Domenica
La
di
DOMENICA 16 OTTOBRE 2005
Repubblica
la memoria
Lo spot controvento del Mulino Bianco
EDMONDO BERSELLI e ETTORE LIVINI
i luoghi
Manzoni, un libertino-bigotto a Parigi
FRANCESCO MERLO
Salgado
FOTO SEBASTIÃO SALGADO/AMAZONAS/CONTRASTO
alle origini del mondo
Acqua, aria, fuoco e gli animali
che l’uomo non ha toccato:
ecco Genesi, il viaggio nel tempo
di un grande fotografo
GABRIELE ROMAGNOLI
SEBASTIÃO SALGADO
cultura
come osservare un uomo adulto e vedere in lui il
bambino, la creatura priva di condizionamenti, lontana dalla guida ma anche dal peso dell’educazione,
libera dalla gabbia di ogni (prima o poi) fallimentare
struttura sociale. Un’entità pura, nel modo di esprimersi, nei desideri e, anche, nella ferocia con cui li
manifesta. Le fotografie scattate da Sebastiao Salgado nella prima metà del suo progetto Genesisono l’album del mondo bambino che sopravvive dentro il mondo adulto. Scoprirne la documentata esistenza è al tempo stesso una consolazione e un
timore: ci sono ancora oasi in questo fragoroso deserto, ma
quanto sopravviveranno alla sua avanzata? È perfino spiazzante osservare un cormorano che non sa volare non perché le
sue ali siano state impiastricciate da una macchia di petrolio
ma perché non ne ha bisogno: il mare gli dà talmente tanto cibo che gli basta saper nuotare e non ci sono predatori a infastidirlo rendendo necessaria una rapida fuga in cielo.
(segue nella seconda pagina di copertina)
l mondo è in pericolo. Questo grido d’allarme si sente
così spesso che ormai viene in gran parte ignorato. Si
organizzano regolarmente conferenze internazionali per discutere di effetto serra, risorse idriche, distruzione di foreste e altri aspetti della crisi globale, ma in
pratica questi problemi fondamentali sono affrontati
solo in maniera superficiale.
Il nostro rapporto con la natura è andato perduto. Viviamo
sotto la minaccia costante di un disastro ambientale: inconcepibili arsenali di armi nucleari sono passibili di essere utilizzati in guerra o di finire nelle mani di terroristi, l’agricoltura industrializzata sta decimando gli habitat naturali, i prodotti chimici avvelenano il suolo e le falde acquifere, le foreste tropicali stanno scomparendo.
Solo nelle zone incontaminate la biodiversità è ancora florida. Solo in questo mondo primigenio possiamo ancora capire le origini della nostra specie.
(segue nella quarta pagina di copertina)
Wiesenthal, la lettera-testamento
È
I
CAFERRI, LA ROCCA, STAGLIANÒ e TARQUINI
il racconto
Torna Peter Pan, al femminile
ENRICO FRANCESCHINI e DARIA GALATERIA
l’incontro
Flavio Briatore, lo spaccone timido
DARIO CRESTO-DINA
32 LA DOMENICA DI REPUBBLICA
DOMENICA 16 OTTOBRE 2005
la copertina
Un viaggio nel tempo e nello spazio per andare a scoprire
dove la natura è ancora incontaminata, dove l’uomo non è ancora
arrivato con la sua mano distruttrice. Il viaggio per immagini
di un grande fotografo da un continente all’altro
della Terra per lanciare un messaggio di speranza e di salvezza
contro i pericoli che minacciano il nostro pianeta
Genesi
La violenza bellissima
di un mondo bambino
Un viaggio fotografico
alle origini del mondo.
Un viaggio nella nostra
preistoria per cercare i luoghi
incontaminati, le radici
della natura e della civiltà
umana. Questo è il progetto
“Genesi” che Sebastião Salgado
ha iniziato nel 2003
e che lo vedrà impegnato
per otto anni. Il lavoro
sarà diviso in quattro capitoli:
“La creazione”,
“L’Arca di Noè”, “I primi uomini”
e “Le prime società”.
Le didascalie
di queste pagine
sono scritte da Salgado
GABRIELE ROMAGNOLI
(segue dalla copertina)
el “mondo bambino” di Salgado la violenza è un fiume di lava incandescente che
corre per lo spettacolo, lontano da ogni insediamento di creature viventi. La minacciosa zampa artigliata di un’iguana appartiene in realtà a un animale socievole e disponibile a lasciarsi avvicinare da chiunque. Gli sfondi
dietro queste scene in primo piano sono di una vastità
imprevedibile: quell’oasi non è una pozzanghera, ma un
oceano, ciò che resta intatto nel corpo malato non è un
residuo agglomerato di cellule, ma una volonterosa alleanza di organi vitali. La “genesi”, comunque sia avvenuta, non è morta. La sua natura miracolosa sta, quanto
meno, nella sua capacità di resistere perpetuandosi.
Queste fotografie ci sembrano, anche, testimonianze di
un mondo lontano, non nello spazio, nel tempo: un ieri felice, ma inevitabilmente trascorso e quindi irraggiungibile. L’equivoco nasce nel nostro sguardo: quello documentato da Salgado è un presente, così rimosso più ancora che remoto da riuscirci estraneo e stupefacente. L’età
dell’oro convive con l’età del ferro, ma non ce ne rendia-
N
IN ESCLUSIVA
SU REPUBBLICA E D
La domenica di Repubblica,
per quattro settimane,
e D-La Repubblica
delle donne da sabato 22
ottobre per i numeri
successivi pubblicano
in esclusiva per l’Italia
il progetto Genesi.
La divulgazione dell’opera
di Sebastião Salgado
in Italia, attraverso mostre
e libri, avviene a cura
di Contrasto, suo editore
e agente. Tra i titoli
già usciti, citiamo Un incerto
stato di grazia, La Mano
dell’Uomo, In Cammino
e il volume della collezione
Fotonote a lui dedicato
mo conto, adagiati sull’incudine a temere il martello.
C’è una sensazione di fondo che pervade tutte le immagini, affondata sotto strati di meraviglia, spontaneità
e naturalezza. È un senso incombente di minaccia. La
scelta del bianco e nero è propria dello stile di Salgado,
ma in questo caso contribuisce a generare quell’impressione. Gli oceani sono catini oscuri, i cieli sipari
pronti allo strappo.
Spiegando le ragioni che l’hanno spinto a questo
lungo viaggio Salgado ha iniziato affermando che «il
mondo è in pericolo» e quest’oasi nel deserto riflette
quella convinzione. Le ombre che si allungano appartengono non al futuro (ancora una volta non c’è distanza di tempo, solo di spazio) ma a quel che c’è oltre
i fragili confini, oltre le rocce dove i leoni marini riposano beati, oltre le acque dove una tartaruga gigante
antidiluviana si muove pigra da sempre. Quell’ombra
è proiettata dalla seconda metà del progetto Genesi, in
cui si documenterà l’avvento sulla scena della presenza umana. Quella incontaminata, tradizionale, preconflittuale, assicura l’autore. Ma come in ogni uomo
è rintracciabile il bambino, in ogni bambino, fin dalla
nascita, traluce per un istante nitido e inequivocabile
l’uomo che verrà. E ogni inizio proietta sullo specchio
del tempo la propria fine.
DOMENICA 16 OTTOBRE 2005
LA DOMENICA DI REPUBBLICA 33
FOTO SEBASTIÃO SALGADO/AMAZONAS/CCONTRASTO
LE TESTUGGINI PREISTORICHE
Le testuggini giganti sono imponenti
per dimensione - possono arrivare a un metro
e mezzo di grandezza e pesare 250 chili per longevità - possono vivere più di 150 anni e per la loro solitudine. In effetti, tranne che durante
la stagione dell’accoppiamento, le testuggini
vivono in solitudine per tutta la vita.
IL LEONE MARINO E LA LUCERTOLA
Qui una lucertola della lava è seduta su un leone marino.
Ciò che mi ha maggiormente colpito alle Galapagos è stata
la gioiosa coabitazione tra le diverse specie animali. A volte
si vedono animali di specie diverse condividere lo stesso territorio
in grande armonia a dimostrazione del loro essere complementari.
Alcuni uccelli, per esempio, puliscono le tartarughe eliminando
zecche e altri parassiti e ciò garantisce cibo agli uni e sollievo
agli altri. Un altro esempio: sull’isoletta Daphne Major i fringuelli
bevono sangue dalle sule bianche
34 LA DOMENICA DI REPUBBLICA
la copertina
Genesi
DOMENICA 16 OTTOBRE 2005
I grandiosi leoni marini, le testuggini
ultracentenarie e poi cormorani all’ombra
dei vulcani e iguana a caccia di un raggio
di sole: sono gli animali che abitano
I CORMORANI
CHE NON VOLANO
Cormorani
inabili al volo
a Punta Espinoza.
Isola Fernandina.
Presso queste acque
fresche c’è una vasta
colonia di questi uccelli
davvero speciali.
Delle 29 specie
di cormorani
che esistono al mondo,
questa è l’unica
che ha perso
la capacità di volare
FOTO SEBASTIÃO SALGADO/AMAZONAS/CONTRASTO
lo scenario primitivo delle Galapagos
Dove tutto è ancora
in perfetta armonia
SEBASTIÃO SALGADO
(segue dalla copertina)
IL GIGANTE
DELL’ARCIPELAGO
Leoni marini a Puerto
Egas, James Bay.
Isola Santiago.
Il leone marino
delle Galapagos è uno
degli animali più grandi
dell’arcipelago;
può arrivare a pesare
250 kg ma anche così
è più piccolo dei leoni
marini della California,
di cui anche lui
è originario.
Qui, un gruppo si sta
riposando all’ombra
di bellissime rocce
formate da cenere
vulcanica che si è
ammucchiata
e compattata
lì che intendo cercare i volti incontaminati
della natura e dell’umanità: mostrare la natura senza uomini e donne, e come l’umanità e
la natura siano per lungo tempo riuscite a coesistere in quello che oggi viene definito equilibrio ambientale.
È un progetto che affonda le sue radici nelle lunghe ricerche fotografiche che hanno portato ai libri e alle mostre realizzate in questi anni: Other Americas, Sahel: L’Homme en Détresse, La mano dell’uomo e In cammino. È al tempo stesso il
frutto di un’iniziativa intrapresa insieme a mia moglie, Lélia
Deluiz Wanick, per riforestare 600 ettari di terra in nostro possesso in Brasile con specie originarie della foresta atlantica.
Ho chiamato questo progetto Genesi perché il mio obiettivo è tornare alle origini del pianeta: all’aria, all’acqua e al
fuoco da cui è scaturita la vita, alle specie animali che hanno resistito all’addomesticamento, alle remote tribù dagli
stili di vita “primitivi” e ancora incontaminati, agli esempi
esistenti di forme primigenie di insediamenti e organizzazione umani.
Le fotografie saranno divise in quattro capitoli: “La creazione”, “L’Arca di Noè”, “I primi uomini” e “Le prime società”...
... Penso che questo progetto m’impegnerà per almeno otto anni, ma sono convinto che saranno i più ricchi e i più pieni della mia vita. A 59 anni comincio a comprendere i punti
di forza e di debolezza della razza umana. Con mia moglie ho
anche imparato a conoscere e amare la natura.
I quattro capitoli non saranno fotografati separatamente,
né le regioni geografiche saranno trattate come tali. Come
sempre, scatterò in bianco e nero. In questa occasione mi auguro di trovare le risorse che mi permetteranno di dedicare
tutte le mie energie esclusivamente a questo progetto.
Una volta completate, vorrei che le fotografie fossero
esposte in spazi pubblici nelle grandi città, libere dalle costrizioni di musei e sale mostre. A questa mostra pubblica si
affiancherà un grosso libro – o più libri, magari uno per capitolo – distribuiti da un editore di portata mondiale e venduti
a un prezzo ragionevole. M’immagino inoltre una serie separata di libri per bambini. Forse si riuscirà perfino a inserire questi libri e questi programmi educativi all’interno dei
vari sistemi educativi nazionali.
È
DOMENICA 16 OTTOBRE 2005
LA DOMENICA DI REPUBBLICA 35
IL FOTOGRAFO DEGLI SCONFITTI
Sebastiao Ribeiro Salgado nasce l’8 febbraio 1944 ad Aimorés, nello
stato di Minas Gerais, in Brasile. A 16 anni si trasferisce nella vicina Vitoria,
dove finisce le scuole superiori e comincia gli studi universitari. Nel 1973
si trasferisce a Parigi per intraprendere la carriera di fotografo. Lavorando
prima come freelance e poi per le agenzie fotografiche Sygma, Gamma
e Magnum, Sebastião viaggia molto, occupandosi prima degli indios e
dei contadini dell’America Latina, quindi della carestia in Africa verso la
metà degli anni Ottanta. Queste immagini confluiscono nei suoi primi libri.
Tra il 1986 e il 2001 si dedica principalmente a due progetti. Prima
documenta la fine della manodopera industriale su larga scala nel libro
La mano dell’uomo ( Contrasto, 1994). Quindi documenta l’umanità
in movimento, non solo profughi e rifugiati, ma anche immigranti verso
le immense megalopoli del Terzo mondo, in due libri di grande successo:
In cammino e Ritratti di bambini in cammino (Contrasto, 2000).
LE IGUANE
AL SOLE
Come altri rettili,
l’iguana marina
è una creatura
ectotermica,
così deve regolare
la temperatura
del corpo: appena
il sole sorge,
l’iguana marina
si distende
esponendo l’area
pià ampia possibile
del proprio corpo
ai raggi solari.
Quando raggiunge
la temperatura di
35,5° Celsius
cambia posizione
per evitare il
surriscaldamento.
36 LA DOMENICA DI REPUBBLICA
DOMENICA 16 OTTOBRE 2005
la memoria
Società dell’immagine
Nell’ottobre di trenta anni fa la Barilla lancia
il marchio Mulino Bianco. Sembra il momento
meno adatto: shock petrolifero, inflazione elevata,
terrorismo rampante. Eppure quelle immagini flou
di famiglia felice e di ritorno ai valori contadini riattivano
ricordi e sentimenti nascosti nel Paese. Con successo
Lo spot che vinse controvento
nosciuto la motorizzazione convulsa,
l’Autosole, Carosello, e sullo sfondo
dell’industrializzazione le grandi migrazioni interne, la raffigurazione del
vecchio mulino costituiva non tanto
un’immagine empirica quanto un luogo della memoria. Le prove degli annunci pubblicitari si spingevano a spiegare quel mondo ormai perduto e che il
Mulino Bianco recuperava miracolosamente dalle pieghe del ricordo:
«Quanti di noi ricordano il sapore del
latte appena munto?». Quasi nessuno,
ovviamente: ma l’immagine della
mucca e della ragazza, mentre una gallina becchetta lì attorno, toccavano
strati di sentimento che fino allora erano rimasti inerti.
Slogan che erano non-slogan, lunghissimi, che evocavano il grano, il burro, il latte, il miele. Testi in corpo più
piccolo che descrivevano minuziosamente il piacere di una colazione possibile. E sopra tutto, l’icona del Mulino:
«Quando i Mulini erano bianchi». Negli
spot di Giuseppe Fina, un regista di cinema e televisione, ecco le scene di vita rurale, con i contadini (quasi sempre) veri, i lavori nei campi, un manierismo documentario in cui la natura
era l’acme dell’artificio. Per i pubblicitari, il Mulino Bianco significava «valori forti, prodotti buoni, coinvolgimento
emotivo, una presenza amica», addirittura «un riferimento di comportamenti etici». Per il pubblico era un serial,
una soap opera in cui la narrazione si
sviluppava cambiando via via tonalità.
Quando “il bel tempo andato” non funziona più, viene fuori l’idea una modernità ambientalista, il desiderio di
una vita buona fuori dallo stress quotidiano e immersa nella natura.
EDMONDO BERSELLI
n principio erano solo biscotti.
Ma se si azzecca l’idea, se questa
idea viene lavorata, se il prodotto, cioè il biscotto e derivati, si integra perfettamente con la sua
immagine, e se l’immagine genera un sentimento, e il sentimento diventa uno spot, o perfino un film, e se
tutto questo, compreso il “packaging”,
compreso il “coccio” di terracotta,
compresa la famiglia felice, compreso
il mulino restaurato ad hoc in Toscana,
insomma compreso tutto, diventa un
mito, anzi «un moderno mito collettivo», come dicono i pubblicitari, be’, allora non si tratta più di biscotti, tarallucci, macine, galletti e via sgranocchiando la mattina a colazione: siamo
piuttosto nei pressi dell’«invenzione
della tradizione» di cui ha parlato Eric
Hobsbawm, lo storico del Secolo breve.
Qualcuno ha inventato il kilt e una Scozia archetipica, qualcun altro ha inventato il mondo a parte della natura incontaminata, dove le famiglie erano
buone, la vita era sana, e i mulini erano
bianchi. Per l’appunto.
I
Desideri subliminali
Era il 1975 quando Gianni Maestri avviò la regia culturale e pratica del progetto che si sarebbe realizzato nell’immagine del Mulino Bianco. In quella
metà degli anni Settanta il clima non
era rassicurante: inflazione elevata,
scontro sociale acuto, «anni di piombo» nella percezione di tutti. Eppure, a
ripensarci oggi, erano anche gli anni in
cui un ricognitore appassionato e spesso in controtendenza come Giuseppe
De Rita vedeva una straordinaria creatività sociale: la spinta dell’impresa famigliare, il modellarsi di quel tessuto
che un economista curioso e non dogmatico come Giorgio Fuà (l’autore a
metà degli anni Settanta di un libro seminale, Occupazione e capacità produttive) avrebbe più tardi denominato
«industrializzazione senza fratture»:
cioè l’industria dietro la siepe, il territorio come culla delle competenze, l’ambiente artigiano come fonte di una crescita economica spesso non censita
dalle fonti ufficiali.
