“Lei non sa chi sono io”
L’Automobile
Un secolo di evoluzione legislativa, sociale, culturale
prefazione di Altero Matteoli
L’automobile e la sua storia. Una storia che coinvolge l’Automobile Club d’Italia, le cui origini possono essere fatte risalire al
1898 e che da allora promuove la mobilità e la sicurezza del cittadino.
Oltre un milione di soci, per un ente pubblico a base associativa divenuto patrimonio indissolubile di tutti gli italiani. E che
ha, con gli italiani, la stessa passione e lo stesso mito di sempre:
quello dell’automobile.
Sino alla fine degli anni 60 l’automobilista denunciava la mancanza di infrastrutture e poco pensava all’inquinamento atmosferico ed acustico; oggi è necessario invece tentare di risolvere le
questioni connesse all’ambiente ed al traffico, mentre le infrastrutture stanno faticosamente recuperando il gap accumulato in
passato. ACI è andata di pari passo con “questa storia”: dapprima si è battuta per affermare il diritto alla mobilità, oggi si batte
nondimeno per tutelare il diritto ad una mobilità sostenibile.
Per chi come me rappresenta un ente pubblico che ha vissuto
in prima fila un’avventura iniziata poco dopo l’Unità d’Italia non
può quindi che essere un onore poter presentare un lavoro che
riassume in una parola quello per cui ACI nacque: l’automobile.
Questi sono solo alcuni dei motivi per cui mi sento in dovere
di ringraziare chi ha partecipato alla stesura del libro, con l’autorevole prefazione del Ministro Matteoli, la Fondazione Filippo
Caracciolo, che si distingue per la qualità dei suoi studi e delle sue
ricerche e che sta ripagando appieno le aspettative di qualche
anno fa, quando ACI la costituì.
Enrico Gelpi
Presidente Automobile Club d’Italia
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Lei non sa chi sono io - L’AUTOMOBILE
PREFAZIONE
L’uomo del XXI secolo vive con e nell’automobile, ma
forse non la conosce abbastanza bene e non sa quanto questa concorra a disegnare il suo mondo.
È un tassello imprescindibile per capire le moderne società post-industriali, in quanto continua a ridefinire non solo i
paesaggi urbani, ma tutti i territori abitati dagli umani. Dal
punto di vista antropologico l’automobile può aiutarci a leggere come va trasformandosi l’uomo, come mutino le sue
esigenze e i suoi bisogni e come li soddisfi.
Simbolo di libertà e di emancipazione, l’automobile è
andata modificando sempre più radicalmente il nostro stile
di vita, cambiando, oltre le nostre abitudini quotidiane,
anche lo spazio che ci circonda.
In questo testo ci è stata data la possibilità di compiere un
viaggio per capire l’evoluzione dell’automobile, non solo dal
punto di vista storico e della meccanica ma anche, ed inevitabilmente, dal punto di vista normativo.
Vengono, altresì, presi in considerazione temi scottanti
come l’inquinamento, perché che l’auto inquini è un dato di
fatto, ma che oggi l’industria sia più attenta e stia facendo il
possibile per renderla pulita è un’evidenza: l’emissione zero,
forse, non è più un’utopia.
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Lei non sa chi sono io - L’AUTOMOBILE
Questo volume è interessante anche per l’approccio positivo nel riconoscere le grandi possibilità che la scienza offre
all’uomo nel suo inevitabile rapporto con la natura.
Altero Matteoli
Ministro delle Infrastrutture e dei Trasporti
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Lei non sa chi sono io - L’AUTOMOBILE
INTRODUZIONE
L’automobile si è da subito configurata come una sorta di
paradigma dell’evoluzione dell’uomo, al punto da sconvolgere il modo di vivere e di pensare dell’individuo. Non ha
rappresentato soltanto un mezzo di locomozione ed un prodotto della tecnologia capace di rivoluzionare i trasporti terrestri, ma è stata protagonista della trasformazione sociale,
simbolo – allo stesso tempo – di libertà, indipendenza,
benessere e progresso. Sin dalle sue origini, l’automobile
rispose infatti all’esigenza dell’uomo di trovare – a seguito
della rivoluzione industriale, delle ultime grandi scoperte
geografiche ed anche della bramosia di espansione e sopraffazione verso “un’altra umanità” – una soluzione alle distanze e ai tempi – lunghissimi – necessari per spostamenti di
poche centinaia di chilometri, sino a quel momento operati
tramite carrozze e cavalli.
In Italia, tuttavia, i primi anni della sua comparsa non sono
stati soltanto caratterizzati da un susseguirsi di vittorie scontate. Agli inizi, l’automobile si è dovuta infatti scontrare con
realtà preesistenti, più economiche e sicuramente altrettanto
innovative. Su tutte la ferrovia, che divenne, tra il 1880 e il
1920, il principale sistema di mobilità collettiva per migliaia
di persone. La ferrovia condensava, inoltre, tutto quanto di
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Lei non sa chi sono io - L’AUTOMOBILE
nuovo apparteneva all’industrializzazione e all’organizzazione economica di stampo capitalista.
La nascente civiltà industriale italiana si basava sulle macchine e la locomotiva diventava la “macchina” per eccellenza,
capace così di simboleggiare da sola il progresso presso tutti
gli strati della popolazione italiana. È opportuno notare, ad
esempio, che nell’accesissima battaglia politica che contrappose capitalisti e forze anticapitaliste vi fosse un accordo
pressoché totale sui benefici del progresso industriale. L’influenza della ferrovia sugli italiani comportava un’espansione
dell’area e delle occasioni di mobilità, inizialmente privilegio
dei più abbienti e delle persone istruite e poi gradualmente
estesasi alle altre fasce della popolazione. L’Italia si “accorciava” e le ferrovie, almeno negli anni di maggior sviluppo urbano, iniziavano a scandire i tempi quotidiani della produzione
industriale, affermando la prima “rivoluzione” della percezione spazio temporale collettiva.
La sfera di mobilità individuale, invece, cominciò ad ampliarsi con la progressiva diffusione dell’automobile, un mezzo cui
le principali caratteristiche – flessibilità d’uso e gestione individuale – ne determinavano il crescente successo a svantaggio
dei trasporti marittimi e ferroviari. In quanto oggetto domestico e privato, l’automobile entrava di diritto nella sfera individuale, innescando notevoli conseguenze sia a livello microsociale che macrosociale.
Provando a voler suddividere in tre macrofasi quelle che sono
state le “stagioni dell’automobile” si può senza dubbio affermare che nei primi tempi essa ha risposto all’esigenza prima8
INTRODUZIONE
ria dell’uomo di muoversi; successivamente a quella della
ricerca di luoghi ove muoversi contribuendo, con lo sviluppo
delle infrastrutture stradali, all’accorciarsi effettivo delle
distanze; infine, all’applicazione concreta – rispetto al concetto di libertà – della più riconosciuta massima secondo la quale “la propria libertà termina ove inizia quella degli altri”.
Soprattutto negli ultimi trent’anni, l’automobile ha infatti
non soltanto modificato la vita quotidiana; con l’avanzare
della “rivoluzione del motore” ha inciso anche sullo spazio
fisico mutandolo radicalmente. Lo stesso spazio urbano, inoltre, è apparso così ridisegnato in funzione della nuova mobilità e le modificazioni indotte dall’automobile hanno posto
problemi di libertà altrui del tutto nuovi: ambientali, territoriali, di salute pubblica e di incidentalità.
Gli ultimi anni dell’Ottocento e i primi del Novecento sono
stati dunque, per l’Italia, quelli del primissimo sviluppo e della rincorsa nei confronti dei grandi Stati europei, generalmente più avanti nel campo delle infrastrutture. Sono anni di fortissimi investimenti nella rete di comunicazione nazionale, ferroviaria prima e stradale poi, viste entrambe come indispensabili sia allo sviluppo economico sia alla progressiva integrazione nazionale di comunità e società tra di loro diverse.
Nei primi anni del 900 l’Italia sperimentava una forte adesione culturale alle novità tecnologiche e di costume che la
modernizzazione portava con sé. In particolare, attraverso il
movimento del futurismo, l’automobile sostituiva la locomotiva quale simbolo del progresso, e pochi anni dopo, durante
l’epoca fascista, diventava sinonimo di potere e gerarchia.
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Lei non sa chi sono io - L’AUTOMOBILE
Mussolini stesso, in numerosi discorsi del tempo e con la sua
nota magniloquenza, esaltava l’automobile italiana rispetto a
quelle straniere e la risonanza europea che stava avendo
un’azienda come la FIAT. Allo stesso tempo l’automobile
costringeva il governo fascista a rispondere ad una domanda
sociale sempre crescente di realizzazioni di nuove infrastrutture stradali, sebbene il bilancio statale fosse impegnato
anche a garantire l’ammodernamento delle linee ferroviarie e
del materiale rotabile.
Gli anni fra le due Guerre mondiali rappresentano, perciò, il
periodo nel quale la società italiana registra e si adegua ai
mutamenti imposti dalla modernizzazione industriale, basata
sui mezzi a motore e sul nuovo paradigma energetico del
petrolio. È il periodo nel quale si consolida l’immaginario
relativo all’automobile quale bene individuale e passaporto
indispensabile per l’ingresso nella contemporaneità e nel futuro. Tuttavia, lo sviluppo economico italiano non permetteva
ancora la realizzazione di una motorizzazione di massa e
molti si limitavano a sognare la propria auto continuando ad
usare i mezzi per la mobilità pubblica, ovvero treni, e in misura sempre maggiore, autobus.
Gli anni successivi alla Seconda Guerra Mondiale, furono
anni in cui l’Italia dovette fare i “conti” con la crisi socio-economica, derivata dal particolare momento storico. Si cercò
dunque, di investire sull’intero settore industriale, ristrutturando i sistemi produttivi e organizzativi del lavoro. Nei primi anni 50, l’automobile ebbe il suo più grande rilancio e la
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INTRODUZIONE
sua più diffusa commercializzazione: fu dunque il simbolo
tangibile che il settore economico aveva ripreso il suo sviluppo. La “società dell’abbondanza” determinò profondi mutamenti nel settore sociale, allineandolo alla realtà dei paesi più
ricchi ed industrializzatisi per primi. La comparsa del consumatore come motore di una perenne crescita economica; la
progressiva perdita dell’importanza dell’individuo come produttore o lavoratore, a vantaggio del suo ruolo di utilizzatore di beni e servizi; l’accresciuta capacità del sistema economico di produrre o manipolare la domanda di bisogni tramite un’influenza profonda sui simboli ed i segni dell’immaginario individuale e collettivo sono gli aspetti della società dei
consumi che non hanno mancato di riflettersi anche sul settore della mobilità.
La mobilità individuale si trasformò in stile di vita e l’immaginario, nonché la produzione di automobili, si arricchirono
di “modelli” in grado di rispondere ai nuovi protagonisti
sociali: la classe media, i giovani e le donne.
Al di là della funzione di trasporto, il possesso di un’auto sancisce il definitivo approdo nella società del benessere e dei
consumi e la spesa per l’auto, anche quando non soddisfa,
rappresenta una priorità per le famiglie italiane. Gli enormi
investimenti nella rete autostradale e la produzione di utilitarie rendono possibile la motorizzazione di massa e alla fine
degli anni 60 l’Italia imboccò definitivamente un modello di
sviluppo basato sul trasporto su gomma. Il bisogno di produrre più mezzi per aumentare il tasso di mobilità totale della società portò ad una ridefinizione della stessa organizzazio11
Lei non sa chi sono io - L’AUTOMOBILE
ne produttiva dell’industria, ridefinizione conosciuta come
“fordismo”.
Cambiò, dunque, il concetto di produzione e di conseguenza
si modificarono lo spazio ed il tempo. Con essi cambiarono
anche gli italiani.
Vittorio Foa scrisse in proposito: “per molto tempo abbiamo
pensato negli anni 60 a come ridurre i tempi di lavoro, ma gli
operai ci dicevano che dopo cinque giorni di lavoro avevano
bisogno di un giorno di riposo, il sabato, per poi potersi
divertire la domenica. Questa cosa mi convinse e così venne
lasciato libero il sabato… e tutti se ne andavano in macchina.
Nasce il weekend, il mito del fine settimana. La macchina
rendeva piccolo lo spazio e il tempo […]. L’automobile ha
cambiato la vita degli uomini e delle donne in modo radicale
rendendo più semplice di prima la vita.”
Durante i decenni successivi, differenti crisi economiche – tra
tutte, quella dell’Austerity del 1973 e del 1974 – comportarono un calo di vendite nel settore automobilistico. Tuttavia,
il mito dell’automobile ha sempre retto a questi contraccolpi
momentanei del settore, perché ha saputo rispondere alle
richieste di mercato con la sua costante evoluzione tecnologica, continuando ad essere parte determinante dello sviluppo
della società nella quale insopprimibile per l’uomo diventa
sempre di più il diritto alla mobilità.
Durante gli anni Novanta prese forza in Italia una critica alla
mobilità su gomma che introdusse nuovi elementi nel rapporto tra società e mobilità. L’Italia iniziò ad assumere le caratteristiche tipiche di una società moderna postindustriale. Si
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INTRODUZIONE
iniziò a considerare come acquisito per sempre il benessere
economico e ad interrogarsi molto sulla direzione da dare al
modello di sviluppo in vista delle sue esternalità negative: dall’inquinamento ambientale al disagio sociale e ai ritmi di vita
stressanti.
Si sviluppò, grazie anche al ruolo di indirizzo delle istituzioni
europee, un processo di ripensamento degli squilibri del sistema dei trasporti e lo studio di soluzioni che inglobassero i
nuovi concetti di “sostenibilità ambientale” e di riduzione di
rischi per la sicurezza. La sfera della mobilità individuale continuò ad espandersi, perché la motorizzazione privata rimase
il modello di sviluppo centrale e l’auto il mezzo preferito per
muoversi. Cambiò, però, il modo di avvalersene con l’introduzione, in ragione proprio della lotta all’inquinamento
ambientale ed acustico, di regolamentazioni e limitazioni alla
circolazione soprattutto in ambito urbano. Cominciò anche
la produzione di modelli di auto più sicure.
Con i primi anni del XXI secolo, di fronte all’esistenza delle
esternalità negative derivanti da un utilizzo troppo massiccio
delle automobili, si sviluppò, pertanto, una domanda di sicurezza che potesse riflettere sia le preoccupazioni per l’inquinamento ambientale sia quelle relative all’incidentalità dei
veicoli.
Veniamo a oggi. La crisi economica mondiale esplosa lo scorso anno non poteva non provocare pesanti ripercussioni sul
mondo dell’automobile e sulla domanda. Com’è noto, per
rilanciarla i governi dei più importanti paesi hanno deciso
interventi finanziari di sostegno al settore che stanno portan13
Lei non sa chi sono io - L’AUTOMOBILE
do una boccata d’ossigeno vitale all’economia dell’auto. E’
necessario, però, consolidare i risultati raggiunti e dare un
quadro di riferimento più duraturo perché l’industria automobilistica rimane il principale volano di sviluppo.
In tal senso, è oltremodo significativo che Barack Obama, nella sua prima conferenza stampa da Presidente degli Stati Uniti d’America, tra le prioritarie linee programmatiche del suo
governo ha rappresentato l’esigenza di salvare il mercato dell’automobile americano. E che durante il suo discorso inaugurale di insediamento a presidente ha affermato: “lo Stato dell’economia richiede azioni coraggiose e rapide, e noi agiremo
[...]. Metteremo le briglie al sole e ai venti e alla terra per rifornire le nostre vetture e alimentare le nostre fabbriche”[...].
Per il XXI secolo si preannuncia, dunque, una nuova grande
sfida: economica, ambientale e di sostenibilità energetica.
Vi si può vedere la ricerca di preservazione di un settore economico che assicura centinaia di migliaia di posti di lavoro
ma soprattutto la ricerca del salvataggio di un simbolo – l’automobile – che proprio in America ebbe inizio con il modello
“T” di Henry Ford, rappresentativo della motorizzazione di
massa e che ancora oggi, nonostante tutto, rimane protagonista della società moderna.
Ascanio Rozera
Segretario Generale Automobile Club d’Italia
Presidente Fondazione Filippo Caracciolo
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PARTE PRIMA
UN SECOLO DI
EVOLUZIONE LEGISLATIVA
Lei non sa chi sono io - L’AUTOMOBILE
I
L’ERA DELL’AUTOMOBILE
Era la notte di una torrida giornata d’estate, il 29 luglio del
1900, quando il re d’Italia Umberto I, rientrando nella villa
Reale di Monza, morì per un colpo di pistola sparato dall’anarchico Gaetano Bresci1. I cavalli, sferzati continuamente dal cocchiere, per portare il re agonizzante a casa, trainarono quella che per secoli era stata l’unica vettura disponibile: la carrozza. Per millenni, infatti, “l’uomo a cavallo” era
stato l’archetipo della libertà di movimento, di andare da un
luogo all’altro sino a quando, con la fine del XIX secolo, si
aprì una nuova epoca, dominata da un inedito mezzo di trasporto: l’automobile; da quel momento nulla rimase più
come prima …
LA NASCITA DELL’AUTOMOBILE.
A partire dalla fine dell’800 e durante tutto il 900, dapprima
in alcuni paesi europei, successivamente negli Stati Uniti, si
iniziarono a sperimentare “veicoli” terrestri che non erano
altro che evoluzioni di carrozze, ove il cavallo veniva sostituito da un motore a combustione interna2. Tuttavia questo
tipo di motore creò non pochi problemi. Per metterlo in
1. La leggenda vuole che l’anarchico Bresci volle vendicare in questo
modo la repressione dei moti popolari del 1898.
2. Da qui l’espressione, utilizzata ancora oggi, di cavalli motore.
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I - L’ERA
DELL’AUTOMOBILE
moto infatti bisognava accendere il carbone nel focolare e
aspettare che l’acqua bollisse nella caldaia; per poi regolare
l’afflusso del vapore del cilindro e manovrare un veicolo molto complicato. Per non parlare poi della mancanza di un sistema frenante efficiente. Infatti il più delle volte questi prototipi di vetture si fermavano solo perché finivano contro un
muro.
I primi esprimenti di automobile non andarono quindi a
buon fine, e fu soltanto quando, nel 1886, Gottlieb Daimler,
insieme a Karl Benz, progettarono un nuovo motore, quello
a scoppio, caratterizzato da nuove dinamiche e da un nuovo
congegno (il carburatore), che il processo di sviluppo automobilistico ebbe una fase di accelerazione. Detta accelerazione venne completata poi dallo sviluppo del “modello T” di
Henry Ford, che, all’inizio del XX secolo, realizzò il sogno
della motorizzazione di massa, essendo capace di soddisfare
la richiesta di un’intera società.
Il sogno di Henry Ford era quello di costruire un’autovettura solida e semplice, ad un prezzo molto basso, da consentirne a chiunque l’acquisto. Quell’automobile, tanto pensata,
fu appunto il modello “T”, che divenne, proprio perché considerata alla portata di tutti, la più conosciuta e famosa che
sia stata mai costruita3.
In totale furono prodotte 15.007.033 Ford Model “T”; le prime costavano 850 dollari USA, contro i 2.000-3.000 dollari
3. www.mirandaautomotive.it.
17
Lei non sa chi sono io - L’AUTOMOBILE
delle vetture concorrenti; gli ultimi prototipi, grazie all’aumento di efficienza e di volume della produzione, arrivarono a
costare meno di 300 dollari USA! Circa 3.000 dollari attuali!
E se pensiamo che a quel tempo la paga media di un lavoratore dipendente era di circa 5,5 dollari al giorno (i dipendenti Ford venivano pagati 8 dollari al giorno)4, ci rendiamo
conto di quanto fosse conveniente quella vettura.
Il modello “T” ottenne l’approvazione di milioni di americani, che affettivamente la soprannominarono “Lizzie”
(utilitaria).
In Italia e nel resto dell’Europa, invece, la diffusione dell’automobile fu molto più lenta, perché gli alti costi di produzione utilizzati per soccombere alla scarsa funzionalità della meccanica fecero diventare questo veicolo un mezzo
destinato da una parte ad una clientela aristocratica e facoltosa, che poteva permettersi gli alti costi ed era in grado di
apprezzarne la qualità (P. Ferrari “L’evoluzione dell’ingegneria stradale nel corso del XX secolo”) e, dall’altra, venne devoluta principalmente al “trasporto pubblico” che,
però, “fece fatica” ad imporsi sul trasporto ferroviario e
sulle più economiche, confortevoli e rassicuranti carrozze
trainate dai cavalli.
Così, fino a dopo la Prima Guerra Mondiale, i costruttori di
automobili non si impegnarono nella standardizzazione e
nella commercializzazione del prodotto, ma preferirono
4. www.mtfca.com.
18
I - L’ERA
DELL’AUTOMOBILE
destinare i loro veicoli ad un pubblico d’élite, che li avrebbe utilizzati principalmente nelle gare sportive e lasciati guidare a terzi, i c.d. “chauffeur”, esprimendo in tal modo,
anche nei trasporti, il divario sociale fra ricchi e poveri5.
I primi automobilisti furono, pertanto, oggetto di avversione
da parte della popolazione, furono esposti all’arbitrio dei
poliziotti e dovettero altresì guidare con le difficoltà causate
dai pedoni, non adeguatamente disciplinati, e dai carrettieri,
che si ostinavano ad impedire loro il passaggio.
Immaginate quindi cosa abbia provato un tal Gaetano Rossi, industriale dell’epoca, di Piovene Rocchette (VI), che ebbe
l’idea di acquistare per primo la prima auto in Italia, trovandosi a guidare liberamente a fianco di pedoni o di cavalli e
buoi, che, non abituati ad un “arnese” tanto rumoroso, si
spaventavano, facendo andare a finire molte carrozze e carri dentro i fossi. E tutto questo in un’Italia rurale, con enormi problemi di integrazione sociale, in un periodo in cui il
ricordo della spedizione di Garibaldi e dei suoi mille era
5. Per una più approfondita disamina sull’argomento cfr. BOATTI G.,
Bolidi:quando gli italiani incontrarono le prime automobili, Milano,
2006; COGOLLI P. e PRISCO G., Polvere e Benzina, 80 di Automobile
Club a Perugia, 2006; CUCCO L., Storia dell’automobile, Torino, 1961;
BOSCHI S., Nacque un giorno l’automobile, Bologna, 1963; ANDREONI P., Libertà di Andare, Milano, 1999; GIARDIELLO M., SCOTTO F.,
AGNENI L., ARIOSTO A., AVERSA A., BOREA F., CILIONE M.;
GUERCI A., PAGLIARI E., PASCOTTO L., PENNISI L., Mia Carissima
automobile, la spesa degli Italiani per l’Automobile, Fondazione Filippo
Caracciolo, 2006.
19
Lei non sa chi sono io - L’AUTOMOBILE
ancora vivo e dibattuto… nel 1893 insomma!6
Cinque anni più tardi con l’aumentare del numero delle macchine, nel 1898, sorse a Torino, l’ACI (Automobile Club
d’Italia), un ente, con la finalità di rappresentare gli automobilisti italiani.
VERSO LE PRIME NORME SULLA
CIRCOLAZIONE STRADALE.
Il graduale sviluppo dell’automobile e l’influenza che essa
ebbe sul costume fece emergere un’importante esigenza per
l’unificazione del Paese: bisognava costruire strade, pensare ad una segnaletica condivisa da tutti, ma soprattutto
imporre in termini più rigorosi la necessità di una disciplina della circolazione uniforme per tutto il territorio nazionale, come regolamento composto di norme tecniche semplici e chiare e come sistemazione giuridica di rapporti
sempre più numerosi e complessi derivati dalla mobilità
stessa.
Per lungo tempo, però, non si ebbe una vera e propria trattazione sistematica della materia, limitandosi le autorità precostituite a emanare saltuarie disposizioni per regolare la circolazione dei veicoli, sino a che i vari rapporti generati da
questi non vennero disciplinati con norme regolamentari
6. Rivista Club Storico Peugeot Italia n. 1 2006 – “Peugeot. Una storia
Italiana” edizione 2000 – Questo signore si trovò ad acquistare un’automobile perché in uno dei suoi tanti viaggi conobbe un francese di nome
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I - L’ERA
DELL’AUTOMOBILE
che, però, “fecero fatica” ad imporsi come modello di comportamento per il cittadino che si adeguò ad esse con non
poche difficoltà.
Le conseguenze sul piano della chiarezza e conseguentemente della sicurezza sembrarono presto paradossali perché tali
norme a volte vennero comprese nel Regolamento generale
di polizia stradale, altre costituirono un distinto e separato
gruppo di disposizioni adottate dai vari comuni.
Pertanto capitava, in quegli anni, che in alcune città come
quelle della Lombardia nella circolazione stradale si teneva
la destra, mentre in altre Regioni si teneva la sinistra: ad
esempio a Torino le automobili procedevano “a manca” per
seguire i tram, che nell’intero Paese apparvero ad imitazione
di quelli inglesi che procedevano, appunto, a mancina. Ma le
difficoltà erano maggiori nelle città in cui, addirittura, si
proseguiva in un senso nell’interno dell’abitato (quartiere) e
in senso inverso al di fuori. Tali erano le differenziazioni,
caratterizzanti le diverse parti della penisola nelle consuetudini stradali.
Dunque uniformare la disciplina, secondo regole comuni, per
la formazione di una coscienza giuridica e psicologica nei
riguardi della circolazione, fu compito difficile, in un Paese di
recente unificazione come l’Italia.
Armand Peugeot, costruttore di automobili, e fu da lui che nell’inverno
del 1893 comprò il modello Peugeot Tipo 3 telaio numero 25 motore
S.G.D.G. numero 124, detta comunemente “Vis a Vis”.
21
Lei non sa chi sono io - L’AUTOMOBILE
Per avere un’omogenea legislazione all’interno del territorio
nazionale si dovette attendere il 19017 quando, il nuovo re
Vittorio Emanuele III col R. D. 20 gennaio 1901, n. 28 promulgò il “Regolamento per la circolazione delle automobili”.
Questo Regolamento non venne accolto con favore, la sua
emanazione fu per le Istituzioni occasione di discussioni e
interrogazioni parlamentari e per gli industriali del tempo fu
un modo per dar vita ad una serie di commenti negativi, perché completamente in disappunto. Senza mezzi termini il
Regolamento venne considerato un “aborto legislativo” […]
7. Prima di tale momento storico il testo più remoto era quello del 15
novembre 1868: il Regio Decreto n.4697, a firma di Vittorio Emanuele
II, che approvò il Regolamento di polizia stradale e per garantire la libertà di circolazione e la materiale sicurezza del passaggio. Unificato il
Regno d’Italia, si presentò, infatti, subito la necessità di coordinare le
varie disposizioni di legge in materia di strade, vigenti nei singoli Stati nei
quali l’Italia era divisa. Dopo un generico richiamo alla legge del 20 marzo 1865 sulle opere pubbliche e dopo numerose norme intese alla conservazione delle strade, venivano le disposizioni relative ai veicoli a trazione animale. Un apposito capo del decreto riguardava la circolazione
di locomotive mosse dal vapore o da altra forza fisica sulle strade ordinarie: vari precetti erano attinenti alla licenza per l’esercizio di trasporto
con tali mezzi mentre altri erano relativi alle prime norme di comportamento inerenti all’illuminazione, alla velocità nei crocevia, alle soste. Lo
stesso antico testo prevedeva le penalità per i trasgressori e le norme per
l’accertamento delle contravvenzioni, comprese quelle relative all’oblazione. La legge 22 luglio 1897 n. 318 invece impose una tassa di circolazione sui velocipedi e demandò al governo, con l’art. 14, la emanazione di un regolamento per la circolazione dei velocipedi”. In tal senso v.
DUNI M., Scritti giuridici sulla circolazione stradale, Piacenza, 1964.
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I - L’ERA
DELL’AUTOMOBILE
“non c’è persona di buon senso, che abbia qualche lontana
nozione di automobilismo, la quale non giudichi questo
regolamento un centone di spropositi, tanto dal lato praticotecnico quanto dal lato giuridico”8.
Infatti il Ministro dei Lavori Pubblici di allora, Gerolamo
Giusto, si accorse che quello che gli era stato consegnato dal
suo predecessore, Ascanio Branca, era un testo redatto da
funzionari e consulenti che, probabilmente, erano inesperti
del nuovo mezzo e quindi incapaci di poter stilare una normativa adatta alle esigenze della civiltà. Da qui anche le proteste
del Touring Club Italiano9 e dell’Automobile Club d’Italia
poiché il Regolamento rappresentava la necessità ineluttabile
di un adeguamento ai bisogni che erano scaturiti dall’esperienza quotidiana derivante dall’uso del mezzo circolante.
Mentre aleggiavano questi malumori, proprio nello stesso
periodo e precisamente il 27 aprile del 1901, fu organizzata
la partenza per il primo Giro d’Italia automobilistico, della
durata complessiva di 16 giorni.
L’impresa aveva principalmente lo scopo di propagandare
l’automobile, invogliando gli italiani ad acquistarla e a servirsene.
Il traguardo venne raggiunto l’11 maggio. Dei settantadue
iscritti, ne erano partiti effettivamente trentadue e ne arrivarono trenta.
8. Frase di un articolo della rivista “L’Automobile”, 1 marzo 1901.
9. Meritevole associazione nata l’8 novembre del 1894 in Milano, con lo
scopo di favorire in ogni modo lo sviluppo del turismo in Italia.
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Lei non sa chi sono io - L’AUTOMOBILE
Vi era un piccolo regolamento del Giro stabilito dal Comitato organizzativo che doveva essere seguito da tutti, per esempio le macchine dovevano sempre tenere il numero d’ordine
di partenza, ossia non potevano superarsi e dovevano mantenere una velocità media di circa 30 km. Tutti i partecipanti all’atto dell’iscrizione dovevano pagare una tassa che
sarebbe servita per il pagamento di rifornimento di olio e di
benzina, per il servizio di acqua per la lavatura, per la rimessa e per la custodia delle automobili.
Nonostante per tutti e sedici i giorni della manifestazione si
scatenarono diluvi, fulmini, acquazzoni, tormente di pioggia
e vento e tutti i partecipanti, oltre ad essere immersi nel fango, erano costretti quotidianamente ad una ricerca disperata
della benzina, perché mai videro arrivare nei luoghi di tappa, mediante il trasporto ferroviario, le taniche, che erano
state menzionate alla partenza, dall’organizzazione, i partecipanti trovarono sempre tuttavia il modo di divertirsi. Ad
ogni tappa venivano accolti da una folla che li acclamava
con euforia, da bande musicali, autorità schierate, bandiere
su tutti i balconi, mazzi di fiori gettati a profusione. Venivano anche invitati a partecipare a banchetti suntuosi, a tavole bandite, a spettacoli, a cene di gala.
Purtroppo tuttavia, durante la manifestazione, avvenne un
incidente, nel quale perse la vita una bambina di undici anni,
Armida Montanari, travolta dall’automobile di uno dei concorrenti partecipante al Giro. Il conducente elargì 1000 lire
alla famiglia in lutto e 500 lire ai poveri del paese.Tutti gli
altri conducenti fecero una colletta per dotare il villaggio di
24
I - L’ERA
DELL’AUTOMOBILE
un asilo (furono raccolte ben 2000 lire). Ci fu una grande
emozione per l’accaduto e molti rifletterono su ciò che si
andava pubblicizzando con quell’evento: un mezzo di trasporto causa di disgrazie? E ancora cominciò da qui l’esigenza di una cultura sulla sicurezza stradale?
Però tutto poi riprese “nella normalità” e fino alla fine del
giro non diminuì il tono festoso. Alla chiusura, in uno degli
ultimi banchetti del Giro d’Italia fu esposto un “artistico
automobile di croccante”10.
Nel frattempo sul finire di maggio, a Bologna, il Touring
Club Italiano tenne un Congresso Nazionale e votò affinché
per il Regolamento promulgato da Vittorio Emanuele III,
venisse deciso, una volta per tutte, quale fosse la mano da
tenere sulle strade d’Italia e avanzò la proposta che i veicoli
“fossero obbligati a tenere la sinistra all’incontro di altri veicoli e la destra nell’oltrepassarli”. Chiaramente il modello di
riferimento fu quello inglese ma non venne adottato a lungo,
infatti, già pochi mesi dopo, il 28 luglio del 1901, venne
approvato con Decreto Regio n. 416 un nuovo Regolamento stradale, in sostituzione di quello varato precedentemente
e definitivamente cassato.
La disciplina della circolazione risultava ripartita in tre testi
normativi: il regolamento sulla circolazione dei veicoli e
degli animali (R.D. 10 marzo 1881 n. 124); il regolamento
10. Donatella Biffignandi, marzo 2001 - Giro d’Italia del 1901.
www.museoauto.it. Si ricorda altresì che agli inizi del 1900 la parola automobile era considerata come un sostantivo maschile.
25
Lei non sa chi sono io - L’AUTOMOBILE
sulla circolazione dei velocipedi11 ed infine il testo relativo
alla disciplina della circolazione delle automobili.
La Rivista l’Automobile del 1 ottobre 1901, pubblicò, in due
puntate, il testo integrale del Regolamento: “Quell’aborto
legislativo che fu il Regolamento 28 luglio 1901 sulla circolazione delle automobili comincia a far parlare di sé. Nelle
sfere amministrative non sanno raccapezzarsi per rendere
attuabile ciò che non è né potrà mai essere logicamente
attuato. Intanto per ora il motorista ossequiente delle leggi è
mandato da Erode a Pilato, e può già fare un istruttivo esercizio colla sua macchina viaggiando dal Prefetto alla Questura, da questa al Sindaco, al genio civile ed a tante altre
autorità”12.
In tale Regolamento erano, appunto, racchiuse le prime
disposizioni inerenti “agli automobili”13 e quindi alle verifiche tecniche e alle caratteristiche di sicurezza. Era espressamente previsto che il “congegno meccanico” dovesse avere
dispositivi di sicurezza tali da evitare incidenti o esplosioni e
dovesse addurre il minor possibile incomodo per il pubblico.
Ogni veicolo doveva portare sul davanti due fanali, uno a
luce verde da collocarsi a sinistra e dietro un fanale a luce
rossa. Non mancavano, (seppur notevolmente criticate, per11. R.D. 16 dicembre 1897 n. 540. Il Velocipede è secondo l’accezione
comune, il nome attribuito all’antenato dell’odierna bicicletta.
12. Donatella Biffignandi, marzo 2001 - Giro d’Italia del 1901 www.museoauto.it.
13. V. nota 12.
26
I - L’ERA
DELL’AUTOMOBILE
ché giudicate ridicole), le norme relative a “un segnale di
avviso speciale a uso esclusivo degli automobilisti” e cioè il
clacson.
Non furono ben accette le disposizioni che di fatto introdussero la licenza a guidare, ovvero la patente. La tesi degli
oppositori a questa norma si basava sull’assunto secondo il
quale lo Stato, in questo modo, si sarebbe fatto dispensatore di abilità e capacità nel tenere la guida, cosa che in realtà,
non poteva essere valutata e constatata con obiettività.
Insomma il rilascio della patente avrebbe potuto infondere,
ai neoguidatori, una falsa sicurezza, portatrice di guai.
Comunque conseguire un particolare documento per la guida, divenne obbligatorio a partire dal 1905, fino ad allora
era prevista una licenza costituita da un libretto sul quale
dovevano essere annotate le eventuali contravvenzioni.
In quell’anno il signor Carlo Carulli, divenne il primo cittadino di Cremona in grado di guidare un’auto a tutti gli effetti. Infatti sostenne l’esame di guida che si concretizzò in una
passeggiata dove lui stesso illustrò all’ingegnere che lo stava
esaminando i particolari tecnici del veicolo a motore. Ottenne così la licenza di conduttore. Il signor Carulli decise, a
partire dal 1910, di costituire la prima attività di servizio
pubblico; allora una corsa in città costava lire 1,50 ma per i
lunghi viaggi si richiedevano dagli 80 ai 90 centesimi al Km.
Il costo della benzina era di 40 centesimi al litro14.
14. La Storia di Carlo Carulli (1880-1943) - www.museoautobile.it.
27
Lei non sa chi sono io - L’AUTOMOBILE
Per il trasporto di persone, lo “chauffeur” Carulli utilizzava
una “Gnome”, un’automobile dotata di trasmissione finale a
catena della quale lui stesso fu meccanico autodidatta.
MANO DA TENERE NEL REGOLAMENTO
DEL 1905 E SUCCESSIVI TESTI NORMATIVI.
Come è emerso nelle discussioni precedenti, una delle questioni più complesse in materia di circolazione stradale fu
quella della mano da tenere, che sembrò essere apparentemente superata con il Regio Decreto 8 gennaio 1905 n. 24
denominato “Regolamento di polizia stradale e per garantire
la libertà della circolazione e la sicurezza del transito sulle
strade pubbliche”. Con tale testo, infatti, venne introdotta la
norma per la quale i veicoli nel procedere sulla strada dovevano tenere costantemente la destra e solo per oltrepassarne
altri veicoli la sinistra15. Tuttavia alle città che avevano più di
25.000 abitanti fu riservata la facoltà di prescrivere che all’interno del loro abitato si potesse tenere la sinistra, purché
provvedessero ad avvisare gli stranieri tramite la segnalazione di appositi cartelli con la scritta “Tenere la sinistra”. Ne
derivò, com’è facilmente intuibile, una gran confusione.
Per il resto il Regolamento del 1905, sostanzialmente, riprodusse con qualche modifica le disposizioni relative alla conservazione delle strade, diede ordine alle norme sulle automobili introducendo l’obbligo della targa anteriore e poste-
15. Così DUNI M., op. cit.
28
I - L’ERA
DELL’AUTOMOBILE
riore, indicante sia il numero della provincia sia quello d’ordine progressivo. Quanto alla velocità furono stabiliti i limiti massimi di 12 km/h negli abitati (trotto di un cavallo) e di
40 km/h in aperta campagna e inoltre non solo ci si sarebbe
dovuti adeguare alle ulteriori disposizioni eventualmente
emesse dai Comuni, ma lo “chauffeur” avrebbe dovuto
moderare la velocità in tratti di strada pericolosi (curve, dossi, pendenze) “ogni qualvolta vi fosse stato pericolo di accidenti, o di spavento a persone o ad animali”.
Il termine accidente non a caso veniva utilizzato, dal Regolamento del 1901.
L’etimologia della parola (colpire improvvisamente, venire
dall’alto), infatti, indicava la fatalità che, ai tempi, si attribuiva all’accaduto nel caso in cui l’automobilista, preso
d’impeto, si spingeva a velocità mai conosciute. Successivamente il termine venne sostituito, sia da parte della stampa
che del linguaggio comune, dalla parola incidente16. Dunque,
secondo un’interpretazione, (forse un po’ di ampio respiro),
si passò da una visione fatalistica dell’evento ad una visione
razionale, dovuta ad un fatto, un evento che interrompe
improvvisamente il procedere regolare di un’azione a causa
dell’irregolarità del manto stradale.
Dopo appena quattro anni dall’entrata in vigore della normativa del 1905, fu per la prima volta esattamente indicato
16. Il cui significato – dal latino incidere – sta per l’incontro tra linee che
si muovono sullo stesso piano.
29
Lei non sa chi sono io - L’AUTOMOBILE
l’oggetto della disciplina e l’autorità amministrativa preposta a questo settore.
Invece due importanti elementi, assenti nei testi precedenti,
vennero considerati nell’art. 1 del Testo normativo del 1909
così specificati: “Tutti i veicoli a trazione meccanica
destinati a circolare senza guida di rotaie sulle strade ordinarie, sono soggetti alle norme del presente Regolamento e
sono sottoposti alla vigilanza del Ministero dei Lavori Pubblici (Ufficio speciale delle ferrovie)17.
Risultò più dettagliata ed esauriente la disciplina dell’ammissione alla circolazione per ciò che concerne la fase degli
accertamenti tecnici della idoneità dei veicoli e quella del
rilascio della carta di circolazione. Venne inoltre introdotta
la nozione di “destinazione ad uso pubblico” dei veicoli,
solo presupposta dai precedenti testi.
Dall’esame delle norme sin qui analizzate risulta come la
materia della circolazione stradale sia stata sempre di competenza degli organi del potere esecutivo, ne conseguiva, perciò, che l’abbondanza di Regolamenti, che modificavano
continuamente le norme, aggrovigliasse la materia più di
quanto non la chiarificasse.
17. Il Regolamento del 1909 era distinto in cinque titoli: il primo relativo alle norme generali sulla circolazione (artt. 1 a 15), il secondo contenente le disposizioni relative ai veicoli ad uso privato; il terzo quelle relative ai veicoli in servizio pubblico (artt. 29 a 56); il quarto le norme relative alle contravvenzioni (artt. 57 a 66) ed il quinto disposizioni generali e transitorie (artt. 67 e 69). In tal senso DUNI M., op. cit.
30
I - L’ERA
DELL’AUTOMOBILE
Giustificabile fu, pertanto, la promulgazione della legge 30
giugno 1912, n. 739 nella quale furono fissati i principi
generali della disciplina della circolazione dei veicoli a trazione meccanica, ossia: i poteri delle autorità amministrative, l’ammissione alla circolazione dei veicoli, l’accertamento
dell’idoneità dei conducenti, nonché i casi in cui il relativo
certificato per la guida (patente) dovesse essere ritirato e infine taluni precetti di comportamento con la conseguente procedura di accertamento delle contravvenzioni. Tutto ciò allo
scopo di richiamare solennemente i cittadini, a garanzia della sicurezza e dei diritti di tutti, alla osservanza degli obblighi loro imposti da una prudente circolazione stradale.
Data la natura tecnica di molte disposizioni fu prevista
l’emanazione di un Regolamento, approvato con R.D. 2
luglio 1914 n. 811, di attuazione della legge menzionata.
In tale testo furono introdotte anche una serie di nuove
disposizioni quali la disciplina del servizio di piazza, le scuole per i conducenti e i segnali stradali.
I TENTATIVI DI AGGIRARE LE NORME
DA PARTE DEI “PREPOTENTI DEL POTERE”.
L’irruzione del nuovo mezzo intaccò le certezze e destabilizzò i ruoli.
In particolare l’ostilità tra chi stava al volante e chi era
addetto a far rispettare le prime norme sulla circolazione era
molto frequente agli inizi del 900, quando ancora non veniva avvertita la funzione deterrente delle stesse.
Tra i molti procedimenti giudiziari relativi al rapporto tra i
31
Lei non sa chi sono io - L’AUTOMOBILE
tutori dell’ordine e il guidatore, merita di esserne segnalato
uno. Il fatto è riportato in un verbale di contravvenzione del
31 ottobre 1911 esteso da Giuseppe Fiorini, brigadiere di
Polizia urbana nel Comune di Cesena. Dall’atto si evince che
mentre il tutore dell’ordine era in servizio vide arrivare un
auto che avvisava i passanti con una tromba a diversi suoni,
comportamento vietato dall’art. 6 del Regolamento del 29
luglio del 1909. Dopo aver intimato al guidatore di non usare quel suono, il brigadiere riferì di essere stato aggredito
verbalmente e con disprezzo dall’automobilista con tali
parole: “farà i conti con me, sono un deputato e prima di
pagare devono demandare l’autorizzazione a procedere”.
Subito dopo, il brigadiere raccontò che l’uomo si era allontanato continuando a suonare la tromba a forti suoni, con
evidente disprezzo nei confronti delle autorità18.
Nel corso dell’anno precedente, diversi colleghi del deputato
in questione, erano stati sottoposti a contravvenzioni stradali per eccesso di velocità e invece di porre mano al portafoglio e pagare, si erano tutti rifiutati di sottostare all’oblazione prevista dall’articolo 67 del Regolamento di Polizia del
1905. Avrebbero dovuto “sborsare” in realtà poche decine
di lire, ma si rifiutavano di farlo perché ritenevano la loro
parola più degna di rispetto, di quella dei tutori dell’ordine.
Ad esempio nel caso di altro deputato e principe, Alberto
Giovannelli–Chigi, le contravvenzioni accumulate per ecces-
18. Per un ulteriore approfondimento vedi BOATTI G., op. cit.
32
I - L’ERA
DELL’AUTOMOBILE
so di velocità, furono due. Anche in questo caso si assistette
al rifiuto dell’oblazione. Ovviamente, il problema non stava
affatto nelle decine di lire da pagare, ma nel dimostrare
quanto un modesto tutore dell’ordine non potesse e non
dovesse invadere l’intangibilità di un potente.
LA NASCITA DEI CARTELLI STRADALI.
Nella rivista mensile del Touring Club Italiano di allora si
leggeva: “Se dall’alto delle Piramidi quaranta secoli di storia
consigliavano i soldati di Napoleone, dall’alto del suo palo,
di ferro o di legno, il cartello consiglierà i turisti che passano per la via”.
Un ruolo fondamentale per il miglioramento del servizio di
segnaletica stradale lo ebbe il Touring Club Italiano. Per facilitare e garantire un più agevole passaggio o permanenza nelle singole località ai suoi soci, l’Associazione ebbe anche
come obiettivo quello di curare la manutenzione delle vie di
comunicazione, nonché quello di collocare speciali indicatori ai crocicchi delle strade ed in località pericolose19.
Fu la prima volta in cui vennero menzionati i segnali stradali, nei confronti dei quali sin da subito il Touring Club Italiano mostrò un vivo interesse, tanto è vero che in una delle
relazioni del neoformato Consiglio si leggeva: “una somma
importante dovrebbe essere appostata in bilancio per dare a
19. Sul punto è possibile consultare l’articolo di BIFFIGNANDI D., Quo
Vadis? Storia della segnaletica stradale, per Auto d’Epoca, 29 settembre
2006 in www.museoauto.it.
33
Lei non sa chi sono io - L’AUTOMOBILE
questo servizio un certo sviluppo contemporaneamente in
tutta Italia”.
Grazie all’iniziativa di cui il Touring Club Italiano si fece
promotore furono raccolti negli anni fondi da parte di cittadini privati, amministrazioni comunali e provinciali, delegazioni consolari dello stesso TCI e da società di vario genere.
Un’impresa difficile che dovette fare i conti tra i vari problemi, con la morfologia eterogenea del nostro territorio, con la
scarsa alfabetizzazione e con il susseguirsi delle due guerre
mondiali.
A tal proposito ricordiamo l’operazione “cartelli indicatori”
che, però, ebbe un esito difforme nelle varie regioni d’Italia.
Infatti, sui 1219 cartelli collocati durante il 1903, ben 834
erano disposti nell’Italia settentrionale, 288 in quella centrale, 45 nell’Italia meridionale e solo 14 in Sicilia20.
Il collocamento di questi cartelli, indicanti il nome della
località, una freccia, un dato chilometrico rappresentò anche
uno strumento pubblicitario per i soci del TCI. La rivista dell’associazione del maggio del 1903 così scrisse: “Insieme al
consiglio il turista potrà mandare un saluto non solo al TCI
ma anche al buon socio che si sarà assunta la spesa del cartello, e il cui nome apparirà sul cartello stesso, come la carta da visita di un amico”.
L’idea del Touring Club Italiano si rilevò presto vincente e
particolarmente attraente per i nostri vanitosi concittadini di
20. In tal senso G. BOATTI, op. cit.
34
I - L’ERA
DELL’AUTOMOBILE
allora che poterono leggere il proprio nome sulle strade.
A tal fine ogni mese nelle riviste erano pubblicate “le schede
di sottoscrizione per cartelli indicatori” in cui poter inserire
le proprie offerte, dieci lire per un cartello la cui collocazione sarebbe stata decisa dal TCI e venti lire per un cartello a
collocazione decisa dal donatore.
Tra i firmatari illustri vi fu anche il re d’Italia Vittorio Emanuele III che mise a disposizione del Touring Club Italiano
ben 1000 lire, perché venissero utilizzate nel collocamento di
cartelli nella provincia di Roma, (così scrisse il Ministro della Casa Reale, gen. Ponzio Vaglia).
Per diffondere il maggior numero di segnali stradali l’Associazione decise di fornirli alle pubbliche amministrazioni tramite una circolare, con cui spiegò i criteri da seguire nella
loro sistemazione e i dati tecnici per la loro messa in opera.
Per esempio venne indicato che i pali dovevano essere “preferibilmente di legno di castagno, con altezza di metri quattro circa e il diametro da 12 a 15 centimetri. La parte da
infiggersi nel terreno doveva essere abbruciata o, perché vi
possa solidamente aderire, si consiglia munire la base con
qualche mensoletta e gettarvi sopra, riempiendo la buca, della malta grossolana fatta con calce idraulica”. Sempre nella
circolare vennero menzionate le diverse categorie di segnalazione: i cartelli di direzione, quelli di rallentamento e quelli
di pericolo.
Occorre ricordare che il Touring Club Italiano non si limitò
ad ottemperare alle prescrizione della Lega Internazionale
delle Associazioni turistiche, che stabilì la riforma dei cartel35
Lei non sa chi sono io - L’AUTOMOBILE
li sostituendo alle diciture sino ad allora utilizzate dei segnali convenzionali, ma decise di aggiungervi la relativa trascrizione ortografica21.
Per cui un cartello, ad esempio, con una freccia ad angolo
indicante un difficile tornante era sempre accompagnato dalla locuzione “svolto pericoloso”, sintomo indubbio di una
società legata ad una comunicazione fatta di parole e non
ancora matura per un codice di soli simboli e immagini
com’è , invece, l’attuale.
21. L’opera del TCI proseguì negli anni successivi sino allo scoppio della Grande Guerra, senza, però, riuscire ad eliminare le differenze tra le
varie zone della Penisola. Grazie alla collaborazione degli Enti provinciali erano meglio segnalate le strade provinciali, mentre meno quelle nazionali e comunali. Per fronteggiare a queste mancanze così come per ovviare ai gravi danni causati, successivamente, dalla Seconda Guerra Mondiale, il Touring ricevette il prezioso apporto dell’ACI con cui formò un
Ufficio Tecnico Segnalazioni, guidato da una Commissione di quattro
membri, in carica per quattro anni durante i quali furono collocati decine di migliaia di cartelli.
36
II - I
PRIMI CODICI DELLA STRADA
II
I PRIMI CODICI DELLA STRADA
IL PRIMO CODICE DELLA STRADA.
L’excursus normativo22 descritto nel capitolo precedente portò, come suo naturale esito, nel 1923 al regio decreto 31
dicembre n. 304323, che fu il primo vero Codice della Strada
a fare la sua comparsa in Italia.
Con esso vennero meglio valutate le esigenze del nuovo
ritrovato della scienza moderna, ritenuto non più come una
22. A seguito del Regolamento del 1914 merita ricordare il solo testo
legislativo che si occupò di un settore non specifico della circolazione dei
veicoli semoventi senza guida di rotaie, il Regolamento approvato con
R.D. 1915 n. 1453, relativo alle ruote dei cerchioni dei veicoli circolanti sulle strade ordinarie di uso pubblico, affinché in tutto il Regno venisse disciplinata in modo uniforme la loro larghezza.
23. Il provvedimento legislativo che abrogò espressamente tutte le disposizioni in vigore inerenti alla disciplina della circolazione, salve quelle
relative alla circolazione delle ferrovie e delle tramvie, fu un testo organico composto di 94 articoli distinti in sette Titoli: il primo contenente
le disposizioni generali sulla circolazione (artt. 1-13); il secondo le
disposizioni relative agli autoveicoli (artt. 30-74) distinto in quattro
capi, rispettivamente relativi alle norme generali, alla circolazione degli
autoveicoli, alle norme generali sui conducenti, alle norme speciali per
gli autoveicoli; il titolo quarto riguardava i velocipedi (artt. 75-78); il
quinto la responsabilità e le sanzioni (artt. 79-90), il sesto i regolamenti
comunali (artt. 91 e 92) ed il settimo le disposizioni circa l’entrata in
vigore e le disposizioni transitorie (articoli 93 e 94). In tal senso G.
BOATTI, op. cit.
37
Lei non sa chi sono io - L’AUTOMOBILE
semplice manifestazione di oziosa agiatezza ma, soprattutto,
uno strumento di lavoro nel ritmo sempre più frenetico della moderna civiltà. Appare evidente che la sistemazione delle norme, che avevano caratterizzato tutto il periodo precedente in un unico testo, giovò alla comprensione ed all’applicazione della disciplina.
Il testo in esame disciplinò la circolazione dei veicoli e degli
animali sulle strade ed aree di uso pubblico e ad esse equiparate, dichiarate per la prima volta “libere”, nel senso che nessun pedaggio poteva essere imposto salvo quelli autorizzati
con le cautele e le modalità di cui agli articoli 38 e 40 della
legge generale sui lavori pubblici del 20 marzo 1865, n. 2248.
Nel Codice del 1923 furono inoltre menzionati espressamente, ai fini dell’applicazione delle norme ad esse inerenti, i veicoli a trazione animale, quelli trascinati a braccia, slitte,
greggi, velocipedi ed infine la vasta categoria degli autoveicoli che comprendeva le automobili, i motocicli, i compressori stradali, le trattrici stradali.
Merita inoltre esser segnalato come il testo legislativo tornò ad affrontare la ingarbugliata questione della “mano da
tenere” senza, però, riuscire a dettarne una disciplina inequivocabile.
Dopo quindici mesi dall’emanazione del nuovo Codice,
nella rivista Auto Italiana del 15 marzo 1925, si leggeva
che “a decorrere dal 1 marzo a Roma è stato attuato il
cambiamento del senso di circolazione da sinistra a destra.
Così ora entrando a Milano l’automobilista che avrà girato tutta l’Italia tenendo la destra dovrà passare a sinistra.
38
II - I
PRIMI CODICI DELLA STRADA
Per una volta tanto la capitale morale ha voluto mostrarsi
retrograda di fronte alla capitale reale”. Da questo si poteva dedurre che non si era ancora arrivati alla completa
applicazione del Codice, e questo perché non fu semplice
seguire la normativa. Infatti non fu scritto, come sarebbe
stato auspicabile: la mano di circolazione per le automobili è a destra (disposizione che fu in questo modo prescritta
solo cinque anni più tardi, ai sensi dell’art. 25 del Codice
dl 1928), perché la chiarezza della norma, in tal caso, non
avrebbe suscitato difficoltà applicative, ma l’art. 7 dispose
che: “Tutti i veicoli, gli animali da tiro, da soma o da sella, le mandrie e le greggi circolanti sulle strade ordinarie
sia negli abitati sia in campagna, debbono portarsi a destra
per incrociare ed alla sinistra per oltrepassare, avendo cura
nelle svolte di mantenere la propria mano. Ogni veicolo
che durante la marcia si mantenga nel centro della strada
ha l’obbligo di portarsi alla sua destra ogni qualvolta un
veicolo che lo segue lo abbia richiamato con segnalazioni”.
In pratica regnava sovrana l’anarchia circolatoria; il veicolo, insieme alle mandrie, poteva stare dove voleva, al centro, a destra o a sinistra, a condizione che si portasse alla
sua destra in caso di incrocio o se l’automobile che lo
seguiva gli suonava da dietro24. La situazione che ne disce24. Per una più approfondita disamina sull’argomento è possibile consultare l’articolo di BIFFIGNANDI D., Destra e sinistra per me pari
son… Quando la legge ti prende la mano, per Auto d’Epoca, 30 aprile
2003 in www.museoauto.it
39
Lei non sa chi sono io - L’AUTOMOBILE
se, com’è facilmente intuibile, fu di caos totale. Di nuovo,
come nel Regolamento del 1905 non si riuscì ad arrivare
ad una soluzione ottimale. Solamente nelle città, per la
presenza di continui incroci, fu facilmente applicabile la
normativa che prevedeva appunto il senso di circolazione
a destra.
Iniziarono a fioccare multe anche perché accadde, spesso,
che un automobilista venisse multato per essersi permesso di
fermarsi, senza spegnere il motore, sul lato sinistro della
strada: comportamento vietato sia ai sensi dell’art. 3: “i veicoli nelle loro eventuali fermate devono essere collocati sulla destra in modo da lasciare libero al passaggio la maggior
parte della larghezza stradale”; ma anche ai sensi dell’art. 7:
“tutti i veicoli devono portarsi alla sinistra per oltrepassare”,
poiché se un veicolo si fermava sul lato sbagliato obbligava
i sopraggiungenti a sorpassarlo alla sua destra. Ai malcapitati che venivano fermati, spettava il pagamento di 100 lire
di multa e per assurdo venivano consigliati dagli agenti di
usufruire della marcia indietro, in modo da fermarsi dove
volevano, purché non sostassero sulla sinistra, come vietava
il Codice. Che strani o meglio che pericolosi consigli!
A complicare lo stato delle cose fu la collocazione del volante nelle automobili circolanti in Italia, che fin dall’inizio fu a
destra. Per cui ci si trovò da una parte con un Codice che
imponeva, con scarsa chiarezza, la mano a destra, e dall’altra con la maggioranza delle vetture che avevano il volante a
destra, contravvenendo quindi al principio, oggi naturale,
secondo cui il guidatore deve stare seduto dalla parte oppo40
II - I
PRIMI CODICI DELLA STRADA
sta al senso di marcia. Invero, tenendo la destra e con il conducente seduto a destra, quest’ultimo si trovava nella stessa
condizione del guidatore del veicolo che incrociava, in tal
modo i due automobilisti essendo separati dalla larghezza
delle due carrozzerie e non potendo vedere il lato della
rispettiva vettura, potevano creare un pericolo di scontro
l’una con l’altra.
Il pericolo cresceva quando al fianco del guidatore vi era un
altro passeggero.
E i disagi non finirono certo qui.
Come si poteva affrontare un sorpasso con la dovuta sicurezza in queste condizioni? E gli eventuali passeggeri che
dovevano scendere dalla vettura, una volta giunti a destinazione, come potevano farlo, senza rischiare la vita non trovandosi dal lato del marciapiede?
