Dedicato a mio babbo,
meccanico, tornitore, pittore, giardiniere,
sempre e comunque artista.
Perché mi ha trasmesso la capacità di
guardare il mondo e di emozionarmi.
Perché mi ha trasmesso la passione per il
lavoro.
Perché mi ha trasmesso i valori che contano
per fare di me un uomo.
1
Ringraziamenti:
La lista delle persone che devo ringraziare è
più lunga del libro che ho scritto.
È vero, tanta gente è passata nella mia
vita in questi primi cinquant’anni, tanti uomini,
donne, bambini, amici che mi hanno portato in
dono la loro presenza, nel bene e nel male, mi
hanno arricchito, mi hanno fatto crescere; li ringrazio tutti.
Ma prima di tutto devo ringraziare la mia
famiglia, mia mamma e mio babbo per avermi
lasciato crescere sereno, dandomi fiducia, godendo insieme a me per i successi e consolandomi nei momenti meno felici.
Mia moglie, Antonella, con cui sono cresciuto fin da ragazzino. Amore, fiducia e grande
concretezza, per dare equilibrio al nostro rapporto.
Mio figlio, Andrea, che guardo crescere e
sbocciare, piano piano, come è giusto che sia,
forse il motivo più importante che mi ha spinto a
pubblicare questo libro. Voglio dimostrargli che
i sogni possono diventare realtà, oggi i miei, domani i suoi.
3
Oggi ho una famiglia allargata, che è costituita da tutte le persone che lavorano a Terra e
Sole. Le ringrazio di cuore, tutte, da quelle che
sono con noi da più tempo, fino agli ultimi arrivati. Sono anche loro figli miei, o meglio di questa
madre che è Terra e Sole, così feconda, così disponibile ad abbracciare, per dare amore e per
riceverne.
Grazie infine a Drusiana, che oltre a correggermi le bozze, mi ha dato quella frustata che
serviva per smuovere le mie ritrosie, le mie timidezze, le mie paure. Un incoraggiamento forte
a non fermarmi qui, ma a cominciare da qui,
a proporre nuove pagine, nuovi stimoli, idee,
emozioni, per chi le vorrà leggere, tisana calda
prima di dormire, oppure bandiera da sventolare, emozione da non reprimere, mano da stringere.
Novembre 2007
4
Premessa
7 luglio 2007
Cercavo qualcosa da leggere fra gli scaffali della mia libreria…. C’è sempre qualche libro
acquistato che non ho ancora avuto tempo di
aprire…. Avevo appena terminato un libretto di
Veltroni, Senza Patricio, finito subito, ancora voglia
di qualche pagina, è notte, ma non tardissimo.
Un po’ come quando ti resta un languorino, un
piccolo buco da chiudere nello stomaco e cominci a rovistare nel frigorifero alla ricerca di qualcosa
da mettere sotto i denti.
Sfioro con le dita tanti libri, tanti ricordi, un mix
di ciò che contengono e delle situazioni in cui sono
stati letti, dei momenti della mia vita, delle emozioni e delle sensazioni che mi hanno lasciato, dei
luoghi … qualche granello di sabbia fra le pagine,
un fiore secco per segnalibro, una macchia in copertina…
Poi la mia attenzione viene catturata da un
raccoglitore, un centinaio di fogli battuti con la
macchina da scrivere, un titolo: “Caro Tonino mi
scrivo”.
5
Quante speranze, illusioni, sogni, mi tornano
alla mente! Sono passati 22 anni da quando ho
scritto quelle pagine; un momento delicato della
mia vita, che ha segnato un passaggio fondamentale.
La sensazione era questa: MI STA CROLLANDO
IL MONDO IN TESTA!
Vi racconto brevemente la nostra vita fino a
quei giorni.
Dico nostra, perché io e Antonella ci siamo conosciuti da bambini, 14 anni lei e 17 io, e per noi
stare insieme ha sempre significato condividere
tutto, ideali, sogni, progetti.
Dopo il Liceo mi sono iscritto alla facoltà di architettura, a Venezia.
Abbiamo cominciato a sviluppare idee che ci
portavano sempre più contro una società che produceva inquinamento, ineguaglianze, ricchezze
per pochi povertà per tanti.
Il nostro modo di ragionare usciva decisamente fuori dalle ideologie dei partiti e noi ci definivamo anarchici non violenti, perché siamo sempre
stati convinti che con la violenza non saremmo mai
riusciti a costruire il mondo che avevamo in testa:
Gandhi, Schumacher (quello di “piccolo è bello”,
6
non quello della Ferrari!), Ivan Illich, John Turner,
ecc. erano i nostri ispiratori.
È così che abbiamo costituito una associazione che abbiamo chiamato C.AB.AU., che significa
“collettivo per l’abitare autogestito” e si occupava
di autocostruzione. Fantastico! Parlare di autocostruzione in casa degli architetti, rivendicare il principio per cui la gente possa riprendersi il potere di
costruire la propria abitazione, come luogo della
propria vita. Questa società ci ha espropriato, ha
inibito le nostre capacità, ha delegato tutto agli
esperti: la salute al medico, l’insegnamento alla
scuola, la politica ai partiti, la casa agli architetti,
ecc., ecc.
La specializzazione, la delega, ha creato dipendenza, povertà: in una società primitiva la casa
non è un problema, perché ognuno si può costruire
una capanna, ma qui se non hai i soldi per acquistare un alloggio sei un disperato senzatetto.
Abitare e vivere significavano la stessa cosa,
perché era un luogo, un ambiente con tutte le relazioni con gli altri esseri viventi, che si abitava e
non dei metri quadri, non prigioni del confort in cui
rinchiudersi, per tener lontano il mondo ostile, avverso, nemico. Individui, numeri, scala A 4° piano.
7
Su questi temi organizzammo un convegno
alla Fiera di Rimini nell’80, che ebbe un successo
enorme. Vennero un migliaio di persone, anche
dall’estero, portando esperienze, mostre, tecnologie.
Il convegno si intitolava “Autocostruzione e
Tecnologie Conviviali” e fu il primo momento di incontro del movimento per la nonviolenza, contro il
nucleare, per l’agricoltura biologica e biodinamica, per le tecnologie dolci, l’ecologia, ecc.
A quel convegno parlò Ivan Illich, in un’atmosfera magica, a 1000 persone, senza microfono, da
pelle d’oca.
Da quel giorno la nostra vita cambiò.
Diventammo famosi: tantissimi articoli sui giornali, convegni ovunque in Italia, in Inghilterra, in
Francia; cantieri di autocostruzione aperti in Italia
e in Francia, diversi mesi passati in Irpinia dopo il
terremoto a ricostruire case e stalle insieme agli
abitanti, un programma avviato con Unesco per
l’autocostruzione in alcuni paesi dell’Africa. Nel
frattempo l’Università, a ribadire le nostre idee contro gli architetti e a collezionare 30 fra l’invidia degli
altri studenti.
Fino ad arrivare alla laurea. Abbiamo dedica8
to due anni di studio, di ricerche per la nostra tesi:
“Vivere è Abitare – viaggio alle origini della scarsità
di abitazioni”.
In questo studio abbiamo ripercorso l’avventura dell’uomo sulla Terra, dalle società primitive
fino ai giorni nostri, cercando di capire come i nostri antenati hanno risolto il problema abitativo, ma
non solo, che visione avevano della scarsità: era
poi così vero ciò che sosteneva Adam Smith che la
scarsità e la lotta per accaparrarsi i beni disponibili
sono insiti nell’essere umano e quindi in quanto tali
naturali come naturale è il libero mercato?
Che cosa è successo in un certo momento della storia che ha cambiato le carte in tavola?
Abbiamo investito molto su questa ricerca. Io e
Antonella eravamo convinti che questo lavoro insieme a tutto ciò che stavamo facendo con l’associazione ci avrebbe permesso di trovare un lavoro
all’interno dell’università, per continuare la nostra
ricerca.
La realtà è stata diversa. Mi sono laureato fra
urla e schiamazzi in maglione e jeans nel novembre
’83: 110 (senza lode, perché gliene avevo dette
troppe).
Passa qualche settimana e il professore che
9
era stato il mio relatore per la tesi, mi chiama per
un colloquio. Bene, è fatta, pensiamo noi!
- Ciao Renzo come va? Hai visto, te l’ho detto che
saremmo riusciti a portare a casa il 110!
- Sì certo, grazie Francesco. –
- Ascolta Renzo, ho preso contatti con la casa editrice Laterza, è interessata a pubblicare la tesi –
- Accidenti è stupendo Francesco, ma cosa dici,
ma veramente? - Sì, certo. Beh… è chiaro, occorrerà fare alcune
modifiche e poi, capisci, la casa editrice vuole il
mio nome come autore, è normale. –
- Scusa cosa mi stai dicendo? Pensi di pubblicare
la mia tesi a tuo nome, quando in due anni ci
siamo incontrati appena quattro volte? –
- Ma dai, non te la prendere, funziona così.
Nessuna casa editrice investirebbe su uno sconosciuto… comunque il tuo nome apparirebbe
nei ringraziamenti, non so,… dai, un modo lo troviamo, non mi sembra così importante!
Mi ricordo che incominciai a sudare, sentivo il
sangue battermi nelle tempie, la testa scoppiare:
ma che cazzo stava dicendo quel bastardo!
- Piuttosto guarda che sicuramente dovremo togliere l’ultimo capitolo, le tue considerazioni fi10
nali sono un po’ troppo estremiste, comunque
è questione di poco e andiamo in stampa. Poi
ho pensato anche ad un lavoro: in questo momento non ci sono concorsi e quindi se vuoi puoi
collaborare con il mio studio: sto realizzando dei
progetti a Napoli e a Milano, puoi entrare a far
parte del mio staff… certo, i primi tempi vediamo,… rimborso spesa, treno, vediamo…- Francesco basta così per favore! Non c’è nulla
da vedere. Per quanto mi riguarda tu sei un figlio di puttana.- Mi alzo, prendo i miei appunti
– Comunque non mi fermo. Farò da solo, la casa
editrice la trovo io, un modo per sopravvivere
lo trovo io: preferisco andare a fare la stagione
piuttosto che lavorare gratis per te! –
- Ma dai Renzo non fare il coglione, dove credi di
andare, non sei nessuno, richiamami! –
Ma io stavo già correndo giù per le scale via
da quel mondo, lontano da quella porta che mi
ero sbattuto dietro le spalle. Incazzato con il mondo, con quel professore di sinistra che si era comportato come se fosse stato fascista (l’avrei capito
dopo, gli ideali sono merce rara), con l’orgoglio e
l’arroganza di chi è giovane e pensa di avere nelle
mani la forza per stritolare il mondo intero.
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Tornai a casa. Antonella mi venne a prendere
in stazione, sorridente, pensava che fosse andato
tutto bene, che presto saremmo andati a vivere a
Venezia, invece…
- Che stronzo! Ma non è possibile! Ma con che coraggio! Non demoralizzarti, dai, vedrai che ce la
faremo lo stesso. –
- Già, ma come facciamo? –
Abbiamo deciso di sposarci. Avremmo messo a posto una piccola casetta che i miei genitori avevano acquistato qualche mese prima a
Sant’Aquilina, con un pezzo di terra e una vigna.
E per vivere? Antonella faceva l’impiegata
part-time da un consulente e io avrei fatto il cameriere estivo, in modo da avere otto mesi liberi da
dedicare al proseguimento dei nostri studi.
E fu così. Ci mettemmo di buona lena a ristrutturare la casa, in autocostruzione, con l’aiuto di un
nostro vicino muratore. Certo, anche Antonella,
con martello e scalpello, badile e secchio della
calce. Poi ci siamo sposati, in aprile (anzi il 1° aprile!), ed in maggio ho iniziato la stagione.
Mi resi conto ben presto che avevo fatto il conto senza l’oste: dal punto di vista economico tutto
bene, avevo fatto il doppio turno e guadagnato
12
bene per tutto l’anno; il problema è che ci sono
voluti due mesi per trovare la forza di rimettermi a
studiare e quando è successo era già quasi ora di
ricominciare. I contatti con le case editrici richiedono tempo, difficile avere udienza, “Chi ha detto
che è, scusi? Un attimo che vedo se è libero: No
guardi è in riunione riprovi più tardi”.
E i giorni passavano, passavano; l’angoscia
cresceva, cresceva, la paura di non farcela era
grande, grande. Guardavo gli alberi mettere gemme, l’erba diventare sempre più verde, i fiori cominciare ad aprirsi al sole, la primavera alle porte
e una nuova stagione da cameriere che sarebbe
iniziata nella prossima pagina del calendario.
Come uscirne fuori?
Decisi di scrivere un diario.
Mi è sempre piaciuto scrivere; la mia maestra
avrebbe scommesso che da grande avrei fatto lo
scrittore ….e così anche la mia famiglia. Ricordo
la gioia dei miei genitori quando tornavo a casa
con la brutta copia del tema. Si fermava tutto, i
maccheroni restavano a raffreddarsi nel piatto e io
leggevo e insieme ridevamo e ci emozionavamo
con mio babbo che era sempre il primo a tirar fuori
il fazzoletto.
13
No, non ho fatto lo scrittore, o perlomeno non
ho fatto il mestiere dello scrittore, ma comunque
qualcosa ho scritto: articoli, cosine, ed ho anche
i miei 4 lettori fedelissimi, che leggono sempre con
piacere tutto quello che scrivo. A loro dedico queste pagine, che ho deciso di pubblicare, perché
le ritengo utili per tante persone, un percorso fuori
dalla crisi, la voglia di lottare, la necessità di scegliere il bivio su cui proseguire la propria vita.
La storia di tanti giovani cui è stato tolto improvvisamente un sogno e si sono risvegliati in una realtà a volte dura da masticare ed ancor più da digerire. È come se improvvisamente fosse scoppiato il
palloncino che tenevamo stretto per quel filo teso
che improvvisamente si è ammosciato stretto ad
un brandello di pelle, come se a scoppiare fosse
stata una bomba e di noi fosse rimasto solo quello,
quel poco attaccato al filo.
Ma in fondo questo libro dice che non dobbiamo mai smettere di sognare e allora quel sogno
che sembrava lì, ad un passo da noi, lo rincorreremo tutta la vita e diventerà la nostra stessa vita
e quel palloncino tornerà a volare alto nel cielo, a
vincere la forza di gravità, a volare, a portarci là
dove vogliamo andare.
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Quando ho scritto questo diario speravo proprio di pubblicarlo. Avrei fatto il mestiere dello scrittore, né architetto né urbanista, ma scrittore; avrei
vissuto grazie a ciò che più mi piaceva fare: scrivere, scaricare la mente; foglio, penna e lasciare andare i pensieri a rincorrersi sulle righe, strade piene
di incroci e di incontri, non autostrade con casello
di entrata e di uscita, viaggi e non distanze.
Ancora una volta la trafila delle case editrici,
ecc., ecc. Avrei fatto lo scrittore, ….ma chi?, ma
come?, ma quando?
Solo in seguito ho capito l’importanza di queste
riflessioni, per me. Quanta forza e quanto coraggio
mi abbiano dato per costruire quella che poi è stata la nostra vita fino ad oggi.
22 anni dopo.
Non cerco più editori (anche perché nel frattempo lo siamo diventati: Econauta è anche editore); pubblicheremo noi queste pagine, per chi ha
fame di storie, sete di sogni, bisogno di coraggio.
15
Diario di un’estate da cameriere
Di solito le parole con cui si dà inizio ad un diario
sono, “caro diario”, e in questa frase c’è tutto il senso del
tuo scrivere.
Un confidare le tue emozioni, i tuoi problemi, ad uno
sconosciuto amico che sappia capirti, ascoltarti, perdonarti,
aiutarti.
È qualcuno che si vuole altro da sé, anche se molto
vicino, molto caro.
Potrei iniziare dunque anch’io scrivendo, “caro diario”,
ma in questo modo non sarei sincero. Il mio qualcuno a cui
scrivere, con cui confidarmi, ha un nome, un volto, una
personalità.
Sono io, proprio io, è a me che sono indirizzate queste parole, è con me che voglio parlare, costruire un dialogo, per rimanere vivo, presente, pensante, anche in un
momento in cui potrei correre il rischio di perdermi come
essere pensante, per diventare un automa, un corpo fisico,
una macchina.
Ecco allora il senso di questo mio sforzo, ecco allora
che la prima frase di questo “diario di un’estate da cameriere”, sarà proprio questa: “Caro Tonino mi scrivo”.
Ed avrò il suo braccio forte sulla mia spalla, la sua bar16
ba ormai bianca a solleticarmi l’orecchio, il suo fiato caldo
sul collo, la serenità e la gioia che emana, che mi guida, che
tiene la mia penna, che mi dà una certezza, grande: non
sono solo… faremo tanta strada insieme.
17
22 maggio 1985
Caro Tonino, mi scrivo nel momento in cui sta per
iniziare la stagione estiva.
È strano come fino a qualche anno fa, per me “stagione” significasse solo un periodo dell’anno in cui cambiavano i colori, le temperature, i vestiti, le varietà dei cibi,
mentre oggi la “stagione” è per me soprattutto quel periodo
dell’anno che vendo al lavoro, quello salariato, quello che
mi dà i soldi per vivere.
Ebbene sì, caro Tonino, anche quest’anno sto per ricominciare la grande avventura, la “stagione”.
Oggi sono tornato alla Lanterna, mi hanno chiamato
per le pulizie.
Apriremo sabato prossimo.
Uffa!... che tristezza, nostalgia, liberazione… boh,
sono strano, preoccupato, o forse sollevato; finalmente siamo ripartiti. Ho rotto lo stress della partenza, del conto alla
rovescia, che durava già da settimane.
Sarà la prossima settimana,… dopodomani,… domani,… è stato oggi.
Quel brontolio nella pancia, quel buco nello stomaco
che mi viene sempre quando sono lì ad aspettare il via, ormai se n’è andato… sono partito,… via!
18
Percorrendo i viali della zona balneare, ho vissuto un
grosso momento di emozione.
Forse è il motivo per cui amo ed odio questa città.
Rimini è un po’ come una fenice: muore in autunno
e rinasce in primavera. E nella mia mente questa cosa si è
sempre associata agli alberi: li vedi perdere le foglie in autunno, starsene grigi e rinsecchiti durante l’inverno, e poi
rimettere gemme in primavera, ritornare ad essere pieni di
vita e rigogliosi, spavaldi, durante l’estate.
Certo, Tonino, che se questo è un fatto naturale per
un albero, per una città non lo è affatto ed è per questo che
Rimini e noi riminesi siamo, come dire, anomali.
Siamo come un materasso con il verso estivo e quello
invernale, come un disco con il lato A (quello in classifica)
e quello B (spesso insignificante, un qualcosa che serve a
riempire un vuoto).
Ma è vero che l’apertura e la chiusura, hanno il fascino
della vita e della morte, della vita che torna a rinascere, si
riaccende e si spegne di nuovo, muore e risorge.
Anni fa ho lavorato per un’agenzia privata, come postino (quei lavori saltuari che sembrano fatti apposta per uno
studente universitario).
Consegnavo le bollette del gas e del telefono lungo la
fascia costiera, da Rimini a Riccione, in bicicletta, ed in
19
questo modo avevo la possibilità di vedere da vicino questo
“aprire” e “chiudere” .
Infilavo le bollette di aprile sotto i pannelli di legno
che ancora chiudevano le porte e le finestre delle Pensioni,
degli Alberghi, dei Bar e dei Dancing, per proteggerli dalle
intemperie e dai vandali, durante l’inverno.
Le scalinate, i portici, i giardini, le piscine, erano ancora piene di foglie secche, sabbia, cartacce, anche se, come
gli alberi che avevano messo fuori le prime gemme, c’era
già qualche albergatore che aveva cominciato a togliere dei
pannelli, a dare una rinfrescata alla tinteggiatura, a fare
qualche opera di manutenzione.
Insomma, un mondo che si rimetteva a vivere, dopo il
letargo invernale.
Che strani questi albergatori con le tute, il secchio della calce, sporchi, con i capelli arruffati, così diversi da lì a
poco!
Poi venivano le bollette dell’estate, e al posto delle foglie secche, c’era tanta, tantissima gente, tante, tantissime
automobili, ed io non sapevo mai dove appoggiare la mia
bicicletta.
Poi di nuovo l’autunno…, questa pace riconquistata,
queste foglie secche ad invadere la strada, a scricchiolare
sotto le ruote della mia bicicletta.
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È questa per me Rimini, la mia città, una città che non
sa vivere quattro stagioni. Una città che si butta via in quattro mesi, e poi si lascia andare su un letto, sazia, a poltrire
per gli altri otto. Vale per tutti: operatori turistici e non.
Eppure sono convinto che tutti noi riminesi, seppure
traiamo la gran parte dei nostri benefici economici durante
i quattro mesi di baraonda, amiamo profondamente questa città per le foglie secche, i viali deserti, i secchielli rotti
sulla spiaggia, il vecchio con gli stivali e la bicicletta che
raccoglie le “poveracce” sul bagnasciuga, la nebbia e il fischio della sirena, il suono del nostro dialetto con le esse
strissiate, così dolce all’orecchio dopo la babele di suoni e di
lingue diverse mescolate nel frullatore dell’estate.
Sono queste le sensazioni che ho ritrovato oggi, qui,
alla Lanterna, spazzando per l’appunto, le foglie secche, la
sabbia e le cartacce, che avevano riempito la sala della pizzeria.
Mi sono soffermato su un manifesto di un’orchestrina
romagnola, “Questa sera grande festa di fine estate!”.
Mi sembra ieri di aver letto quel manifesto, ed invece
sono già passati otto mesi. Infatti è ingiallito, è stato usato
per avvolgere e proteggere i lampadari… ed ora mi sembra
così buffo! Grande festa di fine estate.
Fra qualche giorno sarà appeso quello nuovo, quello
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della “Grande festa di inizio estate!” La vita e la morte,
l’apertura e la chiusura… tutto nella spazzatura. Quanti
sacchi di immondizia!
E sabato riapriremo. Ce la faremo? È ancora tutto
così sporco, c’è una confusione… chi saranno i miei nuovi
compagni di lavoro?
Mah, lo scoprirò presto.
22
24 maggio 1985
Caro Tonino, eccoci qua.
Sarà bene? Sarà male? Mah, inutile chiedercelo, ormai
siamo in viaggio, vedremo come andrà a finire.
Da domani vestirò in bianco-e-nero, bianco-e-nero,
bianco-e-nero, per quattro mesi…. la mia divisa da cameriere.
Sarà dura, come lo è stato l’anno passato, ma …. passerà.
Oggi abbiamo tolto la polvere dalle sedie, disposto i
tavoli ed i mobiletti di servizio.
La sala ha così ripreso il suo aspetto abituale, i suoi
percorsi.
Ho ritrovato la solita mattonella distaccata nella quale
l’anno scorso era inciampata una donna incinta, poveretta.
Per fortuna non è successo nulla di grave… quest’anno la
rivedremo con il bambino.
Ma non c’è modo di riattaccare questa mattonella?
No, non ne vuole proprio sapere, è ribelle. Sta attaccata un
giorno e subito dopo la senti che comincia a muoversi sotto
i piedi e … finisce che qualcuno ci inciampa!
Quante volte sono passato sopra quella mattonella!
- Quando aprite? – chiede una signora curiosa con una
23
bambina in una mano e una sporta piena di secchiellopaletta-stampini, salvagente, solare, asciugamani (ma che
fanno già il bagno?… l’acqua è ancora fredda. Mah, saranno del nord).
