2014
quindicinale di attualità e documenti
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Documenti
473 Corea, martirio e dialogo
Papa Francesco partecipa alla VI Giornata della gioventù asiatica e incontra
i pastori delle giovani Chiese dell’Asia esortandoli alla povertà e al dialogo.
484 CEI: la scuola cattolica
Una recente nota pastorale ribadisce la scuola cattolica quale risorsa della
Chiesa a servizio dei più poveri e della testimonianza dei valori evangelici.
499 Cent’anni dalla Grande guerra
In attesa della visita di Francesco al Sacrario di Redipuglia, mons. Redaelli
(Gorizia) riflette sul centenario dell’«inutile strage» in una lettera pastorale.
517 Sacro Cuore, umanesimo e stile
A un seminario di studi della Congregazione dei Sacerdoti del Sacro Cuore,
Marcello Neri presenta una relazione sullo «stile» antropologico dehoniano.
Anno LIX - N. 1172 - 1 settembre 2014 - IL REGNO - Via Scipione Dal Ferro 4 - 40138 Bologna - Tel. 051/3941511 - ISSN 0034-3498 - Il mittente chiede la restituzione
e s’impegna a pagare la tassa dovuta - Tariffa ROC: “Poste Italiane spa - Sped. in A.P. - DL 353/2003 (conv. in L. 27/02/2004 n. 46) art. 1, comma 1, DCB Bologna”
quindicinale di attualità e documenti
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ocumenti
1.9.2014 - n. 15 (1172)
Caro lettore,
riprendendo la pubblicazione
della rivista dopo la pausa
estiva le proponiamo un nuovo
numero de Il Regno - documenti,
che confidiamo saprà apprezzare
nella sua varietà e originalità:
dalle parole di Francesco ai
giovani asiatici, alle prese con
le sfide dell’inculturazione in un
continente dal variegato profilo
religioso, all’inedito incontro del
papa con un caro amico, pastore
di una Chiesa pentecostale a
Caserta; dall’attualità della
Chiesa italiana, che riflette sulla
vocazione della scuola cattolica
e sul centenario della Grande
guerra, alle sofferenze delle
Chiese nel mondo, con il grido
di dolore dei vescovi dell’Eritrea
per la tragica situazione del
paese e la grave emorragia che
lo sta privando delle sue giovani
generazioni; per finire con uno
studio teologico sull’antropologia
del Sacro Cuore e lo stile
dehoniano. Le auguriamo una
buona lettura e la invitiamo,
come sempre, a seguirci anche sul
sito www.ilregno.it e su Facebook
(rivistailregno), per comunicare
con la redazione e condividere
considerazioni e suggestioni.
R
Francesco
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In questo vasto continente…
{ Ai vescovi della Corea
e dell’Asia; Omelia nella messa
con i giovani asiatici }
Mai senza i poveri!
(Ai vescovi della Corea)
Dialogo autentico
(Ai vescovi dell’Asia)
Omelia conclusiva
(VI Giornata della gioventù
asiatica)
479
Camminare insieme
come fratelli verso Dio
{ Incontro con il pastore
Giovanni Traettino della Chiesa
pentecostale della riconciliazione }
Incontrarsi in Cristo
(Pastore Giovanni Traettino)
«Vi chiedo perdono» (Francesco)
Chiesa in Italia
484
La scuola cattolica, risorsa
e testimonianza
{ Nota pastorale della CEI }
499
Cent’anni di guerra mondiale
{ Mons. Carlo Roberto Maria
Redaelli, arcivescovo di Gorizia }
Non si ripetano gli errori
del passato (S. Numico)
Chiese nel mondo
506
«Dov’è tuo fratello?»
{ Lettera pastorale dei vescovi
cattolici dell’Eritrea }
Sui diritti umani in Eritrea
(Consiglio ecumenico
delle Chiese)
Studi e commenti
517
Sacro Cuore, umanesimo e stile
{ Marcello Neri sull’eredità
spirituale di p. Leone Dehon }
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rancesco |
corea
In questo
vasto continente...
Mai senza i poveri!
Ai vescovi della Corea e dell’Asia;
Omelia nella messa con i giovani asiatici
Numerosi come sempre gli appuntamenti che hanno contrassegnato
l’agenda dell’ultimo viaggio apostolico di papa Bergoglio nella Repubblica di Corea. L’occasione era la VI
Giornata della gioventù asiatica, intitolata: «Gioventù dell’Asia, alzati!»
(13-18.8.2014). Tra i tanti interventi,
si è segnalata l’attenzione rivolta ai
pastori delle Chiese del continente. Ai
vescovi coreani, a Seoul (14 agosto),
Francesco ha rivolto l’esortazione a
non costruire – in un contesto di prosperità – «una Chiesa ricca per i ricchi, o una Chiesa di classe media per i
benestanti», dove i poveri «hanno vergogna a entrare». Ai vescovi dell’Asia,
al Santuario di Haemi (17 agosto), ha
indicato «identità ed empatia» quali
linee guida per una Chiesa «versatile
e creativa» nel dialogo con le culture
e le tradizioni locali. Nell’omelia conclusiva della Giornata della gioventù,
al Castello di Haemi (17 agosto), ha
infine incoraggiato i giovani dell’Asia a fare tesoro della testimonianza
dei martiri della Corea (beatificati il
16 agosto), trasformando ottimismo
ed energia «in amore genuino che si
sa sacrificare». E ha detto loro: «Non
siete solo una parte del futuro (...). Voi
siete il presente della Chiesa!».
Stampa (18.8.2014) da sito web www.vatican.va.
Il Regno -
documenti
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Ai vescovi della Corea
Ringrazio il vescovo Peter U-il Kang per le sue fraterne parole di benvenuto a nome vostro. È una benedizione per me essere qui e conoscere di persona la vita
dinamica della Chiesa in Corea. A voi, come pastori,
spetta il compito di custodire il gregge del Signore. Siete
i custodi delle meraviglie che egli compie nel suo popolo.
Custodire è uno dei compiti specificamente affidati
al vescovo: prendersi cura del popolo di Dio. Oggi vorrei riflettere con voi come fratello nell’episcopato su due
aspetti centrali di tale custodia del popolo di Dio in questo paese: essere custodi della memoria e essere custodi
della speranza.
Custodi della memoria
La beatificazione di Paul Yun Ji-chung e dei suoi
compagni è un’occasione per ringraziare il Signore
che, dai semi sparsi dai martiri, ha fatto scaturire un
abbondante raccolto di grazia in questa terra. Voi siete
i discendenti dei martiri, eredi della loro eroica testimonianza di fede in Cristo.
Siete inoltre eredi di una straordinaria tradizione che
iniziò e crebbe largamente grazie alla fedeltà, alla perseveranza e al lavoro di generazioni di laici. Questi non
avevano la tentazione del clericalismo: erano laici, andavano avanti da soli! È significativo che la storia della
Chiesa in Corea abbia avuto inizio da un incontro diretto con la parola di Dio. È stata la bellezza intrinseca
e l’integrità del messaggio cristiano – il Vangelo e il suo
appello alla conversione, al rinnovamento interiore e a
una vita di carità – a impressionare Yi Byeok e i nobili
anziani della prima generazione; ed è a quel messaggio,
alla sua purezza, che la Chiesa in Corea guarda come in
uno specchio, per scoprire autenticamente se stessa.
La fecondità del Vangelo in terra coreana e la grande
eredità tramandata dai vostri antenati nella fede, oggi si
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possono riconoscere nel fiorire di parrocchie attive e di
movimenti ecclesiali, in solidi programmi di catechesi,
nell’attenzione pastorale verso i giovani e nelle scuole
cattoliche, nei seminari e nelle università. La Chiesa in
Corea è stimata per il suo ruolo nella vita spirituale e
culturale della nazione e per il suo forte impulso missionario. Da terra di missione, la Corea è diventata oggi
una terra di missionari; e la Chiesa universale continua
a trarre beneficio dai tanti sacerdoti e religiosi che avete
inviato nel mondo.
Essere custodi della memoria significa qualcosa di
più che ricordare e fare tesoro delle grazie del passato.
Significa anche trarne le risorse spirituali per affrontare
con lungimiranza e determinazione le speranze, le promesse e le sfide del futuro. Come voi stessi avete notato,
la vita e la missione della Chiesa in Corea non si misurano in definitiva in termini esteriori, quantitativi e
istituzionali; piuttosto esse devono essere giudicate nella
chiara luce del Vangelo e della sua chiamata a una conversione alla persona di Gesù Cristo.
Essere custodi della memoria significa rendersi
conto che la crescita viene da Dio (cf. 1Cor 3,6) e al
tempo stesso è il frutto di un paziente e perseverante lavoro, nel passato come nel presente. La nostra memoria
dei martiri e delle generazioni passate di cristiani deve
essere realistica, non idealizzata e non «trionfalistica».
Guardare al passato senza ascoltare la chiamata di Dio
alla conversione nel presente non ci aiuterà a proseguire
il cammino; al contrario frenerà o addirittura arresterà
il nostro progresso spirituale.
Custodi della speranza
Oltre a essere custodi della memoria, cari fratelli,
voi siete anche chiamati a essere custodi della speranza: quella speranza offerta dal Vangelo della grazia e della misericordia di Dio in Gesù Cristo, quella
speranza che ha ispirato i martiri. È questa speranza
che siamo invitati a proclamare a un mondo che, malgrado la sua prosperità materiale, cerca qualcosa di
più, qualcosa di più grande, qualcosa di autentico e
che dà pienezza.
Voi e i vostri fratelli sacerdoti offrite questa speranza
con il vostro ministero di santificazione, che non solo
conduce i fedeli alle sorgenti della grazia nella liturgia
e nei sacramenti, ma costantemente li spinge ad agire
in risposta alla chiamata di Dio a tendere alla meta (cf.
Fil 3,14). Voi custodite questa speranza mantenendo
viva la fiamma della santità, della carità fraterna e dello
zelo missionario nella comunione ecclesiale. Per questa
ragione vi chiedo di rimanere sempre vicini ai vostri
sacerdoti, incoraggiandoli nel loro lavoro quotidiano,
nella loro ricerca di santità e nella proclamazione del
Vangelo di salvezza. Vi chiedo di trasmettere loro il mio
affettuoso saluto e la mia gratitudine per il generoso servizio in favore del popolo di Dio.
Vicini ai vostri sacerdoti, mi raccomando, vicinanza,
vicinanza ai sacerdoti. Che loro possano incontrare il
vescovo. Questa vicinanza fraterna del vescovo, e anche
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paterna: ne hanno bisogno in tanti momenti della loro
vita pastorale. Non vescovi lontani o, peggio, che si allontanano dai loro preti. Con dolore lo dico. Nella mia
terra, tante volte ho sentito qualche sacerdote che mi
diceva: «Ho chiamato il vescovo, ho chiesto udienza;
sono passati tre mesi, ancora non ho risposta». Ma
senti, fratello, se un sacerdote oggi ti chiama per chiederti udienza, richiamalo subito, oggi o domani. Se tu
non hai tempo per riceverlo, diglielo: «Non posso perché ho questo, questo, questo. Ma io volevo sentirti e
sono a tua disposizione». Ma che sentano la risposta del
padre, subito. Per favore, non allontanatevi dai vostri
sacerdoti.
Se noi accettiamo la sfida di essere una Chiesa missionaria, una Chiesa costantemente in uscita verso il
mondo e in particolare verso le periferie della società
contemporanea, avremo bisogno di sviluppare quel
«gusto spirituale», che ci rende capaci di accogliere e
di identificarci con ogni membro del corpo di Cristo
(cf. Francesco, es. ap. Evangelii gaudium, n. 268;
Regno-doc. 21,2013,689s). In questo senso una particolare sollecitudine chiede di essere mostrata nelle nostre
comunità nei confronti dei bambini e dei più anziani.
Come possiamo essere custodi di speranza se trascuriamo la memoria, la saggezza e l’esperienza degli anziani e le aspirazioni dei giovani? A questo proposito
vorrei chiedervi di prendervi cura in modo speciale
dell’educazione dei giovani, sostenendo nella loro indispensabile missione non solo le università, che sono
importanti, ma anche le scuole cattoliche di ogni grado,
a partire da quelle elementari, dove le giovani menti e
i cuori vengono formati all’amore di Dio e della sua
Chiesa, al bene, al vero e al bello, a essere buoni cristiani e onesti cittadini.
La tentazione di una Chiesa
senza i poveri
Essere custodi di speranza implica anche garantire
che la testimonianza profetica della Chiesa in Corea
continui a esprimersi nella sua sollecitudine per i poveri
e nei suoi programmi di solidarietà, soprattutto per i
rifugiati e i migranti e per coloro che vivono ai margini
della società. Questa sollecitudine dovrebbe manifestarsi non solo attraverso concrete iniziative di carità
– che sono necessarie – ma anche nel costante lavoro di
promozione a livello sociale, occupazionale ed educativo. Possiamo correre il rischio di ridurre il nostro impegno con i bisognosi alla sola dimensione assistenziale,
dimenticando la necessità di ognuno di crescere come
persona – il diritto che ha di crescere come persona – e
di poter esprimere con dignità la propria personalità,
creatività e cultura.
La solidarietà con i poveri è al centro del Vangelo;
va considerata come un elemento essenziale della vita
cristiana; mediante la predicazione e la catechesi, fondate sul ricco patrimonio della dottrina sociale della
Chiesa, essa deve permeare i cuori e le menti dei fedeli
e riflettersi in ogni aspetto della vita ecclesiale. L’ideale
apostolico di una Chiesa dei poveri e per i poveri, una
Chiesa povera per i poveri, ha trovato espressione eloquente nelle prime comunità cristiane della vostra nazione. Auspico che questo ideale continui a modellare
il cammino della Chiesa in Corea nel suo pellegrinaggio verso il futuro. Sono convinto che se il volto della
Chiesa è in primo luogo il volto dell’amore, sempre più
giovani saranno attratti verso il cuore di Gesù sempre
infiammato di amore divino nella comunione del suo
mistico Corpo.
Ho detto che i poveri sono al centro del Vangelo;
sono anche all’inizio e alla fine. Gesù, nella sinagoga di
Nazareth, parla chiaro, all’inizio della sua vita apostolica. E quando parla dell’ultimo giorno e ci fa conoscere
quel «protocollo» sul quale tutti noi saremo giudicati –
Matteo 25 –, anche lì ci sono i poveri. C’è un pericolo,
c’è una tentazione che viene nei momenti di prosperità:
è il pericolo che la comunità cristiana si «socializzi»,
cioè che perda quella dimensione mistica, che perda
la capacità di celebrare il mistero e si trasformi in una
organizzazione spirituale, cristiana, con valori cristiani,
ma senza lievito profetico. Lì si è persa la funzione che
hanno i poveri nella Chiesa. Questa è una tentazione
della quale le Chiese particolari, le comunità cristiane
hanno sofferto tanto, nella storia. E questo fino al punto
di trasformarsi in una comunità di classe media, nella
quale i poveri arrivano a provare anche vergogna:
hanno vergogna di entrare. È la tentazione del benessere spirituale, del benessere pastorale.
Non è una Chiesa povera per i poveri, ma una
Chiesa ricca per i ricchi, o una Chiesa di classe media
per i benestanti. E questo non è cosa nuova: questo cominciò all’inizio. Paolo deve rimproverare i Corinzi,
nella Prima Lettera, capitolo 11, versetto 17; e l’apostolo Giacomo più forte ancora, e più esplicito, nel suo
capitolo 2, versetti da 1 a 7: deve rimproverare queste
comunità benestanti, queste Chiese benestanti per i benestanti. Non si cacciano via i poveri ma si vive in modo
tale che loro non osino entrare, non si sentano a casa
loro.
Io vi dico: state attenti!
Questa è una tentazione della prosperità. Io non vi
rimprovero, perché so che voi lavorate bene. Ma come
fratello che deve confermare nella fede i suoi fratelli, vi
dico: state attenti, perché la vostra è una Chiesa in prosperità, è una grande Chiesa missionaria, è una grande
Chiesa. Il diavolo non semini questa zizzania, questa
tentazione di togliere i poveri dalla struttura profetica
stessa della Chiesa, e vi faccia diventare una Chiesa benestante per i benestanti, una Chiesa del benessere…
non dico fino ad arrivare alla «teologia della prosperità», no, ma nella mediocrità.
Cari fratelli, una profetica testimonianza evangelica
presenta alcune sfide particolari per la Chiesa in Corea,
dal momento che essa vive e opera nel mezzo di una
società prospera ma sempre più secolarizzata e materialistica. In tali circostanze gli operatori pastorali sono
tentati di adottare non solo efficaci modelli di gestione,
programmazione e organizzazione tratti dal mondo
degli affari, ma anche uno stile di vita e una mentalità
guidati più da criteri mondani di successo e persino di
potere che dai criteri enunciati da Gesù nel Vangelo.
Guai a noi se la Croce viene svuotata del suo potere di giudicare la saggezza di questo mondo! (cf. 1Cor
1,17). Esorto voi e i vostri fratelli sacerdoti a respingere
questa tentazione in tutte le sue forme. Voglia il Cielo
che possiamo salvarci da quella mondanità spirituale
e pastorale che soffoca lo Spirito, sostituisce la conversione con la compiacenza e finisce per dissipare ogni
fervore missionario! (cf. Evangelii gaudium, nn. 93-97;
Regno-doc. 21,2013,659s).
Cari fratelli vescovi, grazie di tutto quello che voi
fate: grazie. E con queste riflessioni sulla vostra missione
come custodi della memoria e della speranza, ho voluto
incoraggiarvi nei vostri sforzi per incrementare l’unità,
la santità e lo zelo dei fedeli in Corea. La memoria e
la speranza ci ispirano e ci guidano verso il futuro. Vi
ricordo tutti nelle mie preghiere e vi esorto sempre a
confidare nella forza della grazia di Dio. Non dimenticatevi: «Il Signore è fedele». Noi non siamo fedeli, ma
lui è fedele. «Egli vi confermerà e vi custodirà dal Maligno» (2Ts 3,3).
Possano le preghiere di Maria, Madre della Chiesa,
portare a piena fioritura in questa terra i semi sparsi
dai martiri, irrorati da generazioni di fedeli cattolici e
trasmessi a voi come promessa per il futuro del paese
e del mondo. A voi e a tutti coloro che si sono affidati
alla vostra cura pastorale e alla vostra custodia, imparto
di cuore la mia benedizione, e vi chiedo, per favore, di
pregare per me. Grazie.
Seoul, 14 agosto 2014.
Francesco
Dialogo autentico
Ai vescovi dell’Asia
Desidero rivolgervi un fraterno e cordiale saluto nel
Signore, mentre siamo radunati in questo luogo santo,
nel quale numerosi cristiani hanno donato la loro vita
per la fedeltà a Cristo. Mi dicevano che ci sono i martiri senza nome, perché noi non ne conosciamo i nomi:
sono santi senza nome. Ma questo mi fa pensare a
tanti, tanti cristiani santi, nelle nostre chiese: bambini,
ragazzi, uomini, donne, vecchietti… tanti! Non conosciamo i nomi, ma sono santi.
Ci fa bene pensare a questa gente semplice che porta
avanti la sua vita cristiana, e soltanto il Signore conosce
la sua santità. La loro testimonianza di carità ha portato
grazie e benedizioni alla Chiesa in Corea e anche al
di là dei suoi confini: le loro preghiere ci aiutino a essere pastori fedeli delle anime affidate alla nostra cura.
Ringrazio il cardinale Gracias per le gentili parole di
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benvenuto e per il lavoro svolto dalla Federazione delle
Conferenze episcopali dell’Asia nel dare impulso alla
solidarietà e promuovere l’azione pastorale nelle vostre
Chiese locali.
Identità ed empatia
In questo vasto continente, nel quale abita una
grande varietà di culture, la Chiesa è chiamata a essere
versatile e creativa nella sua testimonianza al Vangelo,
mediante il dialogo e l’apertura verso tutti. Questa è la
vostra sfida! In verità, il dialogo è parte essenziale della
missione della Chiesa in Asia (cf. Giovanni Paolo II,
es. ap. postsinodale Ecclesia in Asia, n. 29; EV ). Ma
nell’intraprendere il cammino del dialogo con individui
e culture, quale dev’essere il nostro punto di partenza e
il nostro punto di riferimento fondamentale che ci guida
alla nostra meta?
Certamente esso è la nostra identità propria, la nostra identità di cristiani. Non possiamo impegnarci in
un vero dialogo se non siamo consapevoli della nostra
identità. Dal niente, dal nulla, dalla nebbia dell’autocoscienza non si può dialogare, non si può incominciare
a dialogare. E, d’altra parte, non può esserci dialogo
autentico se non siamo capaci di aprire la mente e il
cuore, con empatia e sincera accoglienza verso coloro
ai quali parliamo. È un’attenzione, e nell’attenzione ci
guida lo Spirito Santo. Un chiaro senso dell’identità
propria di ciascuno e una capacità di empatia sono pertanto il punto di partenza per ogni dialogo. Se vogliamo
comunicare in maniera libera, aperta e fruttuosa con gli
altri, dobbiamo avere ben chiaro ciò che siamo, ciò che
Dio ha fatto per noi e ciò che egli richiede da noi. E se
la nostra comunicazione non vuole essere un monologo,
dev’esserci apertura di mente e di cuore per accettare
individui e culture. Senza paura: la paura è nemica di
queste aperture.
Il compito di appropriarci della nostra identità e di
esprimerla si rivela tuttavia non sempre facile, poiché,
dal momento che siamo peccatori, saremo sempre tentati dallo spirito del mondo, che si manifesta in modi
diversi. Vorrei qui segnalarne tre.
Relativismo, superficialità, ipocrisia
Il primo di essi è l’abbaglio ingannevole del relativismo, che oscura lo splendore della verità e, scuotendo la
terra sotto i nostri piedi, ci spinge verso sabbie mobili,
le sabbie mobili della confusione e della disperazione. È
una tentazione che nel mondo di oggi colpisce anche le
comunità cristiane, portando la gente a dimenticare che
«al di là di tutto ciò che muta stanno realtà immutabili;
esse trovano il loro ultimo fondamento in Cristo, che è
sempre lo stesso: ieri, oggi e nei secoli» (Gaudium et spes,
n. 10; EV 1/1351; cf. Eb 13,8). Non parlo qui del relativismo inteso solamente come un sistema di pensiero, ma di
quel relativismo pratico quotidiano che, in maniera quasi
impercettibile, indebolisce qualsiasi identità.
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Un secondo modo attraverso il quale il mondo minaccia la solidità della nostra identità cristiana è la superficialità: la tendenza a giocherellare con le cose di moda,
gli aggeggi e le distrazioni, piuttosto che dedicarsi alle
cose che realmente contano (cf. Fil 1,10). In una cultura
che esalta l’effimero e offre numerosi luoghi di evasione
e di fuga, ciò presenta un serio problema pastorale. Per i
ministri della Chiesa, questa superficialità può anche manifestarsi nell’essere affascinati dai programmi pastorali
e dalle teorie, a scapito dell’incontro diretto e fruttuoso
con i nostri fedeli, e anche con i non-fedeli, specialmente
i giovani, che hanno invece bisogno di una solida catechesi e di una sicura guida spirituale. Senza un radicamento in Cristo, le verità per le quali viviamo finiscono
per incrinarsi, la pratica delle virtù diventa formalistica e
il dialogo viene ridotto a una forma di negoziato, o all’accordo sul disaccordo. Quell’accordo sul disaccordo…
perché le acque non si muovano… Questa superficialità
che ci fa tanto male.
C’è poi una terza tentazione, che è l’apparente sicurezza di nascondersi dietro risposte facili, frasi fatte,
leggi e regolamenti. Gesù ha lottato tanto con questa
gente che si nascondeva dietro le leggi, i regolamenti,
le risposte facili… Li ha chiamati ipocriti. La fede per
sua natura non è centrata su se stessa, la fede tende ad
«andare fuori». Cerca di farsi comprendere, fa nascere
la testimonianza, genera la missione. In questo senso, la
fede ci rende capaci di essere al tempo stesso coraggiosi e
umili nella nostra testimonianza di speranza e di amore.
San Pietro ci dice che dobbiamo essere sempre pronti
a rispondere a chiunque ci domandi ragione della speranza che è in noi (cf. 1Pt 3,15). La nostra identità di cristiani consiste in definitiva nell’impegno di adorare Dio
solo e di amarci gli uni gli altri, di essere al servizio gli
uni degli altri e di mostrare attraverso il nostro esempio
non solo in che cosa crediamo, ma anche in che cosa
speriamo e chi è colui nel quale abbiamo posto la nostra
fiducia (cf. 2Tm 1,12).
Per riassumere, è la fede viva in Cristo che costituisce
la nostra identità più profonda, cioè essere radicati nel
Signore. E se c’è questo, tutto il resto è secondario. È da
questa identità profonda, la fede viva in Cristo nella quale
siamo radicati, da questa realtà profonda che prende
avvio il nostro dialogo, ed è questa che siamo chiamati a
condividere in modo sincero, onesto, senza presunzione,
attraverso il dialogo della vita quotidiana, il dialogo della
carità e in tutte quelle occasioni più formali che possono
presentarsi. Poiché Cristo è la nostra vita (cf. Fil 1,21),
parliamo di lui e a partire da lui, senza esitazione o paura.
La semplicità della sua parola diventa evidente nella semplicità della nostra vita, nella semplicità del nostro modo
di comunicare, nella semplicità delle nostre opere di servizio e carità verso i nostri fratelli e sorelle.
Un’identità feconda
Vorrei ora fare riferimento a un ulteriore elemento
della nostra identità di cristiani: essa è feconda. Poiché
continuamente nasce e si nutre della grazia del nostro
dialogo con il Signore e degli impulsi dello Spirito, essa
porta un frutto di giustizia, bontà e pace. Permettetemi
quindi di farvi una domanda circa i frutti che l’identità
di cristiani sta portando nella vostra vita e nella vita
delle comunità affidate alla vostra cura pastorale. L’identità cristiana delle vostre Chiese particolari appare
chiaramente nei vostri programmi di catechesi e di pastorale giovanile, nel vostro servizio ai poveri e a coloro
che languiscono ai margini delle nostre ricche società
e nei vostri sforzi di alimentare le vocazioni al sacerdozio e alla vita religiosa? Appare in questa fecondità?
Questa è una domanda che faccio, e ognuno di voi può
pensarci.
Infine, assieme a un chiaro senso della nostra propria identità di cristiani, il dialogo autentico richiede
anche una capacità di empatia. Perché ci sia dialogo,
dev’esserci questa empatia. La sfida che ci si pone è
quella di non limitarci al ascoltare le parole che gli altri
pronunciano, ma di cogliere la comunicazione non
detta delle loro esperienze, delle loro speranze, delle
loro aspirazioni, delle loro difficoltà e di ciò che sta loro
più a cuore.
Tale empatia dev’essere frutto del nostro sguardo
spirituale e dell’esperienza personale, che ci porta a
vedere gli altri come fratelli e sorelle, ad «ascoltare»,
attraverso e al di là delle loro parole e azioni, ciò che i
loro cuori desiderano comunicare.
In questo senso, il dialogo richiede da noi un autentico spirito «contemplativo»: spirito contemplativo di apertura e di accoglienza dell’altro. Io non
posso dialogare se sono chiuso all’altro. Apertura? Di
più: accoglienza! Vieni a casa mia, tu, nel mio cuore.
Il mio cuore ti accoglie. Vuole ascoltarti. Questa
capacità di empatia ci rende capaci di un vero dialogo umano, nel quale parole, idee e domande scaturiscono da un’esperienza di fraternità e di umanità
condivisa. Se vogliamo andare al fondamento teologico di questo, andiamo al Padre: ci ha creato tutti.
Siamo figli dello stesso Padre. Questa capacità di
empatia conduce a un genuino incontro – dobbiamo
andare verso questa cultura dell’incontro – in cui il
cuore parla al cuore. Siamo arricchiti dalla sapienza
dell’altro e diventiamo aperti a percorrere insieme il
cammino di una più profonda conoscenza, amicizia
e solidarietà
«Ma, fratello papa, noi facciamo questo, ma forse
non convertiamo nessuno o pochi…». Intanto tu fai
questo: con la tua identità, ascolta l’altro. Qual è stato
il primo comandamento di Dio Padre al nostro padre
Abramo? «Cammina nella mia presenza e sii irreprensibile». E così, con la mia identità e con la mia empatia,
apertura, cammino con l’altro. Non cerco di portarlo
dalla mia parte, non faccio proselitismo. Papa Benedetto ci ha detto chiaramente: «La Chiesa non cresce
per proselitismo, ma per attrazione». Nel contempo,
camminiamo nella presenza del Padre, siamo irreprensibili: compiamo questo primo comandamento. E lì si
farà l’incontro, il dialogo. Con l’identità, con l’apertura. È un cammino di una più profonda conoscenza,
amicizia e solidarietà.
Dialogo e logica dell’incarnazione
Come ha osservato giustamente San Giovanni Paolo
II, il nostro impegno per il dialogo si fonda sulla logica
stessa dell’incarnazione: in Gesù, Dio stesso è diventato
uno di noi, ha condiviso la nostra esistenza e ci ha parlato
con la nostra lingua (cf. Giovanni Paolo II, Ecclesia in
Asia, n. 29; ). In tale spirito di apertura agli altri, spero
fermamente che i paesi del vostro continente con i quali
la Santa Sede non ha ancora una relazione piena non
esiteranno a promuovere un dialogo a beneficio di tutti.
Non mi riferisco soltanto al dialogo politico, ma al dialogo fraterno… «Ma questi cristiani non vengono come
conquistatori, non vengono a toglierci la nostra identità:
ci portano la loro, ma vogliono camminare con noi». E il
Signore farà la grazia: talvolta muoverà i cuori, qualcuno
chiederà il battesimo, altre volte no. Ma sempre camminiamo insieme. Questo è il nocciolo del dialogo.
Cari fratelli, vi ringrazio per la vostra accoglienza
fraterna e cordiale. Quando guardiamo al grande continente asiatico, con la sua vasta estensione di terre, le sue
antiche culture e tradizioni, siamo consapevoli che, nel
piano di Dio, le vostre comunità cristiane sono davvero
un pusillus grex, un piccolo gregge, al quale tuttavia è
stata affidata la missione di portare la luce del Vangelo
fino ai confini della terra. È proprio il seme di senape!
Piccolino… Il buon pastore, che conosce e ama ciascuna
delle sue pecore, guidi e irrobustisca i vostri sforzi nel
radunarle in unità con lui e con tutti gli altri membri del
suo gregge sparso per il mondo.
Adesso, tutti insieme, affidiamo alla Madonna le vostre Chiese, il continente asiatico, perché come Madre ci
insegni quello che soltanto una mamma sa insegnare: chi
sei, come ti chiami e come si cammina con gli altri nella
vita. Preghiamo la Madonna insieme.
Santuario di Haemi, 17 agosto 2014.
Francesco
Omelia conclusiva
VI Giornata della gioventù asiatica
Cari giovani amici,
«La gloria dei martiri brilla su di voi!». Queste parole,
che fanno parte del tema della VI Giornata asiatica della
gioventù, consolano tutti noi e ci danno forza. Giovani
dell’Asia, voi siete eredi di una grande testimonianza, di
una preziosa confessione di fede in Cristo. È lui la luce
del mondo, lui la luce della nostra vita!
I martiri della Corea, e innumerevoli altri in tutta
l’Asia, hanno consegnato i propri corpi ai persecutori;
a noi invece hanno consegnato una testimonianza perenne del fatto che la luce della verità di Cristo scaccia
ogni tenebra e l’amore di Cristo trionfa glorioso. Con
la certezza della sua vittoria sulla morte e della nostra
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partecipazione a essa, possiamo affrontare la sfida di
essere suoi discepoli oggi, nelle nostre situazioni di vita
e nel nostro tempo.
«Gioventù dell’Asia, alzati!»
Le parole su cui abbiamo appena riflettuto sono
una consolazione. L’altra parte del tema della Giornata
– «Gioventù dell’Asia, alzati!» – vi parla di un compito, di una responsabilità. Consideriamo per un momento ciascuna di queste parole. Anzitutto l’espressione
«dell’Asia». Vi siete radunati qui in Corea, da ogni parte
dell’Asia. Ciascuno di voi ha un posto e un contesto proprio nei quali siete chiamati a riflettere l’amore di Dio. Il
continente asiatico, imbevuto di ricche tradizioni filosofiche e religiose, rimane una grande frontiera per la vostra testimonianza a Cristo, «via, verità e vita» (Gv 14,6).
Quali giovani che non soltanto vivete in Asia, ma siete
figli e figlie di questo grande continente, avete il diritto
e il compito di prendere parte pienamente alla vita delle
vostre società. Non abbiate paura di portare la sapienza
della fede in ogni ambito della vita sociale!
Inoltre, quali giovani asiatici, voi vedete e amate dal
di dentro tutto ciò che è bello, nobile e vero nelle vostre culture e tradizioni. Al tempo stesso, come cristiani,
sapete anche che il Vangelo ha la forza di purificare,
elevare e perfezionare questo patrimonio. Mediante la
presenza dello Spirito Santo dato a voi nel battesimo e
sigillato nella confermazione, in unione con i vostri pastori, potete apprezzare i molti valori positivi delle diverse culture dell’Asia. Siete inoltre capaci di discernere
ciò che è incompatibile con la vostra fede cattolica, ciò
che è contrario alla vita di grazia innestata in voi col battesimo, e quali aspetti della cultura contemporanea sono
peccaminosi, corrotti e conducono alla morte.
Ritornando al tema della Giornata, riflettiamo sulla
parola «gioventù». Voi e i vostri amici siete pieni di ottimismo, di energia e di buona volontà, caratteristici di
questa stagione della vostra vita. Lasciate che Cristo
trasformi il vostro naturale ottimismo in speranza cristiana, la vostra energia in virtù morale, la vostra buona
volontà in amore genuino che si sa sacrificare! Questo è il
cammino che siete chiamati a intraprendere. Questo è il
cammino per vincere tutto ciò che minaccia la speranza,
la virtù e l’amore nella vostra vita e nella vostra cultura.
In questo modo, la vostra giovinezza sarà un dono a
Gesù e al mondo.
Siete il presente della Chiesa
Come giovani cristiani, sia che siate lavoratori, o studenti, o che abbiate già intrapreso una professione, o risposto alla chiamata al matrimonio, alla vita religiosa o
al sacerdozio, voi non siete soltanto una parte del futuro
della Chiesa: siete anche una parte necessaria e amata
del presente della Chiesa! Siete il presente della Chiesa!
Rimanete uniti gli uni agli altri, avvicinatevi sempre più
a Dio, e insieme con i vostri vescovi e sacerdoti spendete
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questi anni per edificare una Chiesa più santa, più missionaria e umile – una Chiesa più santa, più missionaria
e più umile – una Chiesa che ama e adora Dio, cercando
di servire i poveri, le persone sole, i malati e gli emarginati.
Nella vostra vita cristiana sarete molte volte tentati,
come i discepoli nel Vangelo di oggi, di allontanare lo
straniero, il bisognoso, il povero e chi ha il cuore spezzato. Sono queste persone in modo speciale che ripetono
il grido della donna del Vangelo: «Signore, aiutami!».
L’invocazione della donna cananea è il grido di ogni persona che è alla ricerca di amore, di accoglienza e di amicizia con Cristo. È il gemito di tante persone nelle nostre
città anonime, la supplica di moltissimi vostri contemporanei, e la preghiera di tutti quei martiri che ancora
oggi soffrono persecuzione e morte nel nome di Gesù:
«Signore, aiutami!».
È spesso un grido che sgorga dai nostri stessi cuori:
«Signore, aiutami!». Diamo risposta a questa invocazione, non come quelli che allontanano le persone che
chiedono, come se servire i bisognosi si contrapponesse
allo stare più vicini al Signore. No! Dobbiamo essere
come Cristo, che risponde a ogni domanda d’aiuto con
amore, misericordia e compassione.
Vi è affidata una responsabilità
Infine, la terza parte del tema di questa Giornata:
«Alzati!». Questa parola parla di una responsabilità che
il Signore vi affida. È il dovere di essere vigilanti per non
lasciare che le pressioni, le tentazioni e i nostri peccati o
quelli di altri intorpidiscano la nostra sensibilità per la
bellezza della santità, per la gioia del Vangelo.
Il Salmo responsoriale odierno ci invita continuamente a «essere lieti e a cantare con gioia». Nessuno, se
è addormentato, può cantare, danzare, rallegrarsi. Non
è bene quando vedo giovani che dormono… No! «Alzati!». Vai, vai! Vai avanti! Cari giovani, «Dio, il nostro
Dio, ci ha benedetti!» (Sal 67); da lui abbiamo «ottenuto
misericordia» (Rm 11,30). Con la certezza dell’amore di
Dio, andate per il mondo, così che «a motivo della misericordia da voi ricevuta» (v. 31), i vostri amici, i colleghi
di lavoro, i connazionali e ogni persona di questo grande
continente «anch’essi ottengano misericordia» (v. 31). È
proprio mediante questa misericordia che siamo salvati.
Cari giovani dell’Asia, vi auguro che, uniti a Cristo
e alla Chiesa, possiate camminare su questa strada che
certamente vi riempirà di gioia. E ora, mentre ci accostiamo alla mensa dell’eucaristia, rivolgiamoci a Maria
nostra Madre, che diede al mondo Gesù. Sì, madre nostra Maria, noi desideriamo ricevere Gesù; nel tuo materno affetto, aiutaci a portarlo agli altri, a servirlo con
fedeltà, e a onorarlo in ogni tempo e in ogni luogo, in
questo paese e in tutta l’Asia. Amen.
Gioventù dell’Asia, alzati!
Castello di Haemi, 17 agosto 2014.
Francesco
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ecumenismo
Camminare insieme
come fratelli
verso Dio
Incontro con il pastore Giovanni
Traettino della Chiesa pentecostale
della riconciliazione
Dopo la visita pastorale del 26 luglio, papa Francesco è tornato a Caserta il 28 luglio per incontrare in
forma privata il pastore evangelico
Giovanni Traettino, della Chiesa
pentecostale della riconciliazione,
al quale è legato da un rapporto di
amicizia nato quando Jorge Mario
Bergoglio era arcivescovo di Buenos
Aires. «È a partire da questa parola
della riconciliazione – che è Gesù
stesso, è lui la parola della riconciliazione dentro di noi –, nutrendoci
a lui, al suo spirito, alla sua sensibilità, alla sua morte, a lui stesso,
che noi possiamo essere abilitati a
essere uomini e donne di riconciliazione», ha detto il pastore Traettino
accogliendo il papa, dopo aver ricordato le incomprensioni e le violenze che hanno diviso i cristiani.
E il papa ha chiesto perdono per
il ruolo che hanno avuto i cattolici
nella persecuzione dei pentecostali,
e ha additato nell’«unità nella diversità riconciliata» il modello a cui
tendere per riavvicinarsi tra fratelli
di confessioni diverse e camminare
insieme verso Dio.
Stampa (28.7.2014) da sito web www.vatican.va. Titolazione redazionale.
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Incontrarsi in Cristo
Pastore Giovanni Traettino
È bello stare davanti al Signore, vero? (rispondono:
sì!). Non c’è posto migliore al mondo che stare alla presenza di Dio. C’è un posto ancora migliore, vivere alla
presenza di Dio! È lì che facciamo l’esperienza delle
gioie più profonde, delle gioie più vere; è lì che la nostra vita viene trasformata e che diventiamo sempre più
simili a lui.
Voglio condividere alcune considerazioni e, in particolare, carissimo papa Francesco, amato fratello mio,
la nostra gioia è grande per questa sua visita, quella
mia personale intanto, quella della mia famiglia, quella
dell’intera nostra comunità e della nostra famiglia spirituale, dei nostri ospiti e dei nostri amici. Un dono
grande e inatteso, impensabile fino a poco tempo addietro. Lo potrà leggere negli occhi dei bambini e degli
anziani, dei giovani e delle famiglie. Le vogliamo bene!
È una cosa che deve sapere: verso la sua persona, anche
tra noi evangelici, c’è tanto affetto e tanti di noi anche
ogni giorno pregano per lei: anche ogni giorno pregano
per lei. Del resto, è così facile volerle bene. Diversi di
noi credono perfino che la sua elezione a vescovo di
Roma sia stata opera dello Spirito Santo. Una benedizione soprattutto nei confronti del mondo per tutto
il cristianesimo: questo è quello che personalmente io
penso. Con questo suo gesto, del tutto inatteso e sorprendente, ha dato visibilità e concretezza a quello che
appare sempre di più come il motivo conduttore della
sua esistenza e dunque del suo ministero, perché la vita
precede sempre il ministero. Superando di un solo colpo
le complicazioni protocollari, sa andare direttamente al
cuore della vita e delle relazioni umane e in particolare
del rapporto con chi riconosce come fratello: incontrare
il fratello, incontrarlo lì dove è, incontrarlo così come è.
Nel nostro caso poi, per farci visita, si è voluto sobbarcare addirittura due giorni di fatica: le siamo particolarmente grati!
Non le è bastato affidare il suo cuore a un documento o a un messaggero… Evidentemente ha riflet-
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tuto molto sull’incarnazione di Gesù Cristo: ha voluto
toccarci, ha voluto venire di persona, ad abbracciarci
di persona. Ha mostrato un grande coraggio. Libertà
e coraggio! E ha consegnato se stesso in semplicità e
debolezza alla nostra diversità, però anche al nostro
abbraccio. Con uomini come lei, caro papa Francesco,
c’è speranza per noi cristiani. Tutti! Con un solo gesto
ha allargato la porta, ha accelerato la realizzazione del
sogno di Dio. È diventato parte della risposta alla preghiera di Gesù: «Che siano tutti uno». E lo ha fatto con
quella gloria, di cui parla Giovanni nel c. 17: con quella
gloria senza la quale non è possibile costruire l’unità.
Parlo della gloria dell’umiltà. Come ha detto qualcuno,
l’umiltà è al cuore della gloria. E aggiunge: è sufficiente
un po’ di potenza per esibirsi; ce ne vuole molta per
ritirarsi. Dio è potenza illimitata di ritrazione di sé, di
nascondimento. Anche da questo, forse soprattutto da
questo si riconoscono i discepoli di Cristo.
La verità è un incontro
La verità è un incontro: è il titolo di una delle ultime
raccolte delle sue preziose meditazioni mattutine di
Santa Marta. La verità è un incontro, ma è anche una
verità centrale per ogni cristiano, per ognuno che si sia
convertito a Cristo e abbia fatto un incontro personale
con lui. Quante volte nei suoi insegnamenti ritorna
l’invito alla conversione e all’incontro personale con
Cristo. È evidente che questa verità è al centro della
sua vita, materia viva della sua esperienza spirituale,
motivo ispiratore della sua esistenza. Per me che la osservo non potrebbe essere altrimenti. La cosa mi riempie di gioia, perché Cristo è anche la perla preziosa,
scusate è la perla preziosa di tutti i cristiani, anche di
noi evangelici. Ho visto che l’altro ieri ne ha parlato a
Caserta. Egli è il centro e il cuore della nostra vita, la
ragione stessa della nostra esistenza. Senza Gesù saremmo persi!
La nostra unica ragione di vivere e di esistere è
Gesù! Del resto è proprio la passione che portiamo alla
centralità di Cristo che ci fa, con solida e serena convinzione, evangelici. Per questo anche viviamo e sperimentiamo un modo nuovo di essere evangelici, che non
si nutre più di anticattolicesimo – come pure è stato
un tempo – ma che, riconoscendo le proprie origini
e radici nell’albero storico del cristianesimo, cattolicesimo e Riforma compresi, ha imparato a relazionarsi in
modo costruttivo e redentivo con quelli che riconosce
come suoi padri e suoi fratelli e a tirar fuori dal suo
tesoro – come lo scriba del Vangelo – cose nuove e
cose vecchie. Ha imparato – stiamo sempre più imparando – che deve comprare tutto il campo, come pure
dice Gesù in un’altra parte del Vangelo, per entrare in
possesso di tutto il tesoro. Occorre avere tutto il campo
per scoprire il tesoro. Senza rinunciare al lavoro di discernimento fatto con la parola di Dio, ma esaminando
ogni cosa e ritenendo il bene. In questo modo siamo
meno esposti al rischio di disprezzare il contributo dei
fratelli, di spegnere lo Spirito o addirittura di attribuire
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ad altre fonti quello che è invece dal Signore. Come ci
esorta Paolo, nella Lettera ai Tessalonicesi: «Non spegnete lo Spirito, non disprezzate le profezie, ma esaminate ogni cosa e ritenere il bene. Astenetevi da ogni
sorta di male».
Dunque la verità è un incontro e l’incontro con Cristo è l’incontro della vita: è quello che dà verità e fondamento a ogni altro incontro. Questa è la mia esperienza.
I miei incontri e le mie relazioni col prossimo sono profondamente segnati dal mio incontro con Gesù. Questo
è il messaggio centrale, il nucleo, il DNA del Vangelo;
questo è il cuore della predicazione evangelica; questo
è il terreno sul quale costruire ogni possibile dialogo fra
di noi e cammino di unità tra le Chiese. Com’è scritto:
«Nessuno può porre altro fondamento oltre a quello già
posto, cioè Cristo Gesù». E ancora: «Ognuno badi a
come vi costruisce sopra».
Tempo fa, padre Raniero Cantalamessa, parlando
degli evangelici, li aveva definiti «cristiani col carisma
dell’essenzialità». Una definizione che mi piace molto.
La condivido. E il card. Piovanelli, di Firenze, qualche
anno addietro, a chi gli chiedeva una previsione per il
terzo millennio, preconizzava: «Sarà un’epoca in cui si
ritornerà ai principi fondamentali del cristianesimo».
Credo anche io questa cosa. È necessario, è indispensabile che torniamo ai principi fondamentali. Il card.
Kasper, invece, che so essere suo amico, ha parlato
di «un ecumenismo fondamentale e di un ecumenismo spirituale»: anche qui siamo in linea. Egli dice:
«I cristiani non sono uniti tra loro, ma anzitutto sono
tutt’uno in Cristo. E solo quell’unione o comunione
con Cristo rende possibile la vera comunione tra gli
uomini in lui. Il centro dell’unità è il Signore. E la forza
che opera e ordina questa unità è lo Spirito Santo».
Forse è proprio da questa comprensione che il cristianesimo deve ripartire. Questo è il perimetro fondamentale della nostra comunione ed è qui che credo di poter
dire che sta il contributo maggiore – anche storico e
teologico – della profezia della Riforma prima e poi
del mondo evangelico dopo. Credo che questa sia la
profezia fondamentale a beneficio di tutto il Corpo di
Cristo e della Chiesa. Se ha un qualche senso la storia
nel cristianesimo…
Stringersi intorno a Cristo
L’apostolo Paolo dice: «Poiché nessuno può porre
altro fondamento oltre a quello già posto – cioè Cristo
Gesù». Dunque Cristo; mettere a fondamento Cristo;
edificare sopra Cristo; stringersi intorno a Cristo; crescere verso Cristo. Lui è il fondamento della vita del
credente. La conversione a Cristo; la relazione personale con Cristo; l’imitazione di Cristo, che non è possibile senza la presenza della vita di Cristo. Dalla vita
di Cristo riceviamo la forza per l’imitazione di Cristo,
per diventare santi. La formazione di Cristo è resa possibile dalla vita di Cristo in noi. Egli è il fondamento
sul quale cresciamo: nasciamo di nuovo, ma poi cresciamo. E questo è il fondamento sul quale va costruita
FRANCESCO STRAZZARI
l’esistenza della Chiesa, ancora Cristo: l’incarnazione
di Cristo, come proprio metodo, come stile di vita; l’identificazione con il povero, con il bisognoso, con chi
è in difficoltà; la vita di Cristo, lo stile col quale lui ha
vissuto. E tanto spesso il cristianesimo del nostro tempo
ha bisogno di ravvedimento e di revisione di vita, perché vengono proposti modelli che sono lontanissimi dal
Vangelo. La vita di Cristo, la morte di Cristo: anche
noi, per poter vivere di Cristo, dobbiamo morire a noi
stessi, perché la vita dello Spirito possa esistere in noi
e quindi la risurrezione, l’ascensione, col coronamento
della discesa dello Spirito Santo, che ci è indispensabile
per poter vivere la vita cristiana.
