anno VII
numero 68/69
ottobre/novembre 2010
PENNE ALLA ROCK&ROLL
PENNE ALLA ROCK&ROLL
I critici musicali sono persone che non sanno
scrivere che intervistano persone che non sanno
parlare per un pubblico che non sa leggere. Così
il mitico Frank Zappa apostrofava il giornalismo
musicale. É una frase certamente d’effetto, molto
usata dopo di lui da musicisti incompresi o semplicemente senza alcun talento.
La scrittura musicale (mi piace chiamarla così,
da sempre, per una sorta di assonanza, come se
le parole avessero il suono stesso della musica
che raccontano, il suo ritmo e i suoi colori) è fatta invece di grandi pagine che raccontano storie
bellissime di uomini speciali.
Chi scrive di musica (e non solo) deve aver il
dono di creare un’immagine definita o evocativa
di qualcosa che non è materiale. Io che da anni ci
provo, ho trovato in alcune firme una corrispondenza d’amorosi sensi e ho scelto non solo il mio
genere musicale ma anche il mio genere di scrittura musicale.
Ancora ricordo la prima volta che ho letto la
scrittura rock Lester Bangs, oppure le visioni
di Simon Reynolds o il “metapop” di Paul Morley. Alcuni giornalisti sono vere e proprie star,
in qualche modo hanno tracciato la storia della
musica, hanno definito i generi, aiutato destini e
rovinato carriere.
Il giornalista musicale, soprattutto prima dei
blog, del download e compagnia bella, era la pri-
ma ed autorevole parola su musica non ancora
sentita. Oggi il giornalismo musicale che conta
vale ancora di più, è una materia da preservare e
a cui riconoscere la giusta autorevolezza.
Esiste la cultura della musica, quella fatta di vinili consumati, di infiniti chilometri per vedere
un concerto, di incontri incredibili e di dischi che
valgono mille ascolti.
Ed è questo che abbiamo scelto di raccontare in
questo numero di Coolclub.it attraverso tre penne rock ‘n’roll veramente speciali: Pierfrancesco
Pacoda, Federico Guglielmi e Giancarlo Susanna. Si sono espressi sul loro mestiere di scrivere
e ci hanno regalato un’intervista realizzata nel
corso della loro carriera. Ecco che solo per questo numero abbiamo l’onore di ospitare le parole
di Robert Wyatt, Tom Morello dei Rage Against
the Machine e Fabrizio De Andrè che offrono non
solo la testimonianza di grandi vite in musica ma
anche una finestra sulla cifra stilistica degli autori.
Come per ogni numero troverete le rubriche di
sempre e gli appuntamenti d’autunno. Per questa nuova stagione (2010/2011) Coolclub.it diventa bimestrale, l’unico modo che abbiamo per
resistere e regalarvi ogni volta 64 pagine gratis
da leggere. Ci vediamo a dicembre.
Osvaldo Piliego
Editoriale 3
CoolClub.it
Via Vecchia Frigole 34
c/o Manifatture Knos
73100 Lecce
Telefono: 0832303707
e-mail: [email protected]
sito: www.coolclub.it
Anno 7 Numero 68/69
ottobre/novembre 2010
Iscritto al registro della
stampa del tribunale di Lecce
il 15.01.2004 al n.844
Direttore responsabile
Osvaldo Piliego
Collettivo redazionale
Cesare Liaci, Antonietta
Rosato, Dario Goffredo,
Pierpaolo Lala, Tobia
D’Onofrio
Si ringraziano per il
contributo:
Federico Guglielmi,
Pierfrancesco Pacoda,
Giancarlo Susanna
Hanno collaborato a questo
numero: Dario Quarta, Alfonso
Fanizza, Dino Amenduni,
Gabriella Morelli, Luciano
Pagano, Stefano Donno, Nino
G. D’Attis, Lori Albanese,
Maria Grazia Piemontese,
Stefania Ricchiuto.
In copertina: Tom Morello dei
Rage Against The Machine
Ringraziamo Manifatture
Knos, Officine Cantelmo,
Cooperativa Paz di Lecce e le
redazioni di Blackmailmag.
com, Radio Popolare
Salento, Controradio di Bari,
Mondoradio di Tricase (Le),
Ciccio Riccio di Brindisi,
L’impaziente di Lecce,
quiSalento, Lecceprima,
Salento WebTv, Radiodelcapo,
Musicaround.net.
Progetto grafico
erik chilly
Impaginazione
dario
Stampa
Martano Editrice - Lecce
Chiuso in redazione il 10/10/10
(forse...)
Per inserzioni pubblicitarie e
abbonamenti:
[email protected]
3394313397
PENNE ALLA ROCK&ROLL
Federico Guglielmi 6
Rage against the machine 10
Robert Wyatt 14
Fabrizio De Andrè 20
musica
Dylan Leblanc 24
Non voglio che Clara 26
Recensioni 28
Salto nell’indie - Vina’s Records 40
Libri
Michael Gregorio 42
Enrico Remmert 44
Recensioni 48
Cinema Teatro Arte
Aureliano Amadei 54
Recensioni 56
Eventi
Calendario 60
sommario 5
In foto: Guglielmi e i Blonde Redhead
FEDERICO GUGLIELMI
Quando la musica va a braccetto con la vita
È sempre emozionante intervistare qualcuno che
in qualche modo ha influenzato la tua crescita.
In questi pochi anni che scrivo di musica ho notato con estremo piacere che non ho la fascinazione per i musicisti ma piuttosto per personaggi
che stimo per passione, coraggio, storia.
Uno di questi è sicuramente Federico Guglielmi, classe 1960, curriculum di quelli che pesano.
Attualmente sulle pagine di Mucchio Selvaggio,
Mucchio Extra e Audio Review, già sulle pagine
di Velvet, Rockerilla e Bassa Fedeltà, è autore di
libri sul punk come su Carmen Consoli e conduttore radiofonico. Con lui abbiamo parlato di vita
e musica due elementi che, nel suo caso, camminano di pari passo.
6
PENNE ALLA ROCK&ROLL
Quello del giornalista musicale è un
mestiere strano, è una pratica di scrittura
che mette a nudo la sensibilità di chi scrive
e quindi lo espone moltissimo. Allo stesso
tempo, però, il giornalista rischia sempre di
rimanere nell’ombra perché parla di star,
di personaggi mitici. Detto così sembra
romantico, cosa pensi a riguardo?
La storia del giornalismo musicale, a livello
planetario e non solo qui in Italia, è piena di
miei colleghi che sono divenuti “star”: la maggior
parte solo nell’ambiente e pochi anche al di fuori
di esso, ma non si può negare che questo mestiere
può dare una certa visibilità. Personalmente
mi rendo conto di avere acquisito, visto il mio
muovermi tra scrittura, radio, produzioni
discografiche e apparizioni pubbliche di vario
genere, una discreta fama: insomma, non mi
sento “nell’ombra” ma, al contrario, fin troppo
alla luce del sole. È un effetto collaterale del
mio lavoro che, comunque, non mi esalta né
mi disturba… ma che non ho mai cercato: ho
scritto sempre e solo quello che ritenevo giusto
scrivere, con il mio stile comprensibile e sobrio.
Peccato, invece, che esistano giornalisti che
in una recensione o un articolo vedono uno
strumento utile per farsi notare: ad esempio,
con stroncature volutamente esagerate, o con
prose cervellotiche e poco decifrabili che li faccia
sembrare più brillanti.
La scrittura musicale ha varie forme, varie
scuole di pensiero. Tu quante ne riconosci?
Tantissime: c’è chi preferisce raccontare le storie
che stanno dietro gli artisti e i dischi, chi si
lancia in dissertazioni di tipo tecnico, chi punta
ad analisi di tipo “impressionistico”, chi affronta
le questioni partendo dal proprio vissuto, chi
nelle recensioni descrive nel dettaglio le canzoni
e chi non ne nomina affatto, chi cerca tutti i
collegamenti di ogni disco e vuole enumerarne
tutte le influenze… E ci sono anche quelli che,
semplicemente, copiaincollano i comunicati e ci
mettono sotto la loro firma.
Chi scrive di musica, vive di musica. Spesso
travalica le pagine e diventa altro. Ci
racconti la tua avventura di produttore?
Il primo disco, nel 1983, lo feci senza pensarci
troppo su, per gioco… poi, tre anni dopo, le cose
divennero più serie e la mia etichetta - la High
Rise - fu il mezzo attraverso il quale cercare di
“restituire” al rock almeno una piccola parte di
ciò che mi aveva dato, realizzando dischi che
probabilmente nessun altro avrebbe pubblicato:
ci perdevo soldi sapendolo in partenza, ma
andava bene lo stesso. Mi piaceva molto
soprattutto seguire le band in studio, collaborare
alle strutture e agli arrangiamenti dei brani,
organizzare le registrazioni: l’ho fatto per la mia
piccola label ma anche conto terzi… per la Hiara
(Rats), la Spittle (Not Moving), la Electric Eye
(Sick Rose), la RCA/BMG (Fasten Belt). Nel 1995
avevo deciso di smettere definitivamente per
mancanza di tempo, ma l’anno scorso sono tornato
“in cabina di regia” per gli Strange Flowers, il
cui ultimo album è uscito per la Go Down. Però
di sicuro non avrò mai più un’etichetta, e sono
dubbioso se proseguire, se capitasse, l’attività di
produttore artistico: da un lato temo che i gruppi
potrebbero volermi ingaggiare non per le mie
capacità - reali o presunte - ma per cercare di
ottenere benefici promozionali grazie alle mie
conoscenze, dall’altro non vorrei che qualche mio
“protetto” fosse penalizzato dal mio non essere
simpatico proprio a tutti…
Sei stato in qualche modo un personaggio
chiave nel processo di documentazione
di anni cruciali per il rock italiano. Ce ne
racconti qualche sprazzo o episodio più
significativo?
Ci sarebbe materiale per un libro… e infatti,
prima o poi… Comunque, sì, ne ho viste
parecchie: gli Skiantos che sul palco cucinavano
gli spaghetti invece di suonare, i Litfiba esibirsi
davanti a qualche decina di spettatori per lo più
disinteressati nel loro primo concerto romano,
Ferretti e Zamboni dietro il banchetto della
“I dischi del mulo” a un “Independent Music
Meeting”, cioè il papà del MEI… Credo che potrei
avere uno o più aneddoti per ciascuna band o
solista potresti nominarmi… ma ci vorrebbe,
appunto, un libro.
Il giornalismo musicale in questi anni
si è evoluto o per lo meno è cambiato.
Dove credi si stia indirizzando l’editoria
musicale?
Verso un baratro fatto di “copiaincolla” in Rete
e di pur volenterosi ragazzini che dopo aver
ascoltato cento album scaricati dalle Rete si
In foto: Ian Curtis
7
sentono già legittimati a scrivere di musica,
magari avendo solo una vaga idea della lingua
italiana? Questo è il presente, fatto di giornali
che vendono pochissimo ed editori preoccupati
solo di riempire le pagine con gli scritti di gente
che è disposta a lavorare gratis, di siti che per
lo più - ci sono ovviamente eccezioni - imitano
le riviste di carta e di blog che nessuno legge.
Credo che avrà una possibilità di futuro solo
chi riuscirà a porsi come “filtro” autorevole
dell’insostenibile tsunami di musica senza senso
di questi giorni, sapendo contemporaneamente
raccontare e “spiegare” in modo interessante e
stimolante quella del passato. Fare “cultura”,
8
PENNE ALLA ROCK&ROLL
insomma, anche se per i pochi ai quali la cultura
interessa.
Inutile dire che Internet ha abbattuto
molti confini. Oggi molti si improvvisano
critici. Quali credi siano gli ingredienti
fondamentali per un critico musicale?
Al termine “critico” preferisco “giornalista”.
Per risponderti: miglior conoscenza possibile di
tanta musica di generi diversi, passione, buona
capacità di utilizzo della lingua italiana, coraggio
di esprimere il proprio pensiero.
Hai attraversato decenni incredibili per
In foto: Kurt Cobain
il rock. Ricordi l’emozione del primo
ascolto di qualcosa di assolutamente
rivoluzionario?
Non è detto che una grande emozione debba per
forza derivare da musica innovativa. Riferendomi
a scoperte “in tempo reale”, mi vengono in mente
i Talking Heads di I Zimbra, i Cure di Killing An
Arab, i Joy Division di Love Will Tear Us Apart,
i Nirvana di Smells Like Teen Spirit… Si capiva
immediatamente che si trattava di canzoni e
band che sarebbero rimaste, e infatti…
Domanda di rito: consigliaci tre dischi
imprescindibili per capire il rock.
Solo tre? Un bel problema. Te ne dico tre per
inquadrare, a grandissime linee, il “mio” rock:
il primo dei Velvet Underground, Goodbye
And Hello di Tim Buckley, No Control dei Bad
Religion. Senza questi non potrei vivere, così
come senza altri… boh, almeno trecento che non
mi permetti di elencare.
Ancora una domanda di rito: la cosa
più bella che stai ascoltando in questo
momento.
Cattive abitudini, il ritorno dei Massimo Volume:
è come una droga.
Osvaldo Piliego
PENNE ALLA ROCK&ROLL
9
RAGE AGAINST THE MACHINE
Il castello dello zio Tom
a cura di Federico Guglielmi
10
Per un giornalista, le interviste costituiscono importanti momenti di confronto e di verifica. D’accordo, spesso
si riducono a scambi di ovvietà, ma avendo di fronte interlocutori con qualcosa da dire (e con la voglia di farlo) e preparando domande adeguate, è facile raccogliere
belle soddisfazioni. Fra le centinaia di chiacchierate del
mio archivio ho scelto questa con Tom Morello dei Rage
Against The Machine, pubblicata su Rumore nel 1999:
erano i giorni del terzo album della band californiana
The Battle Of Los Angeles.
Un sorridente Tom Morello esce con passo svelto dall’ascensore che lo ha condotto all’ultimo
piano dell’Hotel Hilton di Roma. “Sono andato
a visitare la Basilica di S. Pietro”, mi dice stringendomi cordialmente la mano e scusandosi per
il leggero ritardo, “visto che qualche anno fa non
mi avevano fatto entrare perché indossavo pantaloni corti”. La suite nella quale ci siamo nel
frattempo accomodati è esageratamente grande
e lussuosa, ma non mi pare opportuno inaugurare l’intervista con la domanda forse più logica: se non sia un po’ un controsenso, cioè, che la
mente di uno dei gruppi rock più “schierati” del
pianeta alloggi in un albergo così da ricchi e in
un mini-appartamento che potrebbe tranquillamente ospitare tre famiglie. “Meglio partire dal
nuovo album”, rifletto tra me e me estraendo
dalla borsa il registratore, “e rimandare a dopo
eventuali domande polemiche”. “È meglio che
cominci dal nuovo album”, sembrano dirmi gli
occhi furbi di Tom, “so bene cosa pensi e non hai
nessuna possibilità di fregarmi”. L’atmosfera,
comunque, è rilassata, anche se il mio interlocutore - per fortuna senza che ciò vada a scapito
della comprensibilità delle sue risposte - parla
veloce come se avesse inghiottito una confezione
maxi di eccitanti.
Dalle cinque canzoni ascoltate in anteprima
mi sembra che il nuovo album, pur rimanendo legato alla vostra abituale formula,
presenti qualche innovazione nei suoni e
nell’uso delle chitarre. È un’impressione corretta?
L’idea di base era sostanzialmente quella di
realizzare il disco “definitivo” dei RATM, senza
snaturare il nostro stile ma cercando anche di
compiere qualche passo in avanti: non c’è stata
premeditazione, ma solo un naturale processo di
crescita che, per esempio, ha portato Timmy a
Brad a diversificare maggiormente le loro parti di basso e batteria. Per quanto mi riguarda,
il fatto di aver composto in studio di registrazione mi ha permesso di sfruttare fin dall’inizio
un’ampia scelta di effetti e quindi di migliora-
re le possibilità espressive e inventive del mio
strumento. Le chitarre dei RATM sono mai state così dure ed estreme e nello stesso tempo così
vicine alle tradizioni rock: se ci fai caso, molti
riff hanno un feeling da tardi anni ‘60, tipo Jimi
Hendrix o MC5…
Le tastiere e l’elettronica sono ancora banditi, vero?
Sì, in questo continuiamo a essere controtendenza: non è sciocca testardaggine, ma solo
ferma convinzione che le opportunità sonore offerte dall’amalgama di chitarra, basso, batteria
e voce non sono ancora state del tutto sperimentate. Noi non ci sentiamo affatto limitati, e per
andare avanti preferiamo affidarci alla nostra
immaginazione e alla nostra creatività invece di
entrare in un negozio e comprare un sequencer
o qualsiasi altro marchingegno.
Dietro la consolle c’è sempre Brendan
O’Brien?
Questa volta Brendan si è occupato non solo della produzione ma anche del mixaggio: volevamo
che tutte le fasi di realizzazione del disco fossero
seguite da un’unica persona, e Brendan è eccezionale sia nella fase elaborativa che in quella
strettamente tecnica. So che dirlo è una banalità, ma siamo tutti concordi nel ritenere The Battle Of Los Angeles il miglior album dei RATM,
specie sotto il profilo della potenza.
A mio parere, sarà difficile riuscire a eguagliare la bellezza e l’importanza dell’esordio.
RATM ha indubbiamente avuto un enorme impatto e i suoi picchi sono forse inarrivabili, ma
credo davvero che con questo lavoro ci siamo superati: dall’inizio alla fine non ha un solo attimo
di cedimento, e l’esserci spinti in più direzioni
ha conferito all’insieme grande freschezza e
grande senso di eccitazione.
In che modo il vostro clamoroso successo ha
modificato la tua vita e il tuo approccio al
quotidiano?
Beh, dal punto di vista pratico ha senza dubbio
cambiato parecchio, se conti che quando mi sono
trasferito a Los Angeles avevo sì e no mille dollari in tasca e nessuna garanzia sul futuro: adesso
ho una casa e i soldi per fare il pieno di benzina
alla mia macchina, ma frequento gli stessi amici di sempre… penso che, tra quelle che hanno
venduto milioni di dischi, i Rage Against The
Machine siano la band meno supponente che
esista. La differenza sostanziale tra il “prima” e
il “dopo” riguarda però il nostro ruolo di attivisti
PENNE ALLA ROCK&ROLL
11
politici: la notorietà ci ha posto su una specie
di pulpito, e dunque possiamo diffondere le nostre idee su una scala di gran lunga più vasta di
quanto avremmo mai immaginato di fare.
Il parlare di concetti pesanti a così tanta gente è una grande responsabilità. Non siete mai
un po’ spaventati delle possibili conseguenze
delle vostre dichiarazioni?
No, assolutamente: i RATM mirano a propagandare argomenti-chiave come la solidarietà e la
necessità di lottare per l’affermazione dei propri
giusti diritti, e non a raccontare storie pur piacevoli di ragazze ed automobili. Uno dei nostri
intenti è proprio colpire le persone per rafforzare la loro sensibilità a certi valori: non c’è da
aver paura, anche se ovviamente bisogna stare
attenti a ciò che si dice e a come lo si fa. È un
bene che la nostra voce sia così forte da poter
essere ascoltata da milioni di individui e che sia
quindi in grado di denunciare più efficacemente le tantissime cazzate che di norma vengono
spacciate per verità.
Non credi che nei precedenti decenni i bersagli contro cui sparare fossero più facilmente identificabili? Oggi i confini tra “bene” e
“male” e tra “giusto” e “sbagliato” appaiono
forse molto meno netti di un tempo.
Sì, sotto il cielo c’è notevole confusione, ma gli
obiettivi da colpire sono in realtà più numerosi.
Se è diventato difficile metterli a fuoco, la colpa è della manipolazione dell’opinione pubblica
operata dai media: questo è un punto cruciale su
cui si basano molte delle aberrazioni del mondo odierno, ed è nostro dovere sensibilizzare sul
problema e offrire il nostro contributo per eliminarlo.
È una domanda che avrai già sentito mille
volte, ma te la rivolgo lo stesso: non è in qualche misura contraddittorio portare avanti
una lotta contro il sistema e poi incidere per
le multinazionali del disco che di questo sistema sono uno degli ingranaggi? Per ogni
dollaro guadagnato dai RATM, almeno cinque vanno alla vostra etichetta.
Sai una cosa buffa? Tali considerazioni ci vengono sottoposte solo dai giornalisti del settore musicale, mentre gli attivisti politici - da Leonard
Peltier a Mumia Abu-Jamal, dal Subcomandante Marcos alla Anti-Nazi League - approvano
pienamente la nostra strategia e il nostro operato. Sinceramente, non vedo contraddizioni:
vedo solo che siamo stati capaci di diffondere
per i quattro angoli del globo ben otto milioni
12 PENNE ALLA ROCK&ROLL
di dischi-manifesti di propaganda sovversiva e
di raccogliere un milione di dollari per le cause
che sosteniamo.
Vuoi dire che non siete mai stati sfiorati dal
dubbio che la strada da seguire non fosse
quella delle multinazionali?
No, all’inizio avevamo molte perplessità: soprattutto io, che ero reduce da un contratto grazie al
quale la Geffen era riuscita ad imporre la sua visione artistica alla mia vecchia band, i Lockjaw.
Però devo ammettere che il nostro conflitto interiore rispetto al legarsi ad una major non aveva nulla a che vedere con il fatto che l’etichetta
fosse, appunto, major: la prima cosa che cercavamo era il totale controllo creativo su qualsiasi
aspetto della nostra carriera.
Magari adesso potreste fondare un vostro
marchio.
Sì, si può decidere di metter su un’etichetta, ma
poi sarebbe inevitabile diventare uomini d’affari e ciò si rifletterebbe in negativo sull’attività
di musicista. Tra le persone che conosco ci sono
un mucchio di proprietari di label indipendenti, e quasi tutti odiano le loro aziende perché li
hanno allontanati dalla musica e trasformati in
businessmen. Alla fine, tra discografici major e
indie non ci sono grandi diversità: la più rilevante è che questi ultimi, almeno di solito, hanno
tagli di capelli più fighi…
Da dove è derivato il tuo interesse per la politica?
In America non puoi non essere in qualche modo
segnato dal nascere nero: sono cresciuto in una
città prevalentemente bianca, e ti assicuro che
non è difficile sviluppare una coscienza politica
quando hai occasione di vivere sulla tua pelle
una cosa come il razzismo. Comunque i miei genitori si sono sempre impegnati in questo ambito, e andando avanti con gli studi ho voluto
approfondire le mie conoscenze in materia. Ho
addirittura lavorato per due anni nella segreteria di un senatore, e questo mi ha aiutato a
capire dall’interno come funziona la macchina:
gli Stati Uniti sono una “democrazia da libretto
di assegni”, le mie mansioni consistevano nel telefonare ai ricchi per chieder loro denaro…
Pensi che gli Stati Uniti stiano andando sempre più a rotoli?
Dipende dai punti di vista: non c’è una sola
America, per i ricchi le cose stanno andando
sempre meglio. Il gap tra ricchi e poveri sta crescendo: tra le nazioni industrializzate, gli USA
sono quella con il più alto numero di miliardari
e contemporaneamente la maggior quantità di
gente che patisce la fame, la maggior quantità
di case e il maggior numero di senza tetto. I
Rage Against The Machine parlano per l’altra
America, quella dei non rappresentati. La famosa libertà di scelta esiste solo nel senso che
i ricchi possono scegliere tra Mercedes e Lamborghini, e i poveri in quale scatolone di cartone
trascorrere la notte.
Tua madre è bianca, ma dai tuoi discorsi mi
sembra che tu ti senta al 100% nero.