- Domani – rispondo – domani riapriamo.
Il personale è quasi tutto nuovo. L’anno scorso era
stato molto importante il rapporto di amicizia, meglio, di
solidarietà, che si era venuto a creare (certo, non sempre e
non con tutti).
È fondamentale in queste situazioni il fatto di sentirsi
tutti sulla stessa barca, di remare insieme, di buttar fuori
l’acqua con i secchi tutti insieme, quando se ne imbarca
talmente tanta che il naufragio sembra inevitabile.
Non so come andrà quest’anno, ma, in un modo o in
un altro, dovrà andare.
Dei nuovi per il momento conosco solo i nomi, le facce, da dove vengono.
Certo, alla fine di questo diario ne saprò sicuramente
di più. Quattro mesi insieme devono lasciare qualcosa.
Dei vecchi? È stato bellissimo il modo con cui ci siamo
risi in faccia.
- Ma tu non avevi giurato che mai e poi mai più, avresti
rimesso piede in questo inferno? –
- E tu, allora? Cosa mi dici? –
24
- Cosa vuoi che ti dica? – Allarghiamo le braccia e ci stringiamo in un abbraccio forte
- Come stai? –
Due parole sugli otto mesi passati e la moglie, i figli,
i progetti, la casa… e poi eccoci già a parlare della nuova
stagione che ci aspetta.
Come mai qui, ancora qui alla Lanterna? Quante volte
avevo detto che, basta, non ci sarei più tornato, ecc., ecc.
Ma sono di nuovo qui, ed in verità ho fatto poco e
nulla per non esserci.
Sbaglierò, ma credo che in fondo in fondo, e “Tonino
lo dovrei sapere”, mi senta orgoglioso di questo lavoro, proprio qui, alla Lanterna, in veste di attore, sulla scena.
C’è da dire che io ho abitato fino a pochi anni fa, a
circa cento metri da questo locale, e che io e la Lanterna,
siamo nati nello stesso anno.
Da piccolo, a passeggio con i miei genitori, sognavo
di andarvi a mangiare una pizza (ma mancavano i soldi e
l’usanza per farlo – era roba da turisti).
La Lanterna era anche un famoso locale da ballo
all’aperto, e mi ricordo che tante volte mi sono arrampicato sugli alberi, lì vicino, per riuscire a vedere i cantanti
che quella volta si esibivano dal vivo, mica in play back!
Guardavo la gente danzare, lo shake, il twist, il rock’n roll,
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intervallati dall’immancabile “lissscio” di Casadei & C.
Le luci colorate, le donne bellissime, con vestiti colorati e luccicanti. E gli strumenti musicali, la batteria, le chitarre, la musica che usciva dagli amplificatori… che emozione… pazienza per qualche graffio sulle cosce e qualche
pantalone rotto… ne valeva veramente la pena!
Oggi il locale da ballo, Dancing la Lanterna, è un po’
decaduto, schiacciato dalle mega discoteche che sono sorte
sulla riviera, ed è rimasto il rifugio di qualche viveur dai
capelli grigi e di nostalgici dei bei tempi.
Ma qualche anno fa era diverso. Mi ricordo benissimo quando vennero a cantare Bobby Solo, Patty Pravo,
Caterina Caselli, ecc.
C’erano delle resse spaventose … l’ho visto, l’ho vista!
… m’ha baciato, l’ho baciata! … l’autografo, le foto! …
Hai visto come è pallido Bobby Solo? … Pallido? È addirittura verde! Starà male? Canterà? ….. Una lacrima sul
visooo …. Ahhh!!!, grida, applausi.
I famosi anni ’60. Ora sono tornati di moda, ma, come
tutte le mode riciclate puzzano di vecchio e si bruciano dalla sera alla mattina, anche questi mitici anni ’60 presto torneranno nel cassetto.
Va bè, tutto questo per dire che per me la Lanterna non
è un posto neutrale, indifferente, ma che, al contrario, ho
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con questo luogo dei forti legami sentimentali, emotivi.
Ai miei occhi la Lanterna è come un teatro, una giostra;
e come ogni bambino sogna di essere l’uomo della giostra,
o il burattinaio, ecco che io vedo questo sogno in qualche
modo realizzato: sono lì (qui), sulla scena, inconfondibile,
in bianco-e-nero, faccio parte dello spettacolo.
- Avanti, avanti signori e signore che lo spettacolo sta per
cominciare, c’è ancora posto, venite, venite pure, là, nelle
prime file…- Sipario. –
27
27 maggio 1985
Ero troppo stanco per scrivermi di questi due giorni,
anche se certamente non sono mancate le emozioni.
Intanto il fatto di rivedermi vestito da cameriere, bianco-e-nero, allo specchio. Già in quel momento avevo avuto
la strana sensazione di essere un cameriere, cioè, di esserlo
sempre stato. Ricollegavo la stagione scorsa a questa, come
se in mezzo non ci fosse stato nulla.
- Cosa fai nella vita? –
- Il cameriere. –
- Cosa sei? –
A questa domanda non avrei mai risposto, “un cameriere”, bensì (nonostante l’abbigliamento), “uno che sta
cercando di capire, di godere della vita, delle emozioni che
il mondo, la natura, sa dispensare a chi è altrettanto attento
ai suoi fenomeni, ai suoi mutamenti”.
Ho sempre detto che “faccio” il cameriere, ma non
“sono” un cameriere. Su questa netta divisione fra ciò che
faccio e ciò che sono, ho vissuto la mia vita nello scorso
anno.
Ho fatto il cameriere da maggio a settembre. Sono stato contadino, artigiano, muratore, osservatore, ricercatore,
scrittore, lettore, amante, da settembre a maggio.
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Ma ora, che ho ricominciato a “fare” il cameriere, è
come se ciò che sono stato fosse scomparso, non ne ho più
la presenza, la consapevolezza.
È come se settembre 1984 si fosse ricollegato a maggio
1985, con un balzo, un ponte, dal quale le cose vissute in
questo “intermezzo”, sembrano solo piccoli punti laggiù, là
in fondo, irriconoscibili, persi nella memoria.
Le stesse facce, gli stessi gusti.
- Ti ricordi, non è vero, come voglio la pizza? –
- Ma certo, una Napoli senza acciughe con molto pomodoro, ben cotta! –
- E … - E …? L’olio piccante, certo, certo. –
- Ah, che bravo il nostro Tonino, non vedevamo l’ora che
riapriste! –
Tutto come se avessi smesso ieri ed oggi ricominciato.
Come fai a sentire il valore degli otto mesi appena passati? Oggi sembra tutto dimenticato. Ciò che conta oggi, è
solo che i prossimi quattro mesi passino in fretta, si brucino
alla svelta.
Ma se mi scrivo questo diario è anche perché non voglio che siano terra bruciata. Voglio assolutamente che si
trasformino in una esperienza positiva, formativa, per me,
per aiutarmi a comprendere me stesso, ma anche gli altri.
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Per questo forse sono agevolato: fare il cameriere è un
buon punto di osservazione. Cogli la gente rilassata, in un
momento in cui vuole essere ciò che è veramente, chiede la
gioia di riempirsi la gola, lo stomaco. E forse nel momento
in cui mastica, ingoia, assapora e rutta, è più vera che in
altri momenti della sua giornata, in cui deve rivestire un
ruolo, in ufficio, a scuola, in fabbrica, ecc., ecc.
Anche se i primi approcci sono quelli da “galateo”, tutti compìti in punta di coltello-e-forchetta, alla fine quasi
tutti si ricordano che “anche la Regina Margherita mangiava il pollo con le dita” e solo i più raffinati, dopo aver
massacrato il tovagliolo (che neanche nelle pubblicità dei
detersivi che più bianco non si può…), dopo aver lasciato
le impronte delle dieci dita su tovaglia e sottotovaglia, ti
chiedono la finger-bowl per sciacquarsi le dita ancora unte
con le quali hanno dato l’attacco a quelle splendide portate
di pesce che giusto qualche minuto prima avevo con grande maestria e un tocco di spettacolarità depositato al centro
del tavolo. Ma in fondo, anche questa finger-bowl ha ben
poco di raffinato! Mi ricorda i pranzi luculliani, i banchetti
medievali, l’unto, il grasso, laviamoci le mani, è un rito.
Voglio cercare di capire la gente come mangia, e perché.
Certo, si mangia perché altrimenti si muore! Ma il
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fatto dell’alimentarsi per sopravvivere, rimane molto sullo
sfondo, è un aspetto praticamente assente nella mente di
chi viene a mangiare al ristorante.
Si viene per far festa, per passare il tempo, per buttare
qualcosa nello stomaco, per mangiare qualcosa di diverso.
Ho scritto che facendo il cameriere, posso vedere più
da vicino la gente com’è, più vera che in altre occasioni, ma
più vera fra virgolette!
Certo, uno può dimenticarsi di ciò che fa nella società
(del suo ruolo), ma il suo essere, il suo volere, resta comunque fortemente condizionato dalla pubblicità, dalle mode,
dal consumismo.
Il re è nudo? No, ha ancora il pannolone, il pannolone
Lines, popopopopo, popopopopo…
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3 giugno 1985
È già più di una settimana che abbiamo aperto.
Esco da due giornate d’inferno.
Mi considero un non violento, pacifista, ma in questi
due giorni, se ne avessi avuto la forza, avrei preso a calci e
pugni centinaia di persone! Non ce la facevo più.
Basta-basta-basta! Andate a casa, andate al diavolo, andate af…, ma che cosa volete dalla mia vita!!!
- Una birra!...Il dolce!...Quando vieni da noi?... Ma la pizza non è ancora pronta?... Non ci hai portato le patatine!...Il ketchup, anche la maionese!...Abbiamo fretta,
gentilmente, il conto!... Un po’ di ghiaccio!... Ma le ha
ordinate?... Subito da bere!... Ehi barba!...Tonino in pizzeria, Tonino al bar, Tonino in cucina, Tonino alla cassa!
–
Corri, corri e non ce la fai, c’è sempre qualcuno che protesta, che vuole, che chiede, qualcosa che si raffredda,
qualcuno che ha fretta.
- Due birre medie, due birre medie! –
- Stai calmo, stai calmo! – mi rassicura mia moglie.
È già qualche notte che mi sveglio nel pieno del sonno con
l’incubo di dover portare da bere a qualcuno, di dimenticare una ordinazione, ecc.
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E l’incubo non finisce quando mi sveglio.
- Ma sei sicura che le ho già portate? - chiedo a mia moglie
- Sì, sì, stai tranquillo, le hanno già bevute. – ma io non mi
rassicuro.
Tutta la mia mente, il mio corpo, sono presi da questa
frenesia del portare, dell’ingozzare; prendere subito i tavoli
prima che se ne vadano, stanchi di aspettare; stringerli in
una morsa… Ormai hai ordinato, stai qui, aspetta, sbraita
pure, ma ormai prima di uscire dovrai alleggerirti il portafoglio! Ma certo, stai lì, aspetta mezz’ora per una pizza e
poi mangia veloce, ingoia, perché c’è altra gente che vuole
sedersi; sbrigati, non ti senti in colpa a stare lì a fumare
una sigaretta, quando c’è altra gente in piedi che aspetta di
mangiare?
Vai, gira le tovaglie prima di cambiarle, perché spendiamo troppo di lavanderia! I bicchieri? Non ci sono più
i bicchieri! Le forchette! I coltelli! E il pane? Non c’è più
pane! Ma sì, c’è, cerca bene! Sparecchia!
La gente non capisce che sei disperato (tranne poche, gradite, eccezioni), pretende (e forse è giusto, perché
“paga”), ti offende (e questo non è mai giusto).
È un gioco sadico che credo piaccia a molti, un carnevale, in cui ci si può permettere di sbeffeggiare ed insultare
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una povera bestia che si muove faticosamente da un tavolo
all’altro.
Sudato fradicio (il deodorante farà ancora effetto?),
con la gola bruciata dall’arsura, neanche il tempo di bere,
ormai intontito, imbambolato per le botte prese.
Conosco bene cosa si prova in queste situazioni perché
mi ci sono trovato dentro diverse volte già lo scorso anno.
E per quante volte ancora?
Per fortuna poi succede che superato un certo limite il
tutto si ribalta. Forse è vero che un dolore terribile, varcata
una certa soglia, finisce di far male; è una sorta di sistema
di sicurezza del nostro corpo, un coma terapeutico, per non
impazzire, per staccare i fili, prima di spaccare tutto.
Fatto sta che ad un certo punto, tutto ti sembra più
lontano, smorzato, soft; le luci, i suoni, gli odori. Il volto
si distende, compare un sorriso beffardo e tutto sembra diventare comico, ridicolo; smetti di correre, non te la prendi
più.
Vuoi una birra?...Una patatina?...Sìììì, ….arriva, arriva! Hai fretta? Eh, stai tranquillo! Sei seduto, stai meglio tu
di me! Ah-ah-ah!, uh-uh-uh!, che ridere, che ridere!
Mi sento drogato, pazzo sfrenato, ubriaco fradicio, mi
diverto, mi diverto!
34
12 giugno 1985
Faccio il cameriere, ma non sono un cameriere e, non
essendolo, non lo faccio neanche troppo bene, è chiaro,
non riesco ad immedesimarmi con questa figura: sono un
portapiatti (anche se in realtà il proprietario della Lanterna
dice che me la cavo bene, “ho la gamba del cameriere, giro
bene” – che vorrà dire?).
Ma tutto sommato è meglio così. Non mi piace per
nulla la figura del cameriere: è subdola, strisciante, vile, falsa, lecchina.
È l’intermediario fra la produzione ed il consumatore:
deve saper vendere, stimolare la gente ad ingoiare a più non
posso. Fa parte in pieno della società consumista. È una
persona irresponsabile, nel senso che non ha la responsabilità di ciò che si produce, e non è neppure chi mangia.
- I nostri cibi sono tutti freschi, di prima scelta… Provi
questo piatto, io l’ho assaggiato e le posso assicurare che è
buonissimo! –
In realtà non sai quasi mai cosa bolle in pentola.
L’importante è convincere la gente che sei dalla loro parte.
E già questo, se uno ci pensa un momentino, è assurdo.
Tu sei lì, pagato per vendere, devi fare l’interesse di chi
ti paga.
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È come pensare che la pubblicità sia un mezzo di informazione educativo, per la gente, piuttosto che un sistema subdolo per convincere ad acquistare proprio quel prodotto, per imporlo sul mercato.
Ma il bravo cameriere, deve saper essere questo ed
altro. Se uno entra con la voglia di mangiare una pizza
Margherita, il “bravo” cameriere deve riuscire a fargli ordinare, antipasto, primo, secondo, frutta, dolce, caffè, ammazzacaffè, prendendosi anche i mille grazie del cliente,
felice di aver messo da parte la sciagurata idea di mangiare
una semplice Margherita. Si sente lo stomaco un po’ pesante, nonostante il grappino+limoncelloffertodallacasa, ma
appena a casa prenderà una pastiglia per digerire, oppure
vomiterà tutto nella tazza del cesso. Ha speso un sacco di
soldi, ma in fondo che importa, si campa una volta sola
e…. quegli astici erano veramente una fa-vo-la.
Quanti falsi sorrisi, quanti accidenti, bestemmie a
denti stretti!
Tutti i camerieri lasciano i tavoli con il sorriso sulle
labbra, sorriso che puntualmente si spegne dopo pochi passi, per diventare rabbia, stanchezza, tensione, indifferenza.
Forse è per questo che la maggioranza dei camerieri
sono uomini: siamo più stronzi, più capaci di fingere, ipocriti. Le donne sono più uterine e se le fai incazzare sul
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serio, sono capaci di tirarti la torta/pizza/grigliata (meglio
la torta), in faccia!
E invece devi apparire simpatico, cordiale, educato,
anche con chi ti tratta in tutt’altro modo.
- Ehi! Barba, quando arriva sta roba? –
- Ma cos’è sta schifezza!? –
Stai lì, prendi, incassi, tanto creperà anche lui.
No, non mi piace essere cameriere.
È vero che si incontrano molte persone; che forse c’è
anche qualcosa di conviviale dietro questo banchettare, ma
in realtà anche quei rapporti un po’ più intensi che stringi
con qualcuno, sono sempre poco veri.
Spesso ti accorgi che la “simpatia” che provi verso qualcuno, nasce solo dal fatto che ti lascia una buona mancia,
diversamente lo manderesti per primo a quel paese.
Sei solo, in mezzo a tanta gente, a prenderti lodi o insulti (il più delle volte merito o colpa di altri), a stringere
mani, a dare buongiorni e buonesere, a scattare foto “senza”
o “con” il cameriere italiano.
Ma insomma, Tonino, non ci trovi proprio nulla di
bello in questo mestiere?
Che dire? Non mi sono posto tanto il problema se fare
il cameriere fosse bello o brutto. Mi serve, posso farlo, è un
lavoro stagionale.
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Ora però l’importante è di non immedesimarmi con
ciò che faccio, tenere sempre ben distaccato questo mondo,
dal mio mondo.
Del resto se mi piacesse fare il cameriere, non starei
qui, a scrivermi questo diario; non ne sentirei il bisogno e,
forse, non ne avrei neppure le capacità.
Ma sono già le sei; devo vestirmi, è ora di ricominciare.
I vestiti sono sulla sedia, lavati e stirati (via le macchie
d’unto, via l’odore di sudore, i segni della battaglia): calzoni neri, camicia bianca, calze nere, scarpe nere, la mia
uniforme.
Mi faccio una doccia, mi ripasso la barba, mi spruzzo un tot di deodorante, ingoio qualcosa e poi rientro in
scena.
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18 giugno 1985
Oggi ho proprio voglia di scrivere! Una voglia matta di
riprendere in mano la mia matita preferita, di stringerla fra
il pollice, l’indice e il medio e di lasciarla scorrere su questi
fogli bianchi, a colorarli, a dargli forma, identità.
Questo foglio, prima anonimo, ora sarà una pagina di
questo diario che mi sto scrivendo.
Sono qui, nel mio “studio”, uno stanzino 2x4, che ho
costruito con le mie mani.
Dai muri, al pavimento in legno; la libreria, il tavolo
della macchina per scrivere.
L’angoliera che mi sta di fronte, il tavolo su cui sto scrivendo, li ho trovati da un falegname che raccoglie tutti quei
mobili vecchi, di stile rustico, contadino, di legno vero, di
cui la gente ormai vuol solo disfarsene, attratta com’è dalla
plastica, dalle superfici piatte, lisce, lucide, senz’anima: lo
scadentissimo, inquinantissimo, tossico, truciolato, che riempie inesorabilmente la gran parte delle abitazioni.
L’angoliera e il tavolo erano ridotti piuttosto male.
Erano un debito di gioco di un contadino della zona, che
non avendo più nulla, si è giocato pure quei vecchi mobili,
persi nell’ennesimo tresette andato male… non se li meritava.
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Li ho portati a casa sul portapacchi della mia Fiat 127
rossa, e mi sono messo subito al lavoro per sverniciare, carteggiare, riparare, ridare colore e vita al legno.
Ora sono qui, fanno parte della mia vita, mi appartengono ed io appartengo a loro, perché hanno il segno delle
mie dita, sono il frutto del mio lavoro. Non sarebbero così
senza di me, ed anch’io sarei diverso senza di loro. Abbiamo
anche fatto un patto di sangue, con una scheggia di legno
che mi si è infilata profonda in una mano e porto ancora
la cicatrice.
Sono qui, fra le mie cose, fra i miei libri, il portapenne,
le carte, i fogli, gli appunti; sono qui fra i miei odori, di
carta, di stampa, di me.
Ma è tutto strano, tutto troppo in ordine.
Si vede che non abito più qui dentro da un pezzo e
prima di andarmene ho messo tutto a posto, tutto in ordine… troppo in ordine. Un ordine che segna la mia lontananza, il mio distacco, non definitivo, certo, aspettami,
torno presto.
Sono qui. Il mio sguardo cade sulla ocarina messicana,
sul barometro che era stato del mio nonno marinaio, sulla
maschera di corteccia, sulla chitarra a cui è saltata la quinta
corda e non ho ancora avuto il tempo di sostituirla, sul
leggio fatto da mio padre, impolverato.
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La polvere… c’è polvere ovunque, sul tavolo, sui fogli.
Anche i due vasetti stile etrusco, ricordo di Tarquinia,
hanno perso lucentezza.
Polvere e una piccola ragnatela anche fra i fiori secchi
che hanno trovato dimora in un vasetto di ceramica acquistato a Delft in un nostro viaggio in Olanda.
Polvere sulla posta che si sta accumulando… prima o
poi l’aprirò.
È quasi un mese, solo un mese, ma sembra già una
vita.
Guardo il soffitto, le travi in legno, a vista. C’è un ragno che sta pazientemente tessendo la sua tela.
Mi dico: sono anch’io come quel ragno, sto anch’io
tessendo la mia tela, sto anch’io attuando la mia strategia,
ma devo metterla meglio a fuoco.
Lui, il ragno, vuole catturare mosche, insetti, prede.
E io? Io cosa voglio? Vorrei essere, vivere pienamente il
mio essere; ma per “essere” bisogna anche “avere”: da dove
partire per riconciliare queste contraddizioni?
Ascolto un po’ di musica.
Sul piatto ho un disco dei Bronski Beat, “The age of
consent”; Jimmy sta gridando “Tell me why”, dimmi perché.
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Il perché lo sapevo, credo di saperlo anche ora, anche se la
risposta non è più così ferma, così sicura.
A questo perché cercherò di trovare una risposta in
queste pagine. Forse la risposta verrà da sé, e magari non
sarà solo una risposta, ma tante risposte, una diversa dall’altra, ogni volta che rileggerò queste pagine.
Sono le cinque e un quarto del pomeriggio. Fra un’ora
devo ripartire.
Fuori c’è il sole, un gran sole, che filtra attraverso le
persiane che ho accostato per ripararmi dal gran caldo.
Ma la temperatura è altissima, comunque. Sudo sebbene sia qui, seduto, in mutande.
Fuori c’è il sole,…. Ma cosa sta succedendo fuori?
Come sono cambiati i colori? Le colture?
Spalanco le persiane, voglio vedere!
Ormai il fuori per me è diventato solo il tratto di strada che mi separa dalla Lanterna, quindici minuti di asfalto
nero, appiccicaticcio.
Guardo fuori; il sole mi ferisce gli occhi, abituati alla
penombra.
Guardo la collina, gli olivi, l’erba ingiallita per la siccità: è molto tempo che non piove; la nebbiolina dell’afa che
avvolge tutto, appiccica ogni cosa, la nostra pelle ai vestiti,
il nostro umore ai piedi.
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Due cani si rincorrono, abbaiano, la lingua penzoloni.
La loro voglia a correre con questo caldo, ma chi glielo
fa fare?!
Richiudo le persiane, torno a sedermi. La sedia scricchiola… con questo caldo neppure lei vuol fare la fatica di
sopportare il peso della mia persona!
Di ciò che sta fuori ho però scoperto una dimensione
nuova.
Quando torno a casa di notte, con la moto, e tutto
attorno è così buio che sembra non esserci, e vedo solo quel
pezzettino di asfalto che la luce fioca del mio motore sgangherato riesce ad illuminare; quando hai di fronte solo quel
brulichio di luci che vengono dalla collina lontana e dalle
strade e dalle automobili e sopra la testa solo la luce delle
stelle e della luna (quando c’è); quando correresti il pericolo di perderti, ecco allora che entra in campo uno dei nostri
sensi, messo spesso in secondo piano, e impari a riconoscere il luogo dagli odori.
