liber
Memento - rivista del Mensa Italia - n. 6/2005
Galleria Liber
l’Altra Copertina
“Mu con la sciarpa”, di Attilio Graffino
S
e, per Baudelaire, la critica d’arte dev’essere parziale, appassionata, politica (il primo e il terzo aggettivo vanno intesi come “di
parte”), riteniamo che probabilmente
anche la creazione lo sia. Qui nessuno pretende d’essere artista, come
nessuno pretende d’essere scrittore.
Però diremmo che lo spessore stilistico di Attilio Graffino qui si presenta in
tutta la sua magnificenza. La precisa
definizione del modello – sua moglie –
rivela come tutta la gamma dei colori
e dello stile di Graffino sia espresso in
concomitanza all’affettività che lo lega
alla consorte. Se non erriamo, la voce
(o era la parola?) si può definire come
affectum cordis. E qui, probabilmente
con un leggero slittamento semantico, potremmo dire che lo stesso è per la
pittura, per l’espressione: è espressa l’affettività del cuore, legata pure alla memoria. Si ama se si ricorda, cuore e mente sono strettamente legati (“a memoria” si dice “by heart” in inglese, e “par coeur” in francese).
E dipingere chi si ama, è un atto legato tanto all’affettività che alla memoria.
I soli toni freddi sono tutti dislocati a sinistra (lo sfondo vagamente violaceo; i
colori sfavillanti del foulard) mentre a destra, a parte gli occhi spiccatamente
celesti di Mu, vi sono tutti toni caldi: il giallo, il carminio, i toni del bruno e dell’aranciato dello sfondo.
Se non ricordiamo male, era nelle rappresentazioni teatrali greche, che le figure
malefiche entravano in scena da sinistra; nel Cid Campeador, è scritto che Il Cid
Ruy Diaz ebbe cattivo segno dall’aver incontrato sul suo cammino una cornacchia alla sua sinistra. E la sinistra è la mano che prende la fede nuziale. Divagazioni, probabilmente, che comunque non intaccano e non modificano la sonora
vivacità di questo dipinto, in cui la solarità verace espressa dal colore, dimostra
ancora una volta l’animo trasparente e calido dell’autore.
Loredana Bua
Galleria Liber è uno spazio espositivo aperto alle vostre creazioni artistiche. Se volete,
inviate a [email protected] le foto in formato gif o jpg. Saranno pubblicate (in 4ª di copertina)
e commentate.
Norme editoriali di Liber
Con l’invio dei Vs. scritti a Liber, s’intende resa implicita attestazione di paternità dell’elaborato. Si ricorda che le opinioni espresse nei testi sono quelle dei rispettivi autori e non
riflettono necessariamente quelle degli altri soci o del Mensa stesso.
In caso di ripensamento da parte dei rispettivi autori su quanto fornito a Liber, gli stessi
autori sono tenuti a darne tempestiva comunicazione a [email protected]. Per principio del
silenzio assenso, la mancata comunicazione di correzioni o di divieto di pubblicazione, da
parte dei soci che hanno inviato i loro contributi creativi a questo foglio letterario, autorizza
Liber ad avere piena libertà di pubblicare sulle sue pagine quanto ricevuto, nella forma e
nella sostanza in cui è stato ricevuto, salvo ovvie correzioni sintattiche e di stile, pubblicazione che può essere fatta anche a considerevole distanza di tempo dall’invio.
Liber è con questa nota sollevato da qualunque responsabilità derivante da omesse correzioni – tanto nei testi che nelle note biografiche - o da omesse revoche di consenso alla
pubblicazione da parte degli stessi autori.
Solo i rispettivi autori sono responsabili di quanto scritto su questo foglio letterario. Pertanto ed eventualmente, Liber non ne risponde in nessuna sede di contenzioso.
In ogni caso, a insindacabile giudizio della redazione di Liber, non si accettano elaborati
che possano esporre Liber, Memento ed il Mensa Italia a contenziosi di qualsiasi natura.
La Redazione di Liber
Editoriale
C
’è una strana affinità, fra due
brani qui presentati. E non è
solo fra loro stessi, l’inconsapevole affinità, ma anche con altri scritti
di altri autori importanti, come Primo Levi in Se questo è un uomo,
o con pellicole autorevoli, come Il
miglio verde di Frank Darabont o
Dead man walking di Tim Robbins.
La liaison sta nei diritti umani. Il
diritto di essere trattato come una
persona, il diritto di non essere calpestato, il diritto ad una vita che
possa dirsi vita. Non si tiene conto
qui del “Nessuno tocchi Caino”,
non è Caino in argomento. Si parla
di rispetto verso l’essere umano,
del suo diritto ad avere riconosciuti diritti innegabili come la libertà,
la dignità, il rispetto.
E gli scritti in questione sono “Un’altra possibilità” e la lirica “Uomo?”
Ma non vogliamo lanciarci nella
propaganda verso Amnesty International o altre associazioni umanitarie caratterizzate, sul web, dal
.org. Solo una constatazione di fatto, caratterizzata dalla brevitas.
Labyrinth Liber
Con questa Guida, dal nome Labyrinth Liber, ricordiamo le sezioni di questo foglio
letterario.
• Autori Liber
Piccole note biografiche per presentare i
soci, scritte dai soci stessi.
• Galleria Liber
Qui viene presentata una creazione artistica di un socio alla volta.
• La Musa Calliope
Dedicata alle liriche composte dai soci.
• Dal diario di un medico
Sezione di Liber, dedicata ai racconti scritti
da Cecilia Deni.
• LiberLibris
Spazio aperto alle recensioni scritte dai
soci.
• Ut Pictura Poesis
Dall’omonimo adagio oraziano; in questa
sezione è prevista la presentazione di una
lirica, ispirata ad un qualunque celebre dipinto.
• Le voci di dentro
Dall’omonima commedia di Edoardo de
Filippo, da cui trae il solo titolo, dedicata a
quei brani narrativi che adottino l’io narrante, senza cadere nella mera autobiografia.
• Il giallo e il nero
Dedicato evidentemente ai misteri e al noir.
• Sogni
Dall’omonima pellicola di Akira Kurosawa,
tutto quanto fa sogno, fantastico - fantasy
- fantascienza, irreale o non-sense.
• Spazio Concorsi
Dedicato a quei concorsi che vorrete occasionalmente segnalare per Liber.
3
liber
Memento - rivista del Mensa Italia - n. 6/2005
la musa calliope
il giallo e il nero
Uomo?
Nuda proprietà
di Giuseppe Provenza
di Stefano Machera
S
Nacqui a stento
Sfiorato da crudeli
Segni di guerra
Piovuti dal cielo …
Crebbi all’ombra sicura
Di sinceri voti di pace …
E seppi ch’era sepolto
L’orrore dei barbari eccidi …
Non più …
Non più …
Non più …
Ci dissero …è pace.
Ma scoprii
d’un paese lontano il nome …
Corea …
e seppi ancora di sangue,
orrori e morte …
ed emerse dal buio
un nome nuovo, Vietnam,
con le morti di menti
sconvolte dal Napalm
di mille giovani persi
alla gioia di giusta vita,
e fu Ulster
e Paesi Baschi
e Jugoslavia
e Kurdistan
e Kosovo
e Cecenia
e fu Sudan e Uganda,
Ruanda e Congo
E fu Afghanistan
E fu Iraq …
E scoprimmo le bombe crudeli
Strazio di civili
E furono morti traditi nell’amore …
E l’angoscia vedemmo
Negli occhi affranti
Di mille e mille uomini e donne
Di mille teneri bimbi
Dalle natìe terre fuggiti,
fuggiti alla morte, la vita cercando …
Dov’è, dov’è, dov’è
La PACE ?
Dove l’amore ?
Dove l’uomo non più lupo ?
Quando l’uomo sarà uomo ?
Non fateci perdere la speranza,
dateci l’amore,
ridateci la vita !
"
4
tamattina va un po’ meglio. Quel
dolore sordo all’anca è diminuito, e anche la schiena si fa sentire meno. Devo dire al dottore che questo nuovo analgesico mi fa bene. Certo, alla mia età c’è poco da farsi illusioni. Nella migliore delle ipotesi, si può
sperare in una tregua dagli acciacchi.
Ottantasette anni non sono pochi, e
certo non posso aspettarmi di meglio
di questi lenti risvegli, in cui controllo
una giuntura per volta per capire se ho
un nuovo dolore, o se l’artrite mi darà
un po’ di respiro.
