APRILE 2008
LICEO CLASSICO STATALE “V. EMANUELE II” JESI
Anno 24 N. 1 • Indirizzi: Classico • Socio Psico Pedagogico • Scienze Sociali
LE COLLEZIONI SCIENTIFICHE DEL LICEO CLASSICO
D
a una pubblicazione
del 1909, a cura del
Prof. Gaetano Gasperoni, dal titolo “IL GINNASIO
– LICEO DI JESI dal 1861 al
1909”, si legge:
“…Il prof. Domenico Matteucci,
chiamato nell’ottobre del 1887
per concorso ad occupare la
cattedra di Storia naturale in
questo Ginnasio-Liceo, comprese la necessità…di costituire un Gabinetto. Con la cooperazione dei capi d’istituto e con
l’ausilio dell’Amministrazione
Comunale riuscì nel suo intento; sì che dobbiamo a lui se oggi
l’istituto è fornito di un materiale conveniente per lo studio
delle scienze naturali.
Il gabinetto consta di collezioni di Botanica, di Zoologia,
Mineralogia, Litologia
Paleontologia;…Il Liceo ha in
comune col R. Istituto tecnico il
Gabinetto di Fisica; il valore
complessivo del materiale scientifico, come risulta dall’inventario, è di Lire 27769,99…
In seguito agli acquisti fatti in
questi ultimi anni, massime per
consiglio del Prof. Marcucci,
attualmente insegnante di Fisica
al R. Istituto tecnico e incaricato
della medesima materia per il
Liceo, il Gabinetto possiede gli
apparecchi necessari per ripetere in iscuola molte esperienze relative alle conquiste scientifiche più recenti: come, per
esempio, quelle sulle onde elett ro m a g n e t i c h e , s u i r a g g i
Röntgen, sulla radioattività,
oltre a parecchi buoni strumenti
di misura; per dare un’idea
dell’importanza del Gabinetto,
uno Sferometro, un Catetometro
Max Kohl, un Banco Melloni
completo per lo studio del calore
raggiante,
un
Polaristrobometro Pfister e
Streit, un Termometro a gas
Jolly-Pflaunder, un Elettrometro Mascara, un Elemento
normale Gouy, un Galvanometro Thomson costruito dal
Carpentier, un Voltmetro e un
Amperometro di precisione, una
Bussola dei seni e delle tangenti, due Ponti di Wheatstone,
uno a cassetta, uno a filo teso,
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2008
un campione di capacità elettrica, una grande Elettro-calamita Faraday per lo studio del
Diamagnetismo e dei fenomeni
magneto-ottici. V’è inoltre il
materiale necessario per eseguire gli esperimenti di Chimica
alla prima classe del Liceo. Il
valore del materiale del Liceo
ascende a Lire 8352,15……”.
Sono evidenti, leggendo questa
breve testimonianza, il valore e
l’importanza quale bene culturale di gran parte del materiale didattico di interesse storico
– scientifico presente nei laboratori del Liceo Classico di Jesi
e, quindi, l’opportunità di una
sua tutela.
Generalmente, ma non sempre,
questo materiale scolastico
viene inventariato, ma non v’è
obbligo che esso sia catalogato
secondo criteri consolidati come
nel caso, ad esempio, dei libri
nelle biblioteche di conservazione, oppure dei reperti naturalistici nei musei di scienze
naturali. Trattandosi, poi, di
materiale d’uso, esso non è soggetto alla tutela vincolante di
alcuna amministrazione, né per
quanto riguarda la sua conservazione, né per quanto concer-
ne l’eventuale restauro, nonostante esso possegga, in alcuni
casi, sia per antichità, sia per
rarità, tutte le caratteristiche di
un bene culturale.
Tra l’altro, come documentato
nei registri conservati negli
archivi della scuola, anche il
materiale inventariato negli anni
trenta e quaranta ha subito gravi
perdite o danneggiamenti a
causa dei saccheggi avvenuti
“negli infausti anni 1943, ’44,
45 “.
Per queste ragioni il primo passo
del nostro progetto sarà quello
di documentare, con una catalogazione e un rilevamento fotografico, tutto il materiale didattico a disposizione, risalente in
gran parte ai primi decenni del
‘900 e per alcuni oggetti anche
alla fine del secolo XIX.
La mostra “Le tappe della scienza nella storia del Liceo Classico
di Jesi”, inaugurata il 10 dicembre 2007 presso i locali del
Liceo Classico in occasione
della “Giornata delle Marche”,
può considerarsi una parziale
anticipazione di quello che rappresenta un altro importante
obiettivo del nostro progetto,
ossia la realizzazione di uno
spazio museale permanente
aperto a tutti.
Nella mostra infatti hanno trovato spazio solo alcuni degli
strumenti della collezione del
gabinetto di fisica. Una collezione che ha valore non solo
per la rarità, la bellezza o l’originalità dei pezzi in essa contenuti, ma anche per il fatto che
rispecchia fedelmente la
“Fisica” come essa era presentata nelle scuole di questo livello nella seconda metà dell’800.
Altro elemento di attenzione è
la realizzazione artigianale di
alcuni strumenti per motivi sicuramente di risparmio, ma anche,
io ritengo, per rendere, con la
verifica diretta, più probante la
dimostrazione dell’esperienza
con gli studenti, “componendo” e “scomponendo” lo strumento.
La raccolta naturalistica invece
è composta da un centinaio di
oggetti, per la maggior parte
risalenti anch’essi ai primi
decenni del Novecento. Tra questi una collezione di Uccelli
montati in pelle, complessivamente in discreto stato di conservazione. Vi sono modelli anatomici in gesso smaltato,
modelli micologici preparati con
precisione in cartapesta e gesso,
riprodotti fedelmente nelle
dimensioni, nella morfologia e
colorazione, e alcuni modelli di
Botanica (fiori, apparati radicali, etc.). Compongono la raccolta, inoltre, preparati in scheletro di Pesci, Anfibi, Rettili e
Mammiferi ai quali si aggiunge una serie di preparati in
alcool conservati in vasi di vetro,
perlopiù in discreto stato di conservazione.
Fanno parte, infine, della raccolta di materiale didattico conservata nel Laboratorio di
Scienze anche alcune collezioni di mineralogia e paleontologia, che hanno avuto probabilmente origine alla fine dell’
Ottocento, costituite da un gran
numero di minerali e fossili, e
che da allora sono andate arricchendosi grazie all’opera di
alcuni insegnanti.
Enrico Baldoni
MEGLIO ALTERNARE, NEH?!?
L
’alternanza scuolalavoro è un progetto
delle scuole che permette agli studenti del quarto anno di fare un’ esperienza lavorativa di un mese
presso aziende locali, enti
pubblici, onlus, ecc… La scelta del luogo di lavoro non è
casuale; la scuola, infatti, oltre
ad offrire corsi di formazione teorica sul mondo del lavoro, sottopone gli studenti a
dei test, grazie ai quali è possibile mettere in luce le attitudini personali, per poter scegliere così il lavoro che più si
addice a ciascuno. Allo studente viene affiancato, nell’azienda, un tutor al quale
questi può fare riferimento
per qualsiasi motivo. Al termine dell’esperienza, della
durata di un minimo di 120
ore, il tutor compila una scheda valutativa riguardo all’operato dello stagista, che è
invitato a fare altrettanto; questi moduli vanno poi consegnati alla scuola e, se lo si
desidera, il contratto di lavoro può essere prolungato.
Nel periodo giugno-luglio
2007 gli studenti del IIC che
hanno partecipato all’alternanza scuola-lavoro sono
stati: Leonardo Ferazzani,
Silvia Morici, Letizia
Pasqualini, Silvia Schiavoni,
Lucia Scortichini e
Clementina Sordoni. Alcuni
di loro ci racconteranno la
loro esperienza.
A cura del prof. Federico
Lecchi
Leonardo Ferazzani:
Ritengo che l’esperienza del
progetto scuola-lavoro sia uno
strumento molto utile per
avvicinare gli studenti al
mondo
lavorativo.
Personalmente il mio stage
all’azienda Presscom di Jesi
è stata un’ottima occasione, in
quanto mi ha permesso di
approfondire le mie conoscenze informatiche e di mettere in pratica anche le mie
abilità linguistiche. Lo stage
mi ha permesso di conoscere
persone altamente professionali e allo stesso tempo socievoli. Il lavoro svolto durante
il periodo di questo progetto
non è stato assolutamente
monotono in quanto mi hanno
fatto svolgere svariate mansioni: dal computer alla sistemazione dell’archivio, dalla
rassegna stampa mattutina al
rispondere a chiamate telefoniche. Credo che sia un’esperienza da provare!
Silvia Morici:
Ho trascorso il mio mese di
stage presso l’azienda A.E.A.
di Angeli di Rosora, precisamente in S.U.M.M.A., cioè
il settore addetto alle pubbliche relazioni. Dopo che mi è
stata assegnata una scrivania
con un computer, ho avuto il
compito di organizzare
“l’English Camp”, cioè giornate in cui i figli dei dipendenti potevano migliorare le
proprie conoscenze di inglese attraverso esercizi, giochi
da tavolo, caccia al tesoro e
karaoke. Tuttavia ogni attività doveva essere adatta a
bambini dai 2-6 anni, dai 713 anni e dai 14-18, ed erano
previste tre giornate di campo
scuola. Non è stato un compito facilissimo, però ha fatto
emergere le mie capacità
organizzative e collaborative
in quanto lavoravo abitualmente con un’altra ragazza. A
questa attività ho alternato:
la selezione degli articoli che
dovevano essere inseriti nella
rassegna stampa del sito dell’azienda, e compiti di amministrazione aziendale. Devo
dire che è stata un’occasione
per conoscere il vero mondo
del lavoro.
Letizia Pasqualini:
La mia esperienza lavorativa
si è tenuta presso la cooperativa sociale COO.S.S. Marche
onlus di Jesi, dove ho svolto
mansioni di segreteria al front
office. Oltre a ricevere e smi-
stare telefonate, fare fotocopie e fax, ho avuto modo di
creare una presentazione in
power point per una gara
d’appalto ed ho ideato un logo
per una struttura gestita dalla
COO.S.S.
Marche.
Conoscenze tecniche a parte,
il fatto di essermi trovata
costantemente a contatto con
la gente ha migliorato la mia
capacità di relazionarmi con
gli altri e di trovare soluzioni efficienti in tempi brevi.
Da un punto di vista umano,
l’esperienza si è rivelata molto
piacevole; le impiegate e gli
impiegati dell’ufficio di Jesi
sono stati sempre disponibili e gentili, favorendo la presenza di un clima sereno e
disteso. Il mio giudizio circa
tale esperienza è assolutamente positivo e la consiglio
a tutti gli studenti che cerchino un lavoro che comporti
una crescita personale, oltre
che professionale.
Silvia Schiavoni:
La mia esperienza lavorativa
ha avuto luogo presso TV
Centro Marche di Jesi, azienda che fornisce un servizio di
informazione radio-televisivo. Qui ho avuto modo di sperimentare come nasce un sevizio tele giornalistico, di
vedere tutto l’iter e il lungo
lavoro che c’è dietro, di arricchirmi con la conoscenza
delle strategie del mestiere e
del linguaggio giornalistico.
Col supporto di alcuni professionisti ho scritto alcuni
articoli per il tg elaborando un
sunto chiaro e mirato delle
notizie più interessanti riportate sui vari quotidiani locali
e regionali. Ho avuto persino
l’occasione di realizzare un
servizio nel quale il direttore
mi ha dato la possibilità di
trattare una tematica di mio
interesse e da lui pienamente
approvata. Come una vera
giornalista, con l’aiuto di un
cameraman, ho fatto le interviste che mi occorrevano e
successivamente ho scritto
l’articolo che, poi, nella fase
di montaggio, ha accompagnato le immagini. Il tutto è
stato registrato e trasmesso
in tv, così come uno speciale
di 4 minuti sulle università
marchigiane che ho invece
prodotto con la collaborazione di un’altra stagista e che è
stato letto personalmente da
noi! Non c’è dubbio che sia
stata una bella esperienza, di
grande valore formativo e
soprattutto un’ottima occasione per mettersi alla prova
e muoversi in realtà non conosciute.
Lucia Scortichini:
Ho partecipato allo stage
alternanza scuola-lavoro proposto dalla scuola presso il
Comune di Castelplanio.
Inizialmente, devo confessare, ero un po’ titubante e
preoccupata perché era la mia
prima esperienza lavorativa.
Invece, ora che tale esperienza è terminata, ritengo che sia
stata un’ottima occasione per
poter misurare le mie competenze tecniche, organizzative e culturali acquisite in
questi anni di studio. In
Comune sono stata destinata
al settore dei servizi sociali e
demografici. Ho potuto conoscere le problematiche sociali del mio paese, imparare ad
utilizzare programmi di computer specifici per redigere
documenti necessari nelle
discussioni del Consiglio
Comunale, fare fax e scrivere carte d’identità. L’ambiente
lavorativo era molto familiare, gli addetti al settore cordiali e soprattutto disponibili a rendermi partecipe alle
loro mansioni. So che sembra
una frase fatta, ma dovete
assolutamente provare tutti!
Articolo di:
Leonardo Ferazzani,
Silvia Morici,
Letizia Pasqualini,
Silvia Schiavoni e
Lucia Scortichini IIIC
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2008
M E T RTitolo
OPOLIS
N
ell’ambito della rassegna Cinema –
Scuola l’attuale classe IIC ha partecipato agli
incontri e ai laboratori di analisi e decodifica del linguaggio
cinematografico fin dalla quarta ginnasio in quanto inserita
nel Piano Regionale per la
didattica del linguaggio cinematografico e audiovisivo
nella scuola. I laboratori e gli
incontri sono stati guidati dalla
Prof.ssa A. Gregorini ( IRRE
– Marche) e da S. Gambelli
(Centro di didattica cinematografica - Ancona), nonché
da docenti presso l’Università
di Urbino: essi hanno fornito
continui stimoli e strumenti di
lavoro a docenti e alunni proponendo nell’anno scolastico
2006-2007 la produzione di
Fritz Lang , di cui i ragazzi
hanno visionato “M” il mostro
di Dusseldorf e Metropolis. Si
propone di seguito l’analisi di
alcuni aspetti del film
Metropolis eseguita dagli studenti per gruppi di studio e su
quelle tematiche che più li
hanno interessati.
Prof. Vera Valletta
IL PERSONAGGIO
DI MARIA :
IL DOPPIO E IL RUOLO
DELLA DONNA
“Metropolis” è considerato
uno dei film più interessanti del
regista tedesco Fritz Lang.
Girato nel 1927, rappresenta
un ipotetico mondo del ventunesimo secolo, dove la
società è nettamente divisa in
due: la classe dirigente, che
abita nella parte superiore della
città, e la classe operaia,
costretta nel sottosuolo a lavorare in modo disumano per
mantenere Metropolis.
Quando Fredersen, il padrone
della città, si accorge per
mezzo del figlio Freder, che
l’ordine sociale potrebbe essere sovvertito da Maria, ricor4
2008
re a qualunque mezzo pur di
impedirlo.
Recatosi nella casa di un suo
amico inventore, Rotwang, gli
ordina di creare un automa con
le sembianze della donna, per
poter manovrare il movimento operaio. Rotwang tuttavia
comanda a questa nuova Maria
di incitare gli operai alla rivolta per via di un antico risentimento verso Fredersen.
Perciò all’interno della vicenda, un ruolo chiave è sicuramente rivestito proprio dal personaggio di Maria (
interpretata da Brigitte Helm),
la quale riporta su di sé evidenti influenze delle esperienze letterarie precedenti.
Infatti due sono i principali
modelli di riferimento femminili a cui Lang si ispira: la
donna-angelo e la donna-diavolo.
La prima è una figura caratterizzata da spiritualità, gentilezza e amabilità, ed è stato il
soggetto prediletto dei poeti
stilnovisti.
Coerentemente con questa
visione, Lang ha voluto che la
sua Maria fosse il mezzo grazie al quale Freder riuscisse
ad aprire gli occhi sulla realtà
che lo circondava; Maria
diventa così il suo punto di
contatto con il mondo, nonché l’elemento che dà il via a
tutti gli avvenimenti successivi.
Nell’ambito della società sotterranea, Maria rappresenta
l’ultima speranza per la classe operaia di migliorare la propria condizione di vita: infatti tiene in gran segreto delle
riunioni all’ interno delle catacombe, durante le quali profetizza l’arrivo di un “mediatore” che potrà porre rimedio
al disequilibrio tra classi sociali.
Dunque il suo è un messaggio di pace e amore, che si
riflette anche nell’ambientazione scenografica; infatti nei
momenti della predicazione la
sua figura è avvolta da un’at-
mosfera luminosa che inonda
tutto l’ambiente circostante.
Invece l’automa rappresenta
il lato oscuro della figura femminile, cioè la donna-diavolo.
Infatti in contrapposizione alla
Maria buona, quella cattiva
cerca di esortare alla rivolta
gli operai, che così danno libero sfogo al loro lato più violento e irrazionale.
Tuttavia essi, quando si rendono conto dell’errore, non
esitano a legarla ad un palo e
a farla bruciare su di esso come
una strega. Caratteristica del
robot è quella di essere il simbolo della perdizione, tant’è
che la sua prima comparsa
avviene in uno spogliarello nel
quartiere dei divertimenti di
Yoshiwara, durante il quale il
pubblico in preda alla lussuria,
si scatena in follie senza freno.
La donna quindi riveste ora il
ruolo di seduttrice e rappresenta l' elemento di trasgressione. Ciò può essere intuito
dal particolare dallo sguardo:
nella vera Maria, infatti, quest'ultimo è dolce, rassicurante
e benevolo. Quello dell' androide invece è ammiccante e
pesantemente truccato.
Attraverso lo sguardo, la donna
diventa simbolo della sensualità, dell'erotismo e della passione che travolge. In definitiva la donna riveste un duplice
ruolo: da una parte troviamo la
Maria pura, casta, che cerca
di alleviare le sofferenze e i
dolori degli operai attraverso
la predicazione, diventando la
portatrice di ideali quali amore
e perdono, dall'altra invece
possiamo trovare l'androide
che è simbolo della trasgressione e della sensualità, intenzionata a portare gli operai alla
rivolta e quindi riveste un ruolo
decisamente negativo.
N.Arena, I. Pistelli
A. Valenti, F. Rotoloni
I. Dicuonzo, M. Saraceni
L’ASPETTO RELIGIOSO
In “Metropolis” si possono
individuare vari richiami al
mondo della religione sia a
livelli di contenuto che a livelli di significato. È presente
anzitutto un sincretismo di
fondo tra idee politiche ed elementi eterogenei provenienti
dalla tradizione cristiana, dal
paganesimo e dalla superstizione, come la grande macchina che si trasforma in
Moloch, la divinità fenicia che
divorava gli uomini offertigli
in sacrificio, o il mito della
torre di Babele, narrato da
Maria agli operai nel sottosuolo, con cui si vuole spiegare
l’esigenza – più sociale che
spirituale – di un mediatore
tra la classe dirigente e la classe lavoratrice. Questo sincretismo è uno dei tanti aspetti
del cinema espressionista, ma
soprattutto una peculiarità
della sceneggiatura, a tratti
drammatica e a tratti romanzesca, di Thea von Harbou.