So di essere vicino alla casa del contadino per l’odore
di letame che viene dalla concimaia, lì, a due passi dalla
strada. Sono vicino alla curva quando sento quell’odore
forte di cipolla, che proviene dal campo di cipolla da semina. Sono vicino a casa, quando sento il profumo dei glicini
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che ricoprono tutta la facciata della casa dei nostri vicini.
Ed ecco apparire la luce che sta sopra al nostro portone.
Spengo la moto ed entro nella cantina; ed ecco che un
altro odore caldo, intenso, amico, mi saluta.
Ancora qualche minuto e poi potrò respirare il profumo della mia donna; l’odore su cui mi addormenterò.
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24 giugno 1985
Il mare, il mare,… dovevo vederlo!
Mi sono svegliato questa mattina con una voglia pazza
di vedere il mare.
Da quando ho cominciato a lavorare alla Lanterna, è
praticamente uscito dalla mia vita. Il mare. Già più di un
mese che non potevo stare lì, ad ammirarlo, ad ascoltarlo.
Era ancora abbastanza presto. Se mi vestivo in fretta
potevo sperare di ricavarmi una mezz’ora, tutta per lui.
E allora via, di corsa, pieno di euforia!
È assurdo lavorare a meno di venti metri dal mare, e
non riuscire a vederlo.
Il fatto è che proprio dall’altro lato della strada, c’è un
hotel ristorante che impedisce la visuale verso la spiaggia.
Ho scoperto comunque una breccia. C’è un viottolo,
visibile dal tavolo numero otto, largo un paio di metri, che
separa l’hotel da una discoteca, che porta dritto al mare.
Non è un gran che … è un passaggio angusto, stretto
fra due muri alti, con le finestre delle cucine e dei WC; i
rifiuti accatastati contro il cassonetto sempre pieno; le biciclette del personale appoggiate malamente al muro, qualche gatto in cerca di cibo.
Non ci passa mai nessuno, se non per servizio.
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Però dà sulla spiaggia.
In realtà la visuale è dimezzata dalla cabina del bagnino “Luciano”, con le docce; per di più durante il giorno, la
selva di ombrelloni, lettini, sdrai, persone, distese, che camminano, che giocano, si rincorrono, è talmente fitta che è
praticamente impossibile vedere il mare.
Bisogna attendere la sera, quando vengono chiusi gli
ombrelloni e la gente rimette nelle sporte tutto ciò con cui
era arrivata, con in più qualche pugno di sabbia, con in
meno le cartacce, le lattine, le bucce, che ha lasciato sulla
spiaggia.
Ed allora quella selva colorata, formicolante, comincia
a rarefarsi, a placarsi e fra un ombrellone e l’altro, spunta
qualche centimetro di mare.
Ma bisogna cogliere il momento, l’istante, prima che
la gente si riversi sulla strada, per la passeggiata e ti impedisca di vedere persino il viottolo.
Non si può vedere il mare in questo modo!
Per questo dovevo andarci; sacrificargli mezz’ora di
sonno, di riposo.
Volevo averlo davanti tutto, immenso, tondo. Tondo,
sì, certo, per me il mare è sempre stato tondo.
Fin da bambino ho sempre disegnato la linea di orizzonte fra il mare e il cielo, con una curva molto accentuata.
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Credo che per un marinaio non dovesse essere poi così
difficile capire che la Terra è una grande sfera.
Sono stato diverse volte in mare, con la barca da pesca
di mio nonno, e questa rotondità mi affascinava. L’idea,
quasi, di poter abbracciare con uno sguardo solo tutto il
mondo, di starci in piedi sopra, con la punta delle dita,
proprio come la ballerina del carillon di mia zia, o come un
equilibrista del circo.
Vedere la terra scomparire e poi, quasi per magia, riapparire, brillare, lontana, sempre più vicina.
Il mare ha un forte potere di attrazione nei miei confronti, per tanti motivi.
Certo, sono nato a Rimini, nipote di un pescatore e
di una pescivendola e quindi ho sempre avuto a che fare
con il mare, nel bene e nel male, fino al punto che mi è
entrato dentro fa parte di me. Anche se penso che il legame
più forte non sia tanto quello fisico, ma quello emotivo,
fantastico.
Mio nonno era pescatore ed ho vissuto i miei primi
anni stretto alle sue costole, mentre riparava le reti, ad
ascoltare le storie di mare da lui vissute, o raccolte chissà da
chi e in quale porto, o più semplicemente frutto della sua
fantasia. E io me le facevo ripetere e ripetere, all’infinito, a
bocca aperta.
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Non amo pescare, sono anni che non mi faccio una
bella nuotata, eppure vivo con il mare un legame fortissimo.
Potrei vivere in qualunque parte del mondo, purchè ci
sia il mare.
Mi basta vederlo, sentirlo, così immenso, così tondo,…ascoltarlo; lasciare che il respiro delle onde diventi il
mio respiro, per perdermi dentro, abbandonarmi a questa
grande creatura, come una bottiglia con un messaggio dentro, che la corrente deciderà dove portare.
Sto davanti al mare come davanti ad un Dio, pieno di
ammirazione, rispetto, timore.
Sono riuscito a posteggiare la moto fra una selva di
auto, motorini, biciclette, tandem, risciò, appoggiati un po’
ovunque.
Mi sono sentito subito in imbarazzo, già ai primi passi
verso il molo.
Che ci facevo lì, vestito da cameriere, in mezzo a quel
formicolio di gente coloratissima, abbronzata, in costume,
con sporte, carrozzine, asciugamani, pinne, canotti, fra
l’odore di gelato e di crema solare … io, con i miei calzoni neri, la camicia bianca, scarpe e calze, pallido come un
inglese appena sceso dall’aereo, con quell’odore di patate
fritte che mi si è appiccicato addosso, mi è entrato nei pori
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e non riesco a mandar via?
Mi sentivo come un pesce fuor d’acqua.
Per fortuna c’è proprio un ristorante in cima al molo,
così penseranno che sto andando là, al lavoro. Che altro
potevo fare con quella divisa addosso?
Per un attimo ho avuto anche paura che mi gettassero
in acqua, per scherzo, oppure che mi bagnassero con gli alti
schizzi che alcuni ragazzetti tedeschi sollevavano tuffandosi
in acqua.
Mi sono tolto scarpe e calze, slacciato la camicia, così
andava meglio.
C’erano molte canne da pesca (a pescare che cosa? I
paganelli? E chi li mangia, pescati dentro al porto, neanche il gatto… solo l’atto “sportivo” di ammazzare un essere
vivente).
Una nave traghetto ormeggiata al molo di destra, a
pancia aperta, attendeva che le auto prendessero posto nella
stiva ed i passeggeri salissero a bordo.
Nel mare natanti di ogni tipo, a pescare, a pedalare, a
remare, a prendere il sole, a schizzare via.
Un cretino getta noncurante una lattina di Coca che
si è appena scolato, in acqua, così, come la si getta in una
pattumiera.
È ormai mezzogiorno, è ora di andare al lavoro, mi ri49
metto velocemente le scarpe, mi riassetto la camicia. Penso
che non mi sono potuto gustare questa visita al mio amico
mare.
Ho solo potuto sentire la sua voce sussurrarmi in un
orecchio, che lui c’è, è sempre lì, immenso, tondo.
Ritornando sui miei passi, con la schiena al mare, pensavo che il mio modo di vederlo, era diverso da quello degli
altri.
Per quelli che mi vedevo attorno, sembrava che fosse
un oggetto, da possedere, da sfruttare, da consumare.
Per me, invece, è una creatura, un essere vivente.
Questo diverso modo di pensare il mare, si riflette anche nei discorsi della gente sull’inquinamento, il problema
delle alghe.
Ho assistito ad alcune discussioni improvvisate, lì, alla
Lanterna, fra operatori turistici, gente del posto, turisti.
In tutti questi bei discorsi il mare era un oggetto, da
vendere, da consumare, da sporcare.
- Bisogna fare dighe qua,… scogliere là, … piscine,… depuratori! Il mare è diventato una fogna. Vogliono mettere divieti di balneazione! Macchè, tutta propaganda per
portarci via i turisti… Ci sono troppi interessi, … non
accadrà mai! E dopo come facciamo?... si vuole far saltare
la più grande azienda turistica del mondo?... La capita50
le…, ecc., ecc. –
In tutti una grande ignoranza, miopia, spavalderia, faciloneria, sapientoneria, io di qua, io di là,… te lo dico io!
E intanto il mare muore. Lo scorso anno l’eutrofizzazione ha fatto tremare molti, ma quasi sempre per i soldi!
Sono pochi quelli disperati perché sentono di trovarsi
di fronte ad una creatura che sta morendo.
Molti invece quelli che sono preoccupati per le negative campagne di stampa dei giornali tedeschi, e poi quegli
spaccamarroni degli ambientalisti… qui va tutto a puttana!
Non si va al nocciolo del problema, non si mette neppure per un attimo in crisi questo modello allucinante,
contro natura, di turismo.
- È dal Po che viene l’inquinamento, ci vuole una bella
diga alla foce, con un filtro per la depurazione, una barca
di qua, una di là e succhiamo le alghe… oppure con i
solventi, insomma la scienza, le tecnologie moderne, una
soluzione si trova di sicuro… l’importante è costruire le
piscine, in ogni albergo, ed anche sulla spiaggia, così i
cartelli con il divieto di balneazione se li possono mettere
nel c…!
Nessuno sembra essersi accorto che sappiamo solo distruggere equilibri, risorse, e che quello che distruggiamo
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non lo avremo mai più né noi, né soprattutto i nostri figli.
Ho paura di addormentarmi, perché ora sognerei un
mare nero, come una fogna, pieno di lattine, di plastica,
di immondizia, puzzolente, ripugnante, una pozzanghera
immonda, né immensa, né tonda.
- Fate la pizza anche a mezzogiorno? –
- Sì, certo –
- Ok, mi porti un omelette al formaggio. –
- Ok. – vai a capire la gente…
52
1 luglio 1985
Eh sì, questa la voglio scrivere, sì, la voglio proprio
scrivere!
Sono stanco ed avrei voglia di dormire; oggi abbiamo
lavorato molto, ma questa cosa me la devo annotare, può
essere importante, può aiutarmi a capire, a scegliere, cosa
sarò, cosa farò, quando avrò finito di scrivermi questo diario.
Capita spesso quando il lavoro rallenta, di scambiare
due parole con i clienti, certo, quasi di nascosto e non più
di due, perché alla terza già ti senti richiamare.
- Dai Tonino, gira, gira! –
Gira.
E spesso chiedono del lavoro, quante ore, da quanto tempo, solo d’estate?, e in inverno?, cosa fai?, cosa sei?,
dove lavori?, ti fai mantenere?
Lo scorso anno qualche volta mi è capitato di provare
a spiegare che io faccio il cameriere, ma non lo sono; che in
realtà sono laureato in urbanistica, ma poi…
- Ah, laureato!, ma pensa… in urbanistica? Cos’è?
Pochissimi sanno che accidenti sia l’urbanistica e tu
glielo puoi spiegare in cento modi, ma devi finire col dire
che è una specie di architettura.
53
- Ah, ma allora lei è architetto! Pensa un po’…. Architetto
ed è costretto a fare il cameriere! Che mondo! La disoccupazione non risparmia più nemmeno i laureati; studi
una vita e finisci col fare il cameriere. Bella soddisfazione!... Sa, io dovrei restaurare una casa,… mi potrebbe
consigliare… E via-via-via!
Tutte cose sacrosante, certo, la disoccupazione. Ma è
anche vero che in realtà io non ho mai pensato neanche un
momento di fare l’urbanista.
Mai e poi mai!
E allora se provi a dirlo, ti prendono subito per pazzo.
- Guarda che per fare il cameriere non c’era bisogno di
studiare fino all’università! –
E allora-allora-allora …. Per fortuna qualcuno mi
chiama.
- Tonino, gira, gira! –
È accaduto anche oggi, come tante volte, ma volevo
scriverlo, per fare alcune considerazioni.
Intanto l’idea che uno debba studiare solo per imparare a “fare” e non per “essere”, per arricchirsi culturalmente,
per cercare un proprio percorso di lettura del mondo, della
vita, per costruirsi una propria weltanshauung.
Per chi la pensa in questo modo è un non senso, un
54
fallimento, laurearsi in urbanistica e non fare l’urbanista.
Non sa nulla di quanto è stato comunque importante
frequentare questi studi per capire, certo, anche quanto sia
brutto il mestiere di chi deve costruire un quadro con le
tessere di un puzzle messe a disposizione dal potere politico ed economico, per tentare una sintesi che non è mai
ciò che vorrebbe, non è mai la soluzione migliore per chi
abita quel luogo, ma un brutto compromesso fra i poteri
forti che governano il territorio, rispetto ai quali l’urbanista
nulla può.
Tutto questo io lo volevo denunciare e l’ho fatto tante
volte nel corso dei miei studi e allora, come potevo fare
l’urbanista? Avrei potuto fare il ricercatore, … ma questa è
tutta un’altra storia.
Se non “fai” sei un disoccupato e tutti pensano che
questa società è ingiusta, perché non ti fa fare l’urbanista.
Se dici che non vuoi fare il mestiere per cui ti sei laureato sei pazzo, fuori di testa; se poi aggiungi che piuttosto
fai il cameriere arrivano gli insulti.
E questo, se non te lo dicono in faccia, glielo leggi negli occhi: si passa dalla compassione al ribrezzo, al disprezzo, all’incomprensione per uno che, in fondo, in fondo, si
merita proprio di fare il cameriere.
- una quattro stagioni, una Napoli, due birre medie.
55
- un antipasto di pesce,… cosa c’è nell’antipasto? –
- quali primi avete? –
- il menù del giorno, prego. –
Forse non è il massimo, certo, ma non è tutta la mia
vita.
Anche defecare, forse, non è il momento più bello della giornata; i dolori al ventre prima, all’ano poi, ed infine
il puzzo, il sentirsi sporchi. Ma è un momento importante
nella giornata di ciascuno di noi: guai se non ci fosse, ma
guai anche se dovessimo passare tutto il giorno sul water!
Per me fare il cameriere è una necessità, ma io non
riesco ad identificarmi con questa figura in bianco-e-nero,
come non posso identificarmi in un essere defecante o in
un urbanista.
Non mi vergogno di fare il cameriere (mio padre mi ha
sempre insegnato che ci si deve vergognare solo di rubare),
mi guadagno onestamente da vivere e rispetto chi ama e
sceglie di fare questo lavoro. Ho trovato anche persone straordinarie fra i colleghi camerieri e quindi … w i camerieri!
Ma tutto questo come puoi farlo capire alla gente in
due parole,… è meglio lasciar perdere.
- Dottore, Ingegnere, no, come ha detto?... Ah, certo,
Urbanista! –
Si fanno beffe, ridono, scuotono la testa.
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Forse è meglio che dica che in inverno sono disoccupato ed ho moglie e figli e uno sfratto e la nonna ammalata,
ecc., ecc., così si impietosiscono e magari mi lasciano una
buona mancia!
Delle volte, aveva ragione mio nonno, bisogna “mandè e mangh drè ma la manera” (lasciare andare il manico
dietro l’ascia).
Ps: Ah, dimenticavo! Oggi è il primo di luglio; giugno è
ormai dietro le spalle.
Dai, dai, manda, manda, gira, gira!
Vai Tonino, vai,… un mese è andato.
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5 luglio 1985
Che dire della mia motocicletta?
Che dire? E che c’è da dire? Sono incavolato nero!
Oggi mi ha lasciato a piedi, vicino alla Stazione.
Si è spezzata la catena: questo significa che me la sono
dovuta trascinare per almeno un chilometro (ma sembravano cento), sotto il sole di mezzogiorno, fino alla Lanterna.
Significa che sono arrivato in ritardo, grondante di sudore, maledicendo a destra e a manca, con le mani tutte
sporche di quell’olio nero, che poi ti si infila sotto le unghie, nei pori e per mandarlo via ci vuole … cosa ci vuole?
Come faccio? I clienti stanno già arrivando, affamati, ma
il mio pollice è nero, le mie mani sono nere, puzzano di
benzina, olio, catrame, panico.
Sfrego, sfrego … non va.
Speriamo che guardino i miei occhi o la mia barba
quando gli allungo il piatto!
Boh, insomma, con qualche acrobazia,… nascondo
qui,…lo metto così, riporto velocemente la mano dietro la
schiena, sì, in qualche modo farò.
Ma la moto? Eh la moto! Quante me ne hanno dette!
Commentini, sorrisini, tutti più o meno del tipo, “ma
quando ti decidi a buttar via quel catorcio-carretta-rottame
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sgangherato?!”
È dall’anno scorso che battono su questo chiodo.
- Buttala via, comprala nuova. Una Honda-KawasakiSuzuki, un di qua, un di là, 600-900-1100, enduro,
custom,… perché non una vespa? Magari una 200, ma
anche la 150 va bene. Dai, dai, compra, compra.
Forse devono giustificare il fatto che la gran parte dei
soldi che hanno guadagnato nella passata stagione sono
finiti (e spesso non sono bastati) nella Giulietta 1800,
nell’Honda 650, ecc., ecc., per parlare solo di motori.
Ma se devo spendermi l’equivalente di una “stagione”
e più, per acquistare una motocicletta, preferisco starmene
a casa, così la moto non mi serve ed io non vado a vendermi
l’anima alla Lanterna.
In questo momento voglio lavorare solo per sopravvivere, per procurarmi ciò che mi serve, materialmente, perché il bene che oggi ritengo più prezioso è il tempo per me,
per continuare i miei studi.
Non me ne faccio niente di una moto nuova, ma questo lo capiscono in pochi.
Molti di questi ragazzi lavorano tutto l’anno (stagione
estiva a Rimini e invernale in montagna) e guadagnano parecchi soldi, senza una famiglia sulle spalle, eppure riescono
quasi sempre a finire l’anno con debiti da pagare piuttosto
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che con due soldi in banca.
Ne prendono dieci e ne spendono venti, in cose inutili. Eppure a lavorare non si divertono neppure loro. Perché
non prendono meno cazzate e lavorano meno?
La domanda è retorica, la risposta largamente scontata.
In questa società l’idea di vivere pensando all’autosufficienza, a garantirsi ciò di cui si ha veramente bisogno,
per tenersi una spazio proprio, per sé, è inconcepibile …
occorre vivere nella continua ossessione del consumo; ingoiare, bruciare, distruggere, perché in questa società anche la guerra è una ricchezza, anche un disastro può fare
aumentare il PIL.
Ma tutto ciò che ingoi, spesso senza neppure masticare, ancor prima di assaporarlo, lo getti nello stomaco e lì
diventa un peso, è già un rifiuto, di cui liberarsi alla svelta
e poco importa se finirà per inquinare un fiume o il mare,
purchè sia lontano da te.
Non c’è amore, affetto, verso le cose. Il tutto si riconduce al possesso: ce l’ho. La gratificazione è tutta lì.
Non è la scarpa vecchia del nonno trovata in soffitta,
che rigiri fra le mani, in cui puoi leggere tutte le callosità e
le deformazioni del suo piede, che ti fa vivere delle emozioni, ti racconta delle storie e la tieni cara in una scatola, la
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annusi, la accarezzi, perché è un oggetto che ti appartiene,
non per un diritto di proprietà definito per legge, ma perché lì dentro c’è un pezzo della tua storia, il tuo passato.
Tutto ciò che ci passa per le mani oggi, diventa subito immondizia, merda, ad una velocità tale, che è letteralmente impossibile affezionarvisi. E allora compri, butti e
ricompri; stai al passo, sei alla moda.
Diversamente sei fuori posto, ridicolo, com’è ridicola,
per gli altri, la mia moto.
Ma per me no, non è ridicola.
Mi basta, mi è costata pochissimo (in soldi, tanto in
fatica), quasi trenta chilometri con un litro. Punto.
L’ho acquistata lo scorso anno da un meccanico, che
l’aveva gettata in un sottoscala, lì da qualche anno. Un
Morini 125, quattro tempi, la moto che cercavo… duecentomila lire; il meccanico non poteva crederci.
L’ho portata a casa con l’Ape di mio cugino e poi l’ho
smontata completamente, riparata, riverniciata… ecco,
quello della scelta della vernice, è stato un errore strategico!
Io sono orgoglioso della mia moto e a quel tempo non
pensavo ancora di dovermi sentire ripetere la storia del rottame.
Scelsi così un colore che, a vederlo sul tappo del barat61
tolo, era un bell’arancione, mentre una volta steso e asciutto, assomigliava troppo all’antiruggine… Accipicchia!
Il prossimo anno le cambierò colore.
La farò azzurra, sì azzurra come il cielo, come il mare…,
oppure verde come i prati, o gialla come il grano quando è
maturo; o bianca, come la neve.
Ha una voce forte , prepotente, la mia moto e i vicini
di casa la riconoscono, mi sentono passare.
Cesare che abita nella casa all’angolo della strada, spesso esce fuori a salutarmi, con la mano, così come si salutavano i concorrenti della Mille Miglia, a spronarli, ad
incitarli, “Alè Tonino”, “Alè Nuvolari”!
Arranca un po’ su per la salita, metto la seconda e ce
la fa.
Ho risistemato la catena.
Continuerà a portarmi a cavalcioni… Felice lei, contento io.
62
9 luglio 1985
Ho già scritto di quanto mi pesa il distacco dalle mie
cose, dai miei libri, dai miei attrezzi; la terra…. Ma certo la
separazione più grande, quella che più si fa sentire, è quella
dalla mia donna.
Abbiamo sempre passato la gran parte del tempo insieme, condiviso ogni cosa, sempre presenti, insieme, indispensabili. Mano sinistra e mano destra.
Per noi stare insieme ha sempre significato “stareinsieme”, “essere-insieme”, “fare-insieme”, ed ogni attimo
sottratto, è sempre stato una forzatura, un sacrificio.
Da quando faccio il cameriere ci vediamo appena.
Torno a casa alle tre, alle quattro del mattino, quando
lei dorme. Cerco di fare piano, per non svegliarla; anche se
in fondo in fondo spero che si svegli, anche se per un solo
attimo, a salutarmi, a darmi un bacio, ad accoccolarsi fra le
mie braccia. Ed è quasi sempre così.
- Come stai? Hanno mangiato anche te? –
- Va bene, va bene. –
Mi allungo nel letto, le passo un braccio intorno al
collo.
Mi fanno male i piedi, le gambe; ho lo stomaco ancora
pieno, ho appena finito di mangiare.
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Sento cantare i grilli, fra poco canterà il gallo.
Sento il respiro di lei, che dorme, così vicina, finalmente così vicina.
Fammi entrare nei tuoi sogni, fammi entrare, per favore.
Non lasciarmi solo fra i mille incubi in bianco-e-nero
che mi prendono, mi tormentano, mi svegliano, non mi
fanno più dormire.
Non voglio sognare pizze, birre, grigliate di pesce, da
portare, da ordinare, da non dimenticare!
Voglio stare con te, starti vicino, dentro i tuoi sogni,
insieme.
Dormi tranquilla, … sento il tuo respiro, regolare.
Voglio respirare al tuo stesso ritmo … inspiro, espiro;
inspiro, espiro; in…
Buonanotte.