Comunque, per essere ottobre inoltrato non mi posso lamentare, non fa tanto freddo e riesco a muovermi abbastanza bene. Oggi quasi quasi esco e
faccio un salto al mercato di Ponte Milvio, così incontro un po’ di gente, sono
stufa di vedere solo Vinaya, che pur di
non lavorare si mette a chiacchierare
e non la smette finché non le urlo di
mettersi a stirare. Mi ricorda quella ciociara che avevo negli anni ’60, non si
riusciva a farla smettere di parlare, il
povero Ennio non la poteva sopportare e la piantava sempre lì a parlare da
sola a lavare i piatti in cucina. Alla fine
arrivavo io, e lei stava ancora a sproloquiare come se Ennio fosse stato là
ad ascoltarla, ci rimaneva male quando intervenivo io e capiva che se n’era
andato da un pezzo.
Bene, è arrivato il giornale. Questa cosa
che te lo portano alla porta non è male,
specie per me che tante volte ad uscire non ci riesco proprio. È buffo il mondo di oggi: c’è un sacco di gente sola,
così si sono inventati tutta una serie di
servizi che una volta era normale fare
in una famiglia, quando si era in tanti.
Ricordo che mio padre usciva la mattina presto, col sigaro in bocca, e andava a comprare il giornale del mattino
mentre mia madre era in chiesa. Lui in
chiesa ci andava sì e no la domenica,
proprio perché non ne poteva fare a
meno, e poi mia mamma era religiosissima. Lui no, diceva che la vita bisognava godersela sulla terra fintanto che
si può, che poi chissà. Però quando la
mamma morì ricordo che le fece un
funerale coi fiocchi, e le fece dire messe finché fu vivo. Comunque, guai a
toccarglielo, il giornale. Io volevo sempre della carta, per ritagliarci figure, giocarci, e ricordo la volta che ritagliai un
festone di pupazzetti dalla Domenica
del Corriere… era cianotico dalla rabbia, papà. Guardalo lì, in quella vecchia foto, tutto impettito, sembra un
militare, lui che non l’amava mica tanto la retorica militaresca degli anni ’30.
Fascista sì, era convinto che Mussolini
avesse salvato l’Italia dai bolscevichi,
ma le armi non gli erano mai piaciute.
Vabbe’, vediamo cosa ci dice il giornale. Dove ho messo gli occhiali… ah,
ecco. Uhm, solita roba, politica, economia… ormai le quotazioni di borsa
sembra siano più importanti della politica internazionale, o forse sono la stessa cosa. La cronaca di Roma… Dio
mio. Un altro.
“Nuovo suicidio di un anziano a Vigna
Clara.” Non è possibile, è morto Franco Giovanardi! Figurarsi, suicidio! Quello non si sarebbe suicidato neanche
tra mille anni. Ha seppellito la moglie
sei anni fa, quella poveretta era arrivata allo stremo delle forze, e i figli erano
scappati da anni. Franco era un tale
mascalzone che ha deciso di non lasciare una lira ai figli e ha venduto tutto. Ha tenuto l’usufrutto della casa in
cui abitava e ha investito tutto il resto,
costituendosi un cospicuo vitalizio. Suicidarsi lui? Neanche per sogno.
Eppure, sembra proprio uno di questi
assurdi suicidi che si stanno verificando in questa zona negli ultimi tempi.
La polizia sta ricercando disperatamente tracce di questo “Comitato per la
Morte Tempestiva”. Anche a casa di
Franco hanno trovato uno di quei maledetti pacchetti contenenti una pistola di piccolo calibro carica e una lettera. Eccola, uguale alle altre: Sei un inutile peso per la società, e lo sai. La
medicina moderna ti permette di vivere quando dovresti essere morto da
anni, sprecando risorse che spettano
di diritto ai giovani capaci di produrre
qualcosa di utile. Sei disgustoso e rimbecillito, balbetti, puzzi di rancido e non
fai l’amore da vent’anni. Che senso ha
la tua vita? Non hai affetti, nessuno tiene a te, sei solo e trascini un’esistenza
##
liber
Memento - rivista del Mensa Italia - n. 6/2005
sempre più miserabile. Noi ti diamo
l’occasione di fare ancora qualcosa di
utile, che ti guadagnerà il rispetto e la
gratitudine dei tuoi simili. Pensaci, cosa
sei ancora capace di fare? Cammini a
fatica, la testa ti abbandona, il tuo corpo è un relitto. Non riuscirai mai più a
fare qualcosa di importante. Eppure
questo puoi ancora farlo: puoi decidere di lasciare spazio nel mondo a chi
può usarlo meglio, e puoi prendere tu
questa decisione, fare in modo che la
tua morte abbia un senso, puoi affrontarla a viso aperto anziché crepare nel
sonno o accasciandoti sul pavimento
invocando l’aiuto di qualcuno che non
potrà sentirti. Siediti, prendi questa pistola, puntala alla testa e premi il grilletto. Non sarai morto invano, e noi ti
onoreremo. Addio.
Incredibile: sembra proprio che sia
quello che è successo. Franco è morto tranquillamente seduto ad un tavolo, col pacchetto aperto davanti a lui,
la pistola in pugno e un proiettile nella
testa. La porta era chiusa, senza segni di scasso, e tutto in casa era in ordine, d’altronde Franco era un tipo preciso fino ai limiti della pedanteria. Non
avrebbe mai fatto entrare uno sconosciuto, di solito anzi teneva la porta
chiusa con due serrature, mentre stavolta la polizia è riuscita a entrare forzando solo la serratura normale.
E Franco non è il primo, come ricorda
il giornale. La prima, invece, è stata
Laura Girasoli, quella vecchia insegnante in pensione, zitella da sempre.
Viveva in una casa enorme su via Cassia, la conoscevo di vista, più che altro ci vedevamo in parrocchia. Un tipo
rinsecchito, taciturno, ricordo solo che
si lamentava della misera pensione che
aveva, che se la mangiavano tutta le
spese. Alla fine aveva venduto la nuda
proprietà della casa, mi aveva raccontato Gina, la fioraia, il giorno del funerale dell’ammiraglio Tanzi. Beh, insomma la Girasoli è stata la prima, anche
lei con la stessa lettera, un colpo di pistola alla testa, chiusa in casa, un classico suicidio. I giornali hanno cominciato a sguazzare in questa storia del
Comitato, la collegano alla criminalità
minorile e dicono che la nostra società
è troppo vecchia, non dà occasioni ai
giovani che poi diventano criminali, e
dall’altra parte i vecchi sono sempre
più soli e disperati, e hanno tirato fuori
le statistiche sull’incremento dei suici-
di tra gli ultrasettantenni. Pare che la
maggioranza lo faccia coi farmaci, e
non mi sorprende, visto quante medicine ha in casa qualsiasi anziano.
Beh, insomma, dalla Girasoli a Franco
sono stati sei, i vecchi suicidatisi, tutti
allo stesso modo. La polizia poi non è
stata capace di trovare nessuna traccia di questo benedetto Comitato. I
pacchi sono tutti avvolti in carta comune, regolarmente affrancati, con l’indirizzo scritto a stampatello, e risultano
spediti da uffici postali tutti di Roma,
ma sempre diversi. Tutte le vittime
abitavano in questo quartiere ed erano sole al mondo, o comunque prive
di qualsiasi relazione familiare importante. Le indagini non hanno portato a
niente, ed anche intercettare in anticipo i pacchi è risultato pressoché impossibile, proprio perché sono comunissimi, somigliano a centinaia di altri
pacchetti che vengono inviati ogni giorno. La polizia ci ha anche provato,
pare, a passare al metal detector tutti i
pacchetti che venivano spediti, ma non
è servito a niente.
E così, si è creata la serie di quelli che
un giornale di basso livello chiama “i
suicidi della nuda proprietà”, proprio
perché le vittime sono tutti vecchi soli,
senza figli a cui lasciare in eredità l’unico bene di valore che possiedono, e
che quindi decidono di vendere per
vivere un po’ meglio gli ultimi anni.
D’altronde, io stessa due anni fa ho
venduto la nuda proprietà di questa
casa; se fosse stato ancora vivo Ennio
non se ne sarebbe neanche parlato,
figurarsi cosa avrebbe detto lui, ma io
sono sola, e gli interessi dei BOT che
ho comprato col ricavato mi servono
proprio. Ennio… avessimo almeno
avuto dei figli! Ma sono tanti anni che
mi sono rassegnata ad una vita senza
figli e nipoti, e non capisco perché debbano venirmi i lucciconi proprio ora.
