GENERALI E SOLDATI
La strategia e le tattiche degli Stati Maggiori
E’ stato scritto che la prima Guerra Mondiale è stata l’ultima
dell’ottocento e la prima del novecento, ed è sicuramente vero se si
pensa alla mentalità ottocentesca con la quale gli Stati Maggiori degli
eserciti europei impostarono la strategia e le tattiche dei loro eserciti e
alla potenza delle armi del novecento.
Dopo la guerra del 1870 tra francesi e tedeschi, nella quale la vittoria
tedesca indusse gli Stati Maggiori degli altri paesi a modellare gli eserciti
sul modello tedesco, vi erano state varie guerre coloniali, la guerra tra
Giappone e Russia del 1904-1905 e le guerre balcaniche del 1912 e
1913. Le guerre coloniali non insegnarono nulla perché troppo disuguali
le forze e i mezzi in campo, mentre la guerra che vedeva coinvolto il
Giappone si svolse molto lontano dell’Europa, e anche se la sconfitta di
un esercito così importante come quello russo destò molta impressione,
forse non si trasse il dovuto insegnamento riguardo all’uso delle
artiglierie. La battaglia finale per la presa di Port Arthur fu una vera e
propria anticipazione delle battaglie della Grande Guerra: trincee,
reticolati, mitragliatrici, assalti in massa con uomini lanciati contro difese
quanto mai solide. Le guerre balcaniche poi coinvolsero stati di nuova
formazione, con eserciti che godevano di ben poca considerazione per
poterne trarre qualche insegnamento.
Così nel 1914 gli Stati Maggiori iniziarono la guerra con la mentalità
ancora legata a quella del 1870, e la tattica preferita, soprattutto dai
francesi e degli italiani, era quella dell’offensiva a oltranza, dello slancio
in avanti con la baionetta, con gli ufficiali in testa, spada in mano e con
le uniformi con simboli che marcavano la differenza dai soldati semplici.
Ora però ad attendere gli attaccanti vi erano batterie di cannoni sempre
più potenti, fili spinati e nidi di mitragliatrici che falciavano
inesorabilmente la fanteria avanzante. Basti pensare che quasi tutti gli
eserciti entrarono in guerra senza elmetti realmente protettivi, e i
francesi indossavano ancora la giubba blu e i pantaloni rossi, che
dovevano essere il simbolo del coraggio del soldato, ed era la stessa
divisa del 1870.
La guerra iniziò nell’agosto del 1914 e subito sul fronte occidentale gli
Stati Maggiori tedesco e francese misero in opera i loro piani strategici
di guerra di manovra. Quello tedesco, piano Schlieffen, prevedeva
l’avvolgimento dell’esercito francese penetrando dal Belgio, e quello
francese, Plan XVII, l’attacco alla Germania attraverso l’Alsazia e la
Lorena. La battaglia che fu poi chiamata “delle frontiere” vide i francesi
attaccare sconsideratamente: la supponenza, o meglio l’incapacità degli
alti e medi ufficiali francesi condusse gli uomini all’assalto in masse
compatte, con le loro divise così visibili, con gli ufficiali a cavallo.
Attaccarono anche reggimenti di cavalleria, e fu una strage: le
mitragliatrici e l’artiglieria aprivano vuoti paurosi negli attaccanti. Il 22
agosto fu una giornata terribile per i francesi, che ebbero 27.000 morti
in un solo giorno e un numero ancora più alto di feriti e dispersi. Anche
i tedeschi commisero gli stessi errori, attaccando sovente in masse
compatte, con altissime perdite.
Cartoline di propaganda italiane del 1915, quando ancora la guerra era vista
come un assalto alla baionetta, con gli ufficiali in testa a spade sguainate.
Le prime grandi battaglie misero tragicamente in chiaro la superiorità
della difesa contro gli assalti della fanteria, ma gli Stati Maggiori
continuarono a non voler capire le prime lezioni. In pochi mesi la
guerra di manovra divenne una guerra di posizione, almeno sul fronte
occidentale dove gli eserciti si fronteggiarono poi per tutto il conflitto.