Nella rivista Auto italiana il giornalista Aldo Farinelli, scrisse: “il solito, deprecabile snobismo degli anni d’anteguerra,
la solita pedissequa ammirazione per i modelli stranieri ci
fece assumere senz’altro la guida a destra come sulle macchine inglesi, senza che ci accorgessimo che era in diretta ed
esclusiva relazione colla mano destra. Disgraziatamente, il
pubblico automobilista si abituò talmente alla guida a destra
che anche dopo l’emanazione del nuovo Codice si guardò
bene dal cambiare opinione. Forse, se la FIAT avesse saputo
e potuto applicare la guida a sinistra su tutti i nuovi modelli e le nuove macchine destinate al consumo interno…” Farinelli sosteneva anche che “l’innegabilmente alta percentuale
di sinistri che affligge l’automobilista italiano nel confronto
41
Lei non sa chi sono io - L’AUTOMOBILE
con le nazioni dalla circolazione razionale dipende non tanto dalle nostre fregole velocistiche… ma principalmente dal
doversi portare a sinistra della strada per oltrepassare il veicolo più lento, avendo la visuale completamente ostruita”. E
vi era anche un altro elemento presente nelle strade italiane
a renderle più pericolose: l’infossamento della strada sui due
lati, la cosiddetta “curvatura a schiena d’asino” della sezione stradale.
Un problema che si ripercuoteva sulla stabilità dell’automobile e quindi sulla sicurezza delle persone, quando si creava
uno sbilanciamento dovuto dal peso del conducente sulla
destra e dell’eventuale passeggero posteriore, che appunto
per la pendenza, sceglieva di sedersi sempre nella postazione
di destra.
Per evitare che sconvenienze di questo tipo continuassero nel
tempo, non mancò chi sollevò il problema, auspicando come
soluzione la fabbricazione delle automobili con volante a
sinistra. Ma non fu così semplice come pensarla, riuscire ad
applicare questa soluzione! Perché per esempio avrebbe creato un grave danno alle case automobiliste che avevano prodotto macchine con il volante a destra e agli stessi guidatori
abituati a quella guida.
La FIAT, quindi, nel 1927 rispose alle proteste, mettendo sul
mercato la 520 a sei cilindri, con la guida a sinistra di serie,
risolvendo così l’annosa questione.
Certo è che questa non fu la sola novità che riguardò gli
automobilisti, in quegli anni. Ad esempio in Lombardia, già
dal primo aprile del 1925, venne sperimentato il primo
42
II - I
PRIMI CODICI DELLA STRADA
semaforo, così descritto da un corrispondente dell’epoca:
“Lì, nel centro del fatal crocicchio, l’innocente sostegno di
una lampada è divenuto il pilone del sistema circolatorio,
l’albero maestro di una incredibile giostra, il fulcro dell’ordine nuovo. Il semaforo campeggia e risplende su quell’antenna, superbo e misterioso come un oracolo”.
Funzionava quotidianamente dalle 15,15 alle 19,15 e si illuminava con una luce rossa indicante lo stop per le automobili e i motocicli; bianca e rossa per il via ai pedoni, e lo stop
ai veicoli; gialla per il via ai tram; verde per il via alle automobili e ai motocicli.
Tuttavia il semaforo, inizialmente, non realizzò la funzione
per cui era stato creato ossia quella della regolamentazione
del traffico, perché il pubblico, non abituato a tali segnalazioni luminose, non si adeguò ad esse ma, anzi, fu catturato
dalla curiosità di ammirarle. E infatti invece di circolare, le
automobili, le carrozze, le biciclette, le motociclette e i rimanenti veicoli stavano fermi, inchiodati nelle vie creando lunghissime code su più file e “strombazzando all’impazzata”
per protesta. Anche l’invenzione del semaforo dunque non
piacque molto agli italiani.
Ci fu invece una nuova figura giuridica all’interno del Codice del 1923 che fu particolarmente apprezzata e alla quale gli
italiani non vollero più rinunciare, la conciliazione. “Non si
procede contro chi, essendo stato colto in contravvenzione
alle disposizione del presente Decreto, per le quali sia comminata l’ammenda in misura non superiore nel massimo a
lire duecento, versi immediatamente la somma di lire venti43
Lei non sa chi sono io - L’AUTOMOBILE
cinque quando sia conducente di autoveicoli, e di lire dieci
negli altri casi, al funzionario od agente che accerta la contravvenzione. Questi ne rilascia ricevuta, staccandola da
apposito bollettario”25 . Tale istituto offrì così al trasgressore la possibilità di evitare il procedimento sanzionatorio
penale, con il conseguente pagamento di un’ammenda di lire
duecento. È forse la prima rudimentale forma di pagamento
in misura ridotta, istituto che troverà poi una sua compiuta
regolamentazione soltanto con la legge di depenalizzazione
del 24 novembre 1981, n. 689.
IL P.R.A.
Sin qui sono state esaminate alcune tra le norme che disciplinarono, a partire dal 1923, la circolazione fisica dei veicoli,
mostrando particolare attenzione alla regolamentazione dei
rapporti derivanti dall’utilizzo delle automobili, senza che,
però, nulla venisse stabilito dal Codice in merito al profilo
giuridico di quest’ultime. Invero per risolvere i conflitti sulla
proprietà dei veicoli si ricorreva al Codice Civile del 1865
che all’art. 707 prescriveva che per tutti i beni mobili comuni valeva il principio “possesso vale titolo”, norma quindi
estensibile anche all’automobile.
Non esisteva, quindi, un regime giuridico pubblicitario sia
perché, in quell’epoca, si dava maggiore rilevanza all’interesse economico e sociale dei soli beni immobili, sia perché l’au-
25. Art. 85 del Codice della Strada del 1923.
44
II - I
PRIMI CODICI DELLA STRADA
toveicolo non si era ancora imposto nella società come
signore quasi assoluto della strada, per cui non riceveva piena dignità giuridica.
Sussistevano solo i Registri delle “Immatricolazioni” detenuti dalle Prefetture nei quali annotare le licenze e i trapassi di
proprietà entro 10 giorni, ai sensi del R.D. 2.7.1914 n. 811.
Tuttavia non mancavano le lacune perché tali registri non
stabilivano nulla sul piano giuridico (diritto di proprietà,
conflitti sulla proprietà ecc.) e quindi risultavano, praticamente, inutilizzabili.
Per intendersi meglio, chi possedeva un veicolo, ignorando
di ledere un altrui diritto, era considerato legittimo proprietario (perché il possesso di buona fede è un acquisto a titolo
originario) a discapito del precedente, che non avrebbe potuto esercitare l’azione di rivendicazione.
Ulteriore conseguenza era quella sul piano della certezza dei
rapporti giuridici, non garantita, certo, da una pubblicità,
quale è il possesso, fine a sé stesso, perché non basato su un
atto o su un titolo di cui i terzi potessero prendere conoscenza. Non vanno neanche sottovalutate le difficoltà scaturenti
dalla vendita dei veicoli, soprattutto agli inizi, acquistati a
rate, con la conseguenza che il venditore che fosse stato creditore in tutto o in parte del prezzo, restava proprietario del
veicolo sino al completo pagamento dell’importo del bene
(c.d. patto di riservato dominio che sussiste attualmente).
Necessariamente sorse il problema se attribuire la responsabilità per danni dalla circolazione dell’auto al venditore o
all’acquirente.
45
Lei non sa chi sono io - L’AUTOMOBILE
Per ovviare a tali principali difficoltà di carattere giuridico,
ma soprattutto per rispondere all’esigenza economico-politica di diffusione dell’automobile, nacque nel 1927 il PRA,
come Registro Generale delle vicende giuridiche dei veicoli
(del diritto di proprietà, degli altri diritti reali di godimento
su di essi e dell’ipoteca o privilegio sugli stessi, quindi dei
diritti reali di garanzia)26.
Non fu un provvedimento di poco conto dato che il fine fu
soprattutto quello di creare una mentalità favorevole alla
propaganda dell’automobile. In tal modo, infatti, Mussolini
volle dare un segno molto chiaro: recuperare l’industria
metalmeccanica italiana rispetto a quelle più produttive degli
altri Paesi europei, così che ne guadagnasse in immagine il
regime stesso e suscitasse, conseguentemente, maggiore consenso.
Il P.R.A. venne istituito con R.D. del 15 marzo 1927, n. 436
e fu affidato all’ACI. Con tale scelta, che quindi non fu
casuale, i cittadini guidatori diventarono gestori di un servizio pubblico del quale erano destinatari.
Gli scopi del P.R.A. erano dunque diversi. Innanzitutto con
tale registro venne garantito un regime pubblicitario su tutti
gli atti relativi agli autoveicoli, precedentemente immatricolati presso le Prefetture, purché legali, venendo così supera26. È possibile trovar maggiori informazioni sull’argomento consultando l’articolo di AZZARITA F., La storia del P.R.A. Pubblico Registro
Automobilistico in Rivista giuridica della Circolazione e dei Trasporti,
Automobile Club d’Italia, 2007.
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II - I
PRIMI CODICI DELLA STRADA
to il principio del possesso come titolarità. Venne quindi
disciplinato l’istituto dell’ipoteca automobilistica a favore
del venditore, estesa al terzo sovventore, per la parte del
prezzo non pagata. In tal modo si ebbe una prima regolamentazione del credito automobilistico, destinato con il
Codice Civile del 1942 a ricevere una più puntuale disciplina con l’art. 2810.
Merita poi esser ricordato come il P.R.A. servì da base per la
riscossione delle tasse automobilistiche e per la distribuzione
delle targhe dei veicoli. È evidente, pertanto, come le finalità più rilevanti della creazione di tale sistema pubblicitario
riguardarono la tutela della buona fede e dell’affidamento
dei terzi, nel senso che qualora quest’ultimi avessero voluto
acquistare o fare credito su di un veicolo, avrebbero trovato
garanzia nella titolarità della proprietà in capo al soggetto
risultante dal P.R.A.
Per quanto riguarda l’ambito di applicabilità della normativa del 1927, proprio perché speciale, tale disciplina inizialmente non cambiò la regola generale del “possesso vale titolo” stabilita nell’art. 707 de Codice del 1865 e trovò attuazione solo per i casi sottratti alla normativa comune. Solo
più tardi, con l’art. 815 del nuovo Codice Civile del 1942
venne espressamente abrogata la regola del “possesso vale
titolo”, con la specifica invece che “i beni mobili registrati
sono sottratti alle regole dei beni mobili comuni”.
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Lei non sa chi sono io - L’AUTOMOBILE
BREVI CENNI SULLA RATIO DELLE NORME
DEL CODICE DELLA STRADA DEL 1928.
L’evoluzione legislativa, le cui tappe più rilevanti sono state
delineate nei paragrafi precedenti, portò ad un quinquennio
di modifiche27 alle quali seguì la sostituzione del testo normativo in materia di circolazione stradale (Codice del 1923)
con altro provvedimento.
In base ai poteri conferiti al Governo dalla legge 31 gennaio
1926, n. 100 e per la necessità di fondere in un solo testo e
coordinare sia tutte le norme concernenti la polizia che quelle inerenti le strade, eliminando le molteplici leggi o regolamenti in cui esse erano comprese, fu approvato con R.D. 2
dicembre 1928, n. 3179 il nuovo Codice per la tutela delle
strade e per la circolazione28.
La maggior parte di questi regolamenti, purtroppo però,
27. Tra le più rilevanti ricordiamo: il R.D.L. 13 marzo 1927, n. 314 e il
R.D.L. 27 novembre 1927, n. 2445 che dettero una nuova disciplina
della targhe degli autoveicoli determinandone i contrassegni e le caratteristiche; il R.D.L. 4 settembre 1925, n. 1751 convertito in legge del 18
marzo 1926, n. 5652 con cui fu dettata la nuova disciplina delle segnalazione dei passaggi a livello incustoditi sia di ferrovie che di tramvie
extraurbane nell’interesse della incolumità pubblica.
28. Il Codice era ripartito in quattro Titoli: il primo conteneva la materia, che per lungo tempo era stata compresa sotto la denominazione di
polizia stradale, inerente appunto alla tutela delle strade e delle aree di
uso pubblico; il secondo conteneva le norme per la circolazione dei veicoli, degli animali e dei pedoni (per la prima volta la circolazione dei
pedoni trovava espresse disposizioni di carattere generale, già carente
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II - I
PRIMI CODICI DELLA STRADA
aveva ingarbugliato di più la situazione in materia di circolazione automobilistica, ostacolando una diffusione del veicolo a motore che invece procedeva speditamente nel resto
d’Europa.
Il criterio che ispirò la sistemazione della materia della circolazione stradale nel nuovo provvedimento fu improntato ad
affermare l’unità inscindibile del binomio veicolo-strada,
proprio nel momento in cui la strada e i suoi sistemi di
costruzione, in quasi tutto il mondo, si venivano rapidamente trasformando, sotto l’influsso dell’automobile.
Ma il merito che venne riconosciuto a tale testo fu soprattutto quello di aver segnato una nuova concezione dei diritti ed
obblighi dei diversi utenti della strada, non sempre esattamente compresi negli anni precedenti, in cui aveva predominato la preoccupazione di difesa prima contro il conducente
nei precedenti testi normativi i quali si limitavano a rinviare ai regolamenti municipali); il terzo Titolo riguardava gli autoveicoli ed i conducenti (limitazioni di velovelocità, norme relative alle targhe, all’illuminazione, all’incauto affidamento dei veicoli ecc.). Nello stesso titolo era
inserita un’importante disposizione con la quale il Ministero dei Lavori
Pubblici, prima unico organo amministrativo centrale cui era demandata la vigilanza sulla circolazione stradale, venne ad essere sostituito – sia
pure non completamente – dal Ministero delle Comunicazioni per quanto riguarda la vigilanza della circolazione dei veicoli ed a questo Ministero venne trasferito l’Ispettorato generale delle Ferrovie, tramvie ed
automobili, prima inquadrato nell’organizzazione del Ministero dei
Lavori Pubblici. Infine il titolo quarto conteneva le sanzioni e le relative norme di procedura.
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Lei non sa chi sono io - L’AUTOMOBILE
di veicoli in genere, dopo con particolare accanimento contro l’automobilista.
A tal proposito ricordiamo che soprattutto in età giolittiana
dominava una concezione che poteva essere così genericamente sintetizzata: “ogni cosa semovente era considerata
pericolosa socialmente e politicamente”. E questa diffidenza
fu tradotta, in concreti provvedimenti: per esempio, Giolitti
annunciò il raddoppio della tassa della circolazione quando
già i proprietari di automobili, presunti ricchi, erano gravati, all’atto di acquisto, dalla cosiddetta “tassa di lusso”.
Il Codice del 1928, diversamente, rappresentò sotto questo
aspetto una svolta, segno del cambiamento dei tempi, ed evidenziò un’apertura verso tale mezzo che si affermava sempre
di più, in relazione alle esigenze per cui esso era stato costruito e con la consacrazione del diritto del conducente di servirsi della strada.
Così pure, d’altra parte, la difesa ad ogni costo del pedone o
degli altri veicoli in genere era un non senso perché non
potevano essergli riconosciuti soltanto diritti ma anche doveri, imponendo a loro di provvedere, per quanto possibile,
alla rispettiva incolumità.
Per meglio chiarire il concetto, si riportano proprio due articoli del Codice in cui si rileva quali situazioni giuridiche soggettive, nel primo un diritto, e nel secondo un obbligo furono a
carico del pedone. In particolare l’art. 30, al primo comma,
così disponeva: “È vietato percorrere con veicoli od animali da
tiro, da soma e da sella le parti della strada riservate ai pedoni”; mentre l’art. 32 prescriveva: “l’obbligo di fermarsi a richie50
II - I
PRIMI CODICI DELLA STRADA
sta degli agenti incombe ai pedoni, perché il precetto legislativo si rivolge a chiunque circola sulle vie ed aree pubbliche”.
A tal proposito un giurista, analizzando qualche anno più
tardi l’argomento, scrisse che “la strada è un bene di diritto
pubblico e in tanto ogni utente ha diritto di servirsene, in
quanto il suo uso si manifesti e si contenga nei limiti fatti
palesi dalla destinazione della stessa.
Il pedone non può dire al carrettiere, come il carrettiere non
può dire all’automobilista: “la strada appartiene a me, nello
stesso modo che a te”. Ognuno deve invece armonizzare il
proprio diritto con quello del più voluminoso o del più veloce, giacché la pubblica amministrazione ha destinato la strada anche per questi e, ragionevolmente, con proporzione
corrispondente alle diverse esigenze, fra le quali, preminente, l’elemento della velocità”29.
In poche parole sopraggiunti i mezzi più veloci, prescindenti
dalle sole forze fisiche dell’uomo, si dovette tener conto dei
diversi bisogni ed esigenze dei vari utenti30 della strada e fu
29. PERETTI-GRIVA, Responsabilità civili attinenti alla circolazione dei
veicoli, in Rassegna Giuridica della Circolazione stradale - Anno I-1938.
30. Sempre l’art. 30 sopraindicato in merito alle Limitazioni speciali di
transito dopo aver vietato al primo comma di percorrere con veicoli od
animali da tiro, da soma e da sella le parti della strada riservate ai pedoni, al secondo comma specificava: “è fatta eccezione per i carrozzini od
altri veicoli spinti a mano, e destinati esclusivamente al trasporto di bambini, di invalidi o di infermi, nonché per i velocipedi condotti a mano”;
è una delle norme che specificano l’attenzione riposta dal Legislatore verso gli utenti della strada, indistintamente considerati.
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Lei non sa chi sono io - L’AUTOMOBILE
appunto di tale necessità che si preoccupò il legislatore nello
studiare ed emanare il Codice del 192831.
LA VELOCITÀ: SOTTO L’IMPERO
DELLE VECCHIE LEGGI E DEL CODICE DEL 1928.
Prima dell’unificazione delle norme sulla circolazione la
velocità dei veicoli era regolata da varie disposizioni.
Il primo Regolamento del 1901 inerente alle automobili,
anzi ai “veicoli semoventi senza guida di rotaie”, stabilì che
la velocità non superasse i 25 chilometri all’ora in aperta
campagna e “quella di un cavallo al trotto” circa 15 chilometri all’ora, nei centri abitati. Per di più, lo “chauffeur”
avrebbe dovuto, oltre che ottemperare alle ulteriori disposizioni eventualmente emesse dai Comuni, moderare la velocità nei tratti di strada pericolosi (curve, dossi) e ogni qualvolta potesse esservi pericolo per persone o animali.
La velocità salì progressivamente a 40 chilometri all’ora nel-
31. Merita segnalare alcune tra le norme del Codice che meglio rispecchiano le consuetudini stradali del tempo; per citarne una sono curiose le
fattispecie descritte dall’art. 29 ove alla voce Segnali disponevano che prima di sorpassare ovvero prima di incrociare nei punti malagevoli, in prossimità delle biforcazioni e dei crocevia e ogni qualvolta la strada non fosse libera o visibile per un tratto sufficiente, i conducenti erano tenuti a
richiamare l’attenzione degli altri conducenti e dei pedoni, facendo uso
dei segnali regolamentari o colla voce. Mentre quando un veicolo rallentava la sua velocità o doveva fermarsi, ovvero cambiare direzione o strada, il conducente era tenuto a far segno a coloro che lo seguivano, con la
mano o con apposito dispositivo meccanico.
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II - I
PRIMI CODICI DELLA STRADA
le successive elaborazioni dei Regolamenti sulla circolazione
stradale (tra il 1905 e il 1912) per arrivare a 50 Km/h, fuori
dei centri abitati, con il Regolamento n. 811 del 1914.
Questa situazione rimase immutata finché nel 1928 non
giunse il principio “liberi tutti su tutte le strade, comprese
quelle all’interno dei centri abitati”.
A tal proposito la rivista Auto Italiana scrisse: “l’utile missione civile del fattore velocità è stato compreso dal Regime,
che ne ha tollerato indulgentemente eccessi per non comprometterne i pregi”32.
Alla base di questo cambiamento furono addotte sia motivazioni politiche che sociologiche. Infatti, in primo luogo, il
regime fascista, instauratosi da pochi anni, ebbe bisogno per
affermarsi di un vasto consenso popolare, che sarebbe stato
più facile conquistare eliminando le restrizioni date dai limiti fissi di velocità.
Oltre a ciò, le migliorate condizioni stradali e della circolazione in genere, tanto nell’interno degli abitati, quanto
nelle campagne, la diffusione enorme dei mezzi di trasporto e specialmente dei velocipedi e degli autoveicoli, le esigenze della rapida vita moderna e la migliorata educazione del pubblico nei riguardi dei diritti e dei doveri inerenti
alla circolazione, consigliarono di non determinare la velocità dei veicoli con criteri rigidi ed uniformi, tranne che per
32. Sul punto è possibile consultare l’articolo di BIFFIGNANDI D., FIAT
508 Balilla, per Auto d’Epoca, aprile 2002, in www.museoauto.it
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Lei non sa chi sono io - L’AUTOMOBILE
gli autoveicoli in alcuni speciali casi, previsti dall’art. 65.
In particolare la norma dopo avere stabilito, al primo capoverso, che il conducente doveva essere “completamente
padrone della velocità del suo veicolo”, fissava un limite
massimo di velocità, non superiore ai 60 Km/h, solo per gli
autoveicoli di peso superiore a 40 quintali, per le maggiori
difficoltà che avrebbe presentato il loro arresto in presenza
di qualsiasi ostacolo, nonché in vista delle più pericolose
conseguenze derivabili in caso di sinistro.
Al di fuori di tali eccezioni vigeva la disposizione elastica,
ex art. 35, che prescriveva di “regolare” la velocità, cioè di
mantenerla entro quei limiti imposti o da circostanze relative al veicolo stesso (tipo, peso, sistema di frenatura) o in
base alle caratteristiche e condizioni delle strade o da altre
circostanze, per natura previamente non determinabili,
affinché fosse evitato ogni pericolo per la sicurezza delle
persone e delle cose33.
È evidente come la norma menzionata sarebbe stata
33. Sulla questione velocità è interessante ricordare il principio affermato dalla Corte di Cassazione nel 1931: “La legge non ha stabilito limiti
di velocità per la circolazione delle automobili; non ha inteso, però, liberare i conducenti dall’osservanza delle norme imposte e consigliate dalla comune prudenza e dai criteri di ovvia e doverosa cautela, a cui i precetti regolamentari sono informati”. In modo particolare, l’articolo 35
specificava le condizioni di tempo e di luogo in cui la velocità doveva
essere moderata e cioè: nei tratti di strada a visuale non libera; nei tratti di strada in curva; in prossimità dei crocevia e delle biforcazioni; nelle forti discese; nelle ore notturne; nei casi di nebbia, di foschia o di pol-
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II - I
PRIMI CODICI DELLA STRADA
alquanto generica e di massima elasticità, con conseguente
rischio di essere destinata ad essere poco osservata, anche
e soprattutto per la soggettività della valutazione che gli
utenti, gli agenti preposti al traffico e gli stessi giudici
avrebbero fatto della pericolosità punibile, se il legislatore
non avesse identificato, sempre all’art. 35, le situazioni di
pericolo più frequenti, più tipiche e vietato, quindi, i comportamenti atti a determinarle, secondo quanto riportato
in nota.
Tale disciplina rimase sostanzialmente invariata nel successivo Codice della Strada del 1933 (artt. 36 e 64) e cristallizzata per ben ventidue anni, quando, al grave problema del crescente numero di incidenti stradali causati prevalentemente
dalla eccessiva velocità dei veicoli, si rispose con un progetto di legge tradottosi nel Codice del 1959 con cui fu data
facoltà ai Ministri dei Lavori Pubblici e dei Trasporti di stabilire di concerto limitazioni di velocità per tutti i veicoli su
determinate strade o su tronchi di esse34.
vere; nei passaggi stretti o ingombranti; nell’attraversamento di nuclei
abitati o comunque di tratti di strada fiancheggiati da case. Al penultimo capoverso era stabilito che il contravventore alla disposizioni del
presente articolo era punito con l’ammenda da lire venticinque a lire
cinquanta.
34. Per una approfondita indagine del fenomeno si veda l’articolo di
PALAZZI F., Sul limite di velocità-Incidenti stradali, in Rivista giuridica della circolazione e dei trasporti, 1955.
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Lei non sa chi sono io - L’AUTOMOBILE
LINEAMENTI DEL CODICE DELLA STRADA
DEL 1933 E DISCIPLINA DEL SEGNALAMENTO
ACUSTICO DEGLI AUTOVEICOLI.
Il Codice del 1928 entrato in vigore portò subito con sé il
segno della caducità. I vivaci dibatti aperti intorno alle norme della circolazione stradale da esso introdotte, imposero,
dopo appena cinque anni, una sua abrogazione e sostituzione con altro testo che meglio rispettasse i voti delle Assemblee rappresentative. Fu così che con il R.D. 8 dicembre
1933 n. 1740 fu emanato il Codice della Strada che disciplinò la circolazione per ben ventisei anni35.
Si presentò come un utile e notevole perfezionamento del
testo legislativo precedente, in quanto le modificazioni introdotte, seppur non del tutto rilevanti, tesero a migliorare la
difesa del nostro patrimonio stradale e a garantire maggiore
sicurezza e regolarità della circolazione, ogni giorno più in
aumento. Tra i meriti riconosciuti a tale provvedimento va
ricordato che rappresentò il primo assetto organico alla
disciplina della patente di guida, inizialmente denominata
licenza a guidare. Venne stabilito che dovessero distinguersi
tre differenti tipi di abilitazione36 e cioè di 1° grado per chi
35. Il Codice della Strada del 1933 era suddiviso in quattro titoli relativi
rispettivamente alla tutela delle strade ed aree di uso pubblico; alla circolazione dei veicoli, degli animali e dei pedoni; agli autoveicoli e ai conducenti; alle disposizioni generali. La stessa sistematica del Codice del 1928.
36. Per un maggiore approfondimento sull’ origine ed evoluzione della
patente di guida si rinvia a SCHINAIA C., Le patenti di guida, in Il
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II - I
PRIMI CODICI DELLA STRADA
non esercitava la professione di conducente, di 2° grado per
chi esercitava la professione di conducente in servizio privato e di 3° grado per chi esercitava la professione di conducente in servizio pubblico.
Modificazioni furono apportate anche per assicurare,
mediante più rigorosi controlli, l’idoneità fisica e tecnica dei
conducenti di autoveicoli, e ad evitare poi che ottenessero
l’abilitazione persone le quali non dessero garanzia di moralità. Venne disposto, inoltre, che non avrebbero potuto ottenere la patente coloro per i quali ostassero motivi di pubblica sicurezza e coloro che fossero sottoposti al confine di polizia. Si individuarono altresì con maggiore precisione le condanne che rappresentavano un ostacolo all’ammissione
all’esame di idoneità per conducenti di autoveicoli37.
Un’importante disposizione diretta ad agevolare i valorosi
mutilati di guerra fu quella con cui fu data al Ministro delle
comunicazioni facoltà di autorizzare alla guida di autoveicoli persone con imperfezioni fisiche non riguardanti l’udito e
la vista, però sotto determinate condizioni.
Per permettere, poi, l’adattamento progressivo delle nuove
norme ai prevedibili progressi nel campo tecnico dell’auto-
nuovo Codice della Strada, 2000.
37. Si stabilì che non avrebbero potuto ottenere una nuova patente di
idoneità coloro che fossero stati condannati per tre volte alla pena dell’arresto per contravvenzione alla norme del nuovo regio decreto. Sul
punto si rinvia a JANNITTI-PIROMALLO A., Commento alle leggi sulla tutela delle strade e sulla circolazione, Napoli, 1937.
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Lei non sa chi sono io - L’AUTOMOBILE
mobilismo, furono attribuite al Ministro delle comunicazioni, di concerto con il Ministro dei lavori pubblici, speciali
facoltà di determinare le caratteristiche degli apparecchi di
segnalazione acustica e visiva degli autoveicoli per attenuare
o eliminare, nell’interesse “igienico” delle popolazioni dei
centri urbani, i rumori molesti e le luci abbaglianti. A tal
proposito, infatti, se diamo uno sguardo fugace alle diverse
disposizioni legislative succedutesi nel tempo, in tema di
apparecchi e segnali acustici degli autoveicoli, notiamo subito che, col moltiplicarsi delle macchine e con le velocità sempre maggiori da queste raggiunte, aumentò, da un lato, l’imprescindibile bisogno di segnalarsi acusticamente e, dall’altro, la necessità di evitare, specialmente nei centri urbani,
ogni eccesso di tali segnalazioni.
Nel Codice del 1923, dei due interessi, fondati su esigenze in
competizione tra loro, prevalse la segnalazione acustica.
Infatti, apparsa insufficiente la disposizione che prescriveva
agli autoveicoli non di usarla ma solo di essere forniti della
tromba a forte suono, fu sanzionato nell’art. 11, con l’ammenda da lire dieci a cento, l’obbligo per i conducenti di
richiamare l’attenzione dei pedoni facendo uso dei segnali
regolamentari.
Diversamente il legislatore del 1928, preso atto dei danni
arrecati alla salute dagli eccessi sonori cercò di ridurli per
quanto possibile, cosicché tenne conto degli interessi contrapposti, cercando di mantenerli nel giusto equilibrio con due
diverse disposizioni. In particolare all’art. 29 furono indicati
altri casi di obbligo per i conducenti di usare le segnalazioni
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II - I
PRIMI CODICI DELLA STRADA
acustiche e precisamente: “prima di sorpassare, ovvero prima
di incrociare nei punti malagevoli, in prossimità delle biforcazioni e dei crocevia ed ogni qualvolta la strada non fosse libera e visibile per un tratto sufficiente, i conducenti erano tenuti a richiamare l’attenzione degli altri conducenti e dei pedoni, facendo uso dei segnali regolamentari o con la voce”. Al
contempo, per limitare l’inquinamento sonoro, l’art. 60,
dopo aver elevato la penalità per chi non avesse adempiuto di
munire il proprio veicolo della tromba a forte suono, proibì
ai conducenti “di servirsi, senza necessità inerenti alla circolazione, nelle città e nei villaggi, delle segnalazioni acustiche”.
Arrivando al Regio decreto in esame, del 1933, le norme
segnalate furono riprodotte integralmente, pur se con qualche lieve modificazione che denotò un interesse prevalente
per l’esigenza del silenzio. Negli artt. 30 e 58, infatti, corrispondenti agli artt. 29 e 60 del decreto del 1928, furono
diminuite le penalità per coloro che omettessero le segnalazioni acustiche ove fossero prescritte ovvero circolassero con
autoveicoli non muniti di apparecchi per tali segnalazioni,
mentre fu aumentata la penalità per quelli che, nelle città o
nei villaggi, si servissero di segnalazioni acustiche senza
necessità inerenti alla circolazione.
Ulteriore provvedimento che tutelò particolarmente l’interesse sociale “dell’igiene e della salute pubblica” fu il R.D.L.
del 3 maggio 1934, n. 1141, con cui fu data facoltà ai comuni di emanare disposizioni regolamentari intese a vietare
l’uso delle segnalazioni acustiche degli autoveicoli in determinate ore notturne.
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Lei non sa chi sono io - L’AUTOMOBILE
Tuttavia tale disposizione risultò poco efficace perché, come
fu osservato da autorevole dottrina38, i maggiori fastidi per
l’eccesso di rumori nelle grandi città si hanno di giorno e non
di notte, essendo maggiori il numero degli autoveicoli e le
esigenze della circolazione.
Fu, pertanto, per ovviare a tale lacuna che venne pubblicato
un nuovo decreto legge in data 17 gennaio 1935, n. 423 grazie al quale i comuni poterono emanare disposizioni intese a
vietare od a regolare l’uso di segnalazioni acustiche degli
autoveicoli, dei velocipedi e delle tranvie nell’ambito dei centri urbani o soltanto in talune zone e strade di essi, secondo
le delimitazioni stabilite dalle stessi Enti locali.
Tale decreto fu convertito nella legge 3 giugno 1935, n.
1151 con l’aggiunta di un articolo inteso a consentire o ad
imporre ai conducenti il breve uso dei fari abbaglianti per
dare avviso del loro approssimarsi, qualora circolassero
nelle ore notturne nei centri abitati, dove esistesse divieto
di segnalazioni acustiche. Fu in aggiunta prescritto che
l’uso dei fari fosse obbligatorio in prossimità degli incroci,
delle biforcazioni, delle curve stradali ovvero anche nei sorpassi di altri autoveicoli e che in tutti questi casi la proiezione della luce dovesse essere effettuata a brevi intermittenze.
38. Alcune informazioni interessanti sull’argomento è possibile reperirle
nell’articolo di M. DUNI, Le segnalazioni acustiche degli autoveicoli nella evoluzione delle norme legislative e i vari interessi da queste tutelati,
in Rassegna giuridica della circolazione stradale, 1940.
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II - I
PRIMI CODICI DELLA STRADA
Da quanto è emerso, è evidente come la circolazione silenziosa creò sia una situazione di disagio che di disparità per
gli automobilisti, non essendo estesa agli altri utenti della
strada, quali i conducenti dei veicoli a trazione animale o i
ciclisti.
Infatti, si osservò che se anche queste categorie avessero
rispettato rigorosamente le leggi in vigore e fossero state
apposte, in molti incroci cittadini, tabelle indicatrici della
precedenza tra le diverse strade, la necessità di segnalazioni acustiche sarebbero state davvero insignificanti così da
evitare ogni eccesso, ossia l’uso di segnali senza necessità
inerenti alla circolazione. Purtroppo non fu così, perché,
come ancor oggi spesso accade, le leggi non vennero sempre rispettate e quindi la nuova normativa finì per gravare
solo sugli automobilisti che si dovettero ad essa adeguare
“accecando” con i segnali luminosi il prossimo più che
assordarlo, con conseguenze inaccettabili sul piano della
sicurezza.
SEGNALAMENTO VISIVO DEI VEICOLI
A TRAZIONE ANIMALE.
Prima di continuare con l’analisi dell’evoluzione legislativa
in materia di circolazione stradale, per i curiosi della materia può risultare interessante qualche breve notizia inerente
alla disciplina del segnalamento visivo dei veicoli a trazione
animale.
L’attenzione si impone perché fu proprio in merito a tale
categoria di veicoli che sorsero diverse questioni interpreta61
Lei non sa chi sono io - L’AUTOMOBILE
tive sul tenore letterale della norma inerente alla disciplina
summenzionata.
Non destò, invece, problemi di alcun genere l’applicazione
della norma corrispondente e relativa agli autoveicoli che
all’art. 59 (r.d. n. 1740 del 1933) stabilì le tipologie e il
numero di strumenti di segnalamento visivo che dovevano
essere collocati nella parte anteriore e in quella posteriore di
tali mezzi a motore.
Nel dettaglio venne disposto, nelle ore e nei casi in cui era
obbligatoria l’accensione, che ogni automobile doveva portare “nella parte anteriore due fanali a luce bianca ed uno
nella parte posteriore collocato in maniera da poter illuminare a luce bianca la targa di riconoscimento e proiettare
all’indietro la luce rossa”.
Ormai si era affermato nel settore automobilistico, da più di
un decennio, un nuovo sistema di illuminazione che rappresentò il proiettore moderno, sostituendosi al precedente meccanismo rudimentale e disagevole a base di acetilene, funzionante per non più di quattro ore, superati le quali occorreva
smontarlo e ripulirlo39.
Diversamente, di non facile attuazione, soprattutto per le
difficoltà pratiche riscontrate, fu l’art. 41 ove, per i veicoli a
trazione animale, si stabilì che “salve le disposizioni speciali
per gli autoveicoli e per i velocipedi, ogni altro veicolo circo39. Per un dettagliato esame sull’evoluzione del segnalamento visivo
degli autoveicoli si rimanda all’articolo di BIFFIGNANDI D., Storia dei
fari, maggio 2007, in www.museoauto.it.
62
II - I
PRIMI CODICI DELLA STRADA
lante sulle strade pubbliche deve portare , nelle ore e nei casi
appresso indicati, uno o più segnali luminosi a luce bianca,
visibili nella direzione di marcia ad almeno cento metri di
distanza”.
La questione interpretativa che allora si pose, sia in dottrina
che in giurisprudenza, fu quella relativa all’omessa previsione da parte del Legislatore dell’obbligo di una segnalazione
visiva a tergo di veicoli. In particolare l’inciso “visibili nella
direzione di marcia” si prestava ad oggetto di due possibili
interpretazioni: i segnali debbono essere visibili solo a chi
proviene dal senso opposto e quindi a chi incrocia il veicolo
a trazione animale o debbono essere visibili a chi procede
nella stessa “direzione di marcia” del veicolo a trazione animale, cioè a chi vuole sorpassarlo?
La risposta che la dottrina e la giurisprudenza più accreditate diedero fu quella di limitare la visibilità del veicolo a trazione animale solo a chi proveniva dal senso opposto e quindi a chi incrociava il veicolo.
Se ripercorriamo le modifiche intervenute in materia e tralasciamo i Regolamenti di polizia stradale approvati con
R.D. 15 novembre 1868, n. 4697 e R.D. 10 marzo 1881,
n. 124 i quali agli art. 37 e 39 stabilivano: “Nessun carro
potrà circolare in tempo di notte senza essere provvisto di
un lume acceso” nonché il R.D. 8 gennaio 1905, n. 24 che
riportava fedelmente le disposizione citata, notiamo come
il R.D. 31 dicembre 1923, n. 3043 stabiliva all’art. 21 che:
“Salve le disposizioni speciali per gli autoveicoli e per i
velocipedi, ogni altro veicolo circolante sulle strade pub63
Lei non sa chi sono io - L’AUTOMOBILE
bliche deve portare sul davanti, nelle ore e nei casi appresso indicati uno o più segnali luminosi visibili nella direzione della marcia ad almeno cento metri di distanza. Se il
segnale o fanale è unico, deve essere situato sulla sinistra
del veicolo”.
Mentre era operante tale articolo non si pose, né poteva sorgere, la questione se il segnale luminoso del veicolo
dovesse essere visibile anche a chi procedeva nella stessa
direzione e posteriormente ad esso perché espressamente
disposto che andava collocato sul davanti del mezzo di trasporto. Conseguentemente i segnali stessi mai avrebbero
potuto essere visti da chi seguiva il veicolo perché la sagoma
dello stesso o il suo carico l’avrebbero impedito. Nonostante l’attenzione prestata dall’Autorità legislativa alla questione in esame, derivante quindi dalla pericolosità sociale di
veicoli a trazione animale senza alcun lume acceso di notte,
non si può non rilevare come l’obbligo dell’illuminazione
anteriore rimase sostanzialmente non osservato.
Infatti, premesso che per lo stato della tecnica di quei tempi
sarebbe stato assurdo pretendere che tali veicoli fossero illuminati con apparecchi elettrici, era necessario che venissero
utilizzati fanali o lampade a candela, ad olio, a petrolio o ad
acetilene40.
Il motivo di tale inadempienza dipendeva, quindi, dalla dif40. Per un approfondimento della disciplina cfr. GUASTADISEGNI N.,
Segnalamento visivo dei veicoli a trazione animale, in Rassegna giuridica della circolazione stradale, 1940.
64
II - I
PRIMI CODICI DELLA STRADA
ficoltà pratica di collocare segnali luminosi sul davanti dei
veicoli adibiti al trasporto di merci, perché la fiamma che si
sprigionava dalle lampade a candele, di solito usate per l’illuminazione, avrebbe potuto facilmente comunicarsi al
legno del veicolo e alle materie trasportate. Di conseguenza
il rischio di incendio, con immaginabili conseguenze per
l’incolumità dei soggetti trasportati e dei terzi, sarebbe stato equiparabile a quello derivante da un’eventuale sinistro
stradale per la mancata osservanza dell’obbligo di illuminazione.
Per tali ragioni i carri vennero attrezzati in modo tale da non
portare più permanentemente sul davanti un segnale luminoso. A questa esigenza pratica si adeguò il legislatore modificando nel 1928 l’art. 21 del RD. del 1923 sopraindicato eliminando quindi la dizione “sul davanti”, presente nell’articolo sopra citato.
Pertanto, come venne sostenuto da autorevole dottrina, se
da un lato l’intenzione del Legislatore fu quella di risolvere
il problema del segnalamento posteriore dei veicoli a trazione animale, attraverso la collocazione del segnale luminoso
(la lanterna) appeso con catenella all’asse del carro, cosicché
sarebbe stato visibile sia a chi veniva incontro al veicolo che
a chi lo seguiva; dall’altro il problema dell’incolumità pubblica rimase fondamentalmente irrisolto.
Tale impasse non fu però determinata per mancanza di proposte legislative risolutrici, ma per gli oggettivi inconvenienti tecnici che l’illuminazione dei carri comportò, così che
non si potette adottare un espediente normativo in grado di
65
Lei non sa chi sono io - L’AUTOMOBILE
superare una tangibile difficoltà: come porre rimedio all’illuminazione di tali mezzi di trasporto senza, al contempo,
considerare che gli apparecchi utilizzati per alimentarla possano essere essi stessi causa di incendi in eventuali ribaltamenti dei carri?
66
III - IL CODICE
DELLA
STRADA
DEL
1959
III
IL CODICE DELLA STRADA DEL 1959
DAGLI SCONTRI BELLICI A QUELLI DIALETTICI
IN COMMISSIONE: LA LUNGA PROCEDURA
CHE PORTÒ AL CODICE DEL 1959.
Lo sviluppo che il parco delle autovetture circolanti ebbe
anche grazie alle condizioni favorevoli create dal regime, in
parte già esaminate, ricevette una battuta d’arresto con l’entrata in guerra dell’Italia durante la II guerra mondiale. La
radiografia del nostro Paese all’esito del conflitto mondiale
fu quella di una civiltà prevalentemente contadina, che continuava, per lo più, a muoversi tramite mezzi di locomozione animale e che a stento riusciva a permettersi l’acquisto di
un’automobile, mentre chi la possedeva aveva serie difficoltà di circolare a causa della requisizione.
Alcuni dati possono essere illuminanti per descrivere nel
dettaglio la situazione additata, rispetto a quella degli altri
Paesi d’Europa: nel 1950, in Italia, circolava un autoveicolo ogni 81,9 abitanti, contro i 48,7 della Germania Occidentale, i 17 della Francia o i 15,2 della Gran Bretagna. La
stasi determinata dal periodo bellico non investì solo il
fenomeno circolatorio nei suoi aspetti economico-commerciali, ma determinò una cristallizzazione dell’attività legislativa che rimase ancorata per ben ventisei anni al R.D. n.
1740 del 1933.
Se si considera la prassi normativa in materia si può osserva67
Lei non sa chi sono io - L’AUTOMOBILE
re, infatti, che nessun testo di legge, ad eccezione dei primi,
regolò per un così lungo arco temporale la circolazione.
Questo spiega il perché, superato il periodo tempestoso della guerra, fu sollevato il problema, da parte degli studiosi e
degli Enti interessati, di un nuovo e più moderno Codice della Strada.
Del resto non fu solo questa esigenza di modernizzazione a
stimolare e ad ispirare le tendenze riformatrici, concorrendo
a ciò altre due rilevanti motivazioni e cioè, innanzitutto,
l’opportunità di sostituire in un unico testo più organico e
chiaro le congerie di norme che, nel tempo, si erano accumulate e di conseguenza tradotte in una legislazione complessa,
aggrovigliata, disseminata di dubbi per l’interprete e piena di
insidie per coloro che dovettero ottemperare ai suoi precetti;
in secondo luogo, la necessità di armonizzare la legislazione
vigente con le disposizioni internazionali vincolanti per il
nostro Paese.
Venne così costituita, con decreto ministeriale del 29 luglio
1947, n. 471, una cospicua e autorevole Commissione di
studio per la riforma del Codice del 1933, nella parte relativa alla disciplina della circolazione, il cui travaglio gestatorio durò per più di un decennio, tenuto conto del numero
elevato e della complessità delle questioni che si dovettero
risolvere.
Il carattere tecnico che spesso attiene alle norme sulla circolazione stradale impose, per la loro formulazione, il coinvolgimento degli organi amministrativi preposti al settore,
cosicché il Parlamento ritenne di delegare al Governo il pote68
III - IL CODICE
DELLA
STRADA
DEL
1959
re di legiferare in materia, previa precisazione dei criteri
direttivi ai quali il testo doveva essere improntato, ai sensi
dell’art. 76 della Costituzione41.
La legge del 4 febbraio 1958, n. 572, che scaturì quindi da
detta delega, indicò, per la realizzazione di un nuovo apparato normativo organico in materia di circolazione stradale (per
un nuovo Codice della Strada insomma), i seguenti criteri:
1) attuazione di una disciplina il più possibile unitaria per
tutto il territorio nazionale;
2) adozione di tutte le norme idonee ad assicurare una disciplina della circolazione, della guida dei veicoli di ogni genere e della condotta degli animali che fosse adeguata alle
moderne esigenze del traffico e alla prevenzione degli incidenti stradali;
3) adeguamento agli accordi internazionali disciplinanti la
materia;
4) determinazione delle autorità centrali e periferiche competenti a provvedere nei casi ordinari e di urgenza;
5) attuazione del principio del decentramento42 nelle materie
che riguardano soltanto situazioni e interessi locali;
6) semplificazione dei procedimenti amministrativi, ferma
restando la necessità di adeguate garanzie per i cittadini.
41. “L’esercizio della funzione legislativa se non può essere delegato al
Governo se non con determinazione di principi e criteri direttivi e soltanto per tempo limitato e per oggetti definiti”.
42. A tal proposito, v. articolo 118 della Costituzione italiana.
69
Lei non sa chi sono io - L’AUTOMOBILE
Fu anche conferita ulteriore facoltà al Governo di prevedere
nuovi reati in relazione alle novelle norme introdotte e di
modificare le sanzioni penali vigenti, purché non si superassero nel massimo per le pene detentive i mesi dodici e per le
pene pecuniarie la somma di L. 20.000, importo derogabile
nel caso in cui venisse messa in pericolo la sicurezza della circolazione, al verificarsi della quale le pene pecuniarie potevano raggiungere nel massimo L. 200.0000.
La genericità dei criteri in questione fece paventare il rischio
di un’adesione al precetto costituzionale piuttosto formale
che sostanziale.
Non mancò chi osservò che sarebbe stato più opportuno, in
merito a questioni di maggiore importanza e delicatezza
(come quelle relative alla limitazione di velocità, alla registrazione degli autoveicoli, al ritiro delle patenti), determinare criteri concreti al fine di indirizzare in modo più specifico
il Potere Esecutivo.
Venne nondimeno rilevato che fra gli ampi e generici criteri
posti dalla legge delega, significativo ed interessante è certamente quello indicante l’“attuazione di una disciplina della
circolazione organica e il più possibilmente unitaria per tutto il territorio nazionale”, con ciò non escludendo, in via
eccezionale, la possibilità dell’adozione di norme differenti,
nella disciplina della circolazione, da luogo a luogo. Coerentemente il criterio andava letto in correlazione con quello
ove si imponeva l’attuazione del principio del “decentramento amministrativo nelle materie che riguardano soltanto
situazioni o interessi locali”.
70
III - IL CODICE
DELLA
STRADA
DEL
1959
Non poche perplessità suscitò d’altronde il criterio che prescriveva “l’adeguamento agli accordi internazionali che
disciplinano la materia della circolazione stradale”43.
Tali accordi furono essenzialmente costituiti dagli Atti internazionali elaborati a Ginevra il 19 settembre 1949 dalla
Conferenza delle Nazioni Unite sui trasporti stradali e automobilistici e resi esecutivi in Italia dalla legge del 19 maggio
1952, n. 1049.
Il problema che conseguentemente sorse fu se il nuovo Codice, approvato dopo una lunga preparazione con decreto presidenziale del 27 ottobre 1958, n. 956, si fosse o meno integralmente adeguato alle norme internazionali in questione.
La soluzione a tale quesito, come venne sostenuto dagli
esperti della materia, andava ricercata nella funzione esplicata dagli Atti di Ginevra, inerenti, solo, alla circolazione internazionale.
Del resto è evidente che il Governo non potette rinunciare a
disciplinare aspetti trascurati, seppur non ignorati, dalle norme internazionali (come ad esempio la materia dell’accertamento delle contravvenzioni e la regolamentazione della precedenza fra i veicoli nelle diramazioni). Ciò nonostante, non
mancarono norme del Codice che violarono il criterio di
adeguamento posto dal Parlamento, perché incisero sui dirit43. Tra i vari commenti pubblicati sulla redazione del Codice del 1959
particolare interesse riveste il contributo degli autori: CONTI, GALIMBERTI, MIELE, La riforma della vigente legislazione stradale, in Rassegna dell’automobilismo dell’ACI, 1957.
71
Lei non sa chi sono io - L’AUTOMOBILE
ti e sul comportamento degli utenti della strada in modo più
restrittivo di quanto non facessero le corrispondenti norme
internazionali. Per citare qualche esempio basti ricordare le
disposizioni in tema di equipaggiamento dei veicoli come
l’art. 26 (lett. c) della Convenzione di Ginevra, che prescrisse che tutti i velocipedi fossero muniti posteriormente, per
l’illuminazione notturna, di una luce rossa oppure di un
dispositivo rifrangente, evidenziando, con ciò, la sufficiente
presenza di uno dei due dispositivi indicati; e questo a differenza del Codice italiano che sarebbe dovuto entrare in vigore il 29 gennaio del 1959, che all’art. 40 (comma primo lett.
c) non solo li pretese entrambi, ma esigette, altresì, dei dispositivi a luce riflessa gialla sui pedali.
Un altro interessante caso di difformità tra le due fonti di
regolamentazione della circolazione stradale, segnalato dagli
esperti del settore, fu dato dall’art. 11 della Convenzione,
che comandò al conducente del veicolo che venisse sorpassato di non aumentare la velocità, in poche parole, limitandosi a vietargli di gareggiare in velocità con il conducente che
cercava di superarlo, mentre l’art. 106 del nuovo Codice italiano impose al conducente del veicolo che veniva sorpassato di diminuire la velocità44.
44. Sui profili di criticità ma anche sui meriti evidenziati del nuovo Codice della strada è possibile consultare l’articolo degli autori: CIGOLINI, GUERRIERI, PERSEO, MANZINI, L’Avvento del nuovo Codice
della Strada, in Rassegna dell’automobilismo dell’ACI, 1958.
72
III - IL CODICE
DELLA
STRADA
DEL
1959
Pertanto, in questi come in altri casi simili, il Codice apparve alquanto criticabile per non aver osservato il canone dell’adeguamento e ugualmente non fu accolto favorevolmente
per aver introdotto norme ritenute infelici.
Infatti non mancò chi segnalò il severo trattamento che il
Codice riservò agli automezzi pesanti e che ebbe la sua ratio
giustificatrice nella necessità di adeguare il traffico alle strade, data la oggettiva difficoltà di conformare le strade al
traffico.
In particolare furono adottate una serie di misure restrittive,
relativamente a tali mezzi di trasporto, in tema di velocità,
sorpassi, distanza di sicurezza, nonché limitazioni al traffico
nei giorni festivi.
Per ovviare a questi ed altri difetti del Codice il Potere Esecutivo interpellò l’Automobile Club d’Italia e il Touring
Club Italiano il cui parere fu accolto con dovuta considerazione, trattandosi di Enti di particolare competenza essendo
rappresentativi delle categorie maggiormente interessate al
provvedimento.
Le modifiche proposte dall’A.C.I. e dal T.C.I. si tradussero
rapidamente in un disegno di legge predisposto dai Ministri
dei Lavori Pubblici e dei Trasporti, presentato alla Camera
dei Deputati il 18 dicembre 1958.
Di conseguenza la complessità dei lavori di revisione non
consentì di rispettare, come avevamo precedentemente
indicato, i tempi auspicati per l’entrata in vigore del nuovo Codice che, dal 29 gennaio 1959 e con due successive
proroghe, venne rimandata al 1° luglio dello stesso
73
Lei non sa chi sono io - L’AUTOMOBILE
anno45, stabilendo altresì l’identico termine per l’emanazione del relativo Regolamento di esecuzione.
Singolare e probabilmente rimarchevole è allora immaginare
cosa sia accaduto in Parlamento da gennaio a giugno del
1959 durante tutto il periodo di revisione necessario allo
scopo di rendere più chiare ed omogenee le nuove disposizioni dettate dal Codice.
“Penso che tutti siamo consapevoli del grossissimo problema – quello della circolazione stradale – che è venuto maturandosi nel nostro paese.” Così, il 13 gennaio del 1959,
l’Onorevole TOGNI Giulio Bruno, iniziò l’intervento in
commissione riunite (lavori pubblici - trasporti), come relatore per la commissione Trasporti. “Per dimostrare la vastità e la complessità degli aspetti che esso coinvolge, mi basterà citare pochissimi dati, molto significativi: nel 1933 circo-
45. Il nuovo Codice era formato da centoquarantasei articoli (contro i
centotrentadue di quello precedente), ripartiti in dieci titoli: “disposizioni generali”; “segnalazione stradale”; “veicoli in generale”; “veicoli a
trazione animale, slitte e velocipedi”; “veicoli a motore”; “guida dei veicoli e condotta degli animali”; “disposizioni speciali”; “norme di comportamento”; “polizia stradale e disposizioni penali”; “disposizioni finali”. Il testo normativo non abrogò per intero quello del 1933, di quest’ultimo rimasero in vigore, secondo quanto previsto dall’art. 145, il Titolo
I, concernente la tutela delle strade e delle aree pubbliche, e alcune materie particolari come la disciplina degli autoveicoli in servizio di piazza,
con la conseguenza che per le disposizioni summenzionate continuarono
ad applicarsi le norme sulle sanzioni penali e sulla relativa procedura stabilite dal vecchio Codice.
74
III - IL CODICE
DELLA
STRADA
DEL
1959
lavano 218 mila autovetture, che si ridussero a 149 mila nel
1946 e passarono poi a un milione e 237 mila nel 1957. Gli
autocarri passarono dai 71 mila del 1933 ai 135 mila del
1946 e infine ai 392 mila del 1957. […] Se teniamo presenti
alcune minime, ma particolarmente significative, considerazioni statistiche sugli incidenti della circolazione, ci rendiamo conto di come sia estremamente preoccupante il fenomeno. Nel 1934 gli incidenti furono 43.258, di cui 2.993 mortali e 39 mila con feriti; nel 1957 si è saliti a 188 mila incidenti, di cui 6.936 mortali e 148 mila feriti. […] Mi corre
l’obbligo di sintetizzare ancora, almeno, l’andamento del
trasporto di merci su strada: nel 1938 furono 5 miliardi di
tonnellate-chilometro; nel 1947 furono 7 miliardi; nel 1957
si è saliti a 33 miliardi! Sono, questi indici, il segno e la conseguenza dell’estrema vitalità del nostro paese nel suo sviluppo, ma fanno anche diventare sempre più serio il problema
della circolazione. […] Occorre tener presenti le finalità
principali che, a unanime giudizio, credo, anche dei colleghi
presenti, debbono reggere le norme in materia.
La prima finalità è quella della sicurezza della circolazione e
della tutela della vita umana. Abbiamo visto di quali gravi
conseguenze sono carichi per tutto il popolo italiano quei
dati statistici di cui ho dato lettura.
La seconda finalità è quella della chiarezza del diritto. Perché il cittadino deve sapere come ha da comportarsi e deve
essere chiaro il carico sia penale sia patrimoniale [...] che si
riflette sul cittadino stesso.
Infine, non ultima e non meno fondamentale, è l’esigenza
75
Lei non sa chi sono io - L’AUTOMOBILE
economica e tecnica dell’automobilismo e dell’autotrasporto, come strumenti e condizioni essenziali e vitali per il progresso del paese. Ed è superfluo che dinanzi alle commissioni dei trasporti e dei lavori pubblici io stia a dire che cosa
l’automobilismo e l’autotrasporto presenta per il paese. [...]
L’incertezza derivante da una eventuale proroga dell’entrata
in vigore del decreto presidenziale [...] provocherebbe la peggiore delle situazioni [...] soprattutto per la completa paralisi in cui cadrebbero molti settori produttivi legati alla motorizzazione, [...] i quali [...] si troverebbero di fronte [...]
all’impossibilità di adeguate decisioni nei loro programmi di
progettazione e di produzione. [...] Noi abbiamo il dovere di
operare, anche con sacrificio personale, per la tempestiva
redazione delle norme di legge migliori e definitive”46.
Da queste poche righe emerge tutta la preoccupazione che
taluni deputati riversarono sulla problematicità della circolazione stradale e sull’esigenza di porre rimedio, quanto prima, ad una sì grave vacatio legis. Tuttavia, nelle sedute successive, emersero nuovi spunti, che fecero in larga parte
riconsiderare da molti onorevoli le loro iniziali posizioni47 e
che quindi determinarono rinvii, di mesi, all’emazione e
46. Intervento dell’Onorevole Giulio Bruno TOGNI, durante la seduta
delle commissioni riunite della Camera dei Deputati Lavori pubblici e
Trasporti, di martedì 13 gennaio 1959.
47. Larga parte dei deputati, agli inizi di gennaio 1959, pensava infatti
che fosse ancora possibile l’entrata in vigore del nuovo Codice della Strada in data 29 gennaio 1959.
76
III - IL CODICE
DELLA
STRADA
DEL
1959
all’entrata in vigore di un nuovo Codice della Strada, che in
ultima istanza entro in vigore il 15 giugno 1959.