Bene, ora vado al mercato, che per una
volta che mi sento bene ho voglia di
fare una passeggiata. Oltretutto è
un’occasione per salutare un po’ di
gente del quartiere, c’è Ernesto, il portiere del palazzo accanto, simpaticissimo, lui fa il portiere apposta per incontrare gente e sta sempre seduto sui
gradini del palazzo, ad alcuni capita
che gli attacchi dei bottoni interminabili, capita di vederli lì che magari hanno
appuntamento col notaio e lui li tiene
dei quarti d’ora a raccontargli aneddoti
del caseggiato, pettegolezzi mai, perché lui è uno che sa distinguere tra
chiacchiere e maldicenze. Ah, stamattina ha beccato Luigi, il postino, che
mi sa che non riprenderà il suo giro
tanto presto. Poi c’è Anna, la fruttivendola, io ormai ci passo più a chiacchierare che a comprare, coi prezzi che fa
non posso permettermi neanche un
chilo di mele. Però è simpatica, e anche se vado a comprare le mele al
mercato passo sempre a salutarla. Lei
lo sa, e mi fa l’occhietto quando porge
i sacchetti alle signore eleganti, mogli
dei professionisti del quartiere, che i
prezzi neanche li guardano tanto sono
preoccupate di incastrare la visita all’amante con la seduta di lampada total body. Mi sa tanto che se dovessero
rinunciare ad una delle due rinuncerebbero all’amante.
Poi lì, verso Ponte Milvio, c’è la macelleria di Antonio, il marito di Giuliana, e
poi l’edicola, e la Questura, subito prima della chiesa. Sono tanti anni che
passo di qua che lo faccio quasi meccanicamente, a volte sorpresa da quante automobili ci sono, mentre mi avvio
verso il mercato. Oggi poi ho qualche
fermata da fare, e alla fine quando ritorno a casa sono stanchissima, riesco a stento a metter via la roba che
ho comprato prima di buttarmi in poltrona ed accendere la TV. Perlomeno
oggi ho dato un senso alla giornata,
sembrano sempre tutte uguali e ultimamente faccio anche fatica a leggere, i libri mi sembrano sempre troppo
complicati, i gialli di una volta erano
più semplici. Adesso ho provato a
comprarne qualcuno di questi autori
moderni, ma sono pieni di tare psichiche e particolari sanguinari, come li
chiamano adesso? splatter, le donne
anziché insegnare fanno le autopsie,
e così le autrici pensano di sembrare
moderne e femministe, ma la trama
non esiste più e Agatha Christie butterebbe via il libro dopo dieci pagine, lei
che è stata dieci volte più indipendente e geniale di queste macellaie da fiera del libro.
È passato qualche giorno, e il tempo è
peggiorato. Oggi pioviggina e il cielo è
coperto, e l’artrite non mi dà pace. Se
non stessi aspettando una visita mi
metterei a letto con la settimana enig-
##
5
liber
mistica e un thermos di tè caldo, ma
devo stare in piedi e questo mi irrita
ancora di più. Man mano che le ore
passano, il cielo si fa sempre più cupo,
eppure è quasi mezzogiorno, dovrei
cucinarmi qualcosa ma non ne ho proprio voglia. Alla fine è quasi un sollievo sentire suonare alla porta, almeno
mi distolgo dai miei pensieri. “Chi è?”
grido, tanto tutti si aspettano che noi
vecchie siamo anche sorde, e infatti
anche da fuori sento la voce familiare
di Luigi che urla: “Posta, signora Gemma!”. Non so quanto tempo è che non
ricevo della posta vera, voglio dire non
quella pubblicità tipo gita a Firenze con
partenza alle cinque del mattino. Apro
la porta, e vedo Luigi con un’aria timida, che mi fa: “Guardi, signora, c’è un
pacchetto per lei, dovrebbe firmare
qui”, e tira fuori un pacchetto avvolto
in carta comune, senza indirizzo del
mittente. Lo prendo mentre meccanicamente firmo il libretto per ricevuta,
poi guardo interrogativamente il postino, e faccio “Non sarà mica uno di quei
pacchi?” “Non so, signora, potrebbe
essere, ma non c’è motivo di aver paura. Conviene però che dopo averlo
aperto chiami la polizia. Vuole che le
faccia compagnia?” “Sì, grazie, sono
troppo nervosa per aprirlo da sola”.
Entriamo in casa e mi siedo al tavolo
da pranzo. Il pacchetto ha un’aria innocua, e lo apro lentamente, come se
potesse esplodere. Dentro c’è solo una
scatola di cartone con dentro una lettera; mi basta un’occhiata per capire
che è identica a quelle che hanno ricevuto gli altri. “Ma non c’è nessuna pistola!”, esclamo. “No, di solito quella
la porto io. Non si sa mai, potrebbero
usare i metal detector. E poi, la pistola
sta meglio in mano mia” Mi volto. Luigi ha la solita aria tranquilla, da ragazzo un po’ invecchiato, ma gli occhi
sono svegli, furbi, sembra che si stia
divertendo.
“Signora Gemma, non si muova, per
favore. Sa, se mi costringesse le sparerei ugualmente anche da lontano, poi
mi porterei via pacchetto e pistola e
lascerei la porta aperta, sembrerebbe
un tentativo di rapina. No, lei non mi
pare il tipo. Giovanardi, lui sì che era
un osso duro, appena ha aperto la
porta gli ho puntato la pistola contro e
l’ho spinto dentro. L’ho obbligato a firmare il registro delle ricevute, l’ho fatto sedere e gli ho sparato alla tempia,
6
Memento - rivista del Mensa Italia - n. 6/2005
poi ho aperto il pacchetto e gli ho messo la pistola in mano. È stato un po’
rischioso, ma queste pistole non fanno molto rumore, e poi anche se mi
avessero visto prima che riuscissi a
uscire dal palazzo, cosa ci sarebbe stato di strano? Un postino che va in giro
per le scale non insospettisce nessuno, e nessuno gli fa domande. No, signora, stia seduta per favore.” “La prego Luigi, mi spieghi, perché lo fa?” “Perché? Certo, lei magari si aspetta che io
sia uno che odia i vecchi, che sia un
sanguinario maniaco… No, è molto più
semplice, lo faccio per i soldi. I suicidi
della nuda proprietà, li hanno chiamati? Appunto. Solo che a comprare queste nude proprietà sono stato io, nel
corso degli anni, usando dei prestanome, naturalmente, o la polizia a quest’ora se ne sarebbe accorta. Ovviamente lascio passare del tempo tra l’acquisto e la disgraziata morte del proprietario, ma alla fine incasso, in fondo della morte di un vecchio senza famiglia non gliene frega niente a nessuno. Io arrivo, mi faccio firmare la ricevuta, entro, sparo al vecchietto, esco
chiudendomi la porta alle spalle. Tutto
molto pulito, e nel tempo che ci mette
la gente a capire che il colpo che ha
sentito poteva essere uno sparo, e da
dove proveniva, io sono fuori del palazzo, e loro picchiano alla porta del
poveretto finché arriva la polizia e trova tutto esattamente come un suicidio.
Ecco come funziona, signora, e ora le
consiglio di chiudere gli occhi, sarà
questione di un attimo.”
“Fermo! Posa la pistola sul tavolo e
mani in alto!” Beh, anche a saperlo
prima, devo dire che è un bel conforto
sentire la voce dei poliziotti che stavano dietro la porta. Sono rimasti nascosti in cucina da stamattina alle otto, poveretti, e si vede che non vedevano
l’ora di intervenire, ci mettono un attimo ad ammanettare Luigi. Lui ha l’aria
completamente smarrita, mentre si
rende lentamente conto di essere stato incastrato. “Vedi,” gli faccio, “la tua
idea era buona. La storia del fantomatico Comitato sembrava fatta apposta
per scatenare le ricerche più improbabili. Ma, vedi, io mi sono chiesta: se
non si sono uccisi, chi può essere stato? Ed ho pensato che noi vecchi siamo diffidenti e paurosi, e che non apriamo volentieri la porta a nessuno. Ma
con il postino è diverso, e difatti i pac-
chetti dovevano essere stati portati da
qualcuno, qualcuno che fa le consegne in un’area limitata, dove la gente
lo conosce e non gli fa caso. Quando
mi è venuta in mente questa idea, ho
pensato di parlarne con la polizia, e
qualche giorno fa sono passata alla
Questura. I poliziotti sono stati molto
gentili, mi hanno portato dal commissario che mi ha ascoltato attentamente ed ha detto che poteva essere una
buona idea. Vero, tenente?” “Sì, signora,” sorride il tenente Blasi, “E davvero
quando abbiamo cominciato a pedinare questo farabutto non immaginavamo che il prossimo pacchetto lo avrebbe spedito proprio a lei! Comunque,
abbiamo tenuto tutto sotto controllo, e
sapevamo che sarebbe passato oggi
per la consegna”
Ora Luigi ha capito, e mi guarda con
un’espressione di incredulità e di irritazione, evidentemente pensava di essere troppo furbo per essere scoperto, specie da una vecchietta come me.