Credo che anche nello sviluppo degli spazi di comunione tra le diverse comunità, di nuovo parliamo di
Cristo, del ritorno all’essenziale del Vangelo e lì scopriamo che questo spazio è ancora Cristo, l’annuncio
di Cristo – il «kerygma», l’insegnamento di Cristo – la
«didaché» – la formazione di Cristo in noi. Come lei
cito una bellissima e antica preghiera, che immagino lei
reciti ogni giorno: «In Cristo, con Cristo, per Cristo, a
te Dio Padre onnipotente, nell’unità dello Spirito Santo,
ogni onore e gloria nei secoli dei secoli». Questo credo
che faccia una buona sintesi di quello che è il pensiero
che voglio sottolineare.
Un’ultima parola. Siamo, viviamo tra il «già» e il
«non ancora» – come ha detto qualcuno – e la nostra
esperienza è un’esperienza di sofferenza, di dolore, di
fatica nell’avanzare nel dialogo tra cristiani, nello sperimentare la comunione. C’è il piano della fede: «Vi
è un corpo solo», di cui ha parlato ieri il caro Jorge
Himitian; «che siano uno», siamo sul piano della fede;
«il Tabernacolo di Dio tra gli uomini», di cui parla
Apocalisse 21. Questo è il piano della fede, ma poi c’è
il piano della storia. Il piano della storia è quello della
nostra esperienza, dove facciamo l’esperienza della vergogna della divisione, delle guerre tra i cristiani, delle
ostilità, delle persecuzioni, perfino in Italia: purtroppo
per tantissimi anni abbiamo fatto esperienza di persecuzioni, i pentecostali in modo particolare, negli anni
dal 1935 al ’55 con la famigerata Circolare Buffarini
Guidi… In mezzo c’è il tempo della riconciliazione, il
tempo dell’etica se volete; il tempo dell’amore, il tempo
della responsabilità, che deve essere riempito da uomini
e donne di riconciliazione. Lei, con la sua visita qui, ha
dimostrato che prende sul serio la riconciliazione, che
lei è un uomo di riconciliazione, io direi un profeta di
riconciliazione.
Dio ci ha riconciliati con sé – dice l’apostolo Paolo
(Seconda lettera ai Corinzi) – per mezzo di Cristo e ci
ha affidato il ministero della riconciliazione. La nostra
famiglia spirituale ha scelto questo tema per la propria
esistenza: Chiesa della riconciliazione. Ma egli ha affidato a tutti i cristiani il ministero della riconciliazione, a
partire dall’esperienza che essi hanno fatto dentro questo ministero. Egli ha seminato, ha impiantato dentro
di noi – dice l’apostolo Paolo – la parola della riconciliazione (cf. 2Cor 5,19). È a partire da questa parola
della riconciliazione – che è Gesù stesso, è lui la parola
della riconciliazione dentro di noi –, nutrendoci a lui,
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Pentecoste
nella terra
di Maometto
Vivere da cristiani nei Paesi del Golfo arabo
PREFAZIONE DI GEORGE EMIL IRANI
POSTFAZIONE DEL VICARIO APOSTOLICO DI ARABIA DEL NORD
CAMILLO BALLIN
N
el contesto di fermenti e trasformazioni che ha
dato vita alla «primavera araba», che ruolo svolgono e di che spazio dispongono i cristiani che vivono
nel Kuwait e negli Emirati Arabi, in Bahrein e in Qatar,
in Oman, nello Yemen e nell’Arabia Saudita? Il libro,
ricco di dati e di testimonianze, ripercorre le tappe
storiche della presenza cristiana in quei Paesi e si interroga sul futuro del Vangelo nella terra di Maometto.
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al suo spirito, alla sua sensibilità, alla sua morte, a lui
stesso, che noi possiamo essere abilitati a essere uomini
e donne di riconciliazione. Che significa, a volte, fare il
cammino del Calvario; significa, a volte, passare attraverso la croce; significa il fraintendimento, il frainteso;
significa l’incomprensione, perché ci sono tanti cristiani
che sono talmente identitari che non riescono a fare
spazio all’amore, non riescono a vivere l’amore. E noi
vogliamo uscire da questa prigionia, vogliamo essere
uomini e donne di riconciliazione.
Mi piace concludere queste riflessioni con un pensiero di Francesco d’Assisi, che sono sicuro che lei
ama molto, evidentemente, poiché ha scelto il nome
di Francesco. Ma voglio dirle che anche gli evangelici
amano molto Francesco, anche dal punto di vista storico. Se penso ai valdesi, per esempio: che hanno una
sensibilità profondamente – diremmo – francescana.
Avevano lo stesso tipo di taglio, di sensibilità, di spiritualità e noi siamo legati a quella storia, noi siamo
legati a quella sensibilità... Alcune moderne sensibilità
non ci piacciono nel vissuto del cristiano. Francesco
dice: «Cominciate a fare il necessario, poi fate ciò che
è possibile e all’improvviso vi scoprirete a fare l’impossibile». Questa sembrava una cosa impossibile! Dio la
benedica!
Adesso introduciamo papa Francesco, che vorrà
condividerci alcuni pensieri, quello che ha nel cuore….
Non c’è niente di organizzato. È un incontro «pentecostale», quindi facciamo appello allo Spirito Santo,
perché guidi il papa Francesco. Prego.
Giovanni Traettino
«Vi chiedo perdono»
Francesco
Buongiorno, fratelli e sorelle.
Mio fratello il pastore Giovanni ha incominciato
parlando del centro della nostra vita: stare alla presenza
di Gesù. E poi ha detto «camminare» alla presenza di
Gesù. E questo è stato il primo comandamento che Dio
ha dato al suo popolo, al nostro padre Abramo: «Va’,
cammina alla mia presenza e sii irreprensibile». E poi
il popolo ha camminato: alcune volte alla presenza del
Signore, tante volte non alla presenza del Signore. Ha
scelto gli idoli, gli dei… Ma il Signore ha pazienza. Ha
pazienza con il popolo che cammina. Io non capisco un
cristiano fermo! Un cristiano che non cammina, io non
lo capisco! Il cristiano deve camminare! Ci sono cristiani
che camminano, ma non alla presenza di Gesù: bisogna
pregare per questi fratelli. Anche per noi, quando in
certi momenti camminiamo non alla presenza di Gesù,
perché anche noi siamo tutti peccatori, tutti! Se qualcuno non è peccatore, alzi la mano… Camminare alla
presenza di Gesù.
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Cristiani fermi: questo fa male, perché ciò che è
fermo, che non cammina, si corrompe. Come l’acqua
ferma, che è la prima acqua a corrompersi, l’acqua che
non scorre… Ci sono cristiani che confondono il camminare col «girare». Non sono «camminanti», sono erranti e girano qua e là nella vita. Sono nel labirinto, e lì
vagano, vagano... Manca loro la parresia, l’audacia di
andare avanti; manca loro la speranza. I cristiani senza
speranza girano nella vita; non sono capaci di andare
avanti. Siamo sicuri soltanto quando camminiamo alla
presenza del Signore Gesù. Lui ci illumina, lui ci dà il
suo Spirito per camminare bene.
Penso al nipote di Abramo, Giacobbe. Era tranquillo, là, con i suoi figli; ma a un certo punto è arrivata la carestia e ha detto ai suoi figli, ai suoi 11 figli,
10 dei quali erano colpevoli di tradimento, di aver
venduto il fratello: «Andate in Egitto, camminate fin
là a comprare cibo, perché noi abbiamo soldi, ma non
abbiamo cibo. Portate i soldi e compratene là, dove
dicono che ce n’è». E questi si sono messi in cammino:
invece di trovare cibo, hanno trovato un fratello! E
questo è bellissimo!
Quando si cammina alla presenza di Dio, si dà questa fratellanza. Quando invece ci fermiamo, ci guardiamo troppo l’uno all’altro, si dà un altro cammino…
brutto, brutto! Il cammino delle chiacchiere. E si incomincia: «Ma tu, non sai?»; «No, no, io non so di te. Io
so di qua, di là…»; «Io sono di Paolo»; «Io di Apollo»;
«Io di Pietro»… E così incominciano, così dal primo
momento è incominciata la divisione nella Chiesa. E
non è lo Spirito Santo che fa la divisione! Fa una cosa
che le assomiglia abbastanza, ma non la divisione. Non
è il Signore Gesù che fa la divisione! Chi fa la divisione
è proprio l’Invidioso, il re dell’invidia, il padre dell’invidia: quel seminatore di zizzania, Satana. Costui si
immischia nelle comunità e fa le divisioni, sempre! Dal
primo momento, dal primo momento del cristianesimo,
nella comunità cristiana c’è stata questa tentazione. «Io
sono di questo»; «Io sono di quello»; «No! Io sono la
Chiesa, tu sei la setta»… E così quello che ci guadagna
è lui, il padre della divisione. Non il Signore Gesù, che
ha pregato per l’unità (cf. Gv 17), ha pregato!
Unità nella diversità riconciliata
Cosa fa lo Spirito Santo? Ho detto che fa un’altra
cosa, che forse si può pensare che sia divisione, ma non
lo è. Lo Spirito Santo fa la «diversità» nella Chiesa. La
Prima lettera ai Corinzi, c. 12. Lui fa la diversità! E
davvero questa diversità è tanto ricca, tanto bella. Ma
poi, lo stesso Spirito Santo fa l’unità, e così la Chiesa
è una nella diversità. E, per usare una parola bella di
un evangelico che io amo tanto, una «diversità riconciliata» dallo Spirito Santo. Lui fa entrambe le cose: fa la
diversità dei carismi e poi fa l’armonia dei carismi. Per
questo i primi teologi della Chiesa, i primi padri – parlo
del secolo III o IV – dicevano: «Lo Spirito Santo, lui è
l’armonia», perché lui fa questa unità armonica nella
diversità.
Noi siamo nell’epoca della globalizzazione, e pensiamo a cos’è la globalizzazione e a cosa sarebbe l’unità nella Chiesa: forse una sfera, dove tutti i punti
sono equidistanti dal centro, tutti uguali? No! Questa è
uniformità. E lo Spirito Santo non fa uniformità! Che
figura possiamo trovare? Pensiamo al poliedro: il poliedro è un’unità, ma con tutte le parti diverse; ognuna
ha la sua peculiarità, il suo carisma. Questa è l’unità
nella diversità. È in questa strada che noi cristiani facciamo ciò che chiamiamo col nome teologico di ecumenismo: cerchiamo di far sì che questa diversità sia
più armonizzata dallo Spirito Santo e diventi unità;
cerchiamo di camminare alla presenza di Dio per essere irreprensibili; cerchiamo di andare a trovare il nutrimento di cui abbiamo bisogno per trovare il fratello.
Questo è il nostro cammino, questa è la nostra bellezza
cristiana! Mi riferisco a quello che il mio amato fratello
ha detto all’inizio.
Poi ha parlato di un’altra cosa, dell’incarnazione
del Signore. L’apostolo Giovanni è chiaro: «Colui che
dice che il Verbo non è venuto nella carne, non è da
Dio! È dal diavolo» (cf. 1Gv 4,2-3). Non è nostro, è
nemico! Perché c’era la prima eresia – diciamo la parola fra di noi – ed è stata questa, che l’apostolo condanna: che il Verbo non sia venuto nella carne. No!
L’incarnazione di Verbo è alla base: è Gesù Cristo!
Dio e uomo, Figlio di Dio e Figlio dell’uomo, vero Dio
e vero uomo. E così lo hanno capito i primi cristiani
e hanno dovuto lottare tanto, tanto, tanto per mantenere queste verità: il Signore è Dio e uomo; il Signore
Gesù è Dio fatto carne. È il mistero della carne di
Cristo: non si capisce l’amore per il prossimo, non si
capisce l’amore per il fratello, se non si capisce questo mistero dell’incarnazione. Io amo il fratello perché
anche lui è Cristo, è come Cristo, è la carne di Cristo.
Io amo il povero, la vedova, lo schiavo, quello che è
in carcere… Pensiamo al «protocollo» sul quale noi
saremo giudicati: Matteo 25. Amo tutti costoro, perché queste persone che soffrono sono la carne di Cristo, e a noi che siamo su questa strada dell’unità farà
bene toccare la carne di Cristo. Andare alle periferie,
proprio dove ci sono tanti bisogni, o – diciamolo meglio – ci sono tanti bisognosi, tanti bisognosi… Anche
bisognosi di Dio, che hanno fame – ma non di pane,
ne hanno tanto di pane – di Dio! E andare là, per dire
questa verità: Gesù Cristo è il Signore e lui ti salva.
Ma sempre andare a toccare la carne di Cristo! Non
si può predicare un Vangelo puramente intellettuale:
il Vangelo è verità ma è anche amore ed è anche bellezza! E questa è la gioia del Vangelo! Questa è proprio la gioia del Vangelo.
La grazia di riconoscere e di perdonare
In questo cammino abbiamo fatto tante volte la
stessa cosa dei fratelli di Giuseppe, quando la gelosia
e l’invidia ci hanno diviso. Loro sono arrivati prima a
voler uccidere il fratello – Ruben è riuscito a salvarlo – e
poi a venderlo. Anche il fratello Giovanni ha parlato di
quella storia triste. Quella storia triste in cui il Vangelo
per alcuni era vissuto come una verità e non si accorgevano che dietro questo atteggiamento c’erano cose
brutte, cose non del Signore, una brutta tentazione di
divisione. Quella storia triste, in cui pure si faceva la
stessa cosa dei fratelli di Giuseppe: la denuncia, le leggi
di questa gente: «Va contro la purezza della razza…».
E queste leggi sono state sancite da battezzati! Alcuni
di quelli che hanno fatto questa legge e alcuni di quelli
che hanno perseguitato, denunciato i fratelli pentecostali perché erano «entusiasti», quasi «pazzi», che rovinavano la razza, alcuni erano cattolici… Io sono il
pastore dei cattolici: io vi chiedo perdono per questo!
Io vi chiedo perdono per quei fratelli e sorelle cattolici
che non hanno capito e che sono stati tentati dal diavolo e hanno fatto la stessa cosa dei fratelli di Giuseppe.
Chiedo al Signore che ci dia la grazia di riconoscere e
di perdonare… Grazie!
Poi il fratello Giovanni ha detto una cosa che condivido totalmente: la verità è un incontro, un incontro tra persone. La verità non si fa in laboratorio, si fa
nella vita, cercando Gesù per trovarlo. Ma il mistero
più bello, più grande è che quando noi troviamo Gesù,
ci accorgiamo che lui ci cercava da prima, che lui ci ha
trovato da prima, perché lui arriva prima di noi! A me,
in spagnolo, piace dire che il Signore ci primerea. È una
parola spagnola: ci precede, e sempre ci aspetta. Lui è
prima di noi. E credo che Isaia o Geremia – ho un dubbio – dice che il Signore è come il fiore del mandorlo,
che è il primo che fiorisce nella primavera. E il Signore
ci aspetta! È Geremia? Sì! È il primo che fiorisce in
primavera, è sempre il primo.
Questo incontro è bello. Questo incontro ci riempie
di gioia, di entusiasmo. Pensiamo a quell’incontro dei
primi discepoli, Andrea e Giovanni. Quando il Battista
diceva: «Ecco l’agnello di Dio, che toglie i peccati dal
mondo». E loro seguono Gesù, rimangono con lui tutto
il pomeriggio. Poi, quando escono, quando tornano a
casa, dicono: «Abbiamo sentito un rabbino»?… No!
«Abbiamo trovato il Messia!». Erano entusiasti. Alcuni
ridevano… Pensiamo a quella frase: «Da Nazaret può
venire qualcosa di buono?». Non credevano. Ma loro
avevano incontrato! Quell’incontro che trasforma; da
quell’incontro viene tutto. Questo è il cammino della
santità cristiana: ogni giorno cercare Gesù per incontrarlo e ogni giorno lasciarsi cercare da Gesù e lasciarsi
incontrare da Gesù.
Noi siamo in questo cammino dell’unità, tra fratelli. Qualcuno sarà stupito: «Ma, il papa è andato
dagli evangelici». È andato a trovare i fratelli! Sì! Perché – e questo che dirò è verità – sono loro che sono
venuti prima a trovare me a Buenos Aires. E qui c’è
un testimone: Jorge Himitian può raccontare la storia
di quando sono venuti, si sono avvicinati… E così è
cominciata questa amicizia, questa vicinanza fra i pastori di Buenos Aires, e oggi qui. Vi ringrazio tanto.
Vi chiedo di pregare per me, ne ho bisogno… perché
almeno non sia tanto cattivo. Grazie!
Francesco
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hiesa in Italia |
conferenza episcopale
La scuola cattolica,
risorsa
e testimonianza
P
Nota pastorale della CEI
sulla scuola cattolica
resentazione
La scuola cattolica risorsa educativa
della Chiesa locale per la società è il
titolo della Nota pastorale della Commissione episcopale per l’educazione
cattolica, la scuola e l’università pubblicata il 30 luglio. Doverosa nel corso
del decennio che la Chiesa italiana ha
dedicato all’educazione, importante
per ribadire il ruolo centrale della
scuola cattolica quale risorsa della
Chiesa locale, fondamentale per essere al servizio di tutti, i più poveri in
particolare, come testimonianza dei
valori evangelici: queste le motivazioni alla base del documento, come
illustrato da mons. Ambrosio, presidente della Commissione. Dopo una
disamina della situazione scolastica in
Italia, si evidenziano le ragioni e il valore della scuola cattolica e gli orientamenti pastorali nei quali si colloca
il suo progetto educativo. In conclusione, la proposta della scuola cattolica risulterà convincente se potrà essere un luogo che «accende la passione
per la verità, l’amore, la giustizia, la
solidarietà, la libertà, la legalità»;
dove «le giovani generazioni siano
aiutate ad acquisire mezzi e strumenti
per la loro vita futura, ma anche a trovare le ragioni di una vita veramente
piena e veramente umana».
Stampa (25.8.2014) da sito web www.chiesacattolica.it.
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A oltre trent’anni dal precedente documento pastorale
su La scuola cattolica, oggi, in Italia (1983; cf. Regno-doc.
19,1983,574ss) è sembrato giusto ritornare sull’argomento
per aggiornare lo sguardo della comunità ecclesiale sulla
presenza della scuola cattolica nel nostro Paese.
In questi anni si sono succedute riforme legislative che
hanno inciso anche profondamente sul volto della scuola
italiana, ma soprattutto si è avuta la legislazione sulla parità scolastica (Legge n. 62 del 10 marzo 2000) che ha
ridefinito la natura stessa delle scuole cattoliche, quasi
tutte paritarie e dunque facenti parte dell’unico sistema
nazionale di istruzione.
La Legge n. 62 è stata senz’altro una conquista e l’attuazione di un dettato costituzionale, ma si deve riconoscere che ancora incompiuto rimane il cammino verso
una parità effettiva che dia reale efficacia alla libertà di
scelta educativa delle famiglie.
Non solo per queste trasformazioni dello scenario
legislativo, ma anche per le motivazioni più avanti esplicitate, la Commissione Episcopale per l’educazione cattolica, la scuola e l’università ha ritenuto opportuno proporre la presente Nota pastorale, che è stata approvata
dal Consiglio Episcopale Permanente nella sessione del
24-26 marzo 2014. Più che un riepilogo della materia si
è voluta sviluppare una riflessione su alcuni aspetti particolari che caratterizzano la vita della scuola cattolica in
Italia.
Anzitutto, nel decennio 2010-2020 che la Chiesa
italiana ha voluto dedicare al tema dell’educazione, era
doveroso proporre alcune considerazioni su un’esperienza educativa peculiare e propria della comunità ecclesiale quale è la scuola cattolica, con la sua originale
e specifica proposta culturale in cui si cerca di fare una
sintesi coerente tra fede, cultura e vita. Come ci ricorda
Papa Francesco nell’Esortazione apostolica Evangelii
gaudium, «le scuole cattoliche, che cercano sempre di
coniugare il compito educativo con l’annuncio esplicito
del Vangelo, costituiscono un contributo molto valido
all’evangelizzazione della cultura, anche nei Paesi e nelle
città dove una situazione avversa ci stimola a usare la
484
creatività per trovare i percorsi adeguati» (n. 134; Regnodoc. 21,2013,667).
In secondo luogo, come dichiara anche il titolo della
Nota, la scuola cattolica deve essere considerata una vera
risorsa della Chiesa locale e non un fattore accessorio o
una pesante incombenza gestionale. La scuola cattolica
è espressione viva della comunità ecclesiale e, come si
afferma proprio nel testo di questa Nota, occorre puntare
a un «inserimento organico delle scuole cattoliche nella
pastorale diocesana» (n. 26). Più che un generico servizio
scolastico, sostitutivo di quello statale, la scuola cattolica
è manifestazione peculiare di sussidiarietà e di autonoma
iniziativa della comunità cristiana.
Infine, la scuola cattolica è nata per porsi al servizio
di tutti, in particolare dei più poveri, e deve continuare a
esercitare il suo servizio come testimonianza dell’impegno di tutta la comunità ecclesiale nella realizzazione del
quotidiano compito educativo e della costante attenzione
ai più deboli. È ancora Papa Francesco a ricordarci che
«la bellezza stessa del Vangelo non sempre può essere
adeguatamente manifestata da noi, ma c’è un segno che
non deve mai mancare: l’opzione per gli ultimi, per quelli
che la società scarta e getta via» (Evangelii gaudium, n.
195; Regno-doc. 21,2013,679). In tale direzione non può
essere dimenticato il prezioso contributo offerto anche
dalla formazione professionale di ispirazione cristiana,
che fa parte a pieno titolo del settore.
Le dimensioni del sistema di scuola cattolica, che
coinvolge in Italia poco meno di un milione di alunni,
non possono far parlare di un’esperienza accessoria o
marginale. Ma al di là degli aspetti quantitativi, è la possibilità stessa di frequentare una scuola nata per la libera
iniziativa di fedeli laici o consacrati a testimoniare uno
spazio di libertà che è fondamentale in ambito educativo,
perché è noto che non si può educare se non nella libertà
e al fine di promuovere la libertà, cioè la crescita personale, di ognuno.
Papa Francesco, nel grande incontro del 10 maggio
2014 con tutto il mondo della scuola italiana, ha ricordato che «nella scuola non solo impariamo conoscenze,
contenuti, ma impariamo anche abitudini e valori. Si
educa per conoscere tante cose, cioè tanti contenuti importanti, per avere certe abitudini e anche per assumere
i valori». Questo è vero per qualsiasi tipo di scuola, ma
nella scuola cattolica c’è la consapevolezza e la volontà
di trasmettere insieme una cultura e un sistema di valori fondati sul Vangelo: «L’educazione non può essere
neutra. O è positiva o è negativa; o arricchisce o impoverisce; o fa crescere la persona o la deprime, persino
può corromperla». È sempre Papa Francesco ad averlo
ricordato nella medesima occasione e la scuola cattolica
cerca per sua natura di offrire un’educazione positiva agli
alunni che le sono affidati.
È dunque nello spirito di una proposta autenticamente educativa che consegniamo alle scuole cattoliche
1
Francesco, Discorso agli studenti delle scuole gestite dai gesuiti
in Italia e Albania, 7.6.2013.
2
Episcopato italiano, Educare alla vita buona del Vangelo.
Orientamenti pastorali dell’Episcopato italiano per il decennio 20102020, 4.10.2010; ECEI 8/3690-3900.
italiane la presente Nota, affinché esse rinnovino il proprio impegno quotidiano e si rendano testimoni del Vangelo nella nostra società.
Roma, 11 luglio 2014, Festa di san Benedetto abate,
patrono d’Europa.
✠ Gianni Ambrosio,
vescovo di Piacenza-Bobbio,
presidente della Commissione Episcopale
per l’educazione cattolica, la scuola e l’università
I
ntroduzione
1. «La scuola è uno degli ambienti educativi in cui
si cresce per imparare a vivere, per diventare uomini
e donne adulti e maturi, capaci di camminare, di percorrere la strada della vita. Come vi aiuta a crescere la
scuola? Vi aiuta non solo nello sviluppare la vostra intelligenza, ma per una formazione integrale di tutte le
componenti della vostra personalità».1 Così si è espresso
il Santo Padre Francesco parlando agli studenti di alcune scuole cattoliche. Animati dalle stesse convinzioni
vogliamo rivolgerci oggi alle scuole cattoliche operanti
in Italia, consapevoli dell’azione di evangelizzazione e di
promozione umana che esse svolgono.
Nel corso dei secoli la Chiesa ha mantenuto sempre
viva l’attenzione verso il mondo dell’educazione, come
dimostra tra l’altro l’istituzione e la gestione di tante
scuole cattoliche, nelle quali si vuole offrire una proposta autenticamente formativa, interessata alla crescita
integrale di ogni persona secondo una visione ispirata al
Vangelo.
Nella consapevolezza che l’educazione della persona
è una questione decisiva perché l’esperienza della fede e
dell’amore cristiano sia accolta e vissuta, la Chiesa italiana ha voluto dedicare al tema dell’educazione il decennio in corso, offrendo anche alla comunità cristiana
degli Orientamenti pastorali2 ritenuti indispensabili per
un rilancio generalizzato della sensibilità educativa e
della funzione della scuola quale luogo di formazione
umana. Se è infatti vero che la scuola cattolica è oggetto
privilegiato dell’attenzione della comunità cristiana, è altrettanto vero che un’adeguata cura pastorale deve essere
dedicata a tutto il mondo della scuola, sia essa statale
o di altri gestori, perché è tra le mura di tutte le scuole
degne di tale nome che si formano le future generazioni
e si trasmette il patrimonio di cultura e di valori che tutti
abbiamo a nostra volta ricevuto.
2. Sono trascorsi trent’anni dalla pubblicazione
dell’ultimo documento dei Vescovi italiani su La scuola
cattolica, oggi, in Italia:3 un documento che faceva allora
3
Conferenza Episcopale Italiana-Commissione Episcopale
per l’educazione cattolica, La scuola cattolica, oggi, in Italia,
25.8.1983; ECEI 3/1418-1512.
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il punto sui precedenti pronunciamenti della Chiesa sul
medesimo argomento e dopo il quale altri numerosi e
importanti si sarebbero avuti.4 L’evoluzione registratasi
negli anni suggerisce ora che la riflessione venga aggiornata secondo una prospettiva pastorale, che tenga anche
conto delle diversità locali.
Questa Nota pertanto ha elettivamente presenti le
Chiese locali, nel desiderio di precisare i tratti essenziali
e veramente costitutivi delle scuole cattoliche, di richiamare la loro attenzione sul servizio da esse svolto, anche
in ambito di pastorale giovanile, di puntualizzare le responsabilità che le stesse hanno nei riguardi delle scuole
cattoliche presenti nei loro territori e, reciprocamente, le
responsabilità delle scuole cattoliche nei confronti delle
Chiese locali all’interno delle quali operano.
Su un piano più strettamente educativo la Nota intende adoperarsi perché non venga disperso il patrimonio di esperienza pedagogica di cui le scuole cattoliche
sono portatrici, proponendo linee operative orientate alla
valorizzazione della loro offerta educativa.
In termini più generali, infine, rientra tra gli scopi
della Nota sottolineare, nel contesto della realtà italiana
attuale, la validità della missione educativa delle scuole
cattoliche non solo per la Chiesa ma anche per la società
civile.
I.
Uno sguardo all’esistente
La scuola cattolica oggi in Italia
3. La scuola italiana è stata interessata negli ultimi
anni da una serie di importanti riforme. Solo a titolo
esemplificativo pensiamo alla normativa sull’autonomia, che ha avuto riconoscimento costituzionale parallelamente all’esplicitazione del principio di sussidiarietà
quale riferimento per il rapporto tra società civile e
Stato.5 Pensiamo anche alle riforme ordinamentali che
hanno ridisegnato in modo importante il profilo del sistema educativo di istruzione e formazione; all’integrazione della formazione professionale nell’assolvimento
dell’obbligo di istruzione; ai nuovi criteri di formazione
dei docenti; alla legislazione sulla parità scolastica, intervenuta nel 2000 – a oltre mezzo secolo dalla prima enunciazione costituzionale – per regolare i diritti e i doveri
delle scuole non statali interessate a far parte dell’unico
sistema nazionale di istruzione.6
Innovazioni legislative come queste non hanno fatto
che rispondere a istanze avanzate dalle varie trasformazioni sociali e culturali. È sotto la loro spinta che alla
scuola, né più né meno che a ogni altra istituzione,
tocca affrontare sempre nuove sfide, come lo è quella
imposta oggi dall’«emergenza educativa» denunciata da
Benedetto XVI come «l’effetto, piuttosto che la causa,
della mancata trasmissione di certezze e di valori».7 Naturalmente la scuola non è l’unica responsabile dell’emergenza educativa; essa è però chiamata in prima linea
a intensificare il proprio contributo per colmare i vuoti
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provocati dagli altri ambienti educativi, a cominciare
dalla famiglia.
Per altro verso, se tutta la scuola è interpellata da
questa emergenza, la scuola cattolica lo è ancor più in
ragione della sua missione peculiare di essere espressione
diretta dell’azione evangelizzatrice della Chiesa. Nelle
scuole cattoliche infatti si realizza una parte importante
e irrinunciabile della missione stessa della Chiesa. Per
questo essa deve saper accogliere con particolare attenzione i richiami al recupero dell’impegno educativo che
le vengono dal suo contesto storico e culturale. E anche
se l’attuale momento storico appare per diversi aspetti
poco favorevole per le scuole cattoliche e non senza preoccupazioni per il futuro, non può esserci dubbio che
l’educazione della persona non può essere mai disattesa
o subordinata a difficoltà materiali e di altro genere.
È doveroso a questo punto offrire parole di incoraggiamento e di speranza a tutti coloro che, laici e religiosi,
operano nelle e per le scuole cattoliche, dedicando a esse,
spesso anche a titolo gratuito, tempo, energie e talenti,
per offrire alla Chiesa e alla società civile un servizio prezioso quanto umile e nascosto.
4. Sappiamo che parlando alle scuole cattoliche italiane ci rivolgiamo di fatto a un universo assai ricco e
diversificato quanto a natura giuridica, distribuzione territoriale, ispirazioni e carismi particolari. Sotto il nome
generico di scuola cattolica intendiamo perciò raccogliere tutte le realtà che in vario modo esprimono la cura
educativa della comunità ecclesiale.
Prendiamo atto con favore che alle scuole che possono dirsi cattoliche a norma di diritto canonico si aggiungono scuole di ispirazione cristiana che dichiarano
statutariamente di aderire a un modello educativo fondato sul Vangelo. Sono scuole che, in quanto operano
nella comunione ecclesiale, possono contribuire grandemente al compimento della missione educativa della
Chiesa. Anche a esse, che nel loro insieme raccolgono
un numero non trascurabile di alunni, ci rivolgiamo in
questa Nota pastorale con l’indicazione generica e comprensiva di scuole cattoliche.8
In relazione al livello scolastico, nel mondo delle
scuole cattoliche va soprattutto ricordata l’incidenza
prevalente delle scuole dell’infanzia, che da sole rappresentano quasi i tre quarti del totale e sono da sempre
capillarmente legate al territorio. In relazione alla distribuzione geografica occorre notare che più di metà delle
scuole cattoliche si concentrano nelle diocesi del Nord.
Alla diversificazione territoriale si accompagna quella
gestionale, che vede prevalere ordini e congregazioni
religiose al Sud, mentre al Nord sono più diffuse – in
particolare nella scuola dell’infanzia – soluzioni diverse,
spesso frutto dell’iniziativa laicale, alcune delle quali in
rapida crescita.
Infine, fa parte del mondo dell’educazione legata
ai valori del Vangelo anche il sistema della formazione
professionale di ispirazione cristiana, costituito da numerosi centri di formazione promossi da enti soprattutto
religiosi, ma anche da associazioni laicali ispirate alla
dottrina sociale della Chiesa. In questa Nota pastorale
intendiamo riferirci anche a questi centri ed enti di for-
mazione professionale, la cui distribuzione sul territorio
nazionale, alquanto varia, si concentra soprattutto nelle
diocesi del Nord.
Va pure detto che anche la formazione professionale,
in seguito al suo formale inserimento nell’unico sistema
educativo di istruzione, sta attraversando oggi un’impegnativa fase di riforma.
struzione e formazione professionale, che risulta ancora
disomogenea quanto alla sua distribuzione sul territorio
e precaria nelle risorse.
6. Negli ultimi anni la crisi economica mondiale ha
fatto sentire pesantemente i suoi effetti anche in Italia;
e la scuola, statale e non, è rimasta coinvolta in operazioni di risanamento economico che ne hanno ridotto
significativamente le risorse finanziarie. Prova di queste
difficoltà è la chiusura di numerose scuole cattoliche che,
per l’impossibilità di fronteggiare i costi crescenti, hanno
dovuto porre termine ad antiche e spesso gloriose tradizioni locali.
Registriamo con sofferenza come l’abbandono del
settore scolastico sia particolarmente rilevante tra gli istituti religiosi tradizionalmente dediti all’educazione e alla
formazione dei ragazzi e dei giovani. Accanto alle difficoltà economiche appena segnalate, dobbiamo infatti
segnalare quella ancor più grave legata alla carenza di
vocazioni religiose. È largamente riconosciuto come la
presenza nella scuola delle persone consacrate si sia rivelata di importanza vitale per l’evangelizzazione del nostro Paese. L’attuale situazione, ne siamo certi, lungi dal
costituire motivo di scoraggiamento, si tradurrà in nuova
volontà di discernimento della volontà di Dio nella nostra storia e in occasione propizia di rinnovamento.9
Le dinamiche della scuola italiana
5. Le riforme più recenti del sistema scolastico nazionale hanno fatto concentrare l’attenzione dell’opinione
pubblica sugli ordinamenti e sulle modalità organizzative del sistema stesso più che sulla sua natura e le sue
finalità educative. La scuola italiana però, se vuole essere
soprattutto al servizio della persona e della sua educazione – e solo in seconda istanza interessata al mondo
economico e produttivo –, dovrà necessariamente aprirsi
alle situazioni nuove in cui oggi si trova. Molte di queste,
ad esempio, chiedono di essere vissute nel segno dell’integrazione, come le culture di cui sono portatori i sempre
più numerosi alunni provenienti da altri Paesi o le diverse condizioni di disabilità in essa rappresentate. Tali
situazioni esigono di essere vissute secondo prospettive
inclusive e rispettose della dignità di ogni persona, con
progetti culturali e formativi attenti all’attuale contesto
internazionale e sempre più caratterizzato culturalmente
dalla globalizzazione.
Per far fronte a queste situazioni la scuola italiana
ha cercato maggiore flessibilità, rinunciando alla rigidità
strutturale e organizzativa che le derivava da antica tradizione. Così il tradizionale modello centralistico è stato
superato, almeno sul piano dei principi, dalla legislazione
sull’autonomia intesa, come è noto, a responsabilizzare e
valorizzare le iniziative e le sensibilità locali; il paradigma
statale è stato attenuato dalla normativa sulla parità scolastica e sull’istruzione e formazione professionale, che
riconosce, a precise condizioni, il diritto di iniziativa
scolastica a soggetti diversi dallo Stato. Il processo non
si può ancora ritenere compiuto né sul versante dell’autonomia, ancora non del tutto compresa e sperimentata
dalle scuole, né sul versante della parità, enunciata formalmente ma non accompagnata da un sostegno capace
di renderla reale ed effettiva, né infine sul versante dell’i-
7. A volte vi può essere il pericolo che, incalzati e
quasi sopraffatti dai problemi economici, si perdano
di vista le ragioni più vere dell’esistenza e del valore
che la scuola cattolica rappresenta per la Chiesa e per
la società civile. Come sempre, non sono tanto le difficoltà, spesso inevitabilmente presenti in ogni campo
dell’impegno ecclesiale, a scoraggiare le persone fino a
farle recedere dal proprio impegno, quanto piuttosto
la mancanza di sicure e valide motivazioni a sostegno
dell’impegno stesso. Sforzi e sacrifici si affrontano solo
se si è sostenuti da solide convinzioni e dalla consapevolezza che ci si sta dedicando a cause buone e giuste.
Per questo, prima di chiederci come le scuole cattoliche
4
I testi più importanti apparsi negli ultimi cinquant’anni sono
i seguenti: Concilio Ecumenico Vaticano II, dich. Gravissimum
educationis sull’educazione cristiana, 28.10.1965; EV 1/819-852;
Sacra Congregazione per l’educazione cattolica, La scuola
cattolica, 19.3.1977; EV 6/91; Id., Il laico cattolico testimone della
fede nella scuola, 15.10.1982; EV 8/298-341; Conferenza Episcopale Italiana-Commissione Episcopale per l’educazione
cattolica, La scuola cattolica, oggi, in Italia, 25.8.1983; ECEI
3/1418-1512; Congregazione per l’educazione cattolica,
Dimensione religiosa dell’educazione nella scuola cattolica, 7.4.1988;
EV 11/398-534; Congregazione per l’educazione cattolica,
La scuola cattolica alle soglie del terzo millennio, 28.12.1997; EV
16/1842-1862; Id., Le persone consacrate e la loro missione nella
scuola, 28.10.2002; EV 21/1268-1355; Id., Educare insieme nella
scuola cattolica. Missione condivisa di persone consacrate e fedeli laici,
8.9.2007; EV 24/1239; Id., Educare al dialogo interculturale nella
scuola cattolica. Vivere insieme per una civiltà dell’amore, 28.10.2013;
Regno-doc. 7,2014,208ss; Codice di diritto canonico (CIC), libro III,
titolo III, in particolare i cann. 793-821. Oltre ai pronunciamenti
del Magistero è doveroso ricordare che il Centro Studi per la Scuola
Cattolica (CSSC) offre con cadenza annuale da diverso tempo dei
Rapporti che testimoniano una documentazione e una riflessione
approfondita circa la presenza e le problematiche della scuola cattolica in Italia.
5
Cf. Costituzione della Repubblica Italiana, artt. 117-118.
6
Cf. Legge n. 62 sulle norme per la parità scolastica e disposizioni
sul diritto allo studio e all’istruzione del 10 marzo 2000.
7
Benedetto XVI, Lettera alla diocesi e alla città di Roma sul
compito urgente dell’educazione, 21.1.2008; EV 25/44.
8
Per una serie di dati statistici recenti cf. «Appendice – La scuola
cattolica in cifre. Anno scolastico 2012-13», in Centro Studi per
la Scuola Cattolica, Una pluralità di gestori. Scuola cattolica in
Italia. XV Rapporto, La Scuola, Brescia 2013, 247-337. Il quadro è
annualmente aggiornato dal CSSC.
9
Cf. Congregazione per l’educazione cattolica, Le persone
consacrate e la loro missione nella scuola; EV 21/1268-1355.
II.
La scuola cattolica:
le sue ragioni e il suo valore
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hiesa in Italia
debbano svolgere il loro servizio, è importante che ci
chiediamo perché esse devono esistere e per quali consistenti ragioni le comunità cristiane devono essere aiutate, in modo chiaro e convincente, a comprenderne e
condividerne il valore.
L’emergenza educativa
8. Chiunque si occupi oggi di educazione, e in particolare di scuola, si trova di fronte a nuove e impegnative
responsabilità, dovute ai rapidi e profondi mutamenti
verificatisi negli ultimi decenni in ogni aspetto della vita
civile. Assistiamo a profonde trasformazioni del modo
di pensare e degli stili di vita delle persone, a scoperte
scientifiche che comportano modalità nuove di gestire
l’informazione e la comunicazione, al fenomeno della
pluriculturalità, alla globalizzazione. Si tratta solo di alcuni tra gli aspetti più vistosi del clima culturale all’interno del quale gli educatori, e la scuola in particolare,
sono impegnati a far crescere le nuove generazioni.
In merito a tali trasformazioni i più recenti Orientamenti pastorali dell’Episcopato italiano hanno puntato
l’attenzione su alcuni dati che interessano più da vicino
il profilo antropologico delle giovani generazioni, dati
che interferiscono non poco nel processo educativo.
Sono: l’eclissi del senso di Dio, l’offuscarsi della dimensione dell’interiorità, l’incerta formazione dell’identità
personale in un contesto plurale e frammentato, la
difficoltà di dialogo tra le generazioni, la separazione
tra intelligenza e affettività.10 Ma già Benedetto XVI,
parlando di «emergenza educativa», aveva individuato
le cause di questo fenomeno dei nostri tempi sia nel
diffuso falso concetto dell’autonomia dell’uomo, che gli
fa pretendere di essere autosufficiente ma che di fatto
lo isola da ogni relazione realmente costitutiva con gli
altri, sia nel relativismo di tanta parte della cultura contemporanea sostanzialmente indifferente alla ricerca
della verità.11
Da questi ultimi interventi magisteriali emerge che
la questione antropologica è ciò con cui gli educatori
debbono oggi maggiormente confrontarsi: qual è oggi
il significato di «persona»? Qual è il destino dell’uomo?
Quale il senso delle nostre fatiche? Su che cosa si fondano
le nostre speranze? Potrà sembrare che questi interrogativi di carattere genericamente fondamentale abbiano
poco a che fare concretamente con i problemi quotidiani
dell’educazione; dobbiamo però ulteriormente chiederci
se sia possibile uscire dall’attuale emergenza educativa
senza intervenire sul livello culturale e antropologico
della questione, dal momento che, quando parliamo di
«emergenza educativa», a essere in crisi è proprio l’attuale concezione culturale dell’uomo.
Nell’educare la speranza
9. Lo scenario appena dipinto può indurre a preoccupazione e pessimismo chiunque voglia assumersi o
viva già il compito educativo. Solo l’amore per questo
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compito, tale da metterne in luce la grandezza e la bellezza, è in grado di restituire fiducia, coraggio e voglia di
mettersi in gioco. «Anima dell’educazione, come dell’intera vita, può essere solo una speranza affidabile. Oggi
la nostra speranza è insidiata da molte parti e rischiamo
di ridiventare anche noi, come gli antichi pagani, uomini
“senza speranza e senza Dio in questo mondo”, come
scriveva l’apostolo Paolo ai cristiani di Efeso (Ef 2,12).
Proprio da qui nasce la difficoltà forse più profonda per
una vera opera educativa: alla radice della crisi dell’educazione c’è infatti una crisi di fiducia nella vita».12
I cristiani, dunque, sono chiamati ad attraversare questo nostro tempo sorretti da una «speranza affidabile»: la
fiducia nella vita e un sereno affidamento a Dio ci renderanno buona ogni strada. Essi sono chiamati a testimoniare che è possibile guardare alla vita con speranza costruendo una cultura della vita; che è possibile attendersi
qualcosa di buono dal futuro; che la verità esiste e si può
trovare; che si può avere fiducia nell’uomo anche quando
appare segnato dalla fragilità e dal limite; che è possibile
immaginare e realizzare una vita buona e gioiosa.
Questi atteggiamenti e convinzioni di fondo non
esprimono una vaga utopia; non sono nemmeno il frutto
di un ottimismo ingenuo o di generiche aspirazioni del
cuore umano. Essi hanno piuttosto un fondamento sicuro in Gesù Cristo, che è risorto ed è sempre vivo e
operante nella nostra vita. Tutta la comunità dei fedeli
è impegnata a testimoniare con il proprio stile di vita la
fede in questi principi; la scuola cattolica, da parte sua,
non dovrà mancare di offrire, nel proprio ambito educativo e culturale, la medesima testimonianza.
10. Animati dalla convinzione che i problemi, ma
anche le enormi opportunità presenti in questi nuovi scenari, richiedono capacità critica e solidi criteri di orientamento, ribadiamo che oggi la scuola, e in particolare
la scuola cattolica, ha l’impegnativo compito di formare
l’identità delle nuove generazioni, nella convinzione che
solo un progetto educativo coerente e unitario consente
alle nuove generazioni di affrontare responsabilmente il
mare aperto della post-modernità.
La scuola cattolica, che attinge alla sorgente dell’antropologia cristiana e dei valori portanti del Vangelo,
può dare un contributo originale e significativo ai ragazzi
e ai giovani, alle famiglie e all’intera società, accompagnando tutti in un processo di crescita umana e cristiana.
I cristiani sono per un’immagine di persona desiderosa di
relazioni, aperta al trascendente e profondamente contrassegnata dalla libertà nella quale si rispecchia l’impronta del suo Creatore. Per questo essi operano per una
formazione integrale della persona, animati dall’intima
consapevolezza che in Gesù Cristo si realizza il progetto
di una vita riuscita.13
In una stagione come la nostra, caratterizzata dall’incertezza sui valori e da una crisi culturale e spirituale
altrettanto seria, se non ancora di più, di quella economica, la scuola cattolica vuole essere, insieme con la
famiglia e le comunità cristiane, un luogo credibile, nel
quale i cristiani sappiano costruire relazioni di vicinanza
e sostegno alle giovani generazioni, rispondendo alla loro
domanda di significato e di rapporti umani autentici.
Anche da quanto siamo andati fin qui osservando si
rileva quanto l’educazione della persona sia un processo
complesso, disposto ad accogliere ed elaborare elementi
e dati, spontanei o intenzionali, di varia origine. Ma è
proprio perché la scuola cattolica vuole avere come suo
scopo non la semplice istruzione ma l’educazione integrale della persona, che essa dovrà tener conto di tutte
le sollecitazioni che incidono sulla vita dei suoi alunni e
interagire con esse in maniera consapevole e coordinata.
11. Le scuole cattoliche definiscono la loro identità a
partire da un progetto educativo che ne precisa l’ispirazione culturale di fondo e la specifica visione della vita,
della persona e dell’educazione, avendo cura che l’istruzione da esse impartita garantisca almeno lo stesso livello
qualitativo delle altre scuole.14
Questa identità deve essere presente e chiaramente pensata nella mente di coloro che vi operano; esplicitamente
dichiarata nei documenti ufficiali (statuto o atto fondativo, progetto educativo, piano dell’offerta formativa);
condivisa e partecipata con le famiglie che la scelgono;
concretamente realizzata e tradotta nelle normali attività
educative e nei contenuti disciplinari che quotidianamente vengono proposti; costantemente testimoniata dagli
operatori della scuola (per primi gli insegnanti); assiduamente valutata e verificata.
Più concretamente, vogliamo richiamare l’attenzione
sui seguenti tratti essenziali per la definizione dell’identità della scuola cattolica.
a) L’originalità della proposta culturale
12. La proposta culturale della scuola cattolica ha la
sua originalità nel fatto che, partendo dalla visione cristiana della persona e dell’educazione, intende far sintesi
tra fede e cultura e tra fede e vita. Si tocca qui – la costatazione è di ovvia evidenza – il criterio più decisivo
per il discernimento tra una scuola realmente cattolica e
una che non lo è. E sarà in base a questo criterio che le
famiglie sceglieranno – quando ne avranno veramente la
possibilità – la scuola per i propri figli.
Come ci ha recentemente ricordato il Santo Padre
Francesco, la fede è la luce che illumina tutta la vita di
una persona e dà significato alle sue esperienze e alla sua
formazione umana e culturale.15 Sulla base di questa profonda convinzione va costruita l’intera proposta culturale
della scuola cattolica, che ha da dire una parola originale
sul senso del processo educativo in ogni livello scolastico.
Nello stesso tempo va affermato che i caratteri di originalità di cui qui si parla trovano la loro concreta interpretazione nel vissuto degli educatori, per i quali fondamentale è vivere il proprio compito come un’espressione
di amore il cui fine è condurre l’allievo nel cammino
faticoso e appassionante della ricerca della verità fino al
conseguente incontro con Dio.
In questo senso il modello pedagogico proprio di ogni
educatore cristiano – e dunque di chiunque insegni in
una scuola cattolica – non può essere che Gesù Cristo,
colui che con l’incarnazione «si è unito in certo modo a
ogni uomo».16 Solo ponendosi umilmente accanto ai propri allievi come fratello maggiore l’educatore cristiano
potrà farsi loro compagno di viaggio con la consapevolezza che uno solo è il maestro e la guida, il Cristo (cf. Mt
23,10). È in questo modo che la relazione personale tra
docente e allievo si realizza come dato qualificante, per
niente accessorio, della prassi delle scuole cattoliche.