“Ci troviamo oggi di fronte a questa situazione. Il 29 gennaio prossimo venturo dovrebbe entrare in vigore il nuovo
Codice della Strada; ma, così come è redatto, non è possibile che entri in vigore. Entrerebbe in vigore una legge che
il Governo ufficialmente ritiene che ha bisogno di emendamenti, [...] di tutta una serie di emendamenti, che con lodevole saggezza i relatori [...] hanno riconosciuto, d’accordo
con il Governo, che debbano essere apportati al provvedimento”. Durante la seduta delle commissioni riunite lavori pubblici e trasporti di martedì 20 gennaio 1959, l’Onorevole COLITTO si espresse in questi termini. Gli Onorevoli Pietro AMENDOLA, Giovanni LOMBARDI e Giulio
Bruno TOGNI, tra gli altri, concordarono così di votare
una prima proroga di 45 giorni di entrata in vigore del
Codice48.
Invero, questi rinvii di mesi non determinarono un perfetto
accordo con quelle che erano le norme previste dalla Convenzione di Ginevra, ed anzi solo alcune delle norme discordanti rispetto a quelle previste da detta Convenzione furono
rettificate per adeguarsi ad essa, come, ad esempio, il già
citato art. 106, secondo il quale il conducente che veniva sorpassato non era più tenuto a “diminuire la velocità” ma a
48. Nella seduta del 20 gennaio 1959 venne deciso a maggioranza di 76
voti favorevoli contro 1 contrario di accettare la proroga, di entrata in
vigore del Codice, fino al 15 marzo.
77
Lei non sa chi sono io - L’AUTOMOBILE
“non accelerare”49. Per rendere, poi, più gradevole l’attuazione di alcune delle nuove disposizioni, altri ritocchi si
ritennero necessari, per quanto riguarda il problema dell’ipotetico divieto di sorpasso fra mezzi pesanti50.
Occorre a questo punto segnalare che un indubbio merito
riconosciuto al testo in esame fu quello di aver soddisfatto,
almeno in parte, la sentita necessità di una semplificazione
amministrativa. In particolare nell’art. 145 vennero esplicitamente abrogati, oltre a quasi tutte le disposizioni del vecchio
Codice, 23 provvedimenti legislativi di varia epoca, nonché
tutti i regolamenti comunali per la circolazione dei velocipedi, dei veicoli, degli animali e dei pedoni (emanati in applicazione degli art. 52 e 128 del Codice del 1933). La sottrazione del potere di emanare norme generali ed estratte ai Comuni e alle autorità amministrative centrali, con l’esclusiva riserva di poter adottare soltanto provvedimenti concreti di disciplina del traffico, rappresentò in tal modo una peculiare
caratteristica delle nuove disposizioni introdotte dal Codice.
Per quanto evidenziato, seppur nelle sue linee generali, non
poterono che essere positivi i commenti degli esperti sul nuovo assetto della materia della circolazione stradale, tanto che
fu detto che tale opera legislativa costituì un “progresso
rispetto al Codice precedente e si presentò tra i più aggiornati in confronto a quelli vigenti negli Stati europei e segnò una
49. All’art.11 della Convenzione di Ginevra sussiste infatti l’obbligo del
sorpassando di “ne pas accélérer son allure”.
50. Vedi, per approfondimento, paragrafo 2.1.1, infra.
78
III - IL CODICE
DELLA
STRADA
DEL
1959
tappa importante per la realizzazione dell’unità internazionale della legislazione sulla circolazione stradale”51.
Ciò nonostante, dopo un lungo lavoro di revisione prima
dell’entrata in vigore, il testo del 1959 non trovò una rapida
applicazione pratica in quanto dovette scontrarsi da un lato
con la scarsa educazione stradale degli automobilisti e degli
altri utenti, come i pedoni, dall’altro con l’inefficiente e
carente rete viaria del nostro Paese che, in quegli anni, risultava decisamente inidonea a rispondere alle esigenze sempre
crescenti del traffico motorizzato.
LA VELOCITÀ DEI VEICOLI E IL SORPASSO.
Da quanto precedentemente esposto è emerso che la disciplina della velocità, nel lungo e aggrovigliato avvicendarsi
delle norme sulla circolazione stradale, è stata oggetto di
particolare attenzione da parte del Legislatore, giacché essa
rappresenta, se non l’unica, di certo la concausa costante
della gravità degli incidenti stradali.
Pertanto, il problema che riguardo ad essa sempre si pose fu
quello di dettare norme che salvaguardassero due interessi
51. Così si espresse nel discorso per l’inaugurazione dell’anno giudiziario del 1960 il Procuratore Generale della Corte di Cassazione, il dr.
Francesco Cigolini, il quale a parte l’autorità ricoperta, fu uno dei più
eminenti esperti della disciplina giuridica della circolazione. Per la lettura integrale della dissertazione indicata è possibile consultare l’articolo di
CIGOLINI, BERLIRI, LA PORTA, Le Modifiche del Codice Stradale, il
Regolamento di esecuzione: introduzione e problemi di origine tecnica in
Rassegna dell’automobilismo dell’ACI, 1959.
79
Lei non sa chi sono io - L’AUTOMOBILE
difficilmente armonizzabili: la tutela della motorizzazione e
la garanzia dell’incolumità pubblica.
Abbiamo detto che il vecchio Codice si occupava della
velocità negli artt. 64 e 36, articolo che aveva subito alcune aggiunte in forza della legge n. 877 del 1954. La norma
non prescriveva nulla di nuovo circa l’obbligo generico, per
tutti i conducenti, di regolare la velocità in modo che, tenuto conto del tipo del veicolo, non costituisse pericolo per
l’incolumità pubblica e causa di intralcio per la circolazione, nonché riguardo quello più specifico di procedere a
velocità “particolarmente moderata” in presenza delle
caratteristiche e condizioni delle strade che ostruissero la
piena visibilità del manto stradale. La disposizione indicata risultava, invece, integrata nella parte in cui prevedeva
l’obbligo per gli autoveicoli a solo o con rimorchio, aventi
peso complessivo a pieno carico superiore ai quintali 100,
di non superare la velocità di 70 km/h, se destinati al trasporto di persone, o di 60 km/h, se destinati al trasporto di
cose, valendo lo stesso limite massimo anche per gli autocarri adoperati per il trasporto di persone, eccedenti il peso
predetto. Veniva altresì prevista la facoltà, riservata al
Ministero per i lavori pubblici nonché agli Enti cui incombeva la manutenzione delle strade, di stabilire il limite massimo di velocità per tutti i veicoli su determinate strade o
tronchi di esse.
Il principio informatore che caratterizzò le norme del Codice del 1959 e di quelle correlative del Regolamento era enunciato dall’art. 101 secondo il quale tutti “gli utenti della stra80
III - IL CODICE
DELLA
STRADA
DEL
1959
da debbono comportarsi in modo da non costituire pericolo
od intralcio per la circolazione”. Si trattava di una norma
programmatica priva, dunque, di sanzione, che il più delle
volte trovava tutela in sanzioni penali o civili applicabili in
seguito ad incidenti stradali derivati dall’inosservanza della
predetta norma. Invero, il precetto in questione servì da supporto per l’esatta identificazione della colpa civile e penale
connessa agli incidenti stradali.
È noto che i principi generali della colpa civile e penale si
desumono dagli art. 2043, 2050, e 2054 Cod. Civ. e art. 43
del Cod. Pen., tuttavia se è di facile accertamento la colpa
scaturita da una specifica norma di comportamento prevista
dal Codice stradale, diversamente accade nei casi in cui la
stessa trova la sua causa nel comportamento negligente,
imprudente o imperito dell’utente della strada. Quid iuris in
tali casi?
Fu agevole, allora, per gli operatori del diritto ricorrere al
principio sancito dal suddetto art. 101, considerato come
valida guida per integrare le norme relative alla colpa civile
e penale sopraindicate, in quanto venne dagli stessi definito
come un tipo generico di colpa stradale la “condotta di colui
che avesse abusato della strada in modo da costituire pericolo o intralcio per la circolazione altrui”52.
52. Per una puntuale analisi dell’art. 101 del Codice del ‘59 si rinvia
all’art. di GENTILE, LA PORTA, Le norme di comportamento in Rivista dell’automobilismo dell’ACI, 1959.
81
Lei non sa chi sono io - L’AUTOMOBILE
Se l’art. 101 assurse a principio generale della velocità, gli
art. 102 e 103 del C.d.S. ne dettarono la disciplina. Il primo
ricalcò l’art. 36 del Codice del 1933, con in aggiunta l’obbligo secondo il quale “i conducenti non devono gareggiare
in velocità” ma, come fu correttamente osservato, non si
trattò di un’aggiunta sostanziale, essendo intuibile che tale
divieto discende, prima ancora che da una specifica norma
di legge, dalla comune prudenza. Il secondo stabilì i limiti
assoluti e chilometrici di velocità, il principale dei quali consistette nel divieto di circolare nei centri abitati ad una velocità superiore ai 50 km/h, salvo facoltà di deroghe predisposte dall’ente proprietario della strada (Comune, Stato, o
Provincia).
Venne inoltre previsto che fuori dei centri abitati i medesimi
Enti avessero potuto stabilire un diverso limite massimo ed
eventualmente anche limiti minimi di velocità, mentre alcuni veicoli per la loro destinazione, peso, e per mole, avrebbero dovuto essere sottoposti ai limiti permanenti di velocità53.
53. Tali limiti erano: 60 km/h fuori dei centri abitati per gli autoveicoli e
filoveicoli di peso complessivo superiore agli 80 quintali, se non destinati al
trasporto di persone e per gli autocarri adibiti a tale trasporto, anche se
eccedenti quel peso; dei 70 km/h fuori dei centri abitati per gli autoveicoli e
filoveicoli superiori a peso di cui sopra, se adibiti al trasporto di persone;
dei 40 km/h fuori dei centri abitati e dei 30 Km/h nei centri abitati, per gli
autoveicoli e motoveicoli con carico pericoloso, dei 40 km/h per i ciclomotori, carrelli e macchine agricole fuori dei centri abitati e di 30 Km/h nei centri abitati, allorché queste ultime fossero munite di pneumatici o di sistemi
equivalenti, mentre nel caso contrario sussisteva il limite fisso di 15 km/h.
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III - IL CODICE
DELLA
STRADA
DEL
1959
Va precisato che sia i limiti assoluti che quelli permanenti di
velocità disposti dalla norma per ultima esaminata non
dispensavano il conducente dall’obbligo di ottemperare ai
criteri prudenziali, di cui all’art. 102, variabili secondo i luoghi e le circostanze.
Un’ultima considerazione occorre fare circa il trattamento
sanzionatorio, alquanto severo contenuto nell’art. 103 del
testo del 27 ottobre del 1958, n. 950 che comminava sempre
la pena congiunta (arresto e ammenda) quando venivano
superati i limiti massimi di velocità, con la conseguente esigenza che venne mitigato con le successive modifiche tradottesi nel Codice del 1959.
Quest’ultimo, infatti, comminò la sola pena dell’ammenda
(da lire 4.000 a lire 10.000) al conducente che avesse superato di non oltre 5 km i limiti considerati; mentre per chi
avesse superato tale velocità di oltre 5 km il limite massimo,
era prevista l’ammenda da lire 10.000 a lire 40.000 o l’arresto fino a due mesi.
Oltre a tali contravvenzioni comminate per eccesso di velocità all’art. 92 di detto Codice era stabilito che, insieme ad
altre violazioni, sarebbe stata sospesa dal Prefetto la patente
di guida da uno a tre mesi.
Di non meno importanza e pertanto meritevoli di essere,
seppur sinteticamente, analizzate furono le norme con cui
il Legislatore dettò la disciplina sul sorpasso. Ricordiamo,
infatti, che il sorpasso è considerata la manovra più pericolosa dalla circolazione stradale e, di conseguenza, il Codice del 1959, a differenza di quello abrogato, regolamentò
83
Lei non sa chi sono io - L’AUTOMOBILE
in modo più analitico54 tale comportamento alla guida.
Tra le modifiche maggiormente rilevanti apportate dal testo
di legge va segnalata l’eliminazione dell’obbligo di segnalazione acustica prima del sorpasso, in linea con la prassi internazionale contraria ai rumori stradali. Tuttavia se tale abrogazione apparve comprensibile in città, rischiava di essere
foriera di pericolo su strada extraurbana, ove il sorpasso
silenzioso poteva essere causa di un numero elevato di incidenti stradali. Pertanto si mostrò di ausilio la norma di cui
all’art. 523 del Regolamento secondo la quale chi intendeva
sorpassare avrebbe dovuto segnalare la manovra stessa sia ai
veicoli che lo avessero preceduto che seguito, mediante
segnale acustico o luminoso, azionando, contemporaneamente, l’indicatore sinistro di direzione.
Del resto tale disposizione non rappresentò altro che una
diretta applicazione dell’art. 113 C.d.S., in cui si prescrisse
l’uso obbligatorio dei dispositivi di segnalazione acustica
ogni qualvolta le circostanze lo rendessero consigliabile,
come presumibilmente sarebbe potuto accadere durante la
manovra di sorpasso.
Alle norme sulla fase preparatoria del sorpasso seguivano
quelle inerenti l’attuazione della stesso che, secondo il dettato normativo di cui all’art. 106, doveva essere effettuato sulla sinistra. Il conducente doveva poi completare la manovra
54. Nel dettaglio la disciplina del sorpasso risultò contenuta in apposite
norme contenute nell’art. 106 del C.d.S., a cui furono aggiunti gli artt.
523-526 del Regolamento.
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III - IL CODICE
DELLA
STRADA
DEL
1959
di sorpasso “nel più breve tempo possibile”, in guisa da evitare di stringere o tagliare la strada al veicolo sorpassato.
Precisi obblighi furono imposti anche al conducente del veicolo sorpassato che aveva la precipua finalità di facilitare
“comunque” tale manovra. La modifica alla logica del Codice precedente, in tale articolo, ebbe anche la funzione di fungere da deterrente per i “maniaci” del sorpasso, non essendo
più facilitato dall’obbligo di rallentare, imposto al sorpassando, secondo quanto previsto nel precedente testo55.
L’art. 106 prevedeva, altresì, una minuziosa serie di divieti
della manovra di sorpasso che, in sintesi, sembra opportuno
elencare: il divieto di sorpasso in prossimità di curve, dossi,
crocevia e passaggi a livello, senza barriere, nonché in ogni
altro caso di scarsa visibilità; il divieto del c.d. “doppio sorpasso” e cioè di un veicolo che ne sorpassasse un altro e il
divieto di sorpassare veicoli fermi per cause di interruzione
della circolazione (come passaggi a livello e semafori).
Un’ulteriore rilevante disposizione fu quella che abrogò, a
lavori conclusi del Codice del 1959, il divieto per gli automezzi pesanti di sorpassarsi tra loro, data l’intenzione del
legislatore di salvaguardare l’indispensabile funzione svolta
da tali veicoli commerciali per lo sviluppo economico del
nostro Paese.
Dunque, seppur sommariamente, queste furono le principa-
55. V. nota 48.
56. In tal senso Le norme di comportamento in op. cit. nota 51.
85
Lei non sa chi sono io - L’AUTOMOBILE
li norme di comportamento, in sede di sorpasso, per gli automobilisti ma che, come osservò attenta dottrina56, non avrebbero esonerato gli stessi dall’ottemperare alle regole di
comune prudenza e diligenza alla base di una guida corretta
e che avrebbero fatto valere il loro peso in sede di accertamento della responsabilità colposa esclusiva o concorrente
del sorpassante.
LE PORZIONI DI TERRA, DI DETERMINATA
LUNGHEZZA E LARGHEZZA...
LA STRADA NEGLI ANNI 50
“Porzioni di terra, di determinata lunghezza e larghezza,
escluse da dominio privato e poste fuori commercio, perché
servissero all’uso comune e ai fini dell’umana società, nonché ai bisogni della vita. Infatti, esse hanno per la società lo
stesso peso che per il corpo hanno le vene e le arterie: come
senza vene ed arterie non si ha vita o la vita languisce quando per le medesime il funzionamento non è del tutto regolare, lo stesso si verifica nel mondo sociale quando le vie di
comunicazione, che si presentano come le condizioni materiali indispensabili per l’incremento dei mezzi di trasporto e,
di conseguenza, per il soddisfacimento dei bisogni individuali e sociali, mancano o sono insufficienti”57.
Sembra una definizione data da contemporanei, invece si
57. Sul punto e per un maggior approfondimento sulla storia delle strade pubbliche si veda l’articolo di SIMONCELLI D., La Circolazione
stradale in Rivista giuridica della circolazione stradale, 1937.
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III - IL CODICE
DELLA
STRADA
DEL
1959
tratta di Roma, la Roma degli imperatori!
Contemporaneo o quasi agli interventi legislativi sin qui esaminati, tesi a disciplinare la circolazione ed armonizzare la
coesistenza dei vari utenti della strada, fu il problema del
potenziamento delle strade pubbliche.
Soprattutto, a partire dagli anni 50, il vertiginoso aumento
delle unità di vetture in circolazione impose la risoluzione di
una necessità basilare: imprimere un nuovo impulso per lo
sviluppo di una rete viaria che consentisse all’automobile di
divenire un confortevole e veloce mezzo per lo spostamento
quotidiano e per rendere il traffico più fluido e sicuro. Ben
presto, infatti, le poche strade che erano state costruite nel
XIX sec. non risposero più adeguatamente alle nuove esigenze automobilistiche. Nella primavera del 1945, la rete stradale era di 170.591 km, ma presentava parecchi problemi
strutturali, dovuti alle distruzioni belliche, che avevano reso
intransitabile la metà delle statali, un terzo delle provinciali
e un sesto delle comunali.
Fu Bonomi, durante la prima legislatura repubblicana, a sentire
la necessità di metter mano al settore dei trasporti le cui competenze furono demandate al dicastero dei Lavori pubblici.
Tuttavia la ricostruzione della rete infrastrutturale avvenne
senza un vero coordinamento politico fra le diverse reti, in
assenza delle quali, il trasporto privato su strada finì per
essere il vero privilegiato, penalizzando la ferrovia e i mezzi
pubblici su rotaia che non poterono competere con la flessibilità offerta dalle automobili, dai pullman e dagli autocarri.
Un tentativo di realizzare una qualche forma di regolamen87
Lei non sa chi sono io - L’AUTOMOBILE
tazione dei trasporti su strada si ebbe nel 1948 con il decreto legge n. 547 che accordò all’Azienda nazionale autonoma
della strada (Anas) la possibilità che la concessione di nuove
autostrade fosse affidata sia a Enti pubblici che privati e formalizzò la pratica dell’aggiudicazione dei lavori pubblici
mediante “licitazione privata”. Lo Stato avrebbe potuto scegliere le imprese che avrebbero costituito e gestito le nuove
autostrade. Infatti, la licitazione altro non era che un’asta
pubblica alla quale tramite avvisi particolari, erano invitate
a partecipare le imprese ritenute idonee all’appalto: insomma una simile scelta creò le condizioni perché intorno ai
lavori pubblici, si sviluppasse un clima di pressioni clientelari e di favoritismi.
Tuttavia durante la prima legislatura, il dibattito parlamentare più che concentrarsi sulla costruzione di nuova rete
autostradale, diede spazio alla necessità di avviare la sistemazione della viabilità ordinaria in modo particolare al
Sud: anzi lo stesso governo propose un disegno di legge, firmato dal Ministro dei Lavori Pubblici Salvatore Aldisio, che
concedeva all’Anas un finanziamento straordinario di quaranta miliardi per il miglioramento della viabilità nel Mezzogiorno.
Questi primi interventi furono una prima espressione di
quello che poi sarebbe accaduto nel corso di tutti gli anni
cinquanta: il decollo industriale, l’abbandono delle campagne, l’urbanizzazione di massa, l’aumento dell’occupazione e
dei consumi, tutti eventi che avrebbero caratterizzato il
boom economico. In tale contesto le scelte governative e
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III - IL CODICE
DELLA
STRADA
DEL
1959
industriali attribuirono all’enorme aumento dei veicoli
motorizzati, un ruolo centrale nel processo di sviluppo, favorendo rapide trasformazioni in tutto il settore dei trasporti.
La costruzione delle strade fu salutata e acclamata come
un’opera democratizzatrice, capace di distribuire lo sviluppo
sul territorio.
Invero, già a partire dagli anni 50 le forze politiche ed economiche puntarono inevitabilmente sulla strada, anche in vista
dell’occupazione che avrebbe potuto apportare: di conseguenza i segnali di questa nuova volontà politica furono i più
svariati e diversi58.
Una vera e propria svolta si ebbe, però, con la discussione
del bilancio per l’esercizio finanziario 1954-55 del dicastero
58. In primis ricordiamo il programma di opere stradali elaborato, fra il
1951 e il ’52, dall’Anas su richiesta del Ministro dei Lavori pubblici Aldisio. Il piano, presentato alla IX Conferenza del Traffico di Stresa sulla
viabilità, stanziava notevoli somme di denaro destinate ad ampliare la
rete stradale, a costruire nuove autostrade e a raddoppiare quelle già in
esercizio e prevedeva anche somme per la realizzazione di piste ciclabili.
Un secondo segnale fu la fondazione, il 16 giugno del 1952, della Federazione Italiana della Strada, atta a promuovere la cooperazione in materia di problemi della strada, di tutti gli Enti, le Associazioni, le Imprese
ecc. Un terzo segnale fu dato dalla costituzione del gruppo parlamentare “Amici dell’automobile”. Tra le proposte dei soci del gruppo, merita
di essere menzionata quella dell’onorevole Del Fante, che prendendo a
modello le free–way americane, sollecitava la costruzione di un sistema
viario longitudinale e latitudinale di grandi camionali, con spartitraffico
a due sedi, ciascuna a tre vie, per una larghezza totale non inferiore 22
metri. La proposta di legge rimase però alla commissione Lavori Pubblici della Camera, sia per il crescente consenso di cui godevano sempre più
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Lei non sa chi sono io - L’AUTOMOBILE
dei Lavori pubblici, alla quale partecipò per la prima volta il
ministro socialdemocratico Romita, il quale propose che
buona parte delle strade fossero assegnate all’organismo centrale statale, l’Anas, lasciando alle province un limitato
numero di tratti di minore importanza, tra cui le strade, sino
ad allora, comunali.
A questa prima proposta, il Ministro presentò il 9 novembre
1954 il primo piano organico autostradale italiano, il quale
contemplava due ipotesi:
- affidare direttamente all’Anas la costruzione delle tratte
autostradali, cosicché l’Anas potesse contrarre mutui,
ammortizzabili in un periodo non superiore a trent’anni, con
il Consorzio di credito per le opere pubbliche o con altri istituti di credito ed Enti di diritto pubblico;
- prevedere la concessione della costruzione e dell’esercizio
delle autostrade a privati, tramite bando statale di attribuzione, ove non si superasse il 40 % del costo di costruzione,
con una durata della concessione non superiore a trent’anni
e con la possibilità di introdurre pedaggi di tassazione.
le autostrade, sia a causa dei costi preventivati: 250 milioni per lo studio
e la progettazione dei primi 2000 chilometri e un costo di realizzazione
di 200 milioni per chilometro: insomma un investimento totale di oltre
700 miliardi di lire. Vedi a tal proposito BIAGINI A., Politiche provinciali e interventi pubblici: l’Era della Strada, in La Provincia di Pesaro e
Urbino nel Novecento, caratteri, trasformazioni e identità, Venezia,
2003.
90
III - IL CODICE
DELLA
STRADA
DEL
1959
La sola voce decisamente contraria al “piano Romita” fu
quella di Del Fante, che denunciò, senza remore, la legittima
preoccupazione delle piccole e medie imprese edili: infatti i
rappresentanti di tali categorie temevano che il trust affaristico fuori dalla loro portata, impedisse loro di aggiudicarsi
gli appalti. Per questo Del Fante rivolse un invito esplicito
alla FIAT, alla Pirelli e all’Italcementi “di non ingerirsi in affari non di loro pertinenza”.
L’opposizione della sinistra al piano Romita fu invece esigua:
nessuno voleva addossarsi la responsabilità di arrestare un
disegno di legge che poteva contribuire ad apportare lavoro
al popolino. I deputati di sinistra si limitarono quindi solo a
denunciare l’assenza di un piano generale dei trasporti e
l’esiguità dei finanziamenti ivi predisposti.
Nonostante ciò, o forse grazie a ciò, il 12 maggio 1955, la
VII Commissione approvò il disegno di legge Romita (Legge
23 maggio 1955, n. 463), con un’ampia maggioranza: 29
voti favorevoli e 4 contrari. Con l’approvazione del “piano
Romita” l’era autostradale e la scelta a favore della strada e
dei trasporti privati era ufficialmente iniziata.
“L’ETÀ DELL’ORO” DELLE AUTOSTRADE.
L’Italia intera si trovò dal 1955 in preda ad una travolgente
retorica autostradale che inneggiava all’ “Autosole” come al
simbolo della rinascita nazionale.
Il cemento e l’asfalto della Milano-Napoli divenivano così
l’emblema di un Paese che si scrollava di dosso, in tutta fretta, gli anni della dittatura e della povertà.
91
Lei non sa chi sono io - L’AUTOMOBILE
Nel fervore complessivo c’era persino spazio per “il Gioco
dell’Autostrada del Sole”, distribuito gratuitamente a tutti i
piccoli in visita al “Salone del bambino” presso la Fiera di
Milano.
Questo binomio parallelo strade-autostrade pose tuttavia un
nuovo e serio problema: quello di un’armonizzazione legislativa tra due discipline differenti.
È solo nel 1958 che si registrò, con la legge del 12 febbraio
1958, n. 126, la ridefinizione dei meccanismi di classificazione e suddivisione delle strade non solo in base ai soggetti che
ne erano riconosciuti titolari, ma anche in base alle loro stesse funzioni.
Secondo questa legge, i tratti di maggior traffico e rilevanza
dovevano essere di pertinenza degli Enti territoriali più
attrezzati, come lo Stato e le Province, sottraendoli ai Comuni che, a loro volta però, avrebbero visto crescere il proprio
reticolo stradale, a causa delle nuove assegnazioni derivanti
o da strade nuove urbane o dalla riclassificazione di strade
minori, quali vicinali, di bonifica ecc.
Le costruzioni autostradali ebbero il loro apice nella IV e
nella V Legislatura (tra il 1963 e il 1972 quindi), a causa del
sorprendente aumento del traffico, che comportò il varo di
una lunga serie di leggi, atte a completare ed estendere ulteriormente la normativa di riferimento.
Ciò nonostante la politica autostradale, ad un certo punto,
conobbe una battuta d’arresto, in particolare nel 1970,
quando il governo Colombo bloccò la realizzazione di ottocento chilometri di autostrade e approvò due leggi volte a
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III - IL CODICE
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STRADA
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1959
favorire lo sviluppo della rete ordinaria che continuava a
presentare notevoli carenze strutturali. Era sempre più evidente la grave situazione in cui si trovavano i gestori delle
autostrade, in conseguenza della cessazione del regime fiscale di favore accordato alle concessionarie dalla Legge Fanfani del ‘61 e in una certa misura anche per la crisi petrolifera
che nel corso del 1974 causò una diminuzione del traffico
automobilistico rispetto allo stesso anno precedente.
Solamente di fronte alla crisi delle società concessionarie si iniziò a prendere coscienza degli squilibri provocati dalla politica autostradale: troppe le pressioni delle case automobilistiche, insistenti quelle dei costruttori edili, motivo per cui erano
state concesse autostrade costose e spesso inutili, che avevano
assorbito la quasi totalità delle risorse finanziarie, rallentando
così, l’estensione della rete viaria ordinaria, molto più utile
allo sviluppo del Paese e da cui avrebbero tratto giovamento
una miriade di piccole e medie imprese del territorio nazionale, situate ben lontane dai percorsi autostradali59.
Vi è stato infine un altro motivo di ulteriore squilibrio. Le
autostrade costruite parallelamente alle principali linee autostradali, costituirono la causa principale della crisi del setto-
59. A prova di ciò, vi è il fatto che la costruzione delle autostrade non ha
favorito il decollo economico di ampie aree appenniniche nella misura
prospettata da chi aveva sostenuto a spada tratta i piani autostradali, né
ha permesso alle Regioni meridionali di recuperare il loro storico ritardo
rispetto alle aree industrializzate del Nord. Per non parlare poi di quanto disomogeneo sia stato questo sviluppo territoriale; che le attività indu-
93
Lei non sa chi sono io - L’AUTOMOBILE
re ferroviario italiano, incapace di reggere la concorrenza
con l’autotrasporto soprattutto nel settore del traffico merci.
Le scelte degli anni 50 furono volte, quindi, a favorire lo
sviluppo delle grandi autostrade e della motorizzazione privata, penalizzando il trasporto pubblico e accentuando gli
squilibri territoriali attraverso una politica che favorì le
regioni più industrializzate.
Contemporaneamente cominciarono ad affiorare i primi
“scandali autostradali” e si iniziò a mettere sotto accusa
la costruzione di molte tratte, considerate solo come promesse elettorali di importanti esponenti politici di area
governativa.
Il Direttore di Quattroruote ad esempio non si sottrasse dal
rendere noto lo “scandalo” della costruzione delle due autostrade abruzzesi che collegano Roma con Pescara e con
L’Aquila. Nonostante infatti l’Abruzzo fosse una delle regioni italiane con il volume di traffico più basso, si procedeva
alla costruzione di due tratte, praticamente parallele.
Il presidente dell’ACI, Filippo Carpi de Resini, parlò di “folle politica autostradale, e criticò anche la “pratica sempre
diffusa in occasione di ogni progetto autostradale di gonfiare le previsioni del traffico sempre crescenti e di considerare
congelati i costi di lavorazione e delle materie prime; un
striali abbiano finito per insediarsi quasi esclusivamente in corrispondenza dei raccordi autostradali, non è un mistero per nessuno, con conseguente affossamento delle aree ubicate a maggiore distanza dai caselli
autostradali.
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III - IL CODICE
DELLA
STRADA
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escamotage che invece sotto la copertura di nuove iniziative
autostradali, serviva a soddisfare fameliche clientele e interessi parapolitici”60.
La costruzione di nuove autostrade, in conseguenza di tutto
ciò, rimase bloccata per circa sette anni (dal 1975 al 1982);
il 1975 può essere considerato quindi l’anno in cui si concluse definitivamente “l’età dell’oro” delle autostrade.
Ben consapevole di tutto ciò, la politica continuò ad ignorare le raccomandazioni dei tecnici circa la necessità di rivedere l’intera programmazione del settore infrastrutturale e di
conseguenza, temendo anche una crisi dai risvolti economici
nazionali, rilanciò la politica autostradale soprattutto al
Nord, causando, di conseguenza, un’inevitabile squilibrio tra
le varie reti di trasporto (basti ricordare che dal 1980 e il
1993 la lunghezza complessiva della rete stradale era cresciuta del 3,45%, a differenza di quella del settore ferroviario che
vide diminuire la sua estensione)61 e un’ingiusta distribuzione
delle infrastrutture a scapito delle regioni del Sud del Paese62.
60. In tal senso PAOLINI F., Un Paese a quattro ruote, Automobili e
società in Italia,Venezia, 2005.
61. Per una dettagliata analisi dei dati inerenti alle reti di trasporto in Italia, nel periodo esaminato dallo studio sopraesposto, nonché per maggior
approfondimenti, è possibile consultare la monografia di PAOLINI F.,
op.cit.
62. Nel 1991 a fronte del 45,09% delle infrastrutture del Nord, il centro possedeva il 19,96%, il Sud il 24,17% e le isole solo il 10,78%, (Cfr.
GIUNTINI, Nascita, sviluppo e tracollo della rete infrastrutturale, in
Storia d’Italia, Annali XV. L’industria, Torino, 1999).
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Lei non sa chi sono io - L’AUTOMOBILE
LA RESPONSABILITÀ CIVILE AUTO.
Non vi è dubbio che lo sviluppo delle reti stradali concepite
e costruite con criteri del tutto differenti da quelle che nei
secoli furono sperimentati per le arterie destinate ad convogliare i traffici imperniati sui veicoli a trazione animale; nonché un ponderato sistema di segnalazioni; una prudente
disciplina degli incroci e dei sorpassi; una limitazione della
velocità e più di tutto un’educazione di tutti gli utenti della
strada, se furono tutti fattori che poterono servire sul piano
della prevenzione a ridurre il numero degli incidenti, di certo non riuscirono ad impedire il verificarsi degli stessi. Da
qui l’esigenza, che fu alla base della responsabilità civile
degli automobilisti, di integrare i rimedi preventivi e a anche
repressivi con quelli riparatori63.
Tuttavia in Italia, a differenza degli altri Paesi europei64,
nonostante la problematica fosse avvertita sin da quando le
automobili cominciarono a correre sempre più numerose
nelle strade, l’assicurazione della responsabilità civile autoveicoli fu rimessa all’iniziativa dell’utente, soprattutto di
63. Il risarcimento è il momento culminante di tale rimedio, la cui fase
iniziale è data dal rischio, si concreta con il danno, di solito, incolpevole e si chiude con la reintegrazione della vittima. Il criterio di imputazione dello stesso è dato dal principio del neminem laedere e la cui finalità
è quella di evitare che le conseguenze di un ingiusto danno ricadano su
chi lo ha patito o possano essere trasferite sulla collettività.
64. Il primo sistema di assicurazione obbligatoria fu introdotto nel 1918
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III - IL CODICE
DELLA
STRADA
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quelli più agiati e alla sua coscienza dei doveri sociali. È evidente che la facoltatività della responsabilità civile auto non
potette garantire l’eguaglianza dei cittadini di fronte al
rischio e di conseguenza si impose il bisogno di individuare
un modello regolamentare capace di rispondere ad una
copertura collettiva.
L’impegno del nostro Paese alla elaborazione di una legge
che prevedesse l’assicurazione obbligatoria degli automobilisti si inscrive in uno scenario internazionale risalente sin dal
1934, quando l’Istituto Internazionale per l’Unificazione del
Diritto Privato (UNIDROIT) costituì, per lo studio del problema, un Comitato di esperti, del quale furono chiamati a far
parte non solo giuristi, diplomatici e magistrati ma anche
rappresentanti dell’Associazione Internazionale degli Automobile-Clubs riconosciuti, del Reale Automobile Club d’Italia, nonché delle Imprese assicuratrici.
Il gruppo di lavoro compilò, nell’arco di due anni, due progetti che furono particolarmente apprezzati dalla Società
delle Nazioni ma che gli imminenti eventi bellici contribuirono a vanificare.
Terminato il conflitto mondiale, il Consiglio d’Europa, nel
1954, affidò il riesame degli studi dell’UNIDROIT alla Comin Danimarca; in Norvegia nel 1926; in Austria e Svezia nel 1929, in
Inghilterra nel 1930, in Germania nel 1939; in Francia nel 1958; in Spagna nel 1962. È possibile trovare notizie storico-giuridiche interessanti in
merito al problema dell’obbligatorietà dell’assicurazione autoveicoli nel
nostro paese sulla Rassegna dell’automobilismo dell’ACI, 1963.
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Lei non sa chi sono io - L’AUTOMOBILE
missione Economica per l’Europa che, due anni più tardi,
approvò, dopo un ampio dibattito, lo schema di un Trattato col quale gli Stati aderenti avrebbero dovuto impegnarsi ad introdurre nella loro legislazione l’assicurazione
obbligatoria.
Secondo i principi informatori dello schema:
- le vittime degli infortuni stradali avrebbero dovuto essere
efficacemente tutelate e quindi ad esse andava garantito – in
ogni caso – un pronto e sicuro risarcimento;
- il migliore e sicuro sistema di tutela sarebbe stato rappresentato senza dubbio dall’assicurazione obbligatoria, ove se
ne fosse affidata la gestione ad Imprese assicuratrici, autorizzate all’esercizio in virtù delle varie leggi territoriali;
- le singole leggi nazionali avrebbero dovuto, per l’attuazione dell’assicurazione obbligatoria sul piano europeo, adottare una serie di principi unitari, non derogabili in pejus, ma
sarebbero state libere di accrescere le garanzie, tenendo conto del livello di reddito di ogni Paese.
L’elaborato del Comitato degli esperti, anche se con alcuni
emendamenti, portò alla stesura di una Convenzione europea che fu firmata a Strasburgo il 20 aprile 195965.
Con la firma della suddetta Convenzione, sintetizzata per
65. La Convenzione fu sottoscritta dall’Austria, dal Belgio, dalla Francia, dalla allora Repubblica federale tedesca, dalla Grecia, dall’Italia, dalla Norvegia, dal Lussemburgo e dalla Svezia.
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III - IL CODICE
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sommi capi, e per conformarsi alla stessa, il governo italiano
avrebbe dovuto presentare, di sua iniziativa, un progetto di
legge e ben avrebbe potuto fare dato che la questione per il
nostro Paese non era nuova. Fu, infatti, di quegli anni il primo progetto di una Commissione di esperti finalizzato a
garantire la dovuta riparazione alle vittime degli incidenti
provocati dalla circolazione stradale.
Lo studio si ispirava a quattro principi fondamentali e precisamente:
- la permanenza dei concetti ispiratori degli articoli 2054 e
seguenti del Codice Civile;
- la limitazione dell’imposto obbligo di assicurare al risarcimento dei soli danni prodotti alle persone;
- l’estensione della garanzia ai danni sofferti dalle persone
trasportate se prodotti da autoveicoli destinati ad uso pubblico;
- l’indissolubile legame tra il contrassegno attestante il
pagamento della tassa di circolazione e l’assicurazione
obbligatoria.
Nonostante dal progetto emergesse una esaustiva protezione
accordata al danneggiato non si tradusse in legge e rimase
nel silenzio66.
66. In tal senso vedi l’articolo di MORMINO A.P., L’assicurazione
obbligatoria della responsabilità civile, in Trattato della responsabilità
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Lei non sa chi sono io - L’AUTOMOBILE
Solo, più tardi, e precisamente nel 1969, l’incertezza del legislatore su quale modello regolamentare adottare per garantire una copertura assicurativa collettiva, venne superata con
la sistemazione della materia nella legge del 24 dicembre
1969, n. 990.
Tale legge è rimasta per oltre trent’anni, dalla sua entrata in
vigore, il fulcro della disciplina dell’assicurazione obbligatoria della responsabilità civile automobilistica.
civile - Responsabilità e Assicurazione, a cura di CAVALLO BORGIA R.,
Milano, 2007. Occorre rilevare che la legge che introdusse l’obbligo di
assicurazione per i proprietari dei veicoli a motore e dei natanti, enunciò
alcuni principi: l’obbligo di assicurarsi e l’obbligo a contrarre; l’azione
diretta per il risarcimento del danno; il fondo di garanzia delle vittime
della strada. Nella sua originaria formulazione la legge escludeva tra i
soggetti beneficiari della garanzia i terzi trasportati sui veicoli a motore
e tale lacuna venne integrata solo nel 1977 con la legge n. 39 con l’estensione anche a tale categoria di soggetti della garanzia assicurativa, fatta
eccezione per gli stessi responsabili o a coloro che sono ad essi legati da
particolari legami di parentela e affinità.
100
IV - IL CODICE
DEL
1992
IV
IL CODICE DEL 1992
Con gli inizi degli anni 90 l’automobile è, come già accaduto in tutto il secolo, strettamente connessa a quelli che sono
i dibattiti politici ed istituzionali per una nuova codificazione legislativa, che vedrà la sua luce nel 1992, con il Codice
della Strada tuttora vigente, ma che avrà i suoi primi vagiti
già durante gli anni 80.
Importante tuttavia sottolineare che ora i problemi da
affrontare non sono più “un’automobile ed una strada”, ma
tutte le diseconomie esterne che tali entità comportano.
Il Codice della Strada del 1992, è infatti il frutto di fenomeni di “assimilazione e acculturazione”, porta i segni del suo
passato e delle numerose riforme adottate nel tempo, in funzione dei mutamenti storici e di costume di una società in
continuo divenire, ove il peso di nuovi valori legati all’ambiente, alla sicurezza, all’integrazione delle legislazioni trovano nuovi modelli di composizione sempre più dettagliati e
sempre più ispirati al mutato contesto internazionale di riferimento.
“HUMUS” ALLA BASE DELL’EVOLUZIONE GIURIDICA
DELLA LEGISLAZIONE STRADALE NEGLI ANNI 90.
Quelli che precedono il Codice del 1992 sono anni di grandi cambiamenti, in cui il progresso sembra inarrestabile. È il
1969 quando gli americani Armostrong e Aldrin mettono,
101
Lei non sa chi sono io - L’AUTOMOBILE
per la prima volta, piede sulla luna e si diffonde una sensazione di onnipotenza; ma sono anche anni di progresso politico in cui lo Stato diviene sempre più garantista dei diritti
dei suoi cittadini. È il 20 maggio del 1970 quando il Parlamento italiano adotta lo Statuto dei lavoratori, sono, inoltre,
anni di importanti conquiste civili. Il legislatore emana il
nuovo diritto di famiglia (1975) con cui sancisce la parità
morale e giuridica dei coniugi, abolisce la dote e riconosce
pari dignità e pari diritti ai figli nati fuori dal matrimonio, il
14 aprile del 1978 è approvata la legge che depenalizza
l’aborto, pochi anni dopo nel 1980, è istituito il Servizio
sanitario nazionale che consente a tutti gli italiani di essere
curati gratuitamente indipendentemente dalle loro condizioni reddittuali.
Sono, infine, anche anni in cui si diffonde una nuova cultura attenta all’ambiente, alla vita umana e alla loro tutela.
Nasce, una nuova sensibilità in materia automobilistica, che
alcuni timidi provvedimenti legislativi e l’industria incominciano a recepire: la General Motors inventa la prima marmitta catalitica; in Francia, è già imposto l’obbligo della cintura di sicurezza, a testimonianza di una nuova generalizzata attenzione verso un aspetto della circolazione, quello della salute umana, che, fino a quel momento, non era stato
oggetto di specifiche attenzioni da parte del legislatore.
Fra il Codice del 1959 e il Codice del 1992, intervengono,
inoltre, in quegli stessi anni, due importanti riforme giuridiche che, seppur non direttamente collegate con il diritto della circolazione stradale, finirono per influenzarne i contenu102
IV - IL CODICE
DEL
1992
ti, con particolare riferimento agli aspetti sanzionatori.
La prima è legata all’adozione del nuovo Codice di Procedura Penale, che, approvato nel 1988, introduce la nuova formula basata su un modello “di tipo accusatorio”, in contrapposizione al modello “inquisitorio” previsto dal vecchio
Codice Rocco di epoca fascista; la seconda riguarda il consistente processo di depenalizzazione con il quale è mutata la
natura stessa di molte sanzioni stradali, nella convinzione,
ad esempio, che la misura detentiva del carcere dovesse rappresentare una extrema ratio, con la conseguente necessità di
individuare valide soluzioni alternative.
Giova sottolineare come, indipendentemente dalle ragioni
che l’hanno giustificata, l’azione di depenalizzazione è un
processo che non riguarda solo l’Italia. La stessa procedura
è, infatti, adottata anche dalla maggioranza degli altri Paesi
europei, i quali per fronteggiare l’ipertrofia dei loro ordinamenti e per restituire alla sanzione penale “la sua naturale
dimensione sussidiaria e frammentaria”67, hanno fatto ricorso a tale istituto.
LA PECULIARE NATURA DEL NUOVO TESTO.
Il lungo processo di depenalizzazione ci consegna un Codice
fortemente incentrato sulla sanzione amministrativa, e in
particolare su quella pecuniaria, che non è tuttavia l’unica
67. Tale definizione è del Prof. Bernardi. Per maggiori approfondimenti
sul punto è possibile consultare BERNARDI A., in Brevi note sulle linee
evolutive della depenalizzazione in Italia, op. cit.
103
Lei non sa chi sono io - L’AUTOMOBILE
importante innovazione contenuta nel nuovo testo del 1992.
Il nuovo Codice, infatti, recependo le ripetute sollecitazioni
provenienti dai diversi soggetti impegnati nel settore, primi
fra tutti l’Automobile Club d’Italia, predispone un insieme di
regole che inseriscono la disciplina della circolazione stradale all’interno di un corpo più consistente di norme ispirato
ad un programma pubblico e globale del settore trasporti.
Cambia cioè l’approccio.
Da un lato si procede ad un accorpamento delle vecchie
discipline in un unico testo in cui confluiscono il vecchio
Codice del 1959 e il R.D. del 1933 sulla tutela delle strade e
delle aree pubbliche, dall’altro gli articoli sono quasi raddoppiati nel numero e nella lunghezza a testimonianza di un
più completo progetto legislativo.
Le definizioni sono perfezionate attraverso una più
approfondita elencazione di dettagli e precisazioni, i conflitti di competenza sono risolti, attraverso il disegno completo
di un nuovo “quadro del potere” nel quale il numero di soggetti pubblici incaricati della regolamentazione del settore è
ampliato anche in funzione dei nuovi orientamenti e delle
linee guida europee, sollecitazioni e impulsi attraverso i quali soggetti come il Ministero dell’Ambiente vedono riconoscersi un nuovo ruolo nel rinnovato assetto di pianificazione
dei trasporti.
La molteplicità degli interessi tutelati trova conferma già nei
primi articoli del nuovo testo, ove, in una visione di ampio
respiro, vengono inclusi, fra gli obiettivi da perseguire, oltre
alla sicurezza stradale, anche la riduzione dei costi economi104
IV - IL CODICE
DEL
1992
ci, sociali ed ambientali o il livello di qualità della vita dei
cittadini, (art. 1 c. 2).
Come evidenziato, all’ampio ventaglio di finalità, si accompagna un altrettanto ampio elenco di soggetti incaricati, suddiviso fra organi nazionali e locali68.
Con il Codice del 1992 sembrerebbe ormai maturo il tempo
di considerare il sistema della circolazione stradale, non più
soltanto come una sommatoria di regole e di interventi settoriali (demanio stradale, polizia amministrativa, caratteristiche costruttive dei veicoli a motore), bensì “alla stregua di
un sottosistema amministrativo autonomo da scorporare,
almeno dal punto di vista dell’analisi sistematica, un sistema
[…] da analizzare in modo unitario, ricercando al suo interno quegli elementi di coerenza che devono essere alla base di
una razionale regolamentazione amministrativa”.
In altri termini, il Codice del 1992 fornisce alla disciplina
della circolazione stradale la dignità di materia a sé stante,
contraddistinta da proprie regole, propri principi, intrinsecamente diversi e peculiari rispetto a quelli tipici del diritto
amministrativo “generale”.
Basti pensare al fatto che il diritto sanzionatorio amministrativo previsto dal Codice della Strada è l’unico diritto sanzionatorio esistente ad essere adottato anche nell’interesse e talvolta SOLO nell’interesse del soggetto sanzionato.
68. In tale contesto, di particolare rilevanza, può essere considerata la
regolamentazione della circolazione nei centri abitati, affidata ai sindaci
delle diverse municipalità.
105
Lei non sa chi sono io - L’AUTOMOBILE
Per esemplificare e chiarire meglio la considerazione di cui
sopra, basti pensare all’art. 172 del nuovo C.d.S., che prescrive l’uso delle cinture di sicurezza, norma che, a ben vedere, è finalizzata a tutelare il solo soggetto trasgressore. Lo
protegge infatti da eventuali danni nei quali questi possa
incorrere a seguito di incidente stradale e non altri soggetti
diversi dallo stesso, in una visione che differisce, ad esempio,
da tutte le norme previste dal Codice Penale (si pensi al reato di furto, di truffa, di omicidio, di falso). Si tratta di modello di legislazione che non trova equivalenti in altre materie,
in cui il soggetto che viola la norma è punito per essere protetto lui stesso e non un altro.
LE DISPOSIZIONI PARTICOLARI.
A) La tutela ambientale.
Con il Codice del 1992 prende vigore la questione ambientale. Molte disposizioni vengono adottate allo scopo di
ridurre l’inquinamento acustico o atmosferico; è il caso degli
artt. 13 e 36, che finalizzano l’attività di progettazione stradale alla riduzione dell’impatto e quindi del danno ambientale generalmente inteso.
Nonostante i lodevoli sforzi legislativi mirino alla tutela dell’ambiente circostante, merita di essere evidenziato come i
più recenti studi in materia, incomincino a sottolineare la
marginalità del contributo del settore trasporti al problema
dell’inquinamento globale, riconducendo lo stesso, in forma
prevalente ad altre fonti di inquinamento.
106
IV - IL CODICE
DEL
1992
Sono per la prima volta presenti nel Codice del 1992 le
disposizioni che oggi giustificano la maggior parte delle
misure di limitazione della circolazione stradale (isole pedonali, zone a traffico limitato, circolazione alterna dei veicolo
in relazione al numero finale contenuto nella targa, sussidi al
trasporto pubblico locale).
Nasce e si diffonde l’idea che nel compromesso fra mobilità e
ambiente il secondo non debba incondizionatamente sacrificarsi al primo, ma si debba cercare un equo punto di incontro.
In quest’ottica, le moderne ZTL assolvono la stessa funzione
delle vecchie mura cittadine (con le quali, tra l’altro, spesso
condividono l’estensione), proteggendo i moderni centri storici dall’assalto, quasi sempre pacifico, delle fiammanti autovetture. In un contesto già particolarmente sensibile intervengono poi le disposizioni contenute nel Protocollo di Kyoto con le quali l’Italia si impegna a ridurre le emissioni di gas
serra, in relazione agli standards ottenuti nel 1990.
La circolazione stradale non rientra negli impegni internazionali assunti dal nostro Paese, ma la “strada per Kyoto” e
per i suoi obiettivi, passa anche attraverso un’azione di regolamentazione intelligente dell’inquinamento prodotto dalla
circolazione stradale.
B) La questione della sicurezza.
Trovano ampio spazio nel Codice del 1992 le nuove disposizioni dedicate alla sicurezza. È esteso, confermato, perfezionato e generalizzato l’obbligo delle cinture, la cui applicazione uniforme in tutta Europa, discende direttamente dalla
107
Lei non sa chi sono io - L’AUTOMOBILE
direttiva 91/671/CEE la quale a sua volta, trova ispirazione
nelle direttive 77/541/CEE e 76/115/CEE.
Con tali provvedimenti normativi, a distanza di circa un secolo dalla sua invenzione, è introdotta definitivamente nel diritto
della circolazione stradale l’obbligo della cintura di sicurezza69.
Con il Codice del 1992 si rafforzano gli obblighi di formazione alla guida e la severità e complessità delle norme finalizzate a ridurre il rischio di incidenti.
C) Le risorse limitate.
In termini di “economia del benessere” è possibile affermare
che il nuovo Codice prenda finalmente coscienza della limitatezza delle risorse stradali in relazione ai molteplici bisogni
degli utenti. Sulla scia dei precetti contenuti nella legge
Tognoli, l’art. 7 del Codice della Strada consente ai Sindaci
la possibilità di riservare degli spazi nei quali la sosta è
subordinata al pagamento di una tariffa. Si tratta ovviamente del tentativo, purtroppo spesso vano, di arginare l’assalto
69. Alcune fonti ci dicono che le cinture o meglio “le bretelle di sicurezza” furono inventate e brevettate dal francese Gustave Desirè Liebau, nel
1903. Tuttavia la ridotta velocità dei veicoli, unita alla cattiva qualità dei
materiali utilizzati per la loro realizzazione, non ne consentirono l’immediata diffusione, la quale arrivò molti anni dopo, dapprima nelle competizioni sportive, dove si riteneva che le cinture di sicurezza aiutassero i
guidatori a tenere una posizione corretta, poi nell’industria di massa. Il
primo Stato che le dichiarò obbligatorie per legge fu la Francia (era il
1973), seguita immediatamente dagli Stati Uniti, dove lo Stato del Massachusetts le rese obbligatorie nel 1975.
108
IV - IL CODICE
DEL
1992
delle autovetture rispetto alla ricerca selvaggia di parcheggio, in un mutato contesto in cui la mobilità si trasforma
sempre di più da piacere a necessità.
IL NUOVO QUADRO DEI POTERI IN MATERIA
DI CIRCOLAZIONE STRADALE.
Il Codice del ’92 disegna, infine, il nuovo quadro del potere
in materia di circolazione stradale, affidando al Ministro dei
Lavori Pubblici (oggi Ministro delle Infrastrutture e dei Trasporti) il compito di impartire ai Prefetti e agli Enti proprietari delle strade le direttive per l’applicazione delle norme
concernenti la regolamentazione della circolazione, conferendogli, in caso di inosservanza, poteri di diffida nei confronti degli Enti proprietari per l’adozione dei relativi provvedimenti e in caso di ulteriore inosservanza e, in ogni caso,
di grave pericolo per la sicurezza, poteri sostitutivi per l’esecuzione delle opere necessarie, con diritto di rivalsa nei confronti degli Enti medesimi, a conferma di un nuovo e maturo disegno politico che sembra conferire alla circolazione
stradale diritto di materia a se stante.
DAL 1992 AD OGGI: UN BISOGNO COSTANTE
DI INTERVENTI NORMATIVI
Come tutti i grandi progetti di riforma, dunque, il testo del
1992, ha richiesto, sin dalla sua adozione, una serie di interventi correttivi che ne precisarono la natura e la portata
modificatrice. Tali atti, tuttavia, non risultarono sempre
mirati ed efficaci ed anzi, spesso, si rivelarono “abbondanti”
109
Lei non sa chi sono io - L’AUTOMOBILE
nel numero, con una prassi che non trovò pause, né battute
d’arresto fino ai giorni nostri, in un lasso di tempo di circa
16 anni in cui il Codice fu modificato più di 60 volte.
Queste correzioni, succedutesi nel tempo, oltre che per le
prevedibili antinomie che generarono, furono criticate dagli
esponenti della dottrina anche per altre ragioni. Alcuni successivi aggiornamenti, infatti, crearono esempi di legislazione un po’ bizzarra. Uno fra questi fu rappresentato dall’art.
173 comma 3 il quale, dopo aver vietato l’uso dei telefoni
cellulari durante la guida, recita testualmente: è consentito
l’uso di apparecchi auricolari purché il conducente abbia
adeguate capacità uditive ad entrambe le orecchie che non
richiedono per il loro funzionamento l’uso delle mani70.
È anche vero che le modifiche intervenute, e che intervengono,
sul Codice del 1992, trovarono, e trovano, la loro importanza
per l’inevitabile e fisiologica incidenza che le stesse sono destinate ad avere sulla sicurezza stradale e quindi sulla vita umana.
Questo processo di continua riforma è iniziato nel 1993
immediatamente dopo l’approvazione del “nuovo Codice
della Strada” ed è proseguito incessantemente, anche per
effetto diretto o indiretto dell’evoluzione della Pubblica
Amministrazione (modifica del titolo V della Costituzione).
Sarebbe probabilmente fuori luogo, in questa sede, riportare
ogni passaggio delle riforme, ed è forse più opportuno chia70. Dalla comprensione letterale del testo sembra quasi che possano usare l’auricolare soltanto quei conducenti che necessitino delle mani per il
funzionamento delle loro orecchie.
110
IV - IL CODICE
DEL
1992
rificare quella che, più di altre, si è distinta per i positivi
effetti ottenuti sulla riduzione degli incidenti: la patente a
punti, introdotta nell’ordinamento italiano nel 2002 ad opera del D.lgs. n. 2 e subito riformata ad opera del Decreto legge 151/2003 e della Legge 214/2003.
Il risultato di tanto legiferare ci consegna un sistema sanzionatorio destinato a rivelarsi particolarmente deterrente per la
sua capacità di incidere in maniera significativa sulle abitudini dei conducenti, arrivando fino (nel caso del ritiro della
patente) a condizionarli nella scelta del mezzo. È una misura
importante grazie alla quale il numero delle vittime sulle strade si riduce in misura consistente e che deriva la propria forza anche dalla sua capacità di colpire indistintamente “poveri e ricchi”71, nonché da una mutazione ontologica, strutturale della qualità della sanzione: non più solo denaro da richiedere a chi sbaglia, ma studio che deve essere richiesto a chi,
oltre un certo limite, viola le regole di sicurezza per sé e per
gli altri; insomma, “chi più sbaglia, più studia”.
VELOCITÀ MASSIMA.
Tutto questo bisogno di riforme fa riflettere su come cambia
velocemente il nostro presente.
71. L’istituto giuridico della patente a punti appartiene all’ordinamento
giuridico internazionale dal 1947, anno in cui la prima rudimentale forma di punti fu introdotta negli Stati Uniti e precisamente nello stato del
Connecticut. Poi fu la volta del Regno Unito, nel 1962, a seguire, nel
1967, la Nuova Zelanda e alcuni Stati dell’Australia.
111
Lei non sa chi sono io - L’AUTOMOBILE
I dibattiti parlamentari degli anni 2001 e 2002 si concentrano, in lunghi stralci, sul tema della velocità, non soltanto
legato al concetto di “velocità veloce”, ma anche e soprattutto connesso ai modelli di autovetture, di strade, di volume di
traffico, di condizioni atmosferiche. Ovvero, se per alcuni
parlamentari la questione era quella di differenziare fortemente i limiti di velocità in base alla tipologia di automobile, quindi una cinquecento mai avrebbe potuto essere alla
pari di una vettura dotata di strumenti di sicurezza accessori, quali ABS, airbag, cinture di protezione laterale, strumenti di prevenzione di danni da fuoco, per altri era necessario
il proseguimento di una standardizzazione ed anche forse di
una maggiore limitazione della velocità.
Infatti, per questi secondi, causa inconfutabile della mortalità sulle strade, e quindi dell’incidenza sul sistema sanitario
nazionale e sui costi sociali ivi connessi, era fortemente l’alta velocità.
