Premio Letterario "Federico Ghibaudo"
anno 2010 - 16a edizione
“L’INDICE”
1° premio
2° premio
Alessandro Boggiani
Vanja Vasiljević
5a - B pag.
3a - C pag.
5
9
Premi giuria
“
Mariangela Rapisarda
Clara Rossi
Lisa Manieri
4a - C pag.
2a - A pag.
4a - A pag.
11
13
14
4a - G
4a - A
4a - A
4a - C
1a - G
4a - C
5a - B
4a - H
1a – F
15
16
18
19
22
23
26
27
28
altri componimenti
in ordine di presentazione:
Lorenzo Raffaglio
Gloria Riva
Sveva Anchise
Mariangela Rapisarda
Camilla Di Nallo
Vanessa Fanelli
Alice Gabelli
Michaela Elisetti
Roberto Longoni
pag.
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Premio Letterario "Federico Ghibaudo"
anno 2010 - 16a edizione
“ELENCO FINALISTI PRECEDENTI EDIZIONI”
1995
1996
1997
1998
1999
2000
2001
1°Classificato
Alexandra Bonfanti
Martino Redaelli
Niccolò Manzolini
Lorenzo Piccolo
Dacia dalla Libera
Giulia Pezzi
Tiziano Erriquez
2a F
4a A
4a A
4a A
3a E
4a G
4a D
2° Classificato
Loredana Lunadei
Elena Cattaneo
Matteo Pozzi
Matteo Pozzi
Lorenzo Piccolo
Dacia dalla Libera
Giorgia di Tolle
2a G
4a G
3a I
4a I
5a D
4a E
4a D
3° Classificato
Arianna Ferrario
Marika Pignatelli
Elena Cattaneo
Lucia Gardenal
Vincenzo Calvaruso
Cristina Sanvito
Chiara Grumelli
1a G
3a C
5a G
2a I
3a H
4a D
4a A
2002
1° Class. poesia
2°
1° Class. prosa
2°
Alessandro Sala
Federica Archieri
Caterina Cenci
Alessandro Dulbecco
4a H
5a L
4a H
3a C
2003
1° Class. poesia
2°
1° Class. prosa
2°
Alesssandro Farsi
Cristina Pozzi
Alessandro Dulbecco
Pietro Spinelli
5a E
3a D
4a C
4a B
2004
1° Class. poesia
2°
1° Class. prosa
2°
Margherita Corradi
Riccardo Tremolada
Paola Molteni
Pietro Spinelli
2a L
2a L
5a F
5a B
2005
1° Class. poesia
2°
1° Class. prosa
2°
Margherita Corradi
Paolo Marchiori
Roberta Motter
Veronica Merlo
3a G
2a F
3a G
3a G
2006
1° Class. poesia
2°
1° Class. prosa
2°
Armando Petrella
Andrea Guadagnino
Veronica Merlo
Gabriele Bambina
2a C
5a B
4a G
4a F
2007
1° Class. poesia
2°
1° Class. prosa
2°
Gabriele Bambina
Lorenzo Pasciutti
Francesca Montanari
Matteo Goggia
5a F
3a D
3a A
5a G
2008
1° Class. poesia
2°
1° Class. prosa
2°
Lucca Cazzaniga
Paolo Marchiori
Lorenzo Pasciutti
Alice Spreafico
5a E
5a F
4a D
5a H
2009
1° Class. poesia
2°
1° Class. prosa
2°
Giona Casiraghi
Claudio Rendina
Sveva Anchise
Riccardo Galli
5a H
5a B
3a H
5a F
Concorso Letterario "Federico Ghibaudo"
anno 2010 - 16a edizione
“LA GIURIA”
Massimo Gandini
Paolo Merati
Chiara Bona
Federica Villa
Giacinto D.Lucarelli
Francesca Terruzzi
Stefano Sanfilippo
4a - A
4a - A
4a - C
4a - C
4a - E
5a - B
5a - E
“IL CONCORSO”
Il concorso è riservato agli studenti del Liceo “Frisi” ed ha
un grosso difetto, i vincitori ufficiali sono pochi, mentre ogni
partecipante, che ha messo nero su bianco le sue idee, le sue
esperienze, la sua fantasia, la sua anima, per farle conoscere
agli altri, ogni partecipante, è un vincitore.
Ma le regole consolidate per i concorsi, che sono poi le
stesse che spingono a partecipare, richiedono una classifica
che, per le innumerevoli varianti in campo, non potrà che
essere imperfetta.
I componimenti sono quelli originali, non è stato previsto
nessun intervento sugli stessi da parte di nessuno, con
l’obiettivo di non creare interferenze di nessun genere sulla
spontaneità degli elaborati.
Invitiamo pertanto ogni singolo lettore a trovare il SUO
componimento preferito e a far suo lo stile ed il messaggio in
esso contenuto. Questo concorso vuole infatti proporsi come
punto di ritrovo, come un punto di confronto, una palestra
per idee, sentimenti ed emozioni.
“INTERNET”
I testi di tutti i concorsi, dal primo fino all’attuale
si possono trovare su internet al seguente indirizzo:
http://www.premio-liceofrisi.it
Premio Letterario “Federico Ghibaudo”
anno 2010 - 16a edizione
“LA BIBLIOTECA”
in biblioteca sono disponibili
per la consultazione,
i fascicoli delle precedenti edizioni del Concorso...
...oltre una copia dei seguenti libri premio:
1996
L’Alchimista - Paulo Coelho - Bompiani
1997
Messaggio per un’aquila che si crede un pollo
Istruzione di volo per aquile e polli - Antony de Mello..-..Piemme
1998
Il viaggio di Theo - Catherine Clèment - Longanesi
1999
Abbiate coraggio - Francesco Alberoni -
2000
Perchè credo in Colui che ha creato il mondo
Antonio Zichicci - il Saggatore
2001
Il mondo di Sofia - Jostein Gaarder - Longanesi
2002
Il tao della fisica - Fritjof Capra - Adelphi
2003
L’universo in un guscio di noce - Stephen Hawking - Mondadori
2004
Storia della Filosofia Moderna da Cartesio a Kant
Luciano De Crescenzo - Mondadori
2005
Che cosa sappiamo della mente - Vilayanur S.Ramachandran - Mondadori
2006
Menti curiose - John Brockman - Codice Edizioni
2007
Alla ricerca delle coccole perdute
Come diventare un buddha in cinque settimane
2008
Giulio Cesare Giacobbe - Ponte alle Grazie
Complessità - Morris Mitchell Waldrop - Instar Libri
2009
L’io della mente - D.R.Hostadter e D.C.Dennet – Adelphi
2010
L’impero greco-romano - Le radici del mondo globale – Paul Veyne - Rozzoli
Premio Letterario “Federico Ghibaudo”
anno 2010 - 16a edizione
Primo Classificato
“LA BOMBA E LA CENERE”
di Alessandro Boggiani - 5a B
Ma ciò che lo ferì profondamente nell’orgoglio fu l’immagine di lei che si sporgeva da ogni foglio
lontana dal ridicolo in cui lo lasciò solo, ma in prima pagina col bombarolo.
(Fabrizio De Andrè - Il Bombarolo)
Farewell the ashtray girl, forbidden snowflake. Beware this troubled world, watch out for
earthquakes (. . .) Sometimes it’s faded, assassinated. For fear of growing old
(Placebo - This Picture)
Aveva davvero importanza chi era stato il primo? No, in fondo, anzi, non ne aveva affatto.
Chiunque avesse iniziato a definirla macchia, oramai quel nome gli era rimasto appiccicato
cozza-style e al quartiere Rinotti (dal nome dell’architetto che lo aveva concepito) non
importava molto. Il perché lo chiamassero così invece era chiaro: circondato da villette da
Beverly Hills, si ergeva inquietante e dispotico esattamente al centro di quel piccolo centro
abitato sperduto nella Bassa Padania. Era costantemente, perennemente accerchiato da una
nuvola di nebbioso smog, e conteneva altissime case popolari ispirate chiaramente al Villaggio
Coppola, ecomostro vicino Castel Volturno. A tutto ciò, andava aggiunto che era racchiuso in
un raccordo autostradale sopraelevato, unico collegamento del paese con il mondo reale.
Questo faceva sì che di notte, con le luci dei palazzi accese e le macchine sfreccianti intorno,
la macchia assomigliasse all’Enterprise di Star Trek, attaccata dalle piccole, ma rapidissime,
navicelle aliene.
Quanto agli abitanti, invece il panorama era assai vario: extracomunitari, disoccupati,
studenti, pensionati rimasti soli, nobili decaduti, un paio di ex galeotti e una pornostar fine
carriera, sommariamente eletta a star locale. Nonostante il melting pot, nella macchia non
c’era poi un grande tasso di criminalità, eppure l’unica volta che il quartiere aveva fatto
parlare di sé nelle cronache locali, era stato perché avrebbero voluto costruirci un muro
intorno. Un referendum abusivo aveva fermato l’iniziativa.