Inoltre vi è una fitta rete di
corrispondenze significative,
come le riunioni a scopo religioso nelle catacombe (che
ricordano le assemblee paleocristiane di fedeli), la figura
del cuore come mediatore, personificata in Freder (ed assimilabile alla figura del Messia
ebraico o di Gesù Cristo), o il
personaggio di Maria, simbolo della purezza dell’anima e
del corpo (collegabile alla
Madonna). Forte è la contrapposizione tra l’immagine del
futuro, del progresso e della
tecnologia prettamente basati
sul calcolo e sulla razionalità,
con le immagini del rogo della
falsa Maria e della cattedrale
gotica che rimandano ad un
medioevo fatto quasi interamente di credenze e superstizioni. In più il regista ci propone un’immagine del
cristianesimo strettamente
legata al maligno, alla morte e
ai 7 peccati capitali personificati, che sono posti in forte
METROPOLIS
contrasto con la società di
Metropolis altamente tecnologizzata, quasi per giustificarne lo sviluppo.
Nonostante ciò, il messaggio
che il regista desidera comunicarci è che una società, benché fortemente permeata dal
progresso, non è in grado di
mantenere la concordia tra le
varie classi senza dei valori
spirituali. Da questo messaggio si evince il ruolo fondamentale che la religione e la
spiritualità svolgono nell’ambito di una società civile e il
forte rischio di strumentalizzazione di tale ruolo.
S. Santoni, F. Pirani,
S. Belogi
LA MASSA
Il tema della massa assume
un’importante caratterizzazione ai fini dell’Espressionismo
di Fritz Lang.
Una delle prime scene mostra
il popolo operaio mentre si
accinge ad iniziare la giornata di lavoro: è una massa ordinata, che cammina con lo stesso passo e a testa bassa, come
se fosse una schiera di robots,
che viene contrapposta alla
vivacità delle macchine.
Troviamo quindi il paradosso
delle meccanicità robotica dell’uomo in opposizione al movimento rapido, quasi umano,
delle macchine.
Con l’arrivo di Maria-androide, che porta alla ribellione gli
operai, notiamo il capovolgimento della situazione: la
massa non è più ordinata ma si
muove in modo scomposto e
sparso, si passa da una società
umana che vive in funzione
delle macchine ad una realtà in
cui l’uomo si ribella alla schiavitù in cui è ridotto a causa
dell’industrializzazione in
quanto le persone ritrovano la
vita togliendola alle macchine.
La ribellione degli operai è
aizzata dalle parole di Maria,
figura dapprima religiosa, vista
come una Madonna e quindi
adorata dalla massa, in seguito, diabolica (Maria-androide).
Si nota in questo senso con
quale facilità la folla si faccia
influenzare, prima da parole
che predicano la pace e che
poi inducono alla violenza, non
riuscendo ad esprimere una
propria volontà e ad agire
seguendo la propria testa.
La massa si scontra contro le
macchine, simbolo del potere
di Fredersen, il vero antagonista degli operai, in quanto loro
capo.
La moltitudine contro il singolo è un elemento che si ritrova in un altro film dello stesso regista, “’M’ il mostro di
Dusseldorf”, in cui il popolo si
accanisce nei confronti del
maniaco, considerato il “diverso” e per questo perseguitato.
In “’M’ il mostro di
Dusseldorf” emerge l’odio
verso il diverso, in
“Metropolis” l’ostilità nei confronti del potente; un’ostilità
che tuttavia si risolve grazie
all’aiuto di un mediatore.
Anche in “M” ritroviamo le
caratteristiche proprie della
massa: la medesima violenza
e rapidità nell’agire e nel muoversi, la facilità nel farsi
influenzare, nel seguire irrazionalmente i pareri di chiunque senza discernere e ragionare. Il carattere fondamentale
della massa è l’incapacità di
ragionare autonomamente: la
moltitudine non ha intelligenza né volontà propria, ma
segue ciò che dice il singolo,
senza valutare quello che è
giusto e quello che non lo è.
M. Sgreccia, M. Campana
A. Lombardi, L. Carotti
LA FIGURA DELLO
SCIENZIATO
In Metropolis, lo scienziato
Rotwang, distrutto dalla per-
dita della moglie Hel, sfida le
leggi della natura creando un
robot a cui dare le sembianze
della donna amata. La figura di
Rotwang si caratterizza subito per la sua ambiguità: inventore-scienziato ma anche alchimista-mago che sembra venire
da un tempo imprecisato del
passato. Al passato fa riferimento anche la casa in cui R.
abita, il cui aspetto, almeno
all’esterno, allude all’occulto
e al mistero più che al futuro
e alla scienza. All’interno si
rivelano invece gli aspetti più
legati all’attività di studiososcienziato : la biblioteca, lo
studio, il laboratorio. Ma anche
qui non mancano elementi
simbolici portatori di ambigue
valenze : la scala a chiocciola, le tende atte a svelare e a
nascondere nello stesso
tempo;e se la scala mette in
comunicazione lo studio di R.
in basso con le catacombe della
città e in alto con la città
moderna dei grattacieli, nel
laboratorio avviene la trasformazione dell’automa in robot
“L’essere macchina Maria”:”Il
lavoro più impegnativo di R.
è quindi proprio un’esperienza di trasmutazione della materia, di metamorfosi organica
in cui le più tradizionali aspirazioni degli alchimisti si fondono con le ricerche più avanzate della scienza o più
esattamente , della fantascienza. “ (Paolo Berretto”Fritz
Lang Metropolis”ed.lindau
cinema) R. si avvicina quindi
a Frankstein in letteratura e al
mito del rabbino-mago praghese Rabbi low, il creatore
del Golem. E qui si innesta il
problema morale della sfida
di scienza e tecnologia ai limiti imposti all’uomo non solo da
un punto di vista tradizionale
cristiano, ma anche da uno più
umanistico e laico che vede
nel futuro un preoccupante predominio delle macchine in una
logica tecnologica distruttiva.
In Metropolis la scienza viene
quindi vista come sfida dell’
intelligenza umana nei confronti di Dio (il grattacielo
principale si chiama Torre di
Babele), tema molto caro alla
letteratura e al cinema, per cui
la scienza diventa perno di
una società laica dimentica dei
valori. Essa è destinata a crollare proprio perché basata
esclusivamente su fondamenta fatte di circuiti ed energia
elettrica. La scienza è per natura avvicinabile al peccato di
hybris perché porta lo scienziato a misurarsi con Dio, gli
dà un potere che lo eleva più
in alto rispetto agli altri uomini, immenso ma che non può
dominare, lo stesso potere di
cui si sentiva padrone
Frankenstein al momento di
dar vita alla sua creatura.
Questi “uomini superiori” tuttavia sono dannati e colpevoli, perché non rispettosi dei
loro ruoli decisi dal destino e
da Dio; e come tale anche R.,
che diventa “capro espiatorio
di una società ipertecnologica
; infatti morto R. e distrutti
grattacieli e tecnologie si ritorna ad una serenità e ad una
pace antiche con cui si chiude
il film, e che non si erano mai
respirate prima durante la
visione. Raggiunto l’apice e
conosciuto lo scibile al punto
da infondere vita in latta e
metallo si ritorna indietro in
un eterno ciclo di distruzione
e rinascita.
F. Bucci , F. Ciarmatori
M. Bakkum
5
2008
IL SAPERE E I SAPERI
L
a scuola non è onnipotente
ma non è neppure impotente: sarebbe distorto pensare
che essa debba e possa insegnare
fatti senza valori, nozioni senza
significati, risposte senza domande
e che i docenti siano chiamati in
causa solo come professionisti e
non anche come cittadini di una
città, di una nazione, dell’Europa e
del mondo, e come persone umane,
interdipendenti e solidali con tutte
le altre persone umane a cominciare da quelle con cui si vive ogni
giorno”
Luciano Corradini
Da anni ormai si parla di abilità di
studio, di strategie di apprendimento,
di autonomia dello studente. Da
qualche tempo la categoria concettuale del “saper apprendere” è stata
anche riconosciuta in programmi e
documenti “ufficiali”, fino ad essere citata espressamente nel Quadro
generale di riferimento del Consiglio
d’Europa, dove viene associata strettamente ai più classici sapere, saper
fare, saper essere. Dunque il saper
apprendere è, in un certo senso, l’ultimo nato dei vari saperi, e, in questa proliferazione di categorie, è
opportuno chiederci se si tratti di un
concetto utile perché indipendente
o se, al contrario, si sovrapponga in
qualche modo agli altri ad esso associati. In altre parole, quali sono le
ragioni che ci spingono ad isolare il
saper apprendere e addirittura, a
sostenere l’utilità di una sua definizione a livello di curricolo?
Il saper apprendere implica, in primo
luogo, delle competenze, delle strategie: può trattarsi di strategie cognitive, che ci aiutano a rielaborare le
informazioni: parliamo allora, ad
esempio, di inferenza, di associazione, di classificazione. Può trattarsi
di strategie metacognitive, strategie che ci aiutano ad auto-gestirci nel
nostro apprendimento, e allora parliamo, ad esempio, di pianificazio6
2008
ne, di controllo, di autovalutazione.
Può anche trattarsi di strategie socioaffettive, con cui cerchiamo di gestire il rapporto con noi stessi e con gli
altri. Può infine trattarsi di strategie
di comunicazione e di compensazione, con cui cerchiamo di ridurre
al minimo gli inconvenienti della
nostra limitata competenza linguistica e socioculturale, sfruttando
nello stesso tempo al massimo le
nostre potenzialità comunicative.
In ogni caso abbiamo a che fare con
modalità di comportamento concrete e operative – cioè, in definitiva, con un saper fare.
Ma tutto questo, come ci dice la
nostra esperienza di discenti e di
docenti, non basta a definire la persona che sa imparare. Intuiamo che
dietro un uso produttivo di strategie
c’è ben altro, a cominciare da un
insieme di conoscenze. Ognuno possiede delle conoscenze, innanzitutto, sui contenuti della disciplina che
sta imparando, per esempio sui concetti di lingua, di comunicazione e
di cultura. Ma ognuno possiede
anche delle conoscenze sui metodi
della disciplina che sta imparando,
sui modi di acquisizione e apprendimento di una lingua. Anche in
questo caso, può trattarsi di convinzioni più o meno consapevoli su
come si impara una lingua, su che
cosa può facilitarne o ostacolarne
l’apprendimento, su quali caratteristiche personali entrano in gioco.
Queste convinzioni di carattere
generale sulla lingua e sull’apprendimento sono strettamente associate a parallele convinzioni che ciascuno di noi ha su se stesso in quanto
persona e in quanto persona che
impara. Se penso ad esempio che
una lingua sia innanzitutto un insieme di vocaboli che occorre memorizzare, userò in modo più o meno
efficiente delle strategie di memorizzazione, a seconda che ritenga di
avere o non avere una buona memoria. Se invece penso che una lingua
sia soprattutto un mezzo per comunicare ad ogni costo, anche correndo rischi e facendo magari “brutte
figure”, questo mi aiuterà a usare
strategie di comunicazione e di compensazione, ma solo se ho di me
un’immagine di persona estroversa,
che ama correre rischi e non ha
paura di commettere errori. Dunque
le conoscenze personali sono un fattore essenziale del saper apprendere, esse in quanto convinzioni o
“rappresentazioni mentali”, condizionano la percezione che ho delle
mie capacità e del mio ruolo come
persona che impara: funzionano,
insomma, da filtro cognitivo e affettivo. Se penso che sia essenziale
che i propri errori siano corretti sempre e subito dall’insegnante, mi
aspetterò che l’insegnante svolga
questo ruolo, e sarò scarsamente
attirato da strategie di automonitoraggio e autovalutazione. Non avrò
insomma né la motivazione né la
fiducia in me stesso necessarie per
usare queste strategie. In definitiva,
dunque, saper apprendere implica
anche degli atteggiamenti adeguati – in altre parole, un saper essere.
Siamo partiti con l’idea che il saper
apprendere è l’ultimo nato dei vari
saperi, e abbiamo visto che però, in
ultima analisi, esso stesso può essere articolato in sapere, saper fare,
saper essere. Dunque il saper
apprendere è, per così dire, un doppione di altri aspetti di un curricolo di apprendimento? In un certo
senso, sì. In un certo senso, il saper
apprendere è connaturato agli altri
saperi. E d’altronde, come potrebbe essere altrimenti? Non si può
imparare se non, paradossalmente,
sapendo imparare.
Saper apprendere implica l’uso di
strategie. Così, possiamo scegliere
di promuovere nei nostri studenti
l’uso della deduzione. Ma questo
saper apprendere lo insegniamo nel
concreto del saper fare, per esempio quando stimoliamo la deduzione del significato di parole sconosciute, o quando facciamo anticipare
e prevedere i contenuti di un testo
prima della lettura. Oppure, promuoviamo l’uso dell’induzione. Ma
lo facciamo nel concreto della riflessione sulla lingua, quando per esempio facciamo ipotizzare delle regole a partire da una serie di esempi.
O ancora, stimoliamo gli studenti
ad usare strategie di compensazione: come chiedere aiuto all’interlocutore, verificare di aver capito e di
essere stati capiti, e così via. Ma in
fondo, non sono queste funzioni
comunicative, che fanno già parte,
in un certo senso, dei nostri sillabi
linguistici?
A questo punto è necessario porci
una serie di domande che sono
necessarie per riconoscere l’originalità del concetto “saper apprendere”:
- questo “saper apprendere” è poi
veramente riconosciuto come tale
nel nostro sistema, nei documenti
ufficiali come nella pratica quotidiana?
- se ne apprezza veramente la natura trasversale?
- ne siamo consci noi, e lo sono i
nostri studenti?
E’ un fatto risaputo, purtroppo, che
al giorno d’oggi il valore trasversale di queste strategie, ma anche delle
convinzioni e degli atteggiamenti
associati, non è spesso riconosciuto; soprattutto, nella tradizione storica del nostro sistema, non è mai
stato previsto un programma sistematico esplicito e continuo di sviluppo di questi elementi. Tutto questo giustifica, proprio perché siamo
in una fase delicata di ristrutturazione del nostro sistema scolastico,
un posto di prim’ordine agli elementi del saper apprendere – un
posto che solo un curricolo altrettanto esplicito può garantire.
Proviamo allora a definire questo
saper apprendere in termini di curricolo.
Sappiamo che definire una disciplina o un settore di conoscenze e
competenze in tali termini significa in sostanza identificare, selezionare, graduare e organizzare degli
obiettivi e dei contenuti nel tempo,
nello spazio e rispetto alle risorse
umane e materiali. Quali possono
essere dunque dei criteri adeguati a
definire e organizzare un curricolo
di processi di apprendimento più
che di contenuti?
I cinque criteri di base sono: flessibilità, integrazione, operatività, trasferibilità, ricorsività.
Un curricolo per il saper apprendere non può imporre modi di fare, di
sapere, di essere; può però fornire
occasioni sistematiche di scoperta
dei propri modi di imparare.
Distinguiamo allora tra obiettivi che
riteniamo fondanti e modi individuali di raggiungerli. Tutti noi riteniamo che sia importante stimolare processi di inferenza e di
attenzione selettiva come primo
approccio allo studio di un testo
espositivo. Come questo si realizza in pratica, però, varia da individuo a individuo: qualcuno vorrà
fare mente locale sull’argomento
ancora prima di leggere una sola
riga del testo; qualcun altro, invece,
vorrà scorrere rapidamente titoli,
sottotitoli e qualche frase chiave;
altri privilegeranno gli aspetti grafico-visivi, le illustrazioni e le didascalie; altri ancora utilizzeranno una
combinazione di più strategie. Non
possiamo certo imporre tutti questi
diversi approcci in modo indifferenziato: possiamo però proporli e
farli sperimentare, perché a tutti
venga data la possibilità di provare
e poi di scegliere in base alle pro-
IL SAPERE E I SAPERI
prie caratteristiche personali.
Flessibilità significa dunque creare
le condizioni perché ognuno possa
scoprire la propria personale “costellazione di strategie”.
Il secondo criterio è quello dell’integrazione. Saper apprendere significa attivare contemporaneamente
strategie, convinzioni e atteggiamenti. Ormai pochi si illudono sul
fatto che basti insegnare delle tecniche per far cambiare dei comportamenti. E allora il nostro sforzo
deve andare anche, e forse soprattutto, nella direzione del sapere e del
saper essere, e, in particolare, della
scoperta e continua rimessa in
discussione delle rappresentazioni
mentali che i nostri studenti hanno
della lingua, dell’apprendimento, e
di se stessi. In pratica, possiamo
chiederci: in quali modi i nostri studenti concepiscono, ad esempio la
lettura? Fino a che punto le loro
convinzioni concordano con le
nostre? In che misura, sono convinti che lo scopo della lettura e il
tipo di testo determinano la scelta
delle opportune strategie?
Che la comprensione non si identifica con la lettura lineare parola per
parola, frase per frase?
Che ciò che il lettore porta al testo
è altrettanto importante di ciò che il
testo offre al lettore? Che rischiare
di non capire subito tutto e tollerare l’ansia di questa ambiguità possono essere dei passaggi obbligati
di una lettura efficiente? Per cambiare i modi di imparare occorre
dunque proporre delle strategie, ma
questa è solo la punta dell’iceberg:
occorre nello stesso tempo affrontare il sommerso delle convinzioni
e degli atteggiamenti.
Il terzo criterio si riferisce all’operatività, cioè al legame strettissimo
che lo studente deve percepire tra il
saper apprendere e il contenuto di
ogni curricolo disciplinare. Ciò
significa che usare del tempo prezioso per imparare a imparare deve
essere percepito come un investimento vantaggioso perché, in concreto, aiuta a vivere meglio lo studio e la vita a scuola, e migliora il
proprio rendimento. Insomma, la
scelta degli obiettivi e dei contenuti del saper apprendere dipende dalla
rilevanza rispetto ai problemi effettivamente vissuti da chi sta imparando. Questo non è solo un criterio di efficienza, per così dire,
economica, del tipo “massimo rendimento col minimo sforzo”. C’è
una ragione più profonda dietro tutto
ciò, e cioè il possibile ruolo moti-
vazionale delle strategie. Se imparo ad usare una strategia e ciò
migliora il mio rendimento, questo
potrà aiutarmi a farmi sentire più
capace, più in controllo del mio
apprendimento, più responsabile dei
miei risultati. L’uso delle strategie,
in altre parole, può migliorare il
proprio senso di auto-efficacia e di
auto-controllo, e dunque la propria
motivazione, a condizione che l’uso
sia accompagnato da una presa di
coscienza delle ragioni per l’uso e
dei benefici ottenuti. Operatività
significa, dunque, fare esperienze
concrete ma, nello stesso tempo,
esplicite e trasparenti di modi di
imparare. Molti di noi sarebbero
pronti a riconoscere che si impara
essenzialmente facendo, provando
su sé stessi e sperimentando cosa
funziona meglio per noi. Così, per
fare un esempio, se vorremo aiutare i nostri studenti a fare delle scelte e a prendere delle decisioni,
dovremo prevedere, nei nostri materiali e attività, dei momenti in cui
effettivamente vengono fornite
opportunità di fare scelte e prendere decisioni. Tuttavia, l’esperienza
concreta in sé non è sufficiente se
non è accompagnata da una riflessione esplicita e trasparente su quanto si è fatto in concreto. Non è così
difficile fare una buona esperienza,
ma è molto più difficile trarre dall’esperienza un significato che la
trascenda e si generalizzi e si trasferisca ad altre esperienze future.
