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Sociologia e Ricerca Sociale
Mensile del Corso di Laurea i n Sociologia e Ricerca Sociale, Ottobre 2004. Anno 1. Numero 10. Direttore Mario Cardano. Redazione Mario Cardano, Michele Manocchi
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Dillo anche ai tuoi amici, perché la Newsletter è dedicata a voi
ed è grazie a voi che può crescere e migliorare.
Alla realizzazione di questo numero hanno contribuito con articoli o segnalazioni:
Andrea Bazzoni, Cassandra Dicandia, Donatella Simon, Paolo Gilli,
Michele Manocchi e Mario Cardano
Sommario
La Facoltà. Segreteria Studenti: breve corso di sopravvivenza
2
Ricerca Sociale: intervista a Mariella Berra e Fiorenzo Girotti
6
Professione Studente: Intervista a Riccardo Spadotto sul corso a distanza di Sociologia
9
Professione Studente: Cassandra Dicandia sulla relazione docente/studente
12
Professione Studente: Andrea Bazzoni sulla paura da esame
13
Professione Sociologo: intervista a Elisa e Stefania sul Job Placement e gli stage
15
Professione Studente: Seminario di lettura e scrittura
17
Sociologie: Convegno internazionale. Immigrati e seconda generazione
19
Sociologie: Zygmunt Bauman. Sommersi dai media. Rischiamo la paralisi
Sociologie. Il ritorno del “Crime Movie” americano, di Paolo Gilli
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La Facoltà
La Facoltà
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Segreteria studenti: breve corso di sopravvivenza.
Ebbene sì! Siamo entrati nella roccaforte della Segreteria Studenti, e abbiamo intervistato il
responsabile e gli impiegati che lavorano in via Verdi 12. Lo abbiamo fatto per mettere a vostra
disposizione le informazioni necessarie alla “sopravvivenza”, informazioni che possono rendere la
vita più facile a voi e agli addetti alla Segreteria. Le voci che girano sono sempre molte; le
informazioni pertinenti invece sono poche e molte quelle sbagliate; spesso gli studenti non sanno
bene per quali adempimenti devono recarsi in Segreteria e come fare per evitare le folle oceaniche
che si accalcano agli sportelli. Ecco dunque una guida per la sopravvivenza (di studenti e impiegati).
Due note sulla trascrizione dell’intervista. Su
richiesta del responsabile, Salvatore Paolella,
abbiamo condotto un’intervista di gruppo, alla
presenza di tutti gli impiegati. Con la scelta di
questa modalità di intervista il responsabile della
Segreteria ha inteso riprodurre nella nostra
conversazione il modello organizzativo adottato
negli uffici di via Verdi 12; un modello basato
sulla cooperazione e sul coinvolgimento di tutti i
dipendenti nelle decisioni e nella gestione del
rapporto con gli studenti. Inoltre, in questo
modo, è stato possibile disporre di informazioni
più ricche, basate sull’esperienza di tutti coloro
che lavorano agli sportelli o alla scrivania.
Nel comporre l’articolo abbiamo introdotto una
semplificazione: le risposte raccolte non sono
state riferite puntualmente a questo o a quell’interlocutore, ma genericamente alla Segreteria.
Quanto segue non è dunque la trascrizione
dell’intervista ma una sintesi – rivista dai nostri
interlocutori – delle informazioni raccolte. Alla
composizione di questa sintesi hanno contribuito
le indicazioni fornite da:
Salvatore Paolella, responsabile della segreteria.
Roberta Mettola, vice-responsabile.
Cristina Simonelli, Rosalba Ceravolo,
Maria Tuscano, Francesco Occhipinti, impiegati.
D: Buongiorno a tutti. Con questa intervista ci
proponiamo di fornire agli studenti un quadro il
più chiaro e puntuale possibile sulle attività della
Segreteria, sui servizi resi e sulle modalità grazie
alle quali gli studenti possono usufruire di questi
uffici. Come suggerite di procedere?
R: Credo che la cosa migliore sia quella di vedere, prima
nel generale e poi scendendo nei particolari, quale può
essere il rapporto tra uno studente e la Segreteria, dal
momento in cui decide di iscriversi all’Università, fino al
conseguimento del diploma di laurea.
D: Benissimo. Suggerirei però di limitarci alle
lauree triennali.
R: D’accordo.
Possiamo individuare cinque punti che riguardano lo
studente “normale”, ovvero che non presenta situazioni
particolari e che percorre regolarmente il proprio
cammino verso la laurea, ai quali si aggiungono tre
punti che riguardano invece casi particolari o argomenti
che non fanno necessariamente parte della carriera di
ogni studente.
I cinque punti sono:
•
immatricolazione e iscrizione;
•
•
•
•
il carico didattico;
il pagamento della seconda rata;
i percorsi di studio;
la laurea.
I tre punti ulteriori sono:
•
passaggi e trasferimenti, rinunce, interruzioni,
convalida degli esami;
•
i corsi singoli;
•
le certificazioni.
D: Partiamo dal primo: immatricolazioni e
iscrizioni.
R: L’immatricolazione si effettua presso il centro di
immatricolazioni che ogni anno l’Università allestisce già
dal mese di agosto, anzi quest’anno da fine luglio, e che
gli studenti conoscono come Torino Esposizioni, perché
è lì che negli ultimi anni è stato organizzato tale centro.
Qui lo studente trova tutto ciò di cui può avere bisogno:
la modulistica per l’immatricolazione, personale competente che fornisce informazioni su quasi tutto e che può
aiutare nella compilazione dei modulo richiesti; ma ci
sono gli spazi anche per consegnare l’autocertificazione
dei redditi, utile all’inserimento nelle fasce attraverso le
quali vengono calcolate le seconde rate, e si può anche
fare richiesta per la borsa di studio. Diciamo anche che
gli orari di apertura del centro di immatricolazione sono
decisamente ampi, perché coprono dalle 8.30 del
mattino fino alle 16.00, per cui anche quando sembra
che ci sia assembramento, in realtà il ritmo elevato e
questo orario di apertura consentono di far passare
molte persone.
Questo centro è per tutto l’Ateneo torinese, per cui
gestisce le immatricolazioni di tutte le Facoltà. Per
quelle dove è previsto un test di ingresso, sempre in
questo centro è possibile effettuare la pre-iscrizione. Nel
nostro caso non occorre perché Scienze Politiche non è
a numero chiuso.
Compilati e consegnati sempre in questo centro tutti i
moduli richiesti, lo studente viene immatricolato in
modo diretto, uscendo da qui con il libretto, il numero di
matricola, e la certificazione adeguata.
Una precisazione: tutte le dichiarazioni che occorre
fornire per immatricolarsi sono
in regime di
autocertificazione, per cui non occorrono ulteriori code a
sportelli sparsi per la città. Solo casi particolari
richiedono certificazioni ulteriori, come studenti stranieri
che chiedono il riconoscimento di titoli di studio o esami
sostenuti nel proprio paese, o portatori di handicap che
richiedono l’esonero dalle tasse, esonero per il quale
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occorre la certificazione del grado di handicap compiuta
dagli organi preposti.
D: Che consigli possiamo dare a uno studente o
una studentessa appena immatricolati?
R: Sarebbe opportuno consultare il sito della Facoltà,
dove è possibile scaricare la guida ai percorsi di studio,
la guida dello studente, le indicazioni sugli orari dei corsi
e tutto quanto può servire per orientarsi a livello
didattico nella nuova Facoltà scelta. Tutto questo,
sempre senza dover passare dalla Segreteria. In
pratica, uno studente può iniziare le lezioni di ottobre,
senza aver avuto la necessità né tanto meno l’obbligo di
passare in Segrete ria. Purtroppo questo non accade
quasi mai e secondo me è un problema di comunicazione: i ragazzi non sanno che è così semplice immatricolarsi e iniziare il proprio percorso di studi, e spesso
vengono in Segreteria per immatricolarsi, facendo
alcune ore di coda per poi sentirsi dire che devono
necessariamente andare al centro preposto.
C’è anche un problema di fiducia nelle capacità di chi sta
al di qua del vetro, e che più in generale riguarda la
pubblica amministrazione. I cittadini non si fidano delle
cose che vengono loro dette, mettono in dubbio tutto e
spesso non credono neanche all’impiegato al quale
arrivano dopo ore di coda, andando magari a parlare
con l’impiegato dello sportello vicino perché non sono
ancora persuasi della bontà delle informazioni ricevute.
Abbiamo avuto alcuni casi che sfiorano l’assurdo e che
in verità fanno sorridere, come studenti che mandano
un fax con delle richieste, poi inviano una e-mail per
chiedere conferma della ricezione del fax, in seguito
telefonano e poi, non soddisfatti, passano anche per lo
sportello. Occorre che gli studenti abbiamo fiducia in noi
e nell’apparato amministrativo che sta dietro la loro
carriera universitaria e occorre anche che gli impiegati
della Segreteria vengano maggiormente rispettati,
perché le competenze ci sono e le informazioni che
diamo sono univoche.
D: Bene, passiamo allora alle iscrizioni...
R: Queste riguardano lo studente che si deve iscrivere
all’università dalla seconda volta in poi, quindi tutte le
iscrizioni successive all’immatricolazione iniziale.
Da due anni a questa parte, lo studente si deve recare
presso un qualunque sportello della Banca San Paolo o
del Banco di Napoli, su tutto il territorio nazionale ed
europeo, entro le date pubblicate sul sito e segnalate in
varie parti con avvisi e cartelli, e col proprio numero di
matricola e codice fiscale effettuare il versamento della
rata prevista dalla sua situazione economica. La banca
avrà a disposizione già tutte le informazioni adeguate,
trasmesse per via telematica, e sarà quindi in grado di
ricostruire la posizione di ogni studente, a partire dal
numero di matricola: vengono prese in considerazione
ovviamente le borse di studio, le fasce di reddito nelle
quali lo studente ricade, la sua posizione di studente
full-time o part-time, e viene così calcolato l’importo
dovuto. Al termine dell’operazione, la banca rilascia una
ricevuta che non deve essere riportata in Segreteria, ma
custodita dallo studente. Ecco quindi che anche per le
iscrizioni successive alla prima non occorre, né prima né
dopo il pagamento della rata, recarsi in Segreteria
studenti.
In modo del tutto automatico, entro un breve periodo,
lo studente risulterà iscritto a tutti gli effetti. Se vuole,
può controllare l’avvenuta iscrizione ai box office
disponibili in varie parti dell’Ateneo.
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Ricordiamo a questo proposito che ogni macchina dà la
possibilità di accedere alla propria situazione, indipendentemente da dove è collocata. Per cui i box office ai
quali gli studenti di Scienze Politiche possono rivolgersi
sono tutti quelli presenti in Ateneo, e dovrebbe esserci
anche una mappa delle loro ubicazioni sul sito.
D: Possiamo brevemente ricordare le differenze
tra part-time e full-time?
R: Certo. La differenza sostanziale è nella possibilità per
i primi di caricare fino a un massimo di 36 cfu per anno
accademico, mentre i full-time possono arrivare fino a
80 cfu. Non esistono più le differenze di pagamento
delle tasse legate al numero di cfu che si dichiara di
voler conseguire. Esiste solo una ripartizione tra i due
tipi di studente e ovviamente rimane quella che
considera le fasce di reddito. Quindi, per fare un
esempio, in fascia massima, la settima, la seconda rata
di un full-time è di € 847,00 mentre quella di un parttime è di € 560,00.
D: E così abbiamo anche anticipato il discorso sul
pagamento della seconda rata. Siamo ora al
secondo punto dell’elenco: il carico didattico.
Cos’è? E come si fa?
R: Anche in questo caso non occorre passare per la
Segreteria, perché lo si fa solo ed esclusivamente ai
box-office. Il carico didattico è l’indicazione di tutti gli
esami che lo studente vuole sostenere nell’anno
accademico di riferimento. La matricola non avrà
evidentemente carichi didattici precedenti, per cui lo
esegue ex novo, indicando esami fino a 36 cfu se parttime o 80 cfu se full-time. Gli iscritti, invece, potrebbero
avere delle eredità, ovvero potrebbero aver inserito
l’anno precedente degli esami che poi non hanno
sostenuto e che quindi risultano ancora presenti e da
sostenere. In questo caso può scattare la procedura di
over booking: lo studente che abbia una rimanenza
diciamo di 10 cfu dall’anno precedente, in teoria non
potrebbe caricare più di 70 cfu per l’anno in corso,
arrivando così al limite degli 80 cfu. Ma con questa
procedura, lo studente può comunque caricare 80 cfu
per l’anno in corso e di questi lasciarne “nascosti” 10;
se entro il 30 aprile riesce a sostenere l’esame relativo
ai crediti ereditati dall’anno precedente, l’over booking
libera i 10 cfu “nascosti” facendo tornare il computo dei
crediti a 80, e consentendo quindi allo studente di non
rimanere indietro.
Legato a questo punto c’è la stampa degli statini,
indispensabili per sostenere gli esami. Dopo aver
effettuato il carico didattico, e intercorse almeno 48 ore,
lo studente può stampare gli statini relativi agli esami
del semestre che vuole sostenere. Consigliamo
caldamente di non andare a stampare gli statini pochi
minuti prima di sostenere l’esame, perché non è una
procedura che consente di affrontare eventuali
imprevisti, come una coda eccessiva davanti ai box
office o un qualunque disguido nel sistema informatico.
E ricordiamo anche che non si possono sostenere esami
per i quali non si abbia lo statino corrispondente
stampato. Ricordiamo, infine, che le date di validità
riportate sugli statini non sono reali, in quanto gli statini
sono validi per tutto l’anno solare per il quale sono stati
stampati.
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D: Il punto successivo riguarda il percorso di
studi...
R: E qui interveniamo noi. Il percorso di studi è una
necessità dovuta al fatto che gli studenti godono di
totale libertà telematica nello scegliere gli esami da
inserire nel proprio carico didattico. Detto meglio, ogni
corso di studi ha degli esami obbligatori e per quelli a
scelta indica le opzioni possibili. Tuttavia, l’elenco degli
esami, presso i box office, dal quale gli studenti
scelgono gli esami è un elenco totale, che prevede tutti
quelli disponibili per il corso di studi corrispondente.
Succede quindi a volte che gli studenti si sbaglino e
scelgano un esame che credono di loro pertinenza ma
che in realtà appartiene a un altro corso di laurea o a un
altro percorso all’interno dello stesso corso di laurea.
Ciò comporta che noi della Segreteria dobbiamo ritirare
il percorso di studi compilato dallo studente per far sì
che i docenti responsabili dei vari corsi di studi possano
verificare la corrispondenza delle scelte dello studente
con le opzioni realmente percorribili da quest’ultimo. La
presentazione del percorso di studi deve avvenire
almeno una volta nella carriera di ogni studente e ogni
qualvolta questi decida di modificare il percorso precedentemente consegnato.
Il piano di studi, invece, riguarda solo gli studenti del
vecchio ordinamento. Occorre quindi non confondere i
termini piano e percorso: solo quest’ultimo, il percorso
di studi, riguarda gli studenti del nuovo ordinamento e
lo studente non deve recarsi da alcun docente né
contrattare in alcun modo le proprie scelte, come invece
può accadere per gli studenti del vecchio ordinamento.
Semplicemente deve consegnare una copia cartacea del
proprio percorso triennale, con gli esami che intende
sostenere, e il docente di riferimento verificherà
l’aderenza di tale percorso con quello previsto dal
Consiglio del Corso di Laurea. Le matricole, ulteriore
precisazione, non devono consegnare il percorso, che
riguarda solo gli studenti che si iscrivono almeno per la
seconda volta e che ancora non si sono laureati.
Da quest’anno, la Segreteria studenti ha attivato anche
uno sportello dedicato solamente al ritiro dei percorsi di
studio, così da snellire ancora di più code e tempi di
attesa. Una volta che il docente ha verificato i percorsi
di studio, pubblica sul sito della Facoltà, o meglio del
corso di laurea interessato, l’elenco dei percorsi
approvati e respinti. Inoltre, lo studente può sempre
verificare la propria posizione ai box office, al punto
Annotazioni, dove noi pubblichiamo tutte le note di
interesse degli studenti.
