Un capolavoro del Giapponismo europeo
A Masterpiece of European Japonism
Claude Monet dipinse questo Effetto
di vento nel 1891. Tra la primavera e
l’autunno di quell’anno concepì e realizzò ventidue tele analoghe, che insieme costituiscono la “serie dei pioppi”. Ventidue capolavori, un’orchestra
di colori e luci per cogliere, penetrare
e sublimare la segreta geometria di un
filare di alberi sulle rive del fiume Epte,
nei pressi di Giverny, luogo dal maestro prediletto. Questo dipinto, come
gli altri della serie, è una delle innumerevoli espressioni del Giapponismo di Monet, che fu – per sua stessa
ammissione – “emulo di Hokusai”. In
quest’opera Monet sembra dialogare
con certe invenzioni di Hokusai e Hiroshige, artisti campioni del paesaggio
giapponese; a loro si ispirò per costruire visioni di natura di grande suggestione, combinando tagli inusuali con
quella vibrazione atmosferica per cui
rimane impareggiabile.
Monet raccoglieva e studiava le immagini del cosiddetto “mondo fluttuante”. Proprio a Giverny, in quella
che fu la sua casa ed è oggi un museo, mise insieme una vasta collezione di grafica giapponese, con opere
di molti dei protagonisti di quell’entusiasmante genere artistico.
Questo capolavoro di Monet, così legato alle gloriose vicende del Giapponismo parigino, può riassumere la storia della passione per l’arte giapponese
sperimentata dai maggiori artisti dell’epoca, nata alla fine degli anni cinquanta dell’Ottocento, ben presto diffusasi
in tutta Europa e capace di contagiare
precocemente anche gli artisti italiani.
This Wind Effect belongs to the “Poplars” series of
canvases painted by Claude Monet between the
spring and the autumn of 1891: twenty-two masterpieces, an orchestra of light and colour penetrating,
capturing and sublimely expressing the secret geometry of a row of trees on the banks of the River
Epte near the master’s beloved Giverny. Like the
other paintings in the series, it is one of the countless expressions of Monet’s Japonism. An avowed
admirer of Hokusai, he can be seen as establishing
dialogue with certain inventions of the greatest practitioners of Japanese landscape in this work, drawing
inspiration from Hokusai and Hiroshige to construct
immensely evocative visions of nature, combining
unusual viewpoints with his matchless ability to capture atmospheric vibration.
Monet bought and studied the Japanese prints known
as “pictures of the floating world”, and the vast collection he built up in his house at Giverny, which is
today a museum, include works by many of the leading practitioners of that exciting artistic genre.
This masterpiece of Monet, so closely linked to the
glorious history of Parisian Japonisme, encapsulates the passion for Japanese art felt by the greatest painters of the time. Born in the late 1850s, it
soon spread all over Europe and was taken up by
Italian artists very early in the process.
Utagawa Hiroshige, Le sessantanove stazioni di posta del Kisokaido: la quindicesima stazione, 1830 circa, xilografia policroma. Giverny, Musée Claude Monet
Italiani ‘giapponisti’ a Parigi
Italian “Japonistes” in Paris
Negli anni sessanta e settanta dell’Ottocento i più celebri artisti italiani trasferitisi a Parigi – Giuseppe De Nittis,
Giovanni Boldini e Federico Zandomeneghi – hanno costituito un importante
canale di diffusione del nuovo gusto
giapponista. De Nittis, in particolare,
prese parte con estrema precocità agli
sviluppi del Giapponismo europeo, intrecciando relazioni con i protagonisti
della prima grande ondata di passione per l’arte e la cultura giapponese:
le sue opere, strapiene di riferimenti
diretti o mediati alle arti dell’Estremo
Oriente, e la sua collezione, visibile
nella residenza parigina, colpirono gli
artisti e i critici italiani invitati alle celebri serate del pittore barlettano.
Nel frattempo collezionisti come Frederick Stibbert e Giuseppe Primoli facevano la spola tra la Francia, Firenze e Roma, per approntare, il primo, la
vasta raccolta di opere giapponesi allestita nella villa di Montughi (l’attuale
Museo Stibbert), il secondo, l’originale antologia di kakemono intesa come
una sorta di diario intellettuale.