Il quarto criterio è quello della trasferibilità, che in un certo senso è
un’estensione del precedente. Uno
dei criteri per scegliere un obiettivo del saper apprendere piuttosto
che un altro, cioè per stabilire delle
priorità, è il grado di generalizzabilità dell’obiettivo – o, detto in altri
termini, la misura in cui una strategia, una convinzione, un atteggiamento possono trasferirsi ad altri
contesti rispetto a quello in cui sono
stati inizialmente considerati. E’
ovvio che questi altri contesti possono essere sia nell’ambito della
stessa disciplina, sia in discipline
diverse.
L’utilizzo delle conoscenze e delle
competenze pregresse è associato ad
un ruolo attivo della mente, e quindi alla convinzione che le risposte
ai problemi, in un certo senso, sono
già in parte dentro di sé: dunque vi
è associato un atteggiamento di
disponibilità, cognitiva ma anche
affettiva, ad agire responsabilmente, ad essere protagonisti del proprio
apprendimento. Il saper apprende-
re, in effetti, non può risolversi tutto
nella sua natura trasversale: esistono certamente strategie che si possono applicare in tutte le discipline,
ma esistono anche strategie che in
certe discipline hanno una valenza
particolare.
L’ultimo criterio è quello della ricorsività. Esso consiste nell’applicare
al curricolo del saper apprendere
quell’approccio a spirale che spesso caratterizza i curricoli disciplinari,
a partire da quelli linguistici. Questo
criterio diventa ancora più significativo se pensiamo che molte strategie possono e devono essere sviluppate nell’arco di anni, e quindi,
in verticale, attraverso vari cicli o
livelli scolastici, in modo da essere
progressivamente affinate in base
all’età e alla maturazione cognitiva
e affettiva degli studenti. A volte ci
si chiede quando si possa effettivamente cominciare a insegnare agli
studenti ad imparare. Spesso questo
imparare a imparare viene identificato con operazioni cognitive complesse, che pertanto sarebbero possibili solo a partire dalla
preadolescenza.
Il saper apprendere non si risolve
solo nell’acquisire strategie, ma
comporta un’attenzione parallela
alle convinzioni e agli atteggiamenti,
cioè a componenti che non sono
solo cognitive, ma investono la globalità della persona, e anzi, chiamano in causa in primo luogo fattori sociali e affettivi, che a tutte le
età hanno una rilevanza primaria.
Ogni curricolo, ma in particolare
un curricolo centrato sui processi
come quello per il saper apprendere, è solo un punto di partenza, non
di arrivo. E’ come una mappa di un
territorio: può aiutare a non perdersi, ma non può sostituirsi all’esperienza concreta del vivere quel territorio. In altre parole, un curricolo
di processi è il tentativo di prevedere,
descrivere, organizzare qualcosa
che per tanti versi non è prevedibile, né descrivibile, né organizzabile. Dunque un curricolo può darci
qualche certezza, ma non può farci
dimenticare la necessità di saper
tollerare l’ambiguità e l’incertezza.
Nello stesso tempo, però, l’incertezza dei grandi sistemi ci ricorda il
valore delle piccole cose, dei gesti
quotidiani che, se rivisti fuori dalla
“routine”, possono avere una carica quasi rivoluzionaria. In un sistema dove ogni piccolo evento può
condizionare i processi globali, una
discussione in classe, un questionario, un’attività di riflessione, un’e-
sperienza di lavoro di gruppo, possono introdurre un elemento di sana
“turbativa” e magari dare l’avvio a
cambiamenti piccoli ma che si sviluppano nel tempo.
L’autonomia assegna nuovi e più
complessi compiti al docente nel
governo dei processi di insegnamento/apprendimento e nella gestione della fitta rete di relazioni che
la scuola va costruendo. Questo
esige una figura di docente inteso
come professionista del SAPERE
INSEGNATO, responsabile della
qualità della prestazione formativa,
impegnato in un’attività di ricerca
e sperimentazione consapevole. Di
Mauro parla di “insegnante che deve
sapere come stare nella mediazione pedagogica che deve possedere
e controllare pienamente e compiutamente non tanto i contenuti e
gli strumenti di conoscenza quanto
piuttosto gli atti comunicativi e relazionali necessari per condurre il processo di apprendimento.
Comunicare efficacemente con l’alunno significa utilizzare come
punto di forza la capacità di ascolto, essere metacognitivo e metacomunicativo, cioè saper fare autoriflessione ma anche autosuggestione
per essere capace di influenzare l’universo (allievo) che costruiamo
oggi, ma soprattutto per essere capace di influenzare gli universi (uomini) che desideriamo far nascere
domani.
BIBLIOGRAFIA
Mariani L., Lingua e Nuova
Didattica, Anno xxix, No. 4,
Settembre 2000
Crespi, Manuale di sociologia della
cultura, Editori Laterza
Mariani L., Stili di apprendimento e strategie di apprendimento e
insegnamento, in Moro M.G.
Pelliccioli P. (a cura di), 1996
L. Corradini., Essere scuola nel
cantiere dell’educazione. LA SCUOLA , BRESCIA 2000
Di Mauro, Comunicare bene per
insegnare bene – Istituzioni di psicopedagogia dell’insegnamento
Armando 2002
Cesare Cornoldi, Rossana De
Beni, Gruppo MT, Imparare a studiare – Editore Erickson 1997
Prof.ssa
Giuliana Petta
Dirigente scolastico
7
2008
UN POETA DI CUPRAMONTANA:
GILBERTO CERIONI
Spariamo
al sogno troppo alto!
Bagniamoci nel suo sangue,
amandoci.
In mezzo al mare
il nostro amore di balena.
Ti prendo come l’uccello la
ciliegia,
ti dai come l’ala al vento.
Addormentiamoci
nella conchiglia.
Paragono l’amore di oggi
all’angoscia di sempre.
Prendimi tu, ora.
Strappami e guarda.
Amami,
amami,
amami;
come me, il dolore.
(Poesie d’amore, XIV)
T
rent’anni fa moriva
in un incidente stradale, all’età di soli
27 anni, Gilberto Cerioni,
giovane
poeta
di
Cupramontana. Poche
parole di ricordo sono debite sia perché il nostro Liceo
vanta di averlo avuto come
studente, sia per la sua pregevole produzione.
La sua poetica è caratterizzata da un’impronta
essenzialmente autobiografica e testimonia una
sensibilità spiccata ed
un’osservazione profonda
della realtà e delle vicende
umane. Cerioni non osserva il mondo con superficialità, tenta di comprenderlo; sente l’esigenza di
fissare le sue sensazioni per
renderne partecipi gli altri
e, probabilmente, anche per
chiarirle a se stesso. Ciò
che ne deriva è una poesia
fatta di immagini vivide e
sicure, decise pennellate
che nella loro varietà generano complessi accostamenti ed analogie audaci
di difficile interpretazione.
Ci viene chiesto di visua-
Riflessioni
Partire,
piangendo la sponda
volontariamente lasciata
Solcare
il sale del mare per approdare
a nulla.
Lasciare ad altri
ciò che non si è posseduto mai
Affrancare
la schiavitù dei sogni
Il sole
sbatte su un cristallo di lacrime,
sulla maschera predestinata.
Solcare quest’oceano calmo,
esasperante,
lasciare indietro il sole,
l’onnipotente vento rosso
che piangeva sui tuoi piedi scalzi.
Addio terra.
Solo chi ti lascia ti conquista.
Solo chi ti lascia tu ami.
Il dolore del singolo
turba la felicità altrui.
(Canzoni, XVI)
lizzare la sua poesia e di
lasciar vagare la nostra
mente tra idee apparentemente contrastanti, che,
unite, portano ad un concetto personale e soggettivo.
Ci rimangono di Cerioni
quattro raccolte di poesie:
XXXV poesie (pubblicate
nel 1977), Poesie d’amore,
Canzoni, Paesaggi
Cuprensi. Evidente nelle
prime tre raccolte è lo studio dell’uomo, destinato ad
una vita che non può realmente comprendere e che
gli si presenta come un’ironica serie di eventi
imprevedibili. C’è tra queste poesie l’amara consapevolezza di trovarsi in una
realtà inospitale ed impenetrabile. Realtà che, però,
nella sua ipocrisia, diventa, con l’abitudine, un’intima amica: come nella raccolta Paesaggi Cuprensi,
in cui il poeta descrive i
luoghi e le tradizioni del
suo paese, mostrando una
dolce e quasi paterna affezione. Tutto ciò espresso
in uno stile semplice e
diretto, frutto più che di
una mancata ricerca stilistica, di una volontà di
immediatezza del messaggio.
Questa poesia esercita un
fascino che permane, una
suggestione che incanta e
rapisce. Tutto è essenziale, breve, ma allo stesso
tempo necessario e calcolato. L’invenzione è sapientemente studiata e si rimane un po’ sorpresi nel
pensare che un ragazzo di
27 anni possa già essere
così abile e versato nella
poesia (e viene anche da
chiedersi cosa avrebbe
potuto fare in età matura!).
Noi, tuttavia, possiamo solo
apprezzare ciò che il poeta
ci ha lasciato e ammirare la
sua capacità di trasformare la propria attitudine
riflessiva in poesia e, di
conseguenza, in arte.
“…vorrei vedere ancora il
mio nome nel cielo,/ sentire la rugiada di stelle che
bagna il cuore a primavera./ Raccontare il giorno
alla sera…”
Roberto Bramati
II A L.C.
Bartocci- Mia madre
8
2008
REALITY SHOW: ISTRUZIONI PER L’USO
I
l reality show (spettacolo
della realtà) è un genere di
programma televisivo
molto apprezzato dal pubblico
italiano tanto da essere alimentato da moltissimi ascolti. Nel
reality vengono trasmesse situazioni, che possono essere drammatiche, ma anche umoristiche,
non dettate da un copione; i protagonisti, insomma, cercano di
vivere la loro vita, come se fosse
reale. Il meccanismo di questi
programmi è molto semplice,
giacché alla gente piacciono le
cose chiare ed immediate, a cui
non occorre prestare troppa
attenzione; non è infatti una
coincidenza che il reality prevalga, e non di poco per quanto concerne i consensi, su programmi culturali quali
Superquark, Voyager, Ulisse,etc.
In ogni caso attorno a queste
situazioni di “vita reale” si
costruisce una struttura di nomination ed eliminazioni, di commento e critica, per cui alla fine
tra i protagonisti che hanno partecipato al programma viene
eletto, solitamente dal pubblico
televisivo, un vincitore, cui spetta un premio molto appetibile (in
genere grosse somme di denaro, contratti televisivi, ecc.). Per
di più il reality viene, per così
dire, sfruttato da persone famose, parzialmente dimenticate dal
mondo dello spettacolo, come
fosse un nuovo trampolino di
lancio per una carriera chiaramente già terminata, ma ancora disperatamente desiderata.
Tuttavia non tutti apprezziamo
questo genere di programma,
soprattutto se analizziamo le
conseguenze negative che comporta. Ne è un esempio il parere di un neurologo, membro
dell’Accade-mia Americana di
Neurologia: “Alcuni reality
show tendono a ridurre l'autostima dei giovani e a causare in
loro un senso di insicurezza, di
improvvisi cambiamenti di
umore e disturbi dei comportamenti alimentari. Sono anche
capaci di condurre ragazzi e
ragazze all'anoressia o alla bulimia aumentando, inoltre, la loro
aggressività e spingendoli ad
abusare di alcool e droghe”. Un
commento duro, ma evidentemente sconcertante. Non bisogna però dimenticare che c’è
ben poca verità al di là dello
schermo. Eppure molti si chiedono: “Ma come faranno a
sopravvivere su quell’isola?!
Poverini! Come dimagriscono!”. Ad ogni modo i dati dell’ascolto parlano chiaro, ed è
ovvio che la febbre dell’Isola
ha conquistato il cuore degli italiani. Proprio per questo motivo la tv statale ha concesso alla
trasmissione non solo la prima
serata del mercoledì, ma, per
gli approfondimenti, anche
molti altri appuntamenti pomeridiani. E la Ventura se la ride!
Infatti poco tempo fa ha dichiarato, in un’ intervista: “L’Isola
mi ha cambiato la vita.”
Comprensibile, dato che il programma va “a gonfie vele”.
Il reality show, comunque, è
“sbarcato” in Italia non più di un
decennio fa ed è stata una sorpresa per tutti. Nessuno infatti
pensava che avrebbe riscosso
un così grande successo televisivo. Le edizioni del “Grande
Fratello” sono continuate con
gli anni e man mano sono nate,
o meglio, sono state importate,
da ogni parte del mondo, nuove
tipologie di spettacoli. Difatti,
accanto al “Grande Fratello”
(simulazione di vita reale) si
sono affiancate scuole di formazione televisiva come
“Amici di Maria De Filippi”,
gare di ballo come “Ballando
con le Stelle”, simulazioni di
vita agricola con “La Fattoria”,
di sopravvivenza come “L’Isola
dei Famosi”, di esperimenti
sociali con “La pupa e il
Secchione” e tanti altri. Non
mancano, di certo, all’appello
programmi di “attualità” come
“Uomini e Donne” e “Forum”,
che, a mio avviso, di attualità
hanno veramente poco confrontati con “Ballarò”,
“Annozero” o magari “Report”,
trasmissioni che si occupano di
problemi sociali e politici. Si
potrebbe addirittura dire, che
questi ultimi, in cui vengono
analizzate tematiche piuttosto
scottanti, non facciano poi così
tanto scalpore agli occhi del cittadino italiano, abituato oramai
a metabolizzare ogni tipo di
realtà riproposta nelle varie trasmissioni, credendoli, per assurdo, parte di quella grande famiglia che accoglie ogni tipo di
reality show. Inoltre non bisogna soprassedere su quei reality, per così dire, mascherati, o
se vogliamo, non apertamente
dichiarati; ne è un esempio il
programma di Bruno Vespa,
“Porta a Porta”, in cui si affrontano tematiche di rilievo, ma in
un modo senza dubbio discutibile a mio parere. Ne è un esempio il “Caso Cogne”, ampiamente discusso nel corso di più
episodi, – l’ammontare dei quali
sembra quasi impossibile da stimare - ma trattato come volessero renderci partecipi delle
“news” della vicenda giorno per
giorno, minuto per minuto, il
che, invero, ricorda molto la
metodologia del reality.
In ogni caso i reality sono un
vero e proprio investimento,
giacché se non fruttassero un
guadagno considerevole,
conformi al precetto americano che “ciò che non funziona si
getta via”, certamente nessuno
ci investirebbe più. Ad ogni
modo questi programmi in poco
tempo sono diventati parte di
noi e della nostra vita quotidia-
na. Infatti, a noi tutti piace essere partecipi della realtà di qualcun altro, entrare nel suo privato, soprattutto nel privato dei
VIP; ci piace vedere gente che
litiga, che piange, che ride, o
magari “scommettere” sulla
possibile relazione che potrebbe sbocciare tra due persone.
Inoltre se volessimo porre la
questione su un piano filosofico, diremmo che il “motore
immobile” del reality è proprio
la nostra curiosità, senza la
quale, questo “castello” di menzogne non si potrebbe reggere.
Ma è evidente che nessuno
pensa alla finzione che si cela
dietro tutto ciò; del resto il programma si chiama giust’appunto “spettacolo della realtà.”
In ogni caso, sia che siano VIP
o che siano persone comuni, i
protagonisti di un reality si
divertono nel recitare la “parte”
assegnatagli e si sa che quando
un attore recita dice sempre ciò
che è stato scritto da altri e fa
sempre quello che hanno deciso altri. Nulla è spontaneo, ne
tanto meno sincero. Se poi consideriamo che questi attori vengono pagati molto lautamente il
quadro è completo.
Ciononostante la gente non ha
ancora smesso di “pensare positivo”, o di vivere la vita di qualcun altro, che in qualche modo
le risulta sempre migliore della
propria; ma guardar vivere un
altro piacevolmente la propria
vita, che indubbiamente si è
arricchita grazie a me, e dimenticarmi di vivere la mia, che a
conti fatti è unica, non è poi un
grande affare.
Monica Mengoni
III C L.C.
9
2008
INCONTRO ALLA MOSCHEA DI ANCONA
H
anno partecipato all’incontro le classi I A, I B,
I C e I D a conclusione
dell’argomento “Islam” trattato
durante le lezioni di religione.
“Un interno di moschea”
Arriviamo nel quartiere della città
dove risiede la moschea: una zona
di Ancona, la Baraccola, tra l'industriale ed il residenziale, dove
tra un grigio capannone e un ipermercato, raggiungiamo la palazzina che dovrebbe ospitare la
moschea. Il luogo non sembra
dei più consoni per un edificio
sacro, sul davanti c'è una sorta di
negozio, mentre il retro, in cui
dovremmo trovare la moschea, è
un garage che si affaccia sul traffico cittadino. L'unica cosa che
distingue dall'esterno la moschea
da un qualsiasi garage è l'insegna
in caratteri arabi e latini con il
nome della moschea e i vari
volantini sugli eventi religiosi
affissi all'entrata. Gira voce che
forse bisognerà togliersi le scarpe per entrare, per rispettare l'usanza musulmana di non calpestare sul pavimento, qualcuno
incomincia a lamentarsi per l'
inconveniente. Entriamo.
Una ragazza ci distribuisce dei
copri-scarpa e ci fa accomodare
all'interno della moschea.
L'interno non è meno umile dell'esterno. Uno stanzone bianco e
piuttosto spoglio, ornato solo con
delle foto de La Mecca ai muri e
delle piante, che nella tradizione
islamica non mancano mai in una
moschea. Il pavimento è coperto da un folto tappeto e l'unica
struttura che rimanda all'architettura musulmana è il Mihrab, la
10
2008
parte più importante della
moschea, posto sulla parete a
levante, diretta a La Mecca. Ci
sediamo, chi sulle sedie, chi a
terra e la ragazza, che all'entrata
ci ha distribuito i copriscarpa, incomincia a parlare e a introdurci una spiegazione sulla moschea. La
cosa che mi colpisce subito è la composizione del
comitato di accoglienza:
due donne (una terza, la
presidente delle donne
islamiche della moschea,
ci raggiungerà in seguito,
dopo aver chiuso il suo
negozio per venire all'incontro)
ed un uomo, un ragazzo per la
precisione, che durante l'incontro
non proferirà parola in italiano.
Appare evidente quindi come
non ci troviamo in un ambiente
sessista e maschilista, come quello che magari ci si poteva aspettare basandosi sulla conoscenza
mediatica della realtà musulmana, che spesso costituisce l'unica che abbiamo. Non c'è l’imam
e la parte teologica è affidata ad
una donna, una studentessa di
medicina nata in Italia da genitori siriani, tra i presenti quella che
si esprime meglio in italiano e
quella meglio preparata.
