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LE TASSE LOCALI
dal patto di stabilità ai bisogni dei cittadini
Giovedì 15 Marzo 2007 dalle ore 9,30 alle ore 13,30
presso la Sala Consiglio della Camera di Commercio
Via Meravigli 9/b – Milano
Introduce
Antonio Lareno Faccini
Segretario CGIL Milano - Il reddito da lavoro dipendente, il federalismo fiscale e i servizi locali
intervengono:
Prof Massimo Bordignon
Università Cattolica di Milano - Federalismo fiscale e tassazione locale
Achille Taverniti
Anci Lombardia - Le autonomie locali e lo stato centrale
Angelo Bonalumi
Segretario Spi Milano - I bisogni, la 328, i piani di zona
Erminia Zoppè
Sindaca Garbagnate Mil.se - I sindaci fra bisogni dei cittadini e i vincoli di bilancio
Cristina Tajani
Cgil Milano - Costo di Milano e redditi metropolitani
Andrea Mascaretti
Assessore al Lavoro Comune di Milano - Le politiche di bilancio e i servizi del Comune
Conclude:
Onorio Rosati
Segretario Generale CDLM Milano
“Le tasse locali: dal patto di stabilità ai bisogni dei cittadini”
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Introduzione di Antonio Lareno - Segretario della Camera del Lavoro di Milano
Il reddito da lavoro dipendente, il federalismo fiscale e i servizi locali
Salutando gli ospiti e gli intervenuti al convegno di oggi rendiamo esplicite alcune premesse
all’introduzione:
� Nel linguaggio ove verranno utilizzati termini generali che indicano soggetti il riferimento va
sempre inteso al femminile e maschile.
� Siamo sostenitori convinti della fiscalità progressiva e della sua valenza sociale al fine di
rimuovere le situazione di svantaggio e di promozione della persona umana come garantito dalla
Costituzione, ma non per questo ce ne nascondiamo limiti e distorsioni.
� La tassazione locale regionale e comunale è vasta dall’Irap, all’ICI, dalla IPT alle addizionali
IRPEF, la compartecipazione a tributi centrali , ecc, ma oggi guarderemo con particolare
attenzione a quelle comunali.
� Sui vincoli europei e sulle sue ricadute interne, la relazione con il debito pubblico vi è e
perdurerà nel paese e nel governo una discussione significativa che oggi non sfioreremo neppure
limitandoci a registrare la situazione in atto.
La Signora XY è una dipendente del Comune di Milano, monoreddito e con due figli a Carico e
risiede in un appartamento in affitto. La signora ha un figlio che frequenta il secondo anno della
materna e sulla base del reddito, per la refezione, paga una retta media. Il secondo figlio frequenta
la prima classe della scuola dell’obbligo e sulla base del proprio indicatore ISEE paga la retta
massima per la refezione scolastica.
Dopodiché la signora sempre sulla base dell’ISEE ha diritto al bonus regionale per il diritto allo
studio.
La prima conclusione che possiamo trarre è che quanto meno esiste un problema di
armonizzazione tariffaria ….
Il caso illustrato è una frazione delle contraddizioni che chi lavora o è in pensione percepisce in
relazione a bisogni essenziali per una esistenza che non sia costantemente in affanno fra affetti,
lavoro, soddisfazioni personali.
I vertici del triangolo bisogni, fisco, amministrazione sono noti: la mondializzazione dell’economia
con l’elevato tasso di flessibilità/precarietà che induce moltiplica i bisogni; la fiscalità anche a
causa dell’elevata quota di evasione fiscale e di economia sommersa grava sui soliti noti e non
assolve se non marginalmente una azione redistributiva; il rapporto defit/pil e il patto di stabilità
interno producono una continua concorrenza fra Stato centrale ed amministrazioni locali che
spinge al rialzo l’ammontare complessivo del prelievo in un quadro istituzionale indeterminato che
moltiplica i conflitti legislativi fra stato e regioni e alimenta aspettative distorte in ordine al sospirato/
famigerato federalismo fiscale.
Il convegno odierno non vuole essere l’ennesimo elenco di doglianze che periodicamente il
Sindacato eleva sulla questione fiscale poiché, è nostra convinzione, che siamo prossimi a
scadenze sindacali e istituzionali di rilievo che occorre fortemente indirizzare per porre su un piano
corretto ed efficace il rapporto fra reddito, fisco, servizi offerti alla cittadinanza e amministrazioni
dello stato.
Infatti insieme ai tavoli di confronto sindacale che prossimamente si apriranno con il governo, è
avviata alla camera e al senato il percorso legislativo di riforma del meccanismo elettorale e
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l’attuazione del titolo V della Costituzione ed in particolare dell’articolo 117 sulle potestà legislative
delle regioni in combinato con l’articolo 119 sulla autonomia finanziaria degli enti locali.
Mi si consenta di essere pedante e di citare espressamente quanto previsto dalla Carta
costituzionale:
“I Comuni, le Province, le Città metropolitane e le Regioni hanno autonomia finanziaria di entrata e
di spesa.
I Comuni, la Province, le Città metropolitane e le Regioni hanno risorse autonome.
Stabiliscono e applicano tributi ed entrate proprie in armonia con la Costituzione e secondo trinci di
coordinamento della finanza pubblica e del sistema tributario. Dispongono di compartecipazioni al
gettito di tributi erariali riferiti al loro territorio.
La legge dello Stato istituisce un fondo perequativo, senza vincoli di destinazione, per i territori con
minore capacità fiscale per abitante.
Le risorse derivanti dalle fonti di cui ai commi precedenti consentono ai Comuni, le Province, le
Città metropolitane e le Regioni di finanziare integralmente le funzioni pubbliche loro attribuite”.
Bingo!
Con i nostri interlocutori odierni, che ringraziamo della partecipazione concentreremo la nostra
attenzione su questi temi con una focalizzazione all’Ente Comune enti con i quali abbiamo una
intensa contrattualità in atto, in particolare in relazione a quanto dispone la legge 328/2000 per la
realizzazione del sistema integrato di interventi e servizi sociali e la predisposizione dei relativi
piani di zona.
La nostra attenzione sul fisco, oltre che ovvia, è ulteriormente enfatizzata poiché in questi ultimi
anni si è accentuata una polarizzazione del reddito ante azione fiscale a danno del lavoro
dipendente; i dati attuali ci segnalano che nonostante un significativo incremento delle maestranze
la quota di reddito in rapporto al PIL che va al lavoro dipendente è passata dal 43,7% del 1993 al
40,7% nel 2004 mentre è aumentato il reddito d’impresa che passa nello stesso periodo dal 12,9%
al 15,3%. Mentre la media dell’europea Area euro è attestata intorno al 50%.
Questi dati trovano conferma da parte di Banca d’Italia che segnala che le famiglie con
capofamiglia lavoratore indipendente hanno registrato un incremento in termini reali del 11,7% ; le
famiglie con capo famiglia lavoratore dipendente hanno avuto una diminuzione del reddito del
2,1%.
La recente manovra finanziaria caratterizzata dalla riduzione del cosiddetto cuneo fiscale, dalla
lotta all’evasione e all’elusione fiscale, per effetto della crescita della contribuzione sociale (+
0,3%) e della base di calcolo dell’imposta cresciuta a causa dell’abolizione del sistema delle
deduzioni ha lasciato insoddisfatte le attese dei lavoratori e dei pensionati.
Il sistema delle detrazioni a vantaggio dei redditi con famigliari a carico, pur apprezzabile, non
modifica la esiguità dei vantaggi fiscali conseguiti.
Sono ad esempio 406 i milioni di euro in più che entreranno nelle casse delle amministrazioni locali
per effetto della manovra sull’imponibile anche senza incremento delle aliquote dell’addizionale
Irpef.
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Prontamente i nostri sindaci ospiti ci farebbero osservare che l’amministrazione locale nulla ci
guadagna poiché lo stato ha tagliato di un identico importo i trasferimenti dal centro alla periferia,
così è ma ciò non toglie che strutturalmente aumenta la base dell’imponibile.
In totale il prelievo irpef locale dovrebbe assestarsi nel 2007 sopra i 2,1 miliardi di euro.
Gli effetti controversi della manovra fiscale hanno dato luogo ad un rovente polemica ( con riflessi
in parlamento) fra il sole 24 ore ed il governo provvisoriamente risolta con una lettera del ministro
Bindi al giornale in questione in cui si afferma che “ le famiglie guadagnano fino a 37.000 E di
reddito con un figlio a carico e fino a 38.000 con due figli “ sottolineando il ruolo determinante
svolto dall’incremento degli assegni famigliari.
Conclusione soddisfacente solo sotto il profilo di una politica di sostegno alla famiglia.
Per conto nostro, registrata la polemica e le incertezze sulle modalità tassazione locale abbiamo
sollecitato uno specifico incontro a livello nazionale finalizzato a reintrodurre, una sorta di
progressività anche per le imposte locali sotto la veste di esenzioni o limitazioni d’imposta in
relazione al tipo di reddito: da lavoro dipendente, da pensione, da lavoro autonomo, ecc.
Ad oggi, la gran parte dei comuni delle amministrazioni comunali del comprensorio milanese (dati
desunti dal ministero dell’economia) non hanno comunicato aggravi d’imposta, solo 6 su 87 hanno
aumentato l’aliquota dell’addizionale Irpef, ma salvo un caso si è trattato di un allineamento alle
tariffe medie degli altri Comuni che in genere oscillato fra lo 0,4 e lo 0,5 %.
Più elevato e significativo 20 (circa 23%) il numero dei comuni del nostro comprensorio che hanno
deciso di avvalersi della facoltà di far pagare ai propri contribuenti un acconto d’imposta ( 30%)
sulla addizionale Irpef.
Tutti i comuni considerati hanno in essere una detrazione ICI che varia da un minimo di 103 € ad
un massimo di 264 recentemente deliberata dal comune di Cinisello (Milano 200 €).
L’ICI sulla prima casa fornisce circa il 27% dell’intero ammontare di questa imposta, che è un vero
punto critico configurandosi come una patrimoniale che grava anche sul reddito da lavoro e da
pensione in assenza di una corrispettiva tassazione su altri fonti di reddito.
Valga per tutti il fatto che ancora attualmente è stata rinviata il varo della tassazione sulle rendite
finanziarie, dove per altro si tratta di un semplice allineamento agli standard europei. Su questa
imposta lo stesso Romano Prodi ha annunciato un intervento i cui contorni sono tutti da precisare.
In queste panorama contradditorio riscontriamo due elementi positivi:
1. La gestione del patto di stabilità interno sui saldi di spesa e non sui tetti di spesa introdotta con
l’ultima finanziaria che lascia maggiori spazi di gestione alle amministrazioni locali.
2. La lotta all’evasione che ha incominciato a dare i primi frutti : in rapporto all’incremento delle
entrate fiscali registrate nel 2006 e pari a 35,8 miliardi di euro di cui 9,6 miliardi ( 25% circa)
attribuibili a fenomeni di emersione di reddito e dalla “improvvisa , consistente volontà dei
contribuenti di mettersi in regola con il fisco” (da il sole 24 ore).
A nostro avviso si tratta quindi di cogliere l’opportunità offerta dalla possibilità di coniugare un
andamento congiunturale positivo del Pil, unito, se i dati verranno confermati anche nel 2007, ad
un incremento strutturale delle entrate con i provvedimenti attuativa del titolo V della costituzione
per provvedere ad un riordino complessivo della imposizione locale lungo tre direttrici:
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� rendere certo il processo di legislazione concorrente fra stato e regioni e le attribuzioni ai diversi
enti locali anche al fine di consentire la semplificazione e l’omogeneità del sistema della tassazione
locale almeno su base regionale: ad esempio si potrebbe operare su scaglioni di reddito univoci
lasciando ai comuni la facoltà di modulare le aliquote.
