EDITORIALE
Scuola: uno sguardo da lontano
Giuseppe Bertagna
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icono, giustamente, che le vere élite di
un paese dovrebbero essere capaci di
vision riformatrici. Chiamando poi tutti
a riconoscerle e, soprattutto, a condividerle, quasi
per generazione spontanea tanto parlerebbero da
sole e sarebbero automotivanti. La circostanza è
vera, naturalmente, anche per la scuola o, meglio,
per le riforme che il «sistema educativo di
istruzione e formazione» del Paese è chiamato a
promuovere per aggiornarsi alle sfide dei tempi e,
se possibile, anticipare le esigenze della società
che viene.
A questo proposito, è ormai chiaro da almeno
due decenni che nessuna vision riformatrice della
scuola può essere elaborata a prescindere dalla
lungimirante presa d’atto di alcuni dati
conclamati.
Anzitutto, la globalizzazione. Non si tratta
soltanto di un fenomeno economico-finanziario,
ma anche e non meno di natura demografica e
culturale. Nessun Paese al mondo le si può
sottrarre.
In secondo luogo, la cosiddetta, abusata
«società della conoscenza» che ne dovrebbe
conseguire. Per noi, e per l’Europa, dovrebbe
essere un must, visto che lo ripetiamo quasi
compulsivamente in ogni dove da Lisbona in
avanti. L’epoca delle «conoscenze frammentate»,
delle discipline iperspecialistiche,
compartimentalizzate, separate in orari,
epistemologia e docenti va archiviata. Serve
sempre di più una conoscenza in grado di
confrontarsi con il senso globale delle
specializzazioni disciplinari e di produrre un
pensiero ecologizzante ed ologrammatico che, per
dirla alla Morin, situi «ogni evento, informazione
o conoscenza in una relazione di inseparabilità
con il suo ambiente culturale, sociale, economico,
politico e, beninteso, naturale».
In terzo luogo, la sempre più capillare
diffusione e moltiplicazione delle nuove tecnologie
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della comunicazione, dell’informazione e della
produzione, ormai diventate, pur nella loro
artificialità, quasi l’«ambiente più naturale» di
ogni vita umana, in particolare delle ultime
generazioni.
Infine, anche per non subire in maniera
disordinata i precedenti fenomeni, la necessità di
un cambio epocale di paradigma delle politiche
sociali sull’educazione: non si tratta più di
accontentarsi, com’era possibile un tempo, della
formazione eccellente di qualcuno o comunque di
pochi; occorrono, al contrario, percorsi di
insegnamento e di apprendimento che riescano a
valorizzare e a promuovere nello stesso tempo
l’eccellenza di tutti, nessuno escluso, e di
ciascuno. Il compito di una vera élite del Paese,
sarebbe, dunque, in questo contesto, nient’altro
che quello di negare la propria autoriproduzione
inerziale e corporativa, trovando le modalità
efficaci ed opportune per universalizzare le
proprie prerogative qualitative.
Proviamo adesso a dare uno sguardo alle
politiche dell’istruzione e formazione degli ultimi
vent’anni. E, soprattutto, a procedere ad una
comparazione con la situazione istituzionale,
ordinamentale, organizzativa, culturale e politicosociale dell’inizio Novecento. Molta
manutenzione, moltissimi cambiamenti anche non
esornativi, senza dubbio. Non vanno sottovalutati.
Sul piano strutturale, nei suoi nodi paradigmatici,
tuttavia, la situazione, nonostante tutto, non pare
essere cambiata di verso.
Giovanni Gentile, nel 1923, aveva, come è
noto, impostato la sua riforma della scuola su un
principio: selezionare i «migliori»; partire in 100
studenti alle scuole popolari dei futuri subordinati,
arrivare in 4 alla laurea per la classe dirigente.
L’impianto istituzionale, ordinamentale,
organizzativo, culturale e pure politico-sociale era
coerente al proposito. E aveva anche una sua
riconosciuta affidabilità qualitativa. Il paradosso è
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che la progressiva democratizzazione della scuola,
in Italia, ha significato sforzarsi di aprire sempre
più a tutti un impianto pensato a fini opposti. Con
gli effetti incomprimibili e perversi che
conosciamo: renderlo non più coerente e
tantomeno affidabile non solo al proposito per cui
era stato pensato, ma anche a quello, sebbene
astrattamente volenteroso, di natura contraria.
Sempre Gentile, con l’avocazione
dell’istruzione tecnica (ragionieri e geometri) non
solo governata ma, soprattutto e in particolare,
anche gestita dal Ministero della Pubblica
Istruzione e dallo Stato invece che da enti locali,
imprese e privati come ancora capitava, allora,
per i rimanenti rami dell’istruzione tecnica, avviò
un processo che il Fascismo avrebbe poi
completato: statalizzare tutta l’istruzione tecnica,
secondaria e superiore e centralizzarla sotto la
responsabilità del Ministero. Per la verità,
nemmeno il Fascismo pensò mai di statalizzare e
centralizzare governo e gestione dell’istruzione e
formazione professionale. Era, in effetti,
un’antinomia. Ci pensò, invece, la Repubblica a
«nobilitare» l’istruzione professionale rendendola
interamente «ministeriale» e a lasciare la
formazione professionale, ormai residuale, nelle
responsabilità dei territori e della dinamica socioprofessionale del mercato del lavoro.