Certo, per costruire un mito, ci vuole
il realismo freddo di chi intuisce i desideri anche subliminali della platea dei
consumatori, e su questa struttura percettiva allestisce un repertorio di prodotti: «sei piccoli biscotti», scrisse lo
stesso Maestri, «a cui seguirono sei pani e poi sei merende, sei torte». Una
successione scandita, quasi un andamento ritmico da favola, ma di una favola che misurava di continuo l’effetto
sul pubblico attraverso le indagini “di
profondità”, e addirittura cercava di tarare l’affettività della clientela verso
quei prodotti nuovi iscritti nella stessa
cornice visiva e simbolica, «il muro
giallo che era davanti agli occhi di chi
entrava nel supermercato, che sarebbe
divenuto presto familiare a tutti».
Non è necessaria neanche una sociologia rudimentale per descrivere l’Italia degli anni Settanta: reduce dallo
shock petrolifero che aveva indotto la
soluzione retorica delle domeniche a
piedi, imbrigliata dal blocco dei prezzi
sui generi alimentari di base (gli americani che avevano acquisito la Barilla rimasero traumatizzati da misure antimercato di questo tipo); e poi, schiacciata dall’asprezza micidiale dell’avventura terroristica, permeata da un
conflitto ancora intriso di fattori classisti, ma soprattutto condizionata da alcuni grandi ideologismi che si riassumevano nella concezione che la cadu-
ta tendenziale del saggio di profitto stava avendo la meglio sul capitalismo,
che Marx aveva liquidato Braudel, il
proletariato moderno avrebbe scalzato la borghesia, e che insomma il modello di sviluppo stava giungendo al capolinea, le risorse si stavano esaurendo
e il futuro si profilava buio tenebra.
Ci voleva un’intuizione di eccezionale capacità analitica per comprendere che in quell’Italia lì, in quella società apparentemente disintegrata,
permanevano nella psicologia condivisa sentimenti non riconosciuti né
dalla politica né dall’economia. Cioè
sopravviveva almeno negli strati
profondi della mentalità diffusa una
specie di utopia rivolta all’indietro, che
si sarebbe fatta suggestionare dalle
«buone cose di una volta». In parte “albero degli zoccoli”, ma in parte anche
desiderio implicito di pacificazione e di
serenità: una vita «fresca di Mulino»,
disegnata con le spighe e i fiori, con tonalità da primo Novecento, volutamente ricalcata sulle oleografie.
Una visione regressiva? Evidentemente la pubblicità non ha pregiudizi
culturali, è onnivora esattamente come
i consumatori. Il Mulino Bianco rappresentava infatti il quadretto a colori pastello di un’età incontaminata e di una
In quell’Italia
apparentemente
disintegrata,
sopravvivevano
nella psicologia
di massa emozioni
non riconosciute
né dalla politica
né dall’economia:
una specie di utopia
rivolta all’indietro
natura piacevole, e presentava alcuni
suoi prodotti nelle nuove/vecchie confezioni in sacchetto, memoria tattile dei
buoni prodotti di una volta. Ciò significava che si era creata nella produzione
industriale e nel mercato una nicchia,
che sarebbe diventata uno spaccato sociale, in cui il pubblico intravedeva la genuinità, rispetto al prodotto massificato
delle aziende alimentari, i cui ingredienti erano invece anonimi e manipolati dal processo industriale.
Questo atteggiamento intercettava
allora anche un’altra dimensione del
gusto, un’altra tendenza alimentare: il
«mangia sano, torna alla natura», l’idea
che quando sono caduti tutti i miti l’uomo è davvero ciò che mangia. La fitness
gastronomica incrocia in modo irresistibile la wellness della vita salubre. Il
Mulino Bianco sintetizzava in un’immagine-simbolo il non troppo inconscio desiderio bucolico, o arcadico, degli abitanti delle metropoli nevrotizzate dallo scontro di classe e dalla crisi
dell’industria nazionale. Alludeva al
consumo e non al consumismo, alla
piccola patria della natura, alla valle felice quando «qui era tutta campagna» e
c’erano ancora le stagioni. E soprattutto, quando c’era ancora la memoria.
In effetti, per un paese che aveva co-
Atmosfere rarefatte
Accanto al Mulino Bianco, visto che a
causa di una malattia non fu possibile ricorrere all’arte di Ella Fitzgerald, ci può
essere la ragazza contadina con la chitarra, una boccoluta folksinger rurale,
che canta i versi di Bruno Lauzi: «Hai mai
visto il grano? / È come un mare biondo
/ che si muove / e fino nel profondo ti
commuove…». Oppure lo sfondo delle
musiche di Ennio Morricone, «una vera
e propria melodia, sinuosa e articolata
nel suo arco di otto battute», che accompagna le avventure minimali e benigne della Famiglia del Mulino.
Atmosfere rarefatte, in una “saga”
che agli esordi ha interiorizzato Ermanno Olmi e lo traduce in una versione flou, virata nella maniera, e poi, dopo lo stereotipo del ricordo, conia la
matrice narrativa del ritorno. Forse l’unica cosa vera, reale, oggettiva di questa visione è proprio il Mulino di Chiusdino (Siena), restaurato e dipinto di
bianco, in cui può rifugiarsi la famiglia
che lascia la città e si ritrae nei colori
della memoria, filmata da Giuseppe
Tornatore. A due passi c’è l’abbazia di
San Galgano, ignorata da tutti e fatiscente: i turisti in gita domenicale accorrono a fotografare il Mulino, un reperto ad un tempo vero e falso, esaltato
dalla potenza della televisione, assaporato insieme alla fragranza dei prodotti della Barilla.
Probabilmente ignare di gustare madeleine molto più popolari di quelle
proustiane, le folle che ammirano il
Mulino ignorano anche che stanno
consumando un prodotto insieme reale e immaginario, una specie di corpo o
articolo mistico fabbricato secondo
procedure industriali, con il lavoro di
gruppo, con i test sulla clientela, nel
tentativo, evidentemente riuscito di
suggerire ciò che il consumatore vuole,
crede di volere, crede di credere.
LE TAPPE
I PRIMI SPOT
IL MONDO CONTADINO
IL PICCOLO MUGNAIO
LA RAGAZZA CON LA CHITARRA
LA FAMIGLIA FELICE
Mulino Bianco approda in tv
nel 1976: le prime pubblicità
sono in bianco e nero. Sono
gli anni in cui esce lo storico
spot del bambino a cavallo
Nel gennaio del ’78 vengono
trasmessi i primi spot a colori
e ha inizio la saga del mondo
contadino, attento ai valori
dei sentimenti e delle piccole cose
A partire dal 1982 compaiono
i brevi cortometraggi animati
con le avventure del piccolo mugnaio
bianco che vuole far innamorare
coi suoi dolci la bella Clementina
Nel 1987 arriva un personaggio
più moderno: è la Ragazza
con la chitarra che canta la vita
nei campi, ma si smarrisce un po’
l’atmosfera familiare di sempre
Nel ’90 protagonista degli spot
è la “famiglia felice” che sogna
di vivere in una casa nel verde:
la musica dai toni affettuosi
e sereni è di Ennio Morricone
DOMENICA 16 OTTOBRE 2005
LA DOMENICA DI REPUBBLICA 37
LA LOCATION
A destra, la famiglia
dello spot Mulino Bianco
A sinistra dall’alto,
una stampa ottocentesca
e uno schizzo di Gio
Rossi per la creazione
del marchio. In basso,
il mulino di Chiusdino
prima e dopo il restauro
La famiglia “Mulino Bianco”
Pubblicità modello
studiata all’università
ETTORE LIVINI
ualcuno è cresciuto a Tarallucci. Altri hanno iniziato molte delle loro giornate inzuppando un Galletto in una scodella di latte.
Oppure pucciando nel tè una Macina. In una sfida quotidiana per riuscire a metterla in bocca
una frazione di secondo prima che si sciolga nella tazza. I gusti variano. Ma i biscotti del Mulino
Bianco — il marchio della Barilla che proprio in
queste settimane festeggia i suoi trent’anni d’età
— sono diventati un po’ come le canzoni di Lucio
Battisti: tutti li conoscono (il 96% delle famiglie
italiane, secondo la Nielsen, consuma i biscotti,
il 75% le fette biscottate), senza distinzioni d’età.
Nonni, mamma, papà e figli. Come l’idilliaca famiglia felice del mulino di Chiusdino (tinteggiato di bianco per l’occasione) che cinque anni di
spot tra il ‘90 e il ‘94 — con la regia di Giuseppe
Tornatore e la musica di Ennio Morricone —
hanno trasformato in un’icona del potere della
pubblicità e in un archetipo dell’immaginario
collettivo nazionale.
Così oggi questa «visione straordinaria, frutto
di tanto pathos emotivo» — come ricorda Guido
Barilla, presidente della società — è diventata un
fenomeno sociologico oggetto di studio alle università. E soprattutto una gallina dalle uova d’oro per la famiglia parmigiana. I numeri parlano
da soli: ogni giorno si consumano 25 milioni di biscotti del Mulino Bianco e 11 milioni di fette biscottate. Il business — compresi gli altri 110 prodotti, dai cracker alle merendine — occupa 2.500
persone e vale 900 milioni l’anno, con 300 milioni investiti in ricerca e sviluppo dal 2000. I “cocci” — i regali promozionali distribuiti tra l‘80 e il
‘95 — sono diventati oggetto di culto tra collezionisti, con le brocche che su E-Bay si trattano oggi
sui 50 euro l’una.
Il segreto? Guido Barilla non ha dubbi: il rispetto trentennale dei valori su cui Gianni Maestri, Mario Belli, Francesco Alberoni e Mambelli
& Landò hanno “inventato” il Mulino. «Il primo è
l’assoluta qualità — spiega il presidente — che ci
ha permesso di vincere la sfida con i prodotti non
di marca. Poi la fedeltà ai concetti di salute e famiglia, una frase forte che ci ripeteva spesso nostro padre. Oggi, con la società moderna che continua a cambiare, dobbiamo garantire questo
equilibrio nutrizionale con prodotti che diano
anche una gratificazione». Concetto che in futuro vorrà dire ridurre al minimo o eliminare gli ingredienti non bilanciati e non naturali «come i
grassi idrogenati». Questi sono i pilastri. Attorno
ci lavorano, in un’organizzazione orizzontale e
interdisciplinare, tutte le strutture del gruppo.
Marketing, sviluppo, ricerca e produzione. Affiancati da qualche tempo da un Nutritional advisory board, una sorta di comitato di superconsulenza di quattro luminari nel settore dell’alimentazione e della medicina.
Il lievito del successo del Mulino Bianco, però,
non sono solo freddi processi di flussi di produzione industriale o le riunioni oceaniche di guru dello
pubblicità. Gli eredi di Tarallucci, Galletti e Macine nascono in un micro-laboratorio dove lavorano
80 maestri pasticceri. Una sorta di tempio della prima colazione e della merenda, dove ogni giorno si
impastano farine, si amalgamano cereali e si scioglie cioccolato con la passione e gli strumenti (mattarello compreso) della bottega di un artigiano.
Qualcuna di queste “invenzioni” (qualche decina
all’anno) supera il primo studio di fattibilità industriale. Ma l’esame più difficile, l’ultimo prima di
arrivare sugli scaffali dei negozi, è oggi lo stesso di
trent’anni fa: l’assaggio dei fratelli Barilla. Al secondo piano dello stabilimento di Parma, tra i Picasso, i Guttuso e i Morandi della straordinaria collezione di famiglia, questa degustazione dà l’imprimatur al lancio di nuovi prodotti.
Funziona? Evidentemente sì. Se è vero che il
Mulino inventato a due passi da Parma, a furia di
macinar idee di successo (e malgrado qualche diversificazione all’estero non proprio felicissima)
è riuscito a fare della Barilla una delle poche grandi aziende di casa nostra in grado ancora di competere a livello mondiale.
Q
LA BAMBINA CON L’ORSETTO
Esce, infine, nel 2004 lo spot
con la bambina che, dopo aver
tuffato i Pan di Stelle nel latte,
li offre al suo orsetto. Per musica
la colonna sonora de “Il gladiatore”
38 LA DOMENICA DI REPUBBLICA
FRANCESCO MERLO
P
PARIGI
iero Fassino forse non ci ha pensato, ma anche la sua fede, la conversione-ritrovamento o la conversione-risveglio, è tema manzoniano, come del resto tutti i temi dello Spirito italiano. E, prima ancora che del romanzo, è un tema del Manzoni parigino,
quello che nel giugno 1805 arrivò libertino
nella città più libertina del mondo, e ne ripartì devoto e bigotto nel giugno 1810, passando da Voltaire all’abate Degola. Manzoni incontrò Dio sugli stessi boulevard dove
gli artisti incontravano il piacere sensuale e
dove oggi non si incontra né il cielo né la terra. Chi oggi si ostina a passeggiarvi trova solo quello spaesamento urbano che a Parigi
descrisse per primo Baudelaire.
La casa del Manzoni stava nel tratto più
elegante del boulevard des Italiens, nel piccolo universo degli incontri, dei fiocchi svolazzanti, delle esibizioni dell’equilibrista
madame Saqui su una corda tesa tra due balconi. Oggi quella Parigi è altrove, si sposta
qua e là: Parigi ambulante tra «gli ambulanti
che soffriggono musica» direbbe Paolo Conte. Dunque è persino difficile immaginare la
casa che si affacciava sul mercatino della
frutta, dal quale si alzava una nuvola di mosche e moscerini, e sul Bains Chinois, strana
costruzione a pagoda ritratta nelle stampe
d’epoca, sede di un bagno e di un caffè di
grandissima reputazione, quasi quanto il
caffè Godet, dove anche Manzoni sedeva alla ricerca di una identità non solo letteraria.
Quei “salotti” sul boulevard inauguravano il
modello ideale dei caffè che sono ancora le
vere piazze di Parigi, mondi aperti ma gerarchizzati, raffinati e simbolici, come vorrebbe
ancora essere, dall’altra parte della Senna, il
famoso Flore, nel quale, diceva Italo Calvino,
«servono il più costoso uovo fritto di Parigi».
La morte di Stendhal
Da tempo il boulevard non è più quel campo di battaglia degli scrittori e delle cortigiane dove una sera del 1842 Stendhal, rimpinzato di carne e di vino, cadde a terra morto
stecchito, lo Stendhal “milanese” e italianista che dei Promessi Sposi aveva detto: «Un libro veramente troppo lodato. Senza dubbio
Tommaso
Grossi è migliore
scrittore, o almeno
ha più ingegno».
Manzonianamente, col senno di poi:
«Tommaso Grossi,
chi era costui?».
Manzoni vi abitò
con la moglie Enrichetta e con la madre proprio nell’anno della conversione. In quella
casa nacque sua figlia, per mano di
una levatrice, perché il parto era faccenda di donne.
Persino Kant aveva notato che il
«vero parto» avveniva solo con l’intervento del padre:
la denunzia anagrafica. Manzoni
scelse il nome Giulia, quello di “maman”. Per un altro
conformismo, divenuto anch’esso
tipicamente italiano, Manzoni volle il battesimo cattolico, imponendolo sia a se stesso, ché (ancora) non
credeva, sia alla moglie calvinista. E fu lui a
scegliere la chiesa di san Nicola a Meulan,
dov’era stato celebrato il funerale del compagno della madre, Carlo Imbonati: strana
cerimonia cattolica con il padre (ancora) “libertino”, la nonna che ripensava al suo Carlo, la mamma che avrebbe voluto un altro rito, e il padrino Charles Fauriel a recitare un
Credo al quale non avrebbe mai creduto. La
chiesa è ancora lì, isolata nella campagna,
persino più bizzarra di allora, in una Parigi a
50 chilometri da Parigi.
Chi oggi si mette a passeggiare seguendo
l’itinerario manzoniano non ha guide, e deve andare per accenni... I luoghi manzoniani sono infatti più ideali che reali e non soltanto perché, nella immensa bibliografia,
Nella Parigi
dove Manzoni
incontrò Dio
nessuno ha tracciato, quando ancora si poteva, la mappa completa della Parigi manzoniana che, a sua volta, è un altro mito fondativo di un’Italia che poi si fece mentre Parigi si disfece. La verità è che il Manzoni parigino è solo una vaghezza culturale, un linea dritta di astrazione che va dalla Madeleine alla Bastiglia, lungo la rue Saint
Honoré, oggi linea dello shopping.
Sappiamo che ventenne, balbuziente e
non ancora consapevolmente malato di
nervi, Manzoni passava molto tempo in una
libreria italiana e la madre lo prendeva in giro perché la proprietaria, la signora Fayalle
— diceva — «non è certo un’amante adatta
a mio figlio». La libreria si trovava al 244 di
rue Saint Honoré, un numero civico che non
esiste più. E non c’è più neppure l’appartamento che madre e figlio vi presero in affitto, sentendosi insieme «quasi in paradiso».
Nella rue Saint Honoré è rimasta solo san
Rocco, la chiesa di quel miracolo che è il solo avvenimento sul quale si è molto lavorato
e speculato. Il 2 aprile 1810, durante i festeggiamenti per il matrimonio di Napoleone e
Maria Luisa, spaventato dai fuochi d’artificio, pigiato nella calca dove aveva perso la
moglie, Manzoni sarebbe stato colto dalla
sua prima crisi convulsiva e, nel tentativo di
correre a casa, si sarebbe rifugiato in san Rocco mentre i monaci cantavano «O mio Dio, se
tu esisti, rivelati a me...». Oggi in questa chiesa, che pure ha inaugurato, come nostra
identità, la nevropatia miracolistica, non c’è
che una lapide distratta. Sui gradini riposano
i turisti e, alla fine, esplorando la storia di san
Rocco, risulta più evocativa la celebrazione
del matrimonio del
marchese de Sade.
