Senago 2011
«VATTENE DALLA TUA TERRA»
In cammino verso la fraternità
Luca Moscatelli
introduzione
Dio parla… Ma come si fa parola? E soprattutto: come questa parola arriva a riguardare
ciascuno di noi? Nella rivelazione biblica Dio parla attraverso l’esistenza concreta di
persone che hanno saputo ascoltare la sua «voce invisibile, annidata nel più segreto di
ogni creatura» (Catherine Charlier, Le matriarche). Se queste esistenze ci parlano ancora
oggi è perché in esse, se lo vogliamo, riconosciamo qualcosa di quella «voce» che si
annida anche in noi. Ma la sorpresa è che per rivelarsi Dio non ha scelto «luoghi» eccelsi,
per noi inarrivabili: gli eletti attraverso i quali Egli ha parlato sono state assai spesso
persone normali, a volte perfino mediocri o addirittura scadenti. E la loro esperienza viene
narrata proprio perché essa possa diventare anche la nostra esperienza. La grandezza di
questi testimoni è stata soprattutto quella di aver saputo ascoltare e accogliere il Dio che,
nonostante le loro pochezze, li chiamava e affidava loro un compito (per lo più quasi
incredibile, almeno all’inizio). Condotti dal Signore, hanno anche capito che quanto nel
frattempo accadeva non era qualcosa che riguardava soltanto la loro esistenza, ma
serviva alla benedizione di molti altri.
Accosteremo, sia pure assai brevemente, alcune di queste figure grati per la
misericordiosa condiscendenza di Dio che si manifesta nella loro vicenda. «Dio [infatti] –
scrive Enzo Bianchi – è sempre il Dio di qualcuno. Il nostro Dio, il Signore al quale
aderiamo e che amiamo senza averlo visto e senza poter adesso fissare lo sguardo in lui
(1 Pietro 1,8), è anzitutto il Dio di altri: il Dio di Abramo, di Mosè, di Elia, di Giovanni il
Battezzatore, di Maria, di Pietro, di Paolo… E’ il Dio dei nostri padri e delle nostre madri…,
il Dio che assume un nome in riferimento a coloro che egli chiama fino a quasi
nascondersi dietro il nome dei suoi eletti… Allora prima di essere il “mio Dio” è il Dio di altri
e io non posso conoscerlo senza ascoltare le parole già rivolte agli eletti, senza ascoltare
ciò che questi hanno raccontato di lui avendolo ascoltato». La promessa del nostro
itinerario, che è davvero una «buona notizia», è questa: leggendo di questi testimoni
potremo fare un po’ nostra la loro intimità con il Signore.
Due rapide premesse, importanti per capire il senso dei nostri incontri. La prima riguarda
le caratteristiche delle narrazioni bibliche. In generale la narrativa antica rispetto a quella
moderna è meno psicologica (più attenta all’azione) e più tipizzante (meno attenta alla
singolarità dell’esperienza). Nella bibbia, tuttavia, per esempio rispetto a Omero, la
caratterizzazione del personaggio è piuttosto opaca, meno diffusa, molto concentrata,
reticente, non fissa (Ulisse non cambia, Giacobbe sì; Ulisse ritorna a casa, Giacobbe è
nomade…), con il risultato di fornirci ritratti tendenzialmente molto più complessi. Il modo
in cui viene narrato il personaggio biblico, insomma, rispetto alla letteratura greca è
inferiore in accuratezza ma assai superiore in realismo. Perciò è più fedele alla
complessità della storia e della persona. Proprio per questa fedeltà alla realtà la tensione
drammatica della narrazione si fa enorme: una storia singolare eleva una pretesa inaudita
verso il lettore, per quello che esige da lui (conversione) e insieme e soprattutto perché
narra una vicenda che potrebbe essere la sua. Io potrei addirittura essere Abramo, Elia,
Pietro, ecc… Il risultato è l’offerta del sublime nel quotidiano, o addirittura l’esaltazione a
sublime del quotidiano (che resta tale). La caratterizzazione antieroica del personaggio
biblico è visibile ovunque nel testo. La costituzione di questi personaggi è «modesta»; ma
proprio per questo essi sono archetipi della fede per tutti.
