Cosa amo, quando amo te?
Veglia “In traditione Symboli” | Omelia del card. Angelo Scola
Duomo di Milano - Sabato 31 marzo 2012
Se superiamo la tentazione della distrazione, se ci mettiamo, in questo nostro amato Duomo,
di fronte al Crocifisso, allora il brano del Vangelo, che abbiamo inteso proclamare, ci potrà sorprendere in profondo.
La scena è dominata da due protagonisti anzi, per meglio dire, da una protagonista, Maria, e
da un antagonista, Giuda. Infatti, alla logica della pura gratuità, al comportamento gratuito, cioè bello, vero, buono - perché gratuito non significa gratis, significa azione compiuta consapevolmente
per la sua bellezza, per la sua verità e per la sua bontà - e quindi alla logica di questa gratuità profonda di Maria, si contrappone la logica del calcolo, nella quale siamo immersi ogni giorno, perché
anche molti dei nostri rapporti che, a prima vista a noi sembrano gratuiti, sono di fatto rapporti di
calcolo, perché sono, come minimo, rapporti di scambio. Scambio di generosità in vista di un’ultima
utilità.
La logica del calcolo, del tornaconto, magari ammantata di nobili intenzioni, come quelle che
crudamente Giovanni denuncia a proposito di Giuda. Gli autori di questo bellissimo testo della nostra Veglia, che vi prego di tornare a meditare e a leggere, perché ci sono delle cose molto profonde
che non si possono comprendere ascoltando per una volta o leggendo di traverso mentre un lettore
proclama queste parole.
Ma dicevo, gli autori del nostro testo sono stati benevoli, hanno parlato della “incomprensione di Giuda”. Certo, alla radice c’era l’incomprensione, ma Giovanni non va per il sottile, non è politicamente corretto l’Evangelista. «Disse questo non perché gli importasse dei poveri, ma perché
era un ladro, e, siccome teneva la cassa, prendeva quello che vi mettevano dentro».
In fondo, amici, sempre la logica del calcolo è un furto, non consapevole. Che cosa ruba
all’altro? Ruba, in ultima analisi, la sua dignità, perché lo riduce a mezzo per il proprio soddisfacimento, per il proprio piacere. In ultima analisi lo riduce a strumento. Pensiamo all’esperienza normale che abbiamo dell’amore.
Siete, per lo più, universitari, giovani lavoratori e, in qualche modo, fate questa esperienza
nel rapporto tra l’uomo e la donna. Proviamo a rileggere insieme lo straordinario passaggio di
Sant’Agostino circa l’amore. Uno che aveva fatto l’esperienza negativa dell’amore possessivo, non
solo spirituale, ma anche corporeo. «Che cosa amo, quando amo te? Non una bellezza corporea (Dio
è Dio, è puro spirito). Né una grazia temporale (Dio è eterno). Non amo lo splendore della luce (Dio
è all’origine della luce, si può forse dar luce a colui che produce la luce?). non le dolci melodie delle
cantilene di ogni tono (l’amore che circola tra i Tre che sono un solo Dio - la Trinità - è la melodia
più potente e delicata che si possa dare). Non la fragranza dei fiori, dei profumi (il grande e bellissimo tema di questa sera), degli aromi. Non la manna, il miele. Non le membra cara degli amplessi
della carne (com’è realista Sant’Agostino, noi uomini post-moderni che ci vantiamo della libertà
sessuale, pensiamo di aver scoperto noi queste cose e magari accusiamo Agostino di essere il maestro della pura del sesso… è perché lo conosciamo poco). Eppure (guardate, questo è il passaggio
critico ragazzi, molto importante) amo, in un certo senso, la luce, il suono (ripete tutti i passaggi
precedenti), amo il profumo, amo il cibo, amo l’amplesso nell’amore, il mio Dio, dove si effonde un
profumo che non è disperso dal vento, dove è colto un sapore non attenuato dalla voracità (la logica
dello scambio), ove si annoda una stretta non interrotta dalla sazietà. Tutto questo amo, quando amo
il mio Dio».
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Ragazzi, capite che noi, per poter parlare un poco di Dio, grazie alla venuta di Gesù, abbiamo
bisogno di partire continuamente dalla nostra esperienza. Guardate il costrutto di questo stupendo
passaggio di Agostino per imparare come si ama la ragazza o il ragazzo. Guardatelo bene!