In estrema sintesi, la proposta educativa della scuola
cattolica si distingue per la sua intenzione di mettere in
feconda sinergia il perseguimento dei valori profondamente umani legati alla verità, alla giustizia, all’amore
universale e alla libertà mediante l’accostamento onesto
agli insegnamenti del Vangelo di Gesù Cristo. La sua
originalità partecipa dunque della «novità cristiana», in
quanto capace di generare un progetto educativo con
una sua visione specifica del mondo, della vita, della cultura e della storia, ma nella quale in ogni caso a essere
messa al centro è la persona umana e la sua dignità. Da
qui l’importanza, per la scuola cattolica, di riaffermare,
in un contesto culturale che tende invece a metterla in
secondo piano, la dimensione umanistica, sapienziale e
spirituale del sapere e delle varie discipline scolastiche.
b) La connotazione ecclesiale
e le sue implicazioni pastorali
13. È stato osservato che «l’ecclesialità della scuola
cattolica è scritta nel cuore stesso della sua identità di
istituzione scolastica» e che «la dimensione ecclesiale non
costituisce nota aggiuntiva, ma è qualità propria e specifica, carattere distintivo che penetra e plasma ogni momento della sua azione educativa, parte fondante della
sua stessa identità e punto focale della sua missione».17
10
Cf. Episcopato italiano, Educare alla vita buona del Vangelo,
nn. 9-13; ECEI 8/3720-3738.
11
Cf. Benedetto XVI, Discorso alla LXI Assemblea Generale
della Conferenza Episcopale Italiana, 27.5.2010.
12
Benedetto XVI, Lettera alla diocesi e alla città di Roma sul
compito urgente dell’educazione; EV 25/55.
13
È ciò che insegna anche il Concilio Vaticano II quando afferma
che «chiunque segue Cristo, l’uomo perfetto, diventa anch’egli più
uomo» (Concilio Ecumenico Vaticano II, cost. past. Gaudium et
spes [GS] sulla Chiesa nel mondo contemporaneo, n. 41; EV 1/1446).
14
Cf. CIC can. 806, § 2. La Congregazione per l’educazione cattolica ha precisato icasticamente che la prima caratteristica di una
scuola cattolica è quella di essere «scuola» («se non è “scuola”, e della
scuola non riproduce gli elementi caratterizzanti, non può essere
scuola “cattolica”», La scuola cattolica, n. 25; EV 6/83). Potremmo
esemplificare aggiungendo che una scuola è tale se comporta strutture
funzionali, competenze professionali, rigore della ricerca culturale e
della fondazione scientifica dei contenuti proposti, strumenti e materiali didattici adeguati, modalità organizzative e di gestione efficienti
ed efficaci, rapporti interattivi con il territorio e le sue istituzioni pubbliche e private ecc.
15
«È urgente perciò recuperare il carattere di luce proprio della
fede, perché quando la sua fiamma si spegne anche tutte le altre luci
finiscono per perdere il loro vigore. La luce della fede possiede, infatti,
un carattere singolare, essendo capace di illuminare tutta l’esistenza
dell’uomo» (Francesco, lett. enc. Lumen fidei, 29.6.2013, n. 4; Regnodoc. 13,2013,386).
16
GS 22; EV 1/1386.
17
Congregazione per l’educazione cattolica, La scuola cattolica alle soglie del terzo millennio, n. 11; EV 16/1852.
Identità della scuola cattolica
e suoi tratti caratteristici
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documenti
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C
hiesa in Italia
In quanto componente della comunità ecclesiale
la scuola cattolica svolge il suo compito educativo sapendosi arricchita dalla vitalità di un’esperienza di fede
condivisa, capace di conferire il senso di Dio in ciò che
quotidianamente opera. La scuola cattolica è inserita
nel tessuto della Chiesa locale in modo così organico
da potersi pensare che una Chiesa locale priva di scuole
cattoliche abbia di che sentirsi più povera e più carente
nella propria azione evangelizzatrice. A tal proposito
riteniamo di poter ripetere quanto veniva scritto nel
precedente documento La scuola cattolica, oggi, in Italia: «La scuola cattolica deriva il motivo fondamentale
della propria identità e della propria esistenza dall’appartenenza alla Chiesa locale in cui è chiamata a vivere
e a servire. Da questo principio nasce l’esigenza di un
duplice e convergente cammino: la scuola cattolica deve
pensare se stessa e il proprio compito in una relazione
sempre più piena con la Chiesa diocesana; la diocesi
deve sentire e trattare la scuola cattolica come una realtà profondamente radicata nella propria trama vitale
e nella propria missione verso il mondo. In altre parole,
la scuola cattolica potrà vivere e manifestare la propria
identità se, superando resistenze e inadempienze reciproche, si avvierà a essere davvero “scuola della comunità cristiana”».18
c) La connotazione comunitaria
14. Come sottolinea il Concilio Vaticano II, fattore
caratteristico della scuola cattolica «è di dar vita a un
ambiente comunitario scolastico permeato dello spirito
evangelico di libertà e carità».19 La connotazione comunitaria è perciò elemento fondante dell’educazione
in una scuola cattolica. Ed è una connotazione che non
si ferma alla sola tolleranza o al semplice rispetto della
libertà altrui: essa poggia piuttosto sulla considerazione
dell’altro come dono e risorsa, come qualcuno che misteriosamente richiama i tratti del volto di Cristo e può
liberarci dalla solitudine e dall’egoismo. La connotazione
comunitaria della scuola cattolica pertanto, prima ancora che oggetto di una scelta pedagogica, è espressione
della natura stessa della Chiesa che l’ha voluta e se ne fa
garante.
Ci è grato ricordare che anche questo connotato è
stato tenuto presente nel citato documento su La scuola
cattolica, oggi, in Italia del 1983. Vi leggiamo infatti a
proposito della comunità educante che essa, «costituita
da tutti coloro che in qualche modo partecipano alla vita
della scuola cattolica, è il centro propulsore e responsabile di tutta l’esperienza educativa e culturale, in un
dialogo aperto e continuo con la comunità ecclesiale di
cui è e deve sentirsi parte viva. Questa affermazione si
giustifica anzitutto per il fatto che la scuola cattolica è
un’autentica esperienza ecclesiale, anche se rimanda alla
piena esperienza della Chiesa locale, e di questa esperienza deve manifestare i segni e i modi di vita nella comunione».20
Come si vede, il passaggio riportato, oltre a esplicitare
riccamente quanto prima accennato sulla connotazione
comunitaria della scuola cattolica, allarga il discorso sul
criterio di ecclesialità di una scuola che voglia definirsi
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tale, indicando tale criterio nel legame che essa mantiene con la Chiesa locale, nell’ottica dell’ecclesiologia
di comunione. Ed è naturale che per la realizzazione di
questo fondamentale connotato comunionale venga in
prima istanza chiamato ancora una volta in causa l’educatore. Egli lo è di fatto legittimamente sia in quanto
chiamato a svolgere la sua professione in una scuola cattolica, sia – ancor prima – perché la sua stessa assunzione
nella scuola è stata motivata dal fatto di essere egli stesso
membro qualificato di una comunità ecclesiale.21
d) Il significato sociale e civile
15. Con la sua presenza, la scuola cattolica è espressione di un diritto della persona e offre un contributo
prezioso alla realizzazione di un vero pluralismo. Non
si educa se non nella libertà e solo la presenza di più
modelli scolastici consente di realizzare questo diritto
fondamentale. L’esistenza della scuola cattolica perciò,
in quanto «espressione del diritto di tutti i cittadini alla
libertà di educazione, e del corrispondente dovere di solidarietà nella costruzione della convivenza civile»,22 non
è interesse della sola comunità ecclesiale ma di tutta la
società civile.
Del resto la scuola cattolica ha sempre sviluppato una
propria visione interculturale della società, considerando
ricchezza la differenza culturale e proponendo quante
più possibili vie di incontro e di dialogo. Il fenomeno
delle migrazioni ha ulteriormente affinato questa visione
facendo sì che dall’atteggiamento della semplice tolleranza, più proprio della realtà multiculturale, si passasse
a quello dell’accoglienza e della ricerca del confronto,
proprio del dialogo interculturale, aperto alla mutua
comprensione e al sereno riconoscimento dei valori e dei
limiti di ogni cultura.23 D’altra parte è la presenza stessa
nella scuola cattolica di alunni appartenenti a culture e
a religioni diverse a comportare «un vero cambiamento
di paradigma a livello pedagogico» e favorire il passaggio «dall’integrazione alla ricerca della convivialità
delle differenze».24 È ovvio che un tale modello, che si
sforza di armonizzare identità e accoglienza senza cadute
nell’ambiguità, non è affatto semplice da accogliere né
facilmente attuabile.
Oltretutto, proprio in questo campo si tratta anche
di superare qualche diffuso pregiudizio. La scuola cattolica non è propriamente parlando un’istituzione educativa confessionale o di parte, poiché essa si pone per
suo statuto al servizio di tutti e accoglie tutti, con l’obiettivo primario di curare l’educazione della persona e
promuoverne la crescita libera e umanamente completa.
L’adesione al progetto educativo della scuola cattolica
– come previsto espressamente dalla legislazione statale
– non potrà mai essere pertanto motivo di esclusione per
alcuno o ostacolo all’accoglienza di chi guarda a essa con
simpatia. Al contrario, dialogo e apertura saranno regola
fondamentale dei rapporti tra e con gli alunni e tra e con
le famiglie che vengono a farne parte, quali che siano le
loro appartenenze culturali e religiose, se è vero – come
è vero – che la Chiesa anche attraverso la scuola cattolica
testimonia la propria capacità di accoglienza e servizio
disinteressato.
Sono queste, certamente insieme con altre, le ragioni
per cui l’antica tradizione delle scuole cattoliche ha costituito un modello per le politiche scolastiche nazionali e
per lo stesso ordinamento scolastico statale, richiamando
in particolare l’attenzione verso le categorie socialmente
svantaggiate, alle quali l’opera educativa della Chiesa si è
sempre rivolta con speciale dedizione. Anche oggi, nelle
mutate condizioni storiche, la scuola cattolica vuole continuare a offrire a tutti il suo servizio sociale.
16. Da quando è entrata in vigore la legislazione sulla
parità scolastica, la vita della scuola cattolica in Italia si è
intrecciata strettamente con l’attuazione di quella legge.
Occorre tuttavia tenere presente, anzitutto, che, mentre
è vero che quasi tutte le scuole cattoliche sono paritarie,
non è al contrario vero che tutte le scuole paritarie sono
cattoliche; in secondo luogo, che di fatto è soprattutto la
comunità cristiana a battersi da anni per rendere effettiva
nel nostro Paese una reale cultura della parità. Questo,
perché essa ha la consapevolezza che la scuola cattolica
costituisce un valore per tutti i cittadini e non solo per i
cattolici. Di seguito enucleeremo gli snodi principali del
formarsi di una tale cultura.
a) La libertà di educazione
17. La libertà di educazione rappresenta un imprescindibile valore di civiltà nel quale tutti gli uomini di
buona volontà non mancano di riconoscersi. L’identità
più profonda della persona è data dalla sua libertà, cioè
dalla sua capacità di scegliere il bene e assumere la responsabilità delle proprie azioni. Di conseguenza deve
essere libero tutto il processo di formazione attraverso il
quale la persona matura la sua identità, scoprendosi portatrice di una condizione che la avvicina al suo Creatore.
Ma anche a prescindere dal significato che la libertà ha
per i credenti, non si può negare che questa è rivendicata
da tutti e che pienamente si esprime nel principio parallelo di uguaglianza, ossia nella facoltà di volgersi al bene
alle stesse esatte condizioni di chiunque altro.25 In ambito educativo ciò suppone che si possa scegliere senza
condizionamenti il percorso di studi e la scuola reputati
migliori per sé o per i propri figli.
Un gran numero di autorevoli pronunciamenti sostiene
questa posizione. La Dichiarazione universale dei diritti
dell’uomo afferma che «i genitori hanno diritto di priorità
nella scelta del genere di istruzione da impartire ai loro
figli».26 La Costituzione italiana riconosce come «dovere
e diritto dei genitori mantenere, istruire ed educare i figli,
anche se nati fuori del matrimonio».27 Da anni la legislazione italiana ha assunto la libertà di scelta educativa tra
i principi ispiratori del proprio modello di organizzazione
scolastica.28 Va infine ricordato come il principio della libertà di insegnamento, certamente da applicare all’attività
dei docenti ma soprattutto da intendere come garanzia per
i discenti, sia costantemente invocato proprio per preservare ogni processo educativo dall’invadenza di indicazioni
autoritarie da considerare retaggio di concezioni totalitarie
della società e negatrici della libertà della persona.
Per dare concreta attuazione a tali principi, il Parlamento europeo, in una risoluzione del 14 marzo 1984
sulla «Libertà d’insegnamento nella comunità europea»
(che ha trovato sostanziale attuazione nella quasi totalità
degli Stati con l’eccezione, fra i pochi, dell’Italia) ha dichiarato: «Il diritto alla libertà d’insegnamento implica
per sua natura l’obbligo per gli Stati membri di rendere
possibile l’esercizio di tale diritto anche sotto il profilo
finanziario e di accordare alle scuole le sovvenzioni
pubbliche necessarie allo svolgimento dei loro compiti
e all’adempimento dei loro obblighi in condizioni uguali
a quelle di cui beneficiano gli istituti pubblici corrispondenti, senza discriminazione nei confronti degli organizzatori, dei genitori, degli alunni e del personale».29
Da queste affermazioni derivano almeno tre ordini
di conseguenze: la necessità di diffondere e consolidare
una cultura della parità; la ferma richiesta di un finanziamento adeguato delle scuole paritarie; il sostegno all’ampliamento dell’offerta formativa dato dal coinvolgimento
dell’istruzione e formazione professionale nel sistema
educativo e nell’assolvimento dell’obbligo di istruzione.
b) Parità e sussidiarietà
18. Nell’evoluzione normativa sulla scuola verificatasi negli ultimi anni in Italia è possibile leggere l’affermazione, ancora timida ma irreversibile, del principio
di sussidiarietà. Esso, come ha insegnato San Giovanni
Paolo II sulla scia di una lunga tradizione del pensiero
sociale della Chiesa, prevede che «una società di ordine
superiore non deve interferire nella vita interna di una
società di ordine inferiore, privandola delle sue competenze, ma deve piuttosto sostenerla in caso di necessità e
aiutarla a coordinare la sua azione con quella delle altre
componenti sociali, in vista del bene comune».30
18
Commissione Episcopale per l’educazione cattolica, La
scuola cattolica, oggi, in Italia, n. 58; ECEI 3/1478.
19
Vaticano II, Gravissimum educationis, n. 8; EV 1/837.
20
Commissione Episcopale per l’educazione cattolica, La
scuola cattolica, oggi, in Italia, n. 34; ECEI 3/1454.
21
Cf. Congregazione per l’educazione cattolica, Il laico
cattolico testimone della fede nella scuola, nn. 20-24; EV 8/318-324.
22
Commissione Episcopale per l’educazione cattolica, La
scuola cattolica, oggi, in Italia, n. 12; ECEI 3/1432.
23
Cf. Congregazione per l’educazione cattolica, Le persone
consacrate e la loro missione nella scuola, n. 65; EV 21/1335.
24
Ivi, n. 67.
25
«L’uomo può volgersi al bene solo nella libertà» (GS 17; EV
1/1370).
26
Nazioni Unite, Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo,
10.12.1948, art. 26.3.
27
Costituzione della Repubblica Italiana, art. 30.
28
Cf. per esempio la Legge n. 59, art. 21, c. 9 del 15 marzo 1997.
29
Il principio è stato recentemente ribadito con la risoluzione n.
1904 approvata dall’Assemblea parlamentare del Consiglio d’Europa
il 4 ottobre 2012: «L’Assemblea raccomanda che gli Stati membri del
Consiglio d’Europa, mentre garantiscono l’esistenza e la qualità dei
sistemi di scuole pubbliche, assicurino che una quota sufficiente di
fondi sia messa a disposizione per permettere a tutti i bambini di accedere all’istruzione obbligatoria nelle istituzioni private se l’offerta di
istruzione nelle istituzioni pubbliche non dovesse risultare sufficiente».
30
Giovanni Paolo II, lett. enc. Centesimus annus nel centenario
della Rerum novarum, 1.5.1991, n. 48; EV 13/231.
Per una cultura della parità
e del pluralismo scolastico
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documenti
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hiesa in Italia
La Repubblica italiana ha accolto espressamente tale
principio nel testo della sua Costituzione,31 avendolo già
utilizzato in varie occasioni come fondamento di importanti riforme. L’intero assetto del sistema educativo di
istruzione e di formazione indica, come prima si diceva,
un movimento nella direzione della sussidiarietà, rendendo sempre più plurale e aperto il sistema stesso. È
così che, ad esempio, alle scuole si affiancano gli enti di
formazione professionale, alla gestione statale si affianca
quella non statale. Di fatto ci si sta muovendo, ma con
estrema lentezza e non senza resistenze, nella direzione
indicata nell’Assemblea della scuola cattolica del 1999, in
cui venne invocato «il passaggio da una scuola sostanzialmente dello Stato a una scuola della società civile, certo
con un perdurante e irrinunciabile ruolo dello Stato, ma
nella linea della sussidiarietà».32
19. La parità scolastica è interesse e patrimonio di
tutti i cittadini, perché il diritto a un’educazione e a un’istruzione libere appartiene a ogni persona, indipendentemente dalle sue convinzioni religiose o dai suoi orientamenti culturali. La libertà di educazione e di istruzione
non è una prerogativa confessionale, ma una libertà fondamentale di tutti e di ciascuno.
In una logica di sussidiarietà non avrebbe dunque
motivo di esistere un pregiudizio nei confronti delle
scuole paritarie, dato che la natura pubblica del servizio
da esse svolto non risiede nello stato giuridico dell’ente
gestore, statale o non statale, ma nella loro funzione a
vantaggio di tutta la collettività. Né dovrebbero trovare
giustificazione le critiche mosse alla Chiesa cattolica da
un’opinione pubblica poco attenta di avere troppo a
cuore il problema della scuola paritaria (la quale, come
già detto, non è fatta solo di scuole cattoliche), dal momento che di fatto essa si batte, nell’interesse del bene comune, per affermare un diritto che è di tutti i cittadini.33
In ogni caso, tante scuole cattoliche hanno dimostrato
concretamente che la loro presenza, oltre a costituire un
significativo risparmio per l’amministrazione statale, rappresenta un prezioso contributo di idee e di esperienze
sul piano organizzativo, didattico e gestionale per tutto il
sistema educativo nazionale.
c) Una domanda di giustizia
20. La libertà di educazione, per quanto solennemente riconosciuta ed enunciata, incontra ancora nel
suo concreto esercizio una gran quantità di ostacoli che
in vario modo ne rende pressoché astratta l’affermazione.
Se infatti da un lato alle scuole paritarie è richiesto, in
quanto tali, di ottemperare a condizioni che sono, anche
sul piano economico, fortemente onerose, dall’altro lato
si deve ammettere onestamente che, fino a tanto che la
legislazione italiana sulla parità non avrà ottenuto il suo
completamento anche sul piano del suo finanziamento,
a una parità nominale affermata non corrisponderà mai
una parità nei fatti. Com’è noto in effetti alle scuole paritarie non vengono accordate in generale34 «le sovvenzioni
pubbliche necessarie allo svolgimento dei loro compiti e
all’adempimento dei loro obblighi in condizioni uguali
a quelle di cui beneficiano gli istituti pubblici corrispondenti».35 È questa la ragione principale per cui il numero
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delle scuole cattoliche, che nonostante tutto si sforzano
per quanto possibile di mantenere fede all’impegno di non
escludere gli alunni più poveri,36 va progressivamente riducendosi. Per molti genitori il progetto di un’educazione
scolastica libera e coerente con i valori vissuti e testimoniati in famiglia rimane pertanto un’aspirazione irrealizzabile e le scuole cattoliche, che spesso sono nate per venire incontro ai bisogni educativi delle persone più deboli
e degli strati più umili della società, finiscono per rimanere
lontane dalle loro possibilità e aspirazioni.
È per questo che facciamo nostra ancora una volta
la domanda di giustizia che sale da chi non è in grado di
frequentare la scuola cattolica.
d) Per una corretta impostazione del problema
21. La riflessione condotta finora non sarebbe completa, se non dovessimo dare spazio a un’ultima considerazione. Rimane fermo che per i cristiani la scuola cattolica è soltanto una delle possibilità con cui essi intendono
offrire un contributo originale in ambito di educazione
scolastica. A essi tuttavia, in quanto cittadini di questo
Paese, sta a cuore tutta la realtà scolastica italiana nella
costante ricerca di ciò che meglio possa contribuire al suo
bene.
Per altro verso, essi sanno che è senz’altro possibile
che buoni cristiani si formino sia all’interno della scuola
cattolica sia all’interno della scuola statale. Qui si vuole
però affermare che vera libertà di scelta educativa si ha
non solo nel poter scegliere di mandare i propri figli in
una scuola cattolica, ma anche nel poter scegliere di
mandarli nella scuola statale avendo però come criterio gli standard del loro funzionamento e non i costi da
affrontare. Che ci siano percorsi formativi diversi può
essere senza dubbio un bene per la società, a patto naturalmente che si realizzino come tra loro complementari.
Un pluralismo educativo sano non dovrebbe mai essere
escludente o tradursi in concorrenza conflittuale. Al
contrario, la coesistenza cordiale di modelli educativi e
gestionali tra loro diversi può tradursi in spinta al miglioramento delle attività di ciascun concorrente, laddove un
preteso e perseguito monopolio statale dell’educazione
scolastica non potrà alla prova dei fatti che nuocere alla
qualità dell’intero sistema.
Il nostro interesse è pertanto rivolto al bene di tutto
il Paese e considera tutti gli alunni che in Italia frequentano la scuola italiana di qualsiasi ordine e grado e quale
che ne sia il gestore, per il semplice fatto che la cura pastorale della Chiesa è per sua natura rivolta a tutti indistintamente i giovani, nei quali essa ravvisa il proprio
futuro inscindibilmente legato a quello dell’Italia.
III.
Orientamenti pastorali
22. La riflessione su scuola cattolica e Chiesa locale
deve purtroppo muovere dalla constatazione di un dato
di fatto che continua a preoccupare: il permanere cioè
in vari ambienti della comunità cristiana di un’incomprensibile disattenzione verso la scuola cattolica. Già
trent’anni fa si sottolineava come accanto alle difficoltà
di ordine culturale, giuridico ed economico, che a proposito della scuola cattolica anche allora si incontravano,
si dovessero porre quelle provenienti dalla stessa comunità cristiana.37 A trent’anni di distanza – lo abbiamo
già annotato nel documento Educare alla vita buona del
Vangelo – la situazione non sembra migliorata.38
Ma proprio perché la scuola cattolica rappresenta
un patrimonio prezioso per la Chiesa locale, intenzione
principale di questa Nota è un forte invito a che tra le
comunità cristiane e le scuole cattoliche in esse esistenti si
instauri o rafforzi un rapporto sempre più fecondo a beneficio delle giovani generazioni e della limpidezza della
testimonianza cristiana nell’ambito educativo. Guardando al futuro perciò non possiamo non auspicare un
più incisivo impegno di tutte le istanze interessate della
Chiesa locale e un suo più coraggioso investimento nella
pastorale scolastica in generale, con particolare e specifico riguardo alla scuola cattolica.
Scuola cattolica e territorio
23. La scuola cattolica, preziosa risorsa educativa
per tutta la società civile, lo è in particolar modo per la
comunità cristiana locale, soprattutto là dove si realizza
come espressione autentica della sua attenzione all’intero
mondo della scuola, ai suoi problemi e alle sue aspirazioni. In questo caso essa è risorsa della Chiesa locale
disponibile per il servizio educativo a vantaggio sia dei
propri membri che di chiunque voglia accedere al suo
progetto formativo. Proprio quest’ultima prospettiva ha
ispirato la scelta del titolo della presente Nota. Riteniamo
infatti che la scuola cattolica possa e debba essere sempre
considerata uno dei luoghi privilegiati nei quali la comunità cristiana è messa nella condizione di testimoniare il
proprio nativo impegno in favore della persona umana
tout-court, in modo del tutto naturale, cercando l’incontro
con le giovani generazioni e in cordiale collaborazione
con i genitori, primi interessati all’educazione dei figli.
Per questo facciamo appello a ogni Chiesa locale,
perché si senta interpellata dalla realtà della scuola cattolica; si interroghi sinceramente sull’apprezzamento che
essa suole fare del suo valore e si adoperi di conseguenza
a porre in atto iniziative utili all’incentivazione e valorizzazione della sua presenza nel territorio. Si tratta in
effetti di presenza diversificata nel territorio a seconda
degli ordini e dei gradi della scuola stessa: se infatti le
scuole dell’infanzia si rivolgono generalmente a bambini
appartenenti a un territorio circoscritto, quale può essere
una parrocchia, le scuole primarie e secondarie accolgono alunni provenienti da un territorio più vasto, che
richiama piuttosto il livello diocesano. Si tratta pertanto
di valorizzare tali presenze secondo la loro specificità,
anche per ciò che riguarda il contatto con le famiglie.
24. Come la cura pastorale della diocesi e della parrocchia non può limitare la propria attenzione alle scuole cattoliche e deve invece interessarsi di tutte le scuole presenti
sul suo territorio, nella logica di una cooperazione e di una
condivisione dei problemi propri alle medesime fasce di
età, anche le scuole cattoliche sono invitate, a loro volta,
a stabilire relazioni costruttive con le scuole statali dello
stesso territorio, proseguendo nelle esperienze di reti già
sperimentate in tanti casi. E sarà opportuno che iniziative
in questo senso vedano sempre più spesso la partecipazione paritetica delle scuole cattoliche, che potranno così
testimoniare e diffondere la propria proposta educativa.
Senza dire che la compresenza di alunni di scuole statali
e di scuole cattoliche nelle attività di una parrocchia non
potrà che giovare alla crescita di una cultura della parità e
della sussidiarietà libera da pregiudizi e incomprensioni.
25. Riteniamo inoltre doveroso raccomandare alle
scuole cattoliche la partecipazione quanto più possibile
assidua a iniziative che, nei diversi livelli regionale, interregionale e nazionale, sono periodicamente promosse
dalle associazioni o federazioni che si occupano delle
scuole cattoliche. Si tratta di iniziative capaci di allargare il senso dell’appartenenza e di realizzare scambi di
informazioni e di esperienze; esse inoltre favoriscono non
poco il coordinamento necessario per il raggiungimento
di obiettivi comuni relativamente alla formazione o professionalizzazione del personale, alla regolazione dei rapporti di lavoro, al confronto con le istituzioni pubbliche
e private, alla tutela ed espansione dei diritti delle scuole
paritarie, alla definizione delle politiche scolastiche nazionali e regionali, alla definizione e diffusione di pratiche di eccellenza, al raccordo tra le scuole cattoliche a
livello nazionale e internazionale.
Cf. Costituzione della Repubblica Italiana, artt. 118 e 120.
C. Ruini, «Prolusione all’Assemblea Nazionale della Scuola
Cattolica, Roma 27 ottobre 1999», in Centro Studi per la Scuola
Cattolica, Per un progetto di scuola alle soglie del XXI secolo. Scuola
cattolica in Italia. Secondo Rapporto, La Scuola, Brescia 2000, 61.
33
Riteniamo di poterci richiamare anche su questo punto al documento più volte citato di trent’anni fa, rilevando quanto l’urgenza
sia oggi indiscutibilmente maggiore: «Appare dunque motivata la
richiesta, avanzata con rispetto ma anche con forza, anzitutto ai
cattolici e poi a ogni persona di buona volontà, di rivedere e, se
necessario, mutare il proprio atteggiamento verso la scuola cattolica. I cattolici devono imparare a vedere in essa un luogo significativo di incontro tra fede e cultura e un modo efficace di presenza
e di dialogo della Chiesa nel mondo, oltre che un servizio reso ai
giovani e alle famiglie per un’educazione genuinamente cristiana.
D’altra parte, chi non si riconosce nella comunione ecclesiale può
onestamente valutare con pacatezza e obiettività il contributo che
la scuola cattolica offre alla promozione di cittadini onesti, al potenziamento della cultura, al progresso sociale e civile» (Commissione
Episcopale per l’educazione cattolica, La scuola cattolica, oggi,
in Italia, n. 13; ECEI 3/1433).
34
Con l’eccezione (che forse meglio si dovrebbe chiamare «semieccezione») per le scuole dell’infanzia.
35
Così recita la risoluzione del Parlamento europeo del 14 marzo
1984 (cf. sopra, n. 17); cf. anche nota 26.
36
Cf. Congregazione per l’educazione cattolica, Le persone
consacrate e la loro missione nella scuola, nn. 69-76; EV 21/1339-1346.
37
«Né mancano talvolta le difficoltà derivanti dalla stessa comunità ecclesiale. Va infatti riconosciuta una certa indifferenza da parte
delle comunità cristiane nei confronti della scuola cattolica» (Commissione Episcopale per l’educazione cattolica, La scuola cattolica,
oggi, in Italia, n. 9; ECEI 3/1429).
38
«La scuola cattolica costituisce una grande risorsa per il Paese.
In quanto parte integrante della missione ecclesiale, essa va promossa
e sostenuta nelle diocesi e nelle parrocchie, superando forme di estraneità o di indifferenza e contribuendo a costruire e valorizzare il suo
progetto educativo» (Episcopato italiano, Educare alla vita buona
del Vangelo, n. 48; ECEI 8/3860).
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C
hiesa in Italia
DANIELE GIANOTTI
Quando dico
Credo
Soprattutto va promosso il clima della reciproca comprensione e fiducia tra le scuole cattoliche e tutti i membri
della comunità diocesana, superando le forme già denunciate di indifferenza o di incomprensione.
Piccola guida al Simbolo degli apostoli
Scuola cattolica, pastorale diocesana
e vita della Chiesa
26. Per l’inserimento organico delle scuole cattoliche
nella pastorale diocesana il Vescovo è il primo responsabile
e la figura di riferimento obbligata. Ed egli lo sarà tanto
nel senso che le scuole formalmente cattoliche e quelle di
ispirazione cristiana sono tenute a guardare a lui come
guida pastorale della propria azione educativa e della propria presenza ecclesiale, quanto nel senso che il Vescovo
non potrà non avvertire l’importanza dell’azione educativa
delle scuole cattoliche e la potenzialità pastorale che esse
rappresentano per la formazione delle giovani generazioni.
In linea con il compito a lui riconosciuto di rafforzare la
qualità ecclesiale delle scuole cattoliche, spetta al Vescovo
espletare le funzioni che la normativa canonica descrive nei
termini del «diritto di vigilare e di visitare le scuole cattoliche situate nel suo territorio» e di «dare disposizioni che
concernono l’ordinamento generale delle stesse»,39 anche
tramite il servizio offerto dai responsabili dei competenti
uffici di curia e in sintonia con le associazioni e federazioni
di scuola cattolica.
A tale scopo si rende necessaria la conoscenza puntuale
e aggiornata delle scuole cattoliche presenti nella diocesi
e va considerata attentamente l’opportunità che le diocesi
con scuole cattoliche nel proprio territorio siano tutte dotate dell’ufficio di curia sopra indicato, compatibilmente
con le risorse umane e materiali disponibili, o che si rendano effettivamente idonei gli uffici già esistenti.
Si dovrà poi verificare la possibilità di realizzare un
vero progetto educativo diocesano (o interdiocesano) di
scuola cattolica, per rendere sempre più chiara e radicata
nel territorio la sua identità. Tale progetto potrà convenientemente prevedere un coinvolgimento della diocesi
nel potenziamento delle scuole cattoliche in essa esistenti
o nel processo della loro nascita, sapendo di poter contare
sempre sulla collaborazione delle associazioni e federazioni di scuola cattolica. Sembra inoltre importante realizzare o potenziare forme di collaborazione tra le scuole
cattoliche esistenti, anche per favorire, tra l’altro, la riduzione dei costi di gestione. E sarà infine utile stabilire
tutti i più opportuni collegamenti tra le scuole cattoliche,
la Caritas diocesana, la pastorale giovanile, la pastorale
vocazionale e gli uffici di pastorale della salute e della
famiglia per lo studio delle problematiche di carattere sociale connesse al mondo della scuola, come ad esempio
il disagio familiare, l’inserimento degli alunni portatori di
disabilità e via di seguito.
In tale prospettiva le scuole cattoliche, oltre che con la
diocesi, faranno bene a intrattenere proficui rapporti con
le comunità cristiane che operano nel territorio diocesano,
in particolare con la parrocchia e le sue aggregazioni (vicariato, decanato, unità e comunità pastorali, zone pastorali).
Occorre intensificare la collaborazione, superando anche
I
l libretto spiega in modo semplice, efficace e preciso il significato del Credo e
dei suoi singoli articoli. Compendio o «simbolo» della fede, il Credo indica prima di
ogni altra cosa la risposta mutabile (ne esistono dozzine di formule) a una Parola immutabile che ci precede e ci interpella. Una
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i confini parrocchiali, per costruire alleanze educative, a
vantaggio dei giovani e delle famiglie.
27. Poiché le scuole cattoliche esistono per la libera
scelta delle famiglie cattoliche di iscrivervi i propri figli, ai
genitori deve essere rivolta un’attenzione pastorale del tutto
particolare, a partire dall’offrire loro informazioni chiare e
sicure sull’entità, il valore, il progetto formativo, i servizi
della scuola e gli impegni conseguenti all’adesione a essa.
Per parte sua ogni scuola cattolica sa che può e deve
diventare luogo nel quale soprattutto ai genitori si offrono
occasioni significative di incontro per confrontarsi sui
problemi dell’educare che la scuola affronta giorno dopo
giorno. E sono certamente degni di particolare apprezzamento i gestori di scuole cattoliche che nel loro ordinamento interno prevedono competenze e ruoli a servizio
specifico della crescita spirituale, religiosa, affettiva e sociale
dei diversi membri della comunità educativa.
Le modalità concrete di questo proficuo dialogo tra la
scuola e la comunità cristiana possono essere le più varie.
La scuola cattolica, per parte sua, sarà attenta a far conoscere attraverso i suoi peculiari strumenti didattici la Chiesa
locale nei suoi aspetti storici e artistici, nelle sue feste e nelle
sue dimensioni popolari. In talune occasioni potrà essere
utile la presenza di persone che rappresentino la scuola
nei consigli parrocchiali o in organismi simili e, viceversa,
di persone che rappresentino la comunità cristiana negli
organismi di gestione della scuola. Altre volte si vorranno
costituire apposite consulte. Non dovrebbero poi mancare
iniziative, coordinate dal Vescovo diocesano, intese a sostenere anche economicamente specifici progetti o obiettivi
delle scuole cattoliche, in particolare a favore delle famiglie
più bisognose. In questo contesto molto importante sarà
l’istituzione, là dove non esista, di una «giornata» dedicata
alla scuola cattolica.
Non sembra inutile infine raccomandare che i presbiteri vengano provvisti di un’adeguata informazione circa la
realtà della scuola cattolica e, più in generale, della scuola.
È tra di essi che andranno individuati quanti possono dedicarsi, con specifica cura pastorale, al mondo della scuola
cattolica, eventualmente anche nel ruolo di consulenti ecclesiastici delle associazioni che si occupano di essa.
28. Avendo presente che tante scuole cattoliche sono
gestite da Congregazioni o Istituti religiosi, è giusto che la
Chiesa locale manifesti il suo apprezzamento per i religiosi
che si spendono in esse e ne valorizzi la presenza attraverso contatti frequenti e sistematici con i loro responsabili. Da parte loro, i responsabili delle Congregazioni e
degli Istituti religiosi considerino doveroso il collegamento
dei religiosi e delle scuole da loro gestite con la pastorale
diocesana e con le direttive dei Vescovi in materia di pastorale scolastica. Si auspica altresì che cresca sempre più
il senso della corresponsabilità e della cooperazione tra
le diverse Congregazioni e Istituti religiosi che gestiscono
scuole cattoliche nella stessa diocesi, nella consapevolezza
Gli insegnanti delle scuole cattoliche
29. Un’attenzione tutta particolare dovrà essere riservata agli insegnanti, senza dubbio i principali operatori della scuola. Il Consiglio Nazionale della Scuola
Cattolica ha elaborato negli anni scorsi un sussidio particolarmente utile per la definizione del loro profilo professionale, al quale volentieri si rinvia.40
Come è evidente, le scuole paritarie sono tenute a
rispettare le norme generali sull’istruzione, le quali nello
stesso tempo prevedono il diritto-dovere delle stesse ad
avere un proprio progetto educativo al quale attenersi
e di cui l’ente gestore è garante. Questo progetto rappresenta il nucleo intorno al quale la vita di una scuola
cattolica si costruisce e il punto di riferimento costante
e ineludibile per tutti coloro che operano in essa. Non
possono bastare infatti astratte affermazioni di principio:
un buon progetto educativo deve saper declinare concretamente, nel quotidiano dell’attività scolastica, il legame
circolare tra la cultura, la fede e la vita, nella continua attenzione a che i contenuti educativi, espressi dalle diverse
discipline, corrispondano e rinviino alla visione cristiana
dell’uomo.
Ciò in definitiva risponde anche all’esigenza etica elementare che venga rispettata la motivazione per cui le famiglie degli studenti hanno scelto per i loro figli una scuola
cattolica e il loro diritto a vedere rispettati e realizzati concretamente gli impegni dichiarati nel progetto stesso.
30. Se da quanto appena osservato emerge la necessità che per le scuole cattoliche si scelgano insegnanti
che siano in grado di far fronte alle esigenze proprie del
loro progetto educativo,41 non si può non tenere conto
dell’odierna problematicità di tale scelta. È noto a tutti
il clima di avanzante secolarizzazione nel quale la formazione dei futuri insegnanti oggi di fatto avviene, un
clima caratterizzato da cambiamenti culturali e dei costumi sociali troppo rapidi e spesso radicali, oltre che dal
crescente venir meno della pratica religiosa. A ciò si aggiunga la quasi totale mancanza nei curricoli universitari
di programmi indirizzati alla formazione più appropriatamente professionale degli insegnanti. È facile capire
come di fronte a questo scenario i margini della scelta
degli insegnanti adatti a una scuola cattolica possano apparire al suo gestore davvero esigui.
CIC can. 806, § 1.
Cf. Consiglio Nazionale della Scuola Cattolica, Essere
insegnanti di scuola cattolica. Orientamenti operativi, 28.1.2008; ECEI
8/1990-2050.
41
Negli Orientamenti operativi del Consiglio Nazionale della
Scuola Cattolica Essere insegnanti di scuola cattolica si parla di «quat-
tro tratti distintivi, che qualificano – intrecciandosi l’uno con l’altro
– la fisionomia peculiare del docente di scuola cattolica e ne fanno
precisamente: un professionista dell’istruzione e dell’educazione; un
educatore cristiano; il mediatore di uno specifico progetto educativo;
una persona impegnata in un cammino di crescita e maturazione spirituale».
39
40
di essere parte di un unico sistema e di un comune progetto pastorale diocesano.
Nel caso in cui un Istituto religioso dovesse trovarsi
nell’impossibilità di continuare ad assicurare la gestione
di una scuola cattolica, la situazione dovrà essere attentamente valutata insieme con il Vescovo diocesano perché si
possa ricercare ogni soluzione atta a garantire la continuità
del servizio.
Il Regno -
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C
hiesa in Italia
Naturalmente da queste considerazioni consegue la
necessità veramente primaria che le scuole cattoliche investano nella preparazione dei propri insegnanti risorse ed
energie sempre più all’altezza del bisogno. E però, per altro
verso, va tenuta presente la condizione, per certi aspetti
privilegiata, delle scuole cattoliche di disporre assai spesso
di insegnanti giovani, anche all’inizio della loro carriera,
e perciò più aperti ad accogliere la proposta formativa in
chiave professionale.
In ogni caso è nella formazione permanente degli insegnanti che si gioca la possibilità per una scuola cattolica
di realizzare il progetto educativo che la identifica. Sarà
pertanto indispensabile che tale impegno di formazione
personale venga notificato all’aspirante docente di scuola
cattolica già all’atto dell’assunzione quale impegno intrinsecamente qualificante la sua futura professione. Per altro
verso, potrà essere quanto mai importante che nel corrispondente sforzo educativo della scuola vengano coinvolte
tutte le istanze ecclesiali a essa interessate, quali gli uffici
diocesani per la pastorale scolastica, le associazioni e federazioni di categoria e le stesse associazioni professionali di
docenti cattolici.
31. Di pari passo con l’attitudine professionale e la
qualità spirituale dell’insegnante di scuola cattolica si dovrà
anche considerare la sua oggettiva testimonianza di vita.
Non è difficile, specialmente al giorno d’oggi, imbattersi
nei casi di insegnanti implicati in situazioni personali critiche, comportanti una minore adesione alla vita della comunità cristiana. Non c’è dubbio che in tali casi si debba
come prima cosa dar luogo al prudente discernimento di
ogni singola situazione, nella consapevolezza della rischiosità del giudicare – per il quale esiste addirittura un divieto
evangelico – ma anche delle responsabilità incombenti
sull’autorità scolastica per quanto concerne il diritto alla
salvaguardia morale degli alunni e dei loro familiari. Toccherà alle autorità della scuola trovare i modi di non far
mancare a chi è in difficoltà la vicinanza della comunità
cristiana senza tuttavia derogare al dovere di assicurare
alla comunità scolastica la validità reale del suo progetto
educativo. L’allontanamento di un insegnante dalla scuola,
insopportabile per se stesso, può essere unicamente e dolorosamente imposto – nel rispetto della normativa civile
e canonica e sempre coniugando cristianamente verità e
carità – come provvedimento estremo dal bene prioritario
degli alunni.
32. L’insegnamento della religione cattolica è dimensione qualificante del progetto educativo di una scuola
cattolica.42 Per questo motivo tale insegnamento non può
essere assente dai suoi curricoli, né è lecito pensare che
possa essere sostituito dall’orientamento cristiano di tutta
l’attività educativa della scuola. La specifica identità scolastica di questo insegnamento costituisce al contrario un
contributo quanto mai idoneo all’avvio di una riflessione
culturalmente strutturata, oltre che sul fenomeno religioso,
sull’incidenza anche culturale della fede cattolica nella vita
delle persone e nella storia della nostra civiltà. In questo
senso l’insegnamento della religione cattolica deve essere
fatto oggetto di particolare attenzione nella programmazione degli insegnamenti delle scuole cattoliche; sarà anzi
opportuno che la quota oraria riservata a questo insegna-
496
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mento nei curricoli ordinari venga in essi potenziata, a dimostrazione tangibile del valore della cultura religiosa.
Da questa particolare cura per l’insegnamento della religione cattolica discende una speciale attenzione alla qualificazione dei rispettivi docenti, anche al di là del richiesto
riconoscimento di idoneità rilasciato dall’Ordinario diocesano e dei competenti titoli di studio attualmente richiesti
per questo delicato servizio scolastico.
L’attenzione ai più deboli
33. Fin dalle sue origini la scuola cattolica si è sentita
investita di un servizio da rendere anzitutto ai più poveri.
Ancora recentemente questa stessa istanza è stata ricordata
e autorevolmente riaffermata: «Nella dimensione ecclesiale
si radica anche il distintivo della scuola cattolica come
scuola per tutti, con particolare attenzione ai più deboli.
La storia ha visto sorgere la maggior parte delle istituzioni
educative scolastiche cattoliche come risposta alle esigenze
delle categorie meno favorite sotto il profilo sociale ed economico».43
Purtroppo assai spesso oggi le scuole cattoliche, a causa
della mancata parificazione delle stesse sul piano finanziario, non si trovano nella condizione di rimanere fedeli a
questa loro originaria vocazione. Per questa ragione potrà
essere veramente prezioso per la scuola cattolica il sostegno
di comunità ecclesiali consapevoli della vera vocazione di
essa. È certo che al crescere di tale consapevolezza, forse
da tempo attenuata in taluni ambienti, molto potranno
concorrere le misure idonee che i pastori vorranno adottare a tal fine. Anche il coordinamento delle diverse pastorali, scolastica, giovanile e familiare, coordinamento
quanto mai auspicabile, potrà offrire occasioni favorevoli
al miglioramento della conoscenza dei tanti problemi della
scuola cattolica, e di quello finanziario in particolare.
34. In un modo tutto specifico dovrà essere curata l’attenzione verso gli alunni con disabilità. La scuola cattolica
intende accoglierli con atteggiamento preferenziale, prima
ancora che per un adempimento di legge, per la sua fedeltà
all’insegnamento di Gesù. Gesù «ha riservato una cura particolare e prioritaria ai sofferenti, in tutta la vasta gamma
dell’umano dolore, avvolgendoli del suo amore misericordioso durante il suo ministero, e manifestando in esso la potenza salvifica della redenzione che abbraccia l’uomo nella
sua singolarità e totalità. Gli emarginati, gli svantaggiati, i
poveri, i sofferenti, i malati, sono stati i destinatari privilegiati dell’annuncio, in parole e opere, della buona novella
del regno di Dio che irrompe nella storia umana».44
In una società che valorizza il potere, il successo, l’avere, l’efficienza, la scuola cattolica deve dare una testimonianza di particolare attenzione alle persone più deboli,
che non possono essere private della possibilità di partecipare del suo progetto educativo. Purtroppo le condizioni
giuridiche vigenti inducono a caricare sulla stessa scuola (e
dunque sulla retta pagata dalle famiglie) le spese specificamente necessarie a sostenere la presenza e l’integrazione
degli alunni con disabilità. In attesa del superamento di
questa condizione di ingiustizia, la scuola cattolica non
verrà comunque meno al suo impegno di favorire l’acco-
glienza di questi alunni, anche se non cesserà di denunciare le condizioni penalizzanti a cui essi stessi e le loro
famiglie continuano a soggiacere.
Formazione professionale e Chiesa locale
35. Un’attenzione tutta particolare la Chiesa in Italia
ha sempre manifestato alle istituzioni preposte alla formazione professionale dei giovani, riconoscendo a esse un’importante funzione educativa e di elevazione culturale, che
merita impegno e va, nello stesso tempo, difesa nella sua
identità più propria.
In questi anni di riforma della scuola italiana si è effettivamente assistito a una qualche discussione, per certi
aspetti inedita, sull’attenzione da dedicare alla formazione
professionale. A oggi tuttavia non si ha ancora l’impressione che si stia pervenendo a un riconoscimento generalizzato della pari dignità di questo settore dell’istruzione
scolastica rispetto agli altri. Il dato di fatto è che le scuole
di formazione professionale e al lavoro continuano a raccogliere per lo più giovani in condizioni di difficoltà o provenienti da percorsi scolastici tradizionali avvertiti come
estranei ai loro interessi e stranieri in condizione di povertà. E si tratta di un dato di fatto che perpetua e allo
stesso tempo alimenta il pregiudizio culturale secondo cui
la formazione professionale ha a che fare unicamente e
necessariamente con le fasce più deboli della popolazione,
come un loro retaggio negativo. La comunità cristiana rifiuta tale pregiudizio in nome della dignità del lavoro, di
qualsiasi lavoro degno di questo nome. Per questo non può
non impegnarsi per la dovuta promozione e la valorizzazione delle scuole di formazione professionale e al lavoro e
per il superamento del pregiudizio che su di esse continua
a gravare.
Il sostegno convinto della Chiesa locale potrà condurre
alla rivalutazione dei percorsi di formazione professionale,
dimostrare nei fatti il loro vero valore umano e sociale,
anche al di là del loro potenziale valore economico, e trovare in essi quanto mai provvidenziali occasioni di evangelizzazione e di testimonianza della cristiana carità.
36. In realtà i centri di formazione professionale, in
maggioranza di ispirazione cristiana, si distinguono per la
proposta di un’esperienza educativa che nasce dal lavoro,
dal fatto cioè che al lavoro stesso è attribuita culturalmente
la capacità di concorrere alla formazione integrale della
persona umana; nel caso particolare si pensa alla persona
del giovane in quella età evolutiva a cui non sempre nelle
scuole viene riservata la dovuta attenzione.