Sul fronte orientale, dove agivano gli eserciti tedeschi e austriaci contro i
russi, le manovre erano possibili per l’ampiezza del territorio, e le
armate non si trovavano una di fronte all’altre come in occidente, se
non in occasione delle offensive. L’esercito russo, sebbene tecnicamente
arretrato, aveva grande disponibilità di uomini che rendevano inutili
anche le vittorie tedesche, ma i suoi alti comandi furono i più
inefficienti di tutta la guerra, che pure di comandi inefficienti ne vide
molti.
Ponte provvisorio a Saint Mihiel, villaggio occupato dai tedeschi
nel 1914 e ripreso dalle truppe americano solo nel settembre 1918
(cartolina tedesca spedita dal fronte in Germania nel gennaio 1917)
Le grandi e sanguinosissime battaglie del 1914 misero anche in luce la
scarsa capacità degli alti comandi di tutti gli schieramenti che non
riuscirono a realizzare le loro strategie, dei comandanti d’Armata, di
Corpo d’Armata e di Divisione, che si dimostrarono sovente
insufficienti e qualche volta incapaci, responsabili di errori che
portavano migliaia di morti. Misero anche in evidenza come le strutture
logistiche di tutti gli eserciti fossero nettamente insufficienti per tenere
in efficienza milioni di combattenti. I rifornimenti per le prime linee
usavano in gran parte cavalli e muli, perché i mezzi meccanici erano
ancora poco affidabili e si guastavano continuamente: sovente le truppe
combattenti non ricevevano cibo per uno o due giorni di seguito.
I due anni successivi, 1915 e 1916 videro un seguito senza fine di
offensive e controffensive da parte di tutti i contendenti che non
portarono a sostanziali cambiamenti della linea del fronte occidentale.
Continuava a crescere l’importanza dell’artiglieria, soprattutto quella
pesante dei grossi calibri, e degli aerei, non solo per osservazione, ma
anche per attacchi di mitragliamento e di bombardamento.
Il capo di Stato Maggiore francese,
generale Joseph Joffre (1852-1931)
dopo il 1914 inaugurò la tattica del
“grignoter”, cioè “rosicchiare” i
tedeschi,
convinto
che
il
logoramento continuo avrebbe
avuto ragione delle risorse
tedesche, senza rendersi conto che
il logoramento valeva anche per
l’esercito francese. Dopo la
battaglia di Verdun, dal febbraio al
dicembre 1916 da lui presentata
come “l’ultimo assalto verso
Berlino” e finita in un immane
massacro senza risultati pratici,
Joffre fu sollevato dal comando.
Joffre al centro con altri due generali
Le innovazioni portate dagli eserciti per svincolarsi dalla guerra di
trincea furono i gas e i carri armati. Per i primi, dopo saltuari usi di gas
lacrimogeni da parte francese alla fine del 1914, vi fu una vera e propria
corsa allo sviluppo di gas e liquidi letali, da spargere nell’atmosfera o
lanciare con proiettili. L’uso dei gas, che iniziò su vasta scala nell’aprile
del 1915 a Ypres, aveva anche lo scopo di terrorizzare le truppe
attaccate, ma non fu mai risolutivo, portando solo a vantaggi tattici, se
non forse proprio in Italia, dove un attacco con gas ben riuscito aprì la
porta per la rotta di Caporetto. Questa forma di guerra, da tutti
considerata una delle più orribili, era comunque troppo legata alle
condizioni atmosferiche, per essere risolutiva: qualche volta il vento
cambiava e riportava il gas sulle posizioni di partenza. Divenne invece
comune l’uso di proiettili di artiglieria con gas e altri liquidi per colpire le
fanterie e le batterie nemiche, mettendo in difficoltà gli artiglieri.
francesi, ormai tutti convinti che gli attacchi frontali in massa non
servivano altro che a provocare ingenti perdite, senza essere mai
risolutivi.