Tra la fine dell’Ottocento e i primi del
Novecento giunsero a Parigi alcuni artisti toscani capaci di rilanciare, con le
loro opere, la voga del Giapponismo:
due artisti livornesi, Alfredo Müller e
Leonetto Cappiello, saranno in grado
di rinnovare le impostazioni della grafica e dei manifesti pubblicitari ispirandosi a soluzioni presenti nelle stampe
giapponesi; il pittore fiorentino Alberto
Magnelli saprà invece riproporre, nel
1914, il classico tema della fanciulla
in kimono alla luce delle rivoluzionarie
novità formali delle avanguardie.
The most celebrated Italian artists resident in Paris,
including Giuseppe De Nittis, Giovanni Boldini and
Federico Zandomeneghi, constituted an important
channel for dissemination of the new taste for all
things Japanese during the 1860s and 1870s. De
Nittis in particular became involved in the development of European Japonism very early and established close relations with the leading figures of the
first great wave of passion for Japanese art and culture. The Italian artists and critics invited to the celebrated soirées in the Parisian home of the painter
from Barletta were struck by his works, rife with direct and indirect references to the arts of the Far
East, and by his collection on show there.
In the meantime, collectors like Frederick Stibbert and
Giuseppe Primoli travelled back and forth between
France, Florence and Rome, the former intent on setting up an immense collection of Japanese works in
his villa at Montughi (now the Stibbert Museum), the
latter building up an original collection of kakemono
hanging scrolls like a sort of intellectual diary.
A number of Tuscan artists capable of fuelling the
fashion for Japonism with their works arrived in Paris at the turn of the century. While Alfredo Müller and Leonetto Cappiello from Livorno drew
on Japanese prints in
a new approach to the
graphic arts and advertising, the Florentine
painter Alberto Magnelli reworked the classic
theme of the maiden
in a kimono in the light
of the revolutionary innovation of the avantgarde in 1914.
Leonetto Cappiello, Fleurs de Neiges.
Biscuits Pernot, 1905. New York, Poster
Auctions International, Inc
@@dida ingl@@
Il Giappone sulla pelle: il kimono
Japan on the skin: the kimono
Il kimono è stato uno dei manufatti giapponesi che più ha influenzato il gusto della società europea e
statunitense nella seconda metà
dell’Ottocento. Allora era considerato come elemento di distinzione,
immancabile accessorio per chi si
facesse coinvolgere dalla moda
delle japonaiseries. Inoltre, rispetto ad altri generi di manufatti, il kimono aveva allora una maggiore
capacità di suggestionare i tanti devoti del Giappone, poiché chi
l’acquistava finiva per indossarlo,
entrando quindi ‘nei panni’ di quelle popolazioni tanto ammirate per
le loro arti e la loro cultura.
Moltissimi, tra gli artisti occidentali,
non solo possedettero e indossarono kimono, ma li inserirono nelle loro opere, come segno di adesione al Giapponismo. Dai dipinti
raffiguranti figure femminili, spesso traspare una fortissima, a volte esplicita carica erotica. L’abito
esotico costituisce perciò il pretesto per ambientazioni sensuali, nelle quali le dame in déshabillé giapponesi solleticano la fantasia degli
uomini, primi i pittori stessi.
The kimono is one of the Japanese articles
that most influenced the taste of European
and American society in the second half of the
19th century, when it was considered an element of distinction, an absolute must for all
those bitten by the bug of Japonism. Moreover,
the kimono cast a stronger spell over the many
worshippers of Japan than other japonaiseries
because the purchaser ended up wearing it and
hence identifying to some extent with a nation
so greatly admired for its arts and culture.
Many Western artists not only owned and wore
kimono but also displayed their Japonism by
including them in their works. The paintings of
female figures are often markedly and sometimes explicitly erotic in character. The exotic
garment thus offered a pretext for sensual settings with ladies in Japanese déshabillé as titillating subjects for male viewers and first of all
for the painters themselves.
Il Giapponismo in Toscana
Japonism in Tuscany
La Toscana è una delle regioni d’Italia dove più
precocemente e più in profondità si è diffuso il
gusto giapponista. Già le opere di Telemaco Signorini degli anni sessanta dell’Ottocento, quelle di Vito D’Ancona, tornato a Firenze nel 1874
dopo un lungo soggiorno parigino e londinese,
e gli spunti in alcuni dipinti di Giovanni Fattori,
a Parigi nel 1875, rappresentano emblematicamente il momento in cui anche la cultura figurativa toscana comincia ad accogliere queste
nuove suggestioni dall’arte dell’Estremo Oriente. Suggestioni che si possono apprezzare non
solo nelle opere degli artisti più innovativi, ma
anche in quelle di certi ‘pittori alla moda’, che
cominciano a riempirsi di paraventi, kimono, ceramiche, ventagli e ombrellini giapponesi.