Si alzò dal letto barcollando. Aprì la finestra e una luce inquinata investì la stanza gettandola
in quel torpore generale da cui, da mesi, non si rialzava più. Guardando fuori, l’unica cosa cui
riuscì a pensare, con una punta di rammarico, era che neanche quella notte era finito il
mondo. Sperò quantomeno che le trombe dell’Apocalisse che aveva sentito la sera prima
fossero quelle bitonali di un tir in sorpasso sul raccordo, guidato da un tizio che si chiamava
Gabriele Arcangelo. Tutto sommato era possibile.
Prima che alla faccia stropicciata, ai radi capelli di un castano stravagante, alla barba a
chiazze, diede un’occhiata al panorama fuori dalle persiane, mozzafiato nel vero senso della
parola, a causa degli idrocarburi disciolti nell’aria. Abitava al 5° piano di una cosa indefinibile,
simile alle orrende creature contro cui faceva lottare Superman o l’Uomo Ragno nei suoi
disegni di bambino, 30 anni prima. Solo che i suoi eroi vincevano, lui aveva perso e il mostro
l’aveva inghiottito facendolo vivere nella sua pancia. Avendo la finestra esattamente sulla
stessa linea d’aria dell’autostrada, non si poteva definire orizzonte quello che vedeva. Ma c’era
stato un tempo, lo rivide per un attimo, in cui la vita gli era sembrata più facile di come te la
raccontano. Una bella villetta in stile Beverly Hills fuori dal Rinotti, un bel lavoro, un bella
moglie, un figlio, un sacco di perbenistica ipocrisia sociale. Per lui, in gioventù militante
anarchico-insurrezionalista, tutto questo rappresentava un insulto, ma col tempo ci si era
abituato e la vita borghese aveva smesso di fargli schifo, anzi.
5
Poi tutto era svanito. Come era stato possibile? Lo sapeva eccome ma per il momento non
aveva voglia di pensarci. Tanto sarebbe stata una giornata lunga. Eh, sì perché per lui quello
era un giorno importante. Apri l’armadio, indossò jeans e maglietta degli Slayer e guardò la
sua creatura. Adorava il suo nuovo lavoro, e si era dedicato con paterno amore a quei 7kg di
tritolo oramai pronti all’uso che ora contemplava in poetica adorazione.
Quei pochi chili erano ovviamente pochi per quello che aveva in mente, ma aveva preparato
anche tutto il resto dell’operazione. Con quel tritolo si sarebbe trasformato in un kamikaze e
avrebbe distrutto il municipio. Ma il detonatore era doppio e l’altro era collegato a distanza
con 30 kg di materiale esplosivo vario, nascosto sotto la lattuga selvatica e il tarassaco, vicino
a uno dei pilastri che sorreggevano il raccordo. Quella robaccia gli era costata quasi tutti i suoi
soldi. Non poteva fallire. Non ora che la sua vita si era ridotta a quello. Si cinturò con le
bombe e indossò un cappotto di lana con cappuccio in pelo di emu che, rifletté, al 21 di
agosto poteva destare qualche sospetto. Ma tanto nella macchia vigeva una certa omertà
menefreghista e nessuno si sarebbe chiesto nulla. Chiuse la porta facendola sbattere e quella,
traditrice, per tutta risposta fece cadere la maniglia in ottone sul suo alluce destro. I piccioni
terrorizzati scapparono dal cornicione.
Lei era bellissima. Lo era sempre stata e glielo avevano sempre detto, nei modi più svariati.
Alta, magra, lunghe gambe sottili, profondi occhi verdi e capelli biondo cenere. Un dea.
L’unico difetto era il colore della pelle, che era sempre stata, più che rosea, grigiastra. Lo
avevano attribuito ad ogni malattia possibile, ma ogni geniale opera di diagnostica medica era
stata miseramente smontata dalle analisi. Quell’oscuro e innaturale pallore era solo un tratto
somatico che l’avrebbe contrassegnata per sempre. Ma in fondo era splendida lo stesso,
bastava farci l’abitudine. Inoltre il fatto di abitare nella macchia faceva si che il suo viso fosse
in perfetta sintonia cromatica con gli edifici e con l’atmosfera pesante. Guardò la parete e lo
vide lì, nello specchio, quel volto inespressivo e fuligginoso. Accanto allo specchio fermò lo
sguardo ancora trasognato del dormiveglia, come tutte le mattine, sulla causa delle sue
sventure, che se ne stava lì a sfotterla dalla sua bella cornice dorata. Laurea in lingue e
letterature scandinave con master all’università di Helsinki. Un pezzo di carta inutile. Tanto
tempo fa, tutto ciò aveva voluto dire emancipazione: dalla famiglia che la voleva medico, da
un fidanzato che la voleva avvocato, dalle amiche che la volevano ingegnere. Ormai voleva
dire solo disoccupazione e squallore. Ridotta dalla crisi degli alloggi a vivere nella macchia.
Ma, d’altra parte, non poteva chiedere aiuto a nessuno. La sua famiglia se n’era scappata
all’estero per ragioni misteriose, ai suoi “amici” non avrebbe domandato una mano neanche
per portare fuori il suo pastore tedesco Selma, figuriamoci per salvarle la vita. Era sola. Anni
prima, si era illusa che la vita le avrebbe lasciato spazio per i suoi sogni, per le sue speranze e
aspettative. E invece il tempo era stato spietato, e non le aveva neanche fatto la cortesia di
spazzare via tutto in un attimo. No. Aveva lentamente corroso la sua serenità, come le
formiche divorano una carcassa. Si avviò verso un’altra giornata di routine: al calI center
qualcuno le avrebbe chiesto di uscire a cena, qualcuno come si riparava una lavatrice,
qualcuno cos’era un generatore Van de Graaf o qualche altra assurdità, e qualcuno che
biancheria intima indossava. Tutti, per motivi diversi, con lo stesso tono ansimante.
“Sei un fallito! Lo sei sempre stato! Ma come cazzo ti è venuto in mente di mettere in mano a
quello stronzo di Rinotti tutti i risparmi della mia vita?”
Ovviamente l’ascensore non funzionava, come d’altra parte nelle ultime 2 settimane.
Evidentemente i suoi coinquilini avevano reputato che facesse troppo caldo per alzare il
ricevitore e chiamare un tecnico. Avrebbe dovuto fare le scale, che con addosso svariati chili
di esplosivo e un detonatore attivo non sono proprio il massimo della vita anzi, si avvicinano
al minimo.
“A parte il fatto che casomai sono i miei risparmi, visto che tu non smuovi il culo di casa tutto
il giorno e devo mantenere la tua vita da gran signora. E comunque come facevo a sapere che
quello era un imbroglione? Pensavo che essendo un famoso architetto, fosse un bene investire
6
sulla sua società. “
Noooooooo, quella grandissima rompicoglioni della vedova Salvatori con le borse della spesa.
La salutò. Errore madornale.
“Ma chi, Rinotti? Ma hai visto che cosa ha tirato su? Quell’orrendo quartiere popolare per
poveracci e immigrati. Come potevi credere che avrebbe fruttato?”
Mentre cercava di evitare che la signora Salvatori offrisse un tè a un futuro kamikaze che le
aveva portato i sacchetti stracolmi in casa, si chiese chi avrebbe mangiato tutte quelle
scatolette di prugne secche e cosa se ne facesse la signora di 12 tipi di spray per ambiente
diversi. Forse li testava e allora le due cose potevano avere una connessione, ma preferì non
indagare. Riprese a scendere, pregando Gesù Cristo, il profeta Maometto, il sommo Buddha e
il dio lucertola samoano che nessuno lo toccasse sul fianco destro.
“Mai sentito parlare di crisi degli alloggi?”
“Non fare lo spiritoso, stronzo. Sposarti è stato il più grande errore della mia vita. Sei solo un
perdente che ha fallito in tutto ciò che voleva fare nella vita. Dall’idealista ipocrita al grande
imprenditore pieno di soldi. Ma sono pronta a rimediare. Domani tu esci da questa casa insieme
a tutte le tue cose. E Simone resta qui con me”
Tre ragazzi che tornano dalla serata alle sette di mattina ancora ubriachi. “Questa è sfiga”
pensò. Non poteva arretrare ed era inutile pretendere che lo sgangherato gruppetto capisse la
situazione. L’unica era affidarsi al caso. Si buttò a capofitto in mezzo ai tre. Coi primi due
andò bene, ma il terzo, pilone dell’under 21 locale di rugby, lo scambiò per il mediano di
mischia avversario e lo placcò. Liberatosi, rotolò fino al pianerottolo, salutò il mondo e si
ripromise di riprovarci nella prossima vita. Ma il detonatore diede buca.