Tale mito, dunque, che dagli anni 50, come precedentemente ricordato in questo libro, divenne strettamente legato
all’evoluzione automobilistica, e si affermò a modo di essere degli individui, col tempo ha cominciato a divenire un
problema, ed ha così avuto con i primi anni del nuovo millennio una forte battuta d’arresto.
La questione fondamentale era vedere se la velocità potesse
conciliarsi, nel nostro Paese, con gli obbiettivi centrali del
Codice del 1992, cioè con quello della sicurezza, della tutela
dell’ambiente e con quello della diminuzione dei consumi
energetici.
112
IV - IL CODICE
DEL
1992
D’altronde in Europa la tendenza non era quella di aumentare la velocità, ma di aumentare la sicurezza per diminuire
il numero delle vittime della strada.
Si è cominciato a pensare quindi che, ritenendo sconveniente impedire alle case automobilistiche di creare macchine
sempre più potenti, si dovesse comunque intervenire in qualche modo sull’esternalità negativa della velocità, cercando di
combattere il mito dell’automobile da corsa, col suo cofano
adorno da grossi tubi simili a serpenti dall’alito esplosivo,
“ruggente, che sembra correre sulla mitraglia, più bella della Vittoria di Samotracia”.
A distanza di quasi dieci anni da quei dibattiti, è interessante e confortante, notare come sulle pubblicità delle autovetture non si espliciti più la velocità raggiungibile e il tipo di
accelerazione perseguibile, ma la vendita delle automobili è
incentivata dai comforts ivi presenti, dai bassi consumi e dalle tecnologie installate.
L’AUTOMOBILE DEL FUTURO.
Giunti ormai, all’epilogo, di questa prima parte del libro, ci
si può rendere conto, ritornando all’inizio del 1900 e per
buona parte del secolo, di come, grazie all’invenzione dell’automobile, tutto ciò che riguardava la circolazione stradale sembrava aver trovato una soluzione ottimale, tutti i luoghi erano più facilmente raggiungibili, ogni disagio risolvibile, il “tempo dei cambiamenti” sotto il controllo umano,
cosicché le grandi riforme della circolazione stradale avvenivano almeno ad una distanza l’una dall’altra di 10 anni.
113
Lei non sa chi sono io - L’AUTOMOBILE
Oggi non è più così! Oggi abbiamo un sistema automobilistico sicuramente più sviluppato, ma abbiamo altrettanti
problemi da risolvere e di differente natura.
Per esempio, il bisogno di una normativa che possa incidere
maggiormente sull’inasprimento delle sanzioni per la guida
in stato di ebbrezza, (i dati sull’incidentalità ci dicono che i
numeri delle vittime sono spaventosi) o una normativa che
possa regolarizzare il sistema italiano alle richieste Comunitarie in materia di inquinamento ambientale.
D’altronde in Italia circolano oltre 40 milioni di veicoli, per
una rete stradale complessiva di circa 320.000 chilometri,
che hanno prodotto, nel 2007, 230.871 incidenti, per un
numero complessivo di 5.131 vittime.
E se tali dati non sono paragonabili con situazioni stradali malamente sviluppate, quali quelle presenti in larga parte della nuova Europa, ovvero l’Europa dell’est, allo stesso modo sono difficilmente paragonabili con realtà altamente sviluppate, quali quelle di Regno Unito e Germania,
ma che presentano situazioni morfologiche e culturali largamente differenti dalle nostre.
In tal senso Giandomenico Protospataro scrive72 : “bisogna
evidenziare a questo punto, per una maggiore e definitiva
chiarezza, che il processo di riforma del nuovo Codice della
Strada, iniziato dal 1993, non sia frutto di errori di proget72. Per maggiori approfondimenti sull’argomento è possibile consultare
PROTOSPATARO G., in Modifiche al Codice della Strada: la miniriforma 2002, Egaf novembre 2002.
114
IV - IL CODICE
DEL
1992
tazione originaria del testo del 1992, ma è conseguenza della velocità con la quale muta il contesto economico e sociale dei fenomeni disciplinati da queste norme ed è effetto,
diretto o indiretto, dell’evoluzione della pubblica amministrazione, delle politiche criminali e, soprattutto, delle norme comunitarie, sempre più numerose e dettagliate nel settore, tanto da fare ipotizzare una codificazione organica della
circolazione in tutto il territorio dell’Unione”.
Oggi, a differenza di ieri, si vive in un’“Europa senza frontiere” in cui la libera circolazione degli uomini e delle merci
sono le prime libertà fondamentali previste dal diritto comunitario, perché, oggi, “si pensa internazionale”, si stringono
rapporti di lavoro con stranieri, ci si sposta con l’automobile da una nazione all’altra più facilmente.
Mai come in questo momento si sente il bisogno di una
“omogeneità” tra le varie legislazioni nazionali, per arrivare
ad un Codice della Strada Europeo UNICO, perché le norme comunitarie sono sempre più numerose e dettagliate nel
settore, e perché non si può pensare che la sicurezza stradale internazionale (che dipende dalla conoscenza del tessuto
normativo vigente), possa passare soltanto attraverso la lettura della “cartellonistica” presente in “frontiera”, nella
misura in cui molte legislazioni europee presentano tra di
loro ancora significative differenze.
È sufficiente pensare ai limiti di velocità, che variano da Stato
a Stato o addirittura scompaiono in alcuni (si veda in buona
parte della Germania). Certo, un’idea del genere non è di facile approccio e di anni ne passeranno ancora molti, prima di
115
Lei non sa chi sono io - L’AUTOMOBILE
una definizione organica di un Codice della Strada Europeo.
Tuttavia, potrebbe essere opportuno, per un buon inizio,
ridurre, per esempio, il nostro attuale Codice della Strada,
così da poter privilegiare delle norme che incidano direttamente sui comportamenti dei conducenti per ottenere dei
miglioramenti sulle condizioni di sicurezza stradale.
Questo significa però, nuovamente un susseguirsi di riforme
e poi altre ancora destinate a cambiare, correggere, migliorare l’attuale legislazione.
Insomma una corsa a tutta velocità per il bisogno di una normativa sulla circolazione stradale “al passo con i tempi!”
E quindi l’automobile del futuro come sarà? Alimentata a
carbone…, petrolio…, biomasse…, sole…, vento…, idrogeno o forse ad acqua…?
E per una maggiore sicurezza quali saranno i nuovi accorgimenti tecnologici? “scatole rosa”?, “scatole nere”?...
E finalmente l’educazione stradale riuscirà a diventare materia di insegnamento nelle scuole primarie e secondarie?
Comunque una cosa è certa: per le nuove generazioni l’automobile rimarrà sempre un simbolo!
116
PARTE SECONDA
UN SECOLO DI
EVOLUZIONE SOCIALE
Lei non sa chi sono io - L’AUTOMOBILE
V
LA MOBILITÀ DALL’UNITÀ
D’ITALIA AL 1919
QUADRO GENERALE E DELLE INFRASTRUTTURE.
La realizzazione dell’unificazione politica italiana nel 1861 –
con l’eccezione dello Stato Pontificio – corona gli sforzi
decennali dei patrioti risorgimentali, ma li mette anche di
fronte a una serie di questioni pratiche di dimensioni e complessità colossali.
Alcune tra le condizioni e conseguenze economiche dell’unità – la creazione di un mercato nazionale e l’inserirsi nei traffici commerciali ed industriali d’Oltralpe – impongono un
rapido superamento dei problemi posti dalle realtà economiche ed infrastrutturali regionali.
La storia sociale della mobilità del neocostituito Regno
d’Italia è pertanto la storia di un immenso sforzo di riorganizzazione infrastrutturale volto ad allacciare le preesistenti
reti dei regni regionali. L’innovazione di quegli anni testimonia altresì l’impegno italiano a imboccare la via dell’industrializzazione e della modernizzazione economica, con tutte
le conseguenze sociali e culturali del caso, nel tentativo di far
attecchire sul territorio nazionale gli elementi alla base del
successo delle nazioni europee più avanzate e del Regno Unito in particolare. La trasformazione socio-economica avviata dalla Destra e continuata dalla Sinistra sfocia, seppur in
mezzo a mille difficoltà, nel passaggio da un’economia basa118
V - LA
MOBILITÀ DELL’UNITÀ D’ITALIA AL
1919
ta sui trasporti marittimi – maggioritaria ad esempio nel
Mezzogiorno (cfr. Maggi 2005) – a un’altra dove è preponderante il trasporto su terra, sviluppando in primo luogo le
infrastrutture ferroviarie.
A partire dagli anni Quaranta del secolo XIX, i regni italiani si sono già interessati o hanno iniziato a sperimentare le
novità tecnologiche rappresentate dalle macchine a vapore
per uso economico-industriale, realizzando le prime ferrovie
per il trasporto merci e viaggiatori, con particolare intensità
in Piemonte e nel Lombardo-Veneto. Al di là degli aspetti più
strettamente tecnologici ed economici, il dibattito risorgimentale sul ruolo della ferrovia s’incentra anche sulla sua
capacità di stabilire ed assicurare l’indipendenza nazionale
(cfr. Maggi 2005). Il duplice ruolo della ferrovia come motore di sviluppo economico ed infrastruttura di comunicazione
in grado di reificare lo Stato unitario italiano accompagna le
riflessioni degli economisti risorgimentali e l’azione dei primi governi del regno.
I primi governi unitari si lanciano con impegno nello sforzo
di connettere le esistenti ferrovie in un’unica rete nazionale,
completata nel 1866 ed estesa per più di 5.000 chilometri
(cfr. ivi). I collegamenti con le reti ferroviarie europee procedono di pari passo, attraverso i numerosi trafori alpini realizzati a partire dal 1867 (Brennero) fino al 1906 (Sempione). La corsa al recupero del divario infrastrutturale con il
Regno Unito e la Francia conosce alcuni successi, come la
rapidità di realizzazione della linea adriatica, che costituisce
il tratto finale mediterraneo della “Valigia delle Indie”, la
119
Lei non sa chi sono io - L’AUTOMOBILE
tratta commerciale che univa Londra alle colonie del Sud-est
asiatico; tuttavia, il ritardo dell’industrializzazione italiana si
somma alla complessità orografica del territorio ed alla scarsità dei traffici interni.
La convinzione dei politici e degli economisti italiani dell’epoca è che l’espansione della ferrovia possa risolvere i problemi dello sviluppo economico e quelli dell’integrazione
culturale e politica delle popolazioni degli Stati preunitari.
Messi di fronte alla straordinaria crescita economica registrata nei paesi europei, in concomitanza con la relativa
costruzione di un’infrastruttura di trasporti più moderna ed
efficiente, i governanti italiani cercano di applicare lo stesso
modello, iniziando a costruire, già negli anni Settanta e
Ottanta, anche le linee ferroviarie complementari d’interesse
locale e regionale. Tuttavia, tale modello non funziona come
sperato: al contrario dei paesi europei, dove le ferrovie riescono effettivamente a potenziare un fitto sistema di scambi
commerciali già esistente, in Italia il treno è introdotto in
un’economia prevalentemente di autoconsumo e nella quale
gli scambi avvengono in prevalenza con gli Stati esteri limitrofi (cfr. Pollard 1984).
Inoltre, non esiste un’industria metallurgica nazionale in grado di fornire locomotive e materiale rotabile, che vengono
quindi importati da Germania, Francia e Regno Unito. Se i
risultati in termini di sviluppo economico sono inferiori alle
attese e si deve aspettare la fine del secolo per avere un’industria siderurgica e metallurgica nazionale, la creazione di una
prima infrastruttura di comunicazione nazionale rappresenta
120
V - LA
MOBILITÀ DELL’UNITÀ D’ITALIA AL
1919
comunque un traguardo importantissimo per la costruzione
politica e sociale del Regno d’Italia, mettendo in relazione
realtà socio-economiche e culturali fino ad allora distanti.
In particolar modo, l’innervazione del territorio nazionale
con una fitta rete ferroviaria, rappresenta anche il primo
contatto delle società italiane con la nuova realtà della
modernità industriale, intrisa di razionalismo economico e di
fiducia in un progresso scientifico e tecnologico continuo e
basato su macchine sempre più capaci di elevate prestazioni.
“Il successo della locomotiva è in gran parte dovuto alla sua
capacità competitiva nei confronti degli altri mezzi di trasporto: viaggiando a circa 50-60 km/h, sbaraglia ogni concorrente, sia le carrozze (la cui velocità media era sui 1415km/h) sia i battelli fluviali (7-8 km/h)” (Davico e Staricco
2006, 14).
Lo sviluppo delle infrastrutture viarie è inizialmente relegato
in secondo piano, sia perché promette minore crescita economica, sia per i vincoli finanziari posti allo Stato italiano
dagli elevati costi delle infrastrutture ferroviarie. L’ostacolo
maggiore a un potenziamento del sistema viario è tuttavia
dovuto all’estrema differenza di diffusione e di livello di
manutenzione che esisteva nei regni preunitari, strettamente
connessa al sistema di doganale e tariffario allora vigente. Se
si escludono gli interventi napoleonici, localizzati soprattutto nei valichi alpini del Nord, la rete viaria italiana – ed in
particolare quella del Regno delle Due Sicilie – soffre di scarsa manutenzione e pochi sono e sono stati gli interventi pubblici nel settore.
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Lei non sa chi sono io - L’AUTOMOBILE
Dopo il 1861, l’impulso allo sviluppo delle strade deriva dalla necessità di collegare le campagne ed i centri minori ai
principali centri di snodo ferroviario realizzati o in costruzione. “Nell’Italia unita si comprese in breve tempo che l’auspicata modernizzazione economica dei territori e sociale
delle popolazioni non era legata soltanto alla costruzione di
strade ferrate, ma anche all’incremento delle vie rotabili
minori. Negli intendimenti dell’epoca, le strade dovevano
servire essenzialmente a raggiungere le stazioni delle costruite e costruende ferrovie, diventando arterie per le ferrovie
stesse, le quali altrimenti avrebbero portato benefici soltanto ai paesi direttamente toccati” (Maggi 2005, 80). La normativa sulle strade allora promulgata prevede una riclassificazione delle medesime e anche la possibilità di imporre
pedaggi a livello locale (ad esempio per il passaggio dei fiumi). “Tuttavia la manutenzione ed il potenziamento della
viabilità stradale secondaria fu fatto ricadere sugli esigui
bilanci dei Comuni, con effetti nefasti sulla programmazione
nazionale” (ivi, 84). È soltanto con la legge n. 312 del 1903
che lo Stato italiano si accolla la metà dei costi per la manutenzione ed il rinnovo della rete stradale italiana secondaria.
Gli sforzi maggiori si indirizzano verso la Calabria e la Basilicata, quasi del tutto prive di strade secondarie e comunali
transitabili, affidando al Genio civile l’esecuzione dei lavori
(cfr. De Rios e Porro 1989).
Durante il quindicennio dei governi di Giovanni Giolitti,
l’opera di rinnovamento infrastrutturale può dirsi completa,
disponendo ormai l’Italia di una rete ferroviaria nazionale e
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V - LA
MOBILITÀ DELL’UNITÀ D’ITALIA AL
1919
di un adeguato sistema di strade secondarie di collegamento.
La rincorsa per raggiungere gli altri paesi europei è stata
però sovente caotica e viziata dal prevalere di interessi particolaristici. L’importanza delle ferrovie, che diventano nel
Diciannovesimo secolo il principale attrattore di potere
finanziario e politico, non manca di scatenare conflitti e connivenze tra Enti pubblici e privati e comporta una pianificazione dei trasporti gravata da pesanti limiti. “I politici, e a
loro seguito i tecnici, dimostrarono fin dal 1850 una particolare miopia nel progettare le infrastrutture ed una tendenza a seguire eccessivamente il mezzo più in voga del momento, trascurando i modi di trasporto che venivano dal passato a vantaggio delle ‘novità’ ed a vantaggio degli interessi
economici che ruotavano intorno alle stesse: ciò si verificò
nell’epoca ferroviaria a scapito della navigazione interna e
del cabotaggio marittimo, mai coordinati in un’organica
visione d’insieme, come nell’epoca automobilistica a danno
della rotaia” (Maggi 2005, 221).
MEZZI E MODALITÀ DI TRASPORTO.
Nel Diciannovesimo secolo, quello ferroviario diventa il più
importante sistema di trasporto per merci e passeggeri ed
inaugura l’era dei sistemi di trasporto collettivi di massa.
Sebbene inizialmente ristretto a un’élite urbana dagli adeguati mezzi economici, il treno dà inizio a una rivoluzione
nella mobilità, laddove il trasporto a trazione animale inizia
ad essere sostituito sempre più da tram, filobus e omnibus a
vapore o elettrici. Lo sviluppo della rete tramviaria si assesta
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Lei non sa chi sono io - L’AUTOMOBILE
su due principali filoni: tram a vapore per le comunicazioni
interprovinciali e tram o filobus elettrici per i trasporti urbani (quest’ultimi sono usati fino alla fine degli anni Trenta).
Maggiormente rappresentata nel centro-nord, “la rete tramviaria italiana rispondeva al bisogno di mobilità nato dalla
crescente urbanizzazione della manodopera impiegata presso le industrie e gli opifici urbani, ma svolse anche un importante ruolo nel trasporto delle merci dalle zone rurali ai centri cittadini” (Maggi 2003, 42).
Anche il trasporto individuale, fino ad allora legato agli animali, subisce un rinnovamento tecnologico con l’invenzione
del velocipede e la sua successiva trasformazione, dal 1886,
in bicicletta. Benché coeva dell’automobile, la bicicletta
ottiene un incredibile successo, in quanto garantisce una
relativa autonomia di movimento a fronte di un prezzo davvero accessibile a tutti. Il successo europeo, ed in primo luogo francese, della bicicletta è consacrato sia “dall’istituzione
di competizioni di rilevanza nazionale – il primo Tour de
France è del 1903, mentre nel 1909 s’inaugura il primo Giro
d’Italia – sia dall’apparire di Enti nati per organizzare le attività turistiche come il Touring Club italiano” (ivi, 89). Agli
inizi degli anni Novanta del secolo appaiono i primi tricicli
e quadricicli mossi da motori a scoppio, quale alternativa ai
mezzi di trasporto individuali alimentati dal vapore, più
pesanti e difficili da condurre e che nel Regno Unito erano
già stati oggetto di normative restrittive. L’invenzione dell’automobile a benzina si diffonde velocemente in Europa,
sull’onda di quella fiducia nel progresso scientifico e tecno124
V - LA
MOBILITÀ DELL’UNITÀ D’ITALIA AL
1919
logico che porta le élites urbane ad adottare velocemente i
prodotti della nuova civiltà industriale. Pur rimanendo un
prodotto di consumo riservato alle classi più ricche della
società, l’automobile, come tutti gli altri mezzi di trasporto
tipici della civiltà industriale, ne diviene un simbolo; inoltre,
il suo impiego quasi immediato in corse e competizioni ne
favorisce l’accettazione anche presso gli strati sociali che
rimangono comunque esclusi dal suo utilizzo.
Inizialmente prodotta da opifici artigianali, retti spesso soltanto dalla genialità e dalla perseveranza di alcuni inventori,
l’automobile passa rapidamente da diletto per i più abbienti
a prodotto industriale in grado di calamitare il capitale
finanziario e il know-how del paese. Questo processo si
compie definitivamente con l’accelerazione tecnologica e la
concentrazione industriale provocati dall’impegno bellico,
ma “già nei primi anni del Novecento il motore a scoppio
entra prepotentemente nello scenario del trasporto collettivo
italiano” (De Rios e Porro 1989, 93).
A causa delle difficili condizioni orografiche dell’Italia, lo
sviluppo ferroviario era stato infatti limitato dall’alto costo
delle costruzioni ed il traffico pubblico su strada assunse
subito una rilevante importanza economica e sociale, trasportando peraltro la corrispondenza postale nei piccoli centri di campagna. Nel 1912, anche grazie alla politica di sovvenzioni statali, le autolinee erano 162 ed alla fine del 1915
la rete copriva circa 13.900 km sul territorio nazionale (cfr.
Maggi 2005).
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Lei non sa chi sono io - L’AUTOMOBILE
MOBILITÀ E SOCIETÀ.
L’accresciuta mobilità garantita dai nuovi mezzi rappresenta
l’aspetto più evidente dei profondi mutamenti che la rivoluzione industriale inizia a dispiegare prima nel Regno Unito ed
in seguito in Europa e nel resto del mondo. A partire dalla
differente organizzazione economica della produzione e dai
cambiamenti sociali che ne derivano, per giungere al modello
di riproduzione culturale, la civiltà industriale si caratterizza
da subito per il suo livello intrinseco di dinamismo.
La dipendenza da fonti di energia inanimate e da macchinari
rende possibile impiantare un sistema di industrie virtualmente in qualsiasi luogo, qualificando il sistema industriale di per
sé come mobile (cfr. Davico e Staricco, 2006). Allo stesso
tempo, il continuo miglioramento del sistema ricercato attraverso la sperimentazione e l’applicazione delle scienze esatte,
predispone la civiltà industriale a muovere anche il sistema
delle conoscenze che la sostiene, spostando ed attualizzando
di continuo la frontiera della cultura (cfr. Giddens 1994).
L’idea di un progresso scientifico e tecnologico continuo è
accettata ed incorporata dalle principali correnti di pensiero
ottocentesche (positivismo, marxismo e così via), tramite le
quali si diffonde presso gli strati delle popolazioni europee,
cui i nuovi ritrovati tecnologici consentono una capacità di
intervento e di trasformazione della natura mai sperimentata in precedenza.
In sintesi, la società moderna si caratterizza per aver largamente esteso il dominio dell’uomo sulla natura e per aver
impresso una notevole accelerazione al ritmo dei mutamen126
V - LA
MOBILITÀ DELL’UNITÀ D’ITALIA AL
1919
ti. L’influenza di un maggiore potere di trasformazione e di
una maggiore velocità si ravvisa fortemente anche nel rapporto fra evoluzione sociale e mobilità, a livello d’analisi
individuale e collettivo. I concetti di potere e velocità sono
qui da intendere in senso lato e multidimensionale, non
quindi come cornice concettuale ma piuttosto come potenti
indicatori dei mutamenti che la mobilità ha apportato ed
apporta all’evoluzione sociale. Ad esempio, nella storia delle relazioni tra mobilità e società, il potere può indicare sia
l’aumento della capacità spazio-temporale di movimento, sia
anche la simbolizzazione di un potere sociale più ampio, che
trova espressione in un vissuto di mobilità (ad esempio il
tipo di mezzo di trasporto che si guida in relazione alla condizione economica e sociale).
Allo stesso modo, la velocità non indica solamente il ritmo
della mobilità, bensì anche i mutamenti avvenuti nella percezione e nel vissuto del tempo e dello spazio.
Inoltre, vi sono aspetti della relazione fra mobilità e società che possono trovare una spiegazione sotto entrambi i
concetti, tuttavia risulta utile e più agevole leggere la storia
della relazione fra mobilità e società se consideriamo che
l’incremento del potere e l’incremento della velocità sono
due importanti finalità della società moderna, sempre attive nell’orientare la direzione in cui si muove l’organizzazione della società (cfr. Virilio 2000). A partire dalla fine dell’Ottocento, la direzione in cui si muovono le società toccate dalla rivoluzione industriale è la stessa: una crescente diffusione del potere e della velocità in tutte le attività e clas127
Lei non sa chi sono io - L’AUTOMOBILE
si sociali, in un percorso di progressiva costruzione di una
società di massa altamente mobilizzata.
Nella parte finale del secolo Diciannovesimo, in concomitanza con la diffusione della tecnologia relativa alla mobilità, si
formano dunque una serie di relazioni – fra il comportamento individuale e sociale ed i mezzi e le modalità della mobilità moderna – che hanno modo di svilupparsi ulteriormente
nel Ventesimo secolo. Ad esempio, l’aumento della sfera di
mobilità individuale consentita dal treno, quindi il potere di
controllare un territorio più ampio, si evolve in un potere
ancora più ampio e personale con l’introduzione dell’automobile, che trasforma ogni individuo nel padrone del mezzo
e nell’autore dei propri percorsi di mobilità. Elettricità,
motori a vapore ed a combustione interna, onde radio, comportano un definitivo distacco dalle età precedenti.
L’esperienza sociale individuale e collettiva è sempre più
disaggregata dai contesti locali (la comunità, il villaggio e così
via) per essere ricostruita su tempi e spazi diversi, profondamente modificati dalla velocità delle comunicazioni e dall’accresciuta sfera di mobilità individuale e collettiva garantita
dai nuovi e più performanti sistemi di trasporto. Tempo e
spazio si separano e diventano vuoti, cioè sono trasformati in
elementi astratti e razionalizzati, presupposto per una precisa
suddivisione in zone temporali e spaziali, nelle quali sono
esperibili le interazioni sociali (cfr. Giddens 1994).
L’organizzazione razionalizzata del tempo e dello spazio rende inutile il coordinamento dei molteplici fusi orari e delle
ore locali, misurate con le meridiane, ed impone la necessità
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V - LA
MOBILITÀ DELL’UNITÀ D’ITALIA AL
1919
di un metodo comune per misurare il tempo e lo spazio. Prima gli sforzi delle compagnie ferroviarie, e poi quelli dei
governi, rendono possibile l’adozione di tale sistema a partire dal 1884, data dell’adozione del sistema dei fusi orari
basati sul meridiano di Greenwich (cfr. Kern 1999). Nasce
così un tempo pubblico ufficiale, in grado di fornire una cornice di certezza e prevedibilità alle comunicazioni della
società e favorendone lo sviluppo (ad esempio, aumentano le
consegne postali ed i flussi commerciali).
L’esperienza sociale del tempo e dello spazio cambia sia a
livello individuale sia collettivo: il tempo pubblico – il tempo sul quale si plasmano le attività istituzionali e sociali – si
differenzia sempre più dal tempo privato – il tempo del vissuto personale.
Allo stesso tempo, la sistematicità delle comunicazioni e
l’esperienza della simultaneità concessa dal telegrafo prima e
dal telefono poi, contribuiscono a trasformare l’idea stessa
di passato, presente e futuro.
È indubbio che l’aumentato livello di mobilità personale e
collettiva influenzi la percezione del presente, a motivo proprio della possibilità di intrattenere più frequentemente relazioni con la propria cerchia sociale, le cui vicissitudini iniziano a far parte del vissuto personale quotidiano. Il tempo presente dell’homo modernus si espande per comprendere i presenti delle realtà con cui i mezzi di mobilità e di comunicazione lo mettono in contatto, aumentando la sua sfera di
esperienza individuale. “Il presente dell’era moderna si configura come un’esperienza principalmente espansa nella
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Lei non sa chi sono io - L’AUTOMOBILE
dimensione spaziale e concettualmente percepita come
un’esperienza di simultaneità, mentre si abbandona l’idea
che il presente sia una semplice successione di istanti” (Kern
1999, 111).
Il futuro diventa improvvisamente il luogo verso cui la società e l’individuo devono muoversi, tentando di raggiungerlo
il prima possibile. L’aumento della velocità e dei ritmi della
società moderna impongono un ribaltamento epocale dell’orizzonte temporale e sociologico di riferimento. Non più il
rispetto del passato e la riproposizione fedele delle tradizioni, ma il nuovo che deve arrivare e verso il quale l’intera
società si protende, nello sforzo di annullare la distanza tra
il presente e ciò che deve seguirlo. È il futuro inteso come
senso di anticipazione degli eventi, come aspettativa stimolata ed alimentata dall’idea che lo stesso futuro sia fonte di
valori e guida per l’azione. Agli inizi del Novecento il mutamento concettuale trova la sua più estrema espressione nel
movimento Futurista italiano ed anche nell’opera di alcuni
autori critici della modernità, quali Oswald Spengler, per il
quale l’epoca moderna è intrinsecamente temporale, cioè
caratterizzata da una netta prevalenza dell’elemento tempo
(cfr. Spengler 1999).
Lo spazio si trova dunque ad essere totalmente dominato dal
tempo. In realtà, ciò che l’età moderna effettivamente comprime è l’estensione, la distanza, via via ridotta dalla crescente velocità e pervasività dei mezzi di trasporto. Lo spazio a
disposizione dell’uomo moderno in realtà si espande, corrispondendo ai luoghi raggiungibili dai moderni mezzi di tra130
V - LA
MOBILITÀ DELL’UNITÀ D’ITALIA AL
1919
sporto e dalle nuove reti per la mobilità. Mano a mano che
il potere di muoversi velocemente si diffonde in tutta la
popolazione, ecco che la società cambia la sua percezione
spazio-temporale e diventa essa stessa più mobile. Alla base
di questa mobilizzazione sta il fenomeno dell’urbanizzazione, che porta milioni di persone una volta stanziali a vivere
in città, il luogo della produzione industriale e dei nuovi,
accelerati, ritmi della vita moderna (cfr. Colarizi 2000).
Diversi studiosi a cavallo tra i due secoli non mancano di
rilevare il nuovo fenomeno delle masse urbane, spiegandolo
appunto con una contrazione delle distanze sociali prodotto
dalla crescita demografica, dalla sua concentrazione urbana
e dalla rapidità dei mezzi di comunicazione e di trasporto
(cfr. Kern 1999).
Ma quali effetti sociali concreti portano la differente percezione ed il differente vissuto del tempo e dello spazio, la concentrazione urbana, i nuovi ritmi della vita moderna e della
mobilità? È agevole suddividerli fra effetti generati dai mezzi di trasporto collettivi o sociali e quelli che originano dalla
mobilità individuale e che tendono a influenzare maggiormente la sfera privata. I primi sono quelli legati all’espansione delle ferrovie, dell’industria e delle comunicazioni su lunga distanza, i secondi alla bicicletta e poi all’automobile.
Il treno simboleggia il progresso, incarna la filosofia neopositivista, ma soprattutto fa camminare anche le idee, non
solo le merci. A cavallo fra Ottocento e Novecento, treni,
omnibus e tramvie renderanno popolare non solo il trasporto collettivo ma anche le idee sociali e le convinzioni politi131
Lei non sa chi sono io - L’AUTOMOBILE
che di coloro che quei mezzi guidano: ferrovieri, macchinisti
e conducenti diventano la prima aristocrazia operaia fortemente socialista e marxista, perfetta incarnazione del dinamismo della storia e delle classi sociali che la attraversano.
Saranno a breve seguiti dagli operai inurbati, coloro che
quelle macchine di trasporto sono impegnati a costruire, una
volta che la Prima Guerra Mondiale, con la sua conversione
bellica prima e la sua riconversione civile poi, ha definitivamente fatto decollare l’industrializzazione dell’Italia. Con la
guerra, grazie ai prestiti garantiti dallo Stato e dalle facilitazioni fiscali, l’industria ha avuto uno straordinario sviluppo:
“in testa c’è il settore metalmeccanico e siderurgico con i
colossi dell’Ansaldo, dell’Ilva, della Odero-Orlando, della
Breda, della FIAT – l’Ansaldo è passata da un capitale di 30
milioni a 500 milioni; la FIAT da 17 milioni a 200 milioni”
(Colarizi 2000, 86).
Lo sviluppo industriale non è soltanto figlio dell’intervento
dello Stato, ma anche dell’organizzazione scientifica della
produzione, figlia della nuova percezione moderna, laddove
le fabbriche producono secondo i principi di massima ottimizzazione del tempo, degli spazi e dei ritmi di lavoro definiti da Frederick W. Taylor nel 1883 e poi sviluppati dal suo
allievo Frank B. Gilbreth nel 1909. La disumanità della catena di montaggio e della registrazione cronometrica dei tempi di lavorazione contribuiscono ad acuire il conflitto di classe fra proletariato e borghesia, già ambedue impegnati nella
lotta per il controllo del sistema industriale e dei livelli di ricchezza e di accelerazione dei ritmi sociali che esso produce.
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V - LA
MOBILITÀ DELL’UNITÀ D’ITALIA AL
1919
La rapida urbanizzazione ed il conseguente affollamento
portano a uno sviluppo del territorio urbano senza precedenti, con la creazione delle cinture industriali a Torino,
Genova e Milano. Si tratta di luoghi dove si manifestano,
spesso nella maniera peggiore, i lati negativi della moderna
vita industriale: rumore, sovraffollamento, spersonalizzazione delle interazioni sociali, conflittualità sociale e così via. È
in questo ambiente accelerato e dinamico, ma a volte ostile,
che inizia a prendere forma la consapevolezza di una resistenza ai ritmi sempre più serrati che, nel luogo di lavoro ed
in generale, s’impongono all’individuo. Se in superficie c’è
un’accettazione piena, magari conflittuale, del valore della
velocità dei tempi moderni, nel profondo iniziano a muoversi correnti contrarie che ricercano una fuga da ritmi troppo
oppressivi, a volte in un passato elegiaco, e che troveranno
visibilità e forza sociale decenni dopo.
L’ambiente fisico, ed in particolare quello urbano, iniziano a
trasformarsi in profondità e mano a mano sempre più velocemente per “ospitare” al meglio il nuovo sistema di trasporti.
L’impatto del treno e del sistema ferroviario è intenso, per via
della pesantezza delle infrastrutture richieste, ma altrettanto
limitato ai nodi principali del territorio italiano che va a connettere. Le stazioni ferroviarie sono in realtà, almeno nelle
città maggiori, integrate nel tessuto urbano laddove ciò sia
possibile e l’intero modello ferroviario comporta un impulso
alla centralizzazione e concentrazione delle infrastrutture
complementari (trasporto commerciale, attività industriali)
nello stesso spazio dove sono collocati anche i binari.
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Lei non sa chi sono io - L’AUTOMOBILE
L’avvento dell’automobile, invece, scardina questo modello,
in virtù della flessibilità del mezzo, che ha il grandissimo vantaggio di rendere personale la mobilità e di renderla esperibile sulla già esistente rete stradale, “connettendo e riconnettendo quelle parti d’Italia che la ferrovia aveva tagliato fuori dalla modernità” (Boatti 2006, 150). L’immediato successo dell’auto impone l’esigenza di mettere finalmente mano alla rete
stradale principale e secondaria, a lungo trascurata per
garantire le risorse finanziarie necessarie a dotarsi di una rete
ferroviaria nazionale. Le strade sono in pessimo stato, per via
dell’usura cui le sottopongono i carri per il trasporto commerciale e per l’incuria. La già citata legge statale del 1903
mira esattamente a dotare gli Enti locali dei finanziamenti
necessari alla manutenzione stradale, mentre contemporaneamente il Touring Club Italiano conduce un’assidua e tenace
campagna per dotare le strade di una segnaletica comune e
riconoscibile.
La campagna si traduce in una serie di sottoscrizioni per
acquistare la segnaletica e, nel 1906, nell’uscita dei primi
quattro quadranti – relativi a Milano, Torino, Genova e
Venezia – della prima carta stradale d’Italia in scala
1:250.000 (cfr. ivi). Lo scoppio della Prima Guerra Mondiale arresta questo cammino di recupero della rete stradale e
sarà il regime fascista, in virtù anche della maggiore diffusione dei veicoli a motore, a investire modernamente nel settore viario con la realizzazione delle prime autostrade, percorsi cioè specificatamente pensati per l’automobile.
Gli effetti delle mobilità sull’individuo sono altrettanto este134
V - LA
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si ed importanti: da un lato egli gode di un’espansione del
suo potere d’interazione sociale, mantenendo od allargando
le sue relazioni sociali grazie a trasporti veloci e sicuri; dall’altro lato, la natura di tali rapporti inizia a cambiare puntando verso la spersonalizzazione dovuta a una razionalizzazione dei tempi personali adeguata ai ritmi della vita moderna. Il cambiamento maggiore lo si avverte comunque nell’aumentato grado di libertà personale che i mezzi di trasporto
individuali, bicicletta prima ed auto in seguito, consentono.
Il famoso romanzo sul ciclismo di Maurice Leblanc – Voici
des ailes! – incarna il desiderio e la possibilità di libertà offerte dalla bicicletta a tutti coloro che desiderano sfuggire alle
convenzioni sociali opprimenti di fine Ottocento, suggerendo ai lettori un traguardo di emancipazione spaziale, sociale
ed infine sessuale. L’apparizione dell’automobile non farà
altro che accelerare l’affermazione di questo potere di emancipazione e liberazione personale, finalmente a disposizione
del singolo individuo, che diventa egli stesso conducente e
passeggero del proprio mezzo.
Gli autoveicoli sono non sono soltanto più veloci e performanti degli altri mezzi di trasporto coevi, ma il loro valore
d’uso e simbolico risiede proprio nel fatto di aver collocato
il potere e la libertà di muoversi nelle mani del singolo individuo. Questo aspetto, unito all’estrema flessibilità d’uso,
spiega il rapido affermarsi dell’automobile ed il suo progressivo diffondersi in quasi tutta la popolazione italiana lungo
l’arco del Novecento.
Inoltre, l’automobile gode anche del lustro dovuto all’essere
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Lei non sa chi sono io - L’AUTOMOBILE
immediatamente percepita come il nuovo simbolo del progresso ed all’essere da subito adottata da parte dei ceti più
ricchi e capaci d’influenza sul costume sociale. L’automobile
e l’aereo arrivarono dalla Francia e furono subito accolti da
quel mondo ricco ed intraprendente, ammiratore del progresso e del coraggio che regnava nella Ville Lumière, città
che dettava il costume, lo stile di un’epoca, cui tutti o quasi
sentivano l’imperioso comandamento di uniformarsi. E dalla Francia giunse in Italia anche la moda di organizzare gare
automobilistiche, spesso sapientemente usate dai produttori
automobilistici come efficace metodo di pubblicità. Organizzate in collaborazione con le principali testate giornalistiche
(Corriere della Sera e Gazzetta dello Sport) e con il Touring
Club ed i primi Automobile Club, le corse di auto non mancavano di suscitare entusiasmi in tutti gli strati sociali e
monopolizzavano frequentemente l’immaginario collettivo,
registrando anche duelli individuali, “come quello fra il
Duca degli Abruzzi e il cav. Coltelletti” (Boatti 2006, 157).
Così come gli altri mezzi di trasporto, ed in linea con lo spirito dei tempi, anche l’auto fu protagonista di un’epica che
esaltava la destrezza alla guida e la velocità. La poesia dell’automobile e della velocità trova infine i suoi epigoni nel
Futurismo di Marinetti ed anche nella produzione di D’Annunzio. Insieme hanno contribuito a determinare in Italia
una percezione insieme popolare e complessa dell’automobile, ponendo attenzione non soltanto ai primati del mezzo
meccanico, ma anche all’evocazione del potere, della seduzione e della libertà.
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V - LA
MOBILITÀ DELL’UNITÀ D’ITALIA AL
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Tanto amore e passione per l’auto non manca tuttavia di
risvolti negativi e l’Italia si indigna e si preoccupa anche per
i primi morti in incidenti stradali, causati sia dall’imperizia
dei primi chauffers sia dall’assenza di una regolamentazione
uniforme relativa alla circolazione stradale. Così una volta
avviata la sistemazione della rete stradale, l’auto impone alle
pubbliche autorità l’adozione di regole, in grado di fare chiarezza in un insieme di provvedimenti, nazionali e locali, che
possono anche prevedere che in città diverse si possano tenere la sinistra o la destra. “Nel 1901 è introdotto il primo
insieme di norme, poi integrato nel 1905, con l’adozione delle targhe, la patente a 21 anni e i limiti di velocità urbani ed
extraurbani” (Maggi 2005, 102).
Tuttavia, l’ordinamento dispone che le città con più di
25.000 abitanti possano autonomamente decidere quale
mano vada tenuta all’interno delle strade urbane e si perviene all’obbligo di tenere la destra soltanto nella successiva
codificazione del 1923. Alla vigilia della Prima Guerra Mondiale, l’Italia assomiglia un po’ di più alle altre nazioni europee che hanno imboccato con decisione la via della modernità: esiste una rete ferroviaria nazionale ed il paese sembra
anche culturalmente evoluto nel saper cogliere novità tecnologiche dirompenti come l’auto e l’aereo, come dimostra la
vittoria del principe Borghese al raid Parigi-Pechino, vinto
con la sua vettura Itala.
Sebbene non diffusa a livello popolare per i suoi alti costi,
l’automobile gode tuttavia di immensa popolarità, finendo
per essere l’oggetto dei desideri di quanti non possono per137
Lei non sa chi sono io - L’AUTOMOBILE
mettersela, un sentimento e un desiderio che in Italia si radicano profondamente, ma che deve aspettare il secondo
dopoguerra per essere soddisfatto. L’automobile inizia a
cambiare il panorama sociale della provincia italiana, quando la diffusione delle auto private e delle autolinee mettono
in collegamento con le parti più dinamiche del paese quelle
zone che la ferrovia aveva lasciato fuori.
La Grande Guerra, poi, determina il definitivo intreccio tra
industria automobilistica ed economia nazionale, che in Italia più che in altri paesi europei contribuisce a scrivere la storia del paese nella seconda metà del Novecento. La Prima
Guerra Mondiale è infatti il terreno della definitiva prova
delle potenzialità degli autoveicoli, già sperimentati per il
collegamento ed il trasporto merci nella campagna di Libia
del 1912, dove si erano distinti per la flessibilità d’uso ma
anche per la precoce usura.
Le gerarchie militari italiane dimostrano una certa miopia,
in questo in buona compagnia dei loro colleghi europei, nei
confronti dell’uso dei veicoli nelle manovre militari. La sperimentazione principale degli autoveicoli arriva alla conclusione che essi sono eccellenti quali mezzi di trasporto e di
collegamento fra il comando e le truppe schierate, ma non
prende nemmeno in considerazione l’idea di motorizzare le
truppe per guadagnare velocità di spostamento nel teatro di
battaglia.
Si ha una visione “statica” del veicolo, sul quale si tenta
infruttuosamente di impiantare artiglieria pesante; un certo
senso del risparmio fa prediligere soluzioni che sfruttino il
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V - LA
MOBILITÀ DELL’UNITÀ D’ITALIA AL
1919
materiale già esistente – muli per il trasporto e cavalli – e vi
è la radicata convinzione che il fante debba sperimentare il
sacrificio della marcia a piedi (cfr. Boatti 2006).
Sarà poi il corso della guerra, fortemente voluta da quella
compagine culturale e sociale che si muove in auto e di essa
fa il simbolo del divenire, a imporre la necessità di dotare il
Regio Esercito di numerosissimi mezzi per il trasporto.
Saranno queste tragiche circostanze ad accompagnare la scoperta dell’automobile per una generazione di giovani soldati
italiani (cfr. Maggi 2005).
Negli anni della guerra si assiste pertanto a una marcata conversione bellica non solo dell’industria pesante ma anche dei
principali produttori automobilistici.
Il personale della FIAT passa dalle 4.500 unità del 1914 alle
40.000 del 1918, grazie alle commesse di guerra ed al sistema generale di sovvenzioni statali e di agevolazioni fiscali
che contribuiscono alla straordinaria crescita dell’intero settore industriale.
L’esplosione della capacità industriale, concentrata soprattutto nel settentrione del paese, avveniva però a spese dei
diritti dei lavoratori dell’industria, che videro inasprirsi molto sia le condizioni di lavoro che di vita in generale. La sofferta vittoria del 1918 arride così a un Paese provato, diviso
fra pulsioni contrapposte e lacerato da conflitti sociali latenti che sono nati dalla corsa allo sviluppo ed alla modernità,
e che nel Dopoguerra non mancano di esprimere tutta la loro
violenza, sfociando in una crisi politica e sociale che scuote
lo Stato liberale italiano fino alle sue fondamenta.
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Lei non sa chi sono io - L’AUTOMOBILE
VI
LA MOBILITÀ DAL FASCISMO AL 1945
QUADRO GENERALE E DELLE INFRASTRUTTURE.
L’esser usciti vittoriosi dal primo conflitto mondiale non
lenisce le ferite umane, sociali e soprattutto politiche che
esso ha causato alla società italiana. Al contrario, la drammatica esperienza bellica determina una polarizzazione politica ancora maggiore fra gli interventisti – i movimenti politici irredentisti e parte dell’intellighenzia italiana – e i non
interventisti – principalmente i partiti di sinistra e le classi
popolari. Il contrasto fra queste due componenti della società italiana riesplode al termine del conflitto, aggravato dalle
trasformazioni economiche e sociali indotte dalla guerra: nel
biennio 1918-1920 l’Italia liberale è scossa dagli scioperi
nell’industria, dalle rivolte dei braccianti agricoli e dal radicalismo politico di coloro che ritengono la vittoria militare e
le sue conseguenze territoriali estremamente insoddisfacenti
a fronte del sacrificio sostenuto.
Lo scontro aperto fra forze politiche di sinistra e forze conservatrici si fa aspro e quotidiano e l’attendismo dei governi
parlamentari dell’epoca non fa che alimentarlo (cfr. Colarizi
2000). Il sistema costituzionale Albertino è anacronistico
rispetto ai mutamenti sociali ed economici innescati dall’industrializzazione ed accelerati dalla guerra e in Italia si innesca una crisi politica e sociale che sfocia in una crisi di rappresentanza politica.
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VI - LA
MOBILITÀ DAL FASCISMO AL
1945
Le classi sociali meno agiate non hanno la stessa voce in
capitolo dei capitani d’industria e di quanti – proprietari terrieri, liberi professionisti, ecc. – determinano le sorti d’Italia
attraverso un parlamento eletto da una minoranza di censo.
Esistono ormai nel paese le condizioni per l’allargamento del
suffragio e per la legittimazione politica e sociale delle novità che la modernizzazione industriale reca con sé, ma il sistema politico non coglie la gravità e l’urgenza di tali istanze,
dibattuto fra la difesa, anche repressiva, dello status quo
costituzionale e timidi accenni di rinnovamento. Il risultato
è una continua delegittimazione della monarchia costituzionale da parte delle forze sociali emergenti, che sfocerà nella
conquista prima, e nell’abbattimento poi, del regime parlamentare ad opera di Benito Mussolini. Il regime fascista
s’impegna a realizzare molte delle riforme dei precedenti
governi, comprese quelle nel settore dei trasporti e della viabilità, inclusa l’attesa introduzione di un Codice della Strada
aggiornato. La politica infrastrutturale del regime fascista si
divide tra il sostegno alla viabilità su gomma e l’ammodernamento della rete ferroviaria. Le linee ferroviarie ricevono
l’elettrificazione e si continuano gli ingenti investimenti nelle linee a scorrimento veloce, le direttissime, che rendevano i
tragitti ferroviari ancora più brevi.
Altre realizzazioni importanti sono le stazioni di Napoli
Piazza Garibaldi e Mergellina (1925), Milano Centrale
(1931), nonché il nuovo fabbricato di Firenze Santa Maria
Novella (1935). Nel 1940 le linee a doppio binario passano
dai 3.640 km del 1923 a 4.570 e le linee elettrificate arriva141
Lei non sa chi sono io - L’AUTOMOBILE
no a coprire quasi un terzo della rete nazionale (cfr. Maggi
2005). L’ammodernamento delle ferrovie rappresenta una
vetrina di prestigio per il nuovo regime e anche le linee
secondarie sono oggetto di miglioramenti, fra i quali l’introduzione delle automotrici a motore, chiamate Littorine.
Quest’ultime e gli altri treni leggeri erano in grado di raggiungere velocità maggiori e pertanto nascevano come risposta al crescente traffico su gomma (cfr. Cruciani 1987). In
linea generale, gli investimenti statali garantiscono un sistema ferroviario moderno ed efficiente e, per quanto riguarda
la mobilità collettiva sulle lunghe distanze, ancora competitivo nei confronti dei veicoli a motore. Negli anni Trenta
sono istituiti treni di lusso che collegano l’Italia con l’estero
e fa la sua apparizione il capostipite dei treni italiani ad alta
velocità, l’Etr 200, in grado di stabilire nel 1937 il primato
nazionale di velocità (cfr. Giuntini, 2001).
Gli investimenti nelle infrastrutture ferroviarie s’interrompono durante la Seconda Guerra Mondiale, ma le ferrovie continuano a funzionare anche quando l’Italia è divisa in due
come conseguenza dell’armistizio dell’8 settembre 1943.
“Gli ultimi anni del conflitto sono però disastrosi per le
infrastrutture ferroviarie a causa delle mine e dei bombardamenti, responsabili della distruzione di circa il 30% dei binari della rete nazionale e del 100% delle linee elettrificate”
(Maggi 2005, 58). Sotto il regime fascista il sistema dei trasporti su strada riceve un’ulteriore sistemazione sia a livello
amministrativo sia infrastrutturale. Dal punto di vista amministrativo, “la rete viaria è posta sotto la supervisione ed il
142
VI - LA
MOBILITÀ DAL FASCISMO AL
1945
controllo della Aass (Azienda autonoma statale della strada),
istituita con la legge n. 1094 del 1928, con l’obiettivo di
gestire le principali vie di comunicazione stradali per un
totale di 20.620 km” (Maggi 2005, 107). Le altre decisioni
amministrative a favore del trasporto su gomma sono l’istituzione di autolinee di gran turismo e la creazione del P.R.A.
(Pubblico Registro Automobilistico), nonché la trasformazione della tassa sulle automobili da comunale a statale.
Dal punto di vista infrastrutturale, la rete viaria italiana si
arricchisce di una nuova tipologia: l’autostrada. Benché già
realizzata altrove, l’autostrada italiana degli anni Venti
diventa, nella propaganda fascista, un’opera pionieristica
italiana e un’importante vetrina per il prestigio internazionale del regime di Mussolini. Le prime autostrade italiane sono
realizzate secondo il modello usato per le infrastrutture ferroviarie: il concessionario le costruisce e ne percepisce il
pedaggio, mentre lo Stato vigila sulla gestione e ha la prelazione sul riscatto.
Nel 1924 inizia la costruzione della prima autostrada italiana, la Milano-Laghi, alla quale seguono la Milano-Bergamo
la Bergamo-Brescia, la Roma-Ostia, la Firenze-Mare e la
Napoli-Pompei. “Nel 1934 si pianifica la costruzione di
nuove autostrade per circa 7000 km, ma il progetto non trova attuazione per gli impegni finanziari dovuti alla guerra
con l’Abissinia e alla Seconda Guerra Mondiale” (Maggi
2005, 111). Molto più importanti per il sistema di trasporti
italiano sono le camionabili, strade larghe a carreggiata unica che hanno l’obiettivo di facilitare il trasporto merci su
143
Lei non sa chi sono io - L’AUTOMOBILE
gomma. La principale di queste – la Genova-Valle del Po –
collega Genova con la pianura padana ed è aperta nel 1935.
Durante la Seconda Guerra Mondiale i danni maggiori li
subiscono le strade statali, non solo per le operazioni militari di distruzione, ma anche per l’usura dovuta ai trasporti
militari ed ai carri armati pesanti. Le distruzioni maggiori si
registrano nelle regioni centrali, fra la linea Gustav (da Gaeta alla foce del Sangro con Cassino come punto nodale) e la
linea gotica (da Viareggio a Rimini lungo l’Appennino), in
ragione della lenta ritirata verso nord dell’esercito tedesco.
Oltre la linea gotica, invece, per il rapido evolversi della
guerra, i danni sono minori (Maggi 2005, 112).
MEZZI E MODALITÀ DI TRASPORTO.
Il periodo fra le due guerre mondiali si caratterizza per la
coesistenza, prima, e la competizione, poi, tra il rinnovato
sistema ferroviario italiano e l’emergente trasporto su gomma. Le ferrovie continuano ad essere non solo un settore
strategico delle infrastrutture e del sistema di trasporto italiano, ma godono anche “dell’incremento del traffico merci
e passeggeri su rotaia che si registra in Europa, giungendo a
trasportare nel 1929 circa 139 milioni di passeggeri e 59
milioni di tonnellate di merci” (Maggi 2005, 53). Entrato in
competizione con l’automobile, il treno rimane tuttavia un
mezzo imbattibile per quanto riguarda il trasporto di persone su lunghe distanze. A ciò contribuisce anche il miglioramento tecnologico di locomotori ed infrastrutture, che porta i nuovi elettrotreni della Breda a coprire la distanza Firen144
VI - LA
MOBILITÀ DAL FASCISMO AL
1945
ze-Milano in poco meno di un’ora e 55 minuti (cfr. Crispo,
1940). Tuttavia, nonostante gli investimenti ingenti nell’elettrificazione delle linee e nei treni leggeri, il trasporto merci su
binario si avvia a diventare minoritario.
Il successo degli autoveicoli è indiscutibile e negli anni Trenta si registra un marcato aumento del trasporto merci su
gomma, in misura tale da causare i primi deficit nei bilanci
d’esercizio delle ferrovie e costringere il governo a realizzare
misure restrittive per l’autotrasporto. “A titolo d’esempio,
basti pensare che nel 1931 il trasporto su gomma incide per
il 3% sul totale, ma già nel 1932 sale al 13% e nel 1933 raggiunge il 20%” (Maggi 2005, 53). Durante gli anni Trenta e
gli anni Quaranta si registra dunque in Italia l’eccezionale
diffusione dei camion, “tanto che nel 1942 essi erano quasi
pari al numero di automobili e un mezzo di trasporto e di
lavoro assai popolare, almeno nell’Italia del nord” (Menduni 1999, 20). Dal canto loro, le automobili continuavano la
propria corsa alla conquista degli italiani benché ancora di
quelli più abbienti.
Dopo la Prima Guerra Mondiale l’industria automobilistica
esce infatti dalla fase pionieristica per entrare in quella del
consolidamento e della maturità. Il mercato italiano si
espande e, sull’esempio di FIAT, l’industria dell’auto introduce gradualmente la catena di montaggio e si appropria dell’eccezionale evoluzione della tecnologia meccanica e del formidabile sviluppo dei procedimenti costruttivi. Inizia anche
in Italia un processo di concentrazione industriale che vede
sparire molte delle marche automobilistiche di inizio secolo
145
Lei non sa chi sono io - L’AUTOMOBILE
e dei loro protagonisti. Allo stesso tempo, si assiste alla specializzazione funzionale dell’industria dell’auto, con la nascita di numerose imprese che si dedicano unicamente alla produzione di componentistica per auto e motori – la FIAT smette di produrre carburatori in proprio già dal 1927 (AAVV,
L’automobile italiana, Giunti 2006, 117). Alla fine degli anni
Venti il mercato italiano vede sul campo solo alcuni grandi
industrie quali FIAT, Alfa Romeo, Lancia e Isotta-Fraschini
(cfr. Mochi 1982). La FIAT e l’Alfa Romeo, al contrario della Lancia, sono aziende che operano a tutto campo nel settore dei motori, producendo motori per l’aviazione – il principale affare dell’Alfa Romeo negli anni Trenta – o per i treni – la FIAT realizza nel 1922 la prima locomotiva diesel-elettrica del mondo.
L’industria dell’auto si avvia in quegli anni a ricoprire un
ruolo centrale e, per certi aspetti, fondamentale nell’intera
economia italiana, catalizzando risorse umane e finanziarie.
Ne sono testimoni gli investimenti realizzati per la costruzione di nuove sedi produttive in Italia ed all’estero: l’Alfa
Romeo, passata sotto la gestione statale dell’IRI nel 1932,
inizia la costruzione dello stabilimento di Pomigliano d’Arco
nel 1938, dedicato alla costruzione su licenza dei motori
aeronautici dell’inglese Bristol; La FIAT, il più grande costruttore nazionale privato, inaugura il nuovo stabilimento del
Lingotto nel 1923, al quale fa seguito lo stabilimento di
Mirafiori, inaugurato nel 1939. La vitalità della FIAT, che
alla fine degli anni Trenta è già il maggior gruppo imprenditoriale italiano, non si arresta ai confini nazionali: nel 1921
146
VI - LA
MOBILITÀ DAL FASCISMO AL
1945
nasce FIAT Polski e nel 1923 si avvia la produzione su licenza di automobili e camion in Russia (AA.VV. 2006, 149).
L’inizio della Seconda Guerra Mondiale vede un’industria
automobilistica ormai radicata e protagonista dell’economia
nazionale e pronta, sull’esperienza delle recentissime avventure coloniali nell’Africa orientale, ad avviare un nuovo processo di riconversione della produzione a fini bellici, concentrando gli sforzi produttivi nei camion, negli aerei e nei mezzi corazzati. Dall’inizio delle ostilità, infatti, il regime fascista ha imposto il divieto di circolazione per le automobili
private e tutte le risorse industriali sono concentrate nello
sforzo bellico.
MOBILITÀ E SOCIETÀ.
Lo sconquasso sociale ed economico portato dalla Prima
Guerra Mondiale si ripercuote a livello politico, determinando la fine degli Imperi ottocenteschi e l’insorgere di nuovi
protagonisti sociali e politici all’interno e all’esterno delle
nazioni. L’Europa è ancora una volta la fucina nella quale si
sperimentano i nuovi modelli politici, comunismo e nazifascismo, nati apertamente per superare quella che all’epoca
era la crisi della democrazia parlamentare di ispirazione liberale. Allo stesso tempo, si ultima il processo di conversione
del modello di sviluppo delle società industrializzate, con
l’abbandono quasi completo del carbone in favore dell’adozione dei combustibili fossili, dal potere energetico maggiore e più disponibili.
La conversione energetica al petrolio sostiene lo sviluppo di
147
Lei non sa chi sono io - L’AUTOMOBILE
un capitalismo di tipo nuovo, basato su una tecnologia ancora più potente e su una completa riorganizzazione scientifica
della produzione di stampo taylorista, che consente una
maggiore standardizzazione e produttività delle merci e una
conseguente necessità di espandere i mercati. I sistemi politici emergenti – compreso il fascismo in Italia – dimostrano di
voler usare la razionalizzazione dell’industrializzazione per
consolidare il proprio potere e realizzare i propri obiettivi
programmatici, al centro dei quali, in veste di attore e beneficiario finale, sta comunque una comunità (il popolo o la
classe proletaria). Il protagonismo sociale e politico delle
masse è in effetti il dato distintivo delle società europee negli
anni fra le due guerre mondiali.