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La seconda premessa riguarda la pista di ricerca che cercheremo di esplorare. Il modo in
cui questi personaggi vengono «configurati» fa emergere tratti comuni. In particolare,
l’incontro che essi fanno con Dio li fa uscire (esodo) e li colloca in una situazione di
itineranza (cammino). L’abbandono del padre e della madre (che vale da Adamo ai
discepoli di Gesù), il nomadismo, l’esperienza di essere stranieri e il confronto con genti
straniere, accomuna praticamente tutte le figure bibliche e rappresenta insieme l’effetto
dell’incontro con Dio e il luogo della rivelazione di tratti sempre sorprendenti del volto del
Padre. Per questo cammino – durante il quale viene a loro donato un nuovo sguardo sugli
altri, su Dio e su se stessi – giungono alla consapevolezza sempre più profonda di essere
figli di un unico Padre, e così fratelli di tutti, anche di coloro che appaiono lontani, segnati
come sono da una grande distanza rispetto alla loro esperienza. E’ questa la condizione
affinché da essi «passi» la benedizione di Dio su tutti coloro che incontrano e che in molti
modi ricordano agli eletti il loro privilegio e insieme il loro compito.
Sempre l’itineranza in Dio è anche e strutturalmente scuola di solidarietà. Nei due sensi
della relazione: solidarietà ricevuta e solidarietà offerta. Con una precisazione però: la
resistenza degli eletti a riconoscere la fraternità che li pone in relazione con tutti viene
superata anche e non marginalmente grazie all’offerta gratuita della solidarietà da parte di
alcuni di questi «stranieri». E’ questa offerta a condurli a comprendere ciò che il Dio
Creatore e Padre di tutti voleva da loro fin dal suo primo incontro, cioè che i suoi eletti
diventassero occasione di benedizione per «tutte le famiglie della terra» ovvero rivelazione
di una «parentela» universale.
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1.
ABRAMO A GERAR
1
Abramo levò le tende, dirigendosi nella regione del Negheb, e si stabilì tra Kades e Sur; poi soggiornò
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come straniero a Gerar. Siccome Abramo aveva detto della moglie Sara: "È mia sorella", Abimèlec, re
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di Gerar, mandò a prendere Sara. Ma Dio venne da Abimèlec di notte, in sogno, e gli disse: "Ecco,
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stai per morire a causa della donna che tu hai preso; lei appartiene a suo marito". Abimèlec, che non
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si era ancora accostato a lei, disse: "Mio Signore, vuoi far morire una nazione, anche se giusta? Non
è stato forse lui a dirmi: "È mia sorella"? E anche lei ha detto: "È mio fratello". Con cuore retto e mani
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innocenti mi sono comportato in questo modo". Gli rispose Dio nel sogno: "So bene che hai agito così
con cuore retto e ti ho anche impedito di peccare contro di me: perciò non ho permesso che tu la
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toccassi. Ora restituisci la donna di quest'uomo, perché è un profeta: pregherà per te e tu vivrai. Ma
se tu non la restituisci, sappi che meriterai la morte con tutti i tuoi".
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Allora Abimèlec si alzò di mattina presto e chiamò tutti i suoi servi, ai quali riferì tutte queste cose, e
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quegli uomini si impaurirono molto. Poi Abimèlec chiamò Abramo e gli disse: "Che cosa ci hai fatto? E
che colpa ho commesso contro di te, perché tu abbia esposto me e il mio regno a un peccato tanto
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grande? Tu hai fatto a mio riguardo azioni che non si fanno". Poi Abimèlec disse ad Abramo: "A che
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cosa miravi agendo in tal modo?". Rispose Abramo: "Io mi sono detto: certo non vi sarà timor di Dio
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in questo luogo e mi uccideranno a causa di mia moglie. Inoltre ella è veramente mia sorella, figlia di
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mio padre, ma non figlia di mia madre, ed è divenuta mia moglie. Quando Dio mi ha fatto andare
errando lungi dalla casa di mio padre, io le dissi: "Questo è il favore che tu mi farai: in ogni luogo dove
noi arriveremo dirai di me: è mio fratello"".