Per quanto riguarda il percorso di studi, oltre alla
possibilità di scaricare il modulo apposito dal sito, così
come dal sito della Segreteria si possono scaricare tutti
gli altri moduli che servono per adempiere alle richieste
burocratiche della Facoltà, da quest’anno esiste un
indirizzo di posta elettronica al quale si possono inviare
le scannerizzazioni dei moduli per il percorso compilati
dallo studente. Quindi, in linea di principio ma anche
praticamente, lo studente potrebbe svolgere tutta
questa pratica senza mai recarsi in Segreteria.
D: Ed eccoci arrivati alla laurea...
R: Siamo alla seconda occasione per la quale
necessariamente lo studente deve passare in
Segreteria. Occorre infatti che ci consegni la domanda
di laurea. La terza occasione di incontro con la
Segreteria è la consegna dei volumi della tesi. Anche in
questo caso, la domanda di laurea può essere scaricata
dal sito, con tutta la documentazione occorrente; poi lo
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studente si reca a pagare la tassa prevista, compila su
Internet
anche
il
questionario
obbligatorio
di
AlmaLaurea, e nei periodi di scadenza, ampiamente
pubblicati anche questi, ci porta tutta questa documentazione, solo per la consegna.
L’altro giorno avevamo una sessantina di persone in
coda che poi abbiamo scoperto essere qui solo per il
ritiro della documentazione per la domanda di laurea,
nonostante abbiamo più volte e ampiamente pubblicizzato che il tutto è presente sul sito, e tali indicazioni
sono anche riportate sul vetro della porta di ingresso qui
della Segreteria!
D: Abbiamo concluso i punti che riguardano un
percorso “normale”. Passiamo ora a quelli
particolari.
R: Il passaggio avviene quando lo studente cambia il
corso di studi e può essere un passaggio interno, se
resta nella stessa Facoltà, oppure un passaggio ad altra
Facoltà. In questo secondo caso è previsto un
versamento di € 26,00 oltre alla marca da bollo che
deve essere applicata al modulo.
Lo studente si deve recare qui in Segreteria per
consegnare la modulistica relativa che può scaricare dal
sito. Se invece cambia anche Facoltà, allora deve
solamente andare nella Segreteria studenti della Facoltà
nella quale vuole andare.
Per il riconoscimento dei crediti acquisiti in altri corsi di
laurea e la convalida degli esami già sostenuti, lo
studente deve compilare una tabella di conversione
pubblicata sul sito da inserire all’interno del modulo per
la domanda di passaggio.
I trasferimenti, per i quali i moduli sono sempre sul sito,
vengono gestiti da noi e lo studente deve venire qui. In
questo caso, lo studente chiede di cambiare Ateneo.
La rinuncia riguarda il vecchio ordinamento. In questo
caso lo studente rinuncia a tutta la sua carriera
universitaria: gli esami perdono validità. La rinuncia è
discrezionale, quindi può essere fatta dallo studente in
qualunque momento. La decadenza invece è
automatica, ma non d’ufficio, perché occorre sempre
che lo studente presenti la sua istanza alla Segreteria.
In entrambi i casi il libretto va riconsegnato. Per
definizione, si decade una volta intercorsi otto anni
dall’ultimo esame sostenuto o se si è da otto anni in
situazione di fuori corso. Chi è decaduto può far rivivere
la propria carriera, stando a delle regolamentazioni
particolari in merito.
Per quanto riguarda invece il nuovo ordinamento, si
parla di interruzione degli studi: lo studente può
interrompere momentaneamente i propri studi, ad
esempio perché decide di frequentare un master, o un
altro corso di studi; può poi tornare e riaprire la
precedente carriera, pagando una quota prescritta dal
Regolamento Tasse e Contributi.
D: Abbiamo parlato all’inizio anche dei corsi
singoli. Cosa sono?
R: La procedura dei corsi singoli permette a persone che
necessariamente non devono essere iscritte ad alcuna
Facoltà, di partecipare agli insegnamenti che
preferiscono. Possono partecipare a più corsi singoli
nell’arco dello stesso anno accademico. Si paga un
forfait per ogni corso scelto e lo si frequenta,
esattamente come fanno gli altri studenti.
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Risulta un’ottima soluzione per coloro che lavorano e
che vogliono capire, ad esempio, se riusciranno a
intraprendere un certo percorso di studi, oppure per
coloro che vogliono capire se un corso di laurea è di loro
gradimento oppure no. Se l’anno successivo lo studente
in questione decide di iscriversi, può chiedere la
convalida degli esami singoli sostenuti. Oppure, un
laureato si rende conto che gli sarebbe molto utile
sostenere un certo esame, che non era previsto nel
proprio percorso, ma che gli darebbe crediti formativi
utili per una certa carriera o percorso formativo
ulteriore. Questo va ad integrare la carriera accademica.
D: Riepilogando...
R: Speriamo che ora sia più chiaro il fatto che uno
studente in situazione “normale” deve passare dalla
Segreteria solo tre volte: per la consegna del percorso
di studi, per la consegna della domanda di laurea e per
la consegna dei volumi della tesi. Per il resto, tutto è
fattibile rifacendosi al sito della Facoltà e utilizzando i
box office, presso i quali è anche possibile ottenere ogni
tipo di certificazione di cui lo studente potrebbe avere
bisogno.
D: Cosa vorreste dire, per concludere, agli
studenti?
R: Gradiremmo essere rispettati, così come noi
rispettiamo gli studenti. Al di qua degli sportelli c’è una
preparazione, le procedure sono state create da
responsabili che periodicamente aggiornano le regole e
le norme affinché il servizio risponda sempre meglio alle
esigenze degli studenti. Noi facciamo un continuo lavoro
di riorganizzazione, formazione, aggiornamento interni
per garantire agli studenti un servizio di alto profilo. Noi
lavoriamo davvero per loro, perché è in questo che
consistono le nostre mansioni.
Anche se, purtroppo, attualmente questo discorso non
corrisponde alla realtà dei fatti, perché siamo
ovviamente consapevoli che non riusciamo a dare tutto
il sostegno che ci viene richiesto, tuttavia la
responsabilità di questa situazione non può essere
imputata tutta alla Segreteria studenti. Molti dei disguidi
che si creano qui in Segreteria, non ultima la perenne
coda che si trovano ad affrontare gli studenti, sarebbero
evitabili col loro aiuto, perché come abbiamo illustrato
in questa intervista, le reali esigenze che spingono gli
studenti a venire fisicamente da noi sono poche.
Adoperare gli altri strumenti che gli studenti hanno a
disposizione per ottenere le stesse cose che vengono a
chiedere in Segreteria, significherebbe snellire in
maniera massiccia molto lavoro agli sportelli, e questo
libererebbe delle risorse che potrebbero portare avanti
con maggior impegno tutti gli adempimenti che noi
svolgiamo negli uffici, oltre il servizio di sportellistica.
Ma questo spesso è difficile da realizzare, perché le
persone da seguire agli sportelli sono sempre
tantissime.
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Certo, avessimo la possibilità di ottenere un aumento
del personale, le cose potrebbero essere gestite in
maniera diversa, e anche gli studenti sarebbero seguiti
da un numero adeguato di operatori. Ma anche questo
non si verifica, nonostante le nostre ripetute richieste.
Due esempi su tutti sono costituiti dal telefono e dalla
posta elettronica. I nostri telefoni sono costantemente
occupati, tanto che molti studenti, e non solo, si
lamentano di non riuscire mai a trovare la linea libera.
Noi non stacchiamo i telefoni, come qualcuno potrebbe
essere portato a pensare, ma su cinque linee che
abbiamo a disposizione, solo due operatori possono
stare negli uffici a rispondere, perché gli altri devono
stare allo sportello. La posta elettronica subisce un
destino simile: dovremmo avere un operatore dedicato
solo a questa, perché il numero di messaggi che
arrivano è molto elevato.
Queste situazioni portano poi ai paradossi di cui
abbiamo già accennato con studenti che utilizzano tutti i
canali comunicativi a disposizione per accertarsi che il
loro messaggio sia arrivato, ingolfando ancora di più le
linee telefoniche, la posta elettronica e gli sportelli.
Noi siamo qui per aiutare gli studenti e le persone che
lavorano agli sportelli danno sempre il massimo, anche
se può non sembrare così: chiediamo solo una
collaborazione più attiva e una consapevolezza maggiore da parte degli studenti sul fatto che la Segreteria,
spesso, può essere bypassata ricorrendo agli altri
strumenti e apparati pensati appositamente per questo.
D: Grazie. Speriamo che i lettori diffondano il più
possibile questa piccola guida, anche tra coloro
che non sono di SRS.
R: Grazie a voi.
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Intervista a Mariella Berra e Fiorenzo Girotti
Mariella Berra insegna Sociologia delle reti telematiche presso la nostra Facoltà e
Fiorenzo Girotti è titolare dell’insegnamento di Scienza dell’amministrazione. Hanno
condotto una ricerca che ha portato alla pubblicazione di un volume intitolato
“Reinventare l’amministrazione. Culture progettuali e azioni della dirigenza nel processo
di riorganizzazione del Comune di Torino”, Stampatori, Torino, 2003.
Li abbiamo intervistati per farci illustrare i te mi della ricerca, le metodologie utilizzate e i
punti più interessanti ai quali sono approdati.
D: Professoressa Berra, ci può tratteggiare le
ragioni che vi hanno portato alla conduzione di
questa ricerca?
R: Le ragioni della ricerca nascono da una curiosità circa
le trasformazioni organizzative che il Comune di Torino
stava affrontando, negli anni 1999-2002. In questo
periodo, il Comune di Torino ha subito due grandi
trasformazioni organizzative: la prima legata all’arrivo
della prima giunta di centrosinistra, che aveva come
obiettivo quello di rivedere un modello di amministrazione non efficiente e non efficace e quindi di sviluppare
un nuovo tipo di organizzazione più agile, più svelta, più
collegata al territorio, cercando di rendere l’amministrazione più vicina al cittadino, e soprattutto di passare
da un’organizzazione interna di tipo piramidale, gerarchica, ad un’organizzazione che privilegiasse la rete,
formata da diverse comunità organizzative. La seconda
grande trasformazione, invece, ha visto la riorganizzazione del primo modello divisionale adottato e un
assestamento delle modifiche apportate con il primo
intervento. Una terza fase, come poi illustrerà meglio il
professor Girotti, ha riguardato il consolidamento delle
modifiche apportate.
D: Veniamo allora alla prima fase...
R: Il primo passaggio verso la costruzione della rete è
stata la creazione di un modello divisionale: sono state
costituite 22 divisioni e un comitato di coordinamento.
Questo passaggio non è stato certo indolore, ed è stato
un modello corposo sotto diversi punti di vista. Ad
esempio, a livello dirigenziale, sono state premiate
alcune figure professionali ma penalizzate altre.
L’organizzazione diventa più “piatta” e quindi si cerca
anche di collegare i dirigenti di divisione, con figure
intermedie, che saranno oggetto di successive riforme.
Era insomma necessario rivedere e riorganizzare il
rapporto tra la vetrina e il magazzino, tra il front-office
il back-office, con un rapporto molto diverso anche in
vista dell’introduzione di innovazioni e forti investimenti
nella formazione del personale e nell’utilizzo di
tecnologie informatiche. Organizzazione e tecnologie
informatiche erano le idee guida della riforma che
l’amministrazione voleva attuare, utilizzando anche
quelle che erano le risorse disponibili sul territorio come
i punti di forza dell’esperienza tecnologica torinese,
dell’esperienza formativa e di ricerca di Università e
Politecnico, ma anche i grandi centri di formazione
presenti sul territorio: fare questo richiedeva una forte
formazione della dirigenza.
Questa prima riforma è stata successivamente rivisitata
con una successiva riforma che ha modificato in parte il
primo assetto organizzativo, riducendo la dimensione
divisionale e creando una struttura verticale, i servizi
tecnici e i servizi amministrativi, e mettendo a capo di
questa struttura complessiva, due vice-direzioni generali
e una figura istituzionale nuova che continua a
mantenersi solo nella realtà di Torino e Trieste: la figura
del City Manager.
D: Così si è aperta la seconda fase...
R: Esatto. E qual è il significato di questo passaggio?
Una struttura divisionale permette una maggiore
elasticità operativa, cioè consente di essere più vicino
alle concrete situazioni dei cittadini, e consente anche di
attuare logiche di sussidiarietà e di prossimità al territorio, portando ad un ampliamento delle competenze
delle singole istituzioni. Ma tutto questo rischiava di
essere più costoso e meno efficiente, per cui è stata
avviata una riforma che potrebbe essere interpretata
come un passo indietro, ma che invece ha degli
elementi di ambivalenza, che non consentono di parlare
né di passi indietro né di passi avanti, in senso proprio.
Si è andati verso una struttura più accentrata, senza
però tornare alla piramide dalla quale era partita la
prima riforma, che permetteva una maggiore elasticità,
questa volta, organizzativa e non più operativa come
abbiamo detto poco sopra, tipica della struttura
divisionale. Tutte le strutture accentrate sono più facili
da gestire, sono più efficienti e hanno costi minori. Per
andare verso questi elementi di efficienza, il primo
passo è stato quello di ridurre il numero delle persone
nel comitato di direzione, che poi è arrivato a 12
dirigenti più 2 vicedirettori, ma il processo è ancora in
evoluzione.
D: Quali erano gli obiettivi della vostra ricerca?
R: Analizzando tutta questa storia e la sua evoluzione,
volevamo valutare come la dirigenza ha recepito queste
trasformazioni, come le ha giudicate, come le ha
attuate, quali sono stati i problemi incontrati. Questa è
una ricerca da un lato descrittiva del comportamento e
delle trasformazioni organizzative, dall’altro che mira a
comprendere e valutare la soggettività dei diretti
interessati, come il dirigente si auto-percepisce e si
auto-racconta all’interno delle nuove situazioni, in
sintesi quali sono le sue letture delle situazioni. Per
questo, sono state utilizzati sia metodi quantitativi sia
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qualitativi: abbiamo analizzato tutto il materiale documentale, le leggi, le trasformazioni organizzative; abbiamo intervistato i 12 direttori di settore, i 2 vicepresidenti, il direttore generale City Manager, il segretario
generale, quindi 16 figure di alto livello, e poi 35
dirigenti responsabili di settore, uno su quattro di quelli
presenti al momento della ricerca, per un totale di 51
interviste in profondità; successivamente, abbiamo
anche somministrato un questionario di valutazione a
circa 90 persone appartenenti a diversi livelli.
D: Professor Girotti, quali sono secondo lei i punti
più rilevanti del vostro lavoro?
R: Uno degli aspetti più interessanti della ricerca,
secondo me, è proprio quello di aver cercato di
descrivere e anche interpretare il cambiamento dal
punto di vista dei diretti protagonisti. La ricerca, in
fondo, fornisce un quadro dei cambiamenti attraverso le
rappresenta zioni dei direttori e dei dirigenti, e da questo
punto di vista direi che la cosa è molto interessante. Noi
decidiamo di fare la ricerca in un momento in cui la
riforma amministrativa del Comune di Torino è in
agenda, ma è anche il clamore dell’opinione pubblica in
merito che ci spinge verso questo lavoro. La nuova
riforma amministrativa, con il direttore generale, la
riduzione delle figure divisionali, da 22 a 14, non è
indolore. Decidiamo di fare la ricerca sull’onda di questa
tensione, di questo conflitto del quale i giornali parlano
come di una rivoluzione. La ricerca è poi motivata dalla
rilevanza del tema, dall’impatto sociale che una riforma
di questa portata può avere verso la città. Gli obiettivi
dell’amministrazione erano rivolti non solo e non tanto
alle politiche manageriali di razionalizzazione, di
risparmio, di efficienza, di riduzione del personale,
anche se sono stati aspetti importanti; ma soprattutto al
cercare di ottenere un’amministrazione imprenditoriale,
capace di avviare politiche di sviluppo, di portare la città
fuori dalla crisi industriale, di avviare progetti di
sviluppo del terziario avanzato, di sviluppo di beni
immateriali, di rispetto e valorizzazione della scadenza
olimpica, ma anche capace di affrontare in modo nuovo
i problemi di riorganizzazione dei servizi sociali di fronte
alla situazione particolarmente difficile rispetto alle fasce
deboli. Tutto questo era in forse nel momento in cui noi
decidiamo di far partire la ricerca, perché la cosiddetta
resistenza burocratica, era molto forte. Capire cosa
stesse capitando attraverso le testimonianze dei protagonisti era quindi particolarmente rilevante. Abbiamo
fatto delle interviste con le quali chiedevamo ai direttori
e dirigenti di spiegare dal loro punto di vista le cause, le
motivazioni di fondo che hanno avviato l’intera trasformazione, spiegare il processo, spiegare quelle che per
loro erano le fasi significative e anche in qualche modo
di collocarsi rispetto alle nuove culture amministrative.