Per altro verso non si può non tenere conto del contributo che le scuole di formazione professionale possono
offrire alla comunità civile come a quella ecclesiale: un
contributo certamente notevole tanto per il messaggio di
cultura del lavoro, di cui la formazione professionale è
42
Cf. Commissione Episcopale per l’educazione cattolica,
La scuola cattolica, oggi, in Italia, n. 22; ECEI 3/1442. Su tutto l’argomento si veda il sussidio pastorale del Consiglio Nazionale della Scuola
Cattolica dal titolo IRC e scuola cattolica, 1.7.2004; ECEI 7/1724-1752.
43
Congregazione per l’educazione cattolica, La scuola cattolica alle soglie del terzo millennio, n. 15; EV 16/1856.
espressione e insieme portatrice, sia per l’attenzione che
con essa viene prestata alle fasce più deboli della popolazione giovanile, altrimenti esposte ai rischi conseguenti
all’emarginazione scolastica e sociale.
È vivamente auspicabile pertanto un rinnovato impegno della comunità civile ed ecclesiale affinché possano
sorgere in seno a essa nuovi centri di formazione professionale, specialmente là dove essa ne è priva, e vengano
così colmati dei vuoti che, oltre a non trovare giustificazione alcuna nel loro riferimento al tessuto produttivo locale, nuocciono al suo sviluppo sociale ed economico, in
flagrante contraddizione con la logica della sussidiarietà.
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onclusione
37. La scuola cattolica assolverà al suo importante
compito e si confermerà come originale e preziosa risorsa
educativa a misura che la sua proposta formativa continuerà a realizzarsi come proposta di qualità, in grado di
onorare per intero la sua specificità.
E nel dire «qualità» sappiamo bene di alludere a cose
assai concrete, come lo è l’identità chiara e coerente della
specificità cristiana che questa scuola vuole testimoniare; o
l’attenzione alla persona di chi alla scuola cattolica si indirizza e si affida; ma come lo sono anche i curricoli scolastici rispondenti al bisogno culturale e professionale degli
alunni; o le strutture e le attrezzature adeguate di cui essa
dovrà sapersi e potersi dotare; e, ancor prima, un personale
professionalmente qualificato e spiritualmente motivato, a
cominciare da corpi docenti perfettamente all’altezza del
loro compito.
L’originalità che deve rendere attraente e desiderata
una scuola cattolica dipende da quanto essa, partendo da
un progetto educativo che ha di mira la «vita buona del
Vangelo», sia in grado di diventare un luogo in cui l’educazione schiude orizzonti ampi e invitanti, raccoglie le
sfide del nostro tempo, accende la passione per la verità,
l’amore, la giustizia, la solidarietà, la libertà, la legalità; un
luogo nel quale le giovani generazioni siano aiutate ad acquisire mezzi e strumenti per la loro vita futura, ma anche
a trovare le ragioni di una vita veramente piena e veramente umana: in una parola, una scuola che viva della
passione per la causa stessa di Dio fattosi per amore «uomo
tra gli uomini».
Possiamo perciò richiamare anche le parole di Papa
Francesco ai giovani che partecipavano alla Giornata
Mondiale della Gioventù a Rio de Janeiro: «Cari giovani,
alla Croce di Cristo portiamo le nostre gioie, le nostre sofferenze, i nostri insuccessi; troveremo un Cuore aperto che
ci comprende, ci perdona, ci ama e ci chiede di portare
questo stesso amore nella nostra vita, di amare ogni nostro
fratello e sorella con questo stesso amore».45
44
Segreteria di Stato, documento della Santa Sede Fin dal
primo momento per l’Anno Internazionale delle persone handicappate,
4.3.1981, Premessa; EV 7/1138-1142.
45
Francesco, Discorso durante la Via Crucis con i giovani in occasione della XXVIII Giornata Mondiale della Gioventù, Lungomare
di Copacabana, Rio de Janeiro, 26.7.2013.
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hiesa in Italia
Appendice
Alunni del sistema nazionale di istruzione (anno scolastico 2012-13)
Infanzia
Primaria
Sec. I grado
Sec. II grado
Totale
1.686.095
18,8
2.825.400
31,6
1.779.758
19,9
2.652.448
29,7
8.943.701
100,0
Scuole statali*
%
1.014.142
60,1
2.574.660
91,1
1.673.564
94,0
2.475.273
93,3
7.737.639
86,5
Scuole paritarie*
%
642.040
38,1
190.608
6,7
69.833
3,9
133.922
5,0
1.036.403
11,6
Scuole cattoliche**
%
426.749
66,5
154.137
80,9
62.437
89,4
59.674
44,6
702.997
67,8
Totale*
% su ultima colonna
* Dati Miur.
** Elaborazione Centro Studi per la Scuola Cattolica su dati Miur provvisori.
N.B. Le percentuali delle scuole statali e paritarie sono calcolate sul totale del rispettivo ordine e grado; le percentuali delle scuole
cattoliche sono calcolate sulle rispettive scuole paritarie. Il totale degli alunni non corrisponde alla somma delle scuole statali e
paritarie in quanto alcuni frequentano scuole non paritarie non comprese nella tavola.
Finanziamenti statali al sistema nazionale di istruzione
Scuola statale (dati Eurydice)
(previsioni di bilancio giugno 2013)
Finanziamento totale alle scuole statali
€ 40.596.307.956
Costo allo Stato in media per alunno di scuola statale
€ 5.246,60
Scuola paritaria (dati Miur)
(anno finanziario 2013)
Cap. 1477 (erogato marzo 2013)
€ 275.928.558
Cap. 1299 (erogato febbraio 2014)
€ 223.000.000
Finanziamento statale totale alle scuole paritarie
€ 498.928.558
Costo allo Stato in media per alunno di scuola paritaria
€ 481,40
Finanziamento pubblico alle scuole non statali in Europa
Belgio
Gli stipendi di tutto il personale sono a carico dello Stato
Francia
Sono possibili quattro alternative:
– integrazione amministrativa, con tutte le spese a carico dello Stato;
– contratto di associazione, con spese di funzionamento e per i docenti a carico dello
Stato, a condizione che i docenti abbiano gli stessi titoli dei colleghi statali;
– contratto semplice, con spese per il solo personale docente a carico dello Stato;
– contratto di massima libertà, che non prevede alcun contributo
Germania
Sono a carico dello Stato e delle Regioni (Land) lo stipendio dei docenti (85%), gli oneri
previdenziali (90%), le spese di funzionamento (10%) e la manutenzione degli immobili (100%)
Inghilterra
Nelle maintained school sono a carico dello Stato tutti gli stipendi e le spese di
funzionamento, oltre all’85% delle spese di costruzione
Irlanda
Le spese di costruzione degli immobili sono a carico dello Stato: in misura completa per le
scuole dell’obbligo; per l’88% nelle scuole superiori
Lussemburgo
Sono a carico dello Stato tutte le spese
Olanda
Sono a carico dello Stato tutte le spese nella scuola dell’obbligo; sono forniti sussidi per la
costruzione e il funzionamento delle scuole superiori
Portogallo
È erogato dallo Stato l’equivalente del costo medio di un alunno di scuola statale
Spagna
Sono a carico dello Stato tutte le spese
(Fonte: Agesc 2012)
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hiesa in Italia |
gorizia
Cent’anni
di guerra
mondiale
Mons. Carlo Roberto Maria Redaelli,
arcivescovo di Gorizia
S
Quanto «sangue è stato versato
inutilmente su queste alture e lungo
il nostro fiume! Sangue di giovani di
eserciti di molte nazionalità, quasi tutti
di fede cristiana. E l’“inutile strage”
ha avuto una continuazione dopo un
paio di decenni nella seconda guerra
mondiale». A cento anni dall’inizio del
primo conflitto mondiale (28 luglio),
e in vista dell’annunciata visita del
papa al cimitero austro-ungarico di
Fogliano e al Sacrario di Redipuglia il
13 settembre, il vescovo della diocesi
di Gorizia, mons. C. Redaelli, ha
rivolto ai fedeli una lettera intitolata
«Egli è la nostra pace». Lettera nel
centesimo anniversario dell’inizio
della prima guerra mondiale. «La
nostra terra ha pagato duramente una
guerra voluta dalle potenze di allora» –
afferma il presule –. Ma – si domanda
– «siamo sicuri che le ferite di allora
si siano realmente rimarginate e non
semplicemente dimenticate? Siamo
certi che non ci sia bisogno di ulteriori
passi sulla via della pace?».
Stampa (25.8.2014) da sito web www.gorizia.
chiesacattolica.it.
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abotino, San Michele, San Martino... Sono
solo alcuni dei molti luoghi, teatro di sanguinose battaglie, ricordati dalle lastre di
bronzo che accompagnano la salita al Sacrario di Redipuglia.
Non avevo dato molta importanza a questi nomi,
quando, in gita scolastica da ragazzo, avevo visitato
quell’impressionante luogo che raccoglie le salme di
100.000 caduti. Li ho riletti in modo del tutto diverso
quando, poco dopo l’annuncio da parte di papa Francesco della sua intenzione di venire a Redipuglia, pellegrino di pace, il 13 settembre 2014, mi sono recato al
sacrario.
A quasi due anni dal mio ingresso nella diocesi di Gorizia, ho ormai imparato a riconoscere dietro quei nomi
le alture del Carso e i colli che stanno attorno a Gorizia,
lungo l’Isonzo. Sto cercando d’individuare anche i luoghi sacri a nazioni che allora erano considerate nemiche
dell’Italia e che oggi sono parte dell’Unione Europea (e
basterebbero i decenni di pace garantiti dall’intuizione
di uomini come Adenauer, Schuman, De Gasperi e
altri per giustificare l’esistenza dell’Unione): il cimitero
austro-ungarico di Fogliano-Redipuglia, la cappella militare di Visintini a Doberdò del Lago, cara agli ungheresi.
Tutti luoghi dove 100 anni fa si è consumata quella
tragedia che, profeta inascoltato, papa Benedetto XV
aveva definito «inutile strage». In episcopio, qui a Gorizia, è conservato un ritratto di questo papa, opera della
pittrice istriana Emma Galli, seduto in atteggiamento
sconsolato, con sullo sfondo da una parte la città di Gorizia bombardata e dall’altra il porto di Monfalcone in
fiamme.
Quanto sangue è stato versato inutilmente su queste
alture e lungo il nostro fiume! Sangue di giovani di eserciti di molte nazionalità, quasi tutti di fede cristiana. E
l’inutile strage ha avuto una continuazione dopo un paio
di decenni nella seconda guerra mondiale, altro conflitto
che ha ferito profondamente e in modo indelebile il nostro territorio.
Qui da noi l’anniversario della prima guerra mondiale non può essere quindi ridotto a un avvenimento
di solo interesse storico, culturale e persino turistico. Se
la prima guerra mondiale ha coinvolto tutte le famiglie
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(quale famiglia, risalendo di due o tre generazioni, non
ha tra i parenti un soldato di allora e spesso un caduto?)
e molte zone del Nord-est d’Italia sono state teatro di
battaglie (anche il paese d’origine di mia madre, posto
sulle rive del Piave di fronte al monte Grappa, è stato
distrutto dopo Caporetto), è certo che la nostra terra ha
pagato duramente una guerra voluta dalle potenze di allora. Una guerra – non dimentichiamolo – che da noi,
allora parte dell’impero austro-ungarico, è iniziata nel
1914 con l’invio dei nostri giovani sul fronte orientale in
Galizia.
È quindi essenziale per le nostre comunità cogliere
l’occasione dell’anniversario della prima guerra mondiale per una profonda riflessione a partire da una visione non solo storica e culturale ma anche religiosa e,
comunque, profondamente umana, perché il valore della
pace non ha un colore religioso, ma è un dono di Dio per
gli uomini e le donne d’ogni tempo.
La visita di papa Francesco al Cimitero austro-ungarico e la celebrazione dell’eucaristia al Sacrario di Redipuglia sarà occasione preziosa per favorire la riflessione,
la preghiera, l’azione per la pace.
In questa lettera vorrei semplicemente offrire alcuni
spunti che ci aiutino a prepararci a quella visita, nell’impegno di rendere poi il magistero di papa Francesco una
guida per il nostro cammino di pace per questi anni.
Alcuni interrogativi
I motivi che hanno portato allo scoppio della prima
guerra mondiale sono tuttora allo studio degli storici e si
presentano alquanto complessi. Tra gli altri si possono
citare: l’imporsi del concetto di nazione fino a giungere
a esasperati nazionalismi, il desiderio di rivincita dopo
precedenti conflitti, la crisi sociale degli imperi centrali,
l’accumulo di armi con i relativi interessi, la visione romantico-cavalleresca della guerra come «purificazione»
eroica dell’umanità.
Anche il punto di vista ecclesiale merita di essere studiato. Che cosa pensava allora la Chiesa della guerra?
Perché il magistero del papa non è stato ascoltato e i suoi
sforzi per evitare il conflitto (per altro già di papa Pio X)
o per chiuderlo non hanno avuto effetto? C’era una posizione comune tra i cattolici? Quanto sono stati determinanti – per stare al solo contesto italiano – fattori come la
dottrina tradizionale della «guerra giusta» e l’impreparazione teorica nel valutare moralmente un nuovo modo di
fare la guerra, il desiderio di mostrarsi leali verso il nuovo
stato unitario italiano (costruito con accentuate caratteristiche anti-cattoliche), l’impegno di essere comunque
solidali con la popolazione (si può ricordare la dedizione
eroica di molti cappellani, di parroci e di vescovi che non
hanno abbandonato la loro gente)?
Non è questo il luogo per dare risposte a tali interrogativi e neppure per fare «processi» astorici alle generazioni che ci hanno preceduto, ma è importante domandarci: se emergesse ora una situazione di possibile
conflitto, quale sarebbe il nostro atteggiamento come
cristiani, ma anche come cittadini?
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Cittadini di una Repubblica che nella Costituzione
afferma: «L’Italia ripudia la guerra come strumento di
offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali; consente, in
condizioni di parità con gli altri stati, alle limitazioni di
sovranità necessarie a un ordinamento che assicuri la pace
e la giustizia fra le nazioni; promuove e favorisce le organizzazioni internazionali rivolte a tale scopo» (art. 11) e di
una Unione Europea che nell’art. 3, comma 1 del vigente
Trattato dichiara: «L’Unione si prefigge di promuovere la
pace». E come porci di fronte a conflitti che insanguinano
il mondo in terre più o meno vicine a noi?
Tornando al primo conflitto mondiale del secolo
scorso (senza dimenticare il secondo): siamo sicuri che
le ferite di allora si siano realmente rimarginate e non
semplicemente dimenticate? Siamo certi che non ci sia
bisogno di ulteriori passi sulla via della pace proprio qui
da noi?
È evidente che generici appelli alla pace, alla riconciliazione, al perdono, alla fratellanza, non sono sufficienti. Come non sono utili nostalgie nazionalistiche o
patriottiche, ormai fuori tempo, o posizioni ingenuamente pacifiste.
La parola di Dio
Un fondamentale aiuto per rispondere a questi interrogativi viene anzitutto dalla parola di Dio, che ha preso
carne nel Signore Gesù. A titolo del tutto esemplificativo
e con l’intento di spingere a un approfondimento personale e comunitario, vorrei proporre tre testi.
Il primo è la profezia contenuta nel libro di Isaia (2,25): «Alla fine dei giorni, il monte del tempio del Signore
sarà saldo sulla cima dei monti e s’innalzerà sopra i colli,
e a esso affluiranno tutte le genti. Verranno molti popoli e diranno: “Venite, saliamo sul monte del Signore,
al tempio del Dio di Giacobbe, perché ci insegni le sue
vie e possiamo camminare per i suoi sentieri”. Poiché
da Sion uscirà la legge e da Gerusalemme la parola del
Signore. Egli sarà giudice fra le genti e arbitro fra molti
popoli. Spezzeranno le loro spade e ne faranno aratri,
delle loro lance faranno falci; una nazione non alzerà
più la spada contro un’altra nazione, non impareranno
più l’arte della guerra. Casa di Giacobbe, venite, camminiamo nella luce del Signore».
Una profezia che parla di pace, ma che sembra rinviare il tutto «alla fine dei giorni». La pace, quindi, solo
come un sogno o al più una speranza lontana? Certo la
pace vera, non solo come assenza di guerra, ma come
«shalom» con tutto ciò che questo concetto biblico comporta in positivo, di concordia, amore, gioia, serenità,
pienezza di vita ecc. ci sarà solo alla fine quando si manifesterà finalmente il regno di Dio. Ma già ora c’è la possibilità di camminare verso la pace: «Casa di Giacobbe,
venite, camminiamo nella luce del Signore». Non si dice:
«cammineremo», rinviando tutto al futuro, ma «camminiamo», oggi. Un camminare sulle «vie» e i «sentieri»
che il Signore già oggi ci indica attraverso la sua Parola
e il suo rivelarsi nella storia.
Sentieri che chiedono un impegno in negativo –
«non alzare più la spada contro un’altra nazione», «non
imparare più l’arte della guerra» –, ma soprattutto in
positivo, trasformando gli strumenti di guerra in strumenti di pace: «spezzeranno le loro spade e ne faranno
aratri, delle loro lance faranno falci». Di solito avviene
il contrario: nella prima guerra mondiale, purtroppo,
strumenti di lavoro pacifico, come la zappa, la pala e il
piccone, sono diventati strumenti di guerra per scavare
le trincee e strumenti di festa, come le campane, sono
diventati cannoni.
Un secondo testo è dell’apostolo Paolo, nella sua
Lettera agli Efesini (Ef 2,13-18): «Ora invece, in Cristo
Gesù, voi che un tempo eravate lontani, siete diventati
vicini, grazie al sangue di Cristo. Egli infatti è la nostra
pace, colui che di due ha fatto una cosa sola, abbattendo
il muro di separazione che li divideva, cioè l’inimicizia,
per mezzo della sua carne. Così egli ha abolito la Legge,
fatta di prescrizioni e di decreti, per creare in se stesso,
dei due, un solo uomo nuovo, facendo la pace, e per
riconciliare tutti e due con Dio in un solo corpo, per
mezzo della croce, eliminando in se stesso l’inimicizia.
Egli è venuto ad annunciare pace a voi che eravate lontani, e pace a coloro che erano vicini. Per mezzo di lui
infatti possiamo presentarci, gli uni e gli altri, al Padre in
un solo Spirito».
Il brano fa riferimento alla situazione di frattura e di
divisione di carattere religioso, tra giudei e pagani: un
«muro di separazione» (una città come Gorizia, divisa
in due dalla seconda guerra mondiale, sa bene che cosa
sia un muro di separazione…). Quella descritta sembra una situazione meno grave di quella dovuta a una
guerra, ma la sua lettura alla luce della Pasqua di Cristo
porta l’apostolo a evidenziare la radice di ogni conflitto,
anche di quello che è nel cuore di ciascuno: il peccato,
la lontananza da Dio che, come insegnano i primi capitoli della Genesi, portano alla rottura di ogni relazione:
uomo-donna (Adamo ed Eva), fratello e fratello (Caino
e Abele), uomo e creato (che diventa nemico, cui strappare a fatica il nutrimento).
San Paolo indica anche chi è l’unico in grado di sanare questa «inimicizia» insita nel cuore di ogni uomo
e di ogni donna: Cristo con il suo sangue. Lui, morendo
sulla croce, ha trasformato il massimo di male, di cattiveria e di ingiustizia (l’uccisione del figlio di Dio innocente)
nel massimo dell’amore («Dio infatti ha tanto amato il
mondo da dare il Figlio unigenito»: Gv 3,13). Il Crocifisso «ha eliminato in se stesso l’inimicizia», quell’inimicizia che neppure la Legge poteva cancellare e che,
anzi, contribuiva a rafforzare stabilendo un confine tra
il popolo eletto e le genti. Per questo e solo per questo,
Cristo – e la Chiesa in obbedienza a lui – può annunciare la pace ai vicini e ai lontani.
Non può mancare, infine, il passo evangelico fondamentale per l’azione di pace, quello delle beatitudini
(Mt 5,3-12): «Beati i poveri in spirito, perché di essi è il
regno dei cieli. Beati quelli che sono nel pianto, perché
saranno consolati. Beati i miti, perché avranno in eredità la terra. Beati quelli che hanno fame e sete della
giustizia, perché saranno saziati. Beati i misericordiosi,
perché troveranno misericordia. Beati i puri di cuore,
perché vedranno Dio. Beati gli operatori di pace, perché saranno chiamati figli di Dio. Beati i perseguitati
per la giustizia, perché di essi è il regno dei cieli. Beati
voi quando vi insulteranno, vi perseguiteranno e, mentendo, diranno ogni sorta di male contro di voi per causa
mia. Rallegratevi ed esultate, perché grande è la vostra
ricompensa nei cieli. Così infatti perseguitarono i profeti
che furono prima di voi».
Il termine greco che viene tradotto con «operatori
di pace» nella Bibbia compare solo nel testo delle beatitudini nella versione di Matteo. Nell’ellenismo veniva
attribuito ai capi dei popoli, a coloro che gestivano il
potere e che facevano la pace… con le armi, vincendo le
guerre e imponendo la pace. Non è certo questo ciò che
propone il Signore, bensì l’autentica azione per la pace,
che cerca la riconciliazione (nel Vangelo di Matteo Gesù
chiede che ci si riconcili con il fratello prima di portare
l’offerta all’altare anche quando è l’altro ad avere qualcosa contro di noi: cf. Mt 5,23-24), che cerca la giustizia
(ne ha fame e sete), che dona misericordia, che è mite,
che sopporta la persecuzione. Tutti gli atteggiamenti descritti dalle beatitudini possono quindi essere visti come
esplicitazione e contenuto dell’agire per la pace.
Significativa anche la precisazione: «Saranno chiamati figli di Dio». Non si tratta di un titolo onorifico,
ma dell’essere come il Padre, capaci di amare persino
i nemici: «Ma io vi dico: amate i vostri nemici e pregate per quelli che vi perseguitano, affinché siate figli
del Padre vostro che è nei cieli» (Mt 5,44-45). La perfezione cui i discepoli sono chiamati («Siate perfetti
come è perfetto il Padre vostro celeste»: Mt 5,48) è la
perfezione di chi ama tutti senza distinzione (e non per
niente il Vangelo di Luca, nel passo parallelo – Lc 6,36
–, afferma: «Siate misericordiosi, come il Padre vostro
è misericordioso»).
L’attuale insegnamento della Chiesa
Dalla parola di Dio proviene quanto la Chiesa fa e
insegna circa la pace. Questi 100 anni hanno visto un
approfondimento della riflessione teologica, che è stata
ripresa e stimolata dal magistero, e un moltiplicarsi di
interventi e di forti prese di posizione in particolare da
parte dei sommi pontefici. Le parole e i gesti di papa
Francesco nella sua prossima visita costituiranno sicuramente un ulteriore arricchimento di ciò che la Chiesa
pensa e fa per la pace in collaborazione con tanti uomini e donne e istituzioni religiose e civili che desiderano costruire la pace.
Anche in questo caso, senza alcuna pretesa di completezza, può essere utile offrire alcuni accenni sull’attuale coscienza ecclesiale in tema di pace, con l’auspicio
che queste brevi sottolineature spingano a un approfondimento di conoscenza e di riflessione.
Occorre anzitutto ricordare come l’insegnamento
della Chiesa, da Benedetto XV all’attuale papa, sia stato
costante e univoco nell’invocare, come strumento per
la difesa della pace e la risoluzione dei conflitti, non la
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Non si ripetano gli errori del passato
R
accogliamo di seguito alcuni passaggi significativi presi
da dichiarazioni, omelie e messaggi di singoli vescovi e
intere conferenze episcopali resi pubblici nei giorni in cui
cadeva l’anniversario della dichiarazione della prima guerra
mondiale (28 luglio). Una rassegna espressiva dei pensieri e
delle preoccupazioni che la commemorazione ha suscitato
nei pastori delle nostre Chiese.
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«Ricordiamo che tutto si perde con la guerra e nulla
si perde con la pace», ha sottolineato papa Francesco nel
messaggio dopo l’Angelus domenica 27 luglio, ricordando
l’inizio della prima guerra mondiale ed esprimendo l’auspicio
«che non si ripetano gli sbagli del passato, ma si tengano
presenti le lezioni della storia, facendo sempre prevalere le
ragioni della pace mediante un dialogo paziente e coraggioso». Immediato il riferimento del papa ai conflitti attuali
del Medio Oriente, Iraq e Ucraina con la richiesta di continuare a pregare «perché il Signore conceda alle popolazioni
e alle autorità di quelle zone saggezza e forza necessarie per
portare avanti con determinazione il cammino della pace».
Indispensabile è che «al centro di ogni decisione non si pongano gli interessi particolari, ma il bene comune e il rispetto
di ogni persona». Il pontefice ha avuto parole particolari per
i bambini ai quali «si toglie la speranza di una vita degna, di
un futuro». E un appello accorato: «Fermatevi, per favore!
Ve lo chiedo con tutto il cuore. È l’ora di fermarsi! Fermatevi, per favore!».
Il giorno prima il vescovo di Trento, Luigi Bressan, sull’Adamello, nella messa per i caduti delle guerre, aveva invitato a
«gridare il nostro no a tutte le guerre», e a «non ricadere nella
tentazione della violenza, ed essere al contrario costruttori
di fraternità». Per il vescovo, la responsabilità della pace è nelle
mani dei potenti della terra, ma «occorre fare pressione su di loro
con la testimonianza di vita e con la parola, nella coscienza che
un sistema ingiusto, per quanto riguarda i diritti umani, sociali ed
economici, provoca reazioni anche violente».
La stessa preoccupazione è stata espressa dall’arcivescovo
di Gatineau Paul-André Durocher, presidente della Conferenza
dei vescovi cattolici in Canada in una lettera del 1° agosto: «La
guerra spesso scoppia nei paesi più poveri, nelle situazioni più
deplorevoli e si alimenta di disoccupazione, fame, oppressione e
disperazione». La strada verso la pace passa perciò attraverso «la
costruzione di un mondo più giusto dove ognuno può gustare
un po’ della bellezza della vita». L’arcivescovo canadese invitava
inoltre a trasformare l’anniversario in un’occasione per i cristiani
«per rinnovare il proprio impegno per la pace», chiedendo a Dio
«di rendere ciascuno di noi strumento di pace».
L’arcivescovo di Dublino, Diarmuid Martin, nell’omelia pronunciata il 3 agosto scorso nella pro-cattedrale della capitale irlandese, ha commemorato le vittime della guerra attraverso l’esperienza e il diario di don Francis Gleeson, sacerdote dublinese
che a 30 anni fu al fronte come cappellano militare e fu anche un
precursore dell’ecumenismo pratico, lavorando insieme a cappellani di altre Chiese cristiane. Martin ha anche insistito sugli
esiti devastanti di ogni guerra che «non finisce con un cessate il
fuoco» ma lascia ferite «nei corpi e nei cuori (…) e nei rapporti tra
i popoli e gli stati». «Lo scorso mese di luglio sarà ricordato come
uno dei mesi più sorprendenti di sangue negli ultimi anni. Siamo
testimoni di una carneficina», ha affermato l’arcivescovo, denunciando che «il profitto» e «gli interessi di persone spesso lontano
da dove la carneficina avviene» sono dietro ogni razzo sparato.
La speranza sta «nel fatto che Gesù, nella sua generosità, trasfor-
guerra e neppure le pur lodevoli iniziative diplomatiche multilaterali, bensì la realizzazione di un arbitrato
internazionale, dotato di un potere conferito dai singoli
stati, in modo da affrontare i problemi non con la forza
delle armi, ma dell’intelligenza e della diplomazia con
la possibilità di un’effettiva attuazione.
Accanto a ciò, già Benedetto XV proponeva il disarmo generale e il mantenimento degli strumenti di
morte «nella misura necessaria e sufficiente al mantenimento dell’ordine pubblico nei singoli stati» (lettera Dès
le début ai capi dei popoli belligeranti, 1.8.1917; Enchiridion della pace 1/104).
Il concilio Vaticano II porta a maturazione la riflessione ecclesiale precedente affermando da una parte che
«ogni atto di guerra che indiscriminatamente mira alla
distruzione di intere città o di vaste regioni e dei loro
abitanti, è delitto contro Dio e contro la stessa umanità
e con fermezza e senza esitazione deve essere condannato» (Gaudium et spes, n. 80; EV 1/1601), e dall’altra
che «fintantoché esisterà il pericolo della guerra e non
ci sarà un’autorità internazionale competente, munita
di forze efficaci, una volta esaurite tutte le possibilità
di un pacifico accomodamento, non si potrà negare ai
governi il diritto di una legittima difesa» (Gaudium et
spes, n. 79; EV 1/1596).
Anche la logica della deterrenza va superata, come
per altro già indicava papa Giovanni XXIII nella Pacem
in terris. La deterrenza, afferma il Concilio, «non è la
via sicura per conservare saldamente la pace (...). Le
cause di guerra anziché venire eliminate da tale corsa
minacciano piuttosto di aggravarsi gradatamente. E
mentre si spendono enormi ricchezze per procurarsi
sempre nuove armi, diventa poi impossibile arrecare
sufficiente rimedio alle miserie così grandi del mondo
presente» (Gaudium et spes, n. 81; EV 1/1604).
Paolo VI nel discorso alle Nazioni Unite del 1965
indicava che la via della costruzione del «bene comune»
universale passa attraverso il primato della politica e del
ricorso al diritto internazionale: il superamento dei conflitti fra popoli o nazioni richiede la possibilità di appello
a istituzioni internazionali poste a garanzia della giustizia e della pace (n. 6; Enchiridion della pace 2/3641).
Sulla stessa linea si collocava Giovanni Paolo II
il mattino del primo giorno della guerra nel Golfo
(17.1.1991): «In queste ore di grandi pericoli, vorrei ripetere con forza che la guerra non può essere un mezzo
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merà le nostre azioni in un modo che supera le nostre attese»,
come testimonia il racconto evangelico della moltiplicazione dei
pani e dei pesci.
Anche il card. Vincent Nichols, arcivescovo di Westminster,
il 4 agosto ha celebrato una messa per i caduti della Guerra e
nell’omelia ha fatto riferimento alle esperienze dei 37 sacerdoti diocesani al fronte come cappellani militari. Indagando
sull’origine complessa del conflitto, ha indicato tra le sue cause
«identità concorrenti e minacciate, e grandi potenze; profondi
desideri di conservare blocchi di potere costituiti; leader in difficoltà, concentrati su questioni interne», constatando che «oggi
ritroviamo gli stessi elementi (…) in molte situazioni nel nostro
mondo», per cui è necessario continuare «la nostra preghiera per
la pace (…), ricordando ancora una volta che la violenza provoca
sempre violenza». Eppure la pace è fragile e poco attraente, sembra dire in modo ironico il vescovo di Verdun, François Maupu,
nel suo messaggio pubblicato sul bollettino di giugno di Justitia
et pax Francia: «Sfortunatamente per lei, la pace non è così spettacolare come la guerra. Cercate d’organizzare una mostra sulla
pace! Le testimonianze che riuscirete a presentare saranno molto
meno attraenti per il grande pubblico rispetto ai documenti sulla
guerra, più numerosi e in grado di commuovere o scioccare».
Fa invece riferimento al «pesante coinvolgimento delle
Chiese e delle comunità religiose nell’ideologia della guerra» il
messaggio dei vescovi austriaci diffuso dopo l’assemblea plenaria di primavera, nel marzo scorso. «Anche se sono trascorsi
100 anni, è necessario ammettere questa verità e vergogna». Essi
scrivono di un «fallimento degli allora responsabili ecclesiali e politici» nell’evitare la guerra e della loro «sordità e ignoranza circa
le iniziative di pace di papa Benedetto XV», avviate già nel 1914
ma che «rimasero senza effetto presso tutte le parti in conflitto».
Questa constatazione si ritrova anche nelle parole del vescovo di
Verdun, mons. François Maupu che ricorda molte parole e azioni
di pace inascoltate di Benedetto XV e constata: «Immaginiamo
che cosa il mondo sarebbe diventato, se il papa fosse stato
ascoltato!».
Anche i vescovi austriaci stigmatizzano il «nazionalismo
elevato al rango di religione, l’odio, il disprezzo e l’arroganza
verso altre nazioni, la presunzione di un potere assoluto sulla
vita e la morte» alla base del conflitto. E il fatto che «allora
come oggi» a minacciare la pace sono «una mancanza consistente di giustizia e le violazioni dei diritti umani», «la tentazione del potere e la glorificazione della violenza insieme
a una sottile manipolazione di più persone possibili». E ricordano: «La guerra non è un destino inevitabile, non è una legge
di natura», ed è «sempre una sconfitta per l’umanità».
Anche la dichiarazione della Conferenza episcopale tedesca, pubblicata il 25 luglio scorso con il titolo Superare l’egoismo degli stati, sviluppare l’ordine della pace, pone l’accento sul «contagio» vissuto dalla Chiesa rispetto all’entusiasmo per la guerra e sul fatto che «un gran numero» di vescovi,
sacerdoti e laici si erano associati a chi aveva «favorevolmente
accolto la guerra come rinnovamento morale e spirituale»,
senza riconoscere «in maniera adeguata la sofferenza» e «seguendo l’accecamento delle nazioni». Un riconoscimento è
espresso per quei «credenti e pastori che si erano impegnati
per la riconciliazione e la pace», e per papa Benedetto XV che
con grande intuizione aveva denunciato le «inimicizie segrete
e tensioni gelose tra le nazioni» alla radice del conflitto mondiale. Per i vescovi tedeschi, l’imperativo oggi è «opporsi con
grande determinazione a ogni nazionalismo eccessivo e alla
così spesso associata svalutazione di altri popoli e culture». In
questo senso il progetto dell’integrazione è il tesoro che l’Europa deve difendere «per evitare qualsiasi ritorno alla nazione
intesa unilateralmente». Per questo, «sviluppare il progetto
europeo è uno dei grandi compiti storici del nostro secolo».
Sarah Numico
adeguato per risolvere completamente i problemi esistenti tra le nazioni. Non lo è mai stato e non lo sarà
mai. Continuo a sperare che ciò che è iniziato abbia
fine al più presto. Prego affinché l’esperienza di questo
primo giorno di conflitto sia sufficiente per far comprendere l’orrore di quanto sta succedendo e far capire la
necessità che le aspirazioni e i diritti di tutti i popoli
della regione siano oggetto di un particolare impegno
della comunità internazionale. Si tratta di problemi la
cui soluzione può essere ricercata solamente in un contesto internazionale, ove tutte le parti interessate siano
presenti e cooperino con lealtà».
Papa Giovanni Paolo II ha offerto anche precise indicazioni sulla cosiddetta «ingerenza umanitaria». In un
discorso ai partecipanti alla Conferenza internazionale
sulla nutrizione del 5 dicembre 1992 affermava: «Molto
spesso situazioni in cui manca la pace, in cui la giustizia viene schernita, in cui l’ambiente naturale viene
distrutto, mettono popolazioni intere nel grave pericolo
di non poter soddisfare i bisogni alimentari primari.
Non bisogna che le guerre tra le nazioni e i conflitti
interni condannino civili indifesi a morire di fame per
motivi egoistici o di parte. In questi casi, si devono ga-
rantire in ogni modo gli aiuti alimentari e sanitari ed
eliminare tutti gli ostacoli, compresi quelli che si giustificano con il ricorso arbitrario al principio della non
ingerenza negli affari interni di un paese. La coscienza
dell’umanità, ormai sostenuta dalle disposizioni del diritto internazionale umanitario, chiede che sia reso obbligatorio l’intervento umanitario nelle situazioni che
compromettono gravemente la sopravvivenza di popoli
e di interi gruppi etnici: è un dovere per le nazioni e
la comunità internazionale» (Discorso J’ai accueilli alla
Conferenza internazionale sulla nutrizione promossa
dalla FAO e dall’OMS, 5.12.1992, n. 3; Enchiridion
della pace 2/6859).
Il santo papa ha sottolineato con forza, anche con
gesti molto significativi (cf. la preghiera per la pace ad
Assisi nell’ottobre 1986), il rapporto tra la pace e la religione, con l’invito ai credenti di ogni confessione di
impegnarsi insieme a costruire un mondo di giustizia
e di pace superando divisioni, lacerazioni ed errori del
passato.
Del magistero di papa Benedetto XVI non va dimenticato il collegamento tra il tema della pace e quello
della salvaguardia del creato, evidenziato, tra l’altro,
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hiesa in Italia
nel messaggio per la Giornata mondiale della pace del
2010: Se vuoi la pace, custodisci il creato. È ovvio che
solo la conservazione del creato per tutti, anche per le
future generazioni, e la distribuzione equa delle risorse
e dei beni che ne derivano, sono presupposti necessari
per prevenire molti conflitti.
Da ultimo è molto significativo il discorso all’Angelus
di papa Francesco del 1° settembre 2013, in riferimento
alla minaccia di un intervento armato generalizzato in
Siria, discorso che si concludeva invitando a una giornata di digiuno e di preghiera: «Quest’oggi, cari fratelli e
sorelle, vorrei farmi interprete del grido che sale da ogni
parte della terra, da ogni popolo, dal cuore di ognuno,
dall’unica grande famiglia che è l’umanità, con angoscia
crescente: è il grido della pace! È il grido che dice con
forza: vogliamo un mondo di pace, vogliamo essere uomini e donne di pace, vogliamo che in questa nostra società, dilaniata da divisioni e da conflitti, scoppi la pace;
mai più la guerra! Mai più la guerra! La pace è un dono
troppo prezioso, che deve essere promosso e tutelato. (…)
C’è un giudizio di Dio e anche un giudizio della storia
sulle nostre azioni a cui non si può sfuggire!
Non è mai l’uso della violenza che porta alla pace.
Guerra chiama guerra, violenza chiama violenza! Con
tutta la mia forza, chiedo alle parti in conflitto di ascoltare la voce della propria coscienza, di non chiudersi
nei propri interessi, ma di guardare all’altro come ad
un fratello e di intraprendere con coraggio e con decisione la via dell’incontro e del negoziato, superando
la cieca contrapposizione. Con altrettanta forza esorto
anche la comunità internazionale a fare ogni sforzo per
promuovere, senza ulteriore indugio, iniziative chiare
per la pace in quella nazione, basate sul dialogo e sul
negoziato, per il bene dell’intera popolazione siriana»
(Regno-doc. 17,2013,513s).
Un cammino di pace
Vorrei concludere questa lettera indicando alcuni
percorsi di pace da attuare già in preparazione della visita di papa Francesco e poi nel cammino della nostra
Chiesa nei prossimi anni.
a. La preghiera
La pace è dono e va implorata. Non nasce dalla nostra – per altro scarsa – buona volontà. È qualcosa di
fragile, che solo l’aiuto di Dio può assicurare. Nel cuore
di ognuno di noi c’è il peccato in agguato: basta poco
perché ci assalga. Le radici di ogni vizio sono presenti
in ognuno di noi. A ciò si aggiunga il peso del peccato
collettivo, quei meccanismi che, non voluti da nessuno (o
solo da pochi), una volta messi in moto, è quasi impossibile fermare: sentimenti di odio, di rivalsa, di accuse
a un generico «nemico», di paura, d’incertezza. Solo lo
Spirito è in grado di purificare i cuori, di sciogliere i cuori
di pietra, di riscaldare i cuori di carne. Occorre molta
preghiera.
Una preghiera necessaria anche per purificare la memoria. Non si tratta di dimenticare o di fare un’accurata
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e minuziosa ricostruzione storica per vedere colpe e colpevoli. È necessario chiedere al Signore la forza di non
giudicare, di perdonare, di comprendere. Per gettare nel
suo cuore misericordioso tutto ciò che di brutto è stato
fatto, tutto ciò che di cattivo è stato pensato, affidandolo
per così dire in blocco a lui e alla sua misericordia, con
la consapevolezza del male dato e ricevuto (anche da chi
ci ha preceduto), ma senza la pretesa di analizzarlo e
giudicarlo.
Anche la preghiera per i caduti è fondamentale. Tutti
i caduti, i caduti di ogni parte. Certo esiste un particolare dovere di pregare per chi ha con noi un legame di
sangue, lingua, cultura. Qui da noi, in questa terra di
confine, i legami si sono intrecciati e non dovrebbe essere
difficile pregare per i caduti di ogni parte, perché spesso
siamo in rapporto con una parte e con l’altra. Desidero
che in ogni comunità parrocchiale, in preparazione alla
visita di papa Francesco e anche dopo, si preghi in suffragio per i nostri defunti e per tutti i morti di queste
terre, al di là di ogni appartenenza. Ma si preghi anche
per i morti dei conflitti di oggi, di ogni parte: Dio non fa
distinzione di figli.
b. L’ascolto della parola di Dio
Solo la parola di Dio, accolta e pregata, può cambiare
la nostra mentalità. Occorre meditare sui molti brani che
parlano della pace (non solo quelli citati), ma anche su
quelli che evidenziano e denunciano i meccanismi dell’odio, della lotta, della superbia, della violenza.
Dai testi biblici, in particolare dai Vangeli, emerge
la proposta di una costruzione della pace che passa inevitabilmente attraverso l’impegno solidale della propria
vita. Quella pace, che non è come quella che dona il
mondo, non si raggiunge certo con il mostrare i muscoli
all’«avversario», bensì appunto con la preghiera per il
«nemico», la fattiva condivisione dei bisogni dell’altro, la
solidarietà con il fratello bisognoso.
Una solidarietà in ultima analisi assunta a criterio di
giudizio definitivo nella grande parabola di Mt 25,31-46
dove non il riconoscimento del figlio di Dio, bensì il servizio al fratello che ha fame, sete, bisogno di accoglienza
ecc. diventa l’unica condizione per poter essere ammessi
nel Regno: solo l’aver praticato la legge dell’amore consente di piacere a Dio, anzi di divenire fratello, sorella e
madre di Gesù, di essere veri operatori di pace.
c. La conoscenza dell’insegnamento
e dell’azione della Chiesa
Cercheremo in questi anni di avere più occasioni per
conoscere ciò che la Chiesa afferma e fa per la pace, a cominciare da ciò che papa Francesco dirà il 13 settembre.
Anche solo riprendere i titoli di alcuni messaggi che
ogni anno i pontefici propongono in occasione della
Giornata della pace del 1° gennaio, permette di cogliere
in maniera sintetica la forza e la concretezza di tale insegnamento: La promozione dei diritti dell’uomo, cammino
verso la pace (1969), Se vuoi la pace, lavora per la giustizia
(1972), Se vuoi la pace, difendi la vita (1977), La verità,
forza della pace (1980), Per servire la pace, rispetta la libertà (1981), Sviluppo e solidarietà: due chiavi per la pace
(1987), Offri il perdono, ricevi la pace (1997), Dialogo tra le
culture per una civiltà dell’amore e della pace (2001), Non
c’è pace senza giustizia, non c’è giustizia senza perdono
(2002), Combattere la povertà, costruire la pace (2009), Fraternità, fondamento e via per la pace (2014).
Il riferimento al pensiero della Chiesa sulla pace è importante per avere un giudizio di fede, e un’azione conseguente, su ciò che è avvenuto 100 anni fa, ma anche
su quanto purtroppo succede ancora oggi. Il rischio di
affrontare i conflitti odierni a partire dalla mentalità del
mondo, dai condizionamenti emotivi favoriti dai mezzi
di comunicazione sociale, dalle vedute di parte è sempre
presente. Come pure è sempre incombente il pericolo di
limitare la nostra azione per la pace a un generico interesse e a qualche intenzione di preghiera, senza assumere
un fattivo impegno – ciascuno con le proprie responsabilità – nei confronti del bene comune.
d. Le azioni di pace
Quali sono le azioni di pace che possiamo fare? Alcune sono alla portata di ciascuno e di ogni comunità. Ad
esempio, l’impegno a conoscere l’altro, che sia il vicino,
che sia l’italiano, lo sloveno, l’austriaco ecc. o l’egiziano,
l’afgano, il somalo, l’eritreo ecc. che scappa da situazioni
di guerra e di fame. Conoscere l’altro: è decisivo per la
pace. È più facile sparare – realmente o metaforicamente
– a una sagoma, a una «categoria», piuttosto che a un
volto conosciuto. Tutto ciò che favorisce una crescita di
conoscenza, di dialogo, di rapporto è fondamentale per
avere la pace. In una terra come la nostra, così ricca di
virtù umane e cristiane, ma talvolta tendente a non essere troppo aperta al «foresto», è essenziale fare di tutto
perché ci si conosca e ci si stimi a vicenda.
Non è cosa immediata: occorre un cammino paziente e quotidiano, che ci aiuti a superare la facilità di
etichettare le persone, di «pre-giudicarle» solo perché
appartenenti a una categoria, di avere con loro un approccio negativo dovuto a qualcosa che a volte ci è stato
trasmesso con il latte materno… Con la conoscenza è
fondamentale l’accoglienza. Non un’accoglienza ingenua
e irenistica, ma un’accoglienza insieme prudente e coraggiosa, che conduca a un’accettazione l’uno dell’altro.
Un’accoglienza che cerchi di capire i fenomeni epocali
che stiamo vivendo (mi riferisco in particolare al tema
dell’immigrazione), sproni chi di dovere a porvi rimedio
per quanto è possibile, ma nel frattempo accolga e soccorra chi ha bisogno senza se e senza ma.
Come ragioniamo di fronte ai milioni di persone che
emigrano dalla loro terra, fuggendo dalla fame, dalle
persecuzioni e dalla guerra? Sono anzitutto riconosciuti
come sorelle e fratelli, membri della nostra famiglia
umana, immagine e somiglianza di Dio?
Conoscenza, accoglienza, il terzo nome è giustizia.
La pace nasce dalla giustizia, dal rispetto dei diritti di
tutti e dall’impegno di tutti per i propri doveri. La correttezza, la legalità, l’onestà sono tutti elementi decisivi
per la pace: dobbiamo chiederli agli altri, ma dobbiamo
anzitutto viverli noi in prima persona.
Ci sono poi alcune azioni di pace che spettano in particolare a chi ha determinate responsabilità. Persone che
però non vanno lasciate sole, ma sostenute, incoraggiate
e stimolate dalla comunità ecclesiale e civile. Mi limito a
fare due esempi.
Anzitutto chi ha responsabilità per le politiche di difesa. Nella Chiesa e nella società civile è giusto che ci
siano persone che assumano ruoli profetici di forte richiamo ai valori della pace, disposti a pagare anche di
persona. Ma insieme ci devono essere persone che con
realismo e speranza (non quindi un realismo cinico, bensì
un realismo evangelico e umano), affrontino con responsabilità le scelte anche in campo militare finalizzate a
garantire la pace qui e nelle situazioni di palese e prolungata ingiustizia.
Come applicare l’art. 11 della Costituzione italiana?
Non tutti i modelli di difesa e neppure tutti gli armamenti
sono adatti a garantire la difesa della pace per noi e per
gli altri. In questo campo bisogna evitare i due estremi:
dire no sempre e comunque, lasciar correre su qualunque scelta. La comunità cristiana e la comunità civile
in uno stato democratico che ripudia la guerra, devono
poter dire qualcosa sulle scelte della difesa e deve dirlo
anzitutto chi ne ha la responsabilità.
Un secondo esempio riguarda i mezzi di comunicazione sociale. Esperienze degli ultimi anni dimostrano –
se ce ne fosse ancora bisogno – come i mass media, tradizionali e moderni, possano manipolare con estrema
facilità le emozioni della gente, far emergere paure e
insicurezze spesso inconsce, costruire in pochi giorni il
profilo di un «nemico» da temere, prospettando pericoli
non realistici. Ricordo – allora ero a Milano – come i
media italiani in occasione della prima guerra del Golfo
avevano in pochi giorni creato nell’opinione pubblica
una tensione e un’angoscia tali da indurre a comportamenti irrazionali o per lo meno non giustificati: ho
in mente le file al supermercato per fare scorte di tutto,
come se la città potesse essere bombardata da un giorno
all’altro.