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Allora Abimèlec prese greggi e armenti, schiavi e schiave, li diede ad Abramo e gli restituì la moglie
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Sara. Inoltre Abimèlec disse: "Ecco davanti a te il mio territorio: va' ad abitare dove ti piace!". A
Sara disse: "Ecco, ho dato mille pezzi d'argento a tuo fratello: sarà per te come un risarcimento di
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fronte a quanti sono con te. Così tu sei in tutto riabilitata". Abramo pregò Dio e Dio guarì Abimèlec,
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sua moglie e le sue serve, sì che poterono ancora aver figli. Il Signore, infatti, aveva reso sterili tutte
le donne della casa di Abimèlec, per il fatto di Sara, moglie di Abramo. (Genesi 20)
Itineranza
L’itineranza caratterizza molte delle grandi figure bibliche. Tutte? Sembrerebbe di sì e
sarebbe assai interessante eseguire una verifica. In ogni caso il dato è talmente
macroscopico che si impone come elemento necessario per la riflessione.
Verrebbe da pensare che si tratta di un elemento strutturale della fede. Se così fosse, non
si darebbe esperienza credente senza una qualche forma di itineranza. Questa
constatazione sembra possa valere anche per la vita umana in generale: quando
incontriamo la realtà (degli altri, del mondo, di Dio…) essa interpella, chiama fuori, spinge,
mette in movimento. Inevitabilmente. Uscire, muoversi, itinerare, cercare, sono dunque
modi fondamentali dell’umanizzazione.
La rivelazione di Dio nella storia di Israele, e poi soprattutto nella vicenda di Gesù e della
sequela dei suoi discepoli, mostra come il Signore stesso sia itinerante, in movimento
verso di noi e con noi. E’ quello che chiamiamo struttura «esodica» (o «esodale») della
vita e della fede, una struttura che non riguarda solo noi in quanto uomini, ma che appunto
riguarda anche Dio in quanto «persona». Diventare persona, cioè esistere come relazione,
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presuppone l’uscita da sé per incontrare l’altro. E questo vale per gli uomini non solo né
soprattutto perché sono esseri limitati, ma in quanto sono «immagine» di Dio. E’ Lui il
primo che – se così si può dire – per incontrare l’altro esce da se stesso. Il vivere autentico
è dunque esperienza (esperire = andare da e attraverso, viaggiare) e quindi al suo inizio, e
poi ancora molte volte lungo il cammino, la vita è caratterizzata appunto dall’uscire,
dall’attraversare, dall’oltrepassare.
Uscire da cosa? L’evento fondatore dell’esodo dice «uscita dalla schiavitù», dal peccato,
dall’ignoranza di Dio e degli altri… Tuttavia, più a monte, uno dei tratti che emerge dalle
figure che prenderemo in considerazione mostra una sorprendente costante: l’incontro con
Dio chiede l’emancipazione (l’«abbandono») del «padre» (e della «madre»), chiede di
prendere le distanze dal proprio ideale di paternità (di maternità) come movimento
necessario alla libertà di sé e degli altri. Chiede insomma una presa di distanza dai legami
che ci hanno dato un inizio, in un certo senso anche dal legame con il Creatore, come
movimento necessario alla verità dell’incontro / degli incontri che assegnano un senso
(una direzione) alla vita. Questo movimento è necessario per poter incontrare davvero
altre persone, ma anche per riuscire a ritrovare nuovamente quelle che ci hanno generato.