Aveva trovato un metodo semplice e
sicuro per arricchire e ora si ritrova in
prigione, fa quasi pena. “Vedi, Luigi”
gli dico, guardandolo negli occhi “Hai
pensato che tutti avrebbero creduto
possibile che dei vecchi soli si suicidassero solo perché qualcuno li voleva morti. Ma, vedi, noi vecchi lo sappiamo che non vogliamo morire, anche se la morte non ci fa paura. Il brutto è man mano che andiamo avanti le
persone che conosciamo e a cui teniamo diventano sempre meno, e ci
sentiamo sempre più soli: a noi importa se un vecchio muore. Ecco perché
ci tenevo tanto a fermarti.”
Anche stamattina è arrivato il giornale,
ma credo che non lo leggerò, non ho
nessuna voglia di vedere come i giornalisti hanno ricamato su quello che è
successo ieri. Ho anche staccato il telefono, tanto gli unici a chiamare sarebbero dei seccatori. Gli amici del
quartiere sanno che passerò io a salutarli, e a fare due chiacchiere, ma non
oggi… oggi l’anca mi fa troppo male.
Penso che mi metterò a fare un cruciverba, di quelli facili, che la mia memoria non è più quella di una volta. La
penna dovrebbe essere qui… no, forse in cucina, stavo scrivendo quella ricetta che davano in televisione… davvero non so più dove ho la testa!
"
liber
Memento - rivista del Mensa Italia - n. 6/2005
sogni
le voci di dentro
Sogno di una
notte d’inverno
Un’altra possibilità
di Alberto Atti
“Angelaaa! …
Angelaaa! …
Aaangela! … ”
a Angela, la figlia del rottamaio, non sentiva. O meglio, non
voleva sentire. O forse più
semplicemente non poteva, immersa
com’era nelle proprie fantasticherie.
La stessa scena si ripeteva puntualmente ogni sera. Ogni qualvolta cioè
sua madre la cercava per farsi aiutare
nelle faccende domestiche. Dopo cena
suo padre voltava le spalle a tutti, per
incollare gli occhi sul televisore sino
all’inno nazionale. Angela allora sgattaiolava fuori in silenzio, nel suo giardino incantato, chiudendo la porta sulla realtà delle cose. Ed a sua madre
restavano sempre i piatti da lavare e
mille cose da rimettere a posto.
Brontolando fra sé e sé, si riprometteva di parlare con suo marito di questa
figlia sognatrice e fannullona. Ma poi
finiva sempre per rimandare. Sotto
sotto forse la invidiava un pochino. Già
da tempo lei aveva cancellato tutti i suoi
sogni di ragazza, e di nascosto la guardava crescere con la tenerezza di una
madre che sogna per la figlia una vita
migliore.
Angela: sedici anni verdi e teneri come
le foglie di primavera. Occhi grandi pieni di sogni e lunghi capelli neri, che incorniciavano un sorriso sempre triste.
Secondogenita, con un fratello emigrato in Germania per cercare lavoro. Unica speranza di un demolitore di auto,
che avrebbe voluto farne una maestra.
“Quando la signora Bice andrà in pensione, tu prenderai il suo posto!” Erano anni che udiva sempre gli stessi discorsi. Ma come si può a sedici anni
programmare il futuro?
Vedeva benissimo come suo padre si
rompesse la schiena ogni giorno per
permetterle di finire gli studi. Si sentiva
in colpa guardando sua madre stirarle
in silenzio il vestito della festa. E naturalmente sì: si era accorta di come
Antonio, l’apprendista meccanico, alzasse gli occhi dal suo lavoro per guar-
M
di Monica Michieli
H
o sonno, tanto sonno. Ma non voglio dormire, voglio vivere ogni mofotogramma da:
mento. Adesso, e solo adesso, ogni
Il miglio verde
cosa mi sembra meravigliosa: il sole che entra
dalla finestrella (non lo vedo, la finestra è piccola e in alto, ma i suoi raggi
entrano anche qui), la sensazione di fresco che sento sulla schiena quando mi
distendo a terra, il profumo del pranzo che mi portano. Un tempo non avrei
mangiato queste cose, ero abituato fin troppo bene e non mi sarei mai abbassato a consumare una semplice minestra di fagioli. Non mi soffermavo neanche a guardare le piccole cose, non ne avevo il tempo, preso com’ero nella
mia corsa verso il potere.. volevo di più, sempre di più e intanto perdevo la
semplicità dei particolari.
E’ stato un errore a portarmi qui, un grosso errore. Se solo fossi stato un uomo
diverso, se l’avessi capito e perdonato.. ma purtroppo non ero disposto a far
finta di niente: “lui” mi aveva rubato la moglie! Che importa se lei era d’accordo, “lui” non doveva farlo e doveva pagare. Certo, ho esagerato, ho agito
d’impulso e ho sbagliato, me ne sto rendendo conto solo ora.
Ora che i miei figli e mia moglie non mi vogliono più vedere, non mi vengono
nemmeno a trovare. Proprio adesso che avrei tanto bisogno di loro e che ho
capito quanto siano importanti nella mia vita; ho scritto una lettera, ma non mi
hanno risposto e non lo faranno, lo so. Ho scritto anche alla famiglia dell’uomo che era l’amante di mia moglie, e a cui non ho dato il tempo di difendersi,
di spiegarsi: mi hanno risposto che non mi perdoneranno mai, che aspettano
solo il giorno in cui mi vedranno morire. Perché nessuno mi vuole ascoltare?
Ora sono cambiato, sono un uomo nuovo. Chiedo solo la possibilità di poter
rimediare, forse è più dura per me che per loro.
Ho sonno, ma non voglio dormire: non voglio perdere tempo, ne ho così
poco.. e pensare a quanto ne ho buttato via, quand’ero ragazzo, e quanto ne
ho utilizzato male in questi ultimi anni. Quante sere ho passato nel mio studio
a fare gli straordinari, mentre mia moglie mi aspettava per la cena e i miei figli
crescevano. Posso dire che li abbia tirati su lei, mentre io, semplicemente, non
avevo tempo. E adesso che di tempo veramente non ne ho più, mi ritrovo a
pensare che non vedrò mai i miei figli diventare adulti, laurearsi e sposarsi.
Vorrei che questo giorno non finisse mai, e per renderlo più lungo cerco di
assaporare ogni momento, ogni singola cosa.
La settimana scorsa è stato giustiziato il mio vicino di cella, è rimasto convinto
fino alla fine di essere nel giusto. Io invece no, mi sono pentito del mio gesto, e
amaramente. Se potessi tornare indietro, sicuramente non agirei in quel modo.
Se solo mi dessero un’altra possibilità.. ma la corte è stata irremovibile: omicidio di primo grado, non ci sono attenuanti. Non potrò mai rimediare a ciò che
ho fatto, lo so, ma so anche che ora sono un uomo migliore, più attento verso
i miei cari e ciò che è veramente importante.
Se solo avessi un’altra possibilità.. ma non ce l’ho.
Domani tocca a me.
"
darla passare. Ma non voleva farglielo
capire, ed affrettava sempre il passo.
“Chissà perché il lavoro debba sporcare tanto le mani?” Si chiedeva controllando le proprie. E riguardava quelle di sua madre, segnate da anni di
detersivi. Allora si rifugiava nei sogni,
nel suo giardino incantato.
Erano soltanto rottami colorati, corrosi
dalla pioggia e consumati dal tempo.
Auto contorte e sventrate. Sedili abbandonati sull’erba, pezzi di trattori, motori ammucchiati, un vecchio furgone
sdraiato e forse….. forse sì, anche tante vite spezzate!
##
7
liber
Un piccolo paese di campagna offre
ben poche prospettive di lavoro a chi
ci abita. Ma da quando era stata costruita l’autostrada, suo padre aveva
finalmente conosciuto il suo periodo
d’oro. Ora poteva davvero permettersi
di guardare al futuro con più serenità e
di offrire a sua figlia un avvenire migliore. Ma lei pareva avere ben altre
aspirazioni. Anzi, sembrava proprio
non averne per niente. E tutto questo
lo preoccupava moltissimo.
Angela era nata e cresciuta in quella
casa. Da piccola aveva giocato a nascondersi con suo fratello, come fanno tutti i bambini. Il deposito dei rottami si trasformava di volta in volta: una
reggia, l’isola del tesoro, il giardino incantato o il covo dei pirati. Ma crescendo aveva preso l’abitudine di nascondersi da sola, e quasi sempre nello
stesso posto….. una vecchia “Triumph” rossa del ’61, un modello sportivo.
Ci andava con un libro. “Per studiare…..” diceva. Ma i suoi risultati scolastici erano la prova che allo studio pensava in realtà molto poco. Usciva quasi tutte le sere, e con ogni tempo. Se
pioveva tirava su il tettuccio, afferrava
saldamente il volante e guardava fuori
immersa nelle proprie fantasticherie.