Nonostante sia cresciuto in una società bianca
mi sono sempre ritenuto un nero, e solo verso i
vent’anni ho realizzato appieno il fatto di essere
per metà bianco. Però sono rimasto nero come
mi sentivo da ragazzino: sai, in America non
ha importanza se nella tua famiglia solo il tuo
bis-bis-bisnonno aveva la pelle scura, per i tuoi
coetanei sarai sempre un negro.
Nei Rage Against The Machine la musica
conta più o meno della politica?
I due aspetti sono strettamente collegati: se
non fosse per la musica il nostro messaggio
non sarebbe così ascoltato, ma senza la spinta
del messaggio le nostre canzoni non sarebbero
suonate con lo stesso trasporto. Una diversità,
comunque, esiste: tutti noi della band ci troviamo d’accordo, con minime e occasionali eccezioni, sulle faccende politiche, mentre sulla musica
abbiamo gusti assai differenti. Finché si tratta
di decidere se partecipare o no a un concerto di
beneficenza non ci sono problemi, ma quando si
deve decidere quali tre accordi usare in un pezzo, sono dolori.
I RATM hanno anche un volto ludico?
Siamo un gruppo rock più o meno normale, ridiamo e ci divertiamo anche nello studio di registrazione… Persino la nostra musica non è priva di sense of humour: magari non nelle liriche,
ma senz’altro nella mia ricerca di parti di chitarra che divertano o che catturino l’attenzione
dell’ascoltatore. Probabilmente l’unico momento
in cui siamo davvero seri è quando discutiamo a
proposito dei pezzi.
Un tempo il rock’n’roll era spesso una cosa
da disadattati e perdenti, se non addirittura
da ignoranti. Credi che esso abbia ricavato
qualche beneficio dalla generale crescita culturale dei musicisti?
Non saprei, ma la mia esperienza mi dice che
grande r’n’r e cultura vanno d’accordo di rado.
Quasi tutti i miei gruppi preferiti di tutti i tempi
erano composti da gente per lo più ottusa… non
penso che comporre testi intelligenti e ricchi di
spessore culturale sia davvero necessario per
fare del buon rock’n’roll, anche se tali elementi
possono certo rendere la proposta più interessante.
I RATM si sentono in qualche modo parte
della gloriosa tradizione combat che si avvia
con gli MC5 e arriva ai Public Enemy passando per i Clash?
Sì, senza dubbio, anche se non pensiamo che il
nostro ruolo nella storia del rock sia stato determinante come il loro. Per noi essere accostati a queste band è un grande complimento, e ci
sentiamo orgogliosi di proseguire il loro discorso
militante.
Però i RATM hanno anche dato il “la” a una
scena della quale altri - Korn e Limp Bizkit,
per esempio - hanno mostrato altre sfaccettature.
Anche se noi, per quanto riguarda i contenuti
dei brani, ci muoviamo su piani diversi da loro,
apprezzo moltissimo il lavoro musicale portato
avanti da queste due band: they rock!, e lo fanno sul serio. Mi piace il fatto che non si scusino
del loro desiderio di suonare rock: all’epoca del
grunge c’era questa sorta di senso di colpa per
il successo ottenuto e per il proprio background
hard, e questo sfociava in una bizzarra ricerca di
una “credibilità indipendente” che strideva un
po’ con le vendite di milioni di dischi. La maggior parte dei gruppi di oggi non vive questo genere di conflitti e sfoga soprattutto dal vivo la
propria voglia di suonare, senza aver paura dei
riff poderosi e del fare spettacolo…
Qual è la cosa migliore dell’essere nei RATM?
Non saprei stilare una classifica, ma una delle
più belle è senz’altro che grazie alla band la musica è diventata il mio lavoro. Mi credi se ti dico
che non ci avrei mai sperato?
“Ti credo, ti credo”, gli rispondo, ringraziandolo per la lunga e illuminante chiacchierata. Nei
sedici passi che separano il divano dalla porta
d’ingresso della stanza ripenso all’albergo non
proprio da rivoluzionari, ma mi astengo da
commenti: fa parte del gioco, e in fondo la Sony
non avrebbe certo destinato a fini nobili la cifra
risparmiata nel caso Tom avesse chiesto di essere ospitato in una capanna invece che in un
castello.
Federico Guglielmi
PENNE ALLA ROCK&ROLL
13
ROBERT WYATT
“Io faccio solo degli esperimenti”
a cura di Pierfrancesco Pacoda
14
Quest’intervista a Rober Wyatt è stata realizzata a Londra, nella sua casa di Twickenham nell’estate 1980,
come omaggio a uno dei musicisti che più hanno influenzato il pop contemporaneo e la new wave, che io
esploravo durante quel soggiorno inglese. Certo, non
pensavo avrebbe fatto parte di un libro.
Robert, come mai dopo un periodo di silenzio così lungo, hai deciso di ritornare a incidere un disco, e perché lo hai realizzato
per Rough Trade, un’etichetta indipendente che si sta distinguendo essenzialmente
per il materiale new wave del suo catalogo?
Il motivo principale è che sentivo l’esigenza di
lavorare, non si può stare sempre seduti a pensare. Ho scelto di incidere per Rough Trade perché
non sono per nulla interessato alla politica culturale delle grosse case discografiche, la Virgin
ormai si avvia a diventare la Cbs americana, e,
sinceramente, i vantaggi che poteva offrirmi non
mi allettavano. I responsabili di quella label mi
ripetevano di poter contare su un’ottima distribuzione, ma vendere dei dischi in Giappone non
è la mia massima aspirazione, in questa momento. Rough Trade, almeno, non fa del colonialismo
culturale.
Quali sono stati i motivi che ti hanno indotto a interrompere la tua attività per un
lasso di tempo così lungo?
Se devo essere onesto non sono stato mai felice
di fare il musicista, suonare, per me, non è stato
mai naturale, e ancora adesso non lo è completamente. Sono diventato un musicista perché
non c’era veramente null’altro che potessi fare,
i risultati a scuola erano pessimi, ho cambiato
tantissimi lavori, il cameriere, il modello in un
istituto d’arte, ma era molto più facile e più divertente fare il musicista rock. Se non hai molti
soldi il rock’n’roll è una maniera fantastica di invecchiare senza grossi problemi, potrà sembrarti
semplicistico, ma è questo che mi ha spinto a tornare all’attività discografica.
Quali ritieni siano le più interessanti differenze tra la scena musicale psichedelica, di
cui facevi parte quando suonavi con i Soft
Machine, e la situazione attuale?
Non penso che, in fondo, ci siano stati dei cambiamenti radicali, allora come adesso il musicista rock non è per nulla pericoloso, ma anzi corrisponde in tutto e per tutto all’immagine dell’eroe
romantico totalmente integrato.
Quando nel 1976 il punk scosse l’apatia totale che sembrava aver avvolto il rock, ti
sei sentito coinvolto dalla cosa?
La mia prima reazione è stata di nostalgia, vedevo un’altra generazione credere di poter cambiare il mondo con la musica, sperare che l’establishment britannico potesse essere scosso dal
punk ma Jonnhy Rotten era un’altra figura di
eroe romantico, un bravo ragazzo buono per le
pagine dei giornali, ma null’altro.
Tu, adesso, ritieni di essere parte del movimento new wave?
Non lo so, certo apprezzo moltissimo gruppi new
wave, come le Raincoats, ma mi sento molto più
vicino a musicisti come Dudu Pukwana o Mongezi Feza, african dance music di qualche anno fa.
E la tua scelta di incidere una versione di
At Last I’m Free degli Chic?
Adesso va di moda dire che la musica degli Chic
è pessima, è disco music, non fa pensare, senza
accorgersi che così si rinchiude in delle definizioni una materia che, per sua stessa natura, le
rifugge. Non parliamo poi di chi accusa la disco
di essere fascista, è solo dance music, il suo scopo
si ferma lì.
E la tua versione di Caimanera?
Qui il discorso è un po’ diverso, attualmente
sono interessato a ristabilire un eventuale collegamento tra la folk music e la rock music, è
un argomento sul quale si è fatta molta confusione ancora adesso mi è difficile comprendere fino
in fondo quali possano essere le connessioni tra
questi due tipi di musica.
Ascoltando alcuni gruppi della nuova ondata, Scritti Politti in particolare, il primo
riferimento musicale che mi è venuto in
mente è stata la scuola di Canterbury…
Per quel che riguarda gli Scritti Politti, ed anche
altre band, probabilmente l’influenza maggiore
viene dai musicisti reggae. Insomma, così come
la mia generazione non è riuscita a sottrarsi al
fascino dei rifugiati sudafricani che suonavano
qui (come Feza), adesso bisogna confrontarsi con
la cultura giamaicana, senza scordare che un
batterista rock difficilmente può competere con
un suo collega giamaicano.
Il punk era una musica nichilista, amava
scagliarsi contro tutto e tutti. Tu ritieni
che la musica, invece, debba avere degli
obiettivi precisi?
Se parli di obiettivi politici, non credo sia possibile, io sto solo facendo degli esperimenti che
ritengo estremamente interessanti, realizzando
PENNE ALLA ROCK&ROLL
15
i remake di cui dicevamo prima, di certo non voglio essere accusato di esotismo, di accostamento
di stampo colonialista a culture musicali che non
sono le mie.
Si parlava precedentemente delle influenze
palesi che certa new wave, la più innovativa, in definitiva, ha ricevuto da situazioni
musicali ormai lontane un po’ di anni. Allora di veramente nuovo non c’è nulla.
Non è per nulla vero! Ci sono state delle innovazioni di carattere tecnico, ad esempio nella
registrazione dei dischi di Public Image, e poi è
mutato lo stile, il modo di porsi nei confronti della materia musicale. C’è molta meno riverenza
adesso, più velocità, e poi ci si è scrollati di dosso
la deleteria influenza della tradizione accademica, che invece è stata una costante della mia
generazione.
Vedi ancora la gente con cui suonavi
all’epoca di Canterbury?
Sono ancora amico di Dave Stewart e Pip Pyle
(morto nel 2006, ndr), ma non ho più molti contatti con tutta quella gente, né ricordo con molto
piacere quel periodo, francamente non è un bel
posto Canterbury, soprattutto per viverci.
Ma come è stato possibile che in una città
di provincia del genere, esplodesse tutto
quel fervore musicale?
Guarda che la famigerata scena di Canterbury
non è mai esistita fino a quando noi non ci siamo
trasferiti a Londra, tutta la mitologia è nata da
nostre discussioni a Londra. Finché son vissuto
a Canterbury, quello che si faceva era ascoltare
dischi di Ornette Coleman e Max Roach e della
Tamla Motown. Non c’erano altre attività possibili, Canterbury è una chiesa più alcune banche,
tutto qui. Poi c’era un gruppo di studenti che
facevano gli anarchici e che suonavano, giusto
perché non sapevano cos’altro fare. Io, Kevin
Ayers, Daevid Allen, tutta gente proveniente da
famiglie agiate, e che quindi poteva permettersi
di non conformarsi al grigiore della città.
Pensi che in termini di feeling sia possibile
un paragone tra il periodo dei Soft Machine e quello attuale?
Certamente! Io sono fermamente convinto che
il motivo fondamentale del grande successo del
punk sia nella nostalgia della pericolosità di un
gruppo rock, naturalmente questa pericolosità è
solo un’illusione, credo faccia piacere sentirsi in
qualche modo partecipi di un atto che si immagina ai confini con il lecito. Per me è questa, poi,
la ragione del mod revival e dei trionfi che una
band come i jam, palesemente ispirata agli Who
degli anni cattivi, sta ottenendo.
Pierfrancesco Pacoda
(intervista tratta dal volume New Wave. La scena post punk inglese 1978/1982, Nda Press)
MUSICA 80
La critica musicale e la vita
Dodici mesi che valgono una vita. Ha battuto il
tempo di un anno esatto, e forse non poteva essere altrimenti, Musica 80, il magazine che, all’inizio di quel decennio, per soli dodici numeri, ha
scritto le pagine più emozionanti della relazione
tra suono e vita, tra rumore e quotidianità. Una
rivista che, riletta oggi (ma praticamente impossibile da trovare), svela le trame ‘necessarie’
della trasformazione, allora in corso dei generi
in linguaggi, degli stili in serrata narrazione.
Questo è stata Musica 80, un team vertiginoso di
giornalisti all’apice della libertà espressiva, molti provenienti da quelli altri straordinari gioielli
della critica (critica?, racconto, forse, trama politica e visionaria, gioia e rivoluzione per citare gli
Area) che erano stati Muzak e Gong.
Qui, però, per la prima volta alle prese con un
orizzonte che faceva presagire il futuro, quello
nel quale il noise e la disco avrebbero convissuto,
il punk avrebbe sposato il funk, la più rigorosa
musica contemporanea, da glaciale e accademica, sarebbe diventata lovely, amorevole, come
si chiamava una delle scene, la Lovely Music di
Peter Gordon appunto, che Music 80 strappò allo
sfondo per farle conquistare il ‘primo piano”.
Qualche nome, allora, Roberto Gatti, Franco Bolelli, Riccardo Bertoncelli, Maurizio Torrealta,
Gianni Emilio Simonetti, un “passato comune”
che continua a essere, mese dopo mese “terra
straniera”, territorio da esplorare dove, come
amava scrivere Franco Bolelli, ‘Il deserto avanza
e invade la metropoli’. Un continuo “esercizio di
stile” che prova, per la prima volta a scardinare
i canoni di una estetica che doveva necessariamente essere etica.
Pagina dopo pagina. Time after time.
Se il mondo impazzisce per Patti Smith, ecco
sulle ruvide pagine (carta povera ma di grande
suggestione, per nulla patinata), di Musica 80,
l’irruente arrivo di Lydia Lunch e della compagine della No Wave con il disco manifesto dallo
tesso nome, che segna il ritorno “at the control”
di Brian Eno, un album che, grazie ai reportage
di Musica 80, ci porta nei bassifondi della città,
dove la musica “negativa”, il rumore puro, la pornografia, l’eccesso cullato oltre il punk, generavano un gruppo di musicisti tra i quali spiccava
il giovane Arto Lindsay (con i Dna), il genio maledetto del sax James Change (con i Contorsions)
e lei Lydia Lunch della quale Bertoncelli scrisse
che al confronto “la Smith Patrizia si fa piccina
piccina”.
Questo il vero segno riconoscibile di Musica ‘80,
prenderci e portarci via, in quella “wild side”
dove tutto accadeva. La no wave certo, ama anche le promesse mantenute della disco e dell’hip
hop che si incontravano dalle parti del Bronx
(un bellissimo reportage di Maurizio Torrealta)
con l’apoteosi di Rapper’s Delight degli Sugarhill
Gang con la loro oscenità dichiarata sulla base
funk di Good Times degli Chic. E, naturalmente,
i due episodi che hanno fatto degli albori degli
anni ‘80, un momento significativo per comprendere tutti decenni successivi. Parlo della pubblicazione di Remain in Light dei Talking Heads’
e dell’uscita di Apocalypse Now di Francis Ford
Coppola. Un film che, come scrisse Franco Bolelli, “rappresenta il qui e l’altrove”. Con una piccola nota personale. Su Musica 80 c’è una mia
traccia, una intervista ai Killing Joke.
Pierfrancesco Pacoda
Pierfrancesco Pacoda (1959), critico musicale, saggista, scrive di stili di vita e culture giovanili su GQ, L'espresso, Il
Resto del Carlino e altri giornali. Ha scritto, tra gli altri libri, Hip Hop Italiano (Einaudi), Potere alla parola e Sulle
rotte del rave (Feltrinelli), Io, dj (insieme a Claudio Coccoluto, Einaudi), La rivolta dello stile (con Ted Polhemus,
Alet), New Wave. La scena post punk inglese 1978/1982 (Nda Press).
PENNE ALLA ROCK&ROLL
17
18
LA CRITICA ROCK
La critica rock italiana nasce sul finire degli anni
’60, quando era una realtà abbastanza consolidata
in Inghilterra e negli Stati Uniti (fermo restando
il vero e proprio giro di boa del Sgt. Pepper). Non
ci fu il ritardo cui si pensa in genere, considerando
che il primo saggio storico/critico, quello scritto da
Lillian Roxon, risale alla fine del 1969.
La palestra dei primi critici fu il settimanale
Ciao 2001, sul quale comparve una pagina,
“Underground”, curata da Enzo Caffarelli. Ed è su
Ciao 2001 – nonché sulle copie di Melody Maker
e di Rolling Stone acquistate in alcune edicole di
Roma – che mi sono formato, soprattutto come
semplice appassionato.
Io però sono arrivato a scrivere recensioni e
articoli in modo professionale soltanto nel 1980.
Conservo ancora e guardo con grande tenerezza
l’unico numero di Dark Star, che realizzai con
alcuni amici nell’autunno del ’73, un tentativo
di emulare Freak, il ciclostilato che Riccardo
Bertoncelli scriveva in solitudine a Novara.
Nel ’75 ci fu la radio – non la Rai, che mi appariva
(ed era) irraggiungibile, ma quella libera in
FM. Per almeno cinque anni ho lavorato nel
microcosmo delle emittenti private, imparando
il mestiere facendolo direttamente. Poi fui
chiamato a Radio 3 da Pierluigi Tabasso – artefice
e creatore, tra le tante cose da lui inventate, di
Rai Stereonotte – e cominciai ad allargare il mio
raggio d’azione.
La scrittura è stata per molto tempo un’attività
minore e parallela, coltivata con la medesima
passione di autodidatta e insieme a colleghi cui
sono sempre molto legato. Oggi ci sono scuole e
seminari di giornalismo musicale, all’epoca c’era
una professionalità non meno valida ma coltivata
sul campo, parlando al microfono o scrivendo
e una cosa ha influenzato l’altra. Ricordo che
un funzionario di Radio 3 che stimavo molto,
Pasquale Santoli, mi accusò di fare “informazione
bruta”, poco analitica, poco meditata: si trattava
– credo – di due modi differenti di intendere il
linguaggio radiofonico. Questo per dire come io
fossi legato a una pratica quotidiana; forse non
avevo proprio il tempo di riflettere.
Anche sulla scrittura… recensioni e interviste.
Una scrittura molto emotiva, poco meditata.
Nonostante l’obiettivo principe mi fosse sempre
ben chiaro: informare chi leggeva o ascoltava, far
sapere delle scoperte che andavamo facendo in
tempo reale.
Tante cose le ho imparate dai miei compagni di
avventura, oltre che dai colleghi già affermati
come Giuseppe Videtti o Carlo Massarini.
Studiavo, sì, ma in un modo non ortodosso.
Credo che la mia scrittura sia sempre stata poco
“immaginifica” e molto concreta. Il che non vuol
dire che non mi emozionassi. Tutt’altro.
La prima intervista – io amo soprattutto questo
aspetto del mio lavoro – la feci a Peter Hammill, il
carismatico leader dei Van Der Graaf Generator.
Ne ho fatte tante, di interviste. Ho incontrato
tanti dei miei eroi e se non avessi la manìa di
farmi firmare foto e copertine di dischi, potrei
pensare di aver sognato. Di aneddoti ne avrei
tanti, ma io mi auguro che chi legge queste poche
righe capisca che non sono io il protagonista
del mio mestiere di cronista. Se non ci fossero i
musicisti, io non esisterei.
Un paio di esempi però li farò.
Un mio collega e amico, Leonardo Rossi, mi
chiese una volta se potevo sostituirlo per
intervistare Antonio Banderas, che era a Roma
per promuovere “Lègami”. Niente musica, per
una volta. È una persona incredibile. Gentile,
disponibile, affascinante. Ho il press book di
Lègami autografato, ovviamente. E un ricordo
bellissimo.
L’intervista a Fabrizio De André che troverete
su queste pagine è forse la più bella che io abbia
fatto.
Via fax, perché Fabrizio, che peraltro avevo
incontrato anni prima, voleva essere sicuro che le
sue parole fossero riportate fedelmente.
L’ha scritta lui. Ha il suo modo inimitabile di
parlare (e di scrivere).
Ora, con la posta elettronica, questo metodo
ricompare. Ed ecco Dylan LeBlanc, per cui ho
cercato una traduzione fedele alla sua scrittura.
Un giovane artista speciale. Un altro incontro da
ricordare, sia pure mediato dalla tecnologia.
Giancarlo Susanna
Giancarlo Susanna è critico musicale per periodici specializzati e quotidiani quali Mucchio Selvaggio, Rockerilla,
Rockstar, Fare Musica e Audio Review. Ha pubblicato per Arcana editore libri su Neil Young, Jeff Buckley, R.E.M.
e Coldplay e a 50 anni dalla morte di Fred Buscaglione, il libro Nientepopodimeno che. Ha condotto per molto anni
programmi a Rai Radio 1 ed è “una delle voci storiche” di RAI Stereonotte.
PENNE ALLA ROCK&ROLL
19
20
STORMY WEATHER
Le nuvole di Fabrizio De Andrè
Questa intervista a Fabrizio è stata realizzata via fax
nell’autunno del 1990,ed è stata pubblicata su “Music”,
il mensile dello stesso gruppo editoriale di “Ciao 2001”,
il settimanale musicale fondato a Roma nel 1969.
Il lungo silenzio tra Creuza de mä e Le nuvole ha creato una grande attesa tra tutti i
tuoi estimatori. Come mai Le nuvole ha richiesto tanto tempo per essere completato?
Ho avuto semplicemente altro da fare. Mi è capitata una serie inenarrabile di disgrazie che ho
cercato di dimenticare in qualsiasi modo che non
fosse quello di far canzoni. Perché per fare canzoni occorre riflettere ed ogni volta che riflettevo
il dolore veniva a galla, si gonfiava come una torta nel forno. Mauro (Pagani) da parte sua aveva
i suoi problemi. È solo due anni fa che ci siamo
messi seriamente a pensare di lavorare ad un
nuovo album.
a cura di Giancarlo Susanna
siete messi voi, a dire che Creuza era un capolavoro, a riempirci la giacca di medaglie fino a quando
la gente prima si è incuriosita e poi ha cominciato
ad apprezzare. Così le prime 45.000 copie sono diventate le oltre trecentomila di oggi. E questo ve
lo dobbiamo, ma purtroppo, come ti dicevo prima,
credo sia imparagonabile l’attenzione alla critica
di sei anni fa con quella di oggi.
Quanto è importante per te il parere della
critica?
Purtroppo la critica sta diventando una faccenda sempre più privata tra noi e voi. Non vorrei
che finisse per risolversi in una forma di corrispondenza, peraltro utilissima. La quasi totalità di coloro che dovrebbero essere ascoltatori è
diventata una massa di videodipendenti: così si
acquistano i dischi a seconda del numero e della
frequenza con cui i venditori ambulanti riescono
ad entrare nelle case attraverso la televisione
per reclamizzare i loro prodotti.
Vorrei che mi spiegassi il riferimento alle
Nuvole di Aristofane.
Le Nuvole, per l’aristocratico Aristofane, erano
quei cattivi consiglieri, secondo lui, che insegnavano ai giovani a contestare; in particolare Aristofane ce l’aveva con i sofisti che indicavano alle
nuove generazioni un nuovo tipo di atteggiamento mentale e comportamentale sicuramente innovativo e provocatorio nei confronti del governo
conservatore dell’Atene di quei tempi. La Nuvola
più pericolosa, sempre secondo Aristofane, era
Socrate, che lui ha la sfacciataggine di mettere
in mezzo ai sofisti. Ma a parte questo, e a parte
il fatto che comunque Aristofane fu un grande
artista e quindi inconsapevolmente un grande
innovatore egli stesso, le mie Nuvole sono invece
da intendersi come quei personaggi ingombranti
e incombenti nella nostra vita sociale, politica ed
economica; sono tutti coloro che hanno terrore
del nuovo perché il nuovo potrebbe sovvertire
le loro posizioni di potere. Nella seconda parte
dell’album, si muove il popolo, che quelle Nuvole
subisce senza dare peraltro nessun evidente segno di protesta.