L’itineranza non assume il suo carattere peculiare nel tempo senza passare anche
attraverso momenti di «erranza». E’ una ricerca, e come tale essa ha momenti di blocco,
smarrimento e anche regressione. Soprattutto in questi momenti sono le «presenze
fraterne» che incontriamo (sorta di «angeli», spesso inconsapevoli della loro «missione»)
a riorientare il nostro cammino:
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I suoi fratelli erano andati a pascolare il gregge del loro padre a Sichem. Israele disse a Giuseppe:
"Sai che i tuoi fratelli sono al pascolo a Sichem? Vieni, ti voglio mandare da loro". Gli rispose:
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"Eccomi!". Gli disse: "Va' a vedere come stanno i tuoi fratelli e come sta il bestiame, poi torna a
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darmi notizie". Lo fece dunque partire dalla valle di Ebron ed egli arrivò a Sichem. Mentre egli si
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aggirava per la campagna, lo trovò un uomo, che gli domandò: "Che cosa cerchi?". Rispose: "Sono
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in cerca dei miei fratelli. Indicami dove si trovano a pascolare". Quell'uomo disse: "Hanno tolto le
tende di qui; li ho sentiti dire: "Andiamo a Dotan!"". Allora Giuseppe ripartì in cerca dei suoi fratelli e li
trovò a Dotan. (Genesi 37)
Sempre l’itineranza è in qualche modo allontanamento dalla paternità e ricerca / cura della
fraternità. Un allontanamento necessario anche, e forse soprattutto, per comprendere Dio;
o quanto meno per equivocare il meno possibile il suo volto. E’ facile per noi pensare male
di Dio. Il sospetto che Egli ci tenga sottomessi impedendoci di prendere quello che pure
appare a portata delle nostre mani, e addirittura il desiderio di prendere il suo posto
emancipandoci dalla nostra «minorità» (cf Genesi 3: «sarete come Dio» suggerisce il
serpente), costituisce il nostro «peccato originale». Che consiste nell’«uccidere» Dio: o
perché cerchiamo di prendere il suo posto; oppure perché gli assegniamo il posto di un
Padre-padrone (dove Lui, il Dio vero, non c’è). In entrambi i casi consegniamo il volto di
Dio alle peggiori immagini della paternità e il nostro prossimo alla figura di avversario,
giacché ci ritroviamo a fare una gara «mortale» per conquistarci il favore del Padrepadrone. Allontanarsi da questa paternità (che però è quella che abbiamo in cuore da
sempre) è il cammino da fare per ritrovare i tratti sorprendenti della autentica paternità di
Dio. La possibilità di vedere finalmente nell’altro un «fratello» dipende strettamente da
questo cammino. E d’altra parte trovare qualcuno che ci offre la sua fraternità pur non
essendo dei nostri è la indispensabile occasione per riavviare la nostra itineranza.
Nelle figure bibliche l’itineranza si attiva / si riattiva, o più spesso c’è già e allora prende il
suo orientamento decisivo – senza che questo comporti automaticamente da quel
momento in avanti alcuna continuità lineare – a partire da un particolare incontro con Dio o
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con un suo mediatore. Tale momento può collocarsi all’inizio di una vicenda. Ma per quello
che si legge nella Bibbia quasi sempre si dà in età adulta, a volte addirittura verso la fine di
un’esistenza (vedi per esempio l’incontro tra Simeone e il neonato Gesù al Tempio: Luca
2,25ss). Sempre implica «uscite» (separazioni e liberazioni) che, ora più ora meno,
suscitano resistenze.
In radice l’itineranza è allora «luogo» (più propriamente movimento) di rivelazione: di Dio,
degli altri, di sé. Personaggi diversi realizzano itineranze diverse. L’elemento personale è
sempre decisivo. La mediazione della libertà infatti è indispensabile e sempre rispettata,
anche se questo non comporta necessariamente, a fronte delle resistenze umane, la
mancanza assoluta di qualche insistenza / forzatura da parte di Dio. In ogni caso è
l’autorizzazione di Dio a imprimerle la sua peculiarità storico-salvifica.