Concludo ricordando che l’azione più decisiva per
la pace è quella educativa. Anzitutto quella rivolta alle
giovani generazioni, per le quali 100 anni sono quasi
un’era geologica. Venendo qui a vedere i luoghi dove
ragazzi poco più grandi di loro si sono uccisi in una
guerra assurda (mio nonno aveva compiuto 18 anni in
trincea e tanti erano giovanissimi come lui…), possono
però capire che la pace non è una cosa ovvia ma va costruita giorno per giorno, allora come oggi. Un’azione
educativa anche verso gli adulti, perché anche per noi
la pace non può essere una cosa tutto sommato ormai
conquistata definitivamente e quindi scontata – abbiamo
ben altro a cui pensare… –, ma il fondamento del vivere
umano, in attesa che si riveli per tutti la promessa di Dio,
la promessa di colui che «è la nostra pace»: «Noi infatti,
secondo la sua promessa, aspettiamo nuovi cieli e una
terra nuova, nei quali abita la giustizia» (2Pt 3,13).
Gorizia, 28 luglio 2014, 100 anni dall’inizio della
prima guerra mondiale.
✠ Carlo Roberto Maria Redaelli,
arcivescovo di Gorizia
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hiese nel mondo |
eritrea
«Dov’è tuo fratello?»
Lettera pastorale
dei vescovi cattolici dell’Eritrea
1.
«Nei mesi di settembre e ottobre
dell’anno appena trascorso… si è abbattuta sul nostro paese e sul nostro
popolo una tragedia che ha profondamente scosso anche la comunità mondiale: l’annegamento di centinaia di
giovani nostri connazionali nelle acque
del mare Mediterraneo. Era il culmine
di un’odissea che si ripeteva da anni,
fra traversate di montagne e di fiumi,
di deserti e di mari, alla mercé di criminali trafficanti di esseri umani. Si è
pianto, e si è pianto tanto». A qualche
mese dalla tragedia del 3 ottobre 2013
al largo di Lampedusa, il 25 maggio
2014 i vescovi cattolici dell’Eritrea
hanno pubblicato la lettera pastorale
«Dov’è tuo fratello?» (Gen 3,9), nella
quale descrivono la drammatica situazione di un paese in cui la crisi economica, l’assenza dello stato di diritto, il
degrado morale e la mancanza di speranza spingono sempre più giovani a
rischiare la vita tentando di emigrare.
L’appello è a tutte le coscienze, perché
attuino cammini di penitenza e conversione, a tutti i diversi livelli di responsabilità privata e pubblica. Sulla
situazione dell’Eritrea si è espresso
anche il Consiglio ecumenico delle
Chiese (cf. riquadro a p. 512).
Originale digitale in nostro possesso. Traduzione
ufficiale dall’originale in lingua tigrina. Cf. Regno-att. 22,2013,695.
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«Ai nostri veri figli nella fede» e a tutti gli uomini
e le donne di buona volontà, «grazia, misericordia e pace da Dio Padre e da Cristo Gesù Signore
nostro» (1Tim 1,2). In questo tempo pasquale in
cui Cristo ha vinto il peccato e la morte, è nostro sincero augurio che tutti voi rivestiate la pienezza della
sapienza e dell’intelligenza che egli ha abbondantemente
riversato su di noi (cf. Ef 5,8-9).
Diletti fratelli e sorelle in Cristo, la fede non è solo «fondamento di ciò che si spera e prova di ciò che non si vede»,
ma tramite essa «noi sappiamo che i mondi furono formati
dalla parola di Dio» (Eb 11,1-3) e alla sua luce comprendiamo il significato vero degli eventi che si susseguono in
questo mondo. Animati da questa fede, vi indirizziamo la
presente lettera pastorale.
Scopo
2. In questi tempi in cui numerosi uomini e donne,
ingannati da un’erronea comprensione del progresso, si
allontanano sempre più dalla fede, «rendiamo sempre
grazie a Dio per tutti voi, ricordandovi nelle nostre preghiere, e tenendo continuamente presenti l’operosità
della vostra fede, la fatica della vostra carità e la fermezza
della vostra speranza nel Signore nostro Gesù Cristo, davanti a Dio e Padre nostro» (1Ts 1,3). L’Anno della fede
che si è appena concluso ci ha aiutato a far «brillare la
fede all’interno dell’esperienza umana, percorrendo così
le vie dell’uomo contemporaneo. In questo modo è apparso come la fede arricchisce l’esistenza umana in tutte
le sue dimensioni» (Francesco, Lumen fidei, n. 6; Regnodoc. 13,2013,386).
Abbiamo avuto la grazia di iniziare quest’Anno della
fede con grande entusiasmo, di viverlo riflettendo sul
nostro cammino spirituale, pregando e lodando il nome
del Signore e compiendo opere di penitenza. All’interno
di esso abbiamo avuto il dono della nuova Eparchia di
Segheneiti, compenso alla grande fede dei nostri padri.
Per tutto ciò eleviamo coralmente il nostro inno di ringraziamento al Signore.
3. Il sommo pontefice emerito Benedetto XVI, nel
motu proprio Porta fidei, ha offerto ispirate indicazioni a
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tutta la Chiesa e a noi pastori di anime, con particolare
riferimento ai tempi in cui viviamo: «La Chiesa nel suo
insieme, e i pastori in essa, come Cristo devono mettersi
in cammino per condurre gli uomini fuori dal deserto,
verso il luogo della vita, verso l’amicizia con il Figlio di
Dio, verso colui che ci dona la vita in pienezza. Capita
ormai non di rado che i cristiani si diano maggior preoccupazione per le conseguenze sociali, culturali e politiche
del loro impegno, continuando a pensare alla fede come
un presupposto ovvio del vivere comune. In effetti, questo presupposto non solo non è più tale, ma spesso viene
perfino negato. Mentre nel passato era possibile riconoscere un tessuto culturale unitario, largamente accolto
nel suo richiamo ai contenuti della fede e ai valori da essa
ispirati, oggi non sembra più essere così in grandi settori
della società, a motivo di una profonda crisi di fede che
ha toccato molte persone» (Porta fidei, n. 2; Regno-doc.
19,2011,577).
4. Per invitarci a rimanere saldi nella fede in questi
tempi di grave crisi, Benedetto XVI ha indetto l’Anno
della fede. Come l’ apostolo Paolo esortava il discepolo
Timoteo a «cercare la fede» (2Tm 2,22) con la stessa costanza di quando era ragazzo (cf. 2Tm 3,15), anche noi,
pastori della Chiesa di Dio che è in Eritrea, sentiamo il
dovere di vigilare affinché «nessuno diventi pigro nella
fede» (Porta fidei, n. 15; Regno-doc. 19,2011,582).
Cari fratelli e sorelle, nell’assicurarvi che abbiamo pregato per voi, «perché non venga meno la vostra fede» (Lc
22,32), sentiamo indirizzata anche a noi l’esortazione di
Gesù a Pietro a confermare i fratelli nella fede. Da parte
sua, il santo padre Francesco, nell’esortazione apostolica
Evangelii gaudium, ci ha ricordato che l’interrogativo
di Dio «Dov’è tuo fratello?» (Gen 4,9) interpella anche
ciascuno di noi. Pertanto vi scriviamo la presente lettera
nell’intento di farci carico dei problemi e delle sofferenze
dei nostri fratelli, di sperimentare «la grande gioia di credere» (Lumen fidei, n. 5; Regno-doc. 13,2013,386) e di
«ravvivare la percezione dell’ampiezza di orizzonti che la
fede dischiude, per confessarla nella sua unità e integrità,
fedeli alla memoria del Signore, sostenuti dalla sua presenza e dall’azione dello Spirito Santo» (ivi).
I.
Chiusura dell’Anno della fede
5. Le iniziative dell’Anno della fede si proponevano
di risvegliare in noi il desiderio di intraprendere un rinnovato camino nella vita della fede. In tale prospettiva, la
chiusura dell’Anno non è stata tanto un punto d’arrivo,
quanto un punto di partenza verso un orizzonte di vita e
di fede verso il quale ci incamminiamo, muniti dei frutti
di cui ci hanno arricchito le celebrazioni giubilari.
Dobbiamo riscoprire quale e quanta gioia infonde la
fede, quale e quanta differenza corre fra chi crede e chi
non crede, quale privilegio e quale predilezione divina
comporta il dono della fede, quale e quanta privazione
significa la mancanza o la perdita della fede. Senza questo
dono, l’uomo perde ogni senso di orientamento e cammina fra le vicende di questa vita come in un oceano senza
traguardi, privo di una chiave per comprendere la propria
origine e il proprio fine. Tutto, per lui, si riduce entro gli
angusti limiti del puro caso. Per l’uomo della fede, al contrario, Dio è il senso primo e ultimo della creazione e del
mondo, frutto della sua paterna tenerezza e provvidenza,
che ci chiama a essere corresponsabili del perfezionamento delle realtà create.
6. Senza la fede, il dolore e l’ingiustizia non hanno né
un senso, né uno sbocco. Con la fede, Dio ci si propone
come colui che «asciugherà ogni lacrima» (Ap 21,4) dai
volti dei sofferenti e dei perseguitati, e ci dona la certezza
che «ogni uomo vedrà la salvezza di Dio» (Lc 3,6). Senza
la fede, anche le migliori esperienze dell’esistenza umana
– la vita, l’amore, la concordia, la pietà, l’aiuto reciproco,
la bontà – sono incapaci di superare i limiti della finitudine umana. Con la fede, diventano come un inizio dell’eternità. Con la fede, Dio buono e provvidente è al centro
dell’origine e del compimento di ogni esperienza positiva e
di ogni valore; tutto quanto compiamo ha in Cristo «colui
che dà origine alla fede e la porta a compimento» (Eb
12,2). Senza la fede, la morte è la fine di ogni cosa e l’esaurimento definitivo di tutti i rapporti. Con la fede, essa
è il passaggio dal percorso terreno all’inizio della pienezza
in Dio e alla restaurazione della comunione con chi ci ha
preceduti nel cammino della vita.
7. Senza la fede, il mondo è un semplice prodotto del
caso, la nostra vita un fuscello in balia delle forze della
negatività, e il nostro destino una condanna al nulla. Nella
fede in Dio scopriamo le nostre radici nella sua bontà creatrice, recuperiamo le ragioni della fraternità che ci lega
vicendevolmente e puntiamo lo sguardo verso il nostro
ultimo approdo in lui; la vita, per quanto carica di problemi e di sofferenze, viene ancorata nelle certezze che
Dio ci garantisce. Tutto quanto «non viene raddolcito da
Cristo è sempre aspro e amaro» (s. Bernardo). La fede in
colui che è «la via, la verità e la vita» (Gv 14,6) illumina e
guida la nostra esistenza. Senza di essa ci si smarrisce nelle
tenebre: «Se non crederete, non resterete saldi» (Is 7,9).
8. Dire che la nostra fede «è la vittoria che ha vinto
il mondo» (1Gv 5,4) non implica odio o disprezzo per il
mondo, ma un invito a sconfiggere la superbia, la malizia,
l’odio, il peccato, e a superare i limiti delle realtà terrestri verso una profonda comunione con il Signore, verso
la pienezza della vita e della gioia. Nella fede emerge la
somiglianza dell’uomo con Dio, gli uomini si riscoprono
figli di un unico Padre e perciò fratelli fra loro, pronti a
farsi carico gli uni degli altri. Infatti Dio, che «ha creato
l’uomo per l’incorruttibilità e lo ha fatto immagine della
propria natura» (Sap 2,23), non smette mai di interrogarlo: «Dov’è tuo fratello?»
«L’uomo, sollecitato incessantemente dallo Spirito di
Dio, non potrà mai essere del tutto indifferente davanti al
problema religioso, come dimostrano non solo l’esperienza
dei secoli passati, ma anche molteplici testimonianze dei
tempi nostri. L’uomo, infatti, avrà sempre desiderio di sapere, almeno confusamente, quale sia il significato della
sua vita, della sua attività e della sua morte» (Gaudium et
spes, n. 41; EV 1/1446). Come ci ha ricordato il sommo
pontefice Francesco, «non è la stessa cosa aver conosciuto
Gesù o non conoscerlo, non è la stessa cosa camminare
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hiese nel mondo
con lui o camminare a tentoni (…) Sappiamo bene che la
vita con Gesù diventa molto più piena e che con lui è più
facile trovare il senso di ogni cosa» (Evangelii gaudium, n.
266; Regno-doc. 21,2013,689).
9. La Chiesa, la cui missione è di illuminare le realtà
terrestri con la parola del Vangelo (cf. Apostolicam actuositatem, n. 5), insegna che «la luce della fede non ci
fa dimenticare le sofferenze del mondo… La fede non
è luce che dissipa tutte le nostre tenebre, ma lampada
che guida nella notte i nostri passi, e questo basta per il
cammino… All’uomo che soffre, Dio non dona un ragionamento che spieghi tutto, ma offre la sua risposta nella
forma di una presenza che accompagna, di una storia di
bene che si unisce ad ogni storia di sofferenza per aprire
in essa un varco di luce. In Cristo, Dio stesso ha voluto
condividere con noi questa strada e offrirci il suo sguardo
per vedere in essa la luce» (Lumen fidei, n. 57; Regno-doc.
13,2013,403). È in questo contesto che la Chiesa ci invita
a raccogliere la domanda di Dio: «Dov’e tuo fratello?».
In quanto pastori di questa Chiesa locale, ci accingiamo
a farlo spinti non da motivi di prestigio o da interessi di
parte, ma da sincero desiderio di servizio. Infatti, «una
fede autentica – che non è mai comoda e individualista – implica sempre un profondo desiderio di cambiare
il mondo, di trasmettere valori, di lasciare qualcosa di
migliore dopo il nostro passaggio sulla terra» (Evangelii
gaudium, n. 183; Regno-doc. 21,2013,676).
10. Vedere nella luce della fede significa accettare
«il grande dono portato da Gesù» (Lumen fidei, n. 1; Regno-doc. 13,2013,385). Infatti «nella fede, dono di Dio,
virtù soprannaturale da lui infusa, riconosciamo che un
grande Amore ci è stato offerto, che una Parola buona
ci è stata rivolta e che, accogliendo questa Parola, che
è Gesù Cristo, Parola incarnata, lo Spirito Santo ci trasforma, illumina il cammino del futuro e fa crescere in
noi le ali della speranza per percorrerlo con gioia. Fede,
speranza e carità costituiscono, in un mirabile intreccio,
il dinamismo dell’esistenza cristiana verso la comunione
piena con Dio. Come è questa via che la fede schiude
davanti a noi? Da dove viene la sua luce potente che
consente di illuminare il cammino di una vita riuscita e
feconda, piena di frutto?» (Lumen fidei, n. 7; Regno-doc.
13,2013,386s).
11. «Gli uomini attendono dalle varie religioni la risposta ai reconditi enigmi della condizione umana che, ieri
come oggi, turbano profondamente il cuore dell’uomo: la
natura dell’uomo, il senso e il fine della nostra vita, il bene
e il peccato, l’origine e lo scopo del dolore, la via per raggiungere la vera felicità, la morte, il giudizio e la sanzione
dopo la morte, infine l’ultimo e ineffabile mistero che circonda la nostra esistenza, donde noi traiamo la nostra origine e verso cui tendiamo» (Nostra aetate, n. 1; EV 1/855).
«Se manca la base religiosa e la speranza della vita eterna,
la dignità umana viene lesa in maniera assai grave, come
si constata spesso al giorno d’oggi, e gli enigmi della vita
e della morte, della colpa e del dolore rimangono senza
soluzione, tanto che non di rado gli uomini sprofondano
nella disperazione. E intanto ciascun uomo rimane ai suoi
propri occhi un problema insoluto, confusamente percepito» (Gaudium et spes, n. 21; EV 1/1380s).
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II.
La nostra situazione attuale
12. Volgendo ora lo sguardo al nostro lontano e recente
passato, troviamo vari motivi per cui rendere grazie al Signore. Dal punto di vista ambientale, il paese non possiede
ricchezze naturali comparabili a quelle di molti altri paesi;
ha però goduto di una quantomeno relativa situazione di
tranquillità, al riparo cioè da notevoli catastrofi naturali.
Tradizionalmente, abbiamo un popolo timorato di Dio,
desideroso di vivere in pace e armonia con gli altri, lontano da conflitti inter-tribali e interreligiosi. Apprezza le
diversità culturali non come fattori di divisione, ma come
elementi di arricchimento vicendevole. Guarda al proprio
futuro con un saggio senso di misura. Un popolo innamorato e assetato della pace, in una parola.
Tutto ciò si spiega solo con una storia, una cultura e una
visione della vita profondamente radicate nella plurisecolare fede cristiana. L’interrogativo «Dov’è tuo fratello?»,
che oggi grava sulla coscienza di tutti noi, cade su un terreno che ha sempre coltivato i valori della solidarietà e della
condivisione fra individui, famiglie e gruppi in tutti i momenti della vita, nella gioia e nella sofferenza. Dobbiamo
pregare incessantemente affinché questi grandi valori si
conservino e continuino a crescere: «Signore, aumenta la
nostra fede». Infatti, come diremo in seguito, oggi soffiano
venti nuovi e minacciano la tenuta di questi valori.
Constatiamo che sono stati compiuti alcuni sforzi per
promuovere la ricostruzione del paese. Nel contempo, essendo naturale che si guardi sempre al meglio, non possiamo permetterci di dimenticare il molto che resta ancora
da fare. Ci sono ferite da curare e da guarire. Il positivo che
c’è non può renderci ignari del negativo che grava sulla vita
della nostra popolazione. Esso abbraccia un ampio ventaglio di aspetti e di settori: l’aspetto personale e psicologico,
così come quello sociale e pubblico; la vita materiale, così
come quella morale e spirituale. Il papa Francesco ci ha
ricordato che «spetta alle comunità cristiane analizzare
obiettivamente la situazione del loro paese» (Evangelii gaudium, n. 184; Regno-doc. 21,2013,676).
Le tragedie del mare
13. «Un grido è stato udito in Rama, un pianto e un
lamento grande, Rachele piange i suoi figli e non vuole essere consolata, perché non sono più» (Mt 2,17). Nei mesi di
settembre e ottobre dell’anno appena trascorso, proprio nel
periodo in cui da noi si risveglia la natura e si raccolgono
i frutti della terra, all’inizio dell’anno secondo il nostro calendario ghe’ez, si è abbattuta sul nostro paese e sul nostro
popolo una tragedia che ha profondamente scosso anche la
comunità mondiale: l’annegamento di centinaia di giovani
nostri connazionali nelle acque del mare Mediterraneo. Era
il culmine di un’odissea che si ripeteva da anni, fra traversate di montagne e di fiumi, di deserti e di mari, alla mercé
di criminali trafficanti di esseri umani. Si è pianto, e si è
pianto tanto, nelle case e fra il pubblico: «Le strade di Sion
sono in lutto, nessuno si reca più alle sue feste; tutte le sue
porte sono deserte, i suoi sacerdoti sospirano, le sue vergini
sono afflitte ed essa è nell’amarezza» (Lam 1,4). La parola
del profeta fa da sfondo al pianto di Rachele, rievocato nel
Vangelo di Matteo. Entrambi si rifanno agli eventi del 587
a.C., quando l’invasore babilonese spinge il popolo fuori
da Gerusalemme, lo raduna sulla spianata di Rama (oggi
Ramallah) e brucia la città. Infine il popolo d’Israele viene
condotto ostaggio in Babilonia. Rachele, che rappresenta
il popolo e le madri d’Israele, piange i figli «che non sono
più». Nel fare memoria del grande lutto degli israeliti, il
profeta non chiude l’orizzonte della speranza e del ritorno.
14. L’evangelista Matteo, memore della tomba di Rachele a Betlemme, la ricollega con la strage degli innocenti
decretata da Erode. Rachele è inconsolabile perché questi
«non sono più». Ma è un pianto che sale al cospetto di Dio,
ed è l’unico pianto capace di consolare e di guarire le ferite
dell’anima. Non solo con la parola, ma con la speranza e
con la risurrezione dei morti. Il grido «non sono più», vien
così trasformato e trasfigurato dalla certezza che la colpa è
riparata dalla risurrezione di Gesù.
Che tragedie come quelle che hanno tristemente segnato
la storia del nostro paese in questi ultimi decenni si avverino
alle porte di un continente progredito è davvero, come continua a ripetere il santo padre, inaccettabile e incompatibile
con il grado di civiltà e di progresso oggi raggiunto.
Con Rachele, la madre di tutti, e con tutte le madri,
eleviamo al Signore il nostro pianto e la nostra preghiera.
Mentre imploriamo affinché i nostri giovani defunti trovino
nel Signore definitivamente quella pace e quella serenità
che hanno cercato invano su questa terra, ai loro genitori,
familiari e parenti estendiamo i nostri più sinceri sentimenti
di solidarietà e di compartecipazione al loro lutto.
Le fughe in massa dal paese
15. Ora però dobbiamo prestare ascolto alla voce del
Signore che ci interpella e ci inquieta: «Dov’è tuo fratello?
Dov’è tuo nipote, tua nipote? In che condizioni vivono?...».
Ci chiediamo a nostra volta: chi risponde di questo terribile stato di cose? Le responsabilità si pongono a diversi
livelli e in diversi ambiti. Le radici infatti sono profonde e
complesse e vanno viste in un quadro più ampio e più articolato: «Dove, in che situazione, si trova il nostro paese nel
suo insieme?». È un interrogativo che non passiamo eludere col dire: «Sono io forse responsabile di mio fratello?»
– Dobbiamo francamente prendere atto che l’attrattiva
di un livello di vita migliore all’estero ha finito per creare
irrealistiche aspettative e irrealizzabili illusioni, che a loro
volta inducono i giovani e i loro genitori a un indiscriminato
uso di mezzi, come per esempio i matrimoni improvvisati,
impreparati o addirittura falsi. C’è chi si fa sedurre dalla
speranza di una vita da «assistito permanente» all’estero,
rinunciando in partenza a qualsiasi tentativo di guardare
se c’è qualche alternativa nel proprio paese.
– Ma al di là questi casi, la tragicità del motivi di fondo
e della radice dei problemi è innegabile. E ciò suscita
gravi interrogativi: fino a quando questa magmatica fuga
umana? Perché mai la durezza delle condizioni di vita nelle
traversate del deserto e del mare, il peso finanziario che
comportano, i rischi per la vita che si corrono, non riescono
a convincere i giovani a retrocedere da avventure, meglio
dire disavventure, di queste proporzioni? Visto che tante
di queste storie sono poi finite in tragedia, non c’è qualche
alternativa di soluzione?
– Ci si può realisticamente chiedere se è la situazione
di «non pace e non guerra» in cui versa il paese a metterci in queste condizioni. Ma, allora, cos’è che manca?
La volontà politica o l’oggettiva possibilità di mettervi
fine? Se la comunità internazionale non ha ancora fatto
la propria parte in proposito, e dato che ogni soggetto è il
primo responsabile della soluzione dei propri problemi, è
nell’interesse della parte lesa assumersi in primis l’iniziativa
del proprio riscatto. Ciò non toglie che chi riveste ruoli di
responsabilità abbia l’obbligo di chiedersi: piuttosto che
condannare i nostri giovani al gioco degli sfruttatori e dei
trafficanti di essere umani, non è meglio individuare vie e
strategie per uscire da questa assurda situazione di «non
pace e non guerra»? Diversamente, migliaia di ragazzi e
ragazze, attratti dalla prospettiva di un minimo di libertà,
di dignità e di qualità di vita, continueranno nella disperata
corsa incontro alla tortura e alla morte.
16. È nella natura delle cose che le bestie feroci contendano la vita agli uomini. Oggi però si è arrivati a un
situazione in cui si avvera l’ assioma «homo homini lupus»:
l’uomo, creato a immagine e somiglianza di Dio, è trasformato in merce di scambio, squartato e mutilato dei suoi organi vitali. Tutto solo per vile guadagno. Stiamo assistendo
a vicende inaudite, a un ritorno alla legge della giungla.
Ci chiediamo: se la coscienza degli autori di questi crimini
ha perso ogni sensibilità, com’è possibile che il resto del
mondo li tolleri? Gli stati che governano i paesi dei perpetratori e delle vittime del crimine possono davvero dire
di avere esaurito tutti i mezzi a loro disposizione per porvi
rimedio? Che dobbiamo dire? La verità è che, «sconvolto
l’ordine dei valori e mescolando il male col bene, gli individui e i gruppi guardano solamente agli interessi propri
e non a quelli degli altri; così il mondo cessa di essere il
campo di una genuina fraternità, mentre invece l’aumento
della potenza umana minaccia di distruggere ormai lo
stesso genere umano» (Gaudium et spes, n. 37; EV 1/1433).
Finché le cose stanno così, non si potrà sfuggire al giudizio
di Dio, ma nemmeno a quello del tempo e della storia.
D’altronde, non mancano voci che giustamente invocano un’azione accuratamente pianificata e coordinata,
un cambiamento di mentalità, interventi concreti, efficaci
e incisivi. Occorre puntare sulla domanda di mirate strategie legislative e politiche. Trascurare questa esigenza rende
tutti gravemente responsabili davanti a Dio e davanti agli
uomini: «Tutti infatti dobbiamo comparire davanti al tribunale di Cristo, per ricevere ciascuno la ricompensa delle
opere compiute quando era nel corpo, sia in bene che in
male» (2Cor 5,10).
La qualità di vita
17. Conosciamo le piaghe che affliggono il nostro popolo al giorno d’oggi, condannando alcuni alla morte e altri
a una misera sopravvivenza: povertà, malattie endemiche
come l’HIV-AIDS, esilio e vicende a esso connesse… In spi-
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rito di fraterna solidarietà invochiamo per gli uni il riposo nel
Regno eterno e per gli altri la forza e la consolazione di Dio.
Da molti anni la nostra terra subisce un incessante processo di desertificazione. Occorrono puntuali iniziative per
arrestarlo e proteggere l’integrità del creato. Occorre sensibilizzare il popolo a tale proposito, perché «Dio ci vuole custodi del creato e dei nostri fratelli» (papa Francesco). Solo
allora il creato tornerà a essere, a sua volta, nostro custode.
Ad abbandonare la nostra terra però non sono solo le
risorse naturali, ma anche quelle umane:
– migliaia di giovani istruiti, o con elevate potenzialità
intellettuali, ci lasciano in quella che si può definire «una
fuga dei cervelli»;
– bambini raggiungono i genitori all’estero in viaggi
senza ritorno;
– genitori raggiungono i figli e, una volta ottenuto il
permesso di soggiorno, non rientrano più.
In una parola, ci troviamo a fare i conti con un vero
e proprio drenaggio di risorse e di energie umane. Che
ne sarà di un paese dove le fasce più produttive mancano
all’appello? A fare di una nazione ciò che deve essere è
l’uomo con tutte le sue potenzialità.
18. Ci terrorizza la prospettiva di un drastico spopolamento del territorio. Certamente il ricordo e la nostalgia del
proprio paese continueranno ad accompagnare gli esiliati
in terra straniera. Ma nella storia si conoscono pochi casi
di massiccio ritorno nella terra d’origine. Fra le generazioni
che la nazione ha perso, probabilmente per sempre, non
ci sono solo le fasce giovanili e medie, ma anche i bambini
nati e cresciuti all’estero. Se non si provvederà in tempo a
far sì che queste generazioni non dimentichino le proprie
radici, la nazione avrà gravi problemi da affrontare. È, questo, il grido di allarme che sale dal paese e si indirizza a
tutti: alle persone singole come alle famiglie, agli anziani,
alle autorità politiche come a quelle religiose. Bisogna correre ai ripari con coraggio e creatività per trattenere chi
non è partito e per richiamare chi è partito.
19. C’è nel nostro tempo una netta trasposizione da quel
detto dei nostri padri – «Il proprio paese è insaziabile come
il proprio occhio» – a quello che ha finito per predominare
oggi: «Il tuo paese è dove prevale il tuo benessere». Se l’uno e
l’altro sono realtà irrinunciabili, la soluzione allora è un’altra:
esplorare vie e strategie per fare in modo che il paese offra
al cittadino una vera ed effettiva possibilità di autorealizzazione. Ci sia permesso di ripetere quanto scrivevamo in una
nostra lettera pastorale del 2001: «Non ha senso chiedersi:
“Perché i nostri giovani abbandonano il loro paese?”, dal
momento che nessuno lascia un paese che offre latte e miele,
come si suole dire, per sistemarsi in un altro che offre le stesse
opportunità. Se la patria fosse uno spazio dove regna la pace
e la libertà e dove non manca il lavoro, non ci sarebbe nessun
motivo per scegliere la via dell’esilio, della solitudine e delle
difficoltà di ogni genere» (Dio ama questo paese, n. 29).
Situazioni psicologiche e morali
20. Per i suddetti motivi e per mille altre cause incompatibili con la vita e la dignità umana, sta prevalendo
l’incertezza sul futuro delle persone. C’è un crescente
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disprezzo per il valore della vita umana, una tendenza
a cercare la soluzione ai propri problemi con mezzi e
metodi di cui non si valuta la moralità. D’altra parte, la
delusione per il mancato raggiungimento dei fini che ci
si proponeva, la vanificazione delle proprie aspettative, il
guardare a terre lontane come all’unica alternativa per
l’autorealizzazione stanno inducendo un numero sempre
crescente di persone alla frustrazione e alla disperazione.
Ci si trova all’interno di un orizzonte che si fa sempre più
cupo e pesante.
Di pari passo, la disgregazione della famiglia all’interno
del paese – a causa del servizio militare senza limiti di
tempo e senza retribuzione, della reclusione di molti giovani nelle prigioni e nei centri di rieducazione ecc. – sta
esponendo alla miseria non solo genitori anziani e senza
supporto, ma intere famiglie, con gravi ricadute non solo
a livello economico, ma anche psicologico e mentale. Il
rapido, quasi endemico, diffondersi di malattie come il
diabete, i problemi di pressione sanguigna e le patologie
cardiologiche, ne è un segnale fra i più emergenti.
La società civile
21. Si nota un indebolimento generalizzato dei valori
morali sociali e delle colonne portanti del vivere insieme,
una tendenza verso incurabili forme di decadenza sociale
(cf. Ger 4,11-21).
a. La famiglia
Per varie cause – fra cui ancora il servizio militare nazionale, l’impatto dei mezzi di comunicazione di massa e le
condizioni di vita dei giovani – l’influsso degli anziani e dei
genitori sui figli e sulla gioventù in genere sta scemando vistosamente. Vorremmo dire agli anziani e ai genitori di non
abdicare alle proprie responsabilità, anche se molti fattori
negativi sembrano contendergliele, di continuare a esercitare il loro ruolo di mediazione e di persuasione, di non
lasciarsi sedurre da interessi privati, di guardare lontano;
soprattutto di salvare la famiglia, perché la sua tenuta è la
salvezza del paese. Poiché la famiglia è il terreno primario
dove fiorisce e matura la fraternità, l’interrogativo «Dov’è
tuo fratello?» riguarda anzitutto l’ambito familiare. La famiglia è il nucleo della Chiesa e il fondamento della società.
È lì che «le diverse generazioni si incontrano e si aiutano
vicendevolmente a raggiungere una saggezza umana più
completa e ad armonizzare i diritti della persona con le
altre esigenze della vita sociale» (Gaudium et spes, n. 52;
EV 1/1486). Perciò «tutti coloro che hanno influenza sulla
società e sulle sue diverse categorie, devono collaborare efficacemente alla promozione del matrimonio e della famiglia» (ivi).
b. La ricostruzione morale
22. Un potere pubblico non più al servizio del bene comune, ma strumento di accaparramento di interessi privati
o di parte, l’individualismo, il favoritismo, la corruzione…
sono segni di un’incipiente, o forse avanzata, emergenza
morale. La corruzione non si limita alle transazioni pecuniarie, ma comprende tutti i comportamenti avulsi dai
comuni criteri di moralità pubblica e personale. Si sta diffondendo la tendenza a badare ai propri interessi, senza
valutare e tanto meno denunciare la moralità dei mezzi impiegati. Dissimulare la verità e assecondare la menzogna è
una dimensione fondamentale della corruzione. Sono patologie morali che occorre curare con il ripristino dei principi
di trasparenza e di responsabilità e, più in profondità, con
un sussulto della coscienza e del timore di Dio. Altrimenti
finiranno per trionfare incontrastate l’anarchia, l’ingiustizia
e la violenza. Alle guide religiose di tutte le denominazioni
spetta il compito di risvegliare le coscienze, di promuovere
la conversione dei cuori e delle menti, mentre alle autorità
civili spetta quello di instaurare una politica di chiarezza,
di trasparenza e di legalità.
c. La legalità
23. Un tratto caratteristico della tradizione del nostro
popolo è il senso della legalità, la deferenza verso il codice
morale istituzionalizzato. C’è, nella nostra tradizione, più
rispetto per chi si appella alle norme della legge, che per
chi minaccia con la forza delle armi. Sarà forse perché
questa tradizione si è sempre più indebolita, che di pari
passo la corruzione è sembrata pervadere il tessuto della
nostra convivenza sociale? Poiché il principio di legalità è
imprescindibile da ogni progetto di ricostruzione morale e
sociale, non si finirà mai di inculcarne l’importanza. Nel
trattamento di chi viene accusato per un reato, la giustizia non può e non deve essere dissociata dall’umanità e
dalla compassione. Su tale premessa, ogni causa giudiziaria
deve essere legalmente fondata, proceduralmente motivata
e tempestivamente portata a termine. Più in generale, l’attivazione del principio di costituzionalità, esigenza acutamente avvertita e pressantemente invocata da chiunque
apprezza il valore della giustizia e della libertà, non può
più essere disattesa.
All’interno della stessa problematica va collocata l’attuale assenza di un’aperta discussione dei problemi del
paese, del dialogo maturo e spassionato, di un’informazione
oggettiva e veritativa. Il pettegolezzo, il diffuso mormorio,
la maldicenza, la menzogna o, nei migliore dei casi, il disinteresse per il bene comune… sono in larga parte frutto
di un’informazione non corretta o, peggio ancora, di una
disinformazione eretta a sistema. La mancanza del dialogo,
dell’ascolto reciproco, dell’interessamento vicendevole
stanno allargando e approfondendo le nostre differenze e restringendo gli spazi di una duratura soluzione dei problemi.
d. L’istruzione
24. Perché l’istruzione giochi il suo fondamentale ruolo
di caposaldo del progresso culturale e sociale, della crescita
integrale dei giovani, dello sviluppo globale del paese, occorre urgentemente provvedere a che le istituzioni a ciò
deputate siano ampliate, rinnovate, modernizzate. Occorre
riprendere, ambientare, contestualizzare e inculturare i
principi e le metodologie più avanzate che hanno accompagnato la crescita dei paesi più progrediti. Fare tesoro
delle esperienze educative altrui può essere fonte di grande
arricchimento.
Come nel passato, così nel presente la Chiesa è aperta a
ogni possibilità di offrire il suo contributo in questo campo,
promuovendo i valori della verità, della fraternità, della
libertà, dell’eguaglianza, della democrazia, della giustizia,
dei diritti e della dignità della persona e della legalità.
«L’ordine sociale e il suo progresso debbono sempre
lasciar prevalere il bene delle persone… Quell’ordine è da
sviluppare sempre più, deve avere per base la verità, realizzarsi nella giustizia, essere vivificato dall’amore, deve
trovare un equilibrio sempre più umano nella libertà»
(Gaudium et spes, n. 26; EV 1/1401).
e. Le ristrettezze economiche
25. Quando consideriamo che le nostre famiglie vivono, o sopravvivono, ormai solo grazie alle rimesse dei
familiari all’estero, da una parte – memori di quel detto
dei nostri padri secondo cui «Dio permette, sì, i problemi,
ma mai senza vie d’ uscita» – avvertiamo un sincero senso
di gratitudine, dall’altra ci rendiamo conto che la dipendenza dai familiari all’estero non può essere una soluzione
permanente. Se non si creano opportunità di lavoro, se ai
giovani non viene concessa la possibilità di rendersi autosufficienti, se non si mette fine alla stagnazione dell’agricoltura, del commercio e dell’industria, non si uscirà mai dal
circolo vizioso della dipendenza e della povertà. Si fa bene
a insistere sull’autosufficienza della nazione, ma non si può
dimenticare che essa passa attraverso l’autosufficienza degli
individui e delle famiglie. Non bastano eleganti e altisonanti
slogan. Servono opportunità lavorative.
Gli esorbitanti prezzi dei beni di consumo, l’assoluta insufficienza dei salari, l’inarrestabile impennata degli affitti,
il prolungato blocco delle attività edilizie, l’impossibilità di
dedicarsi ad attività lavorative elettive… ci hanno messo
di fronte a una disperata emergenza economica. Come si
farà a uscire da queste situazioni, se non c’è spazio per l’iniziativa privata, per l’intraprendenza e per la creatività?
Come si fa a parlare dell’indipendenza e della dignità di
una nazione, senza presupporre la dignità e l’indipendenza
delle persone? Non è più questione di un livello di vita più
o meno confortevole, ma del problema del vivere o non vivere, della mancanza di essenzialissimi beni, quali l’acqua,
il pane, la luce… Chiediamo, a nome di tutti, l’attenzione
delle autorità pubbliche e il loro impegno per la creazione
di un sistema economico all’altezza della dignità della persona umana.
f. La vita spirituale e morale
26. Siamo sinceramente preoccupati per le ferite morali e spirituali che affliggono la nostra società. A volte ci
chiediamo se non sia in corso un processo di alterazione
identitaria, un progressivo capovolgimento dei valori e del
codice morale, un insinuarsi di principi di disfacimento
della coscienza etica. Ci vengono in mente le parole di san
Paolo: «Gli uomini saranno egoisti, amanti del denaro, vanitosi, orgogliosi, bestemmiatori, ribelli ai genitori, ingrati,
empi, senza amore, sleali, calunniatori, intemperanti, intrattabili, disumani, traditori, sfrontati, accecati dall’orgoglio…» (2Tm 3,2-4). Il culto del demonio, che spesso
si presenta sotto le mentite spoglie della modernità, può
prendere piede anche così. Saranno del tutto infondate le
voci sulla presenza di culti satanici anche fra noi? Non lo
sappiamo, ma il fatto stesso che se ne parli non può non
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Sui diritti umani in Eritrea
L’
8 luglio il Comitato centrale del Consiglio ecumenico delle
Chiese (CEC), riunito a Ginevra, ha approvato una Dichiarazione sulla situazione dei diritti umani in Eritrea, che esprime
grave preoccupazione a riguardo, esprime solidarietà per le
Chiese eritree e pone il governo del paese di fronte ai suoi obblighi internazionali rispetto alla tutela dei diritti umani. Segue la
dichiarazione, in una nostra traduzione dall’inglese (www.oikoumene.org).
Nel passato, lungo gli anni, la famiglia ecumenica ha ricevuto diversi resoconti sul deterioramento della situazione dei diritti umani
in Eritrea e continui rapporti su gravi violazioni dei diritti umani da
parte delle autorità eritree contro la loro stessa popolazione, e sul
numero allarmante di civili, specialmente giovani, che fuggono dal
paese come conseguenza di queste violazioni.
La mancanza di libertà ha raggiunto un livello alto, aggravata
dagli arresti e dalle detenzioni arbitrarie, dalle sparizioni forzate e
dalla detenzione in isolamento di persone per sospette infrazioni
percepite come critiche nei confronti del governo.
Il sistema dell’informazione è di proprietà dello stato e non lascia spazio a media indipendenti. Non c’è un apparato giudiziario
indipendente, e le persone sono detenute senza giusto processo.
Non ci sono partiti politici o sindacati per proteggere i diritti dei
lavoratori. Non c’è diritto di associazione o di manifestazione pacifica. Non sono permesse riunioni pubbliche. Non è ammessa l’attività di difensori dei diritti umani in Eritrea; e la maggior parte delle
organizzazioni non governative è stata espulsa. In conseguenza
della siccità e della carestia il cibo è razionato e sotto il controllo
governativo.
Non c’è libertà religiosa. Le autorità hanno spogliato il patriarca
ortodosso eritreo della sua autorità ecclesiastica e lo hanno posto
agli arresti domiciliari dal 2005, dopo che aveva protestato contro
la detenzione nel novembre 2004 di tre preti ortodossi della Chiesa
Medhane Alem.
Siamo tutti stati testimoni, purtroppo, della morte di più di 300
eritrei nell’ottobre 2013 nella tragedia al largo di Lampedusa. Molti
rifugiati eritrei, infatti, uomini e donne, nel tentativo di evitare la
coscrizione militare forzata fuggono dal loro paese in cerca di un
rifugio, spesso mettendo a rischio anche la vita.
Negli ultimi dieci anni centinaia di migliaia di eritrei sono fuggiti
preoccuparci: «A differenza dei tempi passati, negare Dio
o la religione o farne praticamente a meno, non è più un
fatto insolito e individuale. Oggi infatti non raramente un
tale comportamento viene presentato come esigenza del
progresso scientifico o di un nuovo tipo di umanesimo»
(Gaudium et spes, n. 7; EV 1/1340).
Anche da noi si stanno instaurando striscianti tendenze
ad accantonare la religione quale principio ispiratore della
vita e misura della moralità umana, o a strumentalizzarla a
scopi meramente lucrativi. Ci sono propagandisti pseudo-religiosi nella cui predicazione viene completamente svuotato o
deprezzato il valore redentivo della croce e della sofferenza.
Occorre inculcare in ogni occasione che la religione è il valore che più profondamente forgia la coscienza delle persone
ed edifica la vera libertà e l’autentico senso della vita.
27. A nessuno possono sfuggire le gravi conseguenze
derivanti dal fare della religione un fattore di divisione e
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dal loro paese per cercare rifugio nei confinanti Etiopia e Sudan,
spesso esponendosi a gravi rischi. Nel loro viaggio verso un luogo
migliore e più sicuro, molti sono divenuti un facile bersaglio per i
trafficanti, e hanno dovuto affrontare di conseguenza esperienze
orribili, come la tortura, il rapimento dietro richiesta di un riscatto
o la violenza sessuale di routine per donne e ragazze. Quanti prendono la rotta settentrionale attraverso l’Egitto per raggiungere Israele spesso finiscono catturati dai trafficanti beduini nel deserto del
Sinai e sono fatti oggetto di violenze e torture quotidiane, mentre
le famiglie e gli amici vengono pressati da esorbitanti richieste di
riscatto.
Di fronte a questa dura realtà dei fatti nel paese, i vescovi cattolici dell’Eritrea hanno pubblicato una lettera pastorale il 25 maggio
2014 che è stata pienamente appoggiata dalla Chiesa ortodossa eritrea nella diaspora.
Il Comitato centrale del Consiglio ecumenico delle Chiese (CEC),
che si è riunito a Ginevra, in Svizzera, dal 2 all’8 luglio 2014, pertanto:
a) esprime una profonda preoccupazione per il peggioramento
della situazione dei diritti umani in Eritrea e per l’impatto di ciò sulla
vita di migliaia di innocenti abitanti del paese;
b) elogia l’iniziativa dei vescovi cattolici dell’Eritrea di far conoscere al mondo la realtà attuale e le tragedie che ne derivano;
c) invita le Chiese membro del CEC, nei paesi confinanti e oltre,
a cooperare nella lotta al problema del traffico di persone nel deserto del Sinai, che sta costando la vita a molti innocenti ogni giorno;
d) è solidale con sua santità il patriarca Antonios e i suoi ideali di
non interferenza politica nelle questioni ecclesiali;
e) fa appello al governo dell’Eritrea perché rilasci immediatamente sua santità il patriarca Antonios dagli arresti domiciliari e gli
permetta di viaggiare liberamente;
f) invita il governo dell’Eritrea a trattare i detenuti con dignità e
ad assicurare loro giusti processi;
g) esprime grave preoccupazione per gli arresti e le detenzioni
arbitrarie, addirittura le sparizioni forzate e la detenzione in isolamento di persone sospettate di infrazioni percepite come critiche
nei confronti del governo;
h) sollecita il governo a rispondere agli obblighi dell’Eritrea ai
sensi del Patto internazionale sui diritti civili e politici, della Carta
africana dei diritti dell’uomo e dei popoli e della Carta africana dei
diritti e del benessere del bambino.
di disgregazione, anziché principio di coesione e di unità e
di un vero senso di appartenenza alla comunità nazionale.
Senza un autentico rapporto con Dio e con i dettami della
retta coscienza e del vero senso religioso, diventa difficile
creare rapporti sociali equilibrati e armoniosi. La riuscita
del dialogo, della composizione delle differenze e della collaborazione per il bene comune si fonda sulla capacità di
ascolto, sul rispetto reciproco e sul sentimento di giustizia
che ogni autentico senso religioso ispira.
28. Un altro aspetto che, nella nostra società, è venuto
imponendosi con tutta la sua carica distruttiva è la degenerazione del rapporto con il denaro. Quando il denaro diventa il criterio di impostazione di tutte le relazioni sociali,
inevitabilmente si cade nel machiavellismo pratico, per cui
il fine giustifica qualsiasi mezzo. Ed è quanto vediamo verificarsi in vari ambiti della vita pubblica: nel commercio,
negli uffici, nella compravendita e negli affitti delle case; la
ricerca del denaro è l’ unica cosa che conta, al di là di ogni
moralità e di ogni rispetto per l’ uomo, per la sua dignità
e per i suoi diritti. Che altro c’è se non il denaro dietro
l’orrendo traffico di esseri umani, la compravendita degli
organi, la prostituzione...? Solo un ritorno a un autentico
senso religioso ci può affrancare dalla schiavitù e dall’idolatria del denaro, l’anti-dio per eccellenza. L’apostolo
Paolo ci avverte: «Non abbiamo portato nulla nel mondo e
nulla possiamo portare via» (1Tm 6,7). E Gesù: «Nessuno
può servire due padroni… Non potete servire Dio e la ricchezza» (Mt 6,24).
La radice di tutti i mali
29. Il peccato: ecco la radice di ogni male, a livello
personale e sociale. La vita incentrata esclusivamente su sé
stessi, il tornaconto, l’avidità, la corruzione, l’irresponsabilità, che intossicano la nostra convivenza sociale, sono i frutti
velenosi di questo «male oscuro» della nostra vita. Il radicarsi e il propagarsi di simili deviazioni è la vera e grande
minaccia all’unità, alla pace e alla vita stessa della nazione.
Anche se, come si è già detto, le responsabilità per i mali del
paese si articolano a diversi livelli e in diversi ambiti, nessuno
può ritenersi innocente a tale riguardo, poiché «se diciamo
di essere senza peccato… la verità non è in noi» (1Gv 1,8).
L’unica via per un’autentica crescita delle persone, l’unico principio per l’instaurazione di una società rappacificata e degna dei valori inerenti alla dignità umana è la
restituzione dell’assoluta centralità e del primato a Dio e,
di riflesso, all’uomo, sua immagine e somiglianza: «Se il
Signore non costruisce la casa, invano si affaticano i costruttori» (Sal 127,1).
Quando si dice «nazione» non ci si riferisce semplicemente a un territorio, ci si riferisce a un popolo che condivide lo stesso cammino storico, gli stessi valori culturali,
le stesse idealità morali, alla sua capacità di affrontare i
momenti di serenità e di differenza in spirito di unità e di
solidarietà. Un cammino verso un vero e autentico progresso presuppone la custodia, la promozione e lo sviluppo
di questo insieme di valori.
Il cammino della pace
30. Abbiamo parlato più sopra (n. 12) del nostro popolo
come di «un popolo amante della pace», ed è una grande
benedizione. Tuttavia, «la pace non è la semplice assenza
della guerra, né può ridursi unicamente a rendere stabile
l’equilibrio delle forze avverse; essa non è effetto di una
dispotica dominazione, ma viene con tutta esattezza definita “opera della giustizia” (Is 32,7). È il frutto dell’ordine
impresso nella società umana dal suo divino Fondatore e
che deve essere attuato dagli uomini che aspirano ardentemente a una giustizia sempre più perfetta» (Gaudium et
spes, n. 78; EV 1/1587).
Il vero nemico della pace è l’ingiustizia (cf. Catechismo
della Chiesa cattolica, n. 2317). Il rispetto delle persone, della
loro dignità e dei loro diritti è la pietra angolare della pace.