Tutto sommato si trattava di capire quanto teneva il
modello burocratico, gerarchico, quanto riusciva ad
avere presa il modello divisionale e quanto oltre le
logiche aziendali riusciva davvero a crearsi un modello
di amministrazione diverso, capace di stare entro
logiche di sviluppo che noi oggi leggeremmo in termini
di governance.
D: Si è accennato alle tre fasi della trasformazione
organizzativa, e abbiamo visto brevemente le
prime due...
R: Vorrei fare alcune precisazioni, perché la prima fase,
quella un po’ più dimenticata, ma non dai diretti
protagonisti, è anche quella più interessante.
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Nella prima fase la metodologia di riforma amministrativa è attuata da quello che è stato il primo imprenditore della riforma amministrativa in Torino, un politico,
il professor Donna, un politico un po’ particolare perché
è anche un tecnico, è un valente studioso di economia
aziendale ed era l’assessore responsabile della gestione
dell’azienda comune, ed è lui che si fa imprenditore di
questo progetto. Le metodologie che il professor Donna
utilizza per avviare quella che possiamo definire come la
prima divisionalizzazione, sono molto interessanti,
perché a partire da una situazione ormai ingestibile di
sovrapposizioni di competenze e uffici, mancanza di
comunicazione, pletora di personale mal utilizzato,
eredità di un modello di sviluppo incrementale, che non
aveva mai visto grandi interventi di riorganizzazione, il
professor Donna adotta una visione aperta, pluralista, di
mobilitazione delle risorse interne. Avvia una campagna
di interviste in cui i vecchi dirigenti ai più alti livelli,
quindi anche i dirigenti di settore, vengono sollecitati a
definire la situazione, a formulare una propria diagnosi
dei problemi da affrontare, a delineare delle possibili
terapie e anche a formulare delle proposte di
riorganizzazione. Quindi il metodo è induttivo, è un
metodo di ascolto, è un metodo di grande rispetto di
tutte le posizioni presenti, sia dei dirigenti che per
esperienza e per fama erano dei conservatori, erano dei
“burosauri”, sia di quelli che già avevano dimostrato una
certa propensione al cambiamento.
Questa prima fase della divisionalizzazione guidata dal
professor Donna, sviluppa all’interno della dirigenza un
orientamento riflessivo e direi anche progettuale molto
forte, con una notevole disponibilità ad analizzare,
riflettere, definire i significati e le situazioni. È
importante sottolineare che questa ricerca non ha una
committenza, è una ricerca di base, e noi ci siamo da
subito proposti come universitari che erano interessati
ad analizzare determinati aspetti delle riorganizzazioni
affrontate dall’amministrazione comunale. Dunque,
quando noi facciamo la campagna interviste, con grande
serenità, con grande pacatezza, ci troviamo di fronte a
dirigenti disposti a discutere, parlare, riflettere e
interpretare, e questa è stata una grande risorsa che ci
ha consentito anche di uscire dall’idea di fare una
ricerca tutto sommato tranquilla, e fare invece una
ricerca importante perché viveva di questa onda lunga
di riflessività creata dalla prima fase guidata dal
professor Donna. Abbiamo fatto a
l ricerca, i dirigenti
hanno ricostruito la vicenda, e dopo una prima fase
arriviamo alla seconda parte che è quella che vede da
un lato l’istituzione del City Manager, quindi l’arrivo del
direttore
generale,
dall’altro
lato
una
forte
semplificazione organizzativa con meno divisioni,
l’inserimento dei servizi centrali, e i cambiamenti nello
stile di direzione e mobilitazione delle energie interne.
D: Ce la può descrivere?
R: Nella prima parte l’imprenditore è un politico, per
quanto dotato di grande competenza tecnica si muove
come un politico. Nella seconda fase l’imprenditore della
riforma è un tecnico, è il City Manager e nel caso
torinese è un manager di provata esperienza in grandi
disegni di riforma di enti quali le poste e prima ancora le
ferrovie. Dunque, è un tecnico che ha tutta la cultura
del New Public Management, ha tutta la cultura
dell’efficienza della razionalizzazione aziendale, qualità
importanti in una fase in cui occorre capire come riassegnare e ri-allocare i dirigenti, come agire verso la
resistenza sindacale e di coloro che si sentono
declassati. Il direttore generale interpreta il suo ruolo
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con un grande investimento in primo luogo sulla
gestione del personale, e direi anche nelle relazioni
sindacali. Inoltre, assistiamo anche a un grande sforzo,
potremmo dire pedagogico, da parte della nuova
dirigenza: il comitato di direzione, diventa una specie di
collegio in cui nuovi modelli gestionali, nuove tecniche,
nuove modalità di relazione tra i vertici amministrativi i
quadri intermedi e i front-office, vengono tematizzate,
vengono discusse, si formano progetti e sperimentazioni
che settimanalmente vengono verificate. Quindi c’è un
processo di apprendimento dall’alto, che è particolarmente significativo e che è quello che in qualche modo
consente di mantenere alto il profilo della riforma,
anche in una fase che apparentemente può sembrare un
ritorno a un modello centralistico.
D: Arriviamo alla terza fase...
R: La terza fase, che possiamo definire la fase di
completamento di questo primo ciclo di riforme, va dal
2000 in poi, ed è una fase di consolidamento delle
prime sperimentazioni avviate ma anche di ulteriori
piccole ristrutturazioni, che dal punto di vista organizzativo sono però meno significative di quelle precedenti.
Che cosa dire rispetto ai nodi più importanti che
emergono dalla ricerca? Sicuramente, emergono con
grande chiarezza i vantaggi e gli svantaggi di un
modello organizzativo divisionale, orientato a una
maggiore qualità ed efficacia dell’azione amministrativa
ma che ha dei costi particolarmente elevati, legati al
decentramento di tutti gli apparati logistici, tecnologici e
di personale necessari all’autonomia dei singoli uffici. La
seconda cosa importate, io credo, è proprio il cambiamento di cultura che si produce attraverso una sperimentazione di un nuovo modo di amministrare: prima la
conformità alla regola era la guida; da un certo
momento in poi il lavoro non è più per conformità alle
regole ma diventa un lavoro per progetti, ed è un lavoro
che si confronta costantemente coi risultati. Questa
sperimentazione prima e poi consolidamento del lavoro
per progetti è segnalato dai dirigenti come il grande
cambiamento, su cui alcuni investono di più, altri con
una certa fatica entrano, all’intero di un gioco
processuale che è anche un gioco di ri-allocazione delle
risorse e di ri-distribuzione dei pesi e del potere
all’interno della stessa amministrazione. Lavorare per
progetti verificando i risultati in relazione agli obiettivi,
ha un risvolto molto importante, che è stato vissuto con
maggior tensione da tutta la dirigenza: si entra in un
gioco competitivo molto forte in cui vince chi produce i
migliori risultati. Occorre tenere anche conto che una
parte della remunerazione inizia a essere legata al
raggiungimento di certi risultati. Crea anche un clima di
insicurezza, di preoccupazione di fronte all’esame
continuo di quello che il dirigente produce. Legato a
questo, c’è il problema per i dirigenti di disporre di
risorse adeguate, in primo luogo delle risorse umane.
Non si può scegliere liberamente la propria squadra e
quindi per avere gli uomini migliori all’interno del
proprio settore c’è un gioco di scambi, di negoziazioni,
dove conta avere alle spalle un direttore forte,
autorevole, che al tavolo delle negoziazioni sia in grado
di imporsi. Le altre risorse importanti sono quelle
tecniche, legate agli strumenti di lavoro ma anche agli
strumenti informatici. Questi servizi sono centralizzati,
oppure dati in gestione all’esterno, ma di fronte a quelle
divisioni che hanno un bisogno costante di analizzare la
domanda sociale, analisi della dinamica dei bisogni,
costante aggiornamento di dati secondari, il non avere
delle basi di dati interne che il dirigente è in grado di
implementare, di controllare, di interrogare quotidianamente con molta flessibilità, costituisce un problema.
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Altro punto riguarda le tensioni che si vengono a
produrre tra politico e dirigente, all’interno di questo
nuovo modello di gestione. Tradizionalmente il politico
era il decisore, il dirigente era l’esecutore, e la divisione
si giocava nella subalternità. L’assessore era un politico
che oltre a definire gli obiettivi tendeva a controllare
anche le modalità attuative, girando fisicamente per gli
uffici. La nuova riforma è incentrata invece su un grosso
recupero di autonomia da parte del dirigente. Il vecchio
politico mal si adatta a questa nuova propensione.
Tuttavia sorge un nuovo problema, che è poi un’esigenza fondamentale del nuovo politico che non interferisce
con l’opera dei dirigenti: quella di avere un solo dirigente, o pochi, con cui interloquire, perché se il politico
delega l’implementazione dei programmi ai dirigenti,
occorre che la persona alla quale tale implementazione
è delegata ne sia anche responsabile. Non è concepibile
che il politico per sapere a che punto sia una propria
azione, un programma, debba rivolgersi a tutti i dirigenti dei settori interessati e ricostruisca da sé l’iter della
pratica.
D: Professoressa Berra, quali sono, in conclusione,
i risultati ai quali siete giunti?
R: Da un lato abbiamo potuto osservare l’evoluzione
delle fasi di trasformazione attraverso la descrizione, i
racconti dei protagonisti, di coloro che hanno vissuto in
prima persona le fasi di questo processo di
riorganizzazione, e grazie a questo, abbiamo potuto
dare corpo a dei concetti classici della ricerca sociale:
che cosa vuol dire flessibilizzare; qual è il rapporto che
si va a costruire tra politici e burocrati, domanda
classica della sociologia dell’amministrazione; che cosa
significa rifondare un nuovo processo di deburocratizzazione, un nuovo modello di riorganizzazione. E ancora
quali sono stati gli impatti interni, quali le risorse
utilizzate e quali le difficoltà riscontrate in questi
passaggi; in altri termini, come già diceva Gouldner:
“come è difficile fondare un processo di burocratizzazione, ”. Per la pubblica amministrazione è ancora molto
più difficile che mutare un modello organizzativo
all’interno di un’impresa. E questo porta anche, se
vogliamo, a una prima conclusione: come sia difficile
costruire un’amministrazione imprenditoriale, efficiente,
efficace, rispetto invece a un retorica corrente sulla
aziendalizzazione delle organizzazioni pubbliche.
Abbiamo avuto la possibilità di studiare, attraverso le
testimonianze di chi ha vissuto la riorganizzazione
dall’interno, come un’amministrazione si modifica al fine
di realizzare concretamente i principi di efficacia,
efficienza e prossimità col cittadino, guardando sia al
proprio interno, e quindi attraverso una ri-allocazione
delle risorse e una ri-definizione di obiettivi, strategie e
poteri interni, sia verso l’esterno, considerando i
soggetti istituzionali pubblici e privati, ma anche gli
stessi cittadini, come risorse con le quali collaborare.
L'analisi, quindi, sulla riorganizzazione amministrativa
del Comune di Torino potrebbe offrire indicazioni e
strumenti di riflessione sulle sfide che devono oggi
affrontare le amministrazioni locali, sul piano organizzativo, tecnologico e comunicativo, per dare risposte di
qualità ad una domanda sociale sempre più differenziata
ed esigente in un contesto di risorse scarse. La lettura
poi dei problemi sollevati dalla riorganizzazione di un
Comune di grandi dimensioni (il quarto in Italia) che, in
modo ambizioso, si è posto un progetto di innovazione
organizzativa e tecnologica, e che resta all’avanguardia
tra le esperienze nazionali, potrebbe e dovrebbe inoltre
offrire utili suggerimenti per la realizzazione e lo
sviluppo dell’e-government e dell'e-governance.
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Professione Student e
Professione Studente
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Intervista a Riccardo Spadotto
Il Dr. Spadotto è stato il tutor del corso a distanza in Sociologia per il secondo semestre dello scorso anno
accademico. Ci siamo fatti raccontare la sua esperienza.
D: Buongiorno Riccardo. Ci dici brevemente qual è
stato il tuo ruolo?
R: Mi sono laureato in scienze politiche, con una tesi in
sociologia, nel dicembre del 2003; in seguito sono stato
nominato cultore della materia. Ho poi partecipato al
concorso per l’assegnazione dei contratti per collaborare
alla didattica a distanza e ho ottenuto l’assegnazione di
tre distinte collaborazioni che rendono ragione del
particolare assetto del corso. Infatti, per motivi sperimentali e di sinergie, il docente titolare del corso – il
professor Almondo – teneva al fatto che un’unica
persona provvedesse sia alla preparazione dei materiali,
sia alla didattica in aula (per cui erano previste 30 ore,
un mezzo-corso tradizionale), sia alle attività di
tutorship via Internet.
D: In questo pezzo vorremmo che tu ci parlassi
dell’esperienza dello scorso anno per la didattica a
distanza del corso di Sociologia. Come sai, lo
scorso mese abbiamo pubblicato altri articoli sulla
didattica a distanza. Il tuo corso si è già svolto,
quindi potremmo dare un quadro riassuntivo di ciò
che è accaduto, toccando i punti di forza e quelli di
debolezza della tua esperienza.
R: L’unico vincolo postomi dal docente titolare è stato
quello di una corrispondenza contenutistica con i temi
da lui trattati nel suo corso di Sociologia e quindi anche
l’adozione dei relativi testi d’esame. Dopo aver
consultato il materiale del corso di sociologia a distanza
tenuto
precedentemente
dallo
stesso
professor
Almondo, ho avuto la più ampia autonomia nella cura
della nuova edizione, sotto tutti gli aspetti.
D: Come era articolato il corso?
R: La scelta dei particolari contenuti didattici dipende
dalle opzioni espresse dal professor Almondo nella sua
introduzione al libro di David S. Hachen, La sociologia in
azione. Come leggere i fenomeni sociali (Roma, Carocci,
2003). Il testo di Hachen si basa sulla discussione di
casi decisionali come modo per introdurre le tematiche
sociologiche agli studenti, e in questo risulta innovativo
rispetto ai manuali tradizionali. Nel corso a distanza ho
cercato di seguire la medesima impostazione del testo.
Per ciò che concerne l’organizzazione didattica, il corso
si presenta essenzialmente come gli altri insegnamenti a
distanza. Tuttavia, ci sono state alcune importanti
differenze che vorrei illustrare. Come per gli altri corsi,
si è tenuto un incontro di presentazione, nell’aula
informatica del CISI che poi nel mio caso è stato seguito
da dieci incontri di didattica in aula (affiancati da dieci
unità didattiche a distanza), contro i tre incontri in
presenza previsti dagli altri corsi. Tutti gli incontri in
presenza, della durata di tre ore ciascuno, si sono svolti
il sabato mattina (a eccezione di due recuperi
infrasettimanali), per consentire una regolare frequenza
agli studenti lavoratori.
Ho quindi suddiviso il corso in due cicli didattici, Teoria
sociale e Ricerca Sociale, ciascuno composto da una
serie di cinque unità didattiche a distanza e da cinque
incontri in presenza della durata di tre ore ciascuno.
D: Come si componevano le unità didattiche?
Le unità didattiche a distanza consistevano nella
pubblicazione in Internet delle attività – da svolgersi
secondo le modalità in esse specificate – e di materiali
di supporto allo studio; inoltre, avveniva la somministrazione agli studenti di questionari (test) per l’autovalutazione della preparazione; si procedeva poi alla
discussione delle domande formulate dagli studenti
(pubblicate sul forum di discussione o inviate al docente
via posta elettronica); infine, occorreva partecipare alle
altre attività interattive previste dal corso, tra le quali la
assistenza on line e il ricevimento studenti presso il
dipartimento di scienze sociali. La pubblicazione su
Internet del materiale didattico avveniva sempre nel
medesimo giorno della settimana.