Dagli anni ottanta dell’Ottocento la voga del
Giapponismo incontrerà una particolare fortuna a Livorno: vari artisti labronici (da Ulvi
Liegi a Plinio Nomellini, da Renato Natali a Gastone Razzaguta) sapranno riflettere
in profondità sulle originali soluzioni formali
presenti nelle stampe del “mondo fluttuante”.
La vitalità del Giapponismo in terra toscana,
negli anni Venti e Trenta del Novecento, può
essere testimoniata anche da varie opere di
Oscar Ghiglia e Llewelyn Lloyd, due artisti
livornesi trapiantati a Firenze.
Tuscany is one of the regions in Italy where
Japonism spread earliest and most deeply. The works of Telemaco Signorini in the
1860s, those of Vito D’Ancona, who returned
to Florence in 1874 after a long stay in Paris
and London, and elements in some paintings by Giovanni Fattori, who was in Paris in
1875, emblematically represent the moment
when the figurative culture of Tuscany also
began to feel the influence of the art of the
Far East. This can be seen in the works not
only of the most innovative artists but also of
certain fashionable painters, which begin to
fill up with Japanese screens, kimono, porcelain, fans and parasols.
The vogue for Japan enjoyed particular popularity as from the 1880s in Livorno, where Ulvi
Liegi, Plinio Nomellini, Renato Natali Gastone
Razzaguta and other local artists developed
the original formal solutions found in the “floating world” prints. Evidence of the continuing
vitality of Japonism in Tuscany during the
1920s and 1930s is also provided by various
works of Oscar Ghiglia and Llewelyn Lloyd,
two artists from Livorno settled in Florence.
Pavimento a mosaico della Terrazza giapponese di Villa Rodocanacchi, 1886
Un soffio di Giappone: il ventaglio
A breath of Japan: the fan
La quantità di ventagli giunti in Europa dal Giappone nella seconda metà
del XIX secolo fu notevole, nell’ordine dei milioni di pezzi. Solo così si
poteva soddisfare la smania diffusissima di possederne almeno uno, per
ostentarlo durante una passeggiata,
oppure per sistemarlo su una parete,
magari in una composizione con più
esemplari.
L’introduzione in pittura di questo vezzo esotico fu recepita subito dagli artisti italiani, che lo associavano a un’idea di seduzione tutta femminile. Le
dame più alla moda, ma anche quelle un po’ meno aggiornate, se ne servivano per velare gli ammiccamenti
e per svelare provocanti décolletés.
Venne in auge anche in Europa un
linguaggio del ventaglio, che tuttavia
nulla aveva a che fare con la gestualità simbolica legata a questo oggetto
come si era sviluppata in Giappone
nei secoli passati.
Inoltre, il formato del ventaglio suggestionò moltissimo gli artisti che lo usarono frequentemente per le loro innovative
opere di gusto giapponista, sperimentando soluzioni compositive e coloristiche del tutto inedite.
Millions of fans arrived in Europe from Japan during
the second half of the 19th century to meet the widespread demand of customers longing to possess at
least one to show off while out walking or display on
a wall, preferably in an arrangement with others.
The introduction of this exotic accessory into painting was taken up immediately by Italian artists,
who associated it with a wholly female form of
seduction. The most fashionable ladies, but also
those slightly less up-to-date, used fans to offer
tantalizing glimpses of provocative plunging necklines and enticing glances. Europe too developed
a language of the fan, a mode that had, however,
nothing to do with the symbolism built up around
the object for centuries in Japan.
The shape of the fan also made a great impression on
artists, who frequently used it for innovative Japonistic works in unprecedented experiments with colour and composition.