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14 luglio 1985
Caro Tonino, oggi era domenica.
Domenica, un giorno di festa, di riposo, almeno così
ero abituato a pensarlo.
Dio stesso fece il mondo intero impiegando sei giorni,
e al settimo si mise a sedere, a godersi la vista della sua creazione… ah, che bello!
Anche il sabato per me è sempre stato un giorno dall’aria
di festa. Sì, come il Leopardi nel Sabato del Villaggio.
L’aria del sabato è diversa: è come la prima boccata
d’aria quando apri la finestra, ne senti il profumo, la fragranza; è come la prima pagina di un libro, è come preparare la valigia, il fischio d’inizio di una partita; è l’attesa per
ciò che sarà, che fa il sabato forse più bello della domenica,
che è già festa, e come è, basta un attimo ed è già stata.
Ora tutto questo si è completamente ribaltato: aspetto
il sabato e la domenica come una bacchettata sulle dita,
tutto stretto nelle spalle, nervi tesi, denti stretti, per essere
più duro della bacchetta e spezzarla.
Oggi mi è andata male,… è stata una domenica di
m….!
La bacchettata l’ho sentita davvero, non si è rotta, …
mi ha lasciato un segno profondo sulle mani.
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C’è stato molto lavoro, come sempre la domenica, e
nella fretta, nella fretta, nella fretta, di ordinare, sparecchiare, portare, mi sono rovesciato addosso cinque piatti di tagliolini alle vongole.
Mi sono sporcato camicia, calzoni ed ho trovato tagliolini anche dentro le scarpe!
Avrei voluto spararmi, scappare via,… ma sono dovuto restare. Dare una pulita approssimativa a camicia e calzoni e tirare avanti; non avevo il cambio. Ma con l’animo a
terra, sotto i piedi, fra sorrisini e battutine.
Ero imbarazzatissimo, così sporco… Ma perché?
Sono sempre orgoglioso del mio “sporco” quando faccio qualcosa. Se lavoro del legno mi piace avere i trucioli fra
i capelli, la segatura che mi imbianca le ciglia, la tuta; e così
via, con gli schizzi di cemento, o di vernice; oppure quelle
belle mani nere, da meccanico, uno sbaffo su una guancia;
la terra sotto le unghie, oppure le squame del pesce, appiccicate fra i peli, nelle braccia, a brillare; l’inchiostro della
biro nelle dita… è segno che ho fatto qualcosa, ho costruito, mi sono guadagnato il pane, e ne sono fiero.
Sì, mi piace sporcarmi.
Ma non puoi sporcarti se fai il cameriere!
Dovresti servire in guanti bianchi, sempre impeccabile, pulito, profumato.
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Come sarebbe più bello, e soprattutto più vero, poter servire unti, sporchi di salsa di pomodoro, di sugo, con
uno spaghetto rimasto appiccicato alla barba quando l’hai
assaggiato per verificarne la cottura; una bella strisciata di
farina, uno schizzo d’olio saltato dalla friggitrice, il gusto di
pulirsi le mani sporche di ragù sulla camicia o sul sedere.
Del resto è questo che succede in cucina.
Lì la battaglia è vissuta a colori, fra schizzi, spruzzi,
sangue, sudore, mani, bocca. È tutto molto vero. Diffidate
di chi vuol fare una cucina a vista tutta linda, tutta in ordine; nascosto da qualche parte ci deve essere uno scannatoio,
un sottoscala, un pentolone che bolle … chissà che bolle!
Poi arrivi tu, in bianco-e-nero, pulito, profumato, con
cucchiaio e forchetta, a spinare, a sporzionare di fronte al
cliente, quello che prima il cuoco aveva preso con le dita,
messo sotto i denti per assaggiare la salatura, la cottura … e
questo è tutto molto falso.
Va bè, morale della favola, un’altra camicia e dei pantaloni da lavare. Questa sera sarò di nuovo pulito e profumato.
Spero di non rovesciarmi altri tagliolini addosso, altrimenti non avrò più camicie e pantaloni per domani.
- Ma cosa è successo alla camicia? E i pantaloni?
- Guarda lascia stare… una storia lunga, lunga. –
67
25 luglio 1985
È molto tempo che non mi scrivo più.
Già, ma chi ce la faceva!
Oggi però è una data da ricordare, il 25 luglio.
Perché?
Cos’ha di strano questo giorno? Per quale particolare
motivo dovrebbe essere ricordato, non è stato forse del tutto
simile agli altri giorni, da quando sono qui, alla Lanterna?
Cos’è successo? Abbiamo lavorato di più, oppure di
meno?
No, niente di tutto questo; il 25 luglio è molto di più,
o perlomeno ci sembrava che fosse molto di più, quando
due mesi fa dicevamo, “quando saremo al 25 luglio…!”
- Ehi gente, oggi è il 25 luglio! – mi dice Mario, un cameriere, sventolando a mo’ di bandierina, la bolla di consegna del fornaio.
- Dà qua, fa vedere. –
È proprio vero, oggi è il 25 luglio, quella data così importante alla partenza e che ora per poco passava inosservata.
- Ehi gente, è il 25 luglio, il 25 luglio, siamo a metà!
Sono già passati due mesi, siamo già alla metà. Ancora
sessanta giorni e poi sarà finita, finita!
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Ci abbracciamo, felici. Bisogna brindare, evviva, evviva!
Ma il vino non è ancora arrivato a riscaldare lo stomaco che già l’atmosfera si è raggelata.
Già la metà…? Ma come già …, solo la metà?!
Tutto questo tempo che siamo qui, a correre, a sudare
e siamo già arrivati solo alla metà?!
E senza contare che, nella metà che resta, c’è agosto!
Ci siamo sentiti le gambe mancare e non per il vino.
Anzi, l’ultimo goccio, meglio buttarlo giù, coraggio.
Avremmo dovuto essere felici, contenti, brindare alla
faccia di tutti, e invece… ci ha preso quello scoramento,
quella crisi, che ben conosce il maratoneta attorno al ventesimo chilometro, oppure il ciclista a metà tappa, specialmente se ad attenderlo c’è la montagna, la salita, non la
discesa.
Già, solo a metà.
Ci riuscirò anche quest’anno ad arrivare fino in fondo? Riusciranno i miei muscoli, i miei nervi, a resistere allo
sforzo? Dai Tonino non esagerare! Faccio il cameriere, mica
il minatore!
Eppure sono qui, seduto e mi sento stanco, indolenzito, mi fa male la schiena.
Saranno le tante ore di lavoro (13/14 complessivamen69
te nei due turni), le poche ore di sonno, il fatto di mangiare
ad orari strani, stare sempre in piedi e i chilometri, tanti,
macinati.
Mi guardo allo specchio: ho due occhiaie sempre più
pesanti. Tutto il mio corpo mi manda segnali e mi dice che
è assurdo, che non ce la farò.
Basta, meglio smettere, meglio scappare, fuggire, per
salvarsi la vita, per non stare più lì, a sbriciolarsi sotto il
peso di pizze, grigliate, tortellini, patatine.
Perché devo fare l’eroe, a che serve, a chi?
Cosa devo dimostrarmi?
Che sono forte, bravo, più duro dell’acciaio e non mi
spezzo, io, novello D’Artagnan, a combattere, a duellare,
balzando da un tavolo all’altro, in mezzo ad un nugolo
di nemici che vorrebbero infilzarmi; zip, zac, tac, strapp,
scrash, … via!
Aggrappato al lampadario come fosse una liana, a
trasferire la contesa sul banco bar, zic, zap,… ma quanti
sono!
Cento, mille! Ma che importa, loro sono degli anonimi, io sono D’Artagnan, l’eroe!
Alè, ne infilzo uno, due, tre! Si sgonfiano e si afflosciano a terra come palloni bucati. Ne ho già stesi una metà?
Solo…?
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Niente paura! Signori, signore, bambini e nonni e pure
bisnonni, venite avanti, ma anche se sarete di più e più
forti, io non tremo; io sono D’Artagnan, il grande spadaccino, per l’occasione in bianco-e-nero, ma sono sempre io,
l’invincibile!
La mia spada è infuocata, vi infilzerò come salsicce!
Swiss, squash, zip, zac,… sotto a chi tocca! Hai fretta
di morire , eh bello? Opplà, eccoti accontentato, sono il più
forte, il più grande, l’invincibile D’Artagnan!
Un tipo, un giorno, seduto ad un tavolo, mi chiamò
così; forse per via della barba, oppure perché da piccolo
gli era piaciuta la storia dei Tre Moschettieri, oppure perché qui sembra tutto un carnevale, e fra un Pulcinella e un
Arlecchino, ci può stare anche un D’Artagnan, lo spadaccino!
Mi è piaciuto, e da allora, ogni volta che incomincia la
battaglia, mi sento come D’Artagnan, zic, zaff, opplà, uno,
due, tre!
O scappi, oppure se non scappi sei un eroe.
Il tuo cervello, il tuo corpo ti chiede, ti supplica, di
scappare: adrenalina al massimo, nervi tesi, peli dritti nella
schiena, palpitazioni… che deve fare di più!
Il senso del dovere, l’orgoglio, ti fanno restare, a tutti
i costi.
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Sei un eroe se accetti la battaglia; sei un vigliacco, un
coniglio, se scappi.
Ma è poi così vero?
A volte mi sembra che ci voglia più coraggio per scappare, per mostrare i propri limiti, nudi, senza corazze, disarmati.
Fermarsi, tornare indietro, prima che sia troppo tardi.
Eh sì, è molto più difficile fermarsi, accettare la sconfitta, guardare in faccia il mondo e dire, no, non ce l’ho
fatta, ho perso, erano più forti.
Sono deluso, vi ho deluso.
Ma perché? In natura quando un animale è in pericolo
ha due possibilità: l’attacco, o la fuga. Attacca se sa che può
vincere, altrimenti gambe in spalla, e se arriva a mettersi in
salvo è felice, altro che delusione, altro che dispiacere: la
gazzella vede il leone lontano e sorride, ha un altro giorno
davanti.
Ho voglia di arrendermi, di distendermi su un prato, a
sentire il sole bruciarmi la pelle, il vento portarmi profumi
lontani; e respirare la pace, la tranquillità; sentirmi girare in
sintonia con il mondo, vederlo tutto, tondo; sentirmi per
nulla diverso dalla terra, dal prato, dagli alberi, dall’infinita varietà di animaletti che corrono, saltellano, mi volano
sopra, addosso.
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Caro Tonino, vorrei proprio essere come quel giglio
bianco, avere radici profonde in questa terra e diventare
bello e rigoglioso, senza pensare ad altro che a ciò che sono;
sentirmi dentro tutta la bellezza, tutta l’energia, tutta la libertà, che quel giglio cresciuto spontaneo, sa di avere, si
sente addosso.
È questo il messaggio profumato che lascia nell’aria.
Raccoglilo Tonino, lasciati essere, vivi, vivi, vivi…!
Driiiinnn!!!
Eccoci qua, è suonata la sveglia.
Avanti Tonino, hai pochi minuti per decidere. Puoi
scegliere di essere un eroe, come D’Artagnan, di combattere fino in fondo questi altri due mesi, oppure puoi scegliere
di arrenderti, di gridare basta! Non ce la faccio più!, stenderti su quel prato, vicino a quel giglio bianco, fra quegli
animaletti che ti fanno festa.
Mi sto già infilando un paio di calzoni neri; ecco che
mi abbottono la camicia bianca, mi pettino, mi profumo.
Ho messo in moto la motocicletta; un ultimo sguardo
a quel prato, a quel giglio… devo scegliere.
Ma la moto mi sta già portando via. Prima, seconda,
terza.
Anche oggi non ho avuto abbastanza coraggio per essere “vigliacco”.
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31 luglio 1985
Mamma mia, domani è agosto!!!
Già la gente è stata tantissima nel mese di luglio, ma
ora… che succederà?
Chiudono le fabbriche ed arrivano, in massa.
Mi sembra di vedere tutte queste migliaia e migliaia
di persone,intrappolate nel traffico lento, un lungo serpentone di metallo infuocato che scende e sale lungo le autostrade; oppure stipati nei treni come sardine, a combattere
con borse, racchette, palloncini, secchielli, palette, canotti,
frigo, zaini, valigie, che ti colpiscono allo stomaco, ma anche più in basso, e negli stinchi e ti pestano i piedi, non sai
dove metterti, non puoi mica scomparire, sei in trappola..
ma a quel bambino gli scappa, deve andare alla toilette, se
no la fa lì… ma gliela faccia fare lì!! E c’è chi deve scendere
alla prossima, e chi deve salire.
Pigia, pigia, spingi, colpisci, manca l’aria, Cesena,
Stazione di Cesena, ancora mezzora, gliela faccia tenere!!!!
È un inferno, ma arrivano, arrivano…
Sento il frastuono delle loro radioline, alcuni frammenti di parole gridate più forte della musica; e le bestemmie, e
i lo-sapevo, lo-dicevo, quest’altro-anno-si-fa-come-dico-io!
Zitti c’è il meteo!
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La fila procede lenta.
Sembra quasi un nastro trasportatore di sfollati, con
tutte quelle borse, valigie, oggetti di ogni genere, legati in
fretta e furia sopra i portapacchi.
C’è una guerra, un epidemia, un terremoto?
Dove fuggono, dove vanno?
Arrivano, arrivano.
Basta tendere l’orecchio e li senti, ansimare, ancora distanti, ma fra poco ti saranno addosso.
Ho un incubo. Mi immagino che tutte queste migliaia di persone in marcia, stanche, fradice di sudore, stanno
pensando ad una sola cosa: appena arrivati a Rimini andiamo a mangiare alla Lanterna!
- Forza caro, ancora pochi chilometri e poi … Che ne dici
di andare subito alla Lanterna a festeggiare?! –
- Su buoni bambini, che poi dopo andiamo alla Lanterna
a mangiare la pizza! –
- Ho i crampi allo stomaco dalla fame, sono morto di sete,
ma ancora un poco e sarò seduto alla Lanterna, una bella
birrona fresca…ah! –
- Sei mai stata a mangiare alla Lanterna? Ah, sapesti! Dei
tagliolini allo scoglio,… una grigliata di pesce…, sarete
nostri ospiti. –
- Luigi, a che ora hai prenotato per la Lanterna? Gli hai
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detto che siamo in quindici, che viene anche la signora
Rosa e i suoi due figli. E poi c’è l’Ambrogio, e… Arrivano, arrivano, li sento.
Non vengono per il mare. È la Lanterna, è noi che
vogliono!
Ci mangeranno vivi, ci sbraneranno … cannibali!!!
Statevene a casa, oppure mangiatevi un panino, mangiatevi fra di voi, succhiatevi il sangue, ma non venite a
rompere qui!
Agosto … L’anno scorso, alla mia prima stagione, ho
vissuto questa data come un incubo.
Tutte le volte che si lavorava da matti, che non ce la
facevo più, i camerieri più anziani mi dicevano con l’aria di
superiorità dei veterani di mille battaglie:
- Cosa vuoi che sia! Vedrai in agosto! –
Ma cosa succederà mai in agosto! Cosa ci faranno mai!
Più di così!
Poi è arrivato agosto ed ho capito cosa vuol dire andare
via di testa, di gambe, di braccia, di stomaco.
È una tempesta, una tormenta continua, senza tregua,
che si spegne solo quando comincia ad albeggiare e ricomincia più forte che mai poco dopo. Cambiano le facce, le
età, ma hanno sempre fame e sete, o che ne so, ma portagli
il menù e qualcosa prendono.
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Se lo scorso anno aspettavo con ansia e con paura,
come un incubo, agosto, perché non sapevo cosa mi aspettava, quest’anno l’incubo c’è, perché so cosa mi aspetta.
77
1 agosto 1985
Tutto tace.
Abbiamo lavorato, sì, ma niente di mostruoso.
Chissà?... Il cambio…, forse aspettano di arrivare per
il fine settimana, forse… no, no, tranquillo, tranquillo, arrivano, arrivano.
Speri che abbiano sbagliato casello, stazione e siano
finiti giù, giù, oppure su, su, trasportati dalla corrente, da
questo flusso di esseri viventi e cose in cerca di… boh.
Ci scommetto, arriveranno tutti insieme, alla stessa
ora, nello stesso posto, … qui alla Lanterna!
Questa relativa tranquillità non mi ispira nulla di buono. È il preludio dell’attacco.
Oggi eravamo pronti, schierati in assetto da battaglia,
armati fino ai denti. Sono sopraggiunti i rinforzi, sia in cucina, sia in sala e al bar.
Abbiamo raddoppiato i piatti di antipasti, le oliere, le
tovaglie e i tovaglioli di ricambio.
In cucina i cuochi si erano trincerati dietro le loro linee
fatte di olio, pepe, sale, burro, prosciutto, funghi, bacon, cipolla, prezzemolo, parmigiano, sugo al pomodoro, al ragù,
alle vongole, vino bianco, panna, mozzarella, peperoncino,
pepe verde, salvia, basilico, ecc., ecc.
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Da dietro questa trincea, davanti ai fuochi sui quali
bollivano due pentoloni d’acqua, i cuochi erano pronti, sicuri di sé, col coltello fra i denti, come a dire, “venite avanti
se avete coraggio!”
Il pizzaiolo aveva preparato una stesa di pagnotte da
record ed anche lui si ritrovava una linea di tutto rispetto.
Eravamo pronti per il grande scontro, ma ci siamo imbattuti solo in qualche avanguardia.
Bene, meglio così.
Oggi è stato ancora più caldo del solito. Due mesi che
non cade una goccia.
Il sudore mi bagna la camicia e le mutande e i piedi.
Grondo dalla fronte. Basta un minimo sforzo per essere fradici.
Sento le gocce scendere dalle sopracciglia, bruciarmi
gli occhi, scendere lungo il naso, arrivare ai baffi, inventarsi
strani percorsi lungo i peli della barba e poi la gola, il petto, con incredibili slalom, scendere, scendere, arrivare alle
gambe, ai piedi, a formare due pozzanghere dentro le quali
sguazzo.
Sudano anche i clienti e questo mi consola.
Ingurgitano birra dalla gola e gliela vedi schizzare fuori
da tutti i pori un attimo dopo.
Sventolano tovaglioli, giornali, piatti, cappelli, venta79
gli, asciugamani, a cercare un refrigerio che non c’è.
Puzzano; sono rossi, bruciati dal sole, impasticciati di
oli, di creme, che con il caldo, col sudore si sciolgono e
scendono a rivoli, a segnare schiene, petti, pance, visi. Così
come si sciolgono il rimmel e gli ombretti di quelle che non
hanno saputo rinunciarvi, neanche per un giorno, al mare.
Col volto rosso e tutto segnato, sembrano pellerossa in
assetto da guerra.
Questo pensiero mi fa paura: io, bianco come sono,
rassomiglio troppo ad un “viso pallido”!
- Stefano, quanto manca a Natale? –
Stefano è uno dei camerieri di rinforzo, viene per il fine
settimana, e riesce sempre a farci ridere, anche nei momenti
più disperati, con questa battuta: sa sempre quanti giorni
mancano a Natale.
- Esattamente fra 147 giorni è Natale . – Dopo questa informazione comincia sempre a intonare “Tu scendi dalle
stelle…
Serve per allentare la tensione, rinfrescare l’ambiente,…. Ma oggi è così caldo che neanche l’idea del Natale è
sufficiente per portare un po’ di refrigerio.
Ma lui insiste.
- Ci pensate a quando farà quel bel freddo e ci sarà la neve,
e staremo tutti dentro i cappotti, le giacche a vento, i
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guanti e le berrette, le sciarpe. E la neve scenderà lenta,
bianca, silenziosa, maestosa, a coprire, a raggelare. Gli
alberi bianchi di neve, i candelotti di ghiaccio che scenderanno dal cornicione. La spiaggia bianca di neve con
il mare … che spettacolo, l’avete mai visto?! E staremo
davanti ad un bel camino, acceso, a bere del vino brulè,
per scaldarci, per toglierci il freddo dalla schiena; le lingue di fuoco che si rincorrono su per il camino, sentire la
legna scoppiettare, il calore bruciarti le guance; e stare lì,
ad ubriacarci, a godere di questo calore, che ci intontisce,
che fa riaffiorare ricordi lontani, fa nascere storie. E intanto fuori la neve continua a cadere, a montare come fosse
panna e cancella i contorni, cambia le cose. E noi davanti
al camino… - E dai con sto camino! Ecco da dove viene tutto questo
caldo! Dai, forza! Cosa fate il nido? Tutti lì, a chiacchierare! –
È forte Stefano, con le sue storie di neve, di nebbia, di
freddo, di alito che fuma, di umidità che ti entra dentro, di
denti che battono dal freddo.
Fra 147 giorni sarà Natale, e dopo 365 giorni sarà
di nuovo Natale, sarà di nuovo freddo, staremo di nuovo
davanti ad un camino, con i calzettoni grossi, a bere vino
brulè.
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Ma intanto oggi è il primo agosto, fa un caldo tremendo e per fortuna non sono ancora arrivati tutti, ma domani
ci saranno e farà caldo, come oggi, forse più.
Sono due mesi che non piove e mancano 147 giorni
a Natale.
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5 agosto 1985
Lo sapevamo, non c’era dubbio, chiaro come il sole,
che sarebbero arrivati. E così è stato.
Una marea, che ha sommerso, affogato, calpestato, inghiottito, ogni cosa.
Non riesco proprio a capire quale gusto si possa provare a passare delle vacanze in questo modo convulso stressante.
Ma evidentemente qualcosa di bello ci sarà, visto che
sono così in tanti a venirci e a ritornarci … boh!
Provo a pensarci un po’, ma proprio non mi viene in
mente nulla di buono.
Forse è la pubblicità, il senso del dovere, il lo fanno
tutti quindi lo facciamo anche noi, i prezzi bassi, o forse è
solo la paura di cambiare vita.
E allora Rimini in agosto va benissimo, perché c’è la
stessa folla, massa, stress, smog, violenza, traffico, spacciatori, luci al neon, a cui è abituato chi vive per tutto il resto
dell’anno nelle grandi città.
Così ci si può sentire a proprio agio, si respira la propria aria, la stessa energia: stipati sulla spiaggia come dentro
al tram o la metropolitana; scippati in via Vespucci come
fosse Corso Buenos Aires; ingorgati in mezzo al traffico
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come sulla Nomentana; con i piedi a mollo in acqua perlomeno sospetta di inquinamento; con sirene di ambulanze e polizia mescolate con musiche, danze, luci, messaggi
pubblicitari, suoni, rumori, corse che fanno della tua vita,
del tuo tempo, un tempo agitato, shakerato; sì shakerato è
questo l’aggettivo che meglio rappresenta la vita del turista
a Rimini.
Vieni messo dentro uno shaker, e poi frullato, bombardato, sballottato, spremuto, sciolto, dilatato, spezzettato, masticato, arrostito.
È forse il masochismo, mescolato al sadismo di vedere
quanti sono nella tua stessa condizione, la molla che porta
a Rimini tanta gente nelle stesso momento?
Ma sì, certo, è questa la chiave!
Ma quanti sono?
E chi lo può sapere? Hanno riempito tutte le pensioni,
gli alberghi, le case, compresi i corridoi, le cantine, le soffitte; e c’è chi dorme in spiaggia, o nei giardini pubblici, o
in macchina.
Hanno tutti una fame tremenda e pochi soldi da spendere.