L’assenza di tale rispetto distrugge i fondamenti della paci-
fica convivenza umana. Per questo chiediamo la liberazione
di quanti, arrestati, ne sono in attesa da tempi più o meno
prolungati. Sia resa giustizia a quanti sono detenuti senza le
dovute norme di legge, i dimenticati nelle prigioni… Sono
tempi in cui l’inquietante interrogativo «Dov’è tuo fratello?
(…). La voce del sangue di tuo fratello grida a me dal suolo!»
(Gen 4,9-10) risuona più forte che mai.
Conclusione
In questo periodo di Pasqua, in cui anche la nazione
celebra il XXIII anniversario di indipendenza, è dovere
di tutti pregare perché il Signore benedica questo paese
e ne faccia una terra di speranza, di pace e di giustizia.
È altrettanto importante che tutti – popolo e autorità religiose e statali – uniscano i loro sforzi perché ciò avvenga.
Sappiamo bene che il popolo è instancabile nella preghiera
per la pace. Sul fondamento della parola di Gesù – «E qualunque cosa chiederete nel mio nome, la farò» (Gv 14,13) –
abbiamo la certezza che le nostre preghiere non sono vane.
Perciò apriamo il cuore e la mente a Colui che ci dice: «Vi
lascio la pace, vi do la mia pace. Non come la dà il mondo,
io la do a voi. Non sia turbato il vostro cuore e non abbia
timore» (Gv 14,27-28).
III.
La testimonianza
«Mi sarete testimoni»: l’evangelizzazione
31. «È urgente recuperare il carattere di luce proprio
della fede, perché quando la sua fiamma si spegne anche
tutte le altre luci finiscono per perdere il loro vigore»
(Lumen fidei, n. 4; Regno-doc. 13,2013,386). Far sì che la
fiamma della fede sia sempre viva e la sua luce sempre luminosa non significa altro che realizzare nella vita la parola
di Gesù: «Di me sarete testimoni a Gerusalemme, in tutta
la Giudea e la Samaria e fino ai confini della terra» (At 1,8).
Questa impegnativa parola del Signore viene rivolta a
noi oggi. Quando, all’inizio, fu raccolta dagli apostoli, la comunità dei fedeli crebbe prodigiosamente, e la Chiesa è in
crescita ancora oggi. Anche noi siamo chiamati a inserirci
in questa corrente viva di testimonianza. Rispondendo alla
stessa chiamata i primi annunciatori del Vangelo nella nostra terra, san Frumenzio e i nove santi romani e, in tempi
più recenti, san Giustino de Jacobis e i missionari dei successivi decenni hanno ravvivato e accresciuto la primitiva
fiamma della fede. A noi è toccata la benedizione di raccogliere i frutti maturi della loro predicazione e della loro
testimonianza. Nel nostro paese, il popolo di Dio raccolto
nella Chiesa cattolica e articolato in quattro eparchie si
sforza di vivere la sua vocazione leggendo i segni dei tempi
e seguendo gli insegnamenti della Chiesa universale.
32. Rendiamo il nostro filiale omaggio a tutti i vescovi, sacerdoti, religiosi, religiose e fedeli, che ci hanno
trasmesso la fiamma della fede, mentre, sulle loro orme,
ci impegniamo a tenerla sempre più viva. Storicamente la
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fede cattolica si è espressa attraverso lo sforzo di dare continuità alla parola evangelizzatrice e all’opera di Gesù con
una molteplicità di iniziative: istruzione, cura dei malati
e degli orfani, promozione della donna, all’interno di un
complesso programma di promozione integrale della persona. È un fine che la Chiesa continua a perseguire ancora
oggi approfondendolo e ampliandolo in un’attenta lettura
dei segni dei tempi. È, in buona sostanza, una riposta all’interrogativo del Signore: «Dov’è tuo fratello?».
È preoccupante vedere i rischi che la fede corre fra i
nostri connazionali, particolarmente giovani, che, sradicati dalle proprie radici, vivono dispersi in tanti paesi del
mondo. A tutti, in generale, s’impone l’esigenza di non
prendere per garantito l’impegno della fede, di non adagiarsi nell’acquisito, di mantenere viva la coscienza che il
peccato esiste e che dobbiamo fare i conti con i nostri limiti,
e di affidarci alla grazia di Dio. Il primo passo da fare in
questa direzione è la penitenza: riconoscere le nostre debolezze, non stancarci mai di chiedere perdono per il male
che facciamo e di perdonare a chi ci ha fatto del male, non
rispondere al male con il male…
33. Il nostro cammino di fede in generale, l’Anno della
fede in particolare, esigono un urgente rinnovamento. Ci
si richiede anzitutto un esame di coscienza sulla qualità del
nostro rapporto con Dio Padre, con Gesù Cristo Signore e
con lo Spirito Santo vivificatore. E poi sulle nostre relazioni
con gli altri: quale la situazione spirituale dei nostri fedeli
cristiani? Quale la situazione morale e umana della nostra
società in genere? Quali le condizione del fratello, della sorella, a cui dobbiamo guardare con gli occhi delle fede?
«Il concilio Vaticano II ha presentato la conversione ecclesiale come l’apertura a una permanente riforma di sé per
fedeltà a Gesù Cristo (…). Ci sono strutture ecclesiali che
possono arrivare a condizionare un dinamismo evangelizzatore; ugualmente, le buone strutture servono quando c’è
una vita che le anima, le sostiene e le giudica. Senza vita
nuova e autentico spirito evangelico, senza “fedeltà della
Chiesa alla propria vocazione”, qualsiasi nuova struttura
si corrompe in poco tempo» (Evangelii gaudium, n. 26;
Regno-doc. 21,2013,646).
34. L’insegnamento e la vita di Gesù, così come quelli
dei suoi discepoli, s’incentrano sul piccolo seme che, per
crescere e fruttificare, deve cadere in terra e morire. È il
programma di vita di ogni cristiano e della Chiesa. Ciò significa che non dobbiamo lasciarci scoraggiare dalle prove
e dalle sofferenze che addobbiamo affrontare a causa della
fede, poiché «quando sono debole, è allora che sono forte»
(2Cor 12,10). Ci deve confortare la parola di Gesù: «Non
temere, piccolo gregge, perché al Padre vostro è piaciuto
dare a voi il Regno» (Lc 12,23).
Quanto al nostro cammino nel futuro, possiamo far
tesoro delle parole che papa Giovanni XXIII, canonizzato recentemente, pronunciò in occasione dell’apertura
del concilio ecumenico Vaticano II: «Alacri, senza timore,
dobbiamo continuare nell’opera che la nostra epoca esige,
proseguendo il cammino che la Chiesa ha percorso per
quasi venti secoli» (n. 4; EV 1/53*). La nostra missione
come Chiesa, oggi, è quella di dedicarci alla testimonianza
e all’evangelizzazione con immutata fedeltà e con instancabile dedizione, nella certezza che lo Spirito Santo, che
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Il Regno -
documenti
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operava per mezzo degli apostoli, non mancherà di donarci
la forza, il desiderio e la volontà di portare a compimento
l’opera iniziata (cf. At 2,29; 4,13.29.31; 9,27-28).
35. In quali modi concreti possiamo rinvigorire la nostra testimonianza? Occorre essere misericordiosi e riconciliatori, vivere conformandosi non alla mentalità di questo
mondo (cf. Rm 12,2), ma a Cristo, farsi carico dei problemi
e delle sofferenze del prossimo: «Animati dall’amore di patria e nel fedele adempimento dei doveri civici, i cattolici
si sentano obbligati a promuovere il vero bene comune e
facciano valere il peso della propria opinione in maniera
tale che il potere civile venga esercitato secondo giustizia e
le leggi corrispondano ai precetti morali e al bene comune»
(Apostolicam actuositatem, n. 14; EV 1/965). La Chiesa
stessa, nelle sue guide e nei suoi membri, deve compiere la
sua missione profetica attraverso un cammino di penitenza
e di conversione: «Se ritornerai, io ti farò ritornare e starai
alla mia presenza… Sarai come la mia bocca. Essi devono
tornare a te» (Ger 15,19).
Non è difficile individuare le priorità che dovranno
guidare l’azione della Chiesa nel presente e nel futuro. La
nostra esperienza storica ci ha trasmesso la centralità della
liturgia e della catechesi, in simbiosi con la vita quotidiana.
I seguenti documenti della Chiesa universale saranno particolarmente la base delle nostre scelte prioritarie: 1. la costituzione dogmatica del concilio Vaticano II sulla Chiesa
Lumen gentium; 2. l’esortazione apostolica di Paolo VI
Evangelii nuntiandi; 3. l’enciclica di Giovanni Paolo II Redemptoris missio; 4. il Sinodo generale dei vescovi del 2012
sulla nuova evangelizzazione; 5. l’esortazione apostolica del
santo padre Francesco Evangelii gaudium.
L’evangelizzazione consiste, in una parola, nell’annuncio di Cristo redentore del mondo. È questo il consolante
messaggio che la Chiesa trasmette all’uomo «al momento
opportuno e non opportuno» (2Tm 4,2). Ed è questo il
dono più prezioso che noi offriamo al paese perché lo possa
vivere nell’ascolto della parola di Dio, nella vita sacramentale, nella divina liturgia, e lo testimoni con la vita.
Punti deboli della nostra vita di fede
a. Cristiani nominali
36. Uno dei problemi di cui il concilio ecumenico Vaticano II ha trattato con viva preoccupazione è quello che si
definisce «cristianesimo nominale». Ne accenna per esempio la Gaudium et spes: «La dissociazione, che si costata in
molti, tra la fede che professano e la loro vita quotidiana,
va annoverata tra i più gravi errori del nostro tempo» (n.
43; EV 1/1454).
Il cristiano nominale vive e opera a prescindere dal
presupposto della fede, non ne fa il principio guida dell’esistenza, adotta un criterio opportunisticamente selettivo
circa i principi evangelici e vive al di fuori della vita liturgica della comunità dei credenti; in un parola, è un battezzato che non vive gli impegni derivanti dal battesimo (cf.
Evangelii gaudium, n. 15): «Figlioli, non amiamo a parole
né con la lingua, ma con i fatti e nella verità» (1Gv 3,18).
37. È, questo, un settore della società che attende la nuova
evangelizzazione. Con questa s’intende, come disse Paolo VI
in America Latina (Haiti), un annuncio compiuto con nuovo
slancio, con un nuovo spirito, con rinnovata creatività e credibilità. Tutto ciò presuppone un’attenta lettura delle trasformazioni in atto nella nostra società, per poi rispondervi con
un annuncio che sappia sapientemente adottare linguaggi,
criteri pedagogici, metodi e mezzi nuovi. Nello stesso ambito
di impegno si colloca la pastorale dei lontani, di quanti hanno
fame e sete di Dio, ma non hanno avuto modo di soddisfarla.
In ogni essere umano infatti vi è un insito bisogno di Dio, e
solo nell’incontro con il Signore l’uomo potrà trovare la pace
e la tranquillità vera (s. Agostino).
38. Tutti i membri della Chiesa sono chiamati a impegnarsi nella nova evangelizzazione. La sensibilizzazione dei
fedeli laici a tal riguardo è compito che non può essere né
disatteso, né dilazionato. Poiché è attraverso la vita di testimonianza, prima di qualsiasi altro esercizio, che si esprime
l’evangelizzazione, occorre stabilire una coerente sintesi fra
Vangelo e vita quotidiana: «I laici animino la propria vita
con la carità e la esprimano con le opere, secondo le proprie possibilità. Si ricordino tutti che, con il culto pubblico
e la preghiera, con la penitenza e la spontanea accettazione
delle fatiche e delle pene della vita, con cui si conformano a
Cristo sofferente (cf. 2Cor 4,10; Col 1,24), essi possono raggiungere tutti gli uomini e contribuire alla salvezza di tutto
il mondo» (Apostolicam actuositatem, n. 16; EV 1/975s).
Secolarismo
39. «Mi meraviglio che, così in fretta, da colui che vi
ha chiamati con la grazia di Cristo voi passiate a un altro
vangelo» (Gal 1,6): così Paolo rimproverava quanti, da una
fervida fede, erano passati all’estremo opposto. Osservando
la rapidità con cui si stanno diffondendo, anche da noi,
taluni deprecabili fenomeni come la magia, l’adulterio, la
menzogna, il furto, la corruzione, i tradimenti extra-matrimoniali, non possiamo non sentire rivolto anche alla nostra
società il rimprovero di Paolo.
«Tali atteggiamenti possono avere origini diverse: la ribellione contro la presenza del male nel mondo, l’ignoranza
e l’indifferenza religiosa, le preoccupazioni del mondo e
delle ricchezze, il cattivo esempio dei credenti, le correnti di
pensiero ostili alla religione, e infine la tendenza dell’ uomo
peccatore a nascondersi, per paura, davanti a Dio e a fuggire davanti alla sua chiamata» (CCC 29). Sono tutte manifestazioni di quel complesso e articolato fenomeno che è il
secolarismo o la mondanità spirituale. «O non sapete che gli
ingiusti non erediteranno il regno di Dio? Non illudetevi: né
immorali, né idolatri, né adulteri, né depravati, né sodomiti,
né ladri, né avari, né ubriaconi, né calunniatori, né rapinatori erediteranno il regno di Dio» (1Cor 6,9).
Insufficiente formazione cristiana
40. «[Siate] pronti sempre a rispondere a chiunque vi
domandi ragione della speranza che è in voi» (1Pt 3,15).
È un impegno, questo, che presuppone un’approfondita
conoscenza e assimilazione del messaggio della fede, lo studio dottrinale, la partecipazione alla vita sacramentale e la
crescita del senso ecclesiale. In un tempo in cui è assolutamente insufficiente vivere delle elementari nozioni apprese
nell’infanzia, esiste una specie di analfabetismo religioso,
che deve essere superato. «Nelle condizioni storiche in cui
si trova, l’uomo incontra molte difficoltà per conoscere Dio
con la sola luce della ragione…Per questo ha bisogno di
essere illuminato dalla rivelazione di Dio» (CCC 37-38).
I punti fermi della nostra fede
a. Fiducia nella provvidenza di Dio
41. «Crescete nella grazia e nella conoscenza del Signore nostro e salvatore Gesù Cristo» (2Pt 3,18). È nel totale
affidamento di noi stessi alla sua grazia e al suo aiuto che
dobbiamo cercare la soluzione ai nostri problemi, non nel ricorso ai maghi e ai divinatori: «Tutte le forme di divinazione
sono da respingere: ricorso a Satana o ai demoni, evocazione
dei morti o altre pratiche che a torto si ritiene che “svelino”
l’avvenire. La consultazione degli oroscopi, l’astrologia, la
chiromanzia, l’interpretazione dei presagi e delle sorti, i fenomeni di veggenza, il ricorso ai medium manifestano una volontà di dominio sul tempo, sulla storia e infine sugli uomini
e insieme un desiderio di rendersi propizie potenze nascoste.
Sono in contraddizione con l’onore e rispetto, congiunto a
timore amante, che dobbiamo a Dio solo» (CCC 2116).
b. Fedeltà alla Chiesa di Cristo
42. La sequela del «Cristo totale» è il distintivo del vero
credente. Il corpo non è separato dal capo di Cristo, per
cui è assurda l’affermazione: «Cristo sì, la Chiesa no». Ciò
comporta fedeltà e amore deferente verso la Chiesa e verso
il suo insegnamento. Solo ciò garantirà pienezza e maturità
alla nostra fede.
c. Sequela della croce di Cristo
43. «Cristo, come la Chiesa ha sempre sostenuto e
sostiene, in virtù del suo immenso amore, si è volontariamente sottomesso alla sua passione e morte a causa dei
peccati di tutti gli uomini e affinché tutti gli uomini conseguano la salvezza. Il dovere della Chiesa, nella sua predicazione, è dunque di annunciare la croce di Cristo come
segno dell’amore universale di Dio e come fonte di ogni
grazia» (Nostra aetate, n. 4, EV 1/868). Seguire Cristo significa disporsi a portare la sua croce: «Se qualcuno vuole
venire dietro a me, rinneghi se stesso, prenda la sua croce
e mi segua» (Mt 16,24). La nostra fedeltà e dedizione alla
Chiesa cresce nella misura in cui aumenta la nostra fedeltà
alla croce di Cristo. L’accettazione della volontà di Dio in
ogni momento della vita e la pazienza e la perseveranza
nella prova sono frutto del nostro radicamento nel mistero
della croce. Nel momento in cui, di fronte alla sofferenza e
alle prove della vita, ci chiediamo «Perché? Perché a me?»,
possiamo trovare l’unica risposta solo nella croce di Cristo.
Ciò vale per le difficoltà che incontriamo nella vita sacerdotale, così come nella vita consacrata e nella vita matrimoniale e familiare. Il cristianesimo è nato e fiorito nella croce,
e il cristiano troverà la ragione per perseverare nella prova
tornando ai piedi della croce.
d. Lettura della parola di Dio
44. «Non di solo pane vivrà l’uomo, ma di ogni parola che esce dalla bocca di Dio» (Mt 4,4). «Ecco, verranno
giorni – oracolo del Signore Dio – in cui manderò la fame
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documenti
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515
C
hiese nel mondo
nel paese; non fame di pane né sete di acqua, ma di ascoltare le parole del Signore» (Am 8,11). Una delle massime
finalità dell’Anno della fede era di ravvivare questa fame e
questa sete nel popolo di Dio e fare della parola del Signore
la sorgente del rinnovamento.
In sintonia con il concilio Vaticano II, auspichiamo che
«con la lettura e lo studio dei sacri libri “la parola di Dio
compia la sua corsa e sia glorificata” (2Ts 3,1), e il tesoro
della rivelazione, affidato alla Chiesa, riempia sempre più
il cuore degli uomini. Come dall’assidua frequenza del mistero eucaristico si accresce la vita della Chiesa, così è lecito
sperare nuovo impulso alla vita spirituale dall’accresciuta
venerazione per la parola di Dio, che “permane in eterno”
(Is 40,8; cf. 1Pt 1,23-25)» (Dei verbum, n. 26; EV 1/911).
Dato che «non conoscere la Scrittura è non conoscere
Cristo» (s. Gerolamo), sollecitiamo i parroci e i pastori del
popolo di Dio a promuovere zelantemente la lettura e la
conoscenza della sacra Scrittura.
È consolante notare segni di un risveglio di interesse
per la lettura della Bibbia. Rammentiamo nel contempo
che è assolutamente importante che tale lettura sia costantemente aderente a una sana interpretazione e fedele al
magistero della Chiesa. La traduzione della Bibbia nelle
nostre lingue locali è una benedizione. Occorre proseguire in questo sforzo con la dovuta preparazione e competenza.
attenderete il tempo futuro ancorati nella pazienza (cf. Rm
8,25), darete una verace ed efficace testimonianza al Vangelo di Cristo Signore. L’esortazione del concilio Vaticano
II a questo riguardo è sempre attuale: «E questa speranza
non devono nasconderla nel segreto del loro cuore, ma con
una continua conversione e lotta “contro i dominatori di
questo mondo tenebroso e contro gli spiriti maligni” (Ef
6,12), devono esprimerla anche attraverso le strutture della
vita secolare» (Lumen gentium, n. 35; EV 1/374).
Vi sia di conforto, di stimolo e di ispirazione Maria santissima, alla quale il pontefice emerito Benedetto XVI si
rivolgeva con queste parole: «Quando piena di santa gioia
attraversasti in fretta i monti della Giudea per raggiungere
la tua parente Elisabetta, diventasti l’immagine della futura
Chiesa che, nel suo seno, porta la speranza del mondo attraverso i monti della storia. Ma accanto alla gioia che, nel
tuo Magnificat, con le parole e col canto hai diffuso nei secoli, conoscevi pure le affermazioni oscure dei profeti sulla
sofferenza del servo di Dio in questo mondo. Sulla nascita
nella stalla di Betlemme brillò lo splendore degli angeli che
portavano la buona novella ai pastori, ma al tempo stesso
la povertà di Dio in questo mondo fu fin troppo sperimentabile» (Spe salvi, n. 50; EV 24/1488).
Conclusione
Vita sacramentale
45. Memore della promessa di Cristo – «Venite a me,
voi tutti che siete stanchi e oppressi, e io vi darò ristoro» (Mt
11,28) – «la Chiesa ha sempre venerato le divine Scritture
come ha fatto per il Corpo stesso di Cristo, non mancando
mai, soprattutto nella sacra liturgia, di nutrirsi del pane
di vita dalla mensa sia della parola di Dio che del Corpo
di Cristo, e di porgerlo ai fedeli» (Dei verbum, n. 21; EV
1/904). Essendo l’eucaristia «fonte e culmine di tutta la vita
cristiana» (Lumen gentium, n.11; EV 1/313), non è possibile
edificare la Chiesa senza di essa. Esistono, nel nostro paese,
plurisecolari tradizioni di religiosità popolare. Occorre che
esse, per conservare e accrescere la loro genuinità, siano
costantemente nutrite da un’intensa vita sacramentale. È
una precisa istanza dell’Anno della fede appena celebrato.
Con gioia notiamo nel nostro popolo il desiderio e la
volontà di partecipare alla divina eucaristia. Desideriamo,
nel contempo, raccomandare che tale partecipazione sia
attenta e spiritualmente impegnativa. Ciò si dovrà constatare nei frutti che essa produrrà nella vita quotidiana, che
dovrà essere rinvigorita dall’accostamento al sacramento
della penitenza, dalla recezione del santissimo Sacramento
e dall’unità della vita familiare fondata sul matrimonio, fino
al congedo da questo mondo con l’unzione degli infermi.
Risorgere con Cristo significa passare dalle tenebre alla
luce. Se non saremo figli della luce, non vedremo la verità.
E senza la verità, non c’è libertà (cf. Gv 8,32). «Quando
prego per tutti voi, lo faccio con gioia, a motivo della vostra cooperazione per il Vangelo» (Fil 1,4-5); su tutti voi
invochiamo la libertà, la pace e la gioia che il Padre ci ha
donato con la risurrezione di suo Figlio, e ci ha chiamato a
esserne testimoni forti e credibili.
O Maria «tu fosti in mezzo alla comunità dei credenti,
che nei giorni dopo l’ascensione pregavano unanimemente
per il dono dello Spirito Santo (cf. At 1,14) e lo ricevettero nel
giorno di Pentecoste. Il “regno” di Gesù era diverso da come
gli uomini avevano potuto immaginarlo. Questo “regno”
iniziava in quell’ora e non avrebbe avuto mai fine. Così tu
rimani in mezzo ai discepoli come la loro madre, come Madre
della speranza. Santa Maria, madre di Dio, madre nostra,
insegnaci a credere, sperare e amare con te. Indicaci la via
verso il suo regno! Stella del mare, brilla su di noi e guidaci
nel nostro cammino!» (Spe salvi, n. 50; EV 24/1488).
«Stella della nuova evangelizzazione, aiutaci a risplendere nella testimonianza della comunione, del servizio, della
fede ardente e generosa, della giustizia e dell’amore verso i poveri, perché la gioia del Vangelo giunga sino ai confini della
terra e nessuna periferia sia priva della sua luce» (Evangelii
gaudium, n. 288; Regno-doc. 21,2013,693).
I vescovi cattolici dell’Eritrea
(seguono le firme)*
Con Maria «stella del mare»
46. Carissimi fratelli e sorelle in Cristo, il nostro sincero
desiderio per voi è che , seguendo le orme di Maria «stella
del mare», viviate e cresciate saldi nella fede, nella speranza e nella carità. Solo se vivrete il tempo presente forti
in questa fede e in questa speranza (cf. Ef 5,16; Col 4,5) e
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* ✠ Menghesteab Tesfamariam, vescovo di Asmara; ✠ Thomas Osman, vescovo di Barentu; ✠ Kidane Yebio, vescovo di Keren;
✠ Fikremariam Hagos Tsalim, vescovo di Segheneity.
S
tudi e commenti |
teologia
Sacro Cuore,
umanesimo e stile
Marcello Neri sull’eredità spirituale
di p. Leone Dehon
A
Lo scorso mese di febbraio, la Congregazione dei Sacerdoti del Sacro Cuore
(dehoniani) ha organizzato presso la
Facoltà dehoniana di Taubaté (Brasile) un seminario internazionale di
studi dal titolo «Anthropologia cordis» (2-8.2.2014). In continuità con
due appuntamenti precedenti («Theologia cordis» nel 2008 e «Missio cordis» nel 2010), il seminario ha inteso
indagare, con il contributo di teologi
provenienti dai diversi continenti, le
basi antropologiche della spiritualità
del fondatore, Leone Dehon (18431925). Consapevole che all’impresa
«sono necessari gli strumenti fini
di una competenza teologica aggiornata» e «conoscenze storiche in grado
di inquadrare un fenomeno specifico e
particolare» nella sua complessità (il
rapporto fra cattolicesimo francese e
modernità europea a cavallo tra XIX
e XX secolo), Marcello Neri propone
nella sua relazione una lettura delle
opere spirituali di Dehon dalla quale
sono fatti emergere «alcuni tratti antropologici peculiari», che l’autore
– per riferimento alla proposta teoretica di Ch. Theobald e P. Sequeri
– declina poi «secondo la figura di
uno stile» in grado di far risaltare «la
specificità dehoniana della fede cristiana».
Originale digitale in nostro possesso.
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volte gli scherzi della storia possono avere
effetti salutari del tutto sorprendenti; così almeno è con p. Dehon rispetto a una ripresa,
critica e consapevole, della sua eredità spirituale e dell’impegno sociale che ha caratterizzato non solo il suo vissuto, ma anche la congregazione
religiosa da lui fondata.
L’impasse della sua beatificazione nel 2005 intorno alla
questione ebraica, legata a espressioni di carattere antisemita presenti in alcuni dei suoi scritti sociali, ha funzionato da elemento chiave per una rivisitazione più approfondita della sua spiritualità e della sua opera nella Chiesa
e nella società civile.1 Una liberalità dello Spirito che ha
impedito uno slittamento, senza soluzione di continuità,
da una mitologia della fondazione a un mito della santità;
ma che ha anche reso tutti più avveduti della complessità
di un vissuto credente che non può essere dismesso con
semplici formule di circostanza. In Dehon c’è altro e più
di quello che può apparire a una superficiale ricognizione
biografica del suo lascito.
Affinché questo nocciolo duro della sua singolare esperienza cristiana possa emergere in tutto il suo rilievo per l’ora
presente sono necessari gli strumenti fini di una competenza
teologica aggiornata ai migliori livelli del sapere della fede,
da un lato, e conoscenze storiche in grado di inquadrare
un fenomeno specifico e particolare nella complessità del
rapporto fra cattolicesimo (francese) e modernità europea
a cavallo del XIX e XX secolo. È così che la mortificante
impasse della beatificazione ha messo in atto una feconda
dinamica di riconsiderazione teologica, storica e spirituale
dell’intuizione cristiana intorno a cui si è coagulato il vissuto
di Dehon e il suo carisma di fondazione. Il 2005 segna in un
qualche modo una cesura senza la quale, probabilmente, la
spiritualità dehoniana si sarebbe per sempre assopita nell’incanto di un rispecchiamento senza immagine alcuna.
I.
Dello spirituale
Quanto mi è stato chiesto di fare per il seminario
Anthropologia Cordis, organizzato a Taubaté dalla Congregazione dei Sacerdoti del Cuore di Gesù, è una lettura
517
S
tudi e commenti
delle opere spirituali di p. Dehon, al fine di verificare e
individuare in esse la presenza di alcuni tratti antropologici peculiari da declinare poi, eventualmente, secondo la
figura di uno stile nel quale possa emergere la specificità
dehoniana della fede cristiana.
L’intuizione che sta dietro questa richiesta è che, per
quanto la cifra dello stile emerga nella teologia cattolica
in tutt’altra stagione rispetto a quella in cui ha vissuto
Dehon,2 essa sembra proporsi come coerente e corrispondente ad alcuni aspetti maggiori del suo vissuto spirituale.
Prima di affrontare direttamente il tema che mi è stato
richiesto, mi sembra pertanto opportuno cercare di illustrare quale sia la comprensione dello spirituale cristiano
intorno alla quale si articola questa mia indagine teologica
degli scritti di p. Dehon.
Con spiritualità si potrebbe intendere un determinato
modo di appropriazione credente del Vangelo di Gesù
e delle relazioni che egli intrattiene con gli uomini e le
donne quale forma della sua rappresentanza di Dio nella
storia. Essa si specifica, dunque, come esperienza particolare (di questo credente-qui, in una precisa costellazione
storica dell’intreccio fra comunità cristiana e socialità
condivisa degli uomini) della rivelazione cristiana, che accomuna tra loro le molteplici declinazioni possibili della
fede che essa stessa esige dal suo interno. In questo senso,
lo spirituale cristiano si determina lungo l’articolazione di
due elementi di fondo: quello personale (nel nostro caso p.
Dehon) e quello storico (ossia il cattolicesimo francese nel
passaggio dal XIX al XX secolo).
L’eredità di un’esperienza
da rideclinare al presente
Il riconoscimento ecclesiale di una carisma di fondazione relativizza, da un lato, questi due termini fondamentali, perché li riconosce come generatori di «altre storie di
vita» che, pur ispirate da essi, si colorano di tratti personali
e ambientazioni storiche che non sono quelle del movimento originario dello spirituale.
D’altro lato, all’interno di questa relativizzazione, li
istituisce in un qualche modo appunto a canone ispirativo
di un accesso alla storia di Gesù, che nasce nel solco di
quell’esperienza personale dello Spirito in una ben determinata costellazione della storia (umana e cristiana).
Per questa ragione la spiritualità dehoniana, come ogni
altra d’altronde, è sempre alla prova dei tempi; ma a differenza di altre, essa non può far conto su un elemento
carismatico di carattere personale (ad esempio Francesco)
o di taglio storico-ecclesiale (ad esempio i gesuiti) che l’affianchi in questa costante riappropriazione del tempo in
cui si decide la pertinenza culturale del perdurare di una
spiritualità cristiana.
La domanda davanti alla quale si trova oggi l’universo spirituale dehoniano è all’incirca la seguente: come
si può/deve declinare oggi la singolarità di un’esperienza
di Gesù così radicata nella contestualità di un passaggio
unico (quello della fine del moderno) della civiltà europea
e della Chiesa cattolica?
Quando Dehon decide, sul piano sociale, per un de-
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documenti
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ciso movimento verso la classe lavoratrice e operaia, per
quanto egli elabori tutto ciò con un vocabolario assolutamente tradizionale, mostra di aver intuito l’esaurirsi
della stagione moderna del posizionamento del cattolicesimo come civitas separata e speculare rispetto alla
configurazione della socialità umana nel suo complesso.
La forza di quel gesto è tutta racchiusa nella capacità di
aver anticipato una condizione di cui siamo divenuti pienamente consapevoli solo nel corso degli ultimi decenni.3
È seguendo queste tracce delle ideazioni dello spirito che
la congregazione dehoniana potrà, attingendo con intelligenza alla liberalità delle dinamiche dell’origine, traghettarsi nella nuova stagione che si sta profilando non
solo davanti a essa ma, più complessivamente, anche alla
Chiesa e all’umano che ci è comune.
Proprio perché nasce come esperienza ideativa, la spiritualità cristiana racchiude in sé la possibilità di una sua
flessibile configurazione, che non la ancora rigidamente
né alla memoria scritta di quell’esperienza primigenia, né
alle pratiche attraverso le quali essa inizialmente si è esercitata. Eppure, in un qualche modo, una spiritualità deve
rimanere legata sia a quella deposizione scritta dell’esperienza, sia alle pratiche che l’hanno espressa – esattamente
in quanto cardine generativo e ispirativo della sua rideclinazione in contesti storici e culturali estremamente diversi
da quelli del suo originario sorgere come lo specifico del
vissuto cristiano di p. Dehon. È in questo senso che, a
mio avviso, i testi spirituali di Dehon non devono né essere lasciati da parte in quanto ritenuti oramai irricevibili,
né essere semplicemente applicati alla lettera come unica
condizione di permanenza della congregazione all’interno
della eredità spirituale del suo fondatore.
Detta in una battuta, l’esperienza spirituale di p. Dehon,
così come essa si è depositata nei suoi scritti superandoli già
in origine, dovrebbe fungere da codice generativo per uno
spettro pluriforme di un certo-modo di essere cristiani nei
vari luoghi culturali ed ecclesiali di presenza dehoniana nel
mondo contemporaneo.
Le «opere spirituali»:
ineludibile riferimento generativo
Per fedeltà ai due cespiti fondamentali dello spirituale
cristiano, l’esperienza e la storia, ciò che la teologia può
al massimo articolare, come elemento comune a tutta la
sfera dehoniana, non può essere che una sorta di grammatica minima dello spirito come accesso e rappresentazione
dell’esperienza di Dio vissuta da Gesù così come questa
è attestata nelle pagine dei Vangeli. Ogni ulteriore caratterizzazione, soprattutto nel senso di uno stile antropologico dehoniano, non può generarsi che per riferimento
al contesto concreto (storico-politico, civile, culturale e
religioso) in cui questa grammatica minima viene messa
effettivamente in esercizio da parte di una pluralità di vissuti della fede.
Le linee di un’eventuale anthropologia cordis qui elaborate non possono essere che il primo abbozzo di un
umano plasmato dalle armoniche di questa grammatica
minima dello Spirito, reperita sullo sfondo dell’esperienza
spirituale di p. Dehon e della storia concreta dell’umanità
contemporanea. Credo che a questo punto sia chiaro che
la nozione di stile non si aggiunge dall’esterno rispetto alla
figura della spiritualità cristiana, ma ne è la sua interna
e logica conseguenza. Dunque l’idea che ha portato alla
richiesta di questo contributo pare essere assolutamente
legittima: ossia includere la categoria oramai classica di
esperienza spirituale e di vissuto cristiano all’interno della
cifra più ampia dello stile.
In questa sede, però, non dobbiamo dimenticarci
che quello che si cerca di abbozzare è precisamente uno
stile dehoniano del modo di accedere alla storia di Gesù
e dello stare al mondo nel comune dell’umano; e che,
quindi, tale stile non può essere messo in esercizio senza
un preciso riferimento all’esperienza fondativa che lo genera e lo conduce a una forma di vita che è necessariamente altra da quella che la origina ispirandone le articolazioni fondamentali.
Per lo sviluppo di un tale stile, due sono i passaggi
fondamentali: quello attraverso le testimonianze scritte
dell’esperienza originaria di p. Dehon, da un lato; e
quello attraverso un’intelligenza, culturale e teologica,
dell’epoca in cui viviamo, dall’altro. Questi due aspetti si
condizionano a vicenda; ed è nel rispetto di questo vincolo di reciprocità che si potranno attingere i lineamenti
fruttuosi di un modo di essere dell’umano credente che
non sia solo genericamente cristiano, ma anche specificamente dehoniano.
È in quest’ottica che vorrei cercare di articolare la mia
riflessione intorno al tema di un’anthropologia cordis in p.
Dehon, quale chiave architettonica per la configurazione
di uno stile dehoniano nella Chiesa e per il mondo. Ma
prima di affrontare direttamente la questione credo sia
importante una breve nota di merito, che riguarda esattamente il modo di leggere i testi spirituali di Dehon.
Come leggere i testi
Anche per quanto concerne i testi spirituali, quella di
Dehon non è una scrittura sistematica ma d’occasione;
dettata da un’urgenza dello Spirito rispetto all’edificazione
della congregazione – sedimentazione di un’esperienza
personale che si espropria di sé per mettersi a disposizione del vissuto credente di altri. Già questa intenzione,
che governa l’insieme delle sue opere spirituali, le apre
al gioco ermeneutico della ricezione a cui esse aspirano;
e, quindi, include la libera appropriazione dell’intuizione
e dell’istruzione che vogliono trasmettere. Testi, dunque,
nei quali certamente scorre traccia della biografia spirituale di Dehon, delle fonti sulle quali si forma e del mondo
devozionale nel quale si plasma; ma che trovano nel ricevimento altrui la loro stessa ragion d’essere.
Essi sono pensati per l’oggi immediato della comunità
religiosa per la quale e alla quale Dehon scrive, più che
per le generazioni che verranno; ma questo non toglie che
1 Cf. Y. Ledure (a cura di), Antisemitismo cristiano? Il caso Leon
Dehon, EDB, Bologna 2009.
2 Cf. C. Theobald, Il cristianesimo come stile. Un modo di fare
teologia nella postmodernità, voll. 1-2, EDB, Bologna 2010.
in tutte queste pagine egli non abbia lasciato una traccia
dell’immaginario a venire della sua congregazione, nel
solco della quale ci si può oggi fecondamente inserire per
una ripresa all’altezza dell’intuizione originaria dello Spirito che quei testi pur sempre veicolano. Anche quando
scende nei dettagli, le pratiche di pietà che Dehon descrive
sembrerebbero avere più la forma della suggestione che
dà corpo a una disposizione dello spirito, che la nettezza
incontrovertibile di un’istruzione da seguire alla lettera.
È esattamente questo profilo suggestivo che si offre
all’incerto del ricevimento che lo deve tradurre nel concreto effettivo di condizioni di vita, reinventandolo sempre
di nuovo affinché le movenze dello spirito possano realizzarsi in esercizi pratici di una fede che sa essere in presa
diretta con le ideazioni che lo Spirito di Dio fa scorrere
nella storia comune degli uomini.
Il carattere suggestivo di una comprensione dello spirituale che si deve realizzare in pratiche rende complessa
la lettura dei testi di Dehon, se questa ne vuole cogliere
l’animo profondo che le innerva, senza arrestarsi alla superficie di una scrittura in carenza di originalità. In questo
senso, è difficile, se non impossibile, individuare un’opera
che sia emblematica della sua specifica esperienza cristiana di Dio, rappresentandone in un certo qual modo
una sintesi esauriente. Quello che manca ai dehoniani è la
comodità di un testo fondatore, più nella sua valenza simbolica che nell’esaustività del suo contenuto – insomma,
qualcosa come gli Esercizi di Ignazio per i gesuiti. Questo
chiede una lettura trasversale, e ripetuta, delle sue opere
per raccogliervi i tratti di un’originalità dello spirito dietro
le molte incrostazioni delle ripetizioni e delle citazioni (più
o meno esplicite).
Insomma, Dehon non appare immediatamente nella
scrittura che porta la sua stessa firma; eppure in essa
scorre come un fiume carsico che si dona a improvvise
emersioni. Solo seguendo il gioco di queste velature e
rapide apparizioni, si può cogliere un suo tratto-proprio
nelle molteplici sponde che spesso si limita a ritagliare da
altri. Per queste ragioni l’individuazione di uno stile antropologico dehoniano deve percorrere molte divagazioni tra
i testi spirituali che egli ha lasciato; nella consapevolezza
che la costruzione di una minima figura sistematica la si
può ottenere solo in uno spazio che rimane irrimediabilmente extra-testuale.
II.
Per aspri sentieri
Per raccogliere alcune suggestioni che vadano in direzione di un’anthropologia cordis, quale perno intorno a
cui configurare uno stile dehoniano dell’essere al mondo,
a servizio della Chiesa e come cura dell’umano che ci è
comune, vorrei prendere le mosse proprio da alcune difficoltà che si presentano immediatamente al lettore delle
opere spirituali di p. Dehon. Tra le molte (ci sarebbe solo
3 Cf. F.-X. Kaufmann, Kirche in der ambivalenten Moderne, Herder, Freiburg-Basel-Wien 2012.
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da scegliere), ne individuo tre che mi sembrano centrali;
perché, a una lettura più attenta, esse possono ribaltarsi in
inaspettati punti di aggancio per la riflessione che stiamo
facendo.
La prima è quella dell’intimismo individualista che
attraversa la quasi totalità della scrittura spirituale di
Dehon. Oltre che essere un tratto personale dell’autore,
essa rappresenta anche una caratteristica abbastanza diffusa degli scritti edificanti cattolici dell’epoca a lui coeva.
La seconda è quella della devozione, che sembrerebbe essere un tratto predominante, e non particolarmente originale, degli scritti spirituali di Dehon. La terza è quella
del linguaggio, non solo pesante al lettore odierno, ma
anche carico di un eccessivo sentimentalismo neanche
troppo ragionato – melenso, talvolta stucchevole, sarebbe una definizione non troppo distante dalla realtà
delle cose.
Bene, proprio questi tre scogli, sui quali naufragano
anche le migliori intenzioni di una spassionata lettura
di Dehon, rappresentano, a mio avviso, gli snodi più fecondi per una ripresa odierna dell’esperienza spirituale di
Dehon nell’ottica del suo sviluppo come uno stile specifico
della fede cristiana.
Premessa culturale
Prima di verificare la viabilità di un tale ribaltamento,
mi sembra però necessario apporvi una premessa di carattere culturale. Il lavoro che stiamo svolgendo in questa
sede, in cui trovano rappresentanza tutte le presenze continentali della congregazione dehoniana, si caratterizza
come un banco di prova interculturale per una tradizione
spirituale di matrice specificamente occidentale – tra l’altro, come sottolineavamo all’inizio, esplicitamente radicata in un ben preciso passaggio del rapporto tra Chiesa
cattolica ed Europa moderna.
La lettura di Dehon che cercherò di proporre in seguito
è dichiaratamente europea; e non può essere altrimenti,
data la formazione e la storia professionale di chi scrive.
Essa, però, non intende né proporsi come chiave di volta
di una forma mentis et vitae (M. Blondel) che valga, di per
sé, oltre i confini e i codici culturali all’interno dei quali
si genera; né colonizzare in qualsiasi modo il ricevimento
contestualizzato del patrimonio spirituale dehoniano in
culture e ambienti di vita che sono profondamente diversi
da quello europeo.
Oramai sappiamo tutti che la stagione di questa immediata trasposizione è finita, la sua via impraticabile, molti
dei suoi esiti deleteri per il cristianesimo stesso. Eppure
tutto questo, a mio avviso, non coincide con la dismissione
di un compito dell’Europa davanti alle altre culture (dentro e fuori di essa): quello di mettere mano a una rinnovata
coltivazione dei guadagni più felici e singolari della sua
travagliata vicenda storica, intellettuale e spirituale.
La permeabilità alla messa in questione che può provenire da altri modi di abitare il mondo e di intendere la
vita, finanche la doverosa scompaginazione di assetti che
essa comporta, non devono però risultare nella perdita di
ogni contorno che permetta un cammino di individua-
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zione legato alla storia da cui proveniamo e ancorato a
uno spazio comune e riconoscibile nei suoi tratti portanti
– che non sarebbe altro che il ribaltamento in una cattiva
indistinzione del tutto omologa alla violenza del principio colonialista di unificazione e soggezione del genere
umano, di cui l’Europa nel corso della modernità ha attinto a piene mani (come ci ricorda lo storico Paolo Prodi,
la modernità è sostanzialmente la storia dell’europeizzazione del mondo). L’indistinto come tutto e il tutto come
distinzione elettiva di un particolare, non sono che gli opposti che si tengono la mano chiudendosi in un mortifero
abbraccio.
La benedizione del molteplice
Preparando questo intervento, soprattutto pensando
al contesto cui doveva indirizzarsi, mi è tornato spesso in
mente il passo biblico di Babele e della torre che là gli uomini decidono di costruire – nell’interpretazione, sempre
più condivisa, che ci offre l’esegesi contemporanea: ossia
come pagina che marchia a lettere di fuoco la benedizione
di Dio e non il suo capriccioso castigo davanti all’alterigia
e superbia degli uomini.
Babele mostra, in primo luogo, di che cosa è capace
l’umano: della potenza diabolica dell’unico,4 dell’indistinto, appunto; ma non della benedizione del molteplice,
dell’apprezzamento benevolo della distinzione che ci permette di essere insieme senza sacrificio del particolare e
la violenza del diverso. È davanti alla tentazione dell’unico che Dio interviene, per ricomporre la benedizione
del molteplice – a cui corrisponde l’impresa di cui egli ci
ritiene degni e all’altezza: abitare la diversità per costruire
su di essa la comunanza dell’umano.
A Babele Dio lascia apparire il «nulla» che ci accomuna, in quella sorta di fisionomia del corpo in cui si appresenta un sé-stesso a me riconoscibile e, al tempo stesso,
del tutto indisponibile. Nell’appresentazione del corpo
(sulla scia della Appräsentation husserliana), l’altro mi appare esattamente come un «sé» alterato; così prossimo a
me stesso eppure così non coincidente con me. Nel corpo,
come alterazione del «sé», io vengo detto/consegnato a
me stesso nella fragilità di una carne comune, che si attesta
non essere la mia e solo per un «nulla» diversa da essa.
Questa soglia fragile e indifesa dell’alterazione del «sé»,
che è il corpo, manifesta il molteplice nel quale tutti, ma
proprio tutti, possiamo riconoscerci nell’irripetibilità che
ciascuno di noi è. Tutto questo rappresenta per Dio la
benedizione che egli desidera preservare per noi a ogni
costo – fosse anche l’azzardo di disperderci, per non farci
soccombere davanti alla comunanza violenta dell’unico.
All’interno di una congregazione religiosa internazionale è comprensibile il desiderio di circoscrivere uno
spazio che accomuna, attestando il legame di molti alla
medesima dinamica dell’originario spirituale. Ma quando
questa con-divisione viene cercata intorno a coordinate
teologiche e antropologiche da declinare come stile, allora
il molteplice si annuncia essere il prezzo irrinunciabile che
bisogna essere pronti a pagare affinché lo stile non si riduca a una semplice nozione che si giustappone ai vissuti
concreti che lo mettono in esercizio – e, quindi, lo fanno
letteralmente essere in quanto tale. Di quello stile, come
detto, si può al più organizzare una grammatica minima,
destinata fin dall’inizio a con-dividersi nel molteplice delle
«lingue» che ne dicono il ricevimento come atto effettivo
del vivere proprio-qui, e non altrove, di una certa disposizione dello spirito credente.
Credo che a questo punto si sia chiarito a sufficienza
l’orizzonte dell’indagine cui vogliamo mettere mano.
In primo luogo vorrei tentare una lettura spassionata, e
un po’ in controtendenza, delle difficoltà presenti negli
scritti di Dehon, cui avevo fatto cenno in precedenza. In
seconda battuta vorrei cercare di mostrare brevemente
come la figura dello stile sia implicitamente presente in alcune chiare indicazioni e tendenze complessive dell’opera
spirituale di Dehon. Infine, ma si tratta di un semplice
annuncio che richiede scavi ulteriori, vorrei cercare di delineare il quadro di massima di una stilistica dehoniana del
vivere imperniata su due aspetti che emergono, con una
certa singolarità, nella scrittura di Dehon: la confiance, da
un lato, e il dono, dall’altro.
gamente agognata – imprese, queste, che non si beassero
di una coltivazione narcisista della ricerca imbarazzata
della propria immagine in ogni riflesso della vita e del
mondo,6 ma fossero l’indice della messa in gioco di ciò
che era più caro a quel soggetto: la sua stessa autonomia.
Per Dehon essa non rappresenta l’idolo di un’impermeabile auto-conservazione di sé a qualunque costo, ma è la
condizione di possibilità dei gesti più alti di cui l’umano
è capace; che trovano la loro sintesi religiosa nella possibilità vertiginosa di stare davanti all’agape di Dio e di
esserne il destinatario desiderato da sempre: «Come è più
elevata e più pura la via dell’amore! Essa mette Dio al suo
posto e ne fa veramente il Maestro, il centro e l’ideale di
tutto. Ed essa fa delle creature come un cuore attento e
premuroso, tutto dedicato al maestro che ama e dal quale
tutto riceve. Il timore e la speranza non devono essere
che degli ausili; è la carità la regina e la maestra della vita
interiore (...)».7
Mi sono a lungo chiesto come mai Dehon, al di là delle
propensioni del carattere e della segnatura del tempo, si
sia quasi concentrato su quello che prima abbiamo definito essere un intimismo individualista. Troppo marcato
e cercato questo tratto per essere solo spontaneità della
penna, o adeguazione al profilo edificante della scrittura
spirituale coeva. In fin dei conti, questo è lo strumento a
lui più congeniale per un vis à vis con il prodotto più eclatante della modernità che oramai volgeva al suo termine:
l’io autarchico e sovranamente signore di sé e del mondo.