La verita è che lo
stesso Manzoni
inaugurò il “grattage” della Parigi libertina dalla propria vita. E il grattage del passato è un
altro fondamento
del carattere degli
italiani che poi scoprirono l’antifascismo nel fascismo, il
comunismo nel corporativismo, il liberalismo nell’estremismo del sessantotto... Così alla fine
viene ricordato come luogo tipicamente manzoniano
solo l’ultima casa, in
rue de Seine, dove la
famiglia, ormai numerosa, abitò per
alcuni mesi nel
1818, tredici anni
dopo il primo viaggio a Parigi, quello
da “libertino”. Manzoni, già devotissimo, rimase a letto
malato per quaranta giorni disturbati
dai rumori del mercato, che, bellissimo, è ancora lì. Il quartiere è oggi quello del
post esistenzialismo ma con una presenza
ancora forte e discreta di boutique di liturgia, madonne e santi in vetrina, sartorie di
abiti talari, librerie religiose tra le due grandi chiese, Saint Sulpice, e soprattutto Saint
Severin dove Enrichetta pronunziò l’abiura,
che è un altro paradigma italiano. Oggi Saint
Severin, una delle più antiche e belle chiese
di Francia, è circondata da ristoranti greci,
pessimi già all’aspetto. Di fronte, chiusa da
una porta di legno, c’è ancora la stradina più
stretta del mondo, l’impasse Eliane-Divron,
il cul-de-sac che spinse Voltaire a imporre il
nome impasse a tutti i cul-de-sac di Parigi:
«Chiamo impasse quel che voi chiamate
cul-de-sac. Trovo che una strada non somiglia né a un culo né a un sacco. Vi prego dunque di servirvi della parola impasse che è nobile, sonora, intelligente, necessaria».
Manzoni si divideva tra Saint Severin e
Saint Sulpice, la cui facciata è ancora oggi
sapientemente “grattata”: durante la rivoFOTO CORBIS
Vite letterarie
Nel 1805 il giovane Alessandro arriva nella capitale con la reputazione,
fondata, di libertino. Ne riparte cinque anni dopo cattolico devoto
e bigotto. Abbiamo ricostruito e seguito le tracce della sua vita
francese: dalla casa in boulevard des Italiens alla chiesa di San Nicola
a Meulan. Un salto all’indietro per definire una mappa di quegli anni
di svolta che lo stesso autore dei Promessi Sposi cercò di cancellare
FOTO ROGER VIOLLET
i luoghi
DOMENICA 16 OTTOBRE 2005
luzione fecero sparire la croce, il triangolo, la barba di Dio... Dentro,
anche Manzoni rimase stupito dallo strano gnomo, ora reso famoso dal Codice da Vinci.
Oggi c’è un cartello severo che
mette in guardia dalle «suggestioni pagane di un pessimo romanzo di successo». Ma di sicuro
il bizzarro gnomo astrologico che
sta tra due altari non è un simbolo
cattolico. Anche questo dunque è grattage.
Lo stesso che spinse Manzoni a consegnare
al canonico Tosi le preziose Oeuvres di Voltaire, cento volumi con dedica originale dell’autore. Alla morte del Tosi furono trovati
solo i cartoni. Oggi, dimesso e modesto, al 66
di rue de Seine c’è l’hotel Welcome, due stelle: 96 euro per una doppia, dove forse ha
dormito Manzoni. Settanta la singola. Almeno cinquecento euro costa invece la camera all’Hotel Vendôme, dentro il quale è
inglobato il primo appartamento parigino
di Manzoni. Il permesso di soggiorno è datato 12 luglio 1805, ma è probabile che Alessandro sia arrivato in una sera di giugno e
che dunque abbia fatto in tempo ad abitare nella casa che la madre aveva condiviso
con Carlo Imbonati al numero 3 della piazza ottagonale che è più o meno come allora, se si esclude la torre che, proprio in quei
giorni, gli operai cominciavano a costruire.
Dormì dunque in una stanza col soffitto
ricco di fregi a corona, le tende di percalle,
sentendo gli operai che lavoravano al gabbione e il gracchiare di un pappagallo al
quale un vicino di casa, un mutilato di guerra senza un braccio, cercava inutilmente di
I SUOI POSTI
Alessandro
Manzoni visto
da Tullio Pericoli
A sinistra,
stampe d’epoca
della chiesa
di Saint Sulpice
e del boulevard
des Italiens
DOMENICA 16 OTTOBRE 2005
LA DOMENICA DI REPUBBLICA 39
CHIESE E CAFFÈ
FOTO ROGER VIOLLET
FOTO ROGER VIOLLET
A sinistra, un disegno
del Cafè Godet,
e una foto dell’interno
della chiesa
di Saint Severin,
luoghi frequentati
da Alessandro Manzoni
nel suo soggiorno parigino
Dove sorgeva il caffè
Ranelagh ora c’è
una brasserie
specializzata in birre
forti. E dentro Saint
Sulpice, lo scrittore
si stupì per lo gnomo
oggi reso famoso
dal Codice da Vinci
insegnare la Marsigliese.
Oggi in quella città-cantiere che Napoleone voleva rendere «la più bella e la più libera
del mondo» non è rimasta alcuna traccia
biografica dei libertinaggio di un ragazzo
che pure a Milano aveva avuto l’educazione
sentimentale tipica di un allievo del collegio
religioso, «il sozzo ovile», mettendo in cinta
bimba la cameriera della cugina, e beccandosi pure la comunissima «grave ciprigna»
che allora si curava con impacchi di seme di
lino, dieta di pane, beveraggi di camomilla,
lunghi giorni di letto. A Parigi invece la sua
vita sarebbe stata libertina ma casta, a meno
di non immaginarlo sotto i portici del Palais
Royal, dove oggi si aprono ristoranti e negozi di antiquari tra cui un famoso rivenditore
di pipe, mentre allora c’era il bordello regolamentato, cellula di quel French System
sotto controllo dell’ufficiale medico e sotto
stretta sorveglianza delle tenutarie, che per
circa due secoli si sarebbe imposto come
modello sessuale in tutta Europa.
La diligenza che veniva da Milano passando per Digione lasciò Alessandro in place de la Concorde che era un luogo sinistro,
un grande slargo di terriccio e di erbacce degradante verso la Senna. Per molti anni vi
era rimasta, sia pure inoperosa, la ghigliottina che aveva giustiziato anche il re. I soldati avevano coperto di pietre e calce le pozze di sangue, ma c’era ancora, fortissimo, il
cattivo odore. Anche oggi la Concorde non
riesce a diventare né bella né piazza, forse
perché è aperta da tre lati. Il traffico, intenso
e disordinato, la rende uno dei luoghi urbani più pericolosi del mondo. E, nonostante
lo spazio, vi domina di nuovo il cattivo odore, quello dei gas di scappamento.
Gli imbronciati di Auteuil
Rimane dunque inesplorato il libertinaggio del Manzoni che sarebbe stato solo
“culturale”. E infatti i luoghi della città dove gli parve che più ardesse il libero pensiero furono... le colline. I famosi Idéologues
vi si erano rifugiati, marcando così anche
geograficamente il proprio disilluso distacco dal regime e dalla napoleonica capitale del mondo. Come il Candide di Voltaire avevano concluso che «bisogna coltivare il proprio giardino». Napoleone li chiamava con sarcasmo les boudeurs d’Auteuil, gli imbronciati di Auteuil. Oggi quelle colline sono diventate residenza
privilegiata delle ricche famiglie inglesi e
americane: molti figli, molti cani, molte
jeep, molto canottaggio. Auteuil, nome che
Manzoni avrebbe voluto dare alla villa di
Brusuglio, è addirittura un quartiere dentro Parigi, ha conservato la struttura urbana del villaggio, ed è bello e vivace sul modello di Saint Germain. Ma non c’è più la
casa dove la vedova Helvetius teneva il famoso salotto. Né sappiamo in quali caffè
Manzoni si sedeva; almeno una volta sostò
con la madre nel caffè Ranelagh, che oggi è
una simpatica brasserie, specializzata in
birre ad alta gradazione. Nel menu ce n’è
una di nome “Morte Subito”. Si può berla
alla sua memoria anche se non risulta che
Manzoni sia mai stato un tipo da birra.
È invece un casermone sia pure secentesco, integrato dentro l’ospedale, la famosa
Maisonnette, la residenza di campagna di
Meulan-sur-Seine, dove le vite impastoiate
di Sophie de Condorcet e del suo compagno
Charles Fauriel facevano sentire al giovane
Alessandro il pregio di un legame fuori da
quella “promessa degli sposi” verso cui
avrebbe confessato di sentirsi «da sempre
naturalmente portato». Fauriel era stato l’amante di Madame de Stael, e Sophie, tra gli
altri, era stata l’amante di un ex prete, il padre di Charles Baudelaire. Il paesaggio che vi
si gode è ancora quello di allora, sebbene
meno incantato per le fabbriche e i palazzoni lungo la valle che degrada verso la Senna, dove l’isola è sempre bellissima. In quel
che fu il parco alberato, la cappella sconsacrata è un deposito di attrezzi da giardino. E
nella cameretta dove dormiva Alessandro,
«questa piccola cameretta dove per sempre
si perderà la mia immaginazione», oggi
(forse) dorme una vecchia signora, Madame Sarte, con una bella faccia che pare corrosa da un temporale. Non sa nulla di letteratura, e parla solo dei suoi due figli, sepolti al cimitero di Meulan, volati via come due
foglie di ottobre, come due pagine di quel
catechismo che, pur tra tanta devozione, e
grazie anche alla Parigi libertina, ha insegnato a generazioni di italiani che non bisogna esser codardi e opportunisti come
don Abbondio; che siamo tutti Renzo Tramaglino, tutti impulsivi e masochisti; che
c’è sempre una donna Prassede, pronta a
torturarci per il nostro bene.
40 LA DOMENICA DI REPUBBLICA
DOMENICA 16 OTTOBRE 2005
Prima di morire, l’uomo che ha dedicato la vita alla cattura
dei responsabili dell’Olocausto comprese di avere un’altra missione:
combattere contro il nuovo antisemitismo. Decise così di scrivere
una lettera ai grandi della Terra, chiedendo di prendere posizione di fronte al fenomeno.
Quel testo, finora inedito, è diventato il testamento spirituale del suo autore. E “Repubblica”
ne ha girato le domande a intellettuali, scrittori e religiosi. Ecco le loro risposte
“Il genocidio
e le atrocità
nel mondo
non sono finite
con la caduta
del regime di Hitler.
Non posso restare
in silenzio davanti
all’attuale ondata
di odio nei confronti
degli ebrei”
FRANCESCA CAFERRI
er tutta la vita ha scavato nel
passato, Simon Wiesenthal:
nei documenti, nelle carte,
nei ricordi di chi come lui
aveva attraversato l’inferno
e dalle fiamme era uscito vivo, chissà per quale motivo. Il suo motivo Wiesenthal l’aveva trovato quasi
subito: perpetuare il ricordo, fare giustizia, evitare l’oblio. Ma negli ultimi
anni dopo che per ragioni anagrafiche,
sue e dei suoi obiettivi, aveva smesso di
inseguire i nemici di una vita, il cacciatore di nazisti era stato colto da un’altra
ossessione, quella del futuro: «Nel mio
95simo anno di vita, dopo aver constatato che il genocidio e le atrocità nel
mondo non sono finite con la caduta
del regime nazista, non posso restare in
silenzio di fronte all’attuale ondata di
antisemitismo». Inizia così la lettera
che è diventata il testamento spirituale
di Simon Wiesenthal.
Nella missiva, inviata l’inverno scorso, l’uomo diventato il simbolo della
domanda di giustizia dei sopravvissuti
alla Shoah invita capi di Stato e di governo, parlamentari europei, premi
Nobel, intellettuali e esponenti di tutte
le religioni a un dialogo intorno agli interrogativi che lo hanno assillato nell’ultima parte della sua vita. «Cos’è
l’antisemitismo?». E ancora: «Cosa
pensate andrebbe fatto a proposito?».
Lo scopo, come spiega lo stesso Wiesenthal, era avviare una discussione
pubblica sulla scorta di quella da lui
stesso voluta sul tema della vendetta e
del perdono e raccolta nel libro Il girasole. Dalle risposte sarebbe dovuto nascere un altro libro, dedicato all’antisemitismo e alla convivenza pacifica fra
le diverse religioni e le diverse società:
Wiesenthal lo aveva pensato come
ideale ponte fra passato e futuro, come
il suo lascito alle prossime generazioni.
Quel testo, che i collaboratori avrebbero voluto presentare a Wiesenthal
per il suo 97simo compleanno, nel dicembre prossimo, vedrà ora la luce postumo. «È il nostro modo per rendere
omaggio alla sua memoria», spiega
Shimon Samuels, direttore del braccio
europeo del centro Simon Wiesenthal
e curatore dell’opera.
Nelle prossime settimane Samuels e i
suoi collaboratori raccoglieranno le risposte già arrivate e solleciteranno quelle che ancora mancano: lo scopo è arrivare alle stampe per la fine dell’anno.
«Non ha mai voluto che in sua memoria
fosse eretto un monumento statico —
prosegue Samuels — ha acconsentito a
dare il suo nome al centro perché voleva
che il suo lavoro andasse avanti». «Ho ricevuto molti premi — diceva Wiesenthal
negli ultimi anni —, quelli moriranno
con me. Ma il centro continuerà ad operare e questa sarà la mia eredità».
Un’eredità che oggi vive nel lavoro che
la fondazione sta facendo in posti come
i Balcani e il Ruanda, dove le domande
che Wiesenthal si è fatto per cinquant’anni sul rapporto fra criminali e
vittime, il perdono, la giustizia e la vendetta sono ancora attuali. E che trarrà
nuova linfa dalla pubblicazione del libro, che ha il titolo provvisorio di Strategie per la tolleranza: combattere l’antisemitismoe che sarà edito in collaborazione con l’Unesco e con il contributo del
braccio italiano del Centro Wiesenthal,
l’organizzazione Olokaustos.
Il testo si comporrà di due sezioni:
nella prima saranno raccolte le testimonianze di chi si batte in prima linea
contro l’antisemitismo in Europa e nel
mondo, nella seconda le risposte alla
lettera. In attesa della pubblicazione
del testo Repubblica ha girato le domande di Wiesenthal a scrittori, intellettuali, religiosi e politici. Quelle che
pubblichiamo in queste pagine sono le
loro risposte.
P
L’APPELLO
“Sono convinto che l’antisemitismo, anche se colpisce gli
ebrei, danneggi l’intera società. Inoltre, i metodi per contenere
l’antisemitismo sono sicuramente applicabili a forme di
pregiudizio e discriminazione contro altre vittime”. Così Simon
Wiesenthal ha scritto pochi mesi prima di morire nella letteraappello inviata a personalità di tutto il mondo, invitate a
rispondere a queste due domande: che cosa si intende oggi
per antisemitismo? E che si dovrebbe fare per contrastarlo?
Il filosofo Avishai Margalit
“Per troppe persone
restiamo un’ossessione”
vishai Margalit è uno degli intellettuali più autorevoli di Israele. Filosofo della politica all’Università ebraica di Gerusalemme è l’autore,
con Ian Buruma, di Occidentalismo, in cui confuta l’idea di “scontro di civiltà”.
Citando l’invito contenuto nella “lettera aperta”
di Simon Wiesenthal, lei “cosa intende con antisemitismo”?
«Una volta sentì Isaiah Berlin dire che era “hating
Jews beyond necessity”, “odiare gli ebrei al di là di
ogni comprensione”. Non so se sia sua ma la trovo
utile. I pregiudizi contro altri gruppi sono comuni,
le ossessioni no. E troppe persone sono ancora ossessionate dagli ebrei, pur ammettendo che le politiche di Israele nei confronti dei palestinesi non aiutano».
Alcuni commentatori dicono che oggi i musulmani si trovano nella condizione di doversi scusare
di appartenere alla loro religione per non essere accusati d’altro, un pregiudizio simile a quello sofferto per secoli dagli ebrei. È d’accordo?
«Non c’è dubbio che ci siano virulenti pregiudizi
anti-islamici nel mondo. Tuttavia il confronto non
regge per la semplice ragione che il mondo islamico
consiste di circa un sesto della popolazione mondiale mentre gli ebrei sono sempre stati un piccola minoranza, perciò molto più vulnerabile».
Qual è il lascito più importante di Wiesenthal?
«Il suo è stato un enorme contributo nel forgiare gli
ebrei come una comunità di memoria dopo l’Olocausto e nel far sì che il mondo desse conto in maniera concreta dell’enormità di quell’evento. E sono entrambi risultati epocali. Che peccato che neppure un
ministro di Israele ha trovato il tempo di partecipare
al suo funerale».
(riccardo staglianò)
A
DOMENICA 16 OTTOBRE 2005
LA DOMENICA DI REPUBBLICA 41
IL PERSONAGGIO
Nato nel 1908 nell’odierna Ucraina, morto a Vienna
il 20 settembre di quest’anno, Simon Wiesenthal
vide morire più di ottanta suoi familiari nei campi di
sterminio. Liberato a Mauthausen, ha dedicato la sua vita
a scovare i criminali nazisti che si erano nascosti in tutto
il mondo dopo la fine della guerra e la caduta del regime,
facendone catturare più di mille. Il più famoso fu Adolf
Eichmann, il teorico della “soluzione finale”
Elio Toaff: vigiliamo per evitare che quella tragedia si ripeta
“Giustizia senza vendetta
ecco la nostra missione”
ORAZIO LA ROCCA
’opera di Simon Wiesenthal
deve continuare. Anche dopo la sua scomparsa, è importante che ci sia qualcuno disposto
a raccogliere il testimone per completare la ricerca dei criminali nazisti ancora in libertà. Non per vendetta ma
per un elementare senso di giustizia e
per onorare, così, la memoria dei sei
milioni di vittime innocenti dell’Olocausto». Questo il tributo del maestro
Elio Toaff, rabbino capo emerito di
Roma, a Simon Wiesenthal, l’architetto ebreo che ha dedicato tutta la vita a
scovare i gerarchi nazisti responsabili della Shoa. Wiesenthal — continua
Toaff, 90 anni — oltre ad assicurare alla giustizia centinaia e centinaia di nazisti in seguito all’apertura di 1.100
procedimenti penali, «ha contribuito
a tenere viva la memoria dell’Olocausto, un’opera insostituibile per la quale l’umanità intera gli sarà sempre riconoscente».
Maestro Toaff, lei era quasi coetaneo di Wiesenthal. Vi siete mai incontrati?
«Sì, una volta sola, qualche anno fa.