“Cosa? “
“Hai capito benissimo. Ho già avviato le pratiche per il divorzio con l’avvocato. Ci sto pensando
da tempo, ma ti ringrazio per avermi dato una scusa”
“Ma tu non puoi escludermi dalla vita di mio figlio”
“Sono cazzi tuoi, dovevi pensarci prima”
L’ultimo ostacolo furono i traslocatori che stavano liberando la casa del signor Moretti,
deceduto qualche giorno prima. Prese un comodino sugli stinchi e una gamba di tavolo in
testa, cercando di passare in fretta. Fortunatamente aspettarono per ritirare lo Steinway and
Sons che il defunto amava suonare alle 4 del mattino, senza sordina, nelle sue veglie insonni.
Al funerale non erano andati in molti.
Aveva portato fuori di casa i suoi scatoloni e salutato suo figlio. Quindi si era diretto all’agenzia
immobiliare, sapendo ciò che lo attendeva: la macchia. L’ironia del destino era divertente da
morire.
Aspettò la pioggia per non piangere da solo.
Fu un flash. Ogni tanto le capitava. Senza motivo, senza preavviso senza logica. La memoria
faceva di vent’anni un istante e la riportava indietro alla sua pubertà. A quando le era
successo. Il ricordo era come una foto in bianco e nero, sbiadita, ingiallita dal tempo, che però
riusciva a conservare forza, che la colpiva sempre, che si imprimeva vivida nella sua anima.
Aveva 12 anni e sul viso neanche un’ombra, ma solo la candida ingenuità di coloro ai quali,
per il momento, il mondo è stato risparmiato. Le foto, da una, divennero molte e scorrevano
sempre più veloci, creando un movimento, in un flusso che lei avrebbe voluto fermare,
arginare. Ma sapeva che era impossibile. Lei che si ferma dopo scuola a parlare con
l’insegnante di ginnastica. Lui che la spinge nel magazzino degli attrezzi. La sigaretta spenta
sul suo petto. Le mani sotto la maglietta. La perdita di tutto. La promessa di silenzio.
7
Il meccanismo mentale che era scattato in lei avrebbe reso qualsiasi psicanalista un uomo
felice. O disperato, dipendeva dai soggetti. Ma sicuramente sarebbe potuta diventare un caso
clinico, se non avesse mantenuto la promessa di silenzio anche ora che il professor Costa era
morto e aveva un meeting di atletica giovanile dedicato alla sua memoria. Infatti sulle prime
non era stata affatto traumatizzata. Il tempo l’aveva trattata come al solito. Il retaggio di
quell’evento si era manifestato nel tempo, in tutta una serie di manifestazioni deboli, ma
significative. Nel suo non sapersi rapportare con sua madre. Nel suo non poter coltivare
un’amicizia stabile. Nel suo inconscio odiare l’amore, al punto da non aver detto addio, anni
prima, all’unica persona di cui le fosse mai veramente importato qualcosa, prima che un treno
se lo portasse via. Ma soprattutto nella sua insana paura del futuro. L’idea di diventare adulta,
di staccarsi dalla sua parte infantile che la proteggeva, era insopportabile. La bambina
traumatizzata che era in lei si rifiutava. Ma il tempo non aveva fatto sconti e la sua infelicità si
rifletteva tutte le mattine in quel volto grigio d’espressione e di colore.
Il flusso dei ricordi era come un tir di allucinogeni. Uscì di casa e si vide immersa in un’aurea
verdognola, tra piramidi capovolte e cieli di marmellata. Vide la musica e ascoltò i colori. Il
suo vicino di casa, il geometra Rovelli, prese l’ascensore su un veliero. Sentì brandelli di
discorsi:
“Ma gli elefanti gialli producono termosifoni?” “Dipende dalle maniglie”
“E se fosse una questione di eliche?”
“Pendagli da forca! I senatori pensano solo a banchettare.”
L’ultimo a parlare doveva essere stato il signor Mastandrea, ex docente di filologia affetto da
Alzheimer. Recuperò le facoltà cognitive quando il portiere le chiese se avesse dimenticato lei
un ombrello di pizzo nel locale biciclette.
Stava sudando come un tacchino la vigilia di Natale, aveva pestato una cicca che rendeva
appiccicosamente difficile ogni passo, era stato preso a borsettate da un donna paranoica che
lo credeva un maniaco, benché i jeans spuntassero da sotto il cappotto. La vera sfida, pensò,
era non suicidarsi prima di aver compiuto l’opera. Per strada, guardò le facce. Volti scossi,
senza vita apparente, ammalati di paura. Lui avrebbe restituito loro rumore e disordine.
Che male la testa! Ma che cazzo aveva quella nella borsa, il cadavere del marito? Camminò
dieci minuti verso i cancelli della macchia, poi la vide.
Assistette, come sempre, al risveglio della macchia. Nei pochi passi che la separavano dal call
center vedeva ogni giorno le stesse immagini. Lo smog imbiancava le luci e copriva l’orizzonte
alla vista, all’udito, all’olfatto. Lentamente, i lampioni cedevano il passo. Il calore cominciava a
salire dal suolo. Si girò senza motivo e puntò gli occhi su di lui.
I loro sguardi si incrociarono dai lati opposti della strada, per un istante infinito e fecero
breccia nelle corazze delle loro vite. Furono invasi da una sensazione che non conoscevano.
Era come un calore inatteso, che faceva piacere nonostante i 35 gradi di umido inquinamento
di quell’estate avanzata. Faceva piacere perché scioglieva il freddo che avevano dentro.
Attorno a loro tutto si fermò: le macchine smisero di passare, i passanti di vociferare, gli
ambulanti di urlare. Si udiva solo una radio gracchiare in lontananza una vecchia canzone,
che loro non avevano mai sentito.
Lei si liberò delle sue paure, che cadendo produssero un rumore sordo. Istintivamente fece un
passo in avanti, verso la strada, incurante del mondo attorno che li guardava immobile,
producendo scie di luce.
Lui nuotò negli occhi di lei e raschiò il barile della sua memoria per trovare altri momenti
simili. Non ne trovò e mosse un passo in avanti. Si chiesero all’unisono se quella fosse la
felicità.
Sputando liquame dai tubi di scappamento, passò a folle velocità il 64 che usciva dalla
macchia, che si frappose esattamente al loro sguardo e rischiò di investirli. Entrambi si
voltarono e si scansarono, chiudendo gli occhi per la fumata nera. Quando rialzarono la testa
e guardarono il marciapiede di fronte lo videro vuoto, occupato soltanto da un tizio con un
ridicolo cappotto invernale e da una ragazza di uno strano colore.
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Premio Letterario “Federico Ghibaudo”
anno 2010 - 16a edizione
Secondo Classificato
“LA MACCHIA DI PULITO”
di Vanja Vasiljević - 3a C
Mi chiamo Alice Pennati, ho 36 anni e sono una donna delle pulizie.
Il mio lavoro consiste principalmente nel raccogliere il sudiciume che vi lasciate dietro
cercando così di mettere ordine nelle vostre vite. È un mestiere difficile che richiede tanto
fegato, una certa vocazione per straccio e CIF e soprattutto forte curiosità per le vite altrui.
Non avete idea di quanto io possa capire della vostra vita grazie alla presenza (o assenza) di
alcuni oggetti nelle vostre dimore.
Una delle faccende più divertenti è pulire il frigorifero, magico scrigno colmo di sorprese;
sono diventata talmente esperta che dalle macchie di cibo so stabilire la data a cui risale
l’ultimo lavaggio. Il fattore più interessante però è il contenuto. Frutta e verdura abbandonata
da una settimana arricchita da deliziosi ammassi di muffa, jogurt scaduto da quattro giorni,
succhi di frutta neanche aperti; magari il tutto corredato da avanzi di Mc Donald’s della sera
precedente? Come non intuire subito l’ennesimo tentativo di una dieta che non vuole
ingranare. Oppure aprire e trovarsi davanti al vuoto cosmico, se non fosse per il tubetto del
ketchup e i cibi surgelati nel freezer. Quanta delizia, quanto piacere nell’annunciarvi che ci
troviamo di fronte a un giovane che abita da solo, credendo di poter rendere soddisfacente la
propria vita con una carriera.
Un’altra mansione che mi appassiona assai (nonostante il ribrezzo che suscita in molti
individui) è separare la spazzatura che buttate in un unico contenitore secondo la raccolta
differenziata. Ritengo che si tratti di un’azione molto complessa per i cervello umano, non
avendo ancora trovato un datore di lavoro che sappia distinguere la carta dalla plastica.