Quanti erano stati esclusi dal sistema politico liberaldemocratico, ovvero operai e piccolo-borghesi, diventano i protagonisti del rinnovamento, ultimando quel cammino verso la
società di massa iniziato nell’Ottocento con le unificazioni
nazionali, l’industrializzazione e l’inurbazione di quote crescenti della popolazione. La società di massa nei regimi totalitari o autoritari è una società dinamizzata, manipolata e
stimolata da chi detiene il potere e ne vuole indirizzare le
azioni e carpirne il consenso.
Le relazioni che si instaurano tra massa e potere nelle società totalitario-autoritarie tendono a creare un legame organico e diretto tra i dirigenti ed il popolo e ad estremizzare il
dinamismo dell’azione politica e sociale, puntando al coinvolgimento della totalità della comunità verso gli obiettivi
politici designati. Il caso del fascismo italiano è tuttavia par148
VI - LA
MOBILITÀ DAL FASCISMO AL
1945
ticolare, date le condizioni di relativa arretratezza economica del paese rispetto alle altre nazioni europee ed agli Stati
Uniti in particolare, da dove proviene la spinta all’evoluzione verso un capitalismo moderno, e dove una crescente quota di persone di lì a poco costituirà i consumatori della classe media.
Anche il fascismo nasce come movimento politico rivoluzionario, in aperto contrasto con le utopie socialiste massimaliste e comuniste, ma in totale sintonia con la filosofia futurista di completo rigetto del passato, del vecchio, della tradizione, in favore della velocità, della tecnologia e delle macchine. Tuttavia, nel corso del Ventennio, il regime fascista
dimostrerà una completa ambivalenza, limitando la propria
carica modernizzatrice iniziale per inseguire i propri obiettivi di stabilità interna e di politica estera. Di fronte alle resistenze della Chiesa in tema di politica sociale e familiare, allo
squilibrio economico fra nord e sud d’Italia, agli obblighi
internazionali verso i creditori e alle proprie, smisurate,
ambizioni in politica estera, il regime sarà costretto a conseguire compromessi limitanti.
Il mix di politiche messe in atto dal regime fascista nel tentativo di conseguire obiettivi tra loro contraddittori – la
modernizzazione economica del paese con uno spiccato conservatorismo sociale, oppure la pace sociale con la compressione dei redditi per stabilizzare il bilancio nazionale e sostenere la Lira – sfocia pertanto in risultati parziali, se non deludenti, che alimentano e talvolta, molto più raramente, sfociano in aperta contestazione al regime. L’opera di conquista
149
Lei non sa chi sono io - L’AUTOMOBILE
del potere da parte del partito fascista e della liquidazione
delle istituzioni democratiche, così come lo sforzo di assorbire il debito internazionale e rafforzare la moneta, si estende fino alla crisi del 1929, quando le peggiorate condizioni
economiche mondiali ed europee dimostrano alla dirigenza
fascista che la repressione poliziesca è insufficiente a far procedere il paese sul cammino della conversione morale e spirituale degli italiani sulla base degli ideali fascisti.
Dagli anni Trenta in poi lo slogan andare verso il popolo
segna l’inizio di un cambiamento di strategia politica del
partito fascista, indirizzato all’instaurazione di un sistema
assistenziale che ha il compito di alleviare i disagi più gravi
degli strati più colpiti della popolazione e di mantenere e
recuperare il consenso perduto, che vedrà raggiungere il suo
culmine con la guerra in Etiopia.
Le politiche adottate lungo la suddetta direttiva politica dell’andare verso il popolo – per quanto in realtà poco sostanziali – gettano tuttavia le basi per alcuni cambiamenti importanti della società italiana e risultano significative per il rapporto tra questa e la mobilità. Durante gli anni Trenta si
verificano anche in Italia quei mutamenti dovuti alla nuova
riorganizzazione del capitalismo industriale e che in Europa
già fanno sentire i propri effetti: la diffusione della meccanizzazione dei processi produttivi accompagnata da una progressiva riduzione dell’orario di lavoro dei lavoratori nell’industria e dalla conseguente comparsa del tempo libero; lo
sviluppo di un settore terziario e l’apparizione di una nuova
tipologia di lavoratori; l’espansione della produzione di mer150
VI - LA
MOBILITÀ DAL FASCISMO AL
1945
ci e di un più esteso mercato di consumatori. Il fascismo italiano, seppur nel quadro dei compromessi citati in precedenza, si muove nella direzione di accogliere tali cambiamenti,
ponendosi come intermediario tra questi e la società italiana.
Complessivamente, l’intervento del governo fascista si riassume perciò in un’influenza, a volte significativa, sul rapporto fra società e mobilità in Italia ed in particolare sui seguenti risultati:
- il rapporto sempre più stretto tra la FIAT ed il potere governativo italiano, in virtù dell’importanza economica dell’azienda torinese, che si assicura un predominio nell’economia italiana tale da orientare pesantemente le scelte di politica economica ed infrastrutturale dell’Italia;
- la definitiva affermazione in Italia della società di massa,
sia in termini di omologazione dei comportamenti sia di
un maggior accesso ai consumi, tuttavia fortemente limitata
dal conservatorismo sociale e dal basso livello di reddito
procapite;
- la profonda interiorizzazione dell’automobile nell’immaginario collettivo degli italiani, sia come oggetto di prestigio
sociale sia come potente simbolo di modernità, dovuta alla
saldatura culturale fra fascismo e futurismo, ulteriormente
alimentata dalla mitologia delle corse automobilistiche e da
una produzione industriale che inizia a rivolgersi a tutte le
possibili fasce di clientela.
I rapporti fra FIAT e fascismo sono di rilevante importanza
sin dall’affermazione del movimento di Mussolini nel panorama politico italiano. Come la maggior parte dei grandi
151
Lei non sa chi sono io - L’AUTOMOBILE
industriali italiani, la FIAT appoggerà il consolidamento del
regime fascista ed i suoi obiettivi di stabilità e ordine tramite l’annientamento dei movimenti sindacali e operai rivoluzionari, pur riuscendo a mantenere in gran parte lontano dai
propri stabilimenti il controllo e la presenza degli uomini del
regime. Come principale industria tecnologica italiana e produttrice di veicoli, poi motori di treno e di aerei poi, la FIAT
è inoltre naturalmente deputata ad entrare in sintonia con i
concetti e gli stilemi del futurismo italiano. La storia dei rapporti fra la FIAT ed i governi italiani affonda comunque già
nel primo conflitto mondiale, quando l’azienda torinese si
arricchisce e si espande grazie alle commesse militari.
Il rapporto prosegue sotto il fascismo ma – in virtù della centralizzazione e della statalizzazione dell’organizzazione dell’economia e della società da parte di quest’ultimo – assume
un’intensità nuova. La commistione dell’amministrazione
statale negli indirizzi di politica economica implica un rapporto ancora più stretto con il mondo imprenditoriale rispetto a quanto avveniva sotto lo Stato liberale, quando allo Stato si richiedeva di difendere la posizione privilegiata dell’industria tramite la repressione dell’insubordinazione degli
operai ed il farsi carico di tutti i costi sociali causati dallo sviluppo industriale – ad esempio la scarsità di alloggi e l’assenza di servizi sociali.
Benché il fascismo della prima ora si connoti come una reazione a difesa dell’industria italiana nell’interesse di un’ideologia esclusivamente produttivistica, è impossibile anche per
Mussolini non farsi carico di questioni strutturali che sono
152
VI - LA
MOBILITÀ DAL FASCISMO AL
1945
legate all’industrializzazione della società e che investono di
responsabilità lo Stato italiano. Il nascente capitalismo
moderno necessita non soltanto di una spoliticizzazione dei
rapporti di classe, ma anche di una riorganizzazione della
società che tenga conto dei mutamenti sociali ed economici
imposti dalla produzione industriale. In breve, le condizioni
economiche e sociali di un capitalismo di tipo coercitivo spariscono e il nuovo capitalismo organizzato, in forte crescita
e favorevole a un consumo di massa, richiede un governo in
grado di plasmare il paese nella direzione dell’integrare tutti
gli strati della società nel sistema economico.
La FIAT è indubbiamente una delle protagoniste di questo
rinnovamento istituzionale e organizzativo del capitalismo
italiano e pertanto riscuote il plauso del regime fascista,
anche per questo e non soltanto per lo strapotere economico
che si avvia ad avere nel panorama imprenditoriale. I vantaggi che l’azienda ottiene dall’appoggiare il governo fascista
sono innanzitutto di tipo economico.
L’intervento statale nell’economia, per conseguire gli obiettivi di stabilizzazione della Lira, fa sì che vengano consolidate
e rafforzate le posizioni di predominio sul mercato, grazie
alla protezione accordata da tariffe e sovvenzioni.
Allo stesso tempo, il militarismo del regime fascista – con
l’intervento mascherato nella guerra civile spagnola, l’aggressione all’Etiopia e infine la Seconda Guerra Mondiale –
assicura alla FIAT, così come all’Alfa Romeo ed al resto delle industrie meccaniche italiane, un flusso sicuro di commesse militari. Nel 1911 la FIAT risultava al trentesimo posto fra
153
Lei non sa chi sono io - L’AUTOMOBILE
le maggiori società anonime industriali del paese, ma a seguito della Grande Guerra, grazie alle commesse belliche, diviene la terza impresa italiana dopo l’Ansaldo e l’Ilva.
La ricordata ultimazione nel 1922 dell’ampio stabilimento a
Torino Lingotto vuole rispondere all’espansione del mercato
degli autoveicoli, che nel decennio compreso tra il 1920 e il
1930 fa registrare un aumento del numero di veicoli da
49.433 a 245.477 (fra autoveicoli, autocarri e autobus).
Dopo la crisi del ’29 il mercato riprende la sua corsa e la
FIAT, dopo aver raddoppiato la struttura del Lingotto, si
avvia nel 1936 – grazie anche alla ripresa stimolata dall’intervento in Etiopia – a costruire uno stabilimento ancora più
grande, Mirafiori, che permette all’azienda volumi produttivi mai eguagliati da altri opifici (cfr. Berta 1998).
L’attenzione di Mussolini per la grande industria e per la
FIAT in particolare si arricchisce di altri episodi, sia sostanziali sia simbolici.
Nel 1928 il Duce riconferma alla Confindustria che il suo
governo non avrebbe introdotto in Italia il fordismo, ovvero
la dottrina degli alti salari accompagnati alla riorganizzazione taylorista dell’azienda (De Grazia 1981, 81).
Nel 1932 Mussolini sceglie gli stabilimenti FIAT come palcoscenico del suo discorso celebrativo del decennale del fascismo, accompagnato da Giovanni Agnelli e da Vittorio (Colarizi 2000, 209).
La dirigenza FIAT è inoltre pronta a sposare una visione
imperialista del fascismo, come dimostra la propaganda
ospitata dal giornale aziendale Bianco e Rosso, che nel 1935
154
VI - LA
MOBILITÀ DAL FASCISMO AL
1945
paragona l’èlite proletaria alle dipendenze della FIAT al soldato che combatteva in prima linea per dare l’Impero all’Italia (De Grazia 1981, 93).
L’altro importante legame economico fra la FIAT e il governo
di Mussolini si realizza negli investimenti sul sistema viario
italiano, quando la FIAT, assieme agli altri imprenditori e banche interessate, mette in partecipazione i propri capitali nella
costruzione delle prime autostrade ed Agnelli diviene il presidente della concessione per la Milano-Torino (cfr. Bortolotti
e De Luca, 1994). L’impatto delle autostrade sul traffico italiano è positivo, tuttavia il limitato sviluppo della motorizzazione privata obbliga lo Stato italiano a rilevare, già durante
gli anni Trenta, le tratte autostradali i cui pedaggi non consentono la sopravvivenza finanziaria delle società di gestione
(Maggi 2005, 111). Ad ogni modo il connubio che si stabilisce tra amministratori pubblici e FIAT si consolida, per rafforzarsi nel secondo dopoguerra, quando la politica di sviluppo
economico punterà con decisione verso il decollo della motorizzazione privata e del trasporto su gomma.
L’altro aspetto del connubio che interessa al regime fascista
è il ruolo di traino che la grande azienda torinese può esercitare sul restante panorama imprenditoriale italiano, quando il regime si trova a dover rispondere alla crisi economica
seguita al crollo di Wall Street nel 1929 e attiva la propria
strategia di costruzione del consenso. Il corporativismo fascista e le politiche sottese allo slogan andare verso il popolo
costituiscono la soluzione al conflitto di classe e una compensazione per i sacrifici sostenuti dai salariati – i quali han155
Lei non sa chi sono io - L’AUTOMOBILE
no avuto nel 1926 una perdita di potere d’acquisto pari al
25% – al momento dell’attuazione della politica monetaria
a sostegno della Lira. Dopo aver schiacciato i sindacati di
sinistra e pressoché l’intero associazionismo collegato nei
primi anni Venti, Mussolini si propone di organizzare l’Italia sulla base delle nuove istituzioni fasciste, il cui scopo è
armonizzare i conflitti sociali e rafforzare l’unità nazionale.
La costruzione dello Stato corporativo è all’inizio poco incisiva, quando sembra che la repressione sia sufficiente a
garantire l’ordine economico e sociale, ma dagli anni Trenta,
e a seguito del diffuso malcontento popolare per la crisi economica mondiale, assume un altro ritmo e un’altra direzione.
Il regime fascista, di fronte al peggioramento delle condizioni di vita dei lavoratori e al loro malcontento, fa pressione
sugli industriali per migliorare le condizioni di lavoro nelle
fabbriche e si appronta a penetrare nelle vite degli italiani
attraverso una minuziosa organizzazione istituzionale delle
stesse. La soluzione organizzativa del regime fascista al problema delle condizioni lavorative è rappresentata
dall’O.n.d., l’Organizzazione nazionale del dopolavoro, il
cui scopo è organizzare il tempo libero dei lavoratori promuovendo gli sport, la cultura, le tradizioni popolari locali
e, ovviamente gli ideali ed i principi del regime fascista.
Con i suoi circa 4 milioni di iscritti all’inizio del secondo
conflitto mondiale, l’Ond costituisce l’organizzazione più
importante per la costruzione del consenso attorno al regime, con l’eccezione della propaganda diffusa tramite il cinema e la radio. All’inizio l’Ond intende essere il sostituto del156
VI - LA
MOBILITÀ DAL FASCISMO AL
1945
l’associazionismo dei lavoratori spazzato via dallo squadrismo e si pone come un ulteriore strumento a disposizione di
quel capitalismo e aziendalismo moderno, di stampo angloamericano, che individuava nella pianificazione razionale dei
rapporti fra capitale e lavoratori la soluzione ai conflitti di
classe. Secondo tale tendenza, l’integrazione totale del lavoratore nel processo produttivo non può prescindere da
un’organizzazione della sua vita anche al di fuori del tempo
di lavoro, tramite migliori salari e una serie di servizi offerti
anche dall’azienda (centri sportivi, alloggio, istruzione professionale, ecc.).
Gli industriali italiani, benché il fascismo abbia imposto per
legge le otto ore lavorative determinando la comparsa del
tempo libero dei lavoratori anche in Italia, si rifiutano di
applicare questo modello in virtù delle differenze esistenti
col capitalismo americano – minore capitalizzazione delle
imprese, mercato più ristretto e abbondanza di manodopera
– e anche per scarsa lungimiranza. L’esempio della FIAT, che
nel 1928 vi iscrive l’associazione dei suoi impiegati e il gruppo sportivo dei suoi operai, contribuisce al decollo dell’Ond
che nel 1931 conta già 2.938 aziende con una sede dopolavoristica (cfr. De Grazia 1981). L’impatto principale dell’Ond nella società italiana, tuttavia, non risiede tanto nell’aver introdotto una versione più razionalizzata ed assistenziale del capitalismo, quanto nell’aver consentito la piena
affermazione della società di massa e preparato il terreno
all’avvento del consumo di massa. Ciò è avvenuto tramite il
coordinamento e l’organizzazione unica di attività sportive,
157
Lei non sa chi sono io - L’AUTOMOBILE
ricreative e culturali a livello nazionale, regionale e locale. In
primo luogo l’intervento dello Stato tramite l’Ond ha contribuito a far sorgere in Italia il tempo libero di massa; in
secondo luogo esso ha indotto la realizzazione di un pubblico unificato e, infine, favorito lo sviluppo di un mercato di
consumo di massa tramite la democratizzazione dell’accesso
a nuovi comportamenti di consumo. “La nazionalizzazione
del tempo libero e la creazione di un pubblico unificato
obbedisce all’indirizzo politico generale che tende alla formazione di un’identità culturale nazionale al di sopra delle
classi, benché di carattere popolare” (ivi, 175).
La costruzione dell’identità è accompagnata dal tentativo di
mobilitare il popolo italiano verso un consumo di massa,
con il duplice scopo di espandere il mercato per i prodotti
nazionali ed integrare stabilmente i lavoratori italiani nell’assetto sociale promosso dal fascismo. È così che l’Ond, forte
di milioni di iscritti, sottoscrive convenzioni con importanti
aziende italiane per la fornitura di prodotti a prezzo scontato ai tesserati, che hanno la possibilità di acquistare sia
oggetti – l’ambita radio – che servizi – polizze di sicurezza
sociale. Tuttavia, a fronte della compressione dei salari e con
l’iniziare della depressione economica, si realizza ben presto
che non ci sono le condizioni per l’integrazione sociale
mediante l’ammissione a un mercato di consumo in via
d’espansione. La coscienza da consumatore non è ancora
economicamente attuabile come un’alternativa alla coscienza di classe (ivi, 184). Inoltre, vi sono notevoli contraddizioni, ancora una volta, fra il conservatorismo sociale e familia158
VI - LA
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re del fascismo ed il libero accesso ai consumi da parte delle
donne.
Dal momento in cui il gerarca Starace prende la guida dell’Ond, la priorità degli organizzatori si sposta dal consumo
delle merci al consumo dello stesso tempo libero. A partire
dal 1932, infatti, l’Ond sviluppa una politica di progressivo
accesso ai beni di intrattenimento generalmente riservati ai
più abbienti, con particolare insistenza sul turismo e l’escursionismo di massa. Si tratta di una politica di grande successo per l’immagine del regime, basata su un vasto programma
che s’imperniava sull’idea di un pubblico in movimento e
attivo piuttosto che passivo.
Dal 1931 il popolo italiano ha l’opportunità, per quanto
sporadica, di fare un’esperienza di mobilità fuori dall’ambiente abituale, alla scoperta di nuovi territori. La campagna, le spiagge del mare e le montagne italiane si trasformano in prodotti accessibili, grazie alle riduzioni sul biglietto
previste per i treni popolari. Il successo di quest’ultimi è elevato e continuo fino alla guerra contro l’Etiopia, quando, in
occasione delle festività, più di un milione di persone ne usufruiscono (cfr. Maggi 2005). Talvolta il turismo di massa
prevede anche l’uso di automobili, come avviene a Torino,
dove il federale Andrea Gastaldi sperimenta una mobilitazione di massa di mezzi celeri, ottenendo da industriali locali e
da singoli privati 24 autocarri, 46 automobili e 42 motociclette per trasportare 1.500 contadini e lavoratori del Canavese fino a Ceresole Reale sulle falde alpine (De Grazia
1981, 210). In realtà la mobilità popolare organizzata
159
Lei non sa chi sono io - L’AUTOMOBILE
riguarda una parte limitata della popolazione, quella che
vive nelle grandi città e lavora nelle fabbriche e negli uffici,
mentre chi abita in campagna e nei centri minori accederà
alla villeggiatura nel secondo dopoguerra.
Nondimeno, grazie a queste azioni l’Ond contribuisce ad
abbattere alcune divisioni sociali e di classe, ad ottenere
l’ammissione parziale a nuovi modelli di consumo e ad
estendere la rete delle comunicazioni di massa, spianando la
strada a modelli di consumo e di comportamento che esploderanno nel secondo dopoguerra con il decollo della motorizzazione privata. Negli anni del fascismo l’automobile è già
un prodotto tecnologicamente maturo ma ancora troppo
costoso per la maggioranza della popolazione, che si sposta
ancora sul velocipede, con mezzi a trazione animale oppure
con tram urbani ed extraurbani, filobus e treni. Il radicamento dell’automobile nell’immaginario collettivo degli italiani avviene tuttavia proprio in questi anni di enorme crescita del trasporto collettivo.
Il sogno di un’automobile si alimenta di svariati fattori, ma
proprio la sua mancata realizzazione durante il Ventennio, se
si eccettua una minoranza di abbienti, contribuisce a rendere così forte e duraturo l’amore degli italiani per i mezzi a
motore lungo tutto il secondo dopoguerra e ben oltre. A stimolare il desiderio concorrono principalmente fattori culturali – la vicinanza ideologico-culturale fra futurismo e fascismo; fattori di costume – la grandissima popolarità delle corse automobilistiche e dei piloti loro protagonisti; infine, fattori di mercato – il progressivo avvicinamento della produ160
VI - LA
MOBILITÀ DAL FASCISMO AL
1945
zione automobilistica anche alle fasce basse del mercato e la
continua differenziazione stilistica dei modelli.
Come si è accennato, il fascismo italiano è stato il movimento politico che, specie ai suoi inizi, ha incarnato i valori del
futurismo e cioè l’identificazione con il dinamismo e la velocità, e la storia dei suoi inizi avviene tutta su ruote, dalle violenze squadriste alla marcia su Roma. In seguito Mussolini
si premura di continuare a promuovere un’immagine virile e
tecnologica del fascismo, in virtù anche di una passione personale per i motori che lo porta a prendere il brevetto di
pilota d’aereo dopo il primo conflitto mondiale ed a partecipare a raduni motociclistici (cfr. R. De Felice e L. Goglia
1983). Il capo del governo fascista non manca poi di presenziare alla presentazione dei modelli di casa FIAT, come nel
caso della FIAT modello 508, ribattezzata “Balilla” dal Duce
e da questi personalmente provata sui viali della sua residenza di Villa Torlonia (cfr. AA.VV. 2006).
In campo più strettamente culturale e di costume si registrano “I romanzi Racconto di un’automobile (1931) di Massimo Bontempelli e La strada e il volante (1936) di Pietro
Maria Bardi, senza contare i titoli più strettamente futuristi
– Il paesaggio e l’estetica futurista della macchina e Canto
eroi e macchine della guerra mussoliniana di Marinetti, Poesia della macchina di Maria Goretti e Fiori e Motori di
Ludovico Gaetani. Non vanno neppure dimenticate le canzoni popolari La Balilla e Sulla mia Topolino, così come il
film La danza delle lancette (1936), sceneggiato da Cesare
Zavattini e diretto da Mario Baffico, in cui si narrano le
161
Lei non sa chi sono io - L’AUTOMOBILE
vicende di Arnaldo d’Aragona, un giovane pilota che corre
sotto falso nome per tenere nascosta al padre la sua passione per le gare automobilistiche” (AA.VV. 2006, 108-109).
Sono tuttavia la fotografia e la cartellonistica le arti cui si
deve l’immensa popolarità dell’automobile fra gli italiani.
“La prima contribuisce a creare una vera e propria iconografia naturalistica della velocità, nella quale le protagoniste
sono le auto da corsa ed i loro piloti; la seconda, alimentata
dai manifesti di Plinio Codognato e dalle copertine di Marcello Nizzoli per la rivista Le vittorie del motore, presenta le vetture come simboli di uno status sociale superiore” (ivi, 119).
Le competizioni di autoveicoli diventano uno dei più importanti fattori di valorizzazione della produzione automobilistica nazionale nonché la fucina per la creazione di una nuova mitologia relativa ai piloti di auto, alle loro scuderie di
corsa ed ai marchi che rappresentano. Tazio Nuvolari, Antonio Ascari, Achille Varzi, Giulio Masetti, per citare i più
famosi, sono i protagonisti di una stagione epica di scontri
sulle piste e sui campi di gara.
Durante il Ventennio il motorismo automobilistico giunge al
suo massimo splendore: “si corre sulle piste, sui circuiti cittadini, nelle gare di durata e nel 1927 si disputa la prima edizione della più famosa gara italiana e una delle più ambite
da piloti e costruttori: la Mille Miglia, un percorso di 1600
km sul percorso Brescia-Roma-Brescia” (ivi, 113-114). La
risonanza mediatica di cui godono sia le corse sia i piloti
contribuisce a renderle conosciutissime ed a scatenare una
passione duratura negli italiani.
162
VI - LA
MOBILITÀ DAL FASCISMO AL
1945
Il fenomeno è attentamente osservato ed alimentato dalle
case automobilistiche, che hanno tutto l’interesse ad allargare il mercato per i loro prodotti, sia destandone il desiderio
con la pubblicità sia iniziando a studiare modelli di auto specifici per i nuovi segmenti di mercato ed in particolare per le
classi sociali popolari.
L’auto del popolo è già una realtà negli Stati Uniti con il
modello T della Ford, ma mentre i costruttori americani iniziano a “spostare la produzione dai modelli semplicemente
funzionali a modelli che rispondono a precisi criteri – stilistici, di qualità ed estetici dei consumatori – in Europa gli anni
Trenta rappresentano il periodo in cui si cerca di sviluppare
l’auto per tutti” (D. Nappo e S. Vairelli, 2006, 48).
La FIAT fa un primo sforzo con il modello Balilla, ma è la
FIAT 500, denominata Topolino, presentata nel 1936, la prima vera utiltaria di massa dell’azienda torinese. Con soli due
posti per adulti, una cilindrata di 569 cc. per una potenza di
13 cavalli, la Topolino è al momento della sua introduzione
sul mercato la vettura più piccola del mondo. Il successo che
riscuote è molto grande e, grazie a questo modello, la FIAT
arriva a conquistare nel 1937 il 7% del mercato automobilistico europeo (AA.VV. 2006, 166-167).
Tuttavia, pur avendo avvicinato molti italiani all’automobile,
la Topolino non dà l’avvio a una reale motorizzazione di massa. Il rapporto fra autovetture ed abitanti in Italia è nel 1927
pari a una automobile per 254 abitanti, molto distante dalle
altre realtà europee – in Francia è una ogni 40 e nel Regno
Unito una ogni 37. Nel 1935 le cose non sono cambiate mol163
Lei non sa chi sono io - L’AUTOMOBILE
to e a fronte dei 326.000 autoveicoli immatricolati in Italia,
ne circolano oltre due milioni in Francia e nel Regno Unito
(Maggi 2005, 105). Il maggior ostacolo alla motorizzazione
di massa rimane il basso reddito degli italiani e l’alto costo
delle automobili: nel 1933 una Balilla berlina costa 9.900
lire, mentre con 15-20.000 lire si riesce ad acquistare un
appartamento in città (AA.VV. 2006, 106-107).
Alla fine degli anni Trenta l’Italia è un paese che si muove
ancora in netta maggioranza con i trasporti pubblici o in
bici, inizia a familiarizzarsi con il mercato del consumo di
massa e pianifica di potenziare in maniera determinante la
propria rete viaria. Tuttavia l’ingresso nell’età del benessere
è interrotto dall’intervento bellico e rimandato al secondo
dopoguerra.
164
VII - LA
MOBILITÀ DAL
1945
ALLA CRISI PETROLIFERA
VII
LA MOBILITÀ DAL 1945
ALLA CRISI PETROLIFERA
QUADRO GENERALE E DELLE INFRASTRUTTURE.
Il secondo dopoguerra si apre con una profonda trasformazione politica, foriera di ulteriori mutamenti socioeconomici. L’Italia si dà un nuovo ordinamento costituzionale parlamentare e democratico, sotto l’influenza delle Forze Alleate,
ed in particolare degli Stati Uniti, i quali assurgeranno a
modello anche per quanto riguarda le principali scelte di
strategia di sviluppo economico. La ricostruzione postbellica
si avvia dunque a trasformare l’Italia da paese europeo
nazionalista ed autarchico a moderna democrazia industriale, caratterizzata da un’economia progressivamente aperta
ed integrata con l’esterno.
Lo Stato riveste ancora un ruolo fondamentale nella ricostruzione e nel rilancio dell’economia italiana, per tutta una serie
di ragioni: in primo luogo c’è un bisogno di legittimazione
interna, anche rimarcando la differenza con il precedente regime fascista; in secondo luogo la complessità della ricostruzione economica e soprattutto infrastrutturale dell’Italia impone
la presenza e la direzione di un potere centrale; infine, il precedente assetto delle relazioni fra Stato italiano e mondo dell’impresa – imperniato sulle attività e le partecipazioni dell’IRI –
rappresenta uno strumento già pronto e per certi aspetti indicato per la realizzazione delle due succitate esigenze.
165
Lei non sa chi sono io - L’AUTOMOBILE
L’intervento o la presenza dello Stato rappresentano una
caratteristica forte del radicamento e del consolidamento della giovane democrazia italiana e tali rimangono fino alla fine
degli anni Ottanta, quando inizia anche in Italia una politica
di privatizzazione dell’economia. La stagione più importante
dell’intervento statale coincide con gli anni Cinquanta e Sessanta, quando il paese è impegnato nella realizzazione delle
infrastrutture viarie a sostegno della motorizzazione privata.
Il modello di sviluppo al quale gli italiani – e non soltanto
loro – guardano è quello statunitense, caratterizzato da un
benessere e consumi diffusi e da una struttura economica
adeguata a sostenerli, uniti a un livello di mobilità individuale e collettiva mai visti in precedenza.
L’alto livello degli scambi economici e sociali, essenziali a
sostenere un mercato di massa, presuppone ed impone un
sistema di trasporti molto efficiente, esteso e soprattutto flessibile. La politica infrastrutturale riveste, pertanto, un’importanza primaria nel dotare il sistema dei trasporti degli
elementi adeguati a sostenere le varie tipologie di traffico
(merci, persone) e di percorsi (breve o lunga distanza, per
lavoro o per diporto) possibili, ma anche nell’armonizzarli
per giungere ad un equilibrio degli stessi.
La crescita del trasporto motorizzato e delle infrastrutture
viarie collegate, avvenuta in tutta Europa durante gli anni
Trenta, si avvia ad essere irreversibile per le moderne economie industriali, nonché strettamente imparentata con l’obiettivo di diffondere il benessere individuale che anima le politiche del nascente Welfare State.
166
VII - LA
MOBILITÀ DAL
1945
ALLA CRISI PETROLIFERA
In alcuni Stati, la consuetudine alla pianificazione aiuta a
sviluppare un sistema di trasporti che integra ed equilibra le
precedenti infrastrutture con la crescente motorizzazione
privata.
In Italia, al contrario, il secondo dopoguerra testimonia
ancora una volta la scarsa capacità di pianificare un sistema
nazionale ed integrato dei trasporti da parte del governo,
unita alla tendenza ad abbandonarsi all’ultima tendenza
disponibile.
In virtù della già sperimentata flessibilità di utilizzo dei mezzi a motore in un territorio montuoso come quello italiano,
nonché del peso politico ed economico acquisito dai gruppi
industriali legati al settore dell’auto, l’Italia è in qualche
modo predestinata a valutare con la massima attenzione la
scelta di orientare tutto il sistema dei trasporti a favore del
trasporto su gomma.
A favore di questa scelta, oltre ai motivi summenzionati, gioca anche l’idea che l’infrastruttura possa portare crescita e
sviluppo, cioè creare il mercato, sulla falsariga di quanto
sostenuto anche dai fautori delle infrastrutture ferroviarie
all’indomani dell’unificazione del paese. Per quanto poco
verosimile, questa equazione si prova irresistibile per i governi italiani dell’immediato dopoguerra, i quali s’affrettano a
riprendere in mano il piano di costruzione di una rete autostradale del 1939.
Alla metà degli anni Cinquanta il piano diventa un’opzione
caldeggiata ed infine una realtà concreta, determinando lo
sviluppo delle infrastrutture e delle modalità di trasporto
167
Lei non sa chi sono io - L’AUTOMOBILE
dell’Italia fino ai giorni nostri. Il trasporto su gomma e la
rete autostradale e viaria diventano un binomio indissolubile nella trasformazione dell’Italia in una moderna democrazia industriale.
Il volano dello sviluppo della motorizzazione di massa accelera la crescita economica, aiutata dall’integrazione del mercato italiano in quello multilaterale del GATT prima e dell’unione doganale della Comunità europea in seguito. La
crescita impetuosa dell’economia italiana fa gridare al miracolo e prosegue pressoché costante fino alla fine degli anni
Sessanta. Durante questo periodo il reddito pro capite degli
italiani aumenta così come aumentano i beni destinati al
consumo di massa.
Grazie anche alla televisione, si diffondono rapidamente gli
stili di vita legati al consumismo e all’edonismo, contribuendo a unificare in modo ancora più efficace tra loro il mercato ed i comportamenti di consumo. Il consumo di mobilità
degli italiani è reso possibile dall’avvento delle utilitarie,
quali la FIAT 600 e la FIAT 500, che inaugurano anche in Italia la vettura di massa, non più irraggiungibile nel costo d’acquisto e d’esercizio. L’automobile diventa per moltissime
famiglie ed individui la principale spesa da sostenere per partecipare pienamente alla moderna società del benessere, o,
per lo meno, il principale oggetto del desiderio degli italiani,
che l’avevano lungamente ed invano sognata durante il ventennio fascista.
L’arrivo dell’automobile nella vita quotidiana delle famiglie
italiane ha effetti profondi e duraturi sia in ambito privato
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VII - LA
MOBILITÀ DAL
1945
ALLA CRISI PETROLIFERA
sia pubblico. L’elevata diffusione della mobilità individuale
esperita con i mezzi a motore determina mutamenti repentini nelle abitudini di spostamento e di consumo, nonché sull’ambiente fisico del paese.
Le nuove infrastrutture stradali ed il più elevato livello di
mobilità possibile inducono ad un uso più intensivo del territorio ed alla sua urbanizzazione progressiva.
La costante crescita del parco macchine degli italiani inizia ad
occupare piazze, strade e luoghi monumentali, mentre il traffico motorizzato marginalizza il resto delle modalità di trasporto collettivo (treni, tram, ecc.) e individuale (bicicletta).
L’espansione della motorizzazione privata causa il declino
del trasporto collettivo sia a livello nazionale sia nelle grandi città, dove non si realizza un piano organico di linee di
metropolitana e dove le periferie mostrano spesso di crescere in modo disordinato e fuori dal controllo. Il traffico d’origine privata è la principale ragione degli ingorghi e degli
intasamenti delle rete viaria ordinaria ed autostradale, e alla
fine degli anni Sessanta si avvertono i primi segnali forti delle disfunzioni che l’improvvisa e profonda motorizzazione
sta causando al paese.
Il vasto numero delle macchine compromette un’ordinata
circolazione ed inizia a portare effetti nefasti sulla qualità
della vita, specie nelle grandi città. Si avvertono i primi
segnali di consapevolezza ambientale e anche grazie all’azione della Comunità europea, si dispongono i primi studi e le
prime normative restrittive per i produttori d’auto. Tuttavia,
la civiltà della mobilità con i suoi grandi vantaggi in termini
169
Lei non sa chi sono io - L’AUTOMOBILE
di maggior libertà ed emancipazione individuale, maggior
dinamismo sociale ed economico e miglior uso del tempo
libero è una conquista troppo recente per essere affrontata in
modo critico. Sarà la reazione della Lega Araba alla guerra
dello Yom Kippur a fornire uno shock esterno tanto grande
quanto imprevisto, in grado di far emergere nelle società
occidentali e in quella italiana una nuova consapevolezza dei
limiti del modello di sviluppo finora perseguito nei paesi ad
alto tenore di vita.
Il sistema ferroviario è la principale vittima del matrimonio
tra l’Italia ed il trasporto su gomma. Dopo l’ultimo sforzo di
rinnovamento ed ammodernamento della rete condotto dal
fascismo, le ferrovie italiane si avviano verso un periodo di
minori investimenti da parte dello Stato, sia in termini d’infrastrutture sia di materiale rotabile.
Mentre all’orizzonte si profila già la temibile concorrenza
degli aerei, il treno italiano continua a perdere costantemente quote del traffico merci e anche del traffico di passeggeri,
a vantaggio dei pullman, molto più flessibili del trasporto su
rotaia. “Su pressione del Sindacato ferrovieri, sono varati
due piani di potenziamento, il primo nel 1957 ed il secondo
nel 1962. Tali piani sono accompagnati dalla crescita del
deficit di bilancio e non risultano mai in grado di correggere
la secca perdita di percentuali del traffico merci e viaggiatori“ (Maggi 2005, 58).
La preferenza accordata al trasporto su gomma si evidenzia
nella sproporzione degli investimenti: nel 1959 alle ferrovie
sono destinati 35,8 miliardi di lire, mentre il sistema viario
170
VII - LA
MOBILITÀ DAL
1945
ALLA CRISI PETROLIFERA
beneficia di 238 miliardi di lire (ivi, 59). La maggior opera
infrastrutturale delle ferrovie è il progetto della linea direttissima fra Roma e Firenze, la cui costruzione si trascina però
molto a rilento. In realtà l’ammodernamento tecnologico è
ad un punto morto e la direzione delle ferrovie tenta di reagire potenziando l’offerta degli elettrotreni sulle lunghe
distanze, senza ottenere però i risultati auspicati. “Il numero
dei viaggiatori rimarrà stazionario fra il 1950 ed il 1980 e,
in un generale contesto di crescita della mobilità, il treno
perde costantemente terreno: la quota ferroviaria nel mercato dei passeggeri è del 16,2% nel 1965 e scende al 10,9% nel
1970. Ma lo stacco maggiore si verifica nel trasporto merci,
dove negli anni del miracolo economico viaggia su rotaia
soltanto il 24% delle merci” (ivi, 60).
Tutti gli sforzi finanziari e strategici del paese sono quindi
concentrati sul potenziamento viario, al fine di facilitare il
trasporto motorizzato su gomma e di accelerare la crescita
della motorizzazione privata. Come si è accennato, la scelta
del trasporto su gomma origina da diversi fattori: in primo
luogo la pregressa esperienza delle infrastrutture autostradali costruite sotto il fascismo; l’azione di lobbying sviluppata
dall’industria automobilistica e delle costruzioni nei confronti del legislatore, industrie spesso sostenute dalle imprese a
partecipazione statale sotto l’IRI; l’effettiva domanda di un
miglioramento delle strade che proviene da un traffico merci
sempre più importante in volume e tragitti e da un fiorire di
imprese piccole e medie – nate con la ricostruzione ed il rilancio economico – che non sono più concentrate nel tradiziona171
Lei non sa chi sono io - L’AUTOMOBILE
le triangolo industriale, ma sono disperse nel territorio.
A questi fattori si aggiunge anche un forte desiderio dei primi governi italiani del dopoguerra di rimarcare l’appartenenza dell’Italia al campo occidentale. I governanti si rendono
conto che, finita l’emergenza del dopoguerra, l’occidentalizzazione dell’Italia per avere successo deve portare benessere
e stabilità a larghe maggioranze di italiani, secondo il modello americano. Quest’ultimo comincia a circolare largamente
non soltanto grazie al cinema di Hollywood, ma anche per
esigenze di propaganda contro il comunismo e l’Unione
sovietica. Favoriscono, dunque, l’aumento dei consumi individuali e familiari, anche a costo di entrare in contraddizione “con i valori di sobrietà e di solidarietà del cattolicesimo,
in nome della conclamata esigenza di dare a tutti, o almeno
a molti, il lavoro ed il benessere” (Menduni 1999, 9).
Il modello di sviluppo economico statunitense comprende sia
una politica energetica in grado di fornire approvvigionamenti sicuri e poco costosi al sistema industriale ed al mercato dei consumatori, sia lo sviluppo della motorizzazione privata e delle relative infrastrutture. Nell’Italia del dopoguerra,
il primo aspetto è brillantemente gestito da Enrico Mattei –
prima a capo dell’Agip e in seguito dell’Eni – alla cui spregiudicata politica energetica si deve la creazione di un forte interesse pubblico nel settore dei gas e degli idrocarburi, i cui
ricavi, tramite l’imposizione fiscale, vanno a comporre il fondamentale interesse dello Stato nello sviluppo della motorizzazione privata. Il potenziamento della rete stradale vede poi
ancora in prima fila l’azione ed il concorso delle imprese
172
VII - LA
MOBILITÀ DAL
1945
ALLA CRISI PETROLIFERA
automobilistiche e di costruzione, a loro volta interessate a
vendere i propri prodotti e a realizzare i propri progetti.
È in questa cornice economico-istituzionale che prende forma la scelta di orientare il sistema della mobilità italiana a
favore del trasporto su gomma. A partire dall’immediato
dopoguerra, infatti, nel Parlamento italiano si discutono differenti strumenti legislativi a sostegno della ricostruzione
delle strade italiane.
La presenza, da un lato, di una rete viaria disastrata, con
caratteristiche geometriche e plano-altimetriche ormai inadeguate alla progressiva crescita del traffico su gomma
(anche se già nel 1949 il traffico merci su strada aveva superato, per la prima volta, quello su ferrovia), ma, dall’altro, di
innovative tecniche costruttive, incoraggiano a partire dal
1952, la scelta a favore dell’infrastrutturazione viaria.
L’aspetto peculiare di questa decisione va individuato proprio nel fatto che il Parlamento ed i governi non optano per
la ricostruzione di una rete ordinaria capillare che completi
quella prebellica, ma preferiscono “indirizzare la propria
scelta verso la costruzione di un nuovo sistema di autostrade, ritenuto uno strumento capace di offrire una risposta più
idonea al prevedibile sviluppo della domanda di mobilità”
(Paolini 2005, 29).
Le imprese interessate – in prima fila FIAT, Pirelli, Italcementi – si attivano per intercettare ed influenzare questa linea di
sviluppo e danno vita a società per la costruzione di autostrade, affiancati dall’opera instancabile di “un nutrito raggruppamento di deputati del Parlamento, riuniti sotto il
173
Lei non sa chi sono io - L’AUTOMOBILE
nome di Amici dell’automobile, in grado di portare la questione stradale al centro delle discussioni in seno alla Commissione lavori pubblici della Camera” (ivi, 22).
Il 9 novembre 1954 il ministro Romita – titolare del dicastero
dei lavori pubblici – presenta un piano governativo per lo sviluppo di una rete autostradale, per la quale sono stanziati 100
miliardi, ed il potenziamento della viabilità secondaria. I tracciati previsti sono: Milano-Napoli, Serravalle Scrivia-Milano,
Brescia-Verona-Vicenza-Padova, Napoli-Bari, raddoppio della
Napoli-Pompei, raddoppio della Padova-Mestre, SavonaCeva e Torino-Ivrea. Il provvedimento di legge prevede che i
lavori di costruzione possano essere realizzati direttamente
dall’Anas oppure da concessionari privati con il concorso dello Stato. Nel maggio del 1955 il piano diviene legge e così si
compie la scelta definitiva verso un tipo di sistema di trasporto basato sui mezzi motorizzati e sulle autostrade.
La politica autostradale italiana resta un punto fermo dell’attività economica nazionale e una linea guida per tutti i
governi che seguiranno, con l’unico momento di arresto
durante la crisi petrolifera dell’inizio degli anni Settanta (cfr.
ivi). È doveroso notare che ci sono poche eccezioni, sia nel
paese sia in Parlamento, a questa scelta strategica: l’opposizione la contesta in un primo momento, sostenendo la maggiore importanza di una riqualificazione della viabilità ordinaria, salvo poi darsi da fare per promuovere tratte autostradali nei territori da essa governati e accogliere con favore
una politica d’investimenti che creava lavoro; le piccole e
medie imprese di costruzioni, nel timore di vedersi tagliare
174
VII - LA
MOBILITÀ DAL
1945
ALLA CRISI PETROLIFERA
fuori dall’esecuzione dei lavori di costruzione, danno battaglia per voce del deputato Del Fante, il quale denuncia il
costo spropositato del preventivo di costruzione presentato
dal gruppo Sisi (Sviluppo iniziative stradali italiane), a nome
dell’Associazione nazionale costruttori edili (cfr. ivi).
Altre voci isolate dal coro sono quelle dei tecnici specializzati del mondo dei trasporti, ai quali è chiaro che la rete
autostradale che si intende costruire non rappresenta affatto una soluzione per il sistema italiano dei trasporti. Nelle
loro opinioni, gli investimenti maggiori dovrebbero indirizzarsi a correggere le distorsioni di sviluppo economico tra
nord e sud del paese, potenziando in maniera vigorosa le
strade ordinarie e secondarie nel Meridione ed armonizzando i piani di sistemazione della viabilità con i piani regolatori generali e quelli regionali per l’edilizia pubblica. Una
critica particolarmente pungente e circostanziata è quella
rivolta al tracciato delle autostrade, parallelo a quello delle
maggiori direttrici ferroviarie e perciò in diretta competizione con queste, a dimostrazione di un’assenza di coordinamento e d’integrazione che si ammette anche a livello governativo (cfr. ivi).
La febbre autostradale, tuttavia, dilaga: il governo Tambroni, sulla base di un progetto del ministro Togni, annuncia un
nuovo piano autostradale, poi sviluppato dal successivo
governo Fanfani, con il quale si estende la rete autostradale
anche al profondo sud e sulla costa adriatica.
Ora vi sono molte più critiche adesso da parte dell’opposizione, alle quali è chiaro che l’intero affare delle autostrade
175
Lei non sa chi sono io - L’AUTOMOBILE
è e sarà comunque gestito a livello centrale, in stretto accordo con le grandi industrie concessionarie e senza alcuna possibilità di coinvolgimento degli attori e delle imprese locali.
Tali critiche non sono infondate se si pensa al ruolo di lobbying esercitato dalla Sisi e alle agevolazioni tributarie e
fiscali che la legge del 1961 riconosce alle imprese impegnate nella costruzione delle autostrade, per le quali è possibile
godere di vari tipi di esenzione d’imposta (ad esempio sui
materiali di costruzione).
In realtà, l’aspetto che inquieta maggiormente le opposizioni ed i critici del progetto autostradale è il ruolo dell’IRI e la
sua natura ambigua di ente pubblico ed imprenditore allo
stesso tempo. “Il piano Zaccagnini, approvato con legge nel
1961, oltre a prevedere investimenti stradali per oltre 5.120
km fra strade, autostrade e raccordi autostradali, apporta
una modifica sostanziale alla normativa in vigore, prevedendo che il grosso delle concessioni, comprese alcune già in
atto, vada ad una società per azioni controllata al 51% dall’IRI, la Società Autostrade” (Maggi 2005, 115).
Il ruolo dell’IRI in quegli anni ed in quelli successivi è decisivo per la rapidità dei tempi di costruzione, in particolar
modo per quanto riguarda l’Autostrada del sole, la principale autostrada italiana. La legge n. 463 del 1955 che attua il
piano Romita ha come primo obiettivo la costruzione di
autostrade da parte dell’Anas, l’Azienda autonoma delle
strade statali presieduta dal Ministro dei lavori pubblici e
solo in subordine la concessione a terzi della loro costruzione e del loro esercizio. Anche se “è opinione diffusa che
176
VII - LA
MOBILITÀ DAL
1945
ALLA CRISI PETROLIFERA
l’Anas non ha né la capacità finanziaria, né l’efficienza, né la
competenza per farlo; del resto, il ceto dirigente modernizzatore preferisce collocare le competenze relative all’impiantistica e gestione di grandi arterie stradali nel raggio d’azione
della politica, ma più spostate verso l’industria privata”
(Menduni 1999, 40).
A capo della Società Autostrade viene nominato l’ingegner
Fedele Cova, che aveva lavorato per la Cementir del gruppo
IRI ed al quale è sottoposto il progetto di massima realizzato dalla Sisi. “Cova conosce le caratteristiche dell’IRI come
“braccio esecutivo” dello Stato nei campi in cui le pastoie
burocratiche, i vincoli politici (ma anche le esigenze di trasparenza della Corte dei conti) gli avrebbero impedito di
operare direttamente.
All’IRI si chiedeva proprio questo: costruire in fretta le autostrade dribblando le varie difficoltà, agendo di volta in volta come se fosse un imprenditore privato, o invece come un
corpo dello Stato che chiamava alla collaborazione le prefetture in nome di un progetto di pubblica utilità adottato dal
governo: entrando ed uscendo continuamente dalla natura
pubblica e dall’ufficialità, passando lestamente a quella privata “(ivi, 41).
Le caratteristiche tecniche dell’Autostrada del sole, che si
avvia a diventare la principale arteria di comunicazione del
paese, sono largamente ispirate a quelle americane, presso le
quali Cova ed altri dirigenti erano stati in visita di studio nel
settembre 1956 grazie ad un viaggio organizzato da Mediobanca e dalla banca d’affari americana Lehmann Brothers.
177
Lei non sa chi sono io - L’AUTOMOBILE
Dopo questo viaggio, la progettazione dell’Autostrada del
sole segue strettamente i principi e gli standard delle autostrade americane, con pochi adattamenti.
“Si respinge nettamente la micidiale piattaforma stradale a
tre corsie (una per ogni senso di marcia, più una centrale per
i sorpassi in entrambe le direzioni) che era stata adottata dall’Anas e dalle prime realizzazioni della Cassa del Mezzogiorno, perché pericolosa e disordinata; si opta invece per il principio delle due carreggiate sempre separate, divise da uno
spartitraffico centrale e dotate di due corsie più una di emergenza per ogni senso di marcia” (ivi, 47).
I lavori di costruzione dell’Autosole iniziano ufficialmente il
19 maggio 1956, con la cerimonia della posa della prima
pietra alla presenza del Presidente della Repubblica, Giovanni Gronchi e già nel 1957 è stato appaltato tutto il percorso
Milano Firenze, nonché il tratto Capua-Napoli. “I lavori di
costruzione, divisi in lotti e aggiudicati a varie imprese, procedono molto speditamente, grazie anche all’uso dei decreti
prefettizi di occupazione d’urgenza per rendere esecutivi gli
atti di esproprio per ragioni di pubblica utilità” (ivi, 50).
Il tratto Milano-Bologna è inaugurato nel 1959 e quello
Bologna-Firenze, molto ostico a livello progettuale ed esecutivo per via dell’attraversamento dell’Appennino ad una
quota più alta di quella usata dalla ferrovia, soltanto l’anno
dopo.
L’apertura dell’intero tratto Milano-Napoli si ha nel 1964,
dopo che si sono superate tutte le resistenze ed i tentativi di
variare il tracciato originale da parte delle amministrazioni
178
VII - LA
MOBILITÀ DAL
1945
ALLA CRISI PETROLIFERA
locali, in particolare quelle delle città di Siena e di Perugia,
che furono compensate con la costruzione (tuttavia parziale)
di strade di grande collegamento con l’Autosole.
Nel periodo seguente l’enorme investimento statale porta a
realizzare in media 208km di autostrada all’anno, contro i
170 della Germania ed i 127 della Francia. Alla fine del
1974 l’Italia ha il doppio delle autostrade rispetto alla Francia e due volte e mezzo rispetto al Regno Unito, risultando,
in termini assoluti, la rete autostradale più estesa al mondo
dopo quelle di Stati Uniti e Germania . “Alla realizzazione
delle autostrade si aggiungono poi i trafori stradali alpini, il
tunnel del Gran San Bernardo ed il tunnel del Monte Bianco
nel 1964, il traforo del San Bernardino in Svizzera nel 1968
e quelli del Fréjus e del San Gottardo nel 1980” (Maggi
2005, 119).
I costi di realizzazione sono però molto alti, a fronte di un
traffico che, seppur in forte crescita, non è ancora particolarmente sostenuto e non sembra ancora sufficiente a far rientrare tramite i pedaggi le società concessionarie dall’esposizione finanziaria registrata nella fase di progettazione e realizzazione.
Si profila, ancora una volta, la necessità di un intervento statale a salvaguardia delle imprese a rischio di dissesto finanziario, replicando quegli interventi di salvataggio già attuati
dal governo fascista per rilevare le autostrade costruite negli
anni Venti e Trenta. Il primo intervento lo attua il governo
Fanfani, accollando alla Società Autostrade la gestione e la
riscossione di tre autostrade a pedaggio in perdita (la Napo179
Lei non sa chi sono io - L’AUTOMOBILE
li-Canosa-Bari, la Pescara-Canosa e la Genova-Sestri) e la
ricostruzione delle autostrade dell’anteguerra, mentre sarà
l’Anas ad accollarsi le spese e la realizzazione della SalernoReggio Calabria.
La Società Autostrade è poi “beneficiaria di un contributo
decennale del 3% e soprattutto viene trasformata nella concessionaria per eccellenza, nella quale sarebbero poi confluite, una dopo l’altra, tutte le concessionarie in perdita e
prive di una consolidata esperienza aziendale” (Menduni
1999, 63).
Il dissesto finanziario delle imprese concessionarie origina
dalla “sottostima delle spese e dalla sovrastima degli introiti
e il governo è costretto ad intervenire nuovamente nel 1968,
per le autostrade in concessione a società e consorzi a capitale pubblico, e nel 1971, per le autostrade a capitale privato. In cambio del salvataggio, lo Stato richiede il controllo
della gestione aziendale, con la presenza nel collegio sindacale delle singole società di due funzionari, uno del Ministero del Tesoro e uno dell’Anas” (Maggi 2005, 117).
A metà degli anni Settanta, tuttavia, le autostrade presentano ancora i bilanci in deficit, con il rischio di non poter completare i lavori in corso. L’indebitamento raggiunge il culmine nel 1974, quando in presenza dello shock petrolifero e
della politica di restrizione al consumo di benzina il traffico
autostradale diminuisce, abbassando i ricavi provenienti dai
pedaggi.
La principale ragione del persistere dei deficit è dovuta però
alla crescita degli oneri fiscali, in seguito alla riforma tribu180
VII - LA
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ALLA CRISI PETROLIFERA
taria che aveva soppresso le agevolazioni fino ad allora concesse dallo Stato.
“Ad aggravare il bilancio finanziario delle concessionarie
contribuì anche l’applicazione alle tariffe di pedaggio dell’Iva, l’imposta sul valore aggiunto, al 12% che, non solo
fece aumentare repentinamente le tariffe, ma gravò le società di un ulteriore costoso lavoro per il disbrigo delle pratiche
di rimborso dell’Iva aperte dagli utenti delle autostrade”
(Paolini 2005, 45).
La crisi delle concessionarie autostradali, unita allo shock
petrolifero ed alla conseguente politica di austerità, fa emergere le critiche, a volte in passato sopite, a tutto il modello
di sviluppo infrastrutturale ed economico seguito dai governi fino ad allora. Gli squilibri della politica autostradale
sono ricondotti, ancora una volta, alla mancata realizzazione di investimenti nella viabilità ordinaria a sostegno della
maggioranza di piccole e medie imprese, spesso situate ben
lontano dai tracciati autostradali.
La dislocazione delle attività industriali attorno all’autostrada causa invece un’ulteriore impoverimento delle aree già
economicamente depresse e uno sviluppo territoriale fortemente disomogeneo.
L’altra grande critica è la mancata integrazione fra autostrade e ferrovie, sostituita da un’aperta quanto dannosa competizione fra i due sistemi di trasporto, entrambi spesso collocati sulle stesse direttrici di marcia, che finisce, come si è
visto, con l’escludere la ferrovia dal sempre più ricco mercato del trasporto delle merci.
181
Lei non sa chi sono io - L’AUTOMOBILE
La politica autostradale si sostanzia perciò in un’affermazione della strada a danno della ferrovia e in una trasformazione in senso monomodale, del sistema di trasporti italiano,
con influenze su tutte le modalità di trasporto pubblico (cfr.
ivi).
Questi rilievi trovano prima spazio fra i tecnici di settore, poi
sulla stampa specializzata, per essere fatti propri infine dall’opinione pubblica, che inizia “ad accusare il sistema politico-clientelare creatosi attorno alla costruzione di nuove tratte autostradali, per lo più inutili, come nel caso delle due
autostrade abruzzesi e del traforo del Gran Sasso, trasformato in laboratorio di fisica nucleare” (ivi, 49).
La programmazione di nuove autostrade s’interrompe infine
dal 1975 al 1982, quando se ne rilancia la costruzione per
un totale di 558 km. “Le ragioni del rilancio, tuttavia, non
hanno niente a che fare con le esigenze di riequilibrio e razionalizzazione del sistema di trasporti nazionale, ma rispecchiano ancora una volta quel modello di sviluppo che stava
alla base del “piano Romita”, cioè promuovere lo sviluppo
o per lo meno mantenere il livello di occupazione dell’industria automobilistica e quella edile, quali principali motori
dello sviluppo economico del paese” (ivi, 50).
MEZZI E MODALITÀ DI TRASPORTO.
Il secondo dopoguerra fa registrare profondi mutamenti nei
mezzi e nelle modalità di trasporto, come conseguenza dell’impetuoso sviluppo economico iniziato nei primi anni Cinquanta. In questo panorama di rinnovamento dei mezzi di
182
VII - LA
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ALLA CRISI PETROLIFERA
trasporto fa eccezione il treno, per il quale gli investimenti si
concentrano in pratica soltanto nel completamento dell’elettrificazione delle linee. “Il materiale rotabile innovativo, così
come i nuovi vagoni e le locomotive, sono un ricordo del
passato, dato che tra il 1951 ed il 1953 si ordinano soltanto
15 locomotori e nel 1954 ci si limita alla costruzione di
un’automotrice e di una carrozza” (Maggi 2005, 59). Le ferrovie si concentrano sull’offerta di un servizio di treni veloci, tali da fare concorrenza agli altri mezzi di trasporto sulla
lunga distanza, basati sulla nuova serie di elettrotreni di lusso modello Etr 300.