Fu un incontro casuale, durante una
cerimonia. Era già molto noto per la sua
attività di “cacciatore” di nazisti. Grazie al suo lavoro molti gerarchi erano
stati processati e condannati, come
Adolf Eichmann e Karl Silberbauer, responsabile dell’arresto di Anna Frank.
Ma non parlammo di questo. Ci stringemmo la mano, toccammo argomenti di circostanza, niente di più».
Chi era Simon Wiesenthal?
«Era un uomo animato da un altissimo senso di giustizia e per questo, dopo la fine della Seconda guerra mondiale, si dette subito alla ricerca dei veri responsabili dell’Olocausto: per consegnarli alla giustizia ma anche per evitare il ripetersi di tragedie simili. Non
era mai soddisfatto dei successi raggiunti. Era spinto da una forza interna,
dal desiderio di andare sempre avanti
nella ricerca e nella denuncia. Purtroppo in quest’opera fu quasi subito abbandonato dagli Stati Uniti per motivi
politici legati alla guerra fredda. Ma lui
non si arrese mai».
Una vita dedicata a cacciare nazisti,
dopo essere stato internato in tredici
lager, tra cui Buchenwald e Mauthausen. Alla fine i frutti raccolti lo hanno
ripagato di tanto lavoro?
«Credo di sì. Ha fatto tanto: ha trovato persone, indicato nomi, descritto
circostanze e individuato luoghi dove i
nazisti si nascondevano. Ha fatto una
grande opera di pulizia con puntualità
e prove inappellabili: un lavoro di denuncia e prevenzione che, senza di lui,
non penso si sarebbe potuto fare».
Quindi è grazie anche a uomini come Wiesenthal che il pericolo della follia nazista è stato debellato?
«Wiesenthal ha fatto tanto per evitare un altro Olocausto. Anche se non si
può escludere che quella tragedia possa ripetersi. Basta guardarsi intorno e
vedere che, in tanta parte del mondo,
c’è sempre la follia della guerra, tante
popolazioni vengono massacrate, sottomesse, umiliate. Ma non mi lascerei
intimidire. Il bene alla fine trionferà».
«L
Eredità
Wiesenthal
L’ultima battaglia
del cacciatore di nazisti
Lo storico Joachim Fest
Lo scrittore Tahar Ben Jelloun
“Ma oggi in Germania
è tornata l’armonia”
“Il razzismo va colpito
a partire dalle scuole”
l termine antisemitismo indica una grande
tragedia che pesa sul mondo dalla morte di
Cristo. Da allora si è sviluppato un pregiudizio terribile che nel corso dei secoli ha portato a continue persecuzioni. Questo pregiudizio non è ancora
morto». Così Joachim Fest, massimo studioso mondiale del Terzo Reich e biografo di Hitler, risponde alle domande poste da Simon Wiesenthal.
Perché quel pregiudizio non è mai morto?
«Una volta a Roma un diplomatico italiano mi fece
notare quanti carabinieri fossero posti a protezione
della missione commerciale israeliana. Mi disse, “gli
ebrei tendono a farsi notare ovunque”».
In Germania il tema è particolarmente sentito.
«Eppure in Germania ci fu, prima di Hitler, una
simbiosi tra ebrei e tedeschi. Ebrei e tedeschi si somigliano nei gusti e nelle passioni: il pensiero speculativo, la musica, la filosofia, le scienze, la letteratura.
Forse anche per questo, quando Hitler arrivò al potere, molti di loro commisero l’errore fatale di sottovalutare la minaccia».
Come viene vissuto oggi in Germania il tema dell’antisemitismo?
«Oggi, secondo me, gli ebrei in Germania commettono a volte un errore ben diverso. Quello di confondere a volte posizioni critiche verso il governo israeliano con posizioni antisemite».
E invece come stanno le cose?
«Per quanto possa apparire paradossale dopo Hitler, siamo tornati alla tendenza alla simbiosi. Gli
ebrei sono tornati a sentirsi molto a loro agio in Germania. Berlino è tornata un centro della vita e della
cultura ebraica. È una sconfitta dell’antisemitismo di
cui ci si potrebbe dire felici, anziché tacerne in nome
dell’eterno pessimismo tedesco».
(andrea tarquini)
ahar Ben Jelloun, marocchino ma da tempo residente in Francia, è da anni uno degli intellettuali più impegnati sul fronte del dialogo fra
l’Occidente e il mondo musulmano.
Musulmani contro ebrei. Wiesenthal temeva
questa contrapposizione. Aveva ragione?
«Il mondo arabo-musulmano non ha problemi particolari con il mondo ebraico. C’è un conflitto non religioso bensì politico che oppone due popoli su una sola terra, ma non bisogna confondere l’esasperazione che può
provocare la politica dello Stato di Israele con un rifiuto
dell’entità ebraica. Sono due fatti separati».
Quindi il dialogo fra musulmani ed ebrei è possibile?
«Non è solo possibile ma anche inevitabile, perché
si tratta di due popoli caratterizzati da un immaginario, da tradizioni e da modi di vita molto simili. Non è
un caso che ebrei e musulmani abbiano convissuto
per molti secoli in Andalusia e vi abbiano costruito
una cultura comune».
Wiesenthal vedeva nascere un nuovo antisemitismo. In particolare lo avevano spaventato episodi
avvenuti in Francia, paese dove lei vive. Crede che
avesse ragione?
«È vero che in Europa si è visto apparire quel razzismo particolare che attribuisce agli ebrei tutte le sventure dell’umanità. Talvolta ciò è espressione di una
sorta di solidarietà tribale con le popolazioni che soffrono per il conflitto israelo-palestinese. Ma la trasposizione di un conflitto mediorientale nei sobborghi
parigini è un errore di valutazione. Per evitare queste
derive occorre un lavoro pedagogico quotidiano nelle
scuole: senza educazione, senza una spiegazione calma e giusta, precisa e obbiettiva, il razzismo e l’antisemitismo continueranno a imbrogliare tutti e a scavare un fossato tra i popoli».
(f.c.)
«I
T
Perché così ottimista?
«Perché vedo che, malgrado i tanti
esempi negativi, la coscienza morale
per la pace e la convivenza tra le popolazioni sta maturando. Specialmente
tra i giovani. È da qui che cresce la speranza per il futuro».
Il settimanale della Namibia Plus, in
lingua tedesca, in una inserzione a pagamento definisce Wiesenthal «mostro» e saluta la sua morte con «gioia e
soddisfazione».
«Mi fa orrore. È la prova che occorre
sempre vigilare perché l’odio nazista e
razzista ancora non si è placato del tutto. Ecco perché è importante che l’opera di Wiesenthal non venga dispersa e
che la ricerca di criminali nazisti non
sia archiviata».
Eppure è stato lo stesso Wiesenthal
ad affermare, poco tempo prima di
morire, che considerava chiuso il suo
lavoro perché gli ultimi nazisti ancora
in circolazione non sono più arrestabili, essendo anziani di 80-90 anni.
«Non sono per niente convinto che
l’opera di Wiesenthal sia finita. Il criminale, anche a 90 anni, resta un criminale. È importante che sia scovato e consegnato alla giustizia. Anche per rispetto delle vittime e per dare un esempio
all’opinione pubblica. È bene che si
sappia che a nessuno è consentito uccidere innocenti, opprimere, violentare, sopraffare... e poi farla franca. Anche a decenni di distanza».
Si è a lungo discusso dell’atteggiamento da tenere nei confronti dei nazisti
anziani che si pentono. Lei che ne pensa?
«Su questi pentimenti postumi sono
molto perplesso. Sono tentato a pensare che il nazista che dice di essere pentito non sia sincero e che, più che pensare alle vittime, sia animato da una
forte voglia di scamparla. Forse mi sbaglio, ma la penso così».
E tra il perdono e la giustizia, lei cosa sceglierebbe?
«La giustizia, sempre. Il perdono no.
Non siamo noi che dobbiamo perdonare. C’è solo un Ente Supremo, Dio,
che lo potrà fare. Tra gli uomini, il perdono lo possono dare solo quelli che
sono stati offesi. E nel caso delle vittime dell’Olocausto non credo proprio
che possano farlo. Ai sopravvissuti
spetta solo il compito di assicurare i
responsabili alla giustizia e di vigilare
affinché gli errori del passato non si ripetano più».
Tra i sopravvissuti, a volte, esplode il
desiderio di vendetta.
«È necessario assicurare alla giustizia i nazisti in libertà non per desiderio
di vendetta. La vendetta è un sentimento negativo che acceca, che non fa
ragionare e che aggiunge drammi a
drammi. Con la vendetta non si risolve
nulla perché, spesso, dà luogo ad una
catena di altre vendette».
Erich Priebke, condannato per l’eccidio delle Fosse Ardeatine, è agli arresti domiciliari. Ha 82 anni.
«È giusto che continui a rimanere agli
arresti domiciliari e, ripeto, non per
vendetta ma per spirito di giustizia.
Non mi pare che abbia manifestato
sentimenti di pentimento: durante i
processi è rimasto sempre impassibile,
non ha mai avuto una parola per le vittime innocenti».
42 LA DOMENICA DI REPUBBLICA
il racconto
DOMENICA 16 OTTOBRE 2005
Fiabe immortali
A circa cent’anni dalla sua nascita, è in arrivo il seguito
di una delle favole più famose e fortunate di sempre.
La Walt Disney si prepara a lanciare, con una campagna
mondiale, una seconda puntata che è anche
un rovesciamento con “Campanellino” protagonista
per una prospettiva tutta al femminile. Ecco l’anteprima
PeterPan
Il nuovo
Trilli porta le bambine
nell’isola dei sogni
DARIA GALATERIA
Capodanno del 1897 —
Peter Pan non era ancora
nato —, J. M. Barrie si
trovò accanto, a tavola,
«la più bella creatura mai
vista»; era riservata, e, a
fine cena, fece una cosa straordinaria.
Raccolse dal vassoio i dolci, e se li infilò
nella borsetta da sera. Al vicino allibito
spiegò: «Sono per mio figlio», e seguì
l’agnizione. La signora era la madre di
George, il diavoletto bruno di quattro
anni con cui James Mattew Barrie giocava tutti i pomeriggi nei giardini di
Kensington. Ora che era un famoso
drammaturgo, Barrie aveva preso casa
in Gloucester Road, nel quartiere elegante di Londra, vicino a quei giardini
dove portava a passeggio l’immenso
cane San Bernardo, di nome Porthos,
alto quanto lui — Barrie, a 37 anni, non
superava di molto il metro e cinquanta;
«ah, cosa non avrei detto alle donne se
avessi avuto le gambe lunghe», protestava. Un’altra piccola amica, Pamela
di sei anni, lo descrisse come un uomo
pallidissimo, e gli occhi azzurri sempre
cerchiati, fragile in apparenza, ma che
diventava intrepido quando lottava
con Porthos; parlava delle fate come se
le conoscesse benissimo, e a volte cadeva in lunghi silenzi, «che però non
erano inquietanti, perché vi si esprimeva bene come quando parlava».
A
Insolente e vanesio
Quell’inverno, nacque Peter Pan, crepuscolare, faunesco e crudele. “Il
bambino che non voleva crescere” era
ben diverso dai piccoli eroi di epoca
vittoriana, come Alice, creata buona e
gentile dal reverendo Dodgson —
Lewis Carroll — quando Barrie aveva
cinque anni. Ora l’Inghilterra edoardiana diventava scanzonata, sotto un
sovrano donnaiolo, Edoardo VII, la cui
sagoma in cilindro si stagliava in tutte
le occasioni mondane d’Europa. Così,
Peter Pan è vanesio, egoista, dispettoso, coraggioso, fascinoso, insolente,
mentitore, senza memoria e senza
cuore (tutti i ragazzi per Barrie sono
«allegri, innocenti e senza cuore»).
Ora esce un sequel di Peter Pan, l’incantevole Trilli e l’isola delle fate, della
famosa scrittrice per l’infanzia Gail
Carson Levine (pp. 198, edito dalla Disney Publishing in Italia a fine ottobre;
ma diffuso, in un milione di copie, in 45
paesi e in 35 lingue): un seguito, ma anche un rovesciamento, tanto l’universo è cambiato, dalla Londra del 1906 in
cui uscì Peter Pan nei giardini di Kensington. Trilli è l’adorabile Campanellino, ma la sua storia ora è dedicata alle bambine; e infatti nel romanzo manca la mamma — come succede ad
esempio nella narrativa sentimentale
di genere, per non ingombrare con fastidiose presenze il sogno edipico. Peter Pan si sceglieva delle mamme vica-
rie, bambine che sapessero raccontare
le fiabe e, accessoriamente, gli riattaccassero l’ombra. In Trilli esiste certo
una figura materna, unica per tutta l’Isola-Che-Non-C’è, una Colomba piena di tubante saggezza, che, covando
un Uovo prodigioso, preserva tutti dalla vecchiaia — anche Capitan Uncino
bada a tenersi alla larga dal Coccodrillo che ticchetta, per aver ingoiato una
sveglia: una delle più carnose immagini del tempo divoratore.
Ma mamma Colomba è una madre
esaustiva, lontana e perfetta come una
madonna; le fate sembrano creaturine
liberate, il cui principale tratto consiste
nell’avere un talento. Trilli ripara pentole e padelle, Beck si occupa degli ani-
mali; tutte sono al lavoro: una fata fornaia si consulta con la fata parrucchiera per acconciare una treccia di pane; le
fate ortolane raccolgono ciliegie per la
torta; altre si occupano di produrre e
conservare nelle zucche vuote la polvere magica, che dai tempi di Barrie consente alle minuscole eroine di volare,
emanando un luccichio giallo limone,
ornato d’oro. Meno stordite e capricciose delle antenate inglesi, le fatine
odierne rimangono sbalordite quando,
suscitata come al solito dal primo sorriso di un bambino, sbarca sull’IsolaChe-Non-C’è una fatina senza talento.
È una cosa così imbarazzante, che tutte
cercano di cambiare discorso; ma la
neofata, Prilla, ne soffre molto. Tenta
tutti i mestieri (la parola per la verità
non è mai pronunciata): pascolare bruchi, riparare mestoli, essiccare funghi a
ombrello. Trilli aiuta Prilla a cercare di
scoprire qual è il suo talento, ed «è dai
tempi di Peter Pan che non passava tanto tempo senza lavorare».
La vergogna, per Barrie, era continuare da adulto i giochi infantili; nei
sogni, si scopriva a giocare a palline di
vetro, e si giudicava «con severa riprovazione»; il terrore delle fatine di Trilli
e l’isola della Fate è di sottrarre tempo
al lavoro. Le piccole donne crescono, e
Gail Carson Levine pensa a cospargerle della polvere magica che nel nostro
mondo allontana la morte: l’orgoglio
del lavoro e dell’emancipazione. Un
solo folletto compare nel romanzo, Terence; ha due caratteristiche: è bello,
ed è innamorato di un’altra.
Ai tempi di Peter Pan, le femminucce
erano mamme. Si sa del dramma di J. M.
Barrie, e di sua madre, l’intelligentissima, puritana Margaret di Kirriemuir,
paesino scozzese sopra Dundee; figlia
di uno scalpellino, e moglie di un tessitore, con i telai in casa. Il figlio prediletto, David, all’età di tredici anni morì nel
1867 pattinando sul ghiaccio; la madre
si chiuse al buio nella sua stanza. Un
giorno il nostro Barrie entrò; la madre
chiese: «Sei tu?»; «no», rispose all’oscurità il piccolo, «sono solo io, James»;
aveva capito bene che la madre cercava
il figlio perduto. Svolse da allora una
Lo scandaloso destino di James Barrie
il ragazzo che non voleva crescere
ENRICO FRANCESCHINI
Q
matrimonio infelice, terminato con un divorzio in cui lei sostiene che le nozze non sono state consumate. Fogli scandalistici ironizzano che la favola sul «bambino che non vouando James Matthew Barrie morì, nel 1937, la Gran
leva crescere» (the boy who wouldn’t grow up) è opera del
Bretagna si mise a lutto. Migliaia di persone seguirono il fune«bambino che non poteva averlo ritto» (the boy who
rale per le vie di Londra. L’arcivescovo di Canterbury lesse
wouldn’t go up). La descrizione che ne fanno i giornali del
un’orazione funebre nella cattedrale di St. Paul. Giornali e citempo non potrebbe essere più diversa dal divo hollywoonegiornali trasmisero la notizia ai quattro angoli della terra.
diano Johnny Deep, il Barrie di Finding Neverland del 2004:
Da allora, ogni anno, a Natale, i teatri londinesi mettono in sce«Alto a malapena un metro e mezzo, come un bambino di
na la storia del “bambino che non voleva crescere”, e la fama
dieci anni. Taciturno. Sguardo gelido, paralizzante. Attegdel suo autore continua a crescere, con le innumerevoli edigiamento furtivo di chi ha qualcosa da nascondere».
zioni del libro in tutte le lingue, con le trasposizioni che ne ha
Su cosa sia quel “qualcosa” circolano feroci malignità.
ricavato Hollywood, da un indimenticabile cartone animato
L’amore di Barrie per i cinque figli di Arthur e Sylvia Davies,
alle versioni interpretate da attori, fino a quella dello scorso
la coppia di sposi con cui lo scrittore passa i week-end, inanno, Finding Neverland, biografia di Barrie in forma di fiaba.
sinuandosi nella loro esistenza, accompagnanEppure la vera storia di questo artista straordoli a Kensington Gardens con il suo San Bernardinario, capace di creare con Peter Pan un mito
do, raccontando storie di indiani, cow-boy e rasenza tempo, è rimasta nella penombra, inegazzini magici, componendo mentalmente il
splorata, forse perché troppo amara e scandaloprimo canovaccio di Peter Pan, suscita all’epoca
sa. A fare luce per la prima volta sull’autentico J.
e in seguito infinite supposizioni. Cosa c’è tra
M. Barrie è una nuova biografia pubblicata in Inquello strano uomo e quei bambini? La biografia
ghilterra, Hyde and seek with angels (Nascondidi Lisa Chaney tende ad escludere episodi di peno con gli angeli), della giornalista e saggista Lidofilia, ma sottolinea gli apparenti doppi sensi di
sa Chaney, l’opera «più accurata e completa»
The little white bird (L’uccellino bianco), libro
sull’argomento secondo la stampa nazionale.