Il 1917 fu un anno difficile, i soldati erano stanchi e sempre più
insofferenti della guerra e della vita di trincea, anche a causa delle notizie
che giungevano dalla Russia e della sua rivoluzione. Vi furono
ammutinamenti anche molto estesi in Francia, che furono domati solo
con arresti di massa, processi e fucilazioni. Il successore di Joffre,
Philippe Petain (1853-1951), comprese però che oltre al pugno di ferro
erano necessari anche miglioramenti per i combattenti, periodi di riposo
più lunghi, miglior rancio, frequenti avvicendamenti alle truppe di prima
linea. Capì anche che i soldati non erano più disponibili a offensive
frontali di massa.
Carro armato canadese in Francia
Cartolina “Canadian official”
La necessità di riuscire a penetrare le difese protette da filo spinato e da
nidi di mitragliatrici che bloccavano la fanteria, portò a studiare e
realizzare mezzi corazzati: i primi carri armati inglesi entrarono in
azione il 16 settembre 1916 nella battaglia della Somme, ma erano poco
affidabili, soggetti a guasti, e riuscirono solo a terrorizzare i fanti
tedeschi che li vedevano per la prima volta, senza portare reali vantaggi.
Con il passare dei mesi, diventarono macchine più affidabili, furono
studiate tattiche di coordinamento con la fanteria, e la loro importanza
andò crescendo.
I tedeschi all’inizio del 1917 iniziarono a studiare nuove tattiche sia di
disposizione dei triceramenti sia di attacco, e lo stesso fecero poi i
Un forte di Verdun (cartolina francese)
Nel 1918, l’ultimo anno del conflitto, dopo l’uscita dalla guerra della
Russia, gli eserciti tedesco e austriaco poterono dedicarsi interamente al
fronte occidentale e italiano, ma la situazione interna era cambiata: gli
anni di guerra e il blocco navale imposto dagli alleati avevano ridotto la
Germania e l’Austria letteralmente alla fame.
Le offensive inglesi e francesi, e, in minor parte, anche quelle italiane,
erano ora condotte in modo razionale, con intensi cannoneggiamenti
sull’artiglieria avversaria con proiettili esplosivi e a gas, e gli attacchi
vedevano in prima linea carri armati seguiti dalla fanteria, mentre
dall’aria, gli aerei davano tutta la copertura possibile, difensiva e
offensiva. La difesa tedesca reggeva a fatica, ma continuava a tenere, e
anzi sia i tedeschi sia gli austriaci riuscirono a lanciare nell’estate le loro
ultime offensive, ben contenute. E poi per loro fu la fine nel mese di
novembre.
L’Austria crollò sul fronte italiano per disfacimento della struttura
politica e militare, e le operazioni cessarono il 4 novembre. Sul fronte
orientale la Turchia e la Bulgaria si erano già arrese, mentre sul fronte
occidentale i combattimenti continuarono fino al giorno 11 novembre.
La guerra era finita, l’Europa era cambiata.
Nessuno dei grandi comandanti occidentali, i francesi Joffre, Foch, e
Petain, gli inglesi French e Haig, l’americano Pershing e l’italiano
Cadorna, era riuscito a imporre le proprie strategie, ma a guerra appena
vinta, nessuno li criticò direttamente e furono anzi esaltati, solo la
storiografia successiva cominciò a ridimensionarli, mettendo in luce i
loro grandi errori militari. E lo stesso si può dire di quelli tedeschi,
austriaci e russi. Anche i generali in sottordine, i comandanti d’Armate,
di Corpo d’Armata e Divisione si rivelarono troppo spesso incapaci e di
corte vedute, in particolar modo quelli austriaci, russi e italiani. Tutti
però ebbero in comune la noncuranza per la vita dei propri soldati, che
furono troppe volte mandati al macello insensatamente.
La Grande Guerra non vide sorgere alcun Napoleone, e nemmeno un
mezzo Napoleone: lapidario, a questo proposito, è il titolo di un libro
recentemente uscito “Grande Guerra piccoli generali” (v. bibliografia)
tempo, più ottocentesco che moderno, testardo, di carattere molto
difficile che lo rese sempre temuto dai subalterni, mai amato.