“Il treno Settebello, così chiamato perché formato da 7 carrozze, offre tutti gli elementi per un viaggio di lusso: aria
condizionata, ristorante, bar ed anche due salottini con finestra panoramica, posti sotto la cabina di guida, per permettere ai passeggeri una veduta frontale del paesaggio, attraversato ad una velocità pari a 180km/h” (ivi, 60).
Tuttavia, il fiore all’occhiello del trasporto ferroviario subisce il primo smacco mediatico ad opera dei fautori dell’automobile e dell’automobilismo, quando il mensile Quattroruote organizza una gara di velocità fra il treno e l’auto. Nel
1961 il Settebello è messo a confronto “con un’Alfa Romeo
Giulietta, guidata dal pilota Sanesi, sul percorso MilanoRoma e arriva nella capitale con un ritardo di 38 minuti
rispetto all’auto. Poco dopo si ripete l’esperimento organizzando una nuova competizione tra le stazioni di Milano e di
Firenze fra il Settebello e una Lancia Flavia. La vettura, con
alla guida un esperto pilota, percorre la distanza in due ore
183
Lei non sa chi sono io - L’AUTOMOBILE
e mezzo circa, con una spesa complessiva di 17.784 lire,
mentre il viaggio in treno per cinque persone è costato
28.250 lire ed è durato due ore e quarantacinque minuti”
(Paolini 2005, 144).
Il servizio ferroviario presenta comunque dei miglioramenti
a livello di offerta, quando si abolisce la terza classe accorpandola alla seconda e quando “si istituiscono anche in Italia i convogli ad alta velocità commerciale, i Tee (Trans
Europe Express), che collegano con automotrici diesel le
principali relazioni dell’Europa occidentale, in seguito
all’istituzione del Mercato europeo” (Maggi 2005, 60). Tuttavia, il declino del treno e l’avvento del trasporto su gomma, collettivo o individuale che sia, è alle porte. La motorizzazione privata in Italia segue due fasi principali: in un primo momento continuano a diffondersi soprattutto gli autocarri, specie nell’immediato dopoguerra, quando l’industria
non ha ancora completamente riconvertito la produzione a
fini civili e quando le condizioni delle strade sono pessime
per via della guerra.
È in questo contesto, o addirittura durante l’occupazione
tedesca e alleata della penisola, che moltissimi italiani si confrontano con la necessità di spostarsi e scoprono il trasporto
privato. “Le ferrovie erano state duramente colpite dai bombardamenti e dai sabotaggi. I treni funzionavano malissimo;
per raggiungere da Milano la capitale si impiegavano nel
1945 33 ore, contro le 6 del 1938 (…). Le strade erano ridotte anche peggio delle ferrovie, se possibile, ma ci si poteva
arrangiare (…). L’esigenza del trasporto era molto forte.
184
VII - LA
MOBILITÀ DAL
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ALLA CRISI PETROLIFERA
Centinaia di migliaia di persone cercavano di tornare alle
loro case e di chiudere così l’esperienza della guerra” (Menduni 1999, 20-21).
Mentre la ricostruzione delle infrastrutture stradali volge al
termine, l’Italia fa l’esperienza di una prima motorizzazione
di massa, che riguarda in particolar modo coloro che non
possono permettersi l’acquisto di un’automobile, ovverosia le
classi popolari. I mezzi protagonisti di questa prima ondata
di motorizzazione si chiamano Vespa e Lambretta e incontrano il favore del pubblico per la loro comodità d’uso e ed economia d’esercizio. Entrambe sono il frutto dell’ingegnosità
degli imprenditori del tempo, impegnati nella riconversione
dei propri impianti alla produzione civile. La Vespa è prodotta dalla Piaggio a partire dal 1946, quando “qualcuno pensò
di utilizzare dei motorini di avviamento per aerei militari, che
non servivano più, per un motociclo dalle forme tondeggianti, le ruote piccole ed uno scudo anteriore” (ivi, 22).
La Lambretta è prodotta dalla Innocenti di Milano che fabbricava linee per confezionare proiettili e tubi in acciaio – dai
quali si ricava il telaio dello scooter.
Entrambe hanno un successo commerciale enorme e diventano in breve il simbolo della ricostruzione del secondo
dopoguerra grazie a delle caratteristiche vincenti: “(...) erano facili da guidare, andavano dappertutto, consumavano
poco; il motore era protetto e quindi non macchiava i pantaloni come quello delle motociclette; non occorreva cavalcarli, ma bastava sedersi sul sellino. Si poteva ospitare un
secondo passeggero (…) ed eventualmente un bambino in
185
Lei non sa chi sono io - L’AUTOMOBILE
piedi davanti al guidatore” (ivi, 22-23). Dalla Vespa nasce
nel 1948 l’Ape, “il motofurgone con tre ruote ed un cassone, che ebbe il merito di accelerare il commercio al minuto
in un paese ancora alle prese con i danni alla viabilità , e che
in seguito venne esportato in diversi paesi extraeuropei”
(Maggi 2005, 121-122).
Agli inizi degli anni Cinquanta la ricostruzione è pressoché
completata e si intravedono i primi benefici della politica
monetaria del governo italiano, accompagnata dal progresso
costante dell’export italiano verso i partner commerciali più
importanti, che svolge un ruolo trainante per rilanciare
l’economia italiana ed i consumi interni. Sul fronte automobilistico, le principali case costruttrici sono alle prese con le
ultime produzioni dei modelli prebellici o bellici.
La FIAT, che nel dopoguerra ha rinnovato la gamma media
con il modello 1400, cerca di presidiare la fascia bassa del
mercato con l’ultima edizione della Topolino, la 500 C, un
veicolo spartano e adatto al periodo della ricostruzione, ma
che si rivela completamente inadeguato per quanti, e all’inizio degli anni Cinquanta sono in molti, desiderano scendere
dalle Vespe e dalle Lambrette per approdare a qualcosa di
più comodo. Il vero avvio della motorizzazione individuale
si ha con la presentazione della 600, un’auto appositamente
concepita per sostituire la Topolino e per rendere praticamente realizzabile il sogno degli italiani di possedere un’automobile per la famiglia.
L’auto, ideata dall’ingegner Dante Giacosa, è dapprima
annunciata agli azionisti dal Presidente Vittorio Valletta nel
186
VII - LA
MOBILITÀ DAL
1945
ALLA CRISI PETROLIFERA
1953, ed in seguito prodotta dal 1955. L’interesse della FIAT
per l’automobile popolare è radicato nella convinzione che
esista lo spazio ed il potenziale di occupare tale spazio produttivo nella divisione internazionale del lavoro, nonché del
ruolo attivo nell’aumento dei consumi privati che un’utilitaria di successo potrebbe avere (cfr. Berta 1998). Il progetto
100 – così si chiama lo studio della futura FIAT 600 – è affidato a Dante Giacosa, il quale disegna una vettura che accoglie molte delle innovazioni tecnologiche che l’industria
automobilistica italiana ha introdotto nel panorama mondiale a partire dagli anni Trenta. “La prima novità è il posizionamento del motore nella parte posteriore, una scelta che
permette di economizzare a livello di trasmissione (anche la
trazione è posteriore) e guadagnare spazio nell’abitacolo per
4 posti comodi, pur contenendo il più possibile le dimensioni esterne. Ulteriore volume interno viene guadagnato scegliendo la carrozzeria a scocca portante e adottando il sistema di sospensioni a quattro ruote indipendenti (meno
ingombranti dei sistemi tradizionali). Il motore è un quattro
cilindri raffreddato ad acqua. Cilindrata di 633 cm3, velocità di quasi 100km/h, con doti di accelerazione, ripresa ed
agilità eccellenti per un propulsore così piccolo” (AA.VV.
2006, 293).
La 600 è presentata al Salone dell’auto di Ginevra del 1955
ed il “prezzo di vendita è fissato a 590.000 lire, pari a venti
mensilità di un operaio, ben al di sotto del costo della FIAT
Topolino Belvedere, macchina ormai anziana e con prestazioni minori, per il cui acquisto si deve sborsare un prezzo
187
Lei non sa chi sono io - L’AUTOMOBILE
pari a trenta mensilità di un operaio” (Menduni 1999, 31).
Nel 1960 la FIAT presenta al salone dell’auto di Parigi la
seconda versione della 600, modificata nel motore – portato
a 767 cm3 per 29 CV di potenza – e nella carrozzeria, secondo le specifiche previste dal Nuovo Codice della Strada del
1958 (ad esempio gli indicatori di direzioni replicati sulle
fiancate). L’auto verrà prodotta in Italia fino al 1969, per poi
essere fabbricata in seguito in Argentina ed in Jugoslavia, e
da subito ottiene un successo clamoroso, diventando un
fenomeno di costume e uno dei simboli del miracolo economico italiano. Nel 1965 ne sono già stati prodotti due milioni di esemplari, molti dei quali acquistati a rate, a conferma
che il modello ha contribuito a motorizzare tantissime famiglie italiane, specie quelle più numerose che hanno potuto
procedere all’acquisto della 600 Multipla, la prima monovolume di massa della storia.
Nonostante il suo successo, la FIAT già pensa ad un auto
ancora più piccola e dal prezzo popolare, rivolta a quella larghissima fascia della popolazione che continua a spostarsi
sugli scooter della Piaggio o della Innocenti. A capo della
progettazione della nuova auto minima di casa FIAT si trova
ancora l’ingegner Giacosa, il quale parte dall’idea di realizzare un’autovettura delle dimensioni della Topolino, rivestita da una carrozzeria ispirata a quella della 600. “Lo studio
della meccanica impone scelte innovative, come l’utilizzo di
un piccolo motore a 4 tempi, bicilindrico, raffreddato ad
aria (soluzione rivoluzionaria per la Casa), cilindrata inferiore a mezzo litro e potenza di appena 13 CV. Il motore, col188
VII - LA
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1945
ALLA CRISI PETROLIFERA
locato anche qui posteriormente, è sospeso alla struttura
portante con una serie di bracci snodabili a molle, così da
assorbire le forti vibrazioni. Sempre dalla 600 viene ripresa
anche la soluzione della balestra trasversale all’avantreno,
mentre il cambio è di derivazione motociclistica senza sincronizzatori” (AA.VV. 2006, 297).
L’auto che diverrà uno dei miti più popolari del dopoguerra è
però accolta con relativa freddezza proprio da coloro ai quali si rivolge. I potenziali acquirenti lamentano un prezzo troppo alto – 490.000 lire – per quanto offre la vettura, caratterizzata da soluzioni troppo spartane (mancanza di veri posti
posteriori, dei finestrini a discesa anteriori e del portacenere).
La FIAT corre immediatamente ai ripari e modifica costantemente la linea di produzione fino ad esaudire le richieste della clientela, introducendo nel 1965 la 500 F, che si afferma
come quella di maggior successo, inglobando il motore più
potente della Bianchina assieme a molte altre modifiche della
carrozzeria e degli interni in senso più confortevole. “A
pochissimi anni dall’iniziale insuccesso, con questa versione
la 500 arriva ad essere la vettura più venduta in Italia perché
adatta a tutto e a tutti: ideale per la città, seconda macchina
per migliaia di famiglie (quella che usano le donne e i ragazzi), una ‘vera’ automobile a un prezzo che chiunque può permettersi di pagare” (ivi, 299). La 500 continuerà ad essere
prodotta ed apprezzata fino al 1975, quando sarà sostituita
dalla 126, una macchina dall’impostazione meccanica e stilistica molto simile, ma indubbiamente più confortevole e con
il ruolo determinato di seconda macchina per la famiglia.
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Lei non sa chi sono io - L’AUTOMOBILE
Il modello destinato alla famiglia nella seconda metà degli
anni Sessanta è la 850, ulteriore piccolo passo di avvicinamento ai modelli maggiori 1500, 1800 e 2300, destinati ad
un pubblico più facoltoso, tuttavia non riscuote il successo
della 600 e della 500, probabilmente perché l’aumentato
benessere mette a disposizione scelte ben più appaganti per
il consumatore. Ne è prova l’accoglienza molto favorevole
che viene riservata alle versioni speciali della 850, la spider e
la coupé.
Il fenomeno delle utilitarie non è l’unico presente nel panorama automobilistico italiano, che continua a rinnovarsi e
ad esprimersi ai migliori livelli tecnici anche nel settore delle
auto di lusso e sportive. Nel dopoguerra l’Alfa Romeo compie il decisivo passo verso la produzione industriale, installando le prime catene di montaggio ed ingrandendo gli stabilimenti con la nuova fabbrica di Arese. Sfruttando le competenze acquisite con la costruzione su licenza di motori
aeronautici, gli ingegneri della casa di Milano sono capaci di
costruire vetture sportive estremamente performanti, aggiudicandosi due titoli mondiali di Formula Uno. Tuttavia, sotto la spinta dell’IRI e di Finmeccanica, l’Alfa Romeo decide
di entrare nel mercato automobilistico in espansione, rinunciando alla costruzione semiartigianale a favore di una produzione industriale di modelli che mantengano comunque il
carattere sportivo e l’elevato livello tecnico delle auto realizzate in passato.
Nel 1951 nasce così l’Alfa Romeo 1900, una berlina dal
carattere sportivo e dai grandi contenuti tecnici: l’auto mon190
VII - LA
MOBILITÀ DAL
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ALLA CRISI PETROLIFERA
ta un quattro cilindri in linea bialbero, le sospensioni indipendenti, la scocca portante e i nuovissimi pneumatici radiali della Michelin (ivi, 235). La trasformazione dell’Alfa
Romeo in costruttore di massa si concretizza con il modello
Giulietta, commercializzato nel 1955 con grandissimo successo in tutte le sue varianti di carrozzeria – spider, coupè e
berlina. L’auto monta un motore di 1290 cm3, bialbero e
interamente costruito in lega d’alluminio, capace di raggiungere una velocità di 180km/h nell’allestimento Sprint Veloce.
Nonostante il prezzo di 1.735.000 lire, l’auto arriva al cuore degli italiani – per i quali la Giulietta è la fidanzata d’Italia – e non soltanto di essi: “Max Hoffmann, l’importare di
Alfa Romeo negli Stati Uniti, convince i dirigenti della casa
milanese a produrre il modello spider, realizzato dal carrozziere torinese Pinin Farina, ed il successo è tale che gli Stati Uniti assorbono quasi totalmente i primi tre anni di produzione (circa 8000 esemplari) mentre la Pinin Farina si
vede costretta a realizzare un nuovo stabilimento produttivo a Grugliasco, da dove escono le scocche finite spedite ad
Alfa Romeo per il montaggio degli organi meccanici” (ivi,
238-241). Sull’onda del successo della Giulietta escono in
seguito il modello 2000, in sostituzione della 1900, e la
Giulia, un modello che ”raccoglie consensi entusiastici per
la linea originale e moderna, ma anche per la meccanica
capace di brillanti prestazioni. La velocità massima è di
oltre 165 km/h, grazie al motore di 1570 cm3 da 92 CV a
6200 giri, alimentato da un carburatore a doppio corpo,
con collettore di scarico sdoppiato e coppa dell’olio in allu191
Lei non sa chi sono io - L’AUTOMOBILE
minio con alettatura di raffreddamento” (ivi, 243).
Anche la Giulia sarà prodotta con carrozzeria coupè e spider
e diventa molto familiare agli italiani per il fatto di essere
una delle vetture predilette dalle forze dell’ordine. Inoltre,
essa si distingue dal resto della produzione automobilistica
anche per esser stata progettata tenendo conto degli aspetti
relativi alla sicurezza del guidatore e dei passeggeri. “La Giulia è una delle prime automobili al mondo ad avere la scocca dotata di elementi strutturali di sicurezza, costruita
seguendo gli studi compiuti dopo aver eseguito crash test
(prove d’urto) su alcuni esemplari. L’abitacolo della Giulia è
rigido, la parte anteriore e posteriore sono invece deformabili progressivamente al fine di assorbire gli urti. Solo nel
1966 negli Stati Uniti, paese all’avanguardia in tema di sicurezza, si rendono obbligatorie queste soluzioni e si utilizzano gli stessi sistemi e metodi già applicati in Italia da Alfa
Romeo“ (ivi, 233).
Anche Lancia, l’altro costruttore di auto di lusso, beneficia
dell’espansione dei consumi e continua a rinnovare la propria
gamma con modelli al vertice per innovazioni tecniche: nel
1950 la Lancia Aurelia sfoggia il primo motore al mondo con
architettura sei cilindri a V, tuttora in uso ed adozione da parte di moltissime marche automobilistiche. All’inizio degli
anni Sessanta ancora Lancia “presenta due importantissime
novità. La prima è la Flavia, vettura di fascia medioalta dotata di un raffinato (ma complesso!) motore a quattro cilindri
contrapposti interamente in lega d’alluminio e dotata (prima
italiana di serie) di trazione anteriore” (ivi, 221).
192
VII - LA
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ALLA CRISI PETROLIFERA
Tuttavia, a rendere unico il panorama automobilistico nazionale è la fondazione nel 1946 della Ferrari, in seguito alla
decisione di abbandonare l’Alfa Corse, il reparto corse dell’Alfa Romeo, da parte di Enzo Ferrari. La casa di Maranello fa delle prestazioni e dello stile i suoi punti di forza, legandosi in maniera stretta con i più grandi designer delle carrozzerie italiane dell’epoca – Touring, Ghia, Vignale, Pinin Farina – e partecipando a tutti i campionati e le corse sportive di
rilievo, in aperta competizione con l’altro grande costruttore di auto sportive, Maserati. Mentre quest’ultima si ritira
progressivamente dai circuiti più importanti per dedicarsi
alla produzione di sportive di lusso, come la 3500 GT, la
Ferrari lega indissolubilmente la propria immagine di produttore alla partecipazione alle corse, raccogliendo il testimone di Alfa Romeo e Lancia, che escono dalla Formula
Uno rispettivamente nel 1952 e nel 1955.
Gli ingredienti del rapido affermarsi del mito Ferrari sono
essenzialmente due: da un lato la capacità di essere allo stesso tempo auto da competizione e da strada, dall’altro il grandissimo favore incontrato dal marchio negli Stati Uniti, che
lo porta in breve a connotarsi come marchio internazionale
ed incarnazione dell’auto sportiva per eccellenza. A decretare il successo nel ricco mercato nordamericano, e quindi poi
in quello mondiale, sono una serie di modelli derivati dalla
250 GT, disegnata da Pinin Farina e dotata di un motore 12
cilindri a V di 3 litri che la rende alla metà degli anni Cinquanta l’automobile più veloce del mondo (ivi, 267). La
richiesta di 250 GT è tale che ne vengono sviluppate molte
193
Lei non sa chi sono io - L’AUTOMOBILE
varianti e in breve tempo, grazie ai tanti ordini ricevuti,
anche la Ferrari adotta una produzione in serie. Negli anni
Sessanta fa la sua comparsa la Ferrari più famosa di sempre,
la 250 GTO (Gran Turismo Omologata), considerata una
delle più belle auto di sempre e l’ultimo “esempio di una
generazione di vetture che si trova a proprio agio sia sulla
pista sia in strada” (ivi, 274).
A fronte di un comparto automobilistico assolutamente
competitivo con l’estero, quando non tecnicamente
all’avanguardia, il mercato automobilistico italiano evidenzia invece una serie di caratteristiche che lo distinguono
abbastanza nettamente dai restanti mercati mondiali. In primo luogo va ricordato il ritardo della sua formazione unita
alla rapidità del suo sviluppo: basti pensare al fatto che soltanto nel 1964 le immatricolazioni di automobili superano
quelle dei mezzi a due ruote, mentre ancora “nel 1958 vi era
un motoveicolo ogni 14,1 abitanti contro un autoveicolo
ogni 28,4” (Paolini 2005, 112). Durante gli anni del miracolo economico, “l’espansione automobilistica assunse un
ritmo travolgente con un tasso di incremento medio del
20,7% (23% per le sole vetture): nel 1964, rispetto al 1950,
la densità era passata da 81,9 a 9,9 abitanti per veicolo e le
automobili circolanti erano più del triplo di quelle in circolazione nel 1958” (ivi, 112). La crescita si fa meno impetuosa, ma comunque sostenuta, fino alla crisi petrolifera del
1973, quando la restrizione dei consumi prima, e la crescente concorrenza all’interno della Comunità europea modificano le dinamiche commerciali e produttive.
194
VII - LA
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ALLA CRISI PETROLIFERA
Gli altri caratteri distintivi della motorizzazione italiana
sono tre (cfr. ivi): una dinamica interna comune a tutto il territorio nazionale, nonostante la presenza di forti disparità
regionali nella distribuzione della ricchezza e nello sviluppo
economico; il dominio pressoché completo del mercato da
parte delle industrie automobilistiche italiane; infine, la netta prevalenza delle utilitarie sul resto degli altri modelli.
Il primo aspetto è forse il più singolare di tutti, dato che fra
il 1952 ed il 1974 il tasso d’incremento dei veicoli circolanti
nell’Italia meridionale è generalmente superiore a quello delle altre regioni più sviluppate economicamente. “Nel 1952,
la motorizzazione privata era caratterizzata da profonde sperequazioni regionali: il 61,04% degli autoveicoli circolanti
era dislocato nelle regioni settentrionali (il 36,22% nelle sole
Lombardia e Piemonte), il 20,60% in quelle centrali ed il
restante 18,36% in quelle meridionali ed insulari”. Fra il
1952 ed il 1963 “l’incremento della motorizzazione privata
fece registrare i ritmi più sostenuti proprio in quelle regioni
dove la densità automobilistica era inferiore, anche di molto, alla media nazionale” (ivi, 113). La tendenza si accentua
a partire dal 1964, quando la crescita economica italiana ha
ormai salde radici. “Fra il 1964 e il 1974, infatti, furono le
regioni meridionali, principalmente quelle dove la densità
era minore, a trainare lo sviluppo della motorizzazione. Alla
fine di questo periodo, per numero di veicoli e di automobili circolanti, il Sud (24,52% e 24,61%)” aveva superato il
Centro (22,18% e 22,39%), mentre il Nord (53,28% e
53%) continuava a mantenere un indiscusso primato” (ivi,
195
Lei non sa chi sono io - L’AUTOMOBILE
115). Il secondo aspetto, relativo al dominio sulle vendite
esercitato dalle case automobilistiche nazionali, è probabilmente connesso alla ancora scarsa integrazione del Mercato
Comune ed alla specializzazione dei costruttori d’oltralpe,
specie tedeschi, in automobili di grossa cilindrata. La specializzazione della FIAT nel produrre le utilitarie, unita ad un
rete distributiva e di assistenza capillare, ha sicuramente
contribuito a farne il marchio più richiesto nel mercato,
affollato di nuovi clienti a caccia di automobili poco costose, dal costo di esercizio basso e semplici da riparare. Il parco macchine nazionale, e questo è il terzo aspetto, vede una
prevalenza delle utilitarie: “(…) mentre nei paesi europei con
un’alta densità automobilistica, per non parlare degli Stati
Uniti, circolavano in maggioranza vetture di media e di
medio-grande cilindrata (fra i 1001 e i 2000 cm3), in Italia
primeggiavano le autovetture fino a 1000 cm3. Nel 1964, il
66,74% delle automobili immatricolate avevano una cilindrata fino a 1000 cm3, il 28,20% fra i 1001 e i 1500 cm3, il
4,52% fra i 1501 e i 2000 cm3 e solamente lo 0,54% oltre i
2000 cm3. Anche per quanto concerne la cilindrata, non vi
erano sostanziali differenze fra le diverse aree geografiche: le
utilitarie rappresentavano il 70,41% delle immatricolazioni
al Centro, il 66,73% al Sud e il 64,93% al Nord, mentre le
auto medie il 29,54% nelle regioni settentrionali, il 28,60%
in quelle meridionali e il 24,80% in quelle centrali” (ivi,
117). Gli ultimi mostrano con evidente chiarezza che la
motorizzazione di massa è davvero tale, cioè alimentata dalle classi popolari che acquistano esclusivamente utilitarie.
196
VII - LA
MOBILITÀ DAL
1945
ALLA CRISI PETROLIFERA
L’auto popolare italiana, tuttavia, non si afferma soltanto
perché è un prodotto industriale adeguato alle esigenze storiche di espansione del mercato automobilistico, ma anche
perché si differenzia in maniera significativa dal resto delle
utilitarie prodotte negli altri Stati industrializzati. L’idea di
auto popolare era stata introdotta e praticata con successo
negli Stati Uniti, dove Henry Ford era riuscito a motorizzare le famiglie americane con il modello T, venduto in 15
milioni di esemplari tra il 1908 e il 1926. Grazie all’abbattimento dei costi di produzione derivanti dalla catena di montaggio ed agli alti salari pagati agli operai per trasformarli in
un nuovo segmento di consumatori, Ford riesce a produrre
un’auto spartana, ma senza troppi compromessi rispetto alle
dimensioni e alle prestazioni dei modelli destinati alle nicchie
più alte del mercato. Il suo esempio industriale innovativo è
osservato con attenzione dall’industria dei motori europea e,
appena possibile, si cerca di copiare la sua organizzazione
aziendale, mentre si respinge la dottrina economica degli alti
salari, come si è visto nel capitolo precedente. Il fordismo
come dottrina economica non attecchisce in Europa, e specie
in Italia, perché i mercati degli Stati europei non sono sufficientemente grandi e sviluppati da fornire i capitali ed il
numero dei consumatori necessari a sostenere una produzione industriale su larga scala e, conseguentemente, i prezzi dei
beni adeguatamente bassi. Nel Vecchio continente, chi vuole
costruire un’auto per la massa ha due strade davanti a sé:
mobilitare le risorse finanziarie dello Stato, oppure cercare
di economizzare il più possibile sul prodotto. La prima stra197
Lei non sa chi sono io - L’AUTOMOBILE
da la si segue in Germania, dove per volontà di Hitler è il
Partito Nazista a impegnarsi in prima persona nella produzione dell’auto per tutti, fondando la Wolkswagen nel 1937,
alla capo della quale mette Ferdinand Porsche.
La seconda è seguita dal resto dell’industria automobilistica
privata europea, che si caratterizza per il progettare e realizzare auto così spartane da compromettere a volte le funzionalità essenziali e l’idea stessa di avere a che fare con un’automobile, com’è il caso della 2CV della Citroën, originariamente prevista con un solo faro anteriore e il tergicristallo
azionato manualmente. Alcune industrie di motori europee,
sull’onda del successo degli scooter nell’immediato secondo
dopoguerra, decidono di avventurarsi a produrre ibridi tra
l’auto e la moto, con tre ruote, motori motociclistici e
dimensioni ed abitabilità veramente spartane. Questi modelli si diffondono soltanto nell’Europa del nord, come nel caso
della BMW 600, prodotta a partire dall’Isetta della ditta ISO
italiana, dopo che gli italiani dimostrano di non gradire
affatto questo tipo di prodotti.
L’industria automobilistica italiana, e la FIAT in particolare,
affrontano il tema dell’utilitaria proprio rifiutando l’idea che
essa debba compromettere le caratteristiche essenziali dei
modelli più grandi. L’industrializzazione più tarda, un reddito procapite inferiore e un mercato interno più piccolo
rispetto al resto d’Europa, non permettono in Italia uno sviluppo ulteriore dei segmenti alti o medio-alti del mercato
automobilistico.
La FIAT decide di rendere i propri prodotti più facilmente
198
VII - LA
MOBILITÀ DAL
1945
ALLA CRISI PETROLIFERA
appetibili commercializzando già negli anni Trenta la FIAT
Balilla, una vettura più economica e acquistabile anche a
rate, in ciò emulando quanto aveva fatto Ford in America
con il modello T. Tuttavia, la vettura è ancora troppo cara
per la stragrande maggioranza del popolo italiano.
Nel 1936 la FIAT introduce nel mercato la Topolino, la sua
prima vera utilitaria e la prima vera utilitaria all’italiana. La
scelta costruttiva di FIAT, e che in seguito si mantiene in tutta la produzione della casa torinese, va nella direzione della
miniaturizzazione di tutti gli aspetti caratteristici di un’automobile, piuttosto che nell’eliminazione degli stessi al fine di
abbassare il prezzo di vendita (cfr. Calabrese 1999).
Il concetto di utilitaria FIAT, poi copiato dal resto delle case
automobilistiche, prevede che non si snaturino né si perdano
l’idea e le funzioni proprie di un’automobile, cercando di
rispondere a tutte le aspettative che il cliente ha nei riguardi
dell’auto. “Nella Topolino, come nella moderna Cinquecento, si entra in quattro persone, mai in due (se non nel caso
della Isetta, che però non fu mai considerata un’automobile,
ma una motocicletta coperta).
Le velocità non sono mai bassissime, e anzi, qualche volta, si
sono messe a punto soluzioni sportive, soprattutto per i percorsi misti. I modelli sono giunti a coprire tutte le varietà della
gamma automobilistica, comprese giustappunto quelle più
lussuose, come il cabriolet, il coupé, il fuoristrada e persino la
station wagon” (ivi, 554-556).
Tale filosofia costruttiva ha anche due ulteriori effetti: in primo luogo, ha il merito di mantenere intatta anche nei model199
Lei non sa chi sono io - L’AUTOMOBILE
li più economici l’attrattività ed il richiamo simbolico che
l’auto esercita sulla società, come vedremo più avanti; in
secondo luogo, ma in stretta dipendenza col primo, introduce anche nelle utilitarie, in quanto in realtà non soltanto vetture funzionali, l’elemento del design. A partire dai primi
pionieristici studi sull’aerodinamica, infatti, il mestiere di
carrozziere si va integrando sempre più nell’industrializzazione del prodotto automobilistico, tanto che dal secondo
dopoguerra in poi i più famosi carrozzieri italiani si legano
fortemente a determinati costruttori, quando non diventano
industrie a loro volta, come nel caso di Pinin Farina.
L’importanza dell’estetica e del design risale all’evoluzione
del mercato automobilistico americano, avvenuta negli anni
Trenta, quando i grandi produttori iniziano a differenziare la
propria produzione per venire incontro ai gusti di un consumatore più evoluto ed esigente. Dal punto di vista estetico, il
design automobilistico derivava dagli studi di aerodinamica
condotti in primo luogo dall’industria aeronautica. L’influenza dell’aerodinamica pervade tutta la produzione automobilistica statunitense fin dagli anni Trenta, portando alla
nascita della corrente Streamline, la quale “accentuava ed
esaltava gli aspetti estetici degli autoveicoli aerodinamici utilizzando carenature ed elementi accessori, talvolta superflui”
(Nappo e Vairelli 2006, 51).
Lo stile e la cultura del design automobilistico americani
approdano in Europa dopo il secondo conflitto mondiale,
determinando anche qui una completa rottura dell’estetica
tradizionale del mondo dell’auto. La tendenza è quella di
200
VII - LA
MOBILITÀ DAL
1945
ALLA CRISI PETROLIFERA
integrare le varie parti dell’auto – abitacolo, cofano, bagagliaio, fanali, parafanghi, passaruote e così via – in un unico vestito il più possibile sinuoso, cercando di smussarne gli
angoli vivi. Lo stampaggio seriale dei lamierati fa sì che “la
carrozzeria, prima disegnata a parte, doveva ora diventare
elemento integrante della progettazione e, a loro volta, i
carrozzieri collaborare direttamente con la grande industria” (ivi, 77). D’altro canto, l’integrazione delle varie parti dell’auto in un continuum estetico fornisce agli stilisti una
libertà di soluzioni stilistiche prima impensabile, mentre i
limiti e le condizioni suggerite dagli studi aerodinamici
offrono i punti di riferimento fondamentali sui quali
costruire un linguaggio ed una direzione estetica personalizzata. La rivoluzione stilistica e l’applicazione di canoni estetici al design industriale si consolidano in Europa ed in Italia negli anni Cinquanta, per poi esplodere definitivamente
negli anni Sessanta.
Il mercato dei motori italiano è un grande protagonista di
quest’evoluzione, avendo prodotto icone stilistiche sia nei
ciclomotori – la Vespa – che nelle auto – la FIAT 600 e 500 e
la Ferrari 250 GTO – per citare gli esempi più rappresentativi. La particolare importanza che l’industria motoristica
italiana dà all’estetica dei suoi prodotti non è soltanto figlia
di una filosofia costruttiva, come nel caso delle utilitarie
FIAT, ma anche il combustibile principale che alimenta ed alimenterà un particolare edonismo legato al consumo dell’automobile che caratterizza la società italiana molto più a lungo e molto più intensamente di altre.
201
Lei non sa chi sono io - L’AUTOMOBILE
MOBILITÀ E SOCIETÀ.
Il principale evento che rimodella l’intera società italiana è,
alla fine del secondo conflitto mondiale, il posizionamento
del paese all’interno della sfera d’influenza americana e delle organizzazioni che la strutturano e la animano. La fedeltà
al mondo occidentale comporta l’adozione di un modello di
sviluppo della modernizzazione enormemente influenzato da
quello statunitense, temperato dal retaggio storico italiano e
dall’adesione al nascente modello d’integrazione europea.
L’elemento di dirompente novità è il carattere di apertura
che connota lo corsa alla modernizzazione italiana del dopoguerra: apertura dei mercati e apertura della società a modelli e stili di vita americani o comunque d’importazione.
Il modello autarchico di stampo fascista cede il passo ad un
sistema di relazioni multilaterali che consentono all’Italia di
impostare una serie di scelte capaci di farle ultimare il processo di industrializzazione iniziato nel secolo precedente. La
nuova cornice istituzionale interna – la democrazia parlamentare repubblicana – ed esterna – il GATT, il Fondo
Monetario Internazionale e la Comunità economica europea
– delimitano il quadro di un rinnovato sforzo industriale che
trova nella politica deflazionistica di Luigi Einaudi, da un
lato, e negli aiuti del Piano Marshall, dall’altro, i sostegni per
affacciarsi sui mercati internazionali.
Gli attori di questo cambiamento non sono soltanto le élites
politiche ed economiche del paese, ma gli italiani stessi, i
quali partecipano al processo di trasformazione del paese da
protagonisti e, spesso, anche all’esterno degli indirizzi del
202
VII - LA
MOBILITÀ DAL
1945
ALLA CRISI PETROLIFERA
governo. L’imprenditorialità diffusa del secondo dopoguerra
ha come risultato la creazione di uno strato di piccole e
medie imprese che, in autonomia o al traino dei grandi gruppi economici privati e pubblici, contribuisce a creare la massa critica necessaria a trasformare definitivamente l’Italia in
un paese con un’industria moderna.
Il periodo economico compreso tra il 1958 e il 1963 è il
periodo di maggior crescita dell’economia italiana, facendo
registrare incrementi annuali del Pil attorno al 5-6%. Si tratta di uno sviluppo economico che, con l’eccezione dei grossi
investimenti per le infrastrutture pubbliche, è “il risultato di
un’iniziativa privata libera, disordinata e feroce che non
conosce o non rispetta leggi, regole, contratti, che si sviluppa in una fase della nostra storia nella quale tutto si può fare
e tutto si può inventare e chi ha fantasia, coraggio e voglia
di lavorare raggiunge rapidamente i suoi obiettivi. Mai come
in questo periodo gli animal spirits del capitalismo hanno
modo di dispiegarsi appieno – ancor più e meglio di quanto
avvenne nella prima fase della nostra industrializzazione,
all’inizio del secolo – anche grazie la fatto che energie e
volontà non vengono dirottate verso obiettivi internazionali,
guerre o imprese coloniali. Siamo un paese sconfitto e il
sistema politico internazionale nel quale siamo inseriti(…)
garantisce insieme la nostra sicurezza e il nostro sviluppo
economico” (Mafai 1996, 33).
Nella fase della ricostruzione economica, i primi governi italiani s’impegnano così ad imboccare il modello di sviluppo
statunitense, favorendo l’iniziativa privata e spesso indiriz203
Lei non sa chi sono io - L’AUTOMOBILE
zandone ed accompagnandone il percorso tramite le società
facenti parte dell’IRI o tramite l’azione energica di uomini
come Oscar Sinigaglia ed Enrico Mattei, rispettivamente i
padri dell’industria siderurgica ed energetica del secondo
dopoguerra, e dall’altro lato anche i grandi gruppi industriali, i soli in grado di puntare alle elevate quote di produzione
rese possibili dall’integrazione in mercati aperti, hanno dato
il loro contributo in questa direzione, accompagnati da una
miriade di loro fornitori o subfornitori.
La risultante di questi sforzi sarà una crescita economica e
industriale che traghetta il paese nella cosiddetta “società dei
consumi” e verso quei livelli di benessere che gli Stati occidentali più ricchi avevano raggiunto prima o si apprestavano a recuperare. La via italiana alla società dei consumi chiama in causa fortemente il rapporto tra mobilità e società,
non tanto per una presunta originalità della formula di sviluppo – dato che molti altri Stati tendono a favorire la motorizzazione privata – quanto per l’importanza del ruolo che la
crescita del settore dei motori ha giocato all’interno del
modello di sviluppo economico e di società dei consumi.
Questo forte legame è, ancora una volta, basato sulla centralità economica che le industrie automobilistiche, ed in particolare la FIAT, hanno avuto nel definire le scelte produttivistiche all’indomani del secondo conflitto mondiale. Lo sforzo di riposizionamento strategico della maggior industria
nazionale è complementare all’azione di rinnovamento compiuta dai governi nel campo delle infrastrutture del trasporto e, in virtù di ciò, all’origine di un modello di sviluppo eco204
VII - LA
MOBILITÀ DAL
1945
ALLA CRISI PETROLIFERA
nomico e sociale che si centra sui mezzi di trasporto privati,
tale da far parlare di una civiltà dell’auto (cfr. Berta 1991).
Il primo passo in questa direzione lo compie Vittorio Valletta, già direttore e poi presidente della FIAT, quando, nel suo
discorso del 1946 alla Commissione economica della Costituente, prospetta l’ipotesi di un’industria automobilistica in
grado di farsi motore dello sviluppo economico del paese,
concentrando risorse finanziarie e umane nella costruzione
di vetture di piccola taglia, un segmento di mercato non
ancora fortemente presidiato dalle più forti industrie automobilistiche mondiali e l’unico capace di estendere la produzione industriale italiana in virtù delle prospettive di crescita
della domanda per questo tipo di automobile.
Vittorio Valletta è perfettamente consapevole che il ruolo
preminente di FIAT all’interno del mercato italiano e i suoi
numeri di vendita sono ben poca cosa se confrontati con l’industria americana ed europea, ed è altresì convinto che l’Italia debba allinearsi al resto del mondo automobilistico, rifiutandosi di “accreditare un’immagine del futuro dell’Italia
sospesa in un limbo artigianale, dal quale fossero programmaticamente escluse le possibilità di espansione della grande
industria” (ivi, 14). La strada indicata dal presidente della
FIAT implica una transizione definitiva verso un modello di
produzione industriale basato non soltanto su sistemi produttivi taylorizzati, ma finalizzati alla produzione su larghissima scala. La premessa fondamentale di quest’ipotesi di sviluppo è l’incapacità del settore dell’auto di innescare un processo di crescita autopropulsivo, in grado di trascinare e di
205
Lei non sa chi sono io - L’AUTOMOBILE
far crescere altri settori industriali, a causa della modesta
capacità produttiva e soprattutto delle limitate dimensioni
del mercato interno. Il modello di crescita caldeggiato da
Vittorio Valletta si propone invece di fare dell’industria
automobilistica nazionale, e di FIAT in particolare, il motore
dello sviluppo economico nazionale, così come avviene o è
già avvenuto in altri paesi occidentali.
L’azione dell’industria torinese dimostra già nel primissimo
dopoguerra la praticabilità dell’ipotesi, dato che nel 1949 viene superata la quota di produzione di automezzi dell’anteguerra, per poi decollare negli anni successivi, quando la
costruzione della rete autostradale e l’introduzione di utilitarie quali la 600 e la 500 trasformano l’automobile nel volano
di crescita di gran parte del resto dell’economia nazionale.
La ricerca dell’auto per tutti e, conseguentemente, della
capacità produttiva in grande dimensione, determina un
mutamento dell’industria e delle attività economiche italiane. “L’auto determinava davvero una nuova fase nel ritmo di
crescita, imprimendo, il proprio ritmo a settori che, fino a
quando la motorizzazione era stata un fenomeno d’élite, non
ne avevano risentito in grande misura le conseguenze dinamiche. L’industria della lavorazione delle fonti d’energia,
della gomma e della costruzione delle infrastrutture reagirono con forza, lungo il decennio Cinquanta, agli impulsi che
venivano dall’auto e dal suo processo di diffusione. Ora
diveniva chiaro a tutti, anzi, che l’auto non era più un prodotto fra i tanti, ma una sorta di bene-pilota, in grado di
riplasmare a propria misura il sistema economico” (ivi, 21).
206
VII - LA
MOBILITÀ DAL
1945
ALLA CRISI PETROLIFERA
La capacità di pilotare la trasformazione economica si riflette poi anche a livello sociale, laddove il raggiungimento del
benessere economico e di una maggiore estensione della propria sfera di mobilità individuale e dell’autonomia personale s’identificano ancor di più con l’automobile, rafforzandone l’uso pratico e il ruolo simbolico. Alimentata da questa
forte identificazione con il sopraggiungimento del benessere
materiale, l’automobile gode in Italia di un ruolo privilegiato all’interno dei beni propri della modernizzazione industriale – lavatrice, frigorifero e televisione.
L’affermazione del benessere in Italia si consolida a partire
dal 1960 e il 1961, anno del censimento e del picco della crescita economica del PIL (pari all’8,3%), permette di verificare l’enorme passo in avanti compiuto dall’Italia nella strada
verso il benessere generalizzato. “A dieci anni dall’ultimo
censimento, (…) mangiamo di più e meglio (è aumentato del
20% il numero delle calorie consumate pro capite), ci vestiamo meglio, (…) comperiamo, o progettiamo di comprare,
prodotti che nel decennio precedente non esistevano, televisore e frigorifero, mentre l’automobile, fino a poco tempo prima segno di vera ricchezza, sta diventando un bene diffuso.
Le automobili in circolazione nel 1951 erano 425.283, nel
1961 sono circa due milioni e mezzo” (Mafai 1996, 117).
Altre cifre testimoniano l’enormità dei mutamenti occorsi al
consolidamento del benessere: la FIAT ha quadruplicato la
sua produzione nell’arco di un decennio, mentre il suo fatturato rappresenta circa il 14% delle entrate complessive dello
Stato; la popolazione attiva nell’industria passa dal 32,1 %
207
Lei non sa chi sono io - L’AUTOMOBILE
del 1951 al 40,6% del 1961, mentre il terziario continua ad
espandersi, arrivando a coprire circa un terzo del PIL;
aumenta in maniera considerevole l’occupazione e soprattutto l’emigrazione per lavoro, prima verso i tradizionali sbocchi in America ed in Europa, poi sempre più assorbita dalla
capacità produttiva della grande industria localizzata a settentrione (cfr. Colarizi 2000).
La migrazione interna di molti italiani meridionali e la loro
inclusione nel capitalismo industriale moderno con il doppio
ruolo di produttori prima, e consumatori poi, sancisce il
definitivo decollo della società dei consumi e del consolidamento del mercato interno, grazie alla contaminazione e diffusione sul territorio nazionale di stili di vita tradizionalmente usuali soltanto fra i ceti urbani maggiormente sviluppati.
La civiltà dell’auto comporta conseguentemente la nascita e
la diffusione di una cultura dell’automobile che alimenta ed
influenza a sua volta i comportamenti e le scelte individuali
in merito ai mezzi ed alle modalità di trasporto.
Il ruolo propulsivo che l’automobile svolge nell’economia
italiana non può che renderla l’oggetto più importante del
mercato dei consumi, fra i tanti altri che pur realizzano il
sogno del benessere degli italiani. I valori di dinamismo e
libertà, emancipazione ed indipendenza personale sono strettamente connessi all’auto, che assume in sé anche il resto delle connotazioni simboliche proprie del benessere diffuso, della società democratica e della modernità intesa come progresso. Radio e televisione, così come gli altri elettrodomestici e oggetti di comfort, seppur acquistati in massa dagli
208
VII - LA
MOBILITÀ DAL
1945
ALLA CRISI PETROLIFERA
italiani e da questi tenuti in gran pregio, non sembrano rivestire la stessa importanza e non riscuotono lo stesso attaccamento e la stessa passione che suscita l’automobile. Ne è la
prova il tipo ed il livello di diffusione dell’automobile nelle
regioni italiane, con una distribuzione geografica che vede
parzialmente rovesciata la spiegazione economicistica per
cui a più alti livelli di reddito corrisponde un più alto livello
di consumo di beni durevoli. “Comparando i dati sulle auto
circolanti con quelli sull’andamento dei redditi osserviamo
che il basso livello di questi non rappresentò un ostacolo alla
diffusione della motorizzazione privata. Tra il 1952 ed il
1964, infatti, i massimi tassi di crescita automobilistica si
registrarono nelle regioni meridionali e insulari con l’eccezione del Friuli-Venezia Giulia e del Lazio; in particolare la
Campania, la Basilicata, la Calabria e il Molise, le quattro
regioni più povere, avevano rispettivamente il sesto, il settimo, nono e undicesimo tasso di incremento. Fra le province
in cui la motorizzazione crebbe maggiormente vi erano Avellino, Potenza, Cosenza, Enna, Benevento, Lecce, Agrigento e
Reggio Calabria, ossia le otto con il reddito più basso” (Paolini 2005, 137-138).
La civiltà dell’auto e la cultura della mobilità si alimentano
inoltre dagli aspetti intrinseci della trasformazione della
società italiana in una democrazia, evidenziando, anche in
Italia, l’emergere di alcune caratteristiche tipiche delle società democratiche: la tendenza all’egualitarismo delle condizioni economiche, una mobilità accentuata dovuta al maggior interscambio sociale fra le classi, uniti ad una massifica209
Lei non sa chi sono io - L’AUTOMOBILE
zione degli stili di vita e dei consumi. In Italia, queste tendenze s’incarnano in una classe media – formata da media e piccola borghesia – che aumenta notevolmente le sue dimensioni e che ben presto, assieme alle classi popolari, si avvia a
monopolizzare il mercato dei consumi, ferme restando le
fortissime influenze di un passato ricco di tradizioni e di differenze di stili di vita ancora esistenti fra le classi sociali.
L’analisi del consumo del bene automobile negli anni del
miracolo economico e in quelli seguenti fornisce ulteriori
spunti di riflessione relativamente al peso, reale e simbolico,
che essa mantiene nel mercato dei consumi. In primo luogo,
la spesa per l’acquisto dell’automobile assorbe una quantità
crescente dei bilanci familiari italiani. “Nel 1951 le automobili rappresentano il 45% degli acquisti di mezzi privati, per
arrivare poi nel 1970 al 95%, anno nel quale la spesa complessiva per gli autoveicoli – acquisto e spese d’esercizio –
compone circa l’8% del totale dei consumi delle famiglie italiane” (cfr. ivi). L’acquisto dell’automobile è facilitato dal
suo prezzo d’acquisto, ora finalmente raggiungibile, seppur
a costo di certi sacrifici, da parte della maggioranza degli italiani. “Nel 1963, all’apice del boom economico, il costo di
una FIAT 600 era circa il doppio rispetto al reddito medio
annuo pro capite, mentre per acquistare un auto medio-piccola come la FIAT 1100 era necessaria una cifra quasi tripla
rispetto al reddito dell’Italia settentrionale e quadrupla di
quello delle regioni meridionali. (…) Nel 1973 il divario fra
i prezzi di listino e il reddito, soprattutto per i modelli fino a
cm3 1.000, si era ridotto sensibilmente, mentre il costo di
210
VII - LA
MOBILITÀ DAL
1945
ALLA CRISI PETROLIFERA
un’auto media restava superiore sia al reddito dell’Italia
meridionale e insulare, sia a quello nazionale” (ivi, 139). Le
famiglie che desiderano l’automobile trovano una soluzione
nel diffondersi delle modalità di pagamento rateizzato o
finanziato, grazie all’azione di società che “concedevano prestiti accettando l’automobile come garanzia e ottenendone,
come contropartita, l’ipoteca della vettura a tassi di interesse mensili che raggiungevano il 20%” (ivi, 141). Le tredicesime di operai ed impiegati sono spesso usate per ripagare i
debiti contratti per l’acquisto di beni durevoli, ed in particolare dell’auto, che finisce per limitare altri consumi.
Dal punto di vista simbolico, l’auto primeggia in virtù della
forza dei significati e valori che gli italiani le attribuiscono,
in primo luogo come simbolo stesso del consumismo e della
società dell’abbondanza, pur essendo, in realtà, un bene
durevole che si acquista con bassa frequenza. I fattori essenziali alla base di questo processo sono i seguenti:
- il lungo periodo di tempo che è intercorso fra il desiderio
dell’automobile e il suo soddisfacimento pratico;
- le caratteristiche del prodotto automobile;
- il processo sociologico di differenziazione e distinzione
sociale, come fenomeni della società dei consumi;
Per quanto riguarda il primo fattore, non si può non notare
come l’automobile sia rimasta a lungo un prodotto proibito
per le tasche della maggioranza degli italiani. Le condizioni
di ritardo economico dell’Italia si sono mantenute sia sotto
l’Italia liberale sia sotto il fascismo, aggravate dal protezionismo derivato dalla crisi finanziaria del 1929.
211
Lei non sa chi sono io - L’AUTOMOBILE
Al tempo stesso, la diffusione delle automobili continua ad
alimentare un desiderio che, come si è visto, per merito del
ruolo svolto dalle competizioni, dalla cultura e dall’organizzazione statale del tempo libero, si radica profondamente
anche fra le classi popolari. Quando, infine, l’automobile
diventa una realtà per la maggioranza degli italiani, questa
fame d’auto lungamente insoddisfatta protrae a lungo i suoi
effetti sulle vendite, fino a rendere l’Italia uno dei paesi al
mondo col più alto tasso di motorizzazione privata. Il secondo fattore ha a che fare, come brevemente analizzato in precedenza, con le caratteristiche tecniche dell’utilitaria italiana
che, al contrario di quanto suggerisce il termine che la denomina, incorpora non soltanto l’utile e il valore d’uso di mezzo di trasporto, ma tutte le pretese simboliche collegate alla
civiltà moderna: dinamismo, velocità, libertà personale e,
soprattutto, il sogno del benessere. “L’utilitaria trasferiva
pienamente una società intera da un mondo ad un altro, dall’universo contadino a quello urbano, della sfera delle relazioni familiari a quella delle relazioni in pubblico, dai costumi locali a quelli almeno regionali, dall’arcaismo alla modernizzazione, (...) appare chiaro che l’”utile” dell’utilitaria è
stato indiscutibilmente soprattutto simbolico. L’utilitaria
nella società italiana ha avuto il compito di far sognare intere classi sociali (proletariato garantito e piccola borghesia)
sulla possibilità effettiva di uno stato del benessere. Ha reso
questo sogno a portata di mano, immediatamente realizzabile” (Calabrese 1999, 554-556).
Il terzo fattore è alimentato da una tendenza sociologica,
212
VII - LA
MOBILITÀ DAL
1945
ALLA CRISI PETROLIFERA
riscontrata più o meno regolarmente in tutte le realtà sociali: ogni volta che la società si livella su un insieme di condizioni comuni, quando le differenze tendono a sparire – a
motivo della redistribuzione del reddito o dei modelli culturali imperanti – nasce una tendenza contraria alla differenziazione e alla distinzione dagli altri membri della società. La
tendenza, notata nel diciannovesimo secolo da de Tocqueville nel suo viaggio negli Stati Uniti, emerge in tutta la sua evidenza nelle società democratiche, dove la passione acquisitiva o passione del benessere dell’individuo è stimolata dalla
maggiore eguaglianza della società democratica: tutti hanno
più possibilità di migliorare la loro condizione e si sforzano
di riuscirci. (...) La democrazia, inoltre, produce indifferenziazione e dunque il possesso di ricchezza diviene funzionale
all’esigenza di distinguersi (cfr. Tocqueville 1953).
Il processo di differenziazione sociale e di costruzione simbolica legati ad un mezzo per la mobilità fanno la loro prima
comparsa già al tempo della Vespa e della Lambretta, quando anche in Italia dilaga la moda dei Mods, giovani ragazzi
inglesi che si distinguono dall’estetica giovanile dell’epoca,
fatta di motociclette e giubbotti di pelle, adottando al contrario vestiti ricercati e Vespa e Lambretta come mezzi di
locomozione (cfr. Donadio e Giannotti 1996). Si tratta, tuttavia, di un mero processo imitativo che si diffonde solo a
livello urbano. Dalla metà degli anni Sessanta in poi, l’automobile diventa sempre più diffusa, in seguito alla mentalità
della società dei consumi che impone l’accumulo di tutta una
serie di oggetti in qualità di segni e prove misurabili dell’ap213
Lei non sa chi sono io - L’AUTOMOBILE
partenenza al benessere. Allo stesso tempo emergono con
forza i primi segnali del processo di differenziazione sociale
e la società italiana inizia a far propria quella logica sociale
del consumo che fa sì che “non si consuma mai l’oggetto in
sé (nel suo valor d’uso) – si manipolano sempre gli oggetti
(nel senso più ampio) come segni che vi distinguono, sia affiliandovi al vostro gruppo preso come riferimento ideale, sia
deprezzando il vostro gruppo in confronto ad un gruppo”
(Baudrillard 1976, 72-73).
In questo senso, l’automobile diviene così il bene distintivo
per eccellenza, tramite il quale cui si comunica agli altri il
proprio status sociale. Per il nostro paese, infatti, il rapporto privilegiato che s’instaura con l’automobile condiziona la
composizione degli acquisti delle famiglie fino agli anni
Ottanta, a differenza di altri paesi ad alta densità automobilistica, dove le voci del bilancio familiari sono più riequilibrate a favore di altri beni e servizi (cfr. Spallino 1984).
Questa preferenza s’impone sul mercato con l’apparire di
numerose utilitarie, autoctone come la Bianchina o importate come la Mini inglese, nonché di personalizzazioni seriali
ad opera di carrozzieri come Abarth, e continua ad operare
nell’immaginario collettivo dato che già la rivista Quattroruote evidenzia già che gli italiani, pur acquistando utilitarie,
in realtà sognano auto ben più di sostanza , simile alla Lancia Aurelia guidata da Vittorio Gassman – protagonista del
film Il sorpasso di Dino Risi – assurto a simbolo dei nuovi
ceti sociali emergenti.
L’automobile come status symbol è ulteriormente rafforzato
214
VII - LA
MOBILITÀ DAL
1945
ALLA CRISI PETROLIFERA
dallo strumento della pubblicità, a sua volta enormemente
aiutata nel raggiungere i potenziali acquirenti dalla diffusione della televisione, in quegli anni impegnata a “preparare il
terreno per lo sviluppo dei consumi privati mostrando il
benessere individuale e familiare e il suo uso” (Menduni
1999, 12). I messaggi pubblicitari dell’epoca fanno espressamente leva sul significato di status dell’automobile, quale
“luogo d’investimenti psichici estremamente ricchi” (Barthes
1998, 41-50). Prevale pertanto un messaggio stereotipizzato
incentrato sulle idee di potenza, prestazioni, eleganza e
distinzione, a volte mitigato dai riferimenti all’economia
d’esercizio o alla simpatia nel caso di modelli destinati alla
famiglia o al mercato emergente dei giovani e delle donne
(cfr. Paolini, 2005).
La forza di quest’associazione simbolica tra auto e modernità alimenta costantemente la motorizzazione dell’Italia, ma
giunge a determinare la comparsa di effetti collaterali spiacevoli: l’alta “incidentalità”, il crescente inquinamento atmosferico e la deturpazione del territorio. Il primo fenomeno è
dovuto alla scarsa disciplina alla guida degli italiani e alla
mancanza di normative che regolino la sicurezza sulle strade
e quella degli autoveicoli.
L’aumento vertiginoso degli incidenti automobilistici è tale
da indurre l’opinione pubblica a richiedere l’adozione di un
nuovo Codice della Strada, in sostituzione di quello fascista
ancora in vigore dal 1933. Sotto la pressione della stampa
specializzata e dell’ACI, che dedica la nona Conferenza del
traffico e della circolazione di Stresa al problema degli inci215
Lei non sa chi sono io - L’AUTOMOBILE
denti stradali, il governo approva il Testo Unico delle norme
sulla circolazione stradale nel 1958, nel quale si fanno proprie le indicazioni della Convenzione di Ginevra sul tema del
1949 (cfr. ivi).
La lentezza dell’approvazione e la lacunosità della legge – ad
esempio la mancanza di qualsivoglia indicazione su un tema
importante come l’educazione stradale – sono da ascriversi
ad una generale resistenza dell’industria automobilistica e
dei gruppi di pressione del settore, timorosi che l’introduzione di una normativa troppo restrittiva avrebbe potuto danneggiare la motorizzazione di massa. Tuttavia, le difficoltà
maggiori le affronta il disegno di legge sull’obbligatorietà
dell’assicurazione civile per i danni causati alla guida dell’automobili.
Il peso dell’incidentalità aumenta costantemente col crescere
del parco automobilistico e durante gli anni Sessanta “si
ebbero mediamente 315.036 sinistri per anno” (ivi, 83), ma
fra i politici italiani del dopoguerra esiste una forte opposizione all’assicurazione obbligatoria per i veicoli a motore,
preoccupati che i costi della polizza rallentino lo sviluppo del
settore automobilistico e che le compagnie assicuratrici perdano troppi capitali.
A ciò va aggiunto il fatto che la maggioranza degli automobilisti italiani è formalmente assicurata, seppur con una difformità di trattamenti e soluzioni molto alta (cfr. ivi). Il risultato è che il percorso legislativo della proposta di legge sulla
RCA è oltremodo tormentato e lungo, snodandosi tra
discussioni governative e in sede di commissioni parlamenta216
VII - LA
MOBILITÀ DAL
1945
ALLA CRISI PETROLIFERA
ri, per poi approdare, dopo cinque legislature, all’approvazione finale soltanto nel 1968 (cfr. ivi).