Scrutano il menù da cima a fondo, una, due, tre volte,
ed infine lo ripassano di nuovo, facendo attenzione solo al
prezzo, senza più nemmeno guardare a cosa corrisponde.
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E così ti chiedono una pizza da duemilacinquecento
lire, un contorno da mille lire, un secondo da quattromila
lire, un vino da duemilacinquecento lire, ecc. Il tutto naturalmente abbondante, “checciabbiamo fame!”
È una strana fauna quella di agosto!
Le sue caratteristiche principali sono: l’essere in tanti;
lo stress di doversi divertire in modo frenetico, perché le
vacanze durano solo pochi giorni; il non avere un becco
di un quattrino; lo spirito combattivo che permette loro di
fare proprio il primo ombrellone o metro di spiaggia libero,
oppure di conquistare un tavolo in lizza con altri pretendenti, non appena i precedenti occupanti accennano ad alzarsi,
o di riuscire a salire su un autobus pieno di gente, tirando
cazzotti ai fianchi, a sinistra e a destra, pestando i piedi al
mondo intero pur di non rimanere incastrato fra la porta.
Il tipo che viene a ferragosto non è rilassato… e come
potrebbe esserlo?
Sia per arrivare che per stare, deve avere sempre il coltello fra i denti!
Questo vortice mi gira intorno, ma io lo vedo solo di
sfuggita, venendo al lavoro.
E quando sono qui, alla Lanterna, la percezione di ciò
che accade fuori, è quasi impossibile.
Già fai fatica a tener dietro a ciò che accade in sala,
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figuriamoci cosa puoi avvertire di ciò che succede al di là
della vetrata!
Solo un rumore, forte, continuo, continuamente mutante, che sale, scende, a tratti diventa la musica del tormentone dell’estate, e poi si intreccia, sfuma, si dissolve,
si incrocia, si confonde, con risate, clacson, sirene, grida,
ordinazioni.
Galleggi in questo caos di rumori e di odori. Scivoli,
rimbalzi, corri, trasportato da questo magma che tutto copre, tutto cancella.
Non riesci neanche più a sentire la fatica, sei già oltre
il muro.
Ma ti senti dentro un grande nervosismo, una tensione
crescente; senti lo stomaco che a volte si raggrinza, si arriccia, altre volte che si dilata; il fegato che versa fiumi di bile;
hai in circolo adrenalina a fiumi e sei nervoso con tutti, per
tutti, contro tutti.
E anche questo flusso continuo di suoni, corpi, oggetti, ti dà un fastidio cane!
Ho l’impressione di essere dentro un treno, nella calca,
a cercare di passare, a farmi largo, nei corridoi con vassoi,
piatti, cose da bere. Ogni tanto mi fermo ad uno scompartimento, a scaricare e caricare, ed intanto dal finestrino
vedo un po’ di mondo passare.
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Ma non c’è nessun rapporto con questo paesaggio: mi
può incuriosire, oppure annoiare; essere indifferente, oppure infastidire, dare un senso di vertigine. Sono io fermo
e loro si muovono? Oppure sono loro fermi ed io che mi
muovo? O non siamo forse entrambi in movimento?
Siamo su un treno, il treno delle vacanze, il treno dei
desideri, quello di Celentano, “che all’incontrario dei tuoi
sogni va”.
A confermare questa immagine contribuisce anche
l’aspetto della Lanterna, che è formata da un lungo vagone
di tavoli, diciotto, ognuno dei quali è posto proprio sotto
ad un finestrone a ghigliottina, con vista sul marciapiede,
esattamente come diciotto scompartimenti di un treno.
Ci sono poi altri tavoli in corridoio e ad un lato del
vagone è attaccata un’ampia sala quadrata, con una ventina
di tavoli più grandi (la sala d’aspetto?, la biglietteria?).
Io lavoro nel vagone.
C’è poi uno dei proprietari del locale che sta alla cassa,
che è posta su un piano rialzato, fra il vagone e la sala, a
metà della sua lunghezza, in postazione strategica per dirigere il traffico.
E da lì spesso fa partire dei fischi trillati (non saprei
come definirli diversamente, unici nel loro genere), che lo
fanno proprio assomigliare ad un capostazione.
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In carrozza, si parte!!
È attraverso questi vetri che vedo il mondo d’estate.
In questo treno bizzarro, che sta fermo e tutto gli si
muove intorno.
Ogni tanto qualcuno si ferma, sale, si fa un giro e se
ne va.
Quanto mondo abbiamo visto!
Quanto se n’è seduto a questi tavoli!
Così a caso: tutta l’Italia, dalle Alpi alla Sicilia; e
poi Inghilterra, Francia, Germania, Austria, Svizzera,
Svezia, Jugoslavia, Ungheria, Danimarca, Grecia, India,
Tunisia, Spagna, Olanda, Belgio, Norvegia, USA, Canada,
Argentina, Australia, Giappone … e poi chissà a quanti
non ho chiesto il biglietto, per sapere dove sono saliti. Se
mi manderanno tutti una cartolina potrò tappezzare le pareti di casa e così conterranno il mondo intero.
Sento il fischio, vedo un segnale verde…. Macchè!, …
è la sveglia, è il prato verde che brilla attraverso la finestra
della mia camera da letto. Si riparte.
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12 o 13 agosto 1985
Non so che giorno è.
Ho preso il calendario e mi sono sforzato di trovare un
aggancio, un giorno che ricordo.
Domenica,… quando era domenica?
Ieri, l’altro ieri, o l’altro giorno ancora?... o non sarà
forse oggi?
Il mio vecchio orologio non può aiutarmi: non ha il
calendario.
In casa sono solo, giro e rigiro in cerca di un indizio.
Mia moglie non è in casa, è andata a lavorare, quindi
non è domenica, e neppure sabato.
Dunque, o lunedì o martedì. Non fa una gran differenza. Anzi, meglio se è martedì, un giorno in meno da
fare.
Voglio solo che il tempo passi ed ho perso il tempo.
Sono corso avanti, a trascinarlo, a tirarlo per i capelli, su,
veloce, corri in fretta!
Non mi interessa se sto bruciando i miei giorni, se
ogni istante che passa è un istante che ho già vissuto e che
non potrò più rivivere.
Voglio regalare al diavolo questi giorni, pur che passino, se ne vadano.
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Alla fine sarò più vecchio di qualche mese, di qualche
giorno, di qualche istante.
Ma chi non darebbe qualche mese di vita pur di tornare ad essere libero, a sentirsi vivo!
Non voglio scrivere che sto male, sono stanchissimo,
ho sonno, ho caldo, un callo al piede sinistro, la schiena a
pezzi, la testa imbambolata…
Ah!, vendo al diavolo questi giorni, e allora, se li prenda! Se li porti via! Lontano, lontano da me, dai miei occhi,
dai miei pensieri!
Ho voglia di rompere qualcosa, di spaccare, spezzare,
pestare sotto i piedi!
Un foglio di carta, sì, ecco, così…lo accartoccio, lo
faccio a pezzi, lo strappo con i denti, lo schiaccio sotto il
tallone, sì, sì,!!!! Tutto in mille pezzi.
Raccolgo i frammenti e li lancio in aria… ne prendo
qualcuno al volo, lo palleggio con il palmo della mano.
Mi sembrano coriandoli, …NO!... sono tante piume,
che scendono lente, ancora più lente, piano, in silenzio.
Torno a letto, mi butto di traverso, bocconi.
La testa penzoloni, oltre la sponda, il mio diario a terra.
Sto scrivendo così, in questa posizione. Sento i muscoli del collo tesi nello sforzo di tenere su la testa; le braccia
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mi fanno male e sto scrivendo come un cane, una calligrafia
che forse non riuscirò più a rileggere.
Mi fa male la nuca, sento le tempie pulsare.
Il parquet tirato a lucido riflette in qualche modo la
mia immagine.
La preferisco così, deformata, mi piace più di quella
reale, riflessa dallo specchio.
Lì non ho scampo, mi vedo fino ai pori, ai peli, fin
dentro la gola.
E invece questa immagine che mi riflette dal parquet,
è deformata dai diversi riflessi del legno, vaga, confusa, in
qualche modo fantastica, stimolante.
Chi sono, specchio, specchio delle mie brame?
Giuro che se rispondi, “un cameriere”, anche se fosse il
cameriere più bello del mondo, ti farò a pezzettini!
Ma lui non risponde, ed io sto lì a guardarlo, steso
sul letto, di traverso, con la testa penzoloni, finchè tutto si
annebbia e scivola via.
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18 agosto 1985
Devo trovare la forza per scrivermi, non posso lasciarmi andare proprio ora.
Voglio essere presente, raccontarmi. Ma è sempre più
difficile.
Mi sembra di essere diventato monotono e piagnone, a
parlare sempre di calli, di dolori, di sudore, di rabbia, di un
lavoro che non basta mai, di rumori, di puzze.
E del resto è in quest’acqua che sto navigando e mi
riesce difficile parlare d’altro.
Ieri sera è stata tempesta; una sera che i proprietari del
locale immortaleranno nel loro libro d’oro.
In due anni che lavoro alla Lanterna, non si era mai
vista tanta gente.
Incredibileeeee!
Ogni volta che entravo in cucina con una nuova ordinazione, era un ruggito, di rabbia, di dolore.
- Basta, bastaaaaa! Non c’è più nulla, è finito tutto, è finito
tutto, è finito tuttoooo! –
Poi c’era sempre qualcosa che saltava fuori dal cappello magico, per andare avanti.
- Corri di qua, corri di là, fai qui, fai là, prendi lì, ma quello…. Va bene, va bene. –
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Certo che le persone che hanno voluto mangiare la
grigliata di pesce alle quattro del mattino, forse non hanno
avuto il meglio, ma, penso, che non se lo sarebbero neppure meritato.
Che altro dovrei dirmi, Tonino,… tanto lo sai già,…
oppure no,…perché a volte la realtà sa andare oltre la più
fervida immaginazione.
E allora provi a pensare a “più”, di tutto, di tanto, di
peggio, di casino, di…. e ancora non ci hai preso!
Alla fine ero felice, felice e sorpreso, di essere vivo.
Ma ora basta, basta-basta-basta! Stop, fine del discorso!
Sorseggio una spremuta di pompelmo, così gelata che
mi fa scricchiolare i denti, ma che bello sentirsi dentro
questo freddo così violento!
Sto pensando che oggi potrei scrivere per il piacere di
scrivere, per mettere a prova la mia fantasia, per vedere se il
mio cervello si è arrugginito, ossidato, grippato, oppure se è
ancora in grado di regalarmi immagini, storie, sensazioni.
Ho fatto un sogno, bellissimo: ve lo racconto.
Erano circa le 14,30 alla Lanterna ed erano rimasti solo
quattro tavoli occupati: due tavoli di inglesi che stavano spalancando occhi, bocche, gole, pance, in estasi di fronte alle loro
coppe di strawberries with cream, le fragole alla panna, che
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portavano alla bocca con gesti lenti, imponenti, sacri… il corpo di… amen.
Un tavolo in cui due rappresentanti parlavano di lavoro.
Lo hanno fatto per tutta la durata del pranzo, continuando
a scarabocchiare, block notes e agende, a sottolineare, a ribadire. E gettoni e gettoni per telefonare, prima uno poi l’altro.
Insomma, non credo che si ricordino neppure che cos’hanno
mangiato, che sapore aveva: semplicemente non se ne sono accorti… hanno fatto un pieno di benzina, pagato caro.
Poi c’era un tavolo di tedeschi, con un bambino di pochi mesi, che piangeva, strillava, come solo i bambini tedeschi
sanno fare: piangono in tedesco, cioè ruggiscono, gracchiano,
hanno insomma nel loro pianto, tutte le tonalità dure che contraddistinguono la loro lingua.. acktung!
Ho provato ad allungargli un pacchetto di grissini, per
azzittirlo (di solito funziona), ma lui mi ha guardato sorpreso,
come per dirmi che il suo problema non era quello …. Non
aveva fame, era solo pieno di merda,… ed è bastato avvicinarmi un poco per rendermene conto. Ed allora, pieno di rabbia, perché non avevo capito il suo vero, grande, puzzolente,
bruciante, problema, ha gettato a terra con tutte le sue forze i
grissini, spargendoli per la sala e beccandosi immediatamente
un ceffone dalla madre. Stai nella tua merda, aspetta!
E intanto strillava più forte e i segni delle dita della ma94
dre, cominciavano a venir fuori sulle sue guance paffute…
Ma proprio in quel momento, in questa atmosfera di suoni e di odori, si è fermata, proprio davanti alla Lanterna, una
carrozza; una di quelle trainate da un povero cavallo costretto
a zampettare fra il traffico di quelli che i cavalli li mettono nel
motore, che portano in giro quei turisti che sognano Piazza di
Spagna o un giro in gondola a Venezia e si trovano in coda fra
un semaforo e l’altro a Rimini.
Vedendo il cavallo e la carrozza il crucchetto puzzolone si
è azzittito, a bocca aperta. Accidenti, anche i bambini tedeschi
ascoltano le fiabe, sanno meravigliarsi, sono proprio come noi!
O è il cavallo che è come lui?... appena fermato ci ha mollato
un bel pacco, proprio di fronte all’entrata. Qui ci vorrebbe mio
babbo, che la raccoglieva per i fiori…
E sulla carrozza chi c’era?...nientepopodimenochè… Rino
Apolloni, il grande scrittore, il mio idolo!
Ho letto tutti i suoi libri. L’ho riconosciuto subito; lo avevo visto diverse volte in televisione, ed ho anche una sua foto,
nel retro copertina del suo ultimo romanzo, “Un attimo,.. per
vivere”.
È insieme ad una donna… la moglie, l’amante, la segretaria, una collega…?
Ha allungato dei soldi al cocchiere e poi è sceso, si è avvicinato al cavallo e gli ha sussurrato qualcosa all’orecchio.
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Forse si è scusato per avergli fatto fare quella corsa, con
quel caldo; oppure gli ha fatto presente che ha un padrone
ladro, o… chissà?
Il cavallo ha dondolato la testa, come a dire, sì, no, forse…
Nel frattempo è scesa anche la donna, ed insieme hanno
salutato con la mano la carrozza che se ne andava lasciandosi dietro scricchiolii, cigolii, ed il suono metallico dei ferri
che sbattevano sull’asfalto caldo, oltre ad una montagnetta
fumante…
Si sono girati e sono venuti verso di me.
- È troppo tardi per mangiare qualcosa? – mi ha chiesto lui
appoggiandomi una mano sulla spalla.
- Tardi? – ho risposto io con il cuore in gola, impacciatissimo.
– accomodatevi pure, non c’è nessun problema! –
Li ho accompagnati ad un tavolo un po’ in disparte, lontano dal bambino tedesco che ha ripreso a gridare, dietro ad
una pianta di ficus benjamin.
Lui indossava dei calzoni di lino, bianchi, sandali, una
camicia molto abbondante, fuori misura, azzurra, con un sole
arancione sulla schiena.
Per chi non lo conosce, Rino Appolloni, ha circa cinquant’anni, una folta barba e dei capelli sempre arruffati,
nemici giurati del pettine. La barba ormai bianca, i capelli
ancora neri.
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La donna che stava con lui aveva invece un vestito bianco, di quelli ricamati, che un tempo dovevano essere usati come
camicie da notte, stretto in vita da un foulard azzurro. Lei
sembrava più giovane di lui, ma non di tanto. I capelli lunghi,
castani, raccolti in una grossa treccia, tenuta insieme da un
nastro azzurro.
Li guardavo e li vedevo come avvolti da una nebbiolina,
un’aurea, come dentro un effetto flou.
Ero talmente frastornato, che non riesco neppure a ricordare cosa gli ho portato da mangiare.
Probabilmente mi ha dato una mano Stefano., perché io
ero troppo fuori… pensavo che era lì, a pochi metri da me, che
chiacchierava allegramente con quella donna e io, forse, avrei
potuto raccontargli di me, dei miei sogni, del mio diario, della
mia voglia di scrivere, di fare un giorno lo scrittore, sì, proprio
come lui, certo, perché no?
Dovevo parlargli, ma non ne avevo il coraggio, lui mi
aveva già dato tutto, con i suoi libri, perché dovevo importunarlo con i miei problemi!
Ma forse questo incontro è stato un buon auspicio; in fondo mi ha messo una mano sulla spalla, mi ha parlato…. Sì,
due tagliolini e non so cos’altro…
Stavo lì, a guardarli, appoggiato al bar, senza il coraggio
per muovermi.
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Ad un certo punto si sono alzati e sono andati a pagare
alla cassa.
Mi sono maledetto per non essermi accorto che volevano
andarsene… potevo portargli io il conto, sentire se serviva ancora qualcosa…
Ma una volta pagato, lui è venuto verso di me, mi ha
messo una mano sulla spalla e la mancia nel taschino della
camicia con una strizzata d’occhi.
- Ciao, Tonino, mi raccomando. –
Poi è tornato dalla donna che lo accompagnava e sono
usciti. Io li ho seguiti andar via, a bocca aperta, in stato di
tranche.
- Oh, Tonino, ci sei? Dai sbarazza che andiamo a casa, sono
già le quattro e fra un po’ si ricomincia.
- Sì, sì, certo, certo. –
Ho messo la mano nel taschino, non c’erano soldi, solo un
bigliettino.
“Caro Tonino, ricordati, Un attimo… per vivere. Verrà
anche il tuo attimo. Non chiedermi nulla, ma chiediti tutto”.
Chiediti tutto, chiediti tutto, chiediti tutto..
Mi sono svegliato così, sudato, frastornato.
Mi sono alzato e sono ricaduto sul cuscino, in preda ad
una vertigine fortissima. Girava tutto, tutto, la mia stanza,
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la mia vita, io sul letto, il soffitto… un senso di nausea
fortissimo.
- Che cavolo ho bevuto ieri sera! Una pozione di Maga
Magoo? No, non centra nulla la magia. Il fatto è che non riesco
a togliermi dalla testa questo sogno di diventare uno scrittore, scrivere, scrivere, non sarò mai capace di fare nient’altro e non sono capace di fare neppure quello.
Per me, scrivere, è sempre stata una cosa troppo forte,
troppo intensa, troppo emozionante, così troppo da pensare ad uno “scrittore” come ad una divinità, un supereroe…
non sarò mai capace di diventare uno scrittore!
E però ho sempre sognato di diventarlo, ho sempre
covato dentro di me la speranza che prima o poi avrei pubblicato un libro, con la copertina a colori, e lo avrei messo
nella mia libreria a far compagnia a tutti gli altri, a ricordarmi le emozioni per averlo scritto e letto e riletto, emozioni
non più solo mie, ma a disposizione di tutti coloro che lo
avrebbero voluto acquistare, perché ora aveva un posto non
solo nella mia libreria, ma anche negli scaffali, nella vetrina,
di un negozio, di una libreria vera, con un commesso, che
lo consiglia, un sacchetto che lo avvolge e lo porta fino ad
un’altra casa, a far battere un altro cuore.
È una passione nata da piccolo. Alle elementari mi
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ricordo che i miei “pensierini” facevano impazzire la mia
grande (in tutti i sensi) maestra, che mi portava in giro per
le altre classi, per farli leggere alle altre maestre, e le sentivo
fare esclamazioni, commenti. La cosa mi faceva piacere, ma
mi vergognavo di fronte agli altri bambini: non mi è mai
piaciuto fare il primo della classe.
Non lo ero, anche perché non ho mai fatto nulla per
esserlo; mi sembrava che i primi della classe fossero tutti
antipatici, stitici, con la puzza sotto al naso, oppressi, stressati. Io invece volevo solo essere un bambino e soprattutto
essere amico di tutti.
E però quando prendevo la cannetta fra le dita ed intingevo il pennino nel calamaio del banco era come se dentro di me cambiasse qualcosa, Tonino se ne andava in giro,
da qualche parte e nel mio corpo entrava un altro essere
che dettava e il mio corpo scriveva. Ed è esattamente ciò
che mi capita ancor oggi, è un mistero che mi affascina,
che mi avvolge.
La stessa cosa alla scuola media e al Liceo. Il prof di
italiano leggeva spesso i miei temi in classe, a mo’ di esempio (e questo mi seccava), ma a volte erano il motivo per
discutere dell’argomento che avevo trattato (e questo invece mi piaceva).
Di questi anni mi piace ricordare il mio ultimo tema,
quello svolto all’esame di maturità.
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Fu un disastro, perché il professore che lo esaminò,
non riusciva proprio a capirci nulla. I miei professori avevano avuto modo di conoscermi, di capirmi, sapevano quanto fosse viscerale, quanto mi venisse da dentro, quello che
scrivevo e per questo lo apprezzavano.
Lui invece, poveretto, non mi aveva mai visto in faccia
e si era trovato così, di colpo, di fronte ad un tema (non mi
ricordo bene il titolo, ma aveva a che fare con la scuola), in
cui attaccavo a testa bassa il sistema di insegnamento scolastico, che è l’apprendimento di nozioni, di eventi, storie,
formule, personaggi a cui sono già stati assegnati dei valori
(questo è stato un grande, quello era uno che passava da
lì), dove ciò che penso io non conta nulla, devo ripetere,
imparare a ripetere. E invece io volevo una scuola che mi
insegnasse a comprendere, a capire, a entrare nell’essenza
delle cose, al di là della giacchetta che l’istituzione scolastica
gli aveva appiccicato.
No ad uno studente ricettore>ripetitore, sì ad una
scuola piena di fascino, dalla quale lo studente esce con la
sete, di voler capire, sapere di più, approfondire ciò che il
Maestro (dire professore mi sembra di dire medico, ma qui
chi è il malato?) gli ha dato, come stimoli, visioni, percorsi.
La conoscenza non è un dato, ma un percorso di avvicinamento alla verità. Pensare di averla in tasca è da presuntuosi, da pazzi.
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Ma per fare una scuola così ci vogliono grandi maestri,
mentre per una scuola catena di montaggio bastano mediocri professori.
Questo più o meno quello che quel pazzo che mi è
entrato dentro, ha scritto all’esame di maturità.
Il professore, mi squadrò bene, da sotto gli occhiali, si
passò una mano fra i capelli, si strofinò il naso e mi mise il
tema sotto al naso: sei pagine, sei punti interrogativi grandi
tutta la pagina, in rosso.
- Allora?... cosa mi dici? –
Mi sembrò di essere sul palco degli imputati. Mi guardava come a dire, “dai, confessa che ti sei fatto una canna
prima dell’esame…e la chiudiamo lì.”
Provai a spiegare il senso delle mie considerazioni con
un esempio.
- Vede, quando a scuola si dice Dante, si dice già che è stato un grande, che ha avuto un ruolo enorme nella storia
della lingua italiana. Ma se invece di Dante parliamo di
Palazzeschi, ecco che la quotazione scende, un poeta minore, a cui dedicare minore attenzione; insomma meglio
studiare Dante che Palazzeschi se vuoi un bel voto.
Ma accidenti, perché? Perché Dante è a priori un grande e Palazzeschi solo uno che passava da lì? Questo voglio
essere libero di deciderlo io! –
102
Il professore, aggrottò le ciglia, si mosse sulla sedia, si
accese una sigaretta, non mi chiese se ne volevo una…
- Ma come puoi paragonare Dante a Palazzeschi? Sei impazzito?! Dante è… Dante! Palazzeschi è … Ma cosa ne
sai tu di Palazzeschi? –
Gli risposi che era solo un esempio, ma che comunque
Palazzeschi mi aveva procurato delle emozioni ben più forti
di Dante. E cominciai a citare alcuni brani che avevo in
mente, di una poesia di Palazzeschi, “Lasciatemi divertire”.