che Barrie scrisse prima di Peter Pan, come nella
La sua vita comincia con un’infanzia povera e
scena in cui il Capitano invita David, figlio di amiinfelice in Scozia, dove i genitori, alla morte per
ci, a dormire da lui: «Gli sfilai dolcemente gli stiannegamento del fratello maggiore, prediletto L’AUTORE
vali, lo misi sulle ginocchia e rimossi anche la cadalla madre, lo scacciano di casa mandandolo in James Mattew
micia. Era un’esperienza deliziosa, ma rimasi
collegio. Non meno difficili sono gli inizi come Barrie
meravigliosamente calmo». Un caso, conclude il
giornalista a Londra, dove sbarca senza un solTimes Literary Supplement, degno di essere studiato dagli
do, senza un amico e senza nemmeno riuscire a farsi comavvocati difensori di Michael Jackson, il cantante procesprendere a causa dell’accento scozzese: «Chiedevo che mi
sato per pedofilia: tanto più che il presunto luogo del delitpulissero gli stivali e pensavano che chiedessi un bicchieto di Jackson era il suo ranch chiamato Neverland (La terra
re d’acqua», ricorderà anni dopo. Come cronista, Barrie
che non c’è), in omaggio a Peter Pan.
non sembra una promessa. Scrive un romanzo, ma è coI dolori, per James Matthew Barrie, non finirono lì. Alla
stretto a pubblicarlo a sue spese. Opta per il teatro, ma la
morte precoce dei coniugi Davies, lo scrittore ne adottò i fisua commedia d’esordio è un fiasco, primo fra tanti.
gli, rivelandosi un pessimo padre. I loro rapporti peggioraNon si arrende, insiste, e finalmente sfonda: successi a rirono gradualmente, il figlio da lui più amato morì nella pripetizione, al punto che in certe stagioni i teatri del West End
ma guerra mondiale, un altro annegò, probabilmente suiospitano cinque suoi drammi differenti. Diventa ricchissicida. «Io sono la gioia, io sono la giovinezza», dice Peter Pan:
mo e celebre; poi scrive Peter Pan, ed ha la consacrazione
e noi lettori o spettatori, ascoltandolo, ci commuoviamo al
mondiale. «Io sono un artista, lei è un genio», gli dice il suo
ricordo della giovinezza perduta. Adesso sappiamo anche
contemporaneo Robert Louis Stevenson. Nel frattempo,
perché il suo autore non avrebbe voluto crescere.
purtroppo, arrivano altri guai. Sposa un’attrice: un lungo
LONDRA
DOMENICA 16 OTTOBRE 2005
LA DOMENICA DI REPUBBLICA 43
I SUCCESSI
LA PRIMA
IL LIBRO
IL CARTONE ANIMATO
IL KOLOSSAL
La pièce teatrale
di James Barrie “Peter Pan”
debutta al Duke of York
di Londra il 27 dicembre
1904: si tratta
di una rappresentazione
di beneficenza
Sette anni più tardi,
nel 1911, Barrie
raccoglie in un volume
la storia di Peter Pan.
Che però era già
comparso nel 1903
in un suo racconto
Nel ’53 esce il cartoon
della Disney, di cui è stato
realizzato il sequel
“Ritorno all’isola che non
c’è” nel 2002. Ma il primo
film su Peter Pan è il muto
di Brenon del ’24
Nel 1991 Spielberg firma
“Hook” con Dustin
Hoffman e Julia Roberts.
Nel 2004 esce, invece,
“Neverland”: un film
su Barrie con Johnny Depp
e Kate Winslet
L’autrice è la famosa scrittrice
Gail Carson Levine, i disegni
sono di David Christiana
che è tornato ad ispirarsi
allo stile di fine Ottocento
IL MAGICO MONDO DELLE FATE
“Trilli e l’isola delle Fate” (titolo originale “Fairies Dust and the
Quest for the Egg”), il nuovo romanzo di Gail Carson Levine
pubblicato da Disney Publishing, sarà in libreria a fine ottobre.
Sarà stampato in un milione di copie, tradotto in 32 lingue
e distribuito in 45 paesi: un lancio mondiale di proporzioni
straordinarie nel campo dell’editoria per ragazzi. Il libro
si propone come un seguito di “Peter Pan”, un ritorno
all’Isola-Che-Non-C’è centrato attorno al magico mondo
delle fate e arricchito dalle illustrazioni, ispirate al primo
“Peter Pan”, di David Christiana
sorta di ruolo vicario, accanto alla madre; e fu così che Peter Pan, quando tenta di tornare a casa, trova la finestra
sbarrata. La picchia con le piccole mani, ma vede che la mamma culla un altro piccolo, e diventa scettico terribilmente sulle mamme; non potendo rifiutare la sua, per esserne stato rifiutato, in qualche modo è costretto, senza
confessarselo, a amarsi da solo, e restare bambino, nel caso ne compaia un’altra. «Diventavo un uomo, e mio fratello
David continuava a avere 13 anni»,
scrisse Barrie, e in una delle prime storie di Peter Pan compare il prediletto
George dei giardini di Kensington, ma
col nome di David.
L’ILLUSTRATORE
I disegni
di queste pagine
sono quelli
che David
Christiana,
famoso
illustratore
di libri per ragazzi,
ha creato
per i personaggi
di Gail Carson
Levine
Creature preraffaelite
Peter Pan, quando da commedia diventò, nel 1906, un libro, era illustrato
da Arthur Rackham, elegante pittore
neogotico premiato, quello stesso anno, all’Esposizione Internazionale di
Milano. Splendide fate preraffaellite,
sensuali e sinuose, si avvolgono misteriosamente a atroci alberi rinsecchiti; i colori pastello e l’animazione
del mondo minuscolo del sottobosco
sono invasi da un vento inquieto;
compare una volta, nei suoi giardini di
Kensington, di spalle, il re. Sinuosi
arabeschi liberty percorrono anche
oggi le tavole che decorano Trilli e l’isola delle Fate; David Christiana ha
piegato il suo pennello ironico e ansioso a visioni che citano il volger del
secolo, ma gaie e molto colorate, su
esclusive tonalità pastello. Le sue fate
sono bambine allusive e piccanti, e toni surreali compaiono solo quando la
vicenda diventa davvero rischiosa.
«Volete un’avventura subito, o prendete una tazza di tè?» chiedeva educatamente Peter Pan. Qui l’avventura
parte subito, tra draghi infuocati e dorati falchi predatori; a rischio è l’Uovo
fatato, e l’eterna giovinezza; subito
Peter Pan perde i dentini da latte, e
Spugna, il nostromo di Capitan Uncino, non trova più gli occhiali. Le fate si
coalizzano; anche le più arriviste scoprono la solidarietà; ma riusciranno,
così piccole, a preservare dalla vecchiaia L’Isola-Che-Non-C’è?
Ringrazio il cielo d’aver preservato
la mia infanzia, annotò nel diario Jean
Cocteau, avendo visto in
prima mondiale, come
giurato del Festival di
Cannes del 1953, il film
che Disney aveva tratto
dal romanzo. Il cinema se
ne era già occupato, e
Charlie Chaplin, tornando in patria nel 1921, era
andato per prima cosa da
Barrie, ormai baronetto, a
lamentarsi di non aver
mai potuto interpretare il
suo mitico piccolo eroe.
Trilli e il mondo delle fate
diventerà, nel 2007, un
dvd; forse un film, con la
sua lezione per piccole
adolescenti dal futuro felicemente attivo, e solidale. Con Hook di Stephen Spielberg Peter Pan (Robin Williams) già era diventato un brillante avvocato d’affari. Imparò la lezione anche Barrie, quando il
suo romanzo si avverò. La sua bellissima vicina di tavola del capodanno
1897, Sylvia Llewelyn-Davies, era diventata un’amica cara; Barrie, malvisto da tutte le governanti dei bambini
dorati di Kensington — di alcune bambinaie ostili c’è ancora il ricordo; del
resto, Barrie non ha dato mai il pur minimo seguito ai suoi affetti infantili —
si insinuò nel nido splendido e distratto di Sylvia e di suo marito, l’avvocato
Arthur, e scrisse che Peter Pan era nato sfregando insieme i loro bambini —
che intanto erano diventati cinque —
come i selvaggi cavano, da rametti secchi, il fuoco. Poi però Arthur e Sylvia
erano scomparsi, quasi di concerto, e
Barrie ereditò la cura dei ragazzi,
George, Jack, Peter, Michael e Nico.
Lui li rapì come Peter Pan i fratelli Darling del romanzo del 1911, Wendy e Peter, e li coprì di attenzioni. E loro gli fecero mille dispetti, crescere, morire in
guerra — Barrie tolse dalla commedia,
che ogni bambino inglese ha visto a
Natale, la frase di Peter Pan: «E anche
morire sarà una splendida avventura».
Del resto, diceva, «nulla di quello ci accade dopo i dodici anni ha molta importanza per noi».
DOMENICA 16 OTTOBRE 2005
la lettura
Dietro il sipario
LA DOMENICA DI REPUBBLICA 45
Si possono comporre con le mani o con l’aiuto
di sagome, con una candela o con più moderne
fonti luminose, hanno anticipato il cinema
con le loro immagini in movimento.
Ora un grande illusionista, Arturo Brachetti,
le rilancia con un libro e un nuovo spettacolo
La magia antica delle ombre cinesi
Un libro in uscita e un nuovo spettacolo.
Il grande trasformista Arturo Brachetti torna con un libro
fotografico, Le ombre cinesi (Priuli&Verlucca Editori,
96 pagine, 9,90 euro) dove racconta la magia e la tecnica
di una delle più antiche arti teatrali. E torna anche in scena
con lo spettacolo L’uomo dai 1000 volti che debutterà
il 22 ottobre a Milano al Teatro della Luna per essere poi
replicato a Bologna, Napoli, Trieste e Roma
STEFANO BARTEZZAGHI
i possono comporre con una
bidimensionali: ma la silhouette è tanmano, con due mani o con
to più suggestiva in quanto il profilo
l’aiuto di sagome manovrate
che l’ha originata risulta riconoscibile
come fossero marionette
anche da pochi tratti, mentre l’ombra
(ma dal basso). Si possono
diventa spettacolare quando si separa
realizzare con un’arcaica
dall’oggetto che l’ha proiettata e pare
candela o con più aggiornate, e meno
qualcos’altro. I suoi cultori si nominatremolanti, fonti luminose. Si possono
no con un francesismo non ancora reproiettare alla buona contro un muro, a
gistrato da alcun vocabolario: ombrocasa, o più professionalmente sul retro
mani. Con l’invenzione del cinema,
di uno schermo. Si possono esibire per il
l’ombromania non è scomparsa: nel
divertimento di un bambino che riconuovo capitolo della sua storia è venunoscerà il cane, il cigno, il coniglio, opta in soccorso del cinema stesso (Bergpure per una platea teatrale gremita di
man, Rossellini, Hitchcock: più recenspettatori paganti. Sono le ombre cinetemente si agitano ombre dietro uno
si, una semplice e antichissima forma di
schermo cinematografico in una gag
gioco e di spettacolo che — come accadi Nel corso del tempo di Wim Wende con tutti gli incanti durevoli nella stoders, e il regista cinese Zhang Yimou
ria dell’umanità — ha certamente a che
ha dedicato il suo Vivere! alla storia di
fare con qualche archetipo più profonun ombromane nella Cina maoista), e
do e molto più complesso della forma
per il resto si è trasformata in una forche lo esprime.
ma magica di teatro, in cui la sorpresa
Le chiamiamo “cinesi”, ed è possibile
e la fascinazione dello spettatore sono
che le ombre con cui si gioca, si fa teatro
consapevoli dell’arcaicità del mezzo
e illusionismo siano state davvero inespressivo.
ventate in Cina: ma propriamente sicuPer la copertina di un suo fondamenra è solo la loro origine orientale. Nel Settale libro dedicato alla Scoperta dell’omtecento che diffuse dalla
bra (Mondadori, 2000) il fiFrancia a tutta l’Europa la
losofo Roberto Casati ha
moda dei giochi d’ombra,
impiegato una divertente
“Cina” era il nome d’arte
illustrazione in cui un conidell’Oriente più remoto.
glietto inventa una scomoUn altro Mondo: e trattanda postura per riuscire a
dosi di ombre pare approproiettare sul muro l’ompriato parlare di other side,
bra di una mano umana:
faccia nascosta.
come se Amleto decidesse
Per secoli quella delle
di intraprendere la carriera
ombre è stata una delle
teatrale. Ma l’arguzia della
pochissime forme d’arte
vignetta ci dice che l’ombra
in cui si potevano avere
non è quel che sembra.
immagini fittizie in movi- IL LIBRO DI BRACHETTI
L’ombra è ambra, ha cantamento: e non a caso il pri- Le immagini sono tratte
to Paolo Conte. L’ombra è il
mo, lunghissimo capitolo da “Le ombre cinesi”
teatro del mondo, secondo
della sua storia si chiude (qui sopra la copertina)
il mito platonico della cacon l’invenzione del cineverna, che nega la luminoma. Si era aperto, il capitolo, in quelsità del mondo da noi percepito e la posl’Oriente favoloso e altro, passando da
sibilità di una reale conoscenza terrena
India, da Giava e dalla Turchia, e arridella cose. L’ombra è uno spettacolo
vando in Francia nel momento in cui ci
sacro a Chichén Itzá, nello Yucatan, dosi divertiva con le silhouette, ritratti live dai tempi dei Maya gli equinozi sono
mitati al contorno. In un suo articolo
celebrati da un’ombra che risale la piPrimo Levi (ora in L’altrui mestiere, Eiramide, come il serpente che simbonaudi, 1985) ha fatto l’elogio di questo
leggia la rigenerazione delle stagioni.
nome, silhouette: «Una parola che diL’ombra segna la linea di confine fra le
pinge: è snella e leggera, affusolata...,
età dell’uomo, nella potente metafora
ed ha tutta l’aria di un grazioso diminunarrativa di Joseph Conrad. L’ombra
tivo femminile, prezioso per descrivedei pianeti e dei loro rilievi orografici si
re, ad esempio, il corpo di una bagnanè offerta come quantità misurabile allo
te adolescente che si staglia contro il
sguardo dei primi astronomi, consencielo tuffandosi da un trampolino». Ma
tendo loro di approssimarsi alla conocome Levi ben sapeva non è un dimiscenza delle dimensioni spaziali e dei
nutivo: Étienne de Silhouette era il micicli temporali dei corpi celesti. L’omnistro delle Finanze del Re Sole, che imbra è insomma il lato fantasmatico del
pose tasse pesanti e inefficaci, tanto
visibile, ma anche il suo residuo necesche furono inventati i “pantaloni à la
sario, un dato razionalmente ponderaSilhouette” (privi di tasche), e che il suo
bile. I bambini giocano a pestare le omnome passò poi a indicare provvedibre dei loro compagni; i pittori sanno
menti stupidi, cose malfatte e, con
che solo l’ombra àncora i soggetti delle
un’estrema torsione di significato, riloro opere allo spazio virtuale della raptratti limitati al contorno.
presentazione. Senza ombre non c’è
Ombra e silhouette sono proiezioni
realismo: e non c’è neppure realtà.
S
46 LA DOMENICA DI REPUBBLICA
DOMENICA 16 OTTOBRE 2005
Passato il periodo d’oro degli anni Cinquanta, sfiorite le dive
come Bettie Page e Tempest Storm, l’avanspettacolo
ammiccante a base di pin-up senza veli ha rischiato di finire
nell’oblio. Oggi però gli show sono tornati a fare il tutto esaurito. Grazie
a Dita Von Teese, promessa sposa della rockstar Marilyn Manson.
Ma soprattutto protagonista di esibizioni sempre più trasgressive
Burlesque
GIUSEPPE VIDETTI
ono le tre del pomeriggio, il
locale, semibuio, ha un’aria
sinistra, come uno di quei
single bar di Sunset Boulevard dove James Ellroy ha
ambientato L. A. Confidential. Accecato dal sole, entri e per cinque
minuti non riesci a mettere a fuoco né il
luogo né i volti. Solo che qui siamo a Milano, di sole ce n’è poco e la creatura che
abbiamo davanti assomiglia più a una
malriuscita incarnazione di Belzebù che
a un’invitante stellina in cerca di celebrità sul Viale del Tramonto. Marilyn
Manson, il principe del rock satanico, si
fa intervistare così, scegliendo i luoghi e
l’illuminazione, facendo ben attenzione
che la messa in scena sia perfetta, e soprattutto che nessuno lo fotografi al naturale, pallido, spalle piccole, pochi muscoli e faccia da serial killer di Salt Lake
City. In un angolo, seduta con le gambe
accavallate, un tailleur rigoroso e un
cappellino pervinca alla Boy George,
una magnifica creatura assiste muta e
composta all’intervista. «È la compagna
di Marilyn Manson», bisbiglia qualcuno,
«credo sia una spogliarellista». Troppo
distinta per essere una stripteaseuse di
varietà, troppo originale per vivere all’ombra di una rockstar che si nutre di assenzio, scampoli di grand guignol e teatro espressionista. Qualcuno più informato, spiega meglio: «È la nuova regina
del burlesque, ha un sito internet pazzesco, www.dita.net».