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Nella fede morirono tutti costoro, senza aver ottenuto i beni promessi, ma li videro e li salutarono
solo da lontano, dichiarando di essere stranieri e pellegrini sulla terra. (Ebrei 11)
E’ determinante per l’itineranza che se ne colga la «figura» dietro la narrazione. In altri
termini essa potrà istruire la nostra esperienza di vita e di fede solo se se ne coglie la
valenza spirituale. «Spirituale» non vuol dire però disincarnato, astratto. Tanto meno
indica qualcosa di vago. Anzi, secondo la peculiarità ebraico-cristiana dell’esperienza dello
Spirito l’itineranza non potrà mai prescindere da un qualche muoversi effettivo.
Abramo e l’incontro con Dio
1
Il Signore disse ad Abram:
"Vattene dalla tua terra [Vai a te stesso, via dalla tua terra],
dalla tua parentela
e dalla casa di tuo padre,
verso la terra che io ti indicherò.
2
Farò di te una grande nazione
e ti benedirò,
renderò grande il tuo nome
e possa tu essere una benedizione.
3
Benedirò coloro che ti benediranno
e coloro che ti malediranno maledirò,
e in te si diranno benedette
tutte le famiglie della terra". (Genesi 12)
Abramo è il primo ad essere chiamato a una storia personale di alleanza con Dio e la sua
esistenza, dal momento della chiamata, prende la forma dell’itineranza. Tuttavia in un altro
senso, che si mostra se siamo attenti al contesto e poi alla narrazione stessa della sua
vicenda, egli non rappresenta un inizio assoluto né della fede né dell’itineranza. Da una
parte i racconti che precedono il ciclo di Abramo (Genesi 1-11) attestano infatti che la fede
di Israele vedeva con molta chiarezza la possibilità di una relazione con il Signore nella
forma di un cammino anche prima e al di fuori dell’esperienza degli eletti (cf Noè: «Questa
è la storia di Noè. Noè era uomo giusto e integro tra i suoi contemporanei e camminava
con Dio», Genesi 6,9). Dall’altra parte sarà proprio attraverso il suo «andarsene» e gli
incontri con figure di credenti che questo andare renderà possibili che Abramo imparerà a
dare un senso preciso alla sua elezione e alla funzione benedicente di essa per molti altri
e anche per sé. Perciò il suo sarà un «andare verso se stesso» se e perché sarà un
andare verso altri.
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«Vattene… dalla casa di tuo padre»
Per quale motivo la parola del Signore si rivolga ad Abramo è un mistero, il mistero della
sua libera elezione. Potremmo pensare che Dio abbia scelto lui perché era il migliore, ma i
testi non sostengono questa ipotesi. Anzi, una lettura agiografica della vicenda di Abramo
– come di tutto il libro degli inizi, cioè la Genesi – ci fa perdere una delle cose più
sorprendenti che ci vuole rivelare: Dio non sceglie il primo, e neppure il migliore; e la sua
scelta non porta l’eletto ad essere il primo, e neppure il migliore.
Non possiamo sapere perché Dio abbia scelto Abramo. Possiamo solo essere incuriositi
da questa scelta e stare a guardare come se la caverà il nostro uomo alle prese con il
Signore. Quello che è possibile invece constatare subito è come questa chiamata metta in
movimento il patriarca. Non solo lo fa muovere, ma gli chiede esplicitamente di andare:
«Vattene…verso il paese che io ti indicherò», dice il Signore, e «Abramo partì…verso il
paese di Canaan». Questo movimento è in prima battuta uno spostamento geografico «dal
tuo paese verso il paese che io ti indicherò». Tuttavia il fatto che esso implichi l’abbandono
di «paese / patria / casa di tuo padre» denota come tale movimento sia insieme spaziale
ed esistenziale. A settantacinque anni inizia per Abramo una nuova vita, e in questo senso
si tratta davvero di un inizio. Ma l’emancipazione dal «padre» non si realizzerà per Abramo
se non verso la fine della sua vita. Quel «vattene…dalla casa di tuo padre» che si ode
all’inizio è come un programma di vita, il programma di una liberazione dall’ossessione
che Abramo porta fin nel nome1: quello della paternità. Solo così egli potrà sperimentare la
benedizione di Dio: per sé e per molti altri (il testo dice addirittura tutti gli altri), anzi per sé
solo attraverso e con molti altri.