Ti aspettavi che Creuza de mä sarebbe stato
accolto con tanto (giustificato) entusiasmo?
Appena uscito, Creuza non sollevò nessun tipo di
entusiasmo che non fosse quello di qualcuno di voi
critici. La casa discografica non ci credeva, qualche rappresentante mi chiese se ero diventato
matto ed in particolare il venditore della Liguria
mi fece sapere, stizzosamente, che neppure a Genova c’era qualcuno che ci avesse capito un cazzo.
Nel giro di un paio di mesi Creuza aveva venduto
qualcosa come 45.000 copie, perfettamente corrispondenti alle previsioni mie e di Pagani. Poi vi ci
Nella busta interna del disco c’è una frase del
corsaro Peter Bellamy (“... io sono un principe libero e ho altrettanta autorità di fare
guerra al mondo intero quanto colui che ha
cento navi in mare”), mi piacerebbe sapere
qualcosa di più di questo personaggio.
Non se ne sa un gran che, a parte alcuni dati: 1)
non ebbe mai nessuna “lettera di corsa” da parte
di nessun sovrano dell’epoca: fu quindi un pirata e non un corsaro. 2) Non uccise mai nessuna
delle sue vittime limitandosi a portar via loro le
navi, e talvolta neppure quelle, ma sottoponendo
PENNE ALLA ROCK&ROLL
21
i proprietari e le loro ciurme a lunghe ed accorate prediche moralistiche del tipo “Voi non siete
che dei pavidi conigli, lavorate per degli immondi sfruttatori davanti a cui strisciate facendovi
imbottire il sedere di pedate” ecc. ecc. 3) Morì
annegato nella seconda metà del ‘700 dopo aver
costituito una sorta di Repubblica Libertaria in
un isolotto del Medio Atlantico. 4) Rimbaud chiamò Bellamy il proprio panfilo con il quale, pare,
si diede anche al commercio di schiavi, cosa che
Bellamy si era guardato bene dal fare.
dell’album, Le nuvole, chiamai un’anziana signora di origine nuorese da vent’anni residente a
Milano. Appena sistemata davanti al microfono
e dopo alcune prove di voce, al momento della
prima registrazione, si mise a parlare traducendo simultaneamente il testo italiano in sardo;
addusse come giustificazione il fatto che quel
testo le ricordava l’infanzia, quando sua nonna
la prendeva in braccio e le raccontava “sas historias”: fu un momento molto emozionante per tutti anche perché il sardo suonava stupendamente.
Che difficoltà hai incontrato nell’usare (e nel
cantare) il napoletano e il sardo?
Il napoletano mi ronza nelle orecchie e nel cuore fin dai tempi del neorealismo cinematografico
dell’immediato dopoguerra, dal teatro dei De Filippo, dalle poesie di Di Giacomo e dalle canzoni
dei Murolo; se è vero che una delle doti dell’interprete è la capacità emulativa, e nel caso della
canzone, l’orecchio, non ho proprio avuto nessun
problema. Nel caso del gallurese, poi, il contatto
con l’idioma è stato assolutamente diretto, senza
neppure il filtro dello schermo cinematografico o
televisivo o del supporto fonomeccanico. C’è comunque da dire che non sono nato e cresciuto
né a Napoli né in Gallura, quindi un certo affaticamento fonetico espressivo lo si percepisce in
entrambi i casi.
Come funziona, dopo tanto tempo, la collaborazione con Mauro Pagani?
Più che una collaborazione ha rischiato di diventare una forma di simbiosi con tutti i rischi che
comporta da un punto di vista lavorativo un rapporto di questo tipo. Così siamo andati vagando
in barca in mezzo all’Egeo per quattro mesi senza scrivere né una nota né un verso: semplicemente raccontandoci i fatti nostri. Non so dirti
se collaboreremo ancora ma posso dirti che sicuramente rimarremo amici.
Molti saranno sorpresi e incuriositi dalla
parte vocale di Ottocento. C’è una voce differente da quella cui il pubblico è abituato.
È un modo di cantare falsamente colto, un fare
il verso al canto lirico, suggeritomi dalla valenza
enfatica di un personaggio che più che un uomo
è un aspirapolvere: aspira e succhia sentimenti,
affetti, organi vitali ed oggetti di fronte ai quali
dimostra un univoco atteggiamento mentale: la
possibilità di venderli e di comprarli. La voce semi-impostata mi è sembrata idonea a caratterizzare l’immaginario falso-romantico di un mostro
incolto e arricchito.
È vero che sei abbastanza severo ed esigente
con le persone con cui lavori?
Anche nell’ebanisteria esistono artigiani di grande valore, di valore medio e semplici falegnami.
Quello che li distingue è l’attenzione e la cura
che mettono nel proprio lavoro, dalla scelta dei
materiali fino alla meticolosità con cui vengono
assemblati. Io sono un meticoloso, e tale meticolosità pretendo dalla mia bottega.
C’è qualche episodio avvenuto durante la registrazione del disco che ricordi volentieri?
Per leggere una parte del testo del primo brano
Nel testo della Domenica delle salme citi il
tuo “illustre cugino De Andrade”. Ci puoi
dire qualcosa di Oswald De Andrade.
Tra i molti poeti sudamericani che conosco,
Oswald De Andrade è uno dei miei preferiti, probabilmente per quel suo atteggiamento comportamentale oltre che poetico totalmente libertario, per quel suo anticonformismo formale che lo
fa essere qualcosa di più e di meno e comunque
di diverso da un poeta in senso classico. E poi è
dotato di un umorismo caustico difficilmente riscontrabile in altri poeti dei primi del Novecento.
A proposito di poesia e letteratura, che libri
stai leggendo in questo periodo?
Sto aspettando che Jenning, dopo L’Azteco, Il
viaggiatore e Nomadi, esca con il suo quarto romanzo. Nel frattempo possono bastare i quotidiani e proprio ultimamente, una rilettura del reportage di Pigafetta dal suo viaggio intorno al mondo
con Magellano. È curioso come Pigafetta mescoli
un encomiabile sforzo da rigoroso reporter a fantasticherie apocalittiche tipiche del suo tempo:
così ogni tanto sulla spiaggia di una baia minuziosamente descritta compaiono strani uomini
con la testa di cane. Ma l’aspetto più curioso e
più tenero è dato dalla malcelata invidia che ogni
tanto affiora nei confronti di quei popoli così liberi
di fronte agli Europei che con i loro angoscianti
pregiudizi già ai primi del Cinquecento avevano
trovato modo di rovinarsi la vita.
Giancarlo Susanna
PENNE ALLA ROCK&ROLL
23
MUSICA
DYLAN LEBLANC
Soul deep
La prima cosa da dire, parlando di Dylan LeBlanc – classe 1990 - è che la sua capacità di
evocare un mondo poetico molto personale e del
tutto fuori dagli schemi può spiazzare chiunque.
È vero che negli Stati Uniti è molto facile imparare a suonare uno strumento fin da piccoli, ma
qui siamo di fronte a un disco d’esordio di assoluto rilievo. Nel suo caso la musica è soltanto una
delle componenti di un modo di scrivere e cantare complesso e profondo. Paupers Field è senza
dubbio il mio “disco dell’anno” e so di essere di
parte (voglio esserlo), ma provate a cercare su
You Tube il video di Emma Hartley, una canzone
d’amore disperata che Dylan canta e suona da
solo con la sua Gibson acustica. Impossibile non
pensare alla copertina di Bryter Layter di Nick
Drake: LeBlanc è seduto su uno sgabello al centro di un loft. La cinepresa accarezza il suo bel
24 MUSICA
volto, riprende l’arpeggio della mano destra ed è
pura magia, quel qualcosa di inafferrabile e irripetibile che fa di lui - adesso, subito - un artista
e un poeta da amare senza riserve.
Nato a Shreveport, in Lousiana, Dylan è figlio
di James LeBlanc, un musicista molto bravo e
versatile nonché un autore di canzoni di grande
esperienza arruolato dai famosi Muscle Shoals
Studios. Dylan è cresciuto quindi in mezzo alla
musica, la respira come l’aria.
La presenza di suo padre in Paupers Field – al
basso, alle tastiere - è importante quanto discreta. Proprio come quella di Emmylou Harris, la
regina del country rock, in una sola canzone, The
Creek Don’t Rise.
Abbiamo cercato di saperne un po’ di più, senza
turbare la timidezza di Dylan, che ancora ringraziamo per la sua cortesia di gentiluomo del Sud.
Ciao Dylan. È un grandissimo piacere poter parlare con te. Io amo il tuo album… è
il numero 1 nella mia playlist del 2010. Ti
faccio qualche domanda, allora.
Ehi, grazie… è gentile da parte tua..
Ti aspettavi un’accoglienza così calda per
Paupers Field? Hai ricevuto messaggi dai
luoghi più disparati e hai toccato il cuore
di tante persone.
Non so mai cosa aspettarmi. Ma sono molto grato alle persone che hanno apprezzato questo album. E a quelli che sono stati così gentili da dire
alcune buone parole a questo proposito. E anche
a quelli che non hanno detto nulla.
Hai cominciato a suonare e a scrivere canzoni seguendo l’esempio di tuo padre?
Non c’è dubbio che io abbia imparato moltissimo da lui. Ma dal punto di vista della scrittura
siamo molto diversi. Ho sempre avuto difficoltà
a suonare per lui le mie canzoni, quando eravamo insieme. È un autore di canzoni incredibile
ed è anche un critico sincero. Tendo ad essere
più sensibile alle sue osservazioni che a quelle
di chiunque altro. Così sono cresciuto facendo
le mie cose in ogni loro aspetto, cercando di crescere nella musica e nella scrittura. Continuo a
farlo ogni giorno che passa.
Hai avuto la tua prima chitarra come regalo per il tuo undicesimo compleanno, vero?
Chi ti ha insegnato a suonare? Tuo padre?
Sì. Ma ho imparato anche da solo, ascoltando
dischi di rock’n’roll e di blues. Ho cercato di apprendere i vari stili e non ci sono mai riuscito.
Ma ci sto lavorando. Non riesco a suonare con
la velocità di alcuni chitarristi con cui sono cresciuto, così ho cercato di inventarmi dei modi per
fare delle cose semplici ma al tempo stesso belle.
Hai prodotto da solo anche Paupers Field.
Da solo non puoi fare nulla di dignitoso, ma ho
fissato le idee di base intorno a questo disco.
Onestamente non c’era una struttura precisa nel
modo di registrarlo. Volevo mantenere la sensazione del live e dare a chi lo ascolta qualcosa
di realistico. Ci sono un sacco di sbagli che amo,
in questo disco, che non cambierei per niente al
mondo. Piccoli meravigliosi incidenti.
Cosa ci puoi dire dei musicisti che hanno
suonato nel disco? Sono molto bravi. Hanno la tua età?
Sono dei grandi musicisti, tutti. Penso che portino
qualcosa di speciale alla tavola. Hanno quasi tutti
dai 25 ai 30 anni. Mi piace suonare con persone
che hanno un’esperienza derivata dall’età e cerco
di circondarmi di questo tipo di persone perché in
questo modo imparo molte cose più rapidamente.
E i tuoi punti di riferimento musicali? Ho
letto di Townes Van Zandt, di Neil Young,
dei Fleet Foxes… e di Spooner Oldham, che
hai anche conosciuto.
Ho incontrato Spooner la prima volta quando ero
molto giovane. Non sapevo chi fosse e che persona
e musicista speciale fosse. Soltanto quando sono
diventato più grande ho capito che era un autore
che aveva scritto della grande musica in passato
e che lo fa ancora oggi. L’ho rivisto qualche volta
e ci ho parlato un po’. Mi piace la sua personalità.
Tu hai una voce bella e al tempo stesso
fragile… è davvero “soul deep”, come ha
scritto qualcuno. A me ha fatto pensare a
quella di Gram Parsons. Immagino che tu
lo conosca.
Ho passato un po’ di tempo con Grievous Angel.
Lo amo, ma non posso dire di aver davvero scavato in profondità nel repertorio di GP. Ho un
enorme rispetto per la sua musica. Dovrei rivisitare alcune di queste cose.
A questo punto diventa inevitabile chiederti di Emmylou Harris.
Lei è tutto quello che puoi immaginare e anche
di più. Ha talento, grazia, bellezza e molto altro
ancora. È uno dei miei eroi. Pieces of the Sky è un
disco che ho suonato a casa per tante notti. Insieme a tanti altri grandi album di Mrs. Emmylou.
Come e quando hai incontrato Geoff Travis, il “grande capo” della Rough Trade?
La prima volta che l’ho incontrato di persona è
stata a gennaio, quando è venuto a Nashville a
vedermi suonare. Mi sono subito reso conto che
capiva la mia musica. A suo modo è veramente un
artista in questo freddo e oscuro music business.
Ho guardato negli occhi un altro uomo gentile e
serio e ho capito che era la persona giusta. Sento
che è molto onesto riguardo quello che gli piace e
quello che non gli piace. Non ti terrebbe alla catena. Mi piace anche che permetta ai suoi artisti di
essere se stessi e di crescere come individui.
Stai per andare in tour? Da solo o con la
tua band?
A ottobre sarò in tour con Lissie, una cantante
di grande talento e sono abbastanza emozionato.
Sarò da solo con il mio pianista, ma a novembre/
dicembre verrò in Europa con il mio gruppo.
Giancarlo Susanna
MUSICA 25
NON VOGLIO
CHE CLARA
Il pop che ama citare Majakovskij
Sono passati quattro anni dal loro ultimo acclamato lavoro. Acclamato da una critica che vede
i Non Voglio Che Clara come la prosecuzione di
una tradizione cantautorale che ha radici negli
anni ’60 e che tendeva a scomparire. Fabio De
Min e compagni hanno una visione complessa
quanto approfondita della musica, tutto questo
muovendosi comunque nei terreni del pop. Il
26 MUSICA
nuovo lavoro segna un passo ulteriore, un crescita dal punto di vista stilistico e compositivo.
Dei cani è un disco importante, atteso, un disco che cita Majakovskij, che racconta l’amore,
l’estate, la vita.
Un disco che ci presenta anche un suono nuovo, più maturo, merito anche della produzione
di Giulio Favero. Tra gli ospiti dell’album Port
Royal, Diana Tejera (cantautrice romana, già
autrice per Tiziano Ferro), Mia Julia Schettini
(voce della band romana Palomino Blitz).
Dei Cani è un disco che suona come il passaggio all’età in cui le esperienze si metabolizzano, il momento in cui assaporare
l’amaro in bocca, in cui l’amore finisce e
da lontano sembra avere nuovi contorni.
Cosa racconta?
Il disco si basa in realtà su un corpus narrativo
unico. Attraverso il racconto, frammentato e poi
scomposto, di un delitto passionale ho cercato di
mettere in relazione il protagonista con il pensiero comune, la moralità, la società che ci circonda e tutto il condizionamento che ne deriva.
Per Dei Cani chiamate in causa Majakovski, quali rimandi letterari penetrano in
modo più o meno evidente e consapevolmente nei vostri brani?
Tutto quello che leggo potenzialmente può diventare un riferimento o influenzare il mio lavoro. Majakovski ha fornito una sorta di giustificazione ad un’idea che avevo in merito ai temi
del disco. La figura del cane, oltre a riferirsi
alla situazione di abbandono che si incontra ne
L’estate, rispecchia il senso di sottomissione e
impotenza che si avverte spesso di fronte alla
società degli uomini. Una società che fa di ogni
verità una menzogna e rende ogni valore un
non-valore, per dirla alla Nietzsche.
Da sempre la vostra musica è stata definita
con un forte riferimento alle atmosfere orchestrali e cantautorali anni 60, in questo
album il suono sembra prendere nuove direzioni pur non rinunciando a una radice
“classica”. Cosa è successo in questi anni?
Con Dei cani abbiamo cercato di realizzare un
disco più immediato ed essenziale negli arrangiamenti, anche in considerazione della sua
esecuzione dal vivo. È un disco concepito e realizzato in maniera diversa rispetto ai dischi
precedenti ma pure frutto della stessa ricerca,
che si sviluppa nella scelta di metodi compositivi differenti e che in passato ci aveva portato a
prediligere orchestrazioni e arrangiamenti più
articolati.
Non si ha più paura di parlare di pop, non
si nasconde l’amore dietro muri di chitarre e rigidità indie. Ci sono pianeti musicali
un tempo lontani che oggi si sovrappongono. Merito di alcune etichette indipen-
denti che hanno investito sulla “canzone”?
Del mercato che cambia? Delle band che si
approcciano alla musica e ai testi in modo
diverso?
Ognuno a modo suo cerca di scrivere delle “canzoni”. Seguendo i propri modelli, un proprio percorso, magari facendo proprio un linguaggio. Poi
alle etichette,alle definizioni ci pensa qualcun
altro. E immancabilmente non ci trova d’accordo...
Cosa ne pensi di questa nuova stagione
della musica italiana (penso a gruppi come
Baustelle, Amor Fou, Brunori Sas, Dente)?
Non ho sentito tutti i rispettivi lavori quindi ho
un po’ di difficoltà ad entrare nel merito della
tua domanda. Mi permetto però una considerazione: in Italia abbiamo un problema di cifre, ovvero qualsiasi siano i termini di riscontro si parla sempre di numeri piuttosto bassi. Si rischia
quindi che le cosiddette scene musicali nascano
e muoiano sui blog e a volte ho la sensazione che
l’entusiasmo di cui si legge attorno a nuovi fenomeni giovi più a chi scrive di musica che non
agli artisti in sé.
Nelle vostre canzoni conciliate fascinazioni straniere e tradizione italiana. Ci segnali due dischi (uno italiano e uno straniero)
fondamentali per Non Voglio che Clara?
Due dischi che rappresentino le fondamenta per
Non voglio che Clara e che si possano sensatamente citare, e anche a dieci anni di distanza
dai nostri primi passi… Ti dico In a priest driven ambulance dei Flaming fra gli stranieri e
un cd fatto in casa con i brani migliori (il meglio
per me ovviamente) di Sergio Endrigo per gli
italiani.
In questo disco avete molti ospiti a partire
dalla produzione, ce ne parli?
Abbiamo chiesto a Giulio Favero di intervenire, ad una certa fase dei lavori. Considerando
la stima che nutro verso il suo lavoro ero certo
che avrei condiviso le sue scelte a livello di produzione, e così è stato. Giulio ha avuto il merito,
fra gli altri, di aver saputo cogliere alcuni lati
nascosti di Dei cani e di averli messi in luce meglio di quanto avrei potuto fare da solo. Ogni
collaborazione di questo disco ha comunque un
significato umano e affettivo particolare, perché
in fondo si è trattato di affidare a qualcun altro
la custodia di un pezzo di se stessi.
Osvaldo Piliego
27
ARIEL PINK’S
HAUNTED GRAFFITI
Before Today
4AD
WILDBIRDS &
PEACEDRUMS
Rivers
Leaf
Ariel Pink, negli anni ’90, ha
inciso tonnellate di cassette.
In pochi, purtroppo, ricordano i suoi piccoli gioiellini lo-fi.
Soltanto adesso si può storicizzare quella poetica eclettica
e frammentaria per comprendere quanto abbia influenzato, o quantomeno anticipato,
l’ondata di artisti che un decennio dopo avrebbe spolverato i registratori a cassetta.
Non è un caso, dunque, che la
“riscoperta” di Ariel sia opera
proprio degli Animal Collective. Questo Before Today, a differenza dei dischi precedenti, è
registrato in alta fedeltà sulla
prestigiosa etichetta 4AD.
Le coordinate sono sempre le
stesse, ovvero tutte e nessuna. Canzoni che non temono
di passare dal goth anni 80 al
funky-soul anni 70, piuttosto
che alla dance à la Prince, al
flower-power e chi più ne ha
più ne metta. Una vulcanica
sensibilità pop, dunque, in linea con lo “stile frammentario”
che è stato definito hypnagogicpop. Ora che le canzoni di Ariel
hanno incontrato il filtro della
produzione non possiamo fare
altro che godere del risultato
finale: un’uscita ricca di spunti
geniali che, lungi dall’essere un
mero collage di stili, evidenzia
una scrittura assolutamente
a fuoco, capace di navigare in
tutti gli sconfinati territori della musica pop. (Tdo)
Arrivati al terzo capitolo in
studio, la coppia formata da
Mariam (Uccelli selvatici) e
Andreas (Tamburi della pace)
abbandona i tratti sperimentali e le asperità free-jazz dei
precedenti lavori, per abbracciare una forma canzone che
unisce minimalismo pop (quasi
sempre solo percussioni e voce)
e melodie orientali. Mancano i
frenetici gorgheggi di Mariam
in favore di atmosfere più dark
e meditative. Al tavolo di missaggio troviamo il Valgeir Sigurdsson già collaboratore di
Bjork, Mùm, Cocorosie e Bonnie Prince Billy. E in effetti
proprio con Bjork (in particolare con Vespertine) e Cocorosie
potremmo individuare alcuni
punti di contatto. Le splendide
Fight For Me, The Course e The
Lake mostrano i nuovi sentieri
da battere nel futuro prossimo,
tanto ormai abbiamo capito che
il duo svedese aggiorna la sua
proposta musicale da un album
all’altro, come solo i grandi riescono a fare. (Tdo)
28 MUSICA
THE BOOKS
The Way Out
Temporary Residence
“Benvenuti ad un nuovo inizio, perché questa cassetta vi
servirà come nuovo inizio. La
musica su questa registrazione
è stata creata appositamente
per dare effetti piacevoli alla
vostra mente, al corpo e alle
vostre emozioni…”. Così recita
lo psichiatra (?) che ascoltiamo
nel primo brano, campionato
da qualche vecchio nastro come
gran parte delle voci dell’album, assemblate con maestria
e originalità per creare dei
collage postmoderni. Gli innumerevoli campionamenti sono
schegge impazzite e vengono
accostati a parti suonate trascendendo la formula folktronica e secondo una destrutturazione della forma canzone
intesa come accostamento di
musica e voci con effetti in
progressione. Nonostante le
premesse “intellettuali”, però,
la compattezza dei brani è disarmante. Ascoltiamo pezzi
costruiti su frenetiche ritmiche
dance, acide battute hip-hop,
cavalcate inarrivabili, ballate
in reverse, controcanti lisergici
old-school, raga indiani, confessioni folk, suoni e rumori di
ogni sorta. Che siano canzoni
o costruzioni astratte, i brani
sono compatti, coinvolgenti e
pieni di sorprese. Senza dubbio
questo The Way Out figurerà
tra i migliori dischi dell’anno.