D: Potremmo fare un esempio illustrando nel
concreto cosa facevano gli studenti?
R: Partiamo, ad esempio, dalla prima unità didattica a
distanza. Il primo sabato di lezione in presenza, avviavo
la prima unità didattica, pubblicando le attività e i
materiali sul sito , aprivo il forum e ricevevo i messaggi
di posta elettronica con le domande degli studenti.
Per il venerdì successivo era fissato il termine per la
presentazione delle domande (posta elettronica), dei
temi di discussione (forum) e della prima parte di
esercizi da svolgere a casa: gli studenti iniziavano a
studiare sabato pomeriggio, e lavoravano sul testo fino
a venerdì.
Il secondo sabato si teneva un nuovo incontro in
presenza, con l’avvio della seconda unità didattica, e
quindi la pubblicazione di attività e materiali a questa
inerenti, e la spiegazione della prima unità didattica che
gli studenti avevano affrontato a casa nel corso della
settimana precedente; inoltre, pubblicavo il test di autovalutazione relativo alla prima unità didattica che gli
studenti dovevano svolgere entro il martedì seguente.
Il venerdì successivo c’era il termine per la
presentazione delle domande (posta elettronica) e dei
temi di discussione (forum) sulla seconda unità
didattica.
Infine, il terzo sabato chiudevo la prima unità didattica
con la correzione del test relativo ad essa, spiegavo
parti della seconda unità didattica e rispondevo in
merito alle domande degli studenti, e avviavo la terza
unità didattica, sempre con la pubblicazione dei
materiali e delle attività ad essa collegate. Infine,
pubblicavo il test sulla seconda unità didattica.
Questo ciclo si è ripetuto per tutto lo svolgimento del
programma.
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In questo modo, passo dopo passo, gli studenti svolgevano il programma e le attività connesse e io, in qualità
di tutor, seguivo la loro preparazione, intervenendo
sulle lacune o mancanze e sollecitando la consegna delle
attività previste, quando queste tardavano ad arrivare.
Ogni studente sapeva in questo modo che cosa noi ci
aspettavamo da lui, giorno per giorno, e in questo modo
risultava anche più semplice programmare il proprio
lavoro a distanza.
D: Su quali testi gli studenti si sono preparati?
R: Il testo di Hachen ha costituito la parte innovativa del
corso e quello sul quale il mio lavoro si è basato
maggiormente. Era inoltre previsto un testo di Carlo De
Rose, Che cos’è la ricerca sociale, Roma, Carocci, 2003,
che è stato adottato per unire teoria e ricerca sul
campo. Almondo, infatti, ritiene opportuno fondere
insieme teoria e ricerca sociale già in un corso
introduttivo, per offrire – anche agli studenti che dovessero affrontare solo questo corso di sociologia – una
preparazione, seppur di base, in grado di unire gli
aspetti teorici della sociologia con una consapevole
padronanza del linguaggio di base della ricerca. Infine,
erano
previste
due
importanti
voci
tratte
dall’Enciclopedia delle Scienze Sociali Treccani: “Interazione sociale” di Brigitta Nedelmann e “Organizzazione”
di Giuseppe Bonazzi.
D: Quali obiettivi vi eravate prefissati?
R: Gli obiettivi erano quelli di fornire agli studenti gli
elementi linguistici e cognitivi di base della valutazione
sociologica, della realtà sociale e della ricerca sociale;
consentire l’individuazione dei processi di produzione dei
dati sociologici e imparare a leggere gli eventi sociali in
un’ottica sociologica.
Come detto, il corso era suddiviso in due parti distinte:
la prima, dedicata alla teoria sociale e al linguaggio
categoriale (teorico-analitico) della sociologia, basata
sul volume di Hachen, nel quale vengono introdotti
progressivamente gli elementi di base della prospettiva
sociologica, i livelli di analisi e alcuni riferimenti alle
principali teorie sociologiche. Gli incontri in presenza e
le unità didattiche a distanza di questa prima parte
seguivano la partizione in capitoli di questo testo.
La seconda parte, basata sul testo di De Rose, era
dedicata al linguaggio e alle finalità della ricerca sociale.
L’obiettivo era quello di porre lo studente nelle
condizioni di saper tradurre una generica curiosità sulla
realtà sociale in una specifica domanda cognitiva da cui
muovere nella conduzione di una ricerca empirica;
acquisire la capacità di individuare l’itinerario di ricerca
più appropriato all’elaborazione di una risposta plausibile a una domanda cognitiva data; argomentare sul
carattere “costruito” dei dati empirici e sulla centralità
dell’attività di classificazione. Qui gli incontri in presenza
e le unità didattiche a distanza seguivano una
ripartizione che prevedeva di porre l’attenzione sugli
oggetti e le finalità della ricerca sociale, le tappe di una
ricerca, e poi gli aspetti principali di ricerca quantitativa,
ricerca qualitativa, campionamento e analisi dei dati.
In generale, quello che abbiamo tentato di fare era di
aiutare ogni studente ad orientarsi all’interno del corso
e della materia, in modo che in ogni momento sapesse
dove si trovava e verso quale direzione si stava
andando. Il sito era impostato in modo da avere dei
rimandi interni che consentissero agli studenti di trovare
in modo semplice i temi trattati durante l’ultima lezione
in presenza, le attività da svolgere legate a questa e i
Sociologia e Ricerca Sociale
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materiali di supporto: dare, insomma, attraverso la
gestione del sito, anche una guida, un esempio, per la
gestione del proprio materiale di studio.
D: Immagino che con l’ausilio di Internet e della
posta elettronica siano stati diversi gli strumenti
che hai utilizzato per interagire con gli studenti, al
di là delle lezioni in presenza...
R: Occorre considerare che la calendarizzazione del
corso era abbastanza impegnativa, con le dieci unità
didattiche in presenza e le dieci a distanza, e quindi era
per me prioritario seguire ogni studente affinché
restasse al passo. Ho creato un piccolo strumento che
consentisse di muoversi meglio all’interno del corso e
una guida che aiutasse gli studenti a tenere sempre a
mente e rispettare le scadenze previste; è nata l’Agenda
del corso nella quale venivano riportati tutti gli
appuntamenti da rispettare, le attività da svolgere e i
tempi per le consegne.
D: Quindi da parte tua c’è stato un forte impegno
a far sì che tutti rimanessero al passo.
R: Certo, era importante seguire il programma e
rimanere al passo, perché la logica del corso era la
stessa del testo di riferimento, ovvero una logica
incrementale, dove ogni parte affrontata serviva per il
prosieguo della preparazione: saltare una o più parti
significava
quindi
rimanere
indietro,
ma
con
l’aggravante che gli iscritti, quasi tutti lavoratori, non
avevano una risorsa-tempo ampia come possono avere
studenti frequentanti che non lavorano. Ecco che aiutare
gli iscritti nell’organizzazione del lavoro era uno dei miei
compiti principali: accompagnarli e seguirli fino alla
conclusione del corso, con l’esame finale.
D: Quanto impegno era richiesto agli studenti?
R: Oltre alla partecipazione agli incontri in presenza,
potremmo dire che occorrevano almeno un paio d’ore al
giorno per leggere e preparare le parti di programma di
volta in volta affrontate; a questo si aggiungeva il
tempo necessario allo svolgimento del questionario di
verifica di ogni unità didattica, da affrontare quasi ogni
settimana, che comportava un impegno che poteva
andare dalle quattro alle otto ore di lavoro, e spesso i
nostri iscritti svolgevano questi test la domenica. Inoltre
i temi periodicamente proposti miravano ad accompagnare la maturazione dell’occhio sociologico degli
studenti.
D: Un esempio?
R: Il primo scritto proposto agli studenti era incentrato
su una loro presentazione: chiedevo ad ognuno di
presentarsi, di raccontarsi un po’, di darmi una sorta di
piccolo sunto biografico per avere idea di chi avessi di
fronte, dunque: chi sei, perché sei qui, cosa ti piace,
cosa vorresti, ecc. Ognuno ha più o meno gradito,
scritto, presentato il proprio sé o i propri sé, comunque
questa cosa ha avuto un discreto successo anche perché
è riuscita nell’intento di creare quel gruppo, quella
community che poi si è sviluppata con le pizze
sociologiche (io e la mia classe a mangiare la pizza sotto
la Mole - adesso siamo impegnati nella preparazione
della seconda edizione!). A parte le occasioni di
socialità, l’importanza della community emergeva
nell’interazione tra loro e con me sul forum del sito, un
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luogo pensato per condividere domande, perplessità,
curiosità e tutto ciò che poteva riguardare il corso e che
poteva risultare interessante condividere con gli altri.
Gli altri temi proposti erano incentrati sui temi dell’unità
didattica alla quale si riferivano.
D: Certo il pericolo di copiare o di eseguire le
attività col libro sotto gli occhi è sempre
presente...
R: In primo luogo tengo a precisare che tutti gli esercizi
e i temi da svolgere venivano corretti e commentati, ma
non costituivano oggetto di valutazione ai fini dell’esito
dell’esame finale. In secondo luogo, la formulazione
delle domande era pensata per invitare gli studenti alla
consultazione critica dei testi di riferimento, per aiutarli
ad individuare le chiavi di volta delle argomentazioni.
Potrei dire che ogni test ha finito per costituire una
guida alla lettura piuttosto che una verifica casuale. In
questo senso, l’eventualità che gli studenti copiassero
perdeva di significato. In ogni caso ritengo che su
questo punto la consapevolezza dei docenti sia alta, ma
credo anche che l’obiettivo della didattica a distanza non
sia quello di non far copiare gli studenti mentre
eseguono le attività proposte: io ho interpretato questa
attività come un vero e proprio esempio di tutorship
anglosassone dove il tutor segue in maniera
personalizzata l’apprendimento degli studenti.
D: Quanti studenti avevi?
R: Circa 25, tutti lavoratori, con un’età grosso modo
compresa tra i 25 e i 35 anni. Quasi tutti impiegati nel
terzo settore e nella pubblica amministrazione.
D: E come ti sei trovato?
R: Io ero alla mia prima esperienza d’insegnamento e
all’inizio ero un po’ preoccupato, soprattutto perché
volevo riuscire a seguire bene ogni studente e non
avendolo mai fatto non avevo un’esperienza pregressa
che mi aiutasse in questo.
Sociologia e Ricerca Sociale
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D: Il programma d’esame è diverso per gli iscritti
alla didattica a distanza?
R: No, anche se a volte Almondo usa altri materiali per i
frequentanti, ma l’Hachen e gli altri testi sono presenti
in tutti i tipi di programma. Ovviamente si teneva poi
conto, in sede d’esame, del programma svolto da
ciascun studente. L’esame è orale, anche se poi
abbiamo fatto qualche scritto e per questi ci siamo
basati sui test che io sottoponevo agli studenti a
distanza.
D: Dal tuo punto di vista, che tipo di esperienza è
stata questa?
R: Per me è stato molto impegnativo seguire questa
attività: volevo realizzare un buon “prodotto”, per
questo ho letto tantissimo, mi sono documentato, ho
continuato anche durante il corso ad approfondire i temi
che sentivo più presenti all’attenzione degli iscritti.
Volevo un corso a distanza “facile da usare” e attento
alla dimensione educativa. Per l’attività didattica vera e
propria, ho fatto riferimento, tra altri, all’opera di
Martha C. Nussbaum, una filosofa americana che si è
occupata anche di educazione superiore (cfr. il suo
Coltivare l’umanità , Carocci, Roma, 1999). Nussbaum
ha illustrato un metodo di educazione fondato sull’autoesame socratico che il testo di Hachen in qualche modo
implica e allo stesso tempo coltiva: l’acquisizione
dell’occhio sociologico comporta che lo studente sia in
grado di confrontarsi con la propria capacità di
argomentare e difendere le proprie opinioni e a curare
la padronanza del linguaggio tecnico della disciplina; la
sequenza dei casi decisionali e dell’esposizione dei
concetti e delle teorie sociologiche è pensata proprio per
questo.
D: Grazie Riccardo, credo sia stato molto utile
raccogliere questa tua esperienza e mi auguro che
tu possa continuare nella tua attività didattica.
R: Grazie a voi, arrivederci.
D: Il numero di studenti era adeguato?
R: Mi sono trovato benissimo dal punto di vista
dimensionale. Abbiamo potuto lavorare in un’aula con i
tavoli disposti a semicerchio, e questa vicinanza con me
e tra di loro ha incoraggiato anche il confronto e il
coinvolgimento reciproci. All’inizio ero un po’ intimorito
da questo setting, molto diverso dalla (per me) più
rassicurante lezione ex-cathedra, ma il professor
Almondo ha insistito perché per lui questa era la strada
giusta, e alla fine devo riconoscere che ha avuto
ragione: da questo punto di vista il corso è andato
molto bene, è stato coinvolgente e interattivo come era
stato pensato e anche io mi sono trovato a mio agio.
Per illustrare i temi ho usato molto le lavagne perché
faccio sovente riferimento – e invito ad usare – le
mappe cognitive. Mi è sembrato che anche gli studenti
si siano trovati bene. Poi abbiamo parlato di tutto: del
programma, ma anche di approfondimenti che in prima
battuta sembravano portar via tempo allo svolgimento
del programma e che in realtà erano utili per il
confronto anche sui temi affrontati nel corso; inoltre,
erano stimolanti per il dialogo e la comunicazione e
quindi io ero ben contento di assecondarli.
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Professione Student e
Professione Studente
12
Continuiamo in questo numero il ciclo di presentazioni dei lavori eseguiti da alcuni degli studenti del
Laboratorio di Ricerca Qualitativa dello scorso anno accademico.
Si tratta di elaborati svolti come esercitazioni, che quindi non devono essere letti come ricerche
complete e esaustive, ma che rappresentano al contempo degli ottimi esempi di che cosa significhi
affrontare un tema in modo scientifico, avvicinarsi ad alcune tecniche di ricerca, affrontare la ricerca
sul campo e poi confezionare un testo che presenti le esperienze fatte e le osservazioni raccolte.
In questo numero presentiamo il lavoro di Cassandra Dicandia, la quale ha scelto di cimentarsi
nell’osservazione naturalistica, confrontando tra loro due corsi universitari e quello di Andrea Bazzoni
dedicato alla paura dell’esame.
LA FABBRICA DEGLI AVVOCATI E QUELLA DEGLI ARTISTI.
LA RELAZIONE DIDATTICA A GIURISPRUDENZA E AL DAMS
di Cassandra Dicandia
La ricerca che ho condotto nell’ambito del Laboratorio di
ricerca qualitativa ha come obiettivo l’analisi della
relazione didattica, del rapporto studente-docente. Ho
condotto il mio lavoro prendendo in esame i corsi che si
tengono in due facoltà: Giurisprudenza e DAMS. Si
tratta di facoltà che si collocano agli estremi del
continuum che oppone le professioni tradizionali, da un
lato, alle nuove professioni, dall’altro. Lo studio mette a
confronto le scelte didattiche dei docenti preposti alla
formazione di figure professionali così diverse e analizza
la relazione tra docente e studenti che prende forma nei
due contesti.
Lo studio della relazione didattica è stato condotto
ricorrendo all’’osservazione naturalistica; una tecnica
che consente di analizzare l’interazione sociale attraverso un’osservazione non intrusiva, in un ambiente
naturale. Ho scelto corsi di laurea appartenenti a lauree
triennali, in quanto le lauree quadriennali sono ormai
prossime alla dissoluzione e quindi sarebbe stato
impossibile rintracciare corsi dove fossero esclusivamente presenti studenti del vecchio ordinamento. Nella
fattispecie, per Giurisprudenza sono stati scelti i corsi di
laurea in Scienze giuridiche e in Diritto ed economia
delle imprese, mentre per il DAMS la scelta è ricaduta
sul percorso teatrale e musicale. La scelta dei corsi su
cui condurre l’osservazione è stata guidata da un
insieme di criteri di cui do conto di seguito. Ho
cominciato col considerare i soli corsi caratterizzanti.