Altrettanti ritardi, miopie e resistenze si registrano per quanto riguarda la saturazione degli spazi e del territorio urbano
da parte del crescente parco automobilistico. Il fenomeno si
manifesta a causa dell’accelerazione del processo di urbanizzazione, che porta molte migliaia di italiani a concentrarsi
nelle città e nelle zone ricche ed industriali del paese. Fra il
1960 ed il 1970 sono due “gli indicatori che simboleggiano
il raggiungimento di una posizione di relativa sicurezza
sociale: l’occupazione nella grande industria, giudicata vantaggiosa sia nei termini delle garanzie di reddito sia in quelli dei benefici previdenziali, e il possesso familiare di un’autovettura” (Berta 1991, 18). Torino e Milano, le capitali dell’auto, assorbono gran parte di questa migrazione interna e
a causa dell’incremento dei residenti si espandono in maniera vertiginosa e tendendo ad inglobare, nel proprio tessuto
urbano, i comuni limitrofi.
Le città industriali iniziano a disperdersi in un territorio più
ampio, oppure si urbanizzano le aree che vengono raggiunte
dalla rete autostradale (cfr. Maggi 2005), ma il risultato è
spesso una crescita edilizia disordinata, aggravata anche dall’assenza di una politica di decentramento amministrativo che
sgravi i già angusti centri storici italiani dal flusso dei veicoli.
Le automobili invadono perciò gli spazi pubblici ed il traffico motorizzato diventa sempre più difficile da gestire, anche
dal punto di vista della salute pubblica. A partire dalla metà
degli anni Sessanta, sull’onda dei dibattiti e delle decisioni
217
Lei non sa chi sono io - L’AUTOMOBILE
prese da paesi di più antica motorizzazione, si affacciano
anche nel nostro paese le questioni relative all’inquinamento
atmosferico ed al disordine provocato dalla concentrazione
degli automezzi nelle città. La prima legge in materia è discute dal governo nel 1958 per poi essere bloccata presso la
Commissione igiene e sanità del Parlamento fino al 1966,
anno di promulgazione dei primi provvedimenti quadro contro l’inquinamento atmosferico. Il primo, vero intervento
sulla questione arriva nel 1971 con la legge n. 437, a seguito degli indirizzi legislativi provenienti dalla Comunità economica europea. Il provvedimento ha però un impatto debole, a motivo dell’esclusione dei motoveicoli e per l’assenza di
sistemi di controllo del parco circolante, mentre per una normativa più stringente si dovrà aspettare circa venti anni ed il
pungolo sistematico della normativa europea (cfr. ivi).
La realtà è che nonostante alcune clamorose eccezioni, la
resistenza opposta da politici, amministratori e dagli automobilisti impedisce di mettere in discussione qualsiasi aspetto legato alla motorizzazione e ad un modello di sviluppo
che ha traghettato gli italiani nella società del benessere.
Inoltre, la motorizzazione dei trasporti italiani ha interessato anche il trasporto pubblico e collettivo, che abbandona
nel decennio Sessanta le tramvie ed i filobus a favore degli
autobus, rafforzando così l’idea e l’impatto del trasporto su
gomma come unica modalità di trasporto possibile. “In soli
tredici anni [dal 1949 al 1965, nda], nelle otto principali città italiane, viene smantellata la rete tranviaria: nel 1953,
infatti, esistevano 1.159 km di tranvie che trasportavano
218
VII - LA
MOBILITÀ DAL
1945
ALLA CRISI PETROLIFERA
1.618.212 passeggeri; nel 1966 i km erano 447 e i viaggiatori 562.487. Nello stesso lasso di tempo le filovie registrarono un forte decremento del traffico (88,63%), mentre le
autolinee passarono da 1.248 a 3.667 km e da 529.642 a
2.074.333 passeggeri” (Paolini 2005, 192).
È così che in Italia si assiste al rapido declino del trasporto
pubblico e alla continua ascesa del trasporto individuale, che
va ad assorbire in pratica tutta la domanda di mobilità. Le
ricerche condotte in quegli anni dalla stampa specializzata
dall’ACI e da altri istituti di ricerca, registrano il definitivo
abbandono dei mezzi pubblici a favore del trasporto privato. Secondo la ricerca ACI del 1965 intitolata “Preferenze e
valutazioni nelle scelte del mezzo di trasporto fra casa e lavoro”, una percentuale compresa tra il 77 e l’80% degli italiani usa già l’automobile per il percorso casa-lavoro, pari a circa il 55% del chilometraggio annuale, anche in presenza dell’alternativa di un trasporto pubblico efficiente (cfr. ivi).
Laddove il servizio pubblico è carente, come nel caso delle
nuove periferie delle grandi città italiane, si crea un circolo
vizioso fra l’aumentato ricorso a mezzi di trasporto privati e
la congestione del traffico, per sfuggire al quale, gli italiani
puntano comunque sull’automobile, considerata migliore
del sistema di trasporti pubblici per costi, tempi di percorrenza e flessibilità d’uso, come dimostra una ricerca del Centro studi sui sistemi di trasporto di Roma (cit. in Paolini
2005). L’automobile si avvia infine ad occupare anche gran
parte della domanda di mobilità per svago o attività ludiche,
stimolando ed accompagnando la crescita del turismo bal219
Lei non sa chi sono io - L’AUTOMOBILE
neare, in primo luogo, e del turismo di transito, itinerante e
del fine settimana. Le vacanze al mare, altro bene di status
dell’Italia del benessere, si fanno sempre più in automobile,
come dimostra il confronto dei transiti medi giornalieri del
mese di agosto e gennaio pubblicati dai gestori autostradali
(cfr. ivi 2005). Inizialmente, l’aumentata mobilità a scopo
ricreativo è un fenomeno prevalentemente legato alla popolazione urbana, ma successive indagini della Doxa e dell’Istat testimoniano il crescente successo dell’associazione
vacanza-automobile fra gli italiani, con una percentuale pari
al 50% già nel 1964 (cfr. ivi 2005).
L’esplosione della mobilità privata registrata nel decennio
1963-1973 sancisce il definitivo approdo della società italiana
alla civiltà dell’auto e ad un modello di sviluppo basato su una
cultura della mobilità che incentiva l’uso dei mezzi di trasporto individuali e privati a scapito di quelli collettivi e pubblici.
La sfera di mobilità individuale si è ampliata moltissimo ed
il mezzo di trasporto privato, pur mantenendo intatto il suo
potere evocativo e simbolico, diventa un oggetto quotidiano,
indispensabile ed irrinunciabile, anche a fronte delle crescenti disfunzionalità – disordine, congestione del traffico e
inquinamento – che tutto ciò comporta.
La società italiana, tuttavia, giunta recentissimamente ai
benefici della moderna società dei consumi, è particolarmente ostile all’idea di rinunciare ad un’organizzazione sociale
ed economica centrata sullo sviluppo dell’automobile e, pertanto, molto vulnerabile ai mutamenti che lo shock petrolifero del 1973 reca con sé.
220
VIII - LA
MOBILITÀ DAL
1973
AI GIORNI NOSTRI
VIII
LA MOBILITÀ DAL 1973 AI GIORNI NOSTRI
QUADRO GENERALE.
La crisi petrolifera del 1973, originata dalla decisione dei
paesi arabi di opporsi concretamente alla politica occidentale, e in particolare statunitense, nel conflitto israelo-palestinese, pone in evidenza la fragilità politica ed economica di un
modello di sviluppo basato sulla crescita continua e sul sempre maggior sfruttamento delle risorse naturali del pianeta.
Gli aspetti essenziali del modello industriale fordista – titanismo dell’impresa, produzione su larghissima scala ed espansione dei consumi – hanno già evidenziato, alla fine degli anni
Sessanta, l’emergere di disfunzionalità del sistema sempre più
difficili da negare od arginare. Il sistema economico occidentale è affetto da gravi problemi, il più pressante dei quali è
l’inquinamento ambientale, al quale si aggiungono i guasti di
una trasformazione dell’ambiente e della società spesso troppo rapida, quando non controllata adeguatamente.
Alcune parti delle società industriali rimettono in discussione
la validità di una ricetta di sviluppo che ha avuto un’applicazione più o meno uniforme in Occidente, stimolando la riflessione sulla necessità di adottare rimedi basati su una prospettiva diversa della società e dell’uomo. I dibattiti economici sui
limiti dello sviluppo e quelli sui suoi costi in termini di risorse ambientali emergono con chiarezza alla fine degli anni Sessanta, prima negli Stati Uniti e poi in Europa occidentale, per
221
Lei non sa chi sono io - L’AUTOMOBILE
poi guadagnare visibilità ed accettazione comune con la crisi
petrolifera e, infine, entrare nella coscienza politica e civile
generale a partire dagli anni Ottanta.
Il mutamento sociale principale che si registra a partire dalla metà degli anni Settanta è dunque l’accettazione del concetto di limite allo sviluppo economico e di riequilibrio del
rapporto tra l’uomo e i suoi prodotti e la natura. In questo
senso, perde d’importanza il principio d’abbondanza, alla
base della prima fase di espansione dei consumi, mentre ne
acquista il principio di qualità, alla base della ricerca di un
corso d’azione che includa anche gli elementi non misurabili e simbolici, ritenuti tuttavia indispensabili per aumentare
il valore della propria esperienza umana e sociale. L’effetto
di questi ripensamenti investe in primo luogo il settore dei
trasporti, il maggior consumatore dei prodotti petroliferi, e,
conseguentemente, tutto l’assetto socioeconomico, ormai
completamente basato sulla motorizzazione di massa e sulle
infrastrutture viarie. La razionalizzazione in termini di costi
ambientali ed energetici del sistema dei trasporti deve affrontare questioni di natura interna ed esterna. Le prime hanno
a che fare con il sempre più grande numero di autoveicoli e
con il loro crescente utilizzo, nonché con le profonde trasformazioni del territorio, sempre più urbanizzato e occupato da
un reticolo di infrastrutture viarie; le seconde riguardano il
tema dell’inquinamento planetario e dello sfruttamento forsennato delle risorse naturali ed ambientali.
Entrambe sono strettamente interdipendenti e questa reciproca influenza amplifica i loro effetti negativi – la conge222
VIII - LA
MOBILITÀ DAL
1973
AI GIORNI NOSTRI
stione del traffico, l’inquinamento atmosferico nelle città, la
deturpazione dell’ambiente naturale ed artistico – sino a trasformarli in disfunzioni capaci a volte di annullare i benefici
arrecati dalla società del benessere. La critica al modello di
sviluppo fa emergere due importanti temi che esercitano sulla mobilità un’influenza sempre crescente:
- la difesa dell’ambiente, a partire dalle norme di costruzione degli autoveicoli, il loro livello di emissioni inquinanti,
per poi giungere all’impatto ambientale delle infrastrutture
viarie, ai rischi ambientali reali e potenziali legati alla civiltà
dell’auto e alla più generale influenza sulla qualità della vita
e sui macroeffetti sull’ecosistema planetario (effetto serra);
- la sicurezza, intesa come miglioramento delle condizioni di
viabilità e riduzione delle incidentalità , ma anche riflesso di
un bisogno di certezza e di controllo del rischio che viene
demandato sempre più all’organizzazione funzionale della
società (incluso, quindi, il sistema dei trasporti) piuttosto che
alla capacità di generare legami sociali.
Entrambe le questioni assumono una nuova rilevanza a partire dagli anni Novanta, quando la ristrutturazione del
modello di sviluppo portata a termine negli anni Ottanta
subisce una nuova, importantissima, accelerazione dovuta
alla globalizzazione dell’economia ed alla rivoluzione innescata dalle tecnologie informatiche e della comunicazione.
La globalizzazione comporta una serie di profondi mutamenti, tra i quali la delocalizzazione dei processi produttivi
al di fuori del mondo occidentale e l’esportazione di un
modello di sviluppo consumista che intensifica lo sfrutta223
Lei non sa chi sono io - L’AUTOMOBILE
mento delle risorse naturali. L’economia globalizzata si basa
pertanto sullo sviluppo di una rete di comunicazione e di trasporto planetaria, unita a un modello di produzione di beni
e servizi basati sulla filosofia del just-in-time, cioè della massima flessibilità e velocità di risposta dei fattori di produzione alle variazioni della domanda.
L’effetto principale che ne consegue è un’accelerazione ulteriore dei ritmi delle attività e delle relazioni umane, una più
radicale compressione del tempo e dello spazio, seguiti da
uno svuotamento della tradizionale capacità di controllo e
sovranità degli Stati. La risposta che emerge è, come nel caso
europeo, la trasposizione della gestione politica e amministrativa a un livello sovranazionale ed il metodo multilaterale come strumento per raggiungere obiettivi comuni. Ciò è
particolarmente vero per quanto riguarda la politica dei trasporti, progressivamente sottoposta alla legislazione ed agli
indirizzi dell’Unione europea, sia per quanto riguarda le
infrastrutture e la normativa sulla costruzione degli autoveicoli, sia per il raggiungimento di un modello di sviluppo economico pienamente sostenibile in senso ambientale.
Allo stesso tempo, le trasformazioni economiche e sociali della globalizzazione comportano un aumento notevole dell’incertezza e dell’instabilità nelle società occidentali, in virtù dell’esposizione a un livello e a un’intensità crescente di rischio,
che mina nel profondo la coesione assicurata dal Welfare State (ad esempio il rischio di perdere o non trovare il lavoro).
Tutto ciò si traduce in un maggior senso di vulnerabilità
individuale e collettiva che influenza tutta la società e che si
224
VIII - LA
MOBILITÀ DAL
1973
AI GIORNI NOSTRI
riverbera anche in alcuni aspetti del sistema di trasporti e
della mobilità, quali, ad esempio, la ricerca della massima
sicurezza e del comfort delle autovetture, nonché l’opposizione all’ammodernamento delle infrastrutture di trasporto,
accusate di peggiorare il livello della qualità della vita e di
aumentare il rischio di catastrofe ambientale.
La diffusione e la pervasività delle tecnologie informatiche si
è verificata contemporaneamente alla globalizzazione e ha
comportato una profonda rivoluzione nelle comunicazioni,
con conseguente mutamento della percezione del tempo e
dello spazio. La struttura a rete, la fruizione di beni e servizi su richiesta, alle quali si aggiunge la trasformazione del
consumatore in produttore di contenuti, ha causato una fortissima accelerazione dei ritmi di vita individuali e collettivi,
con forti conseguenze nelle relazioni fra individui e fra individui e comunità. La virtualizzazione di molte esperienze
sociali (giocare, acquistare on-line) è una delle tendenze
principali delle società odierne e rappresenta l’annullamento
pressoché completo della variabile spazio e teoricamente
produce una minore rilevanza della mobilità.
Al contrario, potremmo aspettarci qualcosa di simile a
quanto successo con l’introduzione del treno e della macchina, quando si verificò un temporaneo aumento della mobilità tradizionale a trazione animale, stimolato proprio dal
maggior livello di scambio dovuto alle ferrovie ed alle strade. Allo stesso modo la virtualizzazione delle comunicazioni sembra accrescere, come sta succedendo, la quantità di
viaggi in auto, treno ed aereo, determinando quindi un
225
Lei non sa chi sono io - L’AUTOMOBILE
aumento della mobilità collettiva ed individuale.
Negli ultimi dieci anni si assiste, pertanto, a un incremento
straordinario dei trasporti commerciali e del traffico dei passeggeri, in considerazione dell’aumentato volume degli
scambi internazionali, stimolato dalla facilità e dal potere
dei nuovi mezzi di comunicazione, e dall’accesso alla motorizzazione di quote crescenti di popolazione dei paesi in via
di sviluppo. La rivoluzione tecnologica ha tuttavia rappresentato non soltanto la fonte di nuova mobilità, ma spesso
anche la soluzione ai problemi di questa, grazie ai sistemi di
monitoraggio e di ticketing automatico.
In sintesi, la realtà contemporanea della mobilità è molto
complessa e presenta una varietà di situazioni e soluzioni,
sospese fra passato e futuro, tipica delle epoche di transizione. In Occidente sono sempre presenti, anzi acquistano maggior importanza, le tematiche ambientali ed i primi tentativi
di una mobilità diversa e più evoluta, mentre, al di fuori di
esso, si assiste a una crescente espansione della motorizzazione privata senza alcun riguardo per l’inquinamento.
La compresenza e la stratificazione di tipi di mobilità assai
diversi ci indica che, probabilmente, tale situazione persisterà fino al momento in cui vi sarà un mutamento fondamentale nel paradigma energetico e di sviluppo, attualmente
ancora basato sullo sfruttamento dei combustibili fossili.
LE INFRASTRUTTURE PER LA MOBILITÀ.
La seconda metà degli anni Settanta vede un momentaneo
arresto della spesa per infrastrutture, in particolare autostra226
VIII - LA
MOBILITÀ DAL
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AI GIORNI NOSTRI
dali, per poi riprendere a metà degli anni Ottanta, in concomitanza con un nuovo ciclo di espansione economica.
Durante gli anni Novanta, il tema dell’ampliamento e dell’ammodernamento delle infrastrutture del sistema di trasporto diventa di prioritaria importanza per i governi italiani, a seguito di un volume di traffico che ha completamente
saturato la capacità del sistema viario. L’azione governativa
nel settore dei trasporti è progressivamente armonizzata con
gli indirizzi che l’Unione europea promuove nel settore, nell’ottica della costruzione di un sistema transeuropeo dei trasporti a sostegno dell’implementazione e del completamento
del Mercato Unico previsto per il 1992. Il ruolo della politica europea dei trasporti si diversifica negli anni Novanta,
quando punta alla creazione di uno spazio unico dei cieli e
di progetti impegnativi di riqualificazione delle ferrovie, tramite una creazione di corridoi di transito che collegano tutti gli Stati membri in un sistema ferroviario comune.
In generale, la politica infrastrutturale italiana si caratterizza per l’incapacità di integrare le emergenti teorie sul traffico e sull’uso del suolo, nonché gli obiettivi e le finalità di
altri settori economici. Il risultato principale è un ritardo
legislativo ed amministrativo che, da un lato, è la semplice
conseguenza delle pressioni dell’industria automobilistica ed
edile, e dall’altro, l’espressione di “forme di pianificazione
settoriale del tutto dissimili e distinte, ciascuna affidata alle
logiche di azione di campi organizzativi differenziati, autonomi e non comunicanti” (Tebaldi 1999, 177).
I primi tentativi di pianificazione degli interventi infrastrut227
Lei non sa chi sono io - L’AUTOMOBILE
turali compaiono a livello locale fra la fine degli anni Sessanta e l’inizio dei Settanta, ma è necessario aspettare il 1984
per vedere l’approvazione di un Piano Generale dei Trasporti (cfr. Maggi 2005). Tra la fine degli anni Ottanta ed i primi anni Novanta compaiono i primi strumenti normativi di
pianificazione del traffico: il Piano di fluidificazione del traffico (1988), il Piano urbano dei parcheggi (1989) ed il Piano
urbano del traffico (1992). Negli anni successivi compaiono
altri Piani settoriali – il Piano della sicurezza stradale urbana, il Piano della rete ciclabile – per culminare, nel 2000, nel
Piano urbano della mobilità, provvedimento che, delineando
la strategia di mobilità a lungo termine, si pone come punto
di riferimento per gli altri (cfr. Davico e Staricco 2006).
Prima della realizzazione di questi strumenti, l’azione dello
Stato italiano si concentra nello sviluppo e nel potenziamento del sistema viario, che vive una seconda giovinezza con la
costruzione di nuovi collegamenti autostradali, dopo lo stop
seguito alla crisi petrolifera ed alla crescente opposizione dell’opinione pubblica (compresa l’ACI), sempre più ostile a spese infrastrutturali che sovente si dimostrano tanto inutili
quanto faraoniche (cfr. Paolini 2005; 2007). La ripresa della
costruzione delle autostrade si avvia nel 1982 con il lancio di
un nuovo piano decennale per la creazione di ulteriori 558
km, il cui scopo malcelato è sostenere la compagine industriale, automobilistica e delle costruzioni, che se ne avvantaggia.
In realtà, le nuove autostrade non fanno che aumentare e
concentrare il traffico sulle solite direttrici, accelerando in
questo modo il collasso delle infrastrutture e gli squilibri esi228
VIII - LA
MOBILITÀ DAL
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AI GIORNI NOSTRI
stenti nell’intero sistema dei trasporti. “Dal 1980 al 1993,
infatti, la lunghezza complessiva della rete stradale era cresciuta del 3,45%, mentre le altre reti di trasporto (…) avevano visto diminuire la loro estensione” (cfr. ivi, 51). I problemi delle infrastrutture stradali sono inoltre aggravati dalla
loro sperequazione geografica (in quanto le regioni settentrionali ne posseggono circa la metà) e dal problema della mancata integrazione fra le modalità del sistema di trasporto.
La scelta di puntare nuovamente all’estensione del sistema
viario non fa che confermare le ferrovie nel loro ruolo minoritario. Al di là della Direttissima Roma-Firenze, il decennio
compreso fra il 1970 ed il 1980 testimonia soltanto il continuo ridimensionamento del servizio ferroviario, fatto di tagli
dei cosiddetti rami secchi e di assenza di investimenti (cfr.
Maggi 2005). In quegli stessi anni, a fronte di un impegno
finanziario statale che si dimostra comunque incapace di
incrementare e migliorare il servizio offerto, prende corpo
l’idea di una profonda riforma della natura delle ferrovie,
per larga parte rimaste basate sull’organizzazione data loro
dalla nazionalizzazione effettuata ai primi del Novecento.
In un primo tempo la riforma introduce la trasformazione
delle ferrovie da Direzione generale del Ministero dei trasporti in Ente pubblico economico dotato di personalità giuridica ed autonomia patrimoniale, finanziaria e contabile.
Nonostante l’ampliamento dei poteri decisionali seguiti alla
riforma, le ferrovie continuano a soffrire di un deficit di
investimenti e dell’invecchiamento del materiale rotabile.
“A metà degli anni Ottanta il parco rotabile rimaneva assai
229
Lei non sa chi sono io - L’AUTOMOBILE
vecchio: un quarto dei locomotori risaliva a prima del 1940,
la metà era stata prodotta dal 1940 al 1969 e solo l’ultimo
25% era di produzione successiva. Una situazione simile si
riscontrava per i carri e le carrozze, di cui circolavano ancora numerosi esemplari degli anni Trenta” (ivi, 39). Le ferrovie subiscono un’ultima trasformazione organizzativa nel
1992, quando diventano una società per azioni privata.
Quest’ultima, nel 1999, viene poi divisa, sulla scorta della
normativa europea, in una pluralità di società, la Rfi (Rete
ferroviaria italiana) per i binari e le stazioni, e una serie di
altri operatori privati per i convogli.
Il processo di privatizzazione lancia nuovi investimenti,
comunque non indirizzati al potenziamento della rete ferroviaria secondaria, ma rivolti al progetto dell’Alta velocità,
basato sul nuovo treno ETR 500 e sul rafforzamento ed
ammodernamento delle grandi linee direttrici di comunicazione. I lavori dell’Alta velocità, realizzati con la tecnica del
project financing, incontrano notevoli ritardi nella realizzazione, a motivo delle difficoltà tecniche di alcuni percorsi –
ad esempio la tratta Firenze-Bologna con i suoi 73 km di gallerie – e dell’opposizione delle popolazioni dei territori attraversati dai lavori. Le opere previste per l’Alta velocità sono
in seguito integrate nel più vasto complesso della rete ferroviaria transeuropea, all’interno del corridoio 5, che collega il
sistema ferroviario francese all’Europa dell’est passando
attraverso la rete italiana.
La progressiva europeizzazione della politica dei trasporti è
la naturale conseguenza del progetto di Unione doganale e
230
VIII - LA
MOBILITÀ DAL
1973
AI GIORNI NOSTRI
del Mercato unico, i due principali obiettivi alla base della
creazione della Comunità economica europea, in seguito
Unione europea. L’opera di armonizzazione delle differenze
normative esistenti negli Stati membri in materia di trasporti ha lo scopo di rendere effettiva la libera circolazione delle
merci e delle persone, secondo quanto stabilito dai Trattati
comunitari. Tuttavia, la sua realizzazione pratica si trascina
a rilento, almeno durante gli anni Settanta e Ottanta, ostacolata dalle diatribe fra Stati con una tradizione d’intervento in materia di trasporto e Stati con politiche più liberali
(cfr. Santoro 1974). Bisogna attendere il rinnovato impulso
politico dell’Atto Unico europeo del 1985, con il quale si
lancia la realizzazione pratica del mercato unico, per assistere alla nascita delle prime azioni in tema di trasporti, che
vanno ad interessare il comparto ferroviario e quello aereo.
Da quel momento, l’azione normativa europea si fa più incisiva, giungendo a una progressiva deregulation del settore
aereo ed allo smantellamento o alla limitazione del ruolo
dello Stato nel comparto ferroviario, con l’introduzione
di un gestore della rete infrastrutturale (pubblico o privato)
e di società che erogano l’offerta di trasporto merci e passeggeri.
Il panorama delle infrastrutture europeo, e quindi anche italiano, è così soggetto a forti stimoli di competitività e concorrenza, sancita dalla “possibilità per le imprese di trasporto di operare in altri Stati, (…) imponendo efficienza ed
economicità per conquistare nuove quote di mercato o
garantire le proprie” (Maggi 2005, 291).
231
Lei non sa chi sono io - L’AUTOMOBILE
L’impulso maggiore deriva, infine, dal Trattato di Maastricht
del 1992 e dal Piano Delors sulla crescita, la competitività e
l’occupazione del 1993 (cfr. Commissione europea 1994),
nei quali si individuano non soltanto i progetti infrastrutturali da realizzare, ma anche quei principi che devono informare la politica dei trasporti. Si introducono così nelle politiche europee e nazionali dei trasporti i concetti di mobilità
sostenibile, risparmio energetico, intermodalità ed integrazione e, soprattutto, l’internalizzazione dei costi del trasporto, ovvero l’addossamento ai gestori dei trasporti di tutti
quei costi – inquinamento, uso del suolo e del territorio –
precedentemente scaricati sulla collettività. “Venivano quindi imposte agli Stati membri regole volte a diminuire le emanazioni inquinanti da parte di autoveicoli, motocicli, aeroplani e per ogni infrastruttura proposta si rivolgeva una specifica cura alla valutazione di impatto ambientale” (Maggi
2005, 293).
A partire dalla fine degli anni Novanta, l’Unione europea ha
promosso la realizzazione di numerosi progetti di interoperabilità delle reti infrastrutturali, individuando 14 progetti
prioritari tra i quali, per l’Italia, anche la linea ad alta velocità Lione-Torino, l’asse ferroviario del Brennero e l’aeroporto di Malpensa.
Dal punto di vista concettuale, la politica dei trasporti europea è sempre più integrata nei programmi ambientali, di
risparmio energetico e di ricerca tecnologica, con particolare riferimento all’obiettivo di riequilibrare le distorsioni del
sistema dei trasporti, favorendo lo spostamento del traspor232
VIII - LA
MOBILITÀ DAL
1973
AI GIORNI NOSTRI
to merci e passeggeri dalla gomma alle altre modalità.
Questo approccio è alla base degli indirizzi generali che la
Commissione europea ha delineato nel Libro bianco del
2001, intitolato “La politica europea dei trasporti fino al
2010: il momento delle scelte” (cfr. Commissione europea
2001), laddove si afferma ancora una volta l’esigenza di
diversificare ed aumentare l’offerta di soluzioni per la mobilità attraverso il rilancio delle modalità alternative al trasporto su gomma.
In particolare, l’allargamento dell’Unione europea a dodici
nuovi Stati membri ha imposto una sistematizzazione generale delle questioni sul tappeto, al fine di affrontare un prevedibile incremento del traffico merci su gomma. Fanno parte di questa strategia:
- l’introduzione di una normativa che riequilibri i trasporti
rilanciando le ferrovie, controllando la crescita del trasporto
aereo e sviluppando le vie d’acqua (autostrade del mare);
- il decongestionamento dei grandi assi di trasporto attraverso la realizzazione di infrastrutture in grado di creare corridoi multimodali dedicati alle merci;
- la razionalizzazione dei trasporti e la collocazione degli
utenti al centro della politica, da un lato responsabilizzandoli e sensibilizzandoli in merito ai costi ambientali del sistema,
dall’altro agevolandoli tramite l’integrazione delle tariffe ed
il miglioramento dei servizi di mobilità (cfr. ivi).
Le strategie operative per giungere a questi risultati sono
varie e sono riunite sotto la dizione di mobility management,
espressione che comprende il riequilibrio della politica infra233
Lei non sa chi sono io - L’AUTOMOBILE
strutturale, la regolamentazione del traffico, la gestione della domanda e dell’offerta di trasporto, la sicurezza e l’educazione stradale e la riduzione dell’inquinamento generato dalle modalità di trasporto.
L’interdipendenza fra i vari sottosistemi fa sì che il mobility
management non possa prescindere da un’attività di analisi
e raccolta di dati che consenta l’adattamento delle soluzioni operative alle situazioni contingenti. Conseguentemente,
si assiste in tempi recenti all’utilizzo massiccio delle tecnologie informatiche, le sole in grado di garantire un elevato
livello di flessibilità ed il successo delle strategie di mobility
management.
Si tratta di una tendenza inarrestabile e giustificata dall’esigenza del rispetto del principio di sostenibilità, integrato
come elemento fondamentale e trasversale nelle politiche
europee. Il concetto di sostenibilità presuppone la ricerca di
un modello di sviluppo che garantisce i bisogni delle generazioni attuali senza compromettere la possibilità che le generazioni future riescano a soddisfare i propri (cfr. WCED,
1987). Applicato nel settore della mobilità, il principio di
sostenibilità ha prodotto, in tempi recenti, un rapido sviluppo di soluzioni per il trasporto a bassissimo impatto ambientale, quali veicoli ibridi, elettrici, ad energia solare e a idrogeno, il cui ruolo all’interno del mobility management sembra destinato ad aumentare.
Rimane invece da perfezionare la pianificazione e la programmazione di nuove infrastrutture, visto che, per quanto
la politica delle infrastrutture e della mobilità in Italia si sia
234
VIII - LA
MOBILITÀ DAL
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AI GIORNI NOSTRI
finalmente dotata di un quadro normativo ed amministrativo più integrato, risulta ancora consistente il divario tra
quanto si progetta sulla carta e quanto si realizza effettivamente. La ragione principale di questa storica tendenza è la
mancanza di adeguati sistemi di finanziamento delle opere,
che comporta non soltanto difficoltà di reperimento delle
risorse finanziarie, ma sopratutto il ritardo o la sospensione
dei lavori. Il nodo della questione risiede nella struttura della fiscalità italiana sull’automobile, per cui, a fronte di un
prelievo finanziario da diverse fonti – accise sui carburanti,
bollo di proprietà, oneri amministrativi sui costi assicurativi
– non si riscontra un adeguato investimento in servizi ed
infrastrutture per il mondo della mobilità privata e pubblica.
È stato calcolato che “(...) la stima del gettito fiscale creato
dalle famiglie italiane che possiedono automobili nel corso
del 2005 è pari a circa 44 miliardi di euro, una cifra particolarmente significativa, pari a circa il 3% del PIL” (Studio ACI
2006a, 95).
A questa onerosità finanziaria dell’automobile non corrisponde un investimento adeguato nei trasporti, e anche il
trasferimento agli Enti locali dei proventi dell’imposta di trascrizione non sembra aver cambiato questo stato di cose,
dato che tali entrate non sono vincolate al settore della
mobilità e vengono spesso usate per sopperire alla generale
contrazione dei trasferimenti statali (cfr. Studio ACI 2004).
La difficoltà maggiore per una riformulazione della fiscalità
sull’auto risiede nel fatto che quasi la metà degli introiti del
settore automobilistico derivano da una sola imposta – l’Iva
235
Lei non sa chi sono io - L’AUTOMOBILE
sui carburanti – e, in quanto imposta, priva di una destinazione specifica. La modifica della politica fiscale sull’auto si
limita, pertanto, a vincolare il maggior gettito fiscale dovuto
all’incidenza dell’Iva ad un fondo per l’energia rinnovabile
(cfr. Studio ACI 2006a).
MEZZI E MODALITÀ DI TRASPORTO.
Alla conclusione della fase della motorizzazione di massa,
l’automobile ha radicalmente cambiato non solo il sistema
dei trasporti, ma tutto l’assetto sociale ed economico italiano. La conseguenza più importante è l’enorme aumento del
livello di mobilità generale, individuale e collettiva, che
assurge ad elemento irrinunciabile e fondamentale per l’assetto economico e sociale, oltre a rappresentare un fenomeno in crescita costante (cfr. Commissione europea 2001).
I mezzi e le modalità di trasporto rimangono tuttavia gli stessi, con la prevalenza dei mezzi privati ed individuali del ruolo minoritario di quelli collettivi. La congestione crescente
del traffico causa da una parte uno sforzo di riqualificazione
dell’offerta di trasporto pubblico e collettivo, ma dall’altra,
una nuova, forte crescita delle vendite di motocicli e scooter,
gli unici adatti a muoversi agevolmente nel traffico urbano.
La mobilità sostenibile tende a rilanciare il trasporto pubblico locale in Italia, dove sono “(...) in corso di finanziamento interventi in circa 15 città per ampliare la rete già esistente o per reintrodurre il tram dove era stato abbandonato” (Studio ACI 2002, 40). Questo piano di rilancio delle
infrastrutture urbane di trasporto in sede fissa rischia però
236
VIII - LA
MOBILITÀ DAL
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di trovare un grave ostacolo nell’evoluzione della domanda
di trasporto, per cui, a fronte del potenziamento di metropolitane e tram, non si registra un incremento del loro uso.
Ciò dipende dal fatto che gli spostamenti attuali sono così
frammentari e articolati da premiare ulteriormente la versatilità dell’auto privata (cfr. ivi). Le tendenze recenti relative
all’offerta di trasporto pubblico locale mostrano, tuttavia,
una certa capacità di adattamento all’evoluzione della
domanda di trasporto, con l’introduzione di un certo grado
di flessibilità tramite i servizi di bus a chiamata. “Sei grandi città italiane, Firenze, Milano, Roma, Bologna, Trieste e
Catania hanno già messo a punto programmi di trasporto
pubblico a chiamata, tramite lo sviluppo di diverse soluzioni tecnologiche: installazione di videotel presso le abitazioni degli utenti, prenotazione del viaggio direttamente alla
fermata, istituzione di uno speciale e dedicato centro telefonico” (ivi, 103).
Il panorama delle modalità di trasporto registra, inoltre, la
forte affermazione dell’aereo, sempre più usato non soltanto
dai viaggiatori d’affari ma da quote crescenti di turisti e di
semplici viaggiatori, e divenuto in breve la modalità di trasporto più utilizzata per le distanze medio-lunghe, in diretta
concorrenza con il treno.
Quest’ultimo è oggetto di un miglioramento del servizio a
motivo sia del rilancio delle modalità di trasporto non inquinanti da parte dell’Unione europea, sia della naturale evoluzione tecnologica che porta la maggior parte dei sistemi ferroviari europei a investire nell’alta velocità.
237
Lei non sa chi sono io - L’AUTOMOBILE
Le ferrovie italiane inaugurano il proprio servizio di treni
veloci nel 1989, presentando ufficialmente i treni modello
ETR 500. “Si trattava del nuovo treno italiano ad alta velocità, senza la cassa oscillante del Pendolino, convoglio di lusso già in servizio da alcuni anni, che superava la distanza da
Milano a Roma in 4 ore. Entrato in esercizio nel 1976, l’Etr
400 Pendolino rappresentò l’ultima grande innovazione italiana in fatto di treni, grazie al cosiddetto ‘assetto variabile’,
che gli permetteva di inclinarsi in curva verso l’interno per
attutire la forza centrifuga” (Maggi 2005, 64).
Molto più dinamica, invece, l’evoluzione dell’industria automobilistica, laddove la compenetrazione fra l’automobile e
la società instaura un rapporto di interdipendenza che porta
l’una a influenzare l’altra. Inizia per l’auto una rivoluzione
simbolica e di contenuti che attinge ampiamente dai mutamenti tecnologici e sociali della realtà circostante.
La prima novità rilevante è la rivoluzione tecnologica operata dal diffondersi del calcolatore elettronico e dell’automazione nei sistemi produttivi in tutte le fasi dell’organizzazione aziendale. L’elettronica fa la sua apparizione prima nel
sistema di alimentazione, al fine di rispettare i limiti alle
emissioni inquinanti, poi si estende al resto dell’autovettura
grazie a una serie di dispositivi deputati a facilitare la guida
ed a renderla più sicura. La seconda novità è rappresentata
dall’inasprimento della concorrenza nel comparto automobilistico, accelerata prima dalla creazione del Mercato unico
europeo e dalla globalizzazione. Questo processo alimenta e
rafforza la naturale tendenza alla concentrazione industria238
VIII - LA
MOBILITÀ DAL
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AI GIORNI NOSTRI
le, per poi assumere una spiccata tendenza al gigantismo
durante gli anni Novanta. Al termine di questa evoluzione
del mercato, FIAT si trova, in qualità di unico produttore italiano, in una situazione di monopolio, avendo assorbito,
durante gli anni Settanta e Ottanta, Autobianchi, Abarth,
Alfa Romeo, Ferrari, Innocenti e Lancia.
Nonostante questa posizione, unita al successo commerciale su tutto il mercato europeo registrato negli anni Ottanta,
FIAT non riesce ad evitare il crescente peso della concorrenza estera, aggravato dalla presenza sempre più massiccia ed
aggressiva dei produttori nipponici: “nel 1991 i modelli
prodotti dai principali marchi italiani (...) rappresentavano
ancora il 61,5% delle autovetture circolanti, mentre, nel
2003, scendono al 44,2% (…). Si tratta, in sostanza, di una
radicale inversione di tendenza nei gusti degli automobilisti” (AA.VV. 2006, 484-485). Le ragioni di questo fenomeno si possono ascrivere alle decisioni strategiche prese dal
gruppo torinese negli anni Novanta, quando si distolgono
investimenti dal settore auto a vantaggio di altre attività
economiche, determinando un ritardo tecnologico dei prodotti e un sottodimensionamento della capacità produttiva
che impediscono di stare al passo con il mutamento del mercato automobilistico.
Quest’ultimo è molto cambiato dai tempi della motorizzazione di massa, sebbene mantenga immutate alcune caratteristiche. Da un lato, si registra la costante ascesa dei modelli di media e grande cilindrata a scapito delle cilindrate
minori, dall’altro permane pressoché immutata “l’obsole239
Lei non sa chi sono io - L’AUTOMOBILE
scenza delle automobili in circolazione: nel 2003, infatti, il
28,85% è su strada da almeno 10 anni e il 9,06% da oltre
20. Ciò si spiega anche con la costante preminenza del mercato dell’usato su quello del nuovo: nel corso degli anni,
infatti, i trasferimenti di proprietà hanno continuato ad essere superiori alle immatricolazioni” (ivi, 486).
I modelli distintivi di FIAT sono quelli della produzione degli
anni Ottanta e della fine degli anni Novanta. Grande successo riscuotono le utilitarie del gruppo torinese, a conferma di
una leadership di progettazione e realizzazione che conferma
una vocazione alla costruzione di auto piccole e complete. I
modelli Panda, Uno e Punto cambiano l’idea e la destinazione d’utilitaria: la prima attualizza l’idea di seconda auto per
la città, estremizzandone gli aspetti funzionali ed introducendo nella categoria il concetto di una maggiore altezza da terra dell’abitacolo, che la fa una delle vetture preferite dalla
clientela femminile, proprio per l’aumentata visibilità che la
soluzione comporta; la Uno rappresenta la definitiva maturazione dell’utilitaria italiana, in considerazione dell’innovazione tecnologica e stilistica che la contraddisitnguono: la vettura è la prima ad adottare i motori Fire – per la cui produzione FIAT costruisce uno stabilimento dedicato – parchi nei consumi, prestanti e particolarmente poco inquinanti; inoltre stabilisce un nuovo punto di riferimento per quanto riguarda
l’abitabilità interna e lo stile pulito della sua linea; la Punto
rappresenta l’auto del rilancio della FIAT all’indomani della
crisi economica dei primi anni Novanta, ed introduce il concetto di utilitaria costruita con livelli di qualità che general240
VIII - LA
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AI GIORNI NOSTRI
mente si incontrano in auto di categoria superiore.
La produzione di auto di categoria medio e medio-grande subisce al contrario la temibile concorrenza dell’industria tedesca,
nettamente migliore in termini di qualità lungo tutti gli anni
Novanta, oltre che la scarsità di risorse finanziarie, che impedisce un rilancio deciso dei modelli di alta gamma marchiati Alfa
Romeo e Lancia, per i quali è necessario aspettare gli anni successivi. Il ritorno dell’azienda torinese allo sviluppo del settore
auto è sancito dall’introduzione della tecnologia common rail
per i motori turbodiesel, il settore a più alta crescita degli ultimi anni, che diventa lo standard dell’industria.
Il common rail, insieme ai dispositivi di assistenza alla guida
(Abs, Esp, Asr, e cosìvia), alla distribuzione multivalvole,
alla fasatura variabile e agli impianti di scarico ‘catalitici e
filtranti, si pone come unulteriore tappa dell’evoluzione tecnica che ha trasformato e sta trasformando l’automobile in
un oggetto sempre più ecologico, più sicuro e confortevole,
secondo le tendenze sociali che contemporaneamente si
affermano nelle società occidentali.
L’auto tende sempre più a trasformarsi da mezzo di trasporto ad ambiente di vita: si introducono così nell’abitacolo gli
elementi necessari per lavorare – fax, telefono, Internet – e
per svagarsi – Tv, lettori Dvd, stereo ad alta fedeltà, e così
via. La ricerca del massimo comfort e la trasformazione in
oggetto “intelligente” sono i segni distintivi dell’auto contemporanea, in risposta al crescente disagio, in termini di
traffico ed inquinamento, che proprio la mobilità privata
genera. Si deve comunque rilevare che la ricerca del comfort
241
Lei non sa chi sono io - L’AUTOMOBILE
si confonde spesso con quella della massima sicurezza, per
cui si è massimamente comodi quando si è al sicuro dalle
insidie del mondo esterno, in un processo che porta però a
un crescente isolamento sociale dagli altri automobilisti e
dagli altri utilizzatori della strada (cfr. Virilio 2000). La
dimensione collettiva la si recupera nell’ottica della conservazione dell’ambiente, tramite lo sforzo che l’industria automobilistica conduce per produrre veicoli sempre meno inquinanti. L’attuale e futuro panorama automobilistico presenta
una tendenza alla ricerca di un sostituto non tanto dell’automobile quanto del motore a scoppio, sostituito dal motore
elettrico o da propulsori che usano combustibili più ecologici – Gpl, metano, etanolo.
Fra le tecnologie future, il motore a idrogeno è sicuramente
quella di punta, sulla quale le case automobilistiche hanno
già investito più di 6 miliardi di dollari tra il 1993 ed il 2000
(cfr. AA.VV. 2006, 506). L’auto a idrogeno promette di
ridurre quasi a zero il problema delle emissioni inquinanti –
dalla marmitta esce in pratica vapore acqueo – ma la transizione a questo tipo di combustibile è difficoltosa dal punto
di vista economico ed ingegneristico. L’idrogeno infatti non
è una fonte di energia ma un vettore di energia, per cui deve
essere ricavato da qualche parte. La possibilità di estrarlo da
fonti energetiche rinnovabili – solare, eolica, ecc. – non sembra attualmente compatibile con i consumi che caratterizzano le economie moderne, ma la sua estrazione dal petrolio
non eliminerebbe l’attuale dipendenza dai combustibili fossili in via d’esaurimento.
242
VIII - LA
MOBILITÀ DAL
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Dal punto di vista dell’ingegneria, le caratteristiche fisiche
dell’idrogeno pongono rilevanti problemi in ordine al suo
stoccaggio ed alla sua distribuzione. Essendo altamente
infiammabile, va conservato a temperature molto basse e
con un livello di sicurezza adeguato, requisiti che impediscono la realizzazione a costi accettabili dei serbatoi degli autoveicoli. Ad ogni modo, le principali casi automobilistiche,
tra le quali Honda, BMW e GM, hanno già realizzato prototipi funzionanti che, nel caso di Honda con il modello
FCV, sono attualmente in uso sperimentale da parte di alcune famiglie californiane.
Se la tecnologia a idrogeno si affermerà nei prossimi decenni c’è da aspettarsi anche un mutamento del design dei veicoli, in virtù delle soluzioni offerte dall’architettura del
motore a idrogeno, come ha dimostrato il prototipo presentato da General Motors, nel quale sparisce il motore
centrale, sostituito da quattro motori dislocati presso le
quattro ruote, a tutto vantaggio dell’abitabilità interna del
veicolo.
L’attuale tendenza del design dei veicoli è, infatti, tutta tesa
al recupero di un immaginario collettivo nostalgico tramite
stilemi retrò, finalizzati a rassicurare il cliente o a potenziare l’immagine dei marchi. Tuttavia, all’orizzonte si preannunciano mutamenti significativi, in grado di ristabilire un
equilibrio nuovo tra forma e funzione. È il caso della tecnologia drive-by-wire, per la quale il collegamento meccanico
dei comandi è sostituito da quello elettronico, con la conseguenza di una profonda destrutturazione dell’abitacolo a
243
Lei non sa chi sono io - L’AUTOMOBILE
favore di una plancia di comandi miniaturizzati e perciò
meno pesanti ed ingombranti (cfr. ivi).
Accanto all’influsso delle tecnologie emergenti, il design sembra poi subire sempre più l’influsso dell’accelerazione indotta dai ritmi elevati, quasi istantanei, delle comunicazioni di
massa contemporanee. Il valore estetico di una realizzazione
decade più rapidamente proprio per la velocità della sua diffusione, costringendo l’industria del design a uno sforzo estetico e progettuale più intenso e frequente nel tempo.
MOBILITÀ E SOCIETÀ.
L’enorme e rapido sviluppo della motorizzazione privata italiana è dipeso, come si è visto, dal forte sostegno governativo e dal profondo legame reale e simbolico che gli italiani
hanno stretto con il mondo dei motori, sin dal suo apparire
agli inizi del Novecento. I mutamenti sociali e sistemici che
l’automobile ha innescato in Italia hanno trasformato
ampiamente il paese, traghettandolo da un assetto tradizionalista, se non arcaico, a moderna civiltà industriale.
I benefici sociali di questa trasformazione sono stati innumerevoli e hanno contribuito, insieme ai mass media, a far
compiere agli italiani sostanziali passi in avanti nell’unificazione reale del paese e nell’integrazione di alcuni gruppi tradizionalmente esclusi (donne e giovani) nel tessuto produttivo e sociale.
L’auto ha permesso alle donne l’ingresso nel mercato del
lavoro e il raggiungimento dell’indipendenza economica.
Inoltre, la flessibilità e la versatilità d’uso dell’automobile
244
VIII - LA
MOBILITÀ DAL
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AI GIORNI NOSTRI
consentono loro di conciliare più facilmente il lavoro con la
cura dei figli e le esigenze della famiglia (cfr. Studio ACI
2006a). Nel caso dei giovani, il conseguimento della patente di guida rappresenta uno dei maggiori riti d’iniziazione
delle società moderne, oltre che il viatico a una maggiore
indipendenza ed emancipazione rispetto alla famiglia. L’utilizzo dell’automobile da parte di quest’ultimi si associa,
infatti, all’organizzazione e al vissuto del tempo libero (cfr.
Marocci 2001).
L’antica frammentazione geografico-culturale italiana, è
sostituita da un popolo in perenne movimento, per ragioni di
lavoro o di svago. Idee e stili di vita differenti circolano più
facilmente, aumentano le relazioni sociali e, soprattutto con
l’automobile, si gode di una libertà personale che permette di
svincolarsi dai legami e dagli ambienti, rimettendo nelle
mani degli individui il potere di operare scelte secondo le
proprie inclinazioni.
La motorizzazione di massa, dunque, diffonde in tutti i ceti
sociali la modernizzazione degli stili di vita e la storica tendenza della civiltà occidentale a svincolarsi dai limiti posti
dallo spazio e dal tempo, annullandoli tramite la sempre
maggiore velocità di movimento, per poi piegarli al proprio
vantaggio (cfr. Virilio 2000).
Alla fine del Novecento, dunque, si realizzano quei fondamentali mutamenti nel vissuto spazio-temporale che erano
stati intuiti e annunciati alla fine dell’Ottocento da chi rifletteva sulla comparsa del treno, dell’automobile e dei mezzi di
comunicazione di massa.
245
Lei non sa chi sono io - L’AUTOMOBILE
Tuttavia, l’avanzare della civiltà lungo la direzione di una
modernizzazione e razionalizzazione sempre più spinte comporta l’emergere nella società contemporanea di caratteristiche nuove, che la differenziano dalla prima società industriale e le cui tracce si rinvengono anche nel rapporto fra evoluzione sociale e mobilità. Il crescente dinamismo della società
è reso possibile dall’elevato sfruttamento delle risorse naturali, accompagnato però dall’inquinamento e dal rischio
ambientale. Quella contemporanea, infatti, si caratterizza
sempre più come società del rischio, ovvero in grado di creare, in modo autonomo ed interno a se stessa, situazioni di
minaccia reale e potenziale che ne mettono a rischio la stabilità e financo la sopravvivenza (cfr. Beck 2000). La radioattività, un conflitto atomico o le catastrofi ambientali da
inquinamento sono tutti pericoli causati dall’attività dell’uomo e non più dalla natura o da qualcosa di esterno alla civiltà umana. Si tratta di rischi globali che inducono “sistematicamente danni spesso irreversibili, si basano su interpretazioni causali, e così si producono soltanto in termini di sapere (scientifico o antiscientifico che sia)” (ivi, 30). In altri termini, le minacce prodottesi con il progresso tecnologico ed
economico colpiscono tutti gli individui indiscriminatamente e, in quanto prodotto scientifico, le loro cause devono
essere indagate, conosciute ed accertate.
Tuttavia, la determinazione del rischio e dei danni potenziali presume non soltanto delle supposizioni scientifiche, ma
anche delle valutazioni di tipo etico e di accettabilità sociale,
spesso inconciliabili con le prime. In tal modo la definizione
246
VIII - LA
MOBILITÀ DAL
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AI GIORNI NOSTRI
dei rischi diventa un campo di battaglia dove “ciò che si
mostra chiaramente (...) sono le crepe e le voragini che si
aprono tra razionalità scientifica e razionalità sociale nel
modo di rapportarsi ai potenziali di pericolo insiti nella civiltà” (ivi, 39).
Ne consegue che la determinazione dei rischi si trasforma in
un’attività sociale – con il sistema dei mass media in posizione chiave – in cui sono spesso più importanti e legittimi gli
effetti sociali di una potenziale minaccia, piuttosto che la validità, comprovata scientificamente, delle sue cause. Tutto ciò
si riflette nell’altra faccia del rischio, ovvero l’insicurezza e la
paura, che ammantano ed adombrano i successi della società
moderna contemporanea senza alcuna tregua: in quanto attività sociale e culturale, infatti, “ la domanda indotta dai
rischi di civiltà è (…) una ‘botte senza fondo’, inesauribile,
infinita, autoproducente” (ivi, 31). In questo senso, il rischio
si trasforma in motore della storia e delle attività umane,
svolgendo il ruolo che nella prima società industriale aveva il
soddisfacimento dei bisogni. In altre parole, se nell’Ottocento e nella prima parte del Novecento la società è dominata da
una logica di creazione e redistribuzione della ricchezza, la
società contemporanea è invece incentrata sulla determinazione e redistribuzione del rischio.
Inoltre, una mobilità sempre più dinamica ha sì accresciuto le
interazioni sociali, ma le ha rese tendenzialmente più astratte
e superficiali, cioè prive di profondità e della capacità di
costruire senso sociale e comunitario (cfr. Spreafico 2005),
contribuendo a produrre isolamento ed instabilità sociale.
247
Lei non sa chi sono io - L’AUTOMOBILE
Ciò è dovuto sia alle caratteristiche dell’esperienza della
mobilità individuale – ognuno si muove col proprio mezzo e
separato fisicamente dagli altri – sia alle forze che spingono
le società occidentali sempre più verso l’individualizzazione.
In un primo momento, infatti, la società del benessere ha
reso possibile una vita individuale più ricca, l’emancipazione
dai costumi più tradizionali e dal controllo sociale esercitato
sull’individuo dalle istituzioni sociali, nonché la possibilità
di costruzione di un progetto di vita all’interno di un ventaglio di opzioni molto più ampie che in passato.
In tempi più recenti, l’individualizzazione assomiglia sempre
più a un processo di atomizzazione nel quale l’individuo,
sottoposto alla pressione di mutamenti che non controlla, si
rifugia nella propria intimità e nella ricerca dei propri interessi immediati, a discapito del sentimento di appartenenza
a una comunità (cfr. Sennet 2001).
Infine, la globalizzazione ha notevolmente contribuito ad
aumentare il livello di incertezza di alcuni settori delle società attuali. Nella società globalizzata la mobilità assurge al
rango più elevato tra i valori che danno prestigio, e la stessa
libertà di movimento diventa rapidamente il primo fattore di
stratificazione sociale (Bauman 2006).
Infatti, i nuovi ceti dirigenti della globalizzazione coincidono
con coloro che godono di un alto grado di mobilità, intesa
come capacità di spostare il centro dei propri interessi e delle proprie attività (ad esempio attività imprenditoriali)
all’esterno del territorio di provenienza. I ceti sociali meno
abbienti, al contrario, vivono in una maggiore incertezza a
248
VIII - LA
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AI GIORNI NOSTRI
causa della delocalizzazione dei fattori produttivi.
Il risultato più eclatante di queste trasformazioni è l’insorgere di un senso generale di insicurezza e d’incertezza, cui si
oppone una reazione contraria di ricerca di sicurezza e di
esclusione del rischio dalle proprie esistenze individuali. A
livello sociale, dunque, si sperimenta un maggior individualismo e un conseguente maggior isolamento sociale, laddove i singoli tentano di trovare nella sfera privata soluzioni
personali al disagio sociale ed esistenziale che si origina, tuttavia, altrove.
Il rapporto fra società e mobilità si fa allora più complesso,
considerato che sono le condizioni della mobilità moderna a
causare o comunque amplificare la crescente atomizzazione
della società.
Tuttavia, é sulla mobilità stessa che si riversa il bisogno di
maggior sicurezza e minor incertezza. Il mercato dei mezzi di
trasporto privati subisce allora un’accelerazione in termini di
differenziazione ed in termini di contenuto, mano a mano che
determinati segmenti sociali – donne e giovani – sono integrati a pieno titolo nel modello della motorizzazione privata.
L’effetto principale di queste influenze si traduce in una
rivoluzione del rapporto fra automobilista e mondo dell’auto, con la decrescente importanza del mito della velocità a
favore di nuovi elementi quali il comfort e la sicurezza: gli
equipaggiamenti sono maggiormente rivolti alla protezione
degli occupanti; “la potenza del motore cede il passo ai criteri di basso consumo e rispetto dell’ambiente” (Studio ACI
2006a, 11).
249
Lei non sa chi sono io - L’AUTOMOBILE
Allo stesso tempo, emerge un arricchimento del significato
simbolico dell’automobile, dovuto all’estremizzazione del
processo di ricerca dello status tramite segnali distintivi: ecco
apparire l’auto storica, d’epoca, con l’inevitabile influenza
nel design e nella produzione.
Mentre il mercato rivolto ai privati segue l’evoluzione summenzionata, a livello collettivo la società è sempre più impegnata a fornire una risposta il più possibile integrata alle
varie problematiche del trasporto. La mobilità sostenibile
diventa l’obiettivo delle politiche dei trasporti, centrali e
locali, nonché l’approccio in grado di tenere conto delle questioni legate all’urbanistica, all’ambiente ed alla sicurezza.
L’introduzione delle tecnologie informatiche e delle teorie sui
flussi di traffico nelle soluzioni di mobilità sostenibile ha sensibilmente incrementato la loro efficacia, mentre resta da
valutare con sicurezza l’influenza che queste possono avere
sulla mobilità in generale della società.
La potenza del modello di comunicazioni attuale, basata sul
modello di rete e sulla “smaterializzazione” crescente di beni
e servizi, rende già oggi possibile un’interconnessione personale tale da limitare l’idea del trasporto e del trasportarsi.
Non si nota ancora, tuttavia, una diffusione massiccia del
telelavoro, per via dell’arretratezza tecnologica italiana e per
ragioni sociopsicologiche che vedono nel contatto diretto un
elemento ancora importante nei rapporti di lavoro.
Data l’interdipendenza che segna il rapporto tra società e mobilità in tempi recenti, si affronteranno di seguito e in maniera
specifica le questioni appena introdotte in questa sezione.
250
VIII - LA
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AI GIORNI NOSTRI
LA QUESTIONE AMBIENTALE.
L’emergere di una consapevolezza ecologica nella società italiana si situa alla fine degli anni Sessanta, come analisi critica
generale dei guasti provocati dall’inquinamento industriale.
Lo shock petrolifero del 1973 attira l’attenzione degli
ambientalisti sull’automobile, sulla quale è stata organizzata
tutta la politica energetica e infrastrutturale italiana. Le critiche rivolte dagli ecologisti al mondo dell’automobile riguardano fondamentalmente le seguenti questioni: l’uso del territorio e lo sfruttamento dello spazio pubblico; il rischio di
esaurimento delle fonti energetiche; l’inquinamento atmosferico prodotto dalle emissioni delle automobili, incluso l’impatto che esse hanno sul fenomeno dell’effetto serra.
