
Quintiliano gli riconobbe le stesse qualità di misura e di onesta informazione che gli attribuiamo noi. Le sue
Artes, ampio trattato enciclopedico di cultura pratica, sono andate in massima parte perdute. Sopravvive la
sezione De medicina, in otto libri che comprova il giudizio quintilianèo in ordine a chiarezza, metodo di
esposizione, profonda e precisa cognizione delle fonti greche, delicatezza di psicòlogo: ben nota è la sua
pagina sul chirurgo ideale, ritratto schizzato con aderenza concreta alla sua missione e alla sua pratica
professionale; non a torto è stato chiamato I Ippòcrate Latino'.
Mazzini
1. Il personaggio A. Cornelio Celso
Riguardo a quelli che oggi chiameremmo i dati anagrafici, possiamo dire di conoscere con certezza solo il
nomen (Cornelius) e il cognomen (Celsus), per il resto nulla si può dare per definitivamente acquisito, né il
praenomen, né il luogo di nascita, né il periodo di composizione dell'opera, né la professione.
1.1. Praenomen
Nelle fonti antiche il praenomen non viene mai segnalato, solo Cornelius Celsus; nella tradizione
manoscritta, quando esso è riportato, si legge, per lo più, l'iniziale A.; fanno eccezione l'explicit del quinto
libro del De medicina nel cod. V (Vaticano 5951) che riporta Aulus, e l'inizio del primo libro nei codd.
Laurenziano 73,7 e Toletano 97-12, ove si legge Aurelius.
1.2. Luogo di nascita
Né le fonti antiche, né lo stesso Celso riferiscono di un luogo d'origine certo e definito. È stata avanzata sulla
base di indizi, per la verità piuttosto labili, l'ipotesi di una località imprecisata tra la Spagna Tarraconense e la
Gallia Narbonese, in particolare a causa di una serie di iscrizioni rinvenute nella zona, in cui si menzionano
vari Cornelii Celsi, e per la presenza di alcuni accenni, nel De medicina, a tecniche terapeutiche galliche.
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INTRODUZIONE
1.3. Periodo di composizione dell'opera
Per la composizione dell'opera, a partire da un accenno con riferimenti cronologici relativi, in particolare in
Quintiliano, come anche sulla base di un paio di indicazioni temporali contenute nel De medicina, si sono
formulate due ipotesi: a. anni compresi tra il 30 e 23 a.C., b. principato di Tiberio, per arrivare fino al 39.
Ricondurrebbero al periodo più alto la testimonianza di Quintiliano (inst. 3,1,21), il quale riferisce che Celso
avrebbe scritto (ma di retorica, vd. 3.) prima di Gallione padre (33 a.C. - 30 d.C. circa), e la testimonianza di
Celso che, in riferimento a Temisone, o meglio alla sua morte, dice, praef. 11, che si è allontanato dalle
posizioni del suo maestro Asclepiade (deflexit) in tempi recenti (nuper) essendo vecchio (in senectute);
sappiamo che Temisone o meglio la sua rivoluzione è da collocare intorno al 50 a.C.
Ricondurrebbero invece al periodo più basso una testimonianza (di Celso a proposito di Cassio (praef. 69),
che egli dice di aver visto di recente (quem nuper vidimus) e che è medico del suo secolo (saeculi nostri'
medicus), e di cui in altri luoghi (5,25,12) segnala un medicanicnto come la colice. Sappiamo, direi con
certezza, che Cassio gode di celebrità e muore sotto Tiberio.
L'ipotesi di datazione più bassa è quella che oggi gode di maggior credito. Una certa difficoltà per la
datazione bassa può venire dal nuper riferito alla menzione di Temisone, ma questo avverbio potrebbe
essere inteso in senso piuttosto ampio, comunque certamente più ampio che nel luogo in cui Celso parla di
Cassio, in cui nuper è significativamente precisato dall'espressione saeculi nostri.
1.4. Professione
Sulla questione se Celso fosse stato medico o no si è dibattuto a lungo: si sono schierati a favore coloro che
hanno visto in alcuni luoghi del De medicina un'allusione diretta alla professione e contro coloro che ne
hanno sottolineato gli indubbi interessi e le conoscenze anche in altre arti o saperi (di cui trattava la sua
Enciclopedia, appunto Artes, vd. 2.) come l'arte militare, l'agricoltura, la retorica, la filosofia. in favore coloro
che hanno voluto credere all'originalità di Celso medico, e contro coloro che preferivano, soprattutto in area
tedesca, sminuirne il valore scientifico.
Oggi la questione è divenuta piuttosto secondaria, e comunque viene posta diversamente: da un lato
nessuno dubita delle conoscenze tecniche di Celso, dall'altro si tende a convenire che non necessariamente
queste presupponessero un regolare corso di studi con `laurea' in medicina, per altro non previsto per i
professionisti nel mondo antico, né un esercizio della professione, `pubblico'. In sostanza, quello che è certo,
e che oggi interessa, è il possesso e la padronanza di conoscenze mediche precise, di cui nessuno più
dubita, il resto è problema irrilevante e mal posto.
1. 5. Fisionomia umana, ideologica e culturale
Emerge dal De medicina una personalità di notevole spessore, le cui caratteristiche più evidenti mi appaiono
il rispetto primario della vita e dell'uomo, l'autonomia ideologica, l'ampiezza degli interessi storico-culturali.
1.5.1. Rispetto della vita e dell'uomo
In questa direzione vanno letti l'ostilità contro la sezione dei vivi definita cosa inutile e crudele (praef. 74), la
figura del chirurgo pietoso in funzione della salute del malato (7 praef. 4), il senso di pena di fronte al rimedio
del sangue dei gladiatori per l'epilessia (miserum auxilium, 3,23,7), i richiami alla prudenza e alla
moderazione nel caso degli interventi di embriulcia ed embriotomia (7,28), la condizione dell'ultima ratio nel
caso di intervento pericolosissimo come quello della calcolosi della vescica (7, 26,2), l'accettazione
condizionata della temeraria medicina (7, 26,2B e 2,10,7), ecc.
1.5.2. Autonomia dottrinale
L'orientamento dottrinale di Celso è sostanzialmente autonomo; se ne può vedere la riprova nel fatto che, di
volta in volta, lo si è considerato un empirico, un dogmatico ed un metodico (ora seguace di Asclepiade, ora
di Temisone). Le differenti valutazioni riposano su affermazioni diverse, apparentemente in contrasto tra
loro, che, prese isolatamente, da taluni sono spiegate anche come diversità di fonti seguite passivamente; in
realtà, là dove le fonti si possono individuare e soprattutto mettere a confronto con Celso, egli rivela un
atteggiamento tutt'altro che passivo.
1.5.3. Interessi storico-culturali
Questi sono noti, basti pensare a tutta la praefatio ed alle informazioni che volta per volta Celso fornisce
anche a proposito delle sue fonti (cfr. appendice, autori citati).
2. L'OPERA PERDUTA
La descrizione più comprensiva, ma insieme anche vaga, e per ciò variamente interpretata, dell'opera di
Celso è costituita da un passo di Quintiliano, che merita essere riportato per esteso:
Quam multa, paene omnia tradidit Varro! Quod instrumentum dicendi M. Tullio defuit? Quid plura? Cum
etiam Cornelius Celsus, mediocri uir ingenio, non solum de his omnibus conscripserit artibus, sed amplius rei
militaris et rusticae et medicinae praecepta reliquerit, dignus uel ipso proposito ut eum scisse omnia illa
credamus. (inst. 12,11,24). «Quante cose, quasi tutto lo scibile, ha tramandato Varrone! Quale strumento
delI'.arte del dire è mancato a M. Tullio? Che dire di più, se anche Cornelio Celso, uomo di doti modeste,
non solo ha scritto di tutte queste arti, ma ci ha lasciato, esposti più diffusamente, i precetti dell' arte militare,
dell' agricoltura e della medicina, e li ha esposti in coerenzacon i suoi obiettivi, al punto che dobbiamo
credere che egli ne abbia .vutao effettiva conoscenza».
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Da questo passo di Quintiliano risulta che Celso ha scritto di Agricoltura, arte militare, medicina, ed anche `di
tutte queste arti'. Le interpretazioni ed i pareri degli studiosi divergono sul senso da dare All'espressione bis
omnibus ... artibus, in particolare alla parola artibus. Sostanzialmente si danno 3 posizioni: a. artes sono le
tre arti di cui Quintiliano parla in 12, 111, e cioè filosofia, diritto e retorica; b. artes sono l'equivalente di
instrumenta, oppure di praecepta dicendi, e significano `tutta la retorica'; 3. artes sono l'instrumentum dicendi
qmod non defuit Tullio, che a sua volta riprenderebbe gli instrumenta nratoris di 12,5,1, in concreto, filosofia,
diritto ed exempla storici.
Dunque dal passo di Quintiliano emerge con certezza che Celso ha scritto di medicina, arte militare e
agricoltura, e, probabilmente, anche di retorica, filosofia, diritto e storia.
Per quanto concerne l'ampiezza e le tematiche affrontate da Celso all'interno delle singole discipline, o artes
a noi non giunte, le informazioni in nostro possesso sono diversamente esaurienti
2.1. Agricoltura
I frammenti di tradizione indiretta dell'agricoltura celsiana sono abbastanza numerosi, in quanto ad essa
hanno attinto vari scrittori successivi: Colurnella, Plinio il Vecchio, Gargilio Marziale, Pelagonio e Palladio. La
materia agricola celsiana era ripartita in cinque libri; il primo probabilmente trattava della coltura dei campi, il
secondo della cura delle viti e degli alberi, il terzo del bestiame, il quarto dei volatili, il quinto delle api.
2.2. Arte militare
Che il nostro Celso abbia scritto di arte militare emerge dalle testimonianze di Quintiliano, inst. 12,11,24 e di
Vegezio, mil. 1,8, il quale lo elenca tra le sue fonti; è incerto se l'opera di Celso sia da identificare con una
monografia su come sconfiggere i Parti, attribuita a Celso (solo il cognomen) da Lido (autore bizantino del VI
s.).
2.3. Retorica
Dell'opera retorica di Celso abbiamo molteplici testimonianze da parte di Quintiliano ed una indiretta da
Giovenale, sat. 6,242-5 (le donne avvocatesse che sono pronte a dettare a Celso l'esordio ed i punti salienti
delle argomentazioni). Dalle citazioni di Quintiliano emergono le fonti di Celso, es. Cicerone e Rutilio (inst.
7,1,10; 9,2,105), la sua capacità di definire concetti giuridici e retorici, come gli stati e le qualità (inst. 3,6,38),
di dettagliare le figure, ad es. di pensiero (inst. 9,2,102-5), ecc. In definitiva Quintiliano, pur non
risparmiandogli appunti, come ad es. la poca chiarezza nell'uso dei sinonimi per demonstratio (inst. 5,10,
10), considera il Ce] so retorico un'autorità importante.
2.4. Filosofia
Quintiliano non ci riferisce solo che Celso trattò anche di filosofia (inst. 10,1,124), ma che seguì la scuola dei
Sestii. Agostino, il quale in merito all'opera filosofica di Celso è ancora più generoso di notizie, ci informa che
essa era costituita di sei non piccoli libri, ove l'autore riportava, senza critica, le opinioni di 100 filosofi, fino ai
suoi tempi (haer., prol.). Agostino riferisce anche, condividendola, una convinzione di Celso, e cioè che la
sapienza fosse il massimo bene e il dolore del corpo il sommo male (soliloq. 1,12,21).
Dubbi e discussioni permangono tra gli studiosi sulle seguenti questioni, se l'opera filosofica di cui parla
Agostino sia la stessa di cui ci informa Quintiliano e se la filosofia facesse parte, come certamente la
medicina, l'agricoltura e l'arte militare, dell'enciclopedia dal titolo di Artes.
3. GLI OTTO LIBRI DEL DE MEDICINA
In breve tocchiamo i seguenti argomenti: contenuto, orientamento dottrinale, fonti, fortuna.
3.1. Contenuto
Gli otto libri di cui si compone il De medicina sono ripartiti secondo le tre grandi branche della terapeutica
dell'epoca: dietetica, farmacologia e chirurgia. Alla dietetica sono dedicati i libri primo-quarto, alla
farmacologia il libro quinto e il sesto, alla chirurgia il settimo e Iā€™ottavo. Precede un ampio proemio. Le varie
branche più teoriche, per altro ampiamente sviluppate all'epoca, come anatomia, fisiologia, patologia, ecc., e
le singole specializzazioni (che avevano raggiunto punte di frazionamento tali da scatenare l'ironia di poeti
come Marziale) non vi trovano uno spazio apposito o un libro ad esse specificamente dedicato; alla bisogna,
volta per volta, sono trattati anatomia, funzionamento dei vari organi, dinamica delle varie funzioni, come
anche argomenti specialistici di oculistica (es. cura della cateratta), ginecologia (es. embriotomia ed
embriulcia), ecc.
Prefazione
La prefazione del De medicina è costituita da due parti distinte: un profilo storico della medicina dalle origini
all'epoca di Celso (§ 1-11 ) e le premesse teoriche e pratiche delle scuole mediche Metodica ed Empirica (§
12-75). Nell'iniziare la trattazione della seconda parte, Celso spiega il motivo per cui comincia con la
dietetica, ed in questo modo lascia intendere che in realtà la trattazione delle sette è già parte integrante del
libro primo.
3. 1.2. Libro I
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Come si devono regolare i sani; quali cautele devono prendere le persone gracili (dall'abitazione alle attività
sportive, all'alimentazione, Ai bagni); informazioni generali sulle proprietà di taluni cibi, e di .aspetti del vivere
e delle stagioni, in rapporto a taluni effetti rilevanti per l'equilibrio complessivo della persona, come il
raffreddare ed il riscaldare, lo stringere o il rilassare, ecc.; gli accorgimenti dietetici per disturbi non gravi cui
sono soggetti appunto i gracili, quali il mal di testa, i raffreddori, le diarree, i disturbi di stomaco; il
comportamento in caso di epidemia: questi i principali argomenti.
3 1.3. Libro II
II libro si apre con la presentazione dei rischi maggiori per la salute, dunque delle malattie, riconducibili alle
singole stagioni, condizioni atmosferiche, età della vita e temperamenti. Continua con i segni rivelatori di
malattia in generale (lo stato patologico in sé), a loro volta distinti in quelli che indicano semplicemente
passaggio dalla salute alla malattia, quelli che sono tipici dello stato di malattia, quelli propri della malattia
lunga e della morte imminente. Segue una serie di segni particolari, premonitori di disturbi specifici (es. se
sovrabbonda il calore, da qualche parte ci sarà un'emorragia; il prurito nella fronte può precedere
un'infiammazione degli occhi, ecc.); questi poi, a loro volta, sono distinti in segni buoni e pericolosi. Alla
semeiotica fa seguito la terapeutica, in particolare l'elenco delle cure, a loro volta distinte, in base al raggio di
applicazione, in generali e particolari (comuni a molte malattie o specifiche per singoli malanni) e in base alle
modalità di azione (aggiungono o tolgono, richiamano o sopprimono, riscaldano o rinfrescano, ecc.). Così
vengono in concreto illustrati, nei modi e negli effetti, i seguenti mezzi terapeutici di ordine dietetico: il
salasso, l'applicazione delle ventose, i purganti (soprattutto clisteri), le frizioni, la gestatio, l'astinenza, la
sudorazione, i cibi e le bevande. Sui cibi e le bevande Celso si sofferma più a lungo, operando tutta una
serie di ripartizioni: a. grossi generi (es. legumi, carni marine, ecc.) e proprietà fondamentali (forti, deboli e
medi in rapporto alle capacità nutritive); b. singoli alimenti (distinti per età, modo di preparazione e coltura) e
proprietà specifiche; c. insiemi di alimenti caratterizzati da effetti comuni (buono e cattivo succo, cioè
nutrienti e no, confacenti o dannosi per lo stomaco, rinfrescanti o riscaldanti, lassativi e astringenti, ecc.).
3.1.4 Libro III
Mentre i libri primo e secondo trattano della prevenzione, prognostica e terapia dietetica della malattie in
generale, i libri terzo e quarto entrano nei dettagli di malattie particolari, che, a loro volta, sono distinte in
diffuse e topiche.
Il libro terzo è dedicato alle patologie diffuse, per ognuna delle quali vengono sviluppati in genere i seguenti
punti: denominazione, tipologia, sintomatologia specifica, prognosi e terapie dietologiche possibili. In
concreto, le malattie diffuse di cui si tratta sono le seguenti: febbre (varie specie e diversi modi di cura in
astratto, singole febbri e terapia specifica, cura dei sintomi febbrili, come ad es. il freddo o i brividi, ecc.),
pazzia (i vari tipi e le rispettive terapie), passio cardiaca, letargia, idropisia, tisi (= consunzione), epilessia,
itterizia, lebbra, stordimento, paralisi.
3.1.5. Libro IV
Essendo il quarto dedicato alle malattie topiche - quelle cioè che si localizzano in una determinata parte del
corpo - ed esigendo queste un continuo richiamo a singole parti anatomiche, soprattutto interne
(ovviamente, in quanto tali, meno note), nel primo capitolo viene fatta una rapida esposizione di anatomia
interna: nome, collocazione e funzione dei vari organi. Seguono le varie malattie topiche, disposte secondo il
criterio a capite ad calcem, e trattate, ognuna, secondo lo stesso schema delle malattie diffuse: malattie del
capo, spasmo cinico, paralisi della lingua, catarro, opistotono, emprostotomo e tetano, angina, dispnea e
ortopnea, ulceri della gola, tosse, emottisi, malattie delI'esofago, pleurite, polmonite, epatite, malattie dei reni
e degli intestini, morbo celiaco, colica, dissenteria e lienteria, tenesmo, ecc.
3.1.6 Libro V
Dopo una premessa sintetica sulla storia della branca medica delIa farmacologia, cui appunto sono dedicati i
libri V e VI, e la sottolineatura del necessario collegamento e completamento delle tre branche terapeutiche,
il libro continua con la classificazione dei semplici (prodotti vegetali, animali e minerali) in base alle loro
proprietà fondamentali (emostatici, cicatrizzanti, emollienti, caustici, ecc.). Seguono i tipi di medicamenti (es.
malagmi, impiastri, pessari, ecc.), con le rispettive caratteristiche generali ed al loro interno i singoli
medicamenti con le caratteristiche specifiche (nome, indicazioni, ingredienti, modalità di preparazione e
somministrazione, ecc.); così, per fare un esempio, all'interno del capitolo dedicato ai malagmi, tanti malagmi
particolari. Nella seconda parte del libro vengono presentate le malattie che sono curabili in primo luogo con
le medicine, quali lesioni di origine esterna, per es. ferite o morsicature di animali vari, o di origine interna,
per es. piaghe, ulceri varie, tumori, ecc., e comunque tali che possono verificarsi in ogni parte del corpo.
Prima di procedere alla trattazione della terapia farmacologica, si insiste sulla prognosi, soprattutto nel caso
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delle ferite, anche al fine di mettere il medico in condizioni di riconoscere i casi incurabili e dunque non
rischiare la sua credibilità.
3.1.7. Libro VI
Nel sesto vengono prese in esame, secondo l'ordine a capite ad calcem, le malattie topiche, che sono
curabili soprattutto mediante medicamenti: porrigine, sicosi, porri, lentiggini, malattie degli occhi e degli
orecchi, delle narici, mal di denti, tonsilliti, ulceri della bocca, della lingua, delle gengive, ecc. II capitolo più
esteso è quello dedicato alle malattie degli occhi, segno, da un lato, della diffusione di tale patologia
nell'antichità e, dall'altro, della notevole attenzione riservata ad esse dalla medicina ellenistico-romana.
3.1.8. Libro VII
II settimo, dopo un'essenziale storia della chirurgia ed una rapida delineazione della figura del chirurgo,
sviluppa una serie di tecniche operatorie e terapie chirurgiche relative a varie patologie: contusioni, ascessi,
fistole, dardi che rimangono infissi, difetti del capo (gangli, meliceridi, ateromi e steatomi), malattie
dell'occhio (ciste palpebrale, orzaiolo, calazio, pterigio, encantide, anciloblefaro, egilope, peli superflui delle
palpebre, palpebre rilassate, lagoftalmo, ectropion, stafiloma, cateratta, epifora), malattie dell'orecchio,
mutilazioni parziali di labbra, orecchi e naso, polipo, ozena, malattie odontostomatologiche, tonsille e ugola
infiammate, malformazioni della lingua e difetti delle labbra, broncocele, ernia ombelicale, ascite, ferimento e
fuoriuscita degli intestini, ernia inguinale, varici, varie ernie genitali (enterocele, epiplocele, idrocele,
cirsocele, sarcocele, bubonocele), fimosi, copertura del glande, infibulazione, cateterismo, calcoli della
vescica (frantumazione ed estrazione), imperforazione dei genitali femminili, embriotomia ed embriulcia,
condilomi ed emorroidi, varici delle gambe, dita unite o anchilosate, cancrena agli arti.
3.1.9. Libro VIII
Si apre con un ampio excursus di descrizione anatomica dello scheletro, a cominciare, come è d'obbligo
sempre nella trattatistica medica antica, dal capo; segue con le patologie, prima generali, poi specifiche, dei
singoli ossi (frattura, carie, cancrena) e con la descrizione degli strumenti chirurgici specifici per la resezione
degli ossi compromessi da tali patologie; fratture del cranio, del naso, dell'orecchio, della mascella, della
clavicola, delle costole, degli omeri, bracci, femori, gambe e dita; lussazione degli ossi della mascella, del
capo, della spina, dell'omero, del gomito, della mano, della palma e delle dita, del femore, del ginocchio, del
tallone, della pianta e delle dita del piede; lussazioni con ferita.
3.2. Fonti
Uno sguardo alle fonti in senso lato, o anche auctoritates, del De medicina, in particolare alla loro quantità,
qualità, periodo storico, occasione e utilizzazione diretta, è importante, perché fornisce parametri significativi
di valutazione del livello scientifico del De medicina e del suo pubblico e getta una luce sulla personalità del
suo autore.
3.2.I . Quantità
Celso, menziona, in relazione ad argomenti medici, un totale di 85 auctoritates chiamate espressamente per
nome, ed una serie di anonimi personaggi senza nome: Galli, Graeci, Chrysippi discipulus,
agrestes, rustici, quidam, ecc. La maggior parte dei personaggi nominati è chiamata in causa
esclusivamente in rapporto ai medicamenti, ma non sono pochi quelli citati a proposito di informazioni
concernenti scuole, opinioni varie, tecniche, strumenti chirurgici, notizie biografiche ecc. Se la maggior parte
è menzionata una volta soltanto, i nomi più importanti della medicina antica lo sono molte volte, così
Asclepiade, Erasistrato, Ippocrate, Erofilo, ecc.
3.2.3 Livello scientifico delle auctoritates
A parte i medici di cui non si hanno altre notizie, un posto preminente tra le auctoritates celsiane occupano i
nomi più grandi della medicina anteriore, quali Ippocrate, Diocle, Erasistrato, Erofilo, Eraclide di Taranto,
Asclepiade, ecc. e non solo per medicamenti loro attribuiti, ma anche per concezioni, terapie particolari,
diagnosi, rapporti di scuola, ecc.
3.2.3 Collocazione cronologica
Se da un lato grande parte degli auctores (almeno 33) non trova, in base alle nostre informazioni, una
precisa collocazione cronologica, è significativo che la maggioranza (almeno 30) di quelli noti e utilizzati si
collochi nei secoli III-I a. C.: il terzo è il periodo delle maggiori scoperte sul piano anatomo-fisiologico e
chirurgico ed il primo è l'epoca di Celso. In sostanza gli autori del periodo in questione, meglio degli altri,
potevano apparire idonei a dare una risposta convincente da un lato, e attuale dall'altro.
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3.2.4. L'occasione
Eā€™ significativo per la personalità di Celso e per il livello del De medicina il fatto che le occasioni di citazione
delle fonti di carattere scientifico, storico-medico e culturale in senso lato, come consenso o dissenso con le
posizioni scientifiche di Celso (3,15,3; 7,14,1; ecc.), invenzione di pratiche, tecniche e strumenti terapeutici
(3,14,1; 7,5,3; 3,4,5.9. 10,3; ecc.), notizie di scuola (3,21,3; praef. 8.20; ecc.), bibliografiche (1,3,17; 5 praef.
1; ecc), denominazioni (4,20,1; 5 praef. 1) sono frequenti come in nessun altro autore giunto sino a noi, ad
esclusione di Galeno e Sorano di Efeso.
3.2.5. L'uso diretto delle auctoritates
A sostegno di un uso diretto delle auctoritates, sia anteriori che contemporanee, si possono addurre una
serie di indizi: 1. l'affermazione implicita di una lettura diretta, attraverso verbi in prima persona quali invenio,
video, deprehendi, o esplicita, con la citazione di titoli particolari o semplicemente degli scritti, come,
rispettivamente, nel caso di Asclepiade (1,3,17) o di Megete (7 praef. 3); 2. il confronto fra auctores, con
riferimento alla differente ampiezza della trattazione (2,14,2) 3. l'annotazione della diversità terminologica tra
le fonti, con I' esplicita affermazione che tale differenza è rilevata, con la lettura diretta, nunc video (4,5,2); 4.
l'interpretazione contestuale di passi, cosa che testimonia una lettura più ampia del luogo chiamato in causa,
così chiaramente a proposito di Ippocrate (8,14,3) e di Erasistrato (3,4,9); 5. la traduzione delle fonti che ci
sono giunte (solo le opere del corpus ippocratico) in linea con le esigenze letterarie e stilistiche di Celso: vd.
sotto, 4.3.6.; 6. il considerevole numero di auctoritates citate esclusivamente da Celso, e quindi,
probabilmente non entrate nel filone della letteratura manualistica (es. Arabs, Boethus, Clesiphon, Craton,
ecc.); 7. l'utilizzo di autori di ambiente latino, ignorati dalla medicina greca successiva (es. Archagathus ed
Euelpistus).
3.2.6. Atteggiamento psicologico
L'atteggiamento psicologico nei confronti dei personaggi chiamati in causa a vario titolo, ove espresso, è
profondamente diversificato, da ammirato a critico, mai comunque passivo. Chiaramente Celso non lascia
trasparire il proprio stato d'animo sempre e nei confronti di tutti, ma solo nei confronti dei personaggi più noti
o dei contemporanei direttamente conosciuti o frequentati. L'ammirazione emerge soprattutto nelle menzioni
dei personaggi del passato chiamati in causa nel contesto di riferimenti storici o cronologici (es. Ippocrate e
Diocle - 8,20,4 -); a proposito invece di singole affermazioni o convinzioni degli stessi Celso sa essere anche
critico (cfr. ad es. 3,15,4).
3.3 Pubblico
A colui che oggi esamina il De medicina evidenti appaiono la volontà didattica dell'autore, come anche il
livello culturale e sociale del pubblico (lettore c/o paziente) cui si rivolge: una persona colta e ricca; più
incerta appare la professione del lettore di Celso: profano, Aspirante medico, medico?
3.3.1. Volontà didattica
Sono prova delle finalità didattiche e pratiche del De medicina la distribuzione della materia e
l'attualizzazione degli argomenti. Nel Proemio è presentata la divisione della materia in tutta l'opera, poi nelle
prefazioni dei singoli libri è precisato il soggetto di ogni libro, così all'inizio di ogni sezione; le conoscenze di
ordine generale, necessarie ad una trattazione, sono anticipate, come anche le denominazioni (vd. sopra ai
punti 3.1.2-9); frequentissimi sono i rimandi a ciò che è complementare al discorso che si sta facendo ed è
già stato trattato o sarà trattato più avanti (cfr. ad es. 7,3,4. 5,4. 7,15; ecc.). L'attualizzazione degli argomenti
ad es. per un pubblico con abitudini diverse, per un territorio con condizioni climatiche non coincidenti, risulta
chiara se si mette a confronto l'originale greco (Ippocrate) e la sua utilizzazione da parte di Celso (ad es.
vict. 9 e Cels. 1,3,2; vict. acut. e Cels. 1,3,9; aph. 3,20 e Cels. 2,1,6; ecc.).
3.3.2. Il lettore colto
II livello culturale del lettore è provato dal contenuto storico e filosofico, soprattutto del Proemio, come anche
dalle ricercatezze lettterarie di cui sotto (4.3.). Un riferimento indiretto ad un pubblico colto si desume dal
destinatario dei libri dietetici (in particolare il primo libro), I'imbecillus, rappresentato da colui che vive in città,
e da quasi tutti gli uomini di lettere (1,2,1).
3.3.3 Paziente ricco
Che quello di Celso sia un paziente ricco mi pare fuori discussiowr, soprattutto nei primi quattro libri: si
consigliano cure costose (bagno nell'olio in caso di tetano 4,6,5; viaggi come terapia in caso di emottisi
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4,11,8; ecc.); si prevede, per il paziente da curare, tra le attività dannose, o comunque, in un certo momento
da evitare, le civiles necessitates (4,32,2), scrivere, leggere, lavorare mentalmente (1;2,5;1,4,5; ecc.; le
convalescenze richiedono molto tempo, attività e alimentazione costose (come la gestatio, la dieta
alimentare varia, ecc. - 4,32,1 -). Non senza significato per il livello del pubblico mi sembra l'attenzione per
conseguenze estetiche della terapia, soprattutto chirurgica (cfr. ad es. 7, 22,5.25,1; 8,10,7 N. ecc.). Ad un
pubblico ricco fa pensare anche la frase iniziale del cap. 1 del libro 1: sanus homo ... qui et suae spontis est
(che è padrone di sé).
3.3.4. Lettore profano o apprendista medico o medico?
Soprattutto nei libri V e VI Celso sembrerebbe rivolgersi ad un pubblico di lettori c/o pazienti profani, ove dice
di voler spiegare ciò che è necessario in un primo intervento (5,17,1C), ove consiglia rime di in assenza di
medici e medicine (6,6,8B), ove accetta anche rimedi estranei alla medicina ufficiale (6,18,1), ove rivela
esattezza in dettagli superflui per l'addetto ai lavori, come la precisazione che, qualora non sia
esplicitamente detto il contrario, è sempre da intendere l'acqua in quanto eccipiente (6,6,16 C).
Fanno tuttavia pensare ad un lettore medico o aspirante tale, non solo gli interventi chirurgici complessi e
delicati, impossibili per un profano, come l'estrazione di frecce dalle cavità, l'asportazione di arti o parti di
essi, gli interventi di cateratta, le operazioni plastiche, ecc, ma anche le raccomandazioni di deontologia
medica (3,3,1; 3,4,1; 3,5,1; 3,6,6; ecc.), il requisito delle conoscenze teoriche del medico come quella
dell'anatomia interna (4,2,1), delle cause (6,6,1 E) e la presentazione di un ideale di medico.
L'ideale di medico che emerge da Celso è in realtà tale, che può bene, da un lato, identificarsi con il lettore
colto e dall'altro presupporre un paziente ricco: deve esser colto, non deve essere avido di guadagno (3,4,9);
deve essere esperto (pruef. 73; 3,4,9; 3,6,6), avere pochi clienti (3,4,9), essere convincente con le parole
(3,6,6), essere amico dei suoi pazienti (praef. 73). In definitiva credo che il pubblico cui Celso si rivolge sia
costituito dal medicus amicus che frequenta e assiste l'aristocrazia romana dell'epoca.
3.4. Fortuna
3.4.1. Antichità
Il De medicina in epoca antica ottiene una fortuna piuttosto scarsa tra gli autori c/o i testi medici. Si possono
rilevare menzioni esplicite in Plinio il Vecchio (es. 20,29; 21,176; 28,132), e Galeno (comp. med. s. loc. 1,5
(XIII 292K)), sicure utilizzazioni senza menzione in Plinio (28,53. 68 69), probabili riutilizzazioni, che tuttavia
non escludono la possibiIità di una fonte comune, in Scribonio Largo (cfr. per es., rispettivamente, Scribon;
17; 18 e Cels. 4,2,6; 3,23,7; 3,23,1). Tra gli autori non medici dell'antichità nessuno cita il De medicina
esplicitamente, eppure echeggiamenti che ne lasciano supporre una lettura diretta non mancano, sopratutto
in quegli autori che potevano avere i requisiti del paziente rclsiano, o meglio del paziente del medicus
amicus, tipo Senec (si confronti ad es., rispettivamente, Sen., ep. 68,7; Pol. 1,2 e Cels., Praef. 18; 8,10,4),
Plinio il Giovane (soprattutto ep. 9,36,3-4 e Celso. 1,8,1-3).
3.4.2. Alto e basso medioevo
Celso sembra aver trovato un suo prestigio, una sua canonizzazione e riconoscimento, nell'ambito della
medicina ufficiale e professionistica nella tarda antichità e alto medioevo: ne sono sintomo i brani interi,
talora esplicitamente citati, talora no, confluiti in opere di scuola, destinate ad addetti all'arte: il cap. 2,8, della
Gynaecia Muscionis (traduzione di Sorano da collocare nel s. VI d.C.), in realtà è stato tratto da Celso,
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3.4.3 Età moderna e contemporanea
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4. LA LINGUA DI CELSO, IN PARTICOLARE DEI, DE MEDICINA
Tra gli autori dell'antichità, esprimono giudizi sulla lingua di Celso Quintiliano (10,1,124), Columella (9,2,1) e
Agostino (haer. prol. I,5): le parole chiave in cui si riassumono i loro giudizi sono: cultus e nitor (Quintiliano),
elegantia (Columella), brevitas sermonis (Agostino). Si è dibattuto abbastanza sul senso di queste
espressioni, che agli studiosi contemporanei appare essere molto positivo: coerenza con le caratteristiche
del genere medio, limpidezza e concisione.
I giudizi dei vari editori, commentatori e studiosi della lingua di Celso, dal Rinascimento ai nostri giorni,
riprendono, quasi con le stesse parole, quelli degli antichi, soprattutto quelli di Quintiliano e di Columella, ma
non a tutti è sfuggita la brevitas di cui parla Agostino.
Qui non mi propongo di stilare un elenco analitico di tutti i fatti linguistici celsiani insoliti o rari rispetto
all'epoca, mi limito a mostrare alcune tendenze caratterizzanti, a livello di scelte linguistiche, da cui si possa
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ricavare un quadro d'insieme, in particolare: elementi tecnico-medici, fatti linguistici propri dell'età augustea,
elementi letterari.
ā€¦ā€¦ā€¦
dallā€™Introduzione a Celso, La chirurgia, (libri VII e VIII De Medicina), ed. I. Mazzini, Macerata 1999
[Baldin fotocopie]
Scribonio Largo
Cenni biografici
Di poco posteriore a Celso, visse ai tempi di Claudio la cui corte forse frequentò. Sappiamo che
partecipò alla spedizione in Britannia del 43.
Opere
Ci resta un libro di Compositiones, cioè di ricette. L'opera, dedicata a un liberto di Claudio, Gaio
Giulio Callistio, fu pubblicata nel 48.
Dopo la praefatio, con relativa dedica e motivazione dell'opera, segue un indice delle ricette, circa
270, ordinate approssimativamente secondo l'organo che dovrebbero curare.
Le ricette descrivono ingredienti e dosi, talvolta con relativa posologia, di collyria, liquida
medicamenta, dentifricia, simplicia, pastilli, catapotia, potiones, lienes???, purgationes, theriaces,
antidoti, emplastra, malagmata, acopa.
Lā€™opera è importante sotto diversi profili, tra cui quello linguistico, quello della deontologia medica,
quello della farmacologia.
Per il secondo aspetto vedi la praefatio, per la concezione filantropica.
Per la farmacologia: viene rappresentato uno stadio avanzato, con ricorsi non solo a vegetali, ma
anche prodotti chimici e minerali.
Molte ricette di Scribonio tornano nelle opere di medicina della tarda antichità e del medioevo:
valgano gli esempi del Liber medicinalis di Marcello Empirico e la così detta Physica Plinii .
Testi e testimonianze
Scrib., comp., pr.
SCRIBONIVS LARGVS CALLISTO SVO SALVTEM
Inter maximos quondam habitus medicos Herophilus, Cai Iuli Calliste, fertur dixisse medicamenta
divum manus esse, et non sine ratione, ut mea fert opinio: prorsus enim quod tactus divinus efficere potest,
id praestant medicamenta usu experientiaque probata. animadvertimus itaque saepe inter deliberationes
contentionesque medicorum auctoritate praecellentium, dum quaereretur, quidnam faciendum aut qua
ratione succurrendum sit aegro, quosdam humiles quidem et alioquin ignotos, usu vero peritiores, vel quod
fateri pudet longe summotos a disciplina medicinae ac ne adfines quidem eius professioni, medicamento
efficaci dato protinus velut praesenti numine omni dolore periculoque liberasse aegrum. quamobrem
spernendi quidem sunt, qui medicinam spoliare temptant usu medicamentorum, non a medendo, sed a
potentia effectuque medicamentorum ita appellatam, probandi autem, qui omni modo succurrere
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periclitantibus student. ego certe aliquotiens magnum scientiae consecutus sum titulum ex usu prospere
datorum medicamentorum multosque ex eadem causa non mediocrem gloriam tulisse memini. est enim
haec pars medicinae vel maxime necessaria, certe antiquissima quos herbis ac radicibus earum corporis
vitia curasse, quia timidum genus mortalium inter initia non facile se ferro ignique committebant. quod etiam
nunc plerique faciunt, ne dicam omnes, et nisi magna compulsi necessitate speque ipsius salutis non
patiuntur sibi fieri, quae sane vix sunt toleranda. cur ergo aliqui excludant medicinam ex usu
medicamentorum, non invenio, nisi ut detegant imprudentiam suam. sive enim nullum experimentum eius
generis remediorum habent, merito accusandi sunt, quod tam neglegentes in tam necessaria parte artis
fuerint, sive experti quidem sunt eorum utilitatem, denegant autem usum, magis culpandi sunt, quia crimine
invidentiae flagrant, quod malum cum omnibus animantibus invisum esse debeat, tum praecipue medicis, in
quibus nisi plenus misericordiae et humanitatis animus est secundum ipsius professionis voluntatem,
omnibus diis et hominibus invisi esse debent. idcirco ne hostibus quidem malum medicamentum dabit, qui
sacramento medicinae legitime est obligatus sed persequetur eos, cum res postulaverit, ut militans et civis
bonus omni modo, quia medicina non fortuna neque personis homines aestimat, verum aequaliter omnibus
implorantibus auxilia sua succursuram se pollicetur nullique umquam nocituram profitetur. Hippocrates,
conditor nostrae professionis, initia disciplinae ab iureiurando tradidit, in quo sanctum est, ut ne praegnanti
quidem medicamentum, quo conceptum excutitur, aut detur aut demonstretur a quoquam medico, longe
praeformans animos discentium ad humanitatem. qui enim nefas existimaverint spem dubiam hominis
laedere, quanto scelestius perfecto iam nocere iudicabunt? magni ergo aestimavit nomen decusque
medicinae conservare pio sanctoque animo quemque secundum ipsius propositum se gerentem: scientia
enim sanandi, non nocendi est medicina. quae nisi omni parte sua plene excubat in auxilia laborantium, non
praestat quam pollicetur hominibus misericordiam. desinant ergo, qui prodesse adflictis aut nolunt aut non
possunt, alios quoque deterrere negando aegris auxilia, quae per vim medicamentorum frequenter
exhibentur. etenim quasi per gradus quosdam medicina laborantibus succurrit. nam primum cibis ratione
aptoque tempore datis temptat prodesse languentibus; deinde, si ad hos non responderit curatio, ad
medicamentorum decurrit vim: potentiora enim haec et efficaciora quam cibi. post, ubi ne ad haec quidem
cedunt difficultates adversae valetudinis, tunc coacta ad sectionem vel ultimo ad ustionem devenit. at
Asclepiades, maximus auctor medicinae, negavit aegris danda medicamenta: quidam enim hoc mendacio
etiam pro argumento utuntur. poteram tamen, si verum id esset, dicere: viderit Asclepiades, quid senserit;
forsan non omnino in hanc partem animum intendit. homo fuit, parum feliciter se in hoc negotio gessit. non
deterreor persona, cum rem manifeste prodesse videam. nunc vero cum tam impudenter comminiscantur de
eo, quid possum ultra dicere nisi genere quodam parricidium ac sacrilegium eos committere, qui haec
dicunt? ille enim febricitantibus vitiisque praecipitibus correptis, quae ÑxÅ”a p£qh vinoque apte interdum dato
remediari tutius eos existimavit. ceterum in libro, qui Parasceuasticon, id est praeparationum, inscribitur,
contendit ultimae sortis esse medicum, qui non ad singula quaeque vitia binas ternasque compositiones et
expertas et protinus paratas habeat. vides ergo, quam non placeat Asclepiadi usus medicamentorum, cui,
nisi plura quis ad quodque genus vitii medicamenta composita habeat, non videtur dignus professione
medicinae. sed ista licentia nomine tantummodo medicorum propter quorundam neglegentiam latius
processit. raro enim aliquis, priusquam se suosque tradat medico, diligenter de eo iudicat, cum interim nemo
ne imaginem quidem suam committat pingendam nisi probato prius artifici per quaedam experimenta atque
ita electo, habeantque omnes pondera atque mensuras exactas, ne quid errorum in rebus non necessariis
accidat: videlicet quia sunt quidam, qui pluris omnia quam se ipsos aestimant. itaque sublata est studendi
cuique necessitas, et non solum antiquos auctores, per quos consummatur professio, quidam ignorant, sed
etiam comminisci falsa de his audent. ubi enim delectus non est personarum, sed eodem numero malus
bonusque habetur, disciplinae ac sectae observatio perit, quodque sine labore potest contingere idemque
dignitatis utilitatisque praestare videtur posse, unus quisque id magis sequitur. sic ut quisque volet, faciet
medicinam. quosdam enim a perverso proposito nemo potest movere et sane omnibus permisit liberum
arbitrium magnitudo professionis. multos itaque animadvertimus unius partis sanandi scientia medici plenum
nomen consecutos.
Nos vero ab initio rectam viam secuti nihil prius in totius artis perceptione, qua homini permittitur,
iudicavimus, quia ex hac omnia commoda nos consecuturos existimabamus, non medius fidius tam ducti
pecuniae aut gloriae cupiditate quam ipsius artis scientia. magnum enim et supra hominis naturam duximus
posse aliquem tueri et recuperare suam et unius cuiusque bonam valetudinem. itaque ut ceteris partibus
disciplinae, ita huic quoque, quae per medicamenta virtutem suam exhibet, curiose institimus, eo magis
quod percipiebamus in dies ex usu profectus eius, quos interdum supra fidem atque opinionem plurimorum
exhibebamus. sed quid ultra opus est probare necessarium usum esse medicamentorum, praecipue tibi, qui,
quia percepisti utilitatem eorum, idcirco a me compositiones quasdam petisti? ego autem memor humanitatis
tuae candorisque animi tui, quem omnibus quidem hominibus plene, mihi autem etiam peculiariter praestas,
non solum quas desiderasti, verum etiam si quas alias de expertis in praesenti habui, in hunc librum contuli.
cupio enim medius fidius, qua possum, tuae in me tam perseveranti benevolentiae respondere adiutus omni
tempore a te, praecipue vero istis diebus. ut primum enim potuisti, non es passus cessare tuae erga me
pietatis officium tradendo scripta mea Latina medicinalia deo nostro Caesari, quorum potestatem tibi
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feceram, ut ipse prior legeres simpliciterque indicares mihi, quid sentires: plurimum enim iudicio tuo tribuo; tu
porro candidissimo animo et erga me benevolentissimo diligentiam meam sub tanti nominis editione non
verbis, sed re probasti periculumque non minus tu iudicii quam ego stili propter me adisti, quo tempore
divinis manibus laudando consecrasti. fateor itaque libenter unicas me tibi gratias agere, quod et prius quam
rogaveris consummasti amicissimo affectu vota mea et quod contigit mihi favore plenissimo tuo maturiorem
percipere studii huius mei fructum ac voluptatem. ignosces autem, si paucae visae tibi fuerint compositiones
et non ad omnia vitia scriptae: sumus enim, ut scis, peregre nec sequitur nos nisi necessarius admodum
numerus libellorum. postea tamen, si et tibi videbitur, ad singula quaeque vitia plures compositiones
colligemus. oportet enim copiam quoque earum selectam haberi, quoniam revera quaedam quibusdam
magis et non omnes omnibus conveniunt propter differentiam scilicet corporum.
[Testo PHI]
Per Scribonio l'edizione di riferimento è Scribonii Largi Compositiones, ed. Sergio Sconocchia,
Lipsia, Teubuer, 1983. Per traduzione e commento utilizzo i materiali approntati per la seconda
edizione.
Scribonio Largo saluta il suo Callisto
1. Si dice, Gaio Giulio Callisto, che Erofilo, un tempo annoverato tra i medici più grandi, abbia affermato che i
medicamenti sono come mani degli dei e non senza buone ragioni, secondo la mia opinione: infatti i
medicamenti dimostrati efficaci dall'esperienza pratica fanno proprio quello che può fare il tocco di un dio.
Così abbiamo potuto constatare spesso che, mentre tra discussioni e consulti dei medici che eccellevano
per la loro autorità ci si stava a chiedere che cosa si dovesse fare o in che modo si dovesse venire in
soccorso a un pazienre, alcuni personaggi di basso rango sociale e del resto sconosciuti ma certo forniti di
buona esperienza o perfino (ciò che dobbiamo confessare con qualche vergogna) del tutto digiuni di
conoscenze teoriche di medicina e senza alcun rapporto con la professione medica, liberarono prontamente,
come per intervento di una divinità, il paziente da ogni dolore e pericolo col sonministrargli un medicamento
efficace. 2. Per questo non meritano alcuna considerazione quelli che tentano di privare dell'uso dei
medicamenti la medicina, così denominata non da 'medeor' ma dal potente effetto dei medicamenti, mentre
devono invece ricevere approvazione quelli che si sforzano di soccorrere in ogni nodo chi si trova in pericolo.
lo certo ho conseguito in qualche occasione grande prestigio scientifico grazie all'uso di medicamenti
somministrati con risultati completamente positivi e ricordo che molti colleglti hanno acquisito meriti di non
poco conto per i medesimi motivi. Infatti questa parte della scienza medica (la farmacologia) è forse la più
necessaria, certo di antichissima tradizione e perciò quella che venne per prima praticata e resa illustre, se è
vero che gli antichi curarono le malattie fisiche con le erbe e le loro radici, poiché le creature umane, tutte
timorose, difficilmente si affidavano fin dall'inizio a interventi chirurgici e cauterizzazioni. Cosa che ancor oggi
fanno i più, per non dire tutti, e, se non sono costretti da estrema necessità e da preoccupazione per la
stessa salvezza, non permettono che siano loro praticate cose che certo si possono sopportare a fatica.
3. Non riesco dunque proprio a capire perché alcuni personaggi vogliano privare la professione medica
dell'uso dei medicinali, se non per rivelare pubblicamente la loro incapacità. Nel caso infatti in cui non
abbiano pratica alcuna di questo genere di rimedi, meritano di essere messi sotto accusa per essere stati
tanto negligenti rispetto a una sezione tanto necessaria dell'arte medica; nel caso invece in cui abbiano
effettivamente sperimentato l'utilità dei medicamenti, ma ne ritiutano l'impiego, meritano ancora di più di
essere incolpati, perché sono in flagrante colpa di invidia: male che, come deve essere inviso a tutti i viventi,
così lo deve essere soprattutto ai medici, i quali, se il loro animo non è ricolmo di misericordia e di umanità
secondo quanto esige la professione stessa, devono essere in odio a tutti gli dei e gli uomini. 4. Per queste
ragioni chi è formalmente legato dal sacro vincolo della professione medica non somministrerà medicamenti
nocivi neppure a nemici (eppure, quando le circostanze lo richiederanno, li combatterà in ogni modo, in
qualità di soldato e di buon cittadino), poiché la medicina non valuta gli uomini né dai beni né dal rango
sociale, ma promette di soccorrere con equanimità tutti quelli che richiedono umilmente i suoi soccorsi e si
impegna anche a non nuocere mai ad alcuno.
5. lppocrate, fondatore della nostra professione, ha tramandato i fondamenti della scienza medica a
cominciare dal giuramento in cui è prescritto che da parte di alcun medico nemmeno si fornisca o si indichi
ad una gestante un farmaco con cui è procurato l'aborto, così predisponendo fin dal più remoto inizio l'animo
dei discepoli al senso di umanità.
Quelli infatti che riterranno atto nefando danneggiare una speranza ancora incerta di vita umana, quanto più
cosa grave e scellerata giudicheranno nuocere a una creatura ormai perfettamente conformata? Egli dunque
ha ritenuto molto importante che chiunque si volesse comportare secondo i di lui intendimenti tutelasse con
animo pio e giusto il nome e la dignità della medicina: la medicina è infatti scienza del guarire, non del
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nuocere; e se essa scienza non vigila pienamente in ogni sua parte in aiuto dei pazienti, non fornisce agli
uomini quella misericordia che promette.
6. La smettano dunque, quelli che non vogliono o non possono portare aiuto ai sofferenti, di distoglierne
anche altri con il non concedere agli ammalati quelle cure che frequentemente si offrono grazie all'energia
dei medicamenti. In verità la medicina viene in soccorso ai sofferenti, per così dire, per gradi. Infatti in un
primo momento cerca di venire in aiuto agli ammalati somministrando cibi secondo un dato criterio e nel
momento adatto: in un secondo momento, se in relazione a questi il trattamento non si rivelerà salutare,
ricorre alla forza dei medicamenti: questi infatti sono più potenti ed efficaci delle prescrizioni di dieta
alimentare.
Poi, una volta che lo stato precario di salute non scompare neppure in presenza dei medicamenti, allora (la
medicina) è costretta a ricorrere necessariamente alla resezione e da ultimo alla cauterizzazione. 7. "Ma
Asclepiade, somma autorità della medicina, ha affermato che non si devono somministrare medicamenti ai
pazienti": alcuni si servono come argomentazione anche di questa menzogna. Anche se questo fosse vero
potrei tuttavia rispondere: "Lo saprà Asclepiade, quale sia stato il suo parere: forse non si è impegnato a
fondo su questo settore. È stato anche lui soltanto un uomo, non si è mosso con molto successo in tale
questione". Non mi lascio intimidire dall'autorità del personaggio, poiché constato che c'è nei medicamenti
evidente giovamento. Ma ora, poiché con tanta impudenza inventano cose sul suo conto, che cosa posso
rispondere a mia volta se non che commettono in qualche modo sacrilegio e parricidio quelli che affermano
queste falsità?
8. Infatti egli disse che non si devono somministrare medicamenti ai malati febbricitanti e colpiti da affezioni
"violente" che i Greci chiamano "malattie acute", perché ritenne che essi potessero essere curati meno
rischiosamente se fossero stati somministrati loro del cibo e del vino con opportuno criterio a intervalli
regolari. Del resto, nel trattato che è Intitolato Parasceuasticon, cioè Dei preparati medicamentosi, si sforza
di dimostrare che è proprio un medico della peggior specie quello che non abbia per ogni singola malattia
due o tre tipi di ricette sperimentare e subito pronte. Dunque tu vedi quanto dispiaccia l'uso dei medicamenti
ad Asclepiade, al quale quel medico che non abbia pronto per ogni tipo di malattia più di un medicamento
non sembra degno di professare l'arte della medicina.
9. Eppure questa licenza di uomini che sono medici soltanto di nome ha avuto molto successo a causa della
negligenza e di un certo genere di persone. Infatti raramente qualcuno, prima di affidare sé e i suoi familiari
alle cure di un medico, ne valuta attentamente le qualità professionali, mentre al contrario nessuno
commissionerebbe neppure l'esecuzione pittorica del proprio ritratto se non ad un artista precedentemente
approvato attraverso varie verifiche e così scelto, e tutti possiedono pesi e misure esatte, perché non capiti
qualche errore in cose pur non fondamentali: senza dubbio perché ci sono alcuni che fanno più conto di
qualsiasi altra cosa che di se stessi. E così è stata per chiunque eliminata la necessità di applicarsi a studi
seri e alcuni non solo ignorano gli autori antichi, attraverso i quali si perfeziona la qualificazione
professionale, ma osano persino inventare intorno ad essi falsità. 10. Dove infatti non c'è attenta selezione
delle persone, ma buoni e cattivi sono considerati alla stessa stregua, va in rovina il rispetto
dell'insegnamento e dell'indirizzo professionale della scuola e ognuno preferisce perseguire ciò che può
ottenere senza fatica e che sembra poter procurare gli stessi risultati in fatto di dignità e di utilità. Così
ognuno praticherà la medicina come vorrà. Nessuno infatti può distogliere taluni dal loro proposito perverso
e certo a tutti la grandezza della professione ha concesso libero arbitrio. E così vediamo che molti hanno
conseguito il pieno titolo di medico con la conoscenza di una sola parte del curare.
11. Noi, invece, che fin dall'inizio abbiamo seguito realmente la retta via, niente abbiamo ritenuto di prioritario
nell'apprendimento dell'intera arte, nella misura in cui ciò è concesso ad un uomo, poiché ritenevamo che da
questa avremmo conseguito tutti i vantaggi, non tanto indotti, lo dico per davvero, dalla brama di denaro o di
gloria, quanto dalla piena conoscenza dell'arte stessa. Cosa grande infatti e superiore alla natura umana
abbiamo giudicato che qualcuno potesse tutelare e recuperare la buona salute propria e di ognuno. E così ci
siamo dedicati con estrema attenzione, come a tutte le altre parti della disciplina, così anche a questa, che
dimostra la propria virtù attraverso i medicamenti, tanto più perché constatavano di giorno in giorno, sulla
base dell'esperienza stessa, i miglioramenti che procurava, miglioramenti che talvolta mostravamo
oltrepassando le speranze e l'opinione dei più.
12. Ma che bisogno c'è ancora di provare che l'uso dei medicamenti è necessario, soprattutto a te, che
proprio perché hai ben compreso la loro utilità, hai fatto richiesta a me di alcune ricette? lo, d'altro canto,
memore della tua umanità e del candore dell'animo tuo, che offri senza riserve a tutti gli uomini, a me in
modo particolare, ho raccolto in questo libro non solo le ricette che hai desiderato avere, ma anche quelle
altre, di comprovato effetto, che in questo momento ho avute a disposizione. Desidero infatti davvero, come
posso, corrispondere alla tua benevolenza, tanto perseverante verso di me, io che sono stato aiutato da te in
ogni circostanza, ma soprattutto in questi giorni. 13. Non appena hai potuto, infatti, non hai consentito che lo
zelo del tuo pio affetto nei miei confronti subisse un ritardo, presentando a Cesare, nostro dio, i miei scritti
latini di medicina, che avevo messo a tua disposizione solo perché tu prima li leggessi e mi dichiarassi con
franchezza che cosa ne pensassi: infatti attribuisco moltissimo peso al tuo giudizio; e tu subito, con animo
purissimo e ricolmo di benevolenza nei miei confronti, hai approvato la mia diligente fatica, mettendo avanti
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un nome così prestigioso, e non a parole ma con i fatti, e hai, per causa mia, affrontato un pericolo non
minore tu per il tuo giudizio di quello che ho corso io per il mio stile, nel momento in cui, lodandola, hai
consacrato la mia opera alle divine mani. 14. Riconosco così volentieri di provare per te una eccezionale
gratitudine, e perché, anche prima di esserne richiesto, hai completamente assecondato i miei desideri con
affetto di vero amico, e perché rni è toccato in sorte, grazie al tuo completo favore, di raccogliere frutto e
piacere più maturo per questo mio studio. Ma tu mi perdonerai, se le ricette ti sembreranno poche e scritte
non per tutte le malattie: ci troviamo infatti, come sai, in viaggio lontani dalla patria e non ci seguono libri se
non in un numero strettamente necessario. In seguito tuttavia, se anche a te sembrerà opportuno,
raccoglieremo per ogni tipo di malattia un maggior numero di preparati. Occorre infatti che ve ne sia anche
una buona quantità ben selezionata, poiché nella pratica alcuni sono più adatti a certe persone e non tutti a
tutte, e ciò per la differenza di costituzione. 15. Di queste ricette faremo inizio dal capo (questo occupa infatti
il luogo più alto e, per così dire, il primo posto), premurandoci di riportare per prime le sostanze "semplici":
talvolta infatti queste sono più efficaci dei medicamenti "composti" da più sostanze. Il simbolo di un denario
equivarrà alla dracma greca: infatti in una libbra vi sono presso di noi ottantaquattro denari esattamente
come altrettante dracme presso i Greci. Abbiamo dunque riportato qui di seguito dapprima per quali malattie
le ricette siano state preparare e siano adatte, e le abbiamo contrassegnate con una numerazione, perché
più facilmente si trovi ciò che si cercherà; poi abbiamo riportato, sotto le indicazioni delle malattie, nomi e
dosi delle sostanze medicamentose da cui le ricette sono composte.
Commento
1: Inter rnaximos quondarn habitus medicos - usu experientiaque probata - omni dolore periczzloque liberasse aegrztrn.
rzsra e.xperientiaque probata: il richiamo alle conferme dell'esperienza è frequente nella Praefztio, e nelle
Contpo.ritionesz: per la medicina sono importanti litsus e léxperientia; al punto che, dice Scribonio, aninadvertimus
itaque saepe irzter deliberationes contentiorzesque medìcorum auctoritate praecellentiztm - ornni dolore periculoque
liberasse aegrum. In modo analogo, secondo R&mer?, Virruvio a G praef. 6 afferma che l'architetto mal preparato e che
si è autonominato tecnico non ha capacità di riuscita migliori rispetto al dilettante che prende piacere in tale compito.
2: quarnobrem spernerzdi quidem satilrt - qzzae sane vix sztnt toleranda. In questo paragrafo ci sono alcune cose
notevoli: tale l'attacco contro i medici che vogliono bandire l'uso dei medicamenti; qztamobrem spernerrdi quidem szzrtt,
qui rnedicinarn spoliare temptant usu medicamentorurn, attacco poi ripreso a 3 czer ezgo aliqzti excludarzt medicinarn
ex uszc rrzedicamerrtorwm, non irzvenio, nisi ut detetTant znzprztderztiarn suam. Su questi aspetti della deferzsio
rnedicinae e della dottrina di Scribonio, con tirate da intendersi contro i metodici mi sono già espresso: sarà sufficiente
richiamare il mio contributo di Losanna4.
Nel successivo 0 3 cur ergo excludezrzt medicinarn ex usu medicamento
= Cfr. Sconocchia, Per la 'I'raeFatin'di Scrifnmín Largo ... , cit. (vd. n. 3)> p. 145 n. 11.
' Ibid.
^ (:fr. Sconocchia, Le prohlème des sectes nr~dicales ìr Rome au ler s. ap. J C,'. ditprès l óeunre de Scribonius Largus,
in hes écoles rnérficales à Rnme. Actes du 2èn7e Cnlloque interrrational sin- les te.rtes médirau.v antiquec, Lausarzre,
Septemhre 1986 Éd. Par Pii. Mudry et
J. Pigeaud, (;enève, Droz, 1991, pp. 137-47 /,assirrr, m;r sopr:uturto p. 145: «Ce sont surtout [...1 C;alien Desectís>.
rum - omnibus diis et horninibus iuoisi esse debent Scribonio si adira con parole toccanti contro quanti rifiutano i
medicamenti ai malati, per ignoranza o per malevolenza.
Interessante anche l'etimologia di Scribonio per `medicina': rrzedicinam [ ... ] non a medendo sed a potentia effectugue
medicamentorurn ita appellatam. Fare etimologie è prassi assai amata a Roma: da Varrone a Columella5.
Con certe aliquotiens magnum scientiae eonsecutus surn titulum ex usu prospere datorum medicamentorum fta
appellatam Scribonio ricorda i suoi meriti e le sue qualità professionali'. Poi sottolinea l'età della farmacologia: est eraim
haec pars diseiplinae - quae sane vix sunt toleranda, richiamando in qualche modo Celso praef. 1, 3-4 che definisce la
farmacologia e la chirurgia tra le parti più antiche della medicina'. Riguardo alle proteste di Scribonio sull'impreparazione
di molti suoi colleghi medici si possono addurre a parallelo Columella praef. 1, 3 e Vitruvio, praef. 6.
Per Ep. 3, 11-13 si può rinviare ovviamente a quanto detto su hurnarzitas e misericordia: si vedano le trattazioni di
Deichgràber8, di chi scrivè, di Mudry'° e quanto detto supra nel presente contributo.
Per questa strada Scribonio, Ep. 4, arriva all'etica professionale del medico, tema centrale di Ep. 4 ma anche della
sezione della Praefatio (510), tecnica e strutturata attraverso un richiamo continuo di Ippocrate e Asclepiade.
3: cur ergo aliqui excludant medicinam - omnibus diis et hornirzibus invisi esse debent. E importante l'affermazione della
moralità e della purezza richieste ai medici che non devono crimine irtvidentiae flagrare.
5 Cfr. 6 praef. 3-4: qui Columella spiega iumenta da iuvare, armenta da arare e pecunia, peculium da pecus.
1 Rómer, ibid., p. 347, richiama, come loci paralleli, Varr. rust. 2 praef G eo facilius faciam, quod et ipse pecuarias habui
grandes; Quint. inst. 1 praef. 1 studiis meis [...] quae per viginti annos erudiendú iuvenibus impenderam e ancora
Frontino strat. 1 praef. 1 e Veg. mulnm. 1 praef.
' Riimer, ibid., richiama come parallelo Varr. rust. praef. 1-G sull'antichírà dell'agricoltura e per le declamationes e le
controversiae ancora sconosciute a Cicerone, Scii. contr. praef 12.
" K. I7eichgr~ber, Professio medici... , cit.
~ Sconocchia, Per la Praefatio' di Scribonio Largo.- cit., pp. 142-47. I passi etici più significativi sono raccolti nella n. 1,
pp. 145-4G.
'° Éthique et médeeine à Rorne...., cit.
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quod nzalrsm, dice Scribonio, wnr orrrrrìbus animantibus invisum esse de~ beat, tum pzaecipue nzedicis, in quibu.s rzisi
plenzes rnisericordiae et hurnanitatis arzirnzrs est securrdum ipsiazs professionis voluntatem onanibus diis et
horrzirzibus invisi esse deberzt. È evidenziata la professio medici e la moralità del rnedico.
4: idcirco ne hostibus quidern malzzm medicamenturn dabit - nullique urnquam nocituram profitetur
Come osserva Mudry", nel primo divieto, quello relativo al veleno, Scribonio sostituisce alla forrnulazione generale e
impersonale dello Ius - "Io non darò ad alcuno" - il termine hostibus. Ma si tratta di un procedimento retorico. Con la
formulazione si introduce un `distinguo' morale e giuridico, in cui, sulla linea di Deichgr~ber'z, si ritrova il signunz dello
spirito romano e della ideologia nazionale del militarzs et civis bonus. Lo stesso cittadino e soldato persequetur ornni
modo i nemici. È importante altresì quanto segue: quia medicina non fortuna neqzze persortis hornirtes aestimat nullique umquarn nociturarn profitetur.
Segue la sezione centrale dell'F.pistula, tecnica e strutturata con l'occhio rivolto ad Ippocrate e ad Asclepiade (5-10).
S: Hippocrates, conditor nostrae professionis, initia disciplinae a iureriurnndo tradidit - non praestat quam pollicethr
hominibus rnisericordiarn. Mudry' j osserva che questa è la prima affermazione dello Ius come documento fondante della
medicina.
Segue il ricalco di Ius" con un richiamo all'hurnanitas. per queste riprese di Ippocrate parlerei, più che di interpretatio
Scriboniana, di eredità ciceroniana o, eventualmente, di zrzterpretatio Romana. Si noti qui enirn ne_ fas existirnaverint
spena dubiam hominis laedere, quanto scelestius perfecto iam rtocere iudicaburat? Per perfecto iarn, lezione su cui era
stato sollevato qualche dubbioI5, Mudry"' richiama un passo parallelo di Gel~ lio", che, in bocca a Favorino, inette
esattamente il termine perfectum.
'' Cfr. p. 307.
'= Cfr. p. 867. " Cfr. p. 305.
'^ Cfr. (.'MG 1 1 p. 4, 16 sgg.
's Cfr. C:. I,ausdei, .Scrihoniann, «I'rometheus> 11, 1985, pp. 329-36: questi propone in alternativa perferto iam nato, ma
nato ha tutta l'aria di essere una glossa.
C,fr. p. 309.
'
CAI XII, l, 6-9; interessante anche il parallelo tra Scrib. Praef S spem dzrbianz hominis e C;ell. 12, 1, 6 nescin
quid quod non mirlerrz (mater) che lega il passo dì Gellio a quello di Scribonio.
Importanti anche le osservazioni che seguono: magni e.xistirrzavit nomen decusque rnedicirzae conservare pio
sanctoque animo quernque securzdurn ipsius proposi turn se gerentem; e ancora scieratia enirrz sanarzdi, non noeendi
est medicina [...] rniserieordiarn, per cui si veda ancora Ippocrate, Iusiurarzdum, CMG I 1 p. 4, 13 sg. In excubat, tra
l'altro, è una delle metafore militari già ricordate da Capitani','.
6: desinarzt ergo, qui prodesse adflietis aut nolunt aut non possurzt - ad ustionem devenit. È interessante, in questo
paragrafo, la formulazione eterzim quasi per gradus quosdarrz medicina laborarztibus succurrit, cui segue,
analiticamente, una definizione delle tre parti della medicina.
7-8: at Aselepiades, rnaxirnus auctor naedicinae, rzegavit aegris danda medicarnenta - non videtur dignazs professione
medicinae.
Sulle risposte che Scribonio fornisce ad eventuali suoi accusatori si potrebbe sviluppare un ampio commento. Quanto
alla Figura di Asclepiade, rnaxirrzus uuctor rnedicinae, e alle eventuali fonti documentarie di Scribonio comuni a Ce}so,
si veda supra, prima parte.
9: sed ista licentia nomine tantummodo medicorhrrz --fizlsa de his audent.
Scribonio insiste su pondera et mensuras exactas'I. Umano il suo sfogo: videlicet quia surat quídana, qui pluris ornnia
quarn se ipsos aestirnant; sfogo che diventa amaro: itaque sublata est studerzdi cuique uecessitas - sed etiarn
corrzminisci_ falsa de his audent.
10: ubi enim delectus non est personarum - urzius partis sanandi scientia medic-i plentzrn nornera corzsecutos. Qui
sono evidenziatì nuovamente elementi soprattutto morali: delectus [...] persorzarurn; disciplirzae ac sectae
observatio perit, digraitatis zstilitatisque; sic ut quisque volet, faciet rrtedicinarra; perverso proposito liberurn arbitrium
magni tzzdo professiorzis (si noti }'insistere su professio); ryzultos itaque anintadvertimzzs urzius parti s sanandi scientia
medici plenurn nornen consecutos.
11: nos vero ab initio rectam vi am secuti - quos interdurrt szzpra fzdenz atque opirziorzent plzzrirnorurn exibebamus.
"` Cfr. U. Capitani, La metafora militare nella lingua della rrzedicirza, in c. s.
" Su questo aspetto si veda Sconocchia, l.itpern di Scribonio Largo e la letterattrra meelica latina del 1 sec. d C'. ... , cit.,
pp. 866-69.
rectarn viam: probabilmente si allude> per contrapposizione, a Lté9oSoS; ma quella di Scribonio vuole essere la via
recta. Cfr. anche Celso: media via. Scribonio tiene presente la totius artis perceptio e sottolinea non medius fidiavs tam
ducti peeuniae aut gloriae cupiditate quam ipsius artis scientia; aggiunge magraurra enim et supra hominis naturam
duximus posse aliquem tueri et recuperare suam et uni us cui usque bonam valetudiraem: con questa espressione
l'autore sottolinea la considerazione altissima, supra hominis naturarn appunto, in cui tiene l'arte medica. Sigla questo
segmento dell'Epistula un richiamo alla farmacologia: itaque ut eeteris partibus disciplinae - opinionern plurimorum
exhibebamus.
Per quanto riguarda il compito che Scribonio si assume senza mirare al lucro, Rómer2° richiama Rhet. Her. 1 Praef. 1
non enirn spe quaestus2' aut gloria commoti venimus ad scribendum: si noti la corrispondenza quaestus autgloriae di
Rhet, ad Her. e pecuniae autgloriae di Scribonio.
Scribonio, ricordati questi fatti, passa agevolmente alla vera e propria dedica,
candidissimo anirrzo et erga me benevolentissimo. Si notino, all'indirizzo dell'imperatore Claudio, deo nostro Caesariz3 e
diviraae rnarzaasz4.
14: fateor itaque libenter unicas me tibi gratias agere - propter diffirentia scilicet corporum.
Qui si notino le espressioni amicissimo a
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e inoltre il passo ignosces autem, si paucae visae tibi, fuerint compositiones et non ad omnia vitia scriptae - propter
differentiam seilicet corporum. Scribonio é peregre e promette altre compositiones, da identificare probabilmente con
lhrzdex da me edito25.
Secondo Rómer'-1 ciò può corrispondere ad una situazione reale, ma si deve anche pensare ad un ricorrente topos. In
ogni caso Scribonio giustifica con elementi di natura medica la sua promessa: oportet enirn co
piam quoque eorum selectam haberi - propter difèrerttiam scilieet corporum. Con questo Scribonio ritorna abihnente al
tema nel suo significato più specifico.