Tri, tri, tri,
fru, fru, fru,
uhi, uhi, uhi,
ihu, ihu, ihu.
Il poeta si diverte,
pazzamente,
smisuratamente.
Non lo state a insolentire,
lasciatelo divertire
poveretto,
queste piccole corbellerie
sono il suo diletto.
Cucù rurù,
rurù cucù,
cuccuccurucù.
103
Ma lui non si divertì affatto e mi cacciò via (quella
volta mi sono salvato con il compito di matematica…).
Ho scritto sempre: gialli, sceneggiature, saggi, commedie. È tutto rigorosamente chiuso nel cassetto, un foglio sopra l’altro, ad ingiallire, ad aspettare che succeda qualcosa.
Tutti, tanti, attimi di speranza, “questa sì che è la volta
buona, me lo sento…!”
Ma fino ad oggi non è mai stata.
Sono un fallito? No, che c’entra?! Sono troppo giovane, ho solo 28 anni, non posso pensare di essere un fallito.
Lo so, lo so perfettamente che verrà anche il mio giorno.
Questo fuocherello che mi si agita dentro, ha finito per
condizionare tutta la mia vita.
Ho frequentato la Facoltà di Urbanistica, ma (come ho
già scritto), non mi è mai passata neanche lontanamente
per la testa l’idea di fare l’urbanista.
Ed oggi faccio il cameriere e domani magari … un
altro lavoro, perché mi devo guadagnare da vivere, … ma
alla fine, il mio lavoro diventerà scrivere.
Ma una passione può diventare un “lavoro”? Lo scrittore è libero di scrivere ciò che ha dentro, o deve fare ciò
che gli chiede il suo editore?
Avrò modo di pensarci. Prima dovrò portare tante
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pizze, sporcami le mani nella vita di tutti i giorni e magari avere successo in quello che farò, e diventare “scrittore”
quando nessuno potrà dirmi cosa scrivere, mettere punti
interrogativi rossi, pieni di arroganza, sulle mie pagine;
questo è il messaggio che mi porto dentro: può piacerti,
oppure no, ma nessuno ha il diritto di cambiarlo.
Testa dura! Come dice mia mamma!
Oppure più semplicemente rispetto, per un dono che
sento di avere, per una missione che sento di dover assolvere. Per questo penso che verrà anche il mio momento.
Nel frattempo devo stare tranquillo, saper aspettare e,
forse, anche imparare a godere i momenti come questi, che
sbaglio a pensare di buttar via. C’è un senso a tutto.
Un giorno sarò fiero di aver fatto il cameriere, come di
tutti gli altri lavori che mi è capitato di fare, il portalettere,
il garzone, il meccanico.
Mi viene finalmente da ridere, dopo tanto tempo,
vedo un bagliore di luce in fondo al tunnel, sento il cuore
battere veloce.
Mi vesto per andare al lavoro, mi guardo allo specchio… bè, in fondo, questo bianco-e-nero non è poi così
male, mi sa che mi dona…
105
22 agosto 1985
Ferragosto è passato, ma non è facile accorgersene.
Questo fiume umano è ancora in piena, impetuoso,
straripante. Continua ad allagare, a riempire, a coprire tutto.
Non ci sono segni di cedimento; chissà quando tutto
rientrerà negli argini e la corrente si placherà, e il fiume si
farà sempre più piccolo fino a diventare ruscello, rigagnolo,… goccia d’acqua?
Chissà. Però una cosa è certa; guardando il calendario
si può dire con sicurezza che ferragosto è passato.
Questa specie di scalata così dura, così ripida specie
nell’ultimo tratto, ci ha portato finalmente a raggiungere la
vetta, il picco massimo.
Da lì abbiamo cominciato la discesa; non sarà facile
neppure scendere (a volte la discesa nasconde più insidie
della salita), incontreremo nuove asperità, contrattempi,
tempeste.
E qui la voglia di arrivare a valle al più presto, quanto
prima, può farti inciampare, può distruggerti.
Ti sorregge invece l’idea di essere riuscito a raggiungere
la vetta, di avercela comunque fatta, e la consapevolezza di
avere davanti un percorso più breve e per di più in discesa.
106
Ormai possiamo incominciare il conto alla rovescia, e
cancellare giorno dopo giorno sul calendario, sfogando sulla penna la rabbia e la gioia di cancellare un altro giorno.
Questa cosa succede in particolar modo a chi fa lo stagionale, rispetto a chi lavora tutto l’anno. Al massimo per
questi ultimi ci può essere il traguardo delle ferie, ma è
tutta un’altra cosa.
Qui, dopo esserci strizzati come limoni per quattro
mesi, ci aspettano otto mesi di vita piena.
Il lavoro stagionale (sia per i proprietari, sia per i dipendenti) crea questo conflitto enorme: baratti quattro
mesi di inferno con otto di paradiso!
Mancano le vie di mezzo!
Se chi lavora tutto l’anno vive la sua vita in un perenne
purgatorio, da cui non sa uscire, da cui non può liberarsi,
cotto a fuoco lento, per chi concentra il proprio lavoro in
una stagione, la vita si caratterizza come un continuo passare dai carboni ardenti ad un letto soffice, da un letto soffice
ai carboni ardenti, e così via per ogni nuova stagione.
Questo contrasto, questa contraddizione così stridente, così netta, ti può spezzare. Come puoi goderti questo
letto soffice se poi sai che dovrai presto tornare sui carboni
ardenti?
Ed anche se provi a non pensarci, se provi a dormi107
re sereno e pacifico nel tuo letto soffice, che ne sarà di te
quando ti risveglierai col fuoco sotto al culo?
Ne sanno qualcosa i nostri albergatori: qualcuno ha
cercato di risolvere questo conflitto trovandosi una occupazione anche in inverno, per mantenere un equilibrio, ma
altri si sono persi, fra bar e spiagge esotiche, persi,… è la
parola giusta.
Caro Tonino, pensaci, pensaci.
Forse è stato solo un sogno, la speranza di poter avere
tutto subito, pagare otto mesi di paradiso con quattro di
inferno,… sì, ci si poteva anche stare. Raggiungere l’eden
immediatamente, senza dover chinare la testa di fronte alle
gerarchie, ai baroni, arrivando ad essere subito ciò che volevi.
Ma non funziona così, è una illusione, un gioco.
I libri che hai scritto sono nel cassetto, non hai il coraggio, la grinta, la forza, per farli pubblicare. Semplicemente
fai finta che lo siano già stati. Fai finta, giochi ad essere ciò
che vorresti, certo solo per otto mesi.
Ma quando aprirai gli occhi e ti accorgerai che hai giocato con tutta la tua vita, allora, allora, cosa penserai di te?
Ti toglierai la maschera e cosa vedrai nello specchio?
Un uomo che non si è accettato: un corpo vecchio, un viso
da bambino.
108
Un uomo che non ha saputo essere, che non ha scelto,
non ha affrontato la realtà, l’ha schivata, si è nascosto, dietro tutto, dietro tutti.
Un uomo che non ha creduto nei suoi mezzi (idealizzandoli nel sogno, sminuendoli nella realtà), che ha avuto
paura di scontrarsi con quel sistema nei confronti del quale
avrebbe anche potuto uscirne vincente, perché no?
E allora che fare?
Fra meno di quaranta giorni, la stagione sarà finita, ed
allora toglierò i miei piedi bruciacchiati da questi carboni
ardenti, per gettarmi in un letto soffice.
In questo letto mi riposerò, ritroverò forze, energie.
Poi da questo letto soffice, tentatore, mi alzerò, ed
uscirò all’aperto, a testa alta, ad affrontare di petto i miei
fantasmi.
No, non rifarò di nuovo il cameriere, questa è la mia
ultima stagione. Questo gioco è finito.
Se purgatorio deve essere, purgatorio sia! Meglio di
questo vero inferno per un falso paradiso!
Ma sì, certo, Tonino, gira, gira!
Ci sono pizze da portare, ed anche maccheroncini pasticciati che si raffreddano in cucina, e la grigliata e i tavoli
da sparecchiare.
No, non puoi ancora fermarti a pensare, sei ancora
109
nell’inferno, ci sei dentro fino al collo; ed allora Tonino
l’unica cosa che puoi fare è starci dentro, almeno fino al 29
settembre.
Poi, dentro un letto soffice, sceglierai.
110
27 agosto 1985
Ho riletto queste pagine di agosto e devo dire che mi
hanno sorpreso.
Quando ho cominciato questo diario, immaginavo
che sarebbero state diverse, molto, molto, diverse.
Pensavo che avrei descritto il caos, la fatica, il sudore,
il vortice, la follia di questo lavoro che ti spezza le gambe,
ti brucia il cervello e dei record di pizze, di ore, di piatti
portati con una mano e invece… non so, forse è tanta la
nausea, la stanchezza, che il tempo prezioso che dedico a
questo diario, voglio che sia qualcosa di più importante di
un semplice bollettino di guerra.
Parlare di stanchezza, quando sei stanco, non fa che
aumentare la tua depressione fisica.
E poi, insomma, di che mi devo lagnare: alla Lanterna
ho trovato dei datori di lavoro straordinari, colleghi sinceri,
la soluzione a tanti problemi; mi sento anche in colpa a
lamentarmi, c’è tanta gente che sta peggio di me, che fa
attività ben più pesanti e meno pagate della mia.
Insomma, è il mio solito moralismo che affiora, che
quasi mi fa vergognare di stare qui a piagnucolare, quando
in fondo sono probabilmente un privilegiato.
Ma non è questo il problema: la fatica in sé, non mi ha
111
mai spaventato.
Ciò che quest’anno mi è andato in crisi, è il modo di
pensare la mia vita, le motivazioni che stavano dietro alla
scelta di fare lo stagionale.
E questo non tanto per la durezza del lavoro di cameriere (per carità!), quanto per la sua totale estraneità alla
mia vita, ai miei progetti, al mio modo d’essere: che c’azzecca il cameriere con me?
Non è terribile in sé l’idea di servire un pasto caldo a
qualcuno, anzi.
Ma è il modo in cui lo fai, il sistema all’interno del
quale ti trovi ad agire, la condizione che ti condiziona.
Certo, fare il cameriere non è neppure il peggior lavoro
che ti possa capitare (per alcuni va benissimo), sicuramente
c’è di peggio: lavorare in banca, in un ministero, in una
catena di montaggio, in una centrale nucleare, oppure fare
l’urbanista… sì, peggio, molto peggio.
Ciò che devo capire è come sono arrivato qui.
Opportunità ne ho avute, tante, interessanti; perché le ho
perse? Perché non ho fatto di tutto di più perché almeno
una si concretizzasse?
L’orgoglio, l’intolleranza verso qualunque forma di
compromesso, non solo quelli al ribasso, ma semplicemente la possibilità di andare incontro agli altri, senza paura,
112
senza timore di perdere il senso del messaggio, il valore del
patrimonio di cui sono portatore.
Tonino rilassati, non devi salvare il mondo, hai un sacco carico di doni, ma puoi portarlo con serenità, perché
rappresenta solo un piccolo granello, che se andrà sommato ad altri costruirà una montagna, ma se andrà perso nel
vento, pazienza, tanti altri granelli andranno a buon fine.
Tonino, rilassati.
La cosa peggiore che potrei fare è buttar via la mia vita,
il bene più prezioso.
Perché dovrei scrivere di calli e mal di schiena?
Mi piacciono da morire queste pagine così dense, di
questo travaglio, di incertezze che stanno per trasformarsi
in certezze, di paure che saranno la mia forza, di pensieri
pessimisti che stanno per cambiare colore.
Voglio far viaggiare la fantasia, ciò a cui più tengo,
perché è la sola realtà vera, quella liberata dai dogmi, dalla scienza, dal potere di farti credere e vedere solo ciò che
vuole.
È buffo no, parlare di fantasia, mentre sono ancora
completamente immerso nel massimo della concretezza…
dar da mangiare agli affamati, riempire le pance che brontolano, i denti che masticano, le lingue che leccano, i nasi
che odorano, gli stomaci che ruttano.
113
Mi sta stretto il bianco-e-nero, mi mancano tutti gli
altri colori dell’arcobaleno!
Certo, non farò più il cameriere.
Ma cosa farò?...perchè qualcosa dovrò fare… mi servono dei soldi… io… no, non voglio cadere nel panico! La
soluzione la troverò, sì, sono certo di trovarla.
Mi sento già oltre la Lanterna, è già come fosse tutto
passato.
Ma che importanza ha avuto questa luce, questa
Lanterna!
Che strano, ho pronunciato un milione di volte questo
nome, Lanterna, eppure mi era sempre sfuggito questo suo
significato simbolico.
La Lanterna ha gettato luce sulla mia vita, ha messo in
evidenza le mie contraddizioni, le mie lacerazioni, mi ha
indicato una strada da seguire.
Alla ricerca di questa strada, dietro questa luce tremula, ancora incerta, vagherò ancora per un mese, a cercare indizi, a provare direzioni, ad annusare venti, a palpare rocce,
ad accarezzare piante, a far scivolare sabbie.
E intanto rido, rido di me, della mia stupidità, per aver
avuto una Lanterna in mano, eppure essere stato così cieco,
da non aver visto la sua luce.
114
29 agosto 1985
Ho bevuto molto oggi, a tavola, insieme agli altri camerieri.
Dovevamo festeggiare, festeggiare una cosa grossa: oggi
è il 29 agosto, fra un mese tondo ci salutiamo.
Non sono ubriaco, sono felice, di quella felicità che
solo il vino sa darti quando riesci a berne quel tanto che basta a farti essere te stesso, senza paure, senza freni inibitori.
Il riso facile, la lingua sciolta, la vista un poco appannata. È bello, è bello sentirsi in gazzoia, fra amici.
E allora giù con battutacce, freddure, e… ancora trenta giorni.
Fra un mese partiremo, ognuno per casa propria e con
molti non ci vedremo forse mai più. Dispiace, o meglio
dispiacerà, in fondo siamo diventati amici. Ma ciò che più
conta ora, ciò che tutti vogliamo, è che finisca.
Sono tornato a casa così, allegro, con in bocca quel
sapore pieno, unico, del sangiovese. Il rumore della mia
moto, l’aria sulla faccia, mi hanno rimesso in sesto.
Per restare in argomento con ciò che avevo in testa,
nello stomaco, nelle vene, ho voluto fare un giro nella vigna
che coltivo, nonostante fossero le quattro del pomeriggio,
con un sole che spaccava la testa e le mie gambe che face115
vano cilecca.
Da quando ho iniziato a lavorare non ci avevo più
messo piede.
Per me la vigna è un mondo incantato. La vigna, ma
dovrei dire, la natura, tutta. Un organismo vivente, così
straordinario bello, complesso, libero (nonostante l’uomo
la voglia in ogni modo dominare, sfruttare – l’uomo non
vincerà mai contro la natura, l’ultima parola spetta a lei).
Per questo non dico mai la “mia” terra, la “mia” vigna,
perché credo che nessun essere vivente, sia che si tratti di
un essere umano, un animale o un vegetale, possa essere
posseduto da qualcuno.
Io dico che ho l’onore, l’impegno, il piacere di coltivare
con queste mani, questa terra, che in cambio mi fa godere
dei suoi frutti, dei profumi, dei sapori, fino all’ebbrezza.
Ed anche un piccolo rettangolino di terra, come quello
attorno a casa, può darti un’infinità di queste ricchezze.
Camminando, oggi, lungo i filari, ho potuto goderne,
attingerne a piene mani fino a riempire ogni saccoccia, ogni
buco, ogni cavità dentro me stesso.
La testa libera dal rumore della pizzeria, dal frastuono dei turisti…. Solo quel piacevole ronzio alle orecchie a
ricordarmi che avevo alzato il gomito. Ma questo ronzio è
proprio un bel ronzio, non è rumore, è musica.
116
Musica, musica, come quella dei grilli e delle cicale,
degli uccelli, dei cani e dei gatti, che stanno godendo insieme a me, in questo stesso momento, di questa terra, di
questa vigna, di questo sole.
Cammino fra i filari e la vedo cresciuta, così cresciuta
da essere difficilmente riconoscibile; come quando si incontra un ragazzo dopo averlo visto solo da bambino.
Com’è cresciuta la vegetazione! I pampini si sono allungati, le foglie sono decuplicate e i grappoli…, santo cielo!, i grappoli!, che meraviglia!
Li ho lasciati che avevano acini piccoli come le teste
di fiammiferi ed ora sono già grossi ed hanno preso colore;
pendono come i regali dall’albero di Natale.
Hanno in sé una promessa: di vendemmia, di mosto
che bolle nei tini, di vino che si fa adulto nelle botti.
Chi non ama il vino non ama la vita, la libertà. Ed
infatti il vino è simbolo di vita (il sangue), di libertà.
Non si fa sottomettere il vino (parlo di vino vero e
non di quell’intruglio frutto di una produzione industriale,
messo al mondo con reazioni chimiche e mescolamenti orrendi); se vuoi fare del buon vino, devi sapere che il padrone è lui, lo puoi solo assecondare, sostenerlo là dove sai che
è più debole, lasciarlo correre dove sai che c’è la sua forza;
tu puoi solo studiarlo, cercare di capirlo, aiutarlo ad espri117
mere il meglio di se stesso, la sua personalità, perché il vino
ha una sua personalità, che non va appiattita, ma esaltata.
Accarezzo i grappoli, ne sento il profumo, cerco di liberarli dal groviglio di foglie e di rami attorno ai quali sono
cresciuti, di metterli in mostra, di esporli ai raggi del sole.
Fa caldo, troppo caldo, devo rientrare.
Ma voglio resistere ancora un attimo al richiamo del
letto, non posso evitare di andare a visitare la cantina.
Il fresco asciutto della mia cantina, mi dà un immediato refrigerio. La penombra riposa gli occhi; a poco a poco
cominciano ad apparire le cose: le due botti di castagno,
il tino, le damigiane, gli scaffali con le bottiglie, l’imbuto,
le gomme, i tappi, i bicchieri…le pareti dipinte con terre
rosse e gialle, a calce, come le vecchie osterie.
Niente di eccezionale, ma sufficiente per farmi sognare
di essere nel ventre materno dove nascerà il vino e diventerà
adulto.
Sento il profumo del vino che sale dalle botti ancora
piene. Immergo un gommino per prelevarne un campione,
un mezzo bicchiere.
Lo assaggio, con tutta l’attenzione che merita: lo guardo contro luce, lo faccio girare dentro il bicchiere affinché
sprigioni il suo profumo, ed infine lo sorseggio, lasciandolo
andare fra le guance e i denti, la lingua, che lo rimanda al
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palato, e poi ricade, a sollecitare altre papille, a rimbalzare,
a far salire profumi, aromi…BUONO!
Rimbocco il colmatore fino a misura.
Oggi invece io credo di aver passato la misura. Ma è
bello vedere questa collina sotto l’effetto del vino, sotto
questo cielo così azzurro, sempre così lontano da piovere!
Mangio un fico, proprio bello, maturo al punto giusto,
che sembrava volermi cadere in testa. Lo apro e sto per
metterlo in bocca, ma… avete mai visto un fico? Lo avete
mai aperto?
È così fantastico che mi viene voglia di scrivere cento
pagine su di lui. Su di un fico?
Sì certo, perché, che c’è di strano?
Perché, forse pensate veramente che un fico non valga
un fico secco?!
Vi sbagliate.
È proprio qui che ho scritto queste paginette, all’ombra di un fico, con la testa fra le nuvole e l’anima sulla
terra.
119
1 settembre 1985
“…settembre poi verrà…”
È tutto il giorno che abbiamo sulla bocca questa vecchia canzone di Peppino Gagliardi.
Eccolo qua!
Settembre è arrivato.
Siamo già arrivati a valle, a pochi chilometri dal paese
della Cuccagna!
Calma, calma, c’è ancora un mese; la meta è vicina, ma
c’è ancora da pedalare, quindi calma e sangue freddo.
Oggi è venuto a mangiare alla Lanterna un mio amico,
un compagno di Liceo ed è rimasto sconvolto a vedermi lì,
a fare il cameriere.
- Ma come…! Tu qui.. che ci fai? –
Gli ho risposto che lavoro come cameriere stagionale,
… in attesa di… e comunque…
Ma lui non riusciva a credere ai suoi occhi.
- Ma come, Tonino? Ma perché? –
Gli ho detto che se voleva, se aveva un po’ di tempo,
avremmo potuto parlarne con calma, dopo il servizio, verso
le 15,30.
Così gli avrei fatto vedere dove abito, assaggiare il mio
vino, ed anche lui mi avrebbe potuto raccontare un po’
della sua vita, che faceva, ecc.
120
Prima di rispondermi sì o no, ha consultato l’agenda,
poi mi ha detto che sì, un salto poteva anche farlo, un’oretta, ma non di più, che avrebbe spostato un impegno.
- A proposito a casa hai un telefono? –
- Sì, certo. –
In quel momento credo di aver provato più pena e tristezza io nei suoi confronti, di quanta ne deve aver provata
lui quando mi ha visto qui, vestito da cameriere, a portar
piatti.
Agenda e telefono, una vita programmata, al massimo
un’oretta, devo telefonare, sposto un incontro.
Va bè, comunque è venuto a casa mia.
Gli è piaciuto molto il posto, la casa, il vino, ecc., ecc.
Insomma mi ha detto che in fondo sono fortunato, ad
avere tutto questo e che forse, è stato anche giusto scegliere
di fare il cameriere stagionale, ma…
- basta, basta con il vino! … fra poco ho un incontro; anzi,
mi scuso, devo proprio andare. Tornerò a trovarti di sicuro. Complimenti, di nuovo, hai una bella casa. Ciao –
- Ciao. –
Ho richiuso la porta mentre il rombo della sua Golf
diesel si faceva sempre più sottile, lontano.
Poi sono venuto qui, al mio tavolo, a scrivere.
Due modi diversi di intendere la vita. Due mete opposte.
121
Per quasi tutti i miei compagni di Liceo (quelli che ho
avuto modo di incontrare in questi anni), la meta è rappresentata dalla professione.
Per questo hanno studiato e per poterla esercitare hanno fatto di tutto.
Eccoli là: medici, avvocati, ingegneri, architetti, commercialisti, insegnanti… cameriere.
Mi viene da ridere!
Se ordiniamo queste professioni in una scala gerarchica, io sono proprio sotto l’ultimo scalino. Ma non dal mio
punto di vista.
Parliamo invece di percorsi, di crescita interiore, di
maturità, di progetti.
La mia meta non è il posto di lavoro, sicuro e ben pagato; quello per cui ti svegli tutte le mattine alla stessa ora,
fai la stessa strada, bevi lo stesso caffè, aspettando che arrivi
sabato, finchè un giorno arriverà la pensione.
Ok certo, mi si dirà, ma per il libero professionista è
diverso, è libero per definizione, non è un lavoro alienante,
non è un semplice impiegato.
Non lo so, può darsi, oppure è semplicemente diverso
il padrone: il tempo, il business, lo stress.
La mia meta, oggi, non si rispecchia in una condizione lavorativa, prestigiosa quanto si vuole, pagata quanto si
vuole.
122
Oggi sono ancora alla ricerca della felicità, e credetemi
c’è in questo “ancora” un sospiro di sollievo, un anelito di
libertà, di voglia di vivere; non mi sono “ancora” arreso.