In Italia, si inizia ad analizzare l’uso del suolo secondo una
prospettiva ambientale soltanto quando la forsennata urbanizzazione mette in mostra i limiti di uno sviluppo industriale e soprattutto infrastrutturale troppo rapido e squilibrato.
Alle pressioni dell’industria automobilistica per le autostrade, si aggiungono anche quelle dell’industria delle costruzioni, primariamente mobilitata nell’espansione degli spazi
urbani. Già nel 1958, in fase di approvazione del Codice della Strada, il Senato “approvò due emendamenti che mitigavano la severità delle norme previste dallo schema preliminare del nuovo Codice: il primo finì, di fatto, per rendere vana
la norma che istituiva una fascia di rispetto urbanistico ai
lati delle strade” (Paolini 2005, 82). La forte migrazione
interna verso le zone industriali, inoltre, alimenta la febbre
dell’edilizia ed in breve si attua una profonda trasformazio251
Lei non sa chi sono io - L’AUTOMOBILE
ne dell’ambiente urbano, amplificata da una prospettiva progettuale incentrata sull’uso dell’automobile.
L’espansione urbana avviene senza una politica d’indirizzo
che chiarisca vincoli e limiti e, soprattutto, senza riuscire a
dare ordine al crescente traffico veicolare e all’aumento dei
mezzi a motore. I nuovi quartieri che sorgono sono messi in
comunicazione con il resto della città grazie a nuove strade,
svincoli e tangenziali, il cui effetto è quello di generare ulteriore traffico e non una sua decongestione.
Inoltre, il boom edilizio “non ha interessato solo i grandissimi capoluoghi industriali e terziari, ma l’intera loro area di
gravitazione funzionale ovvero di accettabile accessibilità
pendolare, sicché l’esplosione industriale e demografica ha
via via toccato i comuni delle successive cinture, innescandosi in ciascuno di essi per fasce concentriche in una sorta di
reazione a catena” (Mioni 1991, 53).
L’accessibilità ai nuovi territori garantita dalla costruzione
delle infrastrutture viarie trasforma quindi la città tradizionale in metropoli prima, e in area metropolitana successivamente. La metropoli è un nuovo prodotto della civiltà odierna, una realtà “nella quale c’è sì una città principale eventualmente ‘grande’ (…) ma c’è in primo luogo un sistema
complesso e assai più esteso di insediamenti urbani più o
meno dipendenti e (…) che è legato ad essa da una fittissima
rete di relazioni, di servizi, di comunicazioni, di solidarietà di
destini”, cosicché, la differenza con la città tradizionale sta
nel fatto che “nello spazio metropolitano la prospettiva è
molto più estesa e veloce, l’intensità e la varietà delle relazio252
VIII - LA
MOBILITÀ DAL
1973
AI GIORNI NOSTRI
ni sono molto superiori, che la quantità di territorio, di attività, di interessi e di gente in gioco assai più ampia e indeterminata, e che soprattutto, sono molto diverse la natura e la
qualità materiale di tutto ciò che si percepisce come componente materiale dell’insieme” (ivi, 44).
Il risultato di questo sviluppo è un grandissimo consumo di
spazio pubblico, in termini di terreno sacrificato alla realizzazione delle infrastrutture edilizie e viarie, come in termini di
riduzione degli spazi pubblici sociali – piazze, slarghi, giardini – che sono trasformati in parcheggi o luoghi di transito del
traffico, perdendo la loro natura, a volte secolare, di luoghi
di aggregazione. Inoltre, la moltiplicazione delle popolazioni
metropolitane alimenta il conflitto sociale legato allo spazio
urbano tra chi vive in aree riqualificate (gentrified) e dequalificate e quello per il diritto di accesso a uno spazio pubblico
che scarseggia (cfr. Nuvolati 2002). Quest’ultimo tipo di conflitto “vede contrapporsi, in particolare, il nuovo ‘ceto forte’
degli automobilisti (in grado di produrre lobbying, campagne
di stampa, pressioni politiche, alleanze con altri gruppi forti,
come i commercianti) e un ‘ceto debole’ (pedoni, passeggeri
dei mezzi pubblici, ciclisti, bambini ecc.) con scarso potere e
ben poca voce in capitolo nel dibattito sul traffico e sulle politiche urbane” (Davico e Staricco 2006, 51).
Di fronte all’inutilità di costruire nuove infrastrutture per
tentare di assorbire il traffico veicolare, gli studi su quest’ultimo elaborano una teoria che tiene in conto sia della
domanda di mobilità sia dell’offerta di servizi di trasporto,
cercando di capire perché la gente si sposta e in che modo.
253
Lei non sa chi sono io - L’AUTOMOBILE
Dalla teoria ne consegue che un’organizzazione razionale
degli spazi e dei loro utilizzi – ad esempio il decentramento
di certi servizi – ha una grande influenza sulla riduzione e
decongestione del traffico. In Italia, la teoria dell’uso del
suolo tarda ad attecchire e le scelte delle amministrazioni si
orientano, fino agli anni Novanta, a cercare di risolvere i
problemi della mobilità ancora con il potenziamento delle
infrastrutture viarie.
La questione energetica catalizza l’attenzione all’indomani
dello shock petrolifero del 1973, quando anche in Italia viene introdotta una politica di forti limitazioni al consumo di
petrolio e derivati. L’evento ha forti ripercussioni sia in seno
al sistema industriale, sia a livello politico-sociale, grazie al
riconoscimento ed alla visibilità di cui inizia a godere il
movimento ambientalista globale ed italiano. Ad essere
messi in causa sono sia i consumi delle automobili, sia lo stile di vita delle società industriali moderne, quest’ultimo
essenzialmente basato su un livello molto alto di mobilità di
merci e persone.
Queste critiche, facilmente estese al sistema industriale e
consumistico generale, inducono un mutamento della sensibilità ambientale nella società italiana, spianando la strada a
soluzioni per la viabilità che includono adesso anche il concetto di limitazione della mobilità individuale, a favore di
uno stile di vita meno dipendente dagli spostamenti. Ad alimentare questo mutamento, nei decenni successivi al 1973,
contribuisce anche la natura sempre più energivora del sistema dei trasporti e la conseguente rapidità con cui si esauri254
VIII - LA
MOBILITÀ DAL
1973
AI GIORNI NOSTRI
scono le riserve energetiche. Da un lato, infatti, la motorizzazione privata si caratterizza per l’inefficienza energetica,
laddove “il coefficiente medio di riempimento delle auto è
del 20 per cento (1,2 passeggeri per veicolo), mentre nel trasporto urbano di merci non supera il 30 per cento. (…) ma
è soprattutto sproporzionato il rapporto tra peso del veicolo
e peso del carico utile: per l’automobile è di 5-10 a 1 (un’auto di classe media pesa intorno ai 1000-1500 kg e in genere
porta una o due persone). Ne consegue che su dieci litri di
benzina, otto o nove vengono spesi per spostare il veicolo e
uno o due per spostare i passeggeri” (Viale 2007, 61); dall’altro, il sistema dei trasporti, alimentato dalla globalizzazione degli scambi, fa costantemente lievitare i consumi di
petrolio e derivati: secondo le proiezioni della Commissione
europea, “vi è un urgente bisogno di investimenti. Soltanto
in Europa, per soddisfare la domanda di energia prevista e
sostituire le infrastrutture che mostrano segni di invecchiamento, nei prossimi 20 anni saranno necessari investimenti
per circa mille miliardi di euro (…).
Si prevede che entro il 2030 la domanda globale di energia
– e le emissioni di CO2 – saranno di circa il 60% superiori
ai livelli attuali. Il consumo globale di petrolio è aumentato
del 20% dal 1994 e si prevede che la domanda globale di
petrolio aumenterà dell’1,6% all’anno” (Commissione
europea 2006, 3).
I crescenti consumi energetici comportano inoltre l’aumento
dell’inquinamento, prima delimitato alle zone urbane più
industrializzate, poi, a causa dell’espansione urbana, diffuso255
Lei non sa chi sono io - L’AUTOMOBILE
si anche altrove. I primi studi che collegano l’auto all’inquinamento si sviluppano negli Stati Uniti nel secondo dopoguerra, per poi arrivare in Europa negli anni Sessanta. In Italia essi sono decisamente osteggiati da una sensibilità pubblica estremamente favorevole alla civiltà dell’automobile e si
deve attendere l’intervento della Comunità economica europea nel 1971 per l’avvio di una normativa antismog italiana.
Negli anni Ottanta, il dibattito europeo ed italiano sull’inquinamento da emissioni degli autoveicoli converge, grazie a
numerosi studi e a dati ormai inoppugnabili, sull’adozione di
normative relative alla costruzione di mezzi a motore caratterizzati da bassi livelli d’inquinamento ed alta capacità di
riciclaggio di materie e componenti, normative conosciute
con le sigle Euro 1, 2, 3, 4, e così via.
La lotta all’inquinamento provocato dalle emissioni delle
automobili si alimenta oggi anche di una domanda sociale di
riduzione dei rischi ambientali relativi al surriscaldamento
globale, per il quale il sistema dei trasporti è considerato uno
dei maggiori responsabili in virtù del quantitativo di CO2
emesso. Secondo quanto rilevato dall’Agenzia europea dell’ambiente, il trasporto stradale è all’origine di quasi tre
quarti dei consumi energetici europei nel settore della mobilità (cfr. EEA 2003) e, nonostante gli sforzi, i miglioramenti
nell’efficienza dei veicoli e dei carburanti non riescono a
compensare la costante crescita delle emissioni di anidride
carbonica da parte del settore dei trasporti, pari a un aumento di più del 32% nel periodo 1990-2004 (cfr. EEA 2007).
Si assiste così, in linea con quanto sopra detto sulla società
256
VIII - LA
MOBILITÀ DAL
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AI GIORNI NOSTRI
del rischio, a una pressione sociale dell’opinione pubblica
sull’industria automobilistica, che sfocia nella ricerca di un
nuovo modello di organizzazione della mobilità che integri
gli aspetti ambientali ed i loro effetti sociali. Si sviluppa allora la mobilità sostenibile, composta da un’attenzione nuova
al tema dell’utilizzo del suolo e dello spazio pubblico, alla
valutazione dell’impatto ambientale su tutti gli aspetti del
trasporto, in particolare quelli relativi all’abbattimento delle
emissioni di anidride carbonica, finalizzati a contrastare il
surriscaldamento da effetto serra, e quelli relativi alla riduzione dell’inquinamento atmosferico ed acustico ai fini della
salute pubblica.
La gestione della mobilità sostenibile trova applicazione per
la maggior parte nei territori urbani, cioè dove si verifica la
maggiore densità di traffico. In tali aree si concentra circa il
70% del totale degli spostamenti delle persone (cfr. Davico e
Staricco 2006). Inoltre, il traffico tende sempre più a caratterizzarsi come domanda di mobilità sempre più erratica e
meno derivata dai tradizionali spostamenti per lavoro o per
studio (cfr. Studio ACI 2002). La razionalizzazione della
mobilità urbana comprende sia interventi intesi a incoraggiare l’uso di modalità di trasporto alternative all’automobile –
misure di tipo pull – sia provvedimenti finalizzati a scoraggiare l’uso dei mezzi privati – misure di tipo push – entrambi possibilmente integrati con la pianificazione territoriale e
urbana. In genere, i mix di policies che si possono adottare
hanno come obiettivo:
- la razionalizzazione del trasporto privato motorizzato, rea257
Lei non sa chi sono io - L’AUTOMOBILE
lizzato tramite la creazione di zone a traffico limitato oppure attraverso incentivi intesi ad aumentare il tasso d’occupazione dei veicoli – car pooling – oppure a diminuire il numero complessivo dei veicoli in città – car sharing;
- l’incremento dell’uso dei mezzi di trasporto collettivi, attraverso il loro potenziamento infrastrutturale e la loro integrazione (ad esempio bus più metropolitana), e lo sviluppo di
modalità di mobilità alternative, quali la bicicletta;
- la realizzazione di sistemi di mobility management basati
sulla pianificazione della domanda e dell’offerta di trasporto, tramite l’analisi dell’uso del suolo, dello studio dei tempi
degli utenti del sistema (orario di lavoro, tempo di svago e
così via).
Sono poi gli ambientalisti e quanti desiderano preservare
l’immenso patrimonio culturale e monumentale italiano a
compiere le prime riflessioni critiche sull’uso del territorio e
a produrre una domanda sociale di mobilità sostenibile dal
punto di vista ambientale, denunciando sia la speculazione
edilizia, che devasta città e luoghi di villeggiatura, sia i rilevanti problemi di salute pubblica che il crescente inquinamento atmosferico pone agli individui ed alla collettività (cfr.
Paolini 2005). Questo tipo di domanda sociale origina da un
insieme di fattori, tra i quali, appunto, la difesa dell’ambiente, che si è soliti riunire sotto la locuzione “qualità della
vita”. Essi emergono una volta che la società dell’abbondanza è abbastanza diffusa da porre in secondo piano il tema del
soddisfacimento dei bisogni primari. La società dei valori
materialisti fa allora spazio a quella dei valori post-materia258
VIII - LA
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AI GIORNI NOSTRI
listi (cfr. Inglehart 1977), tra i quali si rilevano ovviamente i
consumi culturali e ricreativi.
La domanda di soluzioni alle crescenti minacce alla salute
provenienti dall’inquinamento si è realmente messa in moto
in Italia, come si è accennato nel capitolo precedente, soltanto a seguito della pressione proveniente dagli indirizzi di politica ambientale elaborati dalle istituzioni comunitarie di Bruxelles. La Commissione europea ha stimato che percentuali
elevate di popolazione urbana restano esposte nell’Unione
europea a livelli di inquinamento atmosferico superiori alle
soglie di ammissibilità e l’Organizzazione mondiale della
sanità “in uno studio relativo a otto città italiane ha valutato
che il numero annuale di morti dovuti all’inquinamento
atmosferico per particolati tra le persone con più di trent’anni, è pari a circa 3.500, contro i circa 500 morti dovuti a incidenti stradali” (Davico e Staricco, 74). Soltanto alla fine degli
anni Ottanta si è iniziato a corresponsabilizzare l’industria
automobilistica, vincolandola alla costruzione di veicoli più
puliti, e ad imporre un sistema di monitoraggio ambientale e
di limiti alle sostanze nocive. I provvedimenti verso l’industria si sono concretizzati, oltre che nelle normative Euro sull’efficienza dei veicoli, anche nello svecchiamento del parco
automobilistico tramite incentivi statali all’acquisto di vetture nuove, rendendoli ammissibili anche se contrari alle norme
europee sulla concorrenza, e, infine, in norme intese a promuovere l’introduzione nel mercato di carburanti privi di
prodotti inquinanti – come la benzina senza piombo – o il
gasolio per autotrazione a basso contenuto di zolfo.
259
Lei non sa chi sono io - L’AUTOMOBILE
L’effetto di queste restrizioni sembra tuttavia esser stato
vanificato dal continuo aumentare degli autoveicoli e dal fatto che la tecnologia del motore a scoppio, per quanto resa
più pulita dalla gestione elettronica, non cessa di produrre
effetti collaterali indesiderati, come l’aumento dell’inquinamento da particolato fine (PM 10 e PM 2,5) causato dal diffondersi dei moderni turbodiesel. I pubblici poteri stanno
perciò attualmente spingendo l’industria automobilistica ad
orientarsi su sistemi di propulsione – ibrido, elettrico, a idrogeno – e nuovi carburanti – gas combustibili, idrogeno, etanolo – mentre le marche automobilistiche stanno svolgendo
campagne mediatiche di riposizionamento dei loro principali modelli in senso ambientale.
La domanda sociale per una mobilità ecologica è influenzata anche dalla battaglia generale per l’abbattimento delle
emissioni di anidride carbonica, che si è concretizzata nell’adozione da parte dell’Italia del Protocollo di Kyoto per la
riduzione dei gas serra. Tra il 2008 ed il 2012 il Trattato
impone la riduzione dei gas serra tramite una serie di strumenti, tra i quali un sistema di crediti di emissione, l’autorizzazione delle autorità per le attività industriali più inquinanti e, infine, meccanismi di implementazione e di trasferimento dei metodi e delle tecnologie antinquinamento ai Paesi meno sviluppati. L’applicazione del Protocollo in Italia
riposa sulle delibere Cipe 137/1998 e 123/2002, nonché sulla legge 316/2004 che ha recepito la direttiva europea
2003/87/CE in materia di scambio di quote di emissione di
gas serra. Il dispositivo di questa normativa rende più facile
260
VIII - LA
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AI GIORNI NOSTRI
attuare in Italia le politiche di riduzione dell’inquinamento
proveniente dal settore dei trasporti, tramite l’adozione di
policies di mobility management dirette a limitare l’uso del
trasporto privato a favore di quello pubblico e promuovendo l’integrazione delle modalità di trasporto (cfr. Studio ACI
2006b).
L’esempio più recente è il disegno di legge n. 691 del 2006,
che “prevede alcuni interventi sulla fiscalità energetica, in
particolare che il maggior gettito fiscale dovuto all’incidenza dell’Iva, in relazione agli aumenti del petrolio, possa essere destinato (...) ad un apposito fondo da utilizzare in via
prioritaria per coprire la realizzazione di nuove infrastrutture energetiche, (...) nonché per l’attuazione di misure volte
ad incentivare il solare termico, l’utilizzo di veicoli efficienti dal punto di vista energetico e a ridotto impatto ambientale” (Studio ACI 2006a, 96).
LA QUESTIONE DELLA SICUREZZA.
La crescente attenzione per la sicurezza rappresenta la risposta collettiva ed individuale alla società del rischio, ma ingloba anche altri elementi tipici delle società moderne contemporanee, quali la ricerca del comfort e tutti gli aspetti afferenti alla locuzione “qualità della vita”. La relazione tra
sicurezza e mobilità riguarda così sia gli aspetti “tecnici”
relativi al mondo dei trasporti – il traffico, i livelli di incidentalità, le dotazioni di sicurezza dei veicoli – sia gli aspetti
“sociali” connessi ai nuovi valori affermatisi con la società
postmoderna, vale a dire l’insicurezza sistemica che accom261
Lei non sa chi sono io - L’AUTOMOBILE
pagna l’individuo nel processo di globalizzazione, ma anche
l’edonismo, l’importanza dei desideri e dei bisogni immateriali che emergono prepotentemente dall’evoluzione della
società dei consumi e che alimentano una richiesta di mobilità sempre più confortevole in senso ampio. Il bisogno di
sicurezza emerge inizialmente già durante la fase di motorizzazione di massa, quando la società italiana fa la conoscenza con la congestione del traffico e con l’aumento vertiginoso degli incidenti stradali, problemi ai quali, come si è visto
in precedenza, si risponde in maniera frammentata oppure
insufficiente, nel timore di determinare un blocco dello sviluppo economico. A partire dalla seconda metà degli anni
Settanta, tuttavia, ci si rende conto che tali problemi sono
non soltanto endemici, ma tendono ad eliminare proprio i
vantaggi legati alla mobilità individuale, cioè una maggior
libertà personale unita a flessibilità e risparmio di tempo
negli spostamenti fisici. La realizzazione di nuove infrastrutture viarie senza un’adeguata pianificazione territoriale comporta un aggravamento della congestione del traffico, la cui
riduzione è ulteriormente resa difficoltosa dalla crescita continua del parco degli autoveicoli lungo gli anni Ottanta e
Novanta. “Con il censimento del 1981, si è raggiunta la
parità tra numero di nuclei familiari e numero di autovetture. Dopo tale data, l’incremento del parco (...) è stato interamente dovuto al fenomeno della diffusione della seconda e
terza auto. (...) L’Italia è il Paese europeo (dopo il Lussemburgo) con il più elevato tasso di motorizzazione: 1,5 autovetture a famiglia, 59,19 autovetture ogni 100 abitanti cioè
262
VIII - LA
MOBILITÀ DAL
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AI GIORNI NOSTRI
un’autovettura ogni 1,7 abitanti o un’autovettura ogni 1,4
abitanti se consideriamo solo la popolazione con più di 18
anni di età” (Studio ACI 2006a, 13).
Al momento attuale, le automobili presenti su tutto il territorio nazionale ammontano a circa 45 milioni e, se messe in
fila una dietro l’altra, coprirebbero circa un terzo dell’estensione della rete stradale nazionale. I costi e le disfunzioni del
traffico sono vari: si passa dal consumo di spazio pubblico –
marciapiedi, piazze e slarghi sono usati come parcheggi – a
un maggior isolamento sociale fra le persone; ma col crescere della quantità dei mezzi in circolazione, si rende evidente
che il problema più grave è dato dall’alto numero degli incidenti stradali e dalle vittime che esso provoca.
Le cifre relative all’incidentalità in Italia hanno assunto negli
anni un andamento preoccupante. “Se ogni anno i morti sulle strade italiane sono 6-7000, le vittime di gravi incidenti,
con conseguenze permanenti sul fisico o sulla psiche sono
oltre 150.000” (Viale 2007, 28). In termini più ampi, ovvero
includendo i costi assicurativi, sanitari e così via, le conseguenze dell’alta incidentalità assumono i contorni di una calamità sociale. Alcune elaborazioni ACI-Istat sui costi umani
dell’incidentalità mettono in rilievo che “per il 2004, essi sono
stati valutati in 16,55 miliardi di euro, derivanti da mancata
produzione, danno alla persona e costi sanitari. I costi materiali, invece, [costi amministrativi, assicurativi e giudiziari,
nda] sempre per il 2004 sono stimati in più di 17 miliardi, per
un totale dei costi sociali di ammontare pari a 33,706 miliardi, vale a dire il 2,5% circa del Pil” (Studio ACI 2006a, 104).
263
Lei non sa chi sono io - L’AUTOMOBILE
I rischi del guidare sono così diventati non più un problema
personale, ma sociale, andando a comporre una prima,
robusta, domanda di maggior sicurezza delle infrastrutture,
delle regole di comportamento e degli autoveicoli stessi. Le
infrastrutture viarie principali vengono allora dotate di
apparati di sicurezza, di segnalazione e di comunicazione,
mentre, a livello normativo si introduce un nuovo Codice
della Strada nel giugno 2003.
L’evoluzione maggiore nelle regole riguarda sia l’inasprimento delle sanzioni relative alle infrazioni più gravi (eccesso di velocità, guida in stato di ebbrezza), sia l’introduzione
della patente a punti. Essa ha contribuito a ridurre più di
altre soluzioni il numero degli incidenti stradali, in virtù della sua natura mista, “poiché possiede aspetti sia di natura
preventiva nei confronti degli incidenti stradali (in quanto
attraverso una misura c.d. sanzionatoria è diretta a colpire
i comportamenti scorretti), sia di natura rieducativa, attraverso i corsi per il recupero dei punti” (Studio ACI 2003, 6).
Il tema dell’educazione stradale rappresenta un ambito nel
quale le autorità pubbliche e gli Enti del settore, tra cui
l’ACI, hanno recentemente intensificato la loro azione.
L’industria automobilistica è stata a sua volta coinvolta e
responsabilizzata sul tema e gli autoveicoli prodotti sono stati via via dotati dei dispositivi di sicurezza più avanzati (sistema di servoassistenza alla frenata, controllo della sbandata e
così via), oltre che esser testati contro gli urti frontali e laterali prima della loro omologazione e commercializzazione.
L’insieme di queste soluzioni tecniche ha senz’altro migliora264
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AI GIORNI NOSTRI
to lo stato della sicurezza e della gestione dei rischi connessi
alla mobilità.
Tuttavia, persistono problemi di sicurezza intesi nella loro
accezione sociologica ed intimamente legati al traffico. In
primo luogo troviamo la crescita dell’isolamento sociale
urbano determinato dall’uso dell’automobile: “lo spazio
pubblico consegnato all’automobile è una mutazione che
trasforma l’intera città – e con essa il mondo – in uno spazio
privato, che in nulla differisce – quanto a promozione delle
relazioni sociali – da quello racchiuso tra le pareti della casa,
dell’ufficio, del reparto, o dell’aula scolastica: desocializza
l’uomo, ne privatizza l’esistenza” (Viale 2007, 21).
Inoltre, gli atteggiamenti aggressivi e conflittuali che si scatenano per i parcheggi o per il transito sono alimentati dalla
competizione per lo spazio pubblico che emerge fra gli abitanti ed i consumatori metropolitani, cioè coloro che “non
risiedono in città e che, a differenza dei pendolari, non vi
lavorano in modo stabile, ma vi si recano esclusivamente per
consumare” (Martinotti 1993, 15).
Oltre a ciò, la domanda di sicurezza nella mobilità si alimenta di elementi relativi al “fattore umano”. Gli studi sugli
incidenti stradali si sono perciò arricchiti di analisi psicosociali che hanno messo in relazione il livello d’incidentalità
con le nevrosi, il calo d’attenzione e così via, allo scopo di
rispondere alla domanda di sicurezza con un modello di prevenzione dei rischi (cfr. Andreoni 1999). In particolare, alcune psicotecniche messe a punto per valutare l’effetto del fattore umano negli incidenti hanno messo in rilievo come la
265
Lei non sa chi sono io - L’AUTOMOBILE
guida nel traffico possa scatenare, anche nelle persone non
affette da patologie nevrotiche, l’attivazione di fattori della
personalità profonda quali l’esibizionismo, l’indecisione e
l’evasione dal reale. “La dinamica inconscia dell’aggressività, in soggetti normali, assume un nuovo aspetto nella dinamica degli incidenti stradali e nelle diverse forme e modi di
guida” (Marocci 2001, 25). La sindrome di onnipotenza che
ne può derivare contribuisce ad abbassare negli individui la
percezione della rischiosità, ovvero della valutazione soggettiva della gravità di un rischio, portandoli a ignorare i propri limiti o i limiti del contesto nel quale si trovano a guidare. Allo stesso tempo, la percezione del rischio ha un limite
temporale, oltre il quale scatta l’assuefazione ed il conseguente calo di attenzione. “Il rischio soggettivo e collettivo
aumenta in misura sempre più elevata perché l’abitudine,
l’assuefazione, il differimento a cambiare il proprio ‘stile di
guida’ , attiva la dimenticanza prima e l’oblio poi, diminuisce e annulla sia le difese soggettive che quelle oggettive”
(Andreoni 1999, 49).
Per evitare dunque che rischi adeguatamente segnalati siano
ignorati o provochino indifferenza, sta emergendo, sempre
più forte, un’esigenza di diffondere quanto più possibile
un’adeguata educazione stradale, specie fra i giovani automobilisti. Costoro sono una categoria ad alto rischio, visto
che le statistiche dimostrano che “negli ultimi trent’anni il
tasso generale di mortalità negli incidenti stradali è diminuito complessivamente del 40%, ma nelle fasce di età giovanile la riduzione è stata impercettibile”, e studi inglesi sul feno266
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meno hanno rilevato che “i giovani automobilisti sono maggiormente coinvolti negli incidenti stradali non per incapacità alla guida, ma perché scelgono di guidare in maniera inappropriata” (Studio ACI 2003, 75). Ad aumentare i rischi della guida contribuisce anche il fenomeno del burn out, ovvero lo stato patologico di stress ed esaurimento emotivo, psichico e fisico che colpisce molti cittadini e che trova la sua
prima causa nell’organizzazione quotidiana del tempo sociale, quel tempo in cui gli attori sociali organizzano le proprie
strategie di vita (cfr. Balbo 1991). Le attività umane nelle città moderne, infatti, si distribuiscono lungo un arco temporale più esteso rispetto al passato, provocando, da un lato, la
desincronizzazione dei tempi del lavoro e dello svago, dall’altro, la crescente insofferenza per le inefficienze del sistema del trasporto, responsabile dell’aumento del tempo connettivo, cioè di quel tempo che serve per spostarsi da un’attività all’altra (cfr. ivi).
Vi è poi un’insicurezza generale sistemica, originata dai processi di individualizzazione e di globalizzazione che permeano la società contemporanea.
In particolare quest’ultima, con i suoi aspetti di deterritorializzazione e di sradicamento, sembra responsabile di una più
difficile costruzione dell’identità da parte degli individui e del
loro diverso rapporto con la mobilità. Quest’ultima, infatti, si
può trasformare da elemento apportatore di emancipazione e
di libertà personale per tutti, com’è successo durante la motorizzazione di massa, ad elemento di stratificazione e polarizzazione sociale (cfr. Bauman 2006). Come si è accennato in
267
Lei non sa chi sono io - L’AUTOMOBILE
precedenza, le élites sociali tendono ad essere sempre più
mobili, liberandosi dai vincoli territoriali e sociali con le
comunità di origine, laddove quanti sono forzatamente radicati nel territorio subiscono il peso delle decisioni dei primi,
in termini di perdita di lavoro, di ricchezza e di scambio
sociale (cfr. ivi). La mobilità ha oggi “significati radicalmente
opposti per quanti sono al vertice e quanti si trovano al fondo della gerarchia, mentre il grosso della popolazione, la
‘nuova classe media’, oscilla tra i due estremi, e si accolla il
carico di tale contrapposizione soffrendo di conseguenza di
acute incertezze, ansietà e paure esistenziali” (ivi, 7).
Incertezze e paure sono il frutto di un processo di costruzione dell’identità non più sostenuto dalla società e dalle sue
regole, ma pressoché interamente scaricato sull’individuo e
sui suoi sforzi di autoformazione ed autoaffermazione.
Ma a questo punto “il fallimento o l’impossibilità di portare a termine il processo di autoformazione, genera (...) la
paura dell’inadeguatezza, (...) un’inadeguatezza postmoderna, che rimanda all’incapacità di acquisire la forma e l’immagine desiderate” (Bauman 1999, 109).
Data l’importanza che nella globalizzazione assume la capacità di deterritorializzare i propri interessi, il livello di inadeguatezza comporta dunque anche una differenza in termini
di accessibilità ai vantaggi della società. La mobilità si polarizza in due modelli: da un lato c’è il turista, colui che partecipa pienamente ai vantaggi della globalizzazione – cosmopolitismo, libertà di andare e venire – per il quale, comprese
le sue merci ed i suoi capitali, i confini sono stati smantella268
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AI GIORNI NOSTRI
ti; dall’altro c’è il vagabondo, ovvero colui che è costretto
all’appartenenza a un territorio che diventa via via più inospitale – a causa di depressione economica ed isolamento
sociale – e contro il quale il resto del mondo erige confini,
muri e divieti d’ingresso (cfr. ivi; Augé 2007).
I primi “vivono in un perpetuo presente, immergendosi in
una sequenza di eventi che quasi un cordone sanitario isola
dal passato e dal presente. Questa gente è costantemente
occupata e non ‘ha’ mai ‘tempo’, dato che ogni istante è privo di estensione, un’esperienza identica a quella di un tempo
che t’impegna fino al colmo, quasi a soffocarti” (Bauman
1999, 98). I secondi, al contrario, sono schiacciati “dal peso
di un tempo che non passa mai, ridondante e inutile, un tempo che non si sa come riempire” (ivi, 99).
In pratica, i turisti vivono nel tempo e lo spazio per loro non
conta nulla, poiché possono attraversarlo senza problemi,
mentre i vagabondi, invece, vivono nello spazio, uno
spazio che è pesante e che lega il tempo tenendolo fuori dal
controllo dei residenti (cfr. ivi).
Il rovescio della medaglia di questa incertezza è un forte
bisogno di sicurezza che si traduce e si trasforma in edonismo sfrenato e nell’evoluzione del mercato dei consumi.
“C’è un’evidente affinità elettiva tra la privatizzazione della ‘gestione dell’incertezza’ e il mercato che provvede a servire il consumo privato. (...) La paura dell’inadeguatezza e
la frenesia del consumatore sono strettamente intrecciate,
si nutrono reciprocamente, e trovano l’una nell’altra,
l’energia necessaria a sostenersi” (ivi, 110-111). Dalla pri269
Lei non sa chi sono io - L’AUTOMOBILE
ma industrializzazione alla società contemporanea, l’individuo si è gradualmente trasformato da produttore di beni
a consumatore e, infine, a collezionista di piaceri e cercatore di sensazioni. “Lo scopo del gioco del consumo non è
tanto la voglia di acquisire e possedere, né di accumulare
ricchezze in senso materiale, tangibile, quanto l’eccitazione
per sensazioni nuove, mai sperimentate prima” (Bauman
2006, 93). Analogamente al processo sociale di definizione
e di interpretazione dei rischi, che genera una domanda di
sicurezza pressoché infinita, anche la “smaterializzazione”
del mercato dei consumi si traduce in un’espansione illimitata degli stessi. Non ci sono, infatti, “limiti ai ‘bisogni’
dell’uomo in quanto essere sociale (cioè produttore di senso e relativo agli altri in valore). L’assorbimento quantitativo del cibo è limitato, il sistema digestivo è limitato, ma
il sistema culturale del nutrimento è indefinito” (Baudrillard 1976, 78).
L’insicurezza mascherata da euforia dei consumi getta dunque i suoi riflessi anche sul bene automobile, esasperandone
il ruolo di segno distintivo di differenziazione sociale, per cui
essa è ancora oggi un potente indicatore di status, ma arricchendola anche di contenuti intesi a soddisfare valori di tipo
post-materialista.
Pertanto, se da un lato non sembra cessare la corsa ad automobili dalle prestazioni di potenza e velocità decisamente
sovradimensionate rispetto alle condizioni del traffico, dall’altro, quest’ultime sono sempre più progettate per assecondare il comfort ed il rispetto dell’ambiente, due principi dal270
VIII - LA
MOBILITÀ DAL
1973
AI GIORNI NOSTRI
la chiara valenza esorcistica nei confronti dell’insicurezza
generale della società.
Il comfort si è sempre accompagnato alla velocità, lungo tutta la storia della mobilità umana, ma ha assunto un’importanza primaria quando si è passati dalla trazione animale a
quella meccanica.
L’aumento della velocità dei vettori impone la difesa del corpo umano dalle scomodità del viaggio, ma il comfort simboleggia anche il distaccarsi dalla realtà circostante, nell’esaltazione del trionfo della velocità. “L’effetto della superficie delle cose, il contatto dei suoli sono definitivamente evitati con
il miglioramento del ‘benessere, grazie all’interposizione di
elementi intermedi destinati a farci perdere completamente il
contatto con le materie prime. (...)
Insomma, il comfort è solo un insieme di trucchi che mirano
a fare sparire quelle scomodità infinitesimali che pure non
sono nulla più che la prova dell’esistenza di un peso, di una
portata e di una motricità naturali” (Virilio 2000, 34-35).
Attualmente, il comfort si connota sempre più come una
modalità di rifugio e di protezione dall’insicurezza a discapito dell’esaltazione della velocità.
La mitologia dell’automobile muta, come già osservava
Roland Barthes commentando la Citroën DS: “fino a ieri la
macchina superlativa dipendeva dal bestiario della potenza;
ora diventa più spirituale e oggettiva, (...) eccola più casalinga, meglio intonata a quella sublimazione dell’utensilità che
oggi si ritrova nella nostra economia domestica: (...) tutto
questo significa una sorta di controllo esercitato sul movi271
Lei non sa chi sono io - L’AUTOMOBILE
mento, concepito ormai come comfort più che come prestazione” (Barthes 2005).
Si tratta di un mutamento che influenza non soltanto l’adozione di dispositivi di sicurezza, ma anche la qualità della
vita all’interno dell’abitacolo e la forma stessa del mezzo:
“(...) le vetture sembrano ispirarsi agli interni domestici,
aumenta la cura dei particolari e si studiano le sensazioni tattili e visive dei materiali” (Nappo e Vairelli 2006, 163). Il
design, a sua volta, privilegia il ritorno a stilemi retrò psicologicamente rassicuranti, quando non si ripropone l’attualizzazione di modelli passati – vedi Mini, Volkswagen New
Beetle e FIAT 500.
La compatibilità ambientale trova espressione soprattutto
nella comunicazione pubblicitaria di recentissima produzione. Il mondo della produzione industriale ha operato già,
dietro le quinte, una trasformazione in senso ambientalmente sostenibile, che è coincisa con le forti iniezioni di robotica
e di elettronica nelle varie fasi di realizzazione dei prodotti.
Tuttavia, è soltanto negli ultimi tempi che la comunicazione
commerciale ha iniziato a rassicurarci sulle qualità ambientali delle automobili, in particolare per quanto riguarda il
livello di emissioni di anidride carbonica o la capacità di funzionare con carburanti alternativi o derivati da fonti di energia rinnovabili, ad ulteriore conferma di un rapporto sempre
più interdipendente tra società e mondo della mobilità.
272
CONCLUSIONI
E LINEE DI TENDENZA PER IL FUTURO
CONCLUSIONI E LINEE DI
TENDENZA PER IL FUTURO
Il 20 settembre 2007 è la data dell’arrivo dell’autovettura
“Itala” a Parigi, a conclusione della riedizione per il centesimo anniversario del raid automobilistico più celebre della
storia automobilistica mondiale, la Pechino-Parigi del 1907,
vinta appunto dall’equipaggio dell’automobile italiana, formato dal principe Scipione Borghese, il meccanico Ettore
Guizzardi ed il giornalista Luigi Barzini.
L’evento, oltre ad essere meramente celebrativo, è anche
emblematico della storia della mobilità moderna e contemporanea nel suo incessante progredire verso il rimpicciolimento del mondo, reso possibile da mezzi di trasporto che ci
permettono di spostarci sempre più in fretta e più lontano.
La storia del rapporto fra società e mobilità è il racconto di
un’interazione sempre più complessa fra l’uomo e le macchine che questi ha inventato per eliminare la fatica del trasporto e per assecondare la sua millenaria voglia di esplorazione
e di movimento.
L’evolversi di questo rapporto ha investito e cambiato l’uomo, l’ambiente e le macchine stesse, secondo un rapporto di
interdipendenza reciproca sempre più intrecciato, tale da farci apparire i trasporti come sinonimo della stessa civiltà
moderna. Attraverso di essi, infatti, è possibile leggere l’evoluzione delle società industriali, compresa ovviamente quella italiana, dal loro primo affermarsi fino alle tendenze
recenti. Non c’è infatti periodo storico oppure aspetto socia273
Lei non sa chi sono io - L’AUTOMOBILE
le, che non leghi la sua natura, se non la sua stessa ragion
d’essere, al mondo della mobilità. Nel caso italiano ciò è particolarmente vero per quanto riguarda, ad esempio, i titanici sforzi condotti per l’unificazione politica, economica,
sociale e geografica del paese, un processo che ha visto il treno prima, ed i mezzi a motore poi, svolgere un ruolo da protagonisti, tanto forte quanto quello indotto dai mezzi di
comunicazione di massa.
Nel lasso di tempo che è stato necessario per trasformare
l’Italia da società tradizionale a moderna società dei consumi, i mezzi e le modalità di trasporto sono stati gli strumenti principali di uno spettacolare cambiamento degli stili di
vita, collettivi ed individuali. La velocità, la potenza, la flessibilità e la versatilità dei diversi mezzi di trasporto sono
entrate a far parte dell’uomo, e le passioni, le pulsioni e i miti
di questo hanno trovato proprio nei mezzi di trasporto il
luogo dove condensarsi e rifulgere. La libertà di muoversi si
è progressivamente affermata come un requisito indispensabile non solo della produzione e riproduzione dell’ordine
sociale, ma della stessa esistenza moderna e, in particolare,
della società della globalizzazione. In Italia, la lotta per la
conquista di una sfera di mobilità individuale più ampia è
stata lunga ed irta di ostacoli ed è stata resa possibile soltanto dallo sviluppo economico instaurato con l’ordinamento
repubblicano e democratico. Soltanto dopo il secondo dopoguerra, infatti, l’Italia diventa un paese a quattro ruote, inaugurando un modello di sviluppo foriero di rilevantissimi
cambiamenti sociali ed ambientali, sia positivi sia negativi.
274
CONCLUSIONI
E LINEE DI TENDENZA PER IL FUTURO
I costi di una mobilità individuale diffusa capillarmente non
tardano a manifestarsi, nella forma di una trasformazione
profonda del territorio, sempre più urbanizzato ed “invaso”
dall’automobile, ed in quella di un inquinamento atmosferico ed ambientale sempre più grave. Il mondo della mobilità
risulta così sempre più sensibile a una domanda sociale di
trasporti che non ha più nella libertà di muoversi la principale istanza da soddisfare. Fattori esterni quali la difesa dell’ambiente, un generale senso di inadeguatezza ai ritmi sempre più ossessivi della società contemporanea e la parziale
diffusione di valori post-materialisti condizionano sempre
più la mobilità degli italiani, le scelte relative alla gestione
delle modalità di trasporto e la natura stessa dei mezzi di trasporto.
Le correlazioni fra uomo, macchina e natura in termini di
mobilità hanno creato un panorama assai composito nel
quale non è impossibile notare la coesistenza di elementi
diversi. A una domanda di trasporto che segue come un’ombra la crescita economica, corrisponde sia una gestione dell’offerta che tende recentemente a scoraggiare l’uso di mezzi
di trasporto privati (nell’ottica della difesa dell’ambiente),
sia un’evoluzione della produzione dei mezzi di trasporto
che punta a renderli sempre più attraenti e confortevoli.
È auspicabile che il forte interessamento che le autorità pubbliche, sia a livello nazionale sia sovranazionale tramite
l’Unione europea, stanno dimostrando verso il settore dei
trasporti, porti a realizzare una politica per la mobilità che
riesca a risolvere le principali distorsioni che attualmente
275
Lei non sa chi sono io - L’AUTOMOBILE
caratterizzano il mondo della mobilità in Italia. Mentre i primi segnali di un tale percorso stanno consolidandosi, attraverso la diffusione progressiva di una cultura del mobility
management, risulta comunque difficoltoso riuscire a prevedere quali saranno i fattori determinanti che possono influire sull’evoluzione della mobilità in Italia, almeno a lungo termine.
Per quanto riguarda il breve termine, infatti, l’orizzonte temporale degli indirizzi di politica del settore elaborati a livello
europeo, uniti agli obblighi contratti con la ratifica del Protocollo di Kyoto, sono sufficienti per intravedere ciò che ci
aspetta: un impiego massiccio della tecnologia per trasformare il comparto dei trasporti in un sistema razionale, più
pulito, efficiente e caratterizzato da un alto livello d’integrazione delle modalità di spostamento. Le prospettive future
per il comparto dei trasporti in Europa, d’altronde, sono
abbastanza nette nell’affermare che vi sarà una crescita continua, seppur mitigata dalla diffusione di fonti energetiche
rinnovabili, del volume del trasporto merci e passeggeri
(Commissione europea 2003).
In particolare, sembra abbastanza plausibile l’adozione di
politiche di trasporto urbano largamente basate su un trasporto collettivo rinnovato e dotato di quelle caratteristiche
di flessibilità che hanno fatto il successo dell’automobile privata. Servizi di trasporto collettivo a domanda, car pooling
e car sharing, uniti tramite una gestione informatizzata ed
adattabile in tempo reale, si profilano come le soluzioni della mobilità in arrivo nel prossimo futuro (cfr. Viale 2007). Il
276
CONCLUSIONI
E LINEE DI TENDENZA PER IL FUTURO
futuro della “mobilità sostenibile”, a basso impatto ambientale in termini di emissioni inquinanti, oggi appare tuttavia
piuttosto incerto: secondo i dati Istat del 2007, tra il 1997 ed
il 2006 l’uso dell’automobile come mezzo di trasporto per
andare al lavoro in Italia è cresciuto, arrivando ad oltre il
75% nel 2006; al secondo posto vi è l’andare a piedi, modalità il cui uso è sceso all’11% nello stesso periodo; segue
l’uso di tram e bus, diminuito fino al 4%; quello di moto e
ciclomotori, cresciuto fino al 4%; quello della bicicletta, salito probabilmente ben oltre il 2% (l’uso della bicicletta è molto più elevato al nord – Bolzano è la città con la percentuale più alta, e molte delle città che la seguono sono nella pianura Padana – e scarso al sud, in ogni caso quasi ovunque
sempre al di sotto della media delle città del nord-Europa,
anche in termini di presenza di piste ciclabili; tuttavia, in
seguito al successo ed alla diffusione in diverse capitali europee – recentemente Barcellona e Parigi – del bike sharing,
attualmente si prevedono stanziamenti governativi in questa
direzione anche in Italia); troviamo poi l’uso del treno,
aumentato fino a ben oltre il 2%, e quello della metropolitana, già salito oltre l’1%. Al di là della loro attendibilità, tali
dati non risultano confortanti se si pensa alla somma di
auto, moto e parte dei bus. Nel brevissimo termine la realtà
pare ancora discostarsi dalle previsioni e dagli auspici.
Ciò non toglie il movimento in atto verso uno sforzo di
gestione che cerchi d’intervenire sulle componenti interne
della mobilità – l’uomo e le macchine – al fine di ottenere
benefici per quella esterna – l’ambiente. Manca, in tutto que277
Lei non sa chi sono io - L’AUTOMOBILE
sto apparato, una proiezione e una sensibilità sociale, nel
senso che gli aspetti sociali della mobilità sono considerati
solo degli obiettivi da raggiungere e non delle premesse dalle quali partire per costruire una politica per la mobilità.
Le tendenze a più lungo termine si mostrano, com’è naturale che sia, più ardue da individuare e, pertanto, ci si limiterà
qui a isolare quegli aspetti della società contemporanea che
sembrano più importanti per abbozzare uno schema della
possibile evoluzione futura del rapporto fra mobilità e società, espresso qui in termini generali e non con immediato riferimento alla situazione italiana.
Innanzitutto, sembra che, dopo circa un secolo di evoluzione tecnologica dei mezzi di trasporto, si possa azzardare
l’ipotesi per cui un fondamentale mutamento della mobilità
possa probabilmente realizzarsi all’esterno di essa. Si parte
infatti dall’assunto che l’automobile, il mezzo di trasporto
più importante e con alle spalle un’evoluzione tecnica e stilistica esasperata, non sia più il motore del mutamento della
mobilità, com’è accaduto ad esempio quando ha alimentato
l’affermarsi dei consumi di massa, ma piuttosto si adatti agli
stimoli esterni. Fra quest’ultimi, sembrano assumere un particolare rilievo la questione energetica e lo sviluppo delle
comunicazioni di massa e della telematica in generale.
La prima emerge in tutta la sua urgenza, considerando che il
“picco di Hubbert”, cioè il punto di massima produzione del
petrolio dopo il quale vi sarà l’esaurimento, viene situato nei
prossimi 20 anni, secondo le stime degli esperti del settore
(cfr. Studio ACI 2007). Pur prendendo con il beneficio del
278
CONCLUSIONI
E LINEE DI TENDENZA PER IL FUTURO
dubbio delle previsioni largamente viziate da speculazioni di
tipo politico e finanziario, è opportuno notare che la crescita dei consumi energetici e, in particolare, di quelli utilizzati
dal settore dei trasporti, è forte sia per i paesi ricchi sia per
quelli in via di sviluppo. In altre parole, se non sarà petrolio,
qualcos’altro si dovrà consumare, come dimostra l’aumento
recente di contratti ed accordi internazionali fra paesi produttori e paesi consumatori d’energia, tesi ad assicurare
livelli di fornitura adeguati.
Il cambiamento di paradigma energetico dunque ci sarà,
anche se è per adesso impossibile determinare in che direzione, sebbene si noti già una maggiore attenzione a questo
tema da parte dell’industria automobilistica mondiale, tramite la commercializzazione di modelli di automobile funzionanti con carburanti alternativi (Saab e Ford in Europa,
FIAT e Tata in Brasile). È ovvio che quando il mondo adotterà un sistema energetico differente il settore dei trasporti
sarà il primo ad esserne influenzato, in termini di mezzi di
trasporto e relativa tecnologia, nonché di modalità di produzione di distribuzione dell’energia stessa. Oggi i carburanti,
prima di rendere possibile il trasporto, sono merce da trasportare essi stessi, via mare e via terra: domani, una fonte
energetica la cui produzione e distribuzione fossero decentrate avrebbe un impatto notevole sulla mobilità.
Riepilogando, la tecnologia dei trasporti come oggi la conosciamo – ad esempio il motore a scoppio – è vecchia di un
secolo, potrebbe essere adattata a una nuova fonte d’energia
come esserne spazzata via per essere sostituita con un’altra.
279
Lei non sa chi sono io - L’AUTOMOBILE
In questo senso, l’evoluzione “interna” dell’attuale tecnologia della mobilità, per quanto sofisticata, non sembra poter
trainare l’evoluzione della mobilità.
L’altro fattore esterno, i sistemi di comunicazione di massa e
le tecnologie telematiche, potrebbe essere in grado di esercitare un’influenza maggiore sugli aspetti sociali del vivere,
tale da influenzare gli attuali stili di vita associati alla mobilità. Si può ipotizzare che la loro azione in favore di una stratificazione sociale attraverso la mobilità continuerà, almeno
fino a quando il processo di globalizzazione agirà e dispiegherà i propri effetti. Va notato, tuttavia, che il collegamento istantaneo globale di dati ed informazioni contiene in sé
non soltanto la promessa di stabilire le premesse di un trasporto fisico, ma anche quella di eliminarlo.
In altre parole, se la strada ha portato l’uomo a raggiungere
i luoghi, cioè ad espandere lo spazio annullando la distanza,
la simultaneità del collegamento globale può condurre i luoghi all’individuo. Per adesso, realtà quali il telelavoro non si
sono diffuse con la velocità e le conseguenze che in molti ipotizzavano all’inizio dell’avvento di Internet, ma è possibile
che lo faranno in futuro in modo più esteso. Già oggi, la
delocalizzazione di molti servizi informatici di aziende statunitensi in India, da molti analizzati per gli effetti sull’occupazione negli U.S.A., produce una minore mobilità globale,
tenendo conto che moltissimi ingegneri indiani non sono
dovuti emigrare per lavorare.
La sofisticazione tecnologica dei moderni sistemi di comunicazione di massa e la smaterializzazione che comporta, uni280
CONCLUSIONI
E LINEE DI TENDENZA PER IL FUTURO
te al fatto che attualmente i beni tendono ad essere erogati
come servizi e non come prodotti, ci induce a ritenere che vi
saranno mutamenti per quanto riguarda la mobilità di merci e persone. L’economia dell’accesso (cfr. Rifkin 2001), unita alla telematica che interconnette gli individui attraverso il
globo, può dare luogo a un modello di mobilità individuale
diverso, influenzato da lavoro, merci e servizi che si muovono e vanno verso l’individuo.
Si può ipotizzare che la trasformazione di ogni prodotto in
servizio produrrà un tipo di logistica diversa, necessariamente strutturata sui ritmi dei sistemi di comunicazione e quindi
più veloce di quella presente. Il paradigma dell’economia
dell’accesso, al contrario di quello della proprietà degli stessi, presuppone infatti un alto livello di accessibilità a beni e
servizi, coniugato a una disponibilità degli stessi diffusa nel
tempo e nello spazio.
Questa tendenza è già visibile attualmente, se consideriamo
come il processo di destrutturazione e di destandardizzazione dei tempi sociali e privati abbia portato a una frammentazione degli orari di lavoro e di svago. L’estensione delle
attività umane su un più lungo arco temporale sembra un
processo inarrestabile, oltre che progressivamente esteso a
livello planetario con l’ingresso di nuovi Stati nel sistema
economico mondiale. Tutto ciò si riflette e si rifletterà inevitabilmente sul sistema dei trasporti e sulle modalità relative
alla mobilità, come dimostra la crescente imprevedibilità della mobilità contemporanea, caratterizzata da un’alta erraticità e dal crescere degli spostamenti non legati ai tempi
281
Lei non sa chi sono io - L’AUTOMOBILE
sociali predefiniti (orario di lavoro). In sintesi, la proiezione
delle tendenze attuali sul lungo termine ci indicano come siano all’opera forze in grado di portare sia a una crescita del
trasporto – l’aumento dell’interdipendenza dei commerci
mondiali – sia a una sua riduzione – il telelavoro. Se risulta
impossibile capire quale delle due sia destinata a prevalere,
ci sembra comunque opportuno rilevare due aspetti essenziali per completare il quadro di questa previsione: l’effetto dei
costi di trasporto ed il crescente coinvolgimento della società nella definizione della politica dei trasporti. Il primo è
ovviamente legato all’aspetto energetico e tecnologico, nondimeno la sua influenza sulle modalità di trasporto è innegabile e può condurre a due scenari: se il costo dei trasporti,
così come quello dei mezzi di trasporto, scenderà, si può ipotizzare un tipo di mobilità assai simile a quella attuale, sia
nelle modalità che nella struttura; se esso, invece, aumenterà, è molto probabile che si assisterà a un decisivo passaggio
a modalità di trasporto di tipo collettivo.
Il secondo aspetto, quello sociale, è emerso nelle società occidentali ed in quella italiana in tempi recenti e promette di
diventare un elemento strutturale della politica dei trasporti.
Lasciando da parte i casi più estremi e simbolici della cosiddetta “sindrome NIMB (Not In My Backyard)”, il coinvolgimento crescente della società nella definizione della politica dei trasporti lascia intendere che nessuna decisione possa
ormai esser presa ignorando il giudizio degli utenti e degli
stakeholders.
Si tratta di un ulteriore segnale del forte rapporto, quasi
282
CONCLUSIONI
E LINEE DI TENDENZA PER IL FUTURO
organico, che lega sempre più l’evoluzione della società a
quella della mobilità. Essere è muoversi, e viceversa.
Da questa semplificazione ne discende che gli aspetti sociali
e culturali possono trovare nella pianificazione della mobilità il ruolo che fino a poco tempo fa è stato loro negato.
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Lei non sa chi sono io - L’AUTOMOBILE
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290
Lei non sa chi sono io - L’AUTOMOBILE
INDICE
PREFAZIONE
Pag. 5
INTRODUZIONE
7
PARTE PRIMA
UN SECOLO DI EVOLUZIONE LEGISLATIVA
I - L’ERA DELL’AUTOMOBILE
La nascita dell’automobile
16
Verso le prime norme
sulla circolazione stradale
20
Mano da tenere nel regolamento
del 1905 e successivi testi normativi
28
I tentativi di aggirare le norme
da parte dei “prepotenti del potere”
31
La nascita dei cartelli stradali
33
II - I PRIMI CODICI DELLA STRADA
Il primo Codice della Strada
37
Il P.R.A.
44
291
Lei non sa chi sono io - L’AUTOMOBILE
Brevi cenni sulla ratio delle norme
del Codice della Strada del 1928
48
La velocità: sotto l’impero delle
vecchie Leggi e del Codice del 1928
52
Lineamenti del Codice della Strada
del 1933 e disciplina del segnalamento
acustico degli autoveicoli
56
Segnalamento visivo dei veicoli a trazione animale
61
III - IL CODICE DELLA STRADA DEL 1959
Dagli scontri bellici a quelli dialettici
in commissione: la lunga procedura
che portò al Codice del 1959
67
La velocità dei veicoli e il sorpasso
79
Le porzioni di terra, di determinata
lunghezza e larghezza… la strada negli anni 50
86
“L’età dell’oro” delle autostrade
91
La responsabilità civile auto
96
IV - IL CODICE DEL 1992
“Humus” alla base dell’evoluzione
giuridica della legislazione stradale negli anni 90
101
La peculiare natura del nuovo testo
103
292
Lei non sa chi sono io - L’AUTOMOBILE
Le disposizioni particolari
106
Il nuovo quadro dei poteri in materia
di circolazione stradale
109
Dal 1992 ad oggi: un bisogno costante
di interventi normativi
109
Velocità massima
111
L’automobile del futuro
113
PARTE SECONDA
UN SECOLO DI EVOLUZIONE SOCIALE
V - LA MOBILITÀ DALL’UNITÁ D’ITALIA AL 1919
Quadro generale e delle infrastrutture
118
Mezzi e modalità di trasporto
123
Mobilità e società
126
VI - LA MOBILITÀ DAL FASCISMO AL 1945
Quadro generale e delle infrastrutture
140
Mezzi e modalità di trasporto
144
Mobilità e società
147
293
Lei non sa chi sono io - L’AUTOMOBILE
VII - LA MOBILITÀ DAL 1945
ALLA CRISI PETROLIFERA
Quadro generale e delle infrastrutture
165
Mezzi e modalità di trasporto
182
Mobilità e società
202
VIII - LA MOBILITÀ DAL 1973
AI GIORNI NOSTRI
Quadro generale
221
Le infrastrutture per la mobilità
226
Mezzi e modalità di trasporto
236
Mobilità e società
244
La questione ambientale
251
La questione della sicurezza
261
CONCLUSIONI E LINEE
DI TENDENZA PER IL FUTURO
273
BIBLIOGRAFIA
284
294
Finito di stampare nel mese di novembre 2009 per conto della
Fondazione Filippo Caracciolo - e-mail: fondazione.caracciolo@aci-it
Progetto grafico e impaginazione Sumarte
Stampa Tipografia Iannetta
… L’idea era quella di raccontare agli italiani la storia di un Paese attraverso quello che è stato e che
resta uno dei simboli più importanti del’900. Quindi
di ripercorre l’evoluzione dell’automobile, fino ad
arrivare agli anni in cui il settore dell’auto diventa
la più grande impresa industriale del nostro Paese.
Per poi trovarsi, nell’ultimo periodo, nel mezzo di
una crisi globale. […]
Tra le pagine, procedono di pari passo l’evoluzione
del motore a scoppio e quella dell’Italia. Abbiamo
voluto raccontare una storia, per far capire che
c’è voluto un secolo per arrivare all’automobile di
oggi … (dall’“Automobile”- giugno 2009)
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