éetu e favore plertissirrao tuo
12: sed quid ultra opus est probare - adiutzcs omni tempore a te, praecipue vero istis diebzss.
Qui troviamo il motivo, peraltro diffuso nella letteratura anche tecnica `Z, che Scribonio la scritto la sua opera dietro le
sollecitazioni di Callisto: praecipue tibi quz, quia percepisti utilitatem eorum, idcirco a me compositiones quasdam petisti?
Di Callisto Scribonio scrive, Ep. 12, ego memor humanitatis tuae candorisque animi tui; ibid., tuae in me tam
perseveranti benevolentiae; Ep. 13 tuae erga me pietatis officium. Soprattutto per la prima espressione si vedano
locuzioni di Cicerone come: Lael 8 nec fuisse id humanitatis tuae; epist. 16, 11, 1 id quod est humanitatis tuae; Flace. 57
ut [...] iura omnia offìcii humanitatisque violarent.
13: ti( primum potuisti , quo tempore divinis manibus laacdando consecrasti.
Sono richiamati piezatis offzcium, scripta rnedicirzalia, iudicium tazum,
z" Cfr. Rómer, Zum Vorwort..., cit., p. 130 (= Prefazioni... cít., p. 350).
°' Quaestus è vocabolo scriboniano: cfr. c. 97; Scribonio a c. 22 usa lucrurn.
=z Rbmer, .Z.urn Vormort..., ibid. (=1'w/azioni... cit., pp. 350-S1) richiama esempi da Cic. de orat. 1, 4 tibi vero, ftater,
neque hnrtrrnti deero neque roganti; e Varr. rust. 1 praef. 2 CUPI 1 ...] neque ut id mihi habeam currze roges, experiar
fino a Veg. Mulom. 3 praeF cedens itaque familritrum bonestissirnae voluruati e, nella stessa l:pútula con ogni
verosimiglianza scriboniana, di Celsus Pullio Natali, l'espressione 1 ...I noluntati tuae.
15: quarum irzitium a capite faciemus - nomina et pondera vitiis sub
i.
iunximus. La Praefatio si conclude con alcuni richiami tecnici. Scribonio autentica, pare, I'indexz'.
z3 Per cui si veda C. Jullian, Deus noster Caesar A propos de Scriboníus I,argus, aRph'> 17, 1893, pp. 129-31.
" Rtimer, Zum Vorwort ..., p. 131 (= Prefazioni...., p. 351) richiarna Vitr. I proem. Cum divina tua mens et numen, 11
mperator Caesar, ímperio patretur orbis terrnrum, ricordando anche Val. Max. 1 praef a'I'iberio e Quint. inst. praeff. 4-5 a
Domiziano, oltreché il ben noto modello poetico di Verg. georg. l, 24 sgg. Dopo la vittoria del Cristianesimo Marcello
Empirico muta mea Latina naedicinalia deo nostro Caesari di Scribonio in mea Latina de medicinalibus nostro Càesari.
=5 In <ā€¢RFIC» 104, 1976, pp. 2G3-G5. Su questi aspetti si veda S. Sconocchia, I a dottrina medica di Scribonin Largo e
la sua rielaborazione nella tradizione medica tardo-antica e medioevale, in Maladie et maladies dans les texte.s latins
antiques et rnédíévaux. Arte.r du Ve Colloque International °Textes médieaux latins" (Bruxelles, 4-G septernbre 1995)
édités par Carl Deroux, ā€¢.I_atomus», 1998, Collection Latornus 242, pp. 168-83, passim.
` Riimer, Am Vor:uort ..., cit. pp. 131-32 (= Prefazioni... pp. 352-53). Rorner richiama Catull. 68, 33; Ov. 7ir'st. 3, 14 [15J>
37 sgg.: cfr. 5, 12 [13J, 53 e Cicerone stesso Topica 4 § 5, oltre che, per alcuni aspetti, georg. 3 prnoem. e Mela 1 praef
2.
z' Su questi problemi si veda S. Sconocchia, Per una nuova edizione di Scribonio Largo, Brescia 1980, pp. 55-G0; Id., La
s<rueture de la Histoire Naturelle daras la rndition scientifzque et encyclopédique latine, in 1'lirre lAnrien ténzoin de son
temps. Conven:us Pliniani interhationalis, Namneti 22-25 Oet. 1985 habiu; acta edenda rurarunt Iarohus Pigealdus
Namnatensú, Iosepbus Orozius .Salmantiaensis, Estudios 87, Salamanca-Nantes 1987, pp. G23-32 (= Id., aHelmantica»
38, 1987, hp. 273-82).
Traduzione e note da Ars et professio medici. Humanitas, misericordia, amicitia nella medicina di
ieri e di oggi, a cura di D. Lippi e S. Sconocchia, pp. 97-109, Bologna, Clueb, 2003 [Baldin]
Scrib., 1-12 (Rimedi contro il mal di testa)
Ad capitis dolorem
Ad capitis dolorem etiam in febre primis diebus bene facit serpylli pondo quadrans, rosae aridae
pondo quadrans. haec incoquuntur duobus sextariis aceti acerrimi, donec ad dimidias perducantur. inde
sumitur cyathus et in duobus rosae commiscetur frequenterque curatur ex eo caput: ubi enim concaluit quod
infusum est, nisi eo recens adiciatur, nocet.
Item prodest eodem modo ruta per se vel cum hederae bacis decocta. polygonion quoque et menta
multis profuit eadem ratione decocta et infusa capiti dolenti, spondylion et agni semen et platani pilulae
similiter aceto incoctae rosaeque folia residuo aceto commixta.
Cum autem pluribus diebus permanserit dolor, tum omnium supra dictorum oportet uncias singulas
sumere iisque admiscere lauri bacarum, castorei, nucum amararum, pulei, samsuci foliorum, singulas uncias
et in aceti sextariis tribus decoquere ad dimidias et eodem modo rosa admixta non tam frequenter caput
curare.
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Ad omnem capitis dolorem efficaciter prodest crocomagmatis pondo sextans, aluminis fissi vel gallae
pondo uncia. haec terere ex aceto et rosa vicibus adiecta oportet, usque dum mellis habeant spissitudinem,
atque inde frontem et utraque tempora oblinere.
Ad capitis dolorem, cum inveteraverit, bene facit haec compositio: myrrhae p. I, croci p. II, amygdalarum
amararum p. II, rutae viridis p. III, sphondylii p. I, panacis p. I, lauri bacarum p. III, serpylli p. II, castorei
p. I. teruntur haec omnia aceto et fiunt pastilli; cum opus est, diluuntur aceto et rosa in mellis spissitudinem
atque ita frons et tempora inlinuntur.
Oportet vero permanente capitis dolore materiam quoque detrahere ex eo per nares vel os. quae res
etiam auriculam vel dentem dolentibus prodest nec minus quibus subitae vertigines obversantur, quos
scotomaticos Graeci dicunt; item comitiali morbo correptos et caligine impeditos ex magna parte levat.
debent autem ii omnes pridie abstinere et superioribus diebus aquam potare.
Per nares ergo purgatur caput his rebus infusis per cornu, quod rhinenchytes vocatur: hederae suco
per se vel betae suco cum exiguo flore aeris vel cyclamini suco mixto lacte aut aqua pari mensura.
Bene detrahit e naribus liquorem et haec compositio: salis, nitri, mellis, aceti, olei veteris, singulorum
p. binum, cyclamini suci, staphidos agrias, quam herbam pediculariam, quod eos necat, quidam appellant,
singulorum p. I. haec in unum mixta naribus per cornu infunduntur vel pinna longiore nares interius
perfricantur. cum satis visum fuerit fluxisse, ut reprimatur, aqua frigida nares diutius abluere pura oportet vel
ea, in qua pridie crocum adiectum maceratum fuerit.
Sed si per os magis detrahere materiam visum fuerit, quia non sine tormento per nares ea
deduceretur, suadebimus pyrethri radiculam commanducare atque subinde hiantem pati fluere salivam, vel
uvam passam cum piperis albi granis totidem dabimus commanducandam et expuendam: aeque enim et
haec deducunt pituitam. bene facit et sinapi ex aceto tritum et non excastratum gargarizatum trium
cyathorum mensura admixto mellis pondo quadrante: detrahit enim largiter pituitam.
Prodest, cum diu caput dolet, et adtondere ad cutem et radere et diutius siccum ad relaxationem cutis
fricare et aqua calida fovere pura vel laurum incoctam habente. quo tempore etiam sternutamentum
concitare non alienum erit medicamento, quod ex his rebus componitur: veratri albi, castorei, struthii, quod
est radix lanaria, piperis albi, singulorum p. I. haec contusa tenuiter forato cribro transmittuntur; cum opus
fuerit, per pinnam aut calamum scriptorium naribus sufflentur vel specillo tincto in aquam et excusso tacta
naribus iniciantur. proritat sternutamentum etiam per se contusum et eadem ratione iniectum veratrum
album. linguam enim nigram, siccam et aridam sternutatio statim inundat.
Capitis dolorem quamvis veterem et intolerabilem protinus tollit et in perpetuum remediat torpedo nigra
viva imposita eo loco, qui in dolore est, donec desinat dolor et obstupescat ea pars. quod cum primum
senserit, removeatur remedium, ne sensus auferatur eius partis. plures autem parandae sunt torpedines eius
generis, quia nonnumquam vix ad duas tresve respondet curatio, id est torpor, quod signum est
remediationis.
Bibliografia
Edizioni
G. Helmreich, Leipzig 1887.
S. Sconocchia, Leipzig 1983
PHI
Strumenti
S. Sconocchia, Concordantiae in Scribonium Largum, Hildesheim, Olms, 1988.
Studi
I. Mazzini, s.v. Medici (scrittori), in Dizionario degli scrittori greci e latini, 2, Milano, Marzorati, 1987,
pp. 1313-1334.
I. Mazzini, La medicina dei Greci e dei Romani, 1, Roma, Jouvence, 1997, pp. 43-44.
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ICCU per autore dal 1850 al 2004
Titolo: Ricette Prefazione, testo latino, traduzione italiana e note a cura di Aldo Marsili , Pisa : Ed. Omnia
Medica, 1956, Tip. V. Lischi e S. I
Autore: Scribonius Largus
Titolo: Scribonii Largi Compositiones / edidit Sergio Sconocchia , Leipzig : B. G. Teubner, 1983 , Bibliotheca
scriptorum Graecorum et RomanorumTeubneriana
TV0114 - Biblioteca comunale - Treviso - TV
Autore: Sperling, Otto <jr.>
Titolo: Otto Sperlings Animadversiones in scribonium et notas Johannis Rhodii : Einleitung und Edition :
Dissertation von W. Wuttke , <S.l. : s.n.>, 1974
Descrizione fisica: CII, 489 p. ; 8. <lit.>
Note Generali: Testo lat. s. XVII.
Nomi: Sperling, Otto <jr.>
Scribonius Largus
Wuttke, Walter
Titolo: Scribonii Largi compositiones / edidit Sergio Sconocchia , Leipzig : Teubner Verlag, 1983 , Bibliotheca
scriptorum Graecorum et RomanorumTeubneriana
Autore: Sconocchia, Sergio
Titolo: Concordantiae Scribonianae / curavit Sergio Sconocchia ; accedunt indices frequentiae, indices
inversi, index nominum , Hildesheim [etc.] : Olms-Weidmann, 1988 , Alpha-omega. Reihe A, Lexika,
Indizes,Konkordanzen zur klassischen Philologie
Titolo: Scribonii Largi compositiones / edidit Georgius Helmreich , Lipsiae : In aedibus B. G. Teubneri, 1887 ,
Bibliotheca scriptorum Graecorum et RomanorumTeubneriana
Autore: Sconocchia, Sergio
Titolo: Per una nuova edizione di Scribonio Largo : i nuovi apporti del codice toletano / Sergio Sconocchia ,
Brescia : Paideia, [1981] , Antichita classica e cristiana
Soggetti: Scribonio Largo . De compositione medicamentorum
- Tradizione manoscritta
"Scribonio Largo - Treccani",
S. Largo. Seguì Claudio in Britannia nel 36 d.C. Formulò delle ricette mediche che ebbero larga fortuna e
alle quali attinse Marcello Empirico.
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Pomponio Mela
Cenni biografici
Nativo di Tingentera, in Spagna, visse sotto il regno di Caligola o Claudio.
Opere
Chorographia.
Completata alla fine del 43 o all'inizio del 44. (cf. chor. 3,4: la conquista della Britannia è già
avvenuta, ma il trionfo di Claudio non è ancora stato celebrato.
Osservazioni
Testi e testimonianze
Mela, 2,96
Et sinus ultra est in eoque Carteia, ut quidam putant aliquando Tartesos, et quam transvecti ex Africa
Phoenices habitant atque unde nos sumus Tingentera.
Mela, 1,1-3. Il prologo.
Orbis situm dicere aggredior, impeditum opus et facundiae minime capaxā€“constat enim fere gentium
locorumque nominibus et eorum perplexo satis ordine, quem persequi longa est magis quam benigna
materiaā€“verum aspici tamen cognoscique dignissimum, et quod, si non ope ingenii orantis, at ipsa sui
contemplatione pretium operae attendentium absolvat. dicam autem alias plura et exactius, nunc ut quaeque
erunt clarissima et strictim. ac primo quidem quae sit forma totius, quae maximae partes, quo singulae modo
sint atque habitentur expediam, deinde rursus oras omnium et litora ut intra extraque sunt, atque ut ea subit
ac circumluit pelagus, additis quae in natura regionum incolarumque memoranda sunt. id quo facilius sciri
possit atque accipi, paulo altius summa repetetur.
Traduzione
Mela, 1,57. Gli Egizi.
Cultores regionum multo aliter a ceteris agunt. mortuos fimo obliti plangunt: nec cremare aut fodere fas
putant, verum arte medicatos intra penetralia conlocant. suis litteris perverse utuntur. lutum inter manus,
farinam calcibus subigunt. forum ac negotia feminae, viri pensa ac domus curant; onera illae umeris, hi
capitibus accipiunt; parentes cum egent, illis [mulieribus scilicet] necesse est, his liberum est alere. cibos
palam et extra tecta sua capiunt, obscena intimis aedium reddunt. colunt effigies multorum animalium atque
ipsa magis animalia, sed alia alii: adeo ut quaedam eorum etiam per inprudentiam interemisse capitale sit, et
ubi morbo aut forte extincta sint sepelire ac lugere sollemne sit. Apis populorum omnium numen est: bos
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niger certis maculis insignis et cauda linguaque dissimilis aliorum. raro nascitur nec coitu pecudis, ut aiunt,
sed divinitus et caelesti igne conceptus, diesque quo gignitur genti maxime festus est. ipsi vetustissimi ut
praedicant hominum trecentos et triginta reges ante Amasim, et supra tredecim milium annorum aetates
certis annalibus referunt mandatumque litteris servant, dum Aegyptii sunt, quater cursus suos vertisse sidera
ac solem bis iam occidisse unde nunc oritur. viginti <milia> urbium Amasi regnante habitarunt et nunc multas
habitant. earum clarissimae procul a mari Sais, Memphis, Syene, Bubastis, Elephantine Thebae utique
<quae> ut Homero dictum est centum portas sive ut alii aiunt centum aulas habent, totidem olim principum
domos, solitasque singulas ubi negotium exegerat dena armatorum milia effundere; in litore Alexandria
Africae contermina, Pelusium Arabiae. ipsas oras secant Canopicum, Bolbiticum, Sebennyticum,
Pathmeticum, Mendesium, Cataptystum, Pelusiacum Nili ostia.
Traduzione
Mela, 3,25. La Germania
Germania hinc ripis eius usque ad Alpes, a meridie ipsis Alpibus, ab oriente Sarmaticarum confinio gentium,
qua septentrionem spectat oceanico litore obducta est. qui habitant immanes sunt animis atque corporibus,
et ad insitam feritatem vaste utraque exercent, bellando animos, corpora adsuetudine laborum maxime
frigoris. nudi agunt antequam puberes sint, et longissima apud eos pueritia est. viri sagis velantur aut libris
arborum, quamvis saeva hieme. nandi non patientia tantum illis, studium etiam est. bella cum finitimis gerunt,
causas eorum ex libidine arcessunt, neque inperitandi prolatandique quae possident, nam ne illa quidem
enixe colunt, sed ut circa ipsos quae iacent vasta sint. ius in viribus habent, adeo ut ne latrocinii quidem
pudeat, tantum hospitibus boni, mitesque supplicibus. victu ita asperi incultique, ut cruda etiam carne
vescantur aut recenti, aut cum rigentem in ipsis pecudum ferarumque coriis, manibus pedibusque subigendo
renovarunt. terra ipsa multis inpedita fluminibus, multis montibus aspera et magna ex parte silvis ac
paludibus invia. paludium Suesia, Metia et Melsyagum maximae, silvarum Hercynia et aliquot sunt, quae
nomen habent, sed illa dierum sexaginta iter occupans, ut maior aliis ita notior. mon tium altissimi Taunus et
Retico, nisi quorum nomina vix est eloqui ore Romano. amnium in alias gentes exeuntium Danuvius et
Rhodanus, in Rhenum Moenis et Lupia, in oceanum Amissis, Visurgis et Albis clarissimi. super Albim
Codanus ingens sinus magnis parvisque insulis refertus est. hac re mare quod gremio litorum accipitur
nusquam late patet nec usquam mari simile, verum aquis passim interfluentibus ac saepe transgressis
vagum atque diffusum facie amnium spargitur; qua litora adtingit, ripis contentum insularum non longe
distantibus et ubique paene tantundem, it angustum et par freto, curvansque se subinde longo supercilio
inflexum est. in eo sunt Cimbri et Teutoni, ultra ultimi Germaniae Hermiones.
Traduzione
Bibliografia
ed. K.H. Tzschucke, Leipzig 1806-07 (comm.)
ed. C. Frick, Leipzig 1880, rist. e riv. W.Schaub, Stuttgart 1968.
ed. G. Ranstrand Goteborg 1971 (con Index verborum).
ed. P. Parroni, Roma 1984.
ed. A. Silberman. Paris, 1988 (tr. e comm.).
Strumenti
Concordantia in libros Pomponii Melae De chorographia Ed. Carmen Guzmán, Miguel E. Perez.
Con la colaboracion técnica de T. Jimenez y A. Salinas, Hildesheim 1989.
Studi
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L.D. Reynolds, Texts and Transmission. A Survey of the latin Classics, Oxford 1983, pp. 290-92
(R.H. Rouse).
Per un inquadramento del genere letterario nella letteratura greca e latina v. P. Janni, s.v.
Geografi, Dizionario degli scrittori greci elatini, 2, Milano, Marzorati, 1987, pp. 993-1003.
ICCU Soggetto (completo fino a 2004)
Pomponii Melae De chorographia libri tres / introduzione, edizione critica e commento a cura di Piergiorgio
Parroni , Roma : Edizioni di storia e letteratura, 1984 , Storia e letteratura
Parroni, Piergiorgio , Introduzione alla Chorographia di Pomponio Mela : Organismo rappresentativo
universitario urbinate, Anno accademico 1967-68 , Bologna : Cooperativa libraria universitaria editoriale,
1968
Note Generali: In testa al front.: Universita degli studi di Urbino, Facolta di magistero .
Guzman, Carmen , Concordantia in libros Pomponii Melae De chorographia / editada por Carmen Guzman y
Miguel E. Perez; con la colaboracion tecnica de T. Jimenez y A. Salinas, Hildesheim [etc.]: Olms-Weidmann,
1989, Alpha-omega. Reihe A, Lexika, Indizes,Konkordanzen zur klassischen Philologie
ICCU Autore
Mela, Pomponius , Pomponius Melas description of the world / F. E. Romer , Ann Arbor : University of
Michigan Press, c1998
Chorographie / Pomponius Mela ; texte etabli et traduit par A. Silberman , Paris : Les belles lettres, 1988 ,
Collection des universites de France
Note Generali: Testo latino con trad. francese a fronte.
TV0114 - Biblioteca comunale - Treviso - TV
Mela, Pomponius , Kreuzfahrt durch die alte Welt / Pomponius Mela ; zweisprachige Ausgabe von Kai
Brodersen , Darmstadt : Wissenschaftliche Buchgesellschaft, c1994
Corografia / Pomponio Mela ; traduccion y notas de Carmen Guzman Arias , Murcia : Universidad de Murcia,
1989 , Maior
Guzman, Carmen , Concordantia in libros Pomponii Melae De chorographia / editada por Carmen Guzman y
Miguel E. Perez ; con la colaboracion tecnica de T. Jimenez y A. Salinas , Hildesheim [etc.] : OlmsWeidmann, 1989 , Alpha-omega. Reihe A, Lexika, Indizes,Konkordanzen zur klassischen Philologie
Mela, Pomponius , Pomponii Melae De chorographia libri tres / recognovit Carolus Frick
Edizione: Ed. stereotypa editionis primae (1880) aucta conspectu librorum commentationum disputationum ,
Stutgardiae : in aedibus B. G. Teubneri, 1968 , Bibliotheca scriptorum Graecorum et Romanorum
Teubneriana
Pomponii Melae De chorographia libri tres / introduzione, edizione critica e commento a cura di Piergiorgio
Parroni , Roma : Edizioni di storia e letteratura, 1984 , Storia e letteratura
De Chorographia libri tres una cum indice verborum / Pomponius Mela ; ed. G. Ranstrand , Stockholm :
Almquist & Wiksell, 1971 , Studia Graeca et Latina Gothoburgensia
Pomponii Melae De chorographia libri tres : una cum indice verborum / edidit Gunnar Ranstrand , Goteborg :
Acta Universitatis Gothoburgensis, stampa 1971 , Studia Graeca et Latina Gothoburgensia
De chorographia libri tres / Pomponii melae ; introduzione, edizione critica e commento a cura di Piergiorgio
Parroni , Roma : Edizioni di storia e letteratura, 1984 , Storia e letteratura
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De chorographia libri tres / una cum indice verborum ; edidit Gunnar Ranstrand , Goteborg : Acta
Universitatis Gothoburgensis, 1971
Fa parte di: Studia Graeca et Latina Gothoburgensia .
1: Mittelmeerlander / Pomponius Mela , Leipzig : R. Voigtlander, [1912]
Descrizione fisica: 91 p., [1] c. di tav. ripieg. : ill. ; 18 cm. , Voigtlanders Quellenbucher
Fa parte di: Geographie des Erdkreises / von Pomponius Mela ; aus dem Lateinischen ubersetzt und
erlautert von Hans Philipp
2: Ozeanlander / Pomponius Mela , Leipzig : R. Voigtlander, [1912] , Voigtlanders Quellenbucher
Fa parte di: Geographie des Erdkreises / von Pomponius Mela ; aus dem Lateinischen ubersetzt und
erlautert von Hans Philipp
Pomponii Melae De situ orbis libri 3 ad fidem Tauchnitziensis editionis. Caii Iulii Solini Polyhistor / ex
recensione Ioannis Francisci Muratorii , Augustae Taurinorum : ex Officina Regia, 1858
Muratori, Giovanni Francesco
Mela, Pomponius , Pomponii Melae De situ orbis libri 3. ; cum indice rerum et pronunciatione prosodica
nominum propriorum in diffficilioribus notata ad optimorum librorum fidem accurate editi
Edizione: ed. stereotypa C. Tauchnitiana ; nova imp , Lipsiae : Sumtibus Ottonis Holtze, 1871
Geografia di Pomponio Mela : libri 3. / tradotti ed illustrati da Giovanni Francesco Muratori , Torino :
Stamperia Reale, 1855
Descrizione fisica: XLVIII, 267 p. ; 22 cm
Geografia antica : Del sito dell'orbe libri tre, volgarizzati pel sac. Domenico Pavone , Siena : Tip. S.
Bernardino Edit., 1893
De Chorographia libri tres / ad librorum manu scriptorum fidem edidit notisque criticis instruxit G. Parthey ,
Berlin : Nicolaus, 1867
Parthey, Gustav Friedrich Constantin
Pomponii Melae De chorographia libri tres / recognovit Carolus Frick , Lipsiae : in aedibus B. G. Teubneri,
1880 , Bibliotheca scriptorum Graecorum et RomanorumTeubneriana
Frick, Carl
Completato dal 1850 al 2004
"Mela¸ Pomponio - Castaldi",
Pomponio Mela
(Tingetela, Gibilterra, sec. I)
Fu il primo geografo "puro", con la sua "De chorographia", in 3 libri, che con stile che potermmo definire
"sallustiano" ed attingendo a varie fonti, descrive la terra prendendo come punto di riferimento-base il
Mediterraneo; e lā€™opera, benché sia poco più che un repertorio di nomi, è ricca di interessanti notizie
etnografiche e geoclimatiche.
"Mela¸ Pomponio - Corso"
Pomponius Mela.
Pomponio Mela visse nel I secolo dopo Cristo. Di lui ci è rimasta un De chorographia (Descrizione della
terra), in tre libri.
E' opera di compilazione ricavata da più antichi autori greci e quindi poco originale, ma costituisce comunque
il testimone latino piu antico per questo genere letterario.
"Mela¸ Pomponio - Treccani",Treccani - Geografia
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Mela, Pomponio - Riposati
Spagnolo della Bètica, P o m p o n i o M è I a, e vissuto nel I secolo d. C., scrisse una chorograpAta ('
Descrizione di regioni ' o ' della terra') in tre libri. In essa annunciava un'opera piú ampia dalle stesse
caratteristiche, ma di questa non ci è giunta traccia. Le notizie da lui compendiate in uno stile talvolta
ricercato, ma sempre chiaro e perspicuo, sono di carattere etnogràfico: la compilazione, semplice e ordinata,
si sviluppa sulla scía di Posidònio e dei geografi alessandrini, e non trascura interessi culturali ed artistici,
quando nella descrizione d'una regione coglie l'opportunità di soíTermarsi sui monumenti piú importantl della
sua civiltà passata. Suo è comunque il merito d'essere stato il Drimo ¢eoPrafo della latinità.
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Moderato Columella
Cenni biografici
Columella era originario di Gades, l'attuale Cadice, in Spagna e fu coetaneo di Seneca. Sappiamo
da un'iscrizione ritrovata a Taranto (C.I.L. IX, 235) che fu tribunus in Siria; lui stesso ci informa che
acquisì la cittadinanza romana e che dopo il servizio militare si stabilì nei pressi della capitale e
che si occupò personalmente di alcuni possedimenti (a Cere, Ardea, Carseoli ed Alba).
Opere
Di Columella sono state trasmesse ai nostri giorni due opere, il De re rustica in dodici libri e il Liber
de arboribus.
Secondo alcuni il secondo dovrebbe rappresentare quanto ci resta della prima redazione del De re
rustica, secondo altri potrebbe rappresentare una parziale epitome di questo, presentandone la
materia dei libri III-V.
Per quanto attiene al De re rustica, dedicato a Silvino, un proprietario vicino di Columella, il primo
libro tratta della scelta dei luoghi idonei alle attività agricole e delle risorse umane, il secondo della
coltivazione dei campi. Come già osservato, il gruppo dei libri III-V è dedicato alla coltivazione degli
alberi, con particolare attenzione alle colture più tipicamente mediterranee; una sezione è riservata
alla spiegazione delle misure lineari.
Con analoga attenzione l'allevamento degli animali da lavoro è considerato nei libri VI e VII,
mentre uccelli, pesci e api sono trattati nei libri VIII-IX.
Il libro undicesimo tratta dei doveri del fattore (vilicus), il dodicesimo quelli della fattoressa (vilica).
Rilievo particolare assume, almeno per i suoi caratteri formali, il decimo libro, riservato
all'orticultura e costituito da 436 esametri.
La scelta di utilizzare la poesia è motivata apertamente dall'autore con l'esplicito invito del
dedicatario a raccogliere l'indicazione di Virgilio in georg. 4,144.
E' verosimile che l'opera non sia stata pubblicata per intero, ma per singole parti, in un arco di
tempo compreso tra il 60 e il 65.
Ci rimane notizia inoltre di un Liber singularis ad Eprium Marcellum e di un'opera adversus
astrologos. non sappiamo se venne effettivamente composto o solo ideato un altro libro sui rituali
sacri.
Osservazioni
Testi e testimonianze
C.I.L. IX, 235 = I.L.S. 2923
Cassiod., inst.1,28
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Pari etiam modo in agris colendis, in apibus, in columbis necnon et piscibus alendis inter ceteros Columella
et Emilianus auctores probabiles extiterunt. sed Columella sedecim libris per diversas agriculturae species
eloquens ac facundus illabitur, disertis potius quam imperitis accommodus, ut operis eius studiosi non solum
communi fructu sed etiam gratissimis epulis expleantur. Emilianus autem facundissimus explanator
duodecim libris de hortis vel pecoribus aliisque rebus planissima lucidatione disseruit, quem vobis inter alios
lectitandum Domino praestante dereliqui.
Similmente nella coltivazione dei campi, nell'allevamento delle api, dei piccioni e del pesci sono scrittori
attendibili, fra gli altri, Columella ed Emiliano. Columella, in sedici libri, scorre eloquente e facondo sui diversi
tipi di agricoltura, adatto più agli esperti che agli inesperti, per cui i lettori della sua opera sono ricolmi non
solo di frutti ordinari, ma anche di piacevolissimi cibi. Emiliano, scrittore facondissimo, ha trattato con
estrema chiarezza, in dodici libri, degli orti, delle greggi e di altri argomenti. Anche questa opera, grazie al
Signore, vi ho lasciato da leggere assieme ad altre.
Trad. Di M. Donnini, Roma, Città Nuova, 2001 [BCTV]
Col., de re rustica, 8,16,9
Non enim omni mari potest omnis esse, ut helops, qui Pamphilio profundo nec alio pascitur, ut Atlantico
faber, qui generosissimis piscibus adnumeratur in nostro Gadium municipioā€“eumque prisca consuetudine
zaeum appellamusā€“, ut scarus, qui totius Asiae Graeciaeque litore Sicilia tenus frequentissimus exit,
numquam in Ligusticum nec per Gallias enauit ad Hibericum mare.
Col., de re rustica, 10,185
Et mea, quam generant Tartesi litore Gades,
Candida uibrato discrimine, candida thyrso est.
Col., de re rustica 11,1,31
Contra quam obseruationem multis argumentationibus disseruisse me non infitior in iis libris, quos aduersus
astrologos conposueram.
Col., de re rustica 2,21,5
Hoc loco certum habeo quosdam, cum solemnia festorum percensuerim, desideraturos lustrationum
ceterorumque sacrificiorum, quae pro frugibus fiunt, morem priscis usurpatum. nec ego abnuo docendi
curam sed differo in eum librum, quem conponere in animo est, cum agricolationis totam disciplinam
praescripsero.
Col., de re rustica, 3,3,3
Nam illa uidentur prodigialiter in nostris Caeretanis accidisse, ut aliqua uitis apud te excederet uuarum
numerum duorum milium, ut apud me octingenae stirpes insitae intra biennium septenos culleos
peraequarent, ut primae uineae centenas amphoras iugeratim praeberent, cum prata et pascua et siluae, si
centenos sestertios singula iugera efficiant, optime domino consulere uideantur.
Col., de re rustica, 3,9,2
Id autem cum sit uerisimile, tum etiam uerum esse nos docuit experimentum, cum et in Ardeatino agro,
quem multis temporibus ipsi possedimus, et in Carseolano itemque Albano generis Aminnei uitis notatas
habuerimus, numero quidem perpaucas, uerum ita fertiles, ut in iugo singulae ternas urnas praeberent, in
pergulis autem singulae denas amphoras peraequarent.
Col., de re rustica, 2, 15, 4
Si tamen nullum genus stercoris suppetet, et multum proderit fecisse, quod Marcum Columellam patruum
meum, doctissimum et diligentissimum agricolam, saepe numero usurpasse memoria repeto, ut sabulosis
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locis cretam ingereret, cretosis ac nimium densis sabulum atque ita non solum segetes laetas excitaret,
uerum etiam pulcherrimas uineas efficeret.
Col., de re rustica, 5, 5, 15
Marcus quidem Columella, patruus meus, uir inlustribus disciplinis eruditus ac diligentissimus agricola
Baeticae prouinciae, sub ortu Caniculae palmeis tegetibus uineas adumbrabat, quoniam plerumque dicti
sideris tempore quaedam partes eius regionis sic infestantur Euro, quem incolae Vulturnum appellant, ut,
nisi teguminibus uites opacentur, uelut halitu flammeo fructus uratur.
Col., de re rustica, 7, 2, 4
Nam cum in municipium Gaditanum ex uicino Africae miri coloris siluestres ac feri arietes sicut aliae bestiae
munerariis deportarentur, Marcus Columella patruus meus, acris uir ingeni atque inlustris agricola, quosdam
mercatus in agros transtulit et mansuefactos tectis ouibus admisit.
Col., de re rustica, 12, 21, 4
Hac conditura Columella patruus meus, inlustris agricola, uti solitus est in his fundis, in quibus palustres
uineas habebat.
Col., de re rustica, 3, 3, 2
Atque, ut omittam ueterem illam felicitatem aruorum, quibus et ante iam Cato Marcus et mox Varro Terentius
prodidit singula iugera uinearum sescenas urnas uini praebuisseā€“id enim maxime adseuerat in primo libro
rerum rusticarum Varroā€“nec una regione prouenire solitum, uerum et in Fauentino agro et in Gallico, qui
nunc Piceno contribuitur, his certe temporibus Nomentana regio celeberrima fama est inlustris et praecipue
quam possidet Seneca, uir excellentis ingenii atque doctrinae, cuius in praediis uinearum iugera singula
culleos octonos reddidisse plerumque conpertum est.
Plin., nat., 8,153
Columella auctor est, si XL die quam sit natus castretur morsu cauda summusque eius articulus auferatur
s<p>i<nae> nervo exempto, nec caudam crescere nec canes rabidos fieri.
Altre citazioni di Columella in nat., 15,66; 17,51; 17,52; 17, 162; 18,303; 19,68.
Plin., nat., 17,137
Est etiamnum nova inserendi ratio, ne quid sciens quidem praeteream, quod usquam invenerim, Columellae
excogitata, ut adfirmat ipse, qu<a> vel diversae insociabilesque arborum naturae copulentur, ut fici atque
oleae.
Plin., nat., 18, 70
In tantum fallitur Columella, qui ne trimestris quidem proprium genus existimaverit esse, cum sit
antiquissimum.
Palladio (cita 25 volte)
Vegezio, Mulomed., dicendi facultas di C.
Isid., orig., 17,1,1
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Verg., georg. 4,144-48
Ille etiam seras in uersum distulit ulmos
eduramque pirum et spinos iam pruna ferentis
iamque ministrantem platanum potantibus umbras.
uerum haec ipse equidem spatiis exclusus iniquis
praetereo atque aliis post me memoranda relinquo.
Col., de re rust.,10, pr. 1-5
Faenoris tui, Siluine, quod stipulanti spoponderam tibi, reliquam pensiunculam percipe. nam superioribus
nouem libris hac minus parte debitum, quod nunc persoluo, reddideram. superest ergo cultus hortorum
segnis ac neglectus quondam ueteribus agricolis, nunc uel celeberrimus. siquidem cum parcior apud priscos
esset frugalitas, largior tamen pauperibus fuit usus epularum, lactis copia ferinaeque ac domesticarum
pecudum carne uelut aqua frumentoque summis atque humillimis uictum tolerantibus. mox cum sequens et
praecipue nostra aetas dapibus libidinosa pretia constituerit cenaeque non naturalibus desideriis sed
censibus aestimentur, plebeia paupertas summota pretiosioribus cibis ad uulgares compellitur. quare cultus
hortorum, quorum iam fructus magis in usu est, diligentius nobis, quam tradidere maiores, praecipiendus est,
isque, sicut institueram, prorsa oratione prioribus subnecteretur exordiis, nisi propositum meum expugnasset
frequens postulatio tua, quae praecepit, ut poeticis numeris explerem georgici carminis omissas partis, quas
tamen et ipse Vergilius significauerat posteris se memorandas relinquere. neque enim aliter istud nobis
fuerat audendum quam ex uoluntate uatis maxime uenerandi, cuius quasi numine instigante pigre sine dubio
propter difficultatem operis, uerumtamen non sine spe prosperi successus adgressi sumus tenuem
admodum et paene uiduatam corpore materiam, quae tam exilis est, ut in consummatione quidem totius
operis adnumerari ueluti particula possit laboris nostri, per se uero et quasi suis finibus terminata nullo modo
speciose conspici. nam etsi multa sunt eius quasi membra, de quibus aliquid possumus effari, tamen eadem
tam exigua sunt, ut, quod aiunt Graeci, ex inconprehen sibili paruitate harenae funis effici non possit. quare
quicquid est istud, quod elucubrauimus, adeo propriam sibi laudem non uindicat, ut boni consulat, si non sit
dedecori prius editis a me scriptorum monumentis. sed iam praefari desinamus.
Ecco, Silvino, l'ultima rimanenza degl'interessi che ho pattuito con te coi nove libri precedenti ho già pagato
l'intero debito; rimane solo questa piccola parte, che liquido ora.
Rimane la coltivazione degli orti, oziosa e trascurabile per gli agricoltori antichi, tenuta forse in onore piú
d'ogni altra ai nostri giorni. In realtà, quantunque i nostri padri fossero molto piú frugali di noi, pure anche i
poveri allora potevano avere cibi buoni, dato che tutti, in alto e in basso della scala sociale, sostentavano la
vita con molto latte e carne di animali selvatici e domestici, come con la stessa acqua e con lo stesso pane.
Ma l'età seguente e la nostra ancora di píú, per il sempre maggior diffondersi del vizio della gola, hanno
portato alle stelle il prezzo dei cibi: i pasti non si proporzionano piú al bisogno naturale, ma alle ricchezze; la
povera gente è costretta a lasciar da parte i cibi migliori e a contentarsi di quelli volgar. Perciò, dal momento
che i prodotti orticoli sono ora tanto piú in uso di prima, è giusto dare i precetti relativi alla loro coltivazione
con molto maggior diligenza di quanto hanno fatto gli antichi. Questo trattato, dunque, dovrebbe seguire i
precedenti, scritto come quelli in prosa; ma le tue preghiere reiterate sono riuscite a vincere la mia resistenza
e hanno ottenuto che mi decidessi a completare le Georgiche! Mi sono deciso a trattare in versi gli argomenti
che Virgilio ha omesso nel suo poema, perché egli stesso ha dichiarato che li lasciava da celebrare ai
posteri: senza questo esplicito invito del poeta veneratissimo, mai certo avrei osato tanto. Cosí, chiedendo a
lui, come a un dio, l'ispirazione, mi accingo - esitante per la difficoltà dell'impresa, ma non senza carezzare
qualche speranza di buon successo - a cantare una materia veramente molto tenue e quasi priva di
consistenza, tanto tenue e sottile, che nel complesso dell'opera a stento si potrà riguardarla come una
piccolissima particella della mia fatica; considerata in se stessa, poi, appena si vede! Veramente essa è
formata, se posso dir cosí, di molte membra e per ciascuna c'è qualcosa da dire: ma sono tutte cosí esigue
che torna alla mente il proverbio greco: «E' impossibile formare una fune con la impercettibile piccolezza dei
granelli di sabbia!».
In conclusione, questo qualche cosa che ho composto in versi, comunque mi sia riuscito, non pretende certo
di essere lodato e ammirato; tutt'altro! Se si giudicherà che non costituisce un disonore per le parti già
pubblicate dell'opera, crederò d'aver fatto un guadagno.
Ma è ora, ormai, di chiudere la prefazione.
Trad. di Rosa Calzecchi Onesti, Torino, Einaudi, 1977.
Col., de re rust., 1,1,7 Le fonti
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Magna porro et Graecorum turba est de rusticis rebus praecipiens, cuius princeps celeberrimus uates non
minimum professioni nostrae contulit Hesiodus Boeotius. magis deinde eam iuuere fontibus orti sapientiae
Democritus Abderites, Socraticus Xenophon, Tarentinus Archytas, Peripatetici magister ac discipulus
Aristoteles cum Theophrasto. Siculi quoque non mediocri cura negotium istud prosecuti sunt Hieron et
Epicharmus, cuius discipulus Philometor et Attalus. Athenae uero scriptorum frequentiam pepererunt, e qua
probatissimi auctores Chaereas, Aristandros, Amphilochus, Euphronius, Chrestusā€“Euphronius non, ut multi
putant, Amphipolites, qui et ipse laudabilis habetur agricola, sed indigena soli Attici. insulae quoque curam
istam celebrauerunt, ut testis est Rhodius Epigenes, Chius Agathocles, Euagon et Anaxipolis Thasii. unius
quoque de septem Biantis illius populares Menander et Diodorus in primis sibi uindicauerunt agricolationis
prudentiam. nec his cessere Milesii Bacchius et Mnasias, Antigonus Cymaeus, Pergamenus Apollonius,
Dion Colophonius, Hegesias Maronites. nam quidem Diophanes Bithynius Uticensem totum Dionysium,
Poeni Magonis interpretem per multa diffusum uolumina sex epitomis circumscripsit. et alii tamen
obscuriores, quorum patrias non accepimus, aliquod stipendium nostro studio contulerunt. hi sunt Androtion,
Aeschrion, Aristomenes, Athenagoras, Crates, Dadis, Dionysius, Euphyton, Euphorion. nec minore fide pro
uirili parte tributum nobis intulerunt Lysimachus et Eubulus, Menestratus et Plentiphanes, Persis et
Theophilus. et ut agricolationem Romana tandem ciuitate donemus nam adhuc istis auctoribus Graecae
gentis fuit iam nunc M. Catonem Censorium illum memoremus, qui eam latine loqui primus instituit, post
hunc duos Sasernas, patrem et filium, qui eam diligentius erudiuerunt, ac deinde Scrofam Tremelium, qui
etiam eloquentem reddidit, et M. Terentium, qui expoliuit, mox Vergilium, qui carminum quoque potentem
fecit, nec postremo quasi paedagogi eius meminisse dedignemur Iuli Hygini, uerum tamen ut
Carthaginiensem Magonem rusticationis parentem maxime ueneremur; nam huius octo et uiginti
memorabilia illa uolumina ex senatus consulto in Latinum sermonem conuersa sunt. non minorem tamen
laudem meruerunt nostrorum temporum uiri Cornelius Celsus et Iulius Atticus, quippe Cornelius totum
corpus disciplinae quinque libris conplexus est, hic de una specie culturae pertinentis ad uitis singularem
librum edidit. cuius uelut discipulus duo uolumina similium praeceptorum de uineis Iulius Graecinus
conposita facetius et eruditius posteritati tradenda curauit.
Col., de re rust., pr. 1-21. Decadenza dell'agricoltura e dei costumi.
Saepe numero ciuitatis nostrae principes audio culpantis modo agrorum infecunditatem modo caeli per multa
iam tempora noxiam frugibus intemperiem, quosdam etiam praedictas querimonias uelut ratione certa
mitigantis, quod existiment ubertate nimia prioris aeui defatigatum et effetum solum nequire pristina
benignitate praebere mortalibus alimenta. quas ego causas. P. Siluine, procul a ueritate abesse certum
habeo, quod neque fas est existimare rerum naturam, quam primus ille mundi genitor perpetua fecunditate
donauit, quasi quodam morbo sterilitate adfectam, neque prudentis est credere tellurem, quae diuinam et
aeternam iuuentam sortita communis omnium parens dicta sit, quia et cuncta peperit semper et deinceps
paritura sit, uelut hominem consenuisse. nec post haec reor uiolentia caeli nobis ista, sed nostro potius
accidere uitio, qui rem rusticam pessimo cuique seruorum uelut carnifici noxae dedimus, quam maiorum
nostrorum optimus quisque et optime tractauerat. atque ego satis mirari non possum, quid ita dicendi cupidi
seligant oratorem, cuius imitentur eloquentiam, mensurarum et numerorum modum rimantes placitae
disciplinae consectentur magistrum, uocis et cantus modulatorem nec minus corporis gesticulatorem
scrupulosissime requirant saltationis ac musicae rationis studiosi, iam qui aedificare uelint, fabros et
architectos aduocent, qui nauigia mari concredere, gubernandi peritos, qui bella moliri, armorum et militiae
gnaros, et ne singula persequar, ei studio, quod quis agere uelit, consultissimum rectorem adhibeat, denique
animi sibi quisque formatorem praeceptoremque uirtutis e coetu sapientium arcessat, sola res rustica, quae
sine dubitatione proxima et quasi consanguinea sapientiae est, tam discentibus egeat quam magistris.
adhuc enim scholas rhetorum et, ut dixi, geometrarum musicorumque uel, quod magis mirandum est,
contemptissimorum uitiorum officinas, gulosius condiendi cibos et luxuriosius fericula struendi, capitumque et
capillorum concinnatores non solum esse audiui, sed et ipse uidi: agricolationis neque doctores, qui se
profiterentur, neque discipulos cognoui. cum etiam si praedictarum artium professoribus ciuitas egeret,
tamen sicut apud priscos florere posset res publicaā€“nam sine ludicris artibus atque etiam sine causidicis olim
satis felices fuerunt futuraeque sunt urbes; at sine agri cultoribus nec consistere mortalis nec ali posse
manifestum est. quo magis prodigio simile est, quod accidit, ut res corporibus nostris uitaeque utilitati
maxime conueniens minimam usque in hoc tempus consummationem haberet idque sperneretur genus
amplificandi relinquendique patrimonii, quod omni crimine caret. nam cetera diuersa et quasi repugnantia
dissident a iustitia, nisi aequius existimamus cepisse praedam ex militia, quae nobis nihil sine sanguine et
cladibus alienis adfert. an bellum per obsessa maris et negotiationis alea sit optabilior, ut rupto naturae
foedere terrestre animal homo uentorum et maris obiectus irae fluctibus pendeat semperque ritu uolucrum
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longinqui littoris peregrinus ignotum pererret orbem? an faeneratio probabilior sit etiam his inuisa, quibus
succurrere uidetur? sed ne caninum quidem, sicut dixere ueteres, studium praestantius locupletissimum
quemque adlatrandi et contra innocentis ac pro nocentibus neglectum a maioribus, a nobis etiam concessum
intra moenia et in ipso foro latrocinium. an honestius duxerim mercennarii salutatoris mendacissimum
aucupium circumuolitantis limina potentiorum somnumque regis sui rumoribus augurantis? neque enim
roganti, quid agatur intus, respondere serui dignantur. an putem fortunatius a catenato repulsum ianitore
saepe nocte sera foribus ingratis adiacere miserrimoque famulatu per dedecus fascium decus et imperium,
profuso tamen patrimonio, mercari? nam nec gratuita seruitute, sed donis rependitur honor. quae si et ipsa
et eorum similia bonis fugienda sunt, superest, ut dixi, unum genus liberale et ingenuum rei familiaris
augendae, quod ex agricolatione contingit. cuius praecepta si uel temere ab indoctis, dum tamen agrorum
possessoribus, antiquo more administrarentur, minus iacturae paterentur res rusticae; nam industria
dominorum cum ignorantiae detrimentis multa pensaret, nec quorum commodum ageretur, tota uita uellent
inprudentes negotii sui conspici eoque discendi cupidiores agricolationem pernoscerent. nunc et ipsi praedia
nostra colere dedignamur et nullius momenti ducimus peritissimum quemque uilicum facere uel, si nescium,
certe uigoris experrecti, quo celerius, quod ignoret, addiscat. sed siue fundum locuples mercatus est, e turba
pedisequorum lecticariorumque defectissimum annis et uiribus in agrum relegat, cum istud opus non solum
scientiam, sed et uiridem aetatem cum robore corporis ad labores sufferendos desideret; siue mediarum
facultatium dominus, ex mercennariis aliquem iam recusantem cotidianum illud tributum, quia uectigali esse
non posset, ignarum rei, cui praefuturus est, magistrum fieri iubet.
Quae cum animaduertam, saepe mecum retractans ac recogitans, quam turpi consensu deserta exoleuerit
disciplina ruris, uereor, ne flagitiosa et quodam modo pudenda ingenuis aut inhonesta sit. uerum cum
conplurimis monumentis scriptorum admonear apud antiquos nostros fuisse gloriae curam rusticationis, ex
qua Quinctius Cincinnatus, obsessi consulis et exercitus liberator, ab aratro uocatus ad dictaturam uenerit ac
rursus fascibus depositis, quos festinantius uictor reddiderat quam sumpserat imperator, ad eosdem
iuuencos et quattuor iugerum auitum herediolum redierit, itemque C. Fabricius et Curius Dentatus, alter
Pyrrho finibus Italiae pulso, domitis alter Sabinis, accepta, quae uiritim diuidebantur, captiui agri septem
iugera non minus industrie coluerit, quam fortiter armis quaesierat, et ne singulos intempestiue nunc
persequar, cum tot alios Romani generis intuear memorabiles duces hoc semper duplici studio floruisse uel
defendendi uel colendi patrios quaesitosue finis, intellego luxuriae et deliciis nostris pristinum morem
uirilemque uitam displicuisse. omnes enim, sicut M. Varro iam temporibus auorum conquestus est, patres
familiae falce et aratro relictis intra murum correpsimus et in circis potius ac theatris quam in segetibus ac
uineis manus mouemus adtonitique miramur gestus effeminatorum, quod a natura sexum uiris denegatum
muliebri motu mentiantur decipiantque oculos spectantium. mox deinde, ut apti ueniamus ad ganeas,
cotidianam cruditatem lactucis excoquimus et exusto sudore sitim quaerimus noctesque libidinibus et
ebrietatibus, dies ludo uel somno consumimus, ac nosmet ipsos ducimus fortunatos, quod nec orientem
solem uidimus nec occidentem. itaque istam uitam socordem persequitur ualetudo. nam sic iuuenum
corpora fluxa et resoluta sunt, ut nihil mors mutatura uideatur. at me hercules uera illa Romuli proles adsiduis
uenatibus nec minus agrestibus operibus exercitata firmissimis praeualuit corporibus ac militiam belli, cum
res postulauit, facile sustinuit durata pacis laboribus semperque rusticam plebem praeposuit urbanae. ut
enim qui in uillis intra consaepta morarentur, quam qui foris terram molirentur, ignauiores habitos, sic eos,
qui sub umbra ciuitatis intra moenia desides cunctaren tur, quam qui rura colerent administrarentue opera
colonorum, segniores uisos. nundinarum etiam conuentus manifestum est propterea usurpatos, ut nonis
tantummodo diebus urbanae res agerentur, reliquis administrarentur rusticae. illis enim temporibus, ut ante
iam diximus, proceres ciuitatis in agris morabantur et, cum consilium publicum desiderabatur, a uillis
arcessiebantur in senatum; ex quo, qui eos euocabant, uiatores nominati sunt. isque mos dum seruatus est,
perseuerantissimo colendorum agrorum studio ueteres illi Sabini Quirites atauique Romani, quamquam inter
ferrum et ignes hosticisque incursionibus uastatas fruges largius tamen condidere quam nos, quibus
diuturna permittente pace prolatare licuit rem rusticam. itaque in hoc Latio et Saturnia terra, ubi di fructus
agrorum progeniem suam docuerant, ibi nunc ad hastam locamus, ut nobis ex transmarinis prouinciis
aduehatur frumentum, ne fame laboremus, et uindemias condimus ex insulis Cycladibus ac regionibus
Baeticis Gallicisque. nec mirum, cum sit publice concepta et confirmata iam uulgaris existimatio rem rusticam
sordidum opus et id esse negotium, quod nullius egeat magisterio praeceptoue.
Odo spesso i piú illustri cittadini lamentarsi ora della sterilità dei campi, ora delle stagioni, da lungo tempo
ormai sfavorevoli ai frutti della terra; c'è poi chi vuole attenuare in certo modo queste lamentele con una
teoria razionale: cioè, stanco e isterilito dall'eccessiva abbondanza dei tempi passati, il terreno non può piú
offrirci gli alimenti con l'antica generosità.
Ma io sono sicuro, o Publio Silvino, che tutte queste ragioni sono molto lontane dal vero. Come si può
pensare senza irriverenza che la natura - quella natura alla quale il Creatore del mondo ha fatto dono di una
sempre rinnovata fecondità - si sia isterílita a un tratto, come se fosse soggetta a malattie? E sarebbe
egualmente sciocco credere che la terra, come una creatura mortale, si sia invecchiata, essa che ha avuto in
sorte una giovinezza eterna, simile a quella degli dei, essa che vien detta madre di tutte le cose, appunto
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perché tutte le ha prodotte, e di nuovo e sempre le produrrà tutte in avvenire! Non è nemmeno l'inclemenza
del cielo la causa dei danni che lamentiamo; la colpa è nostra, perché abbandoniamo la cura dei campi nelle
mani del peggiore dei nostri schiavi, e glieli lasciamo straziare, mentre ai tempi dei nostri padri i migliori
cittadini se ne occupavano personalmente e con la massima diligenza!.
Veramente io non mi so dar pace di questo fatto: chi desidera parlar bene sceglie un oratore di cui si
propone a modello l'eloquenza; chi vuole impratichirsi di misure e di numeri, va dietro ad un maestro della
scienza che gli sta a cuore; chi vuole imparare la musica e la danza, cerca con grande zelo chi gli insegni a
modular la voce e a muovere con grazia il corpo; e ancora, chi vuol fabbricare, chiama capomastri e
architetti; chi vuol mettere navi in mare, cerca provetti marinai; chi vuol fare la guerra, si affida agli esperti
dell'arte militare; insomma, ciascuno cerca la persona piú adatta a istruirlo nella scienza che desidera, cosí
come ciascuno sceglie fra i sapienti chi possa dare all'animo suo una solida formazione alla virtú: e solo la
scienza agricola, che senza dubbio è vicina, per nobiltà e importanza, alla sapienza, non ha né chi la insegni
né chi la impari! Ho visto io con i miei occhi non solo scuole di bei parlatori e, come ho detto, di geometri e di
musici, ma addirittura scuole delle cose piú sciocche e inutili, come del condire nei modi piú stuzzicanti i cibi,
nell'imbandire nella maniera piú lussuosa i pranzi, del pettinare e ornare artisticamente i capelli; ripeto che le
ho viste, e non ne ho solo sentito parlare! Ma finora non ho conosciuto né chi si professasse maestro di
agricoltura né chi volesse esserne scolaro. Eppure, anche se la città mancasse di professori delle arti
suddette, lo stato potrebbe essere in fiore, come fu nei tempi antichi. Sappiamo che gli uomini furono
felicissimi - e lo potrebbero essere ancora - senza arti ludiche e soprattutto senza legulei. Ma se mancano i
coltivatori dei campi, non si può mangiare, non si può vivere!
Davvero sembra mostruoso che un'arte cosí strettamente necessaria alla conservazione del corpo e della
vita sia stata finora perfezionata meno di tutte le altre e che si disprezzi l'unico modo veramente al di sopra
di ogni sospetto di arricchirsi e lasciare agli credi bei patrimoni. Fra tutti gli altri che oggi sono in uso non ce
n'è uno che non sia il perfetto contrario della giustizia, a meno che non si voglia ritenere giusto di impinguarsi
con le rapine di guerra, che non ci portano vantaggio se non a prezzo di sangue e di stragi. O sarà
preferibile la guerra dichiarata al mare ed il rischio continuo del mercante, per cui l'uomo - che è destinato a
vivere in terra - rompendo i patti della natura e gettandosi allo sbaraglio in mezzo alla furia dei venti e del
mare, rimanga in balía delle onde e si aggiri sempre come un estraneo, al modo degli uccelli migratori, in
terre ignote e lontane? O all'usura, odiata anche da coloro a cui pur sembra che dovrebbe giovare?
Meravigliosa anche quell'altra professione moderna (i nostri antichi la chiamarono da cani e non vollero
neppure saperne di una simile ladroneria) di latrare contro tutti i ricchi e contro gl'innocenti a favore dei
manigoldi! Noi ne abbiamo fatto una cosa lecitissima entro le mura cittadine, anzi nel foro stesso. E posso
considerare dignitoso quel bugiardo stare alle vedette del salutatore mattutino, guidato dai suoi loschi
interessi, che spia dai rumori provenienti dall'interno della camera il sonno del suo «padrone»? Nemmeno gli
schiavi si degnano di rispondergli, se si attenta a chiedere che cosa avviene dentro! Felicissimo anche
quell'altro, che respinto dal portinaio - un qualsiasi schiavo incatenato - se ne sta spesso fino a tarda notte
attaccato a quelle porte insensibili, e, a prezzo di vergogna, abbassandosi al di sotto dei servi, compra
l'onore dei fasci e della dignità consolare, e ci perde il patrimonio, perché non basta fare gratis il servo
umilissimo per comprare le cariche: ci vogliono ricche prebende.
Le persone che hanno dignità - è chiaro - sono costrette a fuggire tutti i mestieri che ho nominato e quanti ne
esistono di simile genere: non rimane dunque loro, come dicevo, che fin solo modo onesto e nobile di
aumentare il patrimonio: l'agricoltura. Che se i tradizionali precetti agricoli fossero messi in pratica, sia pure a
caso, da uomini ignoranti della teoria, ma che fossero i proprietari delle terre, la campagna ne soffrirebbe
molto meno, perché prima di tutto l'attività attenta dei padroni compenserebbe molti dei danni che derivano
dall'ignoranza; e poi chi vede in gioco il proprio interesse, non può mostrarsi per tutta la vita incapace di fare
i suoi affari: e quindi i padroni sarebbero spinti a stridiate con grande zelo e a fondo la scienza agricola.
Invece noi non ci degniamo di coltivare personalmente i nostri campi, non solo, ma non crediamo nemmeno
che sia necessario mettere'a capo della fattoria qualcuno che ne sa realmente esperto, o, perlomeno, che
senza esserne esperto sia abbastanza sveglio per imparare al piú presto quello che non sa. Anzi: se chi
compra un fondo è un riccone, relega in campagna lo schiavo piú vecchio e piú sfinito di forze che trova in
mezzo alla folla dei suoi staffierí o dei suoi lettighieri; eppure si tratta di un lavoro che richiede gente non
solo esperta, ma anche nel fiore dell'età e vigorosa di corpo, che possa sostenerne le fatiche. Se invece è un
uomo di media ricchezza, ti fa capo della fattoria quello tra i suoi salariati che ormai non può eseguire il suo
compito quotidiano, perché non è piú in grado di procurare guadagno al padrone, ed è perfettamente
all'oscuro delle faccende a cui dovrà sovrintendere.
Quando osservo queste cose e vado pensando e ripensando alla vergognosa generale apatia che ha fatto
sparire nell'abbandono l'antica pratica agraria, mi viene paura che questa occupazione possa sembrare
penosa e forse disonorante per dei liberi cittadini. Eppure con molti esempi gli storici mi dimostrano che
presso i nostri padri era una gloria l'intelligente coltivazione dei propri campi: leggo di Cincinnato, liberatore
dell'esercito e del console assediato, che venne alla dittatura dall'agricoltura, lasciando l'aratro alla chiamata,
e immediatamente ritornò ai suoi bovi e al campicello di quattro iugeri, deponendo i fasci appena ebbe vinto,
con maggior fretta di quando li aveva assunti come generale; e cosí di Gaio Fabrizio e di Curio Dentato i
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quali, dopo avere l'uno espulso Pirro dall'Italia, l'altro sottomessi i Sabini, coltivarono i sette iugeri ricevuti a
testa come bottino di guerra con una diligenza pari alla forza dimostrata nello strappare quelle terre al
nemico; e, in una parola, constato (per non fare una lunga enumerazione fuori di Iuogo) che tanti altri
famosissimi generali del popolo romano si fregiarono di questo duplice vanto, di difendere valorosamente e
di coltivare alacremente i territori patrii o conquistati. E allora non posso non concludere che l'antica virtú e il
costume troppo austeramente virili sono diventati insopportabili alla nostra vita lussuosa e alla nostra
delicata mollezza.
Si tratta del male già lamentato ai suoi tempi da Marco Varrone: tutti noi capi famiglia abbiamo abbandonato
aratro e falce e siamo venuti a pigiarci e a restringerci fra le mura delle città, dove ci diamo un gran da fare a
muovere le mani nei teatri e nei circhi invece che tra le vigne e i campi; e ce ne stiamo come stupidi ad
ammirare a bocca aperta i gesti di attori smidollati, che imitano con movenze femminee il sesso a loro,
maschi, negato dalla natura, tanto da ingannar gli occhi degli spettatori. E non basta! Per essere sempre
pronti alle gozzoviglie, curiamo le nostre indigestioni quotidiane con lattughe e sudiamo come matti per
procurarci una gran sete e consumiamo le notti tra vizi e bagordi, i giorni tra il gioco e il sonno: e ci
congratuliamo con noi stessi perché «non vediamo né sorgere né tramontare il Sole». Naturalmente le
malattie sono il corteggio di questa stupida vita e i corpi della gioventú sono tanto macilenti e rifiniti che la
morte ben poco li potrebbe cambiare.
Ma, per Giove!, quella che fu la genuina razza di Romolo, esercitandosi di continuo nella caccia e altrettanto
nel lavoro dei campi, si procurò membra validissime e vigorose, cosí che, temprata dalle fatiche della pace,
seppe facilmente sostenere all'occasione l'asprezza della guerra; e la popolazione rurale fu sempre
anteposta alla cittadina, giacché pensavano, giustamente, che chi conduce una vita fiacca e chiusa all'ombra
delle città e fra le mura è meno resistente di chi coltiva la campagna, come del resto tra i campagnoli stessi
quelli che rimangono sempre nell'interno della fattoria sono piú lenti e piú pigri di quelli che lavorano la terra
all'aria aperta. E la istituzione delle nundinae, con le sue periodiche riunioni di mercato, fu stabilita per fare in
modo che gli affari urbani si trattassero solo ogni nove giorni e nei rimanenti si fosse liberi di curare gli
interessi della campagna. Ho già detto infatti che allora i cittadini piú ragguardevoli si trattenevano a lungo
fra i campi, e quando sorgeva la necessità di convocare il consiglio pubblico, venivano chiamati in senato
dalle fattorie, tanto che gli incaricati di portare l'ordine di convocazione si chiamarono viatores. E fino a
quando questa usanza si conservò, insieme con un grandissimo amore per la coltivazione dei campi, quei
vecchi Sabini e Quiriti e antenati Romani, tra il ferro e il fuoco, coi frutti della terra esposti alle incursioni
nemiche, riuscirono ad avere raccolti piú abbondanti dei nostri, mentre, col favore della lunga pace, noi
possiamo allargare quanto vogliamo le colture.
Perciò, «in questo Lazio, in questa terra Saturnia», dove gli dei stessi insegnarono agli antichi abitatori, loro
progenie, la coltivazione dei campi, siamo costretti per non morir di fame a farci venire il grano dalle
provincie di là dal mare, per mezzo di appaltatori. E beviamo il vino delle isole Cícladi o delle contrade della
Betica e della Gallia. Niente di strano, dal momento che in tutti si è fatta strada, anzi, ha preso profonde
radici, l'idea che l'agricoltura sia qualche cosa di spregevole, un affare insignificante, per cui non occorrono
certo insegnamento né maestro.
Ma io, quando mi metto a considerare l'estensione di questa scienza, che paragono a un corpo d'immensa
grandezza, e passo in rassegna la sottigliezza delle sue parti, che sono quasi le sue membra, dico la verità
che ho paura di essere raggiunto dalla morte prima di averla potuta conoscere interamente. Basta pensare
che chi vuol considerarsi perfetto conoscitore di agricoltura deve avere cognizíoni profondissime intorno alla
natura, e non può ignorare le differenze dei climi; deve sapere con esattezza ciò che si confà ad una data
regione e ciò che le è contrario; deve conoscere e ricordare con precisione l'epoca del sorgere e del
tramontare degli astri, per non cominciare i lavori in tempi in cui si scatenano i venti e le piogge,
pregiudicando il frutto delle sue fatiche; e deve anche saper osservare l'andamento giornaliero della
stagione, che non segue certo leggi costanti e fisse, giacché non tutti gli anni l'estate o l'inverno vengono
con lo stesso volto e non sempre la primavera è piovosa, come non sempre è nebbioso l'autunno. Come si
possono prevedere tante cose diverse senza intelligenza e senza conoscenze adeguate?
Trad. di Rosa Calzecchi Onesti, Torino, Einaudi, 1977.
Colum., de re rust.,11,1,4-12 Il fattore deve essere istruito
Quisquis autem destinabitur huic negotio, sit oportet idem scientissimus robustissimusque, ut et doceat
subiectos et ipse commode faciat, quae praecipit. siquidem nihil recte sine exemplo docetur aut discitur
praestatque uilicum magistrum esse operariorum, non discipulum, cum etiam de patre familiae prisci moris
exemplum Cato dixerit: Male agitur cum domino, quem uilicus docet. itaque in Oeconomico Xenophontis,
quem Marcus Cicero Latino sermoni tradidit, egregius ille Ischomachus Atheniensis, rogatus a Socrate,
utrumne, si res familiaris desiderasset, mercari uilicum tamquam fabrum an a se instituere consueuerit: Ego
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uero, inquit, ipse instituo. etenim qui me absente in meum locum substituitur et uicarius meae diligentiae
succedit, is ea quae ego scire debet. sed et haec nimium prisca et eius quidem temporis sunt, quo idem
Ischomachus negabat quemquam rusticari nescire. nos autem memores ignorantiae nostrae uigentis sensus
adulescentulos corporisque robusti peritissimis agricolis conmendemus, quorum monitionibus uel unus ex
multis nam est difficile erudire non solum rusticationis, sed imperandi consequatur scientiam. quidam enim
quamuis operum probatissimi artifices, imperitandi parum prudentes, aut saeuius aut etiam lenius agendo
rem dominorum corrumpunt. quare, sicut dixi, docendus et a pueritia rusticis operibus edurandus multisque
prius experimentis inspiciendus erit futurus uilicus, nec solum an perdidicerit disciplinam ruris, sed an etiam
domino fidem ac beniuolentiam exhibeat, sine quibus nihil prodest uilici summa scientia. potentissimum est
autem in eo magisterio scire et existimare, quale officium et qualis labor sit cuique iniungendus. nam nec
ualentissimus possit exsequi, quod imperatur, si nesciat, quid agat, nec peritissimus, si sit inualidus. qualitas
itaque cuiusque rei consideranda est. quippe aliqua sunt opera tantummodo uirium tamquam promouendi
onera portandique, aliqua etiam sociata uiribus et arti, ut fodiendi arandique, ut segetes et prata desecandi;
nonnullis minus uirium, plus artis adhibetur, sicut putationibus insitionibusque uineti; plurimum etiam scientia
pollet in aliquibus, ut in pastione pecoris atque eiusdem medicina. quorum omnium officiorum uilicus, quod
iam dixi prius, aestimator bonus esse non potest, nisi fuerit etiam peritus, ut in unoquoque corrigere queat
perperam factum. neque enim satis est reprehendisse peccantem, si non doceat recti uiam. libenter igitur
eadem loquor: tam docendus est futurus uilicus quam futurus figulus aut faber. et haud facile dixerim, num
illa tanto expeditiora sint discentibus artificia, quanto minus ampla sunt. rusticationis autem magna et diffusa
materia est, partesque si uelimus eius percensere, uix numero conprehendamus. quare satis admirari
nequeo, quod primo scriptorum meorum exordio iure conquestus sum, ceterarum artium minus uitae
necessariarum repertos antistites, agriculturae neque discipulos neque praeceptores inuentos; nisi
magnitudo rei fecerit reuerentiam uel discendi uel profitendi pene inmensam scientiam, cum tamen non ideo
turpi desperatione oportuerit eam neglegi. nam nec oratoria disciplina deseritur, quia perfectus orator
nusquam repertus est, nec philosophia, quia nullus consummatae sapientiae, sed e contrario plurimi semet
ipsos exhortantur uel aliquas partes earum addiscere, quamuis uniuersas percipere non possint. etenim
quae probabilis ratio est obmutescendi, quia nequeas orator esse perfectus, aut in socordiam conpelli, quia
desponderis sapientiam? magnae rei, quantulumcumque possederis, fuisse participem, non minima est
gloria. quis ergo, inquis, docebit futurum uilicum, si nullus professor est? et ego intellego, difficillimum esse
ab uno uelut auctore cuncta rusticationis consequi praecepta. uerumtamen ut uniuersae disciplinae uix
aliquem consultum, sic plurimos partium eius inuenias magistros, per quos efficere queas perfectum uilicum.
nam et arator reperiatur aliquis bonus et optimus fossor aut foeni sector nec minus arborator et uinitor, tum
etiam ueterinarius et probus pastor, qui singuli rationem scientiae suae desideranti non subtrahant.