Tutto questo era quattro anni fa,
quando Dita Von Teese era un cult per
nostalgici del burlesque. Marilyn Manson non parlava troppo della sua diafana
compagna, la liquidava con frasi a effetto, spesso sconce, del tipo «a Dita piace
essere sbattuta con violenza». Oggi la
von Teese è più di un sex symbol, più di
una pin-up o di una calendar girl: è riuscita a far rinascere l’interesse per un’arte che era ormai retaggio di certi teatrini
americani fra le due guerre, è richiesta
dai fotografi e dalle case di moda, ha un
book zeppo d’impegni fino al prossimo
febbraio, compresa l’apparizione a una
due giorni di «strip tease revival» organizzata al Corona Theatre di Montreal a
metà gennaio con la complicità dello stilista Thierry Mugler. Il suo sito internet si
è evoluto, non più indirizzo frequentato
da onanisti in cerca di emozioni, ma celebrazione di una star che ha ai suoi piedi i più bei nomi della moda e dello spettacolo, da Marc Jacobs a Elton John e Christian Louboutin, il mago della calzatura. Con un malizioso shop-on-line che fa
S
Latex e paillettes
la nuova vita
dello striptease
La stella del momento si confessa
in un libro pieno di nudità seducenti
ma mai ostentate. E a gennaio
a Montreal revival con le vecchie glorie
la felicità dei feticisti doc («vendo lo stesso tipo di calze che indosso, e qualcuna
anche già usata, con tanto di smagliature», assicura). Ora la Bettie Page del nuovo millennio si racconta (per immagini)
in un libro, Burlesque and the Art of the
Teese (Ed. HarperCollins, 256 pagg.) che
uscirà a novembre. Pieno di nudità promesse e mai ostentate, secondo le regole classiche del burlesque.
Meno volatili delle veline, più intriganti delle spogliarelliste, anche le vecchie
dive del burlesque avevano nomi di fantasia creati per solleticare l’immaginazione maschile: Dee Milo, Zorita, Mimi
Reed, Leri Vale, Val de Val, Patti Starr, Rusty Lane, Lily St. Cyr, Rose la Rose, Mona
Vaughn. «Nel momento stesso in cui un
guanto scendeva sotto il gomito, in sala
incominciava a crescere la tensione»,
racconta Dee Milo, ultrasettantenne.
Il burlesque è una forma di avanspettacolo che ha le sue radici nel vaudeville.
Poi, con l’avvento del cinematografo,
Hollywood cominciò a generare cloni e a
vomitare star di serie B, che dopo una
particina finivano nei teatrini di provincia. Ma il burlesque era un varietà sufficientemente esotico e raffinato per generare un culto con le proprie risorse. Al-
Roma, 21 ottobre - ore 12,00
Centro Studi Americani -Via M. Caetani, 32
SEMINARI POLITICI RESET-DISSENT
Politica e religione
tra Europa e Usa
Al termine del seminario Reset-Dissent,
discussione pubblica con:
Giuliano Amato, Giancarlo Bosetti,
Mitchell Cohen, Michael Walzer
Presentano relazioni:
Klaus Eder, Alessandro Ferrara,
Michael Kazin, Gilles Kepel,
Krzysztof Michalsky, Paolo Pombeni
Evento organizzato in collaborazione con «Dissent» e il Centro Studi
Americani, con il contributo di Acea SpA e il patrocinio del Comune di Roma
LE VEDETTES
Nella foto qui sopra,
la regina
dello striptease
dei giorni nostri Dita
Von Teese. In alto
una diva di inizio ‘900
lo spogliarello si sgusciava di nascosto e
con il senso di colpa, al burlesque con la
benedizione della moglie. Come nell’avanspettacolo, c’erano comici e illusionisti, ma gli uomini ci andavano in cerca
di quelle emozioni che solo le esperte
nell’arte della seduzione sapevano stuzzicare. Fantasie che, dalla fine dell’Ottocento a Dita von Teese, sono diventate
sempre più strane e bizzarre.
Quando nel 1868 sbarcò a New York la
compagnia inglese guidata da una certa
Lydia Thompson, chiamata Imported
British Blondes (bionde inglesi d’importazione), la città gridò allo scandalo. Le
ragazze in realtà indossavano gonne alla caviglia, i top erano a mezze maniche
e le scollature tutt’altro che osée. L’elemento più audace era la foggia delle calzature. Ma la Thompson, morta nel
1908, aveva fatto una scoperta e dal suo
brevetto ricavava contanti: «I maschi sono attratti dai lustrini», diceva. Poi ai lustrini si aggiunsero le piume, alle piume
i tacchi a spillo, ai tacchi a spillo le maliziose cascate di perline attaccate ai capezzoli. E i pesanti taffettà della Thompson vennero rimpiazzati da veli sempre
più leggeri, cosicché i maschi più facoltosi, quelli delle prime file, potessero
sbirciare le forme come se le ragazze
danzassero nude.
A guardare oggi quelle foto, si direbbe
che le più antiche dive del burlesque non
fossero molto diverse da certi ritratti di
Grazia Deledda o Marie Curie. Ma subito
dopo la Seconda Guerra Mondiale, quando Shawna St. Clair cominciò a provocare il pubblico con il suo sguardo ammiccante, la bocca tumida e il visone sapientemente calato sul seno giunonico, il burlesque era già diventato quella forma di
spettacolo di cui troviamo tracce vistose
nei concerti di Madonna,
Christina Aguilera e Gwen
Stefani, in film come Moulin Rouge (il clip di Lady
Marmalade è puro burlesque postmoderno), nella
fantasia erotica creata dal
Cirque du Soleil con Zoomanity e nelle collezioni di
provocatori della moda come Vivienne Westwood e
John Galliano. «A ogni uomo devi far sentire che sei lì
solo per lui. Che ti può trovare dentro il suo cocktail
Martini, in topless accanto
all’oliva», diceva la St. Clair,
che si è ritirata nel ‘72.
Electra, popolarissima
negli anni Cinquanta, raccontava che ogni diva del
burlesque era frutto di uno
spregiudicato patchwork
fatto con “pezzi” di Mae
West e Rita Hayworth. Tutte sapevano
che non sarebbero mai arrivate a quel livello, la loro massima aspirazione era di
diventare un sex symbol come la maestra di tutte le “tigresse”, Bettie Page, che
ancora oggi, a 82 anni, è una esotica leggenda raccontata nel film The Notorious
Bettie Page, appena presentato al Festival di Toronto, in cui la pin-up è inter-
DOMENICA 16 OTTOBRE 2005
LA DOMENICA DI REPUBBLICA 47
Ma tra i padri nobili
c’è persino Shaw
LEONETTA BENTIVOGLIO
pretata da una
grintosa Gretchen Mol.
Alle signorine del burlesque non
è mai piaciuto essere chiamate spogliarelliste, perché lo striptease era solo un
elemento dello spettacolo, il più sospirato, ma mai integrale, almeno in quella
che i cultori chiamano l’epoca d’oro, tra
i Quaranta e i Cinquanta, quando c’erano centinaia di teatri in tutta America
che facevano quattrini con i poster
delle pin-up esposti per adescare
clienti e riempire la sala. Nella
trappola c’è cascato anche Bob
Dylan con l’album Empire Burlesque (1985). Una delle canzoni scartate dalla selezione e poi
pubblicate in un bootleg si chiamava Tempest Storm, titolo che
non ha nulla a che fare con tempeste
e bufere.
Tempest
Storm era
la più po-
LE PERFORMANCE
Nella foto grande, una spogliarellista anni ’50.
A destra, biglietti di ingresso per gli spettacoli.
In alto, una locandina di inizio secolo e alcuni
momenti di un burlesque del dopoguerra
polare spogliarellista degli anni
Cinquanta. «Le più belle tette di
Hollywood», secondo Jerry Lewis e
Dean Martin. Finita anche sulla copertina di un album dei Mano Negra
(Puta’s fever, 1990), Tempest, classe
1928, racconta di aver sedotto sia JFK
che Frank Sinatra. Alla “reunion” di
Montreal, miracolata dal chirurgo
plastico, ci sarà anche lei.
Negli anni Settanta, a New York e San
Francisco, i gay andavano pazzi per il
“male burlesque”, con solo maschi in
scena. Ce n’erano tracce ancora dieci anni dopo, quando gli ozi della comunità
omosessuale di Manhattan, flagellata
dall’Aids, non erano più frizzanti come
un tempo. Un Gaiety Theater era al primo piano di una vecchia palazzina con la
tipica scala antincendio all’esterno, all’angolo tra la 46esima e Broadway. Nel
1987, Piervittorio Tondelli, che era a New
York con Moravia per una serie di conferenze alla Columbia University, alloggiava nel Century Paramount (ora, ridecorato da Stark, si chiama semplicemente Paramount), a venti metri dal teatrino.
L’amico scrittore era curioso, e dopo
molte esitazioni decise di salire l’angusta scaletta. La sera ci raccontò ogni particolare della sua avventura, delle farse
grottesche recitate da boys palestrati,
degli ammiccamenti e dei maldestri tentativi di dare dignità a uno spettacolo di
poche pretese. «Adescano anche i clienti?», domandammo. «Assolutamente
no. Ma alla fine qualche attempato signore si avventura dietro al palco.
Forse a contrattare un incontro
fuori dal teatro».
Oggi i gay vanno pazzi
per le “vere” dive del burlesque. A Los Angeles, il
Mayan Theater (aperto
nel 1927) è tornato agli
antichi splendori grazie
alle male arti della fascinosa Lucha VaVoom, che
promette notti indimenticabili per gli spettacoli di
Halloween, il 26 e 27 ottobre,
infarciti di glamour latino e
wrestling.
«Il burlesque è un’arte che non deve cadere nell’oblio», dice Jane Briggeman, che sull’argomento ha scritto due
libri e ha fondato una Golden Days of
Burlesque Historical Society con lo scopo di rintracciare le sopravvissute, di
raccogliere testimonianze e materiale
fotografico e ricostruire una storia dettagliata di una forma di spettacolo che per
decenni è rimasta tagliata fuori dall’informazione. Dee Milo, ancora in forma, è sempre presente alle periodiche
riunioni dell’associazione, che normalmente si tengono a Reno o a
Las Vegas. E le gambe sono ancora quelle.
Traghettare la tradizione in un’epoca in
cui il burlesque
può permettersi qualche
trasgressione in
più
è
compito
di Dita
von Teese.
Non rivela la
sua età, ma giura di chiamarsi
Heather Sweet (un
nome, un destino).
Una sua foto nuda costa cinquemila euro. La
volete in reggicalze a casa
vostra? Basta mettersi in lista
e mettere mano al libretto degli assegni. La volete in latex? È
sul numero 33 della patinata rivista fetish Marquis. Lei, intanto, il primo dicembre sposa il suo demonio,
Marilyn Manson, a Dublino. E c’è da
giurare che in viaggio di nozze non andranno all’inferno.
orna a fiorire il burlesque, consegnato a rivisitazioni rock e a spettacoli che pescano nelle mitologie del nostro tempo, variopinte o
neo-gotiche, giocherellone o dark. Però il burlesque originale è
un’altra cosa. E mentre in quello di tradizione americana il culto
del nudo femminile fa la parte del leone, il burlesque inglese, suo
progenitore illustre, è pura dimensione parodistica: non tanto il
contenitore dei numeri erotizzanti delle girls, conditi da apparizioni di comedians e virtuosi dell’acrobazia, quanto umorismo critico ben definito nella sua
peculiarità britannica. Insomma il vero burlesque, l’originario, è un teatro che
ride di se stesso. È la beffa scenica che diventa genere di spettacolo. È il gioco
strutturato che nasce per prendere di mira le ampollosità di certi drammaturghi, la macchinosità di certe scenografie e i vizi recitativi degli attori.
Le ascendenze di questo autentico burlesque sono remote: risalgono al teatro
elisabettiano. Shakespeare ne offre vari esempi, come quel Piramo e Tisbe, rappresentato alla fine del Sogno di una notte di mezza estate, che prende in giro i
drammi scanditi in forme poetiche, o ancora come i Nove prodi, proposti all’interno di Pene d’amor perdute come uno sprazzo di teatro nel teatro. Un autore
come Ben Jonson ride del puritanesimo nella Fiera di San Bartolomeo, e gioca sui
temi della pomposità e dell’avarizia nel Volpone.
Il primo spettacolo di burlesque inglese in molti atti fu The Rehearsal, cioè “La
Prova”, del Duca di Buckingham, che a metà Seicento sbeffeggiò lo stile ponderoso e gli espedienti ricercati di vari illustri drammaturghi, ottenendo un clamoroso successo, mentre fu Shakespeare l’oggetto delle burle di Thomas Buffet, che
nello stesso periodo realizzò caricature teatrali del Macbeth e della Tempesta. A
inizio Settecento John Gay, autore di burlesque e molto amico di Swift, scrisse,
pare proprio su suggerimento dell’autore de I viaggi di Gulliver, The Beggar’s Opera, ovvero “L’opera del mendicante”, parodia del melodramma e vivida rappresentazione della malavita londinese, a cui molti anni dopo si sarebbe ispirato
Brecht per la sua Opera da tre soldi. Fu The Beggar’s Opera, nel 1750, a introdurre
per la prima volta il genere del burlesque negli Stati Uniti.
Un altro bersaglio del burlesque fu la pantomima, caratterizzata da un gusto
spiccato per il travestitismo, e stilizzata nella gestualità imprescindibile dall’accompagnamento musicale. Premiato da un’enorme popolarità in Inghilterra, fu
un genere longevo al punto da vantare profeti fino ai giorni nostri, come il regista-mimo-attore-ballerino Lindsay Kemp, prodigo di allestimenti sofisticati e
kitsch. Nel Settecento la pantomima divenne preda delle satire di Henry Fielding,
come The Tragedy of Tragedies, che fu pure musicata col titolo The Opera of Operas. Anche il dramma tedesco si prestava a roventi prese in giro: in The Rovers John
Frere e George Canning parodiarono brillantemente
Schiller e Goethe. Nell’Ottocento il burlesque decadde, pur con qualche eccezione. Lo sono, per esempio,
le comic-operas di Gilbert e Sullivan, autori di miscugli intriganti di commedia e burlesque. Gilbert firmò
anche Patience, una saporita messa alla berlina di
Oscar Wilde e del suo mondo letterario, e Bernard
Shaw, nel 1901, onorò il genere del burlesque con la
sua firma tramite un pezzo di perfido humour, The
Admirable Bashville.
Nel frattempo in America trionfava il vaudeville,
cioè più o meno quello che noi chiamiamo lo spettacolo di varietà, sulla cui nascita, a fine Ottocento, furono determinanti gli honky-tonk, ovvero i saloon
per uomini e prostitute, animati da show fragorosi e
triviali in cui s’alternavano comedians, cantanti, ballerini e chorus-girls. È questo il terreno su cui cresce
il burlesque versione Usa, con le sue ragazze semi-spogliate e tutto il resto, ovvero numeri musicali e giochi licenziosi. Questo contesto rappresentò una vera palestra per plasmare i talenti dei grandi comici americani, costretti a soddisfare un pubblico greve e fin troppo esigente con virtuosistiche improvvisazioni da proporre a ritmo serrato. Non a caso le stelle del burlesque finirono poi per
passare alla radio, al cinema e alla televisione, generi trionfanti nel secolo nuovo, e feroci nel sancire il declino del varietà.
Dai fulgori dell’età dell’oro del music-hall fino agli sviluppi più o meno intellettuali del café-chantant, il varietà equivale a un mondo densissimo di filoni e
forme, che contamina e intreccia i suoi percorsi col burlesque. In Francia può
corrispondere alle spumeggianti esibizioni dei leggendari teatri parigini di fine
Ottocento, come il Moulin Rouge e le Folies-Bergère, che festeggiarono l’irruzione della quadrille réaliste, come dire il can-can, immortalato dai quadri di
Toulouse-Lautrec, essenza e simbolo di un’epoca. Ma alla famiglia eterogenea
del varietà francese appartengono anche i cabaret pensosi degli chansonniers
del secolo successivo, che animarono le scene parigine tra le due guerre, così come la moda delle caves della rive gauche, nella Parigi del secondo dopoguerra,
con le sue cupe sacerdotesse esistenzialiste. Accanto a Juliette Gréco e alle sue
compagne fiorivano ancora i frivoli grands spectacles, generosi di lustrini e carezzati da piume di struzzo, con vedettesfascinose come Renée Jeanmaire, guizzante e sexy con la sua chioma alla maschietta (forse qualcuno la ricorda quando dava scandalo nei nostri sabato sera televisivi in bianco e nero, gambe fasciate di nylon troppo trasparente e maglioni vasti e stiracchiati fino all’inguine). Fu lei, a fine anni Cinquanta, a tentare di ricondurre il varietà d’oltralpe agli
antichi splendori che parevano tramontati con Mistinguett e Joséphine Baker.
Quanto all’Italia, il varietà nacque a fine Ottocento dalla mescolanza dei profumi francesi del café-chantant con quelli dei più antichi spettacoli popolari nostrani, col filone partenopeo in prima linea. Nel clima belle époque appaiono, sulle scene italiane, le stelle estrose della Bella Otero e di Lina Cavalieri, femmes fatales esperte nel dilapidare patrimoni, e ai primi del Novecento i caffè-concerto romani accolgono chansonnier e macchiettisti del livello di Petrolini. Qui, come in
America, si costruiscono in scena mestieri agguerriti, dove le capacità istrioniche
attingono linfa dal rapporto diretto con platee sboccate . Arditi e triviali, i numeri
alternano coreografie e canzoni alle più imprevedibili follie circensi.
Vige tra le vedettes il vezzo degli pseudonimi francesi, da Yvonne de Fleuriel a
Gina de Chanery. E in generale la terminologia attesta l’asservimento al mito di
Parigi: la donna viene chiamata diseuse, gommeuse, étoile, artiste à la voix, chanteuse légère, endiablée. È irresistibile anche il gergo italiano: tra le specialità elencate nelle locandine figurano il romanzista, il fine dicitore, il bambino prodigio,
il posteggiatore napoletano, il ventriloquo e il mangiatore di spade. In scena si offrono danze serpentine, danze con lampadine, riproduttori di uomini celebri, riproduttori di statue classiche, divinazioni del pensiero, casse misteriose, contorsionisti, dialettologhi e quant’altro. Negli anni tra il 1920 e il ‘30 la rivista e l’avanspettacolo, celebrati con passione, tenerezza e anche una vena di disgusto da
Fellini nel film Roma, finiscono per assorbire definitivamente il varietà. Tra le
nuove leve che si affermano in questo campo ci sono maschere assolute e memorabili come Totò, Nino Taranto e Rascel.