(Tdo)
UOCHI TOCHI
Cuore Amore Errore
Disintegrazione
La Tempesta
I Uochi Toki mi ricordano un
po’ gli Offlaga Disco Pax. Due
gruppi in cui la musica fa quasi
da sottofondo allo tzunami di
parole che travolge l’ascoltatore. Come nel precedente lavoro
del duo milanese, che non a
caso si chiamava Libro Audio,
ancora una volta la formula
resta più o meno la stessa: hiphop, break-core, noise ed elettronica sperimentale (le basi di
Rico) su cui poggiano i monologhi frenetici di Napo. I testi intelligenti e torrenziali copulano
con tessiture musicali che fanno impallidire buona parte dei
“nuovi rappers italiani”. Emozionanti e innovativi, i Uochi
Toki sono semplicemente una
delle migliori proposte musicali del Bel Paese. Peccato che
si siano ritagliati una nicchia
tutta loro, e che difficilmente
sfonderanno a livello commerciale: basi troppo sperimentali
per gli amanti del rap e testi
troppo lunghi e rimati per gli
amanti dell’avanguardia musicale. (Tdo)
INTERPOL
Interpol
Matador
SCUBA
Triangulation
Hotflush
Ascolti Triangulation e ti sembra di stare sott’acqua. Suoni
minimali e textures ambient
pian piano gonfiano l’atmosfera
fino a creare una bolla d’aria.
Le forme all’interno iniziano
a muoversi diventando entità
fuori controllo che rimbalzano, s’intrecciano, sfondano la
bolla e si lanciano nell’oceano.
I viaggi subacquei di Scuba
amano la minimal, quella vera,
in cui ogni singolo suono ti racconta un mondo infinito. E la
sinuosità del dubstep condita
con reminiscenze anni 90 (triphop in Before, jungle in So You
Think…) ed estasi technoidi
Il nuovo attesissimo album
degli Interpol, pionieri del
revival new-wave, conferma il progressivo abbandono della psichedelia degli
esordi in favore di una più
pulita, seppur cupa, canzone pop. Ormai gli Interpol
sembrano più i REM che i
Joy Division. I brani del’album sono intensi, ma raramente si discostano dal formato canzone e presentano
contribuisce a massaggiare la
mente dell’ascoltatore inducendo una levitazione di sensi.
In altri tempi avremmo detto
techno-dub o electro-funk, ma
siamo in continua evoluzione
e Scuba è già pronto a passare
oltre. (Tdo)
poche melodie appiccicose.
Tra questi spiccano sicuramente l’apertura Success, il
cantato scorbutico di Memory Serves e le due cavalcate
Lights e Barricades. D’altronde la band accompagnerà gli U2 durante il tour
americano: gli Interpol non
potevano certamente immaginare un futuro più glorioso... o forse si?
Tobia D’Onofrio
HAPPY SKELETON
Coffee & Cigarette Club
Seahorse Recordings
Dopo un incidente mortale a
cui è sopravvissuto per miracolo, il pugliese Davide Delmonte
incanala la sua creatività in
MUSICA 29
un album di noise-rock oscuro
e a tratti sperimentale. Visioni attraversate da schitarrate
soniche galoppano a cavallo di
un basso che “pompa” spesso
oltremisura (32 Noir). When
the Fish Was A Flower omaggia
i Nirvana di Bleach. Talvolta
si utilizza una drum machine,
sempre nel’ambito di una forma canzone figlia dell’alternative-rock anni 90. Il fantasma
di Cobain aleggia ancora in Cut
This Vein e nei testi dell’intero
album (“Sorry if I cry, sorry if I
smile, sorry if I love”… piuttosto che “we are not dead, we are
not there, we are the sun, we
are the sun”). I Wish I Could
Tell You è una ballata romantica, l’altra faccia di un lavoro
intriso di atmosfere “plumbee”.
Un artista da tenere sott’occhio. (Tdo)
ERYKAH BADU
New Amerykah Part Two
(Return Of The Ankh)
Universal Motown
Pochissimi artisti stanno cercando di aggiornare il verbo
soul, hip-hop e R’n’B. Erykah
Badu è una di questi. Dopo
l’enciclopedico lavoro New
Amerykah Part One, ecco la
seconda parte del suo viaggio
alla scoperta della nu-black
music. Congelando momentaneamente le involuzioni wonky
e gli accenti sperimentali della
Part One, la Badu predilige
atmosfere più rilassate ed intimiste, ma con una freschezza
di modi e una purezza d’intenti
che incantano tanto quanto la
30 MUSICA
sua lucida visione della vita. I
dieci minuti di Out My Mind,
Just In Time sono un’improvvisazione ipnotica e delirante
che ben rappresenta lo spirito
della Badu. E dopo il tocco più
convenzionale di Window Seat,
il teatrino prog di Agitation e
l’ispirato funky-soul di Turn
Me Away, si chiude con Gone
Baby Gone che è già un classico
tormentone pop.
Tobia D’Onofrio
NO-AGE
Everything In Between
Sub Pop
Pochi anni fa i due canadesi
erano diventati i beniamini
della critica, ancora imberbi e
in piena botta adolescenziale,
armati di un’ispirazione e di
un gusto che li avevano assolti
a principini dell’universo shoegaze e lo-fi (Katerpillar). Qui
manca l’effetto sorpresa di un
esordio fulminante (ormai declinato in tutte le salse dalla
miriade di gruppi shitgaze che
sono venuti dopo di loro). Il
loro college-noise-pop fa sorridere quando emula i Dinosaur
Jr (Depletion) e i Sonic Youth
(Chem Trails), l’emo di Common Heat fa sbadigliare, ma
il riff stonesiano di Skinned
colpisce nel segno e la trance
sciamanica di Dusted vale forse quanto l’intero disco. I due
pargoli No-Age ritornano più
rilassati, ma devo dire che li
preferivo di gran lunga quando
facevano più fracasso. (Tdo)
THOUSAND MILLIONS
Rock days
Tannen Records
Suonano “british” più che
mai i nuovi giorni del rock dei
Thousand Millions. Esce per
l’etichetta Tannen Records
Rock days il nuovo disco del
sorprendente trio salentino.
Immediato e piacevole, per capire le caratteristiche di questo
secondo lavoro (uscito a due
anni dal brillante esordio Here
and Back Again), che tanto sa
di conferma, è sufficiente ascoltare l’apertura affidata alla
title-track. Tre minuti appena, all’insegna di un rock che
fila dritto, essenziale e diretto,
pulito e senza fronzoli, privo di
lustrini e patinature. Impressione confermata, e rafforzata,
da Song for satellites, Treason,
Planet’s Headache, Alone again
e, più o meno, da tutte le altre
tracce di un lavoro con il quale
il terzetto ha voluto recuperare
l’attitudine punk-rock. Quella
che emerge chiara dal suono
di Rock days, ed evidenziata
anche dalla durata dei brani,
brevi e intensi. I tre “milionari” prendono così le distanze da
quella che definiscono “l’estetica ormai stucchevole e spesso
troppo ammiccante dell’universo indie”. Ciò che sorprende
è la naturalezza delle dodici
tracce, che si fanno ascoltare
tutte d’un fiato, che suonano
bene e sono ben suonate, ricche
di spunti e riferimenti, vere e
immediate, sia quelle di matrice più “powerpop” che quelle
“alternative rock”, per citare
due generi nei quali sono “eti-
chettati” i tre e il loro cd. E, in
effetti, già al primo ascolto, è
difficile non essere coinvolti da
sorrisi e malumori, da melodie
e sfuriate, da perle di dolcezza
e dal loro retrogusto amaro. Un
azzeccatissimo cocktail, un miscuglio di note e sensazioni che,
come ispirazione, parte da lontano. Ma che arriva, e colpisce,
assai forte. (da.qua)
ARCADE FIRE
The Suburbs
Merge
ANTONIO
CASTRIGNANÒ
Mara la fatìa
Felmay
Il Salento contadino, quello dei
canti e degli incanti, di faticose
zappate e di momenti di festa,
di poesia semplice ed essenziale, come la vita di allora, di una
quotidianità dura e spesso amara, come il lavoro nei campi. “Se
lo canta e se lo suona” proprio
tutto il suo amore per “quella
terra” Antonio Castrignanò, che
di quella terra è “ambasciatore
e servitore orgoglioso”. Lo definisce così Mauro Pagani nella
presentazione di Mara la Fatìa,
il nuovo disco di Castrignanò in
uscita per Felmay (e distribuito
anche in Francia e Germania).
Il secondo lavoro (dopo la colonna sonora di Nuovomondo) del
tamburellista e cantore salentino che racchiude “canti, cunti e
migrazioni” di una terra che conosce bene, che ama da sempre,
con il suo passato di fascino e
contraddizioni, di suoni e poesia
che Castrignanò rispetta e coltiva. Invitando a fare altrettanto.
È così che le 11 tracce del cd,
tanto i brani riproposti e riar-
Gli Arcade Fire negli anni 0
hanno rimescolano l’indierock sposando la melodia
pop con eclettismo, intelligenza e atmosfere trascinanti. Hanno scritto canzoni che prendendo strade
oblique mutavano di forma
e intensità. In questo terzo
album la materia sonora si
fa meno insidiosa rispetto
ai due vecchi lavori, ma si
perde un po’ in ispirazione e
rangiati quanto quelli originali,
diventano solchi profondissimi
sul percorso della sua memoria.
Denominatore comune di queste sue storie sono il lavoro e la
notte, chiamati quasi a rappresentare il tempo e lo spazio che
intrecciandosi, aprono quegli
scenari e spaccati di vita quotidiana, tanto cari al musicista,
dai quali emergono sogni, amori, umori e speranze, ma anche
fatiche di “gente abituata a cantare la terra”. (da.qua)
compattezza. Le “pop songs”
sono composte con gusto e
stile da invidiare, e inoltre
crescono con i ripetuti ascolti. Se soltanto i canadesi non
si fossero dilungati in ben
sedici brani, forse avremmo
evitato l’eccessiva durata
e le conseguenti cadute di
tono che non consentono al
lavoro di decollare come un
“classico”.
Tobia D’Onofrio
THIS ORDER
Inner island
New model label
Il new metal ci ha un po’ distratti, ci ha disorientati, facendoci dimenticare del rock
sanguigno di gruppi cardine
come i Pearl Jam o i Tool. Monumenti di un suono che ha caratterizzato un decennio e che
ancora vive e pulsa tra le corde
di gruppi che da lì partono per
scrivere nuova musica. (O.P.)
MUSICA 31
Un’onda anomala che porta
con sé cross over, grunge, stoner e che travolge tutto ciò che
incontra, fa rotolare pietre e
macigni…
Il suono è granitico grazie alla
produzione di Justin Shturtz
(Fall Out Boy, My Chemical
Romance, Seether e Slipknot)
e ha sdoganato definitivamente l’italianissima band dandole
una veste assolutamente internazionale.
Antonietta Rosato
BRAINKILLER
The Infiltration
RareNoiseRecords
Avere la libertà e la capacità
di esprimersi musicalmente in
modo complesso e vario è un
dono, un talento che appartiene a pochi musicisti. Gente che
nell’infinita gamma di scelte
possibili è guidata dalla misura, dal controllo. Quando ci si
muove in ambiti jazz poi il pericolo di lasciarsi prendere la
mano è dietro l’angolo.
Si rischia di cadere nel manierismo strumentale senza avere
niente da dire. Nel caso di questo lavoro dei Brainkiller il pericolo è superato egregiamente.
Il segreto è nella poliedricità
musicale del terzetto capace
di plasmare materia musicale viva, trascinante senza mai
perdere di vista la misura. E
se di jazz si può parlare per la
forma, molto e molto altro si
può trovare negli angoli di ogni
piccola perla di modernità che
quest’album ci regala.
Osvaldo Piliego
32 MUSICA
DILATAZIONE
The Importance Of
Maracas in the Modern age
Acid Cobra
Math rock e kraut rock, disco
music del prossimo millennio e
voglia di non prendersi troppo
sul serio pur suonando seriamente. sono tutti elementi di
questo The importance of maracas in the modern age.
Un titolo che è tutto un programma ma che è anche un
indizio per esplorare il disco,
un disco fatto di variazioni progressive e apparentemente minime capaci di innestare nello
stesso brano rimandi a culture
musicali apparentemente agli
antipodi. E invece tutto si regge ammiccando con spericolatezza musicale ora alla musica
colta ora alle colonne sonore
italiane anni ’70 per poi macinare roboticherie anni ’80.
Più che canzoni le loro sono
diaboliche evasioni.
Dario Goffredo
PHINX
Login
Irma Records
Giovani elettrorocker crescono.
Dai banchi di scuola ai sinth,
una matrice rock che sposa
senza farsi problemi l’elettronica da dancefloor. Vorrebbero
essere i Soulvax ma di strada
(e il tempo ce l’hanno) ne devono ancora fare. Potrebbero, per
qualche verso, essere i cuginetti dei Motel Connection o dei
Planet funk ma sono giovanissimi e più freschi e per questo
evidentemente più vulnerabili.
Il progetto è vestito ad hoc per
approdare in classifica e su
Mtv, uno scenario musicale che
guarda molto alla forma. Le
carte in regola per conquistare
un certo pubblico le hanno tutte, potrebbero passare con una
stagione o magari “crescere”.
Antonietta Rosato
JACKEYED
The Sleeper’s Sunday
Grid
Atracoustic
Prende il nome da una canzone
di Micah P. Hinson, un ottimo
punto di partenza per entrare
nel mondo di Jackeyed, un personaggio che ama immergere
la sua biografia in un alone fiabesco quasi a voler rafforzare
il suo mood musicale fatto di
ballate acustiche. Canzoni che
richiamano alla mente il già
citato Hinson, ma anche Elliot
Smith e una serie di interpreti
dal tessuto sonoro sottile e fragile. Un facile raffronto è con il
conosciutissimo Damien Rice,
ma c’è una scrittura a suo modo
italiana nella mani di Federico
Babbo. Una delle nuove voci
dell’indie italiano che ci regala
un album intenso. (O.P.)
GARDENYA
Disegnando pareti
Autoprodotto
I Gardenya sono pugliesi, fanno pop, due elementi che ultimamente portano bene. Ragazzi cresciuti all’ombra del grunge e folgorati, a un certo punto,
dall’Inghilterra in classifica.
Mitigare passione e appartenenza crea, delle volte, strane
germinazioni. Proprio come
questa Gardenya, fiore strano,
che condensa anche troppe cose
in una forma canzone per alcuni versi epica. E il disco cavalca con incedere imperioso attraverso canzoni sicuramente
ispirate da un’interpretazione
a tratti drammatica.
Con gruppi come questi c’è da
distinguere la destinazione
d’uso. A Sanremo potrebbero
sortire l’effetto sorpresa, in altri contesti risultare un po’ caramellosi. (O.P.)
Antony and the Johnsons
Swanlights
Secretly Canadian
KINGS OF LEON
Come around sundown
Columbia
Questa band è l’erede dichiarata
di dinosauri della portata degli
U2 e non è un male. Sono dei
bei ragazzotti di campagna, parenti, figli di pastori e questo fa
piacere. Riescono a mantenere,
nonostante i numeri sempre più
esorbitanti di vendite, una genuinità southern che te li fa comunque percepire come i ragazzi
della porta accanto, e la sincerità
nel rock è quasi tutto. E poi c’è la
musica. Le loro canzoni, sarà la
gola al vetriolo di Anthony, sembrano fatte per essere cantate a
squarciagola… roba da stadio per
intenderci. Nonostante la virata
pop degli ultimi episodi si sente
ancora la forte vena rock sudista,
un certo impeto springstiniano
mitigato da dolcezze e piccole divagazioni indie.
Osvaldo Piliego
SIR FRANKIE CRISP
It’s five o’ clock
Autoprodotto
Amare i Beatles è un processo
di iniziazione alla musica, una
sorta di battesimo che apre le
porte alla conoscenza di tanto
altro. Per alcuni il primo amore non si scorda mai, per altri
è anche un punto di partenza
per fare nuove esperienze. E i
Beatles e in particolare George
È un disco vibrante il nuovo
di Anthony, riverbero di un
animo che diventa musica
quasi ne avesse bisogno,
come un passaggio doloroso
che produce bellezze inedite, altezze difficili da immaginare. In questo episodio
sceglie più corde che tasti
producendo celestiali visioni,
tra minimalismo, opera, go-
Harrison sono stati l’occasione
in cui i Sir Frankie Crisp si sono
incontrati. Prima di tutto una
band tributo capace di girare il
mondo omaggiando il repertorio di uno dei Fab four. Poi con
l’amicizia e l’affiatamento nasce
sempre qualcosa di buono. Ed
è qui che arriva questo It’s five
o’clock, sette brani originali che
partono dai Beatles e intraprendono percorsi nuovi alla luce del
tempo trascorso e delle sensibilità musicali di tutta la band. È
infatti tutta la band a cimentarsi alla voce, proprio come i maestri insegnano, e unire uno stile
vintage a escursioni più propriamente brit pop anni 90. Il
risultato è accattivante, fresco e
maturo allo stesso tempo. (O.P.)
spel, e si spinge verso drone
psichedelici a cui Anthony si
attorciglia per spingersi in
salti. Come tutti i grandi artisti è nel sottrarre che Anthony raggiunge le sue vette,
perché non ha bisogno di altro se non della sua voce che
filtrata diventa strumento,
bordone, materia viva.
Antonietta Rosato
PIET MONDRIAN
Misantropicana
Urtovox
I Piet Mondrian sono crooner dei
nostri giorni, una sorta di Adam
Green che prende in prestito le
basi degli Stereototal, cantautori
dell’assurdo e allo stesso tempo
del quotidiano, spietati e feroci e
al contempo leggeri e non sense.
Una coppia lui/lei che armeggia
con poche cose, che si diverte a
MUSICA 33
34
citare i CCCP o il primo Battiato, a pescare nella new wave
(sentite Apocalippo) come ad azzardare exploit chitarra batteria
alla White Stripes. Il pastiche
sonoro è voluto e riuscito, arte
pop del citare senza soluzione
di continuità, pop caustico, irritante, pornografico. Forse questo
è amore suona clericale come
qualcosa dei Baustelle ma senza
spocchia, con semplicità e piccole
deliziose trovate. Un disco che
sulla carta dovrei odiare ma non
riesco a smettere di ascoltarlo.
Osvaldo Piliego
FATHER MURPHY
No room for the weak
Boring Machines
Forti delle critiche positive
guadagnatesi con il disco precedente, il trio veneto continua
il suo surreale viaggio musicale
attraverso gli angoli più oscuri
della mente umana, ulteriore
conferma del loro straordinario
momento di forma. Quello che
ne viene fuori sono quattro brani strazianti e angoscianti nei
quali il trio esterna il proprio
pensiero, combinando tra loro
sacro e profano e proferendo sul
misticismo teologico, sull’espiazione tramite autoflagellazione
e su di una difficile quanto faticosa redenzione, mostrando,
però, un occhio di riguardo per
le rifiniture e lo sviluppo dell’architettura sonora. Aprono con
We now pray with two hands,
we now pray with true anger,
una preghiera psycho-noise dilatata nel tempo, tra chitarre
inquiete, rintocchi di campane e
l’alienante voce del Reverendo.
La stessa cosa accade nell’episodio successivo, Until the path
is no longer, mentre in You got
worry è la voce di Chiara Lee
ha dominare la scena con il
Reverendo in secondo piano,
fino all’intenso duetto finale. A
chiudere, l’omaggio a Leonard
Cohen con la loro drammatica,
estraniante e straordinaria rivisitazione del brano, There is a
war. Un lavoro superbo degno di
una delle band italiane più interessanti in circolazione.
Alfonso Fanizza
BROKEN SOCIAL
SCENE
Forgiveness Rock Record
City Slang
Si parte con World Sick all’insegna di un’appiccicosa psichedelica pop alla Flaming Lips.
Si procede con una Chase Scene
che sembra uscita dall’accademia di Saranno Famosi (ricordate Leroy e compagnia bella?);
poi, tra frenesia ritmica e vocalizzi, si fa avanti l’immagine
rifratta dei migliori Talking Heads. Texico Bitches gioca a mescolare ludici paradisi artificiali in odor di Cure e Pavement,
mentre All to All ricopre di dilatazioni anni ’80 un etereo cantato femminile. Non basterebbero
tre pagine per descrivere tutti i
colori del disco, riflessi in alchimie sonore che occultano riferimenti e citazioni; vi basti sapere
che l’ispirazione è sempre altissima e ogni brano, a modo suo,
risulta perfettamente riuscito.
La produzione del Tortoise-guru
John McEntire definisce i volumi di un album che rappresenta
la consacrazione, per questi meravigliosi menestrelli canadesi.
Tobia D’Onofrio
LCD SOUNDSYSTEM
This Is Happening
DFA/EMI
Il caro James Murphy non ha
bisogno di presentazioni e certamente questo nuovo album confermerà lo status del ragazzotto
newyorkese, andando a riempire
le piste da ballo di mezzo mondo. C’è da dire, però, che se otto
anni fa questo sound indicava la
strada da seguire per la dancetronica-pop del nuovo millennio,
oggi la miscela sonora risulta
sbiadita e addirittura in ritardo
sui tempi. Punk-funk, new wave,
house-pop, citazioni colte (David Bowie in Drunk Girls e All
I Want) e progressioni al silicio.
Tutto perfettamente confezionato, ma assolutamente già sentito,
persino monotono. È ora di cambiare registro, per il caro James,
o si rischia di finire nel mercatino
del modernariato più scadente.
Tobia D’Onofrio
THE CORAL
Butterfly house
V2 Records
Ad ascoltare la voce del frontman Skelly, ci si può sentire
in qualche modo fortunati di ritrovarsi per le mani un qualsiasi
disco dei britannici Coral, ché
anche in momenti meno ispirati
della loro carriera (siamo al 6°
LP), sono stati una spanna sopra
gli altri. A ciò aggiungiamo che
di solito una nuova uscita dopo
il classico gratest heats (2007
per loro) suona un po’ strano,
bizzarro, specie se gente poco
spocchiosa come questi boyz afferma che è “il loro miglior disco
di sempre”, non vi pare? La spiegazione è dietro l’angolo: Butterfly House (forse) è davvero il migliore LP dei Coral, sicuramente
è già nella top 5 di molti, lo sarà
anche a fine anno, specie per gli
adepti del verbo “Byrds e Stone
Roses su tutti, fratello”. In cabina di regia troviamo il fido John
Lockie, conosciuto ai più come
tra i primi a scoprire e produrre i Radiohead, che sembra aver
colto (quasi) del tutto le intenzioni della band, a voler usare la
nostalgia come fine ultimo e non
come atteggiamento. Se dicono
che l’opener More than a lover
è venuta giù tra una birrozza e
l’altra, allora mettetevi comodi
oppure uscite a fare jogging e
deliziatevi con Walking in the
Winter e Two faces e 1000 Years.
Potranno anche essere ripetitivi, un po’ come le loro copertine,
ma i Coral sono e rimarranno
uno dei gruppi più originali degli anni 2.0, capaci anche con
una sola canzone di svoltarti la
giornata. Scusate se è poco.
Al Miglietta
MUSICA 35
36
AVANTI POP
Cinque brani di successo che piacciono anche a Coolclub
Eliza Doolittle - Pack up
Nemmeno
un’estate
intera ha cambiato il
corso della storia musicale contemporanea. A
ottobre come a maggio
c’è da parlare dell’ennesimo mezzo talento e
mezzo marketing proveniente da Londra.
Classe ‘88, etichetta
pesantuccia (Parlophone), genere meticcio tra
ska, pop e soul (da noi si sarebbe chiamata Nina
Zilli), talento sufficiente per sparare un buon
singolo (Pack up, per l’appunto), ma non certamente per tirare avanti per una vita intera ad
altissimi livelli. Godiamocela senza pregiudizi,
ma senza che ve ne innamoriate troppo.