� Introdurre strutturalmente la restituzione del fiscal drag rendere e rendere progressivo anche il
sistema della imposizione locale attraverso esenzioni o detrazioni in base al tipo di reddito con
particolare attenzione al redito da lavoro e da pensione
� Rendere agibile un vera e propria tassazione di scopo ( non come le accise sui carburanti, che
diventano permanenti) non vincolata alle opere pubbliche ma alla decisione politica delle comunità
locali sulla base delle proprie priorità.
Intervento di Andrea Mascaretti - Assessore al Lavoro Comune di Milano
Le politiche di bilancio e i servizi del Comune
Credo che dovremmo vedere le tasse locali nel contesto della finanziaria 2007 e quindi iniziare col
dire che la finanziaria 2007 ha affrontato soltanto alcuni temi di recupero del Paese, ma non ha
valorizzato in maniera adeguata temi come lo sviluppo e la crescita, che invece toccano
direttamente i Comuni e che si confermano il livello istituzionale più vicino ai cittadini. I
trasferimenti statali non riconoscono neppure il tasso di inflazione, tanto meno sono previsti
riconoscimenti a comuni virtuosi come il Comune di Milano. Al contrario, la finanziaria ha tagliato a
Milano quasi 48 milioni di euro. Una situazione difficile che avrebbe potuto tradursi facilmente in un
aumento delle imposte locali e in un taglio dei servizi, ma invece è successo il contrario: martedì
13 marzo scorso abbiamo presentato il bilancio di previsione del 2007 che è il primo impegno del
nostro mandato.
Con questo bilancio il Comune risparmia 127 milioni di euro che si traducono in un risparmio medio
di 188€ a famiglia se calcoliamo le 678mila famiglie milanesi. Alla città offriamo più servizi
lasciando più soldi nella disponibilità dei cittadini; relativamente al patto di stabilità anche per
quest’anno il Comune di Milano conferma il proprio impegno a rispettare limiti e regole imposte. È
un impegno più importante, considerato il contesto di risorse scarse a fronte di una richiesta di
servizi da parte dei cittadini sempre crescente.
In merito alle entrate per il 2007, queste sono previste per 1,945 miliardi di euro e sono
caratterizzate da una riduzione della pressione tributaria di -27,59% e dal proseguimento dei
programmi di recupero dell’evasione e da un aumento delle entrate diverso, in particolare di quelli
di natura finanziaria e dall’attivazione di contributi e partnership con soggetti privati. Relativamente
alle spese mi preme evidenziare il contenimento delle spese per attività interne all’amministrazione
– in media il 13% – che servono per il funzionamento della macchina comunale, ma che non si
traducono sempre in servizi ai cittadini; la riduzione delle spese per debito e l’aumento nel
contempo di tutte le spese per i servizi ai cittadini e per lo sviluppo della città. Tra le opere
pubbliche evidenzio il futuro sforzo per i progetti di trasporto pubblico – le linee metropolitane 4 e 5
– per circa 1 miliardo di euro, 130 milioni di euro per l’aggiornamento degli impianti tranviari, 66
milioni di euro per la viabilità. Il Comune abbassa l’ICI dal 5 al 4,7 e prevede maggiori contributi
alle famiglie con maggiore disagio sociale: il nostro bilancio prevede infatti la riduzione dell’ICI sulla
prima casa, l’aumento della detrazione da 155 a 200€ per la prima casa per soggetti in condizione
di disagio economico e sociale con un reddito ISEE inferiore ai 17 mila euro l’anno, un’ulteriore
detrazione di 258€ per famiglie con un disagio sociale particolarmente grave, sempre con un
reddito ISEE inferiore ai 17mila euro l’anno.
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Grazie a questo sistema di detrazioni le agevolazioni di cui godevano prima solo 11mila famiglie
milanesi viene esteso a più di 100mila famiglie. A queste famiglie infatti non toccherà più pagare
l’ICI risparmiando tra i 200 e i 258€ all’anno. Per tutte le altre famiglie di Milano il risparmio medio è
invece di 30-40€ all’anno.
Il Comune inoltre rinuncia all’IRPEF che negli altri comuni varia dalla 0,2 allo 0,8%. Per il Comune
di Milano vuol dire lasciare nella disponibilità dei cittadini un importo complessivo che va dai 45 ai
180 milioni di euro all’anno che si traduce dai 65 ai 262€ per ogni famiglia milanese. Per chi la
casa non ce l’ha ancora il Comune ha previsto importanti misure, cioè interventi di “social housing”
per circa 120 milioni in più rispetto al 2006 destinati alla realizzazione di abitazioni a prezzi
calmierati e la realizzazione di alloggi con un piano di edilizia residenziale pubblica per altri 135
milioni di euro. Grazie a questa serie di interventi metteremo a disposizione dei milanesi oltre 3mila
appartamenti in più che si aggiungono al numero più consistente di case già previsto dall’edilizia
convenzionata.
Sosterremo poi l’acquisto della prima casa per almeno 200 famiglie numerose e altre 400 famiglie
in condizioni economiche disagiate alle quali daremo un sostegno per l’affitto.
Alle famiglie sono dedicati anche tanti investimenti che si traducono in un potenziamento e un
incremento dei servizi esistenti a cui ne aggiungeremo di nuovi, primo tra tutti il “bonus bebè” con il
quale metteremo a disposizione 1 milione e mezzo di euro ad almeno 2 mila mamme milanesi. Per
quanto riguarda la mia delega in particolare, l’occupazione e il lavoro, il tasso di disoccupazione a
Milano è del 4%, mentre la media nazionale supera il 7,5%; il tasso di occupazione è del 66,7%
molto vicino all’obiettivo di Lisbona che è il 70%. Vogliamo però migliorare ancora e proprio con il
recente protocollo di relazioni sindacali sottoscritto con CGIL-CISL-UIL abbiamo dato via alla
costituzione di un “Osservatorio permanente del mercato del lavoro e dei fabbisogni professionali”
per aumentare le opportunità occupazionali e per promuovere lo sviluppo della nostra città e del
nostro territorio.
L’Amministrazione vuole anche promuovere la messa in rete dei servizi per la formazione
professionale, per l’occupazione, per l’orientamento, per offrire maggiori opportunità di lavoro
soprattutto alle categorie svantaggiate. Siamo riusciti ad avviare tutto questo con un percorso che
ci vede impegnati nel 2007 a risparmiare e migliorare sempre di più l’efficienza
dell’Amministrazione comunale senza nuove tasse per i cittadini.
Il Comune di Milano è quello che fa pagare meno tasse ai suoi cittadini per i servizi generali alla
città e alla persona, dalle tariffe di luce, gas e acqua ai servizi sociali. Questo è possibile perché,
caso unico credo in Italia, le società partecipate dal Comune di Milano sono in pareggio o in attivo
nei conti e nella gestione, una condizione necessaria per poter investire nel miglioramento
costante dei servizi.
Per i servizi erogati dal Comune i contribuenti milanesi pagano un valore pro capite molto minore
dei contribuenti di Torino, Roma, Napoli e altre grandi città. A Milano ogni cittadino paga per questi
servizi 372€ l’anno contro i 435€ di Torino, i 516€ di Roma e i 617€ di Napoli. Questo significa ad
esempio che per i trasporti pubblici locali nella tassazione di ogni cittadino i servizi pesano a
Milano per 19€ contro i 35€ di Torino, i 113€ di Roma e i 132€ di Napoli. Il buon governo di Milano
e la buona gestione delle partecipate porta ad avere utili da reinvestire che consentono di avere le
tariffe più basse d’Italia per quanto riguarda i servizi idrici, così come la raccolta dei rifiuti e i pasti
della mensa scolastica. La tariffa media per l’acqua al metro cubo a Milano è di 0,46€ contro i
0,83€ di Roma, i 0,87€ Brescia e l’1,25€ di Bologna. Ma se guardiamo all’estero vediamo che a
Berlino la tariffa media è di 4,30€, ad Amburgo 4,22€, a Bruxelles 2,12€, a San Francisco 1,69, a
Tokio 1,49€, a New York 1,18€ e ad Atene 0,93€, quindi abbiamo in assoluto le tariffe più basse.
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I milanesi partecipano con orgoglio alla vita dello Stato per quasi 6 miliardi di euro di tasse pur se
di questi solo una minima parte torna a Milano, cioè solo 834 milioni. Milano è orgogliosa di
produrre il 10% del PIL nazionale anche se riceve in cambio meno del 3%.
Alla classifica dei contributi diretti dallo Stato ad ogni singolo cittadino delle grandi città il cittadino
milanese prende 150€ contro i 353€ per ogni cittadino romano, i 381€ per ogni cittadino torinese e
i 606€ per ogni cittadino napoletano. Milano si rimbocca le maniche e continua a fare la sua parte,
sa trovare le risorse per lo sviluppo, investe per ogni cittadino risorse aggiuntive in più di ogni altra
grande città. In termini di risorse aggiuntive Milano investe per ogni cittadino 610€ contro i 346€ di
Roma e i 332€ di Torino. Milano sente la responsabilità di contribuire allo sviluppo del Paese e di
continuare a farlo, augurandosi di poter avere dal governo l’attenzione che merita, ma senza
aumentare le tasse per i cittadini. Grazie.
Intervento del Prof. Massimo Bordignon - Università Cattolica di Milano
Federalismo fiscale e tassazione locale
Innanzitutto, ringrazio per l’invito. Tenterò di non annoiarvi e non portarvi via troppo tempo, ma
vorrei fornirvi un quadro generale e alcuni spunti di analisi, sul federalismo fiscale, e in particolare
la finanza comunale: cercherò di fare il punto sulla situazione attuale e su ciò che potrebbe
succedere nel prossimo futuro. Vorrei però anche esprimere, seppur molto brevemente, alcune
opinioni personali sui temi della redistribuzione e su quello che secondo me si dovrebbe fare in
tema di finanza locale, con alcune ipotesi alternative rispetto a quelle che ho sentito nel corso del
dibattito.
Per arrivare al presente, partiamo da lontano, con due punti sullo sviluppo storico.
Prima cosa: se guardiamo la spesa complessiva delle autonomie locali – Regioni, Province e
Comuni – in percentuale sul Pil, in Italia è passata dal 13% della fine degli anni Ottanta al 15%
attuale. È un livello di spesa più o meno comparabile con quello degli altri Paesi europei. Noi
spendiamo un po’ di più a livello locale di quanto non facciano ad esempio Regno Unito e Francia,
paesi tradizionalmente centralizzati, che sono intorno al 10%. Ma spendiamo meno della Spagna,
della Germania, del Belgio, e molto meno degli irraggiungibili paesi nordici – Svezia, Norvegia e
Danimarca –, i paesi più decentralizzati del mondo. Quindi, in termini di spesa complessiva gli enti
locali italiani sono più o meno paragonabili a quelli degli altri paesi.
Ci sarebbe da ragionare sulla struttura della spesa, perché sotto questo aspetto siamo un Paese
un po’ particolare: la nostra peculiarità sta nel ruolo massiccio attribuito agli enti locali in tema di
sanità, mentre in molti altri Paesi gli enti locali intervengono su questa materia solo in via residuale.