D’estate godeva di maggiore libertà,
forse perché c’era luce sino a tardi. Ma
d’inverno si preoccupavano sempre fin
troppo. E temevano il peggio ogni volta che la sentivano tossire.
Questa storia ebbe inizio circa due anni
prima. Ma nemmeno lei avrebbe saputo spiegarsi perché incominciò a
sentirsi così attratta da quella vecchia
auto. Ma ora sì. Ora lo sapeva benissimo. Ma non poteva dirlo con nessuno. Era un segreto tutto suo!
E nemmeno suo padre, che generalmente rivendeva i rottami quasi subito, avrebbe saputo spiegarsi perché
non aveva mai rivenduto quella vecchia “Triumph” rossa del ’61. O forse
sì. Lo sapeva perfettamente, anche se
non voleva ammetterlo con se stesso.
Forse era per rispetto a quei poveri
genitori….. Anche lui aveva conosciuto quel ragazzo, come tutti in paese
del resto. E ricordava ancora quella
terribile notte dell’incidente.
Alessandro, il figlio del veterinario, un
sorriso cordiale e sincero. Una massa
di capelli biondi sempre arruffati e i
venti anni che gli stavano stretti, tanta
era la sua voglia di crescere. Studiava
8
Memento - rivista del Mensa Italia - n. 6/2005
Piero della Francesca
“Il sogno di Costantino”
veterinaria con ottimi voti, per seguire
le orme del padre. Ed ogni ragazza se
lo sognava accanto, di fronte all’altare
della chiesa. Ma lui aveva ancora troppa voglia di divertirsi, per pensare già
a queste cose. Ed i genitori stravedevano per lui, cercando di esaudire ogni
suo desiderio. Per festeggiare il diploma, suo padre aveva voluto regalargli
una piccola spider rossa.
In una notte di pioggia, tornando da
una festa in casa di alcuni amici, sbandò in una curva. Le ruote slittarono
sull’asfalto bagnato e la sua vita si infranse contro una grande quercia. Lo
trovò il postino prima di iniziare il suo
giro. Una sottile linea rossa gli aveva
diviso per sempre i capelli a metà. Ed
uno strano enigmatico sorriso aveva
impedito all’ultimo respiro di uscire fuori.
Una vita spezzata e due lente vite distrutte e senza più sogni. Angela a
quell’epoca non era ancora nata. Venti
anni di tempo possono cancellare tanti ricordi, ma non un rottame rosso lasciato lì a perenne memoria… “Se non
la smetti di chiuderti qui dentro, uno di
questi giorni penso proprio che lo venderò questo vecchio rottame!” Ma in
cuor suo sapeva che non l’avrebbe mai
fatto.
Angela non conosceva questa vecchia
storia. Nessuno gliel’aveva mai raccontata. Quindi non sapeva spiegarsi perché si sentisse così attratta da quell’auto. Ma un giorno i genitori di Alessandro vennero a sapere di quella sua piccola mania, e vollero conoscerla. La
invitarono a passare un pomeriggio da
loro. Le offrirono il tè con dei biscotti
fatti in casa. Le raccontarono tutta la
storia. Furono molto gentili e vollero
sapere di lei. Le mostrarono tantissime foto e parlarono tutto il pomeriggio. Lei raccontò dei suoi turbamenti e
delle leggere vibrazioni che avvertiva
quando accarezzava il volante. Ma non
fu in grado di fornire le risposte che
forse loro cercavano. Si salutarono da
vecchi amici e la sua vita continuò
come prima.
Fu in una sera dell’ultima estate che
lei lo vide per la prima volta. La luna
era talmente grande che sembrava
stesse per cadere da un momento all’altro. E conferiva ad ogni cosa un
aspetto irreale, esaltando tutte le parti
cromate.
Lui era lì, seduto al volante come se la
stesse aspettando. Fu sorpresa, ma
non ebbe paura. Anche lei, forse inconsciamente, si attendeva da tempo
di vederlo. Le rivolse un caldo sorriso,
invitandola a salire. Era molto più bello che nelle foto sbiadite. Salì, si sedette al suo fianco e parlarono come se si
fossero conosciuti da sempre.
Così ogni sera, appena poteva, correva a salutarlo per ascoltare la sua voce.
Dopo, si addormentava serena e felice. Sapeva ormai tutto di lui. Sera dopo
sera le aveva raccontato tutta la sua
vita, le cose interessanti che aveva fatto e tutti i suoi viaggi. Lei lo ascoltava
rapita. Pendeva letteralmente dalle sue
labbra e beveva avidamente tutte le
sue parole. Qualche volta parlavano
anche del futuro, del loro futuro insieme…
Quella sera era molto importante per
lei. Mancavano pochi giorni a Natale, e
in casa si respirava già aria di festa.
L’abbondante nevicata del giorno prima aveva ricoperto il deposito di un
soffice tappeto bianco, conferendogli
un aspetto ancora più incantato. Quella sera lei cercò di uscire prima del
solito, stando attenta a non farsi vedere.
Lui aveva promesso! Lei era sicura che
sarebbe stato lì ad aspettarla, come
sempre. Quella sera la loro vita sarebbe finalmente cambiata. Lui le aveva
già spiegato come… E lei credeva in
lui, aveva fiducia nelle sue promesse!
Sentiva il cuore batterle forte forte…Era
la prima volta che provava emozioni
così tenere e travolgenti al tempo stesso. Da parecchio tempo ormai aveva
capito che si era follemente innamorata di quella bionda testa di capelli arruffati.
##
Memento - rivista del Mensa Italia - n. 6/2005
“E’ per stanotte!” le aveva detto. E lei
era certa che quella notte avrebbero
finalmente potuto coronare il loro sogno d’amore, e vivere insieme per
sempre!
La neve assorbì il rumore dei suoi passi
affrettati, e nella sua testa rimbalzavano i battiti del suo cuore. Lui era là,
come aveva promesso. E quel caldo
sorriso rassicurante contribuì a fugare
gli ultimi timori che le restavano. “Stanotte!, - le ripeté - Quando tutti staranno dormendo…”. Lei capì, e ritornò sui
suoi passi ubbidiente.
Sua madre si era accorta quasi subito
della sua assenza, e si stupì moltissimo nel vederla rincasare così presto.
Ma poi pensò che forse il freddo e la
neve ne erano state la causa.
Abbracciò i genitori più forte del solito,
e si coricò quasi subito. Ma naturalmente non dormì. Si mise ad aspettare che
nella casa regnasse il silenzio, fissando quel cielo violetto con i suoi grandi
occhi pieni di sogni.
Suo padre la trovò all’alba. Era abbracciata al volante di quella piccola auto
rossa. Aveva indosso il suo vestitino
più bello. Ed i lunghi capelli, ingioiellati
dai cristalli di neve gelata, incorniciavano un sorriso stranamente radioso.
Al funerale c’era proprio tutto il paese.
Ed in testa al corteo c’erano anche i
genitori di Alessandro, li accomunava
un dolore antico… Fu seppellita con il
vestitino che lei stessa si era scelta per
il giorno più bello della sua vita.
Giuseppe il camionista si fermava sempre al bar la sera, prima di rientrare da
sua moglie. Parlava poco e beveva
molto. Ma da un paio di mesi aveva
iniziato a raccontare delle storie strane. Parlava spesso di una piccola spider rossa, che in autostrada suonava
e suonava per superarlo… Parlava di
un ragazzo e una ragazza molto giovani. Diceva che si giravano sempre
indietro per salutarlo, prima di allontanarsi a tutta velocità… Gli erano anche
sembrati molto felici. Sì davvero! Proprio tanto felici…
“Giuseppe non è cattivo!”- dicevano i
suoi amici - “Peccato che si sia fissato
con quella strana storia…”. “Dovrebbe
proprio smetterla di bere così tanto!”commentava qualcun altro.
Nessuno però si era accorto… che da
circa due mesi, Giuseppe il camionista beveva soltanto tè freddo…
"
dal diario di un medico
liber
La bella amica del boss
di Cecilia Deni
C
inque o sei anni fa mi chiama al telefono la segretaria del Boss.
“Dottoressa, le passo il Dottore.”
“Cara Capsicum, Lei non si fa più vedere. Debbo dedurne che lavora
troppo o che si è dimenticata di questo vecchio?”
Nego con veemenza la seconda ipotesi ed esterno la mia contentezza nel
sentirlo. “Posso esserLe utile, Dottore?”