T
48 LA DOMENICA DI REPUBBLICA
i sapori
Annata 2005
DOMENICA 16 OTTOBRE 2005
Sono i giorni delle uve nere, che chiudono la stagione
della raccolta: i raggi del sole devono portare a maturazione
e asciugare l’umidità agli acini più refrattari, compensando
le forti piogge delle ultime settimane. Così anche quest’anno
potranno arrivare bottiglie pregiate della bevanda
che più di ogni altra giova alla salute del cuore e delle arterie
Le previsioni
per i magnifici otto
I rossi scelti come “testimonial”
della nuova vendemmia sono i vincitori
delle rispettive tipologie secondo la Guida
dei vini dell’Espresso 2006, curata
da Ernesto Gentili e Fabio Rizzari,
che sarà presentata giovedì a Firenze
CHIANTI
La Casuccia 2001
Castello di Ama
Dopo tanta pioggia,
la speranza è chiudere
la vendemmia sotto
il sole. È stata
una stagione strana:
primavera siccitosa,
estate altalenante,
temperature sotto
la media. Per fortuna,
il freddo ha fermato
i funghi: la maturazione
però è stata faticosa
BAROLO
Monfortino
1998 Conterno
Il Nebbiolo è ancora
in buona parte
da raccogliere, perché
gli acini non erano
perfettamente maturi.
Grazie ai diradamenti
drastici, le piogge
abbondanti
non preoccupano.
La speranza è di ripetere
il 2002, annata
piovosa eppure ottima
BRUNELLO
DI MONTALCINO
2000 Franco Pacenti
Il Sangiovese è stato
tutto raccolto già
a inizio ottobre.
Una settimana intera
di pioggia in chiusura
d’estate non ha certo
aiutato. La mancanza
di sole si fa sentire.
Difficile raggiungere
il livello della scorsa
stagione. Ma l’annata
non è persa
AMARONE
Monte Lodoletta
2000 Dal Forno
Parola d’ordine:
accontentarsi. Fino
a fine settembre,
le previsioni erano
discrete, poi le piogge
continue hanno rovinato
tutto. La possibilità
di fare l’Amarone 2005
è ridotta al lumicino.
Le uve salvate finiranno
nel Valpolicella,
che sarà eccellente
Vino
Il bicchiere che allunga la vita
LICIA GRANELLO
hi beve vino rosso campa cent’anni. La massima non va presa alla lettera. Intanto, perché senza la specifica della quantità si tende a esagerare un po’, con effetti controproducenti sull’allungamento della vita. E
poi perché se si sopravvive a cancro e infarto il traguardo del secolo d’età ormai sembra perfino riduttivo...
Comunque, siamo certi — confortati da medici e ricercatori — che assunto alle famose dosi modiche (due
o tre bicchieri al giorno), l’alcol incrementa la quota di Hdl, il colesterolo buono del sangue, assommando
proprietà antisclerotiche e anti-Alzheimer. Il tutto, senza dimenticare il mitico resveratrolo, principe dei
polifenoli, e i suoi fratelli flavonoidi, antociani, eccetera. Dicono gli scienziati che alle dosi consigliate, insieme al vino
rosso ingeriamo ben 120 milligrammi di questi micropassaporti per l’immortalità (contro gli 8 forniti dai bianchi).
Per questo, siamo così attenti all’andamento della seconda fase della vendemmia, quella che, praticamente chiusa la
raccolta delle uve bianche, interessa le uve nere.
Certo, da una parte all’altra d’Italia, i tempi della raccolta cambiano in funzione di clima e tipologia d’uva. Volendo fare un primo screening serio sul vino che verrà, bisogna tener conto che i produttori di Pinot Nero, Dolcetto e Merlot hanno già gran parte dell’uva (definita precoce) in cantina, seguiti a ruota da chi coltiva Cabernet e Barbera. Gli altri, i vignaioli che hanno scelto di cimentarsi con Nebbiolo, Aglianico, Montepulciano d’Abruzzo, uve cosiddette tardive, passano queste giornate tra i filari, decidendo dove e come raccogliere in base alla maturazione raggiunta e ai
capricci di Giove Pluvio.
Ognuno a suo modo: perché le variabili enologiche sono troppe per poterle misurare addosso a un terreno che superi la grandezza di un fazzoletto (o quasi). Per esempio, il tipo di terra in cui le viti affondano le radici, la sua pendenza, l’altitudine, l’esposizione solare, la ventilazione, la presenza di trattamenti fitosanitari.
Le mani di chi coltiva sono decisive. Mai sentito parlare di diradamenti? Si prendono le forbici e si taglia.
Quando i grappoli sono appena formati, e di nuovo dopo, quando sono a un passo dalla maturazione. Si
dimezza il raccolto, a volte lo si riduce a un terzo: tre quattro grappoli per pianta, a loro volta “modellati” in modo da lasciare attaccata al graspo una manciata di acini pronti ad assorbire il meglio di
sole, aria, acqua, e di farsi scivolare sopra gli eccessi di pioggia e (in parte) la grandine.
Tanto impegno feroce, però, non annulla gli effetti di un andamento stagionale a dir poco bizzarro, che ha risparmiato pochissimi fortunati, disseminati
a macchia di leopardo, tra qualche collina piemontese e le assolate,
benedette vallate siciliane. Quasi ovunque ha piovuto tanto,
troppo. Il sole degli ultimi giorni scalda gli acini più refrattari, asciuga l’umidità, sottrae un poco d’ansia ai
responsabili della vendemmia. Potrebbe non
bastare, se è vero che un super vino come
l’Amarone è ad alto rischio di cancellazione, esattamente come successe due anni fa, quando alcuni “barolisti” si rifiutarono di tramutare l’uva
in vino. A goderne,
sarà il Valpolicella,
che si arricchirà
per l’occasione
di uve abitualmente impiegate nella fattura del Primo
Vino.
Bottiglie da
comprare e bere
in allegria, consci
che mentre ci deliziamo il palato, diamo
una botta di giovinezza a
cuore e arterie. Difficile
trovare una medicina più goduriosa.
C
DOMENICA 16 OTTOBRE 2005
LA DOMENICA DI REPUBBLICA 49
Atripalda (Av)
itinerari
Il vignaiolo
langarolo
Bruno Rocca
ha raccolto
l’eredità familiare
nella produzione
di Barbaresco.
Il suo “Rabajà”,
30.000 bottiglie all’anno,
30 mesi di maturazione
tra barrique e bottiglia,
è considerato
uno dei migliori
vini rossi italiani
Ripa Teatina (Ch)
È stata centro
sannita e colonia
romana. Tra i
prodotti di pregio,
i tartufi e i vini
da uve Fiano,
Greco di Tufo
e Aglianico
Vignale Monferrato (Al)
Comune ricco
di reperti archeologici
e centro monastico.
Abbondano
produzioni di qualità
dalle uve Trebbiano
e Montepulciano
d’Abruzzo
Nelle sue millenarie
campagne,
in competizione
con le altre storiche
eno-colline
delle Langhe, si
coltiva una grande
uva Barbera
DOVE DORMIRE
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30 mln
Gli ettolitri di vino rosso
che si prevede di produrre
560 mln
Le bottiglie di rosso vendute
quest’anno
21
Le Denominazioni di origine
controllata e garantita
rosso
NERO D’AVOLA
Deliella 2003
Principi di Butera
Tutto perfetto: giornate
splendide, asciutte
e ventilate in estate
e autunno, precedute
da piogge fino a tarda
primavera. Risultato:
un’ottima rete fogliare
per proteggere i grappoli.
La maturazione è stata
appena rallentata.
Sarà un’annata
memorabile
Le condizioni meteo restano la variabile fondamentale per una produzione d’eccellenza
Ma la vendemmia perfetta è un sogno impossibile
TAURASI
ENZO VIZZARI
uanto è ricca nella letteratura e nell’arte l’iconografia legata al vino e alla vendemmia, tanto è oggi freddamente tecnologico l’approccio a ogni fase del “ciclo produttivo” del vino. Fa effetto tornare con la mente alle immagini dei Baccanali di Tiziano, al Sileno di Annibale Contucci, all’Età dell’Argento di Pietro da Cortona nel quale Bacco spreme con le mani grappoli d’uva per una lieta e formosa Cerere… e poi leggere Attilio Scienza, massimo
scienziato italiano della vite, che dice: «Entrare in vigneto muniti di un microchip molecolare, per verificare se è il momento di vendemmiare, non è fantascienza ma è il futuro prossimo».
Insomma, poesia niente; ma tanto tanto impegno di cervello, di cultura magari empirica ma consolidata da decenni d’esperienza, di lavoro manuale, e via via di affinamento delle tecnologie e del loro impiego. Perché ogni vitigno, ogni terreno, ogni regione, ogni collina, ogni vigneto e ogni cru hanno peculiarità proprie. Un vitivinicoltore piemontese d’antico pelo e di primaria grandezza ama ripetere che l’imprenditore agricolo «ha un partner, il tempo, a
fianco degli altri tre fattori — capitale, terra, lavoro — che fa come gli pare, che eleva all’ennesima potenza il fattorerischio, poiché dalle condizioni climatiche deriva il risultato finale per quanto concerne sia la quantità sia la qualità».
Che è come dire che, al di là delle previsioni trionfalistiche che a ogni inizio agosto i produttori lanciano, non ha alcun senso fare pronostici sulla qualità della vendemmia sino a quando la vendemmia non è conclusa, essendo oltretutto decisivo per la riuscita ottimale l’andamento climatico addirittura delle ore e non solo dei giorni scelti dal viticoltore.
Chiaro, allora, che la “vendemmia ideale” uguale per tutti non esiste. Dice per esempio Renzo Cotarella, deus ex
machina dei vini di Antinori: «Per una vendemmia eccellente occorrono uve che maturano lentamente e che sfruttino soprattutto settembre con stagioni tendenzialmente secche. Bene qualche pioggia a agosto e ancora meglio a giugno e luglio quando gli acini ingrossano, ma per la maturazione e l’equilibrio delle diverse componenti dell’uva
settembre è decisivo. In Toscana la vendemmia che mi ha dato più soddisfazione è stata quella del ‘97 in generale e il ‘99 e 2001 per il Chianti Classico. Per il Brunello la vendemmia più interessante degli ultimi tempi è stata certo la 2004 perché Montalcino ha goduto di un settembre lunghissimo. Le peggiori negli
ultimi anni la 2002 e ancor più la 1992». Chiosa Jacopo Biondi Santi: «La nostra miglior vendemmia a Montalcino e in Maremma è stata la ‘97 per alcuni vini, per altri, come il Sassoalloro,
il ‘98. La peggiore che io ricordi è quella del 1972, piovve sempre e quasi non raccogliemmo le uve». Dalla Sicilia commenta Alessio Planeta: «La migliore vendemmia è stata quella di quest’anno. Abbiamo finito la raccolta da pochi
giorni, ma una vendemmia così non l’avevamo mai vista. Il 2005 è
stato straordinario con un agosto e un settembre freschi che
hanno permesso una maturazione lunga e equilibrata,
uve decisamente mature e non passite. Le meno interessanti? La ‘98 e la ‘99, troppo calde».
Il “sogno” del saggio piemontese? «Un
inverno ricco di nevicate come l’8990, che assicurano l’umidità
delle falde sino all’estate.
Una primavera anticipata,
con piogge abbondanti e
temperature miti, senza
gelate, e ventilazione
durante la fioritura, come nel ‘97. Un’estate
non caldissima, luminosa, con piogge moderate, come nel ‘96, e
naturalmente, senza
grandine. Un autunno
asciutto e ventilato, con
temperature notturne
basse, come nel 2001».
Qualcuno crede ancora alle
favole e alla poesia della vendemmia?
Q
Radici riserva 1999
Mastroberardino
L’inizio della vendemmia
è previsto per questo
fine settimana. Malgrado
la piovosità superiore
alla norma, il microclima
ventilato ha salvato
l’uva Aglianico
dalle muffe. I tannini
sono morbidi,
buon viatico
per una produzione
più qualitativa del 2004
BARBERA
Ai Suma 2003
Braida
Raccolta completata
con un piccolo
anticipo rispetto ai
tempi classici perché
le piogge di fine agosto
facevano temere
l’insorgenza di muffe.
L’uva risulta fruttata,
profumatissima, con una
componente acida
un poco più elevata.
Buone previsioni
MONTEPULCIANO
D’ABRUZZO
Villa Gemma 2001
Masciarelli
Essendo un’uva “tardiva”
il Montepulciano
ha subito tutte le piogge
di inizio ottobre. Le uve
sono comunque sane,
merito anche della
grande areazione.
Le bucce buone
e il colore intenso fanno
pensare a un 2005
migliore del 2004
50 LA DOMENICA DI REPUBBLICA
DOMENICA 16 OTTOBRE 2005
le tendenze
Da Pechino non arrivano soltanto falsi e prodotti
di qualità infima ma anche idee, tecniche e oggetti
ispirati alle tradizioni del più famoso impero asiatico.
E così mobili e abiti, gioielli e lampade conquistano
ancora una volta i mercati europei, rinnovando
Stile orientale
il mito secolare della Via della Seta
Ming
Il fascino trendy
AURELIO MAGISTÀ
CINESERIA ALLA FRANCESE
“Il bacio del dragone”: anelli a nappine
in oro bianco e giallo di Cartier
FIOR DI PELLE
Tra Cina e Rococò, la zeppa
aperta e decolleté
con motivi floreali di Miu Miu
n fantasma si aggira per l’Europa: è quello di un dragone. Per di
più a due teste. Il dragone cinese che popola gli incubi dell’Occidente, infatti, non ci offre solo la testa che conosciamo meglio e
che temiamo, quella delle merci a basso costo, delle imitazioni e
dei falsi, della manodopera selvaggia con cui è impossibile competere, ma una seconda identità, più antica e raffinata. La storia
dei rapporti tra Occidente e Cina, infatti, assomiglia proprio alle spire di un dragone: insinuante nell’arte, nella cultura, nella moda, ma anche capace di scattare in avanti e mordere con improvvise, febbrili passioni.
Una storia raccontata, per esempio, da Guido Magnoni in La moda cinese e le cineserie in Europa nei secoli XVII e XVIII, dove si sottolinea che l’interesse per la civiltà cinese e per i suoi oggetti in Italia è, come in Francia o in Germania, fenomeno che riguarda essenzialmente le corti e l’alta aristocrazia, e quindi elitario. In particolare Venezia, potenza marinara e commerciale, sviluppa per esempio un proprio
modo di laccare i mobili alla cinese, usando colori diversi dal rosso
e dal nero caratteristici del modello originario e dilaganti in tutta Europa. In altre zone del suo territorio
si diffondono decorazioni floreali
delle case, che contaminano il rococò con la cineseria. Simbolo di
questa passione colta e raffinata che
periodicamente ha sedotto e continua a sedurre l’Occidente è il suo canale di trasmissione: la via della Seta,
U
Spesso l’influenza del dragone
si vede anche nelle nostre
produzioni artigianali
e conferma che i due mondi
sono sempre stati in contatto
dell’antica Cina
un percorso carovaniero di oltre 7 mila chilometri che, passando per Palmira e Samarcanda, arriva in Europa. E non è un caso che proprio a Treviso, antica marca
veneziana e ideale capolinea ovest di quel percorso, si inauguri il 22 ottobre La nascita del Celeste impero, la prima di quattro grandi mostre (vedi scheda in alto) dedicate alla via della Seta con molti capolavori esibiti per la prima volta.
In realtà, gli indizi di questa seconda identità cinese, fondata su una cultura antichissima e fatta di eccelse eleganze, di materiali da noi poco usati e sconosciuti, talvolta di know-how di cui ci siamo appropriati (ulteriore prova che
il sapere finisce quasi sempre per rispettare una sua contabilità del dare e dell’avere) è tessuto anche il nostro presente. Stilemi, oggetti, forme che appaiono talvolta nella loro manifestazione più tipica e originale, in altre occasioni
rielaborate dalle multiformi culture locali, in altre ancora riesplorate secondo
un’eleganza rarefatta e cosmopolita. Un’ennesima riscoperta che, per gioco,
possiamo chiamare neoMing, dal nome della dinastia cinese, durata dal XIV
al XVII secolo, che più di tutte ha reso celebre la Cina e conquistato
l’Occidente. Un termine dal significato esteso, una
bandiera sotto cui si raccolgono
disinvoltamente mobili e
gioielli, packaging e vestiti,
scarpe e lampade e che può
perfino servire, con il frivolo alibi della tendenza e dello stile, ad aiutare la conciliazione di due mondi che,
malgrado le tante collisioni,
non possono fare a meno di
cercarsi, con la misteriosa
ciclicità di un’attrazione, si
spera, non fatale.
CAMMINANDO SUI PETALI
IL PARAVENTO
DI MADEMOISELLE
In collaborazione fra Puma
e Shangai Tang, le scarpe
si chiamano Peony Trainers,
peonie che allenano.
In edizione limitata
I paraventi cinesi
molto amati da Coco
Chanel, danno il nome
(coromandel) alla moderna
trousse laccata della casa
ISPIRAZIONE
ILLUMINANTE
In bambù e tessuto,
l’abat jour quadrata
è importata
da Oltrefrontiera
ORIENTE AL QUADRATO
La borsa per lui, un azzardo
Vuitton, accorda l’Est europeo
anni Venti con l’Estremo Oriente
DOMENICA 16 OTTOBRE 2005
LA DOMENICA DI REPUBBLICA 51
LA MOSTRA
Si apre sabato prossimo alla Casa dei Carraresi
di Treviso “La nascita del Celeste Impero”,
prima di un ciclo di quattro mostre dedicate
a “La via della Seta e la civiltà cinese”.
Le altre tre si terranno ogni due anni, dal 2007 al 2011.
La prima raccoglie oltre 200 reperti provenienti
da più di 60 musei e caveaux blindati del mondo.