Viceversa, in Italia è ancora modesto l’apporto degli enti locali in funzioni fondamentali quali
l’istruzione e il welfare, ancora in buona parte concentrati nelle mani centrali.
Quello che è davvero peculiare nel caso italiano è lo straordinario accentramento del prelievo. I
dati ci dicono che agli inizi degli anni Novanta, l’Italia era il Paese più accentrato del mondo sul lato
del prelievo: erano poche le risorse tributarie a livello locale e buona parte dei finanziamenti
avveniva attraverso trasferimenti. Agli inizi degli anni Novanta le Regioni a statuto ordinario erano
finanziate per quasi il 98% con i trasferimenti, per il 94% vincolati. Ai Comuni andava un po’
meglio, ma la cifra media era pur sempre intorno al 70%. Perché siamo arrivati a questa situazione
di straordinaria centralizzazione? Non so dirvi se sia dipeso dal caso o da scelte precise,
probabilmente un po’ da tutti e due. Per quanto riguarda i Comuni, l’origine dell’accentramento è la
riforma tributaria degli anni Settanta che ha cancellato una serie di imposte comunali, per la verità
molto criticate all’epoca. Era previsto dalla riforma qualche tributo locale nuovo, come L’Ilor, per
esempio, che avrebbe dovuto essere un’imposta locale; invece è stata dimezzata e centralizzata.
Probabilmente, alla base dell’accentramento c’era anche un disegno politico-sociale: l’idea che se
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si accentra tutto il prelievo e si finanziano gli enti locali con trasferimenti sulla base di criteri
oggettivi, in un paese molto frammentato e diviso come il nostro, si riescono a sostenere livelli di
spesa più uniformi di quelli legati alle strutture tributarie o finanziare del territorio, che
necessariamente riflettono anche le caratteristiche di questi territori.
La struttura di modello centralizzato a finanza derivata ha generato una serie di problemi
giganteschi, tanto è vero che almeno dalla metà degli anni Ottanta inizia una spinta molto forte per
il decentramento, almeno da parte dei tecnici. E quando parlo di problemi intendo crisi finanziarie
continue, arginate spesso dallo Stato attraverso interventi di finanziamento dei debiti delle città,
degli enti locali, delle Regioni. Questi finanziamenti poi sono entrati a far parte dei trasferimenti
ordinari e ancora condizionano in larga misura il sistema.
Se chiedessimo a un assessore milanese sulla base di quqli criteri Roma e Milano prendono i soldi
che prendono dallo stato, probabilmente non saprebbe rispondere. La risposta corretta sarebbe
che per il 50% dipendono dalla “spesa storica”, cioè dai soldi che per qualche ragione sono stati
ottenuti in passato. Si tratta di un meccanismo per cui chi, in qualche modo, ha speso un po’ di più
in passato, ed è riuscito per qualche ragione ad ottenere più di soldi, continua ad ottenerli. È
dunque un problema di iniquità. Il sistema ha poi generato una forte irresponsabilità della classe
politica locale, con livelli più o meno gravi di degenerazione. I politici locali non potevano
sostanzialmente determinare con precisione il bilancio, perché le risorse erano decise su base
discrezionale anno su anno e vincolate dal centro. È chiaro che più che imparare a gestire i propri
territori, dovevano cercare di avere buoni contatti con Roma per ottenere più risorse e governare
bene il loro comune, o provincia o Regione.
Negli anni Novanta parte uno sforzo serio di cambiare sistema e di passare a forme di maggiore
decentramento: si ricostruisce un minimo in più di autonomia a livello fiscale, si cerca di
riequilibrare i bilanci e di responsabilizzare gli enti locali rispetto. In Europa i processi di
federalismo fiscale sono avvenuti un po’ ovunque. Negli anni Novanta hanno decentrato il Belgio e
la Spagna, recentemente la Francia ha cambiato la propria costituzione in senso federalista, il
Regno Unito ha introdotto la “devolution”, quella vera, cioè un meccanismo diverso di attribuzione
di risorse agli stati componenti. Quando tutti i Paesi si muovono in una stessa direzione, è
probabile che ci sia una qualche causa comune. Il rafforzamento dell’Unione europea, il mercato
comune, l’accresciuta concorrenza possono avere un ruolo in questo bisogno di rafforzare gli enti
locali, ovvero quelli sui quali pesa di più il processo competitivo.
Come funziona il decentramento degli anni ‘90? Sostanzialmente, per prima cosa si eliminano i
trasferimenti, poi dai trasferimenti vincolati si cerca di passare a quelli liberi, si introducono le
compartecipazioni, e i tributi propri, come l’Ici per i Comuni e l’addizionale Irpef per le Regioni (dal
1999) e così via. È un processo che non ha solo elementi finanziari, ma anche forti elementi
politici. Ad esempio, si modificano tutte le leggi elettorali, nel 1993 per i Comuni, nel 1999 per le
Regioni, allo scopo di responsabilizzare i governanti attraverso l’elezione diretta del sindaco o del
“governatore”.
Certamente, il decentramento non è stato ampio dal lato della spesa, nonostante le leggi
Bassanini. Molto di più si è decentrato a livello fiscale: alla fine degli anni 90 le Regioni sono
finanziate per il 50% circa da tributi propri, e i Comuni di alcune Regioni del Nord arrivano anche
all’80%, considerando tributi propri e tariffe. Tutto questo processo avviato con legge ordinaria ma
trova il suo compimento nella riforma del Titolo V della Costituzione, che viene definitivamente
approvata nell’ottobre del 2001. Tuttavia, nonostante un’impressione generale di netto
miglioramento della capacità amministrativa, almeno per quanto riguarda i Comuni, da questo
momento il processo si interrompe, anche per via del cambiamento di governo. A partire dal 2002
cioè dall’approvazione della nuova costituzione, esplode un forte contenzioso tra Stato e Regioni
che cresce ancora negli anni successivi. Il Titolo V, per scelta deliberata del legislatore costituente,
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non prevede infatti norme di transizione: ciò significa per esempio che le nuove competenze
legislative attribuite alle Regioni dalla Costituzione sono già loro, e nel tentativo di esercitarle in un
contesto confuso, si crea il contenzioso. La politica cerca all’inizio di contenere il contenzioso. Ad
esempio, la famosa legge La Loggia, votata da tutti i parlamentari con l’obiettivo di arrivare ad
un’interpretazione comune del Titolo V, avrebbe dovuto definire quei principi generali della
legislazione, sulla cui base si poteva definire l’attribuzione delle competenze Stato Regioni su una
base più consensuale. Ma questo tentativo abortisce subito.
Il governo di centrodestra, invece di interpretare il Titolo V, fa partire una nuova riforma
costituzionale sotto il nome di devolution. Nel 2003 vengono bloccate tutte le addizionali, sbloccate
poi solo con la Finanziaria per il 2007, i patti di stabilità diventano meccanismi estremamente
puntuali di controllo delle spese degli enti locali e delle Regioni, in certi casi ad un punto tale da
generare una ”bocciatura” della Corte Costituzionale.
L’articolo 119, che avrebbe dovuto definire le nuove risorse locali viene completamente disatteso.
Cosa bisognerebbe fare a questo punto? Sul Titolo V ci sono almeno tre nodi da risolvere. Il primo
riguarda il rapporto tra Regioni e Stato: va interpretato per ciò che riguarda l’attribuzione delle
competenze, altrimenti il rischio è una sovrapposizione di competenze e di legificazione che
genera costi per la collettività ed impedisce di decidere.
Il secondo è un problema molto spinoso: il rapporto tra Regioni ed enti locali. Il problema è che di
solito non si coordinano, ognuno va per la sua strada ed è estremamente geloso della propria
autonomia. Infine, va applicato in maniera sensata l’articolo 119.
Aggiungiamo pure una ristrutturazione dei sistemi tributari locali, ma in realtà in termini di
importanza questo è l’ultimo dei problemi. Il vero problema è riuscire a ricostruire la struttura di
rapporti e di relazioni tra Regioni e Stato, Regioni ed enti locali, dopo di che bisogna affrontare il
nodo della redistribuzione tra territori.
È un nodo molto serio. Anche perché c’è un problema che viene tendenzialmente nascosto, del
quale non si parla per evitare di suscitare preoccupazioni, ma secondo me è più facile affrontare i
problemi se si mettono sul tappeto piuttosto che si nascondono. Il problema è che il Titolo V ha al
suo interno un implicito conflitto distributivo. Prendiamo per esempio le stime Isae su quante
risorse bisognerebbe devolvere alle periferie per sostenere il Titolo V. Queste dicono che le nuove
attribuzione delle risorse necessaria per sostenere il decentramento è intorno al 5% del Pil: non è
una cifra straordinaria, spendiamo già il 15% e con un altro 5% arriveremmo al 20%, non molto
lontano dalle cifre attuali della Spagna. Il problema è che questa spesa aggiuntiva si concentra al
Sud, mentre le risorse per finanziarle stanno essenzialmente al Centro-Nord. Costruire un sistema
perequativo, politicamente sostenibile, che tenga conto di questi problemi è molto difficile.
Il nuovo governo si sta muovendo, alcuni interventi sono già nella Finanziaria per il 2007. Il
disegno di legge relativo al codice delle autonomie è un tentativo di interpretare gli articoli 117-118
e in parte l’articolo 116. Finalmente fa un po’ d’ordine e introduce una serie di novità interessanti.
Abbiamo una struttura troppo articolata dei governi locali – si pensi che ci sono 189 Comuni
soltanto nella provincia di Milano – e quindi abbiamo bisogno di forme di riaggregazione, di
razionalizzazione. Il codice delle autonomie prevede, ad esempio, l’introduzione delle Città
metropolitane. Inoltre, si pensa a una legge delega per l’applicazione dell’articolo 119: su questa
idea ha lavorato un gruppo di lavoro sul federalismo fiscale del quale ho fatto parte anche io. È
troppo presto per dire quali esiti avrà, ma l’impressione è che, nonostante tutti i conflitti, da parte
delle autonomie ci sia una seria volontà di raggiungere un accordo.
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Il vero problema secondo me sta sull’altro lato, cioè sul lato del governo. Il Titolo V è una cosa
seria, con implicazioni importanti su cui bisogna essere chiari. Se fosse applicato sul serio, si
dovrebbero delegare moltissime funzioni; si dovrebbero spostare verso la periferia strutture di
potere centrale e quindi rinunciare ad una parte di sovranità da parte del Parlamento nazionale.
Non sono sicuro che ci sia veramente questa volontà da parte del governo e del parlamento. La
legge Finanziaria ha fatto alcuni progressi importanti. Nel Dpef erano previsti quattro punti di
intervento: nella Finanziaria ci si è concentrati prevalentemente su sanità ed enti locali,
tralasciando gli altri, ma è pur sempre un passo in avanti. E almeno per i Comuni, siamo passati
all’ idea che i vincoli di Maastricht riguardano i saldi e non i livelli di spesa.
Quanto al patto di stabilità interno, ci sarebbe molto da dire sia per i contenuti che riguardo al
metodo. Per questo anche questo governo, invece di trattare Regioni e Comuni come parti dello
Stato, le ha considerate delle controparti, così come si fa con il settore privato. Ma tolti interessi e
pensioni, gli enti locali da soli fanno il 60% della spesa pubblica. È evidente che se si vuole
controllare la finanza pubblica non lo si può fare senza di loro. Ed è evidente che si dovrebbe
arrivare a forme di coordinamento più paritetiche, ma non è successo. D’altra parte, il patto di
stabilità solleva molti interrogativi anche sul piano dei contenuti, in particolare su come è stato
distribuito l’onere dell’accertamento, con un peso eccessivo al criterio del debito.