Frederick Stibbert
Frederick Stibbert
Grande collezionista e generoso mecenate, l’anglo-fiorentino Frederick Stibbert – nato a Firenze nel 1838 da Thomas Stibbert, colonnello in congedo, e
Giulia Cafaggi – perseguì con costanza e dedizione il progetto di realizzare
un museo da lasciare alla collettività
nella sua villa di Montughi sulle colline
di Firenze. Dotato di ampi mezzi, grazie alla fortuna accumulata dal nonno
paterno Giles, generale in capo per
la Compagnia delle Indie Orientali in
Bengala, Frederick condusse una vita
agiata come si conveniva ad un giovane facoltoso, dall’educazione cosmopolita e con la passione per i viaggi.
La collezione Stibbert, caratterizzata
da un allestimento fortemente evocativo, vuole coronare il sogno romantico di illustrare, attraverso l’armeria
europea, islamica e giapponese, la
collezioni di costumi e la quadreria,
una storia per immagini del costume
civile e militare attraverso i secoli ed
attraverso i luoghi.
L’imponente raccolta di oggetti nipponici, costituita da oltre 3.000 pezzi fra
armi, armature, porcellane ed elementi
d’arredo, fu acquisita a partire dal 1869
fra Firenze, l’Italia, la Francia e l’Inghilterra, e rappresenta una delle più importanti testimonianze della divulgazione dell’interesse per l’arte e la cultura
giapponesi in Italia.
Salone da Ballo di Villa Stibbert, 1900 circa
@@dida inglese
Born in Florence in 1838 to Colonel Thomas Stibbert and Giulia Cafaggi, the great Anglo-Florentine
collector and generous patron of the arts Frederick Stibbert pursued with great perseverance and
dedication his plans to create a museum in his villa
at Montughi in the hills around Florence and leave
it to the nation. A man of means due to the fortune
accumulated by his paternal grandfather Giles, the
commander-in-chief of the British East India Company in Bengal, Frederick led the life of a wealthy
young man with a cosmopolitan education and a
passion for travel.
Characterized by a highly evocative setting, the Stibbert collection of European, Muslim and Japanese
weapons, costumes and artworks is the fruit of his
romantic dream to illustrate civilian and military history over the centuries in images.
The impressive collection of over 3,000 Japanese
items, including weapons, armour, porcelain and
furnishings, was built up as from 1869 in Florence,
Italy, France and England, and constitutes one of
the most important examples of the spread of interest in Japanese art and culture in Italy.
‘A volo d’uccello’ sul Giapponismo italiano
A bird’s-eye view of Italian Japonism
La diffusione del Giapponismo al di fuori
della Toscana, tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento, fu capillare
poichè coinvolse tutte le regioni della
penisola, dalle Alpi alla Sicilia: un viaggio storico-artistico che potrebbe iniziare dalla Torino di Antonio Fontanesi e
concludersi nella Palermo di Vincenzo
Ragusa, i due artisti che nel 1876 erano
stati inviati in Giappone per insegnare
i fondamenti della tradizione figurativa
occidentale ai giovani artisti giapponesi desiderosi di imparare nuove vie
alternative ai loro canoni classici. Una
‘rivoluzione’ nel segno del Giappone
che ha i suoi esordi nei primissimi anni
anni sessanta dell’Ottocento, quando
a Milano Tranquillo Cremona concepisce il suo grande Marco Polo come un
omaggio a tanti diversi esotismi (dalla morente cineseria alla nuovissima
moda giapponista), fino agli anni tra le
due guerre, quando Filippo De Pisis, a
Parigi, fa il suo omaggio a Hiroshige, il
maestro giapponese che – insieme a
Hokusai e Utamaro – più ha solleticato
la fantasia degli artisti europei.
Da questa sintetica panoramica emerge come, in realtà, nessuna scuola regionale della penisola in quest’epoca
sia rimasta immune dal contagio con
l’arte nipponica, non diversamente da
quanto in quegli stessi anni accadeva
in tutta Europa.
The spread of Japonism outside Tuscany in the late
19th and early 20th century involved all the regions
of the peninsula from the Alps to Sicily. This art-historical exploration could begin in the Turin of Antonio
Fontanesi and end in the Palermo of Vincenzo Ragusa, the two artists sent to Japan in 1876 to teach
the basics of the Western figurative tradition to young
Japanese artists seeking alternatives to the canons
of their classical tradition. The “revolution” inspired
by Japan began in the early 1860s, when Tranquillo Cremona in Milan conceived his huge painting
Marco Polo as a tribute to many different forms of
exoticism (from the moribund vogue for China to the
nascent cult of Japan), and continued until the period between the two world wars, when Filippo De
Pisis paid tribute in Paris to Hiroshige, the Japanese
master who most stimulated the imagination of European artists together with Hokusai and Utamaro.