Ebbene se trovo swiffer usati, sacchetti dell’aspirapolvere pieni, confezioni di Mastro Lindo
vuote capisco immediatamente che avendo paura del mio giudizio, avete pulito prima del mio
arrivo; quindi siete insicuri e sopraffatti da complessi di inferiorità.
Ovviamente non approdo a queste diagnosi senza prima averle confermate da altri sintomi
nella casa. Mentre spolvero la libreria non posso desistere dal leggere i titoli dei volumi che mi
trovo davanti e esaminare con attenzione quelli che sembrano più logori. Opere filosofiche o
romanzi rosa stracolmi di sentimenti stereotipati? Sono infinite le informazioni che posso
trame.
Qualche settimana fa però sono finita nella casa di una signora sessantenne, in via de Gasperi
6; dico “finita” perché ho dovuto sostituire senza preavviso una mia collega e dalla fretta non
mi ricordo neppure per quali vie sono passata. Non avevo alcun pensiero per la testa se non
finire il prima possibile per poi tornare a casa e rileggere Anna Karenina con il mio gatto Pel
accovacciato tra le gambe.
Sono arrivata davanti all’uscio; tre mandate.
Apro la porta e... splendore! mi sono sentita quasi accecare dal bagliore che ogni superficie di
quella casa emanava. Avevo la sensazione di essere finita nel Paradiso delle donne delle
pulizie, dove i pavimenti brillano di luce propria, le finestre sembrano non avere vetri e si
assapora un delicato profumo di Glade. Presa da un’irrefrenabile voglia di esplorare quel
nuovo mondo ho chiuso la porta e mi sono sentita un’investigatrice. Non ho mai visto
pavimenti così curati, il marmo lucido senza una briciola; il parquet levigato, privo di difetti,
come se nessuno vi avesse calpestato sopra. Non ho scorto neanche una micro particella di
9
polvere (e credetemi ho un occhio sopraffino per queste cose), come se il tempo si fosse
fermato, come se in quel luogo la sciagurata non potesse esistere. Con molta cautela sono
scivolata in cucina e ho sentito il cuore fermarsi di fronte alla totale assenza di piatti da
lavare, alla mancanza di macchie sui fornelli, al frigorifero gonfio di pietanze messe in ordine
secondo uno schema preciso. Pervasa da un senso di gioia sono corsa in bagno e quelle
merveille! Il water era talmente lindo che penso che chiunque avrebbe preferito mangiare lì
piuttosto che sui tavoli dei fastfood; la doccia, ah la doccia!, troneggiava in fondo alla stanza
priva di calcare, perfetta; il lavandino sembrava sorridermi e lo specchio non sembrava
riflettere la realtà, ma rappresentarla.
In quel momento però, vedendomi riflessa, ho avuto la sensazione di non essere al posto
giusto. Sì, insomma, che cosa ci facevo io, donna delle pulizie, in un mondo in cui la mia
mano non era necessaria ad alcunché? Un mio intervento avrebbe soltanto rovinato l’ordine
perfetto, lo avrebbe alterato. Perché la proprietaria aveva chiamato un’agenzia di pulizie per
una casa già pulita? Non aveva senso.
Non si vedeva nemmeno una traccia di sporco in quella casa, eppure ne sentivo la presenza,
come quelle macchie che non si vedono ma ci sono, quelle macchie che non macchiano ma
lasciano l’odore. Non è possibile che una casa abitata possa non avere nemmeno un segno
delle persone che ci vivono dentro.
In quel momento qualcuno ha bussato alla porta e distogliendomi dai miei pensieri. Sono
andata ad aprire e mi sono trovata davanti ad una donna non più nel verde dei suoi anni, con
occhi poco inclini alla gentilezza, che corrispondeva alla descrizione della proprietaria che mi,
aveva stilato in breve la mia collega.
«Ancora qui?» ha tuonato; un brivido mi ha percorso la schiena. Ho sentito la sua voce roca
percorrermi il cervello e finire dritta nelle gambe con conseguente perdita di equilibrio.
Riacquistata coscienza di me stessa ho risposto:
«Beh, sì», e che risposta idiota, ovvio che ero lì! «stavo giusto giusto per andarmene».
«È sicura di aver pulito tutto a dovere signorina? Sa, domani arriva il mio figliolo, vorrei che
fosse tutto a posto, senza alcuna macchia».
«Sì, certo! Arrivederci signora». Ho cinguettato e scivolando tra lei e la porta sono sgusciata
fuori.
Prima di salire in macchina l’ho sentita accendere l’aspirapolvere.
Era come se quella donna si sentisse sporca, in colpa per qualcosa, come se avesse una
macchia addosso e tentasse in tutti i modi di cancellarla, di detergere il suo animo.
Un paio di settimane dopo ho scoperto che non c’era nessun figlio.
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Premio Letterario “Federico Ghibaudo”
anno 2010 - 16a edizione
Premio Speciale Giuria
“VIAGGIO ALL’INFERNO”
di Mariangela Rapisarda - 4a C
Mattina.
Freddo.
Pioggia.
Un ragazzo scende in strada.
Macchia rossa. Si ferma.
Macchia verde. Cammina.
Tutto intorno a lui corre.
Lui non ha fretta.
Il suo è un viaggio all’inferno.
L’ennesimo.
Una via lunga. Tante macchie come lui.
Sempre di più e sempre più lente.
Peccatori afflitti che devono scontare la pena che li accomuna.
Maledicono il giorno in cui hanno deciso di sfidare le colonne d’Ercole.
Un vento turbinoso. Pioggia di fango.
L’ora si avvicina. Il ragazzo, rassegnato, sospira.
Paolo e Francesca lo compatiscono.
Ciacco ride di lui. Farinata non lo degna di uno sguardo.
Ormai il dannato ha le visioni.
Piange. Le lacrime si gelano sui suoi occhi.
In lontananza una macchia arancione.
Si avvicina. I colori si distinguono.
Rosso e giallo.
Il terrore. Nuove torture lo attendono.
Un cancello. La porta dell’inferno.
«Lasciate ogne speranza voi ch’intrate».
Ora tutto è verde. Uno strazio.
Atrio. Tante macchie che sospirano.
Profumo di brioches e leccornie.
11
Ora fuori il sole splende.
L’ennesima tentazione alla fuga.
«Caron dimonio, con occhi di bragia
loro accennando, tutte le raccoglie;
batte col remo qualunque s’adagia».
È Valentino che chiude i cancelli.
Campanella. L’ascesa ai gironi.
Banchi ogni giorno sempre più freddi e distaccati.
Anche loro si beffano di lui.
Niente per salvarlo dal martirio.
Le Malebranche entrano con il registro.
Uno sguardo. Lo sventurato ricorda l’interrogazione:
un nuovo Ciampòlo di Navarra, arruncigliato nella pece bollente.
Ormai è delirio.
Campanella. Benvenuti all’inferno.
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Premio Letterario “Federico Ghibaudo”
anno 2010 - 16a edizione
Premio Speciale Giuria
“…”
di Clara Rossi- 2a A
Sono tutti in fila.
Bambini che urlano, madri che piangono e che chiudono loro gli
occhi, sperando che questo orrore non entri nei loro ricordi.
Intorno a loro tutto brucia, tingendo il cielo di rosso.
E loro sono in fila.
Bendati. Per non veder arrivare la morte.
E la aspettano.
Aspettano la pena per qualcosa che non hanno commesso.
“Rappresaglia”, così la chiamano: uccidere degli innocenti per una
colpa altrui.
Un altro sparo, un altro corpo che cade, un altro figlio ormai orfano,
un’altra donna vedova.
Schizzi di sangue sul muro, prima solo accenni di quell’ingiustizia,
poi sempre di più, fino a dar vita ad una macchia enorme.
Una macchia che resterà per sempre, nonostante le scuse,
i perdoni, i tentativi di nasconderla e di giustificarla.
Una macchia che non va cancellata per ricordarci quante vittime
può fare la follia dell’uomo.
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Premio Letterario “Federico Ghibaudo”
anno 2010 - 16a edizione
Premio Speciale Giuria
“_MACCHIA_”
di Lisa Manieri - 4a A
In quella stanzetta dalle lucide piastrelle in candida ceramica l’odore di un’umanità
affranta e annientata dalla violenza permeava pungente il naso, s’infilava mellifluo nelle narici
arrivando prorompente allo stomaco e nauseando perfino l’animo.
Bisognava eliminarne le radici per debellarlo, così come si cancella una macchia sudicia da
un bianco muro. La tendenza all’ordine insita nell’Uomo vuole manifestarsi ad ogni occasione
in ogni modo, fungendo da forza motrice per quel colpo di spugna intento a ripulire quella
piccola macchia sul muro, nel tentativo di riportare all’uniformità la superficie da essa
contaminata. Questa tendenza alla perfezione non comprende eccezioni, ogni singola
impurità viene automaticamente rimossa in modo assolutamente definitivo. Cercai di
riconoscere qualche mio gesto passato in questa inclinazione dell’animo umano e riportai alla
mente la mia vita prima dell’inferno: un ricordo sfumato di ciò che a stento si crede sia
esistito. Ricordai come una volta mi ero tanto accanita su di una macchia di caffè, che
risaltava tanto maldestramente sull’abito bianco da sposa, ricordai il sollievo di quando riuscii
a farla scomparire. Mi resi conto di quanto potesse essere gratificante agire su qualcosa
mirando ad un suo perfezionamento.