E veniamo al capitolo addizionali. Un effetto automatico di crescita delle addizionali si è avuto per il
passaggio da un sistema di deduzione ad uno di detrazioni per l’Irpef, perché le detrazioni delle
imposte erariali non riducono l’imposta su cui si applica l’addizionale. Sul provvedimento, però, il
Sole 24 Ore ha montato una campagna di stampa eccessiva. Se andiamo a vedere, su 8.000
Comuni italiani, solo 1.100 hanno deliberato in questo senso, e di questi soltanto il 70% ha deciso
un incremento dell’aliquota. In altre parole, gli effetti sono stati sostanzialmente più limitati di quello
che si racconta. Nella Finanziaria sono poi contenute novità che andrebbero maggiormente
sottolineate, come la compartecipazione all’Irpef. Dovrebbe veramente diventare adesso una
compartecipazione automatica al gettito. Può rivelarsi utile avere un rapporto diretto con l’Irpef,
perché se questa cresce, aumentano automaticamente le risorse. Corretta la previsione di
attribuire finalmente ai Comuni la gestione del catasto.
Le addizionali Irpef hanno creato molto dibattito, in particolare in merito all’effetto regressivo che
queste avrebbero avuto, in conflitto invece con l’intervento redistributivo attuato dallo stato
sull’Irpef. Ma francamente credo che sia sbagliato dibattere solo di Irpef, come troppo spesso si fa
in questo Paese, perché la redistribuzione non si fa solo attraverso l’imposta sul reddito. L’Irpef si
basa per il 75-80% sul solo reddito dei lavoratori dipendenti: se ci si limita a fare redistribuzione
solo sull’Irpef, si redistribuisce soltanto all’interno di questa categoria. Effetti redistributivi molto
maggiori, e più efficaci, si avrebbero se riuscissimo a pervenire a un incremento della tassazione
sulle attività finanziarie. Un intervento in questa direzione avrebbe anche un effetto positivo in
termini di efficienza.
Siamo in Paese dalle molte contraddizioni. Una di queste è che non cresciamo, eppure tassiamo i
fattori produttivi molto più della rendita e della proprietà. Vorrei soltanto ricordare che un noto
Paese “bolscevico” come gli Stati Uniti ha una tassazione sul patrimonio intorno al 4% del Pil,
mentre noi superiamo di poco l’1%. Per le ragioni che vi ho detto, non sono particolarmente
favorevole all’idea di attribuire agli enti locali ampi spazi di manovra sull’Irpef perché si rischia una
balcanizzazione del sistema tributario.
Soprattutto se si considera che il 50% dei Comuni ha una popolazione al di sotto dei 1.000
abitanti: non possiamo avere Irpef differenziate a livelli così polverizzati. Secondo me, aver
attribuito lo 0,8% dell’aliquota come addizionale sull’Irpef è fin troppo, basta una buona
compartecipazione al gettito Irpef (cioè senza facoltà di modificare le aliquote da parte locale).
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Dove si possono trovare allora maggiori spazi per la finanza locale? Innanzitutto, nella tassazione
degli immobili: è ancora adesso in una buona parte erariale, mentre , questa sì, dovrebbe essere
riportata interamente in mano ai Comuni. Anche sull’Ici sarebbe meglio che intervenissero i
Comuni e non il governo centrale. Oltre alle imposte di scopo, si può fare di più sull’Iva, per
esempio istituendo una compartecipazione locale ad essa. È vero che è difficile definire l’Iva per il
livello comunale, ma qualche progresso si potrebbe fare. Perché l’Iva potrebbe essere importante?
Perché risolverebbe il problema della non coincidenza tra chi accede ai servizi e i residenti che
sono tassati per quei servizi. Pensate a un Comune come quello di Milano: ogni giorno vi entrano
un milione di persone, che usufruiscono di servizi offerti a tutti, ma che sono finanziati solo con le
tasse dei cittadini milanesi. Bisognerebbe trovare una forma di base imponibile che tenesse conto
anche dei non residente: l’imposta sui consumi, l’Iva appunto, potrebbe essere una soluzione,
perché anche i non residenti comprano nel comune.
Intervento di Achille Taverniti - Sindaco San Donato Milanese, Vice presidente Anci
Lombardia
Le autonomie locali e lo stato centrale
Buongiorno a tutti, devo dire che l’illustrazione molto puntuale a cura del prof. Massimo Bordignon
dell’Università Cattolica, finalmente mette un po’ di ordine e ci permette di riflettere. L’argomento
che vorrei trattare oggi è quello della politica e delle sue variabili.
Personalmente ho apprezzato l’ultima Finanziaria, in particolare il modo in cui è stata concepita
per i Comuni. In sostanza, penso che il principio alla base della manovra finanziaria di quest’anno
sposi le indicazioni che da anni l’ANCI richiedeva e cioè: autonomia per gli Enti locali, passare dai
tetti ai saldi di spesa, definire autonomia nella gestione delle risorse disponibili per il proprio
territorio e spazio di manovra nella tassazione a livello locale. Questa mia visione positiva delle
cose si è rafforzata poi con la dichiarazione del Governo di voler lavorare sia sul codice delle
autonomie che sul federalismo fiscale.
Mi sembra quindi che il disegno abbia una sua logica, tuttavia, la variabile della politica mi porta a
domandare: come andrà a finire? Sulla base della mia esperienza ritengo che la debolezza attuale
del Governo sia tale che forse, ancora una volta, questo processo si bloccherà. Siamo infatti
ancora tutti concentrati a vedere come si farà l’ennesima riforma della legge elettorale, mentre gli
altri scenari cadono in secondo piano, per ovvi motivi.
Su questo tema bisogna essere chiari: o si fa una legge che definisce il codice delle autonomie di
pari passo con il federalismo fiscale, oppure, se questi due percorsi non camminano insieme, tutto
il resto non serve. A me convince molto per esempio il fatto che si pensi all’istituzione delle aree
metropolitane riconsiderando il ruolo delle Province come luoghi dove si governano i processi e i
problemi di vasta area. A maggior ragione, in un territorio come la Lombardia, l’istituzione dell’area
metropolitana consente di considerare a questo livello istituzionale le scelte di governo di
infrastrutture, trasporti pubblici e assetti territoriali, lasciando ai Comuni la funzione di prima
interfaccia, di contatto con i cittadini e quindi la capacità di risposta ai servizi primari. Se questo
processo riformatore andrà avanti, lo considero una cosa molto positiva.
Un altro problema da considerare riguarda la critica generale nei confronti dei Comuni rispetto ad
una loro incapacità di gestire le risorse disponibili. Si tratta di un’impostazione che genera
parecchia confusione tra i cittadini, sembra infatti che i Comuni dispongano di tanti soldi e che li
spendano male. A volte poi, soprattutto nei dibattiti televisivi, si parla di risorse senza fare
distinzione tra trasferimento e compartecipazione.
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Vi faccio un esempio concreto: ad un certo punto nel dibattito sulla compartecipazione, sempre in
direzione del federalismo fiscale – sul quale dirò qualcosa dopo – i Comuni si sono chiesti come
risolvere il problema del passaggio da un sistema improntato sui trasferimenti ad uno sulla
compartecipazione al gettito Irpef dei contribuenti di un determinato Comune.
Si era trovato un dato: il 6.5% del gettito complessivo dell’IRPEF di quel determinato Comune
come riferimento per passare a questo nuovo sistema di contribuzione da parte dello Stato.
A questo proposito vorrei fare notare che se al Comune di San Donato Milanese venisse
riconosciuto il 6.5% dell’Irpef pagata dai suoi cittadini, l’Amministrazione avrebbe qualcosa come 4
milioni di euro in più rispetto all’attuale trasferimento centrale. Questo consentirebbe di governare,
a parità di spesa attuale, il Comune e i suoi servizi senza gravare ulteriormente sui cittadini.
Per le questioni di cui si parlava prima e per l’equilibrio di tipo regionale, si dice che viene sì
riconosciuto il 6.5% della compartecipazione, però la somma dei trasferimenti più la
compartecipazione non deve superare quel dato. Quindi San Donato, da questa manovra, ottiene
4 milioni di euro in meno; io come Sindaco non ho più trasferimenti dallo Stato, la mia quota di
compartecipazione assorbe totalmente i trasferimenti, e così vale per molti altri Comuni.
Paradossalmente chi è stato virtuoso negli anni in cui si è deciso di partire da zero – è il discorso
che faceva il prof. Bordignon sulla spesa storica – ha avuto meno, e chi non è stato virtuoso ha
avuto di più; su questo credo che sia necessaria una riflessione.
A proposito delle tasse di scopo io sono un po’ perplesso. Passatemi una battuta: sempre tassa è!
Non è che non condivida il principio. Ma siccome oggi è fortemente indebolito il rapporto politico tra
istituzione e cittadini e non emerge una classe politica, a livello centrale, capace di parlare a
questo Paese e richiamarlo ai suoi compiti veri, inevitabilmente la questione della mediazione dal
basso, in una situazione di campagna elettorale perenne, e ogni ipotesi di patto di stabilità tra
amministratore e amministrato fanno fatica ad emergere. Troppo spesso non c’è il coraggio di
“sfidare” la propria città e i suoi cittadini per dire qualcosa che può essere impopolare. Ecco, credo
che ogni ragionamento sulle tasse di scopo, in assenza di questo dialogo tra amministratori e
amministrati, non possa che risultare monco.
Un’altra questione in cui bisogna mettere ordine, a parer mio, è la chiarezza sulla provenienza
delle risorse di cui i Comuni dispongono e della loro destinazione per l’erogazione dei servizi. In
pratica negli ultimi anni i Comuni sono andati acquisendo nuovi compiti anche a fronte della
progressiva richiesta di nuovi servizi da parte dei cittadini e questo fenomeno non sempre è stato
accompagnato da una corretta condivisone e riflessione sul legame tra contribuzione, tasse e
qualità dei servizi offerti alla città.
Infine dovremmo ripensare il sistema di welfare locale. Quello che c’è oggi è infatti un welfare
eccessivamente centralizzato e monodirezionale dal punto di vista della spesa: troppa attenzione
sulle pensioni e molta meno attenzione su altro. Manca quel dialogo di cui dicevo prima, un patto
di corresponsabilità.
Un ultimo appunto riguardo ai discorsi su ICI e addizionale Irpef comunale. Capisco la
preoccupazione in questo senso e sono d’accordo che non possiamo continuare a intervenire con
la tassazione sulla prima casa. Quindi preferisco un riordino del sistema di tassazione della prima
casa sulla base di un parallelo riequilibrio dell’addizionale comunale.
Mentre infatti l’addizionale comunale può consentirci di ottenere risorse sulla base del proprio
reddito reale, l’addizionale ICI sulla prima casa fa pagare uguale a redditi diversi e quindi è meno
equa dal punto di vista del prelievo.
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Tutto questo però va tentato dentro ad un quadro reale di responsabilità. Mi sorge il dubbio che
quando si parla di federalismo fiscale non si colga appieno cosa esso significhi dal punto di vista
della vera assunzione di responsabilità a livello periferico. Se si immagina un federalismo fiscale
inteso solo come fattore di riequilibrio di nuove risorse che arrivano dal centro, stiamo sbagliando
strada. Grazie.