Chiunque si destinerà a questo compito, curiamo che sia nello stesso tempo praticissimo e robustissimo, in
modo da saper insegnare ai sottoposti e da saper fare lui stesso senza fatica quello che insegna. In verità,
senza esempi pratici non si può né insegnare né imparare niente, ed è molto meglio che il massaro sia il
maestro, non il discepolo dei suoi uomini, dal momento che Catone, parlando del padrone degli antichi
tempi, disse quella sentenza: «La va male a quel padrone, cui il massaro dà lezione». Perciò nell'Economico
di Senofonte, che Marco Cicerone ha tradotto in latino, quel famoso Iscomaco Ateniese, alla domanda di
Socrate se egli avesse l'abitudine di comprare un massaro come un operaio qualunque, quando la necessità
della sua azienda agricola lo richiedesse, o se preferiva istruirlo da sé, rispose: «lo veramente me lo istruisco
da solo. In realtà colui che in mia assenza prende il mio posto e diventa il rappresentante della mia diligenza,
deve sapere quello che so io». Ma queste sono cose troppo antiche, pienamente in armonia con quei tempi
in cui lo stesso Iscomaco affermava che non esisteva nessuno che non sapesse di agricoltura! Noi, consci
della nostra ignoranza, mettiamo, invece, alla scuola di agricoltori ben provetti i giovani schiavi di intelligenza
piú sveglia e di corpo piú robusto, in modo che per mezzo degli insegnamenti di quelli ne venga fuori almeno
uno sui tanti (istruire è sempre una cosa ardua!), che abbia acquistato la capacità non solo di coltivare bene
un fondo, ma di dirigerne la coltivazione. Vi sono infatti alcuni che, quantlinque siano ottimi esecutori dei
lavori, sono però poco prudenti nel dirigere gli altri e, col loro modo di agire o troppo crudele o troppo molle,
rovinano il patrimonio del padrone. Perciò, come ho già detio, il futuro capo della fattoria va indurito e isttuito
fin da ragazzo nei lavori di campagna; e bisogna anche metterlo spesso e in molti modi alla prova per capire
non solo se ha imparato bene la scienza agricola, ma anche se dimostra fedeltà e attaccamento al padrone,
perclìé senza queste qualità non giova nulla tutta la scienza del massaro.
La cosa piú importante del suo ufficio consiste nel saper comprendere e giudicare quale lavoro e quale
incarico si può assegnare a ciascuno. Nemmeno la persona piú robusta può infatti eseguire quanto gli viene
comandato, se non ha pratica di ciò che deve fare, mentre nemmeno la persona piú esperta può lavorare
bene, se le mancano le forze. Bisogna prendere in considerazione i modi e le circostanze di tutte le cose: vi
sono lavori che richiedono soltanto forza fisica, come il muovere e il trasportare pesi; altri vogliono forza e
perizia associate insieme, come lo zappare, l'arare, il mietere le messi e i fieni; in alcuni si adopera piú
perizia e meno forza, come nelle potature e negli innesti dei vigneto. La scienza ha poi il sopravvento in
alcune cose particolari, come nell' allevamento del bestiame e nella cura di esso quando è malato. Come ho
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già detto, il massaio non può essere buon giudice di tutti questi vari lavori, se non ne è lui stesso perito, in
modo che riguardo a ciascuno possa correggere quello che fosse stato fatto male. Non è, infatti, sufficiente
rimproverare chi sbaglia, se non gli insegnano insieme la strada giusta. Torno quindi volentieri a ripetere
ancora una volta la stessa cosa: bisogna dare al futuro massaro una formazione appropriata, come al futuro
vasaio o fabbro. E posso ben dire che per chi le impara, queste due arti sono tanto piú facili quanto piú
ristrette. La materia, invece, dell'agricoltura è ampia e diffusa e, se volessimo passare in rassegna tutte le
sue parti, a stento potremmo abbracciarle con un numero determinato. Per conseguenza non finisco mai di
meravigliarmi di quel fatto che ho lamentato proprio all'inizio del primo dei miei scritti: che cioè delle altre arti,
meno necessarie alla vita, si trovano dei maestri, mentre non si trovano né maestri né discepoli della scienza
dei campi; a meno che questo non derivi da una specie di spavento che trattiene dall'insegnare o
dall'imparare una scienza quasi senza confini. Mi pare però che non sia bene trascurarla per un senso cosí
vergognoso di sfiducia. Non si abbandona certo lo studio dell'oratoria, per il fatto che non si è ancora mai
trovato l'oratore perfetto; né la filosofia perché non esiste nessuno la cui sapienza si possa dire compiuta;
anzi è il contrario: moltissimi si eccitano e si sforzano per imparare almeno qualche parte di queste scienze,
benché sappiano di non poterle mai possedere interamente. Infatti che buona ragione potresti avere di fare il
muto, solo perché non puoi arrivare ad essere un oratore perfetto? o di lasciarti andare alla stupidità, perché
disperi di poter arrivare all'apice della sapienza? Per quanto poco tu possieda di una cosa grande e
importante, è già una gloria non piccola potertene dire partecipe. Ma chi, mi dirai, potrà diventare buon
massaro, se non c'è nessuno che gli insegni questa scienza? Non hai torto: anch'io capisco benissimo che è
molto difficile apprendere da una sola persona, come da un oracolo, tutti gli insegnamenti necessari al buon
andamento della campagna. Però, come è vero che a stento tu potresti trovare qualcuno che possieda tutta
la scienza intera, cosí è anche vero che potrai trovare molti maestri delle sue singole parti, per mezzo dei
quali potrai alla fine istruire perfettamente il massaro. Troverai un buon aratore, un ottimo zappatore o
affienatore, troverai una persona pratica della coltivazione degli alberi da frutto o della vite, un buon
veterinario, un buon allevatore di bestiame, i quali non si faranno pregare di far parte della loro esperienza e
sapienza a chi lo desidera.
Trad. di Rosa Calzecchi Onesti, Torino, Einaudi, 1977.
Col., de re rust., 1,6. Organizzazione della villa
Modus autem membrorumque numerus aptetur uniuerso consaepto et diuidatur in tres partes, urbanam,
rusticam, fructuariam. urbana rursus in hibernacula et aestiua sic digeratur, ut spectent hiemalis temporis
cubi cula brumalem orientem, cenationes aequinoctialem occidentem. rursus aestiua cubicula spectent
meridiem aequinoctialem, sed cenationes eiusdem temporis prospectent hibernum orientem. balnearia
occidenti aestiuo aduertantur, ut sint post meridiem et usque in uesperum inlustria. ambulationes meridiano
aequinoctiali subiectae sint, ut et hieme plurimum solis et aestate minimum recipiant. at in rustica parte
magna et alta culina ponetur, ut et contignatio careat incendii periculo et in ea commode familiares omni
tempore anni morari queant. optime solutis seruis cellae meridiem aequinoctialem spectantes fient, uinctis
quam saluberrimum subterraneum ergastulum plurimis sitque id angustis inlustratum fenestris atque a terra
sic editis, ne manu contingi possint. pecudibus stabula, quae neque frigore neque calore infestentur, domitis
armentis duplicia bubilia sint hiberna atque aestiua, ceteris autem pecoribus, quae intra uillam esse
conuenit, ex parte tecta loca, ex parte sub diuo parietibus altis circumsaepta, ut illic per hiemem, hic per
aestatem sine uiolentia ferarum conquiescant. sed ampla stabula sic ordinentur, ne quis umor influere possit
et ut, quisque ibi conceptus fuerit, quam celerrime dilabatur, ut nec fundamenta parietum corrumpantur nec
ungulae pecudum. lata bubilia esse oportebit pedes decem uel minime nouem, quae mensura et ad
procumbendum pecori et iugario ad circumeundum laxa ministeria praebeat. non altius edita esse
praesaepia conueniet, quam ut bos aut iumentum sine incommodo status uesci possit. uilico iuxta ianuam
fiat habitatio, ut intrantium exeuntiumque conspectum habeat, procuratori supra ianuam ob easdem causas;
et is tamen uilicum obseruet ex uicino, sitque utrique proximum horreum, quo conferatur omne rusticum
instrumentum, et intra id ipsum clausus locus, quo ferramenta recondantur. bubulcis pastoribusque cellae
ponantur iuxta sua pecora, ut ad eorum curam sit opportunus excursus. omnes tamen quam proxime alter
ab altero debent habitare, ne uilici diuersas partis circumeuntis sedulitas distendatur et ut inter se diligentiae
et neglegentiae cuiusque testes sint. pars autem fructuaria diuiditur in cellam oleariam, torculariam, cellam
uinariam, defrutariam, faenilia paleariaque et apothecas et horrea, ut ex iis, quae sunt in plano, custodiam
recipiant umidarum rerum tamquam uini aut olei uenalium, siccae autem congerantur tabulatis, ut frumenta,
faenum, frondes, paleae ceteraque pabula. sed granaria, ut dixi, scalis adeantur et modicis fenestellis
aquilonibus inspirentur. nam ea caeli positio maxime frigida et minime umida est, quae utraque perennitatem
conditis frumentis adferunt. eadem ratio est in plano sitae uinariae cellae, quae submota procul esse debet a
balineis, furno, stercilino reliquisque inmunditiis taetrum odorem spirantibus nec minus a cisternis aquisue
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salientibus, quibus extrahitur umor, qui uinum corrumpit. neque me praeterit sedem frumentis optimam
quibusdam uideri horreum camara contectum, cuius solum terrenum, prius quam consternatur, perfossum et
amurga recenti non salsa madefactum uelut Signinum opus pilis condensatur. tum deinde cum exaruit, simili
modo pauimenta testacia, quae pro aqua receperint amurgam mixtam calci et harenae, supersternuntur et
magna ui pauiculis inculcantur atque expoliuntur, omnesque parietum et soli iuncturae testaceis puluinis
fibulantur, quoniam fere cum in his partibus aedificia rimas egerunt, caua praebent et latebras subterraneis
animalibus. sed et lacibus distinguntur granaria, ut separatim quaeque legumina ponantur. parietes
oblinuntur amurga subacto luto, quoi pro paleis admixta sunt arida oleastri uel, si ea non sunt, oleae folia.
dein cum praedictum tectorium inaruit, rursus amurga respergitur, qua siccata frumentum infertur. ea res ab
noxia curculionum et similium animalium commodissime uidetur conditas fruges defendere, quae nisi
diligenter repositae sint, celeriter ab iis consumuntur. sed id genus horrei, quod scripsimus, nisi sicca
positione uillae quamuis granum robustissimum corrumpit situ; qui si nullus adsit, possis etiam defossa
frumenta seruare, sicut transmarinis quibusdam prouinciis, ubi puteorum in modum, quos appellant siros,
exhausta humus editos a se fructus recipit. sed nos in nostris regionibus, quae redundant uligine, magis
illam positionem pensilis horrei et hanc curam pauimentorum et parietum probamus, quoniam, ut rettuli, sic
emunita sola et latera horreorum prohibent curculionem. quod genus exitii cum incidit, multi opinantur arceri
posse, si exesae fruges in horreo uentilentur et quasi refrigerentur. id autem falsissimum est; neque enim
hoc facto expelluntur animalia, sed inmiscentur totis aceruis. qui, si maneant inmoti, summis tantum partibus
infestentur, quoniam infra mensuram palmi non nascitur curculio, longeque praestat id solum, quod iam
uitiatum est, quam totum periculo subicere. nam cum exiget usus, facile est eo sublato, quod uitiatum erat,
integro inferiore uti. sed haec, etsi extrinsecus, non tamen intempestiue uideor hoc loco rettulisse. torcularia
praecipue cellaeque oleariae calidae esse debent, quia commodius omnis liquor uapore soluitur ac frigoribus
magnis conficitur, oleum, quod minus prouenit, si congelatur, fracessit. sed ut calore naturali est opus, qui
contingit positione caeli et declinatione, ita non est opus ignibus aut flammis, quoniam fumo et fuligine sapor
olei corrumpitur. propter quod torcular debet a meridiana parte inlustrari, ne necesse habeamus ignes
lucernamque adhibere, cum premetur olea. cortinale, ubi defrutum fiat, nec angustum nec obscurum sit, ut
sine incommodo minister, qui sapam decoquet, uersari possit. fumarium quoque, quo materia, si non sit iam
pridem caesa, festinato siccetur, in parte rusticae uillae fieri potest iunctum rusticis balneis. nam eas quoque
refert esse, in quibus familia, sed tamen feriis, lauetur; neque enim corporis robori conuenit frequens usus
earum. apothecae recte superponentur his locis, unde plerumque fumus exoritur, quoniam uina celerius
uetustescunt, quae fumo quodam genere praecoquem maturitatem trahunt. propter quod et aliud tabulatum
esse debebit, quo amoueantur, ne rursus nimia suffumatione medicata sint.
Quod ad uillae situm partiumque eius dispositionem, satis dictum est. circa uillam deinceps haec esse
oportebit: furnum et pistrinum, quantum futurus numerus colonorum postulauerit, piscinas minime duas,
alteram, quae anseribus pecoribusque seruiat, alteram, in qua lupinum, ulmi uimina et uirgas atque alia,
quae sunt usibus nostris apta, maceremus. stercilina quoque duo sint, unum, quod noua purgamenta recipiat
et in annum conseruet, alterum, ex quo uetera uehantur, sed utrumque more piscinarum deuexum leni cliuo
et exstructum pauimentatumque solo, ne umorem tramittant. plurimum enim refert non adsiccato suco fimum
uires continere et adsiduo macerari liquore, ut, si qua interiecta sint stramentis aut paleis spinarum uel
graminum semina, intereant nec in agrum exportata segetis herbidas reddant, ideoque periti rustici, quicquid
ouilibus stabulisque conuersum progesserunt, superpositis uirgis tegunt nec arescere solis incursu patiuntur
uel exuri. area, si conpetit, ita constituenda est, ut uel a domino uel certe a procuratore despici possit, eaque
optima est silice constrata, quod et celeriter frumenta deteruntur, non cedente solo pulsibus ungularum
tribularumque, et eadem euentilata mundiora sunt lapillisque carent et glaebulis, quas per trituram fere
terrena remittit area. huic autem nubilar adplicari debet maximeque in Italia propter inconstantiam caeli, quo
conlata semitrita frumenta protegantur, si subitaneus imber incesserit. nam in transmarinis quibusdam
regionibus, ubi aestas pluuia caret, superuacuum est. pomaria quoque et hortos oportet saepto circumdari et
esse in propinquo atque in ea parte, qua possit omnis stercorata colluuies chortis balneariorumque et oleis
expressa amurgae sanies influere. nam quoque eius modi laetatur alimentis et holus et arbor.
Il numero e la distribuzione degli edifici deve corrispondere all'insieme della costruzione e va diviso in tre
parti: villa padronale, casa rustica, magazzini per i raccolti.
La villa padronale, a sua volta, sia distinta in appartamento invernale ed estivo in questo modo: le camere da
letto per l'inverno guardino verso il punto in cui il sole sorge in questa stagione, le stanze da pranzo verso il
punto in cui tramonta all'equinozio. Al contrario per l'estate: le camere da letto guardino il punto in cui si trova
il sole a mezzogiorno negli equinozi, e le stanze da pranzo l'oriente invernale. I bagni devono essere volti
all'occidente estivo, perché rimangano illuminati da mezzogiorno fino alla sera. Gli imbulacri si trovino
esposti al mezzogiorno equinoziale, per poter ricevere d'inverno il massimo, d'estate il minimo di sole.
Nella parte rustica si ponga una cucina, tanto vasta e alta, che la travatura non corra pericolo d'incendi e i
servi ci si possano íntrattenere comodamente in ogni tempo dell'anno. Per gli schiavi non legati costruiremo
stanzette salubri se le volgeremo verso il mezzogiorno equinoziale; per gli schiavi incatenati si costruirà un
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ergastolo sotterraneo il piú sano possibile, con molte finestrelle piccole e tanto alte che non si possano
raggiungere con la mano.
Per le bestie si faranno stalle che non siano soggette né al caldo né al freddo eccessivo, per gli animali da
giogo una stalla estiva e una stalla invernale, e er gli altri animali, che è bene tenere dentro la fattori luoghi in
parte coperti, in parte a cielo aperto, ma chiusi con alte palizzate; nei primi staranno d'inverno, negli altri
d'estate, sempre al riparo dagli assalti delle fiere. Ma le stalle, ampie, si costruiscano in modo e in posizione
tale, che non vi defluisca né l'acqua né altro liquido; anzi, i liquidi stessi che vi si producono devono esser
fatti scolare via al piú presto, perché le fondamento delle pareti non si alterino, e non si guastino le unghie
delle bestie. I bovili devono essere larghi dieci o, al minimo, nove piedi; questa è la misura giusta perché il
bestiame possa comodamente coricarsi e il garzone circolare senza fatica. Le mangiatoie non abbiano
altezza maggiore di quella che permetta a un bove o ad un mulo di mangíare in piedi, senza sforzo.
Al massaro si farà una stanza vicina alla porta, perché veda tutti quelli che entrano ed escono.
All'amministratore sopra la porta, per la stessa ragione, e perché tenga d'occhio il massaro. Il magazzino
degli attrezzi deve essere vicino ad ambedue; e in esso ci sia un luogo chiuso per gli arnesi di ferro. Per i
bovari e per i pastori si dispongano stanzette vicino alle stalle delle loro bestie, perché possano andare piú
facilmente a curarle. E nello stesso tempo siano vicini quanto piú possibile l'uno all'altro, sia perché non si
rallenti la sorveglianza del massaro, se deve correre di qua e di là, sia perché in questo modo tutti sono
testimoni della diligenza o della negligenza di ciascuno.
La parte destinata ai prodotti si divide in olearia, stanza del torchio, cantina per il vino crudo e per il vino
cotto, fienili, pagliai, magazzini e granai. Le parti a terreno siano destinate alla conservazione dei prodotti
liquidi, come il vino e l'olio da vendere; i prodotti aridi invece, come il grano, il fieno, i fogliami, la paglia e in
generale i foraggi, si dispongano su palchi o tavolati. I granai, in particolare, siano situati in alto e vi si
acceda con scale; vi siano strette finestrelle da cui penetrino i venti del nord, perché questa direzione del
cielo è la piú fredda e la meno umida e per tutte e due le ragioni garantisce la conservazione del grano. La
stessa esposizione deve avere la cantina, situata a terreno; e deve essere lontanissima dai bagni, dal forno,
dal letamaio e da ogni altro ammassamento di rifiuti, che emanino cattivi odori, e non meno lontana dalle
cisterne e dalle acque scorrenti, perché l'umidità che ne emana danneggia il vino.
So che ad alcuni sembra migliore un'altra forma di granaio, coperto a volta, con il pavimento a piena terra.
Questo pavimento viene preparato cosí: prima di pavimentare si smuove la terra e si imbeve di morchia
fresca non salata, poi si comprime e si indurisce ben bene a colpi di mazzapicchio, come si fa per la
muratura di Segni. Quando si è seccata, vi si distende sopra un impasto di coccio pesto, morchia, invece di
acqua, e sabbia, si batte con forza e si livella con la mazzeranga; si rincalzano le giunture fra le pareti e il
suolo con zoccoli di coccio pesto: quasi sempre infatti le crepe che si possono produrre in queste parti degli
edifici offrono cavità e nascondigli agli animaletti che vivono sotto terra. Quando i granai sono pronti, si
dividono in compartimenti, per conservare separatamente le varie specie di legumi e cereali. Le pareti si
spalmano con un intonaco di argilla e morchia, a cui si uniscono, invece di paglia, foglie secche di oleastro,
o, se non ce n'è, di olivo. Quando il predetto intonaco è secco, si ribagna di morchia, e asciugata questa si
ripone il grano. E' questa una pratica che si dimostra ottima per difendere il grano contro il punteruolo, il
quale lo divora e lo consuma in un batter d'occhio se non è riposto con cura.
Il tipo di granaio ora descritto deve essere costruito nel punto piú asciutto della fattoria, altrimenti fa
ammuffire e manda a male anche il grano piú resistente. Se poi non c'è nessun pericolo di muffe e di
umidità, si può conservare il frumento in fosse, come in alcune province transmarine, dove la terra stessa,
scavata a forma di pozzi - i siri, come li chiamano - custodisce i frutti che ha prodotto.
Ma qui, nelle nostre regioni che abbondano di umidità, ritengo molto piú conveniente il sistema dei granai alti
e aerati di cui ho parlato prima, oppure la costruzione e cura delle pareti e pavimenti or ora indicate. Cosí
preparati, infatti, sono la miglior difesa contro il punteruolo. Molti pensano che quando il grano viene colpito
dal punteruolo si può far cessare il malanno ventilando nel granaio il frumento attaccato, come se si
refrigerasse. E' un sistema sbagliato: in questo modo non si scacciano di sicuro gli animaletti, anzi, si fanno
penetrare fino in fondo ai mucchi; se non si smuovessero, invece, sarebbero infestati solo alla superficie,
perché il punteruolo non può nascere a una profondità maggiore di un palmo. E' molto meglio lasciare che si
perda solo lo strato attaccato, piuttosto che mettere tutto in pericolo. Al momento del bisogno, è facile
togliere lo strato superficiale rovinato e adoperare il grano buono. Non è forse questo il luogo per tali
considerazioni, ma sono sicuro che non sono inutili.
Il frantoio e le celle olearie devono essere calde, perché ogni liquido si dilata facilmente con il calore, ma con
il gran freddo si rapprende; e l'olio in particolare, che cola tanto lentamente, si congela con facilità e poi
irrancidisce. Il calore però deve essere naturale, ottenuto con buona esposizione degli ambienti: fuoco e
fiamme sono dannosi, perché il fumo e la fuliggine rovinano il sapore dell'olio. Il frantoio riceve dunque luce
da mezzogiorno, perché non ci sia bisogno di lucerne quando si frangono le olive.
Il luogo dove stanno le caldaie per il vino cotto non sia né angusto né oscuro, in modo che il servo destinato
alla bollitura del mosto cotto possa muoversi facilmente. Nella parte rustica della fattoria si può fare anche
un essiccatoio, dove la legna che sia stata tagliata da poco tempo si asciughi in fretta, e si può unirlo ai
bagni dei servi. Sono infatti necessari tali bagni, dove gli schiavi possano lavarsi, ma solo nei giorni festivi,
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perché bagni troppo frequenti indeboliscono il corpo. I magazzini dove si ripone il vino a invecchiare sarà
bene farli sopra quei luoghi donde esce il fumo, perché invecchia piú presto quel vino che dal fumo trae una
specie di precoce maturità; ma ci vuole anche un altro tavolato per mettere in disparte gli otri di vino vecchio,
perché a lungo andare l'esposizione al fumo ne altera il sapore.
Quanto ho detto è sufficiente riguardo alla fattoria, alla sua posizione, alla disposizione delle sue parti.
Vediamo ora gli annessi. Ci dovrà essere un forno o un molino, di grandezza proporzionata al numero delle
persone che l'abiteranno; poi due stagni, al minimo, uno per le oche, le anatre e il bestiame in genere e
l'altro per macerarvi lupini, vimini di olmo e di salice, e quant'altro è necessario ai nostri usi. Anche i letamai
devono essere due: uno per portarvi lo spurgo recente della stalla, che vi deve rimanere per un anno; l'altro
da cui si porta via il vecchio. Ma l'uno e l'altro devono avere, come le piscine, il fondo leggermente inclinato,
murato e pavimentato in modo che non lasci perdere il liquido. E' assolutamente necessario che il letame
non perda le sue forze per l'asciugarsi del succo, ma che anzi si maceri continuamente nel suo liquame:
cosí, se vi sono frammezzo allo strame o alla paglia semi di rovo o di erbacce, muoiono e non infestano le
messi, una volta trasportati sui campi. Appunto per questo i bravi contadini tengono coperto con ramaglie
tutto quello che portano fuori da stalle e ovili e non lasciano che si inaridisca sotto la sferza del sole o si
bruci. Se è possibile, bisognerà disporre l'aia in modo che sia sotto gli occhi del padrone o, almeno, del
fattore. L'aia migliore è quella selciata, perché il grano si trebbia piú in fretta se il suolo non cede sotto i colpi
delle unghie o delle trebbie. E quando viene passato al vaglio, resta piú pulito, senza pietruzze e grumoli di
terriccio che l'aia di terra battuta produce sempre durante la trebbiatura. Vicino all'aia bisogna costruire una
tettoia, soprattutto in Italia, dove il cielo è cosí incostante; in essa si porta il grano semitrebbiato per
difenderlo dagli improvvisi scrosci di pioggia. Questa precauzione, naturalmente, è inutile in certe regioni di
là dal mare, dove in estate non piove mai.
I frutteti e gli orti vanno cintati e disposti vicino alla villa, dalla parte dove si raccoglie tutto lo scolo del cortile
e dei bagni e la feccia dell'olio proveniente dal frantoio. Tutte queste cose costituiscono un ottimo concime
per gli ortaggi e gli alberi da frutto.
Trad. di Rosa Calzecchi Onesti, Torino, Einaudi, 1977.
Colum., de re rust., 9, 2,1
Venio nunc ad aluorum curam, de quibus neque diligentius quicquam praecipi potest quam ab Hygino iam
dictum est, nec ornatius quam Vergilio, nec elegantius quam Celso. Hyginus ueterum auctorum placita
secretis dispersa monimentis industrie colligit, Vergilius poeticis floribus inluminauit, Celsus utriusque
memorati adhibuit modum. quare ne adtemptanda quidem nobis fuit haec disputationis materia, nisi quod
consummatio susceptae professionis hanc quoque sui partem desiderabat, ne uniuersitas inchoati operis
nostri, uelut membro aliquo reciso, mutila atque imperfecta conspiceretur.
Vengo ora alla cura degli alveari; argomento di cui, a dire il vero, è impossibile parlare con più diligenza di
Igino o con più arte di Virgilio, o con maggiore eleganza di Celso. Igino ha industriosamente raccolto le
sentenze degli antichi autori disperse in libri ignorati o poco conosciuti; Virgilio ha illuminato questa materia
con tutto il fascino della poesia; Celso ha poi usato i modi dell'uno e dell'altro scrittore.
Col., de re rust., 1,7 I doveri del padrone
De officiis patris familiae
His omnibus ita uel acceptis uel conpositis, praecipua cura domini requiritur cum in ceteris rebus tum
maxime in hominibus. atque hi uel coloni uel serui sunt soluti aut uincti. comiter agat cum colonis facilemque
se praebeat et auarius opus exigat quam pensiones, quoniam et minus id offendit et tamen in uniuersum
magis prodest. nam ubi sedulo colitur ager, plerumque conpendium, numquam, nisi si caeli maior uis aut
praedonis incessit, detrimentum adfert, eoque remissionem colonus petere non audet. sed nec dominus in
unaquaque re, cui colonum obligauerit, tenax esse iuris sui debet, sicut in diebus pe cuniarum uel lignis et
ceteris paruis accessionibus exigendis, quarum cura maiorem molestiam quam inpensam rusticis adfert. nec
sane est uindicandum nobis quicquid licet, nam summum ius antiqui summam putabant crucem. nec rursus
in totum remittendum, quoniam uel optima nomina non appellando fieri mala faenerator Alfius dixisse
uerissime fertur. sed et ipse nostra memoria ueterem consularem uirumque opulentissimum P. Volusium
adseuerantem audiui felicissimum fundum esse, qui colonos indigenas haberet et tamquam in paterna
possessione natos iam inde a cunabulis longa familiaritate retineret. ita certe mea fert opinio rem malam
esse frequentem locationem fundi, peiorem tamen urbanum colonum, qui per familiam mauult agrum quam
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per se colere. Saserna dicebat ab eius modi homine fere pro mercede litem reddi, propter quod operam
dandam esse, ut et rusticos et eosdem adsiduos colonos retineamus, cum aut nobismet ipsis non licuerit aut
per domesticos colere non expedierit; quod tamen non euenit nisi in his regionibus, quae grauitate caeli
solique sterilitate uastantur. ceterum cum mediocris adest et salubritas et terrae bonitas, numquam non ex
agro plus sua cuique cura reddidit quam coloni, numquam non etiam uilici, nisi si maxima uel neglegentia
serui uel rapacitas interuenit. quae utraque peccata plerumque uitio domini uel conmitti uel foueri nihil
dubium est, cum liceat aut cauere, ne talis praeficiatur negotio, aut iam praepositus ut submoueatur curare.
in longinquis tamen fundis, in quos non est facilis excursus patris familiae, cum omne genus agri tolerabilius
sit sub liberis colonis quam sub uilicis seruis habere, tum praecipue frumentarium, quem et minime, sicut
uineas aut arbustum, colonus euertere potest et maxime uexant serui, qui boues elocant eosdemque et
cetera pecora male pascunt nec industrie terram uertunt longeque plus inputant seminis iacti, quam quod
seuerint, sed nec quod terrae mandauerunt sic adiuuant, ut recte proueniat, idque cum in aream contulerunt,
per trituram cotidie minuunt uel fraude uel neglegentia. nam et ipsi diripiunt et ab aliis furibus non custodiunt,
sed nec conditum cum fide rationibus inferunt. ita fit, ut et actor et familia peccent et ager saepius infametur.
quare talis generis praedium, si, ut dixi, domini praesentia cariturum est, censeo locandum.
Quando si possieda una fattoria quale l'ho descritta - poco importa se l'abbiamo per eredità o se ce la siamo
formata da noi - è necessaria un'attenzione tutta speciale nella scelta degli uomini a cui affidarla. Si possono
dare in affitto i campi a coloni liberi o farli lavorare dagli schiavi; e gli schiavi a loro volta possono essere
sciolti o incatenati.
Il padrone deve agire con cordialità e mostrarsi affabile con i coloni liberi. Esiga con molto maggior rigore il
lavoro che l'affitto; questo è meno pesante per loro e molto piú vantaggioso per l'azienda. Un campo
coltivato con diligenza, infatti, dà sempre un buon guadagno, mai perdite, a meno che gli si rovesci addosso
l'inclemenza della stagione o la violenza dei ladri; per conseguenza, l'affittuario non osa chiedere né condoni
di pagamento, né diminuzione del canone. Il padrone, però, non deve stare tenacemente attaccato ai suoi
diritti riguardo a tutte le obbligazioni contrattuali del colono; per esempio, rigida puntualità dei pagamenti,
consegna della legna, ecc. Sono piccolezze, queste, che al contadino portano piú disturbo e noia che vera e
propria spesa. Niente durezza, dunque, e niente pedanteria nell'esigere quello che pure è di pieno diritto; gli
antichi dicevano: «Il massimo del diritto è il massimo della vessazione». Non esageriamo però nemmeno
nell'indulgenza: diceva come raccontano - con gran verità l'usuraio Alfio: « I crediti migliori, se non vengono
sollecitati, diventano perdite! »
lo ho sentito il vecchio ex console Publio Volusio, uomo ricchissimo, chiamare fortunato il fondo in cui
lavorano coloni nati su di esso e che se li tiene avvinti con l'affezione che nasce dalla lunga consuetudine:
chi sta su un fondo fin dalle fasce, infatti, lo consídera un po' come una cosa sua. Per mia esperienza posso
testimoniare che il frequente cambiamento di affittuari è dannoso. Però è anche peggio dare la terra a uno
che abita in città e che la farà quindi coltivare dai suoi schiavi, invece di badarvi personalmente. Saserna
diceva: «Un simile affittuario al posto della rendita produce processi!» Cerchiamo dunque di avere sul fondo
coloni campagnoli, e sempre gli stessi, se sono assidui: questo è utile quando non possiamo dirigere da noi
la nostra azienda agricola e non ci conviene farla lavorare dai nostri schiavi, perché i campi sono situati in
regioni malsane o sterili.
Ma dove c'è salubrità d'aria e fertilità di suolo, le cure dirette del padrone hanno sempre fatto produrre la
terra molto piú di quelle dell'affittuario; qualche volta si è anche dimostrata buona la direzione del massaro,
purché non fosse uno schiavo di incredibile pigrizia o rapacità. Ma ricordiamoci che tali difetti dei servi o
sono causati o sono favoriti dal padrone: sta a lui non mettere le cose in mano a un uomo disonesto o
toglierlo dal posto, se ce l'avesse messo.
Nelle proprietà lontane, dove non è facile che il padrone possa andare, qualunque genere di terreno rende
meglio in mano ai coloni liberi che agli schiavi; questo poi è vero in modo speciale per i terreni coltivati a
grano; qui il colono ha meno da danneggiare che nelle vigne o in genere negli arboreti, mentre i servi li
strazierebbero di piú, sia affittando i buoi ad altra gente, sia nutrendoli male, come del resto tutti gli altri
animali, sia lavorando la terra senza nessuna diligenza. E poi fanno credere di avere gettato molto piú
semente di quella che è davvero caduta nei solchi; non badano che i seminati crescano bene; quando
portano il grano sull'aia lo fanno diminuire ogni giorno, durante la trebbiatura, sia per incuria che per
delinquenza: perché rubano essi stessi e lasciano rubare agli altri. E infine non fanno certo apparire nei conti
quello che hanno realmente riposto nei granai. Cosí succede che, per colpa del massaro e degli altri schiavi,
il campo soffre e perde valore. Perciò consiglio di dare in affitto i terreni da grano, se il padrone non può
sorvegliarli di persona.
Trad. di Rosa Calzecchi Onesti, Torino, Einaudi, 1977.
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von Karl Ahrens
Edizione: 2., berichtigte Aufl , Berlin : Akademie-Verlag, 1976 , Schriften zur Geschichte und Kultur der
Antike
Columella uber Landwirtschaft : ein Lehr- und Handbuch der gesamten Acker- und Viehwirtschaft aus dem
1. Jahrhundert u. Z. / aus dem Lateinischen ubersetzt, eingefuhrt und erlautert von Karl Ahrens
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Uber Landwirtschaft : ein Lehr- und Handbuch der gesamten Acker- und Viehwirtschaft aus dem 1.
Jahrhundert u. Z. / Columella ; aus dem Lateinischen ubersetzt, eingefuhrt von Karl Ahrens
Edizione: 2., berichtigte Aufl , Berlin : Akademie-Verlag, 1976 , Schriften zur Geschichte und Kultur der
Antike
Livre 10. : De l'horticulture / Columella ; texte etabli, traduit et commente par E. De Saint-Denis , Paris : Les
belles lettres, 1969
Fa parte di: De l'agriculture / Columelle
Columella uber Landwirtschaft : ein Lehr- und Handbuch der gesamten Acker- und Viehwirtschaft aus dem
1. Jahrhundert u. Z. / aus dem Lateinischen ubersetzt, eingefuhrt und erlautert von Karl Ahrens
Edizione: Berlin : Akademie Verlag, 1972 , Schriften zur Geschichte und Kultur der Antike
De l'agriculture / Columelle ; texte etabli et commente par E. de Saint Denis , Paris : Les Belles lettres, 1969
Descrizione fisica: 1 v.
Nomi: Columella , Lucius Iunius Moderatus
Saint-Denis, Eugene : de
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10: De l'horticulture / Columelle ; texte etabli, traduit et commentW1B0e par E. de Saint-Denis , Paris : Les
belles lettres, 1969
Descrizione fisica: 82 p. (29-47 doppie) ; 21 cm.
Fa parte di: De l'agriculture / Columelle
TV0165
On agriculture in three volumes / Lucius Iunius Moderatus Columella ; with a recension of text and english
translation by E. S. Forster and Edward H. Heffner
Edizione: [2. ed.] , Cambridge, Mass.
Descrizione fisica: 3 v. , The Loeb classical library
Nomi: Columella , Lucius Iunius Moderatus
3: Res rustica 10.-12. ; De arboribus / Lucius Junius Moderatus Columella ; with a recension of the text and
an english translation by E.S. Forster and Edward H. Heffner , London : Heinemann, Mass.
Fa parte di: On agriculture / Lucius Junius Moderatus Columella
L. Iuni Moderati Columellae De rei rusticae cepuricus de cultu hortorum liber decimus / edizione critica a cura
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1968
Fa parte di: L. Iuni Moderati Columellae opera quae extant / recenserunt Vilelmus Lundstrom, Ake
Josephson, Sten Hedberg
3: L. Iuni Moderati Columellae Rei rusticae libri 3.-5. / recensuit Sten Hedberg , Upsaliae : Alqvist & Wiksell,
1968
Fa parte di: L. Iuni Moderati Columellae opera quae extant / recenserunt Vilelmus Lundstrom, Ake
Josephson, Sten Hedberg
Nomi: Columella , Lucius Iunius Moderatus
Hedberg, Sten
On agriculture in three volumes / Lucius iunius Moderatus Columella ; with a recension of text and english
translation by E. S. Forster, Edward H. Heffner , Cambridge, Mass.
Descrizione fisica: v.
1: Res rustica 1.-4. / Lucius Junius Moderatus Columella ; with a recension of the text and an english
translation by Harrison Boyd Ash , London : W. Heinemann Ltd., Massachusetts
Fa parte di: On agriculture / Lucius Junius Moderatus Columella
12: De l'intendante / Columelle ; texte etabli, traduit et commente par Jacques Andre , Paris : Les belles
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Fa parte di: De l'agriculture / Columelle
Les arbres / Columelle ; texte etabli, traduit et commente par Raoul Goujard , Paris : Les belles lettres, 1986
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Zwolf Bucher uber Landwirtschaft / Lucius Iunius Moderatus Columella . Buch eines Unbekannten uber
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Sebastiano Timpanaro ; in appendice La coltivazione degli orti di L. Giunio Moderato Columella , Firenze :
Vallecchi, [1989] , Le civette
Note Generali: Testo orig. a fronte.
Titolo uniforme: Georgica.
Livre 3. / Columelle ; texte etabli, traduit et commente par Jean Christian Dumont , Paris : Les belles lettres,
1993
Fa parte di: De l'agriculture / Columelle
Nomi: Columella , Lucius Iunius Moderatus
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L. Iuni Moderati Columellae rei rusticae liber decimus : carmen de cultu hortorum / a cura di Francesca
Boldrer , Pisa : ETS, [1996] , Testi e studi di cultura classica
Note Generali: Trad. italiana a fronte.
Livre 9. / Columelle ; texte W1B0etabli, traduit et commentW1B0e par Jean Christian Dumont , Paris : Les
belles lettres, 2001 , Collection des universites de France. Ser.latine
Fa parte di: De l'agriculture / Columelle
Nomi: Columella , Lucius Iunius Moderatus
Dumont, Jean Christian
TV0114 - Biblioteca comunale - Treviso - TV
Livre 9. / Columelle ; texte etabli, traduit et commente par Jean-Christian Dumont
Edizione: 2. tirage , Paris : Les belles lettres, 2002 , Collection des universites de France. Ser.latine
Numeri: ISBN - 225101425X
"Columella¸ Lucio Giunio Moderato - Castaldi",
L. Giunio Moderato Columella
(sec I d.C.)
Nato a Cadice, fu tribuno militare in Siria e poi visse in Italia, dove possedeva alcune terre. Di lui ci è giunto il
più completo trattato di agricoltura nellā€™antichità, il "De rustica", in 12 libri, che descrive il lavoro agricolo e
lā€™allevamento, e affronta il problema della decadenza dellā€™agricoltura in Italia (dovuta, secondo C., al
disinteresse dei proprietari, allā€™inadeguato sfruttamento dei vastissimi latifondi, alla mancanza di una seria
preparazione scientifica in materia): a soluzione del problema, C. sembra affacciare lā€™ideale di una cultura
enciclopedica, che faccia perno sulla filosofia.
Il X libro (lā€™unico in versi), sul giardinaggio, raccoglie un invito a trattarne, contenuto nelle "Georgiche". Resta
anche un libro sulle piante, "De arboribus", parte di unā€™opera più vasta. C. scrive in una prosa limpida e
scorrevole, e anche i suoi versi sono discreti; le fonti sono quelle consuete del genere, ma predominante è
lā€™esperienza personale dellā€™autore.
"Columella¸ Lucio Giunio Moderato - Corso"
Lucius Iunius Moderatus Columella.
Nativo di Cadice, in Spagna, Columella visse nel I secolo dopo Cristo.
Una sua opera, Adversus astrologos, è andata perduta. Ci rimane invece parte della prima redazione del De
re rustica, un trattato di agricoltura originariamente in 4 libri,e la versione integrale di una seconda redazione,
in 12 libri: l'autore descrive la coltivazione dei campi, le tecniche per la cura degli alberi e della vite,
l'allevamento degli animali, i doveri di proprietari di fondi e fattori.
Nell'opera risulta evidente la notevole esperienza in materia dell'autore, che fu possidente di estesi fondi
nell'Italia centrale, ma anche l'utilizzo di numerose fonti letterarie greche e latine, tra cui Senofonte, Catone,
Celso, Igino, Varrone e Virgilio.
Secondo la politica agraria del tempo e in linea con una tradizione letteraria antica, Columella sostiene la
necessità d'un grande ritorno alla terra dopo molti decenni di guerre civili e di conseguente abbandono delle
campagne.
Il decimo libro, tramandato con il titolo di De cultu hortorum, è composto in esametri e sembra idealmente
rispondere al desiderio espresso da Virgilio nelle Giorgiche, che altri cioè si occupasse del lavoro nei
giardini: la scelta della poesia e lo stile confermano la volontà di richiamarsi al poeta mantovano e di
proseguirne l'impegno didascalico.
"Columella¸ Lucio Giunio Moderato - Encarta"
Columella, Lucio Giunio Moderato (I secolo d.C.), scrittore latino nato a Cadice, in Spagna, probabilmente in
una famiglia dell'aristocrazia provinciale. Tribuno di una legione stanziata in Siria, si stabilì successivamente
a Roma o nelle vicinanze, dove si dedicò all'agricoltura. La sua opera, il trattato De re rustica
(Dell'agricoltura), affronta appunto questo argomento, di cui già si erano occupati nella tradizione latina
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personaggi illustri quali Catone e Varrone, e mette in evidenza la situazione di decadenza dell'agricoltura in
Italia. Il trattato ebbe due redazioni: della prima ci rimane solo il libro De arboribus (Degli alberi), mentre
possediamo tutti i dodici libri della seconda, in cui l'autore descrive dettagliatamente la coltivazione dei
campi, gli alberi, la vite, l'allevamento degli animali grandi e piccoli, i doveri dei proprietari. Il decimo libro,
sulla coltivazione degli orti e dei giardini, accoglie la sollecitazione a trattare l'argomento fatta da Virgilio nel
IV libro delle Georgiche ed è scritto in esametri.
"Columella¸ Lucio Giunio Moderato - Treccani"
Columella Lucio Giunio Moderato. Scrittore latino nato a Cadice, vissuto nel I sec. d.C. Possiamo ricavare
notizie della sua vita da una iscrizione e dalle sue stesse opere. Militò in Siria e dopo si stabilì in Italia, dove
possedeva vaste tenute nel Lazio c in Etruria. Poco sappiamo della sua prima opera Adversus astrologos,
andata perduta. Scrisse poi un trattato, De re rustica, in 4 libri, di cui rimane soltanto quello sugli alberi.
Uguale titolo ebbe una seconda redazione di tale opera, originariamente in 10 libri di cui l'ultimo, in esametri
formalmente pregevoli, tratta degli orti. Riprendendo un motivo sostenuto dalla politica agraria del tempo e
già entrato nella letteratura, C. sostiene enfaticamente la necessità d'un grande ritorno alla terra, in quanto le
cause della crisi agricola sono da vedersi nell'abbandono dei campi ai peggiori servi, mentre i Romani del
tempo antico se ne occupavano personalmente.
Columella - Riposati
Spagnolo, come Pomponio Mèla, è L . G i u n i o M o d e r a t o C o l u m e I I a, contemporaneo di Seneca.
Possidente ds estesi fondi nell'ltalia centrale, fu anche un teorico dell'agricoltura, alla quale dedicò un trattato
De re rustica, originariamente in quattro libri, che in una seconda edizione divennero dodics, quelli che oggi
noi possediamo; della prima edizione sopravnsse solo il libro De arboribus, rifuso però ed ampliato in tre libri
(III-V). In questopera Columella mise a profitto le sue ampie esperienze personali, cheaveva accumulate
anche in terra straniera, in Siria, dove era stato tribuno militare. Le fonti letterarie-greche e latine: Senofonte,
Catone, Varrone, Igino, Glso, Virgilio-gli apprestarono la materia precettistica, che costituisce l'ornamento
della sua cultura, e la tecnica metodologica della trattazione, che ripete, in parte, glx schemi tradizionali: vi si
parla infatti delle qualità del fondo rustico (e suo personale), della coltivazione dei campi delle viti e degli
alberi fruttiferi, dell'allevamento degli animali grossi, plccoli e da cortile, delle api, del mantenimento dei
giardini dei doveri del fattore e della fattoressa. La nota particolare è quella data del decimo libro, De cultu
hortorum, composto in esametri, di fattura virgiliana, perché Columella volle raccogliere l'invito fatto da
Virgilio nelle Georgiche (4, 148), che lasciava ad altri il compito di descrivere i giardini; la stessa materia è
poi ripresa in prosa nell'undicesimo libro.
Una viva passione per la campagna anima tutta la trattazione; un fervore quasi religioso, che ci fa ripensare
a Virgilio, sostiene la sua precettistica agreste, nella quale si awerte un'aderenza spirituale al di sopra di ogni
tecnicismo di dottrina. Columella crede nella bontà della campagna come fonte di moralità, di benessere e di
felicità; lamenta i danni dell'urbanesimo, loda la vita dei campi, si fa maestro di sapienza antica alla
degenere società del tempo; piú tardi, nel IV secolo, I'ultimo scrittore di res rusticae, Pallàdio, raccoglierà la
voce e l'insegnamento di Columella, per tramandarlo ai posteri.
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Plinio il Vecchio
Cenni biografici
Gaio Plinio Cecilio Secondo nacque a Como nel 23 o, al più tardi, nel 24 d.C.. La famiglia, di rango
equestre, era benestante; regolare la carriera del giovane nella militia equestris, con una lunga
presenza in Germania dal 46 al 58; in Germania Plinio conobbe il tragediografo Pomponio
Secondo e il futuro imperatore Tito.
Sotto Nerone non ricoprì alcuna carica pubblica e assolse verosimilmente incarichi oratori e
forensi. La pratica in tal senso sviluppata potrebbe essere stata riflessa in una delle opere perdute
di P., i sei libri dello Studiosus, un manuale di retorica e declamazione.
Interessi correlati a questi sono documentati dai frammenti del Dubius sermo, originariamente in
otto libri; P. si occupa in questo caso di oscillazioni e incertezze nell'uso linguistico. Sia l'una che
l'altra opera potrebbero aver tenuto lontano prudentemente Plinio dalla scena politica durante il
regno neroniano.
Tra il 70 e il 75 Plinio occupò al contrario molti incarichi pubblici prestigiosi, tra cui uno in Spagna
Tarragonese e l'altro in Gallia Belgica, fino a quello di comandante della flotta di Miseno.
Sono questi gli anni in cui vengono composte le altre due opere per cui Plinio ottenne più
successo, la storia romana a fine Aufidii Bassi e la Naturalis historia.
Opere
Un elenco completo, in ordine cronologico, delle opere di Plinio il Vecchio ci è stato tramandato da
suo nipote Plinio il Giovane in una lettera a Tacito. Ecco i titoli:
De iaculatione equestri, un libro sulle tecniche di lancio del giavellotto da cavallo;
De vita Pomponii Secundi libri II: è una biografia di Pomponio Secondo, poeta tragico vissuto sotto
Tiberio;
Dubii sermonis libri VIII, un trattato di problemi grammaticali;
Bellorum Germaniae libri XX, storia delle campagne in Germania;
A fine Aufidii Bassi: è un'opera di caratttere politico diretta ad esaltare i Flavi; la narrazione copriva,
in 31 libri, gli eventi del ventennio che precede l'avvento dei Flavi. Il frammento che raccoglie
riferimenti alla data più antica è relativo al 55 d.C. Nel prologo della Naturalis historia P. dichiara
che non pubblicherà che postuma quest'opera per non essere accusato di servilismo nei confronti
dei Flavi.
Naturalis historia (Storia naturale), un' enciclopedia in 37 libri dedicata all'imperatore Tito e
pubblicata nel 79 da P. il Giovane con l'aggiunta di un elenco delle fonti e un sommario generale.
L'opera è così suddivisa: I indice dell'opera; Il descrizione dell'universo; III-VI geografia e
etnografia; VII antropologia e fisiologia; VIII-XI zoologia; XII-XIX botanica; XXXVII botanica medica;
XXVIII-XXXII zoologia medica; XXXIII-XXXVII mineralogia.
L'opera venne presentata a Tito intorno agli anni 77-78.
I Bella Germaniae coprivano quasi sicuramente il periodo che andava dalle guerre contro i Cimbri
fino alle campagne del 47 d.C.. Fu sicuramente utilizzata da molti storici tra cui Tacito.
Dello Studiosus restano pochi frammenti: il titolo e quanto ce ne resta farebbe pensare a un taglio
pedagogico e propedeutico in non pochi punti vicino a quello seguito più tardi dalla Institutio di
Quintiliano.
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La Naturalis historia è ispiratrice di opere di medicina tarde che utilizzano Plinio si presentano più o
meno esplicitamente e talvolta si attribuiscono arbitrariamente a Plinio. Plinio è la fonte principale
per il Liber medicinalis di Sereno Sammonico, ma anche per la Medicina Plinii , la Physica Plinii
(Vedi sub voce), lā€™ Herbarius dello ps. Apuleio .
Osservazioni
Testi e testimonianze
Hier., chr., ol.222
Plinius Secundus Novocomensis orator et [e [0608B] Quod additur et historicus, Scaliger et post eum critici
plerique omnes culpae vertunt auctori nostro, a quo fuisse aiunt perperam majorem Plinium Veronensem,
cum juniore altero Novocomensi confusum: quod quidem eo inferunt probabilius, quod hujus epistolas
nondum legisse Hieronymum volunt, sed [0609A] descripsisse incuriosius quae antea simili errore deceptus
Sammonicus Serenus obtruderat, ut apud Macrobium Saturnal. lib. II c. 12 videre est. Accedit quod
Plinianae Vitae auctor, Suetonius quidem vulgo creditus, sed falso, et ut Scaliger sentit, Hieronymo
posterior, ab eo videatur accepisse: indeque alii deinceps priorum auctoritate decepti in eumdem errorem
impegerint. Ego alios missos facio: Nostrum quod spectat, nullam aio fuisse ejus hallucinationem:
Scaligerum autem, quem facile ipse ejus occasione verbi admisisset, errorem in Hieronymo comminisci.
Enim vero et junior Plinius historicus jure appellari potuit, qui historiam a se adornatam multis argumentis
indicat, et cum lib. V, epist. 8, flagrare se historiae conscribendae studio testatur, et lib. VIII, epist. 4, Caninio
praecepta dat, quibus belli Dacici historiam conscribat, denique cum ejusdem lib. epist. 3, 13, et 15, et seq.
IX, 13, 18, 20, plurium meminit id genus libellorum, quos ipse condiderat. Adeo nec temere in elogio, quod
cernitur Comi [0609B] sub ejus statua, historici laude donatus est. Attamen Hieronymianum hocce
testimonium in causa fuisse video, cur sequiores critici de majore Plinio acciperent, qui hac fere historici
appellatione a juniore distinguitur. Quare in vetustioribus editis libris, et pridem apud Pontacum in fine
periochae ab sciolo glossatore subjuncta sunt verba, periit dum invisit Vesuvium: quae tamen neque in
Miraei, neque in Scaligeri editione habentur, neque in Parmensi, aut ullo ex quatuor Palatinis mss. atque
aliis, quos nos consuluimus, aut alii laudant. Quamobrem et exsulare hinc penitus jussimus. Pontacus
suppleri ita voluisset, Nepos illius, qui periit, etc.] historicus insignis habetur, cujus plurima ingenii opera
exstant.
Plin.iun., ep., 3,5. La giornata di Plinio
C. PLINIVS BAEBIO MACRO SVO S.
Pergratum est mihi quod tam diligenter libros auunculi mei lectitas, ut habere omnes uelis quaerasque qui
sint omnes. Fungar indicis partibus, atque etiam quo sint ordine scripti notum tibi faciam; est enim haec
quoque studiosis non iniucunda cognitio. 'De iaculatione equestri unus'; hunc cum praefectus alae militaret,
pari ingenio curaque composuit. 'De uita Pomponi Secundi duo'; a quo singulariter amatus hoc memoriae
amici quasi debitum munus exsoluit. 'Bellorum Germaniae uiginti'; quibus omnia quae cum Germanis
gessimus bella collegit. Incohauit cum in Germania militaret, somnio monitus: adstitit ei quiescenti Drusi
Neronis effigies, qui Germaniae latissime uictor ibi periit, commendabat memoriam suam orabatque ut se ab
iniuria obliuionis adsereret. 'Studiosi tres', in sex uolumina propter amplitudinem diuisi, quibus oratorem ab
incunabulis instituit et perficit. 'Dubii sermonis octo': scripsit sub Nerone nouissimis annis, cum omne
studiorum genus paulo liberius et erectius periculosum seruitus fecisset. 'A fine Aufidi Bassi triginta unus.'
'Naturae historiarum triginta septem', opus diffusum eruditum, nec minus uarium quam ipsa natura.
Miraris quod tot uolumina multaque in his tam scrupulosa homo occupatus absoluerit? Magis miraberis si
scieris illum aliquamdiu causas actitasse, decessisse anno sexto et quinquagensimo, medium tempus
distentum impeditumque qua officiis maximis qua amicitia principum egisse. Sed erat acre ingenium,
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F. D'ALESSI - Letteratura latina - Parte III,1 - Il periodo imperiale - L'età dei Claudi
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incredibile studium, summa uigilantia. Lucubrare Vulcanalibus incipiebat non auspicandi causa sed studendi
statim a nocte multa, hieme uero ab hora septima uel cum tardissime octaua, saepe sexta. Erat sane somni
paratissimi, non numquam etiam inter ipsa studia instantis et deserentis. Ante lucem ibat ad Vespasianum
imperatorem nam ille quoque noctibus utebatur, inde ad delegatum sibi officium. Reuersus domum quod
reliquum temporis studiis reddebat. Post cibum saepe quem interdiu leuem et facilem ueterum more
sumebat aestate si quid otii iacebat in sole, liber legebatur, adnotabat excerpebatque. Nihil enim legit quod
non excerperet; dicere etiam solebat nullum esse librum tam malum ut non aliqua parte prodesset. Post
solem plerumque frigida lauabatur, deinde gustabat dormiebatque minimum; mox quasi alio die studebat in
cenae tempus. Super hanc liber legebatur adnotabatur, et quidem cursim. Memini quendam ex amicis, cum
lector quaedam perperam pronuntiasset, reuocasse et repeti coegisse; huic auunculum meum dixisse:
'Intellexeras nempe?' Cum ille adnuisset, 'Cur ergo reuocabas? decem amplius uersus hac tua
interpellatione perdidimus.' Tanta erat parsimonia temporis. Surgebat aestate a cena luce, hieme intra
primam noctis et tamquam aliqua lege cogente.
Haec inter medios labores urbisque fremitum. In secessu solum balinei tempus studiis eximebatur cum dico
balinei, de interioribus loquor; nam dum destringitur tergiturque, audiebat aliquid aut dictabat. In itinere quasi
solutus ceteris curis, huic uni uacabat: ad latus notarius cum libro et pugillaribus, cuius manus hieme manicis
muniebantur, ut ne caeli quidem asperitas ullum studii tempus eriperet; qua ex causa Romae quoque sella
uehebatur. Repeto me correptum ab eo, cur ambularem: 'poteras' inquit 'has horas non perdere'; nam perire
omne tempus arbitrabatur, quod studiis non impenderetur. Hac intentione tot ista uolumina peregit
electorumque commentarios centum sexaginta mihi reliquit, opisthographos quidem et minutissimis scriptos;
qua ratione multiplicatur hic numerus. Referebat ipse potuisse se, cum procuraret in Hispania, uendere hos
commentarios Larcio Licino quadringentis milibus nummum; et tunc aliquanto pauciores erant. Nonne
uidetur tibi recordanti, quantum legerit quantum scripserit, nec in officiis ullis nec in amicitia principis fuisse;
rursus cum audis quid studiis laboris impenderit, nec scripsisse satis nec legisse? Quid est enim quod non
aut illae occupationes impedire aut haec instantia non possit efficere? Itaque soleo ridere cum me quidam
studiosum uocant, qui si comparer illi sum desidiosissimus. Ego autem tantum, quem partim publica partim
amicorum officia distringunt? quis ex istis, qui tota uita litteris adsident, collatus illi non quasi somno et
inertiae deditus erubescat? Extendi epistulam cum hoc solum quod requirebas scribere destinassem, quos
libros reliquisset; confido tamen haec quoque tibi non minus grata quam ipsos libros futura, quae te non
tantum ad legendos eos uerum etiam ad simile aliquid elaborandum possunt aemulationis stimulis excitare.
Vale.
Caro [Bebio] Macro,
godo assai, che tu legga con tanta passione gli scritti di mio zio, sì da desiderare di possederli tutti
e da chiedermene l'elenco completo. Voglio far le veci di un catalogo e renderti noto anche in
quale ordine siano stati composti; è infatti questa una nozione non sgradita a un uomo di studio.
Del lanciare a cavallo, libri uno; esso fu composto con perizia pari alla diligenza quando era
prefetto di un'ala di cavalleria. Della vita di Pomponio Secondo, libri due: essendo stato assai
amato da costui volle rendere questa specie di tributo alla memoria dell'amico. Delle guerre di
Germania, libri venti, nei quali raccolse le vicende di tutte le guerre da noi sostenute contro i
Germani. Cominciò quest'opera quando era militare in Germania, indotto da un sogno: apparve a
lui mentre dormiva l'immagine di Druso Nerone, che dopo aver domata quasi tutta la Germania vi
morì; gli raccomandava la propria memoria e lo pregava di trarlo da una ingiusta dimenticanza. Dei
letterati, libri tre, suddivisi in sei tomi a cagione della ampiezza, nei quali istruisce e perfeziona
l'oratore fin dai suoi primi inizi. Dei dubbi di lingua, libri otto: li scrisse verso la fine del regno di
Nerone quando la tirannia rendeva pericoloso ogni genere di scritti più indipendenti e importanti.
Continuazione della storia di Aufidio Basso, libri trentuno. La storia naturale, libri trentasette, opera
vastissima, erudita e non meno varia della natura stessa.
Ti meraviglierai che un tal numero di opere e che richiedono tanta scrupolosità, siano state
compiute da un uomo così occupato; ma ti meraviglierai ancor più venendo a sapere che egli per
un certo tempo esercitò l'avvocatura, mancò a cinquantasei anni e nel periodo intermedio fu
occupato e assorbito vuoi dai più importanti incarichi, vuoi dai suoi rapporti con gli imperatori. Ma
era di intelligenza vigorosa, di incredibile applicazione, di grande resistenza alla veglia.
Cominciava a lavorar vegliando alle feste di Vulcano, non per prendere gli auspici, ma per
studiare, a partire da notte fonda, d'inverno dalla settima ora o, al più tardi, dall'ottava, sovente
dalla sesta. Era del resto prontissimo a prender sonno, sovente riuscendo a lasciarlo o riprenderlo
durante il proprio lavoro. Prima dell'alba si recava dall'imperatore Vespasiano (poiché anche questi
profittava della notte), poi all'ufficio che gli era stato affidato. Rientrato a casa, il tempo che gli
restava dedicava di nuovo allo studio. Sovente d'estate, dopo il pasto, che consumava durante il
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giorno, leggero e semplice all'uso antico, si sdraiava al sole, se ne aveva il tempo, si faceva
leggere un libro, prendeva delle note e degli estratti. Nulla egli leggeva, da cui non traesse estratti:
soleva infatti dire che non vi era libro tanto da poco, che non riuscisse in qualche parte utile. Dopo
esser stato al sole si lavava quasi sempre con acqua fredda; poi si rifocillava e faceva un
sonnellino; dopo, quasi fosse cominciato un nuovo giorno, studiava fino all'ora di cena. Durante
questa gli leggevano un libro, si prendevano note, il tutto rapidamente. Mi ricordo che uno dei suoi
amici, avendo il lettore commesso un errore, l'aveva fermato e invitato a ripetere; ma mio zio gli
disse: «Avevi ben compreso?» e poiché quegli assentiva, soggiunse: «E perché allora l'hai
interrotto? abbiamo perso più di dieci righe per questa tua interruzione». Tale era in lui il desiderio
di economizzare il tempo. Si alzava da tavola d'estate mentre era ancor giorno, d'inverno alla
prima ora della notte e come se una legge glielo imponesse.
Questo era il suo genere di vita in mezzo alle occupazioni e il fracasso della città. In campagna
solo il momento del bagno era sottratto allo studio: quando dico bagno intendo la fase più intima;
giacché mentre lo frizionavano e lo asciugavano ascoltava una lettura o dettava. In viaggio, come
liberato da ogni altra cura, si dedicava soltanto al lavoro: gli stava a lato un segretario con un libro
e delle tavolette, e d'inverno difendeva le mani con lunghe maniche, in modo che l'inclemenza
della stagione non rubasse qualche ora allo studio; per questa ragione anche a Roma non
viaggiava che in lettiga. Mi ricordo di essere stato ripreso da lui perché andavo a piedi: «Potresti»
mi disse «non perdere queste ore», giacché egli considerava perduto ogni istante che non fosse
dedicato allo studio.
Questa è l'applicazione che gli ha permesso di condurre a termine un così gran numero di opere e
di lasciarmi centosessanta raccolte di citazioni, scritte su ambo i lati e con minutissima scrittura:
circostanza che ne aumenta il numero. Egli riferiva che avrebbe potuto, mentre era procuratore in
Spagna, vendere quella raccolta a Larcio Licino per quattrocentomila sesterzi, ed era allora meno
cospicua.
Non ti pare forse, pensando a quanto abbia letto, quanto scritto, che egli non abbia potuto né
ricoprire carica alcuna, né essere l'amico dell'Imperatore e, al contrario, udendo come egli si sia
interamente votato agli studi, non ti sembra strano che non abbia scritto e letto ancor di più?
Perché che cosa non avrebbero potuto impedire quelle occupazioni o che cosa non poteva
realizzare una simile applicazione? Voglio perciò ridere quando qualcuno considera un lavoratore
me, che, paragonato a lui, sono pigrissimo. Soltanto io che divido il mio tempo fra gli incarichi
pubblici e quelli degli amici? Chi di coloro che hanno dedicato tutta la propria vita agli studi,
paragonato a lui non arrossirebbe, quasi ritenendosi votato al sonno e all'inerzia?
La lettera si è allungata, benché avessi deciso di scriverti solo ciò che chiedevi, quali libri cioè egli
avesse lasciato; confido tuttavia che queste notizie non ti siano meno gradite degli stessi libri,
poiché ti possono non solo incitare a leggere quelli, ma anche, con l'impulso dell'emulazione, a
produrre qualcosa di somigliante. Addio.
Traduzione di L. Rusca, Milano, Rizzoli, 1994, 20003.
Plin.iun., ep., 6,16. La morte di Plinio
C. PLINIVS TACITO SVO S.
Petis ut tibi auunculi mei exitum scribam, quo uerius tradere posteris possis. Gratias ago; nam uideo morti
eius si celebretur a te immortalem gloriam esse propositam. Quamuis enim pulcherrimarum clade terrarum,
ut populi ut urbes memorabili casu, quasi semper uicturus occiderit, quamuis ipse plurima opera et mansura
condiderit, multum tamen perpetuitati eius scriptorum tuorum aeternitas addet. Equidem beatos puto, quibus
deorum munere datum est aut facere scribenda aut scribere legenda, beatissimos uero quibus utrumque.
Horum in numero auunculus meus et suis libris et tuis erit. Quo libentius suscipio, deposco etiam quod
iniungis.
Erat Miseni classemque imperio praesens regebat. Nonum kal. Septembres hora fere septima mater mea
indicat ei adparere nubem inusitata et magnitudine et specie. Vsus ille sole, mox frigida, gustauerat iacens
studebatque; poscit soleas, ascendit locum ex quo maxime miraculum illud conspici poterat. Nubesā€“
incertum procul intuentibus ex quo monte Vesuuium fuisse postea cognitum estā€“oriebatur, cuius
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similitudinem et formam non alia magis arbor quam pinus expresserit. Nam longissimo uelut trunco elata in
altum quibusdam ramis diffundebatur, credo quia recenti spiritu euecta, dein senescente eo destituta aut
etiam pondere suo uicta in latitudinem uanescebat, candida interdum, interdum sordida et maculosa prout
terram cineremue sustulerat. Magnum propiusque noscendum ut eruditissimo uiro uisum. Iubet liburnicam
aptari; mihi si uenire una uellem facit copiam; respondi studere me malle, et forte ipse quod scriberem
dederat. Egrediebatur domo; accipit codicillos Rectinae Tasci imminenti periculo exterritae nam uilla eius
subiacebat, nec ulla nisi nauibus fuga: ut se tanto discrimini eriperet orabat. Vertit ille consilium et quod
studioso animo incohauerat obit maximo. Deducit quadriremes, ascendit ipse non Rectinae modo sed multis
erat enim frequens amoenitas orae laturus auxilium. Properat illuc unde alii fugiunt, rectumque cursum recta
gubernacula in periculum tenet adeo solutus metu, ut omnes illius mali motus omnes figuras ut deprenderat
oculis dictaret enotaretque.
Iam nauibus cinis incidebat, quo propius accederent, calidior et densior; iam pumices etiam nigrique et
ambusti et fracti igne lapides; iam uadum subitum ruinaque montis litora obstantia. Cunctatus paulum an
retro flecteret, mox gubernatori ut ita faceret monenti 'Fortes' inquit 'fortuna iuuat: Pomponianum pete.'
Stabiis erat diremptus sinu medio nam sensim circumactis curuatisque litoribus mare infunditur; ibi
quamquam nondum periculo adpropinquante, conspicuo tamen et cum cresceret proximo, sarcinas
contulerat in naues, certus fugae si contrarius uentus resedisset. Quo tunc auunculus meus secundissimo
inuectus, complectitur trepidantem consolatur hortatur, utque timorem eius sua securitate leniret, deferri in
balineum iubet; lotus accubat cenat, aut hilaris aut quod aeque magnum similis hilari. Interim e Vesuuio
monte pluribus locis latissimae flammae altaque incendia relucebant, quorum fulgor et claritas tenebris
noctis excitabatur. Ille agrestium trepidatione ignes relictos desertasque uillas per solitudinem ardere in
remedium formidinis dictitabat. Tum se quieti dedit et quieuit uerissimo quidem somno; nam meatus animae,
qui illi propter amplitudinem corporis grauior et sonantior erat, ab iis qui limini obuersabantur audiebatur. Sed
area ex qua diaeta adibatur ita iam cinere mixtisque pumicibus oppleta surrexerat, ut si longior in cubiculo
mora, exitus negaretur. Excitatus procedit, seque Pomponiano ceterisque qui peruigilauerant reddit. In
commune consultant, intra tecta subsistant an in aperto uagentur. Nam crebris uastisque tremoribus tecta
nutabant, et quasi emota sedibus suis nunc huc nunc illuc abire aut referri uidebantur. Sub dio rursus
quamquam leuium exesorumque pumicum casus metuebatur, quod tamen periculorum collatio elegit; et
apud illum quidem ratio rationem, apud alios timorem timor uicit. Ceruicalia capitibus imposita linteis
constringunt; id munimentum aduersus incidentia fuit. Iam dies alibi, illic nox omnibus noctibus nigrior
densiorque; quam tamen faces multae uariaque lumina soluebant. Placuit egredi in litus, et ex proximo
adspicere, ecquid iam mare admitteret; quod adhuc uastum et aduersum permanebat. Ibi super abiectum
linteum recubans semel atque iterum frigidam aquam poposcit hausitque. Deinde flammae flammarumque
praenuntius odor sulpuris alios in fugam uertunt, excitant illum. Innitens seruolis duobus adsurrexit et statim
concidit, ut ego colligo, crassiore caligine spiritu obstructo, clausoque stomacho qui illi natura inualidus et
angustus et frequenter aestuans erat. Vbi dies redditus is ab eo quem nouissime uiderat tertius, corpus
inuentum integrum inlaesum opertumque ut fuerat indutus: habitus corporis quiescenti quam defuncto
similior.
Interim Miseni ego et materā€“sed nihil ad historiam, nec tu aliud quam de exitu eius scire uoluisti. Finem ergo
faciam. Vnum adiciam, omnia me quibus interfueram quaeque statim, cum maxime uera memorantur,
audieram, persecutum. Tu potissima excerpes; aliud est enim epistulam aliud historiam, aliud amico aliud
omnibus scribere. Vale.
Caro Tacito,
mi chiedi di narrarti la fine di mio zio, per poterla tramandare ai posteri con maggior esattezza. E te
ne sono grato: giacché prevedo che la sua fine, se narrata da te, è destinata a gloria non peritura.
Benché infatti egli sia perito in mezzo alla devastazione di bellissime contrade, assieme a intere
popolazioni e città, in una memorabile circostanza, quasi per sopravvivere sempre nella memoria,
e benché egli stesso abbia composto molte e durevoli opere, tuttavia alla durata della sua fama
molto aggiungerà l'immortalità dei tuoi scritti. Ben io stimo fortunati coloro ai quali per dono divino è
dato o di fare cose degne di essere narrate o di scriverne degne di essere lette; fortunatissimi poi
coloro ai quali è concesso l'uno e l'altro. Fra costoro sarà mio zio in grazia delle sue opere e delle
tue. Perciò tanto più volentieri imprendo a compiere ciò che desideri, anzi lo chiedo come un
favore.