Nominato capo di Stato Maggiore, intese l’Alto comando in modo
“dittatoriale” nel senso che non volle mai rendere conto delle sue azioni
nemmeno al Governo, con il quale ebbe sempre rapporti molto difficili.
In questo era molto simile al suo omologo francese, il generale Joffre.
Del resto i suoi propositi strategici erano stati ben chiariti in un libretto
rosso distribuito nel febbraio 1915 a tutti gli ufficiali, nel quale si
sosteneva la superiorità degli attacchi frontali rispetto a quelli di
avvolgimento, ignorando totalmente quanto accaduto in Francia nel
1914. Ribadiva che gli avversari si vincono con la superiorità di fuoco e
il movimento in avanti.
Lo Stato Maggiore Italiano e gli Ufficiali Superiori
In Italia, il comando supremo era affidato al Generale Luigi Cadorna
(1850-1928), nato a Pallanza da nobile famiglia piemontese, che aveva
svolto tutta la sua carriera attraverso una serie di comandi in Italia, e
l’unica guerra cui partecipò fu quella del 1870 per la presa di Roma,
come tenente d’artiglieria nel Corpo d’Armata comandato dal padre
Raffaele.
Si distinse nei suoi scritti come sostenitore dell’offensiva a oltranza, e,
nei reparti da lui comandati, per la durezza della disciplina. Su di lui e
sulla sua personalità sono stati scritti moltissimi articoli e libri, alcuni
laudatori altri denigratori. Possiamo dire solo che fu uomo del suo
Cadorna in una cartolina del 1915
Cadorna
era
il
tipico
rappresentante degli alti ufficiali
italiani che, come del resto i loro
omologhi degli eserciti alleati,
costituivano, come diremmo
oggi, una “casta”, con le proprie
regole, attraversata da rivalità
interne, ma unita nell’insofferenza
verso il potere politico.
Una casta superba, anche se
proprio non si capisce da dove
potesse arrivare questa superbia,
dato che l’esercito e la marina
dopo l’Unità avevano raccolto
solo sconfitte, a Custoza, Lissa,
Adua e anche la condotta della
campagna di Libia era stata molto
incerta, per non dire altro.
Cadorna aveva avuto tutti i mesi dall’agosto 1914 al maggio 1915 per
fare tesoro dell’esperienza delle battaglie del fronte occidentale ma,
fedele alle proprie convinzioni tattiche, iniziò subito con gli sbalzi
offensivi sull’Isonzo che portarono a sei sanguinosi attacchi durati molti
giorni (dalla I alla VI Battaglia dell’Isonzo), senza sostanziali vantaggi. In
tutte queste battaglie, gli italiani avevano una nettissima superiorità
numerica ma una cronica carenza di artiglieria, intesa sia come
mancanza di cannoni, soprattutto di grosso calibro, sia come capacità
tecnica di sostenere col fuoco l’avanzata della fanteria o di controbattere
quello nemico.
Veniva così a mancare uno dei due cardini del pensiero tattico di
Cadorna, quello della superiorità di fuoco, ma questo fatto non gli
impedì di continuare con le offensive, contando sulla superiorità
numerica dei fanti.
Dalla VII Battaglia del settembre 1916 fino alla XI nell’agosto del 1917,
iniziò le spallate contro il fronte austriaco, offensive più limitate nello
spazio, che dovevano portare a un logoramento degli avversari, la stessa
tattica di Joffre, e che produsse anche un vistoso logoramento
dell’esercito italiano.