Jamiroquai - White knuckle ride
Primo novembre 2010,
torna Jamiroquai. Dopo cinque anni e un best
of che suonava di resa,
Jay Kay ci stupisce con
il suo settimo lavoro di
studio. Il resto è obiettivamente marginale:
chi si aspettava un suo
ritorno? Chi pensava
potesse tornare con un singolo di buona fattura,
che non aggiunge nulla al suo repertorio ma che
proprio per questo è rassicurante per i molti che
lo hanno amato? E invece, si riparte dal giorno di
Ognissanti, con Rock dust light star, titolo ambizioso come Jamiro, che per fortuna ha deciso di
rinviare la sua dipartita artistica.
Statuto - Una città per cantare
Rimanendo nella categoria “sorprese” e,
anzi, spostandoci nella
categoria “sbalorditivo”, salutiamo il nuovo
singolo degli Statuto.
Una scelta ruffiana,
forse troppo, visto il
trascorso della band di
Torino, punto di riferimento per gli amanti dello ska, i cultori del mod
e molte tifoserie organizzate del nostro calcio,
che hanno visto un baluardo artistico nella band
di Oscar Giammarinaro. Riprendere questo storico brano, scritto da Francesco De Gregori per
Ron (che collabora proprio per questo singolo),
appare più come una riuscita operazione commerciale che come un sincero tributo alla musica
italiana. Se vi va, però, andate oltre la superficie.
Kings of Leon - Radioactive
Una delle migliori
band dei nostri tempi è
tornata sulle scene. Da
Franklin, Tennessee,
i tre fratelli Collowill,
ovvero i Kings of Leon.
Assai regolari nella
loro produzione, pubblicano un album ogni
due anni. Se riusciranno a ripetere il successo di Only by the night (4
singoli e 6,2 milioni di copie), non faranno sentire mai la loro mancanza, come se incidessero in
continuazione da anni. E le premesse in questo
senso sono confortanti: Radioactive funziona alla
meraviglia, anche se il video e il brano, per larghi tratti, sembrano qualcosa in più di una citazione dei The Killers.
Fabri Fibra - Vip in trip
Chi non conosce il ritornello di questa canzone? Su, non fate i
timidi. Non lo diciamo
a nessuno che avete
ascoltato questo brano dall’inizio alla fine
almeno una volta, che
avete molto apprezzato
la citazione di Rock the
Casbah dei Clash nel video, che siete d’accordo
con Fibra sui politici italiani quaquaperepè. Non
vi confonderemo con quella gentaglia che lo ha
portato in testa alle classifiche con Controcultura, che più che un album sembra il sottotitolo di
ciò che di incredibile è successo. Come il tunnel
del divertimento di Caparezza, Fabrizio Tarducci sta facendo cantare testi durissimi agli italiani
che ne sorridono acriticamente.
Dino Amenduni
37
38
DAMMI UNA SPINTA
Cinque artisti che ascolteremo in radio. Forse...
Phil Selway – By some miracle
Come si diventa giovani a 43 anni? Grazie a
un qualche miracolo. È
così che inizia la carriera da solista del batterista dei Radiohead,
Phil Selway, che per
tenere basse le aspettative ha subito evocato Ringo Starr come suo modello (poi i giornalisti
si sono divertiti evocando anche Dave Grohl e
Phil Collins, ma questa è un’altra storia). Il suo
primo disco, Familial, ha ottenuto recensioni
contrastate, ma se appartenete a quella nicchia
nemmeno troppo ristretta di appassionati dei
Radiohead a tal punto che dovete possedere qualunque cosa prodotta che a loro si richiama, siamo certi che vi divertirete. Come in una seconda
giovinezza.
Magnetic Man – I need air
Possiamo spingerli a
vita, ma loro in Italia
non arriveranno mai.
Sono Benga, Skream
e Artwork, tre perfetti
sconosciuti nel Belpaese, tre geni assoluti
nella perfida Albione.
Sono tre tra i più influenti produttori di
dubstep che hanno inventato questa supersquadra che opera con tre portatili, uno che gestisce i
campionamenti, uno coi bassi e l’altro con le percussioni. I loro set sono potentissimi anche dal
punto di vista scenico: i Nostri si muovono nella
penombra all’interno di un’installazione metallica. In Italia non arriveranno mai, ma se così non
fosse, preparatevi a un pellegrinaggio laico.
Katy B – On a mission
I signori di cui sopra non si sono però distratti a
giocare con i loro computer portatili. C’è tantissima roba che le periferie di Londra sfornano continuamente, figlia dell’intersezione tra rap, pop,
grime e dubstep. Rinse.fm è la radio di riferimento, popolarissima come una delle sue regine,
Katy B, prodotta proprio da Benga, giovanissi-
ma, con una voce al limite dell’insopportabile ma
ideale per le basi su cui si muove. Così efficace
che gli addetti ai lavori hanno dovuto inventarsi l’espressione “pop-step”. Lei, forse, in Italia ci
arriva senza gli zii.
Afrojack – Take over control (Adam F remix)
Il fenomeno-dubstep è
qualcosa in più di qualcosa di musicale. Non
si spiega, altrimenti,
la durata della moda
nonostante il genere
non offra, di per sé,
eclatanti variazioni sul
tema. Le innovazioni
sono tutte in direzione
pop, proprio perché questa musica sta diventando una cultura, un fenomeno di costume contemporaneo. Perché tutto questo preambolo? Perché
anche Adam Freeland, tornato al suo nome di
battaglia, quando faceva drum’n’bass durissima,
si è adattato, remixando un pezzaccio dance e
trasformandolo in una piccola perla.
Antony – Thank you for your love
Antony Hegarty è
come un dolce buonissimo ma pieno di zucchero. È stucchevole se
consumato con costanza, è squisito se mangiato una volta ogni
tanto e in un momento
di golosità. E proprio
quando si iniziava ad
avere voglia di qualcosa di buono, torna con i
suoi Johnsons per il suo quarto album, Swanlights, la cui copertina non chiarisce le intenzioni sul tono delle sue composizioni, sempre in bilico tra amori disperati e delusioni ancora maggiori. Nella tracklist spicca lo scambio di favori
con Bjork, che dopo averlo ospitato in Giamaica
per le sessions del suo album, canta in Fletta ricomponendo una delle coppie più suggestive e al
tempo stesso improbabili della musica mondiale.
Dino Amenduni
39
SALTO NELL’INDIE
VINA’S RECORDS
Il viaggio continua. Questa volta arriviamo a
Biella e incontriamo i ragazzi di Vina’s records.
Studio di registrazione, etichetta discografica,
agenzia di booking e ufficio stampa. Quando si
dice: chi fa da sé fa per quattro. Abbiamo parlato
con Davide Diomede.
Quando e come nasce Vina records?
Vina records è nata nel 2007, da poco pochissimo. In quel periodo, io e Francesco eravamo impegnati in ambiti musicali differenti, ciascuno
lungo il proprio percorso, ma entrambi convinti
40 MUSICA
che fosse arrivato il momento di creare qualcosa
di diverso, supportati dal fatto di avere intorno
le persone e l’energia giuste per farlo.
L’idea di una nostra etichetta ci ronzava in testa
già da qualche anno, dai tempi in cui studiavamo
da fonici a Milano; e di colpo ci siamo decisi.
A Torino avevamo i locali da convertire in studio
di registrazione e uffici, a Milano alcune conoscenze legali nell’ambito del diritto d’autore e,
sparsi in giro per l’Italia, moltissime band e amici pronti a supportarci.
Perché? C’era bisogno di un’altra etichetta
discografica?
Domanda difficile. È un pò come quando in una
strada dove ci sono già tanti bar ne apre uno nuovo e tutto il paese si stupisce? Forse sì, e forse no.
Credo che per come abbiamo concepito fin
dall’inizio il nostro rapporto nei confronti dei
musicisti e dell’etichetta stessa, la nostra sia
stata più un’esigenza artistica che economica (quest’ultima, allo stato attuale del sistema
culturale italiano, è praticamente un miraggio
lontano).
Cercavamo un modo per unire insieme la nostra
esperienza di musicisti, fonici e appassionati di
musica; il fatto che l’aspetto economico non sia
preponderante poi, ci ha sempre dato la possibilità di lavorare alle produzioni direttamente dal
basso, insieme alle band, da quella posizione in
cui la visione è poco contaminata dai budget e
tutto è ancora ruvido e passionale.
Che suono ha Vina records, cosa vi piace
produrre?
Nella selezione dei gruppi e delle produzioni cerchiamo di seguire istinto e nostro gusto, ovviamente.
Questo ci ha portato (e ci porta continuamente)
ad un suono eterogeneo, un crossover all’interno
del catalogo stesso.
Di base Io e Francesco proveniamo da una matrice sicuramente garage, nel senso attitudinale
del termine.
Ci piacciono le cose suonate in modo diretto, senza troppi fronzoli. Se una take non è convincente
dal punto di vista tecnico ma ha cuore e appeal,
la teniamo!
Diciamo quindi che ciò che lega insieme tutte le
produzioni e le band dell’etichetta è questo spirito, questa attitudine, sia che si tratti di folk cantautoriale oppure di garage beat come nel caso
degli Helene’s mates.
Ci parli brevemente delle vostre ultime
uscite?
In senso cronologico ci sono stati gli Inner vision
per i quali ci siamo immaginati di ritagliare una
nicchia amarcord del seattle sound anni novanta rivisitato in chiave attuale. E devo dire che il
riscontro degli addetti ai lavori e del pubblico è
stato al di sopra di ogni aspettativa. Recensioni
e passaggi radiofonici molto incoraggianti e positivi.
Poi è stata la volta dei NAIMA gruppo giovanissimo e talentuoso dell’asse Mestre-Torino che si
muove su un suono più riconducibile se vogliamo
a Deftones e Tool.
A maggio invece è uscito It’s easy to beat degli
Helene’s mates, un frullatone in spirito garage di
beat, punk e sixties la cui promozione è partita
da poco ma che lascia presagire ottimi risultati.
Attualmente, invece, stiamo lavorando su un
progetto post-rock elettronico, i MUI, e sul secondo disco del cantautore italo greco Alessandro Castagneri.
Come vi muovete nella jungle di proposte
che affollano il mercato dell’indie?
Come accennato prima, il nostro obbiettivo è
quello di creare in primis un rapporto artistico
con la band. Di rappresentare all’interno del
gruppo l’elemento aggiunto, indispensabile come
gli altri membri anche se poi non suona fisicamente sul palco con loro.
Per questo abbiamo un nostro studio di registrazione dove non esistono orologi, timer (a parte
quello del microonde) e costi orari quando si tratta di lavorare su di una nuova produzione.
La nostra esperienza come tecnici del suono poi,
ci aiuta a gestire direttamente l’intero processo
di registrazione e mix vivendo la lavorazione
del disco a stretto contatto con i musicisti e in
un certo senso mantenendo sotto controllo (e in
casa) i costi stessi.
Da un anno circa abbiamo finalmente trovato un
ufficio stampa in grado di rispettare gli accordi
economici e commerciali (ti posso assicurare che
ne esistono tantissimi che vendono aria fritta)
che lavora le nostre uscite attraverso la carta
stampata specializzata e le emittenti radiofoniche, organizzando show case, interviste e live
promozionali.
Per il 2011 le cose che bollono in pentola sono sicuramente la necessità di allargare la promozione a livello europeo e creare una booking agency
in grado di supportare il nostro lavoro e quello
dell’ufficio stampa.
Quale futuro immaginate per la vostra
creatura?
Per Vina abbiamo in mente un futuro da femme
fatale. Il fascino ce l’ha ma sappiamo che non
basta. Bisogna aiutarla a crescere giorno per
giorno in un mondo, quello musicale, in continuo
mutamento e pieno di contraddizioni cercando di
non farla cadere nei trabocchetti commerciali e
nelle scelte di comodo.
È difficile dire adesso cosa succederà, siamo ancora a testa bassa in mezzo alla mischia, cercando di trovare un rifugio dalla tempesta, per citare il vecchio Bob, e inventariare le ferite subite e
i colpi andati a segno.
Antonietta Rosato
MUSICA 41
LIBRI
MICHAEL GREGORIO
La nuova indagine del procuratore Hanno Stiffeniis
Michael Gregorio, pseudonimo di Daniela De Gregorio e Michael G. Jacobs, è uno scrittore per metà inglese e per metà italiano e il suo stile è una perfetta miscela di queste due anime così diverse: quella del Bel
Paese e quella della gelida Albione. Mike e Daniela
sono due persone gentilissime, tra i pochi scrittori che
amano stringere amicizia con i loro lettori, entrambi
insegnanti e sposati da trent’anni, riescono a creare
nei loro romanzi (celeberrimo il loro debutto Critica
della ragion criminale che scomodava niente meno
che Immanuel Kant in persona alle prese con efferati
delitti con la scientificità e il distacco di un Gill Grissom ante litteram) intrecci mozzafiato e ambientazioni nerissime. Da quel primo romanzo Michael Gregorio è rimasto nella Prussia di inizio ottocento, dove
tra la dominazione francese, la paura delle malattie,
le prime spinte della scienza e la pressione del pietismo, religione quasi di Stato, si muove Hanno Stiffeniis, procuratore che, dopo aver indagato al fianco di
Kant nel primo fortunato romanzo, si trova di nuovo
suo malgrado coinvolto in una indagine complessa e
pericolosa che metterà a repentaglio non solo la sua
vita ma anche le sue certezze e la sua saldezza morale. Ambientato sulle rive del Baltico tra le raccoglitrici
di ambra, principale fonte di ricchezza per la Prussia,
ora nelle mani della Francia napoleonica, questo Luminosa tenebra è un romanzo dalle tinte scure dove
la precisione dei riferimenti storici, la vividezza dei
personaggi (anche i minori, che anzi in alcuni casi
raggiungono tratti indimenticabili), le vicende che si
dipanano in modo mai scontato confermano Michael
Gregorio come uno scrittore decisamente da tenere
d’occhio. In attesa di leggere il loro quarto romanzo,
già uscito in America e Inghilterra, abbiamo raggiunto (telematicamente) Mike e Daniele che hanno accettato volentieri di ripondere alle nostre domande.
42 LIBRI
Nei vostri romanzi l’ambientazione storica è
ben più che una “ambientazione”, una sorta di
carta da parati che faccia da sfondo alla storia; e nel contempo il “noir” è ben più che un
pretesto per raccontare un periodo storico.
Insomma, credo che siate riusciti a raggiungere una fusione quasi perfetta tra romanzo
storico e romanzo noir. Ma voi vi sentite più
scrittori di romanzi noir o di romanzi storici?
Sarebbe facile rispondere tutti e due, ma dobbiamo
dire siamo partiti prima dalla storia. Dal personaggio del filosofo Immanuel Kant. Un Kant molto
insolito, ma anche molto plausibile. E siccome a
tutti e due noi piace il mistero, il giallo, il noir o in
qualunque modo lo vogliamo chiamare quel genere
letterario in cui c’è un morto o più morti e bisogna
scoprire chi li ha ammazzati, abbiamo cominciato
a scrivere di assassini avvenuti in quel periodo storico. L’uomo ha assassinato i propri simili in tutte
le epoche, ma le motivazioni per cui lo fa sono legate ai diversi momenti storici.
Come mai la vostra scelta è caduta sulla
Prussia di inizio ‘800? E da dove vi è nata la
curiosità per la raccolta dell’ambra sulle coste del Baltico?
La scelta della Prussia, cioè, la Germania prima
che diventasse Germania, è stata determinata, per
il nostro primo libro Critica della Ragion Criminale
dal fatto che Kant è nato ed è vissuto in quello scenario. Ma poi nei nostri libri successivi (è uscito ora
in Inghilterra e negli Stati Uniti la quarta indagine
di Hanno Stiffeniis) siamo rimasti in quel periodo e
in quella zona, perché è uno dei momenti i cui il contrasto fra razionale ed irrazionale, comportamento
morale e scelte emotive, intuizioni scientifiche e
nebbie delle superstizioni sono forse più forti. La
Germania di quel momento era uno dei luoghi, non
solo geografici, ma dello spirito, più “gotici” ed interessanti. Per quello che riguarda l’ambra, era una
delle ricchezze che veniva raccolta sulla costa del
mar Baltico. E, come dicevamo del periodo storico
in cui i nostri racconti sono ambientati, l’ambra è
un materiale incredibile con aspetti che vanno dal
campo scientifico, a quello economico (era una fonte
di ricchezza per la nazione) da quello spirituale a
quello superstizioso. Un po’ come i diamanti oggi. O
il petrolio. Solo che il petrolio è meno affascinante e
misterioso nella sua composizione.
Ambientazioni e personaggi realmente esistiti in Luminosa tenebra?
Oh sì, eccome!! E proprio quelli che sembrano più
“inventati”. Se si vuole, quelli più carichi di fantasia.
Due su tutti: Jakob Philipp Spener, uno dei fondatori
della religione Pietista che era la fede più diffusa in
quel periodo. Un modo di sentire Dio come un giudice
feroce che si nasconde dentro di noi. E Daniel Lorenz
Salthenius un altro personaggio nato in Svezia, convertitosi al Pietismo ed arrivato a Konigsberg inseguito dalla fama di aver firmato un patto di sangue con
il Demonio. E che succede nella coltissima Konigsberg
nella cui università insegnavano fiori di menti illuminate? Le chiacchiere sulle pratiche demoniache di
Salthenius riprendono con forza. Questo quando Kant
era un giovane studente e si aggirava per le strade di
quella stessa città. Come dicevamo prima, la Germania era un luogo dove l’altissima capacità di pensiero
logico andava a braccetto con il satanico. Insomma la
tradizione della magia del ’500 così forte in quel paese,
rispunta fuori proprio nel periodo in cui Hanno Stiffeniis indaga su dei delitti feroci.
Voi siete due persone estremamente gentili,
fate un mestiere bello e interessante (entrambi
insegnanti), siete sposati da 30 anni, vivete in
uno dei luoghi più incantevoli d’Italia. Da dove
spuntano dunque queste ambientazioni cupe e
queste storie nerissime?
Forse proprio dall’avere una specie di radar per il
lato oscuro delle cose più normali. Insegnare è un
mestiere interessante, ma spesso incappi in comportamenti che non decifri e non spieghi. Siamo
sposati da 30 anni, ma c’è un momento, un attimo in cui la persona che ti sta vicino ti mostra un
lato che tu non avevi mai visto. E anche in uno dei
luoghi più incantevole di Italia, svolti l’angolo e ti
trovi davanti ad un orrore che deturpa.
Un’altra curiosità: perché avete deciso di
adottare uno pseudonimo che riassumesse i
vostri nomi invece di firmare semplicemente
con i nomi reali?
Un fatto tecnico: il nostro editore inglese riteneva,
secondo noi a ragione, che due nomi distraggono
e confondono il lettore. A parte il fatto che se vuoi
pubblicare più di un libro di quegli autori, temi che
possano poi dividersi. Un nome solo dava più garanzia. Se divisione doveva esserci ce la saremmo vista
fra noi due ed il vincitore si sarebbe firmato Michael Gregorio. Scherziamo. Ma questa è veramente la
ragione. Abbiamo passato una mattina intera, anni
fa prima della pubblicazione di Critica della ragion
Criminale a decidere come ci saremmo chiamati.
Ognuno dei due doveva perdere una parte del suo
nome e mantenerne un’altra. Le variazioni erano
molte, poi il nostro editore ha deciso per Michael
Gregorio
Come organizzate il lavoro? Riuscite a conciliare il lavoro e la vita familiare?
Certo. Le discussioni, anche feroci, sono limitate al
lavoro. Quando abbiamo finito di scrivere un capitolo ed è di soddisfazione di entrambi, anche se abbiamo strillato fino a quel momento, ci ritroviamo davanti ad un piatto di pasta ed un bicchiere di vino.
Quali sono i maestri a cui vi ispirate?
Tutti e due leggiamo molti thrillers e sarebbe difficile dire quali preferiamo fra gli autori. Ce ne sono
tanti. Ma le influenze più profonde, secondo noi,
arrivano dagli amori letterari giovanili. Charles
Dickens per la parte inglese di Michael Gregorio.
Franz Kafka per quella italiana.
Com’è la situazione della narrativa di genere
in Italia secondo voi? Dove sta andando il noir?
In Italia l’interesse per il noir è molto recente e c’è
una tendenza a farne più uno strumento di lettura
politica e sociale piuttosto che una narrazione. E c’è
anche una certa facilità a definire “giallo” o “noir”
qualunque libro che abbia un morto o parli di violenza. Gli anglosassoni invece, forse perché hanno
una tradizione più antica alle spalle, sono molto
attenti ai meccanismi. Non basta un morto o anche
molti morti, Vogliono anche le motivazioni dei personaggi, una trama che regga, espedienti ben oliati
per tenere la tensione tirata fino alla fine. E quello
che ci sorprende sempre della produzione letteraria
gialla in Inghilterra è la varietà dei generi all’interno del genere. Praticamente infiniti.
Voi avete organizzato un festival della letteratura noir a Spoleto. Come reagisce secondo voi il pubblico italiano a questo tipo di
sollecitazioni?
Reagisce molto bene e con grande interesse. Quello
che avevamo fatto era iniziare proprio un discorso
di confronto fra il modo di intendere il thriller in
Inghilterra ed in Italia. Che era anche un modo di
riflettere più in generale sulla violenza e sul male.
Purtroppo sono stati i politici locali a prendere sottogamba la manifestazione. Non gli interessa tanto che una cosa sia fatta bene, ma solo dire che è
stata fatta. Noi l’avevamo presa sul serio.
Dario Goffredo
LIBRI 43
ENRICO REMMERT
La parola è il mattoncino di ogni costruzione narrativa
Scrittore, giornalista free-lance, consulente marketing e comunicazione, autore di canzoni, sceneggiatore: il quarantaquattrenne torinese Enrico
Remmert sorprende per la sua poliedricità. Dopo i
romanzi Rossenotti (1997) e La ballata delle canaglie (2002), e la trilogia dedicata a Bacco, Tabacco
e Venere, curata con Luca Ragagnin, ha da poco
pubblicato, sempre per Marsilio, Strade bianche.
Partiamo da te e dalla tua storia professionale piuttosto movimentata. È questa la ragione per cui trascorrono tanti anni tra l’uscita
di un libro e l’altro? Da Rossenotti a Strade
Bianche son passati 13 anni.
Non credo di essere una mosca bianca. La maggior
parte degli scrittori che conosco si destreggiano in
molti altri ambiti per sopravvivere, esattamente
come me. Quanto ai lunghi periodi tra un libro è
l’altro, il fatto è semplice: vivo per scrivere ma non
scrivo per vivere. Sono fondamentalmente contrario al romanzo ogni dodici mesi che trasforma molti
miei colleghi, anche bravi, in funzionari della scrittura. Io scrivo solo se ho qualcosa che devo davvero
raccontare e, quando capita, cerco di farlo in modo il
più possibile personale, cercando una strada mia e
uno stile mio, cercando di unire profondità e superficie, spessore e leggerezza. Ovvio che un approccio
del genere non aiuta a essere prolifici...
44 LIBRI
Strade Bianche ha un ritmo incalzante. Un
viaggio raccontato a tre voci sulle statali italiane, da Torino a Bari, dove i destini dei tre
protagonisti si mescolano attraverso l’esplosione delle loro voci narranti. È giusto definirlo un road movie dell’anima?
La definizione “un road movie dell’anima” arriva
dalla scheda della casa editrice: a me non è che
faccia impazzire, anche perché “anima” è una di
quelle parole che il troppo uso ha svuotato. Però
sicuramente è una road-story, ovvero una di quelle 6/7 storie archetipe della letteratura. Quando si
parla di viaggio, tutti citano Kerouac o Chatwin,
quasi dimenticando che si parte da lontanissimo:
l’Odissea è il viaggio, ma lo è anche la Divina Commedia oppure Cappuccetto Rosso.