This brief overview shows that, as happened all over
Europe in the period, no regional school in Italy remained immune to the appeal of Japanese art.
Oltre le cortine del Giappone: il paravento
Beyond the curtains of Japan: the screen
In Giappone il paravento – soprattutto quello pieghevole – prima di
tutto assolve funzioni pratiche, usato come séparé, una sorta di parete
mobile. Così esso si è integrato dalla
metà dell’Ottocento nelle abitazioni
occidentali.
Tuttavia, in Europa il paravento fu
prediletto più come ampia superficie pittorica, di grandissimo effetto decorativo, che come elemento
d’arredo. Con questa connotazione
di tipo ornamentale si situa anche
nei moltissimi dipinti di gusto giapponista in cui compare, fornendo,
con le sue ampie @superfici@sinonimo: parti?@ campite di inchiostro
e colori, delle ideali scenografie di
tipo esotico. Inoltre, il formato del
paravento quale superficie pittorica interessò notevolmente gli artisti
occidentali in vena di sperimentazioni tecniche. Carlo Bugatti rielaborò in maniera del tutto personale sia la costruzione architettonica
della pannellatura sia il delicato ornato pittorico, creando oggetti privi
di citazioni ma sempre evocativi nel
loro eclatante eclettismo.
Screens, above all those of the folding kind,
perform primarily practical functions in Japan
as moveable partitions of living space. Thus it
was that they became part of Western homes
too in the second half of the 19th century.
They were, however, appreciated in Europe
more as large pictorial surfaces of great decorative impact than as elements of furnishing. It is with this ornamental connotation
that they also appear in countless Japonistic
paintings, where their vast expanses of ink or
colour provide ideal exotic settings. The format of the screen as a pictorial surface was
also of great interest to Western artists intent
on technical experimentation. Carlo Bugatti
reworked both the architectural construction
of the panelling and its delicate pictorial decoration in highly personal terms to create objects free of citation but always evocative in
their striking eclecticism.
Il Giappone a teatro
Japan in the theatre
Il Giapponismo ebbe un influsso importante anche nel teatro. In Italia, come
all’estero, fiorivano spettacoli teatrali
con tematiche di gusto giapponista: rimangono ancora tracce nelle cronache
giornalistiche delle rappresentazioni
avvenute, dagli anni ottanta dell’Ottocento, a Milano, Genova, Firenze, Livorno, Roma, Palermo.
Ma le due opere che meglio incarnano
la voga giapponista in Italia sono Iris
di Pietro Mascagni, presentata a Roma
nel 1898, e Madama Butterfly di Giacomo Puccini, messa in scena a Milano
nel 1904. Già dal 1896 Mascagni aveva
cominciato a lavorare al libretto di Luigi Illica: si documentò sugli strumenti
giapponesi visitando la collezione dei
baroni fiorentini Kraus, tentò di imitare
le sonorità giapponesi utilizzando strumenti originali. Anche le scenografie di
Alfred Hohenstein contribuivano alla
veridicità delle ambientazioni, curando
con attenzione gli oggetti di scena, gli
abiti e gli sfondi. Il materiale pubblicitario, le cartoline e i manifesti di Giovanni
Mataloni e Leopoldo Metlicovitz, ancora oggi sono icone del Giapponismo.
Per Madama Butterfly Giacomo Puccini e
Luigi Illica si basarono sul romanzo dello
scrittore John Luter Long (1898). Il compositore lucchese, nel tentativo di trovare un’appropriata musica giapponese,
studiò la musica ed i costumi sociali; si
fece aiutare dalla moglie dell’ambasciatore nipponico in Italia, Isako Oyama,
facendosi cantare alcune canzoni tradizionali e ordinando dischi direttamente
da Tokyo; inoltre nel 1902 a Milano potè
assistere ad uno degli spettacoli messi
in scena dalla celebre attrice nipponica
Sada Yacco.
Japonism also had a major impact in the theatre.
Like other countries, Italy saw countless productions on Japanese themes, evidence of which still
survives in the newspaper reports on performances
staged from the 1880s on in Milan, Genoa, Florence, Livorno, Rome and Palermo.