Egli era a Miseno e comandava la flotta in persona. Il nono giorno prima delle calende di
settembre, verso l'ora settima, mia madre lo avverte che si scorge una nube insolita per vastità e
per aspetto. Egli, dopo aver preso un bagno di sole e poi d'acqua fredda, aveva fatto uno spuntino
giacendo e stava studiando; chiese le calzature, salì a un luogo dal quale si poteva veder bene
quel fenomeno. Una nube si formava (a coloro che la guardavano così da lontano non appariva
bene da quale monte avesse origine, si seppe poi dal Vesuvio), il cui aspetto e la cui forma nessun
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F. D'ALESSI - Letteratura latina - Parte III,1 - Il periodo imperiale - L'età dei Claudi
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albero avrebbe meglio espressi di un pino. Giacché, protesasi verso l'alto come un altissimo
tronco, si allargava poi a guisa di rami; perché, ritengo, sollevata dapprima sul nascere da una
corrente d'aria e poi abbandonata a se stessa per il cessare di quella o cedendo al proprio peso, si
allargava pigramente. A tratti bianca, a tratti sporca e chiazzata, a cagione del terriccio o della
cenere che trasportava.
Da persona erudita qual era, gli parve che quel fenomeno dovesse essere osservato meglio e più
da vicino. Ordina che si prepari un battello liburnico: mi permette, se lo voglio, di andar con lui; gli
rispondo che preferisco rimanere a studiare, anzi per avventura lui stesso mi aveva assegnato un
compito. Stava uscendo di casa quando riceve un biglietto di Rettina, moglie di Casco, spaventata
dal pericolo che la minacciava (giacché la sua villa era ai piedi del monte e non vi era altro scampo
che per nave): supplicava di essere strappata da una così terribile situazione. Lo zio cambiò i
propri piani e ciò che aveva intrapreso per amor di scienza, condusse a termine per spirito di
dovere. Mette in mare le quadriremi e si imbarca lui stesso per recar aiuto non solo a Rettina, ma a
molti altri, giacché per l'amenità del lido la zona era molto abitata. Si affretta là donde gli altri
fuggono, va diritto, rivolto il timone verso il luogo del pericolo, così privo di paura, da dettare e
descrivere ogni fenomeno di quel terrìbile flagello, ogni aspetto, come si presenta ai suoi occhi.
Già la cenere cadeva sulle navi, tanto più calda e densa quanto più si approssimava; già della
pomice e anche dei ciotoli anneriti, cotti e frantumati dal fuoco; poi ecco un inatteso bassofondo e
la spiaggia ostruita da massi proiettati dal monte. Esita un momento, se doveva rientrare, ma poi al
pilota che lo esorta a far ciò, esclama: «La fortuna aiuta gli audaci, punta verso Pomponiano!».
Questi era a Stabia, dall'altra parte del golfo (giacché ivi il mare si addentra seguendo la riva che
va via via disegnando una curva). Quivi Pomponiano, benché il pericolo non fosse prossimo, ma
alle viste però e col crescere potendo farsi imminente, aveva trasportato le sue cose su alcune
navi, deciso a fuggire, se il vento contrario si fosse quietato. Ma questo era allora del tutto
favorevole a mio zio, che arriva, abbraccia l'amico trepidante, lo rincuora, lo conforta, e per
calmare la paura di lui con la propria sicurezza, vuole essere portato al bagno: lavatosi, cena tutto
allegro o, ciò che è ancor più, fingendo allegria.
Frattanto dal monte Vesuvio in parecchi punti risplendevano larghissime fiamme e vasti incendi, il
cui chiarore e la cui luce erano resi più vivi dalle tenebre notturne. Lo zio andava dicendo, per
calmare le paure, esser case che bruciavano abbandonate e lasciate deserte dalla fuga dei
contadini. Poi si recò a riposare e dormì di un autentico sonno. Giacché la sua respirazione, resa
più pesante e rumorosa dalla vasta corporatura, fu udita da coloro che passavano accanto alla
soglia. Ma il livello del cortile, attraverso il quale si accedeva a quell'appartamento, s'era già
talmente alzato perché ricoperto dalla cenere mista a lapilli che, se egli si fosse più a lungo
indugiato nella camera, non avrebbe potuto più uscirne. Svegliato, ne esce e raggiunge
Pomponiano e gli altri che non avevano chiuso occhio. Si consultano fra loro, se debbano rimanere
in luogo coperto o uscire all'aperto. Continue e prolungate scosse telluriche scuotevano
l'abitazione e quasi l'avessero strappata dalle fondamenta sembrava che ora sbandasse da una
parte ora dall'altra, per poi riassestarsi. D'altra parte all'aperto si temeva la pioggia dei lapilli per
quanto leggeri e porosi; tuttavia, confrontati i pericoli, egli scelse di uscire all'aperto. Ma se in lui
prevalse ragione a ragione, negli altri timore a timore. Messi dei guanciali sulla testa lì assicurano
con lenzuoli; fu questo il loro riparo contro quella pioggia.
Già faceva giorno ovunque, ma colà regnava una notte più scura e fonda di ogni altra, ancor che
mitigata da molti fuochi e varie luci. Egli volle uscire sulla spiaggia e veder da vicino se fosse
possibile mettersi in mare; ma questo era ancora agitato e impraticabile. Quivi, riposando sopra un
lenzuolo disteso, chiese e richiese dell'acqua fresca e la bevve avidamente. Ma poi le fiamme e il
puzzo di zolfo che le annunciava mettono in fuga taluni e riscuotono lo zio. Sostenuto da due
schiavi si alzò in piedi, ma subito ricadde, perché, io suppongo, l'aria ispessita dalla cenere aveva
ostruita la respirazione e bloccata la trachea che egli aveva per natura delicata e stretta e
frequentemente infiammata. Quando ritornò il giorno (il terzo dopo quello che aveva visto per
ultimo) il suo corpo fu trovato intatto e illeso, coperto dei panni che aveva indosso: l'aspetto più
simìle a un uomo che dorme, che a un morto.
Frattanto a Miseno io e la mamma... ma ciò non importa alla storia, e tu non volevi conoscere altro
che il racconto della sua morte. Faccio dunque punto. Una cosa sola voglio aggiungere: ti ho
esposto tutto ciò cui assistetti o che seppi subito, quando i ricordi sono più veritieri. Tu cavane ciò
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F. D'ALESSI - Letteratura latina - Parte III,1 - Il periodo imperiale - L'età dei Claudi
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che più importa: altra cosa infatti una lettera, altra una storia; altra cosa scrivere per un amico, altra
per il pubblico. Addio.
Traduzione di L. Rusca, Milano, Rizzoli, 1994, 20003.
Plin.iun., 6,20
Caro Tacito,
mi dici che, messo in curiosità dalla lettera che io ti scrissi a tua richiesta intorno alla morte di mio
zio, desideri conoscere non solo quali timori, ma anche quali pericoli abbia affrontato, quando fui
lasciato a Miseno (stavo infatti per dirtelo, ma mi interruppi). «Sebbene l'animo inorridisca al
ricordo... comincerò.»
Partito lo zio, consacrai tutto il mio tempo allo studio (appunto per ciò ero rimasto); poi il bagno, la
cena, un sonno inquieto e breve. Molti giorni innanzi v'erano state, come preliminari, delle scosse
di terremoto, senza però vi si facesse gran caso, perché in Campania frequenti; ma quella notte
crebbero talmente, da far sembrare che ogni cosa non dico si muovesse, ma addirittura si
rovesciasse. Mia madre si precipita nella stanza, mentre stavo alzandomi per andare a svegliarla
nel caso stesse dormendo. Ci fermammo nel cortile della casa, un breve spazio che separa le
abitazioni dalla spiaggia. Non so se debba definire coraggio o incoscienza (non avevo ancora
diciotto anni): mi faccio dare un volume di Tito Livio e come per passare il tempo leggo e anche,
come avevo incominciato, ne traggo degli estratti. Ecco un amico dello zio, che da poco era
arrivato dalla Spagna per incontrarlo; come vede me e la madre mia seduti nel cortile, io per di più
che sto leggendo, rimprovera lei per la propria indolenza e me per la spensieratezza. Non per
questo io sospesi la lettura.
Era già la prima ora del giorno, eppure la luce era ancora incerta e quasi languida. Gli edifici
attorno erano squassati e benché fossimo in luogo aperto, angusto però, il timore di un crollo era
grande e imminente. Solo allora ci decidemmo a uscire dall'abitato; ci segue una folla sbigottita e,
ciò che nello spavento appare come prudenza, preferisce alla propria la risoluzione altrui e in gran
massa ci incalza e preme alla nostra partenza. Usciti dall'abitato ci fermiamo. Assistiamo quivi a
molti fenomeni, strani e paurosi. Giacché i veicoli, che avevamo fatti predisporre, benché il terreno
fosse piano, rinculavano e neppure con il sostegno di pietre rimanevano al loro posto. Pareva
inoltre che il mare si ripiegasse su se stesso, quasi respinto dal tremar della terra. Certamente la
spiaggia s'era allargata e molti animali marini giacevano sulle sabbie rimaste in secco. Dal lato
opposto una nube nera e terribile, squarciata da guizzi serpeggianti di fuoco, si apriva in vasti
bagliori di incendio: erano essi simili a folgori, ma ancor più estesi.
Allora quello stesso amico venuto dalla Spagna con più forza e insistenza esclamò: «Se tuo
fratello, tuo zio vive, egli vuole che voi siate messi in salvo; se è perito vuole che voi gli
sopravviviate. Perché dunque indugiate a fuggire?». Rispondemmo che non ce la sentivamo,
nell'incertezza della sorte di lui, di pensare alla nostra. Non attese altro, subito ci lasciò e di gran
carriera si sottrasse al pericolo.
Dopo non molto quella nube si abbassò verso terra e coprì il mare: avvolse e nascose Capri, tolse
di vista il promontorio di Miseno. Allora mia madre si mise a pregarmi, a scongiurarmi, a ordinarmi
che in qualsiasi modo cercassi scampo: io lo potevo perché giovane, non essa, per gli anni e la
pesantezza del corpo, ma era ben contenta di morire, pur di non essere cagione di mia morte. Mi
opposi: non mi sarei messo in salvo senza di lei; poi, prendendola per mano, la costrinsi ad
affrettare il passo. Essa vi riesce a stento e si lagna perché mi ritarda.
Cadeva già della cenere, ma ancora non fitta. Mi volgo: una densa caligine ci sovrastava alle
spalle e simile a un torrente che si rovesciasse sul terreno ci incalzava. «Tiriamoci da banda» dissi
«finché ci si vede, perché se cadessimo per via, non finiamo schiacciati al buio dalla folla che ci
segue.»
Ci eravamo appena seduti, che scese la notte, non come quando non v'è luna o il cielo è nuvoloso,
ma come quando ci si trova in un locale chiuso a lumi spenti. Udivi i gemiti delle donne, i gridi dei
fanciulli, il clamore degli uomini: gli uni cercavano a gran voce i genitori, altri i figli, altri i consorti, li
riconoscevan dalle voci; chi commiserava la propria sorte, chi quella dei propri cari; ve n'erano che
per timore della morte invocavano la morte; molti alzavano le braccia agli dèi, altri più numerosi
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dichiaravano che non v'erano più dèi e che quella era l'ultima notte del mondo. Né mancavano
coloro che accrescevano i pericoli veri con immaginari e menzogneri terrori. Chi annunciava
falsamente, ma era creduto, che una casa di Miseno era crollata, che un'altra era in fiamme.
Riapparve un debole chiarore, che non ci sembrava il giorno, ma l'inizio dell'approssimarsi del
fuoco. Ma questo si fermò a distanza e di nuovo furon le tenebre, di nuovo cenere in gran copia e
spessa. Noi ci alzavamo a tratti per scrollarla di dosso, altrimenti ne saremmo stati ricoperti e
anche oppressi sotto il suo peso. Potrei vantarmi di non aver lasciato sfuggire in così pericolosi
frangenti né un lamento né una espressione men che virile, se non avessi trovato un disperato
eppur gran conforto alla morte nel pensiero che io perivo insieme a tutti e con me il mondo.
Alfine quella caligine si attenuò e svanì in una specie di fumo o di nebbia: quindi fece proprio
giorno, anche il sole apparve, ma livido, come quando è in eclisse. Agli sguardi ancor trepidanti il
paesaggio appariva mutato e ricoperto da una spessa coltre di cenere, come fosse nevicato.
Rientrati a Miseno e ristorate alla meglio le forze, trascorremmo una notte affannosa e incerta fra
la speranza e il timore. Prevaleva il timore; giacché le scosse di terremoto continuavano e molti
fuor di senno con delle previsioni terrificanti crescevan quasi a gioco i propri e gli altrui malanni.
Noi però, benché scampati ai pericoli e in attesa di nuovi, neppure allora pensavamo a partire,
finché non ci giungesse notizia dello zio.
Questi particolari, non certo degni di storia, li leggerai senza valertene per i tuoi scritti e imputerai a
te stesso, che me ne hai richiesto, se non saranno degni neppure di una lettera. Addio.
Traduzione di L. Rusca, Milano, Rizzoli, 1994,20003.
Plin., 5,8,5
Auunculus meus idemque per adoptionem pater historias et quidem religiosissime scripsit.
Suet. de hist., fr. 80
Plinivs Secvndvs Nouocomensis equestribus militiis industrie functus, procurationes quoque splendidissimas
et continuas summa integritate administrauit; et tamen liberalibus studiis tantam operam dedit, ut non temere
quis plura in ocio scripserit. itaque bella omnia, quae umquam cum Germanis gesta sunt XX uoluminibus
comprehendit; item naturalis historiae XXXVII libros absoluit. periit clade Campaniae; cum enim Misenensi
classi praeesset et flagrante Vesuuio ad explorandas propius causas liburnica pertendisset, nec
aduersantibus uentis remeare posset, ui pulueris ac fauillae oppressus est, uel ut quidam existimant a seruo
suo occisus, quem aestu deficiens, ut necem sibi maturaret, orauerit.
Secondo Conte P. è citato da Apuleio, (ma non compare) utilizzato ampia. da, Solino, Beda
Gell., 9,4,13
Libitum tamen est in loco hoc miraculorum notare id etiam, quod Plinius Secundus, uir in temporibus aetatis
suae ingenii dignitatisque gratia auctoritate magna praeditus, non audisse neque legisse, sed scire sese
atque uidisse in libro naturalis historiae septimo scripsit.
Traduzione Gellio
Gell., 9,16,1
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Plinius Secundus existimatus est esse aetatis suae doctissimus. Is libros reliquit, quos studiosorum
inscripsit, non medius fidius usquequaque aspernandos. In his libris multa varie ad oblectandas eruditorum
hominum aures ponit.
Traduzione Gellio
Plin., nat., pr., 12 . Natura dell'opera
Meae quidem temeritati accessit hoc quoque, quod levioris operae hos tibi dedicavi libellos. nam nec ingenii
sunt capaces, quod alioqui <i>n nobis perquam mediocre erat, neque admittunt excessus aut orationes
sermonesve au<t> casus mirabiles vel eventus varios, iucunda dictu aut legentibus blanda sterili materia:
rerum natura, hoc est vita, narratur, et haec sordidissima sui parte a<c> plurimarum rerum aut rusticis
vocabulis aut externis, immo barbaris etiam, cum honoris praefatione ponendis. praeterea iter est non trita
auctoribus via nec qua peregrinari animus expet<a>t. nemo apud nos qu<i> idem temptaverit, nemo apud
Graecos qui unus omnia ea tractaverit. magna pars studiorum amoenitates quaerimus; quae vero tractata
ab aliis dicuntur inmensae subtilitatis, obscuris rerum tenebris premuntur. an<te> omnia attingenda quae
Graeci tÁj ā„¢gkuklā€¦ou paideā€¦as vocant, et tamen ignota aut incerta ingeniis facta; alia vero ita multis
prodita, ut in fastidium sint adducta. res ardua vetustis novitatem dare, novis auctoritatem, obsoletis nitorem,
obscuris lucem, fastiditis gratiam, dubiis fidem, omnibus vero naturam et naturae sua omnia. itaque etiam
non assecutis voluisse abunde pulchrum atque magnificum est.
Equidem ita sentio, peculiarem in studiis causam eorum esse, qui difficultatibus victis utilitatem iuvandi
praetulerint gratiae placendi, idque iam et in aliis operibus ipse feci et profiteor mirari me T. Livium, auctorem
celeberrimum, in historiarum suarum, quas repetit ab origine urbis, quodam volumine sic orsum: "iam sibi
satis gloriae quaesitum, et potuisse se desidere, ni animus inquies pasceretur opere." profecto enim populi
gentium victoris et Romani nominis gloriae, non suae, composuisse illa decuit. maius meritum esset operis
amore, non animi causa, perseverasse et hoc populo Romano praestitisse, non sibi. XX rerum dignarum
cura ā€“quoniam, ut ait Domitius Piso, thesauros oportet esse, non librosā€“lectione voluminum circiter II,
quorum pauca admodum studiosi attingunt propter secretum materiae, ex exquisitis auctoribus centum
inclusimus XXXVI voluminibus, adiectis rebus plurimis, quas aut ignoraverant priores aut postea invenerat
vita. nec dubitamus multa esse quae et nos praeterierint. homines enim sumus et occupati officiis
subsicivisque temporibus ista curamus, id est nocturnis, ne quis vestrum putet his cessatum horis. dies vobis
inpendimus, cum somno valetudinem computamus, vel hoc solo praemio contenti, quod, dum ista, ut ait M.
Varro, musinamur, pluribus horis vivimus. profecto enim vita vigilia est. quibus de causis atque difficultatibus
nihil auso promittere hoc ipsum tu praestas, quod ad te scribimus. haec fiducia operis, haec est indicatura.
multa valde pretiosa ideo videntur, quia sunt templis dicata.
Vos quidem omnes, patrem, te fratremque, diximus opere iusto, temporum nostrorum historiam orsi a fine
Aufidii. ubi sit ea, quaeres. iam pridem peracta sancitur et alioqui statutum erat heredi mandare, ne quid
ambitioni dedisse vita iudicaretur. proinde occupantibus locum faveo, ego vero et posteris, quos scio
nobiscum decertaturos, sicut ipsi fecimus cum prioribus. argumentum huius stomachi mei habebis quod in
his voluminibus auctorum nomina praetexui. est enim benignum, ut arbitror, et plenum ingenui pudoris fateri
per quos profeceris, non ut plerique ex <i>is, quos attigi, fecerunt. scito enim conferentem auctores me
deprehendisse a iuratissimis e<x> proximis veteres transcriptos ad verbum neque nominatos, non illa
Vergiliana virtute, ut certarent, non Tul<l>iana simplicitate, qui de re publica Platonis se comitem profitetur, in
consolatione filiae "Crantorem", inquit, "sequor," item Panaetium de officiis, quae volumina ediscenda, non
modo in manibus cotidie habenda, nosti. obnoxii profecto animi et infelicis ingenii est deprehendi in furto
malle quam mutuum reddere, cum praesertim sors fiat ex usura.
Inscriptionis apud Graecos mira felicitas: khrā€¦on inscripsere, quod volebant intellegi favum, alii kÅ”raj
'Amalqeā€¦as, quod copiae cornu, ut vel lactis gallinacei sperare possis in volumine haustum; iam ā€”a,
Moàsai, pandÅ”ktai, ā„¢gceirā€¦dia, leimèn, pā€¦nax, scedā€¦wn: inscriptiones, propter quas vadimonium deseri
possit; at cum intraveris, di deaeque, quam nihil in medio invenies! nostri gr<av>iores Antiquitatium,
Exemplorum Artiumque, facetissimi Lucubration<u>m, puto quia <B>ibaculus erat et vocabatur. paulo minus
asserit Varro in satiris suis S<e>s<c>uli<xe> et Flex<t>abula. apud Graecos desiit nugari Diodorus et
biblioq»khs historiam suam inscripsit. Apion quidem grammaticusā€“hic quem Tiberius Caesar cymbalum
mundi vocabat, <c>um <pro>pr<i>ae famae tympanum potius videri possetā€“immortalitate donari a se scripsit
ad quos aliqua componebat. me non paenitet nullum festiviorem excogitasse titulum et, ne in totum videar
Graecos insectari, ex illis mox velim intellegi ping<endi fingend>ique conditoribus, quos in libellis his invenies
absoluta opera et illa quoque, quae mirando non satiamur, pendenti titulo inscripsisse, ut APELLES
FACIEBAT aut POLYCLITUS, tamquam inchoata semper arte et inperfecta, ut contra iudiciorum varietates
superesset artifici regressus ad veniam velut emendaturo quicquid desideraretur, si non esset interceptus.
quare plenum verecundiae illud, quod omnia opera tamquam novissima inscripsere et tamquam singulis fato
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adempti. tria non amplius, ut opinor, absolute traduntur inscripta ille fecit, quae suis locis reddam. quo
apparuit summam artis securitatem auctori placuisse, et ob id magna invidia fuere omnia ea.
Ego plane meis adici posse multa confiteor, nec his solis, sed et omnibus quos edidi, ut obiter caveam istos
Homeromastigas ita enim verius dixerim, quoniam audio et Stoicos et dialecticos Epicureosqueā€“nam de
grammaticis semper expectaviā€“parturire adversus libellos, quos de grammatica edidi, et subinde abortus
facere iam decem annis, cum celerius etiam elephanti pariant. ceu vero nesciam adversus Theophrastum,
hominem in eloquentia tantum, ut nomen divinum inde invenerit, scripsisse etiam feminam, et proverbium
inde natum suspendio arborem eligendi. non queo mihi temperare quo minus ad hoc pertinentia ipsa censorii
Catonis verba ponam, ut appareat etiam Catoni de militari disciplina commentanti, qui sub Africano, immo
vero et sub Hannibale didicisset militare et ne Africanum quidem ferre potuisset, qui imperator triumphum
reportasset, paratos fuisse istos, qui obtrectatione alienae scientiae famam sibi aucupantur: "Quid enim?"
a<i>t in eo volumine, "scio ego, quae scripta sunt si palam proferantur, multos fore qui vitilitigent, sed ii
potissimum, qui verae laudis expertes sunt. eorum ego orationes si<v>i praeterfluere." nec Plancus inlepide,
cum diceretur Asinius Pollio orationes in eum parare, quae ab ipso aut libertis post mortem Planci ederentur,
ne respondere posset: "cum mortuis non nisi larvas luctari." quo dicto sic repercussit illas, ut apud eruditos
nihil impudentius iudicetur. ergo securi etiam contra vitilitigatores, quos Cato eleganter ex vitiis et
litigatoribus composuitā€“quid enim illi aliud quam litigant aut litem quaerunt?ā€“, exequemur reliqua propositi.
quia occupationibus tuis publico bono parcendum erat, quid singulis contineretur libris, huic epistulae
subiunxi summaque cura, ne legendos eos haberes, operam dedi. tu per hoc et aliis praestabis ne perlegant,
sed, ut quisque desiderabit aliquid, id tantum quaerat et sciat quo loco inveniat. hoc ante me fecit in litteris
nostris Valerius Soranus in libris, quos ā„¢poptā€¦dwn inscripsit.
12. La mia temerarietà è aumentata da un altro fatto: i libri che ti dedico sono un'opera di scarso
rilievo. Infatti essi non rendono possibile il dispiegarsi dell'ingegno - d'altra parte ben mediocre, in
me - e non permettono digressioni o discorsi o discussioni o il racconto di fatti meravigliosi o di
avvenimenti variati' (tutte cose, queste, divertenti a scriversi o piacevoli a leggersi, pur nell'aridità
della materia trattata): 13. descrivo la natura, cioè la vita, e per giunta nei suoi aspetti piú umili,
tanto che moltissimi oggetti dovranno essere designati con termini rozzi o stranieri, e persino
barbari e tali da richiedere una scusa preliminare. 14. Inoltre il mio cammino si svolge per una via
non percorsa da altri autori, né tale che l'animo provi il desiderio di spaziarvi: nessuno fra i nostri
scrittori che abbia tentato una simile impresa, nessuno fra i Greci che, da solo, abbia trattato tutte
le parti dell'argomento. Negli studi, noi cerchiamo generalmente gli aspetti dilettevoli: le questioni
invece che, affrontate da altri, sono ritenute di estrema sottigliezza, restano sommerse dalla
misteriosa oscurità dell'argomento. Io mi propongo di toccare tutti i settori che, per i Greci,
compongono la «cultura enciclopedica »; e tuttavia alcuni di essi sono sconosciuti, o mal certi per
gl'ingegni che vi si dedicano, mentre altri sono stati divulgati da tanti autori, che sono venuti a noia.
15. E' compito arduo dare una veste nuova ad argomenti triti, conferire autorità a quelli che si
trattano per la prima volta, nuovo splendore a quelli desueti, chiarezza a quelli oscuri, attrattiva a
quelli noiosi, e insomma rendere a tutti la loro natura e alla natura tutto ciò che le appartiene.
Perciò, anche se non si consegue lo scopo, averlo perseguito è già impresa sufficientemente bella
e gloriosa.
16. Quanto a me, ritengo che in letteratura un posto particolare spetti a chi, superando le difficoltà,
antepone il merito di scrivere un'opera utile al vantaggio di piacere ai lettori. A questo criterio io
stesso mi sono attenuto già in altre mie opere, e confesso di essere stupito che un autore
celeberrimo come Tito Livio cominci con queste parole un libro delle sue Storie, che si rifanno
all'origine di Roma: «Mi sono già acquistato gloria a sufficienza e avrei potuto anche concedermi
riposo, se il mio animo irrequieto non trovasse alimento nell'attività». Sarebbe stato certamente
meglio se Livio avesse composto i suoi libri per glorificare il popolo vincitore di tutte le genti e il
nome di Roma, non se stesso; sarebbe stato merito maggiore essere andato avanti non per
esigenza interiore, ma per amore dell'opera, e avere compiuto quest'ultitna non per se stesso, ma
per il popolo romano.
17. 20000 fatti degni di nota (poiché, come dice Domizio Pisone, questi miei si dovrebbero
chiamare magazzini, non libri), ricavati dalla lettura di circa 2000 volumi (ben pochi dei quali sono
usati dagli studiosi, a causa dell'oscurità della materia) di cento autori scelti: tutto ciò ho racchiuso
in 36 libri, aggiungendovi moltissimi dati che i miei predecessori non conoscevano o che furono
scopertí in epoca successiva. 18. E non dubito che molte siano le cose sfuggite anche a me. Sono
un uomo, sono affaccendato nelle occupazioni di ogni giorno; mi dedico a opere come questa nei
ritagli di tempo, vale a dire di notte (perché qualcuno di voi non pensi che, almeno in quelle ore, io
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me ne sia stato inoperoso). I giorni li dedico a voi, le mie ore di sonno sono regolate sulla salute , e
mi accontento di quest'unica ricompensa: che, mentre rimugino (come dice Marco Varrone)
codeste cose, aggiungo ore alla mia vita. Si può dire infatti con certezza che vivere è vegliare. 19.
Per questi motivi e per queste difficoltà non oso prometterti nulla. Tuttavia tu mi fornisci un aiuto,
per il fatto stesso che scrivo a te: è questa la garanzia della mia opera, è questo il suo pregio. Molti
oggetti sembrano di grande valore per il solo fatto di essere consacrati nei templi.
20. In realtà, di voi tutti - di tuo padre, di te, di tuo fratello - io ho già parlato in un'opera appropriata,
quando ho intrapreso il racconto della storia dei nostri tempi, a partire dal punto in cui si arresta
Aufidio Basso. Mi chiederai che cosa ne è. Da tempo essa ha avuto il suggello finale, e del resto
avevo fin dall'inizio stabilito di affidarne la pubblicazione al mio erede, affinché non si pensasse
che, in vita, io avessi concesso qualcosa all'ambizione. Con ciò favorisco chi vuole insediarsi al
mio posto, e anche i successori, i quali di certo gareggeranno con me, cosí come ho fatto io coi
miei predecessori. Una prova di questa mia riservatezza l'avrai vedendo che, nei presenti volumi,
ho posto all'inizio i nomi delle mie fonti. Penso infatti che sia un gesto generoso e pieno di nobile
delicatezza confessare chi sono gli autori dai quali si è tratto profitto, anziché tacerli, come hanno
fatto la maggior parte degli scrittori da me consultati. 22. Sappi infatti che, collezionando le mie
fonti, ho scoperto come autori i quali, tra i píú recenti, godono della massima credibilità, abbiano
copiato parola per parola da altri piú antichi, senza neppure nominarli: e questi plagiari non
avevano certo il coraggioso intento di Virgilio, di gareggiare coi propri modelli, né la schiettezza di
Cicerone, il quale nel De republica si dichiara seguace di Platone, nella consolazione per la morte
della figlia afferma «seguo Crantore', e dice la stessa cosa a proposito di Panezio nel De officiis:
tutte opere che, come sai bene, non solo devono essere tenute ogni giorno fra le mani, ma vanno
anche imparate a memoria. 23. E' in verità indizio di uno spirito servile e di un ben misero ingegno
preferire esser colti a rubare, piuttosto che restituire quanto si è preso in prestíto, specialmente
quando, con gl'interessi, si fa un nuovo capitale.
24. Quanto alla scelta del titolo, è stupefacentemente fertile la fantasia dei Greci: Cerione (parola
con cui volevano indicare il favo di miele); Corno di Amaltea (cioè corno dell'abbondanza), tanto da
farti sperare che in quel volume potrai bere latte di gallina; e ancora Viole, Muse, Raccolte
universali, Manuali, Prato, Tavoletta, Improvvisazione: tutti titoli che sembrerebbero dispensare
l'autore dal fornire ulteriori garanzie. Ma quando ci si addentra nella lettura, per tutti gli dèi, quale
nullità si spalanca nel mezzol Dei nostri autori, i piú rozzi hanno intitolato le loro opere Antichità,
Esempi, Arti, i piú spiritosi Veglie (forse perché l'autore era un beone, e si chiamava in effetti
Bibaculo). Pretese un po' minori ha Varrone, con le sue satire Un Ulisse e mezzo e Tavola
pieghevole.
25. Fra i Greci, pose fine a queste bizzarrie Diodoro e intitolò Biblioteca la sua opera storica. Il
grammatico Apione- quello che l'imperatore Tiberio chiamava cembalo del mondo, mentre poteva
semmai somigliare a una trombetta della propria fama - scrisse che egli dava l'immortalità a quelli
cui dedicava qualche sua opera.
26. Io non mi dolgo di non avere escogitato un titolo piú brillante; e, perché non si dica che mi
accanisco in tutto contro i Greci, vorrei che le mie intenzioni fossero interpretate secondo l'esempio
dei famosi fondatori della pittura e della scultura. Costoro, come troverai scritto in questi miei libri,
compiute le loro opere, anche quelle che non ci stanchiamo di ammirare, le firmavano con una
formula provvisoria, come «Apelle faceva» o «Policleto faceva», come se la loro arte fosse
qualcosa di perennemente iniziato e non finito in modo che, dinanzi alla disparità dei giudizi,
rimanesse all'autore la possibilità di tornare indietro, e quasi di farsi perdonare, correggendo le
imperfezioni dell'opera, purché non ne fosse impedito dalla morte. 27. E' un gesto di squisita
finezza quel firmare ogni opera come se fosse stata l'ultima, e come se al compimento di ciascuna
li avesse strappati la morte. Si tramanda, credo, che solo tre opere furono firmate «l'autore fece» in
modo definitivo; e ne parlerò nelle sezioni specifiche. Da ciò apparve chiaro che la somma
perfezione dell'arte aveva soddisfatto l'autore; e per questo motivo tutte quelle tre opere furono
oggetto di grande invidia.
28. Io non ho difficoltà ad ammettere che alle cose da me scritte si potrebbero fare molte aggiunte;
e non solo a queste che ti dedico ora, ma a tutte quelle che ho finora pubblicato. Lo dico per
cautelarmi contro eventuali «sferze di Omero» (potrebbe essere questo il loro nome piú adatto):
sento dire infatti che stoici, dialettici ed epicurei (quanto ai grammatici, da loro me lo sono sempre
aspettato) hanno in gestazione qualcosa contro i miei libri sulla grammatica , ma fanno continui
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aborti ormai da dieci anni, quando persino gli elefanti impiegano minor tempo a partorire. 29.
Come se non sapessi che contro Teofrasto - uomo, nell'eloquenza, di cosí grande levatura da
meritarsi perciò l'epiteto di divino - scrisse persino una donna, e da questo episodio nacque il
proverbio «scegliersi l'albero a cui impiccarsi». Non posso esimermi dal riportare alcune parole di
Catone il Censore, che cadono a proposito, affinché si veda come anche Catone, quando scriveva
il De militari disciplina lui che aveva imparato a combattere alla scuola dell'Africano (anzi, si può
dire anche alla scuola di Annibale ) e che era stato insofferente persino dell'Africano; quel Catone
che, comandante dell'esercito, aveva ottenuto il trionfo - trovasse pronta ad attaccarlo questa
gente, che vuol procacciarsi notorietà sparlando della sapienza altrui: «E che? - dice Catone in
quel libro, - io so che, se si pubblica uno scritto, ci saranno molti che criticheranno per partito
preso; ma saranno soprattutto quelli che sono privi di vera gloria.
31. I loro discorsi sono solito lasciarli scorrer via». Anche Planco ebbe una battuta spiritosa,
quando si diceva che Asinio Pollione preparasse contro di lui dei discorsi che sarebbero stati
pubblicati da Pollione stesso o dai suoi liberti, dopo la morte di Planco, affinché questi non potesse
rispondere. Disse Planco: «Solo delle larve lottano coi morti». Con questa battuta inferse un tal
colpo a quei discorsi, che ormai presso i dotti essi sono considerati il colmo dell'impudenza.
32. Sicuro dunque del fatto mio, anche nei confronti dei «vizilitigatori», parola che Catone coniò
elegantemente da «vizio» e «litigatori» (cosa fanno in effetti costoro, se non litigare o cercare il
pretesto per una lite?) porterò a compimento il inio progetto. 33. Poichè, in vista del bene pubblico,
ho creduto di doverti usare riguardo per i tuoi impegni, ho unito a questa lettera il contenuto dei
singoli libri, avendo posto ogni cura per evitarti di doverli leggere. Tu, con questo indice, renderai
un servigio anche agli altri lettori: essi non dovranno infatti leggere integralmente l'opera, ma.
quando avranno bisogno di una notizia, ciascuno potrà cercare solo quella e saprà dove trovarla.
Questo sistema lo ha usato prima di me, tra gli autori latini, Valerio Sorano nei libri da lui intitolati
Gl'iniziati.
Trad. di G. Ranucci, Torino, Einaudi, 1982
Plin., nat., 7, 2-5. La natura è buona madre o crudele matrigna per l'uomo?
Principium iure tribuetur homini, cuius causa videtur cuncta alia genuisse natura, magna, saeva mercede
contra tanta sua munera, non ut sit satis aestimare, parens melior homini an tristior noverca fuerit. ante
omnia unum animantium cunctorum alienis velat opibus. ceteris <sua> varie tegimenta tribuit, testas,
cortices, coria, spinas, villos, sae tas, pilos, plumam, pinnas, squamas, vellera; truncos etiam arboresque
cortice, interdum gemino, a frigoribus et calore tutata est: hominem tantum nudum et in nuda humo natali die
abicit ad vagitus statim et ploratum, nullumque tot animalium aliud ad lacrimas, et has protinus vitae
principio; at Hercule risus praecox ille et celerrimus ante XL diem nulli datur. ab hoc lucis rudimento quae ne
feras quidem inter nos genitas vincula excipiunt et omnium membrorum nexus; itaque feliciter natus iacet
manibus pedibusque devinctis, flens animal ceteris imperaturum, et a suppliciis vitam auspicatur unam
tantum ob culpam, qua natum est. heu dementia ab his initiis existimantium ad superbiam se genitos! prima
roboris spes primumque temporis munus quadripedi similem facit. quando homini incessus! quando vox!
quando firmum cibis os! quam diu palpitans vertex, summae inter cuncta animalia inbecillitatis iudicium! iam
morbi totque medicinae contra mala excogitatae, et hae quoque subinde novitatibus victae! et cetera sentire
naturam suam, alia pernicitatem usurpare, alia praepetes volatus, alia nare: hominem nihil scire, nihil sine
doctrina, non fari, non ingredi, non vesci, breviterque non aliud naturae sponte quam flere! itaque multi
extitere qui non nasci optimum censerent aut quam ocissime aboleri. uni animantium luctus est datus, uni
luxuria et quidem innumerabilibus modis ac per singula membra, uni ambitio, uni avaritia, uni inmensa
vivendi cupido, uni superstitio, uni sepulturae cura atque etiam post se de futuro. nulli vita fragilior, nulli
rerum omnium libido maior, nulli pavor confusior, nulli rabies acrior. denique cetera animantia in suo genere
probe degunt. congregari videmus et stare contra dissimilia: leonum feritas inter se non dimicat, serpentium
morsus non petit serpentes, ne maris quidem beluae ac pisces nisi in diversa genera saeviunt. at Hercule
homini plurima ex homine sunt mala.
Cominceremo a buon diritto dall'uomo, in funzione del quale sembra che la natura abbia generato
tutto il resto. Ma essa ha preteso, in cambio di doni cosí grandi, un prezzo alto e crudele, fino al
punto che non è possibile dire con certezza se essa sia stata per l'uomo piú una buona madre o
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una crudele matrigna. 2. In primo luogo lo costringe, unico fra tutti gli esseri viventi, a procacciarsi
all'esterno i suoi vestiti. Agli altri, in vario modo, la natura fornisce qualcosa che li copra: gusci,
cortecce, pelli, spine, peli, setole, piume, penne, squame, velli; anche i tronchi degli alberi li
protegge dal freddo e dal caldo, con uno e talora due strati di corteccia. Soltanto l'uomo essa getta
nudo sulla nuda terra, il giorno della sua nascita, abbandonandolo fin dall'inizio ai vagiti e al pianto
e, come nessun altro fra tanti esseri viventi, alle lacrime, subito, dal primo istante della propria vita:
invece il riso, per Ercole, anche quando è precoce, il piú rapido possibile, non è concesso ad
alcuno prima del quarantesimo giorno. 3. Subito dopo il suo ingresso alla luce, l'uomo è stretto da
ceppi e legami in tutte le membra, quali non si impongono neppure agli animali domestici. Cosí lui,
che ha aperto gli occhi alla felicità, giace a terra con mani e piedi legati, piangente- lui, destinato a
regnare su tutte le altre creature - e inaugura la sua vita fra i tormenti, colpevole solo di esser nato.
Che stoltezza quella di chi, dopo inizi siffatti, si ritiene destinato ad imprese superbe! 4. Il primo
barlume di vigore, il primo dono che il tempo gli concede lo rendono simile a un quadrupede.
Quando comincia a camminare e a parlare come un uomo? Quando la sua bocca diventa adatta a
prendere il cibo? Quanto a lungo resta molle la sua testa, segno della massima debolezza fra tutti
gli esseri viventi! E poi le malattie, e le tante medicine escogitate contro i mali, ma anch'esse vinte
ben presto da nuove sciagure! E ogni altro essere sente la propria natura: chi impara a correre
velocemente, chi a volare con celerità, chi a nuotare. L'uomo invece non sa far nulla, nulla che non
gli sia insegnato: né parlare, né camminare, né mangiare; insomma, per sua natura, non sa fare
altro che piangere! Perciò molti hanno pensato che la cosa migliore fosse non nascere, oppure
morire al piú presto. 5. Solo all'uomo, fra gli esseri viventi, è stato dato il pianto; solo a lui il
piacere, che si manifesta in infiniti modi e nelle forme proprie alle singole parti del corpo; solo a lui
l'ambizione, l'avidità, una smisurata voglia di vivere, la superstizione, la preoccupazione della
sepoltura e anche di ciò che gli accadrà dopo la morte. Nessuno ha una vita piú precaria, né
maggiore brama di ogni cosa; nessuno è preda di angosce piú disordinate, né di un furore piú
violento. In conclusione, gli altri animali vivono bene tra i propri simili. Li vediamo aggregarsi ed
opporre resistenza contro le specie diverse; ma i leoni non sono spinti dilla loro ferocia a
combattere contro altri leoni, il morso dei serpenti non assale altri serpenti, e neppure i mostri
marini e i pesci incrudeliscono, se non contro specie differenti. Invece, per Ercole, all'uomo la
maggior parte dei mali è causata da un altro uomo.
Trad. di G. Ranucci, Torino, Einaudi, 1983.
Plin., nat., 7, 167-169
Incertum ac fragile nimirum est hoc munus naturae, quicquid datur nobis, malignum vero et breve etiam in
<i>is quibus largissime contigit, universum utique aevi tempus intuentibus. quid, quod aestimatione
nocturnae quietis dimidio quisque spatio vitae suae vivit, pars aequa morti similis exigitur aut poena e<st>,
nisi contigit quies? nec reputantur infantiae anni, qui sensu carent, non senectae in poenam vivacis, tot
periculorum genera, tot morbi, tot metus, tot curae, totiens invocata morte, ut nullum frequentius sit votum.
natura vero nihil hominibus brevitate vitae praestitit melius. hebescunt sensus, membra torpent, praemoritur
visus, auditus, incessus, dentes etiam ac ciborum instrumenta, et tamen vitae hoc tempus adnumeratur.
ergo pro miraculo et id solitarium reperitur exemplum Xenophili musici, centum et quinque annis vixisse sine
ullo corporis incommodo. at Hercule reliquis omnibus per singulas membrorum partes, qualiter nullis aliis
animalibus, certis pestifer calor remeat horis aut rigor, neque horis modo, sed et diebus noctibusque trinis
quadrinisve, etiam anno toto. atque etiam morbus est aliqu<ant>isper sapientiam mori.
167. Precario senza dubbio e fragile, comunque si manifesti, è questo dono fattoci dalla natura; la vita è
invero un dono meschino, ed è breve anche per quelli che la vivono piú a lungo: lo è in ogni caso, se si
considera tutta l'eternità del tempo. E, ancora, se si tiene conto del riposo notturno, ciascuno vive solo metà
della propria vita; l'altra metà la trascorre in maniera simile alla morte, oppure, se non riesce a dormire, essa
è per lui un dolore. E questo senza contare gli anni dell'infanzia, trascorsi senza averne coscienza, né quelli
di una vecchiaia vitale solo nel provar dolore; e tanti tipi di pericoli, tante malattie, tante paure, tante pene, e
la morte invocata cosí spesso, che nessun altro augurio è piú frequente. 168. Ma la natura non ha fatto
all'uomo un dono migliore della brevità della vita. I sensi si ottundono, le membra si intorpidiscono, la vista
vien meno anzitempo, e cosí l'udíto, le gambe, anche i denti e l'apparato digerente; e tuttavia il tempo che
rimane si conta come vita. E' dunque un fatto straordinario, e un esempio unico, quello del musicista
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Senofilo, di cui si sa che visse centocinque anni senza alcuna infermità fisica. 169. Ma gli altri, per Ercole,
sono assaliti tutti - cosa che non accade ad alcun altro essere vivente -, a determinate ore, da un calore
malsano o da brividi di freddo che circola per tutte le membra; e non solo per qualche ora, ma anche per
tutto il giorno e la notte e per tre e quattro giorni di seguito, e a volte per un anno intero. E anche la perdita
della ragione è in qualche modo una malattia.
Trad. di G. Ranucci, Torino, Einaudi, 1983.
Plin., nat., 7, 130-32. La felicità umana.
Gentium in toto orbe praestantissima una omnium virtute haud dubie Romana extitit. felicitas cui praecipua
fuerit homini, non est humani iudicii, cum prosperitatem ipsam alius alio modo et suopte ingenio quisque
determinet. si verum facere iudicium volumus ac repudiata omni fortunae ambitione decernere, nemo
mortalium est felix. abunde agitur atque indulgenter a fortuna deciditur cum eo, qui iure dici non infelix
potest. quippe ut alia non sint, certe ne lassescat fortuna metus est, quo semel recepto solida felicitas non
est. quid, quod nemo mortalium omnibus horis sapit? utinamque falsum hoc et non ut a vate dictum quam
plurimi iudicent! vana mortalitas et ad circumscribendam se ipsam ingeniosa conputat more Thraciae gentis,
quae calculos colore distinctos pro experimento cuiusque diei in urnam condit ac supremo die separatos
dinumerat atque ita de quoque pronuntiat. quid, quod iste calculi candore illo laudat<us> die<s> originem
mali habuit? quam multos accepta adflixere imperia! quam multos bona perdidere et ultimis mersere
suppliciis, ista nimirum bona, cum interim illa hora in gaudio fuit! ita est profecto: alius de alio iudicat dies et
tan<tu>m supremus de omnibus, ideoque nullis credendum est. quid, quod bona malis paria non sunt etiam
pari numero, nec laetitia ull<a> minimo maerore pensanda? heu vana et inprudens diligentia! numerus
dierum conparatur, ubi quaeritur pondus!
130. Fra tutti i popoli del mondo, il più eccellente per valore che sia mai esistito è senza dubbio il popolo
romano. Chi sia stato il più felice tra gli uomini non è umanamente possibile giudicarlo, dal momento che
ciascuno definisce la felicità in maniera diversa, a seconda del suo carattere. Se vogliamo giudicate
rettamente e decidere sgomberando il campo da tutte le false apparenze della fortuna, nessuno tra gli
uomini è felice. Fa già abbastanza e si comporta benignamente la Fortuna con colui del quale si può a
ragione dire che non è infelice. Infatti, ammettendo l'assenza di ogni altra pena, l'uomo felice ha il timore che
la Fortuna si stanchi di proteggerlo; e, una volta che questo timore si è impossessato di lui, la sua felicità non
è piú assoluta. 131. E che dire del fatto che nessun uomo è verarnente saggio in ogni momento? Possa il
maggior numero di uomíni ritenere false queste affermazioni, e non invece verità profetiche! L'umanità, vana
e ingegnosa nell'ingannare se stessa, calcola secondo l'uso dei Traci, i quali, in base all'esito di ciascun
giorno, mettono in un'urna dei sassolini di colore opposto; l'ultímo gíorno della vita li separano e li contano, e
in questo modo decidono quanto ciascuno sia stato felice. 132. Ma non vedete che proprio codesto giorno,
contrassegnato da un sassolino bianco, ha in sé le radici dell'infelicità'? Quanti sono rovinati dal potere che
hanno ricevuto! Quanti sono perduti e precipitati nei piú atroci supplizi dai beni: quei beni, che avevano
procurato loro un momento di gioia! E' proprio cosí: è il giorno successivo che dà il giudizio sul precedente, e
solo l'ultimo decide di tutti; perciò non ci si deve fidare della felicità di nessun giorno. E c'è ancora il fatto che
i beni non sono intensi quanto i mali, anche se li eguagliano di numero, e non c'è gioia che possa
compensare il piú piccolo dolore. Come è superficiale e stolta quella precisione! Si paragona il numero dei
giorni felici e infelici, mentre li si dovrebbe pesare!
Trad. di G. Ranucci, Torino, Einaudi, 1983.
Plin., nat. 26, 10-20. Elogio dellā€™antica medicina e attacco contro il medico-oratore Asclepiade di
Prusa.
Haec apud priscos erant quae memoramus remedia, medicina<m> ipsa quodammodo rerum natura
faciente, et diu fuere. Hippocratis certe, qui primus medendi praecepta clarissime condidit, referta herbarum
mentione invenimus volumina, nec minus Diocli Carysti, qui secundus aetate famaque extitit, item
Praxagorae et Chrysippi ac deinde Erasistrati C<ei>, Herophilo quidem, quamquam subtilioris sectae
conditori, ante omnis celebratam rationem, <i>am paulatim, usu efficacissimo rerum omnium magistro,
peculiariter utique medicinae, ad verba garrulitatemque descendentem. sedere namque in scholis auditioni
operatos gratius erat quam ire per solitudines et quaerere herbas alias aliis diebus anni.
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Durabat tamen antiquitas firma magnasque confessae rei vindicabat reliquias, donec Asclepiades aetate
Magni Pompei orandi magister nec satis in arte ea quaestuosus, ut ad alia quam forum sagacis ingenii, huc
se repente convertit atque, ut necesse erat homini qui nec id egisset nec remedia nosset oculis usuque
percipienda, torrenti ac meditata cotidie oratione blandiens omnia abdicavit totamque medicinam ad causas
revocando coniecturae fecit, quinque res maxume communium auxiliorum professus, abstinentiam cibi, alias
vini, fricationem corporis, ambulationem, gestationes, quae cum unusquisque semet ipsum sibi praestare
posse intellegeret, faventibus cunctis, ut essent vera quae facillima erant, universum prope humanum genus
circumegit in se non alio modo quam si caelo demissus advenisset.
Trahebat praeterea mentes artificio <in>ani, alia<s> vinum promittendo aegris dandoque tempestive, iam
frigidam aquam et, quoniam causas morborum scrutari prius Herophilus instituerat, vini rationem
inlustraverat Cleophantus apud priscos, ipse cognominari se frigida danda praeferens, ut auctor est M.
Varro. alia quoque blandimenta excogitabat, iam suspendendo lectulos, quorum iactatu aut morbos
extenuaret aut somnos adliceret, iam balneas avidissima hominum cupidine instituendo et alia multa dictu
grata atque iucunda, magna auctoritate nec minore fama, cum occurrisset ignoto funeri, relato homine ab
rogo atque servato, ne quis levibus momentis tantam conversionem factam existimet. id solum possumus
indignari, unum hominem e levissima gente, sine opibus ullis orsum, vectigalis sui causa repente leges
salutis humano generi dedisse, quas tamen postea abrogavere multi. Asclepiaden adiuvere multa in
antiquorum cura nimis anxia et rudia, ut obruendi aegros veste sudoresque omni modo ciendi, nunc corpora
ad ignes torrendi solesve adsiduo quaerendi in urbe nimbosa, immo vero tota Italia im<b>r<ici>trice, tum
primum pensili balinearum usu ad infinitum blandiente. praeterea in quibusdam morbis medendi cruciatus
detraxit, ut in anginis, quas curabant in fauces organo demisso. damnavit merito et vomitiones tunc supra
modum frequentes. arguit et medicamentorum potus stomacho inimicos, quod est magna ex parte verum.
itaque nos in primis quae sunt stomacho utilia signamus.
Super omnia adiuvere eum magicae vanitates in tantum evectae, ut abrogare herbis fidem cunctis possent:
Aethiopide herba amnes ac stagna siccari; on<othuri>dis tactu clausa omnia aperiri; Achaemenide coniecta
in aciem hostium trepidare agmina ac terga verti; latacen dari solitam a Persarum rege legatis, ut,
quocumque venissent, omnium rerum copia abundarent, ac multa similia. ubinam istae fuere, cum Cimbri
Teutonique terribili Marte ulularent aut cum Lucullus tot reges Magorum paucis legionibus sterneret? curve
Romani duces primam semper in bellis commerciorum habuere curam? cur Caesaris miles ad Pharsaliam
famem sensit, si abundantia omnis contingere unius herbae felicitate poterat? non satius fuit Aemilianum
Scipionem Carthaginis portas herba patefacere quam machinis claustra per tot annos quatere? siccentur
hodie Meroide Pomptinae paludes tantumque agri suburbanae reddatur Italiae! nam quae apud eundem
Democritum invenitur compositio medicamenti, quo pulchri bonique et fortunati gignantur liberi, cui umquam
Persarum regi tales dedit? mirum esset profecto hucusque provectam credulitatem antiquorum saluberrimis
ortam initiis, si in ulla re modum humana ingenia novissent atque non hanc ipsam medicinam ab Asclepiade
repertam proba turi suo loco essemus evectam ultra Magos etiam. haec est omni in re animorum condicio,
ut a necessariis orsa primo cuncta pervenerint ad nimium. igitur demonstratarum priore libro herbarum
reliquos effectus reddemus, adicientes ut quasque ratio dictabit.
Traduzione
Collegamento con Catone
Scheda. G. Penso. Lā€™arrivo a Roma dei primi medici greci.
Gli antichi Romani che, come abbiamo visto, possedevano una forma di medicina religiosa, sacerdotale,
magica, empirica ed istintiva, erano senza dubbio a conoscenza che in altri paesi, soprattutto in Grecia, si
praticava una me dicina ben più progredita che a Roma e basata su dati tecnici che perseguivano un fine
esclusivamente utilitaristico, tendente a sedare il dolore del paziente, a diagnosticare la sua malattia, a
curarla in modo specifico, allontanando il pericolo della morte. È per tali motivi che, spesso, essi inviarono
delegazioni sia nella Magna Graecia, sia nella Grecia stessa, per avere, dai medici greci, consigli ed
indicazioni in caso di epidemie.
Lo scrittore greco Dionisio racconta che nel secolo VI a.C. il re Servio Tullio mandò nella Magna Graecia, a
Crotone, dove Pitagora aveva fondato una scuola di medicina, una missione di studio. Tarquinio il Vecchio
ne mandò un'altra a Delfi, per interrogare l'oracolo, al fine di sapere che cosa si dovesse fare per combattere
una nuova epidemia abbattutasi su Roma.
Anche durante la Repubblica si inviarono missioni mediche in Grecia: famosa è la missione incaricata di
interrogare Esculapio ad Epidauro, e che abbiamo riportato nel primo capitolo secondo la descrizione fattane
da Tito Livio.
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Certamente tutte queste missioni non avevano esclusivamente un carattere teurgico, ma anche il fine di
aggiornarsi su come i Greci combattessero le epidemie e curassero i malati.
La medicina greca era indubbiamente più progredita di quella romana. Fu anche per questo che lo Stato
romano e, successivamente facoltosi privati, indussero medici greci a venire a Roma ad esercitare la loro
professione. Alcuni di essi vi si stabilirono di propria iniziativa.
Il primo medico greco che si stabilì a Roma fu Arcagate, e lo fece su invito ufficiale del governo romano.
Plinio, dicendo di avere tratto il racconto da un vecchio storico romano, Cassio Emina, descrive il di lui arrivo
a Roma: «Cassio Emina, uno degli autori più antichi, afferma che il primo medico (greco) arrivato a Roma,
proveniva dal Peloponneso, sotto il consolato di L. Emilio e Marco Livio, nell'anno 535. Si trattava di
Arcagate, figlio di Lisania. Gli venne concessa la cittadinanza romana, gli si mise a disposizione una casa
sulla piazza Acilia, comperata con il denaro del tesoro dello Stato » (PLI. Nat. XXIX, 6).
Il fatto che la casa, messagli a disposizione, fosse stata acquistata col denaro dello Stato, sta a provare che
Arcagate fu ufficialmente invitato dal governo romano, e che era ospite di Roma con lo scopo di creare,
nell'Urbe, una nuova scuola medica.
Plinio aggiunge ancora: « Fu soprannominato vulnerarium, il chirurgo, ed il suo arrivo inizialmente fece
piacere ai Romani. Successivamente, però, la freddezza con cui praticava la chirurgia (saevitia), incidendo e
cauterizzando (secando urendoque), fece cambiare il suo soprannome in quello di carnefice (carnifex) ed
ispirò ripugnanza per la medicina e per la classe medica (in taedaúm artem omzaesque rnedzcos) ».
Evidentemente Arcagate introdusse a Roma tecniche operatorie ben più sofisticate di quelle praticate, fino a
quel momento, dai chirurghi romani; di qui il timore e il disgusto che riuscì a creare per la sua arte; timore e
disgusto che spinsero lo stesso Catone, uomo influente e rispettato dai contemporanei e feroce avversario
della cultura greca, a tale punto di repulsione, da fargli formalmente proibire al figlio di ricorrere alle cure di
medici greci: Interdzzi tibi de mediczs (CAT. in PLI. XXIX, 7).
Le idee di Catone dovettero avere una enorme influenza sulla opinione dei Romani, al punto che, due secoli
dopo la sua morte, lo stesso Plinio le considerava ancora attuali.
Malgrado ciò, i medici continuarono a giungere a Roma portandovi tutto il loro sapere, tutta la loro scienza e
tutta la filosofia greca.
Il più celebre fra i medici greci venuti a Roma fu senz'altro Artorius Asclepiade (Fig. 58) di cui non è rimasta
nessuna traccia scritta ma del quale si conservano citazioni in Plinio, Celso, Galeno e Celio Aureliano.
Si sa che nacque a Pruse in Bitinia, intorno all'anno 124 a.C. e che studiò filosofia e medicina in
una delle più celebri scuole dei suoi tempi, quella di Alessandria. Plinio narra che Asclepiade
giunse a Roma all'epoca di Pompeo il Grande: aetate Magni Pompeii. Fu amico e medico di
Cicerone: nos medico amicoque usi sumus (CIC. Ora. I, 62).
Da quanto ci è dato conoscere si può arguire che Asclepiade diede prova di raffinatezza clinica
sorprendente, che seppe distinguere le malattie acute da quelle croniche, e che, di alcune, descrisse anche
il ciclo evolutivo. Egli non credeva alla vis medzcatrzz della Natura, ponendosi in tal modo in contrasto con la
scuola ippocratica. La sua terapia si può definire fisico-meccanica ed igienico-dietetica. Coerentemente con
questo indirizzo, una parte importante dei suoi schemi terapeutici era costituita da digiuni, diete, regime
vegetariano, passeggiate, corse, equitazione, ginnastica, massaggi, idroterapia, mentre assai raramente
prescriveva medicamenti, sconsigliandone l'impiego, allora assai diffuso e massiccio.
Asclepiade formulò il precetto fondamentale che l'arte medica doveva operare cito, tute et lúcunde:
rapidamente, senza danni e gradevolmente. Asclepiade fondò a Roma una scuola di medicina. Fra i suoi
allievi più famosi si ricordano: Temisone, Crisippo. Clodio ed Antonio Musa, il medico personale di Augusto,
che curò e guarì l'imperatore da una affezione epatica con l'idroterapia, sostenuta fortemente dal suo
maestro Asclepiade.
La presenza a Roma di tanti medici greci contribuì a sviluppare e consolidare la medicina romana che, in tal
modo, con qualche spunto rimasto originale, progredì però sulle orme di quella greca. Ad esempio, Celso
racconta che, alla fine della sua vita, Temisone abbandonò le teorie di Asclepiade: ex Asclepiadis
successoribus Themision nuper quaedam in senectute deflexit (CEL. Med. Proemium).
G. Penso, La medicina romana, Saronno?, Ciba-Geigy 1985, pp. 82-85 BCTV
Plin., nat., 29, 7-27. La medicina
Multos praetereo medicos celeberrimosque ex iis Cassios, Carpetanos, Arruntios, Rubrios. CCL HS
annua<e i>is mercedes fuere apud principes. Q. Stertinius inputavit principibus, quod sestertiis quingenis
annuis contentus esset, sescena enim sibi quaestu urbis fuisse enumeratis domibus ostendebat. par et fratri
eius merces a Claudio Caesare infusa est, censusque, quamquam exhausti operibus Neapoli exornata,
heredi HS CCC reliquere, quantum aet<ate e>adem Arruntius solus. exortus deinde est Vettius Valens,
adulterio Messalinae Claudii Caesaris nobilitatus, pariterque eloquentiae adsectatores et potentiae nanctus
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novam instituit sectam. eadem aetas Neronis principatu ad Thessalum transilivit, delentem cuncta placita et
rabie quadam in omnis aevi medicos perorantem, quali prudentia ingenioque, aestimari vel uno argumento
abunde potest, cum monumento suo, quod est Appia via, iatronicen se inscripserit. nullius histrionum
equorumque trigarii comitatior egressus in publico erat, cum Crinas Massiliensis arte geminata, ut cautior
religiosiorque, ad siderum motus ex ephemeride mathematica cibos dando horasque observando auctoritate
eum praecessit, nuperque HS C reliquit, muris patriae moenibusque aliis paene non minore summa
extructis. hi regebant fata, cum repente civitatem Charmis ex eadem Massilia invasit damnatis non solum
prioribus medicis, verum et balineis, frigidaque etiam hibernis algoribus lavari persuasit. mersit aegros in
lacus. videbamus senes consulares usque in ostentationem rigentes, qua de re exstat etiam Annaei
Senecae adstipulatio. nec dubium est omnes istos famam novitate aliqua aucupantes anima statim nostra
negotiari. hinc illae circa aegros miserae sententiarum concertationes, nullo idem censente, ne videatur
accessio alterius. hinc illa infelicis monumenti inscriptio: "turba se medicorum perisse." mutatur ars cottidie
totiens interpolis, et in geniorum Graeciae flatu inpellimur, palamque est, ut quisque inter istos loquendo
polleat, imperatorem ilico vitae nostrae necisque fieri, ceu vero non milia gentium sine medicis degant nec
tamen sine medicina, sicuti populus Romanus ultra sexcentesimum annum, neque ipse in accipiendis artibus
lentus, medicinae vero etiam avidus, donec expertam damnavit.
Etenim percensere insignia priscorum in his moribus convenit. Cassius Hemina ex antiquissimis auctor est
primum e medicis venisse Romam Peloponneso Archagathum Lysaniae filium L. Aemilio M. Livio cos. anno
urbis DXXXV, eique ius Quiritium datum et tabernam in compito Acilio emptam ob id publice. vulnerarium
eum fuisse <eg>reg<i>u<m>, mireque gratum adventum eius initio, mox a saevitia secandi urendique
transisse nomen in carnificem et in taedium artem omnesque medicos, quod clarissime intellegi potest ex M.
Catone, cuius auctoritati triumphus atque censura minimum conferunt; tanto plus in ipso est. quam ob rem
verba eius ipsa ponemus: "Dicam de istis Graecis suo loco, M. fili, quid Athenis exquisitum habeam et quod
bonum sit illorum litteras inspicere, non perdiscere. vincam nequissimum et indocile genus illorum, et hoc
puta vatem dixisse: quandoque ista gens suas litteras dabit, omnia conrumpet, tum etiam magis, si medicos
suos hoc mittet. iurarunt inter se barbaros necare omnes medicina, sed hoc ipsum mercede faciunt, ut fides
iis sit et facile disperdant. nos quoque dictitant barbaros et spurcius nos quam alios 'Opikîn appellatione
foedant. interdixi tibi de medicis."
Atqu<i> hic Cato sescentesimo quinto anno urbis nostrae obiit, octogensimo quinto suo, ne quis illi defuisse
publice tempora aut privatim vitae spatia ad experiendum arbitretur. quid ergo? damnatam ab eo rem
utilissimam credimus? minime, Hercules. subicit enim qua medicina se et coniugem usque ad longam
senectam perduxerit, his ipsis scilicet, quae nunc nos tractamus, profiteturque esse commentarium sibi, quo
medeatur filio, servis, familiaribus, quem nos per genera usus sui digerimus. non rem antiqui damnabant,
sed artem, maxime vero quaestum esse manipretio vitae recusabant. ideo templum Aesculapii, etiam cum
reciperetur is deus, extra urbem fecisse iterumque in insula traduntur et, cum Graecos Italia pellerent, diu
etiam post Catonem, excepisse medicos. augebo providentiam illorum. solam hanc artium Graecarum
nondum exercet Romana gravitas, in tanto fructu paucissimi Quiritium attigere, et ipsi statim ad Graecos
transfugae, immo vero auctoritas aliter quam Graece eam tractantibus etiam apud inperitos expertesque
linguae non est, ac minus credunt quae ad salutem suam pertinent, si intellegant. itaque, Hercules, in hac
artium sola evenit, ut cuicumque medicum se professo statim credatur, cum sit periculum in nullo mendacio
maius. non tamen illud intuemur; adeo blanda est sperandi pro se cuique dulcedo. nulla praeterea lex, quae
puniat inscitiam capitalem, nullum exemplum vindictae. discunt periculis nostris et experimenta per mortes
agunt, medicoque tantum hominem occidisse inpunitas summa est. quin immo transit convitium et
intemperantia culpatur, ultroque qui periere arguuntur. sed decuriae pro more censuris principum
examinantur, inquisitio per parietes agitur, et qui de nummo iudicet a Gadibus columnisque Herculis
arcessitur, de exilio vero non nisi XLV electis viris datur tabella: at de iudice ipso quales in consili<um> eunt
statim occisuri! merito, dum nemini nostrum libet scire, quid saluti suae opus sit. alienis pedibus ambulamus,
alienis oculis agnoscimus, aliena memoria salutamus, aliena et vivimus opera, perieruntque rerum naturae
pretia et vitae argumenta. nihil aliud pro nostro habemus quam delicias. non deseram Catonem tam
ambitiosae artis invidiae a me obiectum aut senatum illum, qui ita censebat, idque non criminibus artis
arreptis, ut aliquis exspectaverit. quid enim venenorum fertilius aut unde plures testamentorum insidiae? iam
vero et adulteria etiam in principum domibus, ut Eudemi in Livia Drusi Caesaris, item Valentis in qua dictum
est regina. non sint artis ista, sed hominum: non magis haec urbi timuit Cato, ut equidem credo, quam
reginas. ne avaritiam quidem arguam rapacesque nundinas pendentibus fatis et dolorum indicaturam ac
mortis arram aut arcana praecepti, squamam in oculis emovendam potius quam extrahendam. per quae
effectum est, ut nihil magis pro re videretur quam multitudo grassantium; neque enim pudor, sed aemuli
pretia summittunt. notum est ab eodem Charmide unum aegrum e provincialibus HS CC reconductum,
Alconti vulnerum medico HS C damnato ademisse Claudium principem, eidemque in Gallia exulanti et
deinde restituto adquisitum non minus intra paucos annos. et haec personis inputentur. ne faecem quidem
aut inscitiam eius tur<pe>m arguamus: ipsorum <procerum> intemperantiam inmo<dic>is aquarum
calidarum deverticulis, imperiosa inedia et ab isdem deficientibus cibo saepius die ingesto, mille praeterea
paenitentiae modis, culinarum etiam praeceptis et unguentorum mixturis, quando nullas omisere vitae
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inlecebras. invehi peregrinas merces conciliarique externa pretia displicuisse maioribus crediderim equidem,
non tamen hoc Catonem providisse, cum damnaret artem. theriace vocatur excogitata compositio; luxuria
fi<n>xit rebus <s>ex<c>en<t>is, cum tot remedia dederit natura, quae singula sufficerent. Mithridatium
antidotum ex rebus LIIII componitur, inter null<a>s pondere aequali, et quarundam rerum sexagesima
denarii unius imperat<u>r, quo deorum, per Fidem, ista monstrante! hominum enim subtilitas tanta esse non
potuit; ostentatio artis et portentosa scientiae venditatio manifesta est. ac ne ipsi quidem illa novere,
conperique volgo pro cinnabari Indica in medicamenta minium addi inscitia nominis, quod esse venenum
docebimus inter pigmenta. verum haec ad singulorum salutem pertinent; illa autem, quae timuit Cato atque
providit, innocentiora multo et parva opinatu, quae proceres artis eius de semet ipsi fateantur, illa perdidere
imperii mores, illa, quae sani patimur, luctatus, ceromata ceu valitudinis causa instituta, balineae ardentes,
quibus persuasere in corporibus cibos coqui, ut nemo non minus validus exiret, oboedientissimi vero
efferrentur, potus deinde ieiunorum ac vomitiones et rursus perpotationes ac pilorum eviratio instituta resinis
eorum, itemque pectines in feminis quidem publicati. ita est profecto: lues morum, nec aliunde maior quam e
medicina, vatem prorsus cottidie facit Catonem et oraculum: "satis esse ingenia Graecorum inspicere, non
perdiscere".
[1.] La natura dei rimedi e il gran numero di quelli che dobbiamo ancora esaminare e di quelli
precedentemente passati in rassegna ci impegnano a fare un certo numero di considerazioni intorno alla
professione medica, pur essendo consapevoli che questa materia non è stata trattata da alcuno prima di noi
in lingua latina (1) e che, se vi è incertezza e pericolo nell'affrontare ogni argomento nuovo, tanto piú ciò ha
luogo con un soggetto come questo, cosí privo di fascino e cosí difficile da esporsi. Ma poiché è naturale che
a tutti coloro che sanno qualcosa di questo argomento venga fatto di chiedersi come mai siano andati in
disuso nella pratica della medicina rimedi già pronti e appropriati, e senz'altro ci si meraviglierà e ci
s'indignerà del fatto che nessuna arte è stata cosí instabile come questa e anche ora altrettanto soggetta a
cambiamenti, pur non essendovene di piú lucrose, dirò subito che per prima cosa la medicina ha elevato al
rango di divinità e consacrato al cielo i suoi inventori (2) ed anche oggi in varie forme si chiede agli oracoli la
guarigione dalle malattie (3). Quest'arte in seguito incrementò la propria fama anche con la malafede,
inventando la leggenda che Esculapio era stato colpito dal fulmine per aver risuscitato Tindaro (), senza mai
cessare per questo di far sapere che altri riacquistarono la vita per effetto suo; ed era già in auge ai tempi
della guerra di Troia (), epoca a partire dalla quale la tradizione si fa piú sicura (), anche se allora doveva la
sua fama solo alla cura delle ferite ().
[2.] Strano a dirsi, il seguito della sua storia rimane avvolto nel buio piú profondo fino alla guerra del
Peloponneso (). Allora la medicina fu riportata in luce da Ippocrate, nato nell'isola di Cos (), isola tra le piú
celebri e le piú potenti, consacrata ad Esculapio (). Vigeva in quel tempo il costume che le persone guarite
da malattie scrivessero nel tempio di quel dio il nome e la composizione del rimedio che le aveva aiutate,
affinché successivamente potesse giovare in casi simili (). Secondo la tradizione Ippocrate avrebbe ricopiato
quei documenti e, stando a quanto da noi crede Varrone (), dopo aver dato alle fiamme il tempio, se ne
sarebbe servito per istituire quella forma di medicina detta clinica (). In seguito non ci fu piú limite ai profitti
ricavati dalla professione, dacché Prodico, nato a Selimbria e discepoIo d'lppocrate (), fondò quella branca
che chiamano iatraliptica, assicurando lauti guadagni anche ai massaggiatori specializzati e agli assistenti ().