Parliamo della scrittura. Nei tuoi romanzi
c’è sempre un’ondata di parole che travolge
e accompagna i protagonisti, che riempie i
loro pensieri. Questo sembra essere la caratteristica principale dei tuoi libri: la parola
come leva fondamentale della tua scrittura.
Sei d’accordo su questa cosa?
Non vedo come non potrei essere d’accordo. La parola è il mattoncino di qualunque costruzione narrativa, non ci sono alternative. In questo senso sono
un perfezionista, riscrivo molto, cerco un risultato il
più possibile nitido, pulito, ma anche musicale. In-
somma, un lavoraccio, ma per me è indispensabile.
Il viaggio può avere molti significati, il viaggio come “ricerca” o “ritorno” è un tòpos letterario e culturale. In Strade bianche la strada da percorrere diventa per i protagonisti
un occasione per cercarsi o smarrirsi.
Mi piaceva esplorare quella sorta di latenza mentale che il viaggio provoca, il vedere le cose da una
prospettiva diversa. Parlo del viaggio non come
mero spostamento da qui a lì, ma come attraversamento di uno spazio, non necessariamente fisico.
Insomma, il contrario di quella strana frenesia occidentale, per cui sembra che si viva solo per scappare via. Da qui nascono certe riflessioni, come quella
di Vittorio quando dice: “Nella mia visione, le agenzie di viaggio sono luoghi di smistamento emotivo.
E leggo in questa frenesia di viaggiare dei miei coetanei non curiosità per il mondo, ma un tentativo
di esportare il proprio disagio: cambiare posto all’insoddisfazione mettendola in un altro scenario, chiedere tutto in una volta alla distanza quello che il
tempo non potrebbe concedere se non a poco a poco”.
I tre protagonisti attraversano l’Italia da nord
a sud. Il viaggio si snoda da Torino a Bari. Il
legame con la tua città Torino è fortissimo.
C’è fermento, un grande recupero urbanistico, sociale, artistico. Leggi qualche similitudine con la Puglia di questi ultimi anni?
Torino l’ho descritta molto nei miei due precedenti
romanzi: Rossenotti e La Ballata delle canaglie. È
una città che amo, un “luogo” in contrapposizione
a certe città che sono dei “non-luoghi”. Abito in San
Salvario, vicino a Piazza Madama Cristina, ed è
un quartiere in cui mi sento a mio agio, dove i negozianti li conosci per nome e aleggia su tutto la
dimensione del borgo. Non conosco quanto vorrei
la Puglia, tranne i posti turistici ovviamente, il
Gargano, il Salento sia a nord che a sud. Ho viaggiato molto in Puglia, è una regione che amo molto
e infatti una delle scene principali del libro è ambientata nelle saline di Santa Margherita di Savoia, ma parlo anche di Manfredonia e di Barletta.
Però lo ripeto: vorrei conoscerla molto più a fondo.
Perciò non mi sento di dare giudizi: sicuramente
Lecce mi è sembrata un bel posto dove vivere, ma
lo dico come persona di passaggio.
Tu lavori anche per il cinema, il teatro e la
televisione. Come cambia, se cambia, il tuo
modo di scrivere rispetto a ciascuno di essi?
Totalmente. Il romanzo richiede energie non confrontabili con nient’altro ed è uno sforzo totalmente
individuale. Cinema e tv in genere sono scritte a più
mani, e poi il vero lavoro è soprattutto un’estenuante “trattativa diplomatica” tra produttore, regista e
autori: io lo trovo logorante, anche perché non mi
son mai seduto a un tavolo di questo genere senza
che fosse presente almeno un minchione, che pur
non capendo un beneamato cazzo, purtroppo in
genere aveva voce in capitolo. Comunque, dopo un
periodo intenso, sto lavorando poco nel settore: ho
solo una sceneggiatura fra le mani, scritta insieme
a Gero Giglio e al regista tunisino Hedy Krissane e,
ovviamente ambientata a Torino.
Scrivere si dice che sia un esercizio solitario.
Come scrittore hai un rapporto diretto coi
tuoi lettori? Come è cambiato, se è cambiato,
il tuo pubblico in questi anni?
Sono facile da contattare: sul mio sito c’è la mail e
sono anche su facebook. Questo permette un contatto diretto con un pubblico molto vasto, che dice
cose diversissime e ogni volta mi restituisce una
consapevolezza “proustiana”: e cioè che la vera magia dei libri consiste nel fatto che ogni lettore, in
realtà, legge se stesso.
Bella la copertina di Strade Bianche. Negli ultimi anni nell’editoria si legge un tentativo di
ripensare l’oggetto libro. Qual è il tuo rapporto tra il contenuto del libro e la sua copertina?
Scarso. Però la copertina è importante, e quella di
Rossenotti era talmente brutta che Augias, nel recensirlo, lo segnalò. In quella della Ballata c’era la
citazione di un disco di Ben Harper, ma non credo sia
venuta benissimo. Questa di Strade bianche, invece,
mi piace molto, anche se la mia agente dice che è orribile. Insomma: siamo nel territorio dei gusti.
Sul tuo sito c’è il book trailer di Strade bianche. Pensi che possa portarti più lettori?
Non è realmente il booktrailer, che invece stiamo
preparando. Non so quanto servano i booktrailer:
forse a qualcosina, ma vuoi mettere il vecchio sano
tam tam tra lettori? Quello è più potente di qualsiasi altra cosa.
Un’ultima domanda. Parliamo di musica. Sei
coautore dei testi del Motel Connection e nel
tuo primo romanzo Rossenotti racconti della
vita notturna nei club della tua città, Torino.
Che rapporto hai con la musica? Cosa ascolti? Cosa ti piace?
Quello è un esempio di com’è strana la vita. Molti
anni fa andavo a vedere i concerti dei Subsonica,
oggi scrivo canzoni gomito a gomito con Samuel, il
loro cantante. E poi c’è dj Pisti, uno con cui puoi parlare di Fenoglio o di Norman Cook, di Herzog o di
Massimo Campigli, e sei sicuro che ha sempre qualcosa di interessante da dire. In generale questa è la
vera soddisfazione nell’aver scritto dei libri che sono
piaciuti: per esempio, una volta andavo alle mostre
di Daniele Galliano, per me uno dei vertici della
pittura contemporanea, e oggi stiamo mettendo in
piedi un progetto insieme. Questo sì che non ha
prezzo... Comunque, tornando alla musica, ascolto
principalmente tre cose: rock, rock e poi rock.
Gabriella Morelli
LIBRI 45
EVA
CLESIS
Uomini e donne a confronto
Eva Clesis, la trentenne scrittrice barese, da un
paio di anni trasferitasi a Roma per lavoro, è tra
le figure più eccentriche del panorama letterario
italiano. Chi assiste alle sue letture pubbliche di
certo rimarrà stupito dal suo modo di porsi sempre in bilico tra maledettismo e smodata ironia.
Dopo due romanzi, A cena con Lolita e Guardrail, la Clesis abbandona la finzione per dedicarsi alla scrittura di un manuale divertente e
scanzonato, 101 motivi per cui le donne ragionano con il cervello e gli uomini con il pisello, edito
da Newton Compton, con l’obiettivo di sviscerare
cavillosamente uno dei più condivisi ed abusati
luoghi comuni che caratterizzano le relazioni tra
uomini e donne.
Perché dopo la pubblicazione di due romanzi hai deciso di scrivere questo manuale?
Ho scritto i 101 motivi per cui le donne ragionano
con il cervello e gli uomini con il pisello perché
la Newton Compton me l’ha proposto come un
progetto su misura ed è il primo libro che accetto
di fare. L’ho trovata un’esperienza gratificante.
Altre proposte da parte di altre case editrici,
vere e proprie commissioni anche da ghostwriter le ho scartate, anche rimettendoci, perché
l’argomento non mi interessava minimamente,
ergo non mi sarei divertita a scrivere. Invece con
questo libro è stato come accettare una piccola
46 LIBRI
sfida: scrivere di uomini e donne senza cercare
di saltare i luoghi comuni, ma affrontandoli uno
per uno con ironia e citazioni per lo più cinematografiche e letterarie e uno stile che fosse brillante e non banale.
Da quali fonti hai attinto per arrivare a
portare alla luce 101 motivi?
Oltre che da film divisi in due macrocategorie
(demenziali e romantici), ho raccolto una serie
di studi sul comportamento sociale e non solo
sessuale di uomini e donne, che nel libro sono
elencati. Si tratta di studi di ricerca, in genere
da parte di Università e Associazioni mediche,
reali al cento per cento, anche se a vedere gli
argomenti (perché gli uomini s’impappinano di
fronte a una bella donna?) io per prima avrei
detto che fossero stati fatti per scherzo. Inoltre
ci sono spunti presi da canzoni, da opere liriche e
persino da parabole bibliche! Insomma, per trovare questi 101 motivi non mi sono fatta mancare niente.
Qual è un capitolo del tuo libro che consigli
assolutamente ad un uomo e quale ad una
donna e perché?
Occorre sapere che il bello del libro è che i motivi sono gli stessi, solo declinati al maschile e al
femminile. Ci sono insomma 101 motivi, divisi in
quattro categorie, per cui le donne sono cervello-
tiche e gli uomini sessuomani,
o almeno si parte da questa
premessa. Per gli uomini, consiglio di leggersi il motivo per
cui alle donne piace l’uomo
mascalzone, dove è rivisitata
la parabola del figliol prodigo,
mentre per le donne consiglio
la successiva tecnica Teorema,
punti 36 e 37 del libro. Li consiglio perché partono da luoghi
comuni molto ricorrenti. Ma
anche i tre modi che hanno gli
uomini e le donne di “viverla
come in un film” sono molto
divertenti.
Qual è la reazione più curiosa ricevuta da qualche
lettore dopo la pubblicazione del volume?
La più curiosa è venuta da un
signore molto simpatico, che
ha letto il libro “rubandolo”
alla moglie. Mi ha detto che
ne capisco io molto di più di
parecchie donne sposate, il che
mi fa ridere, dato che non sono
sposata e per il momento non
ho alcuna intenzione di farlo.
Progetti futuri?
Il mio prossimo romanzo si
svolge in un giorno, coinvolge
adulti e adolescenti ed è tutto
fuorché un romanzo di formazione. Sarà pubblicato agli inizi del prossimo anno proprio
dalla Newton Compton per la
collana di Nuova Narrativa e
ne sono molto contenta, anche
perché lavoro bene con loro.
Attualmente invece sto lavorando a un romanzo importante per me e “grosso”, nel senso
di voluminoso. Quando pubblicai Guardrail rimasi stupita
dalle reazioni di molti lettori
che concordavano sul fatto che
il libro dovesse essere più lungo, e ora è giunto il momento
di cimentarmi in un romanzo
complesso, che ha già richiesto
un anno di lavoro e molta documentazione. Un’altra storia
di piccola provincia, ma per
scaramanzia non dico di più.
Rossano Astremo
ROSSANO ASTREMO
101 storie sulla Puglia che non ti hanno mai
raccontato
Newton Compton Editori
Quando dici che vieni dalla Puglia la risposta tipica è: “Beato
te”! Anche se io ancora non ho capito appieno per cosa dovrei
gioire e festeggiare, il più delle volte incasso con un sorriso
per evitare di fare polemica e vado avanti. La Puglia è,
come tutte le regioni del sud, una realtà complessa, ricca di
contraddizioni. Ma è una regione viva e curiosa. Dopo 101
cose da fare in Puglia almeno una volta nella vita lo scrittore
e giornalista tarantino Rossano Astremo cura, sempre per
Newton Compton Editori, 101 storie sulla Puglia che non ti
hanno mai raccontato. Storie che delineano una Puglia diversa
da quella che è ormai su tutti i giornali per i suoi “lati positivi”,
per il suo laboratorio politico. Difficile fare un censimento degli
aneddoti e delle esperienze da raccontare dalla notte dei tempi
sino ai giorni nostri. Forse qualcosa manca (qualche salentino
si è lamentato per l’assenza di Rina Durante) ma come puoi
sintetizzare una regione (che qualcuno vorrebbe trasformare
in due) in solo 101 storie? Praticamente impossibile. Il merito
di Rossano Astremo è quello di aver selezionato e alternato
bene queste storie. “L’idea, nella scelta delle 101 storie, è
quella di rappresentare l’immaginario vario e stratificato
della Puglia, alternando vicende curiose e piacevoli e racconti
meno accomodanti, a volte persino dolenti. L’obiettivo è
quello di donare ai lettori pagine di intrattenimento e di
riflessione”, precisa nell’introduzione. E il libro centra
l’obiettivo raccontando la nascita delle “pettole”, il mistero
della costruzione del campanile di Soleto, il rifugio pugliese
dopo il gran rifiuto di Celestino V, la battaglia di Canne con il
capolavoro di Annibale, la scapece gallipolina, la nascita della
ciliegia ferrovia, l’insegnamento di Don Tonino Bello, l’arte di
Ugo Tapparini, la vita e l’omicidio di Giuse Dimitri, inventore
dell’omino della Bialetti, le vittorie sanremesi di Nicola Di Bari,
la tragica morte dell’attaccante del Taranto Erasmo Iacovone e
il Foggia spumeggiante di Zeman, la poesia di Salvatore Toma,
Claudia Ruggeri e Antonio Toma, la pornodiva Rossan Doll
e le gag di Toti e Tata. L’ultima storia è dedicata al collega
giornalista e amico Michele Frascaro, fondatore del giornale
d’inchiesta Impaziente e improvvisamente a 37 anni, “un atto
dovuto nei confronti di un uomo che facendo della passione il
suo unico mestiere ha reso migliore la sua Puglia”. (pila)
47
GILLES DEL PAPPAS
Il bacio del gronco
Edizioni Controluce
Nel 1998 Gilles Del Pappas
dava alle stampe per i tipi delle
Editions Jigal il romanzo intitolato Le Baiser du congre, oggi
tradotto per la prima volta in
Italia e pubblicato dalle Edizioni Controluce, casa editrice
che con questo titolo conferma
la sua vocazione di pubblicare
una scelta del meglio che offre
il mercato della recente letteratura internazionale, con una
finestra aperta sulla narrativa
di casa nostra.
Il bacio del gronco costituisce
un caso particolare, una ghiottoneria per gli appassionati del
genere noir e non solo. Tanto
per cominciare questo titolo
inaugura il ciclo delle avventure di Costantin il greco, personaggio che si muove a suo agio
tra il porto e la città di Marsiglia, nella apparente tranquillità datagli dalla sua piccola
impresa di pesca. Tanto è vero
che il romanzo si apre con una
scena sobria che invita alla
quiete: dopo avere pescato diverse ore, quando l’acqua è immobile come un tappeto d’olio,
Costantin e il suo socio, il più
anziano e saggio Féfé, stanno
per gustare un aperitivo a poche centinaia di metri dalla costa, per suggellare il momento
di relax. Ciò che sta per accadere ci metterà in guardia e ci
farà capire fin da subito che le
storie che seguiranno sono meritevoli di una lettura che accelera l’immissione di adrenalina
nel nostro organismo.
48 LIBRI
La maestria dei dialoghi e la
rapidità di esecuzione hanno reso Gilles Del Pappas un
maestro del genere, il ‘polar’,
ovvero sia il noir-thriller che
vede tra i protagonisti poliziotti pronti a tutto e dalla fedina
penale non troppo limpida.
Quello che il lettore potrà augurarsi una volta chiuso il volume è che anche i successivi
capitoli di questo viaggio in
una Marsiglia così affascinante
e pericolosa vengano tradotti e
pubblicati nella nostra lingua.
Luciano Pagano
LUCIANO PAGANO
È tutto normale
Lupo editore
“Fuori dall’utero ogni uomo è
perso“, si legge sulla quarta di
È tutto normale (Lupo Editore, 2010) di Luciano Pagano.
L’idea di base è che una volta
nati siamo in balia di tanta
indeterminatezza che alla fine
soggiace a un destino nebuloso
e poco scrutabile. Concetto rimarcato dalla splendida cover
di Nicoletta Coccoli intitolata
Evidently Goldfish: una bambina che porta al guinzaglio
un pesce rosso in un mondo di
sogno. Ma entriamo nel dettaglio della vicenda.
Non ci sarebbe nulla di strano
nel raccontare di due genitori
che attendono con trepidazione il ritorno nella loro villa in
Salento del loro figlio unico,
neolaureato in Architettura,
trasferitosi a Roma appena
compiuti i diciotto anni. Tutto
sarebbe normale, se non fosse
che il giovane Marco Donini,
rampollo di una famiglia che
possiede un’azienda casearia
che distribuisce i suoi prodotti
in tutto il mondo, sta tornando a casa insieme a una persona il cui sesso non è stato
specificato, e il cui nome, Kris,
non lascia a intendere nulla.
Tutto sarebbe normale se non
fosse che ad attendere Marco
non ci sono il padre e la madre del ragazzo, bensì due padri, Carlo Donini e Ludovico
Carrisi. La descrizione della
scena iniziale è l’impalcatura su cui verranno innestati i
flash-back di una vita passata,
quella di Carlo e di sua moglie
Eleonora. I due giovani sposi,
nel Salento degli anni ottanta, vivono spensierati e felici
una vita fatta di gite al mare
e pomeriggi trascorsi al circolo del tennis cittadino oppure
a ascoltare musica a casa del
loro migliore amico, Ludovico.
Proprio Ludovico diventerà
l’amante e poi il compagno di
Carlo, con il quale crescerà
il figlio Marco, una volta che
Eleonora scomparirà per via
di una malattia. Sono passati
quasi trenta anni. Carlo oggi
insegna Antropologia all’Università, Ludovico Carrisi è un
notaio, i due vivono insieme.
Eleonora si fa sentire pur nella sua completa assenza. Il romanzo si svolge in una giornata, riportandoci indietro a poco
meno di una trentina d’anni
fa, nel periodo in cui Carlo e
Eleonora si sono conosciuti
e sposati, fino alla nascita di
Marco.
È tutto normale è un testo maturo, che si caratterizza per
una scrittura misurata e vigile, veramente imperdibile!
Stefano Donno
CARLO
MCCORMICK, MARC
& SARA SCHILLER,
ETHEL SENO
Trespass. A History
of Uncommissioned
Urban Art
Taschen
Keith Haring, Jean-Michel Basquiat, Spencer Tunick, Jean
Tinguely, Jenny Holzer, Os
Gemeos, Gordon Matta-Clark,
Barry McGee, Shepard Fairey, Blu, Billboard Liberation
Front, Guerrilla Girls sono i
GABRIELLA GENISI
La circonferenza delle
arance
Sonzogno
La commissaria Lolita Lobosco
è una bella tipa. Generosa, sensuale, intelligente. Non ha l’ar-
nomi più importanti (insieme
a quello dell’inglese Banksy,
chiamato a firmare la prefazione) del volumone che la
Taschen dedica alla street art.
Un libro illustrato a cura di un
team formato dal critico Carlo
McCormick, Marc e Sara Schiller (fondatori a New York del
Wooster Collective) e di Ethel
Seno, editor della casa editrice tedesca. L’elenco completo
degli artisti citati supera i 150,
ma l’aspetto più interessante
è dato, più che dalle immagini inedite provenienti dagli
archivi degli artisti (Haring
e Basquiat, ma non solo), dai
contributi di Anne Pasternak
(direttore della Fondazione
Creative Time) e dell’avvocato
Tony Serra, specialista in diritti civili. Sì, perché la storia
dell’arte urbana, oggi sicuramente accettata in più larga
misura rispetto al passato, terreno che ha prodotto fenomeni
mediatici (Bansky e Thierry
Guetta, superstar chiamate a
curare le copertine dei dischi
dei Blur e di Madonna), transita necessariamente per il varco
della questione dei muri e dei
mezzi pubblici sporcati: denunce per vandalismo, contromisure istituzionali, vuoti creati
dal degrado urbano, sfide alla
legalità, bilanci comunali che
ogni anno devono destinare cifre consistenti per pulire strade e metro. Luoghi pubblici e
illegalità. Provocazione e libertà d’espressione in quelle che
sono a tutti gli effetti gallerie
a cielo aperto dove non si paga
per entrare, non si è costretti dagli sguardi indignati di
qualche campione del presenzialismo radical-chic a sentirsi
delle merdine che di arte non
capiscono niente. Dalle periferie di Philadelphia fine anni ’60
agli esiti più maturi della New
York del decennio ’80 (l’ascesa
incontrastata di Haring, che
nel 1989 viene chiamato in Italia da Elio Fiorucci per decorare le pareti del punto vendita di
Galleria Passarella a Milano),
l’epopea dell’arte non commissionata è legata a filo doppio
con la controcultura e i suoi testimoni più ferventi.
guzia di Montalbano (che nel
libro compare brevemente come
special guest), né la goffaggine
irresistibile dell’avvocato Vincenzo Malinconico di De Silva,
ma con la sua passione per le
arance e le sue tette quinta misura, la Loli, impegnata a scagionare da un’accusa infamante
una vecchia fiamma giovanile,
affronta le duecentoquindici
pagine di questo libro difendendosi con un certo stile. Gabriella
Genisi (già nota per Il pesce rosso non abita più qui, per La Fenice, e i due romanzi usciti per
Manni Editore Come quando
fuori piove e Fino a quando le
stelle) è brava nel costruire un
giallo non complicato, ma tutto
sommato avvincente, e nel definire una protagonista leggera
ma complessa, con debolezze di
donna e caparbietà da commissario. Sapere che la ritroveremo
in una storia successiva fa stare
più sereni. La sola perplessità
sta nella scrittura, e nell’uso di
un linguaggio fin troppo eterogeneo. La storia è ambientata a
Bari, e frequentata per lo più da
baresi; e sì che la commissaria
ha nelle vene sangue siculo (da
parte di madre) e napoletano
(da parte di padre), ma forse
quest’assenza di inflessioni indigene e incursioni dialettali ha
tolto un po’ di piacevolezza alla
lettura.
Lori Albanese
Nino G. D’Attis
LIBRI 49
PEPPE RUGGIERO
L’ultima cena
Edizioni Ambiente
con i beni di Liberaterra, prodotti nelle terre confiscate alla
mafia.
Pierpaolo Lala
MAURO EVANGELISTI
Johnny Nuovo
Carta Canta Editore
Dopo aver letto questo libro vi
passerà letteralmente la fame.
E non perché si tratti di un
thriller alla Stephen King o di
un romanzo splatter ma perché il giornalista napoletano
Peppe Ruggiero delinea, con il
suo coraggioso L’ultima cena.
A tavola con i boss un quadro
decisamente allarmante della
situazione
enogastronomica
italiana. Attraverso una dettagliata inchiesta l’autore racconta come i boss della camorra controllino la produzione e
la distribuzione di moltissime
leccornie italiane, quelle che
ci hanno resi famosi in tutto il
mondo. Dalla tazzina di caffè
alla mozzarella di bufala, dalla pizza alla carne di cavallo,
dalla spigola ai frutti di mare,
molti prodotti che finiscono
sulle nostre tavole sono manipolati dalla criminalità organizzata attraverso il pizzo,
la coltivazione in zone contaminate, l’uso di anabolizzanti,
la farina tagliata male. Una
denuncia forte che Ruggiero,
già autore del fortunato documentario Biùtiful cauntri, argomenta con dati e dichiarazioni. Ma c’è una speranza? “C’è
un’Italia che combatte contro
le mafie, quotidianamente e in
silenzio”, precisa Ruggiero, che
in chiusura del libro propone
una serie di ricette realizzate
50 LIBRI
Dopo la scomparsa della madre, uccisa dal marito perché
adultera, e la fuga della moglie,
annoiata da una vita troppo
regolare, K decide di cambiare il corso della sua esistenza.