Vale la pena lasciare la parola allo stesso Cadorna citando alcune frasi
delle sue memorie, pubblicate nel 1921, nelle quali si può rilevare una
lucida analisi delle difficoltà tecniche del nostro esercito, accompagnata
da continue accuse al Governo, contrapposta al totale silenzio sulle
difficoltà dei soldati e sull’assurdità di mandare continuamente all’assalto
uomini in condizioni di inferiorità tecnica. Parlando della III Battaglia
dell’Isonzo dell’ottobre del 1915 scrive: la nostra superiorità veramente
notevole stava nella fanteria; ma essa non poteva prevalere, sia perché le fanterie
nemiche erano ormai da più di un anno esercitate a questo genere di guerra, sia
perché nelle odierne battaglie occorrono superiorità grande di artiglieria, e largo
munizionamento, che a noi mancavano. Cadorna dimostra quindi di avere ben
chiara l’impossibilità di avere ragione delle difese avversarie, sa di non
poter prevalere, ma non ha nemmeno per un momento il dubbio di dover
sospendere azioni di attacco di questo tipo. Anzi, continua con altre
sette offensive sull’Isonzo nel 1916 e nel 1917 prima della rotta di
Caporetto. Cadorna aggiunge poi: ciò malgrado le nostre truppe si batterono
valorosamente e con slancio superiore a ogni elogio, come ne fecero fede le gravi perdite
incontrate. Le gravi perdite furono di 67.000 uomini fuori
combattimento, con più di 10.000 morti e 11.000 dispersi. Continua poi
scrivendo che l’offensiva abbia proceduto così faticosamente, senza darci risultati
territoriali rilevanti, e più avanti ancora essa ottenne in ogni modo il risultato di
logorare molto il nemico. Ecco, questa era la strategia di Cadorna: logorare il
nemico, anche a prezzo di 21.000 morti e 45.000 feriti in un mese.
L’agiografia del dopoguerra ebbe anche il coraggio di definirlo come il
vincitore di undici battaglie, mentre la XII dell’Isonzo non fu di sua
iniziativa, ma fu la rotta di Caporetto, dopo la quale fu destituito e
sostituito da Armando Diaz.
La rotta di Caporetto fu resa possibile, oltre che dalla capacità tattica di
comandi intermedi di piccoli reparti tedeschi, da una serie concomitante
di concause, il maltempo, un attacco locale con gas ben riuscito, gli
ordini fraintesi, il panico che si scatenò quando le truppe si credettero
circondate, una carenza di comando per i malintesi fra Cadorna e i
Comandanti dei Corpi d’Armata e infine la stanchezza morale delle
truppe italiane. Cadorna non aveva voluto credere fino all’ultimo alla
possibilità di un attacco in forze da parte degli austriaci, ai quali si erano
aggiunti i tedeschi, anche se le notizie portate dei disertori croati e
rumeni erano molto chiare: addirittura un disertore portò i piani di
attacco. Cadorna si era lasciato sorprendere, come era già successo
nell’estate del 1916 con la Spedizione punitiva austriaca in Trentino, per la
quale i segnali erano stati chiari: in quel caso almeno Cadorna seppe
però porvi rimedio con una accorta difesa.
Caporetto fu anche la tragica conclusione del metodo di comando di
Cadorna, che aveva tolto qualsiasi possibilità di iniziativa ai comandi
sottoposti, che attendevano sempre ordini scritti per agire: i comandi di
divisioni, reggimenti e brigate non si muovevano senza ordini precisi
dall’alto, pena la rimozione dal comando e anche la corte marziale. Al
momento dell’attacco austriaco nessuno dei subalterni ebbe mai il
coraggio, e forse nemmeno la capacità, di prendere le iniziative che la
situazione sul campo richiedeva.