(3) Con la sua sfrenata loquacità Crisippo cambiò la scienza codificata dai propri predecessori (); a sua volta
rivoluzionò la dottrina di Crisippo il suo scolaro Erasistrato, nato da una figlia di Aristotele () . Questo medico,
per aver guarito il re Antioco (), ricevette in dono, cento talenti dal re Tolomeo, figlio di Antioco (). Questo
diciamo per cominciare ad evidenziare anche i proventi di quest'arte!
[4.] Un'altra setta, che si dette la denominazione di empirica dall'esperienza su cui si basava, nacque in
Sicilia con Acrone di Agrigento (), raccomandato dal prestigio del fisico Empedocle (). [5.] Queste scuole
entrarono in conflitto tra loro e furono tutte quante condannate da Erofilo, che riportò in una scala musicale i
battiti del polso secondo le diverse età (). Poi anche questa setta rimase senza aderenti, perché per militarvi
si richiedeva una cultura letteraria. Cosí pure subí mutamenti la scuola successivamente fondata, come
dicemmo, da Asclepiade (). Suo allievo fu Temisone, dapprima aderente alla dottrina del maestro, ma poi,
col procedere degli anni, suo rimaneggiatore (); altrettanto fece nei confronti di Temisone, Antonio Musa,
discepolo egli pure di Asclepiade, con l'appoggio autorevole del divino Augusto, che aveva liberato da un
grave pericolo con un metodo di cura opposto a quello precedentemente adottato (). Tralascio di parlare di
molti famosissimi medici, quali i vari Cassio, Carpetano, Arrunzio, Rubrio (). A questi gli imperatori
passavano un compenso di 250.000 sesterzi all'anno. Quinto Stertinio () si fece un merito, davanti a loro, di
contentarsi di 500.000 sesterzí all'anno, dimostrando, indirizzi alla mano, che la sua clientela a Roma gliene
fruttava 600000. Lo stesso onorario fu versato a suo fratello dall'imperatore Claudio (): cosí questi due,
sebbene avessero consumato i loro averi nelle spese per l'abbellimento di Napoli, lasciarono in eredità trenta
milioni di sesterzi, quanto Arrunzio ammassò da solo in quegli stessi anni. Venne poi alla ribalta Vezio
Valente, famoso per la sua relazione adulterina con Messalina moglie dell'imperatore Claudio (); questo
medico, avendo trovato dei seguaci conquistati al tempo stesso dalla sua eloquenza e dal suo prestigio,
fondò anche lui una nuova setta (). In quello stesso periodo, sotto l'impero di Nerone, la medicina passò
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nelle mani di Tessalo, che cercò di demolire tutte le dottrine e se la prese con una sorta di furore con i
medici di ogni età (); con quale discrezione e spirito, si può giudicare a sufficienza anche da questo solo
particolare: nel suo monumento funebre sulla via Appia () si fece incidere l'appellativo di «vincitore dei
medici» (). Nemmeno gli istrioni o i guidatori di triga () comparivano in pubblico con un codazzo piú
numeroso; ma proprio allora lo superò in prestigio Crinas di Marsiglia (), che associava due scienze () per
dare l'impressione di una maggiore prudenza e scrupolosità: regolava il regime alimentare e fissava gli orari
sul movimento degli astri consumando una tabella astronomica (). Ha lasciato recentemente dieci milioni di
sesterzi, dopo aver speso quasi altrettanto nel far costruire le mura della sua patria e le fortificazioni di altre
città. Questi erano i padroni del nostro destino, quando all'improvviso piombò nella nostra città Carmide,
originario anche lui di Marsiglia. Egli non si limitò a condannare i medici che lo avevano preceduto, ma criticò
anche l'uso dei bagni caldi e convinse la gente a bagnarsi nell'acqua fredda pure durante i rigori invernali.
Addirittura fece immergere i malati in vasche e bacini (). Assistevamo cosí allo spettacolo di vecchi consolari
intirizziti e orgogliosi di mostrarlo; a conferma posso produrre la testimonianza di Anneo Seneca (). Non c'è
dubbio che tutti codesti mestieranti in cerca di fama con qualsiasi stramberia trafficano disinvoltamente sulla
nostra vita. Ecco spiegate quelle meschine dispute dottrinali al capezzale dei malati, in cui tutti la pensano in
modo diverso per non dare a vedere di condividere il parere altrui (). Da qui quella tragicomica iscrizione
funebre: «Morto di troppi medici» (). Quest'arte tante volte rimaneggiata cambia tuttora ogni giorno e noi ci
lasciamo trasportare dal vento della moda greca, ed è lampante che il piú abile tra costoro nel parlare ()
diviene subito arbitro incontrastato della nostra vita e della nostra morte: quasi che migliaia di nazioni non
vivano senza medici, non già senza medicina (), come ha fatto per oltre seicento anni il popolo romano, pure
tutt'altro che lento nell'accogliere le arti, della medicina poi addirittura avido, fin quando, sperimentata, la
ripudiò.
(6) In effetti è il momento di esaminare avvenimenti notevoli del passato in relazione all'etica medica.
Secondo quanto attesta Cassio Emina, una delle fonti piú antiche (), il primo medico giunto a Roma fu
Arcagato (), figlio di Lisania, proveniente dal Peloponneso (), sotto il consolato di Lucio Emilio e Marco Livio,
nell'anno 535 di Roma [219 a. C.]; gli fu concesso il diritto di cittadinanza () e gli fu messa a disposizione una
bottega () acquistata con denaro pubblico al crocicchio Acilio, per esercitare la professione (). Per la sua
specializzazione fu chiamato chirurgo, e all'inizio la sua venuta fu molto apprezzata, ma ben presto, per la
crudeltà con cui tagliava e bruciava, il suo appellativo fu mutato in quello di carnefice (), e vennero in odio la
medicina e tutti i medici. Ciò risulta con estrema chiarezza da quanto scrive Marco Catone (), figura al cui
carisma ben poco possono aggiungere il trionfo e la carica di censore (), tanto maggiore essendo il suo
valore intrinseco. Per questo citeremo le sue precise parole": [7.] «Ti parlerò al momento opportuno di
codesti Greci, o Marco figlio mio (): delle mie ricerche ed esperienze in Atene () e di come sia giusto aver
una conoscenza superficiale della loro cultura, senza approfondirla (). Ti convincerò che la loro è una genia
perversa e incorreggibile: fa conto che questo te l'abbia detto un profeta! II giorno in cui codesta gente ci
darà le sue scienze corromperà tutto, tanto piú se manderà da noi i suoi medici. Hanno congiurato di
ammazzare con la medicina tutti i barbari, ma lo fanno dietro pagamento, per ottenere fiducia e sterminare
gli altri senza sforzo (). Anche noi Romanici definiscono comunemente barbari e ci insultano piú
vergognosamente degli altri dandoci il nome di Osci (). Ti ho fatto solenne divieto di ricorrere ai medici ».
[8.] Ora il nostro Catone è morto nell'anno 605 di Roma [114 a. C.], all'età di ottantacinque anni (): non si dirà
dunque che egli non abbia avuto le occasioni nella sua vita pubblica () o i momenti in quella privata per fare
le sue esperienze. E allora? Dobbiamo credere che egli abbia condannato un'arte assai utile? No di certo!
Infatti indica () i rimedi usati per far raggiungere a se stesso e a sua moglie una vecchiaia avanzata, appunto
questi stessi rimedi di cui ora ci occupiamo, ed afferma di avere un libretto di ricette con cui curare il figlio, gli
schiavi, gli amici (), opera da cui noi attingiamo distribuendo il materiale secondo i tipi d'impiego (). Gli antichi
dunque condannavano non la medicina in sé, ma come mestiere; soprattutto non accettavano l'idea di un
utile da un compenso ricavato sulla vita umana (). Per questo si tramanda che il tempio di Esculapio, anche
quando lo accolsero come divinità, lo costruirono fuori della città e una seconda volta in un'isola (), e che, in
occasione della cacciata dei Greci dall'Italia, molto tempo dopo Catone, tra coloro da bandire designarono
espressamente i medici (). Ma voglio rincarare la dose. Questa medica è l'unica arte greca finora rifiutata
dalla dignità romana: malgrado la prospettiva di grossi guadagni, pochissimi tra i Romani vi si sono dedicati,
e si tratta di disertori subito passati in campo greco (), tant'è vero che non gode prestigio se non chi in
questa professione usa il greco, perfino presso le persone ignoranti e digiune di questa lingua: la gente in
fatto di salute è piú diffidente, se è in grado di capire! E cosí, credetemi, la medicina è la sola arte in cui
subito ci si affida al primo venuto che si professa medico, mentre in nessun altra impostura c'è maggior
pericolo. Tuttavia non ce ne preoccupiamo, sedotti come siamo, ciascuno, dalla dolce speranza della
guarigione. D'altra parte non v'è nessuna legge che punisca un'imperizia che può costare la vita, nessun
esempio di rivalsa () nei suoi confronti. I medici imparano a nostro rischio e pericolo e fanno le loro
esperienze sulla pelle dei malati; solo al medico è garantita l'assoluta impunità nel commettere un omicidio
(). Di piú, si ritorce il biasimo sul paziente, si dà la colpa alla sua indisciplinatezza (), e chi è morto deve per
di piú subire un processo. I giudizi delle decurie (), conforme alla tradizione, passano al vaglio della censura
imperiale, per una inchiesta giudiziaría si indaga e si fruga nella casa, per la questione di un sesterzio si fa
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muovere un giudice da Cadice e dalle Colonne d'Ercole (), per decidere un esilio ci vogliono almeno 45
giurati con diritto di voto; quando poi si tratta della vita di quello stesso giudice, di quali persone si compone
la giuria che ha il potere di condannarlo immediatamente a morte! Ci sta bene, perché a nessuno di noi
preme sapere che cosa veramente ci vuole per la propria salute. Ci muoviamo con le gambe degli altri,
riconosciamo con gli occhi degli altri, salutiamo grazie alla memoria degli altri, addirittura viviatno per le cure
altrui (), e intanto vanno perduti i beni preziosi della natura e le sue lezioni di vita (). Dipendiamo in tutto dagli
altri fuorché per i nostri piaceri (). Non lascerò Catone esposto per causa mia all'odio di una professione
tanto ambiziosa, né quel Senato che la pensava come lui (), e lo farò senza mettere in stato d'accusa i delitti
della medicina, come qualcuno potrebbe aspettarsi. In effetti quale altra professione conta più avvelenamenti
o più intrighi per assicurarsi testamenti? Essa ha favorito gli adulterî anche nelle dimore imperiali, come
quello di Eudemo con Livia, moglie di Druso Cesare , e parimenti di Valente con l'imperatrice di cui ho
parlato (). Ammettiamo pure che codeste siano colpe non dell'arte, ma degli uomini: secondo me Catone
temeva per la città questi mali non piú che il sorgere di imperatrici! (). Neppure accuserò l'avidità e questi
rapaci mercati davanti al letto dei moribondi, il prezzo fissato per lenire i dolori, la caparra sulla morte, i
sotterfugi del mestiere, come quello di abbassare la cateratta invece di estrarla (). Col risultato che niente
finisce per essere piú vantaggioso che questo affollarsi di avventurieri: infatti non il pudore ma la
concorrenza fa da calmiere (). È noto che il summenzionato Carmide () fu ricondotto a curare un malato della
provincia con una somma di 200.000 sesterzi; che l'imperatore Claudio multò di 10 milioni di sesterzi il
chirurgo Alconte e glieli confiscò, e che il medesimo medico richiamato a Roma dall'esilio in Gallia, nel giro di
pochi anni rimise insieme una somma non inferiore (). Ma imputiamo pure questi fatti a singoli individui; non
mettiamo sotto processo neppure la feccia o la massa ignorante dei medici, la loro irresponsabilità nelle cure
delle malattie con la scappatoia dei bagni caldi, con l'imposizione di uno spietato digiuno e poi ripetute
somministrazioni di cibo durante la giornata, quando i malati non hanno piú forze, con mille altre forme di
ripensamento, inoltre con precetti culinari e preparazioni di profumi (), dal momento che non hanno
trascurato proprio nessuna delle seduzioni del vivere. Io credo che i nostri antenati non vedessero di buon
occhio l'importazione di prodotti esotici acquistati secondo tariffe fissate all'estero (), ma che tuttavia non
fosse questo che aveva previsto Catone, quando condannava l'arte medica. Si dà il nome di teriaca () ad
una preparazione inventata per sfoggio. Vi entra una congerie sterminata di ingredienti; e pensare che la
natura fornisce tanti rimedi, ognuno dei quali basterebbe a guarire da solo (). L'antidoto di Mitridate () si
compone di 54 sostanze, tutte in dosaggio diverso e di alcune se ne prescrive la sessantesima parte di un
denario (), dietro indicazione di quale dio, in fede mia? L'acume umano non avrebbe potuto spingersi a tanto:
come non vedervi un'ostentazione dell'arte, una mostruosa ciarlataneria? D'altronde neppure gli stessi
medici conoscono bene le medicine, anzi ho potuto appurare che per una confusione delle denominazioni al
posto del cinabro indiano () nei preparati aggiungono comunemente il minio (), sostanza velenosa, come
indicherò parlando delle materie coloranti (). Ma questi errori attentano alla salute di questo o quell'individuo;
invece le pratiche che temeva e prevedeva Catone, giudicate molto piú innocue e scarsamente importanti,
rivendicate e avallate dai luminari della medicina, quelle sí hanno pervertito i costumi dell'impero (): quei
trattamenti, quegli esercizi cui ci assoggettiamo quando siamo in salute, come la lotta (), le unzioni a base di
olio e cera () introdotte nell'uso sotto il pretesto dell'igiene, i bagni bollenti indicati per favorire la digestione, il
cui bel risultato è questo: tutti ne escono sfibrati, i pazienti piú docili ne vengono rilevati pronti per la
sepoltura (). E ancora le bevande a digiuno (), il vomito per tornare a nuove abbondanti libagioni (), la
depilazione attuata con le resine () fornite dai medici: e cosí le donne possono mostrare le cosce in pubblico
()! Questo è il quadro della situazione: la corruzione dei costumi, la cui causa principale è la medicina, solo
la medicina, conferma ogni giorno la profezia di Catone e convalida il suo oracolo, secondo cui «basta avere
una conoscenza superficiale delle invenzioni () del genio greco, senza approfondirle ».
Questo è quanto ho sentito il dovere di dire a difesa di quel senato e per quei seicento anni di storia del
popolo romano (), contro un'arte nella quale la situazione di estremo pericolo spinge la gente per bene a
conferire autorità agli individui piú loschi, e al tempo stesso contro la sciocca convinzione di certe persone
che vedono un rimedio efficace solo in ciò che costa caro ().
Trad. U.Capitani, Torino, Einaudi, 1986. [BCTV]
Lettura critica. U. Capitani, il libro XXIX
Si è supposto che gli attuali libri XXIX e XXX fossero originariamente uniti e costituissero un unico ampio
volumen. Risulterebbe da un passo della storia della magia (XXX, 12), dove con le parole Extant certe et
apud Italas gentes vestigia eius in XII tabulis nostris aliisque argumentis quae priore volumine exposui, Plinio
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non può che riferirsi a XXVIII. 17. In effetti appare improprio rendere priore volumine con l'espressione «in un
libro precedente», come alcuni propongono. Se si accetta questa ipotesi dobbiamo ammettere che, quando
per l'ampiezza della materia Plinio decise di dividere il primitivo volumen unico in due libri distinti, il testo
contenente allora una inesattezza non fu modificato, forse per mancanza di una accurata revisione. Della
primitiva unità dei libri XXIX-XXX abbiamo del resto altri indizi: l'omogeneità dell'argomento per quanto
concerne la trattazione tecnica (rimedi tratti da animali dello stesso tipo per le singole malattie, secondo il
solito schema a capite ad calcem), anzi la continuità della stessa: XXIX si chiude con le medicine per le
malattie dell'orecchio, da XXX. 21 riprende la rassegna dei rimedi per i vitia oris (stessa successione nel libro
XXVIII), la presenza degli stessi nomi di autore con pochissime eccezioni negli indici delle fonti, la tecnica di
compilazione delle tavole della materia negli indici di ciascuno dei due libri: per ogni animale o droga
adoperati in medicina viene segnalato il numero totale di impieghi tra il libro XXIX e il XXX. È vero che, oltre
a fornire questo totale, si specifica anche quante volte quell'animale o quella droga trova impiego in quel
rispettivo libro e quante nel successivo (per il libro XXIX) o nel precedente (per il libro XXX); ma queste
suddivisioni, questi conteggi possono benissimo essere posteriori alla ripartizione dell'ampio volumen
iniziale, attribuibili a Plinio stesso o a qualche revisore. D'altronde non è eccezionale, nella Nuturalis historia,
una stretta connessione tra due libri contigui, che può far legittimamente pensare ad una originaria stesura
unitaria (cfr. libri XIII-XIV).
Si è anche avanzata l'ipotesi che la storia della magia che attualmente apre il libro XXX fosse inizialmente
collocata al principio del postulato volumen unico: infatti se Plinio l'avesse composta in occasione della
ripartizione in due libri e inserita allora nella sede attuale, risulterebbe del tutto immotivata e in comprensibile
l'espressione priore volumine, che ricorre per l'appunto all'interno di quell'excursus. Per contro non avrebbe
avuto senso la presenza di questa ricerca storica a metà del volumen unico. a interrompere la trattazione
tecnica «rimedi per malattia» già iniziata: spostata al principio di XXX per motivi che a noi sfuggono, quando
Plinio divise il volumen unico in due parti, rimase scoperta la parte iniziale del libro XXIX attuale, e Plinio
colmò il vuoto coli quel profilo di storia della medicina che oggi leggiamo e che costituisce il punto di
partenza dell'esposizione.
L'esordio: Naturae remediorum atque multitudo instantitim ac praeteritorum plura de ipsu rnedendi arte
cogunt dicere, quamquam non ignaros, nulli ante haec Latino sermone condita... pone subito un problema.
Plinio si vanterebbe qui di essere il primo scrittore di medicina in lingua latina? Questa affermazione sarebbe
evidentemente falsa. Infatti egli aveva conoscenza della precedente produzione romana su questa disciplina
e aveva utilizzato come fonte gli scritti medici di Catone, Varrone, Celso; sapeva probabilmente delle
Compositiones del quasi coevo Scribonio Largo e citava altri medici di lingua latina, come risulta dagli indici
delle fonti. per trovare una chiave esegetica soddisfacente credo che si debba riflettere sul significato
pregnante dell'aggettivo ipsa (= «in sé e per sé » ) e su quel gerundio genitivo medendi, piú forte e incisivo di
un comune attributo come medica. Plinio sosterrebbe, a mio avviso, di essere il primo scrittore in lingua
latina ad occuparsi in maniera esauriente (plura comparativo assoluto) dell'«arte del curare» come
idealmente dovrebbe essere e come realmente l'aveva esercitata il pater familias di catoniana memoria, e
quale invece non era più ai suoi tempi per la decadenza dei costumi e la corruzione della stessa medicina di
stampo greco. Arte del curare che implica ben definite relazioni tra il medico e il paziente, in primo luogo il
rispetto di un codice deontologico spesso violato, che presuppone scienza e coscienza assenti in parecchi
medici dell'età imperiale. Di questa involuzione della medicina Plinio tratta appunto nelle prime pagine del
XXIX libro. Ad essa non avevano dedicato la loro attenzione i piú tecnici Varrone, Celso, Scribonio Largo;
semmai Catone aveva intuito l'importanza della questione coi suoi riflessi sulla società romana, ma egli era
ormai lontano nel tempo, un simbolo più che un modello. Sotto questa luce Plinio poteva allora vantarsi di
essere il primo a de ipsa medendi arte dicere.
S'imponeva però una cornice storica. Per questo Fautore ha dedicato alcuni paragrafi alla storia della
medicina greca e rornana, un cui profilo avrebbe trovato sede più logica, ma non più appropriata, nel XX
libro, dove ha inizio la materia medica della Naturalis histroria. Con una esposizione più ampia e coerente
rispetto ai brevi cenni sulla storia della medicina greca già presenti in XXVI. 10 sgg., Plinio parte dall'origine
leggendaria dell'ars col suo mitico fondatore Eseulapio dalla medicina essenzialmente chirurgica dell'epoca
troiana, per giungere attraverso Ippocrate e i principali maestri ai rappresentanti dell'ultima età repubblicana
e della prima età imperiale (parr, 2-6). La fonte essenziale è Varrone, puntualmente citato (4) a proposito di
Ippocrate fondatore della clinica medica copiando - secondo alcuni maligni - le indicazioni lasciate scritte dai
malati, guariti da Esculapio, sulle pareti del tempio consacrato a quel dio a Cos. Quel tempio Ippocrate lo
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avrebbe dato alle fiamme, evidentemente per disperdere ogni traccia circa l'origine del suo sapere! Questa
immagine poco lusinghiera di lppocrate sembra provenire da un filone antiellenico e potrebbe risalire a
Catone, fiero avversario della cultura e della medicina greca, come piú avanti Plinio ce lo presenta; ma
anche in patria il padre della medicina aveva i suoi detractores, abili nel travisare i motivi del suo rifiuto al
Gran Re di recarsi in Persia. Tale atteggiamento, nella propaganda :xenofoba di Catone, diventerà, con una
accorta forzatura, odio verso i barbari e progetto di sterminio e sarà trasferito da Ippocrate a tutti i medici
greci (cfr. par. 14). Ma anche Plinio peccava di trasformismo: infatti l'Ippocrate del XXIX libro è ben diverso
da quello presentato in XXVI. 10 qui primus medendi praecepta clarissime condidit.
La menzione di famosi maestri greci operanti in Roma (par. 6) costituisce un comodo tramite per una
rassegna di medici stranieri di scarso valore, alcuni anzi pseudo-medici, ciarlatani, impostori venuti a
esercitare a Roma sotto gli ultimi Claudi, attratti dal miraggio di lauti guadagni e di un prestigio facilmente
ottenibile (7-11). Cosí dopo uno schizzo di storia della medicina greca, abbiamo un interessante spaccato di
storia della medicina romana contemporanea all'autore. L'arrivo di medici forestieri, all'inizio quasi tutti greci,
datava in effetti da molto prima (III secolo a. C.) e in un certo senso era stato favorito e stimolato dalla
dedica di un tempio a Esculapio (Asclepio romano) nell'isola Tiberina nel 291 a. C. Col dare cittadinanza ad
un nume straniero i Romani segnalavano la loro disponibilità, il loro favore verso i rappresentanti terreni
dell'ars curandi, originari della stessa nazione di quel dio. E proprio da un passo di Plinio immediatamente
successivo (12-13) sappiamo della venuta a Roma del primo medico greco, Arcagato, nel 219 a. C. Altri píú
tardi lo avevano seguito, come c'informano varie fonti: per lo piú si trattava di schiavi poi divenuti liberti
proprio per i loro meriti nella professione, piú raramente di uomini liberi che tentavano la fortuna in una città
che offriva alla loro attività un vasto campo ancora vergine, in quanto l'esercizio dell'ars non era compatibile
colla dignità del civis romano. Esisteva, è vero, - come Plinio stesso rileva, - una medicina romana gestita
dal pater familias, basata sui semplici e su qualche formula magica, ma essa appariva ormai insufficiente
alle classi colte che preferivano rivolgersi a piú esperti stranieri. Proprio perché considerata estranea al
costume romano, alla professione medica non veniva imposto alcun limite giuridico: lo stato non rilasciava
diplomi, non chiedeva garanzie.
Andava cosí maturando una situazione estremamente favorevole per avventurieri e mestieranti già alcuni
secoli prima che Plinio lamentasse come ogni persona priva di scrupoli, ma dotata di una buona parlantina,
potesse decidere di fare il medico con ottime probabilità di successo (11). Non mancavano i cultori di
pratiche magiche di matrice orientale: già all'epoca della spedizione di Serse, la Grecia era entrata in
contatto coi Magi, dei quali l'accompagnatore del Gran Re, il «saggio » Ostane, oggetto di sarcasmo da
parte di Plinio, era divenuto il rappresentante simbolico. Pochi peraltro ottenevano fama e guadagni: il
giuoco di parole plautino medicus-mendicus implica condizioni di vita spesso precarie, ai margini della
società. Nel I secolo a. C. elevarono il prestigio della classe medica figure come quelle di Asclepiade e
Antonio Musa. Il primo, verso cui Plinio non è troppo tenero (cfr. XXVI. 12 sgg.), fu medico personale di
Crasso e amico di Cicerone, il secondo ebbe l'onore di una statua sul Palatino per aver guarito Augusto.
Indice d'altronde di un generale miglioramento della levatura dei medici è la concessione della cittadinanza
romana agli stranieri esercitanti l'ars da parte di Giulio Cesare nel 46 a. C. e il permesso di rimanere
nell'urbe limitato a curatores e praeceptores, in occasione della cacciata dei forestieri da Roma sotto
Augusto. Ma, per tornare al fattore economico, grossi compensi pretesero ed ottennero nei primi decenni
dell'era volgare gli archiatri, cioè i medici dell'imperatore e della sua famiglia. Ancora da Plinio sappiamo (78)
che, sotto Claudio, Stertinio guadagnava circa mezzo milione di sesterzi all'anno e lasciò morendo un'eredità
di trenta milioni di sesterzi.
Accanto al tema del lucro come molla della professione, Plinio sviluppa quello della competizione tra medici
(11): il topos ritorna in Marziale e in un tardo scrittore di medicina, Teodoro Prisciano. E intanto, mentre i
luminari, circondati da un codazzo di ammiratori (Plinio, par. 9) e accompagnati da uno stuolo di assistenti
(Marziale), discettano, anzi polemizzano, presso il letto del malato, il disgraziato muore senza alcuna
assistenza, ma vuole che la sua iscrizione funeraria suoni - tardiva vendetta - «morto di troppi medici ».
L'iscrizione sull'immaginario monumentum di quell'infelix cosí ben curato fa pendant col borioso epiteto di
iatronice, «vincitore dei medici», voluto da Tessalo di Tralles per la sua tomba sulla Via Appia (cfr. par. 9).
Un altro aspetto negativo della medicina ufficiale di matrice greca sottolineato da Plinio (11) è il continuo
mutamento degli indirizzi, delle dottrine, con funesti riflessi nella pratica. Tutt'altra cosa era stata la medicina
senza medici della tradizione romana, che aveva tutelato la salute del popolo per piú di seicento anni, fino
all'età di Catone, tenace avversario della cultura e della scienza greca. E niente poteva meglio giustificare
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questa ostilità del Censore del ricordo di Arcagato, il primo medico straniero venuto a Roma, che, dopo un
buon esordio come valente chirurgo, fu chiamato carnefice per la spregiudicatezza dei suoi interventi e poi
messo al bando (12-13). Certamente non sarà stato un episodio isolato a disilludere i Romani e disgustare
Catone, ma una serie di atteggiamenti e comportamenti antitetici rispetto ai metodi del pater familias
erborista e terapeuta, tanto piú sospetti perché provenivano da uomini d'altra nazione e di diversa mentalità.
In ogni caso l'avversione di Catone, data anche l'autorità del personaggio, fu un elemento decisivo per la
crociata antiellenica, che fece seguito al primitivo un po' ingenuo entusiasmo. Proprio al celeberrimo brano
catoniano trascritto dalla sezione medica del Libri ad Marcum filium (14) Plinio attribuisce la funzione e il
significato di un manifesto ancora valido sul piano ideale, per quanto inattuabile nella nuova realtà storica
della Roma imperiale. Ma duecento anni prima il senato e il popolo lo avevano accolto e c'era stata una
nuova cacciata di medici greci da Roma: una notizia, questa, che troviamo solo in Plinio (16) insieme all'altra
(15) di una produzione di Catone nell'ambito medico piú vasta rispetto a quella comunemente nota. Catone
del resto polemizzava non con la medicina in quanto tale, ma con i «nuovi metodi» con cui veniva esercitata
(15- 16).
Prevedibile a questo punto la circostanziata denunzia di tutti i mali dell'ars, cioè della professione (17-24):
l'incompatibilità tra l'esercizio e la gravitas romana, la gestione della medicina da parte di stranieri spesso
incompetenti o di Romani grecizzanti che tradivano gli antichi ideali, l'uso di un idioma straniero per
avvincere e confondere il malato, l'impunità del medico anche quando uccide o almeno la sua abitudine di
rigettare sul paziente la colpa di un insuccesso terapeutico, la disponibilità a imbrogli d'ogni genere, la
complicità in avvelenamenti, i sotterfugi con cui si prolungano le malattie a fine di lucro, l'assurdità di tanti
trattamenti con invasione di campi non pertinenti la medicina. Ma anche la clientela ha le proprie
responsabilità: con troppa disinvoltura ripone la propria salute, spesso la vita, in mani cosí poco
raccomandabili. Simbolo di un'arte terapeutica volta piú a illudere che a curare sono farmaci stravaganti e
costosi come la teriaca e l'antidoto di Mitridate (24): alle complicate formule di queste misture viene
contrapposta la semplicità della natura medicatrix, anche questo un luogo comune ribadito da scrittori
posteriori influenzati da Plinio, come l'anonimo compilatore della Medicina Plinii e il già citato Teodoro
Prisciano.
L'autore rivela qui la sua adesione allo stoicismo; ma questa risulta con ancor maggiore evidenza in un
passo successivo dove, dopo un richiamo all'imperizia dei medici in campo farmacologico col rischio
conseguente di scambi tra sostanze (25), si finisce per imputare all'ars medendi del tempo la corruzione e la
decadenza dei costumi (26-27), il tutto in uno stile colorito e barocco che richiama alla mente pagine di
Seneca. Questa enfasi rimane nella successiva stucchevole laudatio ternporis acti seguita dalla puntata
polemica contro quei contemporanei che giudicano dal prezzo la bontà dei rimedi, un'osservazione questa
ancora attuale. Il tono si smorza alla fine del capitolo con l'accenno all'utilità terapeutica anche di semplici
insetti come la mosca e la formica.
Mentre per questa prima parte del libro, pur avendo presenti Varrone e Catone, Plinio rivela una certa
originalità di pensiero, con il ritorno all'argomento tecnico si limita a rielaborare notizie fornite dalle sue fonti
abituali: per particolari di carattere magico-superstizioso soprattutto Anassilao e Senocrate, per i precetti di
una medicina piú razionale, in primo luogo Sestio Nigro, sporadicamente Varrone. Attinge poi anche da altri
autori non tecnici come Verrio Flacco, Muciano, Masurio Sabino, per aneddoti e curiosità che costituiscono
momenti di pausa graditi al lettore nella faticosa lettura dell'insieme. Cosí, dopo l'arida esposizione dei rimedi
forniti dalla lana e dallo oesypum (29-38) e dall'uovo (39-54), diverte il breve inserto sull'uovo di serpente
(52-54)
Collegamenti puramente meccanici e associazioni d'idee portano Plinio a passare dall'uovo d'oca ad un
preparato a base di grasso di questo volatile (55-56); poi al celebre episodio delle oche salvatrici della patria
durante l'assedio dei Galli. Le oche richiamano alla memoria i cani che in quell'occasione - poco patriottici! non abbaiarono; e Plinio si sente autorizzato a ricordarne i sacrifici di carattere punitivo-espiatorio, per poi
accennare al sangue del cane come antidoto contro i veleni delle frecce (57-58), tenue collegamento col
tema della terapia dei veleni animali per mezzo di sostanze animali.
A parte la diversa farmacopea, la sezione dedicata alle medicine contro i serpenti e altri animali velenosi con
un'appendice sulle cure dell'idrofobia (59-105) è più ampia e complessa della corrispondente nel libro XXVIII.
Si possono individuare due criteri espositivi, non sempre separati e distinti: da un lato un elenco di vari ofidi,
sauri, insetti, ragni velenosi con l'indicazíone (lei corrispondenti antidoti, dall'altro brevi sintesi di rimedi
ricavabili da animali ostili alle specie suddette, secondo il principio dell'antipatia naturale. Tutto questo, non
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cosí netto e preciso come risulta dalla nostra schernatizzazione, ma con le abituali sovrapposizioni, con
improvvisi passaggi ad un ordine diverso, con intrusione di materia estranea. Spesso la curiosità per i
miracula e il senso del colore prevalgono sul rispetto degli schemi classificatori: cosí il leggendario basilisco,
l'enigmatico draco, l'infida vipera sono trattati più nell'ottica di realizzatori di portenti ed eccezionali fornitori di
rimedi anche contro se stessi (similia similibus curantur!), che in quella di creature pericolose contro cui
difenderci con opportune terapie, come sarebbe logico attenderci. Ma il duplíce ruolo veleno-medicina torna
in evidenza con le cantaridi in un capitolo-digressione che Plinio sembra aver composto piú per l'opportunità
di riesumare episodi storici che per un'esigenza scientifica. E la salamandra, animale ritenuto velenoso e a1
centro di molte fabulae, interessa non per gli antidoti contro il suo veleno, ma per l'ipotetica facoltà di
spengere il fuoco: falsa credenza, dice Plinio, altrimenti non sarebbe divampato l'incendio di Nerone (76)! Se
poi Plinio, esulando dal tema, ancora segnala come anticoncezionale un vermicello presente nel corpo del
ragno falangio, e moralisticamente si scusa per l'audace suggerimento - ma l'eccessiva fertilità di certe
donne richiede una qualche venia (85) -, ciò rivela un'attenzione particolare verso un fatto di costume ed un
problema, il controllo delle nascite, che doveva preoccupare anche il mondo antico.
Cosí, nel XXVIII libro, dopo i rimedi contro i veleni vengono quelli per le singole malattie secondo il solito
ordine. Qui però troviamo solo le terapie per le malattie della testa, della vista e dell'udito (106-43), perché
per le altre affezioni il materiale è esposto nel libro XXX; e come nel XXVIII, maggior spazio viene concesso
ad una medicina piú attendibile e meno stravagante che in altre parti, ispirata ad un sano empirismo. Ma
anche l'ultima ricetta che leggiamo prima della formula di passaggio al libro seguente - grilli pestati e
spalmati sulla gola o portati come amuleto contro gli orecchioni - conferma l'adesione all'elemento magicosuperstizioso verso cui Plinio è costantemente attratto come i suoi contemporanei Lucano e Petronio.
U.Capitani Nota introduttiva al libro XXIX in ed.,Torino, Einaudi, 1986. [BCTV]
Bibliografia
ed. Jan - Mayhoff, Leipzig 1892 - 1933
ed. A. Ernout - Beaujeu (tr.fr), Paris 1950 segg.
G.B.Conte (testo e tr.it,), Torino 1982-88.
Frammenti storici in HRR Peter
Naturalis historiae libri XXXVII, ed. L. Jan, C. Mayhoff
Vol. I. Libri I-VI. 1996 (1906)
Vol. II. Libri VII-XV. 1986 (1909).
Vol. III. Libri XVI - XXII. 1987 (1892).
Vol. IV. Libri XXIII - XXX. 1967 (1897).
Vol. V. Libri XXXI - XXXVII. 1986 (1897).
Vol. VI. Indices. 1987 (1898).
Livre XXII. (Importance des plantes). ed. J. André. 1970.
Livre XIV. (Des Arbres fruitiers : la vigne). ed. J. André. 1958.
Livre II. (Cosmologie). ed. J. Beaujeu. 1950.
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Livre X. (Des Animaux ailés). ed. E. de Saint Denis. 1961.
Livre XIII. (Des Plantes exotiques). ed. A. Ernout. 1956.
Livre XII. (Des Arbres). ed. A. Ernout. 1949.
Livre XI. (Des Insectes. Des ed.ties du corps). edd. A. Ernout et R. Pépin. 1947.
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Livre V, 1re partie. (Géographie : Lā€™Afrique du Nord). ed. J. Desanges. 1980.
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Livre I. Préface et Table des matières par J. Beaujeu. Introduction par A. Ernout. 1950.
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Livre VI, 2e partie. (Géographie: Lā€™Asie centrale et orientale; lā€™Inde). ed. J. André et J. Filliozat.
1980.
Livre XXVIII. (Remèdes tirés des animaux). ed. A. Ernout. 1962.
Livre XXXV. (De la Peinture). ed. M. Croisille. 1985.
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Livre XXXIV. (Des Métaux et de la sculpture). ed. H. Le Bonniec et H. Gallet de Santerre. 1983.
Livre XXXIII. (Nature des métaux). ed. H. Zehnacker. 1983.
Livre XXXII. (Remèdes tirés des animaux aquatiques). ed. E. de Saint-Denis. 1966.
Livre XXXI. (Remèdes tirés des eaux). ed. G. Serbat. 1972.
Livre XVII. (Caractères des arbres cultivés). ed. J. André. 1964.
Livre XXIX. (Remèdes tirés des animaux). ed. A. Ernout. 1962.
Livre XXVII. (Remèdes par espèces). ed. A. Ernout. 1959.
Livre XXVI. (Remèdes par espèces). ed. A. Ernout et R. Pépin. 1957.
Livre XXV. (Nature des plantes naissant spontanément et des plantes découvertes par les
hommes). ed. J. André. 1974.
Livre XXIV. (Remèdes tirés des arbres sauvages). ed. J. André. 1972.
Livre XXIII. (Remèdes tirés des arbres cultivés). ed. J. André. 1971.
Livre XXI. (Nature des fleurs et des guirlandes). ed. J. André. 1969.
Livre XX. (Remèdes tirés des plantes de jardins). ed. J. André. 1965.
completare plinio
ed. R. Konig - G. Winkler, - K. Bayer, Munchen-Darmstadt, Heimeran, dal 1973, con tr. tedesca e
commento CONTROLLO
edd. H. Racham - V. H. S. Jones - D.E. Eicholz, LOEB, Cambridge Mass., 10 voll., 1938-1963
edd. G. B. Conte, A. Barchiesi e G. Ranucci, Torino, Einaudi 1982-88, 6 voll. con tr. e note.
J. W. Beck, C. Plinii Secundi Librorum dubii sermonis VIII reliquiae, Teubner 1894
anche in GRF.
Opera grammaticale: ed. A.Della Casa, Genova 1969.
Strumenti
Indices e Additamenta, cur. F. Semi, vol VI A dell'edizione di L.Jan - C. Mayhoff.
Concordantia in C. Plinii Secundi Naturalem Historiam. Curantibus Peter Rosumek et Dietmar
Najock. 6 voll., Hildesheim 1996.
Studi
G. Ballara, Plinio il Vecchio, in F. Della Corte, Dizionario degli scrittori greci e latini, Milano 1987,
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L.D. Reynolds, Text and Transmission. A Survey of the latin Classics, Oxford 1983, pp. 307-16
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G. Ballaira, s.v. Plinio il Vecchio, in Dizionario degli scrittori greci e latini, 3, Milano, Marzorati, 3,
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ICCU
Soggetto
Titolo: Science in the early roman empire: Pliny the elder, his sources and influence / edited by Roger
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Isager, Jacob, Pliny on art and society: the Elder Plinys chapters on the history of art / Jacob Isager, London;
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Note Generali: In testa al front.: Universita di Genova, facolta di lettere.
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Cubeddu
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Science in the early Roman empire: Pliny the Elder, his sources and influence / edited by Roger French and
Frank Greenaway, London; Sydney, c1986
Paese di pubblicazione: US
Capponi, Filippo, Natura aquatilium: (Plin. nat. hist. 9) / Filippo Capponi, Genova: D.Ar.Fi.Cl.Et., 1990,
Pubblicazioni del D.AR.FI.CL.ET. N. S
Note Generali: In testa al front.: Universita di Genova, Facolta di Lettere
Bona, Isabella, Natura terrestrium: Plin. Nat. hist. 8. / Isabella Bona, [Genova]: D.AR.FI.CL.ET., 1991,
Pubblicazioni del D.AR.FI.CL.ET. N. S
Note Generali: In testa al front.: Universita di Genova, Facolta di lettere.
Rosumek, Peter, Concordantia in C. Plinii Secundi Naturalem Historiam / curantibus Peter Rosumek,
Dietmar Najock, Hildesheim [etc.]: Olms-Weidmann, Alpha-omega. Reihe A, Lexika, Indizes,Konkordanzen
zur klassischen Philologie
Numeri: ISBN - 3487099497
Comprende: 2: Antipathia-enimvero / curantibus PeterRosumek, Dietmar Najock
7.: Supplement / curantibus Peter Rosumek,Dietmar Najock
1: Eigennamen; A-antipathes / curantibusPeter Rosumek, Dietmar Najock
3: Enitesco-inconstans / curantibus PeterRosumek, Dietmar Najock
6: Scriba-zythum; Griechische Worter /curantibus Peter Rosumek, Dietmar Najock
4: Inconstantia-onochelis / curantibus PeterRosumek, Dietmar Najock
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5: Onocrotalus-scortum / curantibus PeterRosumek, Dietmar Najock
7: Supplement / curantibus Peter Rosumek,Dietmar Najock
Nomi: Rosumek, Peter
Najock, Dietmar
Plinius Secundus, Gaius
Schneider, Otto, In C. Plini Secundi Naturalis historiae libros indices / composuit Otto Schneider
Edizione: Reprografischer Nachdruck, Hildesheim: G. Olms, 1967
Note Generali: Contiene: 1.: A-L; 2.: M-Z.
Ripr. facs. dell'ed.: Gotha, 1857-1858
ICCU Autore
Plinius Secundus, Gaius, Storia delle arti antiche / Plinio il Vecchio; introduzione di Maurizio Harari; testo
critico, traduzione e commento di Silvio Ferri, Milano: Biblioteca universale Rizzoli, 2000
Note Generali: Testo orig. a fronte.
Barbato, Marcello <1969- >, Il libro 8. del Plinio napoletano di Giovanni Brancati / Marcello Barbato, Napoli:
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Soggetti: Brancati, Giovanni - Traduzioni da Caio Plinio Secondo
Plinius Secundus, Gaius, Storia naturale: libro 9., gli animali acquatici / Plinio; a cura di Piero a. Gianfrotta,
Ponza: Il grande blu, 2000
Note Generali: Testo in latino a fronte
Storia naturale. Libro 9., Gli animali acquatici / Plinio; a cura di Piero A. Gianfrotta, Ponza: Il grande blu,
stampa 2000, Peripli
Note Generali: Trad. italiana a fronte.
Plinius Secundus, Gaius, Gemme e pietre preziose: libro 37. / Gaio Plinio Secondo; traduzione e note di
Chiara Lefons, Livorno: Sillabe, [2000], Arte e memoria
Note Generali: Testo orig. a fronte.
Fa parte di: Storia naturale /Gaio Plinio Secondo
Plinius Secundus, Gaius, 3: Livre 3. / Pline l'Ancien; texte etabli, traduit et commente par Hubert Zehnacker,
Paris: Les belles lettres, 1998, Collection des universites de France. Ser.latine
Note Generali: Testo orig. a fronte.
Fa parte di: Histoire naturelle / Pline l'Ancien
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6: Geographie: Asien / C. Plinius Secundus d. A.; herausgegeben und ubersetzt von Kai Brodersen, Zurich:
Dusseldorf: Artemis & Winkler, c1996
Fa parte di: Naturkunde: lateinisch-deutsch / C. Plinius Secundus d[er] A[ltere]
19: Botanik: Gartenpflanzen / C. Plinius secundus d. A.; herausgegeben und ubersetzt von Roderich Konig;
in Zusammenarbeit mit Joachim Hopp, Karl Bayer und Wolfgang Glockner, Zurich [etc.]: Artemis & Winkler,
c1996
Fa parte di: Naturkunde: lateinisch-deutsch / C. Plinius Secundus d[er] A[ltere]
25: Medizin und Pharmakologie: Heilmittel aus wild wachsenden Pflanzen / C. Plinius Secundus d. A.;
herausgegeben und ubersetzt von Roderich Konig in Zusammenarbeit mit Joachim Hopp und Wolfgang
Glockner, Zurich; Dusseldorf, c1996
Fa parte di: Naturkunde: lateinisch-deutsch / C. Plinius Secundus d[er] A[ltere]
21/22: Medizin und Pharmakologie: Heilmittel aus dem Pflanzenreich / C. Plinius Secundus d. A.;
herausgegeben und ubersetzt von Roderich Konig und Gerhard Winkler in Zusammenarbeit mit Karl Bayer
Edizione: 2. erw. und bearb. Aufl, Dusseldorf; Zurich, 1999
Fa parte di: Naturkunde: lateinisch-deutsch / C. Plinius Secundus d[er] A[ltere]
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Winkler, Gerhard <1935- > - Bayer, Karl - Konig, Roderich
Livre 3. / Pline l'Ancien; texte etabli, traduit et commente par Hubert Zehnacker, Paris: Les belles lettres,
1998
Fa parte di: Histoire naturelle / Pline l'Ancien
Seneca, Lucius Annaeus, Il piacere della lettura in Seneca Quintiliano Plinio il Giovane / a cura di Eleonora
Vitali, Roma; Bari, 1999, Collezione scolastica
Leggere in latino
37: Steine: Edelsteine, Gemmen, Bernstein / C. Plinius Secundus d. A.; herausgegeben und ubersetzt von
Roderich Konig in Zusammenarbeit mit Joachim Hopp, Zurich: Artemis & Winkler, c1994
Fa parte di: Naturkunde: lateinisch-deutsch / C. Plinius Secundus d[er] A[ltere]
5: Geographie: Afrika und Asien / C. Plinius Secundus d. A.; herausgegeben und ubersetzt von Gerhard
Winkler in Zusammenarbeit mit Roderich Konig, Munchen: Artemis & Winkler, c1993
Fa parte di: Naturkunde: lateinisch-deutsch / C. Plinius Secundus d[er] A[ltere]
Winkler, Gerhard <1935- >
Konig, Roderich
23: Medizin und Pharmakologie: Heilmittel aus Kulturpflanzen / C. Plinius Secundus d. A.; herausgegeben
und ubersetzt von Roderich Konig in Zusammenarbeit mit Joachim Hopp, Munchen: Artemis & Winkler,
c1993
Fa parte di: Naturkunde: lateinisch-deutsch / C. Plinius Secundus d[er] A[ltere]
Paese di pubblicazione: DE
Il cielo: intorno alla Cosmologia di Plinio: capolavori delle rappresentazioni miniate nei codici delle principali
biblioteche del mondo, Torino: U. Allemandi, [1994], Archivi di arte antica
Note Generali: Con il testo orig
Soggetti: Astronomia - Sec. 12.-15. - Fonti iconografiche
Plinio Secondo, Caio . Naturalis historia. L. 2. - Fortuna - Sec. 12.-15.
24: Medizin und Pharmakologie: Heilmittel aus wild wachsenden Pflanzen / C. Plinius Secundus d. A.;
herausgegeben und ubersetzt von Roderich Konig in Zusammenarbeit mit Joachim Hopp, Munchen: Artemis
& Winkler, c1993
Fa parte di: Naturkunde: lateinisch-deutsch / C. Plinius Secundus d[er] A[ltere]
Nomi: Plinius Secundus, Gaius- Hopp, Joachim - Konig, Roderich
Plinius Secundus, Gaius, 18: Botanik: Ackerbau / C. Plinius Secundus d. A.; herausgegeben und ubersetzt
von Roderich Konig in Zusammenarbeit mit Joachim Hopp und Wolfgang Glockner, Zurich [etc.]: Artemis &
Winkler, c1995
Fa parte di: Naturkunde: lateinisch-deutsch / C. Plinius Secundus d[er] A[ltere]
Glockner, Wolfgang - Hopp, Joachim - Konig, Roderich
Paese di pubblicazione: CH
Plinius Secundus, Gaius, 17: Botanik: Nutzbaume / C. Plinius Secundus d. A.; herausgegeben und ubersetzt
von Roderich Konig in Zusammenarbeit mit Joachim Hopp, Zurich: Artemis & Winkler, c1994
Fa parte di: Naturkunde: lateinisch-deutsch / C. Plinius Secundus d[er] A[ltere]
Vitruvius Pollio, Antologia di testi: da Vitruvio e Plinio il vecchio / a cura di M.L. Astarita e N. Baglivi, Napoli:
Arte tipografica, 1995
Medicines douces de l'antiquite: la vertu des plantes: histoires naturelles, livre XX / Pline l'Ancien; traduit du
latin par Francois Rosso, [Paris]: Arlea, [1995], Retour aux grands textes. Domaine latin
Rosso, Francois
Altri titoli collegati: [Variante del titolo] La vertu des plantes.
32: Medizin und Pharmakologie: Heilmittel aus dem Wasser / C. Plinius Secundus; herausgegeben und
ubersetzt von Roderich Konig; in Zusammenarbeit mit Joachim Hopp und Wolfgang Glockner, Darmstadt:
Wissenschaftliche Buchgesellschaft, c1994
Fa parte di: Naturkunde: lateinisch-deutsch / C. Plinius Secundus d[er] A[ltere]
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Medizin und Pharmakologie. 32, Heilmittel aus dem Wasser / C. Plinius secundus d. A.; herausgegeben und
ubersetzt von Roderich Konig in Zusammenarbeit mit Joachim Hopp und Wolfgang Glockner, Zurich:
Artemis & Winkler, c1995
32: Medizin und Pharmakologie: Heilmittel aus dem Wasser / C. Plinius Secundus d. A.; herausgegeben und
ubersetzt von Roderich Konig in Zusammenarbeit mit Joachim Hopp und Wolfgang Glockner, Zurich:
Artemis & Winkler, c1995
Fa parte di: Naturkunde: lateinisch-deutsch / C. Plinius Secundus d[er] A[ltere]
16: Botanik: Waldbaume / C. Plinius Secundus d. A.; herausgegeben und ubersetzt von Roderich Konig in
Zusammenarbeit mit Joachim Hopp, Munchen; Zurich, c1991
Fa parte di: Naturkunde: lateinisch-deutsch / C. Plinius Secundus d[er] A[ltere]
36: Die Steine / C. Plinius Secundus d. A.; herausgegeben und ubersetzt von Roderich Konig in
Zusammenarbeit mit Joachim Hopp, Munchen: Artemis & Winkler, c1992
Fa parte di: Naturkunde: lateinisch-deutsch / C. Plinius Secundus d[er] A[ltere]
11: Zoologie: Insekten, Vergleichende Anatomie / C. Plinius Secundus d. A.; herausgegeben und ubersetzt
von Roderich Konig in Zusammenarbeit mit Joachim Hopp, Munchen; Zurich, c1990
Fa parte di: Naturkunde: lateinisch-deutsch / C. Plinius Secundus d[er] A[ltere]
5: Mineralogia e storia dell'arte: libri 33-37 / Gaio Plinio Secondo; traduzioni e note di Antonio Corso,
Rossana Mugellesi, Gianpiero Rosati, Torino: G. Einaudi, [1988]
Testo orig. a fronte
Fa parte di: Storia naturale / Gaio Plinio Secondo; prefazione di Italo Calvino; saggio introduttivo di Gian
Biagio Conte; nota biobibliografica di Alessandro Barchiesi, Chiara Frugoni, Giuliano Ranucci
Nomi: Plinius Secundus, Gaius - Rosati, Gianpiero - Corso, Antonio - Mugellesi, Rossana
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34: Metallurgie / C. Plinius Secundus d[er] A[ltere]; herausgegeben und ubersetzt von Roderich Konig in
Zusammenarbeit mit Karl Bayer, Munchen; Zurich, c1989
Fa parte di: Naturkunde: lateinisch-deutsch / C. Plinius Secundus d[er] A[ltere]
Wundersame Geschichten aus der Naturkunde des Plinius / ausgewahlt und ubertragen von Bernhard
Kytzler; mit 15 Schabblattern von Karl-Georg Hirsch, Leipzig: Teubner, 1987
Nomi: Kytzler, Bernhard
Plinius Secundus, Gaius, 5: Mineralogia e storia dell'arte: libri 33-37 / Gaio Plinio Secondo; traduzioni e note
di Antonio Corso, Rossana Mugellesi, Gianpiero Rosati, Torino: Einaudi, c1988
Fa parte di: Storia naturale / Gaio Plinio Secondo; edizione diretta da Gian Biagio Conte; con la
collaborazione di Alessandro Barchiesi e Giuliano Ranucci
Rosati, Gianpiero - Corso, Antonio - Mugellesi, Rossana
5: Mineralogia e storia dell'arte: libri 33-37 / Gaio Plinio Secondo; traduzione e note di Antonio Corso,
Rossana Mugellesi, Gianpiero Rosati, Torino: Einaudi, [1988], I millenni
Note Generali: In custodia.
Testo latino con trad. italiana a fronte
Fa parte di: Storia naturale / Gaio Plinio Secondo; edizione diretta da Gian Biagio Conte; con la
collaborazione di Alessandro Barchiesi e Giuliano Ranucci
Nomi: Plinius Secundus, Gaius- Rosati, Gianpiero - Corso, Antonio - Mugellesi, Rossana
Corsini, Anna Rita, Medicinae Plinii concordantiae / curantibus Anna Rita Corsini et Maria Paula Segoloni,
Hildesheim [etc.]: Olms-Weidmann, 1989, Alpha-omega. Reihe A, Lexika, Indizes,Konkordanzen zur
klassischen Philologie
Soggetti: Plinio Secondo, Caio: il vecchio . De medicina libri tres - Concordanze
Storia naturale: V: Mineralogia e storia dell'arte: Libri 33-37 / Gaio Plinio Secondo; Traduzioni e note di
Antonio Corso, Rossana Mugellesi, Gianpietro Rosati, Torino: Einaudi, copyr. 1988, I millenni
28: Medizin und Pharmakologie: Heilmittel aus dem Tierreich / C. Plinius Secundus d. A.; herausgegeben
und ubersetzt von Roderich Konig in Zusammenarbeit mit Gerhard Winkler, Munchen; Zurich, c1988
F. Dalessi © 2002
F. D'ALESSI - Letteratura latina - Parte III,1 - Il periodo imperiale - L'età dei Claudi
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Fa parte di: Naturkunde: lateinisch-deutsch / C. Plinius Secundus d[er] A[ltere]
Nomi: Plinius Secundus, Gaius
Winkler, Gerhard <1935- > Konig, Roderich
Cubeddu, Paola T. J., Plinio il Vecchio Naturalis historia, libro 29.: esame filologico di due testi (1479-1524)
conservati nella Biblioteca universitaria di Sassari / Paola T. J. Cubeddu, [S. l.: s. n.], 1988
Comprende: 1 2: Testi 3: Tabelle
Nomi: Cubeddu, Paola T. J.
2: Testi, [S. l.: s. n.], 1988 (Sassari: T.A.S.)
Fa parte di: Plinio il Vecchio
3: Tabelle, [S. l.: s. n.], 1988 (Sassari: T.A.S.)
Fa parte di: Plinio il Vecchio
Plinius Secundus, Gaius, I sogni del sottosuolo: traduzione del libro 37 della Naturalis Historia di Plinio il
Vecchio [a cura di] Flora Stefano Onniboni; prefazione di Roberto Nistri, Taranto: Scorpione, stampa 1989, I
quaderni del Liceo Archita
5: Libri 33.-37, Pisa: Giardini, stampa 1987
Fa parte di: Plinii Naturalis historia
Physicae quae fertur Plinii Florentino-Pragensis liber tertius / Gunter Schmitz [Hrsg.], Frankfurt am Main
[etc.]: Peter Lang, c1988, Lateinische Sprache und Literatur desMittelalters
21/22: Medizin und Pharmakologie: Heilmittel aus dem Pflanzenreich / C. Plinius Secundus; herausgegeben
und ubersetzt von Roderich Konig in Zusammenarbeit mit Gerhard Winkler, Munchen; Zurich, 1985
Fa parte di: Naturkunde: lateinisch-deutsch / C. Plinius Secundus d[er] A[ltere]
35: Livre 35. / Pline l'Ancien; texte etabli, traduit et commente par Jean- Michel Croisille, Paris: Les belles
lettres, 1985, Collection des universites de France
Note Generali: Testo orig. a fronte.
Fa parte di: Histoire naturelle / Pline l'Ancien
2: Libri 20-27 / Gaio Plinio Secondo; traduzioni e note di Andrea Aragosti ... [et al], Torino: Einaudi, [1985], I
millenni
Testo latino con trad. italiana a fronte
Fa parte di: 3: Botanica.
Livre 35. / Pline l'Ancien; texte etabli, traduit et commente par Jean-Michel Croisille, Paris: Les belles lettres,
1985
Fa parte di: Histoire naturelle / Pline l'Ancien
4: Medicina e farmacologia: libri 28-32 / Gaio Plinio Secondo; traduzioni e note di Umberto Capitani e Ivan
Garofalo, Torino: Einaudi, c1986
Fa parte di: Storia naturale / Gaio Plinio Secondo; edizione diretta da Gian Biagio Conte; con la
collaborazione di Alessandro Barchiesi e Giuliano Ranucci
Nomi: Plinius Secundus, Gaius - Capitani, Umberto - Garofalo, Ivan
4: Medicina e farmacologia: libri 28-32 / Gaio Plinio Secondo; traduzioni e note di Umberto Capitani e Ivan
Garofalo, Torino: G. Einaudi, [1986]
Fa parte di: Storia naturale / Gaio Plinio Secondo; edizione diretta da Gian Biagio Conte con la
collaborazione di Giuliano Ranucci
Nomi: Plinius Secundus, Gaius - Capitani, Umberto - Garofalo, Ivan
2: Libri 20-27 / Gaio Plinio Secondo; traduzioni e note di Andrea Aragosti ... [et al.]
Descrizione fisica: 907 p., //4/ c. di tav.: ill.
Fa parte di: 3: Botanica / Gaio Plinio Secondo
Nomi: Plinius Secundus, Gaius - Aragosti, Andrea
10: Zoologie: Vogel. Weitere Einzelheiten aus dem Tierreich / C. Plinius Secundus d. A.; herausgegeben
und ubersetzt von Roderich Konig in Zusammenarbeit mit Gerhard Winkler, Munchen; Zurich, c1986
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F. D'ALESSI - Letteratura latina - Parte III,1 - Il periodo imperiale - L'età dei Claudi
188
Fa parte di: Naturkunde: lateinisch-deutsch / C. Plinius Secundus d[er] A[ltere]
Nomi: Plinius Secundus, Gaius
Winkler, Gerhard <1935- > - Konig, Roderich
4: Medicina e farmacologia: libri 28-32 / Gaio Plinio Secondo; traduzioni e note di Umberto Capitani e Ivan
Garofalo, Torino: Einaudi, [1986], I millenni
Testo latino con trad. italiana a fronte
Fa parte di: Storia naturale / Gaio Plinio Secondo; edizione diretta da Gian Biagio Conte; con la
collaborazione di Alessandro Barchiesi e Giuliano Ranucci
Nomi: Plinius Secundus, Gaius - Capitani, Umberto - Garofalo, Ivan
3.2: Botanica: libri 20-27 / Gaio Plinio Secondo; traduzioni e note di Andrea Aragosti ... [et al.], Torino: G.
Einaudi, 1985
Testo orig. a fronte
Fa parte di: Storia naturale / Gaio Plinio Secondo; prefazione di Italo Calvino; saggio introduttivo di Gian
Biagio Conte; nota biobibliografica di Alessandro Barchiesi, Chiara Frugoni, Giuliano Ranucci
Nomi: Plinius Secundus, Gaius - Aragosti, Andrea
TV0114 - Biblioteca comunale - Treviso - TV
3: Libri 16.-24, Pisa: Giardini, stampa 1986
Fa parte di: Plinii Naturalis historia
4: Medicina e farmacologia: libri 28-32 / Gaio Plinio Secondo; traduzioni e note di Umberto Capitani e Ivan
Garofalo, Torino: G. Einaudi, 1986
Testo orig. a fronte
Fa parte di: Storia naturale / Gaio Plinio Secondo; prefazione di Italo Calvino; saggio introduttivo di Gian
Biagio Conte; nota biobibliografica di Alessandro Barchiesi, Chiara Frugoni, Giuliano Ranucci
Nomi: Plinius Secundus, Gaius - Capitani, Umberto - Garofalo, Ivan
TV0114 - Biblioteca comunale - Treviso - TV
Capponi, Filippo, Le fonti del 10. libro della Naturalis historia di Plinio / Filippo Capponi, Genova: Istituto di
Filologia classica e medioevale, 1985, Pubblicazioni dell'Istituto di filologiaclassica e medievale
dell'UniversitW1A0a diGenova
Note Generali: In testa al front.: Universita di Genova, Facolta di Lettere.
Physicae Plinii quae fertur Florentino-Pragensis liber secundus / Walter Wachtmeister [Hrsg.], Frankfurt am
Main [etc.]: Peter Lang, c1985, Lateinische Sprache und Literatur desMittelalters
Couch, Jonathan, Diario di bordo di Cino Ricci: signori del mare: l'universo dei pesci di Jonathan Couch con
l'introduzione da Storia naturale di Plinio il Vecchio, Milano: Meroni, [1985]
1: Libri 12-19 / Gaio Plinio Secondo; traduzioni e note di Andrea Aragosti ... [et al.], Torino: Einaudi, [1984], I
millenni
Testo latino con trad. italiana a fronte
3.1: Botanica: libri 12-19 / Gaio Plinio Secondo; traduzioni e note di Andrea Aragosti ... [et al.], Torino: G.
Einaudi, 1984
Testo orig. a fronte
Fa parte di: Storia naturale / Gaio Plinio Secondo; prefazione di Italo Calvino; saggio introduttivo di Gian
Biagio Conte; nota biobibliografica di Alessandro Barchiesi, Chiara Frugoni, Giuliano Ranucci
Nomi: Plinius Secundus, Gaius - Aragosti, Andrea
TV0114 - Biblioteca comunale - Treviso - TV
1: Libri 12-19 / Gaio Plinio Secondo; traduzioni e note di Andrea Aragosti ... [et al.], Torino: G. Einaudi,
[1984], I millenni
Testo latino a fronte
Fa parte di: 3: Botanica / Gaio Plinio Secondo
9: Libri 33.-35. / Pliny; with an english translation by H. Rakham
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Edizione: Repr, Cambridge, Mass., The Loeb classical library
Fa parte di: Natural history: in ten volumes / Pliny
33: Metallurgie / C. Plinius Secundus d. A.; herausgegeben und ubersetzt von Roderich Konig in
Zusammenarbeit mit Gerhard Winkler, Munchen; Zurich, c1984
Fa parte di: Naturkunde: lateinisch-deutsch / C. Plinius Secundus d[er] A[ltere]
1: Cosmologia e geografia: Libri 1-6 / Gaio Plinio Secondo; prefazione di Italo Calvino; saggio introduttivo di
Gian Biagio Conte; nota biobibliografica di Alessandro Barchiesi, Chiara Frugon
Edizione: 2. ed, Torino: Einaudi, stampa 1984
Fa parte di: Storia naturale / Gaio Plinio Secondo; edizione diretta da Gian Biagio Conte; con la
collaborazione di Alessandro Barchiesi e Giuliano Ranucci
Nomi: Plinius Secundus, Gaius - Conte, Gian Biagio - Barchiesi, Alessandro - Frugoni, Chiara - Ranucci,
Giuliano - Calvino, Italo
1: Libri 1.-7, Pisa: Giardini, stampa 1984
Fa parte di: Plinii Naturalis historia
Physicae quae fertur Plinii Florentino-Pragensis liber primus / Joachim Winkler [Hrsg.], Frankfurt am Main
[etc.]: Peter Lang, c1984, Lateinische Sprache und Literatur desMittelalters
33: Livre 33. / Pline l'Ancien; texte etabli, traduit et commente par Hubert Zehnacker, Paris: Les belles
lettres, 1983, Collection des universites de France
Note Generali: Testo orig. a fronte.
Fa parte di: Histoire naturelle / Pline l'Ancien
34: Livre 34. / Pline l'Ancien; texte etabli et traduit par H. Le Bonniec; commente par H. Gallet De Santerre et
par H. Le Bonniec
Edizione: 12. tir. revu et corrige, Paris: Les belles lettres, 1983
Fa parte di: Histoire naturelle / Pline l'Ancien
2: Antropologia e zoologia: libri 7-11 / Gaio Plinio Secondo; traduzioni e note di Alberto Borghini ... [et al.],
Torino: G. Einaudi, 1983
Testo orig. a fronte
Fa parte di: Storia naturale / Gaio Plinio Secondo; prefazione di Italo Calvino; saggio introduttivo di Gian
Biagio Conte; nota biobibliografica di Alessandro Barchiesi, Chiara Frugoni, Giuliano Ranucci
TV0114 - Biblioteca comunale - Treviso - TV
Storia naturale / Gaio Plinio Secondo; edizione diretta da Gian Biagio Conte con la collaborazione di
Alessandro Barchiesi e Giuliano Ranucci, Torino: G. Einaudi, 1983Descrizione fisica: 5 v.; 22 cm, I millenni
Comprende: 2.: Antropologia e zoologia: libri 7-11 /traduzione e note di Alberto Borghini et al
Nomi: Plinius Secundus, Gaius - Conte, Gian Biagio
Plinius Secundus, Gaius, 2: Antropologia e zoologia: libri 7-11 / Gaio Plinio Secondo; traduzioni e note di
Alberto Borghini ... [et al.], I millenni
Testo latino a fronte
Fa parte di: Storia naturale / Gaio Plinio Secondo; edizione diretta da Gian Biagio Conte con la
collaborazione di Giuliano Ranucci
2: Antropologia e zoologia: libri 7-11 / Gaio Plinio Secondo; traduzioni e note di Alberto Borghini ... [et al.],
Torino: Einaudi, [1983], I millenni
Testo latino con trad. italiana a fronte
Fa parte di: Storia naturale / Gaio Plinio Secondo; edizione diretta da Gian Biagio Conte; con la
collaborazione di Alessandro Barchiesi e Giuliano Ranucci
Nomi: Plinius Secundus, Gaius - Borghini, Alberto
Livre 33. / Pline l'Ancien; texte etabli, traduit et commente par Hubert Zehnacker, Paris: Les belles lettres,
1983
Fa parte di: Histoire naturelle / Pline l'Ancien
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190
26/27: Medizin und Pharmakologie: Heilmittel aus dem Pflanzenreich / C. Plinius Secundus d. A.;
herausgegeben und ubersetzt von Roderich Konig in Zusammenarbeit mit Gerhard Winkler, Munchen;
Zurich, c1983
Fa parte di: Naturkunde: lateinisch-deutsch / C. Plinius Secundus d[er] A[ltere]
2: Antropologia e zoologia: libri 7-11 / Gaio Plinio Secondo; traduzioni e note di Alberto Borghini ... [et al.],
Torino: Einaudi, [1983]
Fa parte di: Storia naturale / Gaio Plinio Secondo; edizione diretta da Gian Biagio Conte con la
collaborazione di Giuliano Ranucci
Storia naturale: Antropologia e zoologia Libri 7-11 / Gaio Plinio Secondo; traduzione e note di Alberto
Borghini, Elena Giannarelli, Arnaldo Marcone, Giuliano Ranucci. II, Torino: Einaudi, 1983, I millenni
Storia naturale = =Mineralogia e storia dell'arte = =Medicina e farmacologia = =Botanica = =Antropologia e
zoologia = =Cosmologia e geografia / Gaio Secondo Plinio; Prefazione di Italo Calvino; saggio introduttivo di
Gian Biagio Conte, Torino: Einaudi, 1982
Descrizione fisica: 5vol.3972 p.[compless. ]: ill.; 22 cm.
[Titolo parallelo] Mineralogia e storia dell'arte
[Titolo parallelo] Medicina e farmacologia
[Titolo parallelo] Botanica
[Titolo parallelo] Antropologia e zoologia
[Titolo parallelo] Cosmologia e geografia
Storia naturale / Gaio Plinio Secondo; prefazione di Italo Calvino; saggio introduttivo di Gian Biagio Conte;
nota biobibliografica di Alessandro Barchiesi, Chiara Frugoni, Giuliano Ranucci, Torino: G. Einaudi, 1982-, I
millenni
Comprende: 5: Mineralogia e storia dell'arte: libri33-37 / Gaio Plinio Secondo; traduzioni enote di Antonio
Corso, Rossana Mugellesi,Gianpiero Rosati
2: Antropologia e zoologia: libri 7-11 /Gaio Plinio Secondo; traduzioni e note diAlberto Borghini ... [et al.]
3.1: Botanica: libri 12-19 / Gaio PlinioSecondo; traduzioni e note di AndreaAragosti ... [et al.]
3.2: Botanica: libri 20-27 / Gaio PlinioSecondo; traduzioni e note di AndreaAragosti ... [et al.]
4: Medicina e farmacologia: libri 28-32 /Gaio Plinio Secondo; traduzioni e note diUmberto Capitani e Ivan
Garofalo
1: Cosmologia e geografia: libri 1-6 / GaioPlinio Secondo; prefazione di Italo Calvino; saggio introduttivo di
Gian Biagio Conte ;nota biobibliografica di AlessandroBarchiesi, Chiara Frugon
Nomi: Plinius Secundus, Gaius - Conte, Gian Biagio - Barchiesi, Alessandro - Frugoni, Chiara - Ranucci,
Giuliano
TV0114 - Biblioteca comunale - Treviso - TV
Storia naturale / Gaio Plinio Secondo; edizione diretta da Gian Biagio Conte con la collaborazione di
Giuliano Ranucci, Torino: G. Einaudi, [1982-1988], I millenni
Note Generali: Con testo latino a fronte.