Vagando da uno stato all’altro,
lontano da casa sua, K comincia a nutrire un terrificante
desiderio: plasmare la mente
di un essere umano. Come un
macabro Grande fratello, per
18 anni K osserva in modo maniacale le reazioni del neonato
che ha rapito e che tiene rinchiuso in un bunker di cemento
grande quanto un campo di calcio. Un ambiente lontano dalle
influenze esterne, il tutto per
proteggerlo. Prigione e libertà,
giusto e sbagliato. Tutto si confonde nella mente del lettore
che si interroga costantemente
su gesti e pensieri dei personaggi. La storia è scandita da
ritmi serrati, da frasi brevi o
spezzate da molte virgole che
tengono alta la tensione nel
lettore chiamato non solo a seguire le fila delle storie che si
intrecciano, ma anche a passare da un piano temporale all’altro. Passato, presente e futuro.
Maria Grazia Piemontese
MASSIMO DEL PAPA
Happy (l’incredibile
avventure di Keith
Richards)
Meridiano Zero
Non ci sono più le rock star di
una volta, molte sono morte
vittime di vite troppo veloci,
altre si sono imbolzite dietro
a una vita fatta di vizi, soldi,
campando di rendita e lasciando affievolire la fiamma.
Quella stessa fiamma che ancora oggi brucia negli occhi del
grande del rock di tutti i tempi:
Keith Richards.
Un miracolo musicale quanto
medico, un uomo che è sopravvissuto a se stesso, che ha attraversato le decadi indicandoci la strada con il manico della
sua chitarra, un musicista capace di rivoluzionare il mondo
del rock a suon di riff. Una vita
di per sé romanzesca, fatta di
battute epocali, cadute agli inferi e risurrezioni, raccontata
con ritmo e vitalità da Massimo
Del Papa. Molti hanno scritto
di Keith ma la sua storia infinita è come una di quelle favole che da piccolo vorresti farti
raccontare ogni santo giorno
e l’autore la racconta con un
andamento musicale con la
capacità di chi è padrone della
materia e conscio della proprie
passioni.
Osvaldo Piliego
LORIANO MACCHIAVELLI
Strage
Einaudi Editore
Avevo appena sei anni quando a settembre del
1980 andai a Bologna con i miei genitori. Non
appartiene ai miei ricordi diretti ma ai racconti
dei miei quello squarcio nel muro della sala d’attesa della stazione, come una bocca spalancata a
urlare il proprio dolore e il proprio sgomento al
mondo intero. Appartiene invece ai miei ricordi
di studente universitario quello stesso squarcio,
quella bocca ancora spalancata anche se tappata
da una lastra di vetro, quell’urlo diventato silenzioso, nel pudore di una città, Bologna, che delle
proprie tragedie ha sempre cercato di fare tesoro
e memento per le generazioni future.
In un modo o nell’altro la strage di Bologna, l’atto terroristico più sanguinoso della storia della
repubblica italiana, è impresso nella memoria,
diretta o inderetta, di ciascuno di noi. Un po’
come l’11 settembre, è un momento che ha cambiato il nostro modo di pensare.
Viene ripubblicato quest’anno un romanzo la cui
storia editoriale ben si inserisce in quel clima di
mistero, depistaggi, intimidazioni, processi farsa
che hanno accompagnato la vicenda di Bologna fin
da subito e che la accompagnano ancora oggi, visto che non si conoscono i nomi dei reali mandanti
della strage e che anche su quelli degli esecutori i
dubbi sono ancora tanti. Strage uscì in libreria nel
1990 e vi rimase solo una settimana. Uno degli
imputati nel processo denunciò Macchiavelli per
diffamazione e tutte le copie del romanzo furono ritirate dal commercio. Loriano Macchiavelli,
che aveva firmato il libro con uno pseudonimo
venne assolto e oggi, nel trentesimo anniversario
dell’esplosione che uccise 85 persone, il romanzo
torna in libreria, praticamente inedito.
Macchiavelli, in questo romanzo che è più una
spy story che un giallo a cui il maestro bolognese
ci ha abituati, traccia una sua personale e romanzata storia di quello che è successo quel giorno in cui tutto saltò in aria. Macchiavelli scrive
qui il suo personale “romanzo criminale” fatto di
mafia, servizi deviati, logge massoniche, eversione di destra, spionaggio industriale a cui ormai
siamo stati abituati da scrittori come Giancarlo
De Cataldo, Giuseppe Genna, Simone Sarasso
e tantissimi altri e disegna scenari che, a parte
alcune trovate forse un po’ troppo cinematografiche, sono tutt’altro che inverosimili.
Certo, si tratta di un romanzo e non dobbiamo
cadere nell’errore fatto da chi ne ha denunciato vent’anni fa l’autore pensando che il colonnello, e poi generale, dalla Vita sia in realtà il
generale Dalla Chiesa, o che il dottor Rigolari,
banchiere decisamente poco pulito, sia Michele
Sindona. e nemmeno che lo Zombi, ministro e
faccendiere dalle frequentazioni un po’ ambigue
sia in qualche modo da riferire ad Andreotti. o,
ancora, che tale Voratore, detto Vora e Francesca Dirusso siano in qualche modo riconducibili
a Giusva Fioravanti e a Francesca Mambro, condannati con sentenza definitiva come gli esecutori della strage. O forse, se vogliamo, invece è
proprio così, ma è ovvio che se un romanzo parla
di eventi realmente accaduti, nella realtà dovrà
pur pescare. Ma il finale del romanzo non lascia
dubbi: è opera della fantasia dell’autore, e questo distingue un’inchiesta giornalistica da un romanzo, per quanto documentato esso sia.
Forse questo non è il Macchiavelli migliore, foprse questo non il migliore romanzo del genere
pubblicato in Italia, ma sicuramente è un romanzo importante e il fatto che oggi sia possibile
finalmente leggerlo è altrettanto importante.
Dario Goffredo
51
EDIZIONI AMBIENTE
Edizioni Ambiente è uno di quei mondi veri che
avverti come “necessari”, quando percorri il tuo
paese e inciampi ovunque in una sgradevole
assuefazione alla catastrofe. La cappa di remissività che ci sovrasta è soporifera: invade i cataloghi delle case che consideravi più resistenti,
gli scaffali della libreria amica che sapevi essere
l’unica invulnerabile, i tavoli da studio di compagni una volta irremovibili, ora “variabili” anche
loro. Nell’aria fasulla generale, una realtà capace
di darti la sveglia è ossigeno autentico e ha un
che di confortante, anche se fa libri tutt’altro che
rasserenanti. L’inquietudine che la muove, è per
missione concentrata sullo spazio umano naturale, preda delle nostre piccole/grandi disattenzioni
quotidiane, ma anche delle altrui sin troppo interessate “accuratezze”. Incontrando entrambe
nella lettura di saggi e narrativa, l’invito urlato
è alla riconquista collettiva di una dimensione vitale che sia condivisa e custodita con cura, e reca
con sé il nostalgico sapore di quel “riprendiamoci
la strada” di qualche tempo fa. Ce ne offrono un
assaggio le risposte del direttore editoriale Marco
Moro (MM) e del curatore di VerdeNero Alberto
Ibba (AI), che insieme alla responsabile dell’ufficio stampa Maddalena Cazzaniga hanno avuto
disponibilità infinita nei confronti miei e delle mie
domande.
Avete dato avvio alla vostra attività editoriale nel 1993, quando il concetto di impegno ambientale era ancora “limitato” alla
pulizia delle spiagge malcurate, o alla salvaguardia delle specie animali a rischio. Le
vostre pubblicazioni ponevano attenzione,
già allora, alla urgenza di un’informazione
52 LIBRI
che indagasse tutti i contesti coinvolti nel
rapporto comunità umana/dimensione naturale, in primis quello economico. Come
sono stati gli inizi di questo sentimento differente?
(MM) Complicati ed entusiasmanti. Complicati perché si trattava di far conoscere contemporaneamente un marchio editoriale nuovo ed un
tema che stava prendendo forma in quello stesso
momento, tema che sin dall’inizio abbiamo affrontato in modo ampio, cercando di rivolgerci a
tutti i soggetti che in diverso modo sono toccati
dal tema “ambiente”. Quindi non solo il mondo
dell’ambientalismo, ma anche le imprese, i settori
professionali e produttivi che con questa tematica
si confrontano quotidianamente, senza dimenticare enti e amministrazioni locali e centrali,
oltre all’università. Una molteplicità di soggetti
che rispecchia la quantità di saperi, competenze,
campi di attività e di ricerca, che attorno alla parola “ambiente” si coagulano e si intrecciano. Entusiasmanti perché ci rendevamo conto di avere
di fronte un ambito di lavoro veramente enorme e
destinato ad acquisire via via maggior peso negli
anni. C’era la consapevolezza di esserci collocati
su quello che sarebbe diventato gradualmente “il”
tema, centrale per la cultura, l’economia e la società. La parola attorno a cui tutto avrebbe iniziato necessariamente a ruotare.
Che ruolo hanno avuto, ai vostri esordi, le
associazioni ecologiste presenti in Italia?
Si è creata da subito una comunità di sostegno, un “fare rete” che provasse ad attuare, attraverso la lettura d’impegno, anche
un’evoluzione socio-culturale fatta di reali
coerenze quotidiane?
(MM) La collaborazione con le associazioni ambientaliste risale addirittura a prima della nascita di Edizioni Ambiente ed è una aspetto che
ha caratterizzato fortemente la nostra attività
editoriale. Tuttora alcuni dei nostri titoli più autorevoli nascono da questa collaborazione, in particolare con Legambiente e WWF Italia. L’intento
comune era evidentemente quello di far crescere
la sensibilità del pubblico rispetto ai temi dell’ambiente, qualcosa che si traducesse in un effettivo
cambiamento a livello socio culturale. La capacità
di “fare rete”, di veicolare verso la base di soci e
simpatizzanti i contenuti che venivano prodotti è
invece ancora un “lavoro n corso”, anche se, soprattutto con Legambiente, si sono raggiunti buoni risultati. Di maggiore efficacia è stata a volte la
collaborazione con associazioni più piccole, che si
rivolgono ad un settore di pubblico molto identificato, come nel caso di ANAB, l’associazione nazionale per l’architettura bioecologica, con cui sono
state attuate iniziative editoriali di grande successo. L’impatto sulla cultura dei professionisti è
stato senza dubbio più “palpabile” e si traduce in
un effettivo cambiamento, nel consolidamento di
quelle che definisci “reali coerenze quotidiane”.
Uno dei vostri progetti, VerdeNero, è articolato in tre collane: Noir, Romanzi, Inchieste.
La prima propone storie - riprese dai fatti
denunciati nel Rapporto Ecomafia - dalla
struttura piuttosto elaborata, che ben rende la sofisticatezza di vicende animate da
deviazioni criminal-politiche e scandali ambientali. Perché trasportare la realtà nella
forma del noir ecologista? La denuncia è
percepita con più efficacia?
(AI) Siamo giunti alla scelta di genere quasi spontaneamente. Già lo svolgimento delle inchieste
raccolte nel Rapporto Ecomafia di Legambiente
alludevano inconsapevolmente al noir. Inoltre
una buona parte degli autori che avevo in mente
di coinvolgere e che sapevo essere sensibili alle
tematiche ambientali, erano noiristi. Il noir da
sempre è il genere più adatto a disvelare i meccanismi del potere.
Si può parlare di “narrativa critica militante”?
(AI) Mi pare eccessivo, nel senso che parlerei più
volentieri di autori che si sono messi al servizio
di una denuncia condivisa. La narrativa militante mi richiama ad un livello di partecipazione intellettuale che in questo momento non scorgo nel
nostro paese.
Come hanno reagito ai vostri inviti gli
scrittori contattati? Qualcuno ha rifiutato,
timoroso dei possibili esiti di una presa di
posizione – un autentico atto politico - così
evidente?
(AI) Devo dire che hanno tendenzialmente reagito
tutti bene, tanto che oggi sono gli autori a proporci le loro idee. I pochi che hanno declinato l’invito
non l’hanno fatto per motivi politici, fosse altro
perché scegliamo esattamente chi non dovrebbe
avere di questi problemi. Di solito si tratta di
impegni con altre case editrici, o più banalmente
problemi di budget.
Siete comunque una casa editrice tematica,
il che può comportare il “rischio della nicchia”. Avete scelto di collaborare con Einaudi anche per sciogliere questo nodo?
(AI) La questione paradossalmente è inversa.
Non siamo noi che collaboriamo con Einaudi, ma
è la casa editrice torinese che ha chiesto a noi se
poteva riprodurre la collana VerdeNero nei Tascabili. Quando siamo riusciti a strappare il nostro
marchio in quarta di copertina, ho capito che era
un’operazione senza precedenti e per noi una vetrina promozionale importante.
(MM) La nostra strategia è stata quella di rivolgerci a quante più “nicchie” di pubblico possibile.
Per arrivare negli ultimi anni, consapevoli della
maggiore penetrazione del tema nella quotidianità, ad accettare la sfida del “grande pubblico”,
elaborando diverse linee di prodotto mirate. Le
collane Verdenero e la nuova serie dei Tascabili
dell’Ambiente vanno in questa direzione. Evidentemente la cosa non è passata inosservata e il
rapporto con Einaudi ne è una prova. Di fatto, la
riproposta di alcuni nostri titoli da parte di una
casa editrice così importante non fa che favorire
la maggiore percezione del tema in fasce di pubblico che per noi sarebbero difficili da raggiungere. Un “effetto megafono” che non può farci che
bene. Di “rimbalzo”, ci aiuta ad attenuare il rischio dell’effetto nicchia.
Per concludere, tutte le vostre pubblicazioni sono dei quadri reali spiazzanti, capaci di
veicolare non solo delle informazioni accuratissime, ma anche una dose insostenibile
di indignazione. Una vostra novità “portatrice di rabbia sana”?
(MM) Un libro che spiega nel dettaglio cosa si può
fare per uscire da un “business as usual” che sta
spingendo le società e le economie verso scenari
imprevedibile e preoccupanti: “Piano B 4.0”, di
Lester Brown. Se mentre lo si legge si pensa a
quanto accade nel nostro paese, provare una sana
indignazione è il minimo.
Stefania Ricchiuto
LIBRI 53
CINEMA TEATRO ARTE
AURELIANO AMADEI
Venti sigarette è il film d’esordio del regista
sopravvissuto alla strage di Nassiriya
L’esordio cinematografico di Aureliano Amadei
non è passato inosservato. Vincitore di controcampo italiano alla Mostra del cinema di Venezia
ha provocato, sin dalla sua prima visione (e prima
ancora dell’uscita) lacrime, applausi e molte polemiche. Il regista è infatti l’unico civile soprav54 cinema teatro arte
vissuto alla strage di Nassirya nel 2003 e da anni
racconta la sua tragedia prima con un libro, poi
a teatro, infine, con questo film. Ma Amadei era
in Iraq da anarchico, antimilitarista e aspirante
regista. Il ventottenne ebbe giusto il tempo per
ambientarsi (il tempo di venti sigarette, appun-
to) prima che l’attacco terroristico coinvolgesse la
base dei militari italiani. Ferito e invalido (zoppo,
con i timpani perforati e con in corpo centinaia di
schegge), racconta il suo viaggio di ritorno a casa
e le attenzioni ricevute. Lui fermamente contro la
guerra si ritrovò ad essere una specie di eroe. I
protagonisti sono Vinicio Marchionni (che interpreta Amadei) e Carolina Crescentini (l’amica
Claudia contraria alla sua andata in Iraq che diventerà poi la madre di suo figli).
Prima libro, poi teatro, ora un film. Questo
è un modo per elaborare un’incredibile storia che ti ha coinvolto in prima persona?
Credo che questo sia lo sbocco naturale di
un’esperienza che ho vissuto, in fondo ero lì per
fare l’aiuto regista, ho sempre ricordato l’attentato in “fotogrammi”, come una sequenza cinematografica. Il film ha avuto per me anche un
aspetto terapeutico ma credo che questo sia riduttivo nei confronti dell’opera. L’elaborazione
di un evento così passa per il ricordo e la condivisione quotidiani, sto facendo un po’ della mia
terapia in questo momento con te. Da un punto
di vista contenutistico e artistico, sono felice che
il film sia frutto di anni di elaborazione. In questo modo, anche attraverso il libro, ho potuto padroneggiare meglio la narrazione della storia e
raccogliere il materiale necessario a farsi un’idea
delle cose più certa e articolata.
Tu sei arrivato a Nassiriya da antimilitarista. La tua visione della guerra e della pace
è in qualche modo cambiata?
Ecco, la visione articolata è una delle chiavi più
importanti per l’elaborazione di un’esperienza
come la mia, io ho cambiato, o cercato di cambiare, il mio atteggiamento, non le mie idee. Resto comunque un pacifista convinto, forse più di
prima. Resto fermamente contrario all’invio di
soldati italiani all’estero, sotto qualunque veste. Quello che è cambiato è che non riesco più
a distinguere la differenza tra me e un soldato
in missione. Mi sento responsabile sia dei suoi
eventuali omicidi che della sua eventuale uccisione. Per questo, anche nel lutto, non accetto
né chi grida agli eroi, né chi gioisce per la loro
morte. Per me saranno sempre individui, esseri umani che bisogna conoscere prima di poter
giudicare.
È la tua opera prima. Subito premiato a
Venezia. Qual è stata la tua sensazione al
momento della vittoria?
Durante il discorso per la premiazione ho fatto
finta di svenire, per poi rialzarmi e dichiarare
la boutade... La verità è che stavo per svenire
veramente! Anche perché quell’infamone di Valerio Mastandrea aveva fatto di tutto per farmi
intendere che ero lì solo ad accompagnare Vinicio Marchioni (premiato con la menzione come
migliore attore).
Il tuo film ha ingenerato molte polemiche,
cosa che accade spesso quando si parla di
guerra. Te lo aspettavi? Quali sono le critiche che più ti hanno ferito?
Le critiche che mi feriscono di più sono quelle
di spettatori che hanno pagato il biglietto, gente
a cui il film non è arrivato, persone con cui non
mi sono saputo far capire. Per il resto, le polemiche sono spesso pezzetti di frasi, sui quali alcuni
giornalisti costruiscono interi articoli. Persone
che continuano a volerci infilare in dei cliché,
perché la vita reale, con tutta la complessità delle sue componenti, non fa “notizia”.
Nonostante ormai si viva in uno stato di
guerra permanente si parla poco delle guerre in tv, sui giornali, anche al cinema. Le
stragi di civili, le bombe nei mercati sono
relegate a notizia breve. Perché, secondo te
il pubblico si è assuefatto alle immagini? I
morti civili non fanno più notizia?
Nella post-fazione del libro da cui è tratto il film,
Venti sigarette a Nassiriya, c’è una citazione di
Tiziano Terzani che il mio coautore, Francesco
Trento ha voluto fortemente: “purtroppo, oggi,
sul palcoscenico del mondo noi occidentali siamo insieme i soli protagonisti e i soli spettatori,
e così, attraverso le nostre televisioni e i nostri
giornali, non ascoltiamo che le nostre ragioni,
non proviamo che il nostro dolore”. Mi sento di
sposarla parola per parola.
Per un giovane regista come te la domanda
è d’obbligo. Hai già qualche idea per il tuo
futuro?
Il futuro sembrerebbe riservarmi un lungo tour
di presentazione del film, scuole, università, rassegne e festival... Ho fatto il film per condividere
la mia storia ed è d’obbligo portarla a più persone possibile, specialmente ai giovani. Certo è che
quest’opera prima ha tracciato in me un percorso
di urgenza nel raccontare una storia, sarà difficile trovare una storia che mi stimoli in questo
modo. Ho avuto una vita abbastanza movimentata, chissà... (pila)
cinema teatro arte 55
CHRISTOPHER NOLAN
Inception
Un evento sociale planetario,
certamente l’uscita più attesa
e commentata dell’anno. Cast
di assoluto livello (Leonardo Di
Caprio, Marion Cotillard, Cillian Murphy, Ken Watanabe,
Joseph Gordon-Levitt, Ellen
Page), budget da duecento milioni di dollari, una sceneggiatura visionaria e stratificata
- scritta e riscritta da Christopher Nolan (Memento, Batman
Begins, Il Cavaliere Oscuro,
The Prestige) per dieci anni su molteplici livelli di sogno,
in bilico tra apparenza e realtà. La trama è complessa, e il
film, con un eccesso estremo di
semplificazione, è un thriller
fantascientifico che mischia,
sovrappone ed esplora mondo
onirico, mondo reale e subconscio del protagonista Cobb (Di
Caprio) e quello dei suoi compari. L’obiettivo (sempre semplificando), instillare un’idea
nella mente di un ricchissimo
rampollo che sta per ereditare
un impero, entrando nei suoi
sogni. Da qualche parte si è
letto che lo script di Nolan è
un complicatissimo progetto
onirico-ingegneristico, roba da
ricorrere a schemini semplificativi per evitare di perdere il
filo nel corso dei cento-esagerati-quarantadue minuti di film.
In realtà, il filo - e certamente
il rimando mitologico non è casuale - è sempre lì, visibile, nelle mani di Arianna (Ellen Page,
la piccola Juno alla sua consacrazione con cast e regista stel56 cinema teatro arte
lari), che nell’affiancare Cobb
in tutte le fasi della missione,
e persino nei recessi più profondi del suo subconscio, riceve
da tutti spiegazioni dettagliate
e puntuali, e ce le serve su un
piatto. Fortuna che nel finale
lei non c’è. E un dubbio resta.
Almeno quello.
Lori Albanese
SAVERIO COSTANZO
La solitudine dei numeri
primi
Le immagini e le parole sono
linguaggi spesso intraducibili
e giudicare questo film di Saverio Costanzo andando a caccia
di analogie e differenze, fedeltà
e tradimenti rispetto al romanzo di Paolo Giordano sarebbe
niente di più di un passatempo per enigmisti disoccupati.
Tanto più che sia il regista
che l’autore chiariscono di non
aver cercato in alcun modo un
copia-incolla dalla pagina allo
schermo. In effetti, alcuni scostamenti dall’originale risultano inevitabili. Soprattutto Costanzo interviene scombinando
la sequenza temporale degli
eventi attraverso un alternarsi
spesso psicotico di frammenti
di presente e passato che disseminano indizi sul “segreto”
di Mattia (intorno ad Alice c’è
meno thriller) e ne rimandano
il più possibile la rivelazione: il
ritmo cresce e la pellicola mantiene alto l’interesse fino ai titoli di coda, nonostante la pesante semplificazione del testo
originario, privato dei nume-
rosi intrecci secondari. Spesso
però il meccanismo va troppo
oltre, portando alla soppressione di passaggi fondamentali (il
rapporto di Alice con il marito,
la madre e il cibo) e a falsificazioni gratuite della trama (il discorso sui numeri primi finisce
in bocca a Viola, Mattia viene a
sapere del matrimonio di Alice
solo quando la rincontra). Lo
spettatore rischia di fraintendere o di non capirci nulla. Tra
i pregi della pellicola ci sono i
dialoghi volutamente spogli
e le interpretazioni di Luca
Marinelli e Alba Rohrwacher:
basta questo a rendere nel migliore dei modi l’essenza del legame tra Alice e Mattia.