I maggiori difetti di Cadorna erano comunque simili a quelli di quasi
tutti i Capi di Stato Maggiore degli eserciti europei: la testardaggine nel
mantenere le strategie iniziali anche quando si palesavano insufficienti,
l’indifferenza, per non dire il disprezzo, per le vite degli uomini, la
disciplina inflessibile come unico mezzo per motivare i soldati. A questi
Cadorna univa i suoi personali difetti, il comando inteso come assoluta
autorità sugli inferiori e la tendenza a incolpare i subalterni dei rovesci:
se un’offensiva non era andata a buona fine rimuoveva i comandanti
che incolpava di scarsa convinzione e animosità, stati d’animo che,
secondo lui, si ripercuotevano sulla truppa al loro comando. Con il
Bollettino del 28 ottobre del 1917 Cadorna scaricava la colpa di
Caporetto sui soldati: La mancata resistenza di reparti della II Armata,
vilmente ritiratisi senza combattere, ignominiosamente arresisi al nemico o dandosi
codardamente alla fuga, ha permesso alle forze austrogermaniche di rompere la nostra
ala sinistra del fronte Giulia. Il Governo ne diffuse poi una versione
lievemente corretta: "La violenza dell'attacco e la deficiente resistenza di alcuni
reparti della II Armata hanno permesso alle forze austrogermaniche di rompere la
nostra ala sinistra del fronte Giulia".
Il giorno 8 novembre il Cadorna fu
sostituito dal generale Armando Diaz
(1861-1928), nato a Napoli, dove
frequentò
fin
da
giovanissimo
l’Accademia Militare “Nunziatella”.
Partecipò da tenente colonnello alla
guerra di Libia e nel 1915 col grado di
maggiore generale, fece parte del
comando Supremo, ma nel 1916 chiese
un comando operativo e col grado di
tenente generale comandò una divisione
sul Carso e poi un Corpo d’Armata. La
sua nomina suscitò molte sorprese, ma
era una scelta del Re che vide in lui
l’uomo giusto al momento giusto.
Molto diverso da Cadorna come carattere, riuscì a stabilizzare la ritirata
sulla linea Altipiani-Monte Grappa-Piave, già scelta da Cadorna come
linea di estrema resistenza, e a ridare in parte saldezza e fiducia
all’esercito, che seppe riscattare la sconfitta di Caporetto.
Di fronte alle grandi perdite di uomini e materiali dopo Caporetto, Diaz
fu obbligato ad assumere un atteggiamento prudente e poco propenso
ad azzardate offensive, anche contro le pressanti richieste degli Alleati.
Diaz vedeva l’esercito combattere bene in difensiva, ma non si azzardò
a impiegarlo in offensive frontali come quelle di Cadorna, ed anche alla
fine di ottobre del 1918, con l’esercito austriaco in disfacimento, fu
lento a lanciare l’offensiva.
In tutto il 1917 l’esercito aveva perduto 800.000 uomini, fra caduti e
morti per malattia, sbandati, prigionieri, dispersi e ricoverati in ospedale:
nel 1918 le perdite furono di 175.000 uomini, anche grazie alla strategia
di Diaz.
Fu rafforzato il Servizio Informazioni che così cattiva prova aveva dato
nel 1916 con l’offensiva austriaca e nel 1917 a Caporetto, favorendo la
fattiva collaborazione con l’aviazione furono mandati al fronte molti
“imboscati” nei Comandi e nei Sevizi, fu intensificata la propaganda
presso le truppe, evitando l’eccesso retorico che aveva caratterizzato
fino al 1917 l’azione di sostegno alle truppe. Diaz riorganizzò il sistema
delle licenze, quello dei turni in prima linea e dei periodi nelle retrovie, e
istituì una polizza di assicurazione per tutti i soldati. Di Cadorna
mantenne però la rigida disciplina e l’atteggiamento negativo verso i
nostri prigionieri. In compenso riuscì a migliorare i rapporti con il
governo. Tutto sommato fu un esercito nuovo quello che combatté
nella seconda meta del 1918 fino alla fine della guerra.
Bibliografia
La bibliografia sulla Grande Guerra è immensa, sovente di parte e
distorta dalle ideologie.
Durante la guerra non vi furono ovviamente pubblicazioni, se non
quelle dei giornali che si avvalevano anche delle grandi firme del
giornalismo di allora: le notizie stampate erano quelle volute dallo Stato
Maggiore, non essendo i giornalisti ammessi nelle zone di operazioni, e
molti resoconti erano semplicemente inventati.