Intervento di Angelo Bonalumi - Segretario Spi Milano
I bisogni, la 328, i piani di zona
Vorrei iniziare con una domanda : la legge quadro dei servizi sociali ( l. 328/00) ha rappresentato
un punto importante per le amministrazioni locali in materia di welfare?
La risposta, per quello che abbiamo visto in questi anni, in questo territorio, è affermativa. Infatti,
grazie ad essa, i Comuni hanno sperimentato modalità di programmazione condivise, hanno
cominciato a vedere i vantaggi di un approccio integrato alle politiche sociali,e si sono
gradatamente riappropriati del proprio ruolo di governo complessivo del sistema dei servizi
sociali,superando una fase in cui la funzione di programmazione e progettazione degli stessi era
stata in grande misura delegata al privato sociale.
Questo ha permesso di rivalutare il significato di garanzia e di indirizzo complessivo delle politiche
sociali spettante agli Enti locali, assumendo l’importante funzione di coordinamento delle risorse
messe in campo dai diversi attori sociali presenti sul territorio.
La grande innovazione contenuta nella legge è l’istituzione dei Piani di zona perché hanno
introdotto nel vocabolario della politica alcune parole chiave, cruciali per qualificare le politiche
sociali a livello locale: socialità, concertazione, coordinamento, integrazione, programmazione.
I sei anni trascorsi sono stati densi di sperimentazioni ed innovazioni in alcuni distretti, di inerzia e
conservazione in altri : molto è dipeso dal ruolo giocato dalla regione Lombardia nel primo triennio
perchè ha trattato la materia con glacialità ministeriale e superficialità burocratica, facendo
assumere alle Asl un ruolo inappropriato perchè notarile; ma tanto e’ dipeso anche dalla capacità
politica degli attori presenti nel territorio di costruire accordi e mediare conflitti nei processi di
programmazione partecipata.
L’efficacia dei Piani di zona è risultata essere strettamente legata al rovesciamento della
prospettiva di molti interventi sociali, secondo la quale le istituzioni pubbliche devono essere
utilizzate per creare progetti, a termine e senza continuità. Al contrario i Piani che hanno meglio
funzionato sono stati quelli che hanno usato dei progetti per realizzare, costruire e qualificare le
istituzioni pubbliche.
Sei anni fa, il Sindacato dei Pensionati, unitariamente, ha affrontato il primo triennio dei Piani di
Zona con attenzione, cautela e gradualità, convinti di essere in presenza dell’inizio di un processo
complesso, ma fondamentale, teso a realizzare un sistema integrato di servizi, in grado di
assicurare nuove e sostenibili risposte ai bisogni, sociali ed assistenziali, della collettività.
A fine triennio, cioè nel 2005, abbiamo giudicato negativamente tutte quelle Amministrazioni
Comunali che:
� Si sono solo appassionate all’erogazione di elementi economici individuali, alcune zelantissime
all’eccesso.
� Si sono divise pro – capite il finanziamento o, peggio, non hanno utilizzato le risorse per
implementare i servizi.
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� Hanno inteso la Programmazione Partecipata come un fastidioso contrattempo o, peggio, come
una gioiosa riunione di autoanalisi del 3° e 4° settore sulle forme di rappresentanza.
Abbiamo lavorato, con i colleghi di Fnp Cisl e Uilp Uil, nei 13 distretti del nostro territorio, convinti
che i Piani di Zona del triennio 2006 – 2008, dovevano iniziare a costruire un welfare pluri municipale in grado di programmare, pianificare, erogare servizi con modalità associate e
soprattutto rispondenti ai bisogni dei cittadini, non solo degli ultimi.
Rispetto agli strumenti ed ai reali processi d’attivazione, abbiamo proposto e continuiamo con
ostinazione ad affermare che i Piani di Zona devono vedere uno sforzo comune e congiunto di Asl,
Comuni e Provincia di Milano in modo da garantire e rendere esigibile il principio di centralità e
unicità della persona ed il diritto ad un benessere complessivo, che coniughi elementi sanitari,
sociali, territoriali, relazionali ed individuali. I livelli essenziali sono parte di questo welfare.
Credo che, in attesa di una ormai mitologica definizione nazionale, gli Ambiti, i Distretti debbano
compiere uno sforzo di progettazione e sperimentazione per potenziare la rete di protezione
sociale dei cittadini, oltre a provare, realmente e concretamente, a garantire i servizi minimi, già
previsti e definiti all’articolo 22, comma 4, della Legge 328/00.
L’ altra novità da sottolineare è che per il triennio 2006/2008 la Provincia di Milano ha messo in
rete responsabilità e risorse finanziarie proprie, per qualificare il welfare nei Distretti, sostenendo
quei livelli di servizi e prestazioni che la riduzione della quota del fondo nazionale per le politiche
sociali, attuata dal governo nazionale sino al 2006, ha messo in discussione.
Tutto quanto fin qui illustrato non vale per il Comune di Milano. Il Piano di zona del triennio 2002 –
2005 non ha lasciato traccia visibile né invisibile : solo un puro esercizio di stile che ha prodotto un
libretto illustrativo, autoreferenziale ed auto elogiativo della alta burocrazia comunale.
Vero è che i dati a disposizione, pochi e di non facile reperimento, ci dicono che:
� Circa 284.000 anziani over 65 ( 23% , nel 1991 erano il 18%);
� Se si prendono a riferimento gli over 60 sono il 30% della popolazione e cioè circa 386.000;
� Nel 2030 il 33% della popolazione milanese avrà più di 65 anni ed il 10% sarà composto di ultra
ottantenni;
� Il 41% degli over 65 ( 115.000) vive da solo;
� Tra gli ultra 85, il 56% ( 17.500) vive solo;
� Il 27% della popolazione anziana di Milano è parzialmente o totalmente non autosufficiente :
sono circa 75.000;
� 59.978 sono ultra 80enni;
� Nel 2005 il Sad ha avuto 5285 utenti e l’ADI della ASL Città di Milano 5391.
� Non essendo possibile sapere se vi sono sovrapposizioni di utenti nei due servizi, stante il fatto
che il Comune e la Asl non sono in grado di incrociare i dati,consideriamoli 10676 cittadini singoli;
� Nel 2005 i ricoverati in RSA sono stati 4285 e gli utenti dei CDI 410;
� I beneficiari del Buono sociale sono stati 1621;
� Se si fanno le somme si arriva a 16992 cittadini anziani assistiti a vario titolo da Comune e Asl;
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� Visto che siamo partiti da 75.000, vuol dire che almeno 50.000 cittadini anziani non
autosufficienti non sono conosciuti ai servizi sociali pubblici;
� Vuol dire che il vero pilastro che regge l’assistenza socio sanitaria agli anziani della città di
Milano sono le assistenti domiciliari ( badanti);
� Vi cito una indagine del 2003 ( Benassi, Mingione 2003) sulla povertà a Milano.
Il 14% delle famiglie ed il 13% degli individui vive in condizioni di povertà. Sono 82.000 famiglie e
162.000 cittadini, di cui ovviamente moltissimi anziani.
L’impressione è che oggi l’anziano milanese ha meno diritti, meno servizi e quindi meno risposte ai
propri bisogni individuali, rispetto ad un altro anziano, non che vive a Madrid o Monaco di Baviera,
ma che abita in un qualsiasi Comune della Provincia.
L’anziano milanese perde progressivamente diritti su salute e assistenza perché Milano si è
fermata.
Alla transizione demografica che vede sempre più anziani in città, non ha fatto seguito una
progettualità sull’organizzazione della società, dei servizi e del necessario intervento innovativo
della pubblica amministrazione.
E si che di soldi se ne spendono. Nel 2003 la spesa corrente per il Settore Sociale del Comune è
stata pari a circa 285 milioni di euro, il 16,6% del bilancio complessivo, circa 228 euro pro capite.
La spesa pro capite è maggiore di quella delle grandi città del Sud e minore alla spesa di Bologna
(263 euro), Torino (258 euro) e Parma (253 euro).
In generale, nella città, non esiste un sistema unitario di informazione, di consulenza, di accesso ai
servizi, in modo particolare per gli anziani, che non rientrino nei parametri di povertà prestabiliti.
Cioè i servizi sono programmati solo per rispondere alle urgenze sociali.
Il vero aspetto problematico è costituito dalla questione dell’informazione, della conoscenza di
risorse e opportunità, oltre che dall’accesso e dell’accessibilità ai servizi. In una società dominata
dall’informazione ed in una città ricca, è stupefacente riscontrare che i cittadini non dispongono di
informazioni utili a trovare risposte ai propri bisogni.
Lo studio e le analisi demografiche sulla città di Milano evidenziano, ormai da anni, una rapida
crescita, in numeri e in percentuale, dei cittadini anziani.
Questo comporta nuove politiche e conseguenti scelte organizzative in grado di mettere al centro
della propria azione il progetto di una città solidale ed accogliente, in cui, attraverso precisi indirizzi
e chiare scelte, si innovino e si implementino i servizi pubblici presenti nel territorio.
La qualità del welfare municipale deve diventare una delle chiavi di sviluppo della città. Ciò
significa che le politiche pubbliche devono ripartire dalle persone,dai loro bisogni, dalla
quotidianità, dai loro diritti, coniugati in chiave universalistica. Politiche che rimettano al centro i
diritti di cittadinanza, che riaffermino un modello di stato sociale universale e solidale (che realizzi
cioè inclusione e coesione), che rilancino un forte ruolo programmatorio e gestionale del sistema
pubblico, che deve saper operare con criteri di efficacia, di efficienza e di razionalizzazione della
spesa.
Per dare risposte più adeguate e personalizzate ai bisogni individuali delle persone, per garantire
loro pari opportunità, accrescere la qualità della vita ed il benessere delle stesse, riteniamo sia
necessario uscire da un sistema basato fortemente sulla rigidità delle competenze e creare un
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sistema di sevizi a rete che renda possibile una vera integrazione tra interventi sanitari e socio –
assistenziali.
Nel Piano di Zona, approvato dal Consiglio Comunale nello scorso luglio, abbiamo trovato
elementi, strumenti e volontà che possono permettere il pieno esplicarsi di una logica di vera
programmazione per dare risposte più adeguate ai bisogni ed alla nuova domanda sociale dei
cittadini milanesi, magari sperimentando davvero nuove modalità nei rapporti tra Comune e società
civile, e provando ad ottimizzare le risorse, operando in sinergia con le nove Zone del
decentramento.
Necessita riattivare processi tecnici e politici di pianificazione strategica sul welfare e sui servizi
sociali.
Bisogna partire dall’analisi dei bisogni,dal confronto con i servizi, per comprendere i gap tra i
bisogni ed offerta, per analizzare l’appropriatezza della domanda e dei consumi, per valutare se
sono state colte le priorità sociali. Questo percorso non può essere un processo tecnico, che
avviene tra gli esperti dei servizi sociali, nel chiuso di un ufficio.
Il welfare di Milano va ripensato, facendo diventare il Comune un attivatore di imprenditoria
sociale. Deve, in sostanza, riprendersi il ruolo di regista del sistema, per costruire una
pianificazione strategica della rete dei servizi, per includere le risorse pubbliche e private, per
mettere in rete la produzione, per integrare i servizi sociali e sanitari.
Il recente PROTOCOLLO DI INTENTI, sottoscritto tra il Comune e le Organizzazioni Sindacali
Confederali milanesi, può essere un ottimo strumento per avviare il confronto precedentemente
illustrato, fatto di analisi e proposte, sui nodi del welfare cittadino.