Ma la felicità non si raggiunge con un percorso asfaltato, rettilineo come un’autostrada.
Al contrario, è un percorso accidentato, pieno di buche e di curve, che attraversa incroci pericolosi e si perde
dentro labirinti, tunnel, boschi, montagne, paludi.
Cammini, cammini e ti sembra di essere sempre allo
stesso punto o, peggio, di essere tornato indietro. Faranno
male i piedi, le gambe, le spalle, non è un percorso che si fa
stando comodi in poltrona… c’è da soffrire.
Non è facile, lo so, raggiungere la meta percorrendo
questa strada; è molto più facile perdersi, sbandare, andare
alla deriva.
Ma su questa via mi sono incamminato, e su questa via
continuerò a camminare, per tutta la vita.
Chi ha puntato su un percorso rettilineo, se fallisce, ha
fallito tutta la sua vita. Per me invece non sarà così: dietro
ogni curva ci sarà un nuovo sfondo, si aprirà un nuovo
orizzonte.
So che la meta che mi sono posto, la felicità, è molto
difficile da raggiungere e molto probabilmente tornerò alla
terra, senza neppure averla sfiorata, ma non è questo l’importante.
123
Ciò che conta è essere su questa strada, certo più tortuosa, più stretta, intricata, ma anche l’unica strada che voglio e so percorrere.
Ho questa immagine nella mente: le valli sventrate per
costruire viadotti, autostrade, strade dritte per arrivare in
fretta.
Dall’alto del viadotto si possono ancora intravedere le
vecchie strade, strette, piene di curve, ormai in disuso, che
appaiono anacronistiche, roba vecchia.
E pensi, “ho fatto bene a passare per l’autostrada; è larga, dritta, veloce, sicura, arriverò molto prima; per fortuna
che è stata costruita!”
Ma dal basso, dalla stradina, l’impressione è completamente diversa.
Senti la violenza, l’aggressione, la prepotenza, di quella
sbarra di cemento che è arrivata a coprirti il cielo, a distruggere il letto del fiume, con i suoi millepiedi piantati a
distanze regolari, come le inferiate di un cancello.
Questa piccola strada attraversava vite, luoghi, storie,
piccole economie.
Quella sbarra di cemento, che le ha portato via il sole,
serve solo a farvi correre sopra gente impazzita, convulsa,
stressata, che rischia in ogni istante la propria vita e mette a
rischio pure quella di altri, peggio che una guerra.
124
Gente in perenne mancanza di tempo, sempre più dipendente da agenda e telefono, con una idea dei luoghi,
come distanze chilometriche da attraversare, cartelli stradali, dove voltare a destra, dove fare il pieno, dove fermarsi
a pisciare.
L’importante è arrivare, in fretta.
Ecco dunque perché ho fatto il cameriere, ed ecco anche perché so che fra ventinove giorni non lo farò più, che
fra ventinove giorni mi si presenterà di fronte una curva e
presto si presenterà un nuovo paesaggio, un nuovo orizzonte.
Continuerò la mia strada, nel bene e nel male, in un
clima diverso, con colori diversi, con panni diversi, con parole diverse, con gesti diversi.
La mia meta che sembra così irraggiungibile, in realtà
è come se l’avessi già raggiunta.
È questa strada in terra battuta, piena di curve, ricca di
svolte, che sembra fatta apposta per le mie scarpe, dove mi
sento bene; non sento la curiosità e tanto meno l’ansia di
sapere cosa ci sarà dietro la prossima curva.
Un passo avanti l’altro, giorno dopo giorno.
È su questa strada che ho incontrato la Lanterna, è su
questa stessa strada che incontrerò ciò che verrà.
125
6 settembre 1985
La pioggia! Dopo mesi e mesi che non cadeva più una
sola goccia dal cielo, eccola, finalmente!
Ieri pomeriggio c’è stato un forte acquazzone, intenso,
anche se di breve durata.
Ero a letto e vedevo attraverso la finestra le nubi rincorrersi, prendersi per i capelli, lanciarsi tuoni e fulmini.
Altre volte, nel corso dell’estate, c’erano stati falsi allarmi, ma questa sembrava la volta buona.
La terra ha sete, tutto il mondo ha sete, di questa acqua che non si decideva a venire giù.
Nei campi si sono aperte delle grosse crepe, a causa
della siccità.
Sembra che la terra abbia spalancato le sue mille bocche per catturare quanta più acqua possibile, se mai cadrà.
Ed eccola finalmente, a rompere gli indugi ed a gettarsi
giù dalle nuvole, lasciandosi attrarre dalla forza di gravità, a
capofitto verso la terra che sembra saltare di gioia per questo
evento lungamente atteso.
Il temporale è molto intenso: lo sto a guardare dalla
finestra.
C’è una musica incredibile, una specie di “rap”, fatto di
goccioloni e goccioline, fontane, cascatelle, ruscelletti, che
126
sbattono sui tetti, precipitano giù per i pluviali, colpiscono
lamiere, vetri, fanno scia sotto le ruote delle macchine, si
tuffano in pozzanghere, dentro secchi, rimbalzano sulle foglie degli alberi, sui petali dei fiori, sugli ombrelli aperti.
Il tutto ritmato dal fragore dei tuoni e dal bagliore dei
fulmini, come luci psichedeliche.
Che musica!
Così, improvvisata, di mille tamburi, percossi da diecimila dita, ma sento anche chitarre, violini, e un’arpa lontana, un oboe, un trombone….
È ora di andare a lavorare.
Mi sono infilato in macchina e ben presto mi sono trovato in mezzo a strade allagate: le fognature non sapevano
più come ingoiare acqua, tutte intasate com’erano di foglie,
cartacce, ecc.
Più che una macchina ci sarebbe voluta una barca, specialmente nel sottopasso ferroviario, dove c’erano circa 40
centimetri d’acqua.
Vetture in panne, lunghe code, gente che bestemmiava, malediceva.
Chi non aveva l’ombrello, chi si riparava con una sportina di plastica; e quegli impermeabili trasparenti dei tedeschi che volavano ovunque.
Insomma era da tanto tempo che aspettavamo questa
127
pioggia, eppure siamo già qui a maledirla!
Viene il mio turno di passare nel sottopassaggio. Molti
hanno desistito, hanno fatto dietro front… ma questa è
l’unica strada per arrivare alla Lanterna.
Mi sono fatto forza e mi sono buttato dentro. Sentivo
le ruote fare resistenza, per aprirsi un varco nell’acqua.
Dai!, dai!, dai!... sono riuscito a passare. E così via, fino
alla Lanterna.
Qui pioveva dal tetto, si erano intasate le fogne e c’era
stato un mezzo allagamento in cucina.
Poco dopo ha smesso di piovere. Bè? Tutto qui!
È stato come lanciare un secchio d’acqua in faccia ad
uno che sta morendo di sete. Sì, qualche goccia gli è arrivata alla bocca, e certo si sentirà un poco più fresco. Ma il
caldo fa presto a tornare e l’acqua ad evaporare: risultato,
hai più sete di prima!
Però era da tanto tempo che si aspettava questa pioggia, per starsene in casa, a guardare la televisione, a far finta
che fosse arrivato l’autunno per indossare un golf, che, per
la strada, non c’era nessuno, anche se non pioveva più, non
faceva freddo e c’era un bellissimo tramonto, e una luna
piena grande come una mongolfiera che già stava salendo
in cielo.
C’è voluta qualche ora, il caldo, la sete, la noia dei
128
programmi televisivi, il prurito della lana, per rimettersi in
mezze maniche e ritornare in strada, a rinfrescarsi la gola in
un bar, a ballare, a fare quattro chiacchiere sul tempo. Già
tutti preoccupati.
- Ma domani pioverà? –
- Che sfortuna! Quando vengo in vacanza io piove sempre!
–
- Pioverà o ci sarà il sole? Cosa ha detto Bernacca?... e il
bagnino? –
- Ma non vedi fuori? Ci sono le stelle e la luna, domani
sarà bellissimo! –
Eccola qua la “città del sole”, dove non deve piovere
mai, perché la gente possa stendersi sulla sabbia infuocata,
ad abbronzarsi, a fare il pieno di sole, di luce, per potere poi
affrontare i lunghi mesi di buio e di smog, di luce artificiale
e di aria condizionata, delle grandi città.
Tornando a casa non ho più trovato traccia di pozzanghere.
Che sia stato solo un sogno?
129
12 settembre 1985
Sono rimasto parecchio tempo di fronte allo specchio,
a guardare la mia faccia.
C’era una macchiolina di sugo, sul colletto della camicia, e cercavo di ripulirla, con dell’acqua.
Che faccia!
Sono pallido, dimagrito, stanco.
Due pestoni sotto due occhi gialli e rossi.
No, non ho una bella cera!
Ma ancora pochi giorni, diciassette, e tutto sarà finito…ritornerò alle mie cose alla mia pace.
Che faccia!
Ho anche un foruncolo, sul naso, ed i capelli…dovrei
andare dal barbiere.
Mi massaggio il viso con le mani, premo le dita sugli
zigomi, sulle guance; mi passo le dita fra i capelli, a spettinarli più di quanto già lo siano.
Tiro fuori la lingua; mi faccio delle smorfie.
Ed allora scoppio in una risata liberatoria che sale da
ogni parte del mio corpo, mi sbatte, mi sconquassa, affiora,
viene a galla.
Eh sì, eh sì.
È fatta, è fatta!
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Due settimane, solo due settimane.
Questa risata mi stordisce, mi fa andare fuori di testa,
ubriacare, sento la tensione svanire, i miei nervi rilassarsi, la
pelle riprendere colore… fa bene ridere!
E mi vedo ora così diverso riflesso dallo specchio, con
il respiro in gola e le lacrime che scendono su guance finalmente colorite.
Mi butto sotto la doccia, lascio che l’acqua mi avvolga,
mi abbracci e scivoli via.
Canto, fischietto, un motivetto, non so cosa. È qualcosa che sgorga da dentro, un intreccio di note, di parole
senza senso, un “parappapperoparappappà!”
Ecco, sono felice, in questo momento mi sento felice!
È questa risata che mi ha dato la forza, mi ha ridato
la vita.
Mi infilo un accappatoio e corro fuori, a gridarlo ai
campi, a dirlo alle galline, alla vigna, al cielo, al mondo
intero.
Sono qui, sono qui! Ancora pochi, pochissimi giorni e
sarò tutto vostro.
Sarò di nuovo qui, a respirare questa aria, a curare questa vigna, a dare forma a questo legno… Sì, sì, ancora pochi
giorni!
Sì Sole, accecami, entrami dentro, bruciami le retine,
131
non mi interessa, voglio vederti, voglio guardarti lì in mezzo al cielo, palla di fuoco, così come sei, e non più riverbero, riflesso, schizzo di luce, entrato, filtrato, rimbalzato
attraverso i vetri di una finestra.
Gli occhi mi bruciano, non vedo più niente. Solo mille
stelle, brillare, brillare.
Mi lascio dondolare seduto sull’altalena, sotto al pergolato. Voglio godermi questo momento, sentirmi cullare,
sentire il cigolio della corda che fa attrito con la carrucola… e voci lontane, canti di uccelli.
Godo della felicità di essere, di vivere.
Ho gettato per un attimo alle ortiche le paure, le angosce, le invidie, il nervosismo, tutto ciò che ti attanaglia, ti
chiude i pori e la gola, e non ti fa respirare, non ti fa vedere
e non ti fa sentire.
Sì, in questo attimo, io e Tonino siamo stati uniti, anima e corpo, stretti in un abbraccio in cui l’uno e l’altro
erano indistinguibili, inseparabili.
Caro Tonino, che cos’è questo diario, che cos’è tutto
questo che mi sta succedendo.
La mia strada è arrivata ad una svolta, vedo una curva,
là in fondo.
Ma tutte le volte che penso a questa strada la immagino diversa.
132
Spesso mi sembra di essere solo, a percorrere questa
via, scalzo, vestito di stracci, ma sereno.
Altre volte solo, ma spaventato, atterrito da facce che
sbucano fuori dal buio, da lame di coltello che luccicano
nella notte.
Altre volte ancora, mi sembra che la mia strada sia tutta circondata da un fitto cordone di persone, che mi applaudono, mi incitano, mi portano in trionfo.
Ed io corro, come un atleta, sorridente, con le braccia
alzate in segno di vittoria.
Ma la visione più frequente, è quella di un fiume di
gente che procede in senso contrario al mio, ed io cerco di
avanzare, di vedere, perché cerco qualcosa, qualcuno, più
in là, più in là…
Ma questa gente senza volto, non ha pietà: mi spinge,
mi sballotta, mi schernisce, mi scalcia.
Ma io voglio andare in quella direzione, perché è là ciò
che cerco.
Spingo, sgomito, è là, è là la giusta direzione!
Vi sbagliate, vi sbagliate tutti quanti! Pazzi! State andando verso il baratro! È là, è là dietro quella curva, fatemi
passare, fatemi passare!
In un modo o nell’altro questa strada, questo nastro
mobile, continua a trasportarti e se non stai attento, finirai
133
nello stesso scatolone che raccoglie tutti quelli che hanno
vissuto una vita, senza mai chiedersi un perché.
Questo diario vuole essere uno sforzo per essere cosciente, una luce per spazzare ombre dalla mia vita, una
lanterna su una strada che non è più buia, non ha più brutte facce, non mi fa più paura.
134
19 settembre 1985
Le ore passano lente. La meta sembra non arrivare
mai.
È come una fetta di torta che ti viene incontro, piano
piano, e tu stai lì, a bocca spalancata, ad aspettarla… e non
ce la fai più! Hai l’acquolina che ti scende agli angoli della
bocca, una voglia pazza di azzannare quella fetta di dolce
e di ingoiarla intera, in un solo boccone, come un serpente, zac!... ma niente da fare. Proprio quando sembra lì, già
dentro la tua bocca,… una forza malvagia te la porta via e
ci resti male, a bocca asciutta, deluso, bastonato.
Che tormento!
Il lavoro è diminuito tantissimo questa settimana.
Quasi tutti gli alberghi hanno già chiuso.
Ho ritrovato le stesse sensazioni descritte all’inizio di
questo diario.
Le foglie che cadono, e ogni cinque minuti le devi
spazzare via, perché non è ancora giunto il loro momento,
devono attendere, come me, ancora dieci giorni.
I materassi a prendere aria sui balconi, i pannelli di
legno a tappare porte e finestre di quelli che si sono stancati
prima, hanno chiuso baracca e baracchini e se ne sono andati in vacanza in qualche località esotica.
135
Fra queste foglie secche, respirando questa aria triste
di fine stagione, vedi passeggiare gruppi di vecchietti, simpatici, spediti a “prendere aria” dai Comuni, e gruppi di
inglesi sbarcati da grossi pullman, persi e disorientati, per
non riconoscere in questo luogo, tutto quello che gli era
stato venduto dall’agenzia viaggi… la città dei balocchi…
ma dove?, ma quando?
La spiaggia è quasi deserta, molto bella.
Oggi sono andato dieci minuti a vederla. Sono già stati tolti tutti i paletti degli ombrelloni, ed i bagnini stanno portando via le ultime cose. Sono stato lì, a respirare il
mare. Inspirare, espirare; inspirare espirare…
Ho camminato un po’, lungo la spiaggia, finchè le
scarpe mi si sono riempite di sabbia.
Mi sono seduto su un moscone e mi sono scalzato, è
una bellissima giornata, fa ancora un bel caldo, quello che
ti dà gioia, che ti spinge ad allungare il viso verso il sole
piuttosto che a ritrarti a cercare riparo sotto un ombra.
C’erano tantissimi gabbiani e sono stato lì a guardarli,
ad ascoltarli.
Chissà se fra loro c’è anche il gabbiano Jonathan
Livingston di Richard Bach?
Quante volte ho letto questo libro! Quante volte mi
sono sentito quel gabbiano, quella voglia di volare, quel136
la voglia di libertà. Quante volte mi sono sentito diverso,
escluso dal gruppo, ma con una gran voglia di tornare…
stormo Buonappetito… eccomi qua, a rimpinzarvi di pizze
e di pensieri, riflessioni, che mi fanno volare lontano, alto
nel cielo, ad assaporare il piacere di vivere.
Guardo la spiaggia, questo tappeto lungo, di sabbia,
fino alla palata del porto e penso che .. ce l’hai fatta, ce l’hai
fatta anche quest’anno! Se ne sono andati, è finita.
È finita con tutti quei piedi che ti calpestano, palette
che ti bucano, corpi che ti schiacciano, oli solari che ti imbrattano, musiche che ti stordiscono, immondizia che ti
lasciano.
Già, è finita!... ma ogni anno che passa mi sembri più
vecchia, più stanca, più… mi sono sempre chiesto se effettivamente ti dispiaccia, oppure se ti faccia piacere quando
finisce… chissà?
Ritorno, e intanto guardo il mare, che oggi è di un azzurro stupendo, appena qualche increspatura su una superficie liscia come l’olio, e lo vedo tutto, nella sua rotondità.
So che è ammalato, che lo stiamo ammazzando, con
il fosforo, con gli scarichi delle industrie e dell’agricoltura,
con la plastica, con una pesca intensiva che lo sta spopolando, con le scogliere e le palizzate che ne hanno deviato
le correnti.
137
Questa è una crudeltà che mi dà infinita tristezza.
L’assassinio della natura è un delitto ancora più tremendo di quello della propria madre, perché la natura non
è solo nostra madre, ma la madre di tutti noi e di quelli che
verranno dopo di noi; la madre non solo del genere umano,
ma di tutto ciò che vive, germoglia, cresce, si riproduce,
gioisce, muore, per far fiorire nuova vita.
Vorrei fare qualcosa, per salvare il salvabile, per ridare
luce e speranza a questa terra.
Ma io non sono nulla, meno di un granello di sabbia,
… un granello di sabbia, così piccolo, impalpabile.
Non salverò il mondo, dunque.
Non sarò io, da solo, non ce la posso fare.
Eppure, come disse qualcuno, un granello di sabbia
non vale niente, ma se messo accanto a tanti altri può diventare montagna.
Con questa storia della montagna nella testa, sono tornato al lavoro, a portare pizze e patatine, uova e pesce, polli
e tortellini.
Vorrei parlare con gli altri camerieri, con qualcuno,
ma… con chi?
Chi delle persone con cui lavoro si è mai chiesto un
perché?
- Ho bisogno di soldi. – ecco l’unico perché!
138
Ma perché questa vita, ma perché questo mondo che ci
sta crollando addosso, cazzo!, perché?
- Come dici?... la juve?... le gambe di quella inglesina?...
dove andiamo a caccia? –
No, no no!!!! Finiranno tutti dentro lo stesso scatolone, uno sopra l’altro, uno copia dell’altro, fatti con lo stesso
stampo, polli d’allevamento.
Questa sensazione mi innervosisce, ma non sono pessimista.
Loro cadranno nel cesto, pazienza, peggio per loro; ma
io no.
Io gli sopravvivrò e insieme a tanti altri, sarò montagna.
139
25 settembre 1985
Oggi ho rimontato le due corde che si erano spezzate
alla mia chitarra.
Non potevo più vederla lì, appesa al chiodo, con quelle
corde rotte, penzoloni, come rami secchi spezzati dal vento.
La, la, la… a partire dalla quinta corda, l’ho accordata,
le ho ridato voce, vita.
Ed ora è pronta, pronta a far festa. Pronta a vibrare, a
far uscire suoni, canzoni, emozioni.
È giunta l’ora della festa; solo quattro giorni e scoppieranno i fuochi d’artificio, scrosceranno gli applausi ed
infine anche questo sipario, calerà, a mettere fine a questa
breve storia.
Provo un paio di accordi e già la musica, un’aria nuova,
riempie la mia stanza.
Ho superato anche quest’anno la grande prova: sono
stato D’Artagnan, ho riempito di tutto, centomila bocche
aperte.
I clienti rimasti non riescono a farsene una ragione.
- Ma perché chiudete? Perché non tenete aperto anche in
inverno? E noi adesso dove andremo a mangiare? –
Com’è buffa la gente! Riesce a farti sentire in colpa.
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È vero che qualcuno disse “dar da mangiare agli affamati”, ma penso proprio che non alludesse al dovere morale di dover tenere aperta la Lanterna tutto l’anno!
Non avremo pietà cari signori,… vi abbandoneremo
in mezzo alla strada, senza più pizze, grigliate, ecc., ecc…
fino all’anno prossimo.
Ed anche a voi, poveri inglesi truffati dalle agenzie di
viaggio, toglieremo l’unico piacere che avevate trovato in
questo luogo: la Lanterna, con le sue eggs and chips, bacon
and eggs, ham and eggs, ecc., ecc., con tutte le varietà di
omelettes e poi le famose strawberries with cream e l’albana
dolce, che hanno fatto strabuzzare gli occhi alle migliaia di
inglesi che l‘hanno affollata durante tutta la stagione.
Si sono mangiati una media di quattro uova a testa,
ogni giorno.
Considerando che una gallina non fa uova tutti i giorni, per tutto l’anno, siamo arrivati alla conclusione che
ogni inglese necessita almeno di otto galline che lavorino
per lui.
Moltiplicando per il numero di inglesi, ne scaturisce
una cifra enorme!
Devono stare attenti, che le galline non lo vengano a
sapere, perché se fossero consapevoli della loro importanza
e della forza del loro numero, potrebbero mettere in gi141
nocchio tutta l’Inghilterra e il mondo intero e tentare una
rivoluzione come quella descritta da Orwell nella “Fattoria
degli Animali”.
Ma forse questa rivoluzione è già in atto, agisce interiormente. A forza di mangiare uova d’allevamento, piene
di mangimi chimici, ormoni e chissà quali porcherie, sempre più persone stanno assumendo l’aspetto di galline, di
polli, di galletti.
Il coccodè e il chicchiricchì, diventeranno le lingue
ufficiali, ed anche il cervello si ridurrà a quello di una gallina…; dicono che sia sufficiente quello, per vivere nell’era
dei computer.
Basta osservare il profilo di alcuni politici, primi ministri, presidenti, per vedere già ben impresse le trasformazioni anatomiche: sta spuntando il becco, si fa strada la
cresta, il corpo si sta coprendo di piume, qualcuno ha già
cominciato a fare l’uovo.
E la moda si sta espandendo, ovunque, in ogni campo.
Coccodè, coccodè, chicchiricchì!
Basta, basta! Il pollaio è chiuso, razzolate in mezzo alla
strada, mangiatevi fra di voi!
142
29 settembre 1985
L’orologio sta battendo i suoi ultimi rintocchi, la molla
è quasi del tutto scarica e fra poche ore non riuscirà più a
tirarsi dietro le lancette dei secondi, dei minuti, delle ore.
Il calendario 1985 si fermerà qui, al 29 settembre, gli
altri foglietti non saranno strappati.
Poi passeranno otto mesi, ci sarà un nuovo calendario,
l’orologio verrà ricaricato e ci sarà una nuova stagione. Ma
per quest’anno è finita, siamo giunti al capolinea.
Quella di stasera sarà “l’ultima cena”.
Chiuderemo attorno all’una e poi stringeremo la mano
ai proprietari, intascheremo quanto ci spetta, ricacceremo
in gola quell’emozione, quel tocco di nostalgia che non ci
saremmo mai aspettati di provare, per la Lanterna. Poi indosseremo abiti colorati e andremo a mangiare, a festeggiare, a salutarci.