Nei primi anni del dopoguerra fu un fiorire della memorialistica, con
descrizioni dure e crude della guerra. Fu pubblicata nel 1919 la relazione
della Commissione istituita per far luce sui fatti di Caporetto, che ben
poco fece chiarezza. Uscirono alcuni libri di generali comandanti, tra cui
quello di Cadorna, che altro scopo non avevano che di giustificare le
loro azioni. La vittoria mise in ombra gli errori e le mancanze dei grandi
comandanti, non solo italiani, che finirono anzi per essere onorati come
gli artefici della vittoria.
Il fascismo poi pose fine al dibattito su Caporetto, per esaltare invece la
vittoria finale del 1918 in funzione di una ricomposizione nazionale. Le
relazioni ufficiali dell’Ufficio Storico dello Stato Maggiore furono
stampate negli anni ’30 per gli avvenimenti del 1915, 1916 e 1918, ma
quella sul 1917, che comprendente Caporetto, fu pubblicata solo nel
1954. In quegli anni gli scritti furono quasi sempre di autori militari di
carriera.
Dopo la seconda guerra mondiale, la Grande Guerra non fu
dimenticata, anzi a partire dagli anni ’60 vi fu un fiorire di pubblicazioni
che mise finalmente in luce tutti gli aspetti sociali e umani, oltre che
militari, e che ridimensionò quelli che fino ad allora erano stati
considerati i generali vincitori. Finalmente si fece anche luce sulla
grande tragedia dei prigionieri italiani, abbandonati dal governo e dalle
autorità militari. A pensarci bene, è singolare questo rifiorire di studi
sulla Prima guerra negli anni successivi alla Seconda, segno che la Prima
fu veramente la “Grande Guerra”.
Cito solo le opere ultimamente consultate per la preparazione di questo
lavoro.
Melograni Piero, Storia politica della Grande Guerra, Mondadori 1998
Pieri Piero, Storia della prima Guerra Mondiale, Einaudi 1968
Rochat Giorgio, L’Italia nella prima guerra mondiale. Problemi di
interpretazione e prospettive di ricerca, Feltrinelli, Milano 1976
Robbins Keith, La prima guerra mondiale, Mondadori Storia 1984
Tuchman Barbara, I cannoni di agosto, Ed. Garzanti 1973
L’Esercito Italiano e i comandanti
De Simone Cesare, Soldati e generali a Caporetto, Ed. Tindalo 1970
Del Boca Lorenzo, Grande Guerra, piccoli generali, Utet Torino 2008
Lumbroso Alberto, Fame usurpate, Joffre, Foch, Haig: il mito infranto dei
Generalissimi, Book System 2014 (ristampa edizione 1934, pubblicata con
il titolo “Fame usurpate, il dramma del Comando Unico Interalleato”)
Multari Massimo (Col. f. alp.), L’esercito italiano alla vigilia della battaglia di
Caporetto, www.cimeetrincee.it
Santini Rinaldo, Cadorna e Diaz, due generazioni a confronto, Rivista Militare
giugno 1989
La guerra
Cadorna Luigi, La guerra alla fronte italiana, Milano, Fratelli Treves
Editori, 1921
Fabi Lucio, La prima guerra mondiale 1915-1918 (Storia fotografica), Ed.
Riuniti 1994
Forcella E. Monticone A., Plotone d’esecuzione: i processi della prima Guerra
Mondiale, Laterza 1968
Hart Liddel Basil, La prima Guerra Mondiale, 1914-1918, Rizzoli BUR
Storia., 2001
Hart Peter, La grande storia della Prima guerra mondiale, Newton Compton
2013
Hastings Maz, Catastrofe 1914, l’Europa in guerra, Neri Pozza Ed. 2014
Isnenghi Mario, Il mito della Grande Guerra, Il Mulino 2014
Isnenghi M. – Rochat G., La Grande Guerra, Il Mulino 2014
Martin Gilbert, La grande storia della Prima Guerra Mondiale, Mondadori Le
Scie 1998
12/2015
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