Durò soltanto un istante e malgrado ciò mi dannai crudamente per ciò che provai, un
disperato senso di commiserazione verso ciò che Loro stavano compiendo. In quell’attimo
Loro avevano vinto, in quell’attimo io avevo giustificato tutto il dolore e le sofferenze che
avevano imposto, l’ingiustizie e le violenze che stavano compiendo e il massacro che
avrebbero continuato inesorabile, fino a quando la Loro macchia non fosse stata sradicata dal
mondo e resa in cenere. Loro disinfestavano l’umanità dalla feccia e dal degrado.
Chiusero la porta in ferro pesantemente e noi sentimmo la spranga serrarla. Ecco
l’ennesimo tentativo di quel processo di disinfezione del mondo.
Mi avvicinai al mio compagno del quale non sapevo né nome né numero, mi strinsi a lui
anche più di quanto il nostro affollamento non mi costringesse già a fare, benché nessun
contatto umano sarebbe stato capace di colmare la mia solitudine. I nostri sguardi opachi
s’incontrarono e videro un ultimo bagliore di vita riaffiorare dal torbido di un animo svuotato
d’ogni identità e dignità.
Udimmo il sibilo mortifero nei tubi che ci sovrastavano. Trassi un profondo respiro e sentii
la tensione e l’ansia accumulata in mesi d’inferno sciogliersi mentre il veleno fluiva veloce
nelle vene. Sognai la mia patria, la mia casa, i miei amici, i miei famigliari, tornai in quella
visione onirica che era stata un tempo la mia vita.
L’esile mano alla quale mi aggrappavo cedette con la mia, piombando finalmente nel
riposo tanto sofferto e mai così disperatamente desiderato.
Alfine ancora una volta Loro avevano cancellato parte di quella macchia che assillava il
mondo come un cancro.
NOI, macchia dell’umanità, ceneri di violenze ingiustificabili, avremmo mondato la
coscienza di chi intollerante e brutale ci rese polvere.
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Premio Letterario “Federico Ghibaudo”
anno 2010 - 16a edizione
“COME L’ARATRO IN MEZZO ALLA MAGGESE”
di Lorenzo Raffaglio - 4a G
“Ohé! ohé! E’arrivata la primavera!” vociavano le lavandaie con le gonne danzanti, i capelli
raccolti nei veli scuri, le camicette un poco gualcite che lasciavano intravedere le forme
generose, gli zoccoli che grattavano la strada e lasciavano tracce tra i sassi, appoggiato
all’anca e retto col braccio il cestino con dentro i panni sporchi, il sapone, le spazzole,
camminavano verso il lavatoio del paese tra i primi germogli e il gorgogliare dell’acqua
nell’enorme vasca di pietra. Il sole quel giorno iniziava a splendere dopo il freddo inverno,
abbarbagliava e ridonava colore alle cose; Agnese china e intenta sui suoi panni insaponati, le
maniche tirate sopra i gomiti, mostrava una certa dimestichezza nel lavare e con metodo e
velocità sciacquava, inzuppava, toglieva lo sporco. I suoi occhi erano grigi e verdi con scaglie
ambra, occhi puri e gentili, buoni ma con un velo di nostalgia e rassegnazione, lineamenti
delicati, un dolce sorriso, dei capelli ricadevano dal gruppo ordinato e racchiuso nel panno
grigio, ciocche marroni e riflessi d’oro, la pelle delle mani era rovinata dalle faccende e dal
lavoro nei campi, la vitiligine le chiazzava e sembrava che col sapone andasse ogni volta via
un po’ di colore, silenziosa e col grembo gonfio del futuro nascituro ascoltava le chiacchiere
delle altre intente nel suo stesso lavoro “La figlia del macellaio se la fa con l’Arturo! Quel
galeotto!” “Va là! Che colpo verrà alla Giuseppina appena lo verrà a sapere” le voci si
mischiavano ai colpi di spazzola e allo sbattere dei panni sulle assi di legno; Agnese ora era
indaffarata con la camicetta di Michelino, il più piccolo dei tre figli che amava girovagare per
il bosco, era un bambino molto silenzioso e se ne stava spesso sulle sue, “Ma come ha fatto a
sporcarsi in questo modo?” pensava tra sé e con maggiore energia cercava di cacciare lo
sporco ostinato; dava la sua vita alla famiglia, alla casa, si era sempre adoprata a far contento
il marito e figli, anteponendo i loro ai propri desideri, ma non le pesava. Con le mani
infreddolite dall’acqua accarezzava il suo grembo come se il bambino potesse giovare ai suoi
gesti d’affetto, carezze di pietà, che vita avrebbe condotto? Da povero, destinato a morire
povero e a spaccarsi la schiena fra i muggiti e il respirare della terra arata, tra il banco dei
pegni e l’osteria, tra le damigiane e il puzzo, costretto a condividere il letto con la moglie e i
figli e vederli infreddoliti nelle notti d’inverno con il nasino arrossato uniti e stretti. Con forza
lavava i panni rendendoli lindi e profumati, come se potesse migliorare il futuro degli
indossatori, Agnese era contenta per carità della sua vita, le piccole gioie sbocciavano e
spiccavano come primule in un campo scuro e a riposo. Lasciò che il suo risentimento
sgorgasse giù per il tubo del lavatoio per poi sentirne subito la ricomparsa. Tra ondate di sole
e profumo di sapone e panni puliti, con i suoi due fardelli assieme alle altre si avviava verso
casa per preparare il pranzo.
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Premio Letterario “Federico Ghibaudo”
anno 2010 - 16a edizione
“UNA MAGLIETTA DI RICORDI”
di Gloria Riva - 4a A
Era una domenica pomeriggio di inizio primavera e finalmente, dopo le molte
sollecitazioni di mamma, avevo trovato il tempo, ma soprattutto la voglia, di fare il
cambio dell’armadio. Fuori la temperatura era ideale per un giro in centro o al parco
con gli amici, ma li avevo incontrati il giorno prima e, quindi, avevo deciso che potevo
anche rinunciare a quel divertimento. Il sole iniziava a scaldare, il cielo era limpido
senza nemmeno una nuvola, ma c’era vento, non quello leggero e piacevole, ma quello
fastidioso che ti provoca il mal di testa.
Non avevo tantissimi vestiti perché non mi piaceva andare a fare shopping, come
tutte le altre ragazze della mia età, ma preferivo correre, passeggiare con Clara, la mia
migliore amica, oppure stare in casa a dormire. Amavo riposare sul mio letto di una
piazza e mezza e stare i pomeriggi a non fare nulla. Quelle poche volte che mi recavo ai
centri commerciali o in centro per comprare qualche capo d’abbigliamento, dovevo
andare con mamma poiché, senza di lei, avevo sempre il timore che acquistassi
qualcosa che non fosse di suo gradimento. Con calma tirai fuori dal guardaroba i tre
maglioni pesanti, il paio di pantaloni in ciniglia, quattro o cinque magliette che non mi
piacevano e il piumino. Poi presi lo scatolone, che avevo in alto con l’abbigliamento
primaverile, lo svuotai, mettendo ciò che c’era dentro nell’armadio, e riposi i vestiti
invernali.
Avevo impiegato circa un’ora e ripensandoci non era stato un impegno così gravoso
e faticoso come avevo creduto. Stavo per rimettere al proprio posto lo scatolone,
quando dietro a tutto vidi una maglietta. La presi in mano. Era piccola, rosa, con i
bordini azzurri e un disegno al centro. Poi la girai per guardare cosa si nascondeva
dietro. C’era una macchia rossa e ricordavo bene che cosa fosse, così tutto d’un tratto la
gettai per terra e, presa dalla rabbia, la calpestai, ci saltai sopra e infine mi sedetti sul
letto e la fissai. Il mio viso diventò rosso, gli occhi si riempirono di lacrime e avevo
talmente tanta vergogna, mista a collera, che nascosi la faccia sotto al cuscino.
Avevo solo cinque anni, ero nell’età in cui capivo quello che accadeva, ma non
comprendevo ancora a fondo tutti i significati e i perché. Avrei voluto invece, non
ricordare nulla, avere un vuoto di quegli anni e credere che la mia vita fosse
incominciata più tardi, ma non era così. Vivevo in un’altra città, più a nord rispetto ad
ora e con me abitavano mia mamma Cristina e mio papà Mario. Con loro avevo un
buon rapporto, perché riuscivo a divertirmi sempre, a sorridere e a scherzare. Mi
ricordo i giri in bicicletta sul seggiolino di Mario, le visite allo zoo e i pomeriggi sugli
scivoli del parco giochi vicino a casa.