So che molti di questi amici di viaggio non li incontrerò più, e mi dispiace.
Abbiamo condiviso sudore, fatica, rabbia. Anche se le
motivazioni erano diverse, anche se la mia visione del mondo era lontana dalla loro; dopo avere vissuto una stagione
insieme, si crea qualcosa che assomiglia ad un vincolo di
sangue.
143
A questa tavola apparecchiata siederemo insieme per
l’ultima volta, per l’ultima cena.
E guarderò alle loro facce in modo diverso, cercherò di
imprimermele nella memoria.
Sarà festa, ci abbracceremo, salteremo, avremo voglia
di fare capriole, di bere e brindare, di mandare a quel paese
tutto il mondo, pazzi, pazzi di gioia.
Con la tasca gonfia, pesante, anche se è solo un pezzetto di carta con una cifra, ciò che contiene.
Ma è un pezzetto di carta importantissimo, ciò per cui
abbiamo lavorato. Sarà festa, qualsiasi cosa mangeremo,
sarà festa qualsiasi cosa berremo.
Correremo in spiaggia, a gridare “è finitaaaaa!!!”, con
tutto il fiato che ci resta in corpo, fino a cadere sulla sabbia
fredda, umida, come già comincia ad essere di notte.
Ci scambieremo indirizzi, numeri di telefono e inviti.
- Ma certo… Ok, verrò a trovarti… Scrivi, telefona….
Allora ricordati, è facile: quando arrivi lì, è la prima a
desta, poi a sinistra, poi… Puoi venire quando vuoi, c’è
una camera vuota…Ok, ok, fatevi vivi. Ciao, ciao! –
Le portiere si chiuderanno, i motori prenderanno a
girare, le frizioni si abbasseranno, le prime marce si innesteranno e le auto cominceranno a muoversi, prima lente,
poi sempre più veloci.
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Una mano fuori dal finestrino a salutare.
Poi i fanalini rossi, sempre più piccoli, fino a confondersi e scomparire.
Partiranno verso direzioni diverse: chi al nord, chi al
sud, chi al centro, come una esplosione che lancia schegge
in tutte le direzioni.
Rimarremo io e Stefano, gli unici riminesi, lì, sulla
porta del ristorante.
Poi Stefano mi dirà,
- Fra ottantacinque giorni sarà la notte di Natale.Ed allora ce ne andremo nella notte, cantando “tu scendi dalle stelle…” e se qualcuno ci sentirà, penserà che siamo
ubriachi, o matti da legare, oppure crederà che veramente è
Natale, che veramente sta per nascere Qualcuno, Qualcosa
di importante, e fischierà anche lui quella canzone, insieme
a noi, finchè non ci vedrà sparire, e il nostro canto svanire,
nella notte.
L’alba illuminerà un mondo nuovo.
30 settembre 1985
Ho sognato mille volte questo “day after”, ed ogni volta in mille modi diversi.
Mi sono immaginato a dormire tre giorni, a far capriole, ad andare in vacanza, oppure a non andare per nulla a
145
letto, per vedere almeno una delle albe di questo sole, che
brucia ancora.
Ho immaginato che sarei andato al mare, oppure nella vigna o, … di sicuro alla Gelateria Romana, in piazza
Ferrari, a gustarmi finalmente un gelato in pace.
E poi al cinema, in libreria, al negozio di dischi e ….
Mercoledì al mercato.
Voglio fare un giro in bicicletta, vestirmi di cento colori, non farmi la barba, non andare dal barbiere, non bere
più frullati, non vedere più ristoranti, cancellare la parola
“cameriere” dal mio vocabolario; passeggiare per il corso,
telefonare ad un amico, pranzare all’una come tutti gli esseri umani; andare incontro al postino, versare l’assegno in
banca, giocare la schedina, fare un giro in campagna, nei
boschi, a cercare funghi, castagne, fiori.
Cento, mille, un milione di movimenti, di emozioni,
profumi, che mi travolgono, mi strappano, mi fanno a
pezzettini, in modo da affidare ad ogni mio pezzo una visione, un’immagine, fra le mille sognate in questi mesi, per
poterle vivere tutte, contemporaneamente.
E frullo, sbatto, in questo vortice, dentro a questa giostra di sogni, di desideri, di passioni ed io sono in sella ad un
cavallo bianco e mi lascio dondolare, mi lascio prendere da
queste immagini, mentre la musica di un organo di barberia
146
mi fa piangere d’emozione.
Le lacrime mi sciolgono il trucco, il cerone cade a pezzi.
Questa maschera che ho avuto, appiccicata in faccia,
in questi quattro mesi, si sta sciogliendo, smembrando;
compaiono brandelli del mio vero volto, io, Tonino, sono
proprio io, io, su quel cavallo bianco, io che rido, rido, e
la mia risata arriva a tutta la gente, dilaga in tutte le vie,
irrompe nelle case, ricopre, avvolge, tutto il mondo.
Rido-rido-rido-rido, ah-ah-ah-ah! Uhi-uhi-uhi-uhi!
oh-oh-oh-oh! Che ridere, che ridere!
Un filtro di luce filtra attraverso lo scuretto; è da molto
tempo che è entrato a spiare la mia camera da letto.
Ha cominciato dall’alluce del mio piede destro che faceva capolino dalle lenzuola, poi ha pazientemente risalito
tutto il mio corpo, mano a mano che variava l’angolazione
del raggio di luce, a seguire il cammino del sole nel cielo.
Questa macchia di luce, sfiorandoli, rigenerava tutti i
miei tessuti.
Sentivo il tepore, l’energia, raccogliersi, annidarsi,
all’interno della mia epidermide, risucchiata dalle mille fibre nervose che vi fanno capo.
Continuavo a dormire ed a sognare ed intanto mi stavo rigenerando.
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Questa macchia di luce ha continuato a salire, fino al
mento, alla bocca, al naso, agli occhi, e qui mi è entrata
dentro, a ridestarmi.
Ho aperto gli occhi e subito mi sono dovuto proteggere da questa luce intensa.
Era giorno, il giorno dopo.
Da una parete all’altra della stanza, era appeso un lungo striscione, con su scritto “ben tornato Tonino”.
Sotto era appeso un grande cuore, con la scritta “ti
amo”, e sotto ancora, un pacco.
Sono sconvolto, felice all’impossibile per questa
sorpresa stupenda.
Strappo il fiocco con i denti, visto che per l’emozione
non riesco a slegarlo e non trovo neppure le forbici.
Strappo la carta fiorata, a brandelli, sono curioso pazzo; che sarà mai?, che sarà mai?
Ma sotto la carta c’è dell’altra carta ancora, questa volta bianca, e poi una scatola, e un’altra scatola ancora, una
dentro l’altra, come una Matrioska.
Scavo, strappo, apro,… alla fine dovrò pure trovare
qualcosa!, ci sarà un regalo, un oggetto, un … apro anche
l’ultima piccolissima scatolina,… niente.
Rimango lì, seduto, a terra, fra un mare di carta stracciata.
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Sono arrabbiato … accidenti che scherzo stupido!
Perché l’ha fatto?
Appallottolo tutta la carta insieme.
Ne salta fuori una specie di mappamondo, e le increspature della carta, sembrano i monti, le colline, i mari, i
fiumi, le città.
Seduto a terra, con la schiena appoggiata al letto e il
mondo in mano, ho pensato a lungo al significato da dare
a queste scatole vuote, una dentro l’altra.
Ma certo, sono le vite degli uomini, le generazioni che
si sono succedute, allargate, a scatole sempre più grandi
e tutte queste scatole messe insieme, appallottolate, sono
questo mondo.
Uhm, potrebbe essere.
Però c’è anche un’altra spiegazione: io ho strappato le
scatole, per aprirle in fretta, sì che ho prodotto un mondo
di carta.
Ma se avessi aperto con attenzione ognuna di queste
scatole e le avessi messe in fila, a formare un lungo treno,
allora l’immagine che avrei avuto, sarebbe stata questa: la
scatola più piccola, rappresenta me, appena nato, poi via
via, la mia vita, fino ad oggi.
Ma perché queste scatole, così maledettamente vuote?
Ma chi l’ha detto che sono vuote?
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Sono piene, una dell’altra!
Ognuna contiene l’esperienza dell’altra.
Nessuna scatola va gettata, altrimenti si creerà un vuoto, un buco nero nella propria vita.
Eh sì, è proprio questo il messaggio, e sull’ultima scatola c’era scritto Lanterna; c’era la mia vita, da cameriere,
che non getterò via; la richiuderò delicatamente e la ricoprirò di una scatola più grande, che sarà qualcosa d’altro, di
nuovo, un altro brandello della mia vita.
150
22 anni dopo
Il 29 settembre 1985 si è chiuso un capitolo importante della mia vita.
Ma poi cos’è successo?
Abbiamo provato ancora qualche mese a
cercare un editore, a rincorrere sogni, finchè un
bel giorno mi ha chiamato un dirigente della Cisl di
Rimini dove avevo fatto il servizio civile.
- Ciao Renzo come va? –
- Oh Rolando ciao, bene, sì, tutto bene –
- Ti ho visto alla Lanterna, eri indaffarato, non mi
hai riconosciuto –
- Ah guarda, può essere, c’era sempre una tale
confusione… –
- Lo so bene. Ti ho raccontato che ho fatto anch’io
il cameriere lì qualche anno fa? Una sera mi sono
sbagliato a portare gli ordini in cucina e in pizzeria e mi è uscito tutto insieme, pizze, polli, tagliolini, pesce, non capivo più niente, dove dovevo
portarli… mi è venuto il panico e sono scappato
via, davvero! Basta, basta, non fa per me –
- Sai quante volte l’avrei fatto anch’io? –
- Eh bè, sono esperienze anche queste…se tieni
151
botta lì, non hai più paura di niente! Ascolta, volevo chiederti, tu adesso cosa pensi di fare? Stai
cercando un altro lavoro?
- Mah guarda, non so. Non vorrei rifare un’altra stagione, ma ho il mio libro da finire, voglio cercare
un editore, l’associazione… non so. Perché? –
- Stiamo cercando un collaboratore, qualche ora,
magari riesci a prendere qualcosa e a continuare i tuoi studi, mi ricordo che avevi fatto un buon
lavoro durante il servizio civile.
- Non so, se ne può parlare –
- Dai, ti faccio chiamare dalla persona con cui dovresti collaborare, così ne parlate direttamente
fra di voi. Si chiama Tiziano –
- Ok, ti ringrazio –
- Di niente, grazie a te, mi farebbe molto piacere.
Ciao, a presto.
- Ciao.
Il giorno dopo mi chiamò Tiziano, mi invitò a cena
per fare due chiacchiere.
- Sto cercando un operatore per seguire il settore dell’edilizia e del legno su tutta la provincia
di Rimini, io da solo non ce la posso fare, da
Santarcangelo a Cattolica, te la sentiresti?
152
- Cosa dovrei fare? –
- Mi aiuti a seguire la categoria: vertenze, assemblee, contratti… le aziende principali continuo a
seguirle io, tu potresti cominciare da quelle più
piccole –
- Ma gli orari? Io ho un libro…- Ah guarda, qui non c’è cartellino, sei tu l’imprenditore di te stesso a dover dire quando comincia
e quando finisce la giornata, ma ricordati che il
tuo stipendio viene dai lavoratori che hanno creduto in te e quindi devi dare il doppio, devi fare
di tutto per raggiungere i risultati per cui quelle
persone hanno rinunciato ad una parte del loro
stipendio. –
- Devo pensarci –
- Va bene, pensaci bene, anche perché se accetterai ricordati che ti chiederò di restarci almeno
dieci anni. Fammi sapere entro fine settimana.
Oddio che mal di testa! Sono tornato a casa, mi
sono seduto accanto ad Antonella e mi sono messo a piangere (una delle pochissime volte in vita
mia).
Che fare?
Accettare significava, con ogni probabilità,
153
mettere fine a tanti sogni.
Rifiutare voleva dire che da lì a qualche giorno
avrebbe ritelefonato il titolare della Lanterna per
prendere accordi per la prossima stagione.
Accettare significava dare la mia parola che
sarei rimasto lì al Sindacato per 10 anni, in quel
Sindacato dove avevo fatto il servizio civile e che
mi era sembrato pieno di scansafatiche.
Ma Tiziano era diverso, era giovane (un paio di
anni meno di me), pieno di ideali e di valori. Mi era
piaciuto, una persona sana, che mi aveva parlato
schietto, diretto, sulla faccia.
Passammo la notte in bianco e alla fine decidemmo di accettare.
E così è iniziata la mia carriera da sindacalista.
Devo dire mille volte grazie a Tiziano (Tiziano
Arlotti, all’epoca solo un sindacalista, oggi molto
conosciuto per il suo impegno in politica e come
amministratore). Per me è stato un grande maestro, mi ha svezzato; ero timido, impacciato e quindi violento, arrogante come forma di reazione.
Mi ha dato la forza per sostenere assemblee con
centinaia di lavoratori, spesso ostili, perché qui la
maggioranza dei lavoratori sono iscritti alla Cgil e
154
se eri della Cisl ti davano del democristiano, del
“cul zal”.
Ma niente paura, Tiziano mi ha insegnato ad
essere orgoglioso di un sindacato che nelle sue
radici è libero, autonomo dai partiti, che fa della
contrattazione e non dello scontro di classe, l’arma
per migliorare le condizioni dei lavoratori, perché
questi sono gli ideali su cui Pastore nel dopoguerra
ha fondato la Cisl.
E devo dire che nessuno mi ha mai chiesto nulla delle mie idee politiche.
Mi sono chiesto tante volte il perché di questi
dieci anni al sindacato. E la risposta è semplice,
perché senza quei dieci anni non sarei mai stato
capace di costruire quello che è venuto dopo,
Terra e Sole, ecc., ecc.
Il sindacato è una palestra di vita, per dirla con
le parole di Tiziano, dove si impara a darsi degli
obiettivi e degli strumenti per raggiungerli, si impara a gestire un bilancio, a gestire risorse umane, a
contrattare, a capire la psicologia delle persone, a
vincere, a perdere, a non demoralizzarsi, rialzare la
testa e ripartire, a lottare per gli ideali di giustizia, di
uguaglianza.
155
Tiziano, con la sua rudezza, che tradiva le sue
origini campagnole, “ai sciantem al corni e ai li cazem in te cul”, mitico. Quante battaglie, quante
levatacce alle 5 del mattino per arrivare prima degli altri, per fare le assemblee nei cantieri, e la sera
a fare tardi, a chiacchierare in ufficio con gli iscritti
che avevano già cenato e nessuna fretta.
Questo specialmente quando avevo l’ufficio
a Santarcangelo: il sindacalista era un po’ come
il prete, ti chiedevano di tutto: dalla compilazione del modulo del canone TV, alla lite con i vicini, e caccia e pesca e sport…… e tante litigate
con Antonella che non ne poteva più. Avevamo
Andrea piccolo e io non c’ero mai e lei era sempre
sola in casa e anche quando tornavo mi chiamavano al telefono e di notte mi giravo e mi rigiravo
nel letto…
Non deve essere stato semplice vivermi accanto in quegli anni.
Fra l’altro mentre io ero straimpegnato al sindacato è stata Antonella a portare avanti quasi da
sola il nostro progetto.
Infatti nell’85, mentre io iniziavo la mia avventura, Antonella faceva partire i corsi dell’Università
156
Verde a Rimini, alle scuole Panzini. Ci trovavamo la
sera a casa nostra con un gruppo di una quindicina di persone per organizzare i corsi. Questi sono
durati sette anni e ci hanno dato modo di conoscere ed approfondire tutte le tematiche che ruotano attorno al biologico, alla salute dell’uomo e
dell’ambiente.
Antonella ha anche condotto una battaglia in
prima fila contro la costruzione dell’elettrodotto, un
obbrobrio che ha distrutto l’ambiente e messo a
rischio la salute di tante famiglie che ci vivono a
fianco.
Ma non eravamo contenti, non potevamo esserlo.
Mi ricordo che dopo l’ennesima lite, una sera
dissi ad Antonella
- Perché non apriamo un negozio di alimenti biologici? Noi mangiamo solo biologico da tanti
anni, un po’ lo coltiviamo e un po’ lo andiamo
a comprare fra Pesaro e Cesena nei negozi bio,
ogni sabato. A Rimini ci sono alcuni negozi ma,
insomma, si può fare meglio e poi la richiesta di
alimenti bio è in continua crescita e quindi ci sarà
spazio anche per noi.157
- Ma quanto costerà? Ce la faremo? –
- Non lo so, cerchiamo di fare tutto in economia, e
poi io continuo a lavorare al sindacato, dai proviamo. –
- Va bene, però… io il negozio lo voglio così –
E mi ha snocciolato tic tac tutte le caratteristiche che avrebbe dovuto avere secondo lei questo negozio per avere successo e non ha sbagliato
niente. Ce l’aveva dentro, aspettava solo di metterlo al mondo.
- Come lo chiamiamo? –
- Non lo so, dobbiamo pensarci –
La scelta del nome non è mai semplice, è come
quando ti nasce un figlio. È il nome che si porterà
dietro per sempre e lo caratterizzerà, condizionerà,
nel bene e nel male.
“Terra e Sole” ci è arrivato dopo qualche settimana.
La Terra e il Sole, l’universo femminile e quello
maschile, la capacità di generare e l’energia fonte di vita, infondo è proprio questo che volevamo
comunicare, è questo per noi il biologico, il prodotto della fertilità della Terra e della energia del Sole.
Poi sette otto mesi a studiare listini, a leggere
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indicazioni, a cercare il luogo, finchè una mattina
mi ha chiamato Antonella:
- L’ho trovato! - Cosa? –
- Il negozio, vieni a vedere! –
- Ma dove? –
- In via Bramante –
- Via Bramante? Ma dov’è? –
- Dietro la Fiera, dove c’è la torre della Sip –
Faticai a trovare il posto. Non ricordavo di essere mai passato da lì.
- Ma sei sicura? –
- Perché, non ti piace? –
- No, no, è bello, ma chi passa da qui? –
Niente da fare, aveva già scelto (per fortuna!)
Seguirono giorni di misure, disegni e poi l’amico di mio suocero, falegname, che ci ha tagliato il
legno e poi la verniciatura e il montaggio insieme
a mio suocero che per tanti anni aveva fatto il falegname e quindi ci ha dato un contributo enorme.
Siamo arrivati all’inaugurazione, il 9 maggio del
1992, con tante cose da fare ancora, e le 16, l’ora
dell’inaugurazione si avvicinava, e noi eravamo
ancora lì in ciabatte e tuta a finire di riempire gli
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scaffali e prezzare e preparare qualcosa, ma verrà
qualcuno?
Arrivarono le 16, ci infilammo il grembiule ed
aprimmo la porta.
Che spettacolo!
C’erano tante persone, che avevano raccolto
l’invito a venirci a trovare, tante che avevano frequentato i nostri corsi.
Mi ricordo che non sapevamo neppure usare
la bilancia e la cassa… un macello!
Arrivarono le 20 e chiudemmo la porta dietro
l’ultimo cliente.
- E adesso che facciamo? –
Gli scaffali erano vuoti, dovevamo rifare completamente gli ordini, ma come avrebbe fatto
Antonella da sola a tenere aperto il negozio?
Non potevo lasciare il sindacato, avevo ancora tre anni per tener fede al mio impegno.
Chiesi di lavorare part-time e me lo concessero.
Mi alzavo alle sei per andare dal fornaio, poi
arrivavo in negozio, sistemavo il fresco e alle 8,30
ero al sindacato, fino alle 13,30; poi in negozio di
nuovo fino a tarda sera.
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Non sono stati semplici i primi tempi di Terra e
Sole, né per me, né soprattutto per Antonella, che
si è trovata un carico enorme di lavoro sulle spalle.
Ma c’era una cosa che ci rendeva felici: avevamo finalmente ricominciato un percorso insieme
che avevamo interrotto anni indietro, ed era la
strada che volevamo, finalmente potevamo fare
un lavoro che era in linea con i nostri ideali, un lavoro duro e molto concreto, fatti non p…, grazie al
quale abbiamo aiutato tanta gente a scegliere il
biologico, a curarsi per quanto possibile con prodotti naturali, a svezzare i bambini in modo naturale, ecc., ecc.
Crediamo che se è vero che Rimini è una delle città con il più alto utilizzo di alimenti biologici in
Italia, un po’ sia anche merito del grande lavoro
che abbiamo svolto in questi anni.
Non ci siamo limitati infatti a vendere prodotti,
ma abbiamo investito sempre tanto tempo e tante risorse per sviluppare l’informazione, per far crescere la consapevolezza nella gente, perché poi
questa può diventare a sua volta promotrice del
biologico verso amici, parenti, conoscenti. Un circolo virtuoso che abbiamo innescato e che voglia161
mo continuare a sostenere, anche oggi che Terra e
Sole è sicuramente una delle realtà più importanti
in Italia, citata come esempio, con tanti tentativi di
imitazione.
Una realtà nella quale lavorano una ventina di
persone (follia dice qualcuno, grande orgoglio per
noi).
Quindici anni di Terra e Sole, quindici anni di
lavoro duro, di tante soddisfazioni e di tante delusioni, ma che ci fanno essere orgogliosi di ciò che
abbiamo fatto e di ciò che ancora realizzeremo,
perché il nostro sogno non è ancora finito, c’è tanta strada ancora da percorrere.
Ma senza dimenticare mai ciò che siamo stati,
nel bene e nel male; con grande rispetto per ciò
che è stata la nostra vita fino a qui. Anche quella
parentesi, da cameriere, alla Lanterna, è stata importantissima: mi ha permesso di crescere, di comprendere.
È stato il modo per non piegare la testa di fronte
ad un barone, senza restare con le mani in mano,
a piangermi addosso.
Certo, anche i dieci anni al sindacato sono
stati duri. Ma c’è sempre stata una luce che ci ha
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guidato, una Lanterna che ci ha fatto strada, una
mappa che ci ha permesso di non perdere l’orientamento: è la passione che faceva battere il cuore
di “Tonino”, che ancora oggi batte forte nei nostri
cuori
Credo che “Tonino” sarebbe stato felice se un
indovino 22 anni fa gli avesse predetto questo futuro. E sarebbe stato anche orgoglioso di ciò che
siamo diventati, non come titolari d’azienda, ma
come persone, che non hanno mollato, mai.
Proprio come “Tonino”, stringendo i denti e
continuando a coltivare i propri ideali, imparando
a guardare il mondo con rispetto e meraviglia, a
godere di tutta la bellezza che ci circonda.
E il male?, e il Brutto? e il Cattivo? Certo esistono, accidenti se esistono, e più invecchiamo e più
purtroppo ci rendiamo conto di quanto ce ne sia.
Ma sarebbe terribile se il male ci togliesse anche il piacere di un attimo, l’emozione di un momento, la possibilità di provare l’entusiasmo, la
gioia, la pace, l’estasi, … una parola grossa, …la
felicità!
Caro “Tonino”, mi scrivo queste ultime righe e
ti rivedo, vestito di bianco-e-nero, a portare pizze e
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patatine, a sbatterti da un tavolo all’altro, a rincorrere sogni, immagini, progetti. Mi fai tenerezza.
Voglio confidarti che abbiamo finalmente realizzato anche il tuo sogno “trovare qualcuno che
pubblichi il tuo libro”, e, anche questa è una soddisfazione, quel qualcuno sei proprio tu.
Renzo Agostini
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Caro tonino mi scrivo