The two works that best exemplify the vogue for Japan
in Italy are Pietro Mascagni’s Iris, presented in Rome in
1898, and Madama Butterfly by Giacomo Puccini, first
staged in Milan in 1904. Mascagni started work on the
libretto by Luigi Illica in 1896, visiting the collection of
the Florentine barons Kraus to find out about Japanese
instruments and attempting to imitate their sounds by
means of original instruments. The stage design by Alfred
Hohenstein also contributed to the realism of the settings
with meticulous attention to objects, clothing and background. The advertising material, postcards and posters
by Giovanni Mataloni and
Leopoldo Metlicovitz are still
icons of Japonism today.
Giacomo Puccini and Luigi
Illica took the story by John
Luter Long (1898) as the
basis for Madama Butterfly. The composer from Lucca studied Japanese music
and customs in the attempt
to devise something appropriate. With help from Isako
Oyama, the wife of the Japanese ambassador in Italy, he
had traditional songs sung
to him and ordered records
direct from Tokyo. He also
attended one of the productions presented by the renowned Japanese actress
Sada Yacco in Milan in 1902.
Alfredo Müller, Sada Yacco, 1900, litografia
a colori, cm 219×76,5. Berlino, Staatliche
Museen (Kunstbibliothek)
@@dida inglese@@
Un capolavoro del Giapponismo italiano
A masterpiece of Italian Japonism
Mario Cavaglieri, già nella fase giovanile del suo percorso, durante i cosiddetti ‘Anni Brillanti’ (anni Dieci e Venti
del Novecento), aveva mostrato un’evidente adesione al gusto giapponista,
in opere nelle quali i rimandi alla cultura estremo-orientale sono molto sofisticati, altra cosa rispetto alla semplice
citazione ‘alla moda’.
Dipinse Paravent doré et potiches molto più tardi, nel 1955, sul finire di una
carriera lunga e ricchissima di soddisfazioni. In quel periodo soggiornava
spesso nella sua amata Parigi, eseguendo opere e partecipando a esposizioni. Prese allora l’abitudine di lavorare in alcuni musei, raffigurandone
nel suo modo vibrante gli interni. Tra gli
altri, si recò anche al Museo Guimet,
uno dei templi dell’arte estremo-orientale. Lì il Maestro selezionò oggetti che
meglio assecondavano il suo gusto di
fine conoscitore e che muovevano le
corde della sua memoria: un paravento a fondo dorato come quinta, davanti
al quale si dispongono manufatti antichi di vario genere, tutti riconoscibili
tra quelli nelle collezioni del museo parigino. Rispetto ai dipinti di gusto giapponista della sua giovinezza, magmatici per impasti coloristici di inusitata
vivacità e brillantezza, il pittore veneto
sembra ora aver appiattito la visione
dei volumi, ritrovando l’autonomia dei
contorni delle cose, come se l’Oriente
a lungo evocato fosse riemerso nelle
sue tinte più autentiche.
Quest’opera di Cavaglieri si può quindi
considerare il suo omaggio all’Oriente, la
sua ammissione di Giapponismo, come
un biglietto con ringraziamenti sinceri
per profonda gratitudine.
Mario Cavaglieri clearly displayed his interest in Japan in the early stage of his career, during the 1910s
and 1920s, with works in which the references to Far
Eastern culture are highly sophisticated, a far cry from
the simple citations then in fashion.
He painted Paravent doré et potiches much later, in
1955, at the end of a long and immensely successful
career. In that period he often stayed in his beloved
Paris, producing works and taking part in exhibitions,
and developed the habit of working in certain museums,
whose interiors he depicted in his vibrant style. One of
these was the Musée Guimet, a shrine of Far Eastern
art, where he selected objects that found favour with his
finely honed taste and struck the chords of his memory.
Various clearly recognizable ancient items from the museum’s collections were arranged before the backdrop
of a gilded screen. With respect to the Japonistic paintings of his youth, distinguished by magma-like impastos of unusually bright and glowing colour, Cavaglieri
now appears to develop a flattened handling of volume
and rediscover the autonomy of the outlines of things,
as though the long-evoked East had resurfaced in its
most authentic form.
This work by Cavaglieri can therefore be regarded as
his tribute to the Orient and avowal of Japonism, an
expression of deep and sincere gratitude.
Mario Cavaglieri, Hommage à Hokusaï, 1956, olio su tela
@@dida inglese@@
Scarica

Pannelli 70x50