Questa mattina, il quotidiano della Confindustria ne riconosce il carattere innovativo e l’importanza
della comunicazione preventiva . Adesso si tratta, ognuno per la sua parte, di renderlo
funzionante.
Voglio concludere con una informazione. Negli scorsi mesi abbiamo chiesto alle Amministrazioni
degli 85 Comuni del nostro territorio,incontri e confronti sui bilanci preventivi 2007.
Il nostro timore era quello di veder praticata la “via fiscale allo Stato Sociale”, cioè di privilegiare
l’intervento sul reddito individuale, attraverso la fiscalità comunale, per rispondere ai bisogni,
piuttosto che investire sulla rete dei servizi. Timore rivelatosi infondato, fino ad ora : solo 8 Comuni
sugli 85 osservati hanno aumentato l’IRPEF, a fronte di una tendenza molto vasta di aumenti di
investimenti nelle politiche sociali.
Non so se ciò voglia significare un cambiamento di politica degli enti locali. So che al Sindacato
spetta di proseguire la sua battaglia per l’efficienza della Pubblica Amministrazione e per
migliorare ed implementare i servizi pubblici offerti ai cittadini.
Milano, 15 marzo 2007 Sala del Consiglio presso la Camera di Commercio “Le tasse locali: dal
patto di stabilità ai bisogni dei cittadini”
Intervento di Erminia Zoppè
Sindaca Garbagnate Milanese - I sindaci fra bisogni dei cittadini e i vincoli di bilancio
Innanzitutto un saluto a tutti voi compagni e compagne e un grazie alla CGIL di Milano per l’invito
rivoltomi a partecipare a questa giornata di studio. Quando il segretario Lareno mi ha chiesto di
partecipare la domanda è stata: voi non avete aumentato l’IRPEF, come ci siete riusciti? Poi nel
suo intervento ha aggiunto: non è che per caso è una
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manovra elettorale? Nel mio intervento cercherò di spiegare come ci siamo riusciti riportando la
mia esperienza di sindaco di una città di 28mila abitanti che a giugno andrà alle elezioni. Il tema
del convegno è veramente molto interessante e i relatori che mi hanno preceduto hanno ben
delineato e affrontato i vari aspetti della fiscalità locale.
È stato detto che noi siamo la prima linea, la trincea, siamo l’istituzione più vicina ai cittadini e
sempre siamo chiamati a rispondere alle esigenze più disparate che dai cittadini arrivano, spesso
non di nostra competenza ma alle quali comunque cerchiamo di dare risposte. Negli ultimi anni
sono arrivate ai Comuni funzioni senza che contestualmente fossero trasferite le risorse finanziarie
e di personale per farvi fronte, anzi, sono stati posti vincoli alla spesa, ma anche all’assunzione di
personale. Ricordo che quando facevo le trattative con le RSU mi dicevano di assumere; però
bisognava assumere una persona ogni 4 che erano andate in pensione: ne sono andate in
pensione solo 3, difficile assumere lo 0,75...
Le ultime finanziarie del governo Berlusconi hanno messo in ginocchio le autonomie locali, nel
senso reale del termine, anche perché è passato il messaggio che la spesa degli Enti locali era
fuori controllo e questo ha imposto vessazioni nei loro confronti. Devo dire che su questo ultimo
aspetto anche l’ultima Finanziaria non ci ha risollevati più di tanto, perché quando si viene a porre
il problema del risparmio della spesa complessiva diminuendo le indennità di carica ai sindaci e
agli assessori forse non si ha ben chiaro quello che viene fatto dai sindaci e dagli assessori. La
stragrande maggioranza delle amministrazioni comunali è rientrata nei parametri del 2005 e la
situazione del 2006, che è stata molto difficile e onerosa, ha visto comunque i Comuni lavorare
perché si arrivasse anche in questo caso al rispetto dei patti di stabilità. Mi sembra che siano
veramente pochi i Comuni che non hanno centrato il patto. E comunque i Comuni sono le
istituzioni che hanno garantito nel corso degli anni lo sviluppo del Paese e delle realtà territoriali.
Le spese dei Comuni sono le uniche nel quadro della pubblica amministrazione che hanno dato
segnali positivi di contenimento complessivo e che quindi attualmente si muovono in un’ottica di
riduzione del debito. Ricordo che le leggi finanziarie passate ci hanno portato, sul versante delle
entrate, all’impossibilità dell’aumento dell’addizionale comunale IRPEF, la diminuzione sostanziale
dei trasferimenti erariali; sul versante delle spese, l’aumento contrattuale per i dipendenti comunali
per esempio per un Comune come il mio veramente piccolo rispetto a quello di Milano, hanno
significato un aumento secco di spesa di 300mila euro all’anno; né possiamo dimenticare la rigidità
del patto di stabilità e le conseguenti sanzioni che ha portato nei Comuni. Questo ha portato, per
esempio al mio Comune, a dover mettere in atto esternalizzazioni dei servizi a proprie società di
capitali per non incorrere nelle sanzioni. Noi abbiamo esternalizzato alla nostra azienda, una SPA
di completa proprietà pubblica, i servizi di igiene urbana e di refezione scolastica.
Quest’ultimo servizio era gestito completamente in economia dal Comune.
Del resto lo scorso anno era piuttosto difficile garantire la riduzione del 6.5% delle spese correnti
rispetto al consuntivo del 2004, quando il 2004 e il 2005 sono stati, per una amministrazione come
la nostra, gli anni in cui sono stati avviati nuovi importanti servizi.
Siamo chiamati a garantire il mantenimento dei servizi soprattutto sotto il profilo qualitativo. I
bisogni sociali sono aumentati, anche perchè la nostra città è stata interessata dal grande e
drammatico processo di de-industrializzazione dell’Alfa Romeo che negli anni 60-70 con il suo
insediamento aveva quintuplicato la propria popolazione. Vi lascio quindi immaginare che cosa
abbia comportato il suo smantellamento, anche rispetto all’indotto che l’Alfa Romeo portava.
Noi siamo chiamati ad attuare quella politica di domiciliarità che permette una qualità della vita
delle persone in difficoltà. Abbiamo aperto un centro sviluppo integrato mentre altre realtà li
chiudono e questo ci ha portato ad un incremento di spesa, sulla spesa corrente, di 200mila euro
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all’anno. Dobbiamo fare i conti, come tutti i Comuni, con l’arrivo di immigrati extracomunitari e con
la necessità di una loro integrazione, che implica precisi interventi: dalla presenza di mediatori
culturali, con l’aumento dei bambini con difficoltà e handicap ai quali lo Stato non dà sufficiente
risposta attraverso gli insegnanti di sostegno, al sostegno al reddito attraverso varie forme, agli
interventi di sostegno reale alle famiglie.
Mi viene mente l’incremento del costo per i minori: un bambino in istituto costa 60 mila euro
all’anno. Questo incremento, per esempio nel nostro distretto, è stato analizzato come risultato di
una mancata politica di prevenzione e di aiuto che una volta svolgevano i consultori e che oggi non
svolge più nessuno, oppure gli sportelli di ascolto nelle scuole.
La politica che ha fatto il Comune di Milano di scaricare sulla periferia la spinosa questione dei
nomadi comincia a farsi sentire in maniera pesante; questo solo per citare alcuni dei bisogni che ci
troviamo ad affrontare quotidianamente.
Nel 2007 il bilancio comunale deve confrontarsi con una diversa normativa: la Finanziaria ha
proposto una serie di interventi che, in un’ottica di rigore, hanno la responsabilità di risanare il
bilancio dello Stato che oggi è in stato di grave difficoltà per una serie di scelte del precedente
governo e per la congiuntura internazionale sfavorevole che ha complicato e complica ancor più la
situazione; forse la politica di rigore che aveva richiamato Lareno all’inizio sta dando i primi frutti.
La manovra finanziaria del governo Prodi, pur con tutte le difficoltà (non ultima quella della
concertazione con gli enti locali, l’ANCI ne sa qualcosa), si distingue a mio parere per la chiarezza
delle finalità economiche, ecologiche, culturali e infrastrutturali; ricordiamo le incentivazione per gli
impianti di energie rinnovabili, le agevolazioni fiscali per la riqualificazione degli edifici, la
bioedilizia, le rottamazioni, etc.
Ricordo però che il fondo nazionale per le politiche sociali è stato praticamente raddoppiato, e
questo per il nostro ambito ha significato il raddoppio della disponibilità di risorse. Concordo con
Bonalumi quando dice che la legge 328 e i piani di zona hanno permesso di attivare quelle
politiche sociali “sovracomunali” che hanno le gambe per camminare perché ci sono le risorse e
questo per noi ha significato, per esempio, la creazione di un’azienda dei servizi sociali che ha
permesso economie di scala importanti per 7 Comuni, cioè circa 150 mila abitanti. La Finanziaria è
il patto di stabilità interna, è il vincolo di bilancio per eccellenza. Noi siamo in una situazione ibrida
perché essendo in un anno-ponte non sappiamo cosa succederà effettivamente nel frattempo. Noi
abbiamo approvato un bilancio che ha cercato di dare anche alla prossima amministrazione,
qualunque essa sia, la possibilità di lavorare. Però credo che la Finanziaria qualche pensiero per il
prossimo anno lo dia. La nostra amministrazione, che governa dal 2002, ha aperto nuovi servizi,
importanti e costosi, e ciò corrisponde al mantenimento degli impegni assunti con i cittadini.
Adesso arrivo alla risposta alla domanda che mi ha fatto Lareno all’inizio. Noi apparteniamo a quel
gruppo di Comuni virtuosi e non abbiamo trovato - anche perché il nostro Comune è stato
governato da un governo di centrosinistra dal 1985 fino al 2002 - una situazione di bilancio
dissestato. Non abbiamo incrementato o istituito per il 2007 alcuna tassa, tributo o imposta.
Avevamo deliberato nel 2005, perché la Finanziaria lo prevedeva, l’incremento dell’addizionale
IRPEF dallo 0.25 allo 0.5, ma non l’abbiamo attuato e lo abbiamo posticipato al prossimo anno e le
tariffe dei servizi sono aumentate solo dell’aggiornamento ISTAT. Questo perché in questi anni
abbiamo portato avanti una politica di bilancio molto rigorosa, una politica di equità fiscale
applicando l’ISEE e di recupero dell’evasione e dell’elusione e i risultati si sono visti con nostra
grande soddisfazione.
Risposta alla domanda: ma come abbiamo quadrato? Semplicemente abbiamo razionalizzato. Noi
non abbiamo le auto blu, abbiamo una Dedra del 1994 che pensavamo di poter cambiare, ma che
non cambiamo perché non abbiamo i soldi. Abbiamo tagliato su vari fronti e le scelte strutturali
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compiute negli anni passati ci hanno permesso di garantire comunque i servizi. Ha ragione
Bonalumi a sottolineare l’importanza di mantenere la qualità dei servizi. Nel 2002 Garbagnate
spendeva per la funzione 4 e la funzione 10 di bilancio, cioè i servizi educativi e i servizi sociali, 9
milioni di euro. Nel 2007 le stesse funzioni salgono a 16 milioni di euro, per cui vi lascio
immaginare cosa significa in termini generali. Abbiamo rivisto tutta la contabilità in maniera
minuziosa e certamente nel corso dell’anno occorrerà valutare settimanalmente o quindicinalmente
gli equilibri di bilancio per non andare sotto, visto il bilancio stretto. Valuteremo a giugno o a
settembre l’applicazione di una fonte di entrata straordinaria tramite l’applicazione dell’avanzo di
amministrazione, perché questa politica di bilancio ci ha permesso di rivedere una serie di residui
che porteranno ad applicare almeno una parte di questo avanzo.