Nemmeno la “Buona scuola” di Renzi tocca, al
fondo, questa impostazione. Anzi, senza più alcuna
reticenza, con la riforma costituzionale in
discussione al Senato, ritratta perfino quel poco di
novità sul tema che, grazie alla riforma del Titolo
V della Costituzione varata dal centro sinistra nel
2001 e all’attuazione di questo nuovo dettato
legislativo, disposta dalla riforma Moratti (20032005), era stato possibile introdurre ad inizio del
XXI secolo. Il sistema educativo di istruzione
statale non è più, infatti, programmaticamente, di
pari dignità educativa, culturale e sociale con
quello regionale di istruzione e formazione
professionale. Solo lo Stato può salvare dal dio
gnostico minore che ha introdotto il «male nel
mondo». Che da noi, poi, significa: solo
l’amministrazione centralizzata del Miur può
salvare, con il suo taumaturgico e divinatorio
potere battesimale. Tutto, dagli ordinamenti ai
concorsi, dagli organici alle carriere, dai piani di
studio ai profili professionali, dal reclutamento ai
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trasferimenti, dalla formazione iniziale a quella in
servizio, deve, perciò, passare dall’imbuto romano
che, ovviamente, in barba ad ogni tanto
proclamato quanto svuotato omaggio ai principi
costituzionali della sussidiarietà e dell’autonomia,
sa meglio di ogni Regione, di ogni parte sociale
(imprese e sindacati di territorio), di ogni
«autonoma» istituzione scolastica e formativa, di
ogni famiglia, di ogni docente e di ogni ragazzo
che cosa serva a loro e sia davvero bene per loro,
ieri, oggi e domani.
Ma non finisce qui. Rispetto a cento anni fa, il
sistema scolastico continua senza imbarazzi ad
ordinare (nel senso di disciplinare) le sue
«reclute» per «leva obbligatoria», secondo la
bicentenaria innovazione franco-napoleonica. Il
concetto di «leva o classe d’età», quindi, si
rifrange, per sineddoche, nell’ordinamento
didattico e amministrativo delle varie «classi I,
II…», e questo dai 2 anni e mezzo di vita («classi
primavera») fino all’età dell’università.
Ogni «classe», inoltre, continua a lavorare
come le api negli alveari: ciascuna nella propria
«celletta», senza aggregazioni sistematiche e
quotidiane che le superino, le rompano e semmai
le ricompongano per livelli differenti di
apprendimento, per compiti da svolgere, progetti
da elaborare, prodotti da realizzare o per libere
attività elettive. All’interno di ogni celletta
dell’alveare, si registra poi una specie di
moltiplicazione del paradigma separatorio, non
solo a livello di lavoro dei docenti e di
organizzazione delle discipline e delle ore di
insegnamento, ma anche a livello della stessa
concezione degli apprendimenti per cui, da un
lato, il cognitivo sembra separabile dall’affettivo,
dal manuale, dal relazionale, dall’espressivo,
dall’etico e dal religioso e, dall’altro lato, per
usare Bateson, protoapprendimento,
deuteroapprendimento e apprendimento di terzo
livello non costituiscono mai un’unità organica e
integrata, ma solo vettori successivi sul piano non
solo logico, ma anche cronologico.
Non stupisce, di conseguenza, che, nel sistema
scolastico italiano, si continui a sentir dominante,
perfino oggi, più una lingua con un registro
militare che pedagogico («decreti e circolari»,
«comandi», «disciplina», «condotta», «voti»,
«trasferimenti», «ambiti territoriali»,
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«assegnazioni provvisorie», «punizioni», «premi»,
«commissioni di disciplina», «punteggi»,
«graduatorie», «scala gerarchica», «concorsi»,
«gradi», «passaggi di grado», «permessi»,
«congedi», «solve et repete», «turni di vigilanza»,
«registri di classe» ecc.).
Possibile che, sul piano strutturale, dunque,
quasi cento anni siano passati nel sistema scuola
senza provocare o rivendicare nette discontinuità?
Possibile che, con i cambiamenti di contesto nel
frattempo intervenuti, così peraltro accelerati
negli ultimi vent’anni, nella scuola, si sia sempre
in presenza di tendenze di così lunga durata da far
coincidere ogni passo avanti con un nostalgico,
ancorché riverniciato, ritorno all’indietro?
Certo, troppi storici della scuola non aiutano a
maturare uno sguardo «da lontano». Contagiati
essi stessi, quelli di questo tipo, dalla logica che
dovrebbero contribuire a superare, hanno
inventato, quasi unici in Europa, una storia tutta
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interna al sistema scolastico stesso. Siamo così fin
troppo ricchi di storie della scuola condotte sulle
leggi relative alla scuola, sui programmi
ministeriali di insegnamento e sui loro effetti, sui
ministri, sui decreti perfino sulle commissioni di
studio del Miur. L’esterno contestuale, più o meno
epocale, è semmai costituito dalla recensione di
qualche documento di associazioni e partiti
militanti che commentano a favore o contro queste
dimensioni interne al sistema scuola.
Peccato, perché aveva ragione il compianto
Emanuele Samek Lodovici a sostenere che «solo la
storia esemplare è importante e lo è perché il suo
ricordo salva». Ma «storia esemplare», appunto.
Anche della scuola e dei suoi impianti strutturali.
Viceversa, non può che contribuire a dannare. Il
che vuol dire, nella migliore delle ipotesi, a
cambiare «padrone», ma non condizione.
Giuseppe Bertagna
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