[POLEMICHE]
DI PAOLO PERAZZOLO
M
a la poesia cambia il mondo? Il
dubbio, ammettiamolo, ha sfiorato tutti, persino i grandi poeti della storia. Figuriamoci noi comuni lettori o chi
cerca di comporre i suoi primi versi. La poesia serve a qualcosa, è utile, riesce a incidere sulla realtà in cui viviamo, o è un trastullo sentimentale, un gioco intellettuale ad
uso di chi scrive e dei lettori che con essa entrano in sintonia? Per riflettere con cognizione di causa, e anche in maniera leggera e divertente sull’argomento, ci viene in aiuto un
piacevole libretto appena pubblicato dalla
Bur: si intitola Le poesie che hanno cambiato
il mondo ed è stato curato da un giovane e bravo critico italiano, Daniele Piccini.
del Signore / in terra straniera? / Se ti dimentico, Gerusalemme, / si paralizzi la mia destra; /
mi si attacchi la lingua al palato, se lascio cadere il tuo ricordo, / se non metto Gerusalemme
/ al di sopra di ogni mia gioia».
L’Italia, poi, è esistita prima nelle speranze
e nelle invocazioni dei poeti che sulla carta
geografica o nei cuori degli italiani. Chiedete a
Dante: «Ahi serva Italia, di dolore ostello, /
nave senza cocchiere in gran tempesta, / non
donna di provincie, ma bordello!». Non fu da
meno Petrarca, che si appellò addirittura ai
grandi fiumi della Penisola e al Signore stesso:
«Italia mia, benché ’l parlar sia indarno / a le
piaghe mortali / che nel bel corpo tuo sì spesse veggio, / piacemi almen che’ miei sospir’
diviso per sette destini, / In sette spezzato da
sette confini, / Si fonde in un solo, più servo
non è». Nel cuore del Risorgimento italiano si
colloca anche Goffredo Mameli, morto giovanissimo nella difesa della Repubblica romana, autore di quello che un secolo dopo l’Italia
repubblicana assunse come inno nazionale,
musicato dal maestro Novara:
«Fratelli d’Italia…».
Poesia e guerra hanno spesso
camminato insieme nel corso della
storia, più spesso perché i poeti si sono battuti contro ogni forma di violenza, altre volte invece per sostenerla. Insieme a Gabriele
D’Annunzio, fu il futurista Fi-
Insomma, è difficile da valutare, e ancor
più quantificare, l’incisività della poesia sul
corso degli eventi, ma è certo che essa ha
sempre voluto impicciarsi della storia. E i
poeti del nostro tempo, avranno voglia di
sporcare la penna con le faccende del mon왎
do? E per quali battaglie?
LA POESIA CAMBIA IL MON DO. O NO?
Da sempre i poeti “usano” i versi per influenzare la
Nel tondo: Alessandro Manzoni.
Accanto a lui: una statua
di Francesco Petrarca. A destra:
un ritratto dell’Alighieri
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Patrizia Cavalli nel 1974 mandò in libreria
la raccolta Le mie poesie non cambieranno il
mondo, a voler segnalare, negli anni in cui era
d’obbligo l’impegno politico e ideologico, che
«i suoi versi si accontentavano di stare dalla
parte della quotidiana dolcezza o stanchezza di vivere». Quel titolo però – osserva Piccini – indicava che una tradizione di poesia impegnata, civile, di lotta,
concepita per cambiare il mondo,
esisteva eccome. Converrà allora
tirare fuori nomi e versi.
Spesso i poeti, soprattutto in
momenti in cui un popolo ha rischiato di dissolversi, hanno saputo richiamare all’unità e all’identità. Si pensi al Salmo 137 rivolto al
popolo d’Israele deportato in Babilonia dopo la caduta di Gerusalemme
nel 587 a.C.: «Sui fiumi di Babilonia, / là sedevamo piangendo / al ricordo di Sion. /
(…) Come Cantare i canti
sian quali / spera ’l Tevero et l’Arno, / e ’l Po,
dove doglioso et grave or seggio. / Rettor del
cielo, io cheggio / che la pietà che ti condusse
in terra / ti volga al tuo dilecto almo paese».
La passione civile toccò il culmine durante
il Risorgimento e la poesia non si tirò certo indietro. Più di tutti si spese Alessandro Manzoni, a partire da Il proclama
di Rimini, canzone scritta nel 1815 per
sostenere il tentativo di Gioacchino
Murat, ultimo superstite dei giovani
napoleonici, di unificare l’Italia: «Liberi non sarem se non siam uni; /
Ai men forti di noi gregge dispetto, / Fin che non sorga un uom
che ci raduni». Costretto a vivere a lungo in esilio dopo la fallita insurrezione del 1821,
Giovanni Berchet scrisse
un travolgente invito a prendere le armi in occasione
dei moti del 1831: «Su, figli d’Italia! Su, in armi!
Coraggio! / Il suolo qui è
nostro: del nostro retaggio / Il turpe mercato finisce pei re. / Un popol
storia. Ma gli effetti...
lippo Tommaso Marinetti a esaltare
l’interventismo bellico con versi deliranti, come in Bombardamento:
«Ogni 5 secondi cannoni da assedio
sventrare spazio con un accordo
tam-tuuumb ammutinamento di
500 echi per azzannarlo sminuzzarlo
sparpagliarlo all’infinito…».
Tra dittatura e poesia non è mai corso
buon sangue. Il libro curato da Piccini dedica un capitolo agli autori che scrissero durante la guerra civile spagnola, un altro a
quelli che – in ogni tempo e in ogni luogo
– hanno composto versi di ribellione e rivolta contro il tiranno di turno, un altro ancora ai russi che, con grande tragicità, hanno
incarnato nel corso dell’Ottocento e del Novecento l’attesa di un nuovo ordine. Allo zar Nicola I rivolse versi durissimi Aleksandr
Puškin, costretto a pagare le sue idee libertarie con il confino nel Sud della Russia : «Malfattore autocratico! / Te e il tuo trono io odio,
/ La tua morte, la morte dei tuoi figli / Con
gioia crudele osservo. / Leggono sulla tua fronte / I popoli il sigillo della maledizione, / Tu orrore del mondo, vergogna della natura, / Tu
sulla terra sei un’accusa a Dio».
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