Tra questi ho poi selezionato quelli rivolti agli studenti
iscritti al secondo o al terzo anno, poiché in questo
modo mi è stato possibile analizzare studenti ormai
inseriti nel “mondo universitario”, i cui atteggiamenti
sono quindi consolidati da una serie di esperienze in tale
ambito. Infine, ho voluto prendere in considerazione
solo le lezioni comprese nella fascia oraria 12.00-14.00
e 14.00-16.00, in modo che fattori quali la stanchezza e
del docente o del discente, potessero essere considerati
con lo stesso peso.
L’osservazione si è poi concentrata su una serie di
fattori riconducibili a tre macro-insiemi relativi al
docente, al discente e al rapporto docente-discente.
Inoltre, durante l’osservazione sono state raccolte
opinioni e pareri sull’argomento all’interno di un piccolo
gruppo di studenti. Per quanto riguarda il docente,
l’analisi si è concentrata su due livelli: uno riferito alle
caratteristiche personali quali il tono della voce, il
linguaggio, la gestualità e il tipo di abbigliamento; l’altro
aspetto si riferisce invece agli stili didattici e quindi tutto
ciò che fa riferimento alla spiegazione e all’uso di
strumenti didattici. Anche per quanto riguarda il
discente, l’analisi si è concentrata sulla gestualità e sul
modo di vestire, per andare a capire se ci sono
sosta nziali differenze comportamentali fra gli studenti
appartenenti alle due facoltà.
Per quanto riguarda il rapporto docente-discente, gli
aspetti osservati fanno riferimento alla frequenza con
cui il discente interviene durante le lezioni e alla
disponibilità del docente a far intervenire il discente.
Inoltre ho osservato il tipo di rapporto tra docente e
discente che ho definito come formale o informale
aggiungendo a questa distinzione un altro fattore ossia
l’accademicità dei temi trattati, per cercare di analizzare
in modo più puntuale il tipo di rapporto. Infine ho
analizzato l’attenzione del discente durante le lezioni.
Sulla base dei materiali empirici raccolti, ho creato una
serie di tipologie che riguardano il docente, il discente e
il loro rapporto. La prima tipologia si riferisce al modo in
cui il discente può essere coinvolto nella lezione.
Possiamo immaginare una serie di livelli ordinabili su di
una scala crescente. Ad un livello “0” di coinvolgimento
corrisponderebbe il ruolo dello studente stenografo: in
questo caso il docente considera l’alunno come un
semplice stenografo collocandolo in una posizione di
passività. Ad un livello “1” di coinvolgimento
corrisponderebbe il ruolo dello studente stenografo
astuto: in questo caso la comunicazione continua ad
avere una sola direzione, ma lo studente viene
considerato capace di distinguere il necessario dal
superfluo e quindi è in grado di prendere appunti in
maniera consapevole e selettiva. Ad un livello “2” di
coinvolgimento lo studente veste i panni del
rassicuratore, ossia colui in cui il docente ricerca le
domande, ma in maniera puramente formale: “tutto
chiaro?”. Ad un livello “3” di coinvolgimento
corrisponderebbe il ruolo dello studente condotto, ossia
dello studente che fa domande ma su richiesta del
docente, il quale cerca di istaurare una comunicazione
bi-direzionale. Ad un livello “4” corrisponde il ruolo dello
studente partecipante: il docente è interessato alle
opinioni e ai punti di vista del discente, lo studente è
stimolato a partecipare alla discussione sviluppata in
aula, diventando così uno studente attivo: la loro
diventa una comunicazione bi-direzionale a tutti gli
effetti. Ad un livello “5” corrisponderebbe il ruolo dello
studente complice: come è possibile intuire a questo
livello il discente non solo partecipa ma è anche
“complice”, per così dire, dello stesso docente. Nel
livello “5” il docente è disposto a far entrare il discente
in quello che è il “cerchio magico” dell’insegnamento,
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13
condividendo con il discente non solo una lezione ma anche “un’esperienza di vita”.
Fino ad ora abbiamo visto il modo in cui il docente può coinvolgere il discente nella sua lezione ora invece possiamo
delineare una tipologia di studenti a seconda del loro livello di partecipazione. Allora avremo: lo studente svogliato ,
ossia colui che è passivo perché non è interessato a quella disciplina, lo studente che si siede in fondo all’aula e
chiacchiera con il vicino di banco; lo studente timoroso, ossia colui che è interessato alla lezione e prende appunti,
ma non interviene perché teme di fare brutta figura e quindi preferisce stare zitto; e ancora, lo studente
esibizionista , ossia colui che interviene durante la lezione, ha sempre la mano alzata, ma ha come unico obbiettivo
quello di farsi notare dal docente, perché pensa in questo modo di poter ottenere delle agevolazioni. Chiude la
nostra galleria lo studente student, o studente attivo. In questo caso il discente sarà realmente interessato alla
disciplina e instaurerà un confronto critico sia con il discente che con i propri compagni di corso.
Spostiamo ora la nostra attenzione sulla figura del docente, prendendo in considerazione il rapporto istituito in
classe tra la lezione e l’esame. Sotto questo profilo è possibile distinguere due stili didattici incarnati dalle figure del
maestro e dell’insegnante . Per il maestro l’esame è un aspetto inessenziale nella relazione didattica: ci deve essere
ma non è per l’esame che si fa (e si partecipa alla) lezione. Nel rapporto docente-discente, quel che conta è
trasmettere la propria conoscenza in modo che il discente sia più preparato ad affrontare la vita. Altro è il caso,
anch’esso idealtipico, dell’insegnante, per il quale il superamento dell’esame costituisce per il discente il primo e
forse il solo obiettivo della presenza alle lezioni e il voto, in questa luce, diventa la merce di scambio.
Concludendo, possiamo dire che questa ricerca ha portato a risultati interessanti, che non hanno però la pretesa di
essere esaustivi, consapevole del fatto che quest’argomento andrebbe sviluppato più a lungo e più in profondità.
Tuttavia notiamo come l’immagine del discente è caratterizzata da un comportamento comune indipendentemente
dalla facoltà; comportamento caratterizzato da una certa passività che possiamo attribuire ad un atteggiamento e
un comportamento appreso; questo perché il campione da noi preso in considerazione è formato da studenti del
secondo e terzo anno a cui un comportamento di questo tipo non può essere imputato ad un iniziale
disorientamento che invece potremmo riscontrare nelle matricole.
Per quanto riguarda il docente invece, possiamo notare come effettivamente la strategia didattica usata al DAMS sia
completamente diversa rispetto a quella usata a Giurisprudenza, in entrambi i casi i docenti trasmet-tono nozioni ai
discenti ma lo fanno in modo completa -mente diverso. Al DAMS il docente non solo trasmette nozioni ma cerca di
sviluppare un dialogo critico con lo studente, cosa che non accade a Giurisprudenza, dove il docente si limita a
trasferire un insieme di contenuti allo studente per consentirgli di superare l’esame. È importante sottolineare come,
in entrambi i contesti, non manchino le eccezioni.
E SAMI DA PAURA !
I RISULTATI DI DUE FOCUS GROUP SULLA PAURA
DELL’ ESAME
di Andrea Bazzoni
L’esercitazione che ho condotto nel Laboratorio di
ricerca qualitativa aveva come oggetto la paura
dell’esame. Mi è sempre interessato conoscere ed analizzare l’approccio degli studenti agli esami universitari,
le strategie adottate per affrontare queste prove, i
pensieri e le emozioni che accompagnano gli studenti
nei giorni e nelle ore che precedono l’esame. La mia
domanda cognitiva parte proprio da qui: paura? Quali
emozioni accompagnano gli studenti prima dell’esame?
Io sono del parere che tanto la persona più preparata e
studiosa, quanto quella più distaccata, provi delle
sensazioni particolari che sono avvertite unicamente in
un’aula universitaria, prima d’incominciare a dialogare
con un professore. Paolo Legrenzi, docente di psicologia
presso la facoltà di Roma, ha riscontrato che insonnia,
inappetenza e mal di stomaco, sono molto diffusi tra gli
studenti; sintomi che anch’io provo, soprattutto durante
la notte di vigilia, e che anche gli studenti dei focus
group hanno rievocato nelle nostre conversazioni.
Stimolato poi dalla mia curiosità, ho cercato di capire
come la cosiddetta “paura d’esame” sia gestita: in
maniera razionale, oppure irrazionale. Faranno riti
scaramantici, oppure no? La mia esperienza personale è
stata nuovamente fonte d’ispirazione: possiedo un
piccolo portafortuna che mi sta accompagnando in tutta
la mia carriera universitaria. Quest’oggetto ormai è
stato “ritualizzato” nel senso che prima di ogni esame lo
sistemo nella tasca destra dei pantaloni per poterlo
strofinare quando il docente propone la prima domanda.
Questo amuleto ha, per me, un’importanza fondamentale perché senza non mi sentirei in grado di sostenere
l’esame, aumenterei il mio stato d’ansia. Ho riportato
questo aneddoto perché volevo evidenziare come
l’aspetto psicologico sia fondamentale: pur di alleviare
la tensione e le paure, ci si aggrappa a tutto! Allora mi
domandavo se anche altri studenti ricorrono a forme
analoghe di ritualità o se si regolano altrimenti. Ho
voluto verificare quanto l’età e la permanenza all’università, potessero incidere sulla gestione emotiva o
psicologica dell’evento: uno studente dei primi due anni
reagirà nello stesso modo di uno del terzo/quarto anno?
Tra le possibili cause che accrescono la paura, potrebbero essere menzionate: il “timore del palcoscenico” , il
dover parlare di fronte ad altre persone, la paura del
“vuoto di memoria” proprio lì, di fronte al docente, la
reazione dei genitori, le loro attese, le punizioni in caso
d’insuccesso. Mi suscitava curiosità sapere se il recarsi
agli appelli precedenti, per sincerarsi della difficoltà
dell’esame, con lo scopo di prendere nota delle domande, fosse consuetudine tra gli studenti intervistasti,
oppure se fosse considerato una perdita di tempo.
Sapere a cosa si va incontro, conoscendo magari le
domande, può essere un buon metodo per esorcizzare
la paura e affrontare l’esame con maggiore serenità.
Inoltre l’assistere agli esami è un modo attraverso il
quale si può valutare la severità del docente: è
confortante sapere che il numero di bocciature, per
esempio, è basso. Al contrario la tensione cresce
enormemente se sappiamo che abbiamo di fronte una
“bestia nera” perché la paura di non farcela potrebbe
prendere il sopravvento.
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Ho cercato una prima sommaria risposta a queste
domande conducendo due focus group tra gli studenti
delle facoltà di Lettere, Giurisprudenza, Economia,
Odontoiatria, Psicologia e Scienze Politiche. Per la
conduzione dei gruppi di discussione ho fatto ricorso a
una traccia da cui ho attinto le domande nell’ordine e
nella forma che, caso per caso, risultavano più
opportune. La domanda cognitiva – si legge sui manuali
di metodologia – determina il profilo del gruppo, per
questo motivo il reclutamento dei partecipanti è
avvenuto secondo due dimensioni: genere ed anzianità:
avevo bisogno di ragazzi iscritti ai diversi anni universitari e poi dovevano presentarsi maschi e femmine in
pari numero. Solo così avrei potuto confrontare e
paragonare le diverse opinioni e punti di vista emersi.
Ho selezionato i miei interlocutori ricorrendo a un
campione a valanga (o a palla di neve). Il campionamento a palla di neve prevede la collaborazione dei
partecipanti per individuare la lista di persone chiamate
a discutere il tema della ricerca. A ciascuno si chiede di
indicare il nome di una o più persone, aventi un profilo
corrispondente a quello definito nel disegno della
ricerca. Questa procedura ha funzionato abbastanza
bene per il primo focus group, meno per il secondo,
dove la presenza di studenti legati da precedenti
rapporti di amicizia ha impresso alla discussione un
taglio simile alla chiacchierata da bar, con frequenti
riferimenti al calcio e ai calciatori. Il passaggio dalla
teoria alla pratica, da quello che avevo imparato sui
libri, alla conduzione – davvero – di un focus group è
stato abbastanza complicato: mi sono accorto di non
essere sempre stato all’altezza della situazione
soprattutto non ho fatto rispettare il mio ruolo: più di
una volta la conversazione mi è sfuggita di mano,
permettendo ai partecipanti di andare fuori tema.
Nonostante dunque i problemi in cui sono incappato,
sono giunto ad alcuni risultati che mi sembrano
interessanti. Innanzitutto la paura c’é: alcuni studenti
hanno ammesso che la loro emozione principale è la
paura.
[Enrica]:
“ma
io,…,ma
tendenzialmente
siamo,…,credo che sia la mia emozione più forte, cioè
ho una paura allucinante, divento, cioè lo stomaco si
chiude, non ho più le percezioni normali…”;
[Alessandro]: “…sì, un sacco di volte (riferito alla
sensazione di paura). La maggior parte di volte, cioè
tutte le volte che devo sostenere un esame alla fine ho
sempre paura, anche se ho studiato tanto o anche se
l’esame è facile,….,per l’impatto con il professore o con
il
compito
che
hai
davanti,...”;
[Valentina]:
“…mhh,…,ma anch’io solitamente sono abbastanza
terrorizzata…”; [Laura]: “…io ho molta tensione già
durante l’appello...”; [Enrica]: “...una componente
emotiva in un esame c’è: perché butti qualcosa di tuo,
rischi qualcosa di tuo che hai preparato...”.
Altri, per contro, hanno dichiarato di aver superato le
paure iniziali: [Rocco] “…io adesso come adesso,
sentimenti di terrore non ne ho, prima degli esami. La
tensione che avevo inizialmente i primi due anni, ora
come ora sono piuttosto tranquillo e sereno (...)
fondamentalmente penso che, dare gli esami, sia un po’
come giocare alla roulette perché se ti va bene e ti
capitano le cose giuste, insomma, ehmmnn, sai che ti
andrà bene quell’esame. Però è una roulette pilotata,
perché se tu sei consapevole di sapere, penso che bene
o male l’esame lo porti a casa…”.
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14
Le fonti di “terrore” cambiano secondo le facoltà: ho
scoperto che ad Economia e commercio sono molto
numerose le prove scritte, mentre a Scienze Politiche e
Lettere gli esami sono perlopiù orali. Quando l’esame è
scritto la paura può essere contenuta ricorrendo a
piccoli aiuti “illeciti”, come i bigliettini. [Andrea]: “…beh,
poi, che so, da noi ci sono parecchi esami scritti, uno va
senza nessun tipo di timore perché… hai la speranza di
copiare...”. [Stefano]: “...io non parlo mai dell’esame
perché mi porto i bigliettini dietro, se è scritto...”.
[Laura]: “...no, io invece da me sono tutti orali, ho la
paura degli esami: perché più studi e più hai paura...”.
[Stefano]: “…però c’è differenza tra scritto e orale,
secondo me: perché all’orale ho sempre paura di non
ricordarmi niente, allo scritto appunto avendo sempre i
bigliettini ho meno paura...”. [Claudio]: “...probabilmente il bigliettino è anche un modo per… anche se a
volte non serve neanche... però ti tranquillizza. Tu hai
già l’idea: ho un aiuto in tasca!”.
L’unico aiuto possibile ad una prova orale è quello di
iscriversi per ultimo. [Stefano]: “...iscrivermi per ultimo,
per prenderlo per sfinimento...”. [Laura]: “…poi
m’iscrivo sempre tra gli ultimi, proprio perché è un gran
vantaggio…”. [Enrica]: “...io passo sempre per ultima,
in ogni caso tra gli ultimi dieci, mai per prima. Un po’
per scaramanzia, a volte per il fatto di aver sentito tutte
le domande...”. Sovente gli ultimi studenti della lista
possono sfruttare la stanchezza del docente che, sfinito,
presta meno attenzione alla qualità delle risposte o
sembra più propenso ad accordare l’argomento a scelta.
Per questi motivi si è avvantaggiati, per esperienza ho
notato che anche il tempo dei primi studenti interrogati
è più lungo; man mano tende a diminuire. Dipende dal
docente, non è una regola universale, infatti [Stefano]:
“...se c’è la fai a prenderlo per sfinimento, devi avere
anche fortuna, lì ehh…”. Differenti sono stati le proposte
per superare la paura: puntare sulla preparazione
[Alessandro]: “...il punto di fondo è che se hai studiato
l’esame lo passi...”; [Cinzia]: “...( come gestisci la
paura?) studiando!”; [Fabrizio]: “...ragionandoci su
“come va, va!” e poi per il resto, se uno ha studiato alla
fine non ti devi preoccupare più di tanto...”.