Comprende: 4: Medicina e farmacologia: libri 28-32 / GaioPlinio Secondo; traduzioni e note di
UmbertoCapitani e Ivan Garofalo
2: Antropologia e zoologia: libri 7-11 /Gaio Plinio Secondo; traduzioni e note diAlberto Borghini ... [et al.]
1: Cosmologia e geografia: libri 1-6 / GaioPlinio Secondo; prefazione di Italo Calvino; saggio introduttivo di
Gian Biagio Conte ;nota biobibliografica di AlessandroBarchiesi, Chiara Frugoni
3: Botanica / Gaio Plinio Secondo
5: Mineralogia e storia dell'arte: libri33-37 / Gaio Plinio Secondo; traduzioni enote di Antonio Corso,
Rossana Mugellesi,Gianpiero Rosati
2: Antropologia e zoologia: libri 7-11 /Gaio Plinio Secondo; traduzioni e note diAlberto Borghini ... [et al.]
3: Botanica / Gaio Plinio Secondo ;traduzioni e note di Andrea Aragosti
Nomi: Plinius Secundus, Gaius- Conte, Gian Biagio - Barchiesi, Alessandro / Frugoni, Chiara - Ranucci,
Giuliano - Calvino, Italo
1: Cosmologia e geografia: libri 1-6 / Gaio Plinio Secondo; prefazione di Italo Calvino; saggio introduttivo di
Gian Biagio Conte; nota biobibliografica di Alessandro Barchiesi, Chiara Frugoni, Torino: G. Einaudi. [1982]
Fa parte di: Storia naturale / Gaio Plinio Secondo; edizione diretta da Gian Biagio Conte con la
collaborazione di Giuliano Ranucci
F. Dalessi © 2002
F. D'ALESSI - Letteratura latina - Parte III,1 - Il periodo imperiale - L'età dei Claudi
191
1: Cosmologia e geografia: libri 1-6 / Gaio Plinio Secondo; prefazione di Italo Calvino; saggio introduttivo di
Gian Biagio Conte; nota biobibliografica di Alessandro Barchiesi, Chiara Frugon, Torino: Einaudi, [1982]
Testo orig. fronte
Fa parte di: Storia naturale / Gaio Plinio Secondo; prefazione di Italo Calvino; saggio introduttivo di Gian
Biagio Conte; nota biobibliografica di Alessandro Barchiesi, Chiara Frugoni, Giuliano Ranucci
TV0114 - Biblioteca comunale - Treviso - TV
1: Cosmologia e geografia: libri 1-6 / Gaio Plinio Secondo; prefazione di Italo Calvino; saggio introduttivo di
Gian Biagio Conte; nota bibliografica di Alessandro Barchiesi, Chiara Frugon, Torino: Einaudi, [1982], I
millenni
Note Generali: Testo latino con trad. italiana a fronte. In custodia
Fa parte di: Storia naturale / Gaio Plinio Secondo; edizione diretta da Gian Biagio Conte; con la
collaborazione di Alessandro Barchiesi e Giuliano Ranucci
Bucher 14.-15.: Botanik: Fruchtbaume, Munchen: Artemis, c1981
Fa parte di: Naturkunde: lateinisch-deutsch / C. Plinius Secundus d[er] A[ltere]
36: Livre 36. / Pline l'Ancien; texte etabli par J. Andre; traduit par R. Bloch; commente par A. Rouveret, Paris:
Les belles lettres, 1981, Collection des universites de France
Semi, Francesco, a: Additamenta / composuit Franciscus Semi, Stutgardiae: in aedibus Teubneri, 1980
Fa parte di: 6: Indices / [C. Plinius Secundus]; composuit Ludovicus Ianus
Nomi: Semi, Francesco
Plinio il vecchio e Como: biografia, testimonianze e documenti: Como nelle opere dei Plinii: antologia di
passi in trad. italiana, Como: Litotipografia G. Malinverno, 1980
Note Generali: In testa al front.: Comitato promotore delle manifestazione pliniane; Societa archeologica
comense .
6: Livre 6., 2. partie: l'Asie centrale et orientale, l'Inde / Pline l'Ancien; texte etabli, traduit et commente par J.
Andre et J. Filliozat, Paris: Les belles lettres, 1980, Collection des universites de France
Note Generali: Testo orig. a fronte.
5: Livre 5., 1-46: 1. partie, l'Afrique du Nord / Pline l'Ancien; texte etabli, traduit et commente par Jehan
Desanges, Paris: Les belles lettres, 1980, Collection des universites de France
Note Generali: Testo orig. a fronte.
1: Praefatio, libri 1.-2. / Pliny; with an english translation by H. Rakham
Edizione: Repr, London: Heinemann, Mass., The Loeb classical library
Fa parte di: Natural history: in ten volumes / Pliny
Buch 9.: Zoologie: Wassertiere, Munchen: Heimeran, c1979
Descrizione fisica: 256 p.: ill.; 18 cm.
Fa parte di: Naturkunde: lateinisch-deutsch / C. Plinius Secundus d[er] A[ltere]
Buch 20.: Medizin und Pharmakologie: Heilmittel aus den Gartengewaschen, Munchen: Heimeran, c1979
Fa parte di: Naturkunde: lateinisch-deutsch / C. Plinius Secundus d[er] A[ltere]
Nomi: Plinius Secundus, Gaius
The Elder Plinys chapters on History of art / translated by K. Jex-Blake; with commentary and historical
introduction by E. Sellers; additional notes ... by Heinrich Ludwig Urlichs ... <et al.>, Chicago: Ares, 1977
Sellers, E. - Urlichs, Heinrich Ludwig
The elder Pliny's chapters on the history of art / translated by K. Jex-Blake; with commentary and historial
introduction by E. Sellers; and additional notes contributed by Heinrich Ludwig Urlichs; preface to the first
and second amrican edition and select bibliography by Raymond V. Schoder, [2. American edition]., 1977
Nomi: Plinius Secundus, Gaius- Sellers, E. - Jex-Blake, K. - Schoder, Raymond V.
2: Naturalis historiae libri 1.-5. / C. Plinius Secundus, Pisa: Giardini, 1977, Scriptorum Romanorum quae
extant omnia
Fa parte di: C. Plinius Secundus / curante Francisco Semi
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192
3: Naturalis historiae libri 6.-9. / C. Plinius Secundus, Pisa: Giardini, 1977, Scriptorum Romanorum quae
extant omnia
Fa parte di: C. Plinius Secundus / curante Francisco Semi
4: Naturalis historiae libri 10.-11. / C. Plinius Secundus, Pisa: Giardini, 1977, Scriptorum Romanorum quae
extant omnia
Fa parte di: C. Plinius Secundus / curante Francisco Semi
5: Naturalis historiae libri 12.-17. / C. Plinius Secundus, Pisa: Giardini, 1977, Scriptorum Romanorum quae
extant omnia
Fa parte di: C. Plinius Secundus / curante Francisco Semi
6: Naturalis historiae libri 18.-19. / C. Plinius Secundus, Pisa: Giardini, 1977, Scriptorum Romanorum quae
extant omnia
Fa parte di: C. Plinius Secundus / curante Francisco Semi
Bucher 12.-13.: Botanik: Baume, Munchen: Heimeran, c1977
Fa parte di: Naturkunde: lateinisch-deutsch / C. Plinius Secundus d[er] A[ltere]
Buch 35.: Farben, Malerei, Plastik, Munchen: Heimeran, 1978
Fa parte di: Naturkunde: lateinisch-deutsch / C. Plinius Secundus d[er] A[ltere]
7: Livre 7. / Pline l'Ancien; texte etabli, traduit et commente par Robert Schilling, Paris: Les belles lettres,
1977, Collection des universites de France
Note Generali: Testo orig. a fronte.
Fa parte di: Histoire naturelle / Pline l'Ancien
7: Naturalis historiae libri 20.-21.-22. / C. Plinius Secundus, Pisa: Giardini, 1978, Scriptorum Romanorum
quae extant omnia
Fa parte di: C. Plinius Secundus / curante Francisco Semi
8: Naturalis historiae libri 23.-24.-25.-26.-27.-28.-29.-30. / C. Plinius Secundus, Pisa: Giardini, 1978,
Scriptorum Romanorum quae extant omnia
Fa parte di: C. Plinius Secundus / curante Francisco Semi
9: Naturalis historiae libri 31.-37. / C. Plinius Secundus, Pisa: Giardini, 1978, Scriptorum Romanorum quae
extant omnia
Fa parte di: C. Plinius Secundus / curante Francisco Semi
5: Historia natural. 2 (libros 26 a 37) / de Cayo Plinio Segundo; trasladada y anotada por el licenciado
Geronimo De Huerta, Madrid: Universidad Nacional de Mexico, 1976
Fa parte di: Obras completas / Francisco Hernandez
The elder Pliny's chapters on the history of art / translated by K. Jex-Blake; with commentary and historial
introduction by E. Sellers; and additional notes contributed by Heinrich Ludwig Urlichs; preface to the first
and second amrican edition and select bibliography by Raymond V. Schoder
Edizione: (2. American edition), Chicago: Ares publishers inc., 1976
Nomi: Plinius Secundus, Gaius
Sellers, E. - Jex-Blake, K.
8: Libri 28.-32. / Pliny; by W. H. S. Jones
Edizione: Repr, Cambridge, Mass., The Loeb classical library
Fa parte di: Natural history: in ten volumes / Pliny
Buch 7.: Anthropologie, Munchen: Heimeran, c1975
Fa parte di: Naturkunde: lateinisch-deutsch / C. Plinius Secundus d[er] A[ltere]
Buch 8.: Zoologie: Landtiere, Munchen: Heimeran, c1976
Fa parte di: Naturkunde: lateinisch-deutsch / C. Plinius Secundus d[er] A[ltere]
F. Dalessi © 2002
F. D'ALESSI - Letteratura latina - Parte III,1 - Il periodo imperiale - L'età dei Claudi
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Physica Plinii Bambergensis: Cod. Bamb. med. 2, fol. 93v-232r / primum edidit Alf Onnerfors, Hildesheim
[etc.]: Olms, 1975, Bibliotheca Graeca et Latina suppletoria
Titolo uniforme: De medicina
Nomi: Plinius Secundus, Gaius- Onnerfors, Alf
La storia naturale: libri 1.-11. / Caio Plinio Secondo; tradotta in napolitano misto da Giovanni Brancati; inedito
del secolo 15. a cura di Salvatore Gentile, Napoli: [s.n.], 1974- (Napoli: La buona stampa)
Nomi: Plinius Secundus, Gaius - Gentile, Salvatore - Brancati, Giovanni
31: Livre 31. / Pline l'Ancien; texte etabli, traduit et commente par Guy Serbat, Paris: Les belles lettres, 1972,
Collection des universites de France
Note Generali: Testo orig. a fronte.
Fa parte di: Histoire naturelle / Pline l'Ancien
37: Livre 37. / Pline l'Ancien; texte etabli, traduit et commente par E. de Saint-Denis, Paris: Les belles lettres,
1972, Collection des universites de France
Note Generali: Testo orig. a fronte.
Fa parte di: Histoire naturelle / Pline l'Ancien
Sallmann, Klaus Guenther, Die Geographie des alteren Plinius in ihrem Verhaltnis zu Varro: Versuch einer
Quellenanalyse / von Klaus Gunther Sallmann, Berlin; New York, 1971, Untersuchungen zur antiken
Literatur undGeschichte
10. Libri 36.-37 / Pliny; by D. E. Eichholz
Edizione: Repr, Cambridge, Mass., The Loeb classical library
Fa parte di: Natural history: in ten volumes / Pliny
5: Libri 17.-19- / Pliny; by H. Rakham, Cambridge, Mass., The Loeb classical library
Fa parte di: Natural history: in ten volumes / Pliny
Buch 1: Widmung, Inahltsverzeichnis des Gesamtwerkes, Zeugnisse, Fragmente, Munchen: Heimeran,
c1973
Fa parte di: Naturkunde: lateinisch-deutsch / C. Plinius Secundus d[er] A[ltere]
Buch 2.: Kosmologie, Munchen: Heimeran, c1974
Fa parte di: Naturkunde: lateinisch-deutsch / C. Plinius Secundus d[er] A[ltere]
18: Livre 18. / Pline l'Ancien; texte etabli, traduit et commente par Henri Le Bonniec; avec la collaboration de
Andre Le Boeuffle, Paris: Les belles lettres, 1972, Collection des universites de France
Note Generali: Testo orig. a fronte.
Fa parte di: Histoire naturelle / Pline l'Ancien
23: Livre 23. / Pline l'Ancien; texte etabli, traduit et commente par Jacques Andre, Paris: Les belles lettres,
1971, Collection des universites de France
Note Generali: Testo orig. a fronte.
Fa parte di: Histoire naturelle / Pline l'Ancien
24: Livre 24. / Pline l'Ancien; texte etabli, traduit et commente par Jacques Andre, Paris: Les belles lettres,
1972, Collection des universites de France
Note Generali: Testo orig. a fronte.
Fa parte di: Histoire naturelle / Pline l'Ancien
25: Livre 25. / Pline l'Ancien; texte etabli, traduit et commente par Jacques Andre, Paris: Les belles lettres,
1974, Collection des universites de France
Note Generali: Testo orig. a fronte.
Fa parte di: Histoire naturelle / Pline l'Ancien
6: Indices / composuit Ludovicus Ianus, Stutgardiae: in aedibus B. G. Teubneri, 1970
Fa parte di: C. Plini Secundi Naturalis Historiae libri 37. / post Ludovici Iani obitum recognovit et scripturae
discrepantia adiecta edidit Carolus Mayhoff
F. Dalessi © 2002
F. D'ALESSI - Letteratura latina - Parte III,1 - Il periodo imperiale - L'età dei Claudi
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22: Livre 22. / Pline l'Ancien; texte etabli, traduit et commente par Jacques Andre, Paris: Les belles lettres,
1970, Collection des universites de France
Note Generali: Testo orig. a fronte.
Fa parte di: Histoire naturelle / Pline l'Ancien
Plinius Secundus, Gaius, 4: Libri 12.-16. / Pliny; with an English translation by H. Rackham
Edizione: Revised and repr, London: W. Heinemann, Mass., The Loeb classical library
Note Generali: Rist. riv. della 1. ed. 1945
Testo orig. a fronte.
Fa parte di: Natural history: in ten volumes / Pliny
The elder Plinys chapters on the history of art / translated by K. Jex-Blake; with commentary and historical
introduction by E. Sellers and additional notes contributed by Heinrich Ludwig Urlichs, Chicago: Argonauts,
1968
Nomi: Plinius Secundus, Gaius - Sellers, E. - Urlichs, Heinrich Ludwig - Jex-Blake, K.
2: Libri 3.-7. / Pliny; with an English translation by H. Rackham, Cambridge, Mass., The Loeb classical library
Note Generali: Testo originale a fronte.
Fa parte di: Natural history: in ten volumes / Pliny
4: Libri 12.-16. / Pliny; with an english translation by H. Rackham
Edizione: Revised and reprinted, London: W. Heinemann Ltd., Massachusetts, The Loeb classical library
Fa parte di: Natural history: in ten volumes / Pliny
6: Libri 20.-23. / Pliny; with an english translation by W. H. S. Jones
Edizione: Revised and reprinted, London: W. Heinemann Ltd., Massachusetts, The Loeb classical library
Fa parte di: Natural history: in ten volumes / Pliny
9: Libi 33.-35. / Pliny; with an english translation by H. Rackham, London: W. Heinemann Ltd.,
Massachusetts, The Loeb classical library
Fa parte di: Natural history: in ten volumes / Pliny
Il Dubius sermo di Plinio / [a cura di] Adriana Della Casa, Genova: Istituto di filologia classica e medioevale
dell'Universita, 1969, Pubblicazioni dell'Istituto di filologiaclassica e medievale dell'UniversitW1A0a diGenova
Note Generali: In testa al front.: Universita di Genova, Facolta di lettere.
21: Livre 21. / Pline l'Ancien; texte etabli, traduit et commente par Jacques Andre, Paris: Les belles lettres,
1969, Collection des universites de France
Note Generali: Testo orig. a fronte.
Fa parte di: Histoire naturelle / Pline l'Ancien
32: Livre 32. / Pline l'Ancien; texte etabli, traduit et commente par E. de Saint-Denis, Paris: Les belles lettres,
1966, Collection des universites de France
Note Generali: Testo orig. a fronte.
Fa parte di: Histoire naturelle / Pline l'Ancien
1: Libri 1.-6, Stutgardiae: in aedibus B. G. Teubneri, 1967
Fa parte di: C. Plini Secundi Naturalis Historiae libri 37. / post Ludovici Iani obitum recognovit et scripturae
discrepantia adiecta edidit Carolus Mayhoff
2: Libri 7.-15, Stutgardiae: in aedibus B. G. Teubneri, 1967
Fa parte di: C. Plini Secundi Naturalis Historiae libri 37. / post Ludovici Iani obitum recognovit et scripturae
discrepantia adiecta edidit Carolus Mayhoff
3: Libri 16.-22, Stutgardiae: in aedibus B. G. Teubneri, 1967
Fa parte di: C. Plini Secundi Naturalis Historiae libri 37. / post Ludovici Iani obitum recognovit et scripturae
discrepantia adiecta edidit Carolus Mayhoff
4: Libri 23.-30, Stutgardiae: in aedibus B. G. Teubneri, 1967
Fa parte di: C. Plini Secundi Naturalis Historiae libri 37. / post Ludovici Iani obitum recognovit et scripturae
discrepantia adiecta edidit Carolus Mayhoff
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195
5: Libri 31.-37, Stutgardiae: in aedibus B. G. Teubneri, 1967
Fa parte di: C. Plini Secundi Naturalis Historiae libri 37. / post Ludovici Iani obitum recognovit et scripturae
discrepantia adiecta edidit Carolus Mayhoff
4: Historia natural. 1 / de Cayo Plinio Segundo; trasladada y anotada por el doctor Francisco Hernandez,
Mexico: Universidad Nacional de Mexico, 1966
Fa parte di: Obras completas / Francisco Hernandez
7: Libri 24.-27. / Pliny; with an English translation by W. H. S. Jones
Edizione: Repr, London: W. Heinemann, Mass., The Loeb classical library
Note Generali: Rist. della 1. ed. 1956.
Testo orig. a fronte
Fa parte di: Natural history: in ten volumes / Pliny
1: Praefatio, Libri 1., 2. / Pliny; with an english translation by H. Rackham, London: W. Heinemann Ltd.,
Massachusetts, The Loeb classical library
Fa parte di: Natural history: in ten volumes / Pliny
3: Libri 8.-9. / Pliny; with an english translation by H. Rackham, London: W. Heinemann Ltd., Massachusetts,
The Loeb classical library
Fa parte di: Natural history: in ten volumes / Pliny
7: Libri 24.-27. / Pliny; with an english translation by W. H. S. Jones, London: W. Heinemann Ltd.,
Massachusetts, The Loeb classical library
Fa parte di: Natural history: in ten volumes / Pliny
Antologia / introduzione e commento di Umberto Moricca, Milano: Signorelli, 1965, Scrittori latini
20: Livre 20. / Pline l'Ancien; texte etabli, traduit et commente par J. Andre, Paris: Les belles lettres, 1965,
Collection des universites de France
Note Generali: Testo orig. a fronte.
Fa parte di: Histoire naturelle / Pline l'Ancien
Plinii Secundi Iunioris qui feruntur De medicina libri tres / edidit Alf Onnerfors, Berolini: in aedibus Academiae
scientiarum, 1964, Corpus medicorum latinorum / AcademiaScientiarum Germanica Berolinensis
Titolo uniforme: De medicina
Nomi: Plinius Secundus, Gaius
Onnerfors, Alf
17: Livre 17. / Pline l'Ancien; texte etabli, traduit et commente par J. Andre, Paris: Les belles lettres, 1964,
Collection des universites de France
Note Generali: Testo orig. a fronte.
Fa parte di: Histoire naturelle / Pline l'Ancien
TV0114 - Biblioteca comunale - Treviso - TV
19: Livre 19. / Pline l'Ancien; texte etabli, traduit et commente par J. Andre, Paris: Les belles lettres, 1964,
Collection des universites de France
Note Generali: Testo orig. a fronte.
Fa parte di: Histoire naturelle / Pline l'Ancien
TV0114 - Biblioteca comunale - Treviso - TV
30: Livre 30. / Pline l'Ancien; texte etabli, traduit et commente par Alfred Ernout, Paris: Les belles lettres,
1963, Collection des universites de France
Note Generali: Testo orig. a fronte.
Fa parte di: Histoire naturelle / Pline l'Ancien
8: Libri 28.-32. / Pliny; with an English translation by W. H. S. Jones, London: W. Heinemann, 1963, The
Loeb classical library
Note Generali: Testo orig. a fronte.
Fa parte di: Natural history: in ten volumes / Pliny
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8: Libri 28.-32. / Pliny; with an english translation by W. H. S. Jones, London: W. Heinemann Ltd.,
Massachusetts
Fa parte di: Natural history: in ten volumes / Pliny
28: Livre 28. / Pline l'Ancien; texte etabli, traduit et commente par A. Ernout, Paris: Les belles lettres, 1962,
Collection des universites de France
Note Generali: Testo orig. a fronte.
Fa parte di: Histoire naturelle / Pline l'Ancien
29: Livre 29. / Pline l'Ancien; texte etabli, traduit et commente par A. Ernout, Paris: Les belles lettres, 1962,
Collection des universites de France
Note Generali: Testo orig. a fronte.
Fa parte di: Histoire naturelle / Pline l'Ancien
10: Libri 36.-37. / Pliny; with an English translation by D. E. Eichholz, London: W. Heinemann, Mass, The
Loeb classical library
Note Generali: Testo orig. a fronte.
Fa parte di: Natural history: in ten volumes / Pliny
10: Libri 36.-37. / Pliny; with an english translation by D. E. Eichholz, London: W. Heinemann Ltd.,
Massachusetts
Fa parte di: Natural history: in ten volumes / Pliny
16: Livre 16. / Pline l'Ancien; texte etabli, traduit et commente par J. Andre, Paris: Les belles lettres, 1962,
Collection des universites de France
Note Generali: Testo orig. a fronte.
Fa parte di: Histoire naturelle / Pline l'Ancien
5: Libri 17.-19. / Pliny; with an english translation by H. Rackham, Cambridge, Massachusetts
Fa parte di: Natural history: in ten volumes / Pliny
Histoire naturelle / Plinius Secundus; texte itabli, traduit et commenti par E. De Saint Denis. 10, Livre X,
Paris: Les Belles Lettres, 1961, Collection des universites de France
Note Generali: Testo orig. a fronte
10: Livre 10. / Pline l'Ancien; texte etabli, traduit et commente par E. de Saint Denis, Paris: Les belles lettres,
1961, Collection des universites de France
Note Generali: Testo orig. a fronte.
Fa parte di: Histoire naturelle / Pline l'Ancien
15: Livre 15. / Pline l'Ancien; texte etabli, traduit et commente par J. Andre, Paris: Les belles lettres, 1960,
Collection des universites de France
Note Generali: Testo orig. a fronte.
Fa parte di: Histoire naturelle / Pline l'Ancien
1: Praefatio, libri 1.-2. / Pliny; with an English translation by H. Rackham
Edizione: Repr, London: W. Heinemann, Mass., The Loeb classical library
Note Generali: Rist. della 1. ed. 1938.
Testo orig. a fronte
Fa parte di: Natural history: in ten volumes / Pliny
14: Livre 14. / Pline l'Ancien; texte etabli, traduit et commente par J. Andre, Paris: Les belles lettres, 1958,
Collection des universites de France
Note Generali: Testo orig. a fronte.
Fa parte di: Histoire naturelle / Pline l'Ancien
26: Livre 26. / Pline l'Ancien; texte etabli, traduit et commente par A. Ernout et R. Pepin, Paris: Les belles
lettres, 1957, Collection des universites de France
Note Generali: Testo orig. a fronte.
Fa parte di: Histoire naturelle / Pline l'Ancien
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27: Livre 27. / Pline l'Ancien; texte etabli, traduit et commente par A. Ernout, Paris: Les belles lettres, 1959,
Collection des universites de France
Note Generali: Testo orig. a fronte.
Fa parte di: Histoire naturelle / Pline l'Ancien
Pliny's natural History: an account by a Roman of what Romans knew and did and valued / compacted from
the many volumes of the Historia Naturalis by Loyd Haberly, New York: Ungar Publishing Co., c1957,
Milestones of thought
34: Livre 34. / Pline l'Ancien; texte etabli et traduit par H. Le Bonniec; commente par H. Gallet de Santerre et
par H. Le Bonniec, Paris: Les belles lettres, 1953, Collection des universites de France
Note Generali: Testo orig. a fronte.
Fa parte di: Histoire naturelle / Pline l'Ancien
Onnerfors, Alf, Pliniana: in Plinii Maioris Naturalem historiam studia grammatica semantica critica / scripsit
Alf Onnerfors, Upsaliae: Almqvist & Wiksell, 1956
Paese di pubblicazione: SE
3: Libri 8.-11. / Pliny; with an English translation by H. Rackham
Edizione: Repr, London: W. Heinemann, Mass., The Loeb classical library
Note Generali: Rist. della 1. ed. 1940.
Testo orig. a fronte
Fa parte di: Natural history: in ten volumes / Pliny
Histoire naturelle / Plinius Secundus; texte itabli, traduit et commenti par E. De Saint Denis. 9, Livre IX, Paris:
Les Belles Lettres, 1955, Collection des universites de France
Note Generali: Testo orig. a fronte
Dizionario terapeutico estratto dalla Historia naturalis di Plinio il vecchio / [a cura di] Michele Vitale: (Istituto di
storia della medicina dell'Universita di Roma), Roma: Tip. Rodia, 1955, Istituto di storia della
medicinadell'Universita di Roma. Collezione C, Studie ricerche storico-mediche
9: Livre 9. / Pline l'Ancien; texte etabli, traduit et commente par E. de Saint-Denis, Paris: Les belles lettres,
1955, Collection des universites de France
Note Generali: Testo orig. a fronte.
Fa parte di: Histoire naturelle / Pline l'Ancien
13: Livre 13. / Pline l'Ancien; texte etabli, traduit et commente par A. Ernout, Paris: Les belles lettres, 1956,
Collection des universites de France
Note Generali: Testo orig. a fronte.
Fa parte di: Histoire naturelle / Pline l'Ancien
Histoire naturelle / Pline L'Ancien. Livre VIII / texte etabli, traduit et commente par A. Ernout, Paris: Societe
d'edition Les belles lettres, 1952
1: Livre 1. / Pline l'Ancien; texte etabli, traduit et commente par Jean Beaujeu; introduction de Alfred Ernout,
Paris: Les belles lettres, 1950, Collection des universites de France
Note Generali: Testo orig. a fronte.
Fa parte di: Histoire naturelle / Pline l'Ancien
5: Libri 17.-19. / Pliny; with an English translation by H. Rackham, London: William Heinemann,
Massachusetts, The Loeb classical library
Note Generali: Testo orig. a fronte.
Fa parte di: Natural history: in ten volumes / Pliny
6: Libri 20.-23. / Pliny; with an English translation by W. H. S. Jones, London: W. Heinemann, Mass., The
Loeb classical library
Note Generali: Testo orig. a fronte.
Fa parte di: Natural history: in ten volumes / Pliny
9: Libri 33.-35. / Pliny; with an English translation by H. Rackham, London: W. Heinemann, Mass., The Loeb
classical library
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Note Generali: Testo orig. a fronte.
Fa parte di: Natural history: in ten volumes / Pliny
Histoire naturelle / Plinius Secundus; texte itabli, traduit et commenti par Jean Beanjean. 2, Livre II, Paris:
Les Belles Lettres, 1950, Collection des universites de France
Note Generali: Testo orig. a fronte
2: Livre 2. / Pline l'Ancien; texte etabli, traduit et commente par Jean Beaujeu, Paris: Les belles lettres, 1950,
Collection des universites de France
Note Generali: Testo orig. a fronte.
Fa parte di: Histoire naturelle / Pline l'Ancien
8: Livre 8. / Pline l'Ancien; texte etabli, traduit et commente par A. Ernout, Paris: Les belles lettres, 1952,
Collection des universites de France
Note Generali: Testo orig. a fronte.
Fa parte di: Histoire naturelle / Pline l'Ancien
TV0114 - Biblioteca comunale - Treviso - TV
Historie Naturelle / Pline L'Ancien; texte e tabli, tradut et commente' par A. Ernout, Paris: Les Belles Lettres,
1949, Collection des universites de France
2: Libri 3.-7. / Pliny; with an English translation by H. Rackham
Edizione: Repr, London: W. Heinemann, Mass., The Loeb classical library
Note Generali: Rist. della 1. ed. 1942
Testo orig. a fronte.
Fa parte di: Natural history: in ten volumes / Pliny
2: Libri 3.-4. / Pliny; with an english translation by H. Rackham, London: W. Heinemann Ltd., Massachusetts
Fa parte di: Natural history: in ten volumes / Pliny
11: Livre 11. / Pline l'Ancien; texte etabli, traduit et commente par A. Ernout et R. Pepin, Paris: Les belles
lettres, 1947, Collection des universites de France
Note Generali: Testo orig. a fronte.
Fa parte di: Histoire naturelle / Pline l'Ancien
12: Livre 12. / Pline l'Ancien; texte etabli, traduit et commente par A. Ernout, Paris: Les belles lettres, 1949,
Collection des universites de France
Note Generali: Testo orig. a fronte.
Fa parte di: Histoire naturelle / Pline l'Ancien
Storia delle arti antiche / Plinio il vecchio; testo traduzione e note a cura di Silvio Ferri, Roma: Palombi, 1946
Note Generali: Front. anche in latino.
C. Plini secundi Naturalis Historiae quae pertinent ad artes antiquorum / disposuit, vertit, adnotavit S. Ferri,
Romae: in aedibus Palombi, 1947
Cotte, J., Poissons et animaux aquatiques au temps de Pline: commentaires sur le livre 9. de l'Histoire
naturelle de Pline, Paris: Lechevalier, 1944
Nomi: Cotte, J.
Storia naturale: scelta / Plinio; testo, versione e note di Giuseppe Resina, Bologna: L. Cappelli, 1943, Il latino
per tutti
Nomi: Plinius Secundus, Gaius
4: Libri 12.-16. / Pliny; with an English traslation by H. Rackham, Cambridge, Mass.
Note Generali: Testo originale a fronte.
Fa parte di: Natural history: in ten volumes / Pliny
Antologia dalla Naturalis Historia di Plinio / testo, traduzione e commento a cura di Luigi Illuminati. Vol. 1,
Messina: G. D'anna, 1942 (Sancasciano Pesa: Tip. F.lli Stianti)
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1: Libri 1.-6, Lipsiae: in aedibus B. G. Teubneri, 1906
Fa parte di: C. Plini Secundi Naturalis historiae libri 37. / post Ludovici Iani obitum recognovit et scripturae
discrepantia adiecta edidit Carolus Mayhoff
La descrizione d'Italia / tradotta da Lodovico Domenichi; con introduzione di Carlo Pascal, Pavia: Tip. Succ.
Fratelli Fusi, 1920, Pubblicazioni dell'Atene e Roma. Sezione diMilano
1: Libri 1.-6. / [Gaius Plinius Secundus], Lipsiae: in aedibus B.G. Teubneri, 1933
Fa parte di: C. Plini Secundi Naturalis historiae libri 37. / post Ludovici Iani obitum recognovit et scripturae
discrepantia adiecta edidit Carolus Mayhoff
2: Libri 7.-15. / [Gaius Plinius Secundus], Lipsiae: in aedibus B.G. Teubneri, 1909
Fa parte di: C. Plini Secundi Naturalis historiae libri 37. / post Ludovici Iani obitum recognovit et scripturae
discrepantia adiecta edidit Carolus Mayhoff
La descrizione d'Italia di Plinio il Vecchio / tradotta da Lodovico Domenichi; con introduzione di Carlo Pascal,
Milano: presso la libreria G.B. Paravia, 1920
Note Generali: In testa al front.: Pubblicazioni dell'Atene e Roma. Societa per la diffusione e
l'incoraggiamento degli studi classici (Sezione di Milano)
Domenichi, Lodovico <1515-1564>
Die geographischen Bucher (2., 242 - 6. Schluss) der Naturalis Historia des C. Plinius Secundus: mit
vollstandigem kritischen Apparat / herausegegeben von D. Detlefsen, Berlin: Weidmannsche Buchhandlung,
1904, Quellen und Forschungen zur alten Geschichteund Geographie
The elder Pliny's chapters on the history of art / translated by K. Jex-Blake; with commentary and historical
introduction by E. Sellers, London: Macmillan, 1896
6: Indices / recognovit atque indicibus instruxit Ludovicus Ianus
Edizione: Ed. stereotypa, Lipsiae: inaedibus B. G. Teuneri, 1898
Fa parte di: C. Plini Secundi Naturalis historiae libri 37. / post Ludovici Iani obitum recognovit et scripturae
discrepantia adiecta edidit Carolus Mayhoff
C. Plinii Secundi Librorum dubii sermonis 8. reliquiae / collegit et illustravit J. W. Beck, Lipsiae: in aedibus B.
G. Teubneri, 1894, Bibliotheca scriptorum Graecorum et RomanorumTeubneriana
3: Libri 16.-22. / [Gaius Plinius Secundus], Lipsiae: in aedibus B.G. Teubneri, 1892
Fa parte di: C. Plini Secundi Naturalis historiae libri 37. / post Ludovici Iani obitum recognovit et scripturae
discrepantia adiecta edidit Carolus Mayhoff
4: Libri 23.-30. / [Gaius Plinius Secundus], Lipsiae: in aedibus B.G. Teubneri, 1897
Fa parte di: C. Plini Secundi Naturalis historiae libri 37. / post Ludovici Iani obitum recognovit et scripturae
discrepantia adiecta edidit Carolus Mayhoff
5: Libri 31.-37. / [Gaius Plinius Secundus], Lipsiae: in aedibus B.G. Teubneri, 1897
Fa parte di: C. Plini Secundi Naturalis historiae libri 37. / post Ludovici Iani obitum recognovit et scripturae
discrepantia adiecta edidit Carolus Mayhoff
Plinii Secundi quae fertur una cum Gargilii Martialis medicina / nunc primum edita a Valentino Rose, Lipsiae:
in aedibus B. G. Teubneri, 1875, Bibliotheca scriptorum Graecorum et RomanorumTeubneriana
Altri titoli collegati: [Pubblicato con] Gargilii Martialis Medicinae ex oleribus et pomis
[Altro documento correlato] Medicina Plinii
4: Libri 23.-31, Berolini: apud Weidmannos, 1871
Fa parte di: C. Plinii Secundi Naturalis historia / D. Detlefsen recensuit
5: Libri 32.-37, Berolini: apud Weidmannos, 1873
Fa parte di: C. Plinii Secundi Naturalis historia / D. Detlefsen recensuit
2: Libri 7.-15, Berolini: apud Weidmannos, 1877
Fa parte di: C. Plinii Secundi Naturalis historia / D. Detlefsen recensuit
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6: Index 1. Deorum et hominum; Index 2. Locorum / [Gaius Plinius Secundus], Berolini: apud Weidmannos,
1882
Fa parte di: C. Plinii Secundi Naturalis historia / D. Detlefsen recensuit
Histoire naturelle de Pline / avec la traduction en francais, par M. E. Littre, Paris: Librairie de Firmin Didot et
C.ie, 1883, Collection des auteurs latins avec latraduction en francais
Tre libri di agricoltura tratti dalla Storia naturale / Cajo Plinio Secondo; volgarizzamento dell'abate Placido
Bordoni, Milano: Silvestri, 1852, Biblioteca scelta di opere greche e latinetradotte in lingua italiana
Note Generali: Versione italiana dei libri 17.-19. della Naturalis historia.
Histoire naturelle / [de] Pline; Avec la traduction en francais par M. E. Littre, Paris: Firmin Didot, 1860-1865,
Collection des auteurs latins avec latraduction en francais
C. Plini Secundi naturalis historiae libri XXXVII; Recognovit atque indicibus instruxit Ludovicus Ianus,
Lipsiae: Teubneri, 1852-1860
1: Libb. 1.-6, Lipsiae: sumptibus et typis B. G. Teubneri, 1854
Note Generali: Descrizione basata su esemplare mutilo a p. 256.
Fa parte di: C. Plini Secundi Naturalis Historiae libri 37. / recognovit atque indicibus instruxit Ludovicus Ianus
5: Libb. 33.-37, Lipsiae: sumptibus et typis B. G. Teubneri, 1860
Fa parte di: C. Plini Secundi Naturalis Historiae libri 37. / recognovit atque indicibus instruxit Ludovicus Ianus
4: Libb. 23.-32, Lipsiae: sumptibus et typis B. G. Teubneri, 1858
Fa parte di: C. Plini Secundi Naturalis Historiae libri 37. / recognovit atque indicibus instruxit Ludovicus Ianus
1: Libri 1.-6, Berolini: apud Weidmannos, 1866
Fa parte di: C. Plinii Secundi Naturalis historia / D. Detlefsen recensuit
3: Libri 16.-22, Berolini: apud Weidmannos, 1866
Fa parte di: C. Plinii Secundi Naturalis historia / D. Detlefsen recensuit
5: Accedit Appuleii qui fertur de remediis salutaribus fragmentum e Codice Salmasiano nunc primum editum
/ [Gaius Plinius Secundus]; recensuit et commentariis criticis indicibusque instruxit Iulius Sillig, Hamburgi;
Gothae, 1856
Fa parte di: C. Plini Secundi Naturalis historiae libri 37. / recensuit et commentariis criticis indicibusque
instruxit Iulius Sillig
6: Quo continentur Palimpsestus veronensis a Moneo editus et FFred. Gronovi in Plinium notae emendatius
expressae / [Gaius Plinius Secundus]; recensuit et commentariis criticis indicibusque instruxit Iulius Sillig,
Gothae: Perthes, 1855
Fa parte di: C. Plini Secundi Naturalis historiae libri 37. / recensuit et commentariis criticis indicibusque
instruxit Iulius Sillig
Nomi: Plinius Secundus, Gaius - Sillig, Karl Julius - Gronovius, Friedrich - Mone, Fridegarius
7: Quo continentur indices rerum a Plinio memoratarum: A-L / [Gaius Plinius Secundus]; recensuit et
commentariis criticis indicibusque instruxit Iulius Sillig, Gothae: Perthes, 1857
Fa parte di: C. Plini Secundi Naturalis historiae libri 37. / recensuit et commentariis criticis indicibusque
instruxit Iulius Sillig
8: Quo continentur indices rerum a Plinium memoratarum: M-Z / [Gaius Plinius Secundus]; recensuit et
commentariis criticis indicibusque instruxit Iulius Sillig, Gothae: Perthes, 1858
Fa parte di: C. Plini Secundi Naturalis historiae libri 37. / recensuit et commentariis criticis indicibusque
instruxit Iulius Sillig
Chrestomathia pliniana / herausgegeben und erklaert von L. Urlichs, Berlin: Weidmannsche Buchhandlung,
1857
Completato dal 2004 al 1850
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F. D'ALESSI - Letteratura latina - Parte III,1 - Il periodo imperiale - L'età dei Claudi
201
"Plinio il Vecchio - Castaldi","
Gaio Plinio Secondo, detto "il Vecchio
(Como, 23-24 d.C ā€“ Stabile, odierna Castellammare, 79 d.C.).
Vita.
P. apparteneva all'ordine equestre romano e comandò a lungo uno squadrone di cavalleria sul Reno. Vero
modello di funzionario imperiale, ricoprì anche importanti incarichi amministrativi durante i regni di vari
imperatori (Vespasiano e Tito). Prefetto, infine, della flotta di Capo Miseno durante il regno di Tito, egli
esercitava ancora questo comando quando trovò la morte, inghiottito dall'eruzione del Vesuvio che seppellì
le città campane nel 79 d.C. . Una buona parte delle nostre informazioni su di lui - sulla vita, sul catalogo
delle opere, sul suo metodo di lavoro - ci provengono dalla corrispondenza di suo nipote e figlio adottivo,
Plinio "il Giovane".
Opere e considerazioni.
P. fu autore, come ci testimonia il nipote nel suo elenco, di saggi storici molto stimati, di cui però purtroppo
nulla possediamo: 20 libri su "Le guerre di Germania" (ispirati alle sue campagne), e 31 "Dalla fine di Aufidio
Basso", che riprendevano il filo degli eventi dal punto in cui si era fermata (gli ultimi anni dell'impero di
Tiberio) l'opera dello storico A. Basso, egli stesso continuatore di Tito Livio. Questi libri di P. furono una delle
fonti di Tacito. Dovrebbe, infine, aver scritto anche un "Dubius sermo", ovvero un manuale su problemi
linguistici.
Tuttavia, per noi, P. è soprattutto un "enciclopedista", le cui straordinarie conoscenze si trovano compendiate
nei 37 libri della sua "Naturalis historia" [vers.lat] ("Storia naturale"), vasta indagine (finita nel 77-78) su tutto
ciò che esiste in natura, partendo dalla "centralità" dell'essere umano, e su argomenti che spaziano dall'arte
alla medicina: una vera e propria "summa", quindi, del sapere reperibile fino a quel momento, in autori greci
(soprattutto) ma anche latini.
Lā€™opera, aperta da unā€™epistola dedicatoria e illustrativa rivolta al futuro imperatore Tito, inizia con una
prefazione e una "bibliografia" (una vera novità, questa, nel mondo classico), e continua con la trattazione
dellā€™astronomia e della geografia (libri II-VI), dellā€™uomo e degli animali (VII-IX), della botanica (XII-XIX), della
medicina (XX-XXXII), della metallurgia e mineralogia, con ampi excursus sulla storia dellā€™arte, con particolare
riguardo per la scultura e la pittura (XXXIII-XXXVII).
P. si colloca sulla linea di Varrone, ma senza l'ampiezza analitica di quest'ultimo. In realtà, il suo è un
interesse che non si può definire propriamente "scientifico" (non si preoccupa, ad es., di sottoporre le notizie
ad un'adeguata e rigorosa verifica, né sente l'esigenza di proporre un lavoro originale e metodologicamente
impostato): egli è piuttosto un avido collezionista, mosso da una forte curiosità "compilatoria", che appunto
uno scienziato o un pensatore. Le sue stesse idee filosofiche e religiose, impregnate di stoicismo, non
superano i luoghi comuni abituali del suo tempo, e anzi proprio la mentalità enciclopedica è per lui un
accomodante eclettismo.
Comunque, mescolando esperienze personali e testimonianze di fonti antiche in uno stile manierato e
talvolta tortuoso (ma giustificato dalla mole e dallā€™intento divulgativo dellā€™opera), P. ci dà - oltre a
innumerevoli, precise e preziose notizie sulle conoscenze scientifiche e letterarie del tempo - un esempio
unico del profondo umanesimo e della vastità dā€™interessi della cultura latina del I sec. d.C., nonché una
lampante testimonianza della diffusione e dellā€™ascesa dei ceti "tecnici" e "professionali", con la conseguente
"domanda" di cognizioni specifiche ai relativi settori.
"Plinio il Vecchio - Corso",
Caius Plinius Secundus.
Plinio, detto il Vecchio per distinguerlo dal nipote Caio Plinio Cecilio Secondo fu uomo politico, avvocato ma
soprattutto erudito e scrittore tra i più notevoli della letteratura latina.
Nato intorno al 24 dopo Cristo a Como, morì nel 79 a Stabia, in occasione dell'eruzione del Vesuvio che
distrusse Ercolano e Pompei.
Ebbe una regolare e fortunata carriera politica, che non gli impedì di essere un vero e proprio poligrafo,
attratto dalle discipline più diverse e da interessi di ogni tipo.
Testimoninza inequivocabile ne è l'unica opera rimasta, la Naturalis historia (Storia naturale), una vera e
propria enciclopedia in 37 libri dedicata all'imperatore Tito e pubblicata in gran parte postuma da Plinio il
Giovane con un elenco delle materie e delle fonti.
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Le notizie di geografia, etnografia, antropologia, fisiologia, zoologia, botanica e mineralogia raccolte da Plinio
nella Naturalis historia con una paziente schedatura di oltre duemila opere di autori latini e greci, ancorchè
spesso non attendibili, hanno costituito per molti secoli materia di consultazione rispettosa nella cultura
occidentale.
"Plinio il Vecchio - Encarta"
Plinio il Vecchio (Como 23 - Castellammare 79 d.C.), scrittore, studioso e scienziato latino. Intrapresa la
carriera equestre, fu inviato sul Reno dove trascorse circa dodici anni. Di ritorno a Roma nel 52, si dedicò
alla carriera legale, che abbandonò per scrivere e coltivare studi di varia natura. Dal 70 al 72 fu procuratore
in Spagna, nel 79 - l'anno dell'eruzione del Vesuvio che distrusse Ercolano e Pompei - si trovava a Miseno,
vicino a Napoli, al comando della flotta romana di stanza in Occidente. Desideroso di esaminare da vicino il
fenomeno, salpò alla volta di Stabia (oggi Castellammare), dove morì soffocato dai vapori dell'eruzione.
Fu autore di numerose opere storiche e scientifiche - tutte perdute, ma che ci sono note grazie a un
inventario stilato dal nipote Plinio il Giovane - fra cui una storia sulle guerre germaniche in venti libri e
un'altra in trentun libri sulla storia di Roma dal 41 al 71. L'unica sua opera pervenutaci è la Naturalis Historia,
in trentasette libri, dedicata all'imperatore Tito: si tratta di un'enciclopedia che contiene, come l'autore stesso
afferma, 20.000 fatti desunti da duemila volumi di cento autori diversi. I primi dieci libri furono pubblicati nel
77; i successivi uscirono postumi, probabilmente a cura di Plinio il Giovane. Gli argomenti trattati vanno
dall'astronomia alla geografia e all'etnologia, dall'antropologia alla fisiologia umana e alla zoologia, dalla
botanica alla medicina e alle piante medicinali, dalla mineralogia all'arte e alla storia dell'arte.
"Plinio il Vecchio - Treccani"
Plinio il Vecchio (Caius Plinius Secundus). Erudito e scrittore latino nato nel 23 o 24 d.C. a Novum Comum
(Como) e morto il 25 agosto del 79 a Stabia, sul golfo di Napoli, ai piedi del Vesuvio. Compì i primi studi in
Lombardia, quindi si trasferì a Roma per seguirvi corsi di eloquenza. Prestò il servizio militare in Germania
come ufficiale di cavalleria e in seguito fu, a quanto pare, procuratore nella Gallia Narbonense, in Africa,
nella Spagna Tarraconense e infine nella Gallia Belgica. Su tali cariche abbiamo, tranne per quella della
Spagna Tarraconense, dati del tutto incerti. Sappiamo però che P. era tenuto a corte in altissima
considerazione, tanto che Vespasiano lo volle tra i suoi collaboratori.
Nel 79 P. comandava la flotta romana di stanza a Miseno, allora una delle più importanti basi navali
del Tirreno, quando avvenne la spettacolare eruzione del Vesuvio. Spinto dalla curiosità e dall'amore della
scienza, volle osservare troppo da vicino il fenomeno e morì soffocato dalle esalazioni tossiche. I particolari
della sua fine sono contenuti in due lettere che il nipote scrisse, l'una allo storico Tacito e l'altra a Bebio
Macro.
Nonostante i suoi alti uffici, P. scrisse moltissimo e di tutto. Un elenco completo in ordine cronologico
ci è stato tramandato da suo nipote, P. il Giovane. Inoltre lasciò un immenso repertorio di notizie erudite e
osservazioni raccolte in numerosi fascicoli. La produzione di P. comprendeva le seguenti opere:
De iaculatione equestri, un libro sul modo di lanciare il giavellotto da cavallo;
De vita Pomponii Secundi libri II, biografia di Pomponio Secondo, poeta tragico vissuto sotto Tiberio;
Dubii sermonis libri VIII, trattato di problemi grammaticali;
Bellorum Germaniae libri XX, storia delle campagne in Germania;
A fine Aufidii Bassi, un'opera di caratttere politico diretta ad
esaltare i Flavi;
Naturalis historia (Storia naturale), una vera e propria enciclopedia in 37 libri dedicata all'imperatore
Tito e pubblicata nel 79 da P. il Giovane con l'aggiunta di un elenco delle fonti e un sommario generale.
Di tutte tali opere è a noi giunta la Storia naturale, un lavoro in sé disorganico e di scarso valore
scientifico, ma che costituisce una delle maggiori fonti in nostro possesso per la conoscenza di settori della
civiltà classica. L'opera è così suddivisa: I indice dell'opera; Il descrizione dell'universo; III-VI geografia e
etnografia; VII antropologia e fisiologia; VIII-XI zoologia; XII-XIX botanica; XXXVII botanica medica; XXVIIIXXXII zoologia medica; XXXIII-XXXVII mineralogia. Particolare importanza hanno i libri sulla mineralogia, nei
quali, sia pure indirettamente, P. giunge a parlare della scultura e della pittura, fornendoci notizie
preziosissime sull'arte antica.
Plinio il Vecchio - Riposati
1. Vita. - II. L'opera. - 111. Valore della ' Naturalis Historia '. - IV. Fortuna.
II piú vasto erudito di quest'epoca è C a i o P I i n i o S e c o n d o (C. Plintus Secunlus).
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I. - Vita. - Verona ne rivendica i natali, ma Como è quasi certamente la patria di quest'uomo singolare, che,
nato nel 23 o 24 d. C., conciliò nella misura piú alta, come forse nessun altro personaggio dell'antichità, le
qualità dell'uomo di studio e di azione, padroneggiandole in ogni momento della vita con disinvolto distacco.
In gioventú fu soldato di cavalleria in Germania, e da questa esperienza di combattente trasse materia per
un'operetta d. tattica equestre; passò il resto della vita intento allo studio, da cui Sl ntrasse solo quando
dovere di soldato, responsabi!ità dl cittadino e coscienza di scienziato lo chiamarono altrove. Vlsse da uomo
probo, da studioso onesto ed ordinato, da funzionario scrupoloso: nessuno poté discuterne l'integrità al
ritorno dalle procuratoríe di Spagna, di Germania, di Gallia e d'Africa; nessuno rimproverargli come acquisite
con servilismo ed adulazione la confidenza e l'amicizia di Vespasiano, che l'impegnavano talvolta anche
nelle ore antelucane. L'lmperatore ed il Naturalista sembravano fatti per intendersi: la stessa solerzia, la
stessa coscienza dell offictum, la stessa tenacia nei propositi e nelle azioni; ed anche gli stessi difetti,
Convinto che ci sia tempo e luogozper ogni interesse, Plinio fu uno studioso accorto e metodico. Le ore
libere dagli officta e dagli affari erano dedicate alla lettura; una lettura che lasciava sempre tracce nelle sue
tavolette: se viaggiava, viaggiava col segretario ed i libri ; se pranzava, ascoltava il suo lettore in religioso
silenzio. Fiducioso nella scienza, come quella che sola può aiutare a capire l'immenso mistero dell'universo,
non ebbe mai fiducia nella natura che, matrigna alluomo, "all'uomo insegnò soltanto a piangere" (prooem.
VII), e forse neppure negli uomini, se disse che " all'uomo non vengono mai tanti mali come dall'uomo)>. E
parve vendetta della natura la sua scomparsa nell'eruzione vesuviana del 79, quando, comandante della
flotta, accorse a Stabia dalla vicina Misèno, per soccorrere proprio i suoi simili e studiare da presso lo
spaventoso fenomeno naturale; qui trovò la sua tomba (').
II. - L'opera. - II nipote, Plinio il Giovane, richiestone da Svetonio, elenca alcune opere, per noi perdute (ne
soprawivono solo scarsi frammenti): esse concernevano l arte militare (De iaculatione equestri liber I: " Del
lanciare a cavallo>)), la biografia (De vita Pomponi Secunli), la retorica e la filologia (Studiosi libri III: ' Dello
studioso (di eloquenza) '; Dubii sermonis libri VIII: ' Dei dubbii linguistici '), la storia (Bellorum Germaniae libri
XX; A fine (della storia) Aufidii Bassi libri XXXI), a cui accennammo avanti.
Possediamo invece integralmente la Naturalis historia; questa, dedicata a Tito, figlio di Vespasiano,
abbraccia in 37 libri tutto il sapere scientifico dell'antichità, e ne è la piú ampia miniera di carattere
naturalistico. L'Autore vi condensò il frutto delle sue immense letture, riepilogate in appunti (excerpta), e fatte
indefessamente per un quarantennio su oltre duemila opere di quasi cinquecento autori greci e latini,
prosatori e poeti; vi si aggiungono le osservazioni personali e le res, quas ignoraverant priores aut postea
invenerat vita (praef, 17). La materia è cosi distribuita:
I libro. - Fu preposto all'opera dopo la morte dell'autore, coll'intento di raccogliervi sia l'epistola-prefazione sia
l'elenco delle fonti che il Naturalista aveva indicato-in capo dei singoli libri; II. Astronomia e cosmografia,
secondo la concezione stoica dell'universo; 111Vl. Geografia; Vll. - Antropologia e fisiologia; VIII-XI.
Zoologia; XII-XIX. Botanica; XX,XXXII, Erboristica, farmacologia natu, ralistica, medicina; XXXIII-XXXVII. 11
regno minerale; metallurgia- materie coloranti e plastiche; pietre preziose; breve sommario di tecnica e storia
dell'arte.
III. - Valore della 'Naturalis Historia '. - "Un opera vasta, erudita e varia non meno che la stessa natura " (2) è
la Storia naturale di Plinio: un'immensa ' enciclopedia', dove è toccato ogni argomento dello scibile umano
contemporaneo, con un criterio dichiaratamente sístematico e scientifico. Lo fa capire l'Autore stesso nella
Prefazione, quando espone a Tito il metodo della sua ricerca che non vuole digressioni dall'argomento, né
piacevolezze di narrazione, sibbene attento studio delle fonti e impegno assoluto nel dare (<novità alle cose
vecchie e autorità alle nuove, spicco alle volgari e splendore alle oscure, grazia alle spregevoli e certezza
alle dubbie ": con l'unico proposito di " giovare >?, non di " piacere )>, e con la incresciosa consapevolezza
che molte delle infinite cose da dire rimangano anche per lui inesplorate.
Qui sono chiaramente definiti e la natura e i limiti dell'opera ds Plinio, e sono indicate in pari tempo la
probità, la severità e la solerzia dell'uomo di studio e di scienza, nonché le sue finalità umanistiche. Plinio
non intese fare opera d'arte, piuttosto di cultura e ds scienza: in questo senso la sua Naturalis historia ha per
noi un altissimo valore documentario, perchè è la testimonianza piú cospicua della cultura scientifica nel I
secolo dell'Impero- e in questo senso essa deve essere giudicata nei suoi valori intrinseci: con la sua scarsa
organicità di sviluppi, con le sue frettolosità e superficialità di informazioni e persino con le sue imprecisioni
di dati geografici e storici. In questa immensa ' storià dell'universo ' non tutto poteva essere messo a fuoco
anche dall'indagatore piú paziente ed acuto; le infinite letture avevano bisogno d'essere meditate e digerite:
la morte improwisa non consentí al cinquantaseienne scienziato una revisione di tutta la vasta opera(l).
Comunque, a questi timiti occorre guardare con generosità di giudizio per quel che Plinlo è riuscito a dire-ed
è, questo, già un miracolo d, dottrina-, per la commozione quasi lucreziana della ricerca appassionata, per la
candida fede quasi religiosa nella scienza che lo illumina e lo guida. Qui sta il punto e di qui bisogna partire
per comprendere certe intonazioni proemiàli, dove si riscoprono le intenzioni umanistiche dell'Autore, che
pone ' stoicamente ' I'uomo al centro dell'universo: I'uomo, con la sua ansia del divino, con la sua scienza
liberatrice dall'ignoranza, con le sue limitatezze umane, con i suoi sentimenti di solidarietà universale.
Espressioni come questa: " Essere iXo significa aiutare il proprio prossimo; in ciò è la vera via che parta alla
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gloria eterna" (2, 7); o come questa altra: " Tutti gli altri animali sentono l'impulso della loro natura, e subito
eccoli correre, volare,. . .; solo l'uomo nulla sa fare se non l'impara: non parlare, non camminare, non nutrirsi:
in breve, non altro spontaneamente sa fare che piangere)> (7, prooem. 4), non solo rivelano la molteplicità
degli interessi spirituali di Plinio, ma danno alla sua opera quella luce e quel calore urnano, che la redimono
dall'aspro tecnicismo scientifico. Anche la lingua e io stile, normalmente precisi e tecnici, acquistano in molte
pagine maggior flessuosità e accolgono persino terminologie poetiche; si ripensi alla commossa descrizione
della ' maternità ' della terra (2, 63) e alla lirica celebrazione dell'ltalia, "eletta da Dio a rendere piú fulgido il
cielo, . . . a dare all'uomo l'umanità)> (3, 5).
IV. - Fortuna. - I meriti dello studioso furono tenuti in grande onore dalla immediata posterità. Svetonio, che
si rivolse per l'occasione al nipote del Naturalista, di cui era amico, accolse Plinio nel De viris illustribus, ed il
fatto che della sezione, di cui la biografia faceva parte, essa sia l'unica superstite, sottolinea l'interesse che
Plinio suscitò nelle età successive. La tarda latinità compendiò della Naturalis Historia soprattutto la parte
geografica (Solino, III-IV sec.) e quella medica (Medicina Plinii, IV sec.) per scopi divulgativi e praticistici;
I'interesse del Medio Evo è attestato dalla soprawivenza di oltre duecento manoscritti; il Rinascimento vi
attinse largamente come ad una miniera di no, tizie preziose per l'alchímia e la magia.
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Fedro
Cenni biografici
Né la data di nascita, 20 a.C., né quella di morte (50 d.C.) sono sicure. Per la morte, in particolare,
si va dal regno di Claudio fino a quello di Vespasiano.
Fedro era uno schiavo di origine tracia (forse in territorio vicino a Macedonia) e in alcuni
manoscritti delle sue opere è citato come libertus Augusti.
Incerto anche il nome Phaeder o Phaedrus.
Schiavo fin da piccolo, dichiara di aver letto Ennio in una scuola romana (IV, prol.).
Opere
Datazione. Il primo e il secondo libro composti prima del 31 a.C. (data morte Seiano), il III
successivo a tale data.
Lā€™ opera è comunque scritta in vecchiaia.
Particulone dedicatario del IV libro.
Osservazioni
Testi e testimonianze
Mart., 3,20
Dic, Musa, quid agat Canius meus Rufus:
Utrumne chartis tradit ille victuris
Legenda temporum acta Claudianorum?
An quae Neroni falsus astruit scriptor?
An aemulatur inprobi lÒgous Phaedri?
Dimmi, o Musa, che cosa fa il mio Canio Rufo:
sta forse affidando alle pagine immortali
i degni fatti dei tempi della famiglia Claudia?
O scrive le poesie che falsi scrittori attribuiscono a Nerone?
O forse emula le favole del malizioso Fedro?
Sen., cons. ad Polyb., 3,8
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Non audeo te usque <eo> producere ut fabellas quoque et Aesopeos logos, intemptatum Romanis ingeniis
opus, solita tibi uenustate conectas.
Quint., inst., 5,11,19
Illae quoque fabellae quae, etiam si originem non ab Aesopo acceperunt nam uidetur earum primus auctor
Hesiodus, nomine tamen Aesopi maxime celebrantur, ducere animos solent praecipue rusticorum et
imperitorum, qui et simplicius quae ficta sunt audiunt, et capti uoluptate facile iis quibus delectantur consentiunt: si quidem et Menenius Agrippa plebem cum patri-bus in gratiam traditur reduxisse nota illa de
membris humanis aduersus uentrem discordantibus fabula, et Horatius ne in poemate quidem humilem
generis huius usum putauit in illis uersibus:
'quod dixit uulpes aegroto cauta leoni'.
Aā€¢non Graeci uocant et aā€žswpeā€¦ous, ut dixi, lÒgous et libu-koÚs, nostrorum quidam, non sane recepto in
usum nomine, apologationem. Cui confine est paroimā€¦as genus illud quod est uelut fabella breuior et per
allegorian accipitur: 'non nostrum' inquit 'onus: bos clitellas'.
Avian., fab. prol., (per forma del nome)
Esopo come modello
Phaedr., 1, pr., 1-7
Aesopus auctor quam materiam repperit,
Hanc ego polivi versibus senariis.
Duplex libelli dos est: quod risum movet
Et quod prudentis vitam consilio monet.
Calumniari si quis autem voluerit,
Quod arbores loquantur, non tantum ferae,
Fictis iocari nos meminerit fabulis.
PROLOGO
Responsabile, Esopo: è roba sua.
lo l'ho limata un po' coi miei senari.
Virtù doppia ha il libretto, che fa ridere,
e che è sapiente, utile alla vita.
Se qualcuno volesse cavillare
perché qui parlano alberi e non solo
bestie feroci, si ricordi dunque
che è un gioco di poesia, di fantasia.
Traduzione di E. Mandruzzato, Milano, Rizzoli, 1979,19854.
Prologo
Esopo concepí questi argomenti
che in versi di sei giambi ho illeggiadriti.
Il libro ha due virtú, ché fa sorridere
e con prudente senno ispira il vivere.
Chi avesse da ridire a nostro biasimo,
che oltre alle bestie gli alberi qui parlano,
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al giuoco stia d'immaginarie favole.
Traduzione di Agostino Richelmy, Torino, Einaudi, 1959 e 1968.
Phaedr., 2, pr., 1-15
Exemplis continetur Aesopi genus;
Nec aliud quicquam per fabellas quaeritur
Quam corrigatur error ut mortalium
Acuatque sese diligens industria.
Quicumque fuerit ergo narrandi iocus,
Dum capiat aurem et servet propositum suum,
Re commendatur, non auctoris nomine.
Equidem omni cura morem servabo senis;
Sed si libuerit aliquid interponere,
Dictorum sensus ut delectet varietas,
Bonas in partes, lector, accipias velim,
Ita si rependet illi brevitas gratiam.
Cuius verbosa ne sit commendatio,
Attende, cur negare cupidis debeas,
Modestis etiam offerre quod non petierint.
L'arte di Esopo è tutta negli esempi.
Gli apologhi leggeri altro non vogliono
che guarire l'errore dei mortali
e farlo acume, metodo operoso.
Qualunque sia il tipo di scrittura
purché interessi e sia fedele al fine
vale per sé e non vale per la firma.
Ma seguirò fedele stile e gusto
di quell'antico. Se vi farò intarsi
qua e là, perché la varietà è gustosa,
vorrei che lo prendessi in buona parte
tu lettore, vorrei della sveltezza
di questi versi tu mi fossi grato.
Ma perché questa mia presentazione
non sia troppo verbosa, osserva come
sia cosa giusta dire no agli avidi
ed ai modesti dare se non
chiedono.
Traduzione di E. Mandruzzato, Milano, Rizzoli, 1979,19854.
Lā€™aemulatio con Esopo
Epilogo secondo libro
Aesopi ingenio statuam posuere Attici
Servumque collocarunt aeterna in basi,
Patere honoris scirent ut cuncti viam
Nec generi tribui, sed virtuti gloriam.
Quoniam occuparat alter ne primus foret,
Ne solus esset studui; quod superfuit:
Nec haec invidia, verum est aemulatio.
Quod si labori faverit Latium meo,
Plures habebit, quos opponat Graeciae.
Si livor obtrectare curam voluerit,
Non tamen eripiet laudis conscientiam.
Si nostrum studium ad aures pervenit tuas
Et arte fictas animus sentit fabulas,
Omnem querelam submovet felicitas.
Sin autem doctus illis occurrit labor,
Sinistra quos in lucem natura extulit
Nec quicquam possunt nisi meliores carpere,
Fatale exitium corde durato feram,
Donec fortunam criminis pudeat sui.
L'autore
Al geniale Esopo un monumento
dedicarono gli Attici. Era schiavo
e ora alto sta su piedestallo eterno.
Quindi si sa che a tutti quanti è aperta
una via dell'onore
e a virtú non a stirpe si dà gloria.
Se un altro m'impedí d'essere il primo
io m'ingegnai perché non fosse l'unico.
Questa la sola eredità per me,
non invidia, ma gara.
Plaudendo il Lazio a questa impresa mia
con la Grecia vieppiú si paragoni.
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Il livor che denigra un tal disegno
l'intimo vanto mio non toglierà.
Giunga il lavoro a chi gentile ascolta
le favolette sottilmente ordite
e io gioia proverò contro ogni cruccio.
Oppur s'imbatta, tutto idee qual è,
in chi natura bieca diede al mondo
[nati a mordere invano i piú sottili]
e io con valido cuor sopporterò
quest'errore del fato fino a quando
la sorte di sua colpa non si adonti.
F. D'ALESSI - Letteratura latina - Parte III,1 - Il periodo imperiale - L'età dei Claudi
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Traduzione di Agostino Richelmy, Torino, Einaudi, 1959 e 1968.
Phaedr., 3, pr., 1-15
Phaedri libellos legere si desideras,
Vaces oportet, Eutyche, a negotiis,
Ut liber animus sentiat vim carminis.
"Verum" inquis "tanti non est ingenium tuum,
Momentum ut horae pereat officiis meis".
Non ergo causa est manibus id tangi tuis,
Quod occupatis auribus non convenit.
Fortasse dices: "Aliquae venient feriae,
Quae me soluto pectore ad studium vocent".
Legesne, quaeso, potius viles nenias,
Impendas curam quam rei domesticae,
Reddas amicis tempora, uxori vaces,
Animum relaxes, otium des corpori,
Ut assuetam fortius praestes vicem?
Mutandum tibi propositum est ut vitae genus,
Intrare si Musarum limen cogitas.
Ego, quem Pierio mater enixa est iugo,
In quo tonanti sancta Mnemosyne Iovi
Fecunda novies artium peperit chorum,
Quamvis in ipsa paene natus sim schola
Curamque habendi penitus corde eraserim
Et laude invicta vitam in hanc incubuerim,
Fastidiose tamen in coetum recipior.
Quid credis illi accidere, qui magnas opes
Exaggerare quaerit omni vigilia,
Docto labori dulce praeponens lucrum?
Sed iam quodcumque fuerit, ut dixit Sinon,
Ad regem cum Dardaniae perductus foret,
Librum exarabo tertium Aesopi stilo,
Honori et meritis dedicans illum tuis.
Quem si leges, laetabor; sin autem minus,
Habebunt certe quo se oblectent posteri.
Nunc fabularum cur sit inventum genus,
Giacché hai voglia di leggere i libretti
di Fedro, Eutico, devi riposarti
dagli affari; che l'anima sia libera
per capire l'essenza dei miei versi.
« Già», dice. "Tu non sei così importante,
io non posso buttare via per te
il tempo degli affari, neanche un'ora".
Perché allora lo tieni tra le mani
questo libro, se non gli presti orecchio?
O forse dici: "Se avrò le mie ferie,
sarò tranquillo e mi potrò istruire ».
Credi che leggerai queste mie lagne
invece di occuparti dei tuoi beni,
o il tempo dedicarlo ai tuoi amici,
a tua moglie, al riposo dello spirito
e del corpo, per poi ricominciare
con più energia la solita vicenda?
No: tu devi mutare vita e piani
per varcare la soglia delle Muse.
lo, vedi, nacqui proprio presso i gioghi
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Brevi docebo. Servitus obnoxia,
Quia quae volebat non audebat dicere,
Affectus proprios in fabellas transtulit
Calumniamque fictis elusit iocis.
Ego porro illius semita feci viam,
Et cogitavi plura quam reliquerat,
In calamitatem deligens quaedam meam.
Quod si accusator alius Seiano foret,
Si testis alius, iudex alius denique,
Dignum faterer esse me tantis malis,
Nec his dolorem delenirem remediis.
Suspicione si quis errabit sua
Et rapiet ad se quod erit commune omnium,
Stulte nudabit animi conscientiam.
Huic excusatum me velim nihilo minus:
Neque enim notare singulos mens est mihi,
Verum ipsam vitam et mores hominum ostendere.
Rem me professum dicet fors aliquis
gravem.
Si Phryx Aesopus potuit, Anacharsis Scytha
Aeternam famam condere ingenio suo:
Ego, litteratae qui sum propior Graeciae,
Cur somno inerti deseram patriae decus?
Threissa cum gens numeret auctores suos,
Linoque Apollo sit parens, Musa Orpheo,
Qui saxa cantu movit et domuit feras
Hebrique tenuit impetus dulci mora.
Ergo hinc abesto, livor, ne frustra gemas,
Quoniam mihi sollemnis debetur gloria.
Induxi te ad legendum; sincerum mihi
Candore noto reddas iudicium peto.
di Pieria, dove a Giove Dio del tuono
Mnemòsine divina partorì
feconda nove volte tutto il coro
delle arti; io ci sono quasi nato
in una grande "schola »; io ho raschiato
ogni brama d'avere dal mio cuore;
vissi con gloria intatta questa vita
che ho scelto; eppure, vedi, nel mio circolo
mi ricevono assai di mala voglia.
Immagina che accade a chi consuma
tutte le ore ad ammucchiare l'oro,
e a un sapiente travaglio preferisce
il piacere del lucro. Ma «sarà
ciò che sarà», come disse Sinone
condotto innanzi al re della Dardania:
e scriverò con la penna d'Esopo
un terzo libro, e lo dedicherò
ai tuoi meriti, appunto, alle tue cariche.