Abramo, come tutti noi, è preceduto da una storia, cioè ha un’ascendenza, che ci dice
qualcosa di importante per capire anche la grande novità che a questo punto segna la sua
vita. Il testo di Genesi 11 recita così:
27
Questa è la discendenza di Terach: Terach generò Abram, Nacor e Aran; Aran generò Lot.
Aran poi morì alla presenza di suo padre Terach nella sua terra natale, in Ur dei Caldei.
29
Abram e Nacor presero moglie; la moglie di Abram si chiamava Sarài e la moglie di Nacor
Milca, che era figlia di Aran, padre di Milca e padre di Isca. 30Sarài era sterile e non aveva
figli. 31Poi Terach prese Abram, suo figlio, e Lot, figlio di Aran, figlio cioè di suo figlio, e Sarài
sua nuora, moglie di Abram suo figlio, e uscì con loro da Ur dei Caldei per andare nella terra
di Canaan. Arrivarono fino a Carran e vi si stabilirono. 32La vita di Terach fu di
duecentocinque anni; Terach morì a Carran. (Genesi 11)
28
Cosa lascia Abramo quando parte da Carran? Non suo padre che è già morto. Lascia una
«patria» che per altro è la sua seconda patria. Ma quello che più importa è che in questa
partenza viene ripreso – autorizzato da Dio – un vecchio progetto del padre Terach che
non aveva trovato realizzazione. Abramo vuole dunque fare meglio di suo padre, ma in
continuità con il progetto di lui. Partendo, poi, prende con sé tutto quello che Terach aveva
portato a Carran durante la prima migrazione. Il meno che si può dire di questa famiglia è
che è un po’ chiusa su un progetto patriarcale (ereditario!) che ogni volta cerca la sua
realizzazione anche a costo di perdere per strada i pezzi che non si adeguano all’ideale
(Nacor, un figlio!).
Per stanare Abramo Dio gli promette quello che lui desidera e che in famiglia sembra
sempre un po’ scarseggiare: la benedizione, cioè la fecondità, la vita. E insieme promette
1
Ab-ram, padre innalzato.
7
che così troverà se stesso. E’ inevitabile che Abramo partendo in prima battuta abbia
compreso il progetto di Dio secondo le coordinate della sua storia e del suo desiderio
attuale, che non è sbagliato, ma che andrà educato dall’itineranza stessa. Parte per
Canaan, ma nelle parole del Signore si ascoltava solo di un «paese che io ti indicherò».
Nonostante questa indeterminazione della meta, quando parte Abramo sa esattamente
dove andare perché, per lui, la destinazione «naturale» di una migrazione non può che
essere quella.
Appena arrivato in Canaan, tuttavia, quello che sperimenta è la fame:
10
Venne una carestia nella terra e Abram scese in Egitto per soggiornarvi, perché la carestia gravava
su quella terra. (Genesi 12)
La terra si mostra poco ospitale e Abramo deve ripartire per sopravvivere. Va in Egitto
«per soggiornarvi», non certo per starci qualche giorno. Pensa forse che il «paese che io ti
indicherò» sia ora l’Egitto? Verrà cacciato dal faraone per il noto fatto della sposa-sorella.
Quel che si vede è che seguire la promessa di Dio non risparmia ad Abramo la lotta per la
vita. La fiducia viene subito messa alla prova e la liberazione propone un’assai difficile
libertà. Ma Abramo non esiterebbe a dare anche la moglie pur di salvare la sua speranza
in un futuro di «padre innalzato». Dio gli dovrà ricordare, e non una volta soltanto, che la
promessa non potrà realizzarsi senza Sara. Non si genera un figlio senza una madre, e
quella madre dovrà essere Sara. Abramo dovrà imparare che il figlio che avrà non sarà
«suo», ma gli sarà donato.