Giustamente parte da Dio amore eterno e spirituale e capisce che, per amare Dio, deve andare
oltre il suo modo di amare, il nostro modo umano, creaturale di amare. Però, nello steso tempo, non
abbiamo un altro linguaggio per parlare dell’amore di Dio che possa prescindere dalla nostra esperienza dell’amore. E, in effetti, riprede tutti i temi che prima sembra avere escluso: le melodie, la
fragranza dei fiori e dei profumi… tutto ritorna dentro. Da qui deriva una grande conseguenza.
Qui si capisce il gesto di Maria, sorella di Lazzaro, secondo il passaggio di Giovanni. Si capisce che nell’amore umano, nel nostro amore, dobbiamo gettare uno sguardo come quello che
Agostino ha gettato su Dio, quando finalmente, grazie al Battesimo (qui sotto, ragazzi, hanno riaperto e ritrovato i resti della fonte dove Ambrogio ha battezzato Agostino. Stiamo dicendo queste cose,
non come un’astrazione, una fantasia, ma come un dato. Qui sotto! Spero che andiate a visitarlo
qualche volta).
Nell’amore umano la luce dello sguardo di un amore potente e ordinato che il Crocifisso ci
ha insegnato. Ecco, allora, la stupenda esperienza di Maria che la voce guida ci ha illustrato. Questo
gesto delicatissimo e financo esagerato. Una bella parola hanno usato gli autori del libretto
“un’eccedenza”. L’amore è proprio l’eccedenza del gratuito, non l’eccedenza del disordine, non il
disordine degli affetti! Chi l’ha detto che gli affetti non hanno un ordine? È una grande menzogna
che ci dicono. Chi ci ha detto che l’amore non si può giudicare? È una grande menzogna che circola, questa opposizione che spacca in due il nostro “io”, tra gli affetti che andrebbero disordinati per
conto loro, intricati, in nodi indisgiungibili, e il mondo del calcolo, il mondo della ragione ridotta a
calcolo, dominato solo dalla logica delle scienze dure.
Non è così! L’io è uno, ha una sete potente di amore. Perciò lo sguardo che tu porti sulla tua
ragazza ha bisogno di un ordine affettivo in te, e in lei per te. Un ordine in cui tutta la ragionevolezza di quello stare insieme acquisti prospettiva. Abbiamo chiamato tutto questo, la volta scorsa, con
una parola sola, di cui avete paura, ma che è una grande parola, la parola “castità”. Un ordine degli
affetti. Ma, certo, siamo fragili, ecco perché abbiamo bisogno di solidi punti di appoggio per non finire nell’intrico di cui ci ha parlato Calvino descrivendo, con le sue strane fantasie com’egli fa,
l’andamento della vita dei cittadini di Ersilia, con questo finale: loro se ne vanno, una città dopo
l’altra… devono sempre andare via, perché i loro costrutti, questa trama disordinata di fili, impedisce la vita e, a un certo punto, si fermano, guardano dall’alto queste città vuote, e si sentono perduti,
loro senza casa, altro che il profumo che inondò la casa di Maria e di Marta e di Lazzaro a Betania.
E il nostro autore esce con questa affermazione potentissima: «Ragnatele di rapporti intricati
che cercano una forma». Ragazzi, noi non siamo pessimisti, noi non condanniamo questo tempo,
anzi, questo è un tempo pieno di avventura; però, se pensiamo alla modalità con cui si vivono normalmente le relazioni, soprattutto le relazioni affettive, ma anche tutte le altre che ne discendono,
non vi pare che questa affermazione si addica spesso al modo di vivere i rapporti nella nostra società?
«Ragnatele di rapporti intricati che cercano una forma». Grazia a Dio almeno la cercano.
Questo è il senso del rapporto di ogni cristiano che per Grazia, non per sua capacità, non per sua
perfezione, ma per puro dono, gratuitamente, attraverso questo Uomo che era Dio, che si è lasciato
impalare sulla croce. Per Grazia noi abbiamo avuto un’esperienza di cosa sia amare. Noi dobbiamo
realmente sciogliere questa “ragnatela intricata di rapporti”, come ci è stato detto, immettendo relazioni solide, di reale gratuito amore.
Altrimenti l’alternativa, a gradi diversi, finisce, non dico per cadere nell’estremo del tradimento di Giuda, nato da un’incomprensione, ma perseguito ostinatamente in forza di un calcolo
ideologico, voleva il Messia a sua misura. E chi di noi non ha questa tentazione ogni giorno di piegare Gesù, soprattutto il Crocifisso, perché del Crocifisso nessuno riesce a fare a meno, se ne ha almeno sentito parlare?