Francesca Maruccia
ROB EPSTEIN,
JEFFREY FRIEDMAN
The Howl – Urlo
Non è un fim sulla beat generation e neanche un film su un
poeta della beat generation. È
un film sul poema simbolo della beat generation: The Howl
(L’Urlo). È un film su più piani,
un film dove non c’è azione ma
narrazione, l’unico movimento
ampio, un volo è concesso al
suo lato immaginifico, quello
affidato all’allucinata animazione del poema stesso, alla
materializzazione del pensiero
e delle parole.
Per il resto il film si divide tra
un’intervista ad Allen Ginsberg interpretato dal bravo
James Franco, la prima lettura
pubblica del poema e il processo all’editore che venne inten-
tato con l’accusa di oscenità.
Queste tre angolazioni compongono in un mosaico il ritratto
perfetto di un momento cruciale della letteratura contemporanea. Il tema dell’omosessualità, il jazz, l’icona di Kerouak,
Neil Cassidy sono elementi che
compaiono con naturalezza e
che animano senza mai prendere il sopravvento sul vero
protagonista di questa pellicola: il pensiero e la sua libertà.
Osvaldo Piliego
ALIONA SEMIÒNOVA E
ALEKSANDR SMIRNÒV
The rowan waltz
Una scommessa (vinta) “di
documentare poeticamente il
conflitto armato”: nel film The
Rowan Waltz di Aliona Semiònova e Aleksandr Smirnòv c’è
la Russia degli anni a ridosso
della seconda guerra mondiale
e un gruppo di donne che si ritrova a fare “cose da uomini”,
perché gli uomini sono ancora
lontani da casa, alcuni per sempre. Ci sono i passi cadenzati e
lentissimi di giovani sminatrici
che raccolgono mine seminate come fiori di morte, e poi ci
sono i balli frenetici e ubriachi,
l’allegria imposta dalla fisarmonica perché quando qualcuno salta in aria bisogna dimenticarsene presto, far festa e
non pensarci, che certi pensieri
fanno tagliare male i fiori. Marusya è bella come un’attrice e
suona la chitarra. Polina ricomincia ad amare e si sente in
colpa. Lena osserva dalla sua
stanza un campo che si è ammalato e per guarire si ciba di
vite umane, allora lei costruisce bambole di pezza con le facce dei suoi cari ed esce di notte
per offrirle al campo, sperando
che bastino a saziarlo, sperando che non uccida più nessuno.
La vita del capitano Smirnov è
costruita sulle menzogne, ma è
pur sempre una vita. Tutti ballano il loro “valzer del sorbo”,
prudenti e incoscienti come fiori dall’esistenza fragile e breve
su una terra che minaccia di
sputarli senza preavviso verso
il cielo. È il valzer della vita che
osserva immobile e attonita se
stessa, le sue violenze e le sue
assurdità, per poi accelerare
bruscamente, voracemente e
calarsi in un nuovo amore o in
un campo minato. Originale
metafora dell’incontrollabilità
del destino, seppur con piccole
cadute nella facile retorica dei
film di guerra e alcune fasi narrative rese lente dall’indugiare
in dettagli troppo tecnici.
Francesca Maruccia
57
DONNE CONTRO
L’ILVA DI TARANTO
Un documentario della giornalista Valentina D’Amico
racconta le contraddizioni di una città
Taranto è a pochi chilometri da Lecce, dove vivo.
Eppure, io, a 33 anni, ci sono andato poche volte. La prima è stata nel febbraio 1995. Faceva
freddo. Presi il treno, anche quello per la prima
volta, con molti altri ragazzi, e arrivai nella città
dei due mari per la mia visita militare in marina.
Tre giorni e tre notti da tarantino non sono certo
bastate per capire quello che nella città si muoveva. Nel corso di questi quindici anni sono andato a Taranto credo tre o quattro volte. Una città
vicina eppure così distante. Da piccolo, ricordo,
58 cinema teatro arte
pensavo a Taranto come una grande città lontana, come Bari, e ricca. Perché, così ci insegnavano
a scuola, a Taranto c’erano le fabbriche, c’erano
le industrie, c’era il lavoro, c’erano gli operai. E
a Lecce no. E poi quando passavo vicino Taranto
vedevo il fumo rosso e un po’ mi impressionavo,
pensavo a realtà da fumetto come Gotham City. A
distanza di anni ho imparato a conoscere le contraddizioni di quella città, leggendo le cronache
della crisi, i romanzi di Cosimo Argentina e Mario
Desiati e guardando gli spettacoli teatrali di Ales-
sandro Langiu. Quella Puglia tanto amata fuori
dalla Puglia, portata ad esempio come virtuosa
immagine di un’Italia che cambia eppure ancora
ricca dei fumi delle sue ciminiere peggiori come
quelle dell’Ilva. Da qualche mese si parla molto
di Taranto anche grazie al documentario La Svolta. Donne contro l’Ilva, firmato dalla giornalista
Valentina D’Amico, che racconta la battaglia di
sei donne: Francesca e Patrizia, mogli di operai
morti all’Ilva; Vita, mamma di un giovane operaio finito ammazzato sotto una gru nello stabilimento; Margherita, ex dipendete sottoposta a
soprusi, mobbizzata, licenziata; Anna, finita sulla
sedia a rotelle, e Caterina, mamma di un bambino autistico: malattie diverse, entrambe probabili
conseguenze dell’inquinamento. “L’indignazione.
Ecco cosa mi ha spinto ad occuparmi di Taranto,
dell’Ilva”, spiega la regista Valentina D’Amico.
“Da qualunque direzione ci si avvicini, ci si imbatte in una città violentata. Imponenti strutture
industriali sbuffano fumi di tutti i colori che soffocano quartieri, bruciano palazzi, raschiano polmoni. Taranto non è solo l’Ilva certo. È anche Eni,
Cementir, Sidercomit… In nome dello sviluppo
si è annientata una città, il suo ambiente, i suoi
abitanti, la loro salute. Perché allora prendersela
solo con l’Ilva? Perché per anni l’Ilva è stata, ed
è tutt’ora, Taranto. L’Ilva vanta il primato delle
morti sul lavoro in Italia (43 dal 1995 ad oggi) e il
primato italiano di inquinamento da diossina (il
92% del totale, l’8% in Europa)”, prosegue la regista. “Se oggi tutti conoscono la tragedia dei sette
operai arsi vivi nell’officina della ThyssenKrupp
a Torino, troppo pochi conoscono la vicenda dei
180 operai morti (tanti dalla prima apertura dei
cancelli nel 1961) e della devastazione ambientale provocati dal terzo stabilimento siderurgico
del mondo. Perché? Perché siamo al Sud e al Sud
tutto è lecito? Nel 2005 un analogo stabilimento
di produzione dell’acciaio è stato fatto chiudere a
Genova. E Taranto? A Taranto la maggioranza
della popolazione non vuole la chiusura dello stabilimento”. La fabbrica dà lavoro (sempre meno,
giacché si è passati in venti anni da 20 a 13 mila
occupati) ma che uccide e mortifica l’ambiente. Il
titolo del documentario si rifà a quello del racconto che Francesca Caliolo, una delle donne protagoniste, ha scritto dopo la morte di suo marito,
Antonino Mingolla, qui interpretato da Alessandro Langiu. Dopo la proiezione alla Mostra del
Cinema di Venezia, nella sezione Giornate degli
Autori, e al Milano Film Festival, il documentario
ha iniziato a girare in tutta Italia ed è stato recensito da molte testate nazionali.
Pierpaolo Lala
ECOLOGICO
FILMFESTIVAL
La Puglia è una regione di cinema. Sono
numerose le produzioni che decidono di girare da queste parti, anche grazie al lavoro
dell’Apulia Film Commission, ma ci sono
piccole realtà locali che con grandi sacrifici
continuano a proporre il proprio lavoro. Nonostante le difficoltà economiche e politiche
(l’amministrazione comunale che ospita la
manifestazione dopo una crisi perenne è caduta) anche quest’anno infatti si è tenuto
a Nardò l’Ecologico International Film Festival, giunto alla sua terza edizione e nato
dall’impegno e dalla passione di Roberto
Quarta e dei suoi collaboratori. Dopo alcune
anteprime, dal 16 al 19 settembre il festival è
entrato nel vivo, ospitando le pellicole provenienti da tutta Europa nelle varie categorie
dedicate a studenti, emergenti e professionisti. La giuria, composta dal vicepresidente
dell’Apulia Film Commission Luigi De Luca,
dal direttore artistico del Cinema Elio di Calimera Gabriele Russo e dalla nostra collaboratrice Lori Albanese, ha visionato tutti i film
e selezionato i vincitori. Moby Dick di Oscar
Carrara è stato il miglior film sull’ambiente,
Bouquet di Walter Mazo quello sulla diversità, Life for sale di Yorgos Avgeropoulos sulla
società. Nella sezione scuole hanno vinto Storia del paese di Ucchebbello di Tilde Di Dio e
Rita Stivale - I°Circolo Didattico” E. De Amicis” – Enna per la categoria scuole primarie,
Lenti da contatto di Daniela Recchia - Scuola
“I Care” - Andria (BA), per la categoria scuole secondarie inferiori, La Migliore Amica di
Daniele Santonicola - Liceo scientifico-classico “Don Carlo la Mura” - Angri (SA), per la
categoria scuole secondarie superiori. Nella
sezione autori sono stati premiati invece Carpa diem di Sergio Cannella (cortometraggio),
Il Vincitore di Davide Labanti (mediometraggio) e Basilicata coast to coast di Rocco
Papaleo (lungometraggio). Due menzioni speciali sono andate a Every day - Ogni giorno
Checkpoint di Betlemme di Mara Beccafarri
e Massimo Miricola e a Rosita no se desplaza
di Alessandro Acito e Leonardo Valderrama.
Un’altra occasione, come accade in luglio per
il Cinema del Reale di Big Sur, per visionare
pellicole che nella maggior parte dei casi non
passeranno sugli schermi o in tv. Info www.
ecologicofilmfestival.it
59
EVENTI
VENERDÌ 15 OTTOBRE
Luca Alemanno e Marco
Bardoscia al Vite di Nardò (Le)
Metal Fest all’Istanbul Cafè di
Squinzano (Le)
Folkabbestia al Kursaal di
Bari
Super reverb al Molly Malone
di Lecce
SABATO 16
Chat Noir al Vite di Nardò
(Le)
Tobia Lamare all’Istanbul
Cafè di Squinzano (Le)
MARTEDÌ 19
Adria al Teatro Paisiello di
Lecce
GIOVEDÌ 21
Voodo Doll dj set al Molly
Malone di Lecce
VENERDÌ 22
Giorgia Santoro duo al Vite di
Nardò (Le)
Cadabra e Play on tape
all’Istanbul Cafè di Squinzano
(Le)
Francesco Giannico al Molly
Malone di Lecce
SABATO 23
Italian Swing Connection trio
al Vite di Nardò (Le)
Dj Gruff e Roberto Chiga
all’Istanbul Cafè di Squinzano
(Le)
GIOVEDÌ 28
Raffaele Casarano & Ippolito
Chiarello alle Cantine Menhir
di Minervino (Le)
Rocco Morano al Molly Malone
di Lecce
VENERDÌ 29
Livio Minafra “Solo” al Vite di
Nardò (Le)
Muffx e Jack in the head
all’Istanbul Cafè di Squinzano
(Le)
60 EVENTI
Canzoniere Grecanico
Salentino al Teatro Paisiello
di Lecce
Black Garden al Molly Malone
di Lecce
SABATO 30
Andrea Baccassino al Vite di
Nardò (Le)
Ballarock all’Istanbul Cafè di
Squinzano (Le)
DOMENICA 31
Halloween Party alle Officine
Cantelmo di Lecce
Insintesi e Blackstarline
all’Istanbul Cafè di Squinzano
(Le)
Halloween Party al Molly
Malone di Lecce
OGNI GIOVEDÌ
Giovedì Colturale alla
Masseria Ospitale di Lecce
(strada Torre Chianca)
GIOVEDÌ 4 NOVEMBRE
Soulmakossa feat. Soulfiero al
Molly Malone di Lecce
VENERDÌ 5
Le strisce all’Istanbul Cafè di
Squinzano (Le)
Walter Vitale “Drum Juice
- drum solo” al Vite di Nardò
(Le)
Open Mic Session al Molly
Malone di Lecce
SABATO 6
Tobia Lamare all’Istanbul
Cafè di Squinzano (Le)
GIOVEDÌ 11
Marco Bardoscia e Dario
Muci alle Cantine Menhir di
Minervino (Le)
VENERDÌ 12
Dufresne all’Istanbul Cafè di
Squinzano (Le)
Alex Napolitano e Viz
Maurogiovanni al Vite di
Nardò (Le)
Dino Fumaretto alla Saletta
della Cultura di Novoli (Le)
Joe Pesci Blues Band al Molly
Malone di Lecce
Urge di e con Alessandro
Bergonzoni al Teatro Kursaal
di Bari
SABATO 13
Moa Anbessa feat Sister Aisha
all’Istanbul Cafè di Squinzano
(Le)
Robin Scheller & Dado
Tedeschi con William Greco al
Vite di Nardò (Le)
Ministri al Demodè di
Modugno (Ba)
Adrian Belew Power Trio al
Teatro Kursaal di Bari
MARTEDÌ 16
Il Buio, il fuoco, il desiderio
con Gino Castaldo, Giovanni
Sollima, Gennaro Tosto e
Pietro De Silva al Teatro
Kursaal di Bari
Fuzztones all’Istanbul Cafè di
Squinzano (Le)
La più importante garage-band
della nuova corrente degli anni
‘80, una vera e propria colonna
portante del genere, capiscuola
per migliaia di band che hanno
visto in Rudi Protrudi il loro
eroe e profeta. Il suono dei Fuzztones è inconfondibile. A 30
anni di distanza dal loro esordio propongono un nuovo disco
“Preaching To The Perverted” e
un imponente tour europeo che
toccherà tutta l’Italia, dal sud
al nord. Ingresso 12 euro. Info
0832303707
GIOVEDÌ 18
Str3aker (Ballarock) al Molly
Malone di Lecce
Tortoise al Teatro Kursaal di
Bari
VENERDÌ 19
Diaframma all’Istanbul Cafè
di Squinzano (Le)
Fabio Accardi al Vite di Nardò
(Le)
Teatro degli orrori al Demodè di
Modugno (Ba)
The fillers al Molly Malone di
Lecce
Iancu ai Cantieri Koreja di
Lecce
Rene’ Aubry al Teatro Kursaal
di Bari
SABATO 20
Co’ Sang all’Istanbul Cafè di
Squinzano (Le)
Rafael Didoni & Fausto
Solidoro al Vite di Nardò
Iancu ai Cantieri Koreja di
Lecce
Murcof al Teatro Kursaal di
Bari
MARTEDÌ 23 E
MERCOLEDÌ 24
The Kuleshov Affaire ai
Cantieri Koreja di Lecce
GIOVEDÌ 25
Alberto Parmegiani e Sergio
Langella alle Cantine Menhir di
Minervino (Le)
Sonic The Tonic al Molly
Malone di Lecce
VENERDÌ 26
Froben e Pensieri in Volgare
all’Istanbul Cafè di Squinzano
(Le)
Alberto Parmegiani & Sergio
Langella al Vite di Nardò (Le)
Bach ai Cantieri Koreja di
Lecce
SABATO 27
Cast Thy eyes, Dsa Commando
e Hobophobic all’Istanbul Cafè
di Squinzano (Le)
Germano Lanzoni & Enrico
Veronica al Vite di Nardò (Le)
Bach ai Cantieri Koreja di
Lecce
Alexis Gideon al Teatro Kursaal
di Bari
PUGLIA SOUNDS
Nasce a Bari la Casa delle Musiche
È partito il viaggio di Puglia
Sounds, il nuovo programma
per il sostegno e lo sviluppo
della produzione musicale della Regione Puglia, che sosterrà, appunto, nuove produzioni
(non solo pugliesi), che aiuterà i musicisti a viaggiare nel
mondo portando la loro musica
(sono in partenza Nidi D’Arac,
Sud Sound System e Apres La
Classe) e farà arrivare il mondo
in Puglia con concerti, incontri,
dibattiti. Il 9 e 10 ottobre la
nuova Casa delle musiche Puglia Sounds (per ora nel Teatro
Kursaal di Bari in attesa della
sede in allestimento presso la
Fiera del Levante) è andato in
scena Way To Blue/The Songs
Of Nick Drake, un omaggio alla
musica del cantautore inglese
prematuramente
scomparso
nel 1974 a cura di Joe Boyd,
produttore, oltre che di Drake
anche di Pink Floyd, Fairport
Convention, Rem e molti altri.
Un viaggio intenso nella breve
carriera di Drake condotto da
tredici musicisti (compreso il
contrabbasista dei suoi dischi)
e da un parterre vocale di tutto rispetto composto da Vashti
Bunyan, Green Gartside (Scritti Politti), Robyn Hitchcock,
Teddy Thompson, Krystle Warren e Scott Matthews affiancati
dagli italiani Roberto Angelini
(già protagonista del disco tributo Pong Moon) e Violante
Placido (la voce più “debole”
del concerto). Questo spettacolo
(come gli altri finanziati) girerà in tour con la firma Puglia
Sounds, un po’ come accade per
le pellicole sostenute dall’Apulia Film Commission. Tra le
prossime produzioni Vasco
Rossi, Gianna Nannini, Anna
Oxa, Daniele Silvestri, i Pooh,
Emma Marrone e la giovane
cantautrice Lucia Manca (a
cura di Coolclub) che preparerà
(dal 6 al 9 dicembre) e presenterà (il 10 al Teatro Comunale
di Novoli) il suo nuovo spettacolo affiancata dal chitarrista,
cantante e produttore Giuliano
Dottori. La Casa delle Musiche
proseguirà la programmazione
(anche con spettacoli ospiti non
finanziati di Puglia Sounds)
sino alla fine di maggio. Nelle
prossime settimane si esibiranno Folkabbestia (15 ottobre),
Ana Moura (16), il pianista e
compositore piemontese e Maestro concertatore della Notte
della Taranta Ludovico Einaudi con il suo nuovo spettacolo
Nightbook (25 e 26), tutti gli
appuntamenti del festival TimeZones (in particolare i Tortoise il 18 novembre), Paolo
Fresu e Uri Caine in Barocco
in Pispisi (29 novembre) e molti altri appuntamenti. Tutte le
info su www.pugliasounds.com
(A.R.)
61
LA TARANTA NELLA RETE
/ FESTA FINALE
Calimera e Melpignano (Le)
29 ottobre / 1 novembre
Dopo circa due anni di seminari, workshop, incontri d’autore,
concerti, un concorso per giovani band e per tesi di laurea
si conclude con una tre giorni
il progetto culturale La Taranta nella Rete organizzato dal
Comune di Melpignano (Le)
e dall’Istituto Diego Carpitella, a cura di Vincenzo Santoro
(Responsabile Ufficio Cultura
e Politiche Giovanili Anci) e
Sergio Torsello (Responsabile
Scientifico dell’Istituto Diego
Carpitella). Venerdì 29 ottobre
(ore 20.00 – ingresso gratuito) il Cinema Elio di Calimera
ospita lo spettacolo Danzare col
Ragno con Brizio Montinaro
e l’Ensemble Terra d’Otranto
preceduto da un’intervista di
Sergio Torsello e Vincenzo Santoro all’attore e antropologo.
Sabato 30 Ottobre (ore 18.00
– ingresso gratuito) presso l’ex
Convento degli Agostiniani di
Melpignano si terrà un seminario su Canti di lavoro e canto
sociale in Puglia a cura di Gianni Amati. A seguire sarà proiettato il documentario Muretti a
secco. Voci di Puglia di Francesco Sossio Sacchetti. La serata
si chiuderà con lo spettacolo
Memorie della Terra. Racconti
e canti di lavoro e di lotta del
Salento e con la presentazione
del libro/cd (Squilibri) tratto
da esso. Lo spettacolo, di e con
Vincenzo Santoro e numerosi
musicisti, è una lettura “cantata” di alcuni racconti - tratti
da una ricerca condotta a partire dalle testimonianze orali
dei protagonisti della protesta
delle tabacchine di Tricase del
1935. Lunedi 1 Novembre (ore
18 – ingresso gratuito) sempre
a Melpignano la Taranta nella
rete si conclude con la presentazione della Mappa Sonora a
cura dell’Associazione Culturale Follevola, del dvd Musiki,
a cura di Bigsur, del libro Sui
patrimoni immateriali del Salento e del Gargano (Squilibri)
e del cd allegato che racchiude
invece quattordici brani delle
band che hanno partecipato
al concorso Note per la Notte.
In chiusura concerto del Massimiliano Morabito Ensemble,
guidato dall’organettista di Cisternino, che presenterà i brani
del suo lavoro discografico Sendë nà rionettë sunà.
DOVE TROVO COOLCLUB.IT?
Coolclub.it si trova in molti locali, librerie, negozi
di dischi, biblioteche, mediateche, internet point.
Se volete diventare un punto di distribuzione di
Coolclub.it (crescete e moltiplicatevi) mandate
una mail a [email protected] o chiamate al
3394313397
Lecce (Manifatture Knos, Officine Cantelmo, Caffè
Letterario, Magnolia, Svolta, Cagliostro, Coffee and
Cigarettes, Arci Zei, Libreria Palmieri, Liberrima,
Libreria Apuliae, Ergot, Youm, Pick Up, Libreria
Icaro, Fondo Verri, Negra Tomasa, Road 66, Mamma
Perdono Tattoo, Shui bar, Cantieri Teatrali Koreja,
Santa Cruz, Molly Malone, La Movida, Biblioteca
Provinciale N. Bernardini, Museo Provinciale
Sigismondo Castromediano, Edicola Bla bla, Urp
Lecce, Castello Carlo V, Torre di Merlino, Trumpet,
Orient Express, Euro bar, Cts, Ateneo - Palazzo
Codacci Pisanelli, Sperimentale Tabacchi, Palazzo
Parlangeli, Buon Pastore, Ecotekne, La Stecca, Bar
Rosso e Nero, Pizzeria il Quadrifoglio, Associazione
Tha Piaza Don Chisciotte), Calimera (Cinema Elio),
Cutrofiano (Jack’n Jill), Maglie (Libreria Europa,
Music Empire, Suite 66), Melpignano (Mediateca,
Kalì),
Otranto (Anima Mundi), Alessano
(Libreria Idrusa), Galatina (Palazzo della Cultura,
Gamestore), Nardò (Libreria i volatori, Vite, Aioresis
Lab),
Novoli (Saletta della Cultura Gregorio
Vetrugno), Squinzano (Istanbul Cafè), Ugento
(Sinatra Hole), Gagliano Del Capo (Enoteca
Torromeo, Tabacchino Ricchiuto), Presicce (Jungle
pub, Arci Nova), Salve (Chat Noir, Le Beccherie),
Ruffano (Soap), Castrignano del Capo (Extrems),
Brindisi (Libreria Camera a Sud, Goldoni, Birdy
Shop), Ceglie (Royal Oak), Erchie (Bar Fellini),
Torre Colimena (Pokame pub), Oria (Talee),
Bari (Taverna del Maltese, Caffè Nero, Feltrinelli,
Kismet teatro, New Demodè, TimeZones, Teatro
Forma, H25), Giovinazzo (Arci 37), Trani (Spazio
Off), Taranto (Associazione Start, Trax vinyl shop,
Gabba Gabba, Biblioteca Comunale P. Acclavio, Alì
Phone’s Center, Artesia, Radiopopolaresalento),
Manduria (Libreria Caforio), Roma (Circolo Degli
Artisti) e molti altri ancora...
Scarica

penne alla rock&roll