Se poi lo leggi, mi farai piacere;
se no sarà una gioia per i posteri.
Ti dirò pure come questo genere
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di poesia, l'apologo, ebbe origine.
La schiavitù, che è suddita da sempre,
aveva da parlare e non osava,
e versò in brevi favole il suo cuore
scherzando sull'equivoco sottile:
il sentiero d'Esopo. Ora è una via,
come ho voluto, e molti altri pensieri
ebbi che quell'antico non ci disse;
ho amato cose che mi rovinarono.
Ma se altri e non Seiano mi accusasse,
se altri fosse il teste e altri il giudice,
accetterei il mio male apertamente
e non quest arte mi consolerebbe.
Ma chi per suo sospetto equivocasse,
e attribuisse a sé l'universale,
sarà lo stolto che si tradirà.
Ma in ogni caso voglio scagionarmi:
non è intenzione mia bollare i singoli
ma svelare i caratteri, la vita.
Si dirà forse che l'impegno è serio.
Ma se ha potuto Esopo che era frigio,
o lo scita Anacarsi farsi eterni
con l'ingegno, dovrò io, che nacqui
in Grecia (quasi), madre delle lettere,
oziare tra le piume ed invidiare
alla patria una gloria? Mentre i Traci
vantano invece classici divini,
Lino nato da Apofio, e da una Musa
Orfeo, che cantando animò rocce
e domò fiere e vinse la violenza
del fiume Ebro in un riposo dolce?
Invidia, fuggi. Vano il tuo compianto.
Ecco una gloria unica mi attende.
Be', intanto tu mi leggi. Allora giudica
con cuore schietto. (Ignoro il tuo candore?)
Traduzione di E. Mandruzzato, Milano, Rizzoli, 1979,19854.
Fedro a Eutico
I volumetti di Fedro vuoi leggere,
Eutico mio? Dagl'impegni distogliti
per sentire a cuor puro ciò che sia
in sé la poesia.
ā€œI miei lavori - mi dirai - non meritano
che nemmeno un istante i tuoi si sciupinoā€.
Se a un punto tale è colmo in te l'udito
qui non mettere il dito.
Ma se risponderai: ā€œAvrò poi ferie
che a quieto cuor secondino lo studioā€
dimmi, ti prego, ti farai lettore di
nenie senza valore
o non darai piuttosto il tempo debito
alla casa e agli amici, dedicandoti
alla moglie, con l'anima e le membra
nell'ozio che rattempra?
Non cosí, non cosí! Abbi altro vivere
se delle Muse gli aditi tu mediti.
A stento io sono in loro compagnia,
eppur la madre mia
mi partorí là dove al monte Pierio
la divina Memoria, in novenaria
fecondità, diede a Giove che tuona
lā€™Arti attorno in corona;
eppur di tale scuola io son partecipe
quasi per nascita e staccai dall'animo
ogni pensiero di dovizia, e ho additta
la vita a gloria invitta.
Qual vero avvenimento è mai possibile
a chi vegliando sta non per dotte opere
ma per accumulare un gran cacume
col lucro per dolciume?
Ormai ā€œchecché sia poiā€ secondo il detto di
Sinone trascinato al re dei Dardani,
sarò con stile esopico impressore
d'un terzo libro, a onore
tuo e alla dignità tua consacrandolo.
Se tu lo leggerai ne avrò letizia;
F. Dalessi © 2002
o assai da dilettarsi, se altrimenti,
ne avranno i discendenti.
Perché s'inventò l'arte delle favole
t'espongo ora in conciso:
Uno, in soggetta schiavitú, temendo
dir chiaro il proprio avviso,
ne tradusse il concetto negli apologhi
con fantasia briosa,
schermendosi cosí dalla calunnia.
Io feci spaziosa
codesta via ch'era soltanto un vicolo,
e di piú ne pensai
di quante rimanessero scegliendone
con la mira ai miei guai.
Poiché se io avessi accusa teste giudice
non un Seiano solo
ma tre distinti, ammetterei pur d'essere
giustamente in gran duolo,
né a lenirlo userei questi rimedi.
Ma se alcun nel sospetto
errando, volge in sé ciò ch'è generico,
da folle apre il suo petto.
Nondimeno vorrei con lui scusarmene
ché non v'è ticchio in me
d'indiziare ciascun, ma gli usi d'uomini
e lor vita qual è.
Qui si potrebbe dirmi: ā€œÈ un grosso compitoā€.
Ma se Esopo riuscí,
ch'era di Frigia, e se Anacarsi in Scizia
con l'ingegno si ordí
una fama perenne, io cosí prossimo
alla Grecia sapiente
la gloria lascerò della mia patria
nel sonno negligente?
E la stirpe di Tracia intanto annovera
scrittori fra gli dèi:
Apolline di Lino fu l'origine,
la Musa d'Orfeo, che i
209
F. D'ALESSI - Letteratura latina - Parte III,1 - Il periodo imperiale - L'età dei Claudi
sassi col canto smosse e rese docili
le bestie in libertà
e dell'Ebro trattenne l'onda rapida
in calma e in lenità.
Dunque, invidia, allontanati, non stridere
vanamente perché
come dovuta cosa ormai la gloria
viene consueta a me.
Io cosí t'ho condotto a questo léggere;
e da te in cambio avrò
quanto ti chiedo: un genuino giudizio
limpido, che ti so.
Traduzione di Agostino Richelmy, Torino, Einaudi, 1959 e 1968.
Phaedr., 3, epilogus
EPILOGUS
Idem poeta.
Supersunt mihi quae scribam, sed parco sciens,
Primum ne videar esse tibi molestior,
Distringit quem multarum rerum varietas;
Dein si quis eadem forte conari velit,
Habere ut possit aliquid operis residui:
Quamvis materiae tanta abundet copia,
Labori faber ut desit, non fabro labor.
Brevitati nostrae praemium ut reddas peto
Quod es pollicitus: exhibe vocis fidem.
Nam vita morti propior est cotidie,
Et hoc minus perveniet ad me muneris,
Quo plus consumet temporis dilatio.
Si cito rem perages, usus fiet longior:
Fruar diutius, si celerius coepero.
Languentis aevi dum sunt aliquae reliquiae,
Auxilio locus est: olim senio debilem
Frustra adiuvare bonitas nitetur tua,
Molto ancora ho da scrivere, ma penso
di risparmiarti, perché, innanzi tutto,
non abbia l'aria d'essere invadente
(variano senza fine gli argomenti):
poi, se vorrà qualcuno continuare
è bene che gli resti del lavoro
(ma il materiale è tanto, che l'artista
mancherà prima che scarseggi l'opera).
Ma chiedo un premio per la mia sveltezza:
l'hai promesso, mantieni la parola.
Ogni giorno la morte è più vicina,
e più tempo l'attesa si divora
più il dono tuo per me si farà magro:
l'avrò più a lungo se risolvi presto,
godrò più a lungo se l'afferro prima.
Finché resta qualcosa d'una stanca
età, giova il soccorso: troppo vecchio,
la tua bontà si sforzerà per nulla,
Cum iam desierit esse beneficium utile
Et mors vicina flagitabit debitum.
Stultum admovere tibi preces existimo,
Proclivis ultro cum sit misericordia.
Saepe impetravit veniam confessus reus:
Quanto innocenti iustius debet dari?
Tuae sunt partes; fuerunt aliorum prius,
Dein simili gyro venient aliorum vices.
Decerne quod religio, quod patitur fides,
Et graviter me tutare iudicio tuo.
Excedit animus quem proposuit terminum;
Sed difficulter continetur spiritus,
Integritatis qui sincerae conscius
A noxiorum premitur insolentiis.
Qui sint, requires; apparebunt tempore.
Ego, quondam legi quam puer sententiam,
"Palam muttire plebeio piaculum est",
Dum sanitas constabit, pulchre meminero.
non potrà più operare il beneficio:
verrà la morte a esigere il suo credito.
Pregarti è stolto, penso, perché tu
spontaneamente cedi alla pietà.
Un reo confesso spesso ebbe indulgenza:
non è più giusto darla a un innocente?
Ora è il tuo turno, come fu di altri,
e poi ancora ad altri tornerà:
penetra ciò che accetta la coscienza
perché sia lieto d'aver te per giudice.
Il cuore è andato molto oltre il proposito,
ma lo spirito a stento si contiene
quando cosciente della sua onestà
patisce la violenza ed il sopruso.
Se faccio nomi? Appariranno un giorno.
lo da ragazzo lessi questo detto:
« Protesta di plebeo è sacrilegio » finché avrò senno lo ricorderò.
Traduzione di E. Mandruzzato, Milano, Rizzoli, 1979,19854.
Il poeta
Ancora avrei da scrivere ma scientemente l'evito,
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F. D'ALESSI - Letteratura latina - Parte III,1 - Il periodo imperiale - L'età dei Claudi
prima per non sembrare troppo importuno a te
che tanti oggetti stringi, quindi affinché rimanga
qualcosa a chi vorrà tentar com'io tentaí;
per quanto sovrabbondino talmente gli argomenti
che artisti a imprese mancano non imprese agli artisti.
Dammi alla brevità la ricompensa
che m'hai offerta, adempi la promessa!
Poiché di giorno in giorno è piú vicina alla morte la vita.
E piú tenue regalo mi verrà
se l'indugio consuma maggior tempo.
Ma come tu l'affretti, il vantaggio s'allunga
e piú tempo godrò piú presto avendo.
Finché un poco rimane di mia languida età
il tuo soccorso è valido, ma poi
la tenerezza tua inutilmente
s'adoprerà su me fiacco in vecchiaia;
disutile sarà nel benefizio,
morte vicina esigerà tributo.
Stimo follia di supplicarti quando
hai proclive e spontanea pietà.
Sovente un reo confesso ebbe il perdono:
non è piú giusto darlo all'innocente?
Adesso è la tua volta e già degli altri fu,
d'altri poi girerà vicenda eguale.
Decidi ciò che scrupolo e lealtà consentono,
d'autorità con la tua stima coprimi.
La mente eccede i limiti proposti
ma con fatica si trattiene un animo
che in incorrotta probità sapendosi
stretto è da spudoratí malfattori.
Mi chiedi tu chi siano? Col tempo appariranno.
Io di quella sentenza che un dí, ragazzo, lessi
ā€œPer un plebeo cosa empia è il borbottare in piazzaā€,
finché m'abbia giudizio ben mi rammenterò.
Traduzione di Agostino Richelmy, Torino, Einaudi, 1959 e 1968.
Phaedr., 4, prologus
Poeta ad Particulonem.
Cum destinassem operis habere terminum
In hoc ut aliis esset materiae satis,
Consilium tacito corde damnavi meum.
Nam si quis talis etiam tituli est appetens,
Quo pacto divinabit quidnam omiserim,
Ut illud ipsum cupiat famae tradere,
Sua cuique cum sit animi cogitatio
Colorque proprius? Ergo non levitas mihi,
Sed certa ratio causam scribendi dedit.
Quare, Particulo, quoniam caperis fabulis,
Quas Aesopias, non Aesopi, nomino,
Quia paucas ille ostendit, ego plures fero,
Usus vetusto genere, sed rebus novis,
Quartum libellum, cum vacarit, perleges.
Hunc obtrectare si volet malignitas,
Imitari dum non possit, obtrectet licet.
Mihi parta laus est quod tu, quod similes tui
Vestras in chartas verba transfertis mea,
Dignumque longa iudicatis memoria.
Illitteratum plausum nec desidero.
Era deciso: qui volevo chiudere
e lasciare che altri continuasse.
Ma poi in silenzio mi son dato torto:
e se a qualcuno il titolo piacesse,
come indovinerà ciò che ho taciuto
(se proprio quello vorrà tramandare)
se il pensiero, il carattere,
l'anima, dico io, non si ripete?
Dunque non un capriccio mi fa scrivere,
è logica, è certezza. Concludendo,
Particúlone (a te piacciono gli apologhi,
che io chiamo esopiani e non di Esopo,
scopritore fugace: il mio è un tessuto
di stile antico e d'argomento nuovo).
tu leggerai a tempo perso un quarto
libro mio. Se il malanimo vorrà
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F. D'ALESSI - Letteratura latina - Parte III,1 - Il periodo imperiale - L'età dei Claudi
maltrattarlo, lo faccia a suo piacere
purché non sia capace di imitarlo.
C'è già la gloria. Quella che mi dai
tu, e chi ti somiglia, e trascrivete
ciò che scrivo, perché a vostro giudizio
è degno di lunghissima memoria.
Non mi occorre una claque d'incompetenti.
Traduzione di E. Mandruzzato, Milano, Rizzoli, 1979,19854.
Il poeta a Particolone
Ero deciso di dar fine ormai
al mio lavoro, per lasciarne ad altri
da svolgere abbastanza,
ma poi tra me e me mi ritrattai.
Perché, se alcuno il vanto mio volesse,
non già potrebbe indovinar le cose
trascurate da me,
quando bramasse d'affidar le stesse
alla fama, ché ognuno ha un suo pensiero
intimo e ognuno un colorito proprio.
Non dunque mi sospinge ancora a scrivere
la volubilità, ma intento vero.
E cosí, poiché a te, Particolone,
piacciono le mie favole
(esopiche le dico e non d'Esopo
ché poche egli ne espose, io a profusione
ne reco, e usando di un vetusto modo
dico novelle cose),
quando avrai tempo libero
questo libretto mio leggilo ammodo.
Se la malignità non si trattiene
dal denigrar, s'accomodi:
essa non è capace d'imitarmi;
e a me gloria ora viene,
ché tu e í tuoi pari avete già copiato
su vostre carte le mie frasi degne
per voi di stima e di memoria lunga.
Che me ne fa d'un plauso illetterato?
Traduzione di Agostino Richelmy, Torino, Einaudi, 1959 e 1968.
Pheadr., 1,2.
Il lupo e l'agnello
A un solo rivo vennero, l'agnello
e il lupo, spinti dalla sete. In alto
stava, A lupo. Molto in basso l'agnello.
Quando al rapace si destò la gola
maledetta. E trovò da litigare.
«lo bevo e tu m'intorbidisci l'acqua! »
E quel lanuto, timido: « Ti prego,
non posso fare ciò che tu lamenti
lupo: viene da te l'acqua ai miei sorsi».
Il vero lo respinge, ha la sua forza.
« Sei mesi or sono hai sparlato di me ».
E l'agnello risponde: «lo? non ero nato...
«Ma tuo padre perdio sparlò di me».
E piglia e strappa: eppure aveva torto.
Fu scritto per chi schiaccia l'innocente:
e la ragione se l'inventa lui.
Traduzione di E. Mandruzzato, Milano, Rizzoli, 1979,19854.
Il lupo e l'agnello
Erano giunti a un rivo stesso il lupo
e l'agnello, sforzati dalla sete.
Di sopra stava il lupo,
e in giú, basso basso l'agnello.
Dalla gola insaziabile
in quel punto aizzato il malandrino
mise innanzi un pretesto di lite.
« Ecco, io bevevo e tu
l'acqua mi intorbidasti ».
E, di converso, quel che dà la lana,
isbigottito: « Scusami,
o lupo, come fare
quello che tu lamenti?
F. Dalessi © 2002
dopo di te l'acqua ai miei sorsi scende ».
Dall'energia del vero contrariato
il lupo ribatté:
« Son già sei mesi che di me sparlasti ».
E l'agnello risponde: « Veramente
non ero ancora nato ».
« Ah, per Ercole - grida ā€“
qua m'ínsultò tuo babbo ».
E sí l'abbranca e iniquamente sbrana.
È una favola scritta per quegli uomini
che gli onesti contristano
con imbrogli e pretesti.
212
F. D'ALESSI - Letteratura latina - Parte III,1 - Il periodo imperiale - L'età dei Claudi
Traduzione di Agostino Richelmy, Torino, Einaudi, 1959 e 1968.
Phaedr., favola 13 dell'Appendix Perottina.
Per aliquot annos quaedam dilectum virum
Amisit et sarcophago corpus condidit;
A quo revelli nullo cum posset modo
Et in sepulcro lugens vitam degeret,
Claram assecuta est famam castae virginis.
Interea fanum qui compilarant Iovis,
Cruci suffixi luerunt poenas numini.
Horum reliquias ne quis posset tollere,
Custodes dantur milites cadaverum
Monumentum iuxta mulier quo se incluserat.
Aliquando sitiens unus de custodibus
Aquam rogavit media nocte ancillulam,
Quae forte dominae tunc assistebat suae
Dormitum eunti; namque lucubraverat
Et usque in serum vigilias perduxerat.
Paulum reclusis foribus miles prospicit
Videtque et aegram et facie pulchra feminam.
Corruptus animus ilico succenditur
Et uritur impudentis sensim cupiditas.
Sollers acumen mille causas invenit,
Per quas videre possit illam saepius.
Cotidiana capta consuetudine
Paulatim facta est advenae submissior;
Mox artior revinxit animum copula.
Hic dum consumit noctes custos diligens,
Desideratum est corpus ex una cruce.
Turbatus miles factum exponit mulieri.
At sancta mulier: "Non est quod timeas", ait,
Virique corpus tradit figendum cruci,
Ne subeat ille poenas neglegentiae.
Sic turpitudo laudis obsedit locum.
Una donna perdette suo marito
dopo anni d'amore e lo portò
alla tomba. E nessuno più riuscì
a staccarla; viveva in quel sepolcro,
piangendo ed acquistandosi una fama
luminosa di sposa virtuosissima.
Fu allora che i ladri del tempio di Giove
scontarono i peccati sulla croce,
e ci misero anche sentinelle
perché non ne rubassero le spoglie;
proprio presso il sepolcro della donna
in clausura. Successe che un soldato,
avendo sete, in piena notte andò
a chiedere un po' d'acqua alla servetta
della donna, che allora riposava
(vegliava al lume fino a notte fonda).
La porta era socchiusa, vi sbirciò,
e vide un volto splendido di donna.
Ne restò folgorato, una passione
travolgente dei sensi. Escogitò
mille pretesti per vederla spesso,
con intuito felice. Un po' alla volta
divenne un'abitudine per lei,
si fece col suo ospite più mite,
finché il contatto conquistò lo spirito.
Mentre così il custode consumava
le notti, ad una croce mancò il morto.
Il soldato, sconvolto,
riferì alla donna. Ma quella santa donna
lo confortò: "Ma che paura hai?"
e gli passò la salma del marito
perché inchiodasse quella sulla croce
e non fosse punita l'infrazione.
Poi il peccato successe alla virtù.
Traduzione di E. Mandruzzato, Milano, Rizzoli, 1979,19854.
La vedova e il soldato
Come e quanto volubile sia la lascivia femminile.
Una, dopo qualche anno
perdette l'amatissimo marito,
e posto il corpo suo dentro un sarcofago,
di lí non si poteva distaccare
in alcun modo: alla tombale stanza
trascorreva piangendo la sua vita
cosicché conseguí fama squisita
di casta vedovanza.
Uomini che in quel tempo erano stati
ladri al tempio di Giove, su la croce
soddisfecero al nume, conficcati;
e affinché niuno togliere potesse
ciò che alla morte avanza,
F. Dalessi © 2002
presso la tomba ove la donna stava
reclusa, la milizia sui cadaveri
si pose in sorveglianza.
Era notte alta e avvenne che un custode,
assetato, chiese acqua alla ragazza
che accudiva in quel mentre la signora
disposta infine al sonno dopo lunga
vigilante costanza:
si che l'altro dall'uscio sogguardò
e scorse la dolente
femmina, molto bella di sembianza.
Il cuore preso subito s'accende,
quindi soavemente appassionato
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F. D'ALESSI - Letteratura latina - Parte III,1 - Il periodo imperiale - L'età dei Claudi
arde in concupiscenza;
e scaltro e pronto inventa mille scuse
per veder piú sovente
la vedova. Costei di quell'estraneo,
per sí diuturna usanza
man man s'accende alquanto: infin
avvinse
il cuore una piú stretta vicinanza.
Mentre il custode impiega ivi sue notti
con premura, la salma d'una croce
le
214
viene a mancare. Se ne turba il milite,
e la cosa racconta
a la sua ganza. Ma ella, santa ganza,
risponde: ā€œMica c'è di che temere!ā€
e il corpo del marito, da configgere
su la croce gli dà, cosicché si evíti
il castigo per lui di trascuranza.
Si ebbe cosí l'infamia
invece d'onoranza.
Traduzione di Agostino Richelmy, Torino, Einaudi, 1959 e 1968.
[crea collegamento con Petronio]
Phaedr., 4, 7.
Phaedrus
Tu qui, nasute, scripta destringis mea
Et hoc iocorum legere fastidis genus,
Parva libellum sustine patientia,
Severitatem frontis dum placo tuae
Et in cothurnis prodit Aesopus novis.
Utinam nec umquam Pelii nemoris iugo
Pinus bipenni concidisset Thessala,
Nec ad professae mortis audacem viam
Fabricasset Argus opere Palladio ratem,
Inhospitalis prima quae ponti sinus
Patefecit in perniciem Graium et barbarum!
Namque et superbi luget Aeetae domus,
Et regna Peliae scelere Medeae iacent,
Quae saevum ingenium variis involvens modis
Illic per artus fratris explicuit fugam,
Hic caede patris Peliadum infecit manus.
Quid tibi videtur? "Hoc quoque insulsum est" ait
"Falsoque dictum; longe quia vetustior
Aegaea Minos classe perdomuit freta
Iustoque vindicavit exemplo impetum".
Quid ergo possum facere tibi, lector Cato,
Si nec fabellae te iuvant nec fabulae?
Noli molestus esse omnino litteris,
Maiorem exhibeant ne tibi molestiam.
Hoc illis dictum est, qui stultitia nauseant
Et ut putentur sapere caelum vituperant.
Fedro
O tu che tutto naso strusci gli scritti miei,
o tu che fai il niffolo, come leggendo inezie,
attendi un poco, tòllera pazientemente il libro
mentre io tento spianarti dalla fronte il cipiglio:
con coturni novelli Esopo stesso appare.
Ah! su nel giuogo boscoso del Pelio
dall'ascia tessala quel taglio al pino!
Ah! quell'aprir con Pallade operosa
audace strada di spontanea morte,
quando Argo costruí quel primo scafo
trovando i tramíti del Ponto inospite,
con un conquasso di Greci e di Barbari!
Per tali fatti ora piange il casato
del magnifico Eeta, ora è caduto
Pelia col regno suo sotto il delitto
di Medea: là ella il feroce spirito
con ambagi diversi nascondendo
attuò la fuga in cui spartí le membra
fraterne, qua ella bruttò le mani
delle figlie di Pelia, parricide.
Ti sembra buono? Dici che cotesto è scipito,
e falsamente assevera, imperocché Minosse
molto prima domò con nave le onde egee,
e con un giusto esempio puní la violenza.
O lettore catoniano che ci posso fare
se storielle no, tragedie no, non ti confanno?
Non dare uggia ogni momento alle belle lettere
affinché molto di piú non t'abbiano esse in uggia.
E ciò valga per coloro, che di grullerie ci
nauseano,
e per darsi arie vituperano persino il firmamento.
Traduzione di Agostino Richelmy, Torino, Einaudi, 1959 e 1968.
F. Dalessi © 2002
F. D'ALESSI - Letteratura latina - Parte III,1 - Il periodo imperiale - L'età dei Claudi
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Letture critiche
ANTONIO LA PENNA (dallā€™Introduzione ed. Einaudi )
pp. XXII-XXV
Stupisce inoltre che Fedro si ponga molto poco il problema della dignità del suo genus
poetico. Sappiamo quanto questo problema fosse stato vivo in età augustea, soprattutto per
Orazio. A leggere Fedro, se si eccettua IV 7, dove allo stile piano delle fabellae pare sia
contrapposto quello sublime del pezzo tragico di Ennio, non si direbbe che egli considerasse
il suo genere esopico da meno dell'epica e della tragedia.
Tra i favolisti Fedro è, dopo l'auctor, colui che ha sentito meglio la favola come
espressione degli schiavi: espressione del modo in cui essi interpretano la vita, della verità
da loro scoperta, della loro denuncia. Il velo simbolico non nasce da un giuoco, ma da una
necessità della condizione servile: gli schiavi non osano esprimere direttamente e
apertamente la verità (III prol. 33 sgg. ):
Nunc, fabularum cur sit inventum genus,
brevi docebo. Servitus obnoxia,
quia quae volebat non audebat dicere,
adfectus proprios in fabellas transtulit
calumniamque fictis elusit iocis.
Riscoprire questa radice della favola esopica, dopo le elaborazioni retoriche, dopo le
influenze di forze culturali diverse, non era facile: come ho già accennato, in questo ha
contato non poco l'esperienza personale di Fedro. Se ci fosse bisogno di prove, si potrebbe
richiamare la fine dell'epilogo del III. Nel proclamare con passione la propria innocenza ha
l'impressione di essere uscito troppo dall'argomento e di essersi dilungato: ma come contenersi quando, consapevoli della propria onestà, si è premuti dalla prepotenza dei
disonesti? Chi sono questi noxii? Lo dirà chiaro a suo tempo: per un povero diavolo parlare è
un sacrilegio: finché ha senno, Fedro si ricorderà bene di un verso sentenzioso dal Telefo di
Ennio, appreso a scuola:
Palam muttire plebeis piaculum est.
È soprattutto attraverso la calamitas che ha riscoperto il senso dell'allegoria esopica. Sul
pericolo che comporta il dire la verità, tornano almeno due favole. L'una è quella, molto
felice, conservataci solo attraverso parafrasi (i codici di Fedro conservano solo il promitio)
dei due compagni arrivati nel regno delle scimmie (IV 13; cfr. Zander, 17): l'adulatore viene
colmato di doni, colui che ha detto il vero, viene fatto a pezzi. Nel promitio Fedro non nega
l'utilità, affermata da una sentenza comune, di dire il vero, ma constata a quali conseguenze
porta la sinceritas. L'altra (App. 15) rievoca un episodio della vita di Esopo: lo schiavo paga
caro l'aver detto alla padrona la verità sulla sua bruttezza. L'insegnamento che se ne ricava
non è, naturalmente, eroico (dire la verità ad ogni costo, disprezzando il pericolo), ma
ispirato alla rassegnazione esopica: meglio tacere. Che l'allegoria comporti una sua oscurità,
è ovvio; ma l'oscurità aguzza l'acume: la verità la scopre il sapiens, sfugge al rudis. A prima
vista le favole possono sembrare futili; ma quanta utilità vi scopre chi sa guardarc i dentro!
Cosí è, del resto, spesso nella vita (IV 2.5 sgg.):
Non semper ea sunt, quae videntur; decipit
frons prima multos: rara mens intellegit,
quod interiore condidit cura angulo.
Fedro trova una riconferma alla validità del procedimento nell'interpretazione allegorica che
già da secoli la filosofia dà dei miti, in particolare delle pene infernali (APP. 5) .
F. Dalessi © 2002
F. D'ALESSI - Letteratura latina - Parte III,1 - Il periodo imperiale - L'età dei Claudi
216
Verità scoperta dagli schiavi non significa verità valida solo per gli schiavi: che per Fedro essa
abbia un significato umano universale è fuori dubbio. Ma, si capisce, la verità è quella esopica, la
cui funzione, al di qua della ā€œteoriaā€, resta quella pragmatica. Accingendosi a conferire bellezza
poetica alla verità utilitaria, Fedro trova calzante al suo scopo una teorizzazione, sia pure rudimentale, dell'unione peripatetica dell'utile e del dulce, teorizzazione divenuta ormai, specialmente
dopo Orazio, una banalità. L'utilità è nella saggezza pratica che la favola insegna, la dolcezza negli
ioci che 1a rendono divertente e che sono molto piú di un ornamento esterno, di un condimento
aggiunto da ultimo. Fedro ha avuto chiara quest'impostazione sin dall'inizio (I prol. 3 sg.):
Duplex libelli dos est: quod risum movet
et quod prudenti vitam consilio monet.
Scopo del genere esopico è correggere gli errori dei mortali, acuirne la diligens industria; ma
per avvincere l'orecchio (capere aurem ) occorre un racconto divertente (narrandi iocus) (II
prol. 1 sgg.). Nello scopo utilitario trova una giustificazione (ma non la sola) la ben nota
brevitas: poiché ciò che importa, è ricavare il succo utile alla vita, meglio evitare lungaggini e
fronzoli. La brevitas presuppone senza dubbio un orientamento retorico che ha influenzato la
favola esopica già in età ellenistica e che si riflette in una certa misura nella recensio
Augustana, ma, paradossalmente, nella brevitas confluisce anche una certa polemica
antiretorica che nella favola esopíca aveva trovato una sua espressione. Neppure in questo
caso, però, va dimenticata la personalità di Fedro: la sua brevitas si spiega anche con la
prevalenza dell'interesse morale all'inizio della sua carriera poetica, con l'interesse per la
sentenza incisiva, penetrante, a volte lacerante.
Col bisogno del dulce si collega in qualche modo la ricerca della varietas. Fedro la persegue
già subito dopo l'esperimento del libro I: il prologo del II verte sul problema di conciliare nel
nuovo libro la varietas, fonte importante di diletto, con la brevitas (1) (la cui accezione è
duplice: brevitas dei singoli racconti, brevitas del libellus). Ed è, in fondo, lo stesso problema
che si presenta, anche se meno acutamente, nell'epilogo del IV: la materia è vasta e varia;
ma bisogna contenersi entro certi limiti: altrimenti si fallisce lo scopo del dulce:
Adhuc supersunt multa, quae possim loqui,
et copiosa abundat rerum varietas;
sed temperatae suaves sunt argutiae,
immodicae offendunt.
Quindi è in un equilibrio di varietas e brevitas che il fine della delectatio viene veramente
raggiunto.
Ma questo problema non è il piú importante nella poetica di Fedro. Quello che lo ha piú
tormentato (e vi hanno concorso, anche se in misura che non va esagerata, sollecitazioni di
suoi critici), è il problema di uscire dalla brevitas non tanto per arricchire il repertorio eso pico,
che poteva riuscire alla fine monotono, quanto per rappresentare, e non solo correggere, la
vita: la brevitas, cioè, viene ad urtare contro il bisogno di un'arte realistica. Credo piú
opportuno affrontare questo secondo problema in séguito, quando tratterò della narrat iva
meno strettamente esopica di Fedro (anche se il problema, beninteso, non riguarda solo
questa parte della sua opera). Per ora aggiungo sulla poetica di Fedro due considerazioni.
L'una riguarda la forza della sua coscienza letteraria: dall'arte augustea egli ha assimilato la
grande conquista di Callirnaco: dal lavoro assiduo e fine dell'artista nulla deve uscire che sia
informale o casuale: senza raffinatezza, Fedro osserva il suo culto del doctus labor (II epil.
14). L'altra riguarda la notevole presenza della critica e del pubblico nell'opera di questo
favolista: benché, come vedremo, la tendenza a chiudersi orgogliosamente in se stesso
fosse per lui abbastanza forte, egli in realtà non si chiuse mai: ascoltò i suoi critici, per lo piú
con doloroso risentimento, ma non rinunziò mai ad un dialogo col pubblico, che ebbe la sua
utilità.
' L'interpretazione di questo prologo è difficile ed incerta, forse anche per guasti della tradizione: cfr.
Lanx satura, Miscellanea Terzaghi, Genova 1963, p. 228.
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pp. LVII-LXVIII
In una tradizione retorica che già da secoli (sia pure in una misura da non sopravvalutare) aveva
agito sulla favola, l'esigenza della brevitas faceva tutt'uno con l'esigenza di uno stile semplice
(aploùs) e chiaro (saphés). Fedro s'è messo decisamente su questa strada; ma la felicità del
risultato non dipende, si capisce, da questa scelta, bensí dalla rispondenza di questa scelta con
la misura e col gusto realistico di Fedro. Del resto il presupposto culturale che piú ha giovato a
Fedro per la formazione dello stile, non è la tradizione retorica a cui ho accennato, ma una
grande tradizione latina di stile poetico medio che ha il suo punto di partenza in Terenzio: n on è
per caso che da tempo alcuni critici fini, per es. Gian Vincenzo Gravina 1, hanno avvertito il
livello e il colore terenziano dello stile di Fedro: è soprattutto la fusione felice della semplicità e
chiarezza con l'urbanità, l'eleganza, il nitore che induce a richiamare Terenzio. E tuttavia il
richiamo a Terenzio, da solo, rischia di dare un'immagine falsa dello stile di Fedro: il richiamo
dello stile satirico, e specialmente di Orazio, metterebbe meglio a fuoco lo stile poetico medio,
ma vario, e non del tutto semplice, del favolista latino.
Il colore di fondo, sí, è dato dallo stile medio; chiaro, succinto, elegante. Questo narratore che ha
raggiunto tanta naturalezza nel dialogo, si tiene ancorato abbastanza saldamente alla lingua viva
della conversazione 2. Nelle battute dialogiche questo è più ovvio 3; ma Ì'impronta della lingua in
uso è chiara anche nella narrazione, specialmente nel lessico. Ardelio (II,5.1), raramente attestato,
proviene certamente dalla lingua viva (si ritrova poi in Marziale); certamente anche alapa (V, 3.2:
non attestato prima di Fedro, ma alapari già in Plauto); della lingua familiare anche basium (V ,
7.28). Della lingua viva Fedro non si è lasciati sfuggire alcuni verbi espressivi, estranei o quasi, alla
lingua Ietteraria: lucubrare, che ricorre solo in Livio ( I, 57,9; elucubrare: Cic., Ad Att. VII, 19. 1 ),
che ha Iasciato tracce nelle lingue romanze; baiulare ( IV 1 .5 ), che meglio dei piú comuni ferre o
portare esprime la fatica massacrante dell'asino; tricari (III 6.9) « indugiare », « tergiversare » (solo
due casi prima di Fedro, in Cicerone, Ad Att. XIV 19.4; XV 13.5). Meno si sente un'altra tendenza
propria del sermo familiaris, la preferenza, cioè, per il verbo generico (tuttavia III 16.4 sg.,
convicium I faciebat; I 23.8, facias... lucrum: cfr. IV 20.26; diverso è il caso di V 5. 15, silentium...
fecit). Tra i segni piú evidenti dell'espressività della lingua parlata è la netta prevalenza di ille (oltre
dieci casi) e ipse (quasi trenta casi) rispetto ad is (una ventina di casi). In un paio di casi ricorre
quis per uter (I 24.8; IV 24.2 4. Propter (sette volte) ha cacciato via del tutto ob. Numerosi sono i
casi di avverbi amplificativi come pulchre (I 10.10; III epil. 35; IV 20.6, 21.21- V 10.10) e validius (I
i, 19.8; lII 11.4, 16.6; IV epil. 9; App. 3.13).
Provengono dall'uso, e non dalla letteratura, la maggior parte dei grecismi: antidotum (I 14.8),
cithara (III 16.12), xystus (II 5.1 8), cathedra (III 8.4.), pycta (IV 25.5), pegma (V 7.7), che sono
termini tecnici; cadus (IV, 5.25 ), apotheca (ibid.), charta (IV prol. 18; IV epil. 5), plaga (IV 1. 6;
App. rB.G), gyrus (III epil. z5), zona (IV 22.11), smaragdus (III 18.7), pera (IV 10.1) 5, sarcophagus
(App. 13.2), moecha (IV 5.21; ma adultera III 3.9) ecc. La resistenza puristica di Fedro non è forte:
egli accoglie i grecismi ormai diffusi nell'uso latino in una misura non diversa da quella di Marziale
L'uso dei diminutivi è misurato (la lingua di Fedro non è particolarmente affettiva), ma notevole.
Lasciando da parte alcuni diminutivi «banalizzati», come libellus, alveolus, hortulus, agellus,
tigillum, capella, porcellus, catulus, surculus ecc., resta pur sempre un buon numero di diminutivi
piú o meno espressivi: asellus, vulpecula, servulus (IV 25.z4), ancillula (App. r3.IZ), vetulus (App.
zo.G), parvulus (V 3.3), meliusculus (App. zg.7), bellus (App. iz.3), il graziosissimo auritulus (I
Iz.G). Se non d'intensità affettiva, questi diminutivi sono segno di grazia icastica, di amoroso lavoro
di cesello.
Meno risente della lingua parlata la sintassi; comunque fugare con de e l'abl. (I 16.6), ancora raro
nel I secolo d. C., proviene di là; probabilmente anche casi di coepi e l'inf. con senso ingressivo
molto attenuato (I 12.11, 2.25, 3.10); forse anche alius con l'abl. (III prol. 4r), gratulari usato senza
complemento (V 7.29) 6.
L'urbanità del sermo esclude quasi del tutto drastiche espressioni volgari: benché i soggetti
scabrosi non manchino (è probabilmente ad essi che Marziale si riferisce, applicando
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giocosamente a Fedro un epiteto da Fedro stesso usato in senso diverso) 7, il lessico scabroso si
riduce a poco (I 29.7 demisso pene, in una delle rare favole di robusto esprit gaulois; IV I8.m, 36:
non c'è ragione di espungere gli ultimi due versi della favola). Ma l'urbanità può essere mantenuta
anche con una sostanziale povertà e sciattezza espressiva; ora è importante rilevare che Fedro
non è né stilisticamente monotono né sciatto.
Ho già accennato alla presenza insistente che il narratore fa sentire nel racconto col suo giudizio
morale: questo procedimento può dare fastidio a chi cerca la rappresentazione nitida e il colore,
ma questo sensibile impegno morale non è la stessa cosa che la sciattezza. L'uso dell'astratto per
il concreto, cosí diffuso in Fedro, quasi mai è un artificio stilistico gratuito: per lo piú è la qualità
essenziale dell'azione che viene rilevata, qualità che all'interprete del racconto importa più del
personaggio stesso: la decepta aviditas del cane che attraversa il fiume con la carne in bocca
(14.5); la improbitas del leone che fa le parti (I 5.1 i ); il deceptus stupor del corvo gabbato dalla
volpe (I 13.12); l'aviditas dives, i ricchi avidi e sfrontati nel chiedere, contrapposta al pauper pudor,
ai poveri timidi; la credulitas del marito ingannato dal liberto 7 ecc. C'è tuttavia qualche caso in cui
l'astratto per il concreto contribuisce all'efficacia icastica: la longitudo del collo della gru (I 8.8), la
longitudo del naso della donna che Mercurio punisce (App. 3. 16), la tenuitas delle gambe del
cervo (I 12.6), la levitas putris della farfalla (App. 29.6), la tanta maiestas di Tiberio (II 5.23) 9.
Questo, naturalmente, non basterebbe a provare una forza espressiva e rappresentativa
dello stile di Fedro. Ma ad un lettore anche non molto attento non dovrebbero sfuggire quei
momenti, tutt'altro che rari, in cui lo stile semplice e piano di Fedro si fa piú pregnante e
incisivo, dà un colpo d'ala o scava piú a fondo. Qualche caso ho avuto già occasione di
notare 11. Guardiamo, per es., lo sparviero che afferra il passero (I 9.6 sg.):
... ipsum accipiter necopinum rapit
questuque vano clamitantem interficit.
Prima il fulmineo attacco di sorpresa, poi, con piú agio, l'uccisione fra un vasto alzarsi di
strida. L'asino che alza i suoi ragli e spaventa le fiere (I 11.7 sgg.):
... Hic auritulus
clamorem subito totis tollit viribus
novoque turbat bestias miraculo.
L'asino è piccino, ma che alto fragore di ragli! Forse l'accostamento di totis e tollit non è
casuale: esprime le iterazioni possenti del raglio. Nella stessa favola (10) la strage
spaventosa del leone:
leonis adfliguntur horrendo inpetu.
La rana presa da invidia per il bue (I 24.3):
... tacta invidia tantae magnitudinis.
Il quadrisillabo alla fine del verso fa sentire la presenza schiacciante del bue. Il lupo magro
e il cane grasso (III 7.2 sg.):
Cani perpasto macie confectus lupus
forte occucurrit.
Nella stessa favola (14) il piacere di vivere ben pasciuti:
... otiosum largo satiari cibo.
Le donnole vittoriose che divorano i topi rapidamente e riempiono il ventre immenso e
tenebroso (IV 6.9 sg.):
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quos inmolatos victor avidis dentibus
capacis alvi mersit tartareo specu.
Il serpente con la gola spalancata che cerca di divorare la lucertola (App. 23.2)
quam devorare patula cum vellet gula...
E si potrebbe continuare 12.
Anche il metro serve talora sottilmente l'espressione. La ricchezza di spondei sottolinea (in
funzione scherzosa) la maestà di Pompeo e la statura gigantesca del soldato (App. 8.1):
Magni Pompei miles vasti corporis...
e la maestà del leone, piantato sulla preda abbattuta (IIz.r, con tre spondei):
Super iuvencum stabat deiecrum leo;
o il diletto sublime che può dare la musica (APP. rz.G):
divinis aures oblectasset cantibus.
Un metro piú leggero, con due dattili, sembra gnare, invece, la fuga della lepre (App. 26.1):
Cum venatotem celeripes fugeret lepus...;
il verso successivo, che descrive lo strisciare della lepre sotto il cespuglio, è piú lento:
et a bubulco visus veprem inreperet...
O in vista di un effetto espressivo piú accentuato o, piú spesso, per variare il tono ed
accentuare l'eleganza del sermo Fedro usa con discrezione i mezzi della poesia aulica:
plurali poetici 13, singolari disusati 14, metafore e metonimie 15, costruzion i ardite 16,
vocaboli rari o propri dello stile elevato 17 ecc. Contribuisce alla patina poetica 1'uso di
qualche composto (I 1.6, laniger; IV 4.3, sonipes; II 5.m, alticinctus; II 4.3, nemoricultrix) e
di qualche grecismo aulico (IV zz.7, pelagius; come grecismo poetico, piuttosto che
tecnico, interpreterei anche melos in 111 18.11; IV 22.2 ) 18. Ma la misura che Fedro ha
saputo mantenere su questa via, è provata dalla estrema rarità di arcaismi (IV 7.m, Graium
et barbarum gen. plur., ma in una parafrasi di Ennio; V 6.5, superum gen. plur.; IV 11.12,
deum gen. plur., come in IV 25.4; ma deum è arcaismo molto comune; IV 18.14, revertier;
ma forme come queste ricorrevano anche nelle satire di Orazio) 19.
Con finezza non trascurabile gli elementi aulici sono usati per la parodia: un procedimento già
sviluppato nella satira latina e, con molta finezza, da Orazio satiro. Qualche accenno ve n'è già nel
primo libro: per es., nella favola delle rane che chiesero un re (1 2.13 sgg.: da notare il contrasto
fra la maestà del padre degli dèi e il parvum tigillum, e poi ancora fra il parvum tigillum e il gran
fragore che produce: vadi | motu sonoque terruit pavidum genus); nella favola del leone a caccia (I
11). Un po' piú diffuso e, soprattutto, piú affinato è l'uso nell'arte piú matura. La favola dei cani che
mandano ambascerie a Giove (IV 18), punta molto sul contrasto fra la maestà tonante di Giove e
la fetida viltà dei cani: si vede come lo stile è maneggiato duttilmente in questa funzione (IV
28.22 sgg.):
Consedit genitor tum deorum maximus
quassatque fulmen: tremcrc cocpere omnia.
Canes confusi, subitus quod fuerat fragor,
repente odorem mixtum cum merdis cacant 20.
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Un contrasto analogo, a cui ho gíà accennato, nell'aneddoto del soldato cinedo di Pompeo
(App. 8). Allo stile aulico si ricorre per la caricatura: per es., il mulo vanitoso carico d'oro (II,
7.4 sg.):
Ille onere dives celsa cervice eminet
clarumque collo iactat tintinnabulum
(nello stile aulico rientra anche l'allitterazione); la tagna nelle doglie del parto (IV 23.1 sg.):
Mons parturibat 21, gemítus inmanes ciens,
eratque in terris maxima exspectatio
(da notare le due parole ampie con cui si chiude condo senario). A stile aulico o parlato ricorre
la volpe per lusingare la vanità del corvo (I 13.6 sg.); in stile aulico e solenne si vanta la mosca
nel suo contrasto con la formica (IV 24.4 sgg.):
Ubi inmolatur, cxta praegusto deum...
et matronarum casta delibo oscula 22
(uno stile aulico che poi la mosca a sua volta canzona, quasi mimicamente : 13, Rcges
conmemoras et matronarum oscula); la Pizia invasata (App. 6.3 sgg.) è descritta con tono
che riecheggia Virgilio (Aen. VI 98 sgg. ).
Ma Fedro innalza talvolta lo stile anche senza funzione caricaturale: lo fa quasi sempre senza
tumor e quasi mai gratuitamente. Per es., si apre con stile patetico solenne la favola del
vecchio leone morente (Isgg. ):
Defectus annis et desertus viribus
leo cum iaceret spiritum extremum trahens,
aper fulmineis 22 ad eum venit dentibus...
(con la gravitas del primo senario contrasta la rapidità del terzo).
Qualche tono elevato e patetico anche nella favola del cavallo carico di gloria ridotto a girare la
macina (App. 19). L'accenno alla tempesta e alle angosce che provoca, richiama tono solenne
e patetico (IV 17.3 sg. ):
Vexata saevis navis tempestatibus,
inter vectorum lacrimas et mortis metum...
Con tono meno patetico, ma con maggiore grandiosità epica è narrato lo scoppiare della
tempesta nella novella dei due proci (App. 14.15 sgg.). Il solenne inizio dello spettacolo
teatrale (V 7.23 sgg.):
Aulaeo misso, devolutis tonitribus 23
di sunt locuti more translaticio.
Tono festoso, ma anche solenne, ha la descrizione del convito nel palazzo del principe
protettore di Simonide (IV 22.20 sg.). La grandezza dei principi è rappresentata con parole
ampie e solenni (IV 6.12, senario formato da tre parole):
periclitatur magnitudo principum.
Se entra in scena Augusto, va usato il tono che gli si conviene (111 10.39 sgg. ). L'elogio che
Giunone fa del pavone, richiede stile alto e forbito (111 18.7 sg. ). Altrove è il pathos morale
della diatriba che richiede l'innalzamento del tono: per es., nell'ammonimento che la Religio
rivolge al ladro (IV m.5 sgg.), nell'ammonimento che il favolista rivolge all'avaro (IV 2o.16
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sgg.); un tono meno solenne, ma pur sempre sostenuto, è nello svolgimento diatribico che
costituisce V 2. Particolarmente solenne è l'apertura della favola che dimostra la dolcezza
della libertas (III 7.1):
Quam dulcis sit libertas, brevíter proloquar 24.
Nei prologhi e negli epiloghi Fedro discute, ma esprime anche le sue passioni: il dolore,
l'orgoglio, la speranza di gloria: quindi in vari punti di prologhi ed epiloghi il tono s'innalza.
È facile notarlo nel prologo piú impegnativo, quello del libro III, sp ecialmente là dove esalta
la gloria della sua terra natale (17 sgg.; 52 sgg. ); ma un tono píú alto del solito è anche
nell'epilogo del libro II; piú chiara la sublimità nell'apostrofe a Particulone, il destínatario
del libro IV (epil. 4 sgg.):
... vir sanctissime,
Particulo, chartis nomen victurum meis,
Latinis dum manebít pretíum litteris...
In qualche punto del prologo del III nello stile elevato agiscono reminiscenze virgiliane (cfr.
56 sgg. con Buc. 4.55 sgg.). Sono Virgilio ed Ennio, due poeti di stile sublime, che
dominano nella cultura poetica di Fedro 25.
Egli tuttavia, con coscienza e vigilanza stilistica notevole, non se n'è lasciato suggestionare
fino a smarrire la sua via; anzi ne ha attinto quel poco che serviva a variare il fondo terso
del suo stile medio. Specialmente dal III libro in poi la complessità dello stile di Fedro è
notevole 26: nel prologo del III, in aneddoti e novelle, il livello stilistico varia piú volte, e
senza stridori: Fedro ha realizzato felicemente l'ideale stilistico del sermo proposto da
Orazio (Sat. I 10.9 sgg.):
Est brevitate opus ut currat sententia neu se
inpediat verbis lassas onerantibus auris,
et sermone opus est modo tristi, saepe iocoso,
defendente vicem modo rhetoris atque poetae,
interdum urbani...
Lo stile medio non era una scelta arbitraria: era lo stile del realismo comico che corrispondeva al
modo di guardare la vita umana da parte di Fedro. Variarlo non significava affatto tradire il
realismo: oltre che evitare la monotonia, oltre che cercare una sobria eleganza, Fedro ha voluto
una maggiore duttilità del tono: bisogna leggerlo tenendo l'orecchio attento a questa sua ricerca
e a questa sua conquista.
Note
1 Ragion poetica, I, 25 a cura di P. Emiliani Giudici, Firenze 1857, p. 63 (segnalato da F. Della Corte,
Favolisti ecc. Cit., p. 76).
2 La preferenza di Fedro per gli usi comuni, usuali, fu messa bene in rilievo da C. Causeret, De Phaedri
sermone grammaticae observationes, Garnier, Parigi 1886. Per la conoscenza del sermo familiaris di
Fedro elementi utili sono raccolti da J. Bertschinger, Volkstiimlicbe Elemente in der Sprache des
Phkdrus, Diss., Berna 192 1, che però dà un'interpretazione generale piuttosto errata dello stile di Fedro:
tra l'altro egli crede che certi usi popolari si spiegano con lo scarso possesso del latino da parte del liberto
straniero.
3 Mi limiterò a citare sodes (App. 1) .5), aìs (IV 7.y), mehorcule (III 5-4; V 5.22), mehercules (! z5.7; IlI s7.8;
App. r2 3), c modi ellittici come licet? (App. 8.zo), licetne paucis (App. 75.5), tanto melior (III g.3).
4 Attribuirei meno importanza alla discreta presenza di alter (quattordici volte) accanto ad alius (venticinque
volte): essa si deve alla frequenza delle favole con due personaggi.
5 Catullo 22.21, riferendosi allo stesso proverbio, usa mantica; ma pera doveva essere nelt'uso perché
troviamo prima di Fedro il composto sacciperium (Plauto).
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6 Meno importanza attribuirei alle forme verbali perifrastiche con fueram o tuero, perché non si limitano al
sermo fa miliaris (cfr. I 2.23; IV 4.T, 5.45; App. i4.8).
7 Naturalmente nel verso di Marziale (III 20 .5) è da leggere iocos.
8 Cfr. ancora I zz.m, 3o.rr; III 5.9, epil. 17; IV prol. 8, 6.12, 20,5; V î 3; App. 13.20.
9 Resta qualche caso difficilmente classificabile: I 3.161 II 7.r3 ; III epil. 3; App. 4.20 (in quest'ultimo
caso si tratta di metonimia usuale).
10 Vedi sopra, pp. xxxW sg.
11 Tralasciando casi di cui tratterò in séguito, vorrei segnalare ancora: 16.8, 13.11, 18.3; II 1.1,
6.12; III 2.14.
12 Fata (I 9-so; App. 17.8, r9.9 ecc.), ftetús (I 9.i), auxilia (I 3x.z), freta (IV 7.rq), aquae (App. 5.10),
friKora (IV zq.r9), Praesepia (V 9.z), freni (1116 .7), saltús (I 5.4) ecc.
13 Faux (I i.3, 8.4), ncx (1
r. I 3, 2.25, 22.1, 3r.4; IV 2.14 ecc.), daps (II 4.24, G.iS), cervix (II 7.4)
ecc. Un singolare per il plurale è pennae (gen.) in I 3 1 4.
14 Cinis « morto» (lII 9.4), calamus « lo scrivere» (IV z.z), sudor « fatica» (App, 5.5), spiritus «vita»
(iI 8.7), raelum «gli dèi» (IV 20.24, 7.z6), ferruna «spada» (11 7.8; ili ro.;g; Ap p. 6.io), cornea
domus «il guscio della tartaruga» (II 6.5) ecc. Troppo poco: in verità l'uso di metafore e metonimie è
scarso in Fedro.
15 Per es., decurro (IV r.z), excedo (IlI epil. z8), evado (IV 6.4) costruito con l'acc.; l'abl. semplice
di modo: I 25.6, Olio; II epil. 13, arte; IV 9.37, luxu. Meno importanza ha la costruzione con l'inf. di
verbi come suadeo (I y.6), opto (V 3.ro), delectar (V 3.9), quaero (III prol. z5), capto (IV 8.6), mereo
(III 11.7) (cfr. anche III prol. 6, causa est con l'inf.), perché questa maggiore libertà sintattica è
tanto dello stile aulico quanto della lingua parlata.
16 Per es., ferus sostantivato per «fiera» (I 12.9, 21.8; II r.6, 8.14; IV 4.3), senecta (IV z.ro), ignotus
in senso attivo (I m.z), liquor «acqua» (I 1.8: tutto il verso, con il difficile ad meos haustus, è
raffinato), lymphae «acqua» (14.3), sidera (I 6.4; IV z5.9), astra (II 6.rz), aevum «vita» (1 3r.7),
caelites (APP. 14.33), superi (IV 20.19, z5.3; APp, z6.3), numina (IV zg.3z), Pater deorum (I z.i3),
deorum genitor atque hominum sator (III r7.ro), gertitor deorum (IV z8.zz).
17 Invece sophus per indicare «il sapiente» Esopo (congettura probabile in III r4.9; IV 17.8; App.
rr.z), sebbene attestato prima solo da Lucilio 1236 M., non doveva essere una rarità: erano già
introdotti in latino sophia e forse anche l'avv. cocpcy «bravo! » (cfr. Marx nel comm. a Lucilio).
18 Nella parafrasi dell'apertura della Medea enniana (IV 7.6 sgg.) l'arcaismo è nettamente
temperato rispetto all'originale.
19 In qualche punto della favola (per es, nella serie rapida di presenti storici a zo sg.) forse è parodiato
lo stile della storiografia o dei poemi storici
20 Può darsi che sia aulico anche questo imperfetto in -ibam; ma, com'è noto, 1a forma è anche
popolare.
21 Per delibare oscula cfr. Virgilio, Aen. XII 434.
22 Per quest'uso metaforico di fulmineus cfr. Virgilio, Aen. IX 441 sg.; Orazio, Carm, III i6.io sg.; Ovidio,
Ars II 374 ecc.
23 Notare i tre spondei in prima sede.
24 Proloquor non è di uso comune: è arcaico e poetico, estraneo a Cicerone, Cesare, Quintiliano.
25 Oltre paralleli già dati prima (pp. rxm sg.) cfr. I 1 2.5, ramosa cornua con Bzac. 7.30; III 17.2
sgg. con Bue. 7.6r sg.; App. 5.r3 sg. con Aen. VI 595 sgg.; inoltre Virgilio (Aen. II 77) è citato in III
prol. 27. Di Ennio, Sc. 246 sgg. V? c'è una parafrasi poetica, com'è noto, in IV 7.6 sgg.; inoltre
Ennio è citato in III epil. 34 (dal 1'elefo, 331 V.z); probabilmente un'allusione ad Ennio (Sc. 321 V.Z)
è in lII prol. 38; forse enniano anche App. 8.5, cum auro et magni argenti pondere (cfr. Lanx satura
cit., p.zz9). Non mi pare che siano provate reminiscenze precise da Orazio (una somiglianza, ma
troppo debole, mi pare di scorgere fra IV 24 15, mori contractam cum te cogunt Jrigora e Orazio,
Epist. I 7 10 o sgg., quodsi bruma nives Albanis inlinet agris... vates tuus... contractus leget; certe
non mi sembrano neppure le derivazioni da Carm. II 3 e Sai. II 3 in Fedro IV zo segnalate da Dora
Bieber, Studien zur Geschichte der Fabel in den ersten Jahrzehnten der Kai serzeit, Diss., Monaco
1905, p. 57, accettate da A. Hausrath, «Hermes» 71 [r936], pp. gr sg.: le derivazioni da Sai. II 3,
che sono le piú notevoli, possono anche spiegarsi con luoghi comuni diatribici). Anche alcune
supposte derivazioni da Ovidio (a proposito cfr. soprattutto H. von Sassen, De Phaedri sermone,
Diss., Marburg i9r7) mi sembrano dubbie: la scena di III 10.24 sgg. deriverebbe da Fasi. II 347 sgg.;
Fedro III 18,7 sgg. presupporrebbe Med. lac. 33 sg.; Met. I 723; Fedro II z.7, capillos... legere
riecheggerebbe Ars II 666; Fedro I i8.5; III 15.5 (onus per indicare il feto nel ventre) non sarebbero
possibili senza l'analoga metafora ovidiana (Met. VI 224; X 506; Her. 11.64 ecc.); persino
simulacrum per indicare l'immagine nell'acqua (Fedro I 4.3) s arebbe attinto da Ovidio (Met. III 43z);
e cosí via. Come si vede, 0 1e analogie sono di contenuto senza reminiscenze formali precise o
sono formali, ma vertono su espressioni abbastanza solite. Crederei piuttosto a reminiscenza (e
parodia) dall'Ibis 387 in TV 6.io.
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223
26 Elementi utili si ricavano dalla dissertazione citata di H, von Sassen, di cui mi sono servito in
parte delle pagine precedenti.
Bibliografia
ed. L. Muller, Leipzig 1877.
ed. L. Havet, Paris 1895.
ed. I.P. Postgate, Oxford 1919.
ed. A. Brenot, Paris 1924.
ed. E. Bianchi, Firenze 1919 (con tr. e note).
ed. E. Perry, New York 1965
Babrius and Phaedrus , London Cambridge Mass. 19654.
Le favole, Zanichelli, Poeti e Prosatori latini (30). A cura di Elda Bossi, Bologna 1971
Favole, Trad. Agostino Richelmy, intr. A. La Penna Torino, Einaudi, 1959 e 1968.
Strumenti
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Lexicon Phaedrianum Ed. C. A. Cremona, Hildesheim 1980.
Studi
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1893-18992, rist. New York s.d..
A. De Lorenzi, Fedro, Firenze 1955.
G. Pisi, Fedro traduttore di Esopo, Firenze, La Nuova Italia, 1977.
F. Bertini, s.v. Favolisti latini, in Dizionario degli scrittori greci e latini, 2, Milano, Marzorati, 1987,
pp. 981-983, anche per notizie sugli sviluppi successivi del genere.
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Hyperlatino 1
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G. Pisi, Fedro traduttore di Esopo, Firenze, 1977.
S. Jedrkiewicz, Fedro e la verità, in "Quaderni urbinati di cultura classica", N.S. XXXIV, 1990,
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==========================
ICCU Soggetto
Lamb, R. W. , Annales phaedriani 1596-1996 : a bibliography of Phaedrus / R. W. Lamb , Lowestoft :
Privately printed, 1998
Descrizione fisica: XIII, 121, [12] p. ; 21 cm.
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224
Numeri: ISBN - 0953336107
Nomi: Lamb, R. W.
Soggetti: Fedro - Annali - Bibliografia - 1596-1996
Paese di pubblicazione: GB
Boldrini, Sandro , Note sulla tradizione manoscritta di Fedro : i tre codici di eta carolingia / Sandro Boldrini ,
Roma : Accademia nazionale dei Lincei, 1990 , Bollettino dei classici / Accademia nazionaledei Lincei.
Supplemento
Note Generali: Suppl. n. 9 a: Bollettino dei classici, Accademia nazionale dei Lincei, 1990.
Oberg, Eberhard , Phaedrus-Kommentar : mit 18 Abbildungen / Eberhard Oberg , Stuttgart : Steiner, 2000
Nomi: Oberg, Eberhard
Soggetti: Fedro - Opere - Commenti
Mincione, Giuseppino , Le fabulae novae di Fedro / Giuseppino Mincione ; introduzione di Mario De Nonno ,
Chieti : M. Solfanelli, 1990 , Il calamo & la ferula
Henderson, John , Telling tales on Caesar : Roman stories from Phaedrus / John Henderson , Oxford :
Oxford university press, 2001
Nomi: Henderson, John
Cremona, Carlo Angelo , Lexicon phaedrianum / ed. Carolus Angelus Cremona , Hildesheim ; New York,
1980 , Alpha-omega. Reihe A, Lexika, Indizes,Konkordanzen zur klassischen Philologie
Boldrini, Sandro , Fedro e Perotti : ricerche di storia della tradizione / Sandro Boldrini , Urbino : Universita
degli studi, stampa 1987 , Pubblicazioni dell'Universita di Urbino. Seriedi linguistica, letteratura, arte
Soggetti: Fedro - Opere - Tradizione e critica del testo - Sec. 16. Perotti, Niccolo
De Maria, Laura , La femina in Fedro : emarginazione e privilegio / Laura De Maria , Lecce : Adriatica
editrice salentina, 1987 , Studi e testi. Serie latina
Palatucci, Antonio , La lezione poetica di Fedro / Antonio Palatucci , [S. l. : s. n., dopo il 1976]
Note Generali: Estr. da: Politica popolare : rassegna d'ispirazione sturziana, a. 21., ottobre 1976.
Pisi, Giordana , Fedro traduttore di Esopo / Giordana Pisi , Firenze : La nuova Italia, 1977 , Pubblicazioni
della Facolta di magistero,Universita degli studi di Parma
Bertini, Ferruccio , Il monaco Ademaro e la sua raccolta di favole fedriane / Ferruccio Bertini , Genova :
Tilgher, 1975
Ademarus : Cabannensis
Phaedrus
Soggetti: Fedro - Opere - Parafrasi - Sec. 11.
Marastoni, Aldo , Fedro : appunti del corso monografico di lingua e letteratura latina , Parma : Studium
Parmense, [1965?]
Note Generali: In testa al front.: Universita degli studi di Parma, Facolta di magistero - Litografato .
Grossi, Lino , La morale nelle favole di Fedro / Lino Grossi ; rel. G. B. Pighi
Edizione: Tesi datt , Bologna : Universita degli studi, 1951 Fac. di lettere.
Soggetti: FEDRO - Tesi di laurea
Vocabolario per le favole di Fedro / compilato da Pietro Pettoello , Torino : Loescher, 1886
Vocabolario per le favole di Fedro / P. Pettoello , Torino ; Roma, 1895
Descrizione fisica: 78 p. ; 21 cm.
Soggetti: Fedro - Opere - Lessico
Marchesi, Concetto , Fedro e la favola latina / Concetto Marchesi , Firenze : Vallecchi, stampa 1923 , La
critica letteraria
TV0114 - Biblioteca comunale - Treviso - TV
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225
Lapegna, Nicola , Le favole di Fedro / commentate pel ginnasio inferiore da N. Lapegna , Napoli : Lapegna
editore, 1893
Boccella, Cristoforo , De Phaedro Augusti liberto : brevis historica critica disquisitio / Succursi Boccella ,
Avellino : Stab. tipo-litografico Maggi, 1887
Belli, Marco , Magie e pregiudizi in Fedro / D. Marco Belli , Venezia : tip. gia Cordella, 1895
Soggetti: FEDRO - Opere - Elementi magici
Completato 2004-1850
ICCU Autore
Phaedrus , Favole esopiane / Fedro ; testo latino, costruzione versione italiana a cura del prof. Pio Bortoluzzi
, Seregno : Avia pervia, stampa 2001 , Collana Sormani di testi latini e greci
Favole / Fedro ; tradotte dal latino in versi dialettali pesaresi da Marcello Martinelli ; illustrazioni di Umberto
Martinelli ; premessa di Scevola Mariotti , Pesaro] : Melchiorri, stampa 2000
Note Generali: Testo a fronte in dialetto pesarese.
Le favole di Fedro / [illustrazioni di Ornella Bergadano] , Legnano : Edibimbi, c2000 , Fiabe classiche
Favole / di Fedro , [Milano] : Bompiani, 1998 , I delfini Bompiani
Note Generali: Trad. di Enzo Mandruzzato.
Favole / Fedro ; introduzione, traduzione, note di Enzo Mandruzzato
Edizione: 10. ed , Milano : Biblioteca universale Rizzoli, 1998
Note Generali: Testo latino a fronte
Favole / Fedro ; introduzione, traduzione e note di Enzo Mandruzzato , [Milano] : BUR, 1999 , Superbur.
Classici
Phaedrus , Fabulas / Fedro y Aviano ; edicion de Manuel Manas Nunez , Mostoles, Madrid , Akal/Clasica
Chionne, Carlo , Il mio Fedro : 40 favole scelte a mano, tradotte a orecchio, da leggersi in piedi e recitare a
braccio perche anche l'occhio vuole la sua parte / Carlo Chionne , [Ragusa] : Libroitaliano, stampa 1998 ,
Nuova poesia contemporanea
Nomi: Chionne, Carlo
Phaedrus
Ferrari, Luigi <1922- > , Csa diral Fedro? : 30 favole e 40 indovinelli in rime reggiane / Luigi Ferrari ;
presentazione di Ugo Bellocchi ; prefazione di Clementina Santi ; illustrazioni di G. Mainini , Albinea :
Comune, 1997
Note Generali: Nel front.: Centro studi sul dialetto reggiano
Favole / Fedro ; a cura di Maria Grazia Cerruti e Stefano Pulvirenti , Milano : Opportunity Book, 1996 , La
biblioteca ideale tascabile
Il lupo e l'agnello e altre favole di Fedro / con traduzione frontale in dialetto romagnolo di Corrado Matteucci ;
disegni di Franco Vignazia , [S. l. : s. n.], 1997
Note Generali: A pie del front.: 6.
Nomi: Phaedrus
Vignazia, Franco
Matteucci, Corrado
Altri titoli collegati: [Titolo parallelo] E' lop e l'agnel e etri foli ad Fedro.
Smart, Christopher , 6: A poetical translation of the Fables of Phaedrus / edited by Karina Williamson ;
introduction and bibliographical appendix by Anne Becher , Oxford : Clarendon press, 1996
Fa parte di: The poetical works of Christopher Smart
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Nomi: Smart, Christophe, Phaedrus, Becher, Anne, Williamson, Karina
Favole : e tu chi sei? / di Fedro ; traduzione e presentazione di Angela Cerinotti , Bussolengo : Demetra,
1997 , Acquarelli
Favole: e tu che animale sei? / Fedro ; [testi: Anastasia Zanoncelli ; illustrazioni: Costantina Fiorini] ,
Colognola ai Colli : Demetra, 1997
Nomi: Phaedru, Zanoncelli, Anastasia, Fiorini, Costantina
Favole / Fedro ; introduzione, traduzione, note di Enzo Mandruzzato
Edizione: 9. ed , Milano : Biblioteca Universale Rizzoli, 1996
Note Generali: Testo latino a fronte.
Favole / Fedro ; introduzione, traduzione e note di Giannina Solimano , [Milano] : Garzanti, 1996 , I grandi
libri Garzanti
Note Generali: Testo orig. a fronte.
Phaedrus , Fabeln : Lateinisch-deutsch / Phaedrus ; herausgegeben und ubersetzt von Eberhard Oberg ,
Darmstadt : Wissenschaftliche Buchgesellschaft, c1996 , Sammlung Tusculum
Note Generali: Testo orig. a fronte.
Favole / Fedro ; introduzione, note di Enzo Mandruzzato
Edizione: 8 ed , Milano : Rizzoli, 1994 , Supersaggi
Note Generali: testo latino a fronte
Le piu belle favole di Fedro / [a cura di] Francesco Purpura
Edizione: 2. ed , Siracusa : Trinakria, 1994
Note Generali: Ed. f. c.
Nomi: Phaedrus, Purpura, Francesco
Favole senza tempo / Esopo, Fedro ; illustrazioni di Attilio Cassinelli ; testi di Tiziano Loschi , Firenze :
Giunti, [1995] , Favolosa
Le favole / Fedro ; traduzione in versi di Elda Bossi , Bologna : Zanichelli, stampa 1994 , Poeti di Roma
Note Generali: Trad. italiana a fronte.
Cento favole di Fedro / tradotte e volte in prosa, introdotte e annotate da Gerardo Allocca ; con supplemento:
Il libro a quiz , [S. l.] : L'oriente, 1995 (Marigliano : Scuola tipo-litografica dell'Istituto Anselmi)
La battaglia dei topi e delle donnole / Fedro ; traduzione di Fernando Solinas ; Nota introduttiva di Carmen
Covito , Milano : Mondadori, (C)1994, C , Piccoli classici
Favole / Fedro ; introduzione, traduzione e note di Enzo Mandruzzato , [Milano] : Fabbri, c1994, stampa
1995 , I grandi classici latini e greci
Note Generali: Testo latino a fronte.
Le favole / Fedro ; introduzione di Alberto Cavarzere ; cura e traduzione di Sebastiano Saglimbeni , Roma :
Newton Compton, 1995 , Grandi tascabili economici
Note Generali: Edizione integrale
Testo latino a fronte
Favole / Fedro ; introduzione, traduzione e note di Enzo Mandruzzato
Edizione: 2. ed , Milano : BUR, 1994 , Superclassici
Favole / Fedro ; introduzione, traduzione e note di Fernando Solinas , Milano : A. Mondadori, 1994 , Classici
greci e latini
Note Generali: Testo orig. a fronte
Favole / Fedro ; introduzione, traduzione e note di Enzo Mandruzzato , Milano : Biblioteca universale Rizzoli,
1993 , Superclassici
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Favole / Fedro ; introduzione, traduzione e note di Fernando Solinas , Milano : A. Mondadori, 1993 , Classici
greci e latini
Note Generali: Testo orig. a fronte
Favole / Fedro ; introduzione, traduzione e note di Fernando Solinas , Milano : A. Mondadori, 1992 , Classici
greci e latini
Note Generali: Testo orig. a fronte.