Incontri sorprendenti lungo la strada
E’ proprio l’itineranza a educare Abramo. Ma ci vorranno più incontri e molto tempo
giacché l’idea da scalzare è potente nella sua ovvietà e quella nuova è troppo «strana». Mi
fermo su due di questi incontri, sul primo brevemente, sul secondo un po’ più a lungo.
Melchisedek
17
Quando Abram fu di ritorno, dopo la sconfitta di Chedorlaòmer e dei re che erano con lui, il re di
18
Sòdoma gli uscì incontro nella valle di Save, cioè la valle del Re. Intanto Melchìsedek, re di Salem,
19
offrì pane e vino: era sacerdote del Dio altissimo e benedisse Abram con queste parole: "Sia
20
benedetto Abram dal Dio altissimo, creatore del cielo e della terra, e benedetto sia il Dio altissimo,
che ti ha messo in mano i tuoi nemici". Ed egli diede a lui la decima di tutto. (Genesi 14)
Che Abramo sia benedetto lo vedono prima di tutto altri. Qui si tratta di qualcuno che, pur
non essendo l’eletto, misteriosamente conosce Dio e ne riconosce la traccia nel suo
uomo.
Abimèlech
Per apprezzare appieno la portata di questo episodio occorre sapere che siamo verso la
fine del cammino di Abramo. Quello che era avvenuto appena all’inizio in Egitto (Sara fatta
passare per sorella) si ripete ora dopo molto tempo. Per la seconda volta l’itineranza di
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Abramo mette a rischio Sara. Eppure a questo punto del suo cammino Abramo ha ricevuto
la promessa di un figlio dai tre viandanti (e forse Sara a Gerar è già incinta!), ha
interceduto per Sodoma e soprattutto dei sette incontri ravvicinati che Dio regala al suo
eletto ne sono già stati narrati ben sei.
Anche Abimèlech, come Melchisedek, si rivela un giusto. Lo dobbiamo dire: più giusto di
Abramo. Interessa qui sottolineare due elementi. Il primo è lo scetticismo di Abramo: egli
non crede che ci possa essere timor di Dio presso gli «stranieri» che incontra. Si dovrebbe
parlare, come del resto abbastanza esplicitamente fa il testo citato verso la fine, di paura.
L’itineranza mette di fronte all’altro, al diverso, a ciò che non può essere inquadrato nel
riferimento al noto. In questo senso l’altro può destare timore, e se questo timore non
viene controllato provoca paura. La paura, poi, è proiettiva, partorisce fantasmi. Abramo
parla al futuro di molti mali (cf 20,11) per giustificare il suo comportamento. Mali che
avrebbero potuto venire ma che non c’era una ragione stringente per immaginare che
senz’altro sarebbero accaduti. E’ stata la paura a produrre questa immaginazione. La
paura è il contrario della speranza. Se si va verso l’altro con paura esso apparirà
inevitabilmente come avversario / nemico. Se invece ci si apre all’altro animati dalla
speranza (dalla fiducia, dall’amore) esso appare nella luce favorevole di un possibile
prossimo / amico. Certo, per un eccesso di speranza qualche volta ci si può illudere a
proposito degli altri. Ma per un eccesso di paura li si giudica male e assai spesso si
sbaglia, perdendo così occasioni preziose.
Abramo non ha fiducia nella coscienza altrui e non ha ancora accolto nel suo progetto il
ruolo di Sara. A queste condizioni la benedizione di Dio non può certo passare. Tuttavia,
dichiarando la sua sfiducia ammette l’errore? Sta forse imparando quella umiltà che sola
permette di «vedere» le tracce di Dio nella storia, anche laddove pensiamo non ce ne
possano essere? Incomincia forse a comprendere che il Dio con il quale si è impegnato
non è (quasi) mai dove dovrebbe essere e che è assai più nomade di lui? Proprio qui
riaffiora quanto Abramo ancora non abbia lasciato la «casa di suo padre». Per lui
allontanarsi da quella casa vuole ancora dire «errare lontano», ma insieme significa voler
mantenere un progetto patriarcale che esige la sua salvezza, anche a costo di perdere
Sara. Il padre è lui; in