Fino al 30 aprile 2006. Info tel. 0422-5936000
Così la famiglia reale aprì un’epoca d’oro
La dinastia della Luce
che inventò una civiltà
RENATA PISU
o, questa volta il trend non è quello di un generico China Chic, come se un tre o quattromila anni si potessero
riassumere e distillarne il succo, l’essenza di tradizioni,
costumi, innovazioni, dall’arte popolare a quella dotta, dal
nord al sud, passando per il centro, un’insensata cavalcata, un
pescare alla rinfusa in un enorme tripode di bronzo e… ecco a
voi un vaso Sung, una calligrafia preziosa, scarpette ricamate
per “piedi di giglio”, lanterne rosse, fiori di carta intagliata, lacche e ricami, draghi a profusione. No, questa volta la visione si
va finalmente restringendo ad un’epoca, ad una dinastia, svelando così preziosità e raffinatezze che sono soltanto dei
Ming, una dinastia che regnò in Cina all’incirca trecento anni,
puntigliosamente possiamo precisare: dal 1368 al 1644, cioè
da quando il capo di un’insurrezione contadina cacciò i mongoli che avevano conquistato il Paese del Centro e si proclamò
imperatore, fino a quando l’ultimo dei suoi discendenti venne spodestato da altri barbari conquistatori, i manciù.
Un trecento anni in cui la Cina fu tutta davvero cinese. Già
l’ideogramma che designa questa dinastia autoctona sembrerebbe profetizzare una vocazione, purtroppo mancata.
Ming significa Luce, Splendore, Luminosità, si compone di
due segni grafici, uno che rappresenta il sole, l’altro la luna,
nelle tenebre di un medioevo barbarico si accendono dei Lumi di una precoce modernità che avrebbe potuto gemellarsi
con quella di altri più tardi Lumi lontani, anche se mai il luminoso regno dei Ming diventò illuminista. Eppure, ci è
mancato poco.
In epoca Ming la Cina era una immensa fucina di trasformazioni sociali ed economiche, un cantiere di grandiose opere militari e civili: Pechino, per esempio, allora era tutta sottosopra, tutta in costruzione, come oggi, avendo deciso l’imperatore Yungle di farne la capitale Ming: ed edificò la Città
Proibita, quale possiamo ammirarla oggi, così come il Tempio del Cielo, complessi grandiosi nei quali dominano colori
in contrapposizione, il rosso purpureo delle mura del Palazzo Imperiale, le tegole blu dei tetti conici del Tempio del Cielo, lo stesso colore della volta celeste che è ripetuto nelle porcellane sacrificali, negli abiti che l’Imperatore e i suoi ministri
indossano per il sommo sacrificio, esaltato dalla luce che illumina la cerimonia, filtrata da tondini di vetro azzurro raccolti in lunghissime collane.
Raffinatezze ancora non esasperate, intrise di un forte simbolismo. Come è simbolica ma allo stesso tempo vivificata dal
genio la pittura dei quattro eccelsi maestri di epoca Ming:
Tang Yin, Wang Chen-ming, Shen Shih-tien e Chiu Ying. So
bene che questi nomi da noi non dicono niente, suonano ostici. Ma ha scritto Werner Speiser che «questi contemporanei
di Leonardo, Raffaello, Michelangelo e Tiziano, non altrimenti che i maestri europei, rappresentano uno dei culmini
della storia dell’arte del mondo». Ideali estetici diversi, senza
dubbio, sublimi “dilettanti” i cinesi, esponenti del mandarinato, già professionisti i nostri.
Ma in Cina erano già “professionisti” gli artigiani, già capaci per le lacche, gli intarsi e, soprattutto, la ceramica, di una
produzione su ampia scala per l’esportazione, come la ceramica bianca e blu — non quella gialla destinata alla corte imperiale — che raggiunse prima i paesi dell’Islam, poi l’Europa. Ma se le prime porcellane cinesi di epoca Ming che si possono oggi ammirare nei musei di Istanbul e Teheran sono
pezzi unici e stupendi, quelle che un secolo dopo giunsero in
Occidente erano già una sorta di produzione in serie. Eccelsa, comunque. Questo perché, in epoca Ming, la Cina era più
“moderna” di qualsiasi altra civiltà al mondo. Vi si stampavano, prima che Gutemberg nascesse, opere di medicina, di
farmacopea, romanzi e racconti, capolavori e letteratura di
pura evasione. Nell’arredo e nell’architettura, nei giardini
come nelle case, dominava una semplicità essenziale, quasi
un minimalismo Zen, che è visione del mondo cinese, non
giapponese. Insomma, ancora non era sorto quello stile ricco e barocco che si impose con la dinastia straniera dei conquistatori manciù, la dinastia Qing, madre di tutte le “cineserie”, nostre e loro.
Solo che, quando la visione si restringe e si focalizza, ed il
trend non è Cina ma è Cina dei Ming, si corrono altri rischi,
cioè si accresce la confusione. Che non è “fusion”, come per
la cucina. È proprio confusione. Ma il trend è fusione o confusione? Ditemi, per favore dite a me occidentale, se quel vaso è Sung, Ming o Qinq… Ditemi, per favore ditemi a me cinese, se quel vaso è etrusco, magno greco o romano. E non
sarà per caso una copia? Quanto tarda? Noi non lo sappiamo,
beatamente globalizzati senza storia, senza conoscenza, senza datazioni, seguiamo il trend.
FOTO SEATTLE ART MUSEUM/CORBIS
N
COPPIA
STORICA
Modernissima,
ma in perfetto
stile Ming,
la coppia di sedie
è proposta da
Latitudinimobili
PRIMA TENTAZIONE
La coppa Serpentine in cristallo rosso
di Lalique allude contemporaneamente
all’oriente e alla prima tentazione
VERDE
PROFONDO
Il verde
bottiglia
della borsa
bomboniera
rievoca
certi
verdi
orientali
di intensa
profondità.
Tracolla
in metallo
smaltato.
Di Céline
GIARDINO
IN GIALLO
Il vaso
di ceramica
in giallo
imperiale,
è importato
da Chineart
SHANGAI CONTADINA
Versione contemporanea del mobile
rustico, usato in coppia
nella zona di Shangai. Dakini Orientalart
TÈ E BAMBÙ
BACCHETTA E BARCHETTA
Il cofanetto
Atiko
ha quattro
tazze in
quattro colori,
la teiera
con manico
in bambù
e zuccherini
colorati
di Geneviève
Lethu
Sopra, quattro ciotoline
in boccio, con barchetta
per poggiare le bacchette,
dalla collezione Cina di Upim
52 LA DOMENICA DI REPUBBLICA
DOMENICA 16 OTTOBRE 2005
l’incontro
Gente da copertina
Intervistare il manager che oggi
festeggia la vittoria in F1 è come stare
dentro un western: lui fa la parte
del cattivo, ti guarda come un bounty
killer, è convinto di essere il più veloce
con la pistola. Poi parla
di tutto, della sua fuga
dalle montagne cuneesi,
dei soldi e della politica,
dell’amore, del sesso
e della famiglia che
non ha mai voluto avere.
Uno spaccone
con un punto debole:“Gli occhiali
da sole? Li porto sempre,per
difendermi dagli sguardi della gente”
Flavio Briatore
hissà, forse al collegio vescovile di Mondovì un professore ostinato cercò di
insegnarglielo, ma lui era
uno studente a dire poco disattento. Insomma, Flavio Briatore può non essere
d’accordo, eppure incarna e porta fino
all’estrema conseguenza la legge filosofica che viene chiamata il rasoio di Occam. Il principio che prese il suo nome
da quello di un aristotelico francescano
del 1300 dice: «Entia non sunt multiplicanda praeter necessitatem», non bisogna presumere che esistano più cose del
necessario. Briatore ha asciugato il concetto all’essenziale. L’unica cosa che gli
è necessaria è il denaro. Tutte le altre sono semplicemente delle derivate. «I soldi — dice — servono a pagare i dottori».
Deve essere un proverbio contadino
ereditato dal nonno o dal padre, e portato giù dalle montagne piemontesi dov’è
nato. Malvolentieri. Di soldi ne ha tanti,
tantissimi. «Non so quanti, credimi, non
so esattamente quanto guadagno. Non
me ne occupo personalmente. Sono un
uomo ricco, è vero, non vedo che cosa ci
sia di male».
I soldi non servono soltanto a pagare i
medici. C’è anche lo champagne. «La
ricchezza mi ha consentito di comprare
la libertà. Traduco: faccio quello che voglio, vivo nei migliori alberghi del mondo e posso prendere qualsiasi decisione
senza dovermi prima chiedere: ma questa roba me la posso davvero permettere?». Briatore è uno spaccone, non uno
stupido. C’è ancora chi lo definisce un
geniale ignorante, ma lui se ne fotte —
parole sue —, come se ne fotte di non
avere mai ripulito, pur vivendo a Londra
e girando in lungo e in largo il mondo, il
suo marcatissimo accento cuneese; come non si vergogna di ammettere che è
fattoria a Saluzzo, ma sono luoghi in cui
non torna più. Questione di location,
dice. «Se nasci in mezzo al Congo mica
vorrai dire di essere stato fortunato. Io
non sono nato in Congo, ma tra quelle
montagne già da bambino avvertivo un
certo malessere, sentivo che ero uno
senza radici. Quando mi domandavano che cosa volessi fare da grande, se il
pompiere, l’avvocato o il notaio, rispondevo che volevo prima di ogni altra cosa andare via di lì, da quelle asperità, da quelle fatiche, da quei sacrifici».
Aveva pochi amici: «Ne ho pochissimi anche adesso. Due, forse tre. Nel
mio mestiere c’è troppa competizione». In mezzo alle salite della montagna cercava discese, scorciatoie, soprattutto. «È vero, non faccio nulla che
non sia calcolato. Ho preso il diploma
di geometra da privatista, dopo essere
stato bocciato due volte, in seconda e in
terza, nell’istituto pubblico. Non me ne
fregava niente, avevo scelto quella
scuola perché qualcuno mi aveva detto
che era la più facile. Alla maturità ho
Cambio spesso donna
perché non mi piace
perdere tempo,
quando sento
che un rapporto
è alla fine non lo tiro
in lungo. La vita
è una, non sai quando
ti tocca morire
FOTO LA MALFA / TEAM / GRAZIA NERI
C
MILANO
dai tempi della scuola (ahilui, anche
quella) che non legge un libro, neppure
una spy story. «Non mi piace e non ho
tempo». Nemmeno d’estate a Cala di
Volpe, sullo yacht di settanta metri carico di ogni ben di dio. «Mentre gli altri giocano a golf, io lavoro», dice e dà persino
l’impressione di crederci.
La sua fabbrica di soldi, va riconosciuto, ha distribuito intorno molte fortune. Da Schumacher a Alonso, che oggi festeggia il suo primo titolo mondiale in Formula Uno. Fino a alcuni dipendenti del Billionaire, il locale di Briatore in Costa Smeralda. «Ogni anno portano a casa uno stipendio due o tre volte
superiore al reddito dichiarato da molti presunti grandi industriali con la
puzza sotto il naso che mi guardano come si guarderebbe un marziano con la
testa verde solo perché sono di Cuneo».
È la verità o siamo alla sindrome Ricucci? «Ma quale sindrome Ricucci… A
parte che Ricucci mi sta simpatico.
Pensa un po’ che fenomeno, un odontotecnico, un parvenu, che tenta la scalata al Corriere della Sera, che c’ha sempre il portafogli in mano e vuole pagare
per tutti. E gli altri, quelli che con l’uno
per cento se la tirano da padroni del
Paese, che fanno pure gli offesi. Ma
dai… Sai che ti dico? Viva Ricucci, autentico testimonial della globalizzazione. Il suo quartierino dei furbetti è pur
sempre più grande di certi salotti milanesi della finanza».
Incontrare Briatore è un po’ come
stare dentro un film western. Lui fa la
parte del cattivo, si dondola a gambe
larghe sulla sedia, ti guata come un
bounty killer e non parla mai per primo.
È convinto di essere il più veloce, con la
pistola. Fai le tue domande cowboy.
Solo che non siamo in un saloon di El
Paso, ma su un divano della suite presidenziale del Park Hyatt di Milano.
Giapponesi ovunque, lingua più parlata l’inglese, giovani cameriere che bussano ogni dieci minuti a uno o all’altro
degli ingressi dell’appartamento per
chiedere se serve qualcosa. Lui è gentile, beve acqua minerale non gasata da
una bottiglia di design senza etichetta,
indossa i pantaloni blu di una tuta e una
felpa rosa, ha sul tavolo di fronte un’agenda di appuntamenti lunga e fitta come un elettrocardiogramma e due cellulari che ogni tanto fanno «gnek» e si
agitano sul piano di vetro. Briatore risponde solo un paio di volte — a un collaboratore per un impegno di lavoro e a
una donna che chiama da una località
di mare della Sicilia —, in tutte le altre si
limita a osservare con indifferenza l’agonia del telefonino fino all’ultimo sussulto. Con buona pace di chi sta dall’altra parte. Se vuole, richiamerà.
Non è uno che si affeziona. Lo capisci
subito. Flavio Briatore è nato 55 anni fa
a Verzuolo, un paese del Saluzzese a
462 metri sul livello del mare conosciuto per le cartiere Burgo, ha seguito i genitori insegnanti elementari a Montaldo di Mondovì, ha un fratello con una
presentato come tesina il progetto di
una stalla, quando sono diventato un
manager di successo, quindi antipatico a molti, hanno detto che all’entrata
della stalla avevo disegnato anche i gradini. È una balla». Lo chiamavano il “tribula”, in dialetto piemontese uno che
non sta mai fermo, si infila ovunque, si
arrabatta tra il lusco e il brusco pur di
arrivare dove vuole. «Nei paesi c’è un
soprannome per tutti. A me lo affibbiarono quando lavoravo in un ristorante
di San Giacomo di Roburent. Mi davo
da fare, smaniavo... ero un “tribula”,
sì». Voleva fuggire: Cuneo, Milano. Voleva donne. Voleva divertirsi. Voleva
soldi. S’infilò, il “tribula”, in un brutto
giro. Carte truccate, clienti famosi
spennati dal tramonto all’alba. Venne
processato e condannato a tre anni di
reclusione. Lui, previdente, se ne andò
nelle isole Vergini, dove attese l’amnistia. Questione di location, no?. «È la
mia storia, non la nascondo. Ero giovane e ho sbagliato, un incidente di
percorso che mi è servito a farmi furbo. Nessuno è perfetto, questo è il bello della vita».
Briatore ha un suo sito internet. Carenato, metallizzato. Lui si presenta
come un manager «dallo stile di gestione dinamico e innovativo». Sullo
schermo il suo sorriso è quello di un
uomo felice e realizzato, eppure l’impressione che se ne ricava è la stessa
che sembra di percepire in questa suite di mobili moderni e pavimenti levigati, senza la minima asprezza montanara, lo slogan di un uomo solo. Lui alza le spalle, dice: «È la mia vita, non ne
vorrei una diversa. Sono un privilegiato». Gli domando dell’amore. «Non so
definirlo. Credo che non ci siano luci
che si accendono e si spengono per avvertirti che sei innamorato. È una roba
fatta di creatività, è molto personale.
Cambio spesso donna perché non mi
piace perdere tempo, quando sento
che un rapporto è alla fine non lo tiro in
lungo. La vita è una sola, non sai quando ti tocca morire». Gli chiedo se ha mai
desiderato una famiglia. «No, e non
credo sia obbligatorio. Mi manca il libretto delle istruzioni per mettere su
casa. Non puoi stare nella Formula
Uno, come ci sono stato io, portandoti
dietro moglie e figli. Diciamo che voglio
evitare disastri. Aiuto bambini non
miei, finanzio associazioni che costruiscono asili e orfanotrofi, ma di questo
non voglio parlare». Il sesso? «Spero di
essere normale, non sono malato di
sesso. Dormo poco, non più di cinque
ore per notte da sempre. Certo, un po’
di tempo libero ce l’ho...».
E il tempo che passa? «La vecchiaia
non esiste più. È importante però restare lucidi sino alla fine. Mi spaventa
molto la malattia, il mio incubo è di perdere la mente, non essere più in grado
di pensare. Di riconoscermi». La politica? «Non voto da 25 anni. Le idee della
sinistra italiana mi piacciono, ma non
le ho mai viste realizzare. Mi chiedo
quando pensano al Paese, i ministri italiani: sono sempre a convegni, dibattiti, porte a porte in tv, sui giornali. Ci vorrebbe un governo parallelo, degli amministratori delegati che lavorano al
posto loro». Berlusconi? «Come imprenditore è stato straordinario, il migliore degli ultimi trent’anni assieme a
Benetton. Come politico... beh, la politica è un mestiere difficile».
Suona il telefono della scrivania.
Dalla hall lo avvertono che c’è gente
che deve salire. Lui guarda l’agendaelettrocardiogramma e dice di farli
aspettare mezz’ora, sono in anticipo
sull’appuntamento. «Ho impegni a
Milano fino alle cinque del pomeriggio, poi volo a Londra, cambio le valigie e vado dall’altra parte del mondo».
Un tormento. «Macché, inseguo risultati. Bisogna fare così. Nel 2001 sono
arrivato alla Renault e ho detto: diventeremo campioni del mondo nel 2005.
Ce l’abbiamo fatta, altrimenti a dicembre mi sarei dimesso. C’è una bella differenza tra vincere con la Ferrari
e vincere con la Benetton e la Renault.
Quello che ha fatto i miracoli sono io,
non loro, ma mi sono costati sangue.
Montezemolo e Todt hanno vinto con
il pilota che io ho inventato. Vabbè,
che vuoi che ti dica, ho un solo rimpianto: aver lasciato andar via Schumacher nel ‘96. Fra me e lui è rimasto
il rispetto, l’amicizia no. Non c’è affetto nel nostro mondo. È giusto così».
Disseminati qua e là, nella grande living room che ci ospita, ci sono i suoi occhiali da sole. Il suo marchio di fabbrica.
Non esiste Briatore senza occhiali scuri.
Ne conto almeno tre paia. Di fogge e colori diversi. Lenti azzurre, rosse, gialle.
Gli servono a nascondersi. «Quando entro in un posto mi intimoriscono gli
sguardi della gente. Porto sempre gli occhiali per difendermi». Lo dice serissimo, quasi timido. Non è la verità, ma che
gli si creda o no a lui non interessa.
‘‘
DARIO CRESTO-DINA
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