La forma auto-referenziale cui approda uno dei lasciti
più luminosi del moderno appare a Dehon in tutta la sua
forza distruttiva del soggetto stesso; su di esso egli lavora
non per ricondurlo a un’antica schiavitù, servilismo del
«sé» davanti a un Dio faraone, ma quasi a raccoglierlo
dal vortice di annichilimento cui esso sembrava destinarsi
al tramonto della sua stagione migliore. Per come se lo ritrova davanti, il soggetto moderno appare a Dehon come
l’ambito di applicazione della decostruzione più rigorosa;
invischiato come è nell’ossessione di una sovranità pronta
a qualsiasi patto pur di vedere realizzata la potenza della
propria volontà dispotica.
D’altro lato, la teologia del suo tempo non lo aiutava
di certo a rimettere in gioco, nel cuore del soggetto, tutte
le armoniche di una disponibile generosità del «sé»5 a
spendersi in imprese all’altezza di quella dignità così lun-
Nella crisi del soggetto moderno
Dalla modernità Dehon prende i tratti maggiori, per
costruire su di essi la sua idea di un soggetto forte (il minimo possibile per stare continuamente coram Deo), libero
(perché se così non fosse, agape si ribalterebbe nell’incanto
ingannatore della seduzione strumentale) e indipendente
(così come Dio desidera siano gli uomini per i quali non
esita a dare il suo affetto più caro).8
Meno sprovveduto di quanto possa sembrare, Dehon
ha percepito con chiarezza che la macchina autarchica
del soggetto sovrano è stata assunta dalla stessa teologia
neoscolastica quale principio regolatore della relazione
teologale e dell’attuazione della fede. La critica in merito è tanto lucida quanto spietata: il dispositivo credente
del soggetto che si dispone esclusivamente lungo l’asse
ragione-volontà dà forma a una relazione teologale di carattere puramente mercantile:9 «Si può obbedire solo per
volontà, senza affezioni del cuore. In questo caso l’uomo
serve il suo Dio come uno schiavo, un mercenario. Si consegna la propria volontà come un condannato dà il suo
corpo all’aguzzino. Così non mi si ama affatto. Non si
tratta, piuttosto, di un modo di oltraggiarmi? Così si serve
un signore crudele e senza cuore. Quello che chiedo è il
vostro cuore: Praebe fili mi, cor tuum mihi (Pr. 23)».10
Se l’intimismo individualista mira a raggiungere il
soggetto moderno laddove esso effettivamente si trova a
cavallo tra il XIX e il XX secolo, la devozione al Sacro
Cuore s’innesta esattamente in questo punto per liberare
la relazione teologale dal mercato dell’economia di scambio in cui ciascuno dei soggetti in causa diventa, in un
qualche modo, il padrone dell’altro. Quello che Dehon
4 Cf. M. Stirner, L’unico e la sua proprietà, Adelphi, Milano
1999.
5 Cf. L. Dehon, Oeuvres Spirituelles II (OS II), Edizioni Dehoniane,
Roma 1983, 13.
6 Ivi, 13: «Da ultimo, la paura e il timore lasciano troppo spazio
all’amor proprio. Vi fanno scorgere le grandi verità della religione unicamente per riferimento a voi stessi e ai vostri interessi personali. Degenera in una paura servile che ha ben poco di soprannaturale (...)».
7 Ivi, 15.
8 L. Dehon, De la charité qui depasse toute science (CH), vol. I,
Louvain 1949, 20-21: «Vivente, la nostra anima riproduce la vita divina e la potenza del Padre; intelligente, essa imita l’intelligenza del
Verbo; amante, essa esprime l’amore dello Spirito Santo (...). Dio è
libero; l’uomo è libero. A motivo di questa libertà, noi meritiamo il
cielo (...)».
9 L. Dehon, Ouevres Spirituelles I (OS I), Edizioni Dehoniane,
Roma 1982, 183: «Allora si mercanteggia su quello che si è dato».
10 Ivi, 182-183.
III.
Attraversare le difficoltà
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cerca di mettere in gioco è un deciso ampliamento dell’idea del soggetto, convocando alla sua configurazione fondamentale il grande assente della tarda modernità (fuori e
dentro la religione), ossia la dimensione affettiva come originario sia della ragione sia della volontà – a cui entrambe
sono costantemente rimandate per trovare il principio
della propria attività: «Non voglio una pura sentimentalità
che non porta a nulla. Non chiedo né la volontà sola né
il cuore solo. Non domando una sentimentalità nervosa e
sensuale, ma un’affezione profonda e agente».11
L’iscrizione all’interno dell’ordine degli affetti libera
sia la ragione sia la volontà dal ridurre la propria attuazione a semplice calcolo ben ponderato,12 così che esse
possano essere messe in corrispondenza con le eccedenze
di agape che può essere riconosciuta e messa in circolo solo
grazie alla qualità affettiva del volere secondo ragione: è
tale qualità che muove la ragione ad agire secondo le «logiche» di agape, così come essa si è data nella dedizione
del Figlio a favore dell’umano che è di tutti.
La devozione al Sacro Cuore,
opportuna e congeniale
La devozione al Sacro Cuore appare a Dehon la forma
di pietà più adeguata, stante l’insufficienza della teologia
del tempo, per istruire le coordinate teologiche della ricostruzione cristiana dell’idea moderna di soggetto. In questo egli mostra di non essere affatto uno sprovveduto.
Raccogliendo una coltivata sapienza spirituale, Dehon
sa benissimo che «amore», anche quello che circola dentro il cristianesimo, la fede e la vita religiosa, è un fenomeno ambivalente.13 Di qui la sua concentrazione critica,
con riprese costanti, del tema dell’amor-proprio come
vero snodo cruciale di una veritiera circolazione di agape
nelle trame dell’esistenza cristiana. Per come lo tratta e lo
descrive, si potrebbe dire che l’amor-proprio rappresenta
la forma cristiana realizzata del soggetto auto-referenziale
e solipsistico cui approda il moderno; anzi è ancora più
pericolosa di esso, perché si ammanta di un’aura religiosa
e devozionale che la rende viscida e sfuggente.14
Dehon intuisce la forza accattivante che sottostà alla
giustificazione religiosa dell’auto-destinazione di agape;
quella che in Dio stesso viene scongiurata solo mediante
l’apertura sul terzo dello Spirito, che la incanala nella sua
doverosa dedizione per la differenza dell’umano che è al
mondo. Insomma, «amore» non è mai un possesso che
termina nella congiunzione perfetta col suo principio; ma
è destinazione perigliosa di quest’ultimo alle molte alterazioni che esso conosce negli attraversamenti delle storie e
dei vissuti dell’umano (a partire da quello del Figlio). Agire
religiosamente per amor-proprio segna, secondo Dehon, il
massimo della distanza dalla liberale circolazione di agape
quale desiderio originario di Dio, irrevocabilmente attestato nella carne dell’uomo di Nazareth.
Per rimettere in gioco questa circolazione di agape
quale differenziale cristiano del nome comune di Dio,
Dehon trova l’aggancio migliore, e a lui più congeniale,
nella devozione del Sacro Cuore. Su questo tratto marcatamente devozionale della sua esperienza spirituale si
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sono spesi fiumi di parole, il più delle volte per dismetterlo come irricevibile nel contemporaneo. In quale misura Dehon apporti una qualche novità a tale devozione
rimane questione aperta, a seconda del modo in cui la si
comprende.
Per quanto riguarda terminologia e tematiche, egli
sembra più dipendere da altre fonti ed esperienze, che
rappresentare l’istanza di una qualche innovazione. Se
si guarda alla lettera delle cose, questa impressione può
avere anche la sua legittimità. Eppure non si può fare a
meno di registrare almeno una stranezza di Dehon in merito. Egli afferma, infatti, che oramai la devotio al Sacro
Cuore è divenuta fenomeno di popolo nella Chiesa cattolica, non più confinata a esperienze elettive dello spirito
credente.15 Ed è anche consapevole che con questa svolta
popolare essa presta il fianco all’accusa di essere poco più
che una pietà sentimentalista. A mio avviso, è proprio per
fronteggiare questo rischio che egli si premura di raccogliere e registrare un catalogo di testimonianze, nella tradizione della Chiesa, che diano spessore alla profondità e
serietà di una fede che si plasma sul registro della devozione al Sacro Cuore di Gesù. Da questa raccolta, quasi
scrupolosa, ne fuoriesce una scrittura talvolta pedante;
dove però proprio la mancanza di originalità, ossia di un
apporto a partire dalla propria particolare esperienza, è
intesa a corroborare e dare fondamento alla devotio stessa
– insomma, a renderla pertinente in quanto forma forte
della pietas cattolica.16
Qui l’autore si eclissa dietro il compito di legittimare
una devozione di popolo davanti alla Chiesa tutta e alle
riserve della teologia. La riuscita di questa impresa andrebbe valutata tenendo conto delle sensibilità che circolavano allora nel cattolicesimo, e non a partire dalla nostra
visione di oggi; soprattutto tenendo conto non solo del
tratto illuminato e razionalistico che dominava la scena
di allora. Se così si facesse, si mancherebbe l’intenzione
principale di questo lavoro di catalogazione di Dehon; che
mira esattamente a recuperare gli affetti della fede davanti
all’anestetica delle affezioni che contraddistingue l’impero
della neoscolastica, da un lato, e alla ricostruzione del
nesso tra la fides qua e la fides quae in una forma diversa
da quella di una mera corrispondenza logico-formale propugnata da quella teologia, dall’altro.
Fondare la Congregazione:
una scelta contraddittoria?
La devozione al Sacro Cuore appare a Dehon la
forma adeguata per disegnare le atmosfere teologiche di
una fides qua che sia il ricevimento necessario a una fides
quae organizzata intorno al realismo dell’agape divina,
che si realizza nella dedizione del corpo del logos figliale
di Dio come affezione: «I vostri rapporti con noi [il Dio
vivente in noi; nda] saranno così intimi che voi ben li
vorrete. Saranno rapporti di affezione reciproca; delle
relazioni da amico ad amico, da bimbo a padre, da sposo
a sposa (...). Si tratta di una società di vita e di operazioni
che realizza un’intimità simile a quella che fa di due esseri
umani un cuore solo e un’anima sola (...). Io sono in voi
come la testa e il cuore; e io diffondo in voi, che siete mie
membra, la vita e il movimento. È il mio Cuore che vive
in voi».17
In tutto questo, però, rimane una domanda finora
inevasa rispetto all’apporto di p. Dehon a questa devozione. Non senza una certa enfasi egli rimarca, infatti, che
essa, appunto, è diventata cosa di popolo; diffondendosi
ben oltre i limiti di esperienze privilegiate della fede. Ed è
possibile che le cose stessero effettivamente così; dico possibile, perché è sempre difficile registrare adeguatamente
l’effettiva portata di fenomeni popolari. Si potrebbe dire
che verso la metà del XIX secolo, quando Dehon inizia a
concepire il suo progetto di fondazione, la devozione del
Sacro Cuore fosse ampiamente diffusa tra i vari ceti del
cattolicesimo di allora e risultasse essere una pietas immediatamente intelligibile – senza necessità di ulteriori
spiegazioni e chiarificazioni. Appunto, in questo senso,
un dato di popolo nella Chiesa cattolica.
Davanti a questo allargamento popolare la reazione
di Dehon è di ampia soddisfazione: finalmente questa devozione, a lui così cara, esce dai recessi personali e privati
di alcune anime credenti, per diventare patrimonio accessibile a tutti i fedeli. In quest’ottica, la funzione di Dehon
rispetto alla devozione del Sacro Cuore potrebbe essere
indicata come quella del divulgatore. Ma perché, stante
così le cose, Dehon decide di fondare una congregazione
religiosa imperniata quasi esclusivamente su questa devozione? Non si tratta, in un qualche modo, di una sua
riconduzione a un principio elettivo, solo di alcuni tra i
molti?
Dehon è chiaro nell’affermare che lo Spirito provvede
la Chiesa con forme di pietà che siano peculiarmente atte
a una precisa stagione della fede cattolica; per il tempo
in cui egli vive questo dono carismatico è rappresentato
esattamente dalla devozione al Sacro Cuore nella sua
forma di pietà popolare.18 Ma appunto, se è oramai di
tutti perché ritagliare un’area di vita nella Chiesa che la
pone al centro, quale principio elettivo, della sua stessa
ragion d’essere? Non si tratta di un movimento in un
qualche modo contraddittorio? Sul piano sincronico lo è
sicuramente; visto anche il proliferare, nel XIX secolo,
di congregazioni religiose legate alla devozione del Sacro
Cuore. Ma su quello diacronico?
11 Ivi, 183 (sottolineatura mia).
12 OS II, 71: «Si concede a Gesù un amore di ragione, o anche di
volontà, nel quale il cuore non gioca alcun ruolo; come se si potesse
amare senza donare il proprio cuore».
13 OS I, 183: «I religiosi che mercanteggiano la loro obbedienza
non sono religiosi che di nome. Non hanno alcuna preoccupazione per
la perfezione del loro stato di vita (...). Il loro linguaggio è contrario
allo spirito di semplicità e di abbandono. Sono dei rami secchi. Sono
lebbrosi che comunicano la loro lebbra agli altri».
14 OS II, 17: «Dimenticando tutto quello che fa per Dio, non pensa
che a fare ancora di più. Non si appoggia su se stesso; pensa alla ricompensa celeste non tanto sotto il titolo di ricompensa, quanto come
certezza di amare Dio con tutte le sue forze, e di essere amato da Lui per
l’eternità. Senza escludere la speranza, che gli è naturale, considera la
felicità più dal lato del piacere del suo Dio e della gloria che gli spetterà,
che da quello del suo proprio interesse».
15 OS I, 16: «Agli inizi essa [la devozione al Sacro Cuore; nda]
appassionò le anime generose, più vanti nel tempo diviene popolare. Il
movimento si allarga, niente lo potrà arrestare. È come il lievito della
parabola».
Un’ipotesi interpretativa
Dehon è perfettamente consapevole della contingenza
di questa liberalità carismatica dei doni spirituali di Dio;19
e, credo, abbia intuito con una certa lucidità che forza ed
estensione della devozione al Sacro Cuore fossero esattamente quello che dovevano essere: un fenomeno oramai
giunto alla maturazione della sua storia e, quindi, già transeunte nel momento stesso del suo massimo splendore.
La tesi che ne consegue, perché si tratta di un’ipotesi
tutta da verificare, potrebbe essere più o meno la seguente:
la fondazione della congregazione religiosa dei Sacerdoti
del Sacro Cuore di Gesù attinge a piene mani dal presente
(di allora) della Chiesa e della condizione di popolo delle
devozione; ma è, almeno implicitamente, tesa tutta al futuro – è là che troverà la sua ragion d’essere e la prova
della sua pertinenza ecclesiale: ossia quella di custodire
i lineamenti e le intuizioni di fondo di questa devozione
quando essa, inevitabilmente, non sarà più un fenomeno di
popolo nella Chiesa; e di idearne, in questo mutato contesto, il profilo più adeguato a interloquire con la stagione ecclesiale e culturale della sua estinzione in quanto fenomeno
popolare. Inevitabilmente, data l’intelligenza storica con
cui Dio elargisce i doni di un carisma cristiano specifico,
per cui è l’«ora» che determina la sua presenza efficace nel
suo popolo.
Mi sembra che una simile intelligenza delle dinamiche
dello Spirito possa dare ragione del perché Dehon riconduca la devozione al Sacro Cuore a una forma elettiva,
proprio nel momento in cui essa sembra essersi definitivamente lasciata alle spalle il suo confinamento nell’esperienza esclusiva di pochi/alcuni.
IV.
Come può funzionare una devozione
È probabile che Dehon non sia stato originale nella costruzione dei lineamenti della devozione al Sacro Cuore,
e che a riguardo sia di gran lunga debitore all’atmosfera
spirituale del suo tempo e a uno spettro abbastanza ben
delineato di esperienze dello Spirito.
16 Ivi, 442: «Andiamo avanti con l’esposizione teologica della nostra bella devozione e continuiamo a conformare i nostri sentimenti
e le nostre risoluzioni alle verità dogmatiche sulle quali riposa questa
devozione sublime. Abbiamo visto che il Cuore di Gesù è sostanzialmente unito al Verbo, Figlio di Dio, e che la santa Trinità vive e regna
all’interno di questo Cuore divino. Dunque, a buon diritto possiamo
chiamare il Cuore di Gesù il Tempio santo del Signore. A chi chiederemo
oggi lo sviluppo di questo pensiero?».
17 Ivi, 217.
18 Ivi, 12: «Quando è necessario, Dio interviene attraverso qualche mezzo straordinario, specialmente suscitando, per l’azione dello
Spirito Santo, o per mezzo di fatti provvidenziali, o ancora attraverso
una manifestazione miracolosa, qualche devozione potente che muove,
raggiunge e trascina i cuori (...). Non ho altro scopo, fratelli miei, che
di ricordarvi in questo discorso come la devozione al Sacro Cuore sia il
dono del nostro tempo, dono prezioso (...)».
19 Ivi, 12-13: «Il Pontefice divino dona a ogni epoca della vita della
Chiesa una grazia dominante che si manifesta attraverso una devozione
principale (...). Proviamo, fratelli, a comprendere questa sublime azione
di Cristo (...)».
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Originale, però, mi sembra essere sia il rapporto che
egli istruisce tra la devozione e il tempo in cui vive, sia
l’intuizione fondativa che si profila nell’orizzonte di un’estinzione della devotio che la innerva – per mantenerla,
elettivamente, nello spazio della fede ecclesiale. Ma l’apice
dell’originalità viene raggiunto da Dehon nel modo in cui
egli fa funzionare la devozione del Sacro Cuore rispetto
alla teologia romana in cui si è formato e che domina la
scena del pensiero cattolico in quanto unica teologia propria della Chiesa.
Per cogliere questo tratto innovativo, e del tutto sorprendente ai tempi, del funzionamento della devozione
rispetto alla teologia neoscolastica, è necessario fare un
passo indietro verso le ragioni della scelta che, dall’iniziale
attrazione per i gesuiti, lo hanno portato alla fondazione
di una nuova congregazione.
Il tratto originale di Dehon
Quando Dehon scrive i suoi «Esercizi» (De la vie d’amour
envers le Sacré-Coeur de Jésus) è ben consapevole di avere davanti a sé il monumento spirituale del testo di Ignazio; ed
egli sa bene che, in un qualche modo, deve addurre delle
ragioni che legittimino questa impresa. Ora, per quanto nessun gesuita e, probabilmente, nessuna interpretazione degli
Esercizi ignaziani, affermerebbero che essi si interrompono
quando giungono ad agape, Dehon gioca l’azzardo di affermare che la sua congregazione intende iniziare proprio là
dove gli Esercizi, e con essi la spiritualità gesuita, si arrestano
– ossia con l’amore di Dio e l’ordine regolativo di agape.20
Ritengo che si debba cercare di pensare questa concentrazione di Dehon su agape, come abbrivio della spiritualità
che vuole consegnare alle generazioni a venire, insieme
all’ipotesi suggerita in precedenza di una riconduzione della
devozione al Sacro Cuore nello spazio di una forma elettiva di vita cristiana, che si giustifica nell’orizzonte della sua
estinzione quale pietas popolare nella Chiesa.
Insomma, a Dehon il nesso fra ordine di agape e devozione del Sacro Cuore appare essere essenziale; e per
questo deve essere tenacemente custodito ben oltre la
fortuna che lo Spirito può donare a una devozione in
un particolare momento della vita della Chiesa. L’estensione popolare della devozione del Sacro Cuore è una
contingenza della grazia, ma il legame tra questa devotio
e l’agape che è Dio tiene insieme l’essenza strutturante
della manifestazione cristiana di Dio nella storia umana
– e della sua verità ultima: «L’amore di Dio è dunque il
principio e il fine della creazione. Dio vi ha creati per
diffondere il suo amore e affinché questo amore faccia
ritorno verso di lui. Rispetto agli uomini, l’amore di Dio
diviene la sua benevolenza. Si tratta di una propensione
infinita che egli ha a fare del bene; e a fare un bene immenso ed eterno (...). Dio ha inviato me, suo Figlio, con la
missione d’incarnarmi, di rendermi visibile tra gli uomini,
di conversare con loro e di risollevarli dai loro peccati».21
Insomma, non ha a che fare con il carattere transeunte
di un passaggio ecclesiale nella socialità umana. Se nel
XX secolo l’ordine di agape ha ripreso a funzionare come
principio regolativo del mistero che è il Dio di Gesù, da un
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lato, e dell’attuazione della fede nell’umana coesistenza,
dall’altro, esso si è però completamente staccato dall’immaginario teologico del Cuore di Gesù.
Devozione al Sacro Cuore
e forma del ministero petrino
È probabile che Dehon guarderebbe a questo indubbio avanzamento della forma mentis cristiana come a una
carenza fatale. È interessante notare come lo sfondo ultimo intorno al quale si articola la predicazione di papa
Francesco in merito alla verità delle relazioni fraterne
all’interno della Chiesa e alla questione della giustizia sociale dei rapporti mondani si innesti, a mio avviso, esattamente nell’atmosfera di una rideclinazione attuale della
devozione del Sacro Cuore.22
Se congiungessimo il modo in cui Dehon fa funzionare
teologicamente questa devozione al modo in cui Francesco la pone a capostipite della doverosa giustizia che va
resa all’umano nello spazio della socialità condivisa da
tutti, non solo si potrebbe fare un avanzamento notevole
nella configurazione di uno stile antropologico plasmato
intorno all’immaginario del Cuore di Gesù, ma sarebbe
anche possibile riprendere in maniera innovativa due temi
che furono centrali nella vita di Dehon.
Il primo è quello di una corrispondenza, non di maniera ma neanche puramente dogmatica, della pratica
della spiritualità dehoniana nella storia umana al modo
in cui il papa esercita il suo ministero nella Chiesa per
il mondo contemporaneo. Sono dell’avviso che tale aderenza fraterna non trovi la sua codificazione ultima nel
dettato del Vaticano I, quanto piuttosto nella forma in cui
ogni papa, in quanto persona credente, mette in esercizio storicamente questa responsabilità della Chiesa. Detta
in una battuta, Dehon fu ultramontanista perché quella
era la forma desiderata dal papa per il proprio ministero;
e non perché il Vaticano I avesse esaurito in sé l’unico
modo possibile di essere papa.
Il legame di Dehon e, conseguentemente, della sua
congregazione al ministero petrino è esattamente una
questione di stile, e non di determinazione dogmatica
del magistero. In questo, la distanza tra Dehon e il neotradizionalismo cattolico odierno, che si propone come
una ripetizione formale dell’epoca in cui egli visse, non
potrebbe essere maggiore; perché la sua pietas figliale
verso il ministero petrino si decise per riferimento all’effettività della storia degli uomini come stile del dovere
che la Chiesa ha verso il mondo davanti a Dio. In questo senso, l’ethos dell’ufficio di Pietro si misura sulla sua
fedeltà all’ordinamento di agape come cura dell’umano
che è caro a Dio (regola lucidamente descritta, in tutta la
sua vertiginosa responsabilità, dalla pagina del Vangelo
giovanneo).
È lo stile dell’affezione, che nell’istruzione del ministero petrino salda inesorabilmente la qualità dell’affetto
per il Figlio a quella della cura effettiva sull’uomo, a essere
il referente fondamentale della leale adesione di Dehon al
modo in cui un fratello nella fede intende l’esercizio del
suo ministero. Ma, al tempo stesso, è proprio in quello stile
dell’affezione che lo spirituale dehoniano trova anche la
misura critica della sua onesta relazione con il papato.
Devozione al Sacro Cuore
e questione sociale
Il secondo tema è evidentemente quello della questione sociale. Se in papa Francesco, come credo sia
possibile mostrare, la giustizia sociale che l’umano deve
a se stesso, senza l’esclusione di nessuno, né il privilegio
elettivo di alcuni,23 si codifica sulle armoniche della devozione al Sacro Cuore, allora questa leale adesione al
ministero petrino diventa oggi anche una sana provocazione a rinvenire il nesso smarrito fra tratto devozionale e
impegno sociale nella vita e opera di Dehon: «Il regno del
mio Cuore nella società è il regno della giustizia, della carità, della misericordia, della pietà per i più piccoli, per gli
umili e per quelli che soffrono. Vi domando di dedicarvi a
tutte queste opere, di incoraggiarle, di sostenerle. Favorite
tutte le istituzioni che hanno il compito di contribuire al
regno della giustizia sociale e di impedire l’oppressione dei
deboli per mano dei potenti».24
Ossia, si tratta di pensare la spiritualità legata alla devotio come ragione generante dell’impresa sociale della
fede da parte di Dehon. Dopo un secolo, in cui si è pendolato tra pura spiritualità (la generazione formatasi fino
al dopo-guerra) ed esclusività del sociale (quella che cresce nell’epoca del Vaticano II), l’istruzione completa del
nesso, e il suo originario radicamento nella devozione al
Sacro Cuore, è compito, tutto da svolgere, che si pone
all’oggi della congregazione dehoniana. Si è oramai raggiunta la consapevolezza della necessità di riappropriarsi
di tale vincolo, questo sì fondativo; ma si tentenna ancora
nell’elaborazione dello strumentario adeguato per porvi
mano con decisione.
Lo slittamento verso una genericità pastorale del vissuto dehoniano è, a mio avviso, più l’indice dello stallo
in cui si trova la persuasione della centralità del nesso fra
devozione al Sacro Cuore e giustizia sociale, che quello di
un generoso servizio alla Chiesa di tutti. La leale adesione
allo stile dell’affezione, che Francesco è tornato a inserire
prepotentemente nella Chiesa come discrimine della cura
della fede dei discepoli e dell’umano qualunque da parte
del ministero di Pietro, restituendoci con limpida generosità la pagina evangelica che la istruisce, si propone oggi ai
dehoniani come sponda provvidenziale per riconsegnare
il tema della giustizia sociale al suo legame originante con
la sfera della devozione al Sacro Cuore – un’occasione da
non perdere, perché in tutta la sua contingenza rimette
in campo quest’ultima come un dovere verso cui la con 20 OS II, 9: «Sant’Ignazio termina il suo ritiro con un esercizio che
chiama “contemplazione per suscitare l’amore” (contemplatio ad amorem). Egli pensa, dunque, che un buon ritiro debba porre le anime nella
vita d’amore e che esse vi debbano dimorare. In questa serie di meditazioni, ci proponiamo semplicemente di aiutare le anime à vivere di questa vita d’amore. Si tratta di meditazioni ad amorem o, se si preferisce,
di un ritiro ad amorem. Non abbiamo la ridicola pretesa di rimpiazzare
gli Esercizi di sant’Ignazio; vogliamo solamente aiutare qualche anima a
conservare i frutti di questi Esercizi e, al tempo stesso, di moltiplicarli».
gregazione dehoniana dovrebbe sentire una trasparente
affinità elettiva.
Questo non può avvenire, però, senza un distinguo che si
radica nella matrice della sua esperienza spirituale. Sempre
muovendosi nello spazio degli Esercizi Dehon annota, infatti,
che in Ignazio e nei gesuiti vi è un eccesso di strategia: «La
devozione ignaziana ha un che di calcolo, di strategia. Essa
lotta, combatte, sta attenta al nemico, conta le vittorie e le
disfatte».25 Porre l’ordine di agape a principio formante dello
spirituale dehoniano, significa esporsi ai percorsi improbabili
della grazia di Dio nella storia degli uomini. La lieta corrispondenza a questa dispendiosa imponderabilità del desiderio di Dio di essere accanto a ogni uomo e ogni donna,
scompagina ogni pianificazione ben regolata del modo di
stare al mondo di una fede che si plasma sul nesso costitutivo
tra agape e portato immaginario della devozione al Sacro
Cuore: «Dio conoscendo la sua bellezza e bontà infinite si
ama infinitamente. Egli desidera che questa bellezza e bontà
siano conosciute, lodate, amate. Produce le creature, che l’ameranno e avranno come scopo di amarlo».26
La decostruzione devozionale
dell’impianto neoscolastico
Ne consegue che lo stile dehoniano è chiamato a sviluppare la plasticità di un’intelligenza storica che gli consenta
di intuire e intercettare le improvvisazioni della grazia
divina – che non si piega ad alcuna strategia strutturale
dello spirito e delle sue opere, senza disdegnare però che i
figli della luce attingano un po’ di quell’astuzia mondana
onorata dalla parola stessa del Figlio. Gli espedienti della
grazia (les industries de ma grâce)27 non chiedono sprovveduti che si abbandonano alla fatalità dei giorni, quanto
piuttosto l’atteggiamento di una vigilanza liberale che sa
dismettere ogni pianificazione strategica non appena essi
balenino nelle trame della vita del mondo.
In Dehon questa vigilanza, istruita intorno all’immaginario del Sacro Cuore, si attesta sorprendentemente
nel modo in cui egli fa funzionare la devozione rispetto al
codice, pressoché univoco allora, della neoscolastica. Mi
spiego. La devozione funziona come grimaldello per scardinare l’impianto ontologico della teologia di scuola e l’asservimento a esso della rivelazione cristologica di Dio, da
un lato; e, dall’altro, per affermare l’effettività cristiana di
Dio come principio organizzatore del doveroso compito
della ragione di pensarla in tutta la sua portata affettiva.
In pratica, Dehon fa funzionare la devozione al Sacro
Cuore come elemento di decostruzione della neoscolastica
e come referente realistico di un pensiero stilistico del Dio
di Gesù.
21 OS I, 36.
22 Cf. M. Neri, «A qualcuno piace devoto. Il Sacro Cuore principio (non negoziabile) della giustizia sociale. Francesco critico del
mondo», in Il Foglio 9.4.2014, III.
23 Cf. OS I, 45-46.
24 Ivi, 233.
25 Ivi, 525.
26 Ivi, 36.
27 Ivi, 132.
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In poche pagine, e con la circospezione chiesta
dall’impresa, Dehon mette in gioco una serie di asserti
che giungeranno alla meritata ricezione teologica solo un
secolo dopo; e lo fa andando a cercare nel serbatoio della
tradizione teologica quegli appigli minimi che possano
dare legittimità all’ardore del tentativo intrapreso. Pur
non addentrandosi nella questione, e forse senza essere
consapevole fino in fondo delle implicazioni teologiche richieste da questo primo movimento di ricalibrazione del
pensiero cristiano di Dio, Dehon si muove in direzione
di una visione unitaria dell’ordine della creazione e della
rivelazione; costruendone il nesso intorno alla figura della
«comunicazione di sé» da parte di Dio28 in esse.
Non solo si tratta del medesimo Dio, ma, raccogliendo
la suggestione della teologia francescana medioevale, la rivelazione cristologica non è un accidente che si aggiunge,
per causa esterna alla volontà di Dio, all’ordinamento creaturale del mondo; ma ne rappresenta, fin dal principio, la
sua stessa ragion d’essere.29 In questo senso, la razionalità
della fede non può più prodursi in uno spazio separato
rispetto alla qualità fenomenologica della manifestazione
definitiva di Dio nella vicenda storica del corpo del suo
logos figliale. Si rende così impraticabile uno scorporo del
pensiero dell’essere di Dio dall’evidenza fenomenologica
della qualità della sua manifestazione.
Il profilo etico
di una ragione allargata
Così facendo, Dehon muove una critica acuta nei confronti dell’auto-sufficienza dell’essere indistinto di Dio e,
conseguentemente, del pensiero della sua irrelazione allo
spessore della manifestazione. Lo snodo decisivo o, se vogliamo, il differenziale cristiano di Dio, sta esattamente
nella percettibilità della qualità dell’essere di Dio stesso:
«Dio ci comunica, nella misura del possibile, la più incomunicabile delle sue perfezioni, la sua qualità di essere e
di avere attraverso se stesso tutto ciò che è e che ha».30
Quella che Dehon mette così in gioco è una decisiva modalizzazione del divino,31 come condizione vincolante della dignità imprescindibile cui l’essere non può
sottrarsi nel suscitare un pensiero che viva del desiderio
di onorarlo: il modo di essere di Dio decide della qualità
dell’essere a cui la ragione non solo può accedere, ma
davanti alla quale si deve anche decidere. Ma la ricostruzione di questo profilo etico della ragione si rende possibile solo sulla base di un recupero dell’impegno morale
con cui l’essere si offre quale tema della ragione stessa:
«Perdendo l’uomo sento di aver perso tutto: non reputo
aliquid me habere, perché mi deliziavo di essere con gli
uomini – ed ecco che li ho perduti. Ecco che questi sventurati sono condannati a vivere lontano da me per sempre! Ma Dio come può dire che gli uomini fanno la sua
delizia? Veramente, dice San Tommaso d’Aquino, Dio
ama l’uomo come se l’uomo fosse il suo Dio e come se
non potesse essere felice senza l’uomo! Quasi homo Dei
deus esset et sine beatus esse non posset (Opus. 63, VII).
San Dionigi aggiunge che per l’amore che ha per gli uomini, Dio sembra essere fuori di se stesso. Audemus dicere
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quod Deus prae magnitudine amoris extra se sit (De Div.
Nom. IV)».32
Quando Dehon si ribella davanti alla generica indistinzione dell’essere di Dio, per affermare la doverosa evidenza della sua qualità, apre le porte a un riscatto della
ragione dalla sua estenuazione in un puro esercizio strumentale; insomma, la riconsegna alla dignità di essere lo
spazio di una decisione del soggetto all’altezza del tema
della verità. Ma, al tempo stesso, le richiede un allargamento a cui essa non era più abituata – dentro e fuori la
fede. Allargamento che si gioca lungo l’asse del nesso che
intesse fra modo e qualità dell’essere di Dio; che si può realizzare solo grazie alla forza della devozione (e non certo
in virtù di una comprensione teologica della ragione tutta
schiacciata sul parametro moderno che ne aveva guadagnato l’universalità normativa staccandola dalla pratica
della vita, da un lato, e alleggerendola da ogni implicazione morale della sua attuazione, dall’altro).
Il corpo del logos cristiano di Dio viene, infatti, colto
nella sua valenza fenomenologica quale sensibilità di
agape che chiama in causa, per l’apprezzamento della verità, tutti i codici propri ai sensi dell’umano33 – invitando
così a pensare l’anello di congiunzione fra intellezione e
percezione che il moderno si era impegnato di elidere
dallo spazio della ragione. La sensibilità corporea di agape
è la qualità dell’essere di Dio, che vive dell’originaria congiunzione fra ordine della creazione e ordine della rivelazione; così che solo l’allargamento sensibile della ragione
può aprire all’effettività dell’ingiunzione che accende la
ragione alla percezione della verità – ossia che la rende
degna di sé: «Avendo preso la sensibilità umana, possiamo
presumere come egli sia stato impressionato a nostro soggetto. Ogni essere umano è così commosso e turbato dal
pericolo che corrono i suoi amici, che spesso sente un’alterazione nelle fibre e nelle forze del suo corpo. Se questa
è la dedizione di un uomo davanti a un altro uomo, quale
sarà dunque quella del Salvatore Gesù davanti a tutti gli
esseri umani?».34
Quale Dio è degno di essere amato?
La decostruzione devozionale dell’impianto neoscolastico approda a una comprensione della rivelazione cristiana che si muove con decisione nella direzione dello
stile: il nesso fra qualità dell’essere e modo di essere apre
alla domanda che solo la passione della devozione può azzardare di avanzare come dirimente per il cristianesimo,
ossia quale Dio è degno di essere amato?35
Né ogni Dio, né ogni sua modalità, evidentemente.
Eppure, non di meno, la fede deve essere l’esplicitazione
di questa domanda che il pensiero non può non porsi –
una volta avvenuto quell’allargamento della ragione che
la sensibilità di agape richiede per essere apprezzata nella
sua verità (e per consegnare la ragione alla sua propria
intangibile dignità).
Che questa sia la domanda istruita intorno alla pratica
della devozione al Sacro Cuore, così come Dehon la fa
funzionare nell’atmosfera teologica del suo tempo, diventa
chiaro quando consideriamo il fatto che il compito che af-
fida ai suoi religiosi è esattamente quello di cercare l’amabilità di Dio36 nel mondo, così come esso è – ossia segnato
dal peccato e dalla lontananza culturale di quello che può
essere un ordinamento mondano pensato secondo Dio.37
Né la separazione ontologica (peccato), né quella sociopolitica (modernità), diminuiscono la circolazione dell’amabilità di Dio nel mondo dell’umano vivere: essa è (già)
lì, nel mondo in tutta la sua separazione; e la devozione
tiene fermo, a favore di tutto il cristianesimo, esattamente
questo fatto (e questa consapevolezza).
Non si tratta, quindi, di riportare Dio dentro un
mondo che l’ha oramai irrimediabilmente espulso; quanto
piuttosto di mettersi in cerca delle tracce della sua invincibile tenacia a voler essere l’amabile esattamente in questa
condizione del mondo: «L’amabilità divina riporta, dunque, tutte le creature verso Dio (...). La sua misericordia
risplende particolarmente dopo il peccato. Lungi da lui rigettare le sue creature che si sono perdute, egli si comporta
a loro riguardo con la più grande dolcezza».38 Davanti alla
tentazione della fede istituita a pensarsi come surrogato
della presenza di Dio in un ordinamento mondano che
si è definitivamente emancipato da lui, la devozione al
Sacro Cuore ricorda alla fede tanto l’impossibilità quanto
l’inutilità di questa impresa prometeica: l’amabilità di Dio
si gioca esattamente sulla sua decisione di non recedere di
un passo dalla sensibilità di agape, qualunque cosa accada
e qualunque sia l’atteggiamento dell’uomo davanti a essa:
«L’amore che Dio ha per voi non è altro da quello che ha
per se stesso; e sebbene questo amore sia libero nei suoi
effetti esteriori, esso è necessario nel suo principio».39
Al mondo emancipato, in carenza di trascendenza e
che non sa più onorare il divino, il cristianesimo non deve
aggiungere nulla, perché la modalizzazione cristiana di
Dio ha definitivamente posto agape nel cuore dell’uomo,
rendendolo capace di apprezzare tutta la portata di questo
dono irrevocabile.40
Alla stilistica della rivelazione, implicata in questo
modo di farla funzionare, corrisponde un ben preciso stile
della fede, che Dehon si aspetta dai suoi religiosi: quello
di camminare insieme agli uomini in un itinerario di sco-
perta, ciascuno a modo suo, delle molte presenze dell’amabilità di Dio nell’adesso del mondo – nella profonda
persuasione che essa è già lì, in paziente attesa di essere
sentita e apprezzata per quello che è: l’indefettibile sensibilità di agape per l’umano di tutti noi: «L’adozione è un
beneficio così eminente, essa vi avvicina a tal modo a Dio,
che gli angeli ne sarebbero gelosi se lo potessero essere (...).
Per comprendere fino a che punto deve andare questo
amore, è necessario che voi possiate concepire l’eccesso
d’amore che mio Padre ha testimoniato in voi adottandovi
così. È necessario che la mia anima passi nella vostra con
tutto il suo amore figliale».41
Infatti, non c’è congiuntura che possa sfuggire «agli
espedienti della grazia» che Dio mette in campo, ogni
volta di nuovo, per far sentire e gustare la sua amabilità.
Lo stile che Dehon ha in mente per la specificazione della
fede attraverso questo modo di passare per la devozione al
Sacro Cuore è esattamente quello di un affinamento della
sensibilità dello spirito, che sappia individuare e raccogliere questi espedienti della grazia all’interno di un ben
determinato contesto storico della vita umana e delle relazioni mondane.
Nei suoi espedienti, dunque, la grazia non è mai irrelata alle forme della cultura cui essa si destina; e, quindi,
per poterne cogliere le inaspettate divagazioni è necessario
saper sentire la cultura, le sue pluralità, in cui gli uomini
vivono, possederne i codici, conoscerne i linguaggi e padroneggiarli con sapienza e maestria. Nella forma dell’espediente diventa chiaro che il destinatario della grazia
non è una generica natura umana, ma il concreto in cui
ogni essere umano vive e secondo il quale costruisce l’avventura della sua esistenza e il gioco delle relazioni in cui
investe il meglio di sé.
L’inserimento di questo gradiente di realismo storico è
gravido di conseguenze per la configurazione di uno stile
dehoniano, perché implica l’esercizio di un inesauribile
apprendimento culturale della fede. L’apparente semplicità della devozione mostra qui tutta l’esigenza che essa
comporta: quella di considerare la cultura, ogni cultura,
non il terreno di un’applicazione esterna, ma il principio
che la genera verso la riuscita corrispondenza al suo apparire come espressione di un particolare dono della grazia
di Dio alla storia degli uomini.
Colta in quest’ottica, la devozione al Sacro Cuore
non è un prodotto finito che deve essere semplicemente
28 Cf. CH, 20-23.
29 Ivi, 27-28: «È un segreto che Dio ha riservato a sé di sapere se
ci avrebbe donato suo Figlio nell’incarnazione anche se l’uomo avesse
continuato a perseverare nella giustizia in cui è stato creato. La scuola
serafica, sulla scorta del beato Duns Scoto, lo sostiene affermativamente,
e noi siamo inclinati ad ammetterlo (...). Possiamo dunque pensare che
Dio avesse, anche al di fuori delle esigenze della Redenzione, il disegno
di donarci suo Figlio come nostro re, nostro fratello e nostro amico».
30 Ivi, 21.
31 OS I, 56: «Ma l’amore ispira a Dio un’altra condotta. Cerca il
prodigo. Lo insegue, lo chiama, lo invita. Nulla viene tralasciato per
tirarlo fuori dall’abisso nel quale lo vede essere caduto (...). Si potrebbe
dire che chiede una grazia; e che la conversione di un peccatore interessa
sommamente la sua beatitudine» (sottolineature mie).
32 CH, 29-30.
33 OS II, 36-37: «Facendomi carne, prendendo una forma sensibile,
visibile e tangibile, ho reso l’amore divino palpabile, percettibile ai sensi
degli uomini» (sottolineatura mia).
34 OS I, 535.
35 Ivi, 49: «Dio è nostro Padre. Non vi è titolo che dia diritto di
essere amato più di questo. È nostro Padre nell’ordine della natura secondo la creazione e la Provvidenza. È nostro Padre a un titolo ancora
più alto, perché ci ha adottati in Gesù Cristo suo unico Figlio. Attraverso l’adozione divina entriamo a nuovo titolo nella famiglia di Dio.
Abbiamo diritto alla sua tenerezza, alle sue attenzioni, alle sue cure.
Dopo le nostre cadute, abbiamo diritto alle sue misericordie».
36 Ivi, 41: «Vi [Dio; nda] abbiamo dato una volontà capace di
amare: senza dubbio per amare ciò che è amabile. Ma nulla è veramente, sovranamente e unicamente amabile, se non noi stessi [Dio;
nda]. Tutto ciò che le creature hanno di amabile viene da noi».
37 Cf. ivi, 40-42.
38 Ivi, 36.
39 Ivi, 35 (sottolineatura mia).
40 Ivi, 35-36: «L’amore divino è un circolo: discende verso le creature e risale con esse verso Dio».
41 Ivi, 51.
Lo stile: un inesauribile
apprendimento culturale della fede
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trasposto da un luogo all’altro del vivere umano, immutabilmente identico a se stesso; ma un immaginario che
chiede di essere continuamente, e contestualmente, inventato ogni volta di nuovo. Ed è qui che appare il lato
luminoso della fondazione di una congregazione in vista
dell’estinzione della devozione del Sacro Cuore di Gesù:
quell’estinzione è anche legata alla presa diretta della storia di Dio con gli uomini che la devozione intende esprimere; e che, per rimanere tale, deve essere re-immaginata
in continuazione – in forme sincronicamente diverse, così
che essa possa felicemente corrispondere alla destinazione
di un grazia che non disdegna affatto gli espedienti del
momento.42
V.
Come devo amare?
È indubbio che, per il lettore di oggi, il linguaggio
di Dehon risulti ostico; a volte quasi disturba l’orecchio,
anche quando esso abbia già un qualche rudimento del
lessico devozionale. Nonostante la sua indubbia cultura,
Dehon non attinge certo dalla letteratura per modulare il
suo stile di scrittura; e anche rispetto a scritti spirituali a lui
coevi essa appare, in non pochi passaggi, quasi infantile.
Insieme a questo, si può rinvenire un tratto prolisso
dello scrivere che rende i suoi testi pesanti. Gli scritti spirituali non sono «opere» in senso artistico e letterario,
quanto piuttosto itinerari di edificazione dello spirito che
cercano in un certo tipo di linguaggio la via per portare
all’espressione un’intuizione spirituale in carenza di lessico
adeguato – tanto per ragioni soggettive, quanto per una
condizione oggettiva della scrittura cattolica tra fine del
XIX e inizio del XX secolo. In questa sede ci interessa di
più il secondo aspetto.
Dal «profetismo» alla «santità»
Dehon nasce in un’epoca in cui la forza estetica dell’esperienza spirituale e mistica non solo ha già raggiunto il
suo apice, ma è oramai in via di esaurimento. La qualità
del nesso fra spirituale e letteratura sembra essere, in un
qualche modo, ancorata nel tratto profetico dell’espressione pubblica dell’esperienza cristiana; e, quindi, all’idea
di una riforma della compagine cattolica e del senso della
sua presenza nella vita del mondo.
Ora, nel corso della modernità si estenua, per molteplici ragioni, il profetismo cattolico con la valenza estetica
della sua scrittura; ed esso viene lentamente ricondotto in
alvei scavati e controllati dall’istituzione ecclesiale. Come
ha mostrato P. Prodi, il profetismo viene trasformato in
santità,43 che sta sotto la sanzione e la gestione centralizzata della Chiesa cattolica. Ritengo che questo passaggio
di carattere istituzionale abbia avuto non poche influenze
sullo spessore estetico del modo di mettere in scrittura particolari esperienze dello spirituale cristiano.
In primo luogo, perché i modelli che Dehon ha a disposizione sono oramai figli ben cresciuti di questa neutralizzazione del profetismo cattolico; e per quanto le espe-
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rienze della fede continuino a essere mosse dalla liberalità
dello Spirito, non di meno esse devono ormai tradursi in
un linguaggio codificato dall’istituzione – che è condizione
necessaria di riconoscimento e apprezzamento. L’effetto
di ingessatura estetica non ne è che la diretta conseguenza.
In secondo luogo, l’effetto di asciugamento estetico
della scrittura spirituale da ogni parvenza profetica dell’esperienza spirituale è, tra il XIX e il XX secolo, un canone inderogabile per ogni esigenza di riforma che voglia
prodursi all’interno della Chiesa cattolica – ogni sospetta
divaricazione viene, infatti, immediatamente espulsa dal
corpo cattolico della fede. È chiaro che se la fraterna adesione di Dehon al ministero di Pietro trova la sua ragione
in una questione di stile, come accennato sopra, allora
anche la sua aderenza a questo codice coevo della scrittura cattolica in materia spirituale deve essere inquadrata
e letta all’interno di essa.
Gli scritti di Dehon sono pedanti perché egli vuole
mantenere la cosa della sua particolare esperienza spirituale dentro il regime cattolico istituito della fede, senza
discostarsi da esso di un solo millimetro. Sembrerebbe che
con Dehon l’estinzione della profezia abbia raggiunto uno
dei suoi esiti più palesi; e, forse, in parte è anche così, perché egli fu espressione della Chiesa e del cattolicesimo del
suo tempo – basti ricordare le sue durezze verso le correnti
del modernismo cattolico, che gli impedirono di cogliere
in esse esigenze dello Spirito che egli stesso coltivava nel
suo cuore. Eppur sempre sembrerebbe, perché c’è qualcosa di sfuggente in questa ossequiosa omologazione della
scrittura di Dehon al lessico istituzionale, che neutralizza
la profezia trasformandola in santità (scindendo tra di loro
i due tratti della riuscita esemplare della fede).