“Ahimé, si! Vede, mi ha appena chiamato una vecchia amica. Una cara amica d’un tempo, che è tornata a Bologna dopo anni di assenza. Mi ha chiesto
di seguire la sua salute ormai malandata, ma, cara Capsicum, mia moglie
sarebbe assai contrariata da una simile iniziativa. Così, conoscendo la Sua
pazienza, ed anche la Sua competenza si intende (e lo dice con un tono che
lascia capire come la pazienza si, può andare, mentre per competenza..
sono “quasi” affidabile. Per il Boss è già un gran complimento), dunque, mi
sono permesso di fornire alla mia cara vecchia amica il suo numero di telefono. Mi farebbe un grande favore se potesse occuparsene al meglio. Una
donna con un carattere particolare, come tutte le belle donne del resto”. E
aggiunge, in tono sincero e rammaricato: “Pare che abbia un gran bel ricordo
di me, sarebbe assai delusa nel vedermi con la pancia e senza capelli ... Ma
mi tenga al corrente, mi raccomando”
Così pochi giorni dopo mi accingo a visitare per la prima volta quella vecchia, cara e bella amica del Boss...
Io odio fare le scale. Odio le scale ripide. Cinque piani di scale ripide in una
vecchia palazzina bolognese, mi dico, accidenti se non me l’avesse chiesto
il Boss....
In cima ai cinque piani di scale, proprio sull’ultimo pianerottolo, in mezzo a
vasi di piante un cancelletto chiuso. Dietro, una porta chiusa. Cortese contrattazione, presentazione, referenze, infine s’apre l’uscio e compare il candido volto interrogativo, circondato da riccioli bianchi, e illuminato da due azzurrissimi occhi azzurri.
La signora Milla.
Tutto quel che so di lei lo so da lei. Per quel che mi riguarda è tutto vero,
infatti corrisponde alla vera percezione che lei aveva di se stessa e che
desiderava farmi conoscere, per farsi conoscere da me.
Sono nata, mi disse, a Villa D. La famiglia di mio padre viveva a Villa D., era
la nostra casa. Lei deve immaginarsi, dottoressa, quella casa grandissima
ed il bellissimo parco, il laghetto, le case della servitù, le stalle. Mia madre
aveva già due figli da un altro padre quando incontrò il mio. Per tutta la vita
disse sempre “E’ stata colpa mia, io sapevo esattamente cosa facevo, e l’ho
fatto. Sapevo che era tanto più giovane di me, sapevo che era un donnaiolo,
amante della caccia e del vino, sapevo ch’era un incostante.” Sa, dottoressa,
noi donne facciamo cose terribili per amore, senza pentircene, mia madre
non s’è mai pentita. Mai. E sono nata io. Sarà stato un bene, dottoressa? Non
lo sarà stato?Io non lo so, io non lo so.
Avevo tutto, dottoressa, eppure non avevo nulla, ed avevo anche troppo. I
miei fratelli non avevano i vestiti belli come i miei, e la catenina d’oro col
cammeo, e non erano i figli del padrone. Non sono stata accettata. Neppure
dopo tanti anni, neppure da grandi, non m’hanno mai accettata. Questa dove
ci troviamo ora era la casa di mia madre, sono stata tanto infelice qui. E sono
tornata. Sono tornata a Bologna perché so che sto per morire.
(Ho abboccato a questo amo, fatto su misura per me. L’ho rivoltata come un
guanto. Ci ho messo un anno, forse anche di più, l’ho frugata organo per
organo, apparato per apparato, e non aveva nessuna malattia mortale. Neppure una.)
##
9
liber
Non m’ha raccontato nei particolari
come da Villa D., sull’Appennino, fossero venuti a Bologna. La relazione tra
suo padre e sua madre finì. La madre
rifiutò qualunque assistenza economica, sia per sé che per la figlia, andò via
come era venuta, ma con la sua bambina. E con gli altri figli. Molti anni dopo,
lei viveva a Roma, o in Calabria, non
ricordo, vennero a cercarla per consegnarle la sua parte d’eredità. La sorella disse “non so dove sia, non ne abbiamo traccia da tanti anni”. Non era
vero. La signora Milla lo seppe dopo la
morte della sorella, da una nipote cui
la madre l’aveva confidato, spiegandole perché la casa materna dovesse restare a disposizione di Milla. A mo’ di
risarcimento? Non mi pare che Milla lo
intendesse così. Sembrava pensare
amaramente ad una specie di vendetta sororale, un modo per non lasciarla
mai libera dalla colpa di non essere del
tutto una sorella.
La signora Milla era sempre civettuola
ed elegante. Come facesse ad essere
così elegante io non lo so. Soprattutto
se si pensa che indossava generalmente delle camicine da notte accorciate
davanti con le forbici per evitare che
l’orlo battesse sulle ginocchia spesso
gonfiate violentemente dall’artrite reumatoide, e con sopra, in inverno, dei
vecchissimi giacchini di lana, liseuses
come si chiamavano, a colori pastello, sottili, consunti, che si avvolgeva
addosso con gesti da ragazzina. E ciabatte. Sapeva di talco, di sapone; ondeggiava leggermente per via, sempre,
delle sue ginocchia molto malandate,
e si appoggiava senza parere a muri,
mobili, maniglia delle porte. Elegantissima.
Era ancora alta, quasi quanto me, con
le mani piccole e candide, unghie corte e pulite, alito sempre profumato. Mi
aspettava con la caffettiera pronta e la
tazzina capovolta sul piattino, al centro di un piccolo vassoio sul tavolo di
cucina. Mi chiedeva sempre se volevo
un caffé prima di accendere il fornello,
e non mancavano convenevoli di rito:
“la tazzina è scompagnata, ma lei l’accetterà ugualmente, non è vero? E’
venuto buono, dottoressa? O è una
ciofeca, come dicono a Napoli?” e poi
un raccontino, una barzelletta, vecchia
a volte, altre volte così vecchia da risultarmi nuova.
10
Memento - rivista del Mensa Italia - n. 6/2005
Quella per esempio dei vecchietti al
sole nel cortile del condominio, la sapete? Uno si lamenta: “ a me mi frega
lo stomaco, ché per il resto starei benissimo, ma mannaggia, non posso
digerire più nulla, altro che semolini e
semolini”. La sua vicina protesta per
l’artrosi: “debbo solo stare a sedere,
appena mi muovo vedo le stelle, a me
mi frega questa maledetta artrosi”; e il
terzo afferma che andrebbe tutto bene
se non fosse per il fiatone che compare ad ogni minimo sforzo “dice il medico che è colpa del cuore, ecco, a me
mi frega il cuore”
L’ultimo si volta verso la moglie e le
dice sottovoce “Annina, me so’ stufato di questi carri rotti, sempre a parlà
de tutti ‘sti mali. Annamo de sopra a
facce …”.
E lei “Marce’, non sarà neppure un’ora
che l’abbiamo fatto!”
“Ecco, vedi, a me me frega la memoria!”
Ed io me la vedevo, maliziosa e candida, ridacchiare nel ruolo dell’Annina,
in una vita diversa, in un diverso destino.
La signora Milla veniva, ultimamente,
da Roma, dove aveva abitato negli ultimi venti o trent’anni, col suo ultimo
marito, e poi, dopo essersene separata, da sola. Si dichiarava appassionatamente romana, perché una città si
sceglie, diceva, e s’ama più di quella
dove casualmente s’è nati. Mi descriveva le strade, i condomini, il pizzaiolo, il fruttarolo, i tre ospedali che la facevano sentire tanto sicura (ecco,
quando si è vecchi com’è bello vivere
accanto ad un buon ospedale!) e i suoi
gatti. Erano gatti condominiali, cosa
assai particolare, per lei naturalissima:
dormivano fuori, o da lei, o da un altra
padrona, e mangiavano dappertutto.
Aveva le foto appese in cucina: il gatto
tigrato che cerca di acchiappare la pallina, quello bianco e nero stravaccato
sul termosifone. Me li indicava e ne
raccontava le prodezze. Poi mi raccontava dei suoi bambini. Dopo essersi
separata aveva fatto la baby sitter per i
bimbi dei dintorni, e due soprattutto ne
aveva amati. Le telefonavano ancora,
o forse era lei che li chiamava, per informarsi sui loro studi, e mi riportava
ogni nuova, ogni esame sostenuto,
ogni trenta, ogni prodezza, ogni saluto.
Circa venti anni prima aveva avuto un
cancro all’intestino. Era stata operata
e si era convinta di essere ormai desti-
nata ad una fine sgradevole. Così aveva deciso di separarsi dal marito. Una
roba del tipo Sweet november, se l’avete visto. Solo che lei, da non crederci,
era guarita. Ed era rimasta sola.
Da Roma, ho poi capito, era partita
perché sfrattata. Ma soprattutto perché
era convinta di avere molto poco da
vivere, aveva avuto un presagio, sapeva, mi disse, che era questione al
massimo di un paio d’anni, e voleva
morire a Bologna per essere sepolta
con sua madre.