I soldi dei cittadini ritorneranno ai cittadini, sarebbe stato davvero più semplice applicare l’IRPEF e
spendere meno. È stata una scelta coraggiosa. È stata fortemente attaccata in Consiglio comunale
dalla minoranza dicendoci che abbiamo voluto fare campagna elettorale. Io credo che non sia
così, perché crediamo nel mantenimento dei servizi e della tutela dei redditi più bassi. Spero che
continueremo a mantenere il governo della città per un motivo molto semplice: Garbagnate,
insieme a Rho e a Monza, è un Comune su cui il centrodestra ha posto gli occhi.
Su Garbagnate si giocano tre partite che a livello regionale sono fondamentali. La prima partita è
quella dell’Alfa Romeo, e Lareno e la CGIL ne sanno qualcosa, perché noi abbiamo bloccato quel
tentativo di speculazione edilizia che veniva portato avanti. Non si è più parlato di reindustrializzazione dell’Alfa, ma di costruzione di appartamenti e ville che avrebbe portato a
Garbagnate nell’arco di qualche anno 7mila abitanti, pensate cosa significherebbe per un territorio
come il nostro.
L’altra partita è quella dell’ospedale. L’azienda ospedaliera Salvini nel 2002 era praticamente
ceduta; è stato mandato un direttore generale della Edilnord che di sanità non sapeva niente e che
aveva il compito di dismettere l’ospedale perché in quell’area, all’interno del parco delle Groane, si
sarebbero dovute costruire delle villette. Come amministrazione ci siamo posti l’obiettivo che
questa cosa non si sarebbe dovuta fare e l’ospedale è ancora lì. Mi spiace che l’assessore del
Comune di Milano se ne sia andato perché altrimenti gli avrei mandato un messaggio per il suo
sindaco di risolvere la questione della proprietà dell’area, perché è di proprietà del Comune di
Milano. Per costruire finalmente il nuovo ospedale a Garbagnate ci sono 85 milioni di euro fermi
dal 1998, che non vengono sbloccati perché non viene risolta questa questione, e intanto
l’ospedale sta decadendo.
Terza partita: il parco delle Groane. Permettetemi qualche parola sul parco delle Groane. È stato
commissariato dalla Regione Lombardia da un anno circa perché il Comune di Milano, che
possiede i 400 millesimi delle quote, non firma l’accordo sul programma del parco e sul consiglio di
amministrazione. La mancata approvazione del piano territoriale del parco butta fuori dall’area
protetta 5 milioni di metri quadri di parco metropolitano. Queste sono le 3 questioni grosse su cui ci
troviamo a combattere e che ci vede impegnati in questa campagna elettorale.
Intervento di Cristina Tajani – Ufficio Sindacale della Camera del Lavoro di Milano
Le tasse locali, dal patto di stabilità ai bisogni dei cittadini.
Dopo la domanda sugli obbiettivi della fiscalità locale occorre ragionare sulla base imponibile di cui
la metropoli dispone. Anche in ragione del fatto che negli ultimi decenni in tutto il paese si è
assistito ad una modificazione strutturale della distribuzione del reddito (dal lavoro a profitti e
rendite).
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La distribuzione dei redditi italiani (ma anche quelli dei milanesi come si può osservare dalle
tabelle seguenti) è passata da una rappresentazione a forma di anfora (popolazione concentrata
verso i redditi medi) ad una rappresentazione a forma di clessidra (polarizzazione dei redditi).
Anche parlando di bassi redditi è significativo notare che l’annuale pubblicazione Istat sulla povertà
relativa segnala che a fronte di un dato sostanzialmente invariato sulla percentuale di popolazione
in povertà relativa (intorno all’11%) è cambiata la composizione dei poveri. Scivolano verso i bassi
redditi i lavoratori dipendenti (spesso precari� sempre l’Istat calcola che ceteris paribus un
lavoratore a tempo determinato arriva a guadagnare il 15% in meno del collega “stabile”) contro gli
autonomi ed i giovani contro gli anziani (con evidenti implicazioni di trasmissione
intergenerazionale della povertà). Un modello fiscale da esiti (in termini di redistribuzione ed in
termini di gettito) molto differenti se applicato ad una o all’altra configurazione dei redditi.
Questo è il motivo per cui ci interessa analizzare, in questa sede, la composizione della base
imponibile della città di Milano.
Ma veniamo più specificatamente alla realtà milanese. Il valore aggiunto prodotto nella città di
Milano rappresenta circa il 48% della ricchezza della Lombardia e il 10% di quella nazionale. Negli
ultimi anni la crescita del pil milanese (2% circa) è stata superata dalla crescita di Roma e di altri
centri regionali (i dati del 2004 segnalano che Pavia, Bergamo e Brescia sono cresciute al 5%).
Come segnalato anche nel 1° Rapporto Cgil-Cisl-Uil e Assolombarda “Il lavoro a Milano”, se si
guarda reddito pro-capite la provincia di Milano si conferma come la più opulenta d’Italia (30.000
euro pro capite contro il 20.000 della media nazionale). Ma dietro le medie si nascondo grandi
differenze.
L’analisi della distribuzione del reddito è possibile grazie ai dati messi a disposizione dal Settore
Statistica del Comune e dal Dipartimento di Statistica dell’Università Bicocca (progetto AmeRIcA).
Il riferimento è all’anno d’imposta 2003.
Le tabelle seguenti mostrano la distribuzione del reddito dei cittadini milanesi in relazione ad
alcune variabili significative (genere, età, nazionalità).
In estrema sintesi si osserva che:
� Reddito imponibile medio varia al variare dell’età� fino a 50 anni il reddito ha la tendenza ad
aumentare, poi diminuisce. Questo è tendenzialmente valido sia per gli uomini che per le donne,
ma le donne si attestano su redditi decisamente inferiori. In giovane età la differenza è minima, ma
aumenta in relazione all’anzianità lavorativa. A livello generale le donne si attestano su un
imponibile medio pari a 16.197 euro contro i 31.346 euro degli uomini.
� La distribuzione percentuale della popolazione per fasce di reddito segnala che il 79,5% dei
milanesi si colloca nelle fasce di reddito sotto i 29.000. Il 51,8% (oltre 400.000 dichiaranti) dichiara
meno di 15.000 euro annui e il 27,7% (oltre 200.000) dichiara un reddito compreso tra i 15.000 ed i
29.000.Questo significa che il 51,8% dei dichiaranti dispone appena del 15% del reddito imponibile
totale. Mentre il 4,8% dei percettori di reddito oltre i 70.000 euro dispongono del 32,4% del reddito
imponibile totale.
� Interessante l’andamento del reddito medio per stranieri e italiani. Nelle fasce adolescenziali gli
stranieri hanno un reddito più elevato degli italiani (a causa del precoce inserimento nel mercato
del lavoro), poi la distribuzione si inverte, ma oltre i 65 anni gli stranieri tornano a dichiarare
mediamente di più degli italiani (minore presenza di anziani stranieri provenienti da paesi poveri e
maggiore presenza degli stranieri ricchi). Tra gli stranieri i nord americani sono i più ricchi, seguiti
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dai cittadini dell’area UE, mentre i più poveri sono gli africani (meno di 10.000 euro medi dichiarati)
seguiti dai sud americani.
� Per la maggior parte dei cittadini milanesi (83,6%) la principale fonte di reddito è quella da lavoro
dipendente o assimilabile (pensione). Il 68,6% percepisce solamente un reddito da lavoro
dipendente. Il 6,7% possiede un reddito da lavoro autonomo o da impresa ed il 3,4% vive di
rendita (unica fonte sono redditi patrimoniali).
� In relazione ai carichi familiari risulta che il reddito medio familiare più elevato è associato alla
tipologia “coppia con figli”, mentre il reddito medio più basso è associato alle famiglie
monopersonali (spesso anziani soli e donne). Cosa molto interessante: la tipologia di famiglia
relativamente più numerosa a Milano è quella di donna single capofamiglia, rappresentando il 27%
delle famiglie.
È in relazione al quadro della distribuzione del reddito nella metropoli ed agli obiettivi che si
intendono perseguire attraverso la leva della fiscalità locale che si possono valutare le scelte fiscali
dell’ente pubblico. Milano sceglie:
1. di non applicare l’addizionale Irpef (� in relazione alle comunicazioni arrivate al Ministero
dell’Economia fino a questo momento si registra che il 55% dei Comuni ha deliberato di aumentare
l’addizionale, il 44% la lascia invariata, lo 0,46%, cui appartiene Milano, ne fa a meno). Il valore
medio dell’aliquota è intorno allo 0,43%. Solo l’11% dei comuni ha deliberato soglie di esenzione
dall’addizionale per i redditi più bassi;
2. di mantenere l’ICI tra le più basse d’Italia (prima casa). Infatti l’aliquota media per la prima casa
si attesta sul 5,11 per mille. Milano l’ha abbassata al 4,7 per mille.
Queste scelte dell’amministrazione andrebbero misurate in relazione a due questioni che, dal
quadro della composizione dei redditi, risultano essere centrali:
1. Il problema dei servizi (a fronte della non introduzione dell’addizionale Irpef, che colpisce
maggiormente lavoratori dipendenti nelle fasce più basse, l’erogazione di servizi è
sufficiente a perseguire un obbiettivo di perequazione?)
2. L’incidenza della casa sui redditi � persino la territorial review dell’Osce (2006) ha
segnalato la questione degli affitti tra le maggiori criticità economiche della metropoli
milanese.
Reddito imponibile medio stratificato per classi di età e genere. Anno d’imposta 2003
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Fonte: Milano Produttiva 2006
Distribuzione di frequenza della popolazione per fasce di reddito
Fonte: Milano Produttiva 2006
Reddito imponibile medio per cittadinanza dei residenti milanesi
Fonte: Milano Produttiva 2006
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Reddito imponibile medio familiare per tipologia di famiglia
Fonte: Milano Produttiva 2006
Intervento di Onorio Rosati
Segretario Generale CDLM Milano – Conclusioni
Questo convegno è stato organizzato con tempi ristretti perché lo abbiamo voluto collocare nella
settimana in cui l’amministrazione del Comune di Milano presentava il bilancio.
Sulla stampa odierna l’assessore alle politiche del lavoro del Comune di Milano parla di
concertazione informata; in realtà sul bilancio, a due settimane dalla firma del protocollo, non c’è
stata né informazione né concertazione; infatti è stato presentato il bilancio senza che le
organizzazioni sindacali fossero state preventivamente non solo consultate, ma neanche
informate.
La discussione e i contributi di oggi ssono stati molto utili e colgo qui l’occasione per formulare,
non solo a nome mio, un “in bocca al lupo” ai sindaci di Garbagnate Milanese e di San Donato che
a breve saranno impegnati in una importante competizione di carattere elettorale.
Il confronto odierno è utile perché vogliamo discutere di tassazione locale evitando toni da crociata
e strumentalizzazioni che, troppo spesso, quando si parla di questi argomenti, registriamo nel
dibattito politico nazionale e, soprattutto, nel dibattito politico all’interno del nostro territorio.