Favole / Fedro ; introduzione, traduzione, note di Enzo Mandruzzato
Edizione: 7. ed , Milano : Biblioteca Universale Rizzoli, 1993 , Bur Poesia
Le piu belle favole / Fedro ; adattate da Francesco Flavio per gli alunni delle scuole medie , Siracusa :
Trinacria, [1993]
Descrizione fisica: 108 p. : ill. ; 21 cm.
Note Generali: Ed. f. c.
I grandi favolisti , Firenze : Sansoni, 1993 , La grande letteratura
Note Generali: Contiene: V. 1.: Favole / Esopo ; con introduzione di Giorgio Manganelli ; traduzione di Elena
Ceva Valla ; con le xilografie veneziane del 1491 e una nota di Giovanni Mardersteig. V. 2.: Favole / Fedro ;
con introduzione, traduzione, note di Enzo Mandruzzato. V. 3.: Favole / Jean de La Fontaine ; illustrate da
Grandville ; traduzione in versi di Emilio De Marchi ; introduzione di Georges Couton
Nomi: Phaedrus
Aesopus
La Fontaine, Jean : de
Favole esopiane / Fedro ; testo latino, costruzione, versione italiana a cura del prof. Pio Bortoluzzi , Seregno
: Avia pervia, stampa 1991 , Collana Sormani di testi latini e greci
Le favole esopiche espurgate : testo, costruzione, versione letterale e note / Fedro
Edizione: 10. ed , Roma : Societa editrice Dante Alighieri, stampa 1991 , Raccolta di autori greci e latini con
lacostruzione, traduzione letterale e note
Gaiardelli, Giuseppe , Dalle favole di Fedro : libera interpretazione in dialetto di Tres / Giuseppe Gaiardelli ,
[S. l. : s. n.], stampa 1990 (Trento : Mori)
Babrius , Babrius and Phaedrus / edited and translated by Ben Edwin Perry , Cambridge [etc.] : Harvard
University Press, stampa 1990 , The Loeb classical library
Nomi: Babrius, Phaedru, Perry, Ben Edwin
Paese di pubblicazione: US
Favole / Fedro ; introduzione, traduzione, note di Enzo Mandruzzato
Edizione: 6. ed , [Milano] : Biblioteca universale Rizzoli, 1989 , I libri di Millelibri
Note Generali: Testo latino a fronte
Fables / Phedre ; texte etabli et traduit par Alice Brenot
Edizione: 4. ed , Paris : Les belles lettres, 1989 , Collection des universites de France
Note Generali: Testo latino a fronte
Favole / Fedro ; Traduzione e note di Enzo Mandrezzato , Milano : Rizzoli, 1989
Descrizione fisica: 371 p. ; 18 cm. , Bur Poesia
Favole di Fedro / Fedro ; Disegni di Attilio Fassinelli ; Testo in italiano di Tiziana Loschi , Firenze : Giunti
Marzocco, 1988
Nomi: Phaedrus
Der Wolf und das Lamm : Fabeln : lateinisch und deutsch / Phaedrus ; herausgegeben von Volker Riedel ,
Leipzig : Ph. Reclam jun., [1989] , Universal Bibliothek
Le Favole / Fedro ; traduzione in versi di Elda Bossi , Bologna : Zanichelli, stampa 1987 , Poeti di Roma
Note Generali: Trad. italiana a fronte.
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Liber Fabularum : Lateinisch und deutsch / Phaedrus ; Ubersetzt von Friedrich Fr. Ruckert und Otto
Schonberger ; Herausgegeben und erlautert von Otto Schonberger
Edizione: 4. durchgesehene und bibliographisch erganzte Auflage , Stuttgart : Philipp Reclam jun., 1987 ,
Universal Bibliothek
Note Generali: 1 ed. 1975
Favole / Fedro ; introduzione, traduzione e note di Enzo Mandruzzato
Edizione: 5. ed , Milano : Biblioteca universale Rizzoli, 1987
Note Generali: Testo latino a fronte
Favole / Fedro ; introduzione, traduzione, note di Enzo Mandruzzato
Edizione: 3. ed , Milano : Biblioteca universale Rizzoli, 1983
Note Generali: Testo orig. a fronte.
Le favole / Fedro ; traduzione in versi di Elda Bossi , Bologna : Zanichelli, 1982 , Poeti di Roma
Note Generali: Testo latino a fronte
Favole / Fedro ; introduzione, traduzione, note di Enzo Mandruzzato
Edizione: 4. ed , Milano : Rizzoli, 1985
Note Generali: Testo orig. a fronte.
Fabularum libri / Fedro ; introduzione e commento di Fernando Marani , Milano : Signorelli, 1982 , Classici
Signorelli. Scrittori latini
365 favole di animali / da Esopo, Fedro, La Fontaine e Tolstoj ; a cura di Francesca Marzotto ; tavole a colori
di Piera Grandesso ; tavole in nero di Gustave Dore , Rimini : Nuove edizioni Carroccio, 1984 , I libri di
Gulliver
Maggioni, Luigi , Favole da Fedro : traduzione liberamente rimata / [a cura di] Luigi Maggioni ; introduzione
di Nino Villa , Milano : Istituto propaganda libraria, 1984
Babrius , Babrius and Phaedrus
Edizione: Newly edited and translated into English, together with an historical introduction and a
comprehensive survey of Greek and Latin fables in the Aesopic tradition / by Ben Edwin Perry , Cambridge,
Mass. , The Loeb classical library
Note Generali: Testo greco con traduzione inglese a fronte.
Perry, Ben Edwin
Le favole / Fedro ; Traduzione in versi di Elda Bossi , Bologna : Zanichelli, 1980 , Prosatori di Roma
Note Generali: Testo latino a fronte
La Fontaine, Jean de , Fiabe di La Fontaine Fedro e Esopo , Milano : AMZ, 1980 , Gli aristolibri. Fiabe
Favole / Fedro ; introduzione, traduzione, note di Enzo Mandruzzato
Edizione: 2. ed , Milano : Biblioteca universale Rizzoli, stampa 1981
Note Generali: Testo latino a fronte.
Cremona, Carlo Angelo , Lexicon phaedrianum / ed. Carolus Angelus Cremona , Hildesheim ; New York,
1980 , Alpha-omega. Reihe A, Lexika, Indizes,Konkordanzen zur klassischen Philologie
Le favole / Fedro ; trad. in versi di Elda Bossi , Bologna : Zanichelli, stampa 1980 , Poeti di Roma
Note Generali: Tit. orig. a fronte.
Le storie del gatto / Fedro , Napoli : RU.MA., c.1981 , Collana classica mondiale
Animali nelle favole / Fedro ; disegni ed impaginazione di Attilio Cassinelli ; traduzione di Tiziano Loschi ,
Firenze : Giunti Marzocco, 1980
Note Generali: Eta di lettura : 6-10 anni
TV0157 - Sistema bibliotecario urbano di Treviso - Treviso - TV
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Le favole : nel testo latino e nella versione italiana / Fedro ; traduzione di Luigi Testaferrata ; con trenta
litografie colorate a mano di Aldo Ordavo , Firenze : Fin. edit. art., 1977
Note Generali: Ed. di 679 esempl. num. .
Bertinazzo, Enzo , El lupo, el leon, la volpe, el cocodrilo : venticinque favole di Fedro liberamente volte in
veneto con testo a fronte / Enzo Bertinazzo : introduzione di Davide Lajolo , Milano : Centro Studi Terzo
Mondo, <1978?> , Quaderni di Terzo mondo
Fa parte di: Terzo mondo : rivista trimestrale di studi, ricerche e documentazione sui paesi afro-asiatici e
latino-americani
Phaedrus , Le favole di Fedro : liberamente tradotte e irriverentemente commentate da un perugino /
Lodovico Scaramucci ; illustrazioni di Mariaelisa Leboroni , Perugia : Grifo, 1977
Favole / Fedro ; introduzione, traduzione, note di Enzo Mandruzzato ; testo latino a fronte , Milano : Rizzoli,
1979 , BUR. L
Favole =Fabulae Aesopiae / Fedro ; Intr.,trad. e note di E.Mandruzzato , Milano : Rizzoli, 1979 , Supersaggi
Le favole / Fedro ; Testi di Lodovico Scaramucci , Fabriano : [s.n.], 1977
El lupo, el leon, la volpe, el cocodrilo : venticinque favole di Fedro liberamente volte in veneto con testo a
fronte / a cura di Enzo Bertinazzo ; introduzione di Davide Lajolo , Milano : Centro studi Terzo mondo, 1977?
, Quaderni di Terzo mondo
Le favole / Fedro ; a cura di Manlio Faggella
Edizione: 2. ed , Milano : Feltrinelli, 1979 , Universale economica
Note Generali: Testo orig. a fronte
Favole / Fedro ; introduzione, traduzione, note di Enzo Mandruzzato , Milano : Biblioteca universale Rizzoli,
1979
Note Generali: Testo latino a fronte .
Favole / Fedro ; versione di Agostino Richelmy ; aggiunte le trenta Fabulae novae a cura di Antonio La
Penna ; introduzione di Antonio La Penna , Torino : G. Einaudi, 1978 , Nuova universale Einaudi. N. S
Note Generali: Testo latino a fronte.
El lupo, el leon, la volpe, el cocodrilo : venticinque favole di Fedro liberame nte volte in veneto con testo a
fronte / Enzo Bertinazzo ; introduzione di David e Lajolo , Milano : Centro studi Terzo Mondo, [1977?] ,
Quaderni di Terzo mondo
Le favole di Fedro : liberamente tradotte e irriverente commentate da un perugino / testi di Lodovico
Scaramucci, illustrazioni di Marielisa Leboroni , [S.l. : s.n.], stampa 1977 (Perugia : Tipografia Grifo)
Phaedrus , Pisa : Giardini, 1975
Nomi: Phaedrus
Bertini, Ferruccio , Il monaco Ademaro e la sua raccolta di favole fedriane / Ferruccio Bertini , Genova :
Tilgher, 1975
Ademarus : Cabannensis
Soggetti: Fedro - Opere - Parafrasi - Sec. 11.
Le favole / Fedro ; a cura di Manlio Faggella , Milano : Feltrinelli, 1974 , Universale economica
Note Generali: Trad. italiana a fronte .
Aesopus , Il mondo della favola / Esopo, Fedro, Jean De La Fontaine , Novara : Edipem, c1974 , La nostra
biblioteca
Lis flabis di Fedro voltadis pai furlans / [a cura di] Toni Bellina , [S. l.] : Clape cultural Cjargnei cence Dius,
1974 ([Udine] : Agraf)
Lingua di pubblicazione: roh
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230
Animali nelle favole / Fedro ; disegni ed impaginazione di Attilio Cassinelli ; traduzione di Tiziano Loschi ,
Firenze : Giunti Marzocco, c1976
Il mondo della favola / Esopo, Fedro, Jean De La Fontaine , Novara : EDIPEM, 1974 , La nostra biblioteca
classica
Nomi: Phaedrus
Aesopus
La Fontaine, Jean : de
De Marchi, Emilio
Marchesi, Concetto
Spezioli, Vincenzo
Soggetti: Favole - Antologie
Animali nelle favole / Fedro ; disegni ed impaginazione di Attilio Cassinelli ; traduzione di Tiziano Loschi ,
Firenze : Giunti Marzocco, c1976, stampa 1984
Favole / Fedro ; versione di Agostino Richelmy ; aggiunte le trenta Fabulae novae a cura di Antonio La
Penna ; introduzione di Antonio La Penna
Edizione: 2. ed , Torino : Einaudi, 1974 , Nuova universale Einaudi
Note Generali: Testi latini a fronte.
Le favole / Fedro ; a cura di Manlio Flagella , Milano : Feltrinelli, c1974 , Universale economica
Phaedrus , Pisa : Giardini, 1975 , Scriptorum Romanorum quae extant omnia
Phaedrus , Le favole esopiche espurgate : testo, costruzione, versione letterale e n ote / Fedro
Edizione: 9. ed , Milano ; Roma, 1974 , Raccolta di autori greci e latini con lacostruzione, traduzione letterale
e note
Fedro : un poeta tra favola e realta : antologia / a cura di Maria Jagoda Luzzatto ; con un saggio di Lorenzo
Mondo , Torino : Paravia, 1976 , Civilta letteraria di Grecia e di Roma.Autori. Serie latina
Phaedrus , Le favole / Fedro ; Traduzione in versi di Elda Bossi
Edizione: Bologna : Zanichelli, 1971
Descrizione fisica: ((Testo originale a fronte. , Poeti di Roma
Phaedrus , Le favole / Fedro ; Costruzione diretta, versione letterale e interlineare a cura di Lidia Fabiano ,
Roma : Editrice Ciranna, 1972 , I cirannini
Note Generali: Con testo latino a fronte
Phaedrus , E foe de Fedro / prefazione di Sem Benelli ; presentazione di Silvio Riolfo ; illustrato con
xilografie originali di Michele Spotorno ; revisione del testo dialettale genovese di G. B. Nicolo Besio ,
[Savona] : Sabatelli, [1972?]
Note Generali: Versione di G. Scarsi, il nome del quale figura in testa al front. .
Scarsi, Giulio
Spotorno, Michele
Phaedrus , Le favole / Phaedrus ; traduzione in versi di Elda Bossi , Bologna : Zanichelli, 1968
Favole / Fedro ; versione di Agostino Richelmy ; aggiunte le trenta "Fabulae novae" a cura di Antonio La
Penna ; introduzione di Antonio La Penna , Torino : Einaudi, c1968 , Nuova universale Einaudi
Note Generali: Testo orig. a fronte.
Fables / Phedre ; texte etabli et traduit par Alice Brenot
Edizione: 3. tirage , Paris : Les belles Lettres, 1969 , Collection des universites de France
Liber fabularum / Phaedri Augusti liberti ; recensuit Antonius Guaglianone , Aug. Taurinorum [etc.] : in
aedibus Io. Bapt. Paraviae, 1969 , Corpus scriptorum Latinorum Paravianum
Le favole / Fedro ; Traduzione di Elda Bossi , Bologna : Zanichelli, 1968 , Poeti di Roma
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231
Favole : testi latini a fronte / Fedro ; versione di Agostino Richelmy ; aggiunte le trenta Fabulae novae a cura
di Antonio La Penna ; introduzione a cura di Antonio La Penna , Torino : G. Einaudi, 1968 , Nuova universale
Einaudi
TV0114 - Biblioteca comunale - Treviso - TV
Fedro e la sua morale / favole trascritte da Giuseppe Cantamessa , Bologna : Ponte nuovo, 1969 , I nostri
madrigali
Fabularum libri / Fedro ; introduzione e commento di Fernando Marani , Milano : Signorelli, 1965 , Scrittori
latini
Note Generali: Ristampa.
Phaedri Augusti liberti Fabularum Aesopiarum libri / edidit Aldo Marsili , Pisa : Pacini-Mariotti, 1966
Le storie del gatto / Fedro , Milano : Europea, c1966 , Allegri animali
Note Generali: Illustrazioni di Pescador ; libera versione di Saulla Dello Strologo.
Babrius and Phaedrus / newly ed. and transl. into English, together with an historical introd. and a
comprehensive survey of Greek and Latin fables in the Aesopic tradition by Ben Edwin Perry , London :
Heinemann, Mass. , The Loeb classical library
Fedro e la sua morale : favole trascritte da Giuseppe Cantamessa , Bologna : Ponte nuovo, 1965 , I nostri
madrigali
Phaedri Augusti liberti Fabulae / Fedro , Roma : Le muse, 1964
Note Generali: A cura di M. Spena, il nome della quale figura in testa al front.
Le favole esopiche espurgate : testo, costruzione, versione letterale e note
Edizione: 7. ed. , Milano [etc.] : Soc. editrice Dante Alighieri, 1961 , Raccolta di autori greci e latini con
lacostruzione, traduzione letterale e note
Fables / Phaedrus ; texte itabli et traduit par Alice Branot , Paris : Societi d'Edition Les Belles Lettres, 1961 ,
Collection des universites de France
Note Generali: Testo orig. a fronte
Le favole esopiche espurgate : testo, costruzione, versione letterale e note / Fedro
Edizione: 8. ed , Milano [etc.] : Soc. editrice Dante Alighieri, 1964 , Raccolta di autori greci e latini con
lacostruzione, traduzione letterale e note
Le Favole / Fedro ; traduzione in versi di Elda Bossi , Bologna : Zanichelli, stampa 1963 , Poeti di Roma
Note Generali: Testo latino a fronte.
Fables / Phedre ; texte etabli et traduit par Alice Brenot
Edizione: 2. ed. , Paris : Les belles lettres, 1961 , Collection des universites de France
Note Generali: Testo orig. a fronte.
TV0114 - Biblioteca comunale - Treviso - TV
Favole di Fedro : trascritte sulla falsariga dei senari / Annunziato Presta , Trieste : Golfo, 1951
Favole / Fedro , Torino : Einaudi, 1959
Nomi: Phaedrus
Favole / Fedro ; traduzione di Gustavo Brigante Colonna , Roma : Fratelli Palombi, stampa 1957
Brigante Colonna, Gustavo , Quando re Leone imperava : Favole classiche da Esopo, Fedro, La Fontaine e
Clasio, narrate da g. B. C. , illustrate da Filiberto mateldi , Torino : Ed. Utet, Unione Tip. Ed. Torinese, 1957,
Tip. Sociale Torinese
Favole / [Di] Fedro
Edizione: 2. ed , Milano : Rizzoli, 1954 , Biblioteca universale Rizzoli
F. Dalessi © 2002
F. D'ALESSI - Letteratura latina - Parte III,1 - Il periodo imperiale - L'età dei Claudi
232
Favole / Fedro ; a cura di Agostino Richelmy , Torino : G. Einaudi, 1959 , Universale Einaudi
Le favole / Fedro ; commento e note di Felice Ramorino
Edizione: 6. ed. / aggiornata da Francesco Della Corte , Torino : Loescher, 1959 , Collezione di classici greci
e latini
Della Corte, Francesco <1913-1991>
Favole / Fedro , Milano : A. Rizzoli, 1954 , Biblioteca universale Rizzoli
Note Generali: trad. di Balilla Pinchetti.
Le favole di fedro : Tradotte in versi italiani [dal latino a cura di Vincenzo Spezioli]. Recanati 1891 , Lanciano
: Tip. Cet, Coop. Editoriale Tipografica, 1956
Le favole esopiche (Fabularum Aesopiarum libri) espurgate / testo, costruzione, versione letterale [dal latino]
e note , Roma : Ed. Albrighi, Segati e C., 1956 (Citta di Castello, Tip. S. Lapi) , Raccolta di autori greci e
latini con lacostruzione, traduzione letterale e note
Le favole esopiche : libri 1.-2.-3.-4.-5. e Appendix Perottina : testo latino con costruzione diretta, traduzione
letterale parallela alle righe latine, paradigmi di verbi regolari ed irregolari, note grammaticali, storiche e
mitologiche , Milano : Editr. Classica Saturnia, 1959 , Classici Selecta. Collana di letteraturalatina / diretta da
A. Calesella
Le favole / Fedro ; con note di Salvatore Sciuto , Torino : SEI, 1946
Descrizione fisica: 1 v.
Nomi: Phaedrus
Sciuto, Salvatore
Phaedri Fabulae ; [versione di Silvio Spaventa Filippi] , Milano : Garzanti, 1947 , Collezione romana
Note Generali: Testo a fronte.
Phaedri Fabulae / Phaedrus
Edizione: 2. ed , [Milano] : Garzanti, 1947 , Collezione romana
Note Generali: Testo italiano a fronte
Favole / Fedro ; a cura di Francesco della Corte , Genova : Editrice ligure arte e lettere, stampa 1945 , Il
veliero
Fabulas / [Di] Fedro ; Sentencias de Syro. Traduccion directa y literal del latin por Jose Velasco y Garcia ,
Buenos Aires : Editorial Glem, 1943
Favole scelte : Introduzione, traduzione e note a cura di Vincenza D'auria Ponzilacqua , Milano : L. Trevisini,
1942
Le favole : Testo, traduzione e note a cura di Domenico Gavino , Roma : Albrighi, Segati e C., 1942 (Citta di
Castello, Tip. S. Lapi) , Biblioteca classica. Scrittori greci e latini
Le favole tradotte da Silvio Zavatti : Libri I II , Forl : Casa Ed. Zavatti, 1943 (Riccione, Tip. Moderna) ,
Classici latini tradotti
Le favole : Traduzione in Lingua italiana corredata di note grammaticali e sintattiche richiamanti il testo
latino. A cura di Maria Antoniazzi , Milano : A. Vallardi, 1942 , I classici tradotti
Le favole : Traduzione in prosa [dal latino] di Francesco E. Martorelli , Modena : Soc. Tip. Modenese, 1946 ,
Collezione di versioni di classici latini egreci
Le favole / Fedro ; traduzione in prosa di Francesco E. Martorelli , Modena : Societa Tipografica Modenese,
1946 , Collezione di versioni di classici latini egreci
Cinquanta favole : Eutropius, breviarum ab urbe condita. Cornelius Nepos, cinque vite. Tibullus Albius, carmi
scelti. Caesar C. Iulius, la guerra gallica; la guerra civile. Cicero m. Tullius, lettere scelte. Ovidius naso p. ,
metamorfosi , Firenze : R. Bemporad e F., 1938 , I classici latini Bemporad
F. Dalessi © 2002
F. D'ALESSI - Letteratura latina - Parte III,1 - Il periodo imperiale - L'età dei Claudi
233
Le favole / Fedro ; voltate in lingua italiana e corredate di note storiche, filologiche, geografiche e mitologiche
da Zeffirino Carini
Edizione: 3. ed , Torino [etc.] : Paravia, stampa 1938 , Classici latini e greci tradotti
Le favole di Fedro / commentate da Felice Ramorino , Torino : Chiantore, 1938 , Collezione di classici greci
e latini
Fabulae : Recensione e note di Alessandro Annaratone , Torino : G. B. Paravia e C., 1939 , Biblioteca
scolastica di scrittori latini connote
Favole / scelte ed annotate da M. Durante , Milano, 1938 (Varese, La Tipografica Varese)
Le favole di fedro : Commentate ad uso delle scuole medie da Giovanni Forcina , Napoli : A. Morano, 1938 ,
Collezione di classici latini e greci
Cinquanta favole : Scelte a cura di Alessandro Setti. Con prefazione, commento e 8 tavole fuori testo ,
Firenze : R. Bemporad e Figlio, 1937 (Sancasciano Pesa, Tip. F.lli Stianti) , Nuova collezione Bemporad di
classici latini
Fabulae : Ad fidem codicis neapolitani denuo excussi edidit, praefatus est, Appendice critica instruxit
Dominicus Bassi
Edizione: 3 ristampa , Aug. Taurinorum : In Aedibus I. B. Paraviae Et Sociorum, 1936 , Corpus scriptorum
Latinorum Paravianum
Fabulae Aesopiae / 30 favole scelte [da] N. Dall'Osso , Roma : A. E. R., 1936, Tip. La Neografica
Lingua di pubblicazione: ita
Phaedri Fabulae novae 31 / (Phaedrus) , Padova : A. Draghi, 1937 , Collectio scriptorum Latinorum in
usumuniversitatis Patavinae
Fabularum libri : Introduzione e commento di Fernando Marani , Milano : C. Signorelli, 1937, Tip. L. Di G.
Pirola
Favole / Fedro ; a cura di Cesare Bione , Firenze : La Nuova Italia, 1936
Le favole esopiche : Espurgate. Testo, costruzione, versione letterale e note
Edizione: 4 edizione , Roma : Albrighi, Segati e C., 1936 (Citta di Castello, Tip. S. Lapi) , Raccolta di autori
greci e latini con lacostruzione, traduzione letterale e note
30 favole esopiche / ordinate in costruzione prosastica con traduzione interlineare e commento
grammaticale-sintattico [di] N. Dall'osso , Roma : A. E. R., 1936, Tip. La Neografica
Fables de Phedre . Fables d'Avianus . Sentences de Publilius Syrus . Distiques Moraux de Denys Caton /
traduction nouvelle, avec introductions et notes par Pierre Constant , Paris : Librairie Garnier freres, stampa
1937 , Collection des classiques Garnier
Fabulae / Phaedri ; praefatus est, appendice critica instruxit Dominicus Bassi , Taurinorum [etc.] : I. B.
Paraviae et Soc., stampa 1936 , Corpus scriptorum Latinorum Paravianum
Note Generali: In front.: Ad fidem codicis neapolitani denuo excussi edidit
Bassi, Domenico <1859-1943>
Fabularum libri / Fedro ; introduzione e commento di Fernando Marani , Milano : Signorelli, stampa 1937
Fabulae Aesopiae : 70 favole / scelte e commentate da Ada Presti Milazzo , Catania : Etna, 1935, Tip. E.
Giandolfo , Alma parens
Lingua di pubblicazione: ita
Fabulae / recensuit Dominicus Bassi
Edizione: Editio minor, 2 ristampa , Torino : G. B. Paravia e C., 1935 , Corpus scriptorum Latinorum
Paravianum
F. Dalessi © 2002
F. D'ALESSI - Letteratura latina - Parte III,1 - Il periodo imperiale - L'età dei Claudi
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Fabularum Aesopiarum libri / recensione e note di Carlo Ludovico Bertini
Edizione: 18. ristampa , Torino : G. B. Paravia e C., 1934 , Biblioteca scolastica di scrittori latini egreci
Favole di fedro : Tradotte in ottonarii [da] Pasqualino De Benedittis , Napoli : Tip. Manzoni e De Lucia, 1935
De Benedittis, Pasqualino
Favole esopiane : Nuova versione di Giorgio Tosi. Premesso il discorso sulla favola e sui favolisti di Atto
Vannucci , Milano : C. Signorelli, 1934, Tip. G. Antonini e C. , Biblioteca di letteratura
Favole scelte : Con note di Alberto Rusigi , Milano : L. Trevisini, [1934] , Alpes. Autori latini per esami statali
Favole scelte : Con parafrasi in versi, dichiarazioni e commento a cura di Giuseppe Lipparini , Milano : C.
Signorelli, 1935, Tip. L. Di G. Pirola
Lipparini, Giuseppe <1877-1951>
Le favole : Con note di Salvatore Sciuto
Edizione: 3 edizione interamente rifatta , Torino : Societa Edit. Internazionale, 1934 , Scrittori latini
commentati per le scuole
Le favole degli animali e degli uomini : A cura di Alberto Mocchino. Con illustrazioni di Augusto majani
Edizione: 7 edizione , Milano : A. Mondadori, 1935 , Edizioni Mondadori per le scuole medie
Le favole : Tradotte [da] Giovanni Capasso
Edizione: 3 edizione , Salerno : Ediz. Dell'ateneo G. Galilei, 1934, Tip. F.lli di Giacomo
Lingua di pubblicazione: ita
Le favole : Voltate in Lingua italiana e corredate di note storiche, filologiche, geografiche e mitologiche da
Zeffirino Carini
Edizione: 8 ristampa della 3 edizione , Torino : G. B. Paravia e C., 1934
Lingua di pubblicazione: ita
Fabularum aesopiarum : libri / Fedro ; recensione e note di Carlo Ludovico Bertini , Torino ... [etc.] : G. B.
Paravia, stampa 1935 , Biblioteca scolastica di scrittori latini egreci
Gli autori latini per il ginnasio inferiore : Fedro, Cornelio, Eutropio, Tibullo, Ovidio / scritti scelti e commentati
[a cura di] Antonino Cassara, con [dieci] tavole illustrative fuori testo
Edizione: Quinta edizione riveduta e ampliata, coll'aggiunta di alcune nozioni di prosodia e di metrica ,
Milano : Casa Edit. R. Sandron, [1932], Tip. Cappugi e Mori
Favole scelte : Con commento filologico, estetico, morale. Notizie sulla vita e l'arte del poeta e un saggio di
traduzione in semarii italiani ad uso delle scuole medie [a cura di] V[incenzo] Guarrera , Caserta : G. Maffei
Edit. Tip., 1932
Lingua di pubblicazione: ita
Le favole di Fedro / commentate da Adolfo Cinquini
Edizione: Seconda edizione riveduta , Milano : Casa Edit. R. Sandron, [1933], Tip. Cappugi e Mori , Nuova
raccolta di classici latini con noteitaliane
Lingua di pubblicazione: ita
Le favole : Con note di Salvatore Sciuto
Edizione: Seconda edizione intieramente rifatta , Torino : Societa Edit. Internazionale, 1932, Tip. G. Gaggi ,
Scrittori latini commentati per le scuole
Lingua di pubblicazione: ita
Phaedri fabulae / con introduzione di Avancinio Avancini e note di Iginio Dal Ri
Edizione: 2. ed , Milano : Vallardi, 1932 , Corpus scriptorum Romanorum
Le favole esopiche espurgate : Testo, costruzione, versione letterale e note
Edizione: Terza edizione , Roma : Albrighi, Segati e C., 1932 (Citta di Castello, S. Lapi) , Raccolta di autori
greci e latini con lacostruzione, traduzione letterale e note
F. Dalessi © 2002
F. D'ALESSI - Letteratura latina - Parte III,1 - Il periodo imperiale - L'età dei Claudi
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Lingua di pubblicazione: ita
Fabularum aesopiarum libri : Recensione e note di Carlo Ludovico Bertini , Torino : G. B. Paravia e C., 1933
, Biblioteca scolastica di scrittori latini egreci
Lingua di pubblicazione: ita
Favole di Fedro / scelte e annotate ad uso delle scuole medie inferiori per cura di Nicola Festa ; Con 20
illustrazioni
Edizione: Nuova tiratura , Firenze : G. C. Sansoni, 1933 (Tip. L'arte Della Stampa, Succ. Landi) , Collezione
di classici latini con note ad usodelle scuole
Lingua di pubblicazione: ita
Favole scelte / con parafrasi in versi, dichiarazioni e commento a cura di Giuseppe Lipparini , Milano : C.
Signorelli, 1933, Tip. L. Di G. Pirola
Lipparini, Giuseppe <1877-1951>
Lingua di pubblicazione: ita
Le favole : Con note di Atto Vannucci
Edizione: 16 edizione riveduta e corretta / da Ferdinando Carlesi , Bologna : N. Zanichelli, 1933, Tip.
Galavotti e Roncagli , Biblioteca dei classici latini ad uso dellescuole
Lingua di pubblicazione: ita
Le favole : Con note di Salvatore Sciuto
Edizione: Seconda edizione interamente rifatta , Torino : Soc. Editr. Internazionale, 1933 (Opes, Officina
Poligr. Editr. Subalpina) , Scrittori latini commentati per le scuole
Lingua di pubblicazione: ita
Le favole di Fedro ad uso delle scuole / [a cura di] Guido Pasquetti , Firenze : Nemi, 1933 (Tip. Barbera,
Alfani e Venturi)
Lingua di pubblicazione: ita
Le favole di Fedro / tradotte da Pietro Lori , Milano : Sonzogno, 1933, Tip. A. Matarelli , Biblioteca universale
Quaranta favole / commentate e confrontate con favole esopiche e di scrittori moderni a cura di G. D. AmicoOrsini , Firenze : F. Le Monnier, 1933, Tip. E. Ariani.
Sciuto, Salvatore , Luoghi scelti da Fedro, Ovidio, Tibullo, Cesare, Livio : Vol. I per l'Istituto Magistrale
Inferiore
Edizione: 2 edizione riveduta e ampliata , Torino : Soc. Editr. Internazionale, 1933 (Sten, Soc. Tip. Editr.
Nazionale) , Scrittori latini commentati per le scuole
Lingua di pubblicazione: ita
Antologia latina per il ginnasio inferiore : (Eutropio, Cornelio, Fedro, Ovidio, Tibullo) / [a cura di] Cesare
Verlato , Milano : Ediz. Cristofari, [1933], Scuola Tip. Artigianelli
Lingua di pubblicazione: ita
Cinquanta favole scelte / a cura del prof. Alessandro Setti. Con prefazione, commento e 8 tavole fuori testo ,
Firenze : R. Bemporad e Figlio Edit. Tip., 1931
Lingua di pubblicazione: ita
Favole Scelte, ordinate e annotate, ad uso delle scuole medie inferiori / per cura di Nicola Festa. Con 20
illustrazioni
Edizione: Nuova tiratura , Firenze : G. C. Sansoni, 1931 (L'arte Della Stampa, Succ. Landi)
Note Generali: L. 5. [[/FEDRO./ FAVOLE. SCELTE, ORDINATE E ANNOTATE, AD USO DELLE SCUOLE
MEDIE INFERIORI, PER CURA DI /NICOLA FESTA./CON 20 ILLUSTRAZIONI. NUOVA TIRATURA.
FIRENZE, G. C. SANSONI (L'ARTE DELLA STAMPA, SUCC. LANDI), 1931. 8 FIG. P. XII, 118. L. 5. B1932
153
Lingua di pubblicazione: ita
Le favole : Con note di Salvatore Sciuto
Edizione: Seconda edizione intieramente rifatta , Torino : Soc. Edit. Internaz. Edit. Tip., 1931
Lingua di pubblicazione: ita
F. Dalessi © 2002
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Le favole di Fedro ad uso delle scuole / commentate e corredate di vocabolario da Ignazio Bassi
Edizione: 3 ed , Lanciano <Chieti> : Carabba, 1931 , Classici latini
Lingua di pubblicazione: ita
Versioncelle da Fedro / [a cura di] Ferruccio Pieri , Lucca : Scuola Tip. Artigianelli, 1931
Lingua di pubblicazione: ita
La Poesia latina per il ginnasio inferiore / [a cura di] Francesco Galli. Fedro, Tibullo, Ovidio , Napoli : F.
Perrella, 1930 (Arpino, Soc. Tip. Arpinate)
Galli, Francesco <1938- >
Lingua di pubblicazione: ita
Cinquanta favole / Fedro ; scelte a cura del prof. Alessandro Setti con prefazione, commento , Firenze :
Bemporad, 1931 , Nuova collezione Bemporad di classici latini
Favole esopiche [da Esopo, Ennio, Orazio, Fedro, Apuleio, Aviano, arnobio ecc. ] : Tradotte da concetto
Marchesi. Con tutte le xilografie deltuppiane , Roma : A. F. Formiggini, 1930 (Modena, G. Ferraguti e C.) ,
Classici del ridere
Lingua di pubblicazione: ita
Favole scelte / di Fedro ; saggio di traduzione in versi [di] Emilio Amodeo , Avellino : stab. tip. Labruna, 1928
Lingua di pubblicazione: ita
Le favole di Fedro / commentate da M. Fabris , Padova : Gregoriana, 1928
Lingua di pubblicazione: ita
Fabulae aesopiae / con note italiane del prof. Francesco Cantarella
Edizione: Settima edizione riveduta e corretta , Roma : Albrighi, Segati e C., 1928 (Citta di Castello, S. Lapi)
, Raccolta di autori latini con note italiane
Lingua di pubblicazione: ita
Le favole / commentate dal prof. Pietro Di Lauro
Edizione: Terza edizione emendata , Roma : Albrighi, Segati e C., 1929 (Citta di Castello, S. Lapi Edit. Tip.) ,
Collezione di classici greci e latini. Serielatina
Lingua di pubblicazione: ita
Le favole / edizione curata da Carmine Di Pierro e Giunio Garavani ; con illustrazioni di G. Mainini
Edizione: Seconda edizione riveduta , Livorno : R. Giusti Edit. Tip., 1929
Phaedri Augusti Liberti fabulae aesopiae / con note italiane del prof. Francesco Cantarella
Edizione: 7. ed. riveduta e corretta , Milano [etc.] : Societa editrice Dante Alighieri di Albrighi, Segati & c.,
1928 , Raccolta di autori latini con note italiane
Fabulae / Phaedri ; ad fidem codicis neapolitani denuo excussi edidit, praefatus est, appendice critica
instruxit Dominicus Bassi , Augusta Taurinorum : Paravia, 1929 , Corpus scriptorum Latinorum Paravianum
Le favole : Tradotte [da] Giovanni Capasso , Salerno : Ediz. Dell'ateneo G. Galilei, 1929, F.lli di Giacomo
Lingua di pubblicazione: ita
Le favole : Traduzione di Michele Caroli , Napoli : Rondinella e Loffredo, 1929, F. Sangiovanni e Figlio ,
Raccolta di traduzioni dal greco e dal latino.Serie latina
Lingua di pubblicazione: ita
Le favole di Fedro : tradotte / [a cura di} Giovanni Capasso
Edizione: Nuova ed. migliorata, col testo di fronte , Salerno : Edizioni dell'ateneo "G. Galilei", stampa 1929
Lingua di pubblicazione: ita
Le favole / Fedro ; versione di Silvio Spaventa Filippi
Edizione: 2. ed , Villasanta, Milano , Collezione romana
Note Generali: Testo lat. a fronte.
F. Dalessi © 2002
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Cornelius Nepos , Loci selecti : Con introduzione, commento e note del dott. Gaetano Unita , Lanciano : G.
Carabba, 1928, R. Carabba , Classici latini
Nomi: Cornelius Nepos
Phaedrus
Eutropius
Unita, Gaetano
Lingua di pubblicazione: ita
Le favole / [Di] Fedro ; Edizione curata da Carmine Di Pierro e Giunio Garavani. Con illustrazioni di G.
Mainini. 2. ed. riveduta , Livorno : Giusti, 1929
Lingua di pubblicazione: lat
Fabulae / Phaedri ; recensuit Dominicus Bassi , Taurinorum [etc.] : Io. Bapt. Paraviae, 1927 , Corpus
scriptorum Latinorum Paravianum
Bassi, Domenico <1859-1943>
Phaedri Fabulae Aesopiae / texte latin avec notice, commentaire, notes historiques et lexique [par] E.
Jopken
Edizione: Neuvieme edition revue et modifee / par J. Hombert , Liege : H. Dessain, 1926
Le favole degli animali e degli uomini / Fedro ; a cura di Alberto Mocchino ; con illustrazioni di Augusto
Majani , Milano : Mondadori, 1927
Lingua di pubblicazione: lat
Autori latini : Cornelio, Fedro, Cicerone, Catullo, Tibullo prescritti per l'ammissione alla IV classe del
Ginnasio [a cura di] Salvatore Sciuto , Torino : Soc. Ed. Internazionale, 1926, Scuola Tip. Salesiana
Note
Generali:
L.
9.
[[AUTORI
LATINI.
/CORNELIO,//FEDRO,//CICERONE,//CATULLO,/
/TIBULLO/PRESCRITTI PER L'AMMISSIONE ALLA IV CLASSE DEL GINNASIO [A CURA DI]/SALVATORE
SCIUTO./TORINO, SOC. ED. INTERNAZIONALE (SCUOLA TIP. SALESIANA), 1926. 8 FIG. P. 235. L. 9.
B1926 66
Alcune favole di Fedro tradotte in versi italiani / Ferruccio Pieri ; con xilografie di Mario Davini , Lucca :
Scuola tipografica Artigianelli, 1927
Lingua di pubblicazione: ita
Le favole di Fedro voltate in lingua italiana e corredate di note storiche, filologiche, geografiche e mitologiche
/ da Zeffirino Carini , Torino : Paravia, 1926 , Classici latini e greci tradotti
Lingua di pubblicazione: ita
Fabulae aesopiae expurgatae, Scholarum in Usum ad optimarum editionum fidem / recensuit C. Fumagalli
Edizione: Editio septima , Romae : Albrighi, Segati Et Soc., 1926 (Citta di Castello, S. Lapi) , Scriptorum
Romanorum bibliotheca
Lingua di pubblicazione: lat
Favole : Dai primi cimenti [a cura di] I. Bassi e P. Cabrini. Edizione riordinata da A. Nardi e M. Polenghi ,
Torino : G. B. Paravia e C. Edit. Tip., 1927 , Biblioteca di lingua latina e greca
Lingua di pubblicazione: ita
Favole scelte / Fedro ; con parafrasi in versi, dichiarazioni e commento a cura di Giuseppe Lipparini , Milano
: C. Signorelli, 1926, G. Pirola
Lipparini, Giuseppe <1877-1951>
Lingua di pubblicazione: ita
Favole scelte, illustrate e confrontate con favole antiche e moderne / [da] F. Calonghi e N. Vianello , Napoli :
F. Perrella, 1927 (Citta di Castello, Unione Arti Grafiche)
Le favole / a cura di Elisa Mercanti Agostini , Firenze : F. Le Monnier, 1926, Tip. Enrico Ariani
Lingua di pubblicazione: ita
F. Dalessi © 2002
F. D'ALESSI - Letteratura latina - Parte III,1 - Il periodo imperiale - L'età dei Claudi
238
Le favole degli animali e degli uomini / a cura di Alberto Mocchino , Milano : A. Mondadori Edit. Tip., 1927
Lingua di pubblicazione: ita
Le favole : recate in italiano col testo a fronte ed annotate / da Enrico Bianchi
Edizione: Nuova tiratura , Firenze : G. C. Sansoni, 1926 (Tip. L'arte Della Stampa, Succ. Landi) , Biblioteca
per la diffusione degli studiclassici
Lingua di pubblicazione: ita
Favole / annotate da Francesco Vivona , Roma Velletri : Ausonia Edit. Tip., 1927 , Lecta potenter
Vivona, Francesco <1866-1936>
Lingua di pubblicazione: ita
Le favole / Fedro ; versione di Silvio Spaventa Filippi , Milano : Societa anonima Notari, Istituto editoriale
italiano, 1927 , Collezione romana
Note Generali: Testo orig. a fronte.
TV0114 - Biblioteca comunale - Treviso - TV
Phaedri Augusti liberti Fabulae aesopiae / recognovit et praefatus est Lucianus Mueller
Edizione: Editio stereotypa , Lipsiae : in aedibus B. G. Teubneri, 1926 , Bibliotheca scriptorum Graecorum et
RomanorumTeubneriana
Gli autori latini per il ginnasio inferiore : Fedro, Cornelio, Ovidio, Cicerone, Catullo, Tibullo / passi scelti e
commentati [a cura di] Antonino Cassara
Edizione: Nuova edizione riveduta e modificata , Palermo : R. Sandron Tip. Edit., 1925
Lingua di pubblicazione: ita
Fabulae aesopiae / con note italiane del prof. Francesco Cantarella
Edizione: Sesta edizione riveduta e corretta , Roma : Albrighi, Segati e C., 1925 (Citta di Castello, S. Lapi) ,
Raccolta di autori latini con note italiane
Lingua di pubblicazione: ita
La morale e la religione dei Romani, esposta e spiegata con Passi [scelti] , Napoli : F. Perrella, [1925] (Selci,
Soc. Anon. Tip. Pliniana) , Antologia latina per il corso inferioredell'istituto magistrale
Favole di fedro e vite di Cornelio / scelte e annotate [da] Cassara Antonino , Palermo : R. Sandron, 1925,
Tip. Sandron , Nuova raccolta di classici latini con noteitaliane
Lingua di pubblicazione: ita
Favole scelte, ordinate e annotate ad uso delle scuole medie inferiori / per cura di Nicola Festa
Edizione: Nuova tiratura , Firenze : G. C. Sansoni, 1925, Tip. L'arte Della Stampa , Collezione di classici
latini con note ad usodelle scuole
Lingua di pubblicazione: ita
Le favole con introduzione di Avancinio Avancini e note di Iginio Dal Ri , Milano : A. Vallardi, 1925 , Corpus
scriptorum Romanorum
Lingua di pubblicazione: ita
Le favole / con note di Salvatore Sciuto , Torino : Soc. Edit. Internazionale, 1925, Stab. Graf. Moderno
Lingua di pubblicazione: ita
Le favole esopiche espurgate : Testo, costruzione, versione letterale e note
Edizione: Seconda edizione , Roma : Albrighi, Segati e C., 1925 (Citta di Castello, Tip. Dell'unione Arti
Grafiche) , Raccolta di autori latini colla costruzione,traduzione letterale e note
Lingua di pubblicazione: ita
Pascal, Carlo , Poeti Romani : Fedro, Catullo, Tibullo, Properzio, Ovidio : carmi scelti ed annotati ad uso
delle scuole medie inferiori classiche, complementari e magistrali / [a cura di] Carlo Pascal
Edizione: 2. ed. con aggiunte , Torino : G. B. Paravia e C., [1925] (Pavia : Tip. Succ. Fratelli Fusi)
Le favole : Testo, versione e note di Gregorio Franzo , Bologna : L. Cappelli, 1925 , Biblioteca di classici
latini nel testo enella versione. Ser. 2
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F. D'ALESSI - Letteratura latina - Parte III,1 - Il periodo imperiale - L'età dei Claudi
239
Lingua di pubblicazione: ita
Le favole / tradotte in dialetto bresciano da G. B. Bordogna , Brescia : Tip. F. Apollonio e C., 1925
Lingua di pubblicazione: ita
Fabulae aesopiae / Phaedri Augusti Liberti ; novamente commentate dal prof. Tito Morino , Roma : A.
Signorelli, 1925
Lingua di pubblicazione: lat
Le Favole di Fedro / commentate da Felice Ramorino
Edizione: 5. ed. riveduta e corretta , Torino : G. Chiantore, 1925
Lingua di pubblicazione: lat
Uomini d'arme e di Stato : Un saggio antico. Passi scelti ad uso della seconda ginnasiale , Napoli : F.
Perrella, [1925] (Citta di Castello, Soc. Anon. Tip. Leonardo da Vinci) , Classici latini ad uso del ginnasio
inferiore
Lingua di pubblicazione: ita
Fedro: favole : Cornelio: vite / Phaedrus ; Terza edizione conforme alle ultime disposizioni Ministeriali di Luigi
Francesco Guerra
Edizione: 3. ed , Napoli : Gaspare Casella, 1924 , Collezione dei classici latini e greci ad usodelle scuole
Festa, Nicola , Su la favola di Fedro : nota , <S.l. : s.n., 1924>
Note Generali: Estr. da: Rendiconti R. Acc. Naz. dei Lincei, 1924, vol. 33., fasc. 1-3.
Cinquanta favole scelte / a cura del prof. Alessandro Setti. Con prefazione, commento e 8 tavole fuori testo ,
Napoli : Soc. An. Ed. F. Perrella, 1924 (Citta di Castello, Tip. Della Soc. Leonardo da Vinci) , Classici latini
ad uso del ginnasio inferiore
Lingua di pubblicazione: ita
Favole : Introduzione e note di Mario Untersteiner , Varese : Istituto Ed. Cisalpino Milano-Varese, A. Nicola e
C., 1924 , I classici
Lingua di pubblicazione: ita
Le favole / commentate da Adolfo Cinquini
Edizione: Seconda edizione riveduta , Palermo : R. Sandron., 1924 , Nuova raccolta di classici latini con
noteitaliane
Lingua di pubblicazione: ita
Le favole / con note di Atto Vannucci
Edizione: Sedicesima edizione riveduta e corretta / da Ferdinando Carlesi , Bologna : Zanichelli, 1924 ,
Biblioteca dei classici latini ad uso dellescuole
Lingua di pubblicazione: ita
Le favole / con note di Salvatore Sciuto , Torino : Soc. Ed. Internazionale, 1924, P. Celanza e C. , Scrittori
latini commentati per le scuole
Lingua di pubblicazione: ita
Poeti Romani : (Fedro; Catullo, Tibullo, Properzio, Ovidio) / carmi scelti ed annotati da Carlo Pascal, ad uso
delle scuole medie inferiori classiche, tecniche e magistrali , Torino : G. B. Paravia e C., 1924 (Pavia, Succ.
Fratelli Fusi)
Lingua di pubblicazione: ita
Le favole / Fedro ; edizione curata da Carmine Di Pierro e Giunio Garavani ; con illustrazioni di G. Mainini ,
Livorno : Raffaello Giusti, stampa 1924
Lingua di pubblicazione: ita
Le favole : Saggio di traduzione e commenti [a cura di] Alessio De Genova , Avellino : Tip. C. Labruna, 1924
Lingua di pubblicazione: ita
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240
Fables / Phedre; texte etabli et traduit par Alice Brenot , Paris : Les Belles Lettres, 1924 , Collection des
universites de France
Note Generali: Testo orig. a fronte.
Le favole di Fedro : saggio di traduzione e commenti / A. De Genova , Avellino : prem. stab. tipogr. C.
Labruna, 1924
Lingua di pubblicazione: ita
Le favole di Fedro / commentate da Adolfo Cinquini
Edizione: 2. ed. riveduta , Palermo ; Roma [etc.], 1924
Lingua di pubblicazione: ita
Le favole di Fedro tradotte / Giovanni Capasso
Edizione: Ed. fuori commercio, col testo a fronte , Salerno : Coop. Il tipografo salernitano, 1923
Lingua di pubblicazione: ita
Le favole / commentate dal prof. Pietro Di Lauro
Edizione: Seconda edizione emendata , Roma : Albrighi, Segati e C., 1923 (Citta di Castello, S. Lapi) ,
Biblioteca di classici greci e latini. Serielatina
Lingua di pubblicazione: ita
Favole tradotte da Giovanni Capasso : Edizione col testo a fronte, purgata delle favole scurrili , Salerno :
Coop. Il Tipografo Salernitano, 1923
Lingua di pubblicazione: ita
Le favole / commentate da Felice Ramorino
Edizione: Quinta edizione, riveduta e corretta, Ristampa , Torino : Casa Ed. G. Chiantore Succ. E. Loescher,
1922 (Pinerolo, Tip. Gia Chiantore Mascarelli)
Lingua di pubblicazione: ita
Le favole / commentate da Felice Ramorino
Edizione: Quinta edizione, riveduta e corretta, Ristampa , Torino : Casa Ed. G. Chiantore Succ. E. Loescher,
1923, V. Bona , Collezione di classici greci e latini con noteitaliane
Lingua di pubblicazione: ita
Le favole / con note di Atto Vannucci
Edizione: Sedicesima edizione, riveduta e corretta / da Ferdinando Carlesi , Bologna : N. Zanichelli, 1923,
Comi e C. , Biblioteca dei classici latini ad uso dellescuole
Le favole : recate in italiano col testo a fronte ed annotate / da Enrico Bianchi
Edizione: Nuova tiratura , Firenze : G. C. Sansoni, 1923 (Tip. L'arte Della Stampa, Succ. Landi) , Biblioteca
per la diffusione degli studiclassici
Lingua di pubblicazione: ita
Fabulae Aesopiae / con note italiane del prof. Francesco Cantarella
Edizione: Quinta edizione, riveduta e corretta , Roma : Albrighi, Segati e C., 1922 (Citta di Castello, S. Lapi) ,
Raccolta di autori latini con note italiane
Lingua di pubblicazione: ita
Fables / Phedre ; texte etabli par Alice Brenot , Paris : Les belles lettres, 1923 , Collection des universites de
France
Pettoello, Pietro , Vocabolario per le Favole di Fedro / compilato da Pietro Pettoello , Torino : G. Chiantore,
1923
Phaedri Fabulae : ad fidem codicis neapolitani denuo excussi / edidit, praefatus est, appendice critica
instruxit D. Bassi , Aug. Taurinorum, etc. , Corpus scriptorum Latinorum Paravianum
Bassi, Domenico <1859-1943>
Phaedrus Solutus, vel Phaedri Fabulae Novae 30 : quas fabulas prosarias Phaedro vindicavit recensuit /
metrumque restituit Carolus Zander , Lund : C. W. K. Gleerup, 1921 , Skrifter utgivna av Kungl.
humanistiskavetenskapssamfundet i Lund = Acta Reg.societatis humaniorum litterarum Lundensis
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Le favole / commentate da Felice Ramorino
Edizione: Quinta edizione, riveduta e corretta, Ristampa , Torino : Casa Ed. G. Chiantore Succ. E. Loescher,
1920, V. Bona , Collezione di classici greci e latini con noteitaliane
Lingua di pubblicazione: ita
Le favole / con note di Salvatore Sciuto , Torino : Libr. Internazionale, 1920, Scuola Tip. , Scrittori latini
commentati per le scuole
Lingua di pubblicazione: ita
Le favole / con note di Salvatore Sciuto , Torino : Soc. Ed. Internazionale, 1921, Eredi Botta
Lingua di pubblicazione: ita
Fabulae Aesopiae / con note italiane del prof. Francesco Cantarella
Edizione: 4 edizione, riveduta e corretta , Milano : Soc. Ed. Dante Alighieri, di Albrighi, Segati e C., 1920
(Arpino, Soc. Tip. Arpinate)
Lingua di pubblicazione: ita
Favole di Fedro / scelte e annotate ad uso delle scuole medie inferiori per cura di Nicola Festa ; Con 20
illustrazioni
Edizione: Nuova tiratura , Firenze : G. C. Sansoni, 1920 , Nuova collezione di classici italiani con notead uso
delle scuole
Lingua di pubblicazione: ita
Primi cimenti : letture latine per il 2 corso ginnasiale : favole di Fedro, passi di Valerio Massimo, vite di
Cornelio Nipote, in ordine di difficolta, con registri di vocaboli e commento, con riepiloghi di regole ed esercizi
di versione in latino / [a cura di] I. Bassi e p. Cabrini
Edizione: Sesta ristampa, riveduta e corretta , Torino : Ditta G. B. Paravia e C., 1918 , Biblioteca di lingua
latina e greca
Lingua di pubblicazione: ita
Phaedri Fabulae / ad fidem codicis Neapolitani denuo excussi edidit, praefatus est, appendice critica instruxit
Dominicus Bassi , Aug. Taurinorum [etc.] : in aedibus Io. Bapt. Paraviae, stampa 1918 , Corpus scriptorum
Latinorum Paravianum
Lingua di pubblicazione: lat
Le favole / commentate da Felice Ramorino
Edizione: Quinta edizione, riveduta e corretta, Ristampa , Torino : Casa Ed. G. Chiantore Succ. E. Loescher,
1918, V. Bona , Collezione di classici greci e latini con noteitaliane
Lingua di pubblicazione: ita
Le favole / Fedro ; versione italiana di Anna Franchi , Milano : Istituto editoriale italiano, [1919] , Raccolta di
breviari intellettuali
Lingua di pubblicazione: ita
Fabulae / ad fidem codicis neapolitani denuo excussi edidit, praefatus est, Appendice critica instruxit
Dominicus Bassi , Augustae Taurinorum : I. B. Paravia Et S., 1918 , Corpus scriptorum Latinorum
Paravianum
Bassi, Domenico <1859-1943>
Fabulae / recensuit Dominicus Bassi
Edizione: Editio minor , Augustae Taurinorum : J. B. Paravia Et Soc., 1919 , Corpus scriptorum Latinorum
Paravianum
Favole / Fedro ; con introduzione, note e vocabolario di P. Rotta , Milano [etc] : Vallardi, [1919?] , Collezione
di classici latini
Lingua di pubblicazione: lat
Phaedri Fabulae Aesopiae ; cum Nicolai Perotti prologo et decem novis fabulis / recognovit brevique
adnotatione critica instruxit Iohannes Percival Postgate , Oxonii : e typographeo Clarendoniano, pref. 1919 ,
Scriptorum classicorum bibliotheca Oxoniensis
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Le favole di Fedro / recate in italiano ed annotate col testo a fronte da Enrico Bianchi , Firenze : Sansoni,
1916 , Biblioteca per la diffusione degli studiclassici
Lingua di pubblicazione: ita
Le favole di Fedro : traduzione in versi / Gaetano Bossi , Roma : Tipografia del Senato, 1913
Lingua di pubblicazione: ita
Favole : Cornelio, vite
Edizione: 2 edizione, con note ad uso delle scuole, ed illustrazioni storiche premesse alle singole vite / di
Luigi Francesco Guerra , Napoli : Ditta F. Casella Fu G., di G. Casella, 1916 (Arpino, Soc. Tip. Arpinate) ,
Collezione dei classici latini e greci ad usodelle scuole
Nomi: Phaedrus
Cornelius Nepos
Lingua di pubblicazione: ita
Il primo libro delle favole, tradotte in versi martelliani, seguite da alcune novellette originali di Amerigo
Veltroni Poderetti , Poggibonsi : Tip. Coltellini, 1914
Lingua di pubblicazione: ita
Le favole / commentate da Felice Ramorino
Edizione: Quarta edizione, riveduta e corretta, Ristampa , Torino : Casa Ed. E. Loescher, 1913, V. Bona ,
Collezione di classici greci e latini con noteitaliane
Lingua di pubblicazione: ita
Le favole / commentate da Felice Ramorino
Edizione: Quinta edizione, riveduta e corretta , Torino : Casa Ed. E. Loescher, 1915, V. Bona , Collezione di
classici greci e latini con noteitaliane
Lingua di pubblicazione: ita
Le favole di Fedro / commentate da Adolfo Cinquini
Edizione: 2 edizione riveduta , Milano : R. Sandron, 1914 , Nuova raccolta di classici latini con noteitaliane
Lingua di pubblicazione: ita
Le favole di Fedro / commentate da M. Fabris , Padova : Tip. Seminario, 1913
Lingua di pubblicazione: ita
Le favole : recate in italiano, col testo a fronte ed annotate / da Enrico Bianchi , Firenze : G. C. Sansoni,
1916, G. Carnesecchi e Figli , Biblioteca per la diffusione degli studiclassici
Lingua di pubblicazione: ita
Ex phaedri fabulis : La grammatica in azione, [a cura di] Giuseppe Bragi , Castelnuovo Garfagnana : Tip. A.
Rosa, 1913
Lingua di pubblicazione: ita
Fabuale Aesopiae expurgatae / scholarum in usum ad optimarum editionum fidem recensuit C. Fumagalli
Edizione: Editio quinta , Mediolani : In Aedibus Albrighi, Segati Et Soc., 1916 (Citta di Castello, S. Lapi) ,
Scriptorum Romanorum bibliotheca
Lingua di pubblicazione: lat
Fabularum Aesopiarum libri quinque / con prefazione bio-bibliografica e commento del prof. G. Chiesa
Edizione: 13 edizione , Torino : Libr. Ed. Internazionale Della S. A. I. D. Buona Stampa, 1914, Scuola Tip.
Salesiana , Selecta ex Latinis scriptoribus in usumscholarum
Lingua di pubblicazione: ita
Fabulae Aesopiae / Phaedri Augusti Liberti ; recognovit et praefatus est Lucianus Mueller , Lipsiae : in
aedibus B. G. Teubneri, 1913
Brani [di] Fedro, Cornelio, Cicerone, Eutropio / scelti ed annotati, per uso della seconda classe ginnasiale,
da Felice Ramorino
Edizione: Terza edizione, accresciuta e corretta , Napoli : Soc. F. Perrella e C., 1915, Selci
Lingua di pubblicazione: ita
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Le favole / di Fedro ; traduzione in versi [di] Gaetano Bossi , Roma : Tip. del Senato di G. Bardi, 1913
Note Generali: Nome del traduttore in testa al front.
Lingua di pubblicazione: ita
Ramorino, Felice , Fedro, Cornelio, Cicerone, Eutropio : brani scelti ed annotati per uso della seconda classe
ginnasiale / da Felice Ramorino
Edizione: 2. ed. accresciuta e corretta , Napoli : Francesco Perrella, 1912
Lingua di pubblicazione: ita
Phaedri Fabulae aesopiae / iterum recensuit J. S. Speyer , Lugduni Batavorum : apud G. F. Theonville,
(1912), 1912
Paese di pubblicazione: NL
Primi cimenti : Letture latine per il 2 Corso ginnasiale. Favole di Fedro, Passi di Valerio Massimo, vite di
Cornelio Nipote, [per cura di] I. Bassi e p. Cabrini , Torino : Ditta G. B. Paravia e C., 1911 , Biblioteca di
lingua latina e greca
Lingua di pubblicazione: ita
Phaedri Augusti liberti Fabulae Aesopiae / recognovit et praefatus est Lucianus Mueller
Edizione: Editio stereotypa , Lipsiae : in aedibus B. G. Teubneri, 1909 , Bibliotheca scriptorum Graecorum et
RomanorumTeubneriana
I due primi libri di favole esopiane : Traduzione [del] sac. Gaetano Roncato in versi italiani , Padova : Tip.
Seminario, 1912
Lingua di pubblicazione: ita
Le favole / commentate da Felice Ramorino
Edizione: Quarta edizione, riveduta e corretta, (Ristampa) , Torino : Casa Ed. E. Loescher, 1910, V. Bona ,
Collezione di classici greci e latini con noteitaliane
Le favole / commentate da Felice Ramorino
Edizione: Quarta edizione, riveduta e corretta, ristampa , Torino : Casa Ed. E. Loescher, 1911, V. Bona
Lingua di pubblicazione: ita
Le favole / commentate dal prof. Pietro Di Lauro , Citta di Castello : Casa Ed. S. Lapi, 1912 , Collezione di
classici greci e latini. Serielatina
Lingua di pubblicazione: ita
Le favole nuove / recate in versi italiani da Gaetano Bossi , Grottaferrata : Tip. Italo Orientale S. Nilo, 1912
Lingua di pubblicazione: ita
Fabularum Aesopiarum Liber 3., 4. et 5
Edizione: Editio decimaquinta , Augustae Taurinorum : Typ. Salesiana, 1910 , Selecta ex Latinis scriptoribus
in usumscholarum
Lingua di pubblicazione: lat
Fabularum aesopiarum Liber primus et secundus
Edizione: Editio vigesima prima , Augustae Taurinorum : Typ. Salesiana Ed., 1910 , Selecta ex Latinis
scriptoribus in usumscholarum
Lingua di pubblicazione: lat
Fabulae aesopiae / recognevit L. Mueller
Edizione: Editio stereotypa , Lipsiae : G. Teubner, 1909
Le favole esopiane / annotate dal dott. Adolfo Wittgens , Torino : Casa Edit. Renzo Streglio, 1905 , Raccolta
di scrittori classici con noteitaliane
Lingua di pubblicazione: ita
Le favole / di Fedro ; tradotte da Pietro Lori , Milano : Societa editrice Sonzogno, stampa 1908 , Biblioteca
universale
Lingua di pubblicazione: ita
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Le Favole / di Fedro ; novamente commentate per le scuole italiane da T. Zanghieri , Genova : La Casa
D'Aldo, 1907
Lingua di pubblicazione: ita
Le favole : Traduzione letterale in prosa del prof. Aldo Bertini , Casteggio : Tip. R. Cerri, 1907 , Biblioteca
degli studenti
Lingua di pubblicazione: ita
Fabularum Aesopiarum libri quinque / con prefazione bio-bibliografica, con commento [del prof. G. Chiesa]
Edizione: Editio septima , Augustae Taurinorum : Ex Off. Salesiana Ed., 1906 , Selecta ex Latinis
scriptoribus in usumscholarum
Lingua di pubblicazione: ita
Fabulae Aesopiae / con note italiane di Francesco Cantarella
Edizione: Seconda edizione riveduta e corretta , Roma : Societa Ed. Dante Alighieri, di Albrighi, Segati e C.,
1908 (Roma, Coop. Tip. Manuzio) , Raccolta di autori latini con note italiane
Lingua di pubblicazione: ita
Fables esopiques / Phedre , Paris : Hachette, 1906 , Les auteurs latins expliques d'apres unemethode
nouvelle par deux traductionsfrancaises ..
Cinquini, Adolfo , Index Phaedrianus / Adolphi Cinquini , Mediolani : Ulricus Hoeplius edidit, 1905
Phaedri fabularum aesopiarum : liber primus et secundus
Edizione: Editio decima quarta , Augustae Taurinorum : Officina salesiana, 1902 , Selecta ex latinis
scriptoribus : in usumscholarum
Lingua di pubblicazione: ita
Le favole / per cura di Carlo Costa. 1., (Testo) , Firenze : Succ. Le Monnier edit., 1901, Soc. tip. Fiorentina ,
Nuova collezione di autori greci e latini
Lingua di pubblicazione: ita
Le favole di Fedro / commentate da Felice Ramorino
Edizione: 4. ed. riv. e corretta, rist , Torino : Ermanno Loescher, 1903, Stab. Tip. Vincenzo Bona , Collezione
di classici greci e latini con noteitaliane
Lingua di pubblicazione: lat
Le favole / con note di Atto Vannucci
Edizione: Sedicesima edizione riveduta e corretta / dal dott. Ferdinando Carlesi , Prato : Ditta Edit.
Alberghetti, 1904 (Tip. Giachetti, Figlio e C.) , Un decennio di realizzazioni fasciste
Lingua di pubblicazione: ita
Le favole di Fedro / commentate da Adolfo Cinquini , Milano ; Palermo, 1901 , Nuova raccolta di classici
latini con noteitaliane
Lingua di pubblicazione: ita
Fabulae aesopiae expurgatae / scholarum in Usum ad optimarum editionum fidem recensuit C. Fumagalli
Edizione: Editio Quarta , Mediolani : In Aedibus Albrighi, Segati Et Soc., 1901 (Veronae, Typ. Jos. Civelli) ,
Scriptorum Romanorum bibliotheca
Fabularum Aesopiarum Liber 1. et 2. / cum notis
Edizione: Editio decima Quarta , Augustae Taurinorum : Ex Off. Typ. Salesiana, 1902 , Selecta ex Latinis
scriptoribus in usumscholarum
Fabularum Aesopiarum Liber 3., 4. et 5
Edizione: Editio decima secunda , Augustae Taurinorum : Ex Off. Typ. Salesiana, 1902 , Selecta ex Latinis
scriptoribus in usumscholarum
Fabularum Aesopiarum Liber primus et secundus
Edizione: Editio decima sexta , Augustae Taurinorum : Ex Off. Typ. Salesiana, 1902 , Selecta ex Latinis
scriptoribus in usumscholarum
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Fabularum Aesopiarum libri 3., 4. et 5
Edizione: Editio decima tertia , Augustae Taurinorum : Ex Off. Typ. Salesiana, 1903
Fabularum Aesopiarum libri quinque / con prefazione bio-bibliografica e commento del prof. G. Chiesa
Edizione: Editio tertia , Augustae Taurinorum : Ex Off. Typ. Salesiana, 1901 , Selecta ex Latinis scriptoribus
in usumscholarum
Fabularum Aesopiarum libri quinque / con prefazione bio-bibliografica e commento
Edizione: Editio quinta , Augustae Taurinorum : Ex Off. Typ. Salesiana, 1904 , Selecta ex Latinis scriptoribus
in usumscholarum
Fedro facilitato, ovvero le favole di fedro con la versione esatta di tutti I verbi e molte tra le non facili
locuzioni, con la costruzione diretta dei luoghi piu difficili e con ricco commento estetico, sintattico / [a cura
del] dott. Sebastiano Beraudi , Torino : Stamp. Reale della ditta G. B. Paravia e C. Edit, 1901
Lingua di pubblicazione: ita
Cornelius Nepos , Vite di Cornelio Nepote e favole di Fedro / scelte ed annotate per la seconda classe
ginnasiale da Domenico Vitaliani ; con un'appendice di esercizi e vocabolario
Edizione: Seconda edizione , Lonigo : Tip. G. Gaspari, 1900
Descrizione fisica: 16. p. VIIJ, 428. [[/CORNELIO NEPOTE/(E)/FEDRO./ VITE DI CORNELIO NEPOTE E
FAVOLE DI FEDRO, SCELTE ED ANNOTATE PER LA SECONDA CLASSE GINNASIALE DA /DOMENICO
VITALIANI,/CON UN'APPENDICE DI ESERCIZI E VOCABOLARIO. SECONDA EDIZIONE. LONIGO, TIP.
G. GASPARI, 1900. 16. P. VIIJ, 428. B1900 1197
Lingua di pubblicazione: ita
1: Testo / Fedro ; per cura di Carlo Costa , Firenze : Successori Le Monnier, 1901
Fa parte di: Le favole / Fedro ; per cura di Carlo Costa
Lingua di pubblicazione: lat
Phaedri Augusti Liberti Fabulae Aesopiae / recognovit et praefatus est Lucianus Mueller , Lipsiae : in
aedibus B. G. Teubneri, 1903 , Bibliotheca scriptorum Graecorum et RomanorumTeubneriana
Note Generali: Editio stereotypa
Fables Esopiques / Phedre ; edition classique ... par Louis Havet , Paris : Librairie Hachette et C., 1896
Note Generali: In fotocopia
Caesar, Gaius Iulius , Letture latine per la seconda classe ginnasiale / [a cura del] dott. Giovanni Crocioni ,
Pistoia : Tip. Flori e Biagini, 1896
Nomi: Caesar, Gaius Iulius
Cornelius Nepos
Phaedrus
Crocioni, Giovanni
Favole / con introduzione, note e vocabolario del prof. P. Rotta , Milano : Stab. Tip. Casa Edit. Dott.
Francesco Vallardi, 1898 , Collezione di classici latini annotati per lescuole
Rotta, Paolo <1873-1962>
Lingua di pubblicazione: ita
Favole scelte, ordinate e annotate, ad uso della seconda classe del Ginnasio / per cura di Niccola Festa ,
Firenze : G. C. Sansoni Edit., 1898 (Prato, Figlio e C.tti) , Nuova collezione di classici latini con notead uso
delle scuole
Lingua di pubblicazione: ita
I cinque libri delle favole / tradotti in verso sciolto da Giuseppe Bellucci , Bologna : Tip. Garagnani e Figli,
1896
Bellucci, Giuseppe <1844-1921>
Lingua di
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Letteratura latina - FDA Didattica per le materie letterarie