Si chiamano disposizioni anticipate, nel
gergo corrente. Lei voleva essere cremata; che le togliessero la fede nuziale e poi la rimettessero nell’urna con le
ceneri, un’urna piccola e senza orpelli, perché non è dignitoso l’uso di queste scatole ridicole accostato alle ceneri d’un morto, e l’urna nella tomba
perpetua della mamma. Tutto molto
semplice, così.
Ma lei non credeva nella morte, credeva nella vita.
Eppure una visita a domicilio alla signora Milla era per me fonte di grande
angoscia.
Le cose andavano così. Lei telefonava, gentile, con quella voce da bambina arrochita, cominciando con un
buongiorno o buonasera, dottoressa
come va? E poi aggiungeva, con tono
pacato e quasi soddisfatto”io sto male.
Male male male” E continuava sempre
discorsiva elencando dolori, febbri, tumefazioni delle ginocchia, crisi ipertensive, soffocamenti, svenimenti, cadute. Poi cominciava il pressing “allora
cosa si fa? Lei cosa dice? Come debbo fare? Che cosa prendo? E si ricorda
l’ultima pillola che mi ha dato, andrà
ancora bene o no?” mentre io non mi
ricordavo quale fosse l’ultima pillola, e
senza neppure sapere se alludeva all’ultima della settimana scorsa o all’ultima di un mese fa, all’ultima prescrizione nuova o all’ultima ripetizione di
ricetta, o all’ultima riesumazione di una
terapia precedente. Poi, ottenuta una
disposizione, cominciava un lunghissimo torrenziale discorso che comprendeva ricordi di gioventù, barzellettine stantie, resoconti di incomprensioni, resoconti di presagi, intuizioni, barlumi pre-cognitivi e telepatici. Nel frattempo avevo imparato a continuare la
visita al paziente che avevo davanti,
##
liber
Memento - rivista del Mensa Italia - n. 6/2005
col telefono tra spalla ed orecchio, comunicando a cenni col poveretto, o a
bigliettini, palpandolo, auscultandolo
con l’orecchio libero, implorandone la
comprensione con sguardi eloquenti.
Quindici minuti, poi venti, infine “Debbo lasciarla signora Milla, ho un paziente davanti a me” ed ecco la stoccata
finale “allora quando la vedo? Domani? Giovedì? (il giovedì è la mia mattina delle domiciliari)” e neppure stabilire un appuntamento era sufficiente,
perché rimaneva il capitolo del “come
stanno i suoi bambini? E il marito, eh?”
Mi lasciava stremata. E angosciata al
pensiero del bis domiciliare.
Ora sono qui a chiedermi da quale fonte scaturisse tutta la mia ansia. Intanto
la consapevolezza di non avere una
soluzione ai suoi mali, la solitudine in
primo piano. Poi quella di non avere
neppure una soluzione “accettabile” ai
suoi dolori. Lei non accettava le cure.
Aveva la convinzione incrollabile d’esser morente, pertanto non gradiva essere smentita. C’erano tre problemi:
una tiroide ammalata, le articolazioni
infiammate e un aneurisma dell’aorta
ascendente e dell’arco, vicinissimo al
cuore, che sembrava stabile, ma in
grado comunque di rompersi a sorpresa. Così non era possibile rifiutare una
domiciliare. Ma, una volta lì, non c’era
altro da fare che ascoltare, lasciare scorrere la piena alluvionale delle parole
sino a vederle smagrirsi in rivoli sempre più sottili. Infine guadare il torrente
così sfogato traghettando un nuovo
assetto farmacologico, una nuova tappa di consulenze ed esami.
Le visite alla signora Milla erano, del
resto, sempre a domicilio. Cinque piani di scale ripide e due ginocchia minate dall’artrite reumatoide la rendevano prigioniera della sua piccola casa.
Ma parlava agli uccellini.
Nei primi tempi, dopo il suo rientro a
Bologna, aveva affrontato e risolto preliminarmente il problema della dissuasione dei piccioni. Prepotenti, voraci,
invadenti, si impadronivano del cibo
destinato a passeri e merli.
La signora Milla con una combinazione di sacchetti di plastica, nastri argentati ed assidua personale vigilanza,
aveva insegnato ai piccioni a starsene
lontani e contemporaneamente aveva
attirato i loro più piccoli cugini. Sull’inizio dell’estate ho visto coi miei occhi
madri uccelline imboccare i propri piccoli, cresciutelli ma non autonomi, sul
davanzale della cucina della signora
Milla. Molte volte, mentre sedevo al tavolo intenta a leggere referti dopo aver
preso il caffé, alzando gli occhi incontravo quelli di un intrepido passero intento a spazzolare le briciole del biscottino. Venivano spudorati a pretendere
il cibo dalla loro governante e se non
la trovavano in cucina si inoltravano a
cercarla in camera da letto, svolazzando impavidi e cinguettando.
Avevano ciascuno il proprio nome. I
più anziani erano Collolungo, passero
snello e aggraziato, e Cicciobello, grasso e impudente. Un merlo dallo sguardo torvo era Alberto, come il suo terzo
marito.
Poi aveva, come ho detto, il telefono
che usava senza parsimonia, e parlava quasi ogni giorno con la signora del
piano di sotto che le faceva la spesa.
E c’era la Nipote. Naturalmente con lei
discuteva di continuo e contemporaneamente le era legata, un po’ per affetto e un po’ per forza. A volte la Nipote veniva a partecipare alle mie rituali visite, per parlare di esami, controlli, cure, diete e via dicendo.
Erano una via di mezzo tra una visita
medica ed una di cortesia, inframmezzate da caffé, racconti, pianti, risate e
ricordi.
Il primo matrimonio, per esempio: era
finito dopo la morte del loro figlio appena nato. “Avevo una suocera cattiva, diceva, e fu contenta d’aver perso
quel nipotino. Così le girai l’assegno
che il duce ci dava per la nascita di un
figlio: che sia contenta fino in fondo,
pensai.” Poi chiese l’annullamento dichiarandosi infedele e chiamando a
testimone come corresponsabile dell’adulterio il Boss. “Un vero amico, confermò tutto, e mi sostenne, anche se
non era vero. Ma io dovevo essere libera, non c’era altro modo allora”
Aveva conosciuto il suo secondo marito in Calabria, dove si era recata per
lavoro su invito di una conoscente; non
sono note alla scrivente le circostanze, forse dolorose, della separazione
o della vedovanza.
Il terzo compagno l’aveva portata a
Roma, quarantenne ma ancora bellissima, bionda e levigata, con un fisico
sottile da pin up. Tra una cosa e l’altra
aveva fatto la giornalista sportiva seguendo un Giro d’Italia (unica donna
allora, ricordava), l’impiegata, la moglie, la baby sitter, l’infermiera. Aveva
imparato dialetti del Sud, del Centro,
del Nord, e li parlava fluentemente. E
“sentiva” le cose.
Assorbiva, così si esprimeva, i pensieri, i dolori, le preoccupazioni di chi le
stava intorno. Quando andava in ospedale le ci volevano due o tre giorni per
riaversi dalla sofferenza.
E presagiva gli eventi. L’undici settembre, per esempio, era stata male sin
dal giorno prima, lamentando una terribile cefalea. Sin qui posso fare da testimone. Mi aveva chiamato per chiedere un farmaco. Durante la notte, disse, dormì male e sognò fumo e fiamme. Al mattino mi chiamò di nuovo
dicendo che “stava male, male, molto
male”. Più tardi, nel pomeriggio, mi
disse che la notizia del crollo delle torri
era stata quasi liberatoria, dopo quella
lunga angoscia.
Come dice Pratchett: sono superstizioni, ma non è detto che non siano vere.
In ogni modo sono certa che era molto sensibile alle emozioni altrui.
Ed era infelice.
Ed era sola.
Ed era certa d’esser prossima a morire.
Una domenica sera d’inizio maggio la
Nipote mi telefona. “Mi scuso per il giorno e per l’orario, ma ho ritenuto importante farle sapere che la zia Milla è in
coma. E’ gravissima, dice, non ce la
farà”
Il sabato pomeriggio Milla accusa una
fortissima cefalea. Prende un Optalidon, e non conta. Ne prende ancora
uno, poi, in preda ad un dolore lancinante, chiama la Nipote, raccoglie la
borsa sempre pronta per l’Ospedale e
si fa portare in Pronto Soccorso.
I miei Colleghi minimizzano. Non è
niente. La Nipote chiede una TAC. Macché, macché, vorrà scherzare? La TAC
ci serve per robe serie, per cose urgenti! Mettono una flebo, la situazione non
migliora. Nel pomeriggio Milla non riesce ad alzarsi dal letto per andare in
bagno. Usa la padella con fatica. Verso le diciannove e trenta la Nipote la
lascia addolorata e angosciata. Due ore
dopo le telefonano a casa: Milla è in
coma.