Interessante è anche la varietà
etnica di chi ci accoglie: un libanese, una siriana, una tunisina ed
una marocchina. Per gli islamici la religione funziona da collante etnico molto più che per un
occidentale, causa la secolarizzazione della cultura occidentale. Se per un europeo l'appartenere alla Christianitas è un
sentimento relegato ormai nella
mentalità medievale, per un
musulmano appartenere alla
grande “Casa dell'Islam” è ancora molto attuale. Anzi, per gli
islamici che vivono fuori dai
paesi musulmani la professione
di fede all'Islam, oltre che un fattore di coesione con tutti i musulmani di ogni nazione presenti sul
suolo straniero, è anche uno stru-
mento per preservare la propria
identità nazionale ed etnica dalle
malie dell'occidente infedele e
materialista agli occhi dell'islamico e spesso ostile.
Il ragazzo libanese ci mostra le
fasi del rito della preghiera, a
partire dalle abluzioni, che a differenza di quanto si può pensare
sono legate anch’esse ad una rigida procedura che prevede una
precisa modalità di lavaggio e
un altrettanto preciso ordine con
cui le parti del corpo devono essere lavate. Dopo aver simulato le
abluzioni si prostra a terra,
seguendo sempre una specifica
procedura, ed incomincia a recitare alcune sure ( i versetti) del
Corano. La preghiera musulmana è caratterizzata dal fatto di
non essere propriamente recitata, ma praticamente cantata; il
ragazzo inizia a salmodiare in
arabo ed in effetti la situazione è
un po’ imbarazzante per noi che
lo ascoltiamo, non abituati a simili rituali, e forse più imbarazzante
per lui che sta per terra da solo
in mezzo ad una stanza con quasi
cento persone intorno che lo guardano e lo ascoltano. A qualcuno
scappa un risolino sommesso,
ma alla fine ci lasciamo tutti prendere dalla melodia estremamente bella che il ragazzo recita in una
lingua incomprensibile, più simile a dei versi per noi, ma che riesce comunque ad incantarci le
orecchie.
A questo punto incomincia la
parte più interessante della visita, quella dedicata al confronto del
dialogo tra diverse culture. Anche
se all'inizio un po’ titubanti iniziamo a porre le domande alle tre
ragazze presenti. Gli argomenti
delle domande sono abbastanza
scontati, dato il soggetto della
visita ma quello che emerge dalla
discussione non è affatto banale;
la condizione della donna, il terrorismo islamico e il problema
dell'integrazione sono i tre argomenti a cui si possono ricondurre la quasi totalità delle doman-
de che formuliamo. Non ci aspettavamo di avere di fronte certamente dei terroristi, ma comunque l'utilizzo della violenza
mascherato con fini religiosi è
fortemente condannato dalle tre
e –ci dicono- da tutte le comunità
islamiche italiane. Il dibattito si
concentra piuttosto sulla questione della donna ed in particolare modo del velo, in quanto le
tre donne si sentono chiamate in
causa e possono condividere la
loro esperienza personale. Dalle
loro risposte emerge come il velo,
tranne che nei paesi in cui dittature politiche sono mascherate
da una copertura religiosa
(l'Afghanistan talebano, l'Iran e
l'Arabia Saudita), è un atto di
libera adesione a Dio, una sorta
di “differenza religiosa” dal
maschio. Le tre ragazze ci raccontano che tutte e tre provengono da famiglie che hanno loro
lasciato la scelta di indossarlo,
senza mettere in atto nessuna
forma di costrizione. La decisione di indossarlo avviene per tutte
tre in giovinezza o in età adulta
dopo una scelta maturata grazie
alla lettura del Corano e alla preghiera. L'indossare il velo è un
atto di fede, simbolo del rapporto con Dio, che sicuramente ha i
suoi inconvenienti di carattere
pratico (il caldo d'estate) e che
non le ha certamente aiutate ad
integrarsi con la società occidentale o a trovare lavoro, ma
come già detto per i musulmani
il senso di appartenenza all'Islam
è molto importante e questo è
sicuramente emerso dall'incontro.
Finite le domande, ci scambiamo
dei doni, un Corano in italiano da
parte loro per la scuola e da parte
nostra una pianta per la moschea
e ci congediamo. Uscendo ripenso ancora quanto sia insolito che
abbiamo passato una mattinata a
discutere di religione con dei
musulmani dentro ad un garage.
Francesco Barchi
1C L. C.
L’ ANORESSIA
L
’anoressia nervosa è il
più noto tra i disturbi
alimentari e consiste
nell’ostinato rifiuto di una
regolare assunzione di cibo.
Questo disturbo rivela una
palese ostilità nei confronti
del proprio corpo e una bassa
stima di sé. E’ caratterizzato da un forte desiderio di
perdere peso e dall’esercizio di una ferrea autodisciplina per raggiungere questo obiettivo. Letteralmente,
anoressia significa “perdita
dell’appetito”, ma in realtà
questo sintomo non si presenta se non in una fase avanzata della malattia. Al contrario, chi ha questo
problema non perde affatto
l’appetito, ma impara a controllare drasticamente il
senso di fame, fino a raggiungere il digiuno. Si tratta dunque di adolescenti che
possiedono una straordinaria
“forza emotiva”, ovvero una
capacità di controllo su di sé
fuori dal comune.
L’anoressia si può verificare in un arco di età molto
ampio, ovvero tra i 10 e i 30
anni (nell’85% dei casi tra i
13 e i 20 anni), anche se si
sono osservati rari casi di
esordio precoce, intorno ai 78 anni. L’anoressia è più
comune tra le femmine: i
maschi affetti da anoressia
sono circa il 10%. La percentuale di adolescenti coinvolti in questa patologia
oscilla dallo 0,5% all’1% sul
totale. In Italia esiste una
certa differenza nella distribuzione tra le aree geografiche: mentre al nord e al centro l’anoressia tende a colpire
4 adolescenti su 100, al sud
tale percentuale si ferma al
2%.
Fra i sintomi fisici più evidenti si riscontrano: un’eccessiva perdita di peso (si
può parlare di forma clinica
della patologia quando la
perdita ponderale supera il
20% del peso totale); un calo
della temperatura corporea,
legato anche alla perdita
della massa grassa, nelle
ragazze, l’interruzione o la
non comparsa delle mestruazioni. E’importante, per parlare di anoressia in senso
patologico, e quindi per predisporre gli aiuti psicologici e clinici adeguati, che questi sintomi siano presenti
simultaneamente. E’ essenziale, infatti, che sia l’adolescente sia i suoi genitori
tengano ben presente la grande differenza che intercorre
tra dimagrimento e anoressia, per evitare di “medicalizzare” un semplice tentativo di dieta.
I disturbi psicologici connessi all’anoressia possono
essere, per l’ambiente circostante, molto meno evidenti ed allarmanti di quelli
biologici. Consistono infatti nel rifiuto di mantenere il
peso corporeo al di sopra del
minimo normale, nel timore
fobico di ingrassare, nel bisogno di esercitare un controllo ossessivo sul cibo e sul
corpo , in una nauseante sensazione di sazietà ogni qualvolta si ingerisce una sia pur
minima quantità di cibo. E’
interessante che questa sensazione non riguarda però la
manipolazione degli alimenti, tanto è vero che spesso le anoressiche sono buone
cuoche, e non si rifiutano di
stazionare in cucina.
Le persone anoressiche,
attraverso la privazione del
cibo, cercano di controllare
la realtà e, con l’esercizio di
un’ostinata autodisciplina,
di sviluppare un senso di
autonomia e di individualità.
Alcuni adolescenti, per
esempio, non accettando la
trasformazione del proprio
corpo e sentendosi brutte,
ritengono che dimagrendo
riusciranno a mantenere le
più rassicuranti
forme infantili,
acquisiranno un
aspetto “spirituale”
(spesso si riscontra
un atteggiamento
intriso di una forma
un po’ ombrosa di
misticismo), privo
di richiami ed evocazioni sessuali. Non si tratta affatto di persone apatiche: al contrario l’esercizio
fisico, per esempio il frequentare una palestra, trova
tra le anoressiche un grande
consenso, perché sottolinea
l’importanza strategica che il
proprio corpo rappresenta
per loro e per la loro identità
sociale.
Gli individui affetti da anoressia, quando assumono alimenti, anche se in misura
minima, vengono subito
assaliti da sensi di colpa per
aver ceduto alla tentazione,
tanto da indursi il vomito,
usare impropriamente lassativi e diuretici, ricorrere ad
estenuanti esercizi fisici per
bruciare le calorie assimilate. Nella mente delle persone anoressiche è presente
una lotta violenta e costante
con il cibo, che è al tempo
stesso desiderato e aborrito:
un conflitto tra anelito alla
perfezione e vissuto d’inadeguatezza.
In questo contesto l’eccessiva enfasi posta dalla società
contemporanea sulla
magrezza, considerata sinonimo di bellezza, e quindi di
successo, nonché sull’esercizio e sulla prestanza fisica,
può aver riscontri negativi
per le ragazze anoressiche,
che vi trovano giustificazione e stimoli per proseguire
nel loro comportamento
autolesionista.
Un ambiente familiare iperprotettivo, stressante e percepito come oppressivo sem-
bra avere un ruolo
importante per lo sviluppo
di questa patologia. Spesso
queste famiglie sono contraddistinte da un rigido sistema di controllo e da una incapacità comunicativa che non
consente il naturale emergere di differenze e disaccordi:
è proprio attraverso la negazione del cibo che i soggetti anoressici scelgono, quindi, di manifestare il loro
disaccordo e di sviluppare
la propria autonomia.
Rifiutare il cibo significa
essenzialmente rifiutarsi di
crescere, di ricevere affetto,
di confrontarsi con un
mondo adulto, in cui la
comunicazione affettiva
gioca un ruolo importante
quanto l’intelligenza e la bravura professionale, e di assumersi le responsabilità che la
vita impone; ma allo stesso
tempo è indice di un profondo bisogno di avere una centralità nell’ambiente familiare.
Ciò può spiegare come mai
le ragazze anoressiche tendano spesso al perfezionismo nello studio e nel lavoro e, pur avendo paura di
affrontare il mondo esterno,
si prefiggano obiettivi di vita
molto alti.
Silicati Cristina
Rossetti Marta
Fava Sara
3F L.S.P.P.
11
2008
Concorso letterario
“Le penne dell’Ippogrifo”
Giunto ormai alla quarta
edizione, quest’anno il concorso letterario “Le penne
dell’Ippogrifo”, finora riservato alla narrativa, si è
arricchito di una nuova
sezione dedicata alla poesia. I temi con cui i nostri
allievi si sono cimentati sono
stati per il 2008 “QualeAmore” per il miglior racconto e
“A me sì cara vieni, o sera”
per il miglior testo poetico.
Ad aggiudicarsi il primo
premio per la narrativa è
stato il racconto “Cuore d’avorio” di Sofia Bolognini,
della V C del Liceo Classico,
che verrà premiata con un
buono di 100 euro per l’acquisto di materiale scolastico offerto dalla MATT OFFICE 1 SUPERSTORE
di Jesi e con una targa della
CASSA DI RISPARMIO DI
FABRIANO E CUPRAMONTANA. Seconda si è
classificata
Chiara
Cesaretti, della V C, aggiudicandosi un buono della
Matt dello stesso tipo per
l’importo di 60 euro, e terza
Caterina Pentericci, della
II B che ha vinto un buono
di 40 euro.
Nella sezione Poesia, hanno
vinto I e II posto i componimenti di Filippo Pirani, II
C del Liceo classico, che
verrà premiato con un
buono per l’acquisto di libri
dell’importo di 100 euro,
offerto dalla LIBRERIA
INCONTRI di Jesi e con un
buono per l’acquisto di
dischi per 20 euro offerto
dal negozio TRANSYLVANIA, oltre che con una targa
offerta dalla CASSA DI
RISPARMIO DI FA-BRIANO E CUPRAMONTANA.
Terza classificata Caterina
Pentericci della II B, cui
verrà assegnata una targa
offerta dalla Carifac.
Ricordiamo inoltre che il
concorso per la migliore
copertina del nostro giornale “Disegna la copertina
12
2008
dell’Ippogrifo”, è stato vinto
da Federica Rotoloni, II C
del Liceo classico, cui è stata
decretata come premio, oltre
alla pubblicazione del suo
disegno come copertina di
questa edizione del giornale della scuola, anche la consegna di una targa commemorativa offerta dalla
Carifac.
Pubblichiamo qui il racconto e il componimento la
cui vittoria è stata decretata dal verdetto di una giuria composta da docenti e
studenti dei due licei, così
formata:
Docenti: prof. Domenico
Ciabò Cipriani, prof.ssa
Paola Giombini, prof.ssa
Patrizia Vichi, prof.ssa
Patricia Zampini. Studenti:
Maria Costanza Boldrini,
Anna Chiara Boschi.
Roberto Bramati, Francesca
Giuliani, Riccardo Giustini,
Sara Palmolella, Alessia
Rocchetti, Ilaria Serpentini,
Sara Trillini .
CUORE D’AVORIO
Il sole pallido gettava
un’ombra tra le foglie,
disegnando figure contorte e indecise sui tronchi
degli alberi ricoperti di
muschio, sulle mura possenti del castello cui
apparteneva quel giardino. Selvaggio l’odore dei
fiori che vi crescevano
indomati e fieri, tingeva
ogni cosa di fiabesco, di
fantastico. Rose v’erano,
e viole, e gelsomino, dai
petali leggeri e toni soffusi, che racchiudevan ciascuno una bellezza ora trasgressiva, ora delicata o
timida.
E le rose superbe divoravano le erbacce che s’arrampicavano sulle mura,
decise ad eliminarle, con la
convinzione di esserne
migliori. E i rami si rincorrevano e s’intrecciavano, e si sfidavano, e si combattevano l’un l’altro per
il semplice desiderio di
graffiare per primi il cielo.
Una musica aleggiava,
leggera come il vento,
posandosi sui rami, accarezzando i fiori, sfiorando
il terreno umido. Era un
musica così bella che pure
le foglie abbandonate per
sempre a terra sembravano gioirne, e rianimarsi, e
riprender il colore perduto. E protetta dai cespugli
e dai fiori che l’avevano
cresciuta sedeva una bambina, bellissima, quasi
come le note sorgenti dal
violino che era intenta a
suonare. Era completamente assorta dalla musica, con le palpebre socchiuse, e sembrava non
vedere né sentire nient’altro. I suoi capelli di bronzo le scivolavano lungo le
spalle, avvolte in un lungo
vestito bianco in stoffa preziosa. Sembrava che alla
meraviglia immortale di
quella musica donasse l’intera anima. La fiamma
della sua giovinezza e del
suo talento ardeva feroce
e pareva sprigionarsi in
ogni singola nota.
E accanto a lei stava in
piedi, fiera e vigorosa, la
statua d’avorio di un giovane. Era
una statua
antica, che
pure conservava la
sua straordinaria
bellezza.
L’artefice
sembrava
aver imprigionato un
dio, che
dibattendosi tra la
fredda roccia preziosa,
ne
aveva forgiato le fattezze e la
perfezione.
Così stavano, la bambina
e la statua d’avorio, in un
trionfo di musica, passione e bellezza, complici di
un gioco di solitudine, di
un gioco mortale.
E ogni giorno la bambina
tornava in quel giardino,
vigilata dallo sguardo
innamorato della statua,
che pareva animarsi e
prender vita al suono del
suo violino. Ogni giorno
s’udiva la sua musica, sia
che ci fosse la pioggia a
gettare sul giardino del
castello un manto argentato, sia che ci fosse il sole.
Del resto, nessuno badava
alla piccola, confinata
senza alcun riguardo in
uno dei tanti angoli bui di
quel castello d’inferno,
dove i corridoi si susseguivano ai corridoi, le
scale ad altre scale. Dove
i servitori tramavano alle
spalle del padrone, ed
erano forse stati responsabili della morte della
moglie. Quel castello dove
il padrone stava confinato nella sua stanza, senza
fidarsi di nessuno, senza
più un interesse, senza più
un’anima. L’anima che se
n’era andata con la moglie,
la donna che tanto aveva
amato e che tanto amava.
E presto la bambina
divenne una ragazza, e i
servitori, se pure ne odiavano il padre, non potevano non amarla. I suoi
occhi dì cristallo e il suo
volto d’angelo erano un
idillio di bellezza, e tutti
ammiravano di lei la voce
melodiosa, la purezza, la
timidezza, la modestia,
l’intelligenza. Davanti a
lei nessuno riusciva a serbar odio o rancore.
Sembrava estranea al
mondo fatto d’intrighi, di
violenza, di bugie.
Tuttavia, nessuno, neppure il padre, era a conoscenza delle grandi doti
della giovane, compresa
la sua passione per il violino. Ella continuava a
suonare in segreto, nel suo
giardino, accanto alla statua del ragazzo, che con
lei aveva vissuto la sua
infanzia, che con lei aveva
gioito dei progressi della
sua musica.
Lui non si era mai stancato di ascoltarla, né di
guardarla con i suoi occhi
d’avorio, né di amarla,
profondamente e in silenzio. E spesso lei si era
ritrovata con il cuore in
gola a sfiorare il suo volto
freddo e immobile, persa
nella bellezza divina e statuaria del giovane d’avorio.
I mesi passarono, rapidi
come le foglie che rincorrono il vento, e il padrone
del castello, che già da
anni progettava il matrimonio della figlia, prese
la decisione di darla in
sposa a un duca non troppo lontano dal loro piccolo paese. Questi era un giovane uomo di appena
trent’anni, gradevole all’aspetto e famoso per intelligenza e astuzia nelle faccende politiche e militari.
Non ci fu tempo per discutere. Non ci fu tempo per
una lacrima.
Le tenebre gettarono
un’ombra sugli occhi di lei,
sul suo cuore strappato. E
fu silenzio.
Silenzio, sulle sue labbra.
Silenzio, lungo le corde del
violino.
Silenzio, sul giardino di
cristallo.
Silenzio.
Eterno.
Ella osservò i servi cercare disperati in ogni angolo del castello, nelle fauci
di quelle stanze buie e
remote dove era solita
nascondersi da bambina,
dove avrebbe voluto che
qualcuno la trovasse, ma
dove nessuno mai aveva
avuto intenzione di farlo.
La cercarono nel giardino. La cercarono in paese.
Li osservò piangere.
Li osservò trovare quella
stanza, trovarla a terra.
Troppo tardi, li sentì dire,
troppo tardi.
Osservò suo padre annullare il matrimonio, annullare ogni cosa.
È stata colpa dei servi. È
stata colpa dei servi. Mi
hanno portato via anche
l’ultima cosa che amavo.
Osservò le tragedie che
d’orrore tinsero quelle
mura di pietra. Osservò
gli anni passare. Osservò
la morte, le carestie, le epidemie, le guerre per una
religione, per un’idea, per
il denaro. Osservò il tempo
divorare le mura del
castello, che si arrendevano al trascorrere degli
anni, e stanche e vecchie
s’abbandonavano a terra.