Un congedo
e una paradossale custodia
Abbiamo già visto che la devozione al Sacro Cuore
in Dehon funziona come decostruzione dell’impalcatura
neoscolastica, su cui si fondano i cardini concettuali della
reazione cattolica alla modernità. Non si può pensare
che minando questi gangli vitali il resto dell’edificio, così
minuziosamente costruito, non ne venga in un qualche
modo scosso e destabilizzato. Paradossalmente questo
avviene esattamente perché Dehon addomestica la cosa
devozionale dell’esperienza dello spirito ai codici linguistici
dell’espunzione istituzionale della profezia dalla Chiesa
cattolica; ossia la inocula, con il suo modo di funzionare
eversivo, all’interno della zona più presidiata della fede
cattolica – in maniera così coerente a essa da passare del
tutto inosservata.
Non voglio certo affermare che Dehon ripropone la
profezia come tema della Chiesa, si tratterebbe di un ingenuo asincronismo storico – quella stagione si è oramai
definitivamente conclusa. Quello che Dehon di fatto fa,
ossia quello che si può leggere nei suoi scritti oggi, è ribaltare la dialettica istituzionale propria della profezia – e,
quindi, in tal modo probabilmente la congeda in maniera
ancora più radicale. Ma congedandola così, ne preserva
la possibilità futura.
In cosa consiste, concretamente, questa inversione del
paradigma profetico messa in atto linguisticamente da
Dehon? Egli sposta la questione della «riforma» dall’istituzione all’esperienza della fede; e lo fa con un gesto del
tutto connaturale al cristianesimo, ma assolutamente sorprendente per il cattolicesimo moderno. In una stagione
che aveva ricondotto il vissuto cristiano a essere il dettato
teologico e sociale dell’istituzione ecclesiale, con la sua
grammatica esclusivamente dogmatica, Dehon restituisce,
mediante l’oggetto della devozione, la fede alla rivelazione
di Dio che è Gesù Cristo: «Il Cuore di Gesù simbolizza, al
tempo stesso, l’amore infinito e increato che ha inspirato
al Verbo la sua venuta verso di noi sulla terra, e l’amore
umano e creato che l’ha condotto fino alla croce. Ma, poiché il Verbo di Dio si è incarnato per salvarci e darci l’esempio della santità, il suo Cuore non è soltanto adorabile,
ma anche infinitamente amabile – e noi troviamo in lui un
modello di tutte le virtù (...). Tutti i movimenti di questo
Cuore sono stati legati ai misteri della vita di Cristo; e noi
facciamo spontaneamente appello a questo Cuore come
alla fonte di tutte le grazie, perché il suo amore ha dettato
gli atti della nostra redenzione».44
È chiaro che a questo punto la fede si deve dire in maniera altra dall’articolazione istituzionale che essa riceve;
di qui la questione, centrale in Dehon, di trovare un linguaggio adeguato allo spostamento che la centratura sulla
devozione al Sacro Cuore mette in atto per l’intero della
fede cattolica. Nella sua pesantezza letteraria e aridità
estetica, la scrittura devozionale di Dehon rappresenta
proprio la ricerca di un linguaggio altro da quello dei
codici ecclesiastici in vigore, corrispondente all’effettività
della storia di Dio tra gli uomini che è Gesù. Ricondurre
la parola che dice la differenza cristiana di Dio nello spazio pubblico, ecclesiale e civile, a una relazione reale col
divino, sentita come autorizzazione a declinare la qualità
critica del logos che da esso proviene, rappresenta, in fin
dei conti, uno dei nuclei generatori della stessa profezia
cristiana. È in questo senso che Dehon, pur assecondando
il congedo istituzionale da essa, la rimette in gioco come
possibilità a venire della fede cattolica.
La chiave letteraria, che egli raccoglie dalla tradizione
spirituale, per produrre questo spostamento e riconnessione
è quella dei dialoghi tra l’anima credente e il Salvatore. In
essa Dehon trova il quadro per rendere vivida la relazione
teologale; ma non solo, la ritiene essere espressiva rispetto
alla qualità fondamentale di questa stessa relazione.45 In
questi dialoghi immaginari, Dehon tratteggia la fede esattamente nella forma di un Erlebnis assolutamente realistico;
di cui il «dialogo» ne è la trascrizione letteraria.
Il tratto più originale, in tutta la pesantezza del linguaggio, mi sembra essere quello di voler mettere in
campo, pur non avendo lo strumentario teologico adeguato, una visione della rivelazione cristiana e della relazione teologale come affezione. Le citazioni a riguardo
potrebbero essere innumerevoli; mi limito a richiamarne
una che esplicita in maniera esemplare questa centralità
dell’affectus come discrimine della verità teologale della
rivelazione e della fede cristiana per Dehon: Je t’aime, dice
l’anima al Salvatore; me touche, dice il Salvatore in primo
luogo a se stesso e poi all’anima amante.46 È in questo
spazio dell’affezione che si infrangono tutte le alchimie
della neoscolastica, volte a controllare la fides qua ponendola sotto il governo di un’irraggiungibile fides quae assicurata, e immunizzata, da tutto l’apparato dogmatico
che, di fatto, la separa dall’esperienza del vissuto cristiano
in presa diretta con la vita reale: «Il mio Cuore è il centro
della mia umanità; venire al mio Cuore è il mezzo per
possedermi interamente e, al tempo stesso, per possedere
Dio – perché io sono l’uomo-Dio».47
La riuscita della destinazione di agape tocca il nucleo
stesso della rivelazione di Dio, che proprio qui mostra di
non essere altro che affezione originaria. L’umano che
così esprime agape, ossia la espone all’esteriorità della sua
origine, mostra, come se stesso, l’amore con cui Dio si
ama – riscattandolo dall’assoluto dell’autosufficienza divina dell’essenza. Questo passaggio rappresenta un ulteriore tassello del cammino di modalizzazione cui viene
sottoposto il divino cristiano nel lavorio della devozione,
che ci permette di fare un passo in avanti nella visione
antropologica di Dehon.
Mettendo a tema l’affectus, quale cardine della restituzione della fede alla rivelazione cristologica secondo
l’ordine di agape,48 si apre uno spiraglio per uscire da una
logica della causalità nella configurazione dell’umano secondo il Dio di Gesù. Per Dehon, infatti, gli effetti della
grazia (nell’uomo) sono esattamente la grazia nella sua
primordiale originarietà (in Dio);49 e, quindi, non sono
propriamente effetti, ma il dispiegamento immediato della
grazia delle origini – o dell’origine come grazia. Detta altrimenti, nell’esteriorità dell’espressione agape è semplicemente presso se stessa, senza alcuna distinzione di ordine
causale. In questo senso, l’affectus fidei non è né reazione
né effetto del dono incondizionato di agape; quanto piutto-
42 Ivi, 121: «Figlio mio, la fedeltà perfetta alla grazia, ossia alle
ispirazioni e ai movimenti dello Spirito di Dio, è stato tutto il segreto
della mia santità».
43 Cf. P. Prodi, Profezia vs utopia, Il Mulino, Bologna 2013.
44 OS I, 418.
45 Dehon, infatti, è in cerca di persone che sappiano esprimere riconoscenza e riconoscimento per i doni di Dio: «Esprimete dunque la vostra
riconoscenza e il vostro amore per tanti benefici» (OS I, 116). Seguendo
le intuizioni di Dilthey, si potrebbe dire che la devozione deve funzionare
come un itinerario di educazione alla capacità di oggettivare l’esperienza
interiore dello spirito. Oggettivazione che deve assumere le forme della
cultura in cui essa si realizza, per poter essere veramente un’espressione
dell’Erlebnis devozionale. In questo transito espressivo si potrebbe cercare
di vedere il passaggio dalla devozione, come esperienza soggettiva, alla
pietà come concrezione culturale e storica dello spirituale cristiano.
46 OS I, 162.
47 Ivi, 162.
48 Ivi, 99: «O mio buon Maestro, donatemi il timore salutare del
vostro giudizio. Non desidero altro che di essere legato per tutti i legami
possibili del vostro amore».
49 Ivi, 117: «La grazia non è meno meravigliosa nella sua natura
intima che nel suo principio. Si tratta di una partecipazione della natura
e della vita divina (...). La grazia inerente alla natura umana la eleva,
tutta intera, a una bellezza e una dignità tutte divine».
Dare parola
agli affetti della fede
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sto quella dimora ospitale che fa essere affezione il desiderio
originario di Dio di essere se stesso in altro da sé: «Voglio
vivere, dimorare, abitare in mezzo agli uomini (...)».50
Devozione e riforma
Intorno a questo snodo centrale Dehon annuncia due
temi cui qui faccio solamente cenno, ma che meriterebbero
di essere ulteriormente indagati. Da un lato, egli cerca di circoscrivere il carattere sensibile e sensuale dell’affezione che
tocca Dio nella sua realtà cristologica;51 un tema, questo, che
va decisamente nella direzione di una comprensione dello
spessore fenomenologico della rivelazione cristiana come
«esistenziale antropologico» di Dio (P. Sequeri). Dall’altro,
Dehon rimarca più volte il carattere visibile della mozione
del cuore, affezionato dal dono di agape e toccante l’essere
stesso che essa è; affermando che questo tratto fenomenologico dell’affezione è pertinente a Dio in se stesso – ossia non
può essere considerato semplicemente come una ricaduta
antropologica della reciprocità dinamica dell’affezione teologale.52
Con queste ultime due considerazioni credo sia divenuto
sufficientemente chiaro lo spostamento e la riconnessione
dell’ordine della fede con l’originario divino di agape che
si mostra, definitivamente, nella carne del Figlio e si sente,
irrevocabilmente, nell’affectus divino che è il logos figliale.
Al suo tempo, l’immaginario devozionale del Sacro Cuore
si offriva a Dehon come il portato della tradizione cattolica
più adeguato per mettere in atto la rimessa in gioco della
dimensione affettiva dell’esperienza cristiana quale indice
concreto del differenziale teologico iscritto nella nozione
evangelica di Dio. A lungo andare la ricostruzione di questo nesso originario non poteva rimanere esterno alle forme
dell’attuazione istituzionale della Chiesa stessa.
È in questo senso che penso si possa interpretare la teologia devozionale di Dehon come apertura per una possibilità
a venire della reintroduzione della profezia all’interno dello
stesso corpo istituzionale della fede. Non per nulla il Vaticano II può riscrivere le coordinate ecclesiologiche proprio
in virtù del recupero della prossimità della rivelazione quale
norma originante della fede, sulla quale deve essere misurata ogni affermazione e ogni attuazione della Chiesa stessa
(e non viceversa).
Attraverso la forma della devozione Dehon, quindi,
tiene implicitamente fermo il tema della riforma concentrandolo intorno alla questione della forma fidei e della
qualità antropologica della relazione teologale. Possiamo
così raccogliere un ulteriore tassello che spinge a pensare il
lascito della sua esperienza spirituale secondo i codici teologici dello stile.
Il vero, il buono e il bello
Entrambi questi aspetti, riforma e stile, trovano una
conferma della loro pertinenza se passiamo a prendere in
considerazione la comprensione di Dehon dei tre classici
trascendentali della metafisica scolastica: la verità, il bene,
la bellezza.
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Un primo gesto, sostanzialmente originale, di Dehon è
quello di invertire la posizione degli ultimi due, con il bello
che si pone al centro, quasi come un perno, della terna e il
bene che ne chiude sinteticamente la scansione.53 Per quanto
riguarda la verità, Dehon rimane del tutto fedele alla visione
classica come questione epistemologica della ragione – nulla
di nuovo su questo versante («la verità, ossia tutto quello
che l’intelletto può conoscere»).54 Ma già nella trattazione
della bellezza si può osservare un suo scostamento rispetto
a quella che è la comprensione, comune al suo tempo nella
teologia cattolica, di questa figura: per Dehon il bello è ciò
che spinge l’anima all’ammirazione di Dio, da un lato, e ciò
che legittima questa ammirazione rendendone pienamente
ragione, dall’altro.
Si potrebbe declinare questa intuizione secondo due
linee di sviluppo principali. Quando Dehon parla di «ammirazione» non intende tanto il gesto asettico di una pura
contemplazione, quanto piuttosto la sfera di una relazione
vitale di attrazione dell’animo credente verso Dio: nello spazio estetico del bello, Dio si mostra come attraente, degno
dell’investimento delle migliori forze dell’umana sensibilità.
In questo senso, mi sembra si possa dire che l’estetica rappresenti il campo materiale più proprio alle dinamiche di
reciprocità dell’affezione. Come detto, si tratta di un’intuizione che poi Dehon non sviluppa attraverso riferimenti
concreti al mondo della produzione artistica; ma non di
meno, rimane un perno sul quale egli organizza il profilo
maggiore dell’esperienza spirituale coltivata intorno all’immaginario del Sacro Cuore.
In secondo luogo, la sfera dell’estetico è vista come lo
spazio di legittimazione dell’attrazione che l’anima prova
verso Dio; si potrebbe, dunque, parlare di un ethos della manifestazione (della verità) quale condizione della sua legittimazione a mettere in campo, come ratio della relazione teologale cristiana, l’affezione nella sua reciprocità non causale:
l’affezione deve mostrare l’impegno a cui essa si vincola di
fronte all’umano, perché solo così può legittimarsi presso di
esso e legittimare l’attrazione che suscita nell’animo.55 Quasi
con non curante disinvoltura Dehon sposta il tema della giustificazione cristiana di Dio dal piano logico-formale della
ragione a quello sensibile-materiale dell’estetica degli affetti,
istruendola non come questione gnoseologica ma come la
doverosa eticità che la manifestazione della verità deve saper
mostrare nel suo apparire. Ma la discontinuità maggiore
può essere registrata sul piano del bene.
La domanda inevasa da Kant
Rispetto alla tradizione, non solo teologica, che vede
nella volontà il suo correlato adeguato, Dehon afferma che
quest’ultimo deve essere posto piuttosto nel cuore: il bene è
tutto ciò che il cuore può amare.56 Sebbene il vocabolario
usato possa farlo apparire tale, qui si tratta tutt’altro che di
sentimentalismo romantico.
Nell’introiezione teologica del paradigma moderno
dell’idea di soggetto, abbiamo già preso in esame la critica
di Dehon a una risoluzione dell’umano nel dittico ragionevolontà: ogni azione/gesto dettata unicamente da questa
coppia non può essere che mercantile, in ricerca dell’utile
proprio nel nucleo vitale della relazione teologale. Per scardinare questo utilitarismo razionale e calcolante, Dehon mette
in gioco con decisione il tema dell’ordine degli affetti come
spazio teologico delle eccedenze di agape. In maniera del
tutto conseguente, egli sposta il correlato antropologico del
trascendentale del bene dalla volontà (calcolatrice) al cuore
(amante): sdoganando l’ethos del soggetto dall’interesse mercantile di una volontà tranquillamente appagata nella corrispondenza a un dovere calcolabile; e iscrivendolo, al tempo
stesso, all’interno delle trame del dono come principio di
messa in gioco soggettiva degli affetti più cari che ogni essere
umano coltiva come se ne andasse di se stesso – ossia nell’incalcolabile del dovere di reciprocità reale dell’affectus.
Di fatto, per Dehon, l’amore non deve conoscere misura;
ma non per questo si presenta come anomia del sentimento:
il cuore sa che deve amare, ed è in cerca del modo in cui
«amore» non solo debba essere realizzato, ma anche possa
giungere a destinazione sentito in quanto tale. L’iscrizione
decisa del trascendentale del bene all’interno di un ethos degli
affetti apre le porte alla terza domanda che Kant avrebbe dovuto porre, ma che non riuscì ad elaborare sulla base razionalista del suo impianto morale – domanda che, in Dehon,
diviene il fulcro di un ethos restituito e congiunto con la sensibilità estetica dell’ordine degli affetti: come devo amare?57
La decisione con cui Dehon reitera in continuazione la
descrizione delle pratiche di «amore» mostra esattamente la
dimensione inedita, e la centralità, della sua comprensione
(affettiva) del dovere morale della religione configurata intorno all’immaginario del Sacro Cuore.
Alla domanda sul «come devo amare?» non c’è risposta
né univoca né definitiva, perché si tratta di un’ingiunzione
generatrice di affetti, che presidiano l’orientamento della
volontà – affetti intessuti sulla trama di una reciprocità ancorata nel vissuto reale degli uomini, quello appunto della
destinazione originaria di agape. Che non si tratti di sentimentalismo, diviene chiaro se si prende in considerazione il
fatto che per Dehon le pratiche rappresentano un passaggio
ineludibile di qualsiasi forma possibile di risposta. Egli ne
individua una serie, tra quelle che appartengono alla pietà
del suo tempo, in quanto le ritiene espressive della reciprocità dell’affezione; ma non credo che intendesse vincolare la
congregazione che andava fondando su queste pratiche in
quanto tali rendendole, da ultimo, inamovibili.
Mi sembra invece che quello che voleva trasmettere alle
future generazioni dehoniane fossero le seguenti due per-
suasioni: da un lato, che l’ingiunzione di agape chiede anche
la coltivazione di adeguate pratiche dello spirito, per affinarne la sensibilità a trovare forme di esercizio degli affetti
che facciano sentire e gustare la destinazione agli uomini
dell’amore con cui Dio ama se stesso; d’altro lato, quali che
pur sempre siano queste pratiche, esse devono essere capaci
di un’espressività contestuale dell’ethos cristiano degli affetti
generato dall’apertura, sempre rilanciata, della domanda sul
«come amare».
Queste pratiche si plasmano, dunque, esattamente nel
punto di congiunzione fra la destinazione di agape a una
ben precisa costellazione, culturale e storica, dell’umano e la
reciprocità dell’affezione in cui essa si mostra nella sua originarietà teologale. Detta altrimenti, le pratiche dello spirito
che Dehon ha in mente sono esattamente quelle che sono
in grado di intercettare gli espedienti della grazia nel mondo
«separato» da Dio: perché è proprio in tale contesto che si
fa sentire tutto il peso dell’ingiunzione di agape in cerca di
espressività proprio per questo tempo e condizione umana.58
50 OS II, 46.
51 CH, 39-40: «Questo cuore è di carne, ma è vivente; l’amore
umano lo fa battere e lo riempie grazie alla sua unione ipostatica con il
Verbo di Dio. È in questo cuore che si sono incontrate la misericordia
e la verità; che la giustizia e la pace si sono abbracciate (...). Il Verbo ha
preso un cuore umano per farne come il luogo, il santuario, dell’amore
reciproco di Dio e degli uomini».
52 OS I, 59: «Dio non separa mai la nostra salvezza dalla sua gloria.
Questi due oggetti sono, al tempo stesso, l’oggetto della sua sollecitudine
e lo scopo delle sue opere – sia nell’ordine naturale, sia in quello soprannaturale».
53 Cf. ivi, 34.
54 Ivi, 34.
55 CH, 61-62: «Ascoltiamo gli appelli di questo bimbo divino alla
confiance: Ego flos campi et lilium convallium (Cant. II, 2) – Io sono,
dice, il fiore dei campi e il giglio delle valli. Si chiama il fiore dei campi
perché è accessibile a tutti (...). I fiori di campo sono esposti allo sguardo
di tutti. È così che Gesù vuole essere a nostra disposizione (...). Anche
la grotta è completamente aperta, senza guardie e senza porte, in modo
che ciascuno possa entrarvi a suo piacere in ogni momento».
56 OS I, 34: «(...) la bonté, c’est-à-dire tout ce que le coeur peut aimer (...)».
57 Cf. OS II, 21-24.
58 Ivi, 28: «Ecco colui che avendoti amato dall’eternità e volendo
amarti ancora per l’eternità ti comanda di amare nello spazio corto di
questa vita (...). Considera ancora come questo precetto sia vantaggioso
e urgente. Questo amore eleva e nobilita la tua anima. Il tuo cuore
si perfeziona esercitandosi su questo grande oggetto nel quale scopre
incessantemente delle bellezze affascinanti» (sottolineatura mia).
59 Ivi, 18: «L’amore non ha che un metodo, quello di seguire l’impulso della grazia che ci porta ad amare. Non ha che una pratica, che
è quella di amare in ogni tempo, in ogni luogo, in qualsiasi situazione
(...). Servire Dio per amore è la via più dolce. Essa vi prende per il cuore
e il vostro cuore è fatto per amare. Essa conduce dolcemente, ma in
maniera estremamente efficacie, la vostra volontà verso ciò che Dio
desidera. L’amore ispira la gioia, che è il secondo frutto dello Spirito
Santo – essendo il primo la carità».
Oltre l’aporia: l’amore puro
come ingiunzione formale
Porre in relazione Dehon con la domanda inevasa da
Kant, ci permette anche di inquadrare un tema ricorrente
dei suoi scritti spirituali che, altrimenti, rischia di risultare
praticamente ingestibile; penso qui specificamente alla nozione di «amore puro».
Non è facile capire cosa intenda egli esattamente con
questa affermazione; sappiamo però bene che cosa esso non
deve essere: quell’amor proprio, giocato tutto sulla strettoia
di ragione e volontà, che calcola la misura necessaria e sufficiente per la salvezza. E, quindi, sappiamo che esso deve
porsi sul piano della sensibilità dell’ordine degli affetti.59 Se
tutto questo può avere una sua plausibilità, rimane il fatto
che il lessico utilizzato da Dehon è, al tempo stesso, estremamente ambivalente e del tutto consono alla terminologia dell’edificazione spirituale del suo tempo. Esemplare, in
merito, è il suo richiamo al fatto che tale amore deve essere
disinteressato; ma può «amore» non avere interesse alcuno?
Nella sua destinazione agape è massimamente interessata, perché solo un simile coinvolgimento può rendere ragione della messa in campo dell’affetto più caro a Dio, che è
il suo logos figliale: appunto, interessato al felice compimento
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GILBERTO BORGHI
della sua destinazione a favore degli uomini, che è il modo
in cui Dio liberamente decide di amare se stesso. L’amore
disinteressato rischia di essere vuoto di passioni e privo di
implicazione etica – perché, da ultimo, non è di me che ne
va nella sua impresa.
Se ci fermiamo, dunque, alla terminologia usata da
Dehon intorno alla nozione di amore puro, rischiamo di
rimanere inviluppati in un’aporia invincibile. D’altro canto,
egli stesso, dopo aver formulato il disinteresse dell’amore
puro, si impegna in una continua ricerca dei modi di questo
amore, come se la nozione non fosse, in fin dei conti, sufficiente neppure a se stessa. Già questo semplice fatto dovrebbe metterci sull’avvisaglia che il termine «amore puro»
rappresenta più un’iperbole del discorso, che un dato reale
dell’ordine cristiano degli affetti.
Ed è proprio qui che il confronto con Kant può offrirci
una chiave di interpretazione adeguata di questa nozione:
l’amore puro occupa, nell’ethos degli affetti di Dehon, una
posizione analoga all’imperativo categorico nel sistema
morale kantiano – ossia quella di un principio regolatore,
una massima formale, che non è in sé reale, ma governa
il modo dell’agire etico senza predeterminare quale forma
dell’azione, in una determinata situazione concreta, risulterà
essere effettivamente morale.
La categoria dell’amore puro non dice quindi il come
dell’amore praticato, ma è l’ingiunzione formale che lo regola consegnandolo alla sua reale autonomia. Solo se viene
fatto funzionare in tal modo, l’amore puro può sostenere
la domanda radicale sul «come si deve amare», senza anticiparne la risposta nel concreto della situazione in cui si
investe il tratto più alto dell’ordine degli affetti. D’altro lato,
il carattere ingiuntivo, che così esso riesce a mantenere, funziona da doveroso stimolo a non assestarsi mai su una forma
riuscita dell’amare concretamente. Inoltre, l’ingiunzione che
esso rappresenta rimanda l’attuazione estetica della volontà
sensibile a un’istanza che le rimane indisponibile, senza però
essere costretta a un esercizio eteronomo di sé. Non lo fa
proprio perché, in quanto ingiunzione formale, essa non
dice nulla sul modo della sua concreta realizzazione; che
trova la sua verità solo nella riuscita della reciprocità cui si
destina l’investimento affettivo di amore.
È questo, probabilmente, il punto dell’immaginario devozionale di Dehon che muove con più decisione verso una
dimensione stilistica della spiritualità che egli ha cercato di
traghettare dalla stagione del suo culmine verso quella della
sua estinzione.
Credere
con il corpo
I giovani e la fede
nell’epoca della realtà virtuale
PREFAZIONE DI GIUSEPPE SAVAGNONE
I
l racconto live di tre anni di «ora di religione»
nella scuola superiore trasmette il grido dei
giovani – sotterraneo, duro e angosciato – rivolto
agli insegnanti, agli educatori e alla Chiesa: ritrovare
il valore del corpo per la fede, questione decisiva
del cristianesimo nell’epoca della realtà virtuale.
L’autore, insegnante di religione cattolica e pedagogista clinico, pubblica settimanalmente un post
a tema sul blog collettivo www.vinonuovo.it, dove
cura la rubrica «Secondo banco».
pp. 168
VI.
€ 13,00
D ELLO
Un Dio inutile. I giovani e la fede
nei post di un blog collettivo
STESSO AUTORE
Tre temi per un’antropologia
Abbiamo, fino a qui, raccolto tutta una serie di indizi
del dispositivo stilistico che, di fatto, sembra essere all’opera negli scritti spirituali di Dehon; si tratta ora di esplicitarne la plausibilità per una loro ripresa esistenziale nel
contemporaneo.
pp. 192 - € 14,00
www.dehoniane.it
Verso uno stile dehoniano,
tra confiance e dono
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In effetti, Dehon fa funzionare lo spirituale come plasticità della fede, al fine di non lasciarla risucchiare completamente in una pura corrispondenza formale ai suoi
asserti dogmatici. Quello che gli interessa principalmente
della rivelazione cristiana di Dio, sono le disposizioni e gli
atteggiamenti pratici del cuore del logos figliale.60 L’intelligenza della fede viene, quindi, ricollocata sul piano di una
sensibilità quasi «fisica» per i sentimenti e i gesti di Cristo,
che realizza la presenza di Dio tra gli uomini come postura gestuale di un corpo all’interno dell’umana socialità.
L’uomo dehoniano, di conseguenza, viene compreso
come uno stile del vivere che sa mostrare e mettere in
esercizio le affezioni, la gestualità, e gli atteggiamenti che
sono del logos che è Dio: «Essere perduti nell’abisso del
Cuore di Gesù vuol dire appropriarsi i sentimenti, le affezioni di questo Cuore adorabile; è vivere della sua vita
divina (...). Sarà necessaria anche una grande fedeltà alla
grazia e alle sue ispirazioni, lasciando Gesù fare in voi
tutto quello che vuole, senza resistere, senza tralasciare
l’impulso del suo Spirito in voi».61
Si dischiude qui la possibilità di un’ampia apertura al
molteplice delle culture umane, perché la verità di questo
dispositivo stilistico, incentrato sulla devozione al Sacro
Cuore, si trova esattamente nell’apprezzamento che
lo consegna alla riuscita del suo desiderio di far sentire
che proprio così è del Dio di Gesù. Detta in altre parole,
l’antropologia che scorre negli scritti spirituali di Dehon
mira a realizzare un’affinità affettiva e di affezione tra il
concreto della fede e il corpo sensibile del logos figliale di
Dio. Un Dio che vive, fin dal principio, del desiderio di
essere ospitato nell’anima dell’uomo, che ne rappresenta,
secondo Dehon, il suo vero e proprio domicilio naturale.62
Viene così riaffermato il principio dell’affezione quale
perno del differenziale cristiano di Dio; che include anche
la traccia per un ripensamento della cristologia stessa.
Il logos figliale, avendo preso come propria la sensibilità
umana, è come se sia stato a sua volta «impressionato»
dalla nostra soggettività e dalle vicende del suo esistere:
quello del logos corporeo di Dio è un «sé» che si altera
davanti a quanto accade e a quello che sente la differenza
dell’essere umano.
L’antropologia di Dehon è, sostanzialmente, portatrice
di una domanda stilistica fondamentale: come custodire,
nell’oggi della storia degli uomini, il dono di agape in noi?
Come mostrare il fatto che l’amore, con cui Dio ama se
stesso, è realmente nell’esteriorità dell’umana vicenda del
vivere? È chiaro che la giusta corrispondenza a questa domanda è sempre, e solo, una pratica effettiva dell’esistenza
credente, e non un sapere intellettuale che si lascia risolvere in un asserto dogmatico irrevocabile.
Tutto questo rimanda a una ben precisa stilistica della
fede, che potrebbe essere vista come lo specifico dehoniano dentro il comune del credere cristiano. Mi limito
Fate tutto con confiance
Scelgo di non tradurre il termine francese «confiance»
perché nell’uso che Dehon ne fa viene inteso molto più di
quanto la parola italiana «confidenza» non riesca a esprimere.63
È interessante notare che, da un lato, Dehon utilizza la
confiance in chiave strettamente teologico-spirituale: essa
rappresenta, infatti, l’atteggiamento specifico che deve
caratterizzare la relazione teologale all’interno della sua
congregazione: il comune della fede cattolica si colora, da
ultimo, proprio con il tocco, il colore, l’atmosfera, della
confiance – è questo che fa la differenza dell’esperienza
spirituale dehoniana. Insomma, siate cristiani come tutti
ma, alla fine, fate tutto con confiance; tratto che, evidentemente, Dehon non vede presente nel comune della fede
del suo tempo: «Fate conto sulle tentazioni, sono la prova
dell’amore. È così che vedo quanto e come mi amate,
quanto e come fate degli sforzi per conservare la mia grazia
e l’unione con me. Ma con confiance. Appoggiatevi su di
me, io ho vinto il mondo e il demonio».64
D’altro lato, però, quando Dehon cerca di descrivere
che cosa sia la confiance ricorre prevalentemente a immagini di carattere antropologico;65 in particolare alla
relazione fiduciale padre-figlio.66 Se la visione che egli ha
di tale relazione s’inscrive sicuramente all’interno della
cultura ambiente a lui coeva e, probabilmente, nell’esperienza personale di Dehon, lo sfondo antropologico
fondamentale rimane un indice sul quale si può lavorare
anche a distanza di un secolo e per riferimento a contesti
culturali diversi da quello della borghesia europea. Direi
che la confiance rappresenta quella disposizione originaria di una reciprocità affidabile, sentita e vissuta, che
permette letteralmente di essere e stare al mondo; percependolo come una sfera dalla quale sorgono le cose, le
persone e le relazioni, verso le quali si possono investire
gli slanci migliori dell’affetto sapendo che, in un qualche
modo, essi saranno accolti e custoditi a dovere.
La confiance, insomma, accende il carattere promettente della vita umana, lo tiene in essere anche nei passaggi
in cui essa si oscura e si fa greve, perché funziona come
conferma, apprezzata e percepita, della promessa e bene-
60 OS I, 475: «Ma soprattutto si dovrà applicarsi a comprendere i
sentimenti del Cuore di Gesù, a penetrare nelle sue disposizioni».
61 Ivi, 474.
62 Cf. ivi, 222.
63 Paradossalmente, in questo caso, il tedesco riesce ad approssimarsi all’esperienza della confiance molto più di quanto non riescano
a fare le lingue romanze: con il termine Geborgenheit e l’atmosfera af-
fettiva, di radicamento antropologico, che essa porta con sé. La Geborgenheit genera un modo di stare al mondo, ossia permette di sentirne
l’affidabilità e il credito che gli si può concedere quando ci si sente affettivamente custoditi all’interno di esso.
64 OS I, 193.
65 Cf. CH, 63.
66 Cf. OS I, 522.
qui a indicare due temi maggiori, intorno ai quali si potrebbe articolare l’idea di uno stile dehoniano: il primo
è formulato in maniera esplicita da Dehon stesso, ed è
quello della confiance; il secondo è una riconfigurazione
di un concetto classico della devozione al Sacro Cuore,
l’oblazione, che gioca un ruolo centrale nell’esperienza
spirituale di Dehon, e che declinerei come la questione del
dono quale figura che dà forma alla soggettività credente
secondo Dehon.
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volenza iscritta nella generazione al mondo. Fare tutto con
confiance significa confessare l’esperienza realmente vissuta
della bontà della generazione, che nessun organicismo
biologico potrà mai produrre geneticamente perché rappresenta la felice riuscita della reciprocità dell’ordine degli
affetti: «La confiance crescendo prende un carattere di generosità e d’affezione. Maddalena non resiste al sentimento,
già così forte, che la spinge a gettarsi ai miei piedi (...). Ella
sta ai miei piedi con grande fede nel mio potere divino e
una confiance intatta nella mia bontà (...). Nulla ferma la
sua confiance (...)».67
Confiance e affidabilità
della generazione
Si tratta, dunque, di uno spazio dell’affezione nel quale
il dovere, ossia il carattere ingiuntivo di amore, appare e si
fa sentire letteralmente come il bene per noi; ciò che fa essere la generazione una promessa mantenuta. Ma, al tempo
stesso, la confiance è anche un diritto fondamentale a cui
si accede attraverso la generazione stessa: se quest’ultima
mancasse di dare segno del mantenimento della parola data
che porta con sé, allora finirebbe inesorabilmente col mancare se stessa fin dal primo gesto del suo essere.
L’ingiunzione di agape è, quindi, possibile solo sulla
base di una confiance sentita come più forte di ogni distretta
dell’umano vivere; a meno di questo, il carattere doveroso
dell’amore appare, giustamente, come lo scherzo di uno
spirito cinico che si fa beffa degli slanci più sinceri del desiderio e degli affetti.
Possiamo trovare un’immagine letteraria di questo nesso
fra generazione e confiance nel romanzo di C. McCarthy
La strada.68 Per non si sa quale ragione, il mondo è ridotto a
una sorta di stato finale, in cui aleggiano solo l’ombra della
distruzione avvenuta e della morte incombente a ogni passo
che fanno i due protagonisti – un padre e il figlio. La catastrofe ha svuotato ogni promessa dalla terra, che appare in
tutta la sua nuda e primordiale violenza. L’inganno della
generazione, oramai deprivata di ogni possibile mantenimento del suo carattere promettente, è drammaticamente,
e pudicamente, impersonato dalla scelta della madre, semplicemente evocata come fatto oramai passato, di togliersi
la vita confessando al marito che la morte appare ora il più
dolce e affidabile degli amanti. Le relazioni umane sono
ridotte allo stato di una sopravvivenza larvale, in una lotta
oscura per il guadagno, senza scopo, di una semplice giornata ulteriore: la generazione diventa mera carne da macello, per soddisfare il bisogno primario di chi è in cerca di
un cibo che non c’è più.
È lungo questa strada del mondo che si svolge la vicenda
del padre e del figlio, in un esodo rovesciato verso il mare,
vana speranza di uno spazio che abbia mantenuto un qualche carattere di vivibilità a venire; una «storia» che il padre
racconta a se stesso e al figlio per trovare la ragione di andare avanti. Nella cura, tra l’animale e l’affettuoso, tra la
menzogna e la finzione che tiene in vita, del padre verso il
figlio si tesse la trama di una rigorosa e impietosa educazione
alla diffidenza più radicale di qualsiasi dubbio cartesiano;
l’unico vincolo fiduciale che, incrollabile, resiste a questa
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prova della catastrofe, che è il mondo uscito dalle nostre
mani, è quello che unisce padre e figlio nel loro cammino
animale di sopravvivenza violenta. Vincolo fiduciale che
cerca di introiettare nel figlio il virus dell’assoluta inaffidabilità di ogni essere umano che la strada fa e farà incontrare.
Nonostante tutto l’itinerario educativo, il ragazzo sembra avere difficoltà a compiere quest’ultima, radicale, trasmutazione genetica dell’affidamento a nulla e nessuno. La
fine aperta del romanzo, nel senso che viene lasciato al lettore immaginarsi cosa possa succedere dopo, si chiude con
il radicale fallimento del tentativo del padre di annichilire
nel figlio ogni credito verso l’affidabilità dell’umano che gli
si presenterà di fronte dopo la sua morte – cosa che, ai suoi
occhi, non poteva significare altro che diventare materia
grezza di nutrimento per la disperazione dei restanti. Ma,
appunto, non sappiamo se proprio questo sia il destino ultimo del figlio. In un gesto, tanto azzardato quanto naturale, egli si affida alla coppia che trova immediatamente
dopo la morte del padre. Tutta la sua decostruzione, ampiamente provata dalla condizione che sperimentano quotidianamente, si rivela assolutamente vana – in ogni caso,
non è così che si può garantire la vita anche nella distruzione più totale. Quello che rimane alla fine, sospeso sul
baratro della chiusura del libro, è la trasparenza più nitida
della confiance: il ragazzo dà credito, non tanto per ragioni
fisiche di sopravvivenza, ma perché sente che così deve essere della vita.
Il vincolo fiduciale padre-figlio, assolutamente necessario per la distruzione di ogni fidabilità del mondo e dei
resti dell’umano che lo abitano, si realizza, contro ogni sua
intenzione, nella più trasparente forma della generazione,
esattamente come confiance dello stare al mondo nonostante tutto dica la ragionevolezza del contrario – ma appunto, solo così si può essere umanamente al mondo.
Sull’immagine di questa imperdonabile (per il padre)
riuscita della generazione si chiude il libro di McCarthy;
del destino del ragazzo e dell’esito della confiance non sappiamo nulla, se non che essa accende un credito senza
ritorno più forte dell’eredità paterna della diffidenza sistemica. Se mai qualcosa di degnamente umano rimarrà in
questa de-generazione ultima della terra, sappiamo però
che sarà dovuto al fare del ragazzo con quella confiance
che il padre aveva cercato di estirpare, con ogni umana
rimanente saggezza, dal cuore del figlio. Ma appunto, il
tentativo del padre era destinato a fallire fin dal principio,
perché l’edificazione della confiance, che è la generazione
nella sua riuscita, era il presupposto necessario di ogni
educazione alla più drastica sfiducia possibile – la forza
invisibile che l’accompagnava per via. Nel venire meno
del padre, quello che rimane da ultimo è esattamente il
diventare gesto, atto, posizione di vita, di questa forza fiduciale della generazione.
Ambivalenza e opacità
di un gesto fondamentale
Quando Dehon immagina, per i suoi, la confiance
sulla sfondo antropologico del legame padre-figlio ha
in mente qualcosa di molto simile a quanto si può co-
gliere nelle pagine di questo romanzo di McCarthy. Da
ultimo, la confiance è per lui quello spazio «creditizio»
in cui il legame assume una forma non mercantile e si
sottrae a ogni interesse speculativo – mettendo in circolo
la forza interessata, ma non commensurabile in senso
lucrativo, della reciprocità fiduciale intessuta dall’ordine
degli affetti.
Si annuncia proprio qui il secondo tema antropologico che vorrei brevemente sviluppare, quello del
dono.69 Negli ultimi decenni filosofia e teologia hanno
scritto molto su questo tema, e possiamo delineare tre
posizioni di fondo: mostrare che, da ultimo, un dono
propriamente detto è impossibile nell’economia reale
della vita (Derrida); neutralizzarne l’ambivalenza in
virtù di una donazione radicale che rimane inattingibile rispetto a ogni materialità del dono stesso (Marion);
scompaginare entrambe queste posizioni, per intravedere nel dono quella forma del legame sociale che permette una circolazione degli affetti nel tessuto dell’umana convivenza (Sequeri).
Se vogliamo accostare il dono al tema dell’oblazione,
ossia pensare il primo come la coerente figura antropologica che la seconda implica necessariamente, allora è
bene raccogliere qualche elemento dai tortuosi sentieri
percorsi da Derrida (senza con questo dover necessariamente assumerne l’impossibilità a cui egli approda – seguendo su questo aspetto, invece, le suggestioni proposte
da Sequeri). Ma perché questa iniziale attenzione verso
gli esiti decostruttivi del pensiero sul dono?
Direi perché esso ci può fornire una sorta di antidoto (necessario) contro una visione ingenua e sprovveduta rispetto alla complessità antropologica e all’intrico sociologico del dono come gesto fondamentale
dell’umano. Si tratta di quella tendenza, che striscia in
larghe parti del discorso cattolico (soprattutto quello a
carattere edificante e spirituale), a considerare il dono
come qualcosa di auto-evidente, che produce comunque forme buone della vita senza alcuna ombra di dubbio; dove l’unico problema sarebbe se quello messo in
atto sia effettivamente un dono, o non piuttosto altra
cosa che così si vorrebbe mascherare. Ma già il fatto
che il dono si presti così facilmente a operazioni della
sua contraffazione dovrebbe metterci in allerta sulla sua
vischiosità.
Se poi consideriamo il fatto che vi è tutto un lessico spirituale nell’opera di Dehon, quando tocca il tema dell’oblazione, che sembra muoversi proprio in quest’ottica di
trasparenza del dono in sé che può essere offuscata solo
dalla cattiva intenzione dell’uomo, cui consegue una certa
propensione a immunizzare il dono dalla sua pastosità
antropologica, allora il passaggio attraverso il gesto della
decostruzione, che ci rende avveduti dello statuto paradossale del dono, potrebbe risultare, alla fin fine, salutare
per una sua più avveduta riappropriazione nell’orizzonte
della ricerca di una stilistica dehoniana del vivere.
Ciò che è quantomeno necessario, sarebbe raggiungere una sana consapevolezza dell’ambivalenza e opacità
che il dono porta con sé; non per dichiararlo del tutto
impossibile, come fa Derrida, ma per liberarci dalle scorie
di un certo linguaggio della devozione cattolica che, per
salvare la purezza del dono, finisce per mancare le potenzialità antropologiche che esso potrebbe dischiudere
a una più attenta e critica visione teologica (esattamente
quello che cerca di fare Sequeri).
69 Cf. S. Zanardo, Nelle trame del dono. Forme di vita e legami
sociali, EDB, Bologna 2013.
Ivi, 147-148.
C. McCarthy, La strada, Einaudi, Torino 2007.
67
68
Il dono:
umanesimo dello spazio sociale
È chiaro, a questo punto, che il dono non ci interessa
qui perché esso rappresenterebbe uno dei momenti di
massima purezza e traslucidità dell’intenzione umana;
ma, al contrario, esattamente a motivo del suo essere
intricato, non lineare, ambivalente – invischiato come è
in commistioni che a prima vista sembrerebbero pregiudicarne la sua stessa sussistenza; ma che in realtà sono
proprio la ragione della sua forza e della sua riuscita.
Insomma, il dono non è mai né puro né disinteressato – ed è proprio per questo che esso rappresenta
un nodo antropologico decisivo; né può essere pensato
al di fuori di qualsiasi dinamica dello scambio e della
circolazione che istruiscono vincoli di reciprocità come
sua destinazione ultima (punto di contatto fra il soggettivo e il sociale, di cui siamo oggi in palese deficit).
In quanto figura strutturante il «sé» umano, il dono
rimane invischiato nelle sue vicende, nel peso della
finitudine che ciascuno deve portare, nel desiderio di
una felice riuscita dei giorni cui tutti aspiriamo. Pensarlo come altro da questo investimento del «sé», vuol
dire mancare il suo funzionamento come giuntura e
connessione dei molteplici che costituiscono la socialità
dell’umano vivere.
Il dono, ben prima di essere un atteggiamento del
soggetto, ne rappresenta la stessa possibilità come essere
sociale che non vive solo di convenzioni e contratti; si
tratta, infatti, di poter mettere in campo, nel gioco delle
relazioni interumane, l’investimento più radicale di cui è
capace il soggetto – quello degli affetti in cui ne va di noi
stessi, dove la «figurazione» della propria irripetibilità
s’intreccia con quella di ogni altro essere umano in vista
dell’edificazione di uno spazio comune, in cui ciascuno
possa dimorare sentendosi come a casa propria.
Si tratta anche di trovare una via per riscattare gli
affetti dalla legge mercantile e mediatica cui essi sono
sottoposti dalle potenze che si sono impossessate della
signoria sovrana sull’umano nelle nostre società contemporanee. Nel dono, infatti, gli affetti non sono messi
in scena, con quella sottile scissione fra il «sé» e la sua
rappresentazione che caratterizza lo spettacolo consumistico cui li abbiamo costretti sul grande palcoscenico
dell’informazione istantanea; scissione che la macchina
economica della produzione del desiderio e dell’ingiunzione del godimento favorisce e nutre quotidianamente
(perché è da essa che trae i suoi massimi vantaggi). Nel
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dono, piuttosto, gli affetti sono realmente investiti in una
consegna irrevocabile di sé all’attesa di quel riconoscimento che possa istruire una reciprocità impegnata a
sostenere il legame, duraturo e stabile, a cui essi aspirano come proprio felice compimento; perché nessun
commercio può edificare la fidabilità dello spazio sociale, che il diritto è chiamato positivamente a sostenere
dall’interno (e non negativamente ad assicurare dall’esterno).
Inoltre, è proprio nel dono che l’intenzionalità del
soggetto appare essere, al tempo stesso, l’offerta di un
credito dato alla realtà che gli si presenta di fronte,
riconosciuta come uno spazio che può essere ospitale
del «sé» ben prima che quest’ultimo inizi a occuparlo
secondo le logiche del rischio ben calcolato dal quale
può ritrarsi in qualsiasi momento, perché mai completamente coinvolto nell’edificazione della socialità abitata
da tutti.
Intrecciare dono e oblazione
Se nel dono, dunque, il soggetto umano investe se
stesso nel suo profilo più alto, in una maniera che non
può essere revocata senza il pericolo di mancare se stesso,
esso rappresenta anche il punto in cui viene affermata la
dignità incomparabile dei legami umani che edificano
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il vivere insieme: quelli a cui si aderisce non per calcolo
ponderato dei vantaggi che si possono trarre, ma per il
sentore che la felice riuscita della vicenda umana è degna
anche dell’ombra perniciosa della ferita sempre possibile
quando mettiamo in circolo non una mera rappresentazione del «sé», ma il nucleo profondo degli affetti che lo
costituiscono e gli danno spessore.
In una società in cui vorremmo assicurarci da tutto
e su tutto, e nella quale la consegna alla reciprocità
avviene sempre sotto il segno della sua revocabilità in
virtù della chimera di un allargamento illimitato delle
possibilità che vogliamo concederci in quanto sempre
più appaganti del reale a cui ci siamo vincolati, il dono
rappresenta quell’investimento interessato del soggetto
che permette agli affetti di circolare nel corpo sociale,
passando attraverso legami la cui provata affidabilità non
può mai precedere il nostro reale consegnarci a essi senza
riserve – a meno di questo, è possibile solo il cinico mercato dei beni e non l’affettuosa edificazione dell’umano
vivere-insieme.
Pur apparendo da sempre tra gli umani, è possibile
che mai come oggi il dono possa rappresentare uno
snodo sovversivo del modo di organizzare, concepire
e realizzare la socialità umana; dove lo spazio comune
possa essere sentito da tutti come qualcosa in cui ne va
di ciascuno. È vero, per tornare al nostro punto di partenza, che la figura devozionale dell’oblazione riguarda
il rapporto dell’uomo con Dio; eppure essa presuppone,
in un qualche modo, quella del dono che circola orizzontalmente fra gli esseri umani: o hai imparato qui la sua
«logica», o non c’è irruzione del divino che possa indurla
da sé a prescindere da esso.
Inoltre, tessere la trama che congiunge dono e oblazione è gesto del tutto coerente alla notitia Dei cristiana;
nella quale non c’è relazione pensabile con il divino che
non tocchi, immediatamente e contemporaneamente, il
corpo dell’umana socialità. Se poi, come abbiamo visto
fare a Dehon, si pensa la relazione teologale nella luce
dell’ordine degli affetti e dell’investimento di agape, allora il dono, possibilità del soggetto di mettere in circolo
gli affetti più cari in cui ne va di se stesso all’interno dello
spazio comune in vista dell’edificazione del legame sociale, appare in tutta la sua valenza teologica senza nulla
perdere della sua dignità antropologica.
Perché di questo il Dio cristiano ha bisogno come di
se stesso: di un soggetto che sa mostrare il punto in cui
viene toccato dall’umano come se ne andasse di se stesso;
in cui si lasci interpellare e mettere in questione dalle sue
vicende sentendole come un’ingiunzione che non può essere demandata a nessun altro – senza mettere in campo
tutto l’apparato anestetico per proteggersi economicamente da questo punto sensibile dell’apertura affettiva
sull’impresa della reciprocità. Perché è solo nell’esposizione interessata del dono che può apparire l’inviolabile
dell’umana dignità di essere proprio l’unicità che siamo
– desiderio che Dio coltiva per noi fin dal principio.
Taubaté, 6 febbraio 2014.
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