Salta fuori che la TAC è disponibile, vie-
##
11
liber
ne fatta, c’è una massiccia emorragia
cerebrale, va trasferita in un altro Ospedale dove c’è la Neurochirurgia. Nel
cuore della notte la Nipote segue l’ambulanza che porta Milla, ormai per sempre inconsapevole, su una ridente collina in vista dei monti su cui è nata.
Il neurochirurgo parla con la Nipote.
“Deve firmarmi il consenso. Dobbiamo
operarla, dice, l’emorragia è gravissima”.
La Nipote sembra una donnina di campagna, ma è una professionista affermata. Vuole sapere, prima di firmare.
Sapere cosa si può ottenere con questo intervento: guarirà? Parlerà? Camminerà?
No, risponde il chirurgo, ormai il danno è fatto. Resterà paralizzata, del tutto. Difficilmente parlerà. L’intervento
serve a ripulire, a limitare, forse, la paralisi, a farla, forse, sopravvivere.
“Allora, mi racconta la Nipote, ho pensato al terrore della zia Milla di restare
su una sedia a rotelle, all’umiliazione,
autori liber
Attilio Graffino
Generale degli Alpini in pensione, Attilio Graffino è nato nel 1929 a Busca (Cn) e vive a
Belluno. Grinta da vendere, si dedica a numerose attività ed interessi, fra cui la pittura,
la scrittura narrativa, gli sport della montagna,
la vela e il cicloturismo. Ha pubblicato sul
Commensale alcuni suoi scritti, fra cui il racconto Per grazia ricevuta e recentemente un
brano dedicato alla vincitrice del Concorso
BRAIN ® 2002, Antonella Giacomin. Brano dal
titolo quasi “linawertmulleriano”: Se un giorno all’improvviso una valforettese diventasse
la più intelligente del mondo? Su Liber, è tra
l’altro già uscito il suo racconto L’espresso
1014 e Il bracciale di luce. Attilio Graffino è
stato anche l’organizzatore della I^ Mostra di
Pittura del Mensa Italia, che ha trovato spazio
nel corso del XX° Convegno Nazionale, tenutosi a Iesolo. Numerose sue opere si trovano
negli Stati Uniti. La Galleria Liber presenta un’altra delle sue numerose e pregevoli opere.
Monica Michieli
Monica Hallouma Michieli, nata l’8 ottobre
1980 a Vicenza, è socia Mensa dal 2002. Tra
qualche mese (se tutto va bene) si laureerà in
Ingegneria Chimica indirizzo Materiali presso
l’Università degli studi di Padova. Tra i suoi
interessi ci sono la musica (suona il pianoforte), le letture (come genere le piacciono molto i romanzi classici e degli autori moderni,
nonché saggi e pubblicazioni scientifiche), i
viaggi all’estero e le lingue (ne parla sei - italiano, inglese, francese, tedesco, spagnolo e
svedese - e ha un’ottima comprensione di portoghese, danese e norvegese). Per motivi di
studio ha vissuto in Svezia un anno fa, e non
esclude un ritorno, magari per un dottorato di
ricerca. L’e-mail con cui ci ha inviato il suo
12
Memento - rivista del Mensa Italia - n. 6/2005
tremenda per lei, d’essere di peso, dipendente dalla carità di una assistenza altrui, e gli ho detto: no, nessun
consenso, non si opera. Almeno, mi
ha proposto, facciamo una TAC col
contrasto. E’ venuto su il radiologo,
anche lui voleva un consenso, e gli ho
chiesto a che serviva l’esame. M’ha
spiegato che era necessario per preparare un eventuale intervento. Forse
non m’ero spiegata bene, ho detto. La
zia non si opera. Lei non voleva, non
avrebbe mai voluto. Cosa dice, dottoressa, ho fatto bene?”
“La signora Milla avrebbe certo deciso
così. Lei ha fatto la cosa giusta”
“Ora, dottoressa, potrei chiederle una
cosa? Ha detto anche a lei come voleva essere sepolta? Perché, vede, sembra che potrebbero esserci problemi,
per via di un fratello che vive lontano e
che dovrebbe, sembra, firmare il consenso alla cremazione. Nel caso, posso disturbarla per confermare i desideri della zia?”
Parliamo ancora un poco di urne e di
fedi nuziali, e d’altro. Infatti non è tutto. La Nipote mi dice d’aver saputo solo
oggi dalla vicina che proprio venerdì
sera, guarda caso, l’Assemblea Condominiale aveva lungamente discusso, e infine unanimemente votato,
d’impedirle di dar da mangiare agli
uccellini.
“Le portavano via i suoi uccellini, ci
pensa? E la zia non m’ha detto mica
niente!”
Il sabato mattina uno zelante e soddisfatto Amministratore aveva affrontato i cinque ripidi piani di scale per andarglielo a comunicare.
scritto, si chiudeva con una bella citazione da
William Blake: To see a World in a grain of sand
and Heaven in a wild flower, hold Infinity in
the palm of your hand and Eternity for an hour.
e il canottaggio. Nel 1998 ha pubblicato sul
periodico letterario L’APOSTROFO il suo racconto Parabola discendente, fra i vincitori del
premio di narrativa indetto dal medesimo periodico. Il racconto è stato riproposto sulla
newsletter di Accademia Alighieri, Il Convivio.
Nel 1993 ha pubblicato la raccolta di versi dal
titolo Sensazioni. Qui una sua nuova lirica..
Stefano Machera
Stefano Machera ha 43 anni, fa il consulente
informatico. Socio Mensa dal 1986, almeno
crede di ricordare, è da diversi anni coordinatore del SIG Libri. Legge molto e indiscriminatamente, e i gialli sono una sua passione adolescenziale, passione non ancora terminata.
Alberto Atti
Segretario Regionale ed Assistente ai Test in
Emilia-Romagna, Alberto Atti è nato a Bologna l’11 giugno 1946. Socio Mensa dal 1988,
è stato Segretario Nazionale e gestore della
Boutique. Attualmente è Coordinatore Sight.
Per trentadue anni ha lavorato per Telecom,
e per dodici è stato contemporaneamente fotografo professionista. Per quindici anni ha
allevato serpenti – non velenosi – e tartarughe. Per dieci anni, è stato anche Tesoriere
dell’Associazione Culturale Italia Olanda Fiandre, con sede a Bologna. Dal 2002 ne è Vicepresidente. Da un anno è in pensione e passa l’inverno a Venezia e l’estate ai Lidi Ravennati. Attualmente è single. Per hobby ha scritto racconti, poesie e canzoni. IL racconto qui
presentato è stato Primo classificato al Concorso Letterario Cral - SIP Marche - Umbria,
1985.
Giuseppe Provenza
Redattore Liber, Consigliere Tesoriere, Assistente ai Test del Mensa Sicilia, Giuseppe Provenza è nato a Catania il 29 settembre 1940.
Laureato in Economia e Commercio, oggi
pensionato e attivista di Amnesty International, è un appassionato di astronomia e poesia. Suoi passatempi preferiti la pesca, la vela
L’altro giorno m’è giunta la comunicazione ufficiale dell’Azienda Usl: Signora Milla, nata nel 1924, 07/05/04,
Revoca per Morte.
Non ho avuto il coraggio di telefonare
al Boss.
"
Cecilia Deni
Medico di famiglia con un migliaio di pazienti
sparsi prevalentemente tra Lavino ed il Reno,
Cecilia Deni è nata in Sardegna nel 1957. Cresciuta tra il Sarrabus ed il Campidano, ha frequentato a Cagliari il liceo classico ed il biennio di Medicina. Trasferitasi a Bologna, vi ha
conseguito la laurea nel 1984, insieme ad una
specializzazione in Medicina dello Sport,
un’abilitazione in psicoterapia che però non
utilizza, il biennio di formazione in Medicina
Generale e un particolare genere di Master in
comunicazione. Sposata a un bolognese, ha
due figli, che definisce “i grandi amori della
mia vita”. Si dichiara lettrice accanita, compulsiva, e molto istintiva: dalla narrativa di genere, soprattutto FS, a quella per ragazzi, saggistica, fumetti, classici, poesia, teatro, umoristica, di tutto un bel po’. Tranne il tedesco,
ha imparato i fondamenti delle principali lingue europee – francese più che bene, poi inglese e spagnolo – e dice di aver viaggiato
poco per cronica mancanza di denaro. Ama
ascoltare musica, andare a teatro, fare lavori
manuali, soprattutto ricamo e falegnameria;
si definisce cuoca passabile ma appassionata. Eclettica come spesso molti Soci del Mensa, si interessa di cure palliative, tanatologia,
bioetica. Infine, dice di sé: “Sono irrimediabilmente e piacevolmente golosa e grassa.” Leggeremo un’altra pagina dei suoi ricordi professionali.
$
Scarica

Liber - Mensa Italia