Tuttavia, osservò la bellezza trionfante della statua d’avorio, luminosa,
eterna, invincibile. Fiera
s’ergeva in quel giardino e
in quel castello d’inferno,
e ad essa ogni forza e ogni
bellezza si inchinava e si
sottometteva. E se pure
d’intorno su tutto o molto
regnavano le tenebre,
qualcosa, se pur insignificante, poteva risplendere
del riflesso di quella luce.
Così qualche rosa superba
rinunciò alla lotta con le
erbacce poiché in fondo,
da esse si scoprì non troppo diversa. Qualche ramo
s’accorse che dopotutto
non v’era bisogno di sfidarsi, poiché tutti fra loro,
e senza distinzione, avevano la chiave per la loro
parte di cielo.
Così stavano, la ragazza e
la statua d’avorio, in un
trionfo di musica, passione e bellezza, complici di
un gioco d’amore, che a
ben vedere, mortale non
è.
Sofia Bolognini
V C L.C.
SERA
Febo Apollo l’astro porta
col suo carro all’orizzonte,
con quest’ora sembra sorta
la minaccia di Caronte.
Ma col legno non fende il nocchero
dell’Acheronte l’acque eterne,
non avviene per mistero
quel che ad Atropo concerne.
E Morfeo le lunghe braccia
stende pure sui mortali,
sol Cupido il sonno scaccia
e colpisce coi suoi strali.
E così l’amore sorge
come fa al mattino Aurora
e dal ciel Selene scorge
come l’uomo lo assapora.
Giunge l’ora di sognar e sperare
adagiato tra i rami di un melo
osservando astri e stelle brillare
nel liquido oscuro del cielo.
Or del giorno il tempo è perso,
solo quiete, tutto tace
con quest’ora l’universo
ha trovato la sua pace.
Filippo Pirani
II C L.C.
13
2008
LEGGERE I CLASSICI DELLA FILOSOFIA
“Cartesio e il Discorso sul Metodo”
uesto progetto nasce dalla
collaborazione tra la
Società Filosofica Italiana,
Q
l’ANSAS (ex IRRE Marche), il MIUR
e il Dipartimento di Filosofia
dell’Università di Macerata. La finalità è quella di promuovere la lettura
diretta dei classici del pensiero filosofico in collaborazione con docenti
universitari. Quella della lettura diretta del testo filosofico avrebbe dovuto
essere la regola a partire dalla riforma Gentile, ma purtroppo è diventata l’eccezione. Il progetto vede coinvolte la II B e la II C del Liceo classico.
Durante lo svolgimento del progetto
la lettura viene guidata dai docenti
d’aula, Proff. Stefano Sassaroli e
Federico Lecchi, e da docenti
dell’Università di Macerata, il Prof.
Filippo Mignini, storico della filosofia moderna, e il Prof. Marco Buzzoni,
filosofo della scienza. Gli alunni sono
tenuti a partecipare direttamente in
prima persona, con le proprie riflessioni e con i propri lavori al progetto,
e sono guidati dai loro docenti d’aula e dalla Prof.ssa Bianca Maria
Ventura, ricercatrice ANSAS e docente alla Facoltà di Scienze della
Formazione dell’Università di Urbino.
Questi incontri con i docenti universitari si svolgono presso l’Aula Magna
del Liceo Classico. Il progetto si concluderà con la visita degli alunni al
Dipartimento di Filosofia
dell’Università di Macerata dove per
partecipare alla lectio magistralis del
Prof. Mignini e del Prof. Buzzoni organizzata sulla base dei problemi emersi nel corso delle discussioni e degli
approfondimenti.
Seguono alcune considerazioni sul
significato della lettura di un’opera
filosofica originale, che, in estrema
sintesi, vorrei qui riproporre.
La lettura di un’opera filosofica originale, che va ben oltre la mediazione e le
pretese funzioni vicarie troppo spesso
lasciate dai docenti in appalto alla
manualistica e alle selezioni antologiche
spesso discutibili, consente all’alunno –
ovviamente per mezzo della necessaria
opera di stimolo culturale, di aiuto “tecnico” e mediazione critica del suo docente di classe - di conoscere direttamente
il contesto problematico e le tesi del
filosofo, di sperimentare la forza e la coerenza logica delle sue argomentazioni,
ed anche di constatare in prima perso14
2008
na eventuali aporie ed errori. La lettura
diretta del testo filosofico, insomma,
rende possibile una serie di operazioni
didattiche che normalmente non sono
possibili mediante il solo ausilio del
manuale di storia della filosofia usualmente adottato. Basti pensare, in breve,
alla quantità e qualità dei problemi che
possono essere estrapolati dal testo e
infine formalmente discussi tra docente e alunni e anche tra alunni, infine
senza la mediazione dello stesso docente. Rispetto al solo uso del manuale di
Storia della Filosofia, il cui uso sia chiaro deve essere mantenuto come primo
approccio alle tematiche filosofiche in
una prospettiva storica utile ai principianti della filosofia quali sono i nostri
alunni – anche per evitare il grave rischio
culturale che attualmente corrono altre
discipline e la loro manualistica scolastica spesso del tutto priva di prospettiva storica – la lettura e il commento del
testo filosofico in classe presenta una ricchezza incomparabile. Basti pensare ai
tanti discorsi manualistici che sono stati
fatti per presentare la natura e le origini del pensiero filosofico, un momento didatticamente decisivo per presentare
ai principianti la materia che si apprestano a studiare, che usualmente oscillano tra la pura accademia e i discorsi
di scarso interesse e anche privi di senso
per il non addetto ai lavori. Per contro
iniziare gli alunni alla filosofia leggendo loro il primo libro della Metafisica di
Aristotele, così immediato, forte e diretto nel suo linguaggio e nelle sue tematiche, è un’esperienza che deve essere
assolutamente fatta, e che per esperienza diretta, devo affermare, affascina e
interessa gli alunni. Oppure invece dei
tanti discorsi manualistici sui concetti di
spazio e di tempo, spesso insignificanti, a proposito della filosofia di Kant, si
dovrebbe provare a leggere e commentare in classe tutte le pagine dell’Estetica
trascendentale – che è impresa fattibile
- della Critica della ragion pura, che
mostrano con evidenza come quelle problematiche – e ciò è spesso ignorato –
scaturiscano dal dibattito fisico-cosmologico, metamatematico e gnoseologico,
cioè dall’indagine scientifica concreta
nell’età della nuova fisica matematica
che poneva nuovi affascinanti problemi
sulla natura del cosmo e sul posto in
esso occupato dall’uomo. E quei discorsi di Kant ci riportano direttamente alle
questioni epistemologiche che riguar-
dano la fisica contemporanea, cioè la
relatività e i quanti. Il guadagno didattico più importante, che si può ottenere
dalla lettura del testo, è sicuramente
quello che riguarda la maturazione delle
competenze dei nostri alunni, obiettivo
che evidentemente non è tanto facilmente conseguibile se ci si attiene alle
ricette preconfezionate, spesso con
domande e risposte a mo’ di libretto di
istruzioni o manuale da scuola guida, del
manuale in adozione. Piuttosto il vero
sapere e quindi le vere competenze
vanno costruite nel rapporto tra il docente e l’alunno; un rapporto culturale che
può essere utilmente coltivato attraverso la mediazione del classico del pensiero, la cui lettura, contestualizzazione,
interpretazione concettuale, estrapolazione dei problemi e critica razionale
materializzano appunto questo obiettivo primario.
Certo, si potrà dire che cosa c’è di nuovo
sotto il sole? Da un certo punto di vista,
in effetti, nulla! Quella della lettura diretta del testo è una tradizione purtroppo
andata in gran parte perduta nei tempi
odierni. La lettura e il commento del
testo filosofico era, come è noto, la parte
fondamentale del metodo didattico della
cosiddetta scolastica: la lectio, seguita poi
dalla quaestio e dalla disputatio, dei
filosofi nelle università del Medioevo.
Un metodo tutt’altro che barbarico, ripetitivo e privo di originalità, come poi la
successiva tradizione umanistica vorrà
far credere. Questo metodo, lungi dall’essere “scolastico” nel senso deteriore che usualmente viene attribuito a questo termine, cioè fondato sul puro
verbalismo e su ragionamenti circolari
privi di contenuto, stimolò la ricerca e
lo spirito critico, preparando il terreno
per una nuova immagine del mondo,
quella che poi sostituì quella degli antichi filosofi greci – ma solamente dopo
che fu riscoperto il valore del loro metodo e la qualità dello loro indagini - con
la nuova filosofia e la nuova scienza
che sarà sviluppata nei secoli successivi; lo spirito e spesso anche i contenuti
di questo nuovo sapere sono spesso anticipati nelle parafrasi, nei commentari e
nei quodlibeta dei maestri del pensiero
medievale. La lectio, infatti, non consiste nella mera lettura e commento del
testo al fine di precisarne la littera, cioè
la struttura grammaticale e il significato letterale delle frasi, ma nello specificare il sensus del discorso filosofico,
cioè il suo significato logico e il suo
contenuto scientifico, al fine di individuare delle quaestiones, cioè quei problemi i cui tentativi di soluzione rappresentano la motivazione di fondo del
pensiero critico e razionale. La filosofia, infatti, ricordava Popper qualche
tempo fa, comincia con problemi e finisce con problemi.
Che cosa dunque è cambiato? È noto che
il metodo scolastico sia stato messo a
punto in una realtà storica e culturale
caratterizzata dalla povertà economica
e dalla cronica mancanza di libri, cioè
dei supporti materiali dove ricercare il
sapere tramandato dal passato, attraverso i quali era resa accessibile la tradizione culturale più profonda e significativa. Oggi viviamo in una realtà che
da questo punto di vista è radicalmente
mutata. Viviamo in una società opulenta e i libri di sicuro non mancano, forse
ce ne sono anche troppi. Ma i nostri
alunni non li leggono più, forse presi dal
divertissement, forse dalla semplice mancanza di interesse per i problemi filosofici e scientifici. Come rimediare, dunque? Anzitutto, perché coinvolgerli nella
lettura? E poi, come è possibile farlo, con
quali motivazioni e con quali strumenti? Quale senso dare alla lettura, e in
particolare alla lettura dei classici del
pensiero?
Per quanto distratti dalla società dei consumi, i nostri alunni – come tutti gli
uomini – sono dotati dalla natura di un
senso di curiosità e di meraviglia rispetto al mondo in cui vivono, su cui si può
intervenire con successo, proprio perché
ancora spontaneo e quasi incorrotto dai
bisogni dell’esistenza quotidiana. Si tratta di coltivare questa disposizione naturale guidandoli verso le cose che contano
davvero, verso la comprensione del
senso della vita, verso l’individuazione
dei problemi fondamentali dell’esistenza e del loro essere in un cosmo misterioso, se vogliamo anche terribile ma
nel contempo meraviglioso e affascinante. Questa esperienza può essere fatta
anche attraverso l’incontro col pensiero dei grandi filosofi della tradizione
occidentale, che proprio da questo senso
di meraviglia hanno cominciato il loro
percorso verso quella mèta, fatta di riflessioni e spiegazioni razionali che costituiscono la vera natura dell’impresa filosofica, che è il sapere o sapienza. Merita
allora rileggere, dato l’argomento, il
celebre luogo del primo libro della
Metafisica di Aristotele dove è trattato
il tema della meraviglia e delle origini
della filosofia1 :
“Gli uomini hanno cominciato a filosofare, ora come in origine, a causa della
meraviglia [o stupore, tháuma] : mentre da principio restavano meravigliati
di fronte alle difficoltà più semplici, in
seguito, progredendo a poco a poco,
giunsero a porsi problemi sempre maggiori: per esempio i problemi riguardanti
i fenomeni della luna e quelli del sole e
degli astri, o i problemi riguardanti la
generazione dell’intero universo. Ora,
chi prova un senso di dubbio e di meraviglia riconosce di non sapere, ed è per
questo che anche colui che ama il mito
è, in certo qual modo, filosofo: il mito,
infatti, è costituito da un insieme di cose
che destano meraviglia.”
Ci sono però alcune condizioni necessarie che rendono possibile questo percorso intellettuale dei nostri giovani
alunni fianco a fianco dei grandi filosofi: che cioè questo loro incontro con la
tradizione non sia vissuto come un
momento di pura erudizione accademica e storiografica oppure di semplice
intrattenimento culturale. Piuttosto bisogna far sì che questo incontro fornisca
loro l’occasione per cogliere quelle questioni fondamentali dell’essere nel
mondo e riflettere intorno ad esso; questioni che per la loro stessa natura sono
anche oggi dibattute, per quanto a volte
sulla base di nuovi saperi e nuove prospettive rispetto alla tradizione. E su
questa base costruire poi delle competenze specifiche.
Qualora siano soddisfatte queste condizioni, gli alunni potranno anche acquisire dall’incontro col testo del filosofo
quelle competenze che costituiranno poi
gli indispensabili strumenti, non solo
strettamente culturali, per orientarsi nella
vita. Competenze come l’apprendere a
pensare criticamente la realtà e a risolvere problemi, e non già a seguire alla
lettera le istruzioni confezionate da altri,
come ci insegnava Kant nelle sua celebre risposta alla domanda Che cos’è
l’Illuminismo? Se è così, allora la lettura, il commento e la discussione del
testo filosofico rappresentano una vecchia, ma rivoluzionaria modalità didattica che si oppone all’ordine attualmente
esistente nella scuola italiana e alle mode
didattiche vigenti, denunciate con grande efficacia da Lucio Russo2:
“Le funzioni tradizionali degli insegnanti
tendono a essere svuotate da tecnologie
didattiche centralizzate e impersonali,
grazie a lezioni televisive, videocassette, “ipertesti interattivi” e altri prodot-
ti “multimediali”. Le attuali tecnologie, permettendo sia una percezione più
ricca e piacevole di “fatti”, sia una
maggiore autorevolezza nell’impartire
insegnamenti prescrittivi, sono in effetti insuperabili nella comunicazione unidirezionale e acritica caratteristica della
nuova scuola per consumatori […] Alla
nuova scuola non occorrono esperti di
fisica, letteratura, filosofia o storia dell’arte. Una volta completata la trasformazione, basteranno dei generici “operatori scolastici”, con una preparazione
essenzialmente socio-pedagogica, che
svolgano la funzione di intrattenitori e
animatori, accogliendo gli studenti nelle
strutture scolastiche, stimolandone la
socializzazione e accompagnandoli e
guidandoli nella fruizione dei media.”
Ecco che, contro questa tendenza attuale della scuola, contro questo avvelenamento della tradizione culturale
dell’Occidente la lettura del classico di
filosofia è una potente antitossina. È
mediante questa lettura che si possono
dibattere veri contenuti, contenuti forti,
ed apprendere ad argomentare pro e contro, criticare, indagare, dimostrare;
insomma mettere a punto quelle competenze necessarie per costruire il sapere scientifico.
Da qui la scelta di un classico come il
Discorso sul metodo di Cartesio, come
testo da leggere e commentare in classe. Scelta motivata dal fatto che questo
testo è sufficientemente ampio, ma non
troppo vasto e quindi può essere affrontato in un tempo ragionevole, compatibile con l’orario curricolare e l’attuazione della programmazione di classe.
Inoltre, esso è sufficientemente chiaro,
non presenta cioè insormontabili difficoltà di interpretazione linguistica, tali
da dar luogo a interminabili dispute esegetiche ed ermeneutiche, che sarebbero svianti e fuori luogo per i nostri scopi.
Che, per essere chiari, sarebbero poco
o per nulla interessanti agli occhi dei
nostri alunni. In gran parte delle pagine
il Discorso di Cartesio è autobiografico e discorsivo, e le questioni più importanti sono concentrate in alcuni luoghi,
concettualmente molto densi, ma di relativamente facile comprensione.
Nondimeno le varie questioni affrontate da Cartesio, ad esempio il problema
del metodo scientifico e il problema dell’anima e del corpo, possono effettivamente andare a costituire quell’orizzonte problematico che suscita curiosità
e meraviglia negli alunni, e si prestano
anche ad essere discusse alla luce dell’attuale dibattito filosofico e scientifico. Quest’ultima motivazione mi sembra molto importante. C’è oggi una
malaugurata tendenza a tenere distinte
le questioni scientifiche da quelle filosofiche. Anzi, influenti filosofi del nostro
tempo, che hanno purtroppo un grosso
seguito sia nei media che nelle accademie, hanno insegnato che quando nasce
la scienza sparisce il pensiero; che la
scienza non pensa. In realtà è comune
la radice dei problemi della filosofia e
della scienza, tale che l’una non può
essere senza l’altra. Pochi ricordano, ad
esempio, che lo stesso Discorso sul
metodo di Cartesio è nato, per così dire,
dalla pratica scientifica; esso fu concepito in origine come un’introduzione ad
un trattato di geometria analitica, a un
trattato di ottica geometrica ed a un trattato di meteorologia, dove ci si occupa
ad esempio della natura del sale marino e della formazione della rugiada,
come parte di un vasto progetto di riorganizzazione del sapere scientifico; quel
sapere dei moderni che nei piani di
Cartesio avrebbe dovuto sostituire il
sapere degli antichi. Ora la lettura del
testo cartesiano ci consente di affrontare questo nodo strutturale del rapporto
scienza-filosofia e di stabilire dei contatti con nuove discipline scientifiche
come, ad esempio, l’etologia, la scienza cognitiva, la neurofisiologia, la linguistica, la scienza dell’intelligenza artificiale, che potranno eventualmente
andare a costituire il futuro approccio di
studio, accademico e professionale, dei
nostri alunni. Non tutti i nostri alunni
potranno diventare “professionalmente” dei filosofi, ma nell’ambito delle
scienze e delle discipline che saranno
oggetto dei loro futuri studi e professioni
sarebbe, invero, molto utile portarsi dietro gli strumenti, o competenze, del filosofo, poiché in ogni caso l’aver affrontato tali questioni dovrebbe promuovere
in loro quelle abilità necessarie alla pratica della dimostrazione razionale e
all’indagine scientifica, al quel fare scienza e a quel sapere critico che dovrebbe
costituire il loro bagaglio comune nella
vita e nel sapere. Il valore aggiunto del
progetto riguarda, infine, un più intenso rapporto tra gli oggetti culturali proposti in sede didattica e i problemi esistenziali degli alunni, dunque la
dilatazione della lezione del passato dall’apprendimento scolastico all’apprendimento per la vita.
1) Aristotele, Metafisica (a cura di G.
Reale), Rusconi, Milano 1993, p. 11.
2) Segmenti e bastoncini. Dove sta
andando la scuola?, Feltrinelli, Milano,
nuova ed. 2005, p. 23.
Stefano Sassaroli
PROGETTO CARTESIO
CALENDARIO DELLE LEZIONI DEI
DOCENTI DELL’UNIVERSITA’
DI MACERATA E URBINO
Prof. Filippo MIGNINI - 15 febbraio 2008 ore 11,00-13,00
presso l’ AULA MAGNA LICEO CLASSICO JESI
Prof. Marco BUZZONI - 5 marzo 2008 ore 11,00-13,00
AULA MAGNA LICEO CLASSICO JESI
Prof. Filippo MIGNINI - 7 marzo 2008 ore 11,00-13,00
AULA MAGNA LICEO CLASSICO JESI
Prof. Bianca Maria VENTURA - 14 marzo 2008 ore 11,00-13,00
AULA MAGNA LICEO CLASSICO JESI
Prof. Marco BUZZONI - 2 aprile 2008 ore 11,00-13,00
AULA MAGNA LICEO CLASSICO JESI
Prof. Bianca Maria VENTURA - 18 aprile 2008 ore 11,00-13,00
AULA MAGNA LICEO CLASSICO JESI
Prof. Filippo MIGNINI e Prof. Marco BUZZONI
7 maggio 2008 ore 10,00-13,00
presso il DIPARTIMENTO DI FILOSOFIA E
SCIENZE UMANE DELL’ UNIVERSITA’ DI MACERATA
15
2008
Alberto Colini: il futurista maiolatese
C
ondannato dalla sua
famiglia, a causa dei suoi
eccessi, alla “damnatio
memoriae”, Alberto Colini,
indicato anche con lo pseudonimo di Fausto Contadino, fu
importante scrittore e visse pienamente la sua età a contatto
con la cultura decadente-futurista che segnò il primo novecento italiano.
Illustriamo brevemente la storia
della sua famiglia, i Colini.
Alberto era l’erede di una delle
famiglie majolatesi più antiche,
nobiltà locale, importante anche
dal punto di vista economico;
infatti, erano proprietari di
numerosi immobili e di vasti
territori agricoli collocati in vari
centri della Vallesina.
Pur essendo una famiglia possidente e legata all’oligarchia
locale, i Colini si distinsero per
apertura mentale e per una certa
liberalità. Importanti, fra i
Colini, sono state alcune figure:
Ruggero, nonno di Alberto,
introdusse il calmiere dei cereali a vantaggio della popolazione indigente; Enrico, figlio di
Ruggero e padre di Alberto, diffuse le idee socialiste e prospettò
nelle Istituzioni locali una prima
idea di pensione di vecchiaia
per i salariati ed infine
Francesco, fratello di Enrico, fu
un noto storico locale e partecipò
da Garibaldino alle varie campagne fino alla proclamazione di
Firenze come, provvisoria, capitale italiana. Anche di Francesco,
del quale è disponibile una ricca
pubblicistica storica presso la
Planettiana, non esistono studi
biografici, se non una tesi di laurea nella quale si immaginava
come luogo di nascita Jesi, invece di Majolati.
Padre di Alberto fu lo studente
universitario Enrico Colini che
intraprese una relazione con la
giovane domestica Maria
Fermezza. Alberto, dunque, nacque ad Amelia il 3 Marzo del
1881, per un errore giovanile
dei genitori.
Maria Teresa Colini, figlia di
Alberto, morta a Budapest nel
secolo scorso, probabilmente
emigrata per la condivisione del
progetto di socialismo reale, così
16
2008
illustrava la vicenda paterna:
"La madre lo depose appena
nato nella ruota di un brefotrofio e ritornò a Roma alla ricerca dello studente dove facendo
la domestica presso una famiglia
romana lo aveva conosciuto. Lo
ritrovò, si fece sposare e poi
insegnare a leggere e a scrivere. Dopo la nascita di due bambine, Amelia e Matilde, e conoscendo le intenzioni
testamentarie dello zio
Giuseppe, cercarono il bambino
che trovarono affidato ad una
coppia di contadini senza figli.
Infatti, nel testamento lo zio
Giuseppe lasciava l'usufrutto
delle sue proprietà al primo
figlio, ipotetico, di Enrico, e la
nuda proprietà al più ipotetico
figlio del primo...".
Quindi grazie al testamento vincolante del Notaio Giuseppe
Colini, Alberto ebbe la possibilità di essere reintegrato nella
famiglia ed avere dunque modo
di studiare e formarsi.
Il 27 Maggio 1914, a 55 anni,
moriva l'avvocato socialista
Enrico, padre di Alberto, che
aveva trasportato i suoi ideali
politici, sia nei rapporti con i
suoi numerosi contadini, sia nell'amministrazione locale.
Alberto, che probabilmente in
occasione del servizio militare,
aveva già conosciuto la sua
vicenda, reagì alla morte del
genitore iniziando la pubblicazione dei primi testi e avviando
una condotta caratterizzata dal
lusso più sfrenato, dilapidando
il patrimonio familiare.
I testi, non solo in lingua italiana, ma scritti anche in francese
e spagnolo, furono pubblicati
con i cospicui fondi della famiglia Colini.
Già nel primo libro edito, "La
Paura", un saggio interventista,
lo scrittore adottò lo pseudonimo "Fausto Contadino". In questo stesso anno pubblicò
"Mangerai. Libro pieno di
mare", a seguire "La strada" e "I
Calzolari", testi dalla forte caratterizzazione Futuristica.
Sorretto dal sostanzioso patrimonio familiare si trasferì dove
il dibattito letterario era più vivo.
Ecco quindi il soggiorno a
Firenze, Fiesole, Settignano, gli
incontri con Umberto Boccioni
e Gino Severini con i quali, dopo
il servizio militare, si recò a
Parigi.
Nel 1924, con dedica ad
Umberto Boccioni, Fausto
Contadino pubblicò un testo di
367 pagine di poesie intitolato
"Virgia Evangelica. Spirito della
follia. Poemi e Canti di
Passione".
Attratto dalla teosofia si mise
in contatto per corrispondenza
con Romain Rolland che, conoscendo un poco la lingua italiana, l'apprezzava molto come
poeta: "le Dieu de la poesie est
en vous. Chantez!". In realtà nel
1925 pubblicava come unico
traduttore autorizzato "Romain
Rolland: introduzione alla
Young India" dove trattava dei
temi della non violenza di
Gandhi.
Nel 1931 uscì il poderoso e fantastico romanzo "Mangerai,
Principe della Speranza", una
settimana dopo la polizia lo
sequestrò, ma non abbastanza
in fretta da impedire una recensione favorevole da parte di
Giovanni Papini che con il
Colini aveva litigato a Firenze,
fino ad essere giunti alle mani,
dopo la pubblicazione della
"Vita di Cristo".
Pur possedendo una quarantina
di titoli tra drammi, tragedie,
romanzi, poesie, teorie filosofiche, in realtà il patrimonio letterario di Alberto Colini, che ci
è stato trasmesso, è ridotto ad
una manciata di titoli.
La "damnatio memoriae" che
ha interessato l'opera e il personaggio è stata provocata da una
reazione ai suoi eccessi. Colini
potrebbe essere definito un
uomo dannunziano, un esteta;
egli curava qualsiasi particolare della sua vita, dall’abbigliamento costituito da abiti eleganti e lunghi guanti bianchi,
ad ogni altro dettaglio della sua
immagine; usava, infatti, circondarsi di oggetti lussuosi,
grandi e magnifiche automobili e perfino appariscenti cani di
grande taglia che esibiva come
pericolosi accessori.
I pochi interventi a difesa del
patrimonio majolatese e della
sua cultura, del tutto disinteressati, furono utilizzati contro di
lui, per azioni di repressione a
suo danno, condotte dalle autorità di governo o di polizia.
Confinato politico a Ventotene
nel 1942, sembrava interessarsi solo della sua condizione,
chiedendo continuamente ai
familiari cibo, saponi, vestiti e
scarpe eleganti, dimenticandosi che in quel periodo anche i ricchi avevano difficoltà a procurarsi il necessario.
Non appena liberato dal
Confino, Alberto Colini riprese
la sua produzione letteraria, definita, in quel periodo, "arte plurimonista" pubblicando nel
1944, con prefazione di
Benedetto Croce, il testo "Il
pupazzo macabro o Narciso".
Dopo una vita vissuta alla ricerca di continue esperienze, dopo
aver dilapidato in pochi anni un
patrimonio secolare, dopo aver
tentato di far valere la sua arte,
il 28 febbraio 1953, moriva a
Roma lasciando ai suoi concittadini solo i ricordi di eccessi,
stravaganze e divertimenti, non
certo la sua produzione letteraria, che attende ancora di essere letta, ordinata e studiata criticamente.
Sara Palmolella
II A L.C.
ERAN TRECENTO, eran giovani e forti...
T
ra i tanti film sulla storia antica che ultimamente Hollywood ci propina con
generosità, l’ultimo nato è “300” di Zack Snyder, eroico fumettone di argomento ellenico che ripropone con enfasi le gesta di Leonida e i suoi nel corso della
seconda guerra persiana, con Gerard Butler nei panni (si fa per dire) del valoroso condottiero spartano. Non essendoci sottratti in passato alla coraggiosa visione di “Troy”,
non potevamo certo arretrare di fronte alla prova delle Termopili, considerato anche il
fatto che il film ha avuto un grande successo di pubblico. E di nuovo non ci siamo potuti esimere, a visione compiuta, dall’esprimere alcune riflessioni, che forse non appariranno fuori posto sul giornalino di un liceo classico.
“300”, nel suo genere - cioè la riproposizione cinematografica di un fumetto (l’opera
omonima di Frank Miller del 1998) - può anche dirsi un film a suo modo riuscito, per
chi non abbia problemi ad accettare che la storia venga ripensata e filtrata attraverso
una lettura fumettistica. Ha effetti volutamente antirealistici e pittorici, un ritmo scandito per quadri successivi, una voce narrante da albo eroico, personaggi, atmosfere e
dinamismo di forte impatto visivo. Molto bello, per esempio, il rosso dei mantelli dei
trecento spartiati di Leonida, che li distinguono da tutti gli altri e hanno realmente il
potere di circonfondere di un’aura eroica i protagonisti. Bellissimi i colori desaturati e
gli effetti di suono, belle le musiche. Originalissime molte soluzioni visive, per non parlare dei fisici di Leonida e company che indubbiamente sono un gran bel vedere.
Insomma, non c’è da stupirsi che, alla sua uscita, il film sia piaciuto a molti e abbia totalizzato incassi ragguardevoli al botteghino. È comprensibile, perché “300” è un lavoro
ben confezionato e che rispetta gli obiettivi che si era prefisso.
A noi non è piaciuto granché, però, per due ragioni. La prima è legata al gusto personale di chi scrive, e quindi è opinabile, e cioè che non è un film realistico. Opinabile,
lo si vede bene, perché fare un film realistico non è mai stato nelle intenzioni degli autori, che si sono scrupolosamente studiati gli albi a fumetti di Frank Miller e non i libri di
storia. La cosa è del resto evidente a colpo d’occhio e immediatamente percepibile anche
solo osservando la tenuta da combattimento degli Spartani, che per esigenze d’immagine fanno a meno dell’armatura d’ordinanza e combattono in costume da bagno. Si capisce a prima vista, insomma, che si avrà a che fare con una ricostruzione alquanto disinvolta dei fatti.
Ora, una scelta del genere, per quanto comprensibile, non ci pare troppo legittima, perché si ha pur sempre a che fare con un fatto storico, per quanto antico, e crea una discreta perplessità la nonchalance con cui il cinema, oggi sempre più, s’impadronisce di storie reali e tradizioni antichissime e le rimescola come le pare e piace. Se uno vuole fare
un fantasy ci sono racconti a bizzeffe cui ispirarsi, senza contare che si può benissimo
inventare o ambientare la vicenda su Marte e nessuno ci troverebbe niente da ridire. Ma
passar sopra deliberatamente a ogni verosimiglianza senza per lo meno porsi il problema di un minimo d’informazione preliminare è cosa piuttosto seccante. Bastava peraltro che gli autori si rileggessero il libro di storia delle medie: poi sarebbero stati padroni di fare quel che volevano, ma almeno lo avrebbero fatto coscientemente. Qui invece
è chiarissima un’ignoranza non solo totale delle cose narrate, ma deliberata e contenta
di sé, e questo è meno scusabile.
Ma ripetiamo, qui si parte da un presupposto opinabile, perché per noi un film del genere avrebbe dovuto essere realistico, e invece l’intenzione degli autori era esattamente
opposta. Pertanto criticare “300” dal punto di vista storico sarebbe ridicolo quanto cercare gli archetipi mitici di Topolino.
Dunque, l’impressione ricavata da questa visione all’uscita del cinema è stata la seguente: realizzazione graficamente affascinante, contenuti zero. Anzi, meno uno, perché il
rischio aggiunto di un’operazione simile è dare una visione distorta delle cose, e che gli
spettatori non al corrente si facciano un’idea dei fatti veri basandosi su una rappresentazione inventata.
La seconda ragione è più profonda. Perché, a vederlo così, questo film dà un’idea non
solo degli Spartani, ma dell’eroismo in genere, che pare totalmente campata in aria, e
che può essere benissimo riassunta nell’impagabile conclusione di un’amica che raccontava il film, e cioè che: “Leonida e i suoi muoiono tutti, ma con molta gioia.”
Insomma, in questo film i nostri eroi non vedono l’ora di farsi sopprimere, e anzi trovano la cosa assai divertente, e sembra non desiderino altro dalla vita che porvi fine,
cosa in cui sono molto cortesemente, sebbene non senza difficoltà, accontentati da
Serse e i suoi. Il che non corrisponde affatto al concetto di eroismo, ma di pazzia, ed è
erroneo e fuorviante anche in caso di pazzi greci. È il motivo principale per cui questo
film ci ha lasciati insoddisfatti, come se tutto questo gran combattere ed affannarsi non
fosse riuscito a tramutarsi alla fine nel sapore di un messaggio autentico, per quanto fondato su una rivisitazione di fantasia. Insomma, il senso di un’occasione sprecata. In effetti la cosa che più ci è spiaciuta della visione di “300” è che, nonostante possa sembrare incredibile dopo il gran dispendio di enfasi e “patriottismo” del film, al vero eroismo
di Leonida e dei suoi 300 spartiati (perché così si chiamavano i membri dell’aristocrazia dominante a Sparta) poteva essere resa una maggiore giustizia. La loro fu, e tutte le
fonti antiche concordano su questo, un’impresa veramente straordinaria e coraggiosa.
E allora forse vale la pena di fare un breve riassunto dei fatti storici essenziali:
Primo, la guerra fu combattuta dai Greci insieme. Non da tutti, beninteso, perché i Greci
erano litigiosi e molte poleis si schierarono subito con Serse: ma fu combattuta insieme da Ateniesi e Spartani, con i loro rispettivi alleati: fu la prima volta che le città della
Grecia, sempre così attaccate ai loro particolarismi, decisero di far fronte unite, in nome
della libertà, a un nemico comune. “Già nell’autunno del 481 - spiega lo storico Hermann
Bengston in uno dei più classici manuali universitari di storia greca -, in una grande riunione degli stati greci che avevano deciso la resistenza ai Persiani e che si erano stretti in una confederazione, fu proclamata una tregua universale nell’Ellade. Tutte le ostilità interne dovevano cessare e gli esiliati far ritorno in patria. I Greci che simpatizzavano
per i Persiani furono minacciati di distruzione; e la decima parte dei loro averi sarebbe
stata donata ad Apollo delfico. Per la prima volta nella loro storia , i Greci si riunirono
in un’alleanza armata (symmachía), con la finalità di raccogliere tutte le forze antipersiane della madrepatria. Fu la gravità del momento a far dimenticare ai Greci ciò che li
divideva, e a renderli invece consapevoli di ciò che li univa, la comune origine ed il
comune carattere nazionale.
Il piano di guerra venne elaborato dallo stratego attico Temistocle insieme con gli efori
spartani”.
Insomma, non è affatto vero che gli Spartani di Leonida agirono da soli senza nessun
progetto (sarebbero stati dei begli stupidi, stupidi eroici ma pur sempre stupidi); non è
affatto vero che andarono a farsi una velleitaria “passeggiata alle Termopili” contro il
volere di tutti, e tanto meno contro il volere degli efori, che per la cronaca non erano
dei verrucosi pervertiti abitanti in cima a una Meteora, ma dei seri e normalissimi magistrati spartani, nelle cui mani si assommava il potere esecutivo, che agivano di concerto con la “gherusía”, il consiglio degli anziani, e con l’“apella”, l’assemblea dei cittadini. Per isolare e rendere individuale ed epico il gesto di Leonida e dei suoi, gli
sceneggiatori del film lo fanno diventare sciocco, presuntuoso e scriteriato, originato
più dal desiderio impellente di farsi uccidere che da un sensato piano di guerra e da un
cosciente sentimento di “patria” (ci si conceda il termine un tantino anacronistico): quel
sentimento che, forse allora per la prima volta allora, si fece strada e si affermò, seppure per un breve periodo, negli animi dei Greci. Così gli Ateniesi, che nel film risultano desaparecidos e nella realtà furono artefici alla pari degli Spartani della vittoria
nella seconda guerra persiana (ricordiamo la grande battaglia navale di Salamina, peraltro nemmeno nominata dal film), diventano per Leonida un popolo di “filosofi ed effeminati” (en passant, l’omosessualità a Sparta era praticatissima come in tutte le città
17
2008
greche, e perfino istituzionalizzata a livello pubblico dal codice di Licurgo); e gli Efori,
benché tra essi e i due re di Sparta (perché Sparta era una diarchia, al contrario di quanto mostra il film) non corresse effettivamente, buon sangue, non erano però, come
sostiene Snyder, dei lebbrosi depravati, né tanto meno dei preti corrotti. Erano magistrati di grande lignaggio e dignità, che facevano rispettare la legge, a tutti. La storia
delle feste Carnee che ritardarono l’intervento spartano è vera (non bisogna sottovalutare l’importanza dei riti religiosi in una civiltà come quella greca), ma non ebbe affatto il tipo di implicazioni descritto in “300” (Erodoto dice che “tutti gli Spartani contavano, più tardi, celebrate le feste e lasciato a Sparta un presidio, di accorrere in massa
e con rapidità"), e soprattutto Leonida e i suoi non stettero certo a combattere tutti soli
e abbandonati, di propria iniziativa e violando addirittura le leggi, mentre in patria ci si
faceva beffe di loro rubandogli addirittura le mogli. Leonida non partì affatto contro il
volere degli efori, ma secondo un preciso piano spartano con gli alleati. Anche in questo caso, per esaltare e rendere grande il coraggioso atto dei nostri 300, li si dipinge nel
film come degli eroi incompresi senza macchia e senza paura, che completamente soli
e abbandonati mentre tutta la Grecia, ignara, si gira i pollici nell’agorà, muoiono combattendo e rovesciano col loro esempio la situazione, facendo cambiare idea sul da farsi
all’intera penisola balcanica. Molto poco credibile, evidentemente, e non ce n’era bisogno: il vero eroismo di Leonida fu un altro, ben più grande.
Secondo, tornando a noi. I piani alleati, nella realtà, prevedevano che lo scontro decisivo avesse luogo sul mare: la speranza della Grecia era la nuova flotta ateniese, perché nessuno poteva pensare di sopraffare sulla terraferma l’enorme massa dell’esercito persiano. Compito dell’esercito greco, dunque, doveva essere quello di tener testa
all’avanzata persiana fino al momento in cui la flotta, piazzatasi in un punto favorevole, avesse potuto sbaragliare quella nemica. Idea strategica di base che si espresse fin
dalle prime mosse, e fu chiara quando i Greci, arretrando dalla valle di Tempe, piazzarono la linea di difesa al passo delle Termopili, le cui strettoie offrivano loro quei vantaggi di cui avevano bisogno contro lo strapotere persiano. Se si poteva rallentare alle
Termopili, anche per breve durata, l’avanzata nemica, la flotta, sarebbe forse potuta arrivare nel frattempo a uno scontro decisivo.
La battaglia di terra delle Termopili e quella navale dell’Artemisio si svolsero negli stessi giorni. Per due giorni i Persiani, arrivati alle Termopili, condussero un attacco frontale contro lo sbarramento greco. Inutile, per la resistenza dell’esercito schierato al comando del re spartano Leonida, composto da 4000 Peloponnesiaci (di cui 300 Spartiati), 700
Tespiesi, Focesi, Locri Opunzi e 400 Tebani, per un totale di circa 7000 uomini, sufficienti a svolgere un compito limitato nel tempo. Il terzo giorno, con l’aiuto di guide esperte dei luoghi (la leggenda del traditore Efialte), alcuni contingenti persiani aggirarono
la postazione meridionale e, dopo aver sopraffatto il distaccamento focese schierato a
protezione del passaggio, piombarono alle spalle di Leonida.
Nonostante l’accerchiamento, Leonida doveva tentare di tener testa ai Persiani almeno
finché l’ultima nave greca, puntando a sud, non avesse doppiato la punta occidentale
dell’Eubea, in uno stretto facilmente bloccabile, largo in alcuni punti appena quindici
metri: altrimenti la costosissima flotta greca sarebbe stata perduta, e la guerra decisa.
Leonida, e qui sta il suo vero, grande eroismo, seppe portare a termine la sua missione
in maniera esemplare nonostante tutto quanto aveva ostacolato la sua azione. Congedò
la maggior parte del contingente perché raggiungesse il grosso dell’esercito, e rimase
a difendere le Termopili coi suoi 300 Spartiati e 700 Focesi, le truppe necessarie a compiere l’impresa in quello spazio angusto, senza sacrificare vite inutili. Essi si batterono
come leoni, consapevoli che sarebbero morti e che la loro eroica resistenza avrebbe significato la salvezza per tutta la Grecia. Sospinti su una collinetta, caddero combattendo
fino all’ultimo uomo. Un sacrificio enorme, che non fu vano: l’impresa di Leonida diede
agli Elleni, nella loro lotta per la libertà, un esempio luminoso di adempimento del proprio dovere.
E in concreto, la flotta greca, salvatasi, affrontò nello stretto braccio di mare di Salamina
- luogo scelto da Temistocle perché adatto alle agili navi confederate e difficile per le
pesanti navi persiane - la flotta dei Persiani che erano dilagati in Grecia. La battaglia
durò accanita per dodici ore e si concluse col trionfo delle forze greche. Serse incredulo si ritirò e in tutto il suo impero scoppiarono insurrezioni. La resa dei conti fu nel
479 a Platea, in cui l'esercito alleato guidato dallo spartano Pausania (tutore del giovane re Plistarco, figlio di Leonida) sconfisse una forza di 50mila persiani con 30mila soldati greci confederati. La vendetta definitiva si ebbe a Micale, battaglia navale in cui
la flotta greca alleata distrusse quella persiana sul Meandro. Vittoria che spinse gli Ioni
alla rivolta.
Da quel momento, per 150 anni, nessuna armata straniera entrò più in Grecia.
Questi i fatti, un po’in sintesi, certo, e suscettibili indubbiamente di ulteriori letture storiche. Sono di per sé avvincenti e potevano offrire una gran messe di spunti su cui ricamare epicamente. Anche volendo mantenere la focalizzazione su Sparta, si potevano
riferire gli eventi esterni indirettamente, approfondendone i contraccolpi sui Trecento
e sulle decisioni di Leonida. Sarebbe comunque stato meglio che raccontarci la soap
opera della regina Gorgo che per amore di Leonida lo tradisce col consigliere cattivo
e corrotto (e poco furbo, visto che se ne va in giro con le monete persiane nella tunica). E poi ci devono spiegare, visto che gli Spartani tenevano tanto all’onore, e soprattutto ci tiene la morale nostrana e moderna che ispira questi film, a che pro tanta generosità cornificatoria nell’altera protagonista? Solo per giustificare l’ammazzamento del
traditore malvagio? Ma se gli serviva un malvagio e un motivo per ammazzarlo, troppi se ne trovavano nella storia vera! E figure ben più complesse del mostruoso Efialte
(trito stereotipo del “brutto e cattivo”), del gay più alto del mondo Serse (la persona più
simpatica di tutto il film) e del lupo di Cappuccetto Rosso che finisce infilzato all’inizio.
Invece questo film, per esaltare l'eroismo degli Spartani, lo separa completamente dalla
realtà e lo fa diventare un atto incomprensibile, insensato, pochissimo credibile e poco
coinvolgente. Che c’è di eroico nell’andare allegramente a farsi ammazzare senza motivo, per il solo gusto di menare le mani e di gridare tutti insieme “AUH!” (che, a proposito, a chi leggeva Tex Willer da bambino, avrà fatto venire ogni santa volta da ridere perché sembrava l’“Augh” indiano di Tiger Jack. A meno che non si tratti di qualche
interiezione greca a noi sconosciuta, perché l’unico “au au” paragonabile attestato dal
dizionario Rocci è quello corrispondente al verso greco del cane)? È vero che i soldati devono essere tutti un po’ esaltati per combattere, ma c’è modo e modo. Uno si esalterà pure, ma per un buon motivo. Questi pare morissero dalla voglia di andare in guerra per il solo gusto di farlo, e se non ci fossero stati i Persiani se la sarebbero presa col
vicino di casa pur di prendersela con qualcuno. Il vero Leonida, invece, diede via libera all'esercito confederato e decise di sacrificarsi coi suoi 300 Spartiati per consentire
a tutta la Grecia di riorganizzarsi e salvarsi. Il suo atto non fu l’esibizione di muscoli
di un kamikaze anarchico, ma la cosciente ed eroica azione di un soldato in divisa che
faceva il proprio dovere, compiuta per il bene della sua patria e obbedendo agli ordini.
Infatti l’epigramma che saluta il suo gesto, tuttora scritto sulla pietra del monumento
delle Termopili e attribuito al grande poeta Simonide dice: “O straniero, annuncia agli
Spartani che qui giacciamo, obbedendo alle loro leggi”. Il re spartano, in effetti, fece
solo il proprio dovere, come l’ordinamento statale pretendeva quale cosa ovvia da ogni
cittadino.
Che poi quella degli Spartani fosse una società militarista, oligarchica, autoritaria e schiavista è un altro discorso, e lasciamo perdere, anche perché non vogliamo correre il rischio
che questa passi per una “stroncatura politica”, come spesso se ne sono lette su “300”,
che sarebbe la cosa più ridicola e sciocca di questo mondo .
In definitiva, quello che ci è spiaciuto di questo film è che aveva tutti i mezzi per essere un gran bel film e per esaltare veramente l’impresa dei Trecento, e non l’ha fatto.
Bello sul piano estetico, vuoto di contenuti. Attori bellissimi, tecnica superba, danze
spettacolari in acqua, combattimenti e scene d’amore da videogioco di terza generazione. Ma da videogioco anche la profondità della trama, che raramente riesce a strappare qualche sincero brivido. È un bel fumettone in una gran bella confezione, tutto qui.
Da godere per quel che è, se possibile, ma senza andarci a cercare vere emozioni, o la
storia greca, o una qualche pur lontana verosimiglianza nella rappresentazione di quel
mondo perché se ne troverebbe di più in Hercules di Walt Disney (il che è tutto dire).
Patricia Zampini
18
2008
DOPING:
I
l primo caso di morte, ufficialmente,
risale al 1886: durante una competizione di ciclismo, in Francia, un
atleta morì perché aveva assunto sostanze per drogare il proprio organismo.
Allora le più usate erano la cocaina, la
nitroglicerina, l’ossigeno, o addirittura zollette di zucchero imbevute di
etere. Ma la storia del doping è più
antica, e il termine originale dovrebbe
derivare dal linguaggio dei kafir, una
tribù africana che usava il dop, una
sorta di liquore eccitante.
Gli antichi greci aumentavano le loro
prestazioni con decotti di piante e funghi. I vichinghi usavano il veleno di un
fungo, l’amanita muscaria (contenete la
bufoteina), che a basse dosi potenziava la loro attività di guerrieri. In Cile
e in altri Paesi dell’America latina i
contadini masticavano foglie di coca per
i loro trasferimenti, percorrendo anche
più di 600 chilometri in pochi giorni.
Nell’America del Nord, lo stesso effetto veniva raggiunto con il peyotl, una
pianta che contiene mescalina.
Sostanze dopanti sono state impiegate
anche in guerra, ma con risultati contrastanti. Basti ricordare la “pillola di
Goering” un preparato tedesco a base
di simpamina, sostanza ad azione stimolante. Lo stato di ipereccitazione
che causava provocò però un numero
elevato di morti in azione e soprattutto la breve emivita della sostanza (cioè
la durata dell’effetto) comportava rischi
ai piloti in fase di atterraggio.
PILLOLE PER VINCERE
1988, Olimpiadi di Seul, finale dei 100
metri. Poco prima di affrontarsi sulla
pista, i due rivali si fissano ostili negli
occhi. Incontrando le sclere giallissime
dell’atleta canadese, il velocista statunitense sposta rabbiosamente lo sguardo e mormora: “ Quel bastardo lo ha
fatto di nuovo”.
E’ forse una delle tante leggende dello
sport, ma pare proprio che Carl Lewis
avesse intuito la causa di quel vistoso
segno di danno epatico ben prima che
il verdetto del controllo antidoping la
divulgasse al mondo intero: Ben
Johnson, il Big Jim di colore che stava
per essere incoronato uomo più veloce della Terra, era imbottito di steroidi.
Per il canadese l’episodio segnava la
fine di una discutibile carriera; per gli
appassionati di sport, che in occasione
delle Olimpiadi diventano una discreta popolazione, era la prima vera presa
di coscienza di un fenomeno che infestava già da anni l’ambiente: pur di
UNA VECCHIA STORIA
vincere sempre più atleti non esitavano a fare ricorso a sostanze in grado di
potenziarli artificialmente.
Con le “bombe chimiche”, Johnson si
era lasciato prendere la mano, fino a
dotarsi di una muscolatura umanamente
impossibile, ma era solo la punta evidente di un immenso, e meglio celato,
iceberg.
LA LISTA NERA
Gli allenamenti sono stressanti, gli
incontri sono difficili, il pubblico sempre più esigente… Che fare per migliorare la prestazione? Magari seguire il
consiglio dell’amico di un amico che
ha provato quel farmaco “magico”… E’
così che può nascere nello sportivo
l’idea del doping. Varie categorie di
farmaci e pratiche terapeutiche vengono proposte come mezzo per migliorare
artificialmente la performance e sarebbe falso, purtroppo, affermare che non
funzionino. Il doping causa rapidi guadagni di muscoli e forza, ma i rischi
sono troppo grandi per ammetterne
l’uso.
L’impiego di ormone umano della crescita (hGH), usato nell’atletica pesante e nelle palestre di bodybuilding, può
rendervi dei veri mostri. Esiste il pericolo reale che, se si usa l’hGH le dita,
il naso, i piedi e l’intero cranio aumentino di dimensione. Questi sintomi si
chiamano acromegalia, una malattia
che vi consentirebbe di essere ospiti
d’onore nel gabinetto degli orrori del
Dottor Frankenstein. Tra i rischi d’abuso dell’ormone della crescita ci sono
anche il diabete, l’ipertensione, una
maggiore incidenza di tumori, il morbo
di Creutzfeldt-Jakob.
Gli steroidi anabolizzanti (testosterone,
diidrotestosterone, nandrolone ecc…)
possono avere dei seri effetti dannosi
nei confronti del fegato, dei reni, della
prostata e del cuore. Il rischio di sviluppare il cancro al fegato, alla prostata e ai reni si innalza e, in confronto
agli atleti che non ricorrono al doping,
coloro che assumono steroidi mostrano più spesso i sintomi dell’arteriosclerosi, ossia la progressiva occlusione delle arterie che, nei casi più gravi,
può causare un infarto o un ictus. Chi
usa gli steroidi mostra spesso un elevato livello di aggressività, che può
permettere sessioni di allenamento più
intense, ma può anche avere effetti
disastrosi sulla vita sociale (sindromi
psichiatriche).
Un effetto collaterale realmente grot-
tesco che può verificarsi se vengono
presi gli steroidi è nell’uomo la ginecomastia, che fa assomigliare il petto
del bodybuilder al seno di una donna,
mentre le donne che usano steroidi sviluppano spesso una voce molto bassa
e marcato irsutismo (mascolinizzazione nella donna e femminilizzazione
nell’uomo).
Anche l’acne non è bella da vedersi e
certamente non è un segno di atleta
sano ma, se si usano gli steroidi, il
rischio che vengano i brufoli, specialmente sulla schiena (la cosiddetta acne
da steroidi), è reale. Altri effetti collaterali non meno gravi provocati dall’abuso di ormoni anabolizzanti sono:
l’atrofia testicolare, la dismenorrea
(riduzione o scomparsa del ciclo
mestruale), la sterilità, degenerazioni e
strappi ai tendini, la calvizie, la dipendenza.
Se gli steroidi continuano ad essere il
pane dell’atletica e del body building,
la droga degli sport di resistenza, come
il ciclismo o lo scii di fondo, si chiama
EPO. Chi fa uso di EPO, l’eritropoietina di provenienza renale che sollecita il midollo osseo a produrre globuli
rossi, aumenta la propria riserva di ossigeno: un evidente vantaggio per uno
sport a base aerobica. L’uso di questo
ormone però aumenta la viscosità del
sangue, e quindi facilita trombosi ed
embolie. Può provocare inoltre insufficienza renale cronica e ipertensione.
Per contenerne l’abuso (l’eritropoietina è un ormone fisiologico, invisibile
ai controlli antidoping), in due sport
sono previsti esami del sangue a sorpresa. Nello scii di fondo viene misurata la concentrazione di emoglobina,
che non deve superare i 16,6 g/dl per
le donne e i 18,5 per gli uomini. Nel
ciclismo si misura l’ematocrito: 50%
per l’uomo, 48 per la donna. Chi li
supera, sta a riposo per 15 giorni, poi
si presenta per un nuovo test. Solo se
il valore è nei limiti consentiti può
riprendere a gareggiare.
no verificarsi se vengono usati certi
farmaci. I muscoli costruiti attraverso
anni di duro allenamento e buona nutrizione, senza pillole magiche, durano più
a lungo. Coloro che impiegano i farmaci
spesso fanno progressi impressionanti
mentre prendono la sostanza, ma perdono gran parte della massa costruita
rapidamente grazie alla chimica se viene
un’interruzione dell’allenamento anche
solo di qualche settimana. Non così
per l’atleta “natural” che si allena con
intensità. I suoi muscoli non scompariranno così velocemente, poiché egli
ha costruito massa di qualità in un lungo
periodo di tempo seguendo un metodo
naturale.
Il doping non è economico. Non ci si
mette molto a spendere migliaia di euro
per gli ormoni o altri prodotti chimici.
E’decisione molto più saggia e salutare
investire questo denaro in una buona
nutrizione. La decisione di non prendere
farmaci è anche una questione di carattere. Se riuscite a resistere alla tentazione di ricorrere al doping anche se
intorno a voi ci sono alcuni atleti che
usano farmaci e fanno progressi più
rapidi nella crescita muscolare, allora
potete essere orgogliosi di voi stessi. E’
una sensazione molto bella e soddisfacente sapere che i propri risultati sono
stati raggiunti solo grazie alla disciplina osservata nel proprio programma di
allenamento e alimentazione e non grazie a sostanze chimiche. Se non si hanno
le caratteristiche genetiche per diventare un campione nemmeno tonnellate
di pasticche vi faranno vincere le gare.
Enrico Baldoni
I diuretici fanno perdere al corpo una
grossa quantità di acqua. Ma si perdono anche tanti minerali come il potassio, che sono importanti per la normale funzione cardiaca. I farmaci per
perdere acqua possono condurre all’aritmia cardiaca e possono finire per
determinare un attacco di cuore.
PILLOLE PER VINCERE...
Gli effetti elencati sono solo una selezione dei sintomi possibili che posso19
2008
I NOSTRI STUDENTI E LO SPORT
A
nche se dall’esterno può esserci la percezione che gli alunni
della nostra Scuola non siano molto dotati sportivamente e per
questo non pratichino sport a livello agonistico, la realtà è ben
diversa.
A livello dilettantistico sono molti i ragazzi che frequentano palestre,
piscine e campi da gioco, alcuni di questi partecipano a competizioni
d’interesse regionale e nazionale con ottimi risultati. Tra questi, Matteo
Francolini, II A, è un velista. Si allena a Civitanova Marche presso il Club
Vela. Questa associazione di velisti è di fama internazionale, tanto che
è stata premiata nella stagione 2006/07 come circolo più forte d’Italia
e con un atleta candidato alle Olimpiadi. Matteo Francolini da ben 7
anni svolge questa attività, resa familiare al grande pubblico dai successi di Luna Rossa.
Matteo svolge regate nella categoria laser 4.7. Ha avuto molti riconoscimenti: nel Luglio
2007 si è classificato al ventottesimo posto nel Campionato Europeo disputato in
Irlanda; il mese successivo si è classificato quarto al Campionato Italiano disputato a
Lignano Sabbiadoro.
Recentemente, nel Dicembre 2007, ha disputato i mondiali in Sud Africa, classificandosi al cinquantesimo posto su un totale di oltre cento concorrenti.
Congratulazioni a Rachele Butini, III A, tennista di punta della vincente squadra del
nostro Liceo. Grazie a lei, nell’aprile 2007, ad Osimo, è stato conquistato il primo posto
nella fase provinciale del torneo indetto dal Coni, esteso a tutte le scuole italiane. Rachele,
è una campionessa, pratica il tennis con grande passione ed è in grado di trasmettere
tecniche, entusiasmo e determinazione. Dopo un’intensa estate di tornei a livello provinciale e regionale, Rachele ha iniziato anche ad allenare le nuove leve; è, infatti, diventata con successo una dei
Maestri presso la scuola di tennis di Jesi.
Sara Palmolella
II A L.C.
IN VISITA ALLA BIENNALE
I
l 18 ottobre, grazie ad
un'iniziativa della
nostra scuola, noi alunni delle classi terze liceo A,
B e C del Liceo Classico,
abbiamo avuto l'occasione
di visitare la Biennale di
Venezia. Sono stata entusiasta all'idea di assistere
ad un'esposizione così vasta
e ricca di opere varie e
diverse tra loro per tematiche, tecniche di realizzazione e per scelta dei materiali. Le espressioni
artistiche presenti nella
mostra sono, quindi, le più
disparate e proprio queste
dissonanze incuriosiscono
il visitatore e lo stimolano
a procedere nella visita, alla
ricerca di suggestioni nuove
20
2008
e sollecitazioni emotive eintellettuali sempre maggiori. Infatti ogni opera è a sé
stante ed è capace di suggerire in maniera autonoma molteplici emozioni
come stupore,
meraviglia, dolore... Inoltre,
davanti ad ogni
oggetto d'arte, ci
si trova coinvolti
in maniera diversa: a volte il messaggio dell'artista
è chiaro, diretto e
suscita immediatamente in noi una
reazione emotiva
o sensoriale; altre
volte, invece, il
messaggio stesso
può essere ricavato solo
dalla riflessione alla quale
siamo stimolati dall'opera
stessa. Nonostante la diversità espressiva di ogni artista, vi è comunque un ele-
mento di coesione: l'attualizzazione con il presente.
Silvia Vernelli
III A L.C.
LA VIOLENZA NEGLI STADI
C
irca un mese fa, è
ritornato a far parlare di sé un problema
che riguarda la sfera sportiva, soprattutto quella calcistica: la violenza negli stadi.
Domenica 11 novembre,
quando si sarebbe dovuta
svolgere la 12° giornata di
Serie A, nei campi sportivi
sono avvenuti vari disordini,
dallo sfondamento di una
vetrata a Bergamo al lancio
di sassi all’esterno dello stadio Olimpico di Roma. Tutto
questo in seguito all’uccisione di Gabriele Sandri, un noto
DJ del litorale tirrenico, da
parte di un agente di polizia.
Infatti, i gruppi ultrà che
popolano le gradinate degli
stadi hanno deciso di ribellarsi ai loro più acerrimi
nemici, le forze dell’ordine.
Muniti di spranghe e molti
altri oggetti contundenti
hanno cercato di farsi giustizia da soli, quando invece
sarebbe stato molto più corretto ricordare la memoria
del defunto che è divenuto
così, erroneamente, il “simbolo” di tutte quelle persone
che ogni domenica provocano risse e scontri e che non
hanno niente a che fare con
lo sport. Particolare sconvolgente della domenica della
follia, come è stata denominata, era vedere bambini,
venuti allo stadio con i loro
genitori, piangere o provare
paura nei confronti dei tifosi
fanatici. Dopo l’accaduto tutti
i mass media si sono interessati alla questione, dal
momento che un anno fa l’ispettore della polizia Raciti
perdeva la vita mentre provava a sedare gli scontri tra
le tifoserie all’esterno dello
stadio Massimino dopo l’incontro Catania - Palermo.
Anche il governo sembrava si
fosse mosso ma, come capita spesso in Italia, si è aggirato il problema vietando
solamente l’ingresso negli
stadi ai tifosi avversari e non
magari monitorando e usando il pugno di ferro nei confronti dei più agitati. In queste ultime domeniche la
situazione sembra essersi ristabilita, ma purtroppo credo che
presto si sentirà
ancora parlare di
questa problematica e saremo
sempre al punto
di partenza:
occorre prevenire i loro disordini e non limitarsi a condannare i colpevoli Inoltre
penso che questa situazione
sia la conseguenza di una
concezione di vita secondo
cui ciascuno di noi deve provare a contraddistinguersi,
rinnegando a volte anche la
propria identità. Molto spesso, infatti lo stadio rappresenta il palcoscenico di comportamenti esagerati dove
ognuno può dare libero sfogo
alle proprie preoccupazioni.
Per finire, vorrei sottolineare il fatto che al giorno d’oggi, lo sport, specialmente il
calcio, va di pari passo con la
politica, cosa, a mio parere,
totalmente estranea a questo
tipo di divertimento che
dovrebbe servire solamente a
trasmettere felicità e valori
etici.
Luca Brugiaferri
IV A
INVITO ALLA LETTURA
“ALMOST
S
crittore, conduttore televisivo e giornalista, noto al grande pubblico come
autore ma anche per la serie televisiva “Blu notte - Misteri Italiani”, Carlo
Lucarelli ha pubblicato una lunga serie di
noir a sfondo poliziesco. Tra questi “Almost
blue” è forse il più conosciuto. Certo può
attrarre gli appassionati del genere, che
apprezzano i misteri e tengono sul comodino Dylan Dog (di cui Lucarelli ha firmato
in passato alcuni soggetti), ma è un testo
capace di farsi apprezzare anche chi non
abbia una particolare predisposizione per
il noir.
Una storia dura, intensa, ma per la quale
non è necessario avere lo stomaco forte.
Una storia ben scritta, con un avvio folgorante, intriso del sangue dell’immagine
d’avvio, che allaga la stanza su cui si apre
la vicenda narrata, di fronte ai primi intervenuti, inorriditi. Non viene descritta minimamente la scena del crimine, né la vittima: solo il sangue: e l’orrore che provoca
è tutto nella sovrapposizione tra esso e il
grottesco caderci sopra del carabiniere che
vi scivola dentro una prima volta e poi più
volte, nel tentativo disperato di rialzarsi,
restando a pancia sopra, alla fine, come
un enorme insetto rovesciato.
Ma questa scia rossa tiepida e dall’odore
dolciastro si allunga nei primi capitoli come
un leitmotiv cupo e disturbante. Il malessere e il disagio fisico e psicologico dell’ispettore Grazia Negro ai primordi del
caso, la pozza bagnata e fredda da cui si
risveglia l’assassino - l’iguana - tornando
cosciente dopo l’ultimo dei suoi omicidi,
per reincarnarsi nella sua vittima. È un
sangue che ha un odore, un’umidità, una
temperatura, più che un colore. Non è mai
usata la parola rosso per raccontarlo: emerge dai contrasti e dalla sensazione fisica del
suo spargersi, che riportano alla dolorosa,
viscerale ancestralità della vita e della
morte.
Sembra quasi una preparazione, questa
mancanza di colore del sangue, al mondo
del terzo protagonista, Simone, che è cieco
dalla nascita e quindi i colori degli altri non
li conosce, conosce i suoi. Crea i suoi colori dal suono, dall’odore che hanno: ogni
colore per lui ha una storia e significa qualcosa di personale e diverso.
Simone passa tutte le sue giornate nella sua
stanza, da solo, ad ascoltare conversazioni con lo scanner collegato al pc. Ma è triste e malinconico quando, parlando in
prima persona, dice che se avesse avuto
degli amici lo avrebbero chiamato Scanner,
e che gli sarebbe piaciuto. Amici non ne ha,
però, “per colpa mia”. Per colpa sua, perché preferisce restare solo, perché non ha
niente in comune coi ragazzi normali con
cui il padre, quando era vivo e lui era piccolo, lo costringeva a giocare, anche a pallone, perché socializzasse con gli altri, nel
cortile del palazzo.
Per questo, per tante cose simili a questa,
Simone è solo. Ma non è arrabbiato col
mondo, è disperatamente malinconico e
rassegnato, e consapevole della sua troppa chiusura. Per questo cerca di sembrare
addormentato quando sua madre sale nella
sua stanza, rimproverandolo del suo autoisolarsi che non riesce a capire. Per questo
cerca nelle voci della notte, coi suoi scanner, un contatto con la vita vera. Le frequenze della polizia, le chat degli altri che
converte in suoni con le sue attrezzature
elettroniche. È così che una notte sente in
una chat la voce dell’iguana, l’assassino,
che parla con una ragazza e cerca d’in-
BLUE”
contrarla. Una voce che non ha calore né
umanità, una voce arrotata e fredda e che
fa paura, una voce verde.
È questo che tocca di più di questo romanzo, come descrive il cuore. Come con brevi
accenni nel punto giusto sappia dare una
prospettiva, uno spessore alle cose e alle
persone. A Simone, ma non solo a lui.
L’iguana è un assassino orrendo, un serial
killer che uccide gli studenti, in una
Bologna non grassa e festosa ma sotterranea e tentacolare, un oscuro labirinto di
subaffitti e identità sconosciute e provvisorie. L’iguana è il killer degli studenti,
che ruba i pezzi delle loro vite parziali e
se ne appropria per non morire, reincarnandosi in loro e assumendone le sembianze con ossessivi e continui travestimenti. L’iguana è un pazzo omicida
incapace di fermarsi. Ma l’iguana è stato
un bambino tradito, abbandonato da sua
madre per sempre in un istituto per volere del patrigno, senza padre, senza radici
e senza affetti. Un bambino rifiutato che
impazzisce, che sente le campane suonargli costantemente nelle orecchie, col loro
rumore aggressivo e violento e continuo che
cerca disperatamente di coprire con le cuffie in cui sente musica a tutto volume.
Ritratti da dentro, e da fuori. L’ispettrice
Negro non parla in prima persona come l’iguana e Simone: lei è descritta in terza
persona.
Grazia è una donna che fa l’ispettore, figlia
di un barista e d’istruzione modesta. Ama
il suo lavoro. Ama anche Vittorio, il suo
capo, o per lo meno l’ha amato, e lui lo sa.
“Prendilo, bambina”, le scrive. È fragile,
è triste, un po’ cupa, anche se ha un intuito quasi animale e un istinto forte sul lavoro. Molto più di lui, che non è un poliziotto in fondo, ma uno psichiatra, che
l’iguana vuole capirlo, ancora più che prenderlo.
E per quelle azioni impulsive e strane che
a volte nella vita si compiono, dopo uno
degli omicidi di cui ha sentito, dell’assassino con la voce verde, Simone chiama
Grazia: un’offerta d’aiuto, o forse una
richiesta di aiuto, o forse tutt’e due.
Comunicare non è facile e non è immediato,
passa attraverso molti ostacoli e remore.
Non solo comunicare sul caso, ma comunicare sul piano umano le proprie paure, i
propri dolori, mettere in comune il modo
di percepire gli odori e i suoni, costruire un
alfabeto per parlare e imparare a usarlo.
Succede questo.
E succede anche che all’improvviso l’assassino scopre di essere stato sentito e capito, per la prima volta, e vuole disperatamente comunicare anche lui, a modo suo,
per trovare la pace che inutilmente cerca
senza raggiungerla da sempre, anche se
comunicare per lui è distruggere, e la sua
pace non è pace per coloro da cui la cerca.
Caldo, familiare, pesante e secco come
l’odore di tabacco, il sapore di whisky, il
sudore e il suono delle voci, delle persone, cupo come la notte ma anche come i
pomeriggi grigi e piovosi, umido e triste e
disincantato come l’obbligo quotidiano di
andare avanti, questo libro è anche delicato e dolce come la speranza e l’incontro,
come il sesso improvviso e sincero e il
bisogno di difendersi e di difendere, come
la musica che tocca lentamente le corde più
riposte dell’animo e lo rincuora, come una
fata sconosciuta che canta una canzone
francese coi capelli rosa ed una voce blu.
(p.z.)
21
2008
L E LIRICHE DEL CONCORSO LETTERARIO :
“A ME SI’ CARA VIENI, O SERA”
NELLA FAVOLA LIETA
A ME SI CARA VIENI O SERA
Ascolta il silenzio...
Mite è nell’aria
E nessuno lo potrà intaccare,
Se non pochi eletti che non riescon a riposare.
I grilli cantano
Canzoni senza tempo.
Armonicamente s’alternano
Rane e rospi
A iosa a gracidare
Verso la luna
Iridescente nell’illuminare.
E tu che fai?
Noti tutto ciò?
Inizialmente no,
Ora però
Sei vigile
E allungando 1’orecchio,
Rischiarando la mente, pensi
Alla magia della sera.
MA ALLA FINE SI FA SERA
S’erge la voce della notte inquieta
in su le pendici del fragile monte
plana la luna sulla favola lieta
nel sogno inconsueto dell’eterea fonte.
Ma spira la favella
quando l’aurora la coglie
e s’abbandona alla rassegnata novella
in su del giorno le spietate soglie.
Fabio Cotichelli
VC L.C.
Filippo Pirani
II C L.C.
CARA SERA
Cara sera, con le tue idee in testa
vieni senza mai portar tempesta,
Caterina Pentericci
II B L.C.
solo tu con la tua pace interiore
sfiori l’anima di questo cuore.
Ma al tuo giunger lieto, tremo
perché togli alla mia vita un giorno
abbandonandolo là, solo e fermo.
STREMATA DAL GIORNO
Mi accascio alle viscere della sera
stremata dai raggi del sole
accarezzata dall’argentea luna
m’appiglio alle ombre insicure.
Spero che prima o poi farà ritorno,
ma dentro di me, la notte lo sa:
ora è tardi e mai più tornerà.
Caterina Pentericci
II B L.C.
Giada Pennacchietti
V C L.C.
ANCHE OGGI MORIRA’ LA GRANDIOSA
STELLA
La grandiosa Stella di morir si sdegna
dopo anni, secoli, millenni ancor non si rassegna.
Stende le lunghe braccia luminose,
cercando un appiglio tra fronde spinose
Ma la notte lambisce la Terra,
s’accende la Luna, che ha vinto la guerra,
col rosso del sangue la luce è finita,
caduto è già l’astro ch’è fonte di vita
bisbigliando va il vento che spira di sera:
“è giunto il momento dell’uomo che spera”
S’imbeve d’oscuro l’affanno
e affonda nell’antro d’un pacifico sonno.
CUORE SCOSCESO
Lenta s’accinge la sera a calare
sull’animo mio straziato d’amore
mentre rapido il sangue s’appresta a scalare
le cime scoscese dell’aspro tuo cuore,
ma in vano s’appiglia al tuo ego roccioso
e precipita sconfitto nel baratro ansioso
così come pugnalato dai raggi velati dell’astro notturno
lentamente il sol s’ abbandona al dolore diurno.
Caterina Pentericci
II B L.C.
Filippo Pirani
II C L.C.
LA SETTIMANA BIANGA - 2007 La settimana bianga de stanno è stada favolosa,
di’ fantastiga è pogo, meglio gloriosa
sarà stado pe’ i professori divertenti
oppure pe’ l’ alunni diligenti
fatto sta
che non se po’ scordà:
c’è stada la Valentini,
un po’ de paura, e va co’ la Zannini
co’ la Burattini e la Valletta no c’è da di’ niente:
sciava perfettamente!
Po’ no scordamoce de Brugnoli Righetto
Che ce sgaggiava perché no ‘ndavamo a letto
Purtroppo pe’ impegni istituzionali non c’ era la dirigente
Che ce saluda comunque calorosamente
Ma sci fosse stada sui campi da sci
C’ avrebbe stupido tutto el dì.
‘ncora sugli alunni non c’è niente da di’
Oltre che faceva un gran casì.
Ammò dentro sto pulma mentre sto a scrive,
no me ‘rmane altro che metteme a ride;
e pensanno a tutto sto divertimento,
so’ siguro che dendro el core me rmarrà sto bel momendo!
Ragni Fabio
V C L.C.
22
2008
SVEGLIARSI VUOTA
E SENTIRSI VUOTA
Svegliarsi vuota e sentirsi vuota
Svegliarsi una notte e sentirsi persa
Svegliarsi una notte e sapere di aver perso un amico
Parte della propria vita, dei propri rancori
…gioia e dolori…
Benedetta Fazi
3F L.S.P.P.
FARFALLE
Un leggero battito d ’ali.
Troppi colori.
Troppi fruscii.
Apparentemente libere.
Ormai stanca si posa delicatamente…
Troppa fragilità.
Chiudo la mano.
“Ehi, perché non voli più?”
Marta Rosati
3F L. S. P. P.
I DISEGNI DEI PARTECIPANTI AL CONCORSO PER LA
COPERTINA COPERTINA DELL’IPPOGRIFO
Perla Sardella I A L.C.
Silvia Ricci III B L.C.
Marta Giovannetti I A L.C.
Sofia Cartuccia III B L.C.
Caterina Pentericci II B L.C.
Federica Bini IV F L.S.P.P.
23
2008
O
Vincitori del
“Piccolo Certamen Taciteum”
Alternanza scuola lavoro . . . . . . . . 3
Gara di traduzione latina per gli studenti dell’Istituto
Analisi del film Metrolpolis . . . . . . . 4
I
EDIZIONE 2008
Le collezioni scientifiche
del Liceo Classico . . . . . . . . . . . . . 2
Il sapere e i saperi . . . . . . . . . . . . . 6
1. DI GENNARO DANIELE V B GINNASIO
2. CANDELA CATERINA V B GINNASIO
3. LEONI CATERINA V B GINNASIO
R
CLASSI SECONDE
Reality show: istruzioni per l’uso . . 9
Incontro alla moschea di Ancona . 10
A
CLASSI TERZE
1. RICCI MARTINA I A CLASSICO
2. MEDICI GIULIA I C CLASSICO
3. D’ASCANIO LAURA I A CLASSICO
Un poeta di Cupramontana:
Gilberto Cerioni . . . . . . . . . . . . . . 8
L’anoressia . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 11
Concorso letterario . . . . . . . . . . . 12
CLASSI QUARTE
Doping. Una vecchia storia . . . . . . 19
I nostri studenti e lo sport . . . . . . 20
In visita alla Biennale . . . . . . . . . . 20
O
LICEO CLASSICO STATALE “V. EMANUELE II” JESI
Alberto Colini:
Eran trecento, eran giovani e forti 17
Disegno di copertina di: Federica Rotoloni II C
APRILE 2008
e il Discorso sul metodo . . . . . . . . 14
il futurista majolatese . . . . . . . . . . 16
M
1. TACCALITI CHIARA II B CLASSICO
2. RISTÈ FEDERICA II B CLASSICO
3. ex aequo PESARESI GIULIA II B CLASSICO
LOMBARDI ANDREA II C CLASSICO
M
Leggere i classici: Cartesio
La violenza negli stadi . . . . . . . . . 21
Invito alla lettura: ”Almost Blue”... 21
Anno 24 N. 1 • Indirizzi: Classico • Socio Psico Pedagogico • Scienze Sociali
Lo spazio della Poesia . . . . . . . . . 22
S
I disegni per la copertina . . . . . . . 23
Editore
LICEO CLASSICO STATALE
Comitato di Redazione
Coordinatori:
“V. EMANUELE II”
Prof.ssa Patricia Zampini
C.so Matteotti, 48 - 60035 JESI (An)
Prof.ssa Paola Giombini
Tel. 0731.57444 - 0731.208151
Prof.ssa Patrizia Leoni
Fax 0731.53020
Prof. Paolo Grizi
E-mail: [email protected]
Studenti:
C.F. 82001640422
Anna Chiara Boschi - L.C. III B
LICEO CLASSICO
Maria Costanza Boldrini - L.C. III B
LICEO SOCIO PSICO PEDAGOGICO
Riccardo Giustini - L.C. III B
LICEO DELLE SCIENZE SOCIALI
Roberto Bramati - L.C. II A
Dirigente Scolastico:
Sara Palmolella - L.C. II A
Prof.ssa Giuliana Petta
Alessia Rocchetti - L.C. II A
Direttore Responsabile:
Francesca Giuliani - L.S.S. V L
Enrico Filonzi
Sara Trillini - L.S.P.P. V E
Ilaria Serpentini - L.S.P.P. V E
Disegno di copertina:
Federica Rotoloni - L.C. II C
Stampa: Stampa Nova, Jesi
R e g . d e l Tr i b. d i A N n . 2 d e l 2 6 . 0 1 . 8 4
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2008
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liceo classico statale “v. emanuele ii” jesi aprile 2008