Ci sembra utile tentare un primo monitoraggio delle problematiche che l’applicazione della Legge
finanziaria ha determinato nel rapporto con gli Enti locali e con il sistema delle autonomie,
cercando assieme di fissare i problemi aperti: mi sembra che gli interventi dei sindaci siano andati
in questa direzione.
Voglio essere esplicito: a noi non basta che i sindaci ci dicano che non applicheranno l’addizionale
IRPEF o non aumenteranno l’ICI; noi vogliamo anche sapere se, dentro il proprio bilancio una
scelta di questa natura, che sostanzialmente tende a limitare qualsiasi politica di entrate, non abbia
conseguenze negative, ad esempio sulle politiche e sui servizi sociali.
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Noi non siamo un’organizzazione sindacale che si batte contro le tasse ma contro gli sperperi e le
risorse spese male.
Ci siamo anche proposti di formulare proposte politiche Con l’iniziativa di oggi vogliamo chiedere ai
nostri interlocutori istituzionali locali di valorizzare e strutturare ,al meglio, i rapporti e le relazioni tra
istituzioni locali e parti sociali su questo tema, un tema che sta all’interno di un contenitore più
ampio che denominiamo contrattazione territoriale.
Ritengo che l’iniziativa di oggi ci aiuti a prepararne una successiva, dove il tema centrale sarà la
contrattazione territoriale i cui assi fondamentali nel recente passato erano per noi i temi del
welfare e del sociale ma che oggi, necessariamente devono avere una loro articolazione molto più
ricca. La contrattazione territoriale deve investire la politica delle entrate, le politiche di sviluppo sul
territorio, il welfare, perché riteniamo che solo l’unione di questi elementi possa effettivamente
qualificare, dentro un rapporto rinnovato, non solo la qualità degli interventi degli enti locali ma
anche un ruolo di rappresentanza delle organizzazioni sindacali.
Con l’appuntamento di oggi vogliamo aprire una fase nella quale il sindacato sia chiamato,
necessariamente, ad occuparsi di tassazione locale; questo aspetto, peraltro, è contenuto nel
documento unitario di CGIL-CISL-UIL con il quale apriremo il confronto con il governo.
Lo dicevo prima: non siamo un’organizzazione sindacale contraria alla tassazione, ma siamo
un’organizzazione sindacale che fa del tema dell’evasione fiscale uno dei propri obiettivi e uno dei
temi fondamentali dei propri documenti programmatici.
Le risorse che si recuperano attraverso queste politiche antievasive e antielusive devono servire, a
nostro avviso, per introdurre politiche di redistribuzione verso i redditi da lavoro e i redditi da
pensione; su questo punto c’è una discussione aperta con il Governo.
Riteniamo che la lotta contro l’evasione fiscale debba avere due obiettivi: il primo è la
redistribuzione di una parte di queste risorse verso i redditi da lavoro e da pensione, in
considerazione anche della valutazione che faceva Tajani sulla situazione di reddito delle famiglie
milanesi secondo cui, a Milano in questi anni, si è progressivamente prosciugato il cosiddetto ceto
medio con tutte le contraddizioni e i problemi che ne conseguono; il secondo è un deciso
intervento di razionalizzazione della spesa e una politica ancora più incisiva , che produca
maggiori entrate come pre-condizione per poter affrontare una progressiva riduzione del peso
della tassazione centrale e locale.
Affrontare questo tema,come sindacato, significa mettere al centro delle nostre politiche la tutela
del potere di acquisto dei salari e delle pensioni.
Io terrei molto a sottolineare il tema delle pensioni perché, mentre (pur con tutte le contraddizioni in
questi anni) attraverso un sistema di rinnovo dei contratti abbiamo avuto una certa tutela del
potere di acquisto dei salari, abbiamo invece una criticità - per non parlare di emergenza sociale per quanto riguarda la tenuta del potere di acquisto delle pensioni.
L’indicizzazione è ormai un meccanismo largamente insufficiente e uno degli obiettivi che ci
porremo, al tavolo che apriremo con il governo è quello, in tema di previdenza, della rivalutazione
delle pensioni più basse.
Parlare di potere di acquisto, e quindi anche di qualità della vita, significa tenere assieme il tema
della rivalutazione dei salari e delle pensioni con il tema della riduzione delle tasse e delle tariffe,
con quello legato alla qualità di erogazione dei servizi, optando dunque per un modello di welfare
che è sempre più un welfare di carattere locale: una volta si chiamava politica dei redditi.
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Nel momento in cui il sindacato si interessa al sistema di tassazione, anche locale, deve esprimere
un giudizio sulle scelte e le politiche attuate.
Noi diamo un giudizio positivo sui meccanismi di decentramento dei ruoli e delle funzioni in materia
fiscale, sapendo però che dire decentramento significa, nel contempo, tenere assieme questi
fattori: il primo, la dimensione del territorio come dimensione di un maggior coinvolgimento e
partecipazione dei cittadini nelle decisioni degli Enti locali. Io intendo in questo modo la proposta
lanciata da Lareno sulla tassa di scopo. Se la tassa di scopo serve per individuare un obiettivo
condiviso, oltre naturalmente ad avere il pregio di essere trasparente in quanto la si decide
assieme, serve anche a responsabilizzare di più non solo chi è chiamato a pagare, ma anche chi è
chiamato a realizzare l’intervento che la tassa di scopo richiede. Decentrare l’attività fiscale, infatti,
significa una maggiore assunzione di responsabilità non solo da parte degli Enti delle istituzioni
locali, ma anche da parte degli stessi cittadini. Parlare di decentramento fiscale vuol dire parlare di
sedi dove questo sistema di relazioni con i cittadini venga non solo definito e individuato, ma anche
praticato e potenziato. Oggi non sempre ci sono questi elementi di conoscenza, di coinvolgimento,
di partecipazione e credo che parte della riottosità rispetto al tema del fisco e del rapporto tra fisco
e cittadini sia un po’ legata a questo mancato coinvolgimento e alla mancata individuazione di sedi
nelle quali agire questo tipo di intervento.
Il secondo fattore riguarda il fatto che, se concordiamo con l’importanza sempre più strategica
delle politiche territoriali, è evidente che porre sempre più in capo alle istituzioni locali la leva
fiscale significa avvicinare ai cittadini sia le politiche fiscali che quelle di sviluppo e di trasferimento
di servizi, dentro un rapporto molto più stretto e più efficace.
Terzo fattore: decentrare per noi significa ottenere maggiore trasparenza nella finalità e nella
distribuzione delle risorse, che devono produrre una maggiore efficienza della struttura pubblica e
una riqualificazione e un miglioramento del rapporto tra istituzioni locali e cittadini stessi.
Parlare di decentramento fiscale, come stiamo facendo ora, significa anche sbloccare la legge di
coordinamento a livello nazionale sulle finalità della finanza pubblica,nella quale devono essere
necessariamente indicate le articolazioni del sistema tributario tra i diversi livelli. Oggi questa cosa
manca. C’è l’esigenza di una legge complessiva, dopo le riforme del 2001 e del 2005, che eviti
sovrapposizioni e duplicazioni e che determini un riordino complessivo a monte. Il rischio è che ci
sia molta confusione, e lo vediamo con le migliaia di firme che abbiamo raccolto contro i ticket
della Regione Lombardia.
Parlare di decentramento fiscale, quindi, significa anche favorire una legge di coordinamento della
finanza pubblica nellla quale vengano, con chiarezza, indicate le articolazioni del sistema tributario
e i diversi livelli sapendo che, per quanto riguarda la nostra organizzazione sindacale, stiamo
forzando per la piena ed integrale applicazione della riforma dell’articolo 119 della Costituzione,
senza tentennamenti.
Dire questo significa, inanzitutto, assumere una sfida che riguarda il diverso livello di responsabilità
alla quale sono chiamate non solo le istituzioni locali ma anche le parti sociali: più competenze e
attribuzioni sono demandate al territorio e più i soggetti che interagiscono. dal punto di vista anche
della funzione di rappresentanza sul territorio .sono chiamati ad esercitare il loro compito.
Indubbiamente siamo in una fase complicata, di passaggio da una sorta di finanza derivata ad una
finanza locale di carattere autonomo, dentro alla quale mi pare opportuno definire competenze e
funzioni. Discutere di questo tema significa, peraltro, affrontare una delle questioni più sensibili a
cui un sindacato confederale, come la CGIL, non può essere estraneo e cioè il rapporto tra
cittadino e istituzione e tra cittadino e Stato.
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Un altro elemento è il ruolo del sindacato. Penso che tutti questi elementi ci impongano una
accelerazione sul terreno dello sviluppo della contrattazione territoriale, che deve avere come una
delle dimensioni in cui operare quella sociale: una dimensione però che, per la complessità che
acquista il territorio, - anche dal punto di vista delle risposte che deve saper dare non solo ai
cittadini ma anche al sistema produttivo – rischia di non essere più sufficiente.
Anzi, possiamo dire che non è più sufficiente fare solo contrattazione sociale; infatti sappiamo che
dentro la contrattazione territoriale, in virtù delle competenze che stanno acquisendo le istituzioni
locali, noi dobbiamo fare una politica che, da una parte favorisca il risanamento dei conti pubblici e
dall’altra garantisca, anche a livello locale, sviluppo e forme di redistribuzione del reddito,
utilizzando la leva fiscale e le politiche territoriali.
Naturalmente da questa affermazione discende la necessità di analizzare le leggi di bilancio anche
in termini pluriennali e questo significa ritornare all’esigenza di un confronto più sistematico e
serrato con i nostri interlocutori.
Siamo molto interessati a fare un ragionamento pluriennale dentro una politica di programmazione
degli interventi, che non necessariamente si esauriscono nell’ambito della gestione di una legge di
bilancio; per fare questo è necessario fare contrattazione d’anticipo su questi temi e agire su tavoli
di confronto che oggi, a livello confederale, la Camera del lavoro di Milano tiene uniti
prevalentemente attraverso l’operato di due categorie, quella dei pensionati e della funzione
pubblica; solo dentro questa triangolazione ci si potrà debitamente attrezzare per affrontare al
meglio questa sfida.
Affermavo, all’inizio del mio intervento, che il convegno di oggi serve per rimettere al centro le
nostre proposte e le nostre priorità e per dare un primo giudizio, anche se abbastanza sommario,
rispetto al bilancio del Comune di Milano che ,indubbiamente ,non ci soddisfa non solo per la
polemica relativa al taglio dei trasferimenti dal centro alla periferia, ma perché all’interno dello
stesso non troviamo indicate le scelte strategiche che, all’inizio di una legislatura
,un’amministrazione come il Comune di Milano avrebbe dovuto delineare.
La presentazione del bilancio dei Comuni dovrebbe essere – e noi ci auguriamo che lo possa
diventare - un momento di apertura, di coinvolgimento e di confronto con la cittadinanza.
Purtroppo l’’amministrazione del Comune di Milano ha fatto una scelta tutta mediatica: presentava
il bilancio e lanciava la manifestazione del 26 sulla sicurezza.
Noi invece, con l’iniziativa di oggi, tentiamo di rimettere al centro il tema della finanza locale
all’interno di un rapporto rinnovato, e più qualificato, tra istituzioni locali, cittadini e organizzazioni
sindacali.
Il nostro augurio è che queste ultime operino e si esprimano in modo unitario e che si assumano
compiutamente la propria responsabilità di soggetti di rappresentanza e anche di soggetti
promotori di politiche di sviluppo del nostro territorio.
Milano, 15 marzo 2007 Sala del Consiglio presso la Camera di Commercio
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disegno di legge sulla procreazione assistita: societa` e