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Il problema è il passaggio, come ci dice Giovanni, come ci dirà in questa Settimana Santa la
Liturgia, dalla crocifissione alla esaltazione, alla gloria del Risorto vivo questa sera in mezzo a noi.
Arrivano poi le parole terribili del Faust che vorrei che voi rileggeste. Tengo solo le ultime
due righe: «Pazzo (il Faust che ha venduto l’anima a Mefistofile per raggiungere la pienezza del potere e del piacere in questa vita) chi, a quel che sta sopra, rivolge i propri occhi socchiusi e favoleggia di suoi simili sopra le nubi (favoleggia di Paradiso) se ne stia saldo e si guardi attorno su questa
terra. Che bisogno ha di scorrazzare per l’eterno? Quel che conosce bene egli può afferrare».
Ecco la grande tentazione oggi: accomodiamoci nella nostra finitudine. Che ci importa da
dove veniamo, chi siamo, dove andiamo, se durerà o non durerà il bene che ti voglio? Che ci importa! Accomodiamoci in questa finitudine e accontentiamoci delle piccole cose, dei piccoli beni: mangiar bene, tentare di campare per qualche giorno… Non sto sottovalutando la prova dolorosa in cui
siete per lo più immersi circa il vostro futuro. Avete bisogno di certezze soprattutto circa il vostro
lavoro, come è stato detto, ma attenzione: le certezze dell’azione hanno bisogno della solidità del
tuo io, hanno bisogno di certezze del cuore, di certezze della mente. Perché mente, cuore ed azione
sono profondamente uniti, hanno bisogno di uomini uniti.
Oggi c’è una tentazione di rassegnarci e il fatto che questa rassegnazione sia gaia, che si accontenti di una somma ininterrotta di piaceri, anziché cercare il godimento, perché il godimento è il
piacere che dura sempre. Il piacere come piacere finisce sempre subito, a tutti i livelli in brevissimo
tempo. Il godimento è ciò che dura, che non viene meno.
La tentazione, invece, dell’uomo post-moderno, è proprio questa qui: addio alla verità, dice
un grande filosofo che scrive su tutti i giornali, addio alla verità, accontentiamoci.
No, ragazzi! Bisogna reagire! Perché altrimenti si finisce dove dice Goethe: «E così, questo
uomo che non si preoccupa dell’eterno, che non vede il senso dell’eterno, cammini per tutta la durata del suo giorno terrestre. Troverà, nel suo avanzare, gioia e dolore. (Ecco la frase che vi prego di
non dimenticare) Lui l’inappagato di ogni momento».
Qui c’è come una trafittura di presa di coscienza. Lui, l’inappagato, cioè l’insoddisfatto in
ogni momento. Ragazzi, possiamo accettare di vivere così? No, non possiamo accettare di vivere
così! Non possiamo pensare di correre il rischio che Giuda ha corso e che affidiamo alle mani della
misericordia di Dio, perché nessun uomo può non essere tirato su dall’abbraccio del Crocifisso
sprofondato nell’oscurità della nostra miseria, lui, l’innocente.
Allora, per non essere così, adesso, con il massimo di coscienza di cui siamo capaci, distaccandosi da ciò che ci preme di più in questo momento, fosse anche qualche cosa di grande, un dolore fisico, morale, un po’ di confusione, il dubbio, il peccato… distaccandoci da ciò che ci ode dentro, per tentare di entrare nella logica di amore bellissimo che Maria ci ha documentato e che Agostino ci ha spiegato, portare l’Altro con la “A” maiuscola, nella relazione con gli altri, soprattutto
nella relazione costitutiva tra l’uomo e la donna orientata al matrimonio e alla famiglia. Nel nostro
lavoro, per voi magari così difficile, ma lo costruirete, troverete la strada, troverete i percorsi, se vi
radicate in una certezza…
Allora, distaccandoci da noi stessi, chiedendo alla Madonna l’intercessione, per qualche minuto contempliamo il Crocifisso, con fede, invocando una capacità minima di gratuità, invocando
l’eccedenza del gratuito che dà alla vita il sapore giusto e che ci rende realmente, come dice Paolo,
profumo di Cristo per tutti coloro che vengono ogni giorno al nostro incontro.
Testo non rivisto dall’Autore
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