Qualcun altro ricorre a riti scaramantici: [Enrica]: “...io
sono molto scaramantica, ci sono tutta una serie di cose
che vanno fatte prima...”. I riti, per coloro che li
attuano, sono la conseguenza di certi eventi, i quali
coincidono sovente con un esito positivo dell’esame,
come ad esempio avere al collo un ciondolo. [Laura]:
“...io me li sono creati (riferita ai riti)...”, ora indossa
solo maglie di un certo colore e pantaloni di stoffa. A
livello psicologico diventiamo molto superstiziosi perché
auspichiamo che si verifichino le stesse condizioni,
quando ci troviamo a vivere situazioni che si ripetono
come gli esami: [Fabrizio]: “...la prima volta che ho
dato un esame, il giorno prima ha piovuto, è andato
bene, siccome non può piovere tutti i giorni...”.
La paura, infine, ha anche qualche implicazione positiva.
[Claudio]: “è quello che ti fa far meglio, ti permette di
studiare di più...”; [Cinzia]: “...ti dà adrenalina...”;
[Enrica]: “...io più sono sotto stress, sotto tensione, e
più riesco a produrre...”.
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Intervista a Elisa e Stefania.
Elisa e Stefania sono due ex studentesse di Scienze Politiche, la prima laureata in Scienze
internazionali e diplomatiche indirizzo giuridico, la seconda nell’indirizzo Politico-Sociale del vecchio
ordinamento. Dopo la laurea, hanno deciso di rivolgersi al servizio di Job Placement per cercare uno
stage che fosse in linea con le loro aspettative e i loro progetti. Abbiamo chiesto loro di raccontarci
questa esperienza.
D: Buongiorno e ben venute. Vorrei ricostruire
brevemente la vostra storia. Iniziamo dalla tesi:
Stefania, con chi ti sei laureata?
STEFANIA : Mi sono laureata col professor Barbè, in
Sociologia dello sviluppo, con una tesi sull’affidamento
familiare di minori stranieri. Era una tesi di ricerca
qualitativa: ho intervistato famiglie, operatori sociali e
altri soggetti coinvolti, per un totale di 29 casi, che poi
ho analizzato in profondità. È stato un lavoro
impegnativo, anche perché ha richiesto la stesura di due
volumi separati, per tenere disgiunte le sbobinature
delle interviste dalle mie analisi. Ma è stata anche una
fonte di soddisfazione, perché alla fine è risultato un
buon lavoro e ne ho anche data copia all’UNESCO,
all’Associazione Famiglie Affidatarie, e al Comune di
Torino, al quale mi ero appoggiata per tutta una serie di
dati secondari.
E LISA : Io invece mi sono laureata in Scienze
Internazionali e Diplomatiche, vecchio ordinamento. La
mia tesi era in Storia contemporanea dell’Asia, col
professor Avanzini, in particolare sulla situazione dei
diritti umani nella Cina da Deng Xiao Ping ai giorni
nostri, con una parte dedicata al dibattito in corso negli
anni Novanta sulla concezione dei diritti umani dal
punto di vista asiatico. Appena laureata, sono andata a
cercare un impiego presso Amnesty International, ente
che già seguivo da tempo e nel quale mi sarebbe
piaciuto molto poter svolgere delle attività, magari
legate ai temi sui quali avevo eseguito la tesi. In effetti,
mentre la preparavo, avevo avuto dei contatti con
Amnesty, per materiali dei quali loro erano in possesso
e che mi sarebbero potuti servire. Per cui, appena
laureata, ho subito pensato di rivolgermi a loro.
D: Veniamo al rapporto col Job Placement. Vi siete
rivolte al servizio solo dopo la laurea o avevate già
avuto dei contatti prima?
STEFANIA : Io sapevo dell’esistenza di questo servizio,
ma mi sono rivolta al Job Placement solo dopo la tesi.
E LISA : Io ho lavorato per sei mesi in Segreteria
studenti, con un contratto a tempo determinato, per cui
avevamo alcuni scambi con l’ufficio, ma anche io mi
sono avvicinata al servizio da laureata.
D: Come avete avvicinato il Job Placement?
STEFANIA : Io ho consultato il sito Internet, anche
perché ho visto che era frequentemente aggiornato per
cui mi sono affidata a questo strumento.
E LISA : Anche io sono passata per il sito.
D: Come avete trovato lo stage che poi avete
condotto?
E LISA : Prima di trovare lo stage presso Amnesty , ho
fatto molti colloqui con aziende, pubbliche e private, che
avevano pubblicato le loro richieste sul sito del Job
Placement, ma non ho incontrato nulla che mi
interessasse davvero. Poi ho visto la proposta per
Amnesty International e sono andata a portare il mio
Curriulum Vitae. C’era già uno stagista arrivato tramite
il nostro Job Placement, ma era in procinto di terminare
le sue ore, per cui ho sostenuto un colloquio e sono
stata scelta.
STEFANIA : Sul sito ho letto della possibilità di svolgere
lo stage presso la cooperativa nella quale tuttora lavoro,
la S&T s.c.r.a.l., una cooperativa che si occupa di
Sviluppo e Territorio, in particolare di sviluppo locale,
pari opportunità, politiche comunitarie e progettazione
in diversi ambiti. Sul sito era segnalato che cercavano
uno o una stagista per un progetto finanziato
dall’Unione Europea che riguardava gli immigrati di
seconda generazione, per cui non distante dal tema
della mia tesi. Ho allora inviato il mio CV e ho sostenuto
un colloquio direttamente in S&T, al termine del quale
mi hanno comunicato che ero stata scelta per lo stage.
Allora mi sono recata all’ufficio Job Placement e ho
svolto tutte le pratiche burocratiche del caso. Durante lo
stage, avevo un foglio per le firme di presenza che io
compilavo giornalmente e che al termine dello stage è
stato controfirmato dal referente interno alla
cooperativa al quale ero stata affidata; poi avevo altri
due moduli per la valutazione del periodo formativo,
uno da far compilare sempre al referente della
cooperativa, l’altro che invece ho scritto io.
D: Dopo il periodo di stage, sappiamo che Stefania
è stata confermata e assunta presso la S&T; tu
invece Elisa che percorso hai intrapreso?
E LISA : Innanzitutto, terminato lo stage sono rimasta in
Amnesty a titolo di volontariato, per portare a
compimento i progetti che avevo iniziato a seguire. In
questo periodo ho conosciuto una persona che lavora in
S&T, che poi corrisponde al tutor aziendale che ha
seguito Stefania, e mi ha proposto di andare a lavorare
con loro perché avevano bisogno di competenze simili a
quelle che io mi stavo creando. Io ho accettato e quindi
ora lavoro part-time con Stefania alla S&T. Inoltre,
Amnesty dopo alcuni mesi di volontariato che ho svolto,
come detto, mi ha proposto un contratto di
collaborazione: io ho accettato e ora lavoro sia per loro
che per S&T.
D: È interessante sottolineare come il lavoro
svolto presso Amnesty ti abbia permesso di
allargare la cerchia delle tue conoscenze e di
trovare un riferimento ulteriore nel mondo del
lavoro. Finora abbiamo parlato degli aspetti di
contorno, ma quali mansioni avete svolto durante
i vostri stage?
STEFANIA : Io sono entrata per seguire il progetto sui
minori immigrati di seconda generazione, e ho seguito
questo progetto, lavorando ad esso con altre due
colleghe, che mi facevano da supervisori e con le quali
affrontavo le parti più impegnative del progetto, per il
resto avevo una certa autonomia. L’obiettivo era quello
di creare modelli positivi per giovani stranieri di seconda
generazione, e in questo eravamo in rete anche con
Berlino e Bruxelles. Occorreva innanzitutto creare una
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rete locale, qui a Torino, che coinvolgesse i soggetti che
a vario titolo si occupano di minori stranieri, e poi
pensare a come sviluppare il progetto. Abbiamo allora
ipotizzato un coinvolgimento dei ragazzi delle scuole
superiori del territorio, per cui mi sono occupata di
contattare le scuole che presentassero una significativa
presenza di minori stranieri, convincerle della bontà del
progetto e raccogliere le loro adesioni. Ho anche
eseguito una breve ricerca sugli stranieri a Torino,
prendendo un po’ dalla mia tesi e poi da altre fonti, e ho
redatto una relazione che è stata anche tradotta in
inglese e messa sul sito del progetto. i Mi sono occupata
anche dell’organizzazione del convegno che si terrà la
prossima settimana qui a Torino, dal titolo “Immigrati e
seconda generazione” (riportiamo la locandina nelle
pagine seguenti della Newsletter), e questo lavoro è
stato molto impegnativo, perché ho dovuto pensare a
tutti gli aspetti legati al convegno: catering, hotel,
relatori, programmi, materiali, ecc.
E LISA : Quando sono entrata ad Amnesty , stava per
essere avviata la campagna contro la violenza sulle
donne e quindi mi sono occupata di gestire la campagna
a livello territoriale. Nello specifico Amnesty ha proposto
un accordo di cooperazione tra enti, istituzioni,
associazioni del territorio per la diffusione della
conoscenza di questo problema, e quindi ho operato con
questo tavolo di lavoro, contattando le associazioni,
cercando di farle aderire formalmente al progetto,
creando dei tavoli di lavoro permanenti, che potessero
occuparsi in maniera differente e in ambiti diversi di
questa tematica. Dopo lo stage ho continuato a seguire
questo progetto, perché visto che l’avevo seguita
dall’inizio mi piaceva portarlo a termine. A questa
interessante attività ho affiancato del semplice lavoro
d’ufficio, sempre utile in associazioni come Amnesty , ma
voglio sottolineare che non mi sono mai sentita sottoutilizzata, anzi, le persone con le quali ho lavorato
hanno sempre cercato di coinvolgermi nei progetti e nei
lavori che affrontavamo insieme. Alla fine dello stage è
cresciuto in me un interesse ancora maggiore per i temi
di cui Amnesty si occupa, e per il modo nel quale lo fa.
A questo si aggiunge il fatto che ho conosciuto delle
belle persone, e questo fa sempre piacere.
D: Quindi avete avuto la percezione di essere
adeguatamente impiegate?
STEFANIA : Assolutamente sì, mi sono sentita molto
seguita e coinvolta. Devo dire che anche in S&T
l’ambiente è molto affabile: siamo quasi tutte donne,
andiamo molto d’accordo, c’è collaborazione, non mi
sono mai sentita trattata come “l’ultima arrivata” pur
essendolo e anche le volte che ho commesso degli errori
sono stata corretta dalle mie superiori in modo
adeguato e civile.
E LISA : Anzi, hanno anche avuto il coraggio di “buttarci”
in cose che non avevamo mai visto prima, fidandosi di
noi e dandoci il giusto supporto. Io mi sono trovata a
gestire rapporti con molte persone differenti, alcune
delle quali anche con ruoli di un certo rilievo, e ho
dovuto arrangiarmi nel farlo, pur ricevendo consigli e
indicazioni.
STEFANIA : Quando sono entrata il S&T non sapevo fare
niente: 23 anni, neolaureata, avevo sempre e solo
studiato, per cui mi sentivo decisamente un pesce fuor
d’acqua, eppure ho avuto il sostegno delle altre
persone. All’inizio mi sentivo un po’ inebetita: pensa che
non sapevo neanche che le lettere vanno protocollate,
fotocopiate e archiviate nel giusto modo prima di essere
spedite; ora lo so. Mi sono sentita appagata, e
l’esperienza è stata senz’altro positiva.
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16
D: Quindi ora vi considerate soddisfatte del
percorso studi-stage-lavoro che avete intrapreso?
E LISA : Sì. Devo dire che quando mi sono laureata non
avrei mai creduto di trovare in così poco tempo
opportunità decisamente buone e, cosa ancora più
sorprendente, vicine ai miei interessi e alla mia tesi di
laurea.
D: Quindi voi consigliereste a tutti gli studenti di
interessarsi alle opportunità di stage fornite dal
Job Placement?
STEFANIA : Sì, anche se occorre fare molto lavoro di
filtraggio, perché le proposte dalle aziende sono le più
disparate.
E LISA : Credo anch’io che si debba fare una selezione
accurata delle proposte presentate, perché sono molte
le richieste che a mio parere non hanno attinenza con
gli studi condotti a Scienze Politiche. Questo è un punto
negativo, a mio modo di vedere: penso che il Job
Placement di una certa facoltà, Scienze Politiche nel
nostro caso, dovrebbe selezionare meglio le offerte che
riceve, privilegiando quelle che hanno un certo grado di
attinenza con i percorsi di studio che qui vengono
affrontati, perché non so quanto un’agenzia di lavoro
interinale o un call center possano essere attraenti per
laureati in Scienze Politiche.
STEFANIA : Io suggerirei anche di aumentare le offerte
rivolte ai laureati, perché il Job Placement attuale è
molto sbilanciato sui laureandi. Forse per il nuovo
ordinamento le cose sono diverse, per cui uno stage
affrontato durante il corso degli studi può essere utile, e
credo che per alcuni corsi di laurea sia obbligatorio. Ma
per studenti del vecchio ordinamento, come siamo noi,
pensare di sostenere l’impegno di uno stage, spesso
non retribuito, prima della laurea, è molto difficile.
D: I vostri stage erano retribuiti?
STEFANIA : Il mio sì, perché godeva di una borsa di
studio da € 400,00 al mese per uno impegno part-time,
anche se poi io ho lavorato più ore di quelle previste.
E LISA : Il mio non era retribuito e non prevedeva
neanche forme di rimborso spese.
D: C’è qualcosa che non abbiamo detto e che
vorreste comunicare ai nostri lettori?
STEFANIA : Qualche mese fa, mi hanno cercato dal
Politecnico di Torino per propormi un’attività lavorativa,
dicendo che avevano avuto il mio CV dal Job Placement.
L’attività era interessante, avrei dovuto fare da
assistenze al Preside della Prima Facoltà di Ingegneria,
ma risultava incompatibile con l’attività part-time presso
S&T che stavo svolgendo, per cui ho dovuto rinunciare.
Tuttavia, è positivo il fatto che il mio CV, attraverso il
Job Placement, giri tra vari enti: potrebbe sempre
sbucare qualcosa di interessante.
E LISA : Vorrei riprendere il discorso dei rimborsi spese e
delle borse di studio. Credo fondamentale che la Facoltà
faccia qualcosa in questa direzione, perché sostenere
una situazione nella quale ci si è appena laureati, si è
pronti per entrare nel mondo del lavoro, e si vuole
frequentare uno stage, non avere neanche un minimo di
riconoscimento economico significa doversi cercare
un’attività lavorativa che ti aiuti durante il periodo di
stage, attività spesso distanti dagli studi svolti e che si
potrebbero svolgere tranquillamente senza il conseguimento di una laurea. Questo è quello che ho dovuto fare
io, e credo che siano molte le persone nelle mie
condizioni. L’alternativa sarebbe stata quella di
rinunciare allo stage, e trovo che questo sia un
problema da risolvere al più presto.
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Professione Student e
Professione Studente
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SEMINARIO DI LETTURA E SCRITTURA (5 cfu)
Programma del seminario
Problemi con gli esami? Preoccupazioni per la tesi?
Spesso non serve studiare di più, ma studiare meglio!
Il corso di laurea triennale in Scienze Politiche, in collaborazione con la laurea
specialistica in Scienze Politiche, attiverà un seminario di lettura e scrittura
tenuto dal Dottor Luca Ozzano e valido per un totale di 5 cfu, nell’ambito dei corsi
di Comunicazione politica e Comunicazione pubblica (Professoressa Franca
Roncarolo).
TESTI ADOTTATI
• Umberto Eco, Come si fa una tesi di laurea, Milano, Bompiani, varie edizioni
• Alberto Marradi, Impariamo a scrivere (e parlare) italiano?, Barletta, Club Unesco,
s.d.
• Un libro a scelta fra alcuni titoli proposti dal docente (da leggere e su cui fare una
relazione scritta)
• Fabio Armao, Dispensa su come si fa una tesi di laurea
• Materiali integrativi alle lezioni ed elementi di grammatica e sintassi con esercizi
(forniti in fotocopie dal docente)
ESERCITAZIONI E VALUTAZIONE
• Il seminario non prevede una valutazione con voti tramite esame o test, ma
assegna i 5 crediti formativi in base alla frequenza alle lezioni ed allo svolgimento
corretto delle eserc itazioni. Al seminario sono abbinate due esercitazioni: una di
comprensione di un testo, alla quinta lezione, ed una di scrittura ed articolazione
di un breve testo, alla nona. La valutazione di tali esercitazioni è valida
esclusivamente a fini diagnostici, per indicare al discente eventuali lacune e
aspetti da migliorare. Gli studenti devono inoltre svolgere esercizi di grammatica e
sintassi, e di comprensione di un testo e/o scrittura (forniti settimanalmente dal
docente e corretti pubblicamente nel corso della lezione successiva).
PROGRAMMA DEL CORSO
• Lezioni 1-2 (introduzione al seminario: affrontare un testo): testi descrittivi e
testi argomentativi; criteri per affrontare testi descrittivi (regola delle 5 W) e
argomentativi (come individuare una tesi e le argomentazioni a sostegno);
necessità di storicizzare e contestualizzare un testo; come verificare l’attendibilità
di un testo attraverso le fonti; il testo scientifico nelle varie discipline delle scienze
sociali; coerenza contenutistica e coesione formale; stile coeso e stile segmentato;
riconoscimento e uso dei registri linguistici.
• Lezioni 3-4 (lo studio e la preparazione all’esame): lo studio coma pratica
individuale da migliorare attraverso l’autoconoscenza; comportamenti produttivi
durante le lezioni; il rapporto con i docenti; pianificazione del tempo e dello
studio; le fasi dello studio: pre-esame, prelettura (tecniche di lettura veloce),
lettura analitica (esame dei tipi di unità di informazione), rielaborazione; come
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sottolineare; la revisione dei materiali di studio; appunti e schemi dal testo;
schedare i libri; fondamenti e tecniche di memorizzazione; preparazione ad un
esame orale e ad un test scritto.
• Lezioni 5-6 (l’utilizzo di internet per le ricerche bibliografiche e per lo
studio): come si effettua una ricerca bibliografica; Dewey e altri sistemi di
classificazione; la classificazione per autore, titolo, soggetto; l’utilizzo degli OPAC
(Online Public Access Catalogues); peculiarità e differenze degli opac SBN e
Librinlinea; utilizzo pratico degli OPAC e tecniche per una ricerca efficace; uso dei
motori di ricerca; peculiarità e differenze dei principali motori; criteri per una
ricerca efficace; le risorse presenti su Internet: reperimento e valutazione
dell’attendibilità; indicazioni delle principali banche dati online.
Esercitazione intermedia di comprensione di un testo, con correzione degli
elaborati individuali e correzione generale in classe.
• Lezioni 7-8 (l’elaborazione e la stesura di tesi e tesine): come individuare e
circoscrivere l’argomento di una tesi; scelta e ruolo di relatore e correlatori; lavori
basati su fonti già esistenti e lavori sperimentali; l’impostazione del lavoro; come
selezionare le fonti reperite, come ordinarle gerarchicamente e come integra rle fra
di loro; come strutturare una tesi o tesina: liste di argomenti; tipi di scalette;
parti, capitoli, paragrafi, capoversi; l’introduzione; la rassegna della letteratura;
l’articolazione del discorso principale: i diversi tipi di paragrafo e il loro uso; la
conclusione e i risultati della ricerca; tabelle, grafici e altri materiali di appendice;
l’indice; la bibliografia; le note (sistema a pié di pagina e sistema autore-data).
• Lezioni 9-10 (la forma e lo stile di un testo e il loro miglioramento) : uso
appropriato di uno stile non troppo coeso né troppo segmentato; uso appropriato
del registro linguistico formale; come evitare di cadere nel registro colloquiale;
come arricchire uno stile troppo povero e come semplificare uno stile troppo
involuto; la struttura ideale della frase; uso di connettivi logici e di segni di
interpunzione per spezzare una frase troppo lunga; modi appropriati per iniziare e
concludere un discorso.
Esercitazione finale di scrittura, con correzione degli elaborati individuali e
correzione generale in classe con la descrizione (in forma anonima) degli errori più
significativi e delle correzioni e possibili alternative.
Il seminario si terrà il giovedì e il venerdì dalle 12 alle 14 presso le aule di Via Plana
a partire dal 25 novembre 2004, per un totale di 20 ore complessive.
Le iscrizioni al corso saranno possibili via e- mail a partire da settembre scrivendo
all’indirizzo [email protected]
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Convegno Internazionale
IMMIGRATI E SECONDA GENERAZIONE
La rete europea di Acting Labs:
un laboratorio per l’integrazione
Torino, 22 ottobre 2004
Sala Giolitti, Torino Incontra
Via Nino Costa, 8
Ore 9.00 – 18.00
Il progetto Acting Labs, finanziato dalla Commissione Europea – DG Giustizia e Affari Interni,
mette in rete partner di Berlino, Bruxelles e Torino con lo scopo di promuovere modelli positivi
per i giovani e le giovani appartenenti a famiglie immigrate.
Il convegno “Immigrati e seconda generazione” si svolge in occasione del secondo incontro
transnazionale di Acting Labs e vuole essere un momento di confronto e riflessione, con il
contributo di esperti a livello europeo. Quello della seconda generazione è un fenomeno in Italia
ancora limitato ma in crescita, e nei paesi partner, così come in Francia, ha già dato vita ad
un’ampia riflessione nonché all’individuazione di specifiche strategie di integrazione.
Durante il convegno verranno presentate le realtà delle tre città coinvolte nel progetto, anche
attraverso le esperienze dei partner e della rete locale del progetto formata da associazioni, enti
pubblici, organizzazioni e persone già integrate che rappresentano un possibile modello per i/le
giovani.
Per Informazioni:
S.& T. S.c.a.r.l. – Via Matteo Pescatore, 2
10124 Torino
Tel. 011/8126730 – fax 011/8178123
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Articolo segnalato da
Donatella Simon
Zygmunt Bauman
Sommersi dai media. Rischiamo la paralisi
Avvenire – 10 ottobre 2004
di Francesco Ognibene
Sazi d’informazione, affamati di democrazia. Paradossale, vero? Eppure quando il rubinetto dell’informazione
si trasforma in un idrante, dietro l’angolo c’è proprio il
rischio di scoprirsi
privati del desiderio stesso di
partecipare alla vita comune. Neutralizzati.
Mentre alla Settimana sociale dei cattolici, che chiude i
battenti oggi a Bologna, si discute dell’intreccio tra
media e democrazia, Zygmunt Bauman – sociologo
polacco, il più accreditato analista della società globale
– compie per noi una ricognizione sullo stato di salute
del cittadino-teleutente, sommerso dai media.
Professore, la crescente quantità di informazione
che viene riversata ogni giorno da vecchi e nuovi
strumenti del comunicare garantisce il futuro della
democrazia?
“Se solo potesse avverarsi questo auspicio... Niente
però lo fa pensare. L’aumento esponenziale dell’informazione disponibile soffoca, invece di migliorare, la
nostra comprensione di cosa sta accadendo, di dove il
mondo stia andando e di cosa fare per spingerlo nella
giusta direzione. Un tempo la sfida principale era
l’ignoranza, che sollecitò un rafforzamento del pensiero
e spronò la ricerca. Ora il problema è l’eccesso
d’informazione: come assimilare, come dare senso a
montagne di conoscenza immagazzinate in milioni di
server e di memorie di computer, come separare l’utile
dall’irrilevante? L’eccesso di informazione paralizza. Il
vero nodo è come vagliare cumuli di dati inutili, come
ripulirsi la mente per concentrarsi su quel che conta.
Quali cose sono davvero cruciali? Per essere “informato”
il cittadino è costretto ad assorbire una quantità
imponente di notizie”.
All’era mediatica hanno ora accesso porzioni di
mondo prima escluse. L’impatto con la comunicazione globale estenderà i valori democratici?
“Non esiste relazione lineare tra quantità di
informazione e crescita della democrazia. I regimi
totalitari accrebbero enormemente la fornitura di
informazione. Nelle città sovietiche c’erano altoparlanti
ad ogni angolo di strada, che ripetevano le ultime
notizie tutto il giorno. L’alfabetizzazione e la lettura dei
giornali aumentarono a dismisura. Conosciamo i
risultati. Quando l’informazione è fornita in forti dosi
può illuminare la realtà come anche oscurarla. Gli
ingegneri delle luci di un teatro sanno che i riflettori
portano all’attenzione dello spettatore alcune parti del
palco oscurandone molte altre”.
In effetti, gli stessi terroristi hanno imparato a
fare uso dei media, mettendo in scacco ripetutamente l’opinione pubblica occidentale...
“Attenzione: sono forse stati i terroristi a mandare in
onda le immagini degli aerei che colpivano le Twin
Towers, o non piuttosto la Cnn o la Bbc? Chiunque
organizzi le atrocità del terrorismo globale sa bene cosa
muove i media occidentali, e lo mette in conto nel
calcolare l’impatto delle sue azioni. Sentiamo ripetere
che un altro attacco terroristico è imminente, che di
certo accadrà anche se nessuno può dirci dove e
quando. Tutto ciò ha già procurato un danno enorme
alla fiducia in noi stessi”.
Nelle democrazie occidentali cresce la disaffezione
verso le istituzioni rappresentative, la partecipazione attiva e persino l’espressione del consenso.
I mass media possono fare qualcosa per fermare
questa emorragia?
“La crescita dell’indifferenza politica ha cause più
profonde rispetto ai misfatti dei media. Anzitutto,
questa apatia riflette la crescente (e fondata)
convinzione che qualunque cosa facciano il governo
nazionale e i partiti, ciò non inciderà sul benessere dei
comuni cittadini: così poco sembra dipendere ormai
dall’azione di autorità locali, nazional-statali, nella
nostra epoca di interdipendenza planetaria...
Sicuramente i media non capovolgeranno la crescita
dell’indifferenza. Non da soli, in ogni caso. È più
probabile, viceversa, che le spianino la strada e la
rendano ancor più vigorosa. Difficilmente possono fare
altrimenti, trattandosi di realtà commerciali dipendenti
dalla domanda del mercato, dall’audience, dalla voglia
dei consumatori di attingere alla loro offerta. La gente è
attratta dalla promessa di intrattenimento, e la
copertura delle notizie fornite dai media assume, di
conseguenza, la forma di info-tainment (“entertaining
information”, informazione-intrattenimento). La politica
viene presentata secondo il modello di reality tv e talk
show. Va persa la sostanza, la reale posta in gioco della
politica. O peggio, essa non riesce a emergere, a venire
espressa ed esaminata, mentre gli attori sulla scena
solo per lo più impegnati a sostituire gli argomenti con
“dichiarazioni” costruite apposta per finire nei titoli dei
giornali”.
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Interessi più o meno espliciti, violenza, sfruttamento dell’uomo, intreccio tra
informazione e pubblicità: per prevenire queste forme degene-rative del sistema
mediatico è preferibile un siste-ma di regole centrali più severe, oppure l’affidamento alla responsabilità nelle scelte individuali?
“La risposta dovrebbe venire dalla prassi, non dalla teoria. Entrambe le alternative hanno
i loro meriti e i loro rischi. La soluzione migliore consiste probabilmente in un accurato
equilibrio, ma chi può dire esattamente a che punto esso viene raggiunto? Lasciare le
“autostrade dell’informazione” in mano alla competizione commerciale difficilmente
consentirà alla responsabilità della gente di affermarsi: quando la pubblica piazza è
occupata dai banchi del mercato, le voci della gente vengono sopraffatte dall’assordante
vociare dei venditori. La soluzione britannica mi pare la migliore: canali pubblici forti e
ben finanziati in grado di competere con quelli commerciali obbligandoli a elevare gli
standard, o almeno a non lasciare che si abbassino troppo”.
La cultura massmediale genera una nuova visione dell’uomo, un’antropologia
inedita a insidiosa. È un sistema di valori compatibile con quello su cui si regge
la società democratica?
“Il consumatore è nemico del cittadino... Persone educate essenzialmente a consumare
(come avviene, fin dalla prima infanzia, nella nostra società) sono destinate a diventare
facile preda delle seduzioni dell’info-tainment, e tenderanno a considerare la politica, e la
sfera pubblica in generale, come un’estensione del supermercato, dove l’acquirente
insegue le offerte speciali. I cittadini che si preoccupano di interessi condivisi verrebbero
considerati alla stregua di clienti che si premurano di sapere come sta andando il centro
commerciale... L’ignoranza conduce alla paralisi della volontà. Pensare “a breve termine”
– caratteristico dell’approccio alla vita di questo genere di cultura – è una difesa istintiva
contro l’incertezza del futuro. Ma la combinazione di ignoranza e pensiero a breve
termine erode sia la preoccupazione del lungo periodo sia la preservazione di valori che in
quanto eterni non promettono profitto immediato: e si badi che sono entrambi tratti
indispensabili dell’essere cittadini. La transitorietà si contrappone alla responsabilità,
antepone al valore della durata quello della novità, accorcia lo spazio temporale che
separa non tanto il volere dalla sua realizzazione quanto la stessa nascita del volere dal
suo venir meno. Tra gli oggetti dell’umano desiderio, invece del possesso e del godimento
duraturo, viene posta in rilievo l’appropriazione, subito seguita dal disfarsi degli scarti.
Che fine faranno, allora, i “beni comuni”, non destinati a essere usati una volta e poi
buttati, poiché sono fatti per servire ai nostri figli e ai figli dei nostri figli?”.
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Sociologie
Sociologie
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IL RITORNO DEL CRIME MOVIE AMERICANO "ANNI ’70"
di Paolo Gilli
Che Hollywood non stia troppo bene è una cosa risaputa. La situazione però appare ancora più disperata
se buona parte dei film che meriterebbero di essere visti non riescono a superare il muro della
misteriosa distribuzione italiana. Le poche uscite in sala e che comunque spesso avvengono in ritardo o
in sordina, fanno sí che l’appassionato si trovi costretto a rivolgersi al mercato dvd. A questo punto può
scoprire due piccoli capolavori, che in Italia sono stati totalmente ignorati: “The Way of the Gun - Le vie
della violenza” (2000) e “Narc - Analisi di un delitto” (2002).
Le vie della violenza: Sulle orme di Sam Peckinpah
Scritto e diretto dal premio Oscar Cristopher McQuarrie,
sceneggiatore di “Public Access” e de “I soliti sospetti”
(qui alla sua prima regia), è nel suo genere tra le cose
migliori viste negli ultimi anni. Possiamo quasi parlare di
“CrimeWestern”.
Molte
delle
critiche
americane
negative, parlavano di un film “alla Tarantino”. Critiche
sbagliate e superficiali, perché questo film è, per chi
scrive, forse quello che, nell’ultimo ventennio, più si
avvicina ad un film di Sam Peckinpah.
La trama è presto raccontata. Due complici di vecchia
data, Parker e Longbaugh credono di aver trovato il
modo per fare facilmente soldi: al fine di ottenere un
cospicuo riscatto sequestrano la giovane Robin, che sta
portando a termine la gravidanza per una ricca coppia.
Ma il rapimento si rivelerà molto più complicato del
previsto. Il film inizia subito alla grande e fa pensare a
quello che diceva Sam Fuller, “un film è fatto bene,
quando ti coinvolge nei primi cinque minuti” e
McQuarrie ci riesce benissimo introducendo i personaggi
principali per quello che sono, ossia due persone che se
ne fregano di tutto.
I due protagonisti sono Benicio del Toro, che interpreta
Longbaugh e Ryan Phillipe nel ruolo di Parker (che sono
rispettivamente i veri cognomi del Sundance Kid e Butch
Cassidy). In verità, non è che veniamo a saperne molto,
tranne che sono due piccoli delinquenti, forse con un
addestramento militare alle spalle, che vivono alla
giornata e che in questo caso si imbarcano in una storia
decisamente più grande di loro senza pensarci due
volte. Il tutto condito con un atteggiamento del tipo “me
ne frego di crepare”. Sanno che probabilmente perderanno, ma questo per loro non fa alcuna differenza.
Sono soprattutto amici, che si completano a vicenda,
ossia uno non esiste senza l’altro o almeno non in
questa forma. Il riferimento a “Butch Cassidy and the
Sundance Kid” non è casuale, soprattutto nella seconda
parte ricordano molto questi due personaggi. Del Toro
conferma di essere uno dei più bravi attori in circolazione: il suo Longbaugh è il tipo più calmo e cool (ma
senza prendersi troppo sul serio) che si possa immaginare. Phillipe invece si rivela una inaspettata e piacevole
sorpresa. Parker è più serio e buio come personaggio e
lui lo interpreta in maniera intensa. Due bellissimi
personaggi.
Poi abbiamo James Caan, nel film Joe Sarno.
Sicuramente, con Hackman, Caan è il miglior attore
della sua generazione in attività. Un attore che si porta
dietro un bagaglio di film anni ’70 da fare paura e il film
gioca molto su questo fatto.
Il suo personaggio è uno che è riuscito ad invecchiare
nell’ambiente della malavita e che conosce alla perfezione le regole del gioco. E mentre lo si guarda, si sa
che anche se tutti moriranno, alla fine del film lui sarà
ancora vivo. Prendendola molto alla larga, potrebbe
essere perfino Mike Locken, il personaggio di “Killer
Elite”, invecchiato di venti anni.
E poi i suoi dialoghi sono semplicemente splendidi.
Queste le battute della scena che lo introduce nel film:
Jeffers: Aspetti, non penserà che …
Joe Sarno: No, io non penso niente, neanche
presumo, faccio congetture o ipotizzo, io
banalmente osservo ..
Un’altra perla è questa:
Chidduck: Tu credi nel kharma Joe ?
Joe Sarno: Il kharma … il kharma è solo
giustizia senza soddisfazione. Io non credo
nella giustizia.
Un altro grande personaggio, forse quello più bello, è
Abner Mercer, interpretato da Geoffrey Lewis, visto in 45 film di e con Clint Eastwood, ma anche in “Dillinger” e
“Il vento e il Leone” di Milius. Uno di quei caratteristi,
che tutti abbiamo visto infinite volte e che sembrano
sempre più scomparire. Già la scena con cui viene
introdotto nel film è triste e comica allo stesso tempo.
Un vecchio, ormai diventato inutile in questo lavoro, che
decide di farla finita, finché non lo chiama un suo amico
per un ultimo lavoro. Questo discorso sulla vecchiaia è
presente in tutto il film e infatti una delle battute più
belle è quella pronunciata da James Caan, ”La sola cosa
di cui puoi essere certo, a proposito di un vecchio
malridotto, è che è un sopravvissuto”. Grandiosa poi la
scena della morte di Abner, che ricorda molto quella di
Slim Pickens in “Pat Garrett e Billy the Kid”.
Juliette Lewis è semplicemente perfetta nel ruolo di
Robin, come lo sono Nicky Katt e Daye Diggs che
interpretano le due guardie del corpo. Dylan Kussman è
azzeccatissimo nella parte del Dr.Allen Painter,
colpevole di aver commesso non si sa quale sbaglio
medico in quel di Baltimora (“ora non faccio più sbagli, li
correggo”). Poi c’è Francesca Chidduck, interpretata da
Kristin Lehman, che è brava a rendere il personaggio
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estremamente antipatico e odioso e che per la maggior
parte del film sembra quasi uno spettro, nonostante o
forse proprio per la sua algida bellezza.
Coreografata in maniera impeccabile, lo spettatore sa
sempre dove si trovano tutti i personaggi. Il montaggio
non è ultraveloce e soprattutto non ci sono caricatori
infiniti. In questo film si spara e dopo sette colpi si
ricarica. Un dettaglio più unico che raro.
Tra l’altro il “duello” con Caan e Del Toro sembra un
altro omaggio a Peckinpah. Si pensi in che punto veniva
colpito Caan in “Killer Elite”.
E, sempre a proposito di Sam Peckinpah, tutta la parte
finale del film, ambientata in Messico, parrebbe ispirata
a “Voglio la testa di Alfredo Garcia”. Come il vecchio
patriarca in quel film offriva un milione di dollari per la
testa di Garcia, qui Chidduck promette ricchezze ai suoi
scagnozzi se questi gli porteranno il bambino e solo
quello. Bisogna però anche dire che, nella sparatoria
finale, McQuarrie enfatizza più l’azione, li dove
Peckinpah enfatizzava più i personaggi. Comunque
come fonte d’ispirazione è presente in tutto il film.
Il finale, con la nascita del bambino a sparatoria
avvenuta (e qui l’ordine delle scene è eccellente perché
evita un montaggio morte/nascita) e con in nostri due
“eroi” che rimangono colpiti a terra, è perfetto.
La colonna sonora ha dell’incredibile: scritta da tale Joe
Kraemer, la musica di questo film è fantastica e quanto
mai adeguata.
La storia si sviluppa su più livelli, i personaggi sono
molti, ma McQuarrie riesce bene a non fare confusione.
“Le vie della violenza” è un piccolo gioiello, molto
anni ’70, anche se con meno disperazione. I personaggi,
per ragioni diverse, bene o male sono quasi tutti dei
perdenti e già questo li rende simpatici.
Se si pensa che dopo questo film McQuarrie non ha più
scritto e diretto niente, uno si metterebbe a piangere.
Speriamo di rivederlo presto … “fino a quel giorno”…
S o c i o l o g i e
Narc - I figli della “French Connection”
Dopo il debutto nel 1998 con ”Blood, Guts, Bullets and
Octane” (inedito in Italia), Joe Carnahan sforna questo
film che lo catapulta direttamente nella lista dei 10
registi americani da tenere d’occhio. Eppure in Italia è
uscito direttamente in dvd. Ma recuperare questo film
è d’obbligo per tutti gli appassionati, che negli ultimi 20
anni hanno visto pochi capolavori nel genere poliziesco
(“Vivere e morire a Los Angeles”, “Heat - La sfida”), se
si esclude la cinematografia asiatica. L’idea nasce da
un documentario “La sottile linea blu” che racconta
l’omicidio di un agente della polizia. Girato in 28 (!)
giorni con un budget di 3-4 milioni di dollari (!!), e il
risultato ha dell’incredibile. Nei suoi elementi base
“Narc” è un classico poliziesco, con tutte le
caratteristiche del genere. Il film è violento e viscerale,
quello che in America si chiama “a tough gritty cop
movie”. Le fonti d’ispirazione sono soprattutto “Il
braccio violento della legge” e i film di Sidney Lumet
(“Serpico”, “Terzo Grado”), con personaggi che
agiscono sul confine tra bene/male e giusto/sbagliato.
Sociologia e Ricerca Sociale
23
Il racconto procede in stile “Rashomon” con il classico
“mcguffin” al centro della trama, ma c’è più di questo.
Insomma un film sporco e ambiguo che vuole essere
un omaggio a certo cinema anni '70, ma senza l'ironia
che caratterizza ad esempio Tarantino in simili
operazioni. Il richiamo a figure come Popeye Doyle e
all’ispettore Callaghan non sta solo nelle caratterizzazioni dei personaggi, ma anche nelle motivazioni che
li spingono ad agire in un certo modo. Un film
sull’abuso del potere e sul tradimento.
”Narc” racconta la storia dell’omicidio di un agente
dell’antidroga, Michael Calvess, e dei due poliziotti Tellis
e Oak che vengono incaricati di risolvere il caso.
Il film si apre con una spettacolare scena d’inseguimento (a piedi) tutta girata con presa a mano, nella
quale vediamo Nick Tellis inseguire un sospetto. Alla
fine Tellis colpirà per sbaglio una donna incinta, che
perderà il bambino. Più che una scena, una scarica
d’adrenalina. Dopo questo intenso e cruento inizio,
facciamo un salto di 18 mesi. A Tellis, interpretato da
Jason Patric, viene chiesto, in cambio di un lavoro da
scrivania, di dare una mano a risolvere il caso per via
dei suoi contatti nell’ambiente. Ci troviamo di fronte ad
un poliziotto caduto in disgrazia, che in passato ha
avuto problemi con la droga. In lui c’è qualcosa di
tormentato ed irrisolto. Ossessionato dal trovare
l’assassino di Calvess, finirà risucchiato dalla realtà
dell’indagine, che gli farà perdere il controllo sulla sua
vita personale. Anzi proprio nel corso dell’indagine i
paralleli fra la sua vita e quella di Calvess diventeranno
sempre più evidenti. Una specie di percorso di
redenzione, che risulterà alla fine essere la ricerca di se
stesso. Queste scene approfondiscono la dimensione del
personaggio e coinvolgono emotivamente lo spettatore.
L’interpretazione di Jason Patric è intensa, sempre al
limite, e ricorda un po' quella in “Effetto allucinante”,
nel quale il personaggio era simile. Forse in assoluto il
ruolo migliore della sua carriera. A Tellis viene
affiancato il tenente Henry Oak, ex-partner e
amico di Calvess, che è deciso a trovare a tutti i
costi un colpevole.
Oak, interpretato da Ray Liotta, è un tenente
della omicidi violento e aggressiv o, ma anche molto
efficiente nel suo lavoro. Se il personaggio di Tellis si
ispira a Serpico (Al Pacino), quello di Oaks è modellato
sul Popeye Doyle (Gene Hackman) nel film di William
Friedkin “Il braccio violento della legge”. Nella prima
scena in cui lo vediamo, picchia a sangue un detenuto
con una palla da biliardo. Uno sbirro, il cui unico
obbiettivo è arrestare i colpevoli, in un modo o
nell’altro. Ma nonostante i suoi metodi è persona
capace di sentimenti, come vedremo nel corso del film
e anche lui è spinto da un bisogno di redenzione.
L’intensità che lo porta al limite e che a volte glielo fa
superare, nasce dall’amore per qualcuno e dai suoi
valori morali. Questi ultimi sono essenziali per il
personaggio e molto importanti per capire tutto il film.
Particolarmente significativo in questo senso è il
monologo di Oak su sua moglie e che risulta essere
una delle scene più belle del film. Per lui, l'aver perso
la moglie lo ha reso un poliziotto migliore, perché non
ha più nulla da perdere ed privo di ogni remora. La
scena è anche importante per fare vedere la divisione
che c’è tra i personaggi.
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Ottobre 2004, Anno 1, Numero 10
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I due sono appostati in macchina (Oak davanti, Tellis dietro) e Carnahan filma questo monologo dall’esterno
attraverso le finestre, con movimenti lenti e con la neve che inizia a cadere sui vetri, sottolineando lo stato
emozionale interiore di Oak. Una scena triste, commovente, che si rispecchia tutta negli occhi di Ray Liotta. Occhi
che rendono il dolore e ci fanno capire che questo uomo è ormai libero da qualsiasi vincolo. Il personaggio di Oak è
uno di quelli “larger than life”, in grado di fare cose buone, ma anche cose orrende, guidato solo dal senso di
giustizia finale e che per arrivarci giustifica qualsiasi mezzo. Sappiamo che non ci racconta tutto, ma non sappiamo
dove questo ci porterà. Infatti lo spettattore non sa mai più dei personaggi, ma scopre o fatti contemporaneamente
a loro. Più procedono nel caso e più Tellis scopre che proprio i segreti che nasconde Oak sono quelli che portano alla
soluzione del mistero. Ray Liotta rende il personaggio in maniera segnata e pesante e realizza una delle sue migliori
interpretazioni. Tellis e Oak non rientrano però del tutto negli stilemi della coppia di sbirri, perchè nessuno dei due
prevale sull’altro. Non sono amici, ma due persone diverse che si riuniscono solo per un obbiettivo oltre al quale non
hanno niente in comune. Anche visivamente questa distanza emozionale è sottolineata dal fatto che i due non si
vedono quasi mai in primo piano nella stessa immagine, ossia sono separati fisicamente. Fra i due si sviluppa però
nel corso dell’indagine un rapporto di rispetto reciproco. Entrambi sono tormentati da conflitti personali, ma partono
da due punti opposti, per assomigliarsi sempre di più nel finale. C’è una grande alchimia fra i due attori che sono al
massimo delle loro capacità recitative.
Nonostante la trama e la maggior parte degli avvenimenti non siano particolarmente originali, Carnahan riesce a
presentarci il tutto in maniera nuova e fresca. Il punto di forza del film sta nella caratterizzazione dei personaggi e
non nell’azione, anche se quest’ultima c’è ed è di prima qualità.
Dal punto di vista visivo Carnahan tira fuori tutti i trucchi del mestiere. Riprese a mano in continuo movimento,
scene in cui va fuorifuoco, flashback con colori saturizzati e filtri che fanno sí che il film risulti sporco, grigio e
piovoso. Il tutto mischiato ad uno stile semi-documentaristico. Detroit diventa il posto dove nessuno di noi vorrebbe
ritrovarsi, una specie d’inferno. I personaggi vivono quasi come in un mondo di ombre e Carnahan ci porta in questo
mondo e ci lascia lí anche dopo la fine del film. C’è poi uno “splitscreen” quadruplo fantastico e molto funzionale al
racconto. Tellis torna a casa e si sdraia accanto alla moglie e al figlio addorementandosi. A questo punto Carnahan
prima rimpicciolisce l’immagine e poi suddivide lo schermo in quattro parti, contrastando la scena famigliare con
scene di Tellis e Oak per le strade di Detroit che alla fine occupano l’intero schermo. Strumento intelligente per
descrivere l’abisso che si apre fra la vita famigliare e quella professionale di Tellis. I dialoghi sono realistici e duri,
soprattutto nelle scene d’interogatorio. La colonna sonora di Cliff Martinez in stile “ambient”, è più che adeguata e
non attira l’attenzione su se stessa, ma ha la funzione di dirci tutto quello che Tellis non è in grado di esprimere.
“Narc” è il perfetto esempio di come dovrebbe essere un poliziesco e come tanti grandi film non è veramente
impostato su quello che succede, ma su come si arriva a quel punto. Il conflitto in questo tipo di storia è sempre
regolato dal dualismo moralità -pragmatismo delle regole o, come dice Oak ad un certo punto, “Questo caso ha tutto
a che fare con quello che è giusto e sbagliato e niente con quello che sono le regole e le procedure.” Il giudizio sul
film dipenderà dai principi morali dello spettatore e da quello che egli ritiene giusto o sbagliato. Il finale ha qualcosa
della giustizia poetica. Fate attenzione ad una delle ultime inquadrature e cercate di capire se il registratore è
acceso o no. In un senso, fa la differenza, nell’altro no …
I film citati nell’articolo sono:
The Way of the Gun / Le vie della violenza - Cristopher McQuarrie, 2000
Public Access - Brian Singer, 1992
The Usual Suspects / I soliti sospetti - Brian Singer, 1995
Butch Cassidy and the Sundance Kid / Butch Cassidy - George Roy Hill, 1969
The Killer Elite / Killer Elite - Sam Peckinpah, 1975
Pat Garret and Billy the Kid / Pat Garrett e Billy the Kid - Sam Peckinpah, 1973
The Wild Bunch / Il mucchio selvaggio - Sam Peckinpah, 1969
Bring me the Head of Alfredo Garcia / Voglio la testa di Alfredo Garcia - Sam Peckinpah, 1974
Dillinger - John Milius, 1973
The Wind and the Lion / Il vento e il leone - John Milius, 1975
Blood, Guts, Bullets and Octane - Joe Carnahan, 1998
Narc / Narc - Analisi di un delitto - Joe Carnahan, 2002
Rashomon - Akira Kurosawa, 1950
The thin Blue Line / La sottile linea Blu - Errol Morris, 1988
Heat / Heat - La sfida - Michael Mann, 1995
Dirty Harry / Ispettore Callghan - Il caso scorpio è tuo - Don Siegel, 1971
To live and die in L.A. / Vivere e morire a Los Angeles - William Friedkin, 1985
The French Connection / Il braccio violento della legge - William Friedkin, 1971
Serpico - Sidney Lumet, 1973
Q&A / Terzo Grado - Sidney Lumet, 1990
Rush / Effetto allucinante - Lili Fini Zanuck, 1991
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