Un giorno mia mamma mi venne a prendere all’asilo molto triste, ma non capivo
perché, pensavo solo che fosse un pomeriggio un po’ noioso. Nient’altro. Ero piccola
non potevo capire di più. Il viaggio in macchina fu silenzioso e arrivati all’ingresso di
casa, mi sussurrò nell’orecchio di andare nella mia cameretta, senza porre troppe
domande. Entrammo in casa, salutai il papà e le ubbidii perché volevo bene alla
mamma e se lei mi dava un ordine, l’ascoltavo. Chiusi la porta, avevo quasi paura ma
non conoscevo esplicitamente il motivo di questo mio timore. Dopo circa venti minuti
sentii Cristina urlare contro Mario, sbattere le porte, un rumore di passi. Ora sì che mi
era salita l’angoscia e il terrore e gli occhi diventarono lucidi. Nonostante questo ero
forte, sapevo di esserlo. Aprii con delicatezza la porta della mia cameretta e andai a
vedere cosa stava succedendo: mio papà e mia mamma stavano litigando. Non li avevo
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mai visti discutere prima d’ora, mi sembravano sempre molto felici e non capii. Come
potevo comprendere qualcosa? Avevo solo cinque anni. Allora incominciai ad urlare e
piangere insieme e notai che a Cristina scendevano alcune lacrime. Mi disse di tornare
di là, ma ero paralizzata. A questo punto mio padre, che con il tempo scoprii essere
stato ubriaco, mi diede uno schiaffo sul viso e poi con un piede sulla schiena mi cacciò
via. Il giorno prima all’asilo mi ero graffiata proprio dove Mario aveva posto la sua
scarpa e così mi uscì sangue. Incominciai ad urlare ancora più forte, mia mamma mi
prese in braccio e urlò a mio padre di andarsene. Quel giorno facemmo subito le
valigie, prendemmo degli scatoloni e ci mettemmo all’interno il minimo indispensabile.
Per un po’ abitammo dai nonni, i genitori di Cristina, e poi comprammo casa.
Era tutta colpa sua, era a causa sua se per moltissimo tempo la notte mi venivano gli
incubi, se mi alzavo alle tre piangendo e se avevo paura degli uomini con la barba,
proprio come lui. Il sentimento che più di tutti gli altri provavo era la delusione. Ero
delusa da mio padre che mi aveva fatto credere di tenere a me, di starmi vicino e di
rendermi felice e, invece, aveva rovinato la mia vita.
Era solo una macchia, una macchia di sangue su quella maglietta rosa che mi aveva
fatto venire in mente tutto. L’avevo messa io in fondo all’armadio perché non avevo mai
trovato la forza di buttarla, probabilmente per paura. Non so neanche precisamente
paura di cosa, ma ero molto timorosa.
Quel giorno avevo deciso che doveva essere l’ultimo di quel capitolo, dovevo porre
fine a quella parte della mia vita e così presi la decisione di gettarla. Passai dal salotto
dove era seduta mia mamma, vide ciò che stavo facendo e capì tutto. Mi sorrise. Aprii il
cestino. Non avrei più rivisto quella bruttissima macchia rossa ed ero felice. Ero
contentissima.
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Premio Letterario “Federico Ghibaudo”
anno 2010 - 16a edizione
“UN MANGIA BANANE QUALUNQUE”
di Sveva Anchise - 4a A
Alfonso
Salvo
Alfonso
Salvo
Alfonso
Di là, un negro! Un negro!
Dove? Dove?
Lì, davanti a te imbecille. Quella macchia nera fra i cespugli!
Alfò! Più preciso, cazzo. Non posso sprecare pallottole per
abbattere bacche.
A ore undici.
Ok. Ho trovato il bastardo.
Ora, con calma e con la massima attenzione, avviciniamoci,
così da non mancare quel lurido verme mangia banane.
Vedrai che non avrà più voglia di scappare.
Salvo
Salvo
Alfonso
Salvo
Shhht.
Alfò, quando ti dico ora, lanciagli un sasso. Poi ci penso io.
Posso legarlo come un capriolo?
Già.
Alfonso
Salvo
Salvo
Bonk.
Salvo
Stai giù.
Bang. Pum.
Salvo
Alfonso
Salvo
Alfò ora tutto tuo. Legagli le zampe e caricalo sul furgone.
Ritorniamo in paese.
Ok, capo.
Ora impareranno a non pisciarmi più in giardino.
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Premio Letterario “Federico Ghibaudo”
anno 2010 - 16a edizione
“LETTERA APERTA AL GENERE UMANO”
di Mariangela Rapisarda- 4a C
Care lettrici e lettori del nostro editoriale,
questa settimana abbiamo deciso di pubblicare in versione integrale, invece del nostro
solito articolo, una lettera che è giunta alla nostra redazione qualche giorno fa. Come ben
sapete, noi lasciamo spazio alle opinioni di tutti e per questo abbiamo sempre pubblicato
tutte le richieste che voi con passione ci inviate tutti i giorni, magari un po’ ridimensionate
per una mera questione di spazio. Abbiamo però optato per la pubblicazione integrale di
questo scritto e ci scusiamo in anticipo con tutti voi se dedicheremo più spazio del solito a
questa lettera. Non è una preferenza, ma l’esigenza di porre integralmente un problema.
Non abbiamo modificato nulla, anche gli evidenti falsi storici ed errori linguistici. Non
risponderemo a questa lettera, come siamo soliti fare, per due ragioni: la prima è che lo
spazio del nostro giornale ed il tempo dei nostri lettori sono preziosi per poter rispondere
in questo editoriale; la seconda è più concreta, poiché nella busta in cui ci è giunta tale
lettera non vi era né nome né indirizzo del mittente.
Vogliamo ringraziare, sperando che possa leggere, il nostro amico che ha deciso con
coraggio di prendere carta e penna e porci un problema realmente serio nella nostra
società.
Grazie come sempre a tutti voi per la vostra fedeltà e passione!
MR
Uomini che credete di essere civili,
scrivo sdegnato questa mia presente a nome di tutta la comunità di cui faccio parte con
fierezza. Sono una macchia, anzi sono, per tagliare corto, l’equivalente del Presidente della
Repubblica. Voi barbari che credete di essere i padroni di tutto il mondo solo perché avete un
cervello che tanto non riuscite ad usare, avendo perso il libretto di istruzioni tanto tempo fa,
non riuscite a seguire frasi troppo lunghe di spiegazione, quindi arrivo subito al punto: noi
macchie siamo indignate e vogliamo farvi capire con un dialogo il più civile possibile che
anche noi abbiamo una dignità. Se non lo capite con le buone, saremo costretti ad attaccarvi
guerra e vi assicuro che, pur essendo piccole, abbiamo mezzi capaci di mettervi “knock out”.
Da un’infinità di anni voi avete voluto intraprendere una crociata contro noi macchie che
vivevamo pacifiche laddove fosse possibile e che non vi davamo alcun fastidio. Ebbene non
paghi di aver brevettato e diffuso quella “grande invenzione” che chiamate sapone, vi siete
spinti ancora più in là, sistemando nelle vostre case elettrodomestici che chiamate “lavatrici” o
lavabiancheria”, come volete chiamare quell’aggeggio malefico, “lavastoviglie”, lucidatrici” e
tutto ciò che vi servisse per eliminare la nostra comunità con la minor fatica possibile. Poi vi
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lamentate che le bollette per l’elettricità crescono, se almeno intraprendeste una battaglia
civile ad armi pari, cercando di sconfiggerci con “olio di gomito”, se proprio non ci sopportate,
invece che facendovi aiutare in maniera sleale da macchine. Nelle vostre pubblicità ci dipingete
come il nemico da sconfiggere, addirittura cercando di eliminarci a cento alla volta, “anche a
freddo”. Ma voi tutti vi siete mai fermati a riflettere, sempre che ne siate capaci, che i vostri
sono dei veri e propri soprusi contro di noi? Per voi noi macchie non abbiamo un’anima?
Ebbene eccomi qui, pronto a farvi ragionare. Iniziamo dal primo dato, quello che più
spesso vi sfugge: il nome con cui ci chiamate. In italiano il nostro nome è “macchia”, un po’
troppo breve e secco come nome, ma almeno passabile. Gli inglesi ci chiamano “spot”, che vi
richiama subito alle pubblicità, soprattutto di smacchiatori. Non parliamo dei francesi, che ci
hanno affibbiato l’appellativo di “tache”, che suona molto come “taci!” o per dirla alla
francese “tais-toi!”. Gli spagnoli, più degni di rispetto, avendoci nominato “mancha”, che non
può che ricordare il mitico “Don Chisciotte” di Cervantes, almeno ci hanno dato una dignità
letteraria.
Non parliamo poi di tutti i modi di dire che avete. “Macchiarsi di un delitto”, credete forse
che siamo criminali, perché vi sporchiamo i vostri preziosi indumenti o i vostri bei pavimenti?
E come conseguenza “darsi alla macchia”, non solo siamo dei criminali, ma siamo anche degli
evasi e dei ricercati? Grande considerazione che avete di noi, veramente. Gli inglesi poi con il
loro “the leopard never changes his spots”, un po’ come “il lupo perde il pelo, ma non il vizio”;
ma credete che siamo viziosi? E comunque, prendete spunto dal leopardo, che non si vergogna
delle sue macchie, ma ne va fiero.
Le macchie poi vi vanno bene se sono macchie “di luce”, o “spotlights”, i riflettori per gli
anglofoni, oppure se il caffè è “macchiato” vi deliziate. Se poi sono le macchie di quei bei
cagnolini che chiamate dalmata, come quelli de “La carica dei 101”, allora sono adorabili.
Ricordo perfettamente che qualche annetto fa era diffuso anche un libro per bambini, “Ecco
Spotty”, ed anche lì tutto a posto. Insomma quando vi facciamo comodo, siamo splendide,
tenere e tutto il resto, quando invece non vi siamo utili, allora siamo dei nemici da combattere
con tutte le vostre forze. Poi, se volete insultare qualcuno, dite che è una “macchietta”. Vi
piacerebbe se noi, per prendere in giro qualcuno, dicessimo che è un “bambino”?
Per noi avete una vera e propria fobia, che vi porta anche a cambiare i nomi di personaggi
che posssono alludere a noi. Il caso più lampante è quello di Niccolò Macchiavelli, o per dirla
come volete voi, Niccolò Machiavelli. In tutta fretta correggete coloro che dicono o scrivono il
nome di questo sublime letterato con due “c”, come sarebbe la scrittura corretta, commettendo
quindi anche un falso storico. Proprio così, perché se ne scomponete il nome, notate come sia
“Macchia-velli”. Il significato di “macchia”, pur se spesso frainteso, è noto a tutti voi, ma forse
vi sfugge come “velli” sia l’infinito passivo del verbo “volo”, che significa “volere”. Non sarebbe
quindi accettabile accostare il verbo “volere” al termine “macchia” e, dato che “Maccchianolli”
non vi suonava bene, allora avete optato per un più innocuo “Machiavelli”. Oppure avete
deciso di cambiare radicalmente il nome di questo intellettuale, mascherando dietro un errore
ortografico (spero voluto, altrimenti la vostra ignoranza sarebbe smisurata), una posizione di
estremismo e fanatismo. Dato che noi macchie siamo acculturate, sappiamo perfettamente che
“velli” è anche l’infinito passivo del verbo “vello” (non voglio scrivere l’intero paradigma,
perché tanto non sapete neppure cosa sia un paradigma), che significa “strappare”. Questo
avrebbe implicato come minimo una dichiarazione di guerra da parte nostra. Ma i nostri
saggi stagisti hanno optato per una politica di tolleranza nei vostri confronti, soprassedendo
su tale affronto. La situazione sta diventando ora realmente intollerabile perché siete diventati
ormai “macchio-fobici”. Quante volte le vostre mogli o fidanzate vi urlano dietro quando osate
sporcare una bella tovaglia o una camicia appena stirata? E voi, donne, quante ore passate
imbambolate davanti alla televisione a vedere l’ultima trovata per rendere la vostra casa
asettica, quanto vi affaticate a cercare di togliere macchie, anche a costo di usare la fiamma
ossidrica e poi appena avete finito ci sono quei criminali dei vostri figli e mariti che vi
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rovinano il lavoro di giornate intere?
Meditate, gente, meditate... Per ora vi arriveranno lettere per cercare di ristabilire una
convivenza pacifica, ma se supererete il nostro limite di sopportazione non guarderemo in
faccia a nessuno. Convivere con noi conviene anche alla vostra salute e tranquillità, vi
affannereste di meno.
So che metà di voi hanno abbandonato la lettura alla decima riga, un quarto si sarà
addormentato prima di iniziare la lettura e quel quarto che è arrivato fino alla fine ha
compreso a sprazzi qualche frase. Vi rinnovo l’invito a cessare le ostilità a senso unico,
altrimenti inizieremo un’azione militare.
Con i migliori auspici, nonostante tutto
Leader Supremo delle Macchie
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Premio Letterario “Federico Ghibaudo”
anno 2010 - 16a edizione
“LA MACCHIA”
di Camilla Di Nallo- 1a G
La macchia era lì, sulla gamba destra, poco sopra il ginocchio, leggermente
spostata a destra. Se ne era accorto da poco, ed era sicuro che fino al giorno
prima non ci fosse, ma aveva la netta sensazione di averla avuta da sempre. E
poi c’era quel pensiero che lo tormentava da diversi giorni, legato al ricordo
di tanti anni prima quando, con altri coetanei, tutti ragazzotti intorno ai
quindici anni, aveva passato il pomeriggio di una domenica al Luna Park,
venuto in paese per la festa patronale. “Ehi ragazzi, andiamo a farci leggere la
mano dalla chiromante!” -aveva proposto un amico-, e subito tutti, col tipico
entusiasmo degli adolescenti, si erano messi a correre verso il baracchino
della “maga”. Lui, in realtà, non era per niente tentato dall’idea, ma la
comitiva ebbe il sopravvento e, quando fu il suo turno di farsi leggere la mano
la chiromante gli rivelò alcuni aspetti del suo carattere rimasti fino ad allora
nascosti, ma tanto reali da renderglieli chiari e palpabili, quasi avesse potuto
toccarli con le mani. “Avrai tre esperienze sentimentali molto importanti -gli
aveva predetto la donna- ma nessuna si concretizzerà nel matrimonio, e verso
i trentanove anni un evento drammatico ti coinvolgerà”. La chiromante non
aveva potuto essere più precisa (o non aveva voluto?!), e, dopo aver passato
qualche giorno in preda alla paura più nera, lui ritornò alle normali abitudini
arrivando perfino a dimenticarsi dell’episodio. Ma ora quella macchia glielo
aveva prepotentemente riportato alla memoria, tanto più che la predizione si
era effettivamente avverata, e al 39° compleanno non mancava molto. La cosa
più banale che gli venne in mente fu di strofinarla con una spugna imbevuta
di sapone neutro, ma per quanti sforzi facesse la macchia non diminuiva di un
niente, e anzi pareva aumentare le proprie dimensioni. “Devo avere della
trielina in casa -pensò-. Forse è un rimedio un po’ drastico, ma a mali
estremi... estremi rimedi!” Come strofinò il batuffolo con la trielina, gli parve
che la macchia si ritirasse, e ciò gli diede un senso di euforia. “Insisti, che sei
sulla buona strada!” A mano a mano che procedeva col lavoro, però, una
strana debolezza lo assalì, come se qualcuno, attaccato a lui come una
cannuccia, gli succhiasse ogni energia. Non ci fece caso più di tanto, preso
com’era dalla frenesia di quel lavoro, ma era innegabile che più la macchia si
ritraeva, più le forze venivano a mancargli, anche se ormai sulla sua pelle
cominciava a intravedere una scritta, dapprima indistinta, poi sempre più
chiara. - 28 febbraio 2010 - lesse alla fine, la stessa data impressa sul
calendario appeso alla parete. Le forze, a quel punto, lo abbandonarono del
tutto...
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Premio Letterario “Federico Ghibaudo”
anno 2010 - 16a edizione
“APPUNTAMENTO COL DESTINO”
di Vanessa Fanelli - 4a C
Aveva avuto tante fantasie da piccola. Tanti sogni.
Tante passioni coltivate e poi, abbandonate lì a metà.
Ora stava percorrendo una strada. Non si poteva dire che la conoscesse bene perché, se si
fosse distratta anche solo un momento, si sarebbe persa nella macchia selvaggia di cunicoli e
strade campestri che attraversano, come vasi sanguigni, il corpo della Vecchia Brianza.
Aspettava un cartello. Quelli arancioni, con stilizzati sopra una bambina nera, dalle trecce
infiocchettate, che tiene per mano... un fratellino? Me lo chiedo perché non credo che per
puro spirito materno una ragazzina prenda per mano un qualunque bambino per fargli
attraversare la strada. Effettivamente era un po’ sessista come cartello: perché dobbiamo
essere sempre noi donne ad occuparci dei bambini? Perché non c’è un uomo che vada in
maternità, che si prenda due mesi di riposo dal lavoro, per stare col proprio figlio appena
nato? Sì, se fosse diventata un ministro (di che cosa non lo sapeva ancora, ma tanto che
cambiava?) avrebbe fatto sostituire quei cartelli. Sì, l’avrei fatto. Ma intanto doveva aspettare
di vederlo per poter girare a sinistra.
Un dosso. Due dossi. Niente più dossi. E quel cartello incriminato non arrivava più. Qualcosa
non andava. Fece un amaro respiro -Ah ... - con la bocca appena appena aperta in una smorfia
di rassegnazione, prima di ammettere che: aveva sbagliato strada. Guardò sia nello
specchietto di destra, che in quello di sinistra prima di accostare, mettendo la freccia, anche se
non c’era nessuno.
I lampioni scarseggiavano.
Un sentimento di angoscia cominciava a penetrarle nel cuore, ora che era nell’ombra tra due
lampioni. Poteva lasciar andare la macchina un po’ più avanti, in modo tale da essere sotto la
calda e rassicurante luce di quei soli della notte.
Ma non lo fece. Stette lì, con quel sentimento di impotenza che le ingrigiva il cuore e le
toglieva la voglia di vivere. E le piaceva restare rassegnata in quella condizione informe.
Faceva respiri profondi, per esistere. Ma era come se stesse affogando. Non riusciva più a
venirne fuori. In realtà era un bel pezzo che non viveva più, che non provava più emozioni,
che non guardava più il cielo e non si meravigliava più di non veder le stelle...
Le veniva in mente una poesia di Prévert, mentre pensava a tutto questo.
Che fosse un’umida speranza? Una piccola fiammella nutrita del proprio luccichio?
Déjeuner du matin. Quelle parole illuminavano come fiammiferi gli invisibili arabeschi di quel
mare di pece.
Prese il telefono.
Cercò nella rubrica un numero, perché non aveva voglia di impararlo a memoria, anche se lo
componeva almeno dieci volte al giorno. A cosa sarebbe servito d’altra parte? Non l’avrei più
chiamato, un giorno. Un giorno, sarebbe cambiato, un giorno ...
Il a mis le café
Dans la tasse
Il numero era sul display
Il a mis le lait
23
Dans la tasse de café
Lo chiamò
Il a mis le sucre
Dans le café au lait
-Pronto?
Avec le petit cuiller
-Sì?
Il a tourné
-Sono io. Ti va se vengo a casa tua?
Il a bu le café au lait
-Con C-A-L -M-A
- No, è perché... Ah! Sono dietro a casa tua e quindi, se volevi. Ecco... (Respira, ti prego!)
potevo venire.
Et il a reposé la tasse
-…
Sans me parler
-Ma, se non vuoi torno a casa. (Non mi dire di sì... )
Il a allumé
Une sigarette
Il a fait des ronds
Avec la fumée
-No.
Il a mis les cendres
Dans le cendrier
-Vieni.
Sans me parler
Brividi.
Sans me regarder
-Ok...
Il s’est levé
Il a mis
Son chapeau sur sa tête
24
-Ok.
Il a mis
Son manteau de pluie
Parce qu’il pleuvait
Le tremavano le labbra.
Et il est parti
Sous la pluie
Lui riattaccò.
Sans une parole
Lei no.
Sans me regarder
Io no.
Et mois j’ai pris
Ma tête dans ma main
Et j’ai pleuré.
Avrei voluto piangere, ma non l’ho fatto. Avrei voluto accendere la macchina, girare il volante
e gettarmi in quel fosso che costeggia la strada. Avrei voluto farla finita con quell’esistenza
insulsa. Avrei voluto... ma non l’ho fatto.
Avevo tante fantasie da piccola. Tanti sogni.
Tante passioni coltivate e poi, abbandonate lì a metà, perché non ho mai preso una decisione,
non ho mai assunto una forma. E sono rimasta così, come quella macchia dai contorni
frastagliati ed indefiniti allo stesso tempo, che si crea quando teniamo la punta della biro
troppo a lungo schiacciata sul foglio di carta, nella speranza di scrivere qualcosa. Nella
speranza di cambiare forma e diventare una parola. Non importava quale, un qualsiasi
accostamento di consonanti e vocali, anche senza senso, sarebbe andato bene, perché avrebbe
voluto dire che io ero diventata qualcosa. Allora avrei saputo davvero che cos’è vivere per un
istante, oh, almeno uno, uno qualunque prima di…
E invece ero lì, in quella macchina, col telefono in mano e la pioggia sul cruscotto, a cercare
quel cartello arancione.
Il mio appuntamento perso col destino.
25
Premio Letterario “Federico Ghibaudo”
anno 2010 - 16a edizione
“SPROFONDARE”
di Alice Gabelli - 5a B
Sto morendo.
Sprofondo lentamente verso il basso, l’acqua mi soffoca e mi protegge, abbraccia ogni singola
parte del mio corpo e mi strappa la vita lentamente.
Resto immobile e mi domando.
Mi accorgo dell’inesorabile corso degli eventi, qual è il mio destino?
Resto immobile e mi chiedo.
Che ricordo avrà di me questo mare?
Resto immobile e guardo un’ombra sopra di me, una macchia che sta prendendo avidamente
possesso della superficie dell’acqua.
Se ne impadronisce. La occupa.
Ne prende arrogante il posto senza curarsi del mio corpo,
io che mi domando, io che sotto di lei sto sprofondando.
Forse è questo che vuol dire morire, significa abbandonarsi lentamente al mondo che senza
farei caso ci inghiotte, significa restare immobili e smettere di lottare, significa non cercare più
di restare a galla e cadere lentamente. Forse.
Guardo la macchia sopra di me che si allarga sempre più.
Rapisce la mia luce, ogni immagine, ogni colore, ogni suono, ogni realtà.
La sua prossima preda sono io. Ho paura?
La guardo, mi guardo.
Scendo sempre più in basso, verso il fondo infinito di questo mare in cui sono immersa, verso
quel luogo che ci attende instancabile, verso quel tempo che prepotente si fa spazio nella
storia di ognuno di noi, verso il nulla più grande, verso l’eterno dubbio.
La macchia è diventata mia compagna in questa discesa ovattata.
Io non so se ciò che provo è paura.
Come potrei temerla ora che, sola, resta con me? Come potrei non temerla ora che, sola, mi
fissa morire?
Non c’è più niente intorno a me, niente all’infuori di lei, niente se non lei.
Il mio corpo si è svuotato di ogni dolore, di ogni piacere, di ogni resto di ciò che ero.
Io ero, io non sono più, io scendo.
Cosa sono adesso?
Non la vedo, non la ascolto, non sento più il suo sguardo su di me, la sua presenza al mio
fianco, la percepisco solamente. Non sono più e non potrebbe essere altrimenti.
La macchia ha riempito ogni spazio, non è più sopra di me, intorno a me.
La macchia ha preso il mio posto. Ora sono io e sono lei.
Non mi chiedo più se devo avere paura. Adesso.
26
Premio Letterario “Federico Ghibaudo”
anno 2010 - 16a edizione
“ARTE”
di Michaela Elisetti - 4a H
In quella macchia puoi sempre trovare delle risposte, guarda bene, non è nera.
Ha mille forme e colori, puoi sfumarla oppure calcarla, puoi farne quello che vuoi.
Irregolare ed imprevista, spezza l’uniformità cromatica dell’ogni giorno.
Colpisce la coscienza, la contamina.
E la mente si proietta come un’ombra che punta il suo dito.
Ti divora.
Ma lei non sente il giudizio o la vergogna, è vita ed esperienza.
Chi l’ha mai detto che tante macchie non possano fare un capolavoro?
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Premio Letterario “Federico Ghibaudo”
anno 2010 - 16a edizione
“LA MACCHIA”
di Roberto Longoni - 1a F
La radura illuminata da un sol cocente
s’apre magnifica ai miei occhi
folgorati dal riverbero che sull’erba rigogliosa
irradia questo infinito spazio;
s’innalzano possenti le alte montagne,
e fredde, di dura roccia,
paion vicine allo sguardo.
Distesa collinosa,
alternata di boscaglie e steppe,
costellata d’impervie salite,
frastagliata di pini fiorenti,
ove non v’è macchia d’uomo,
ove non v’è sofferenza o passione,
ove v’è solo silenzio e calma.
Soffiando instancabile il fievole vento,
piegando i fragili steli del glorioso prato,
inarcando leggermente i rami degli splendenti alberi,
incita un indistinto senso di libertà
che si espande dall’animo chiuso
ch’è destinato a divenire un ricordo confuso.
Il meraviglioso paesaggio sfugge all’avida vista,
che tutto vuol catturare
imprimendo nella mente le poche fulgide immagini
dello splendido luogo
dove l’uomo mai oserà
porre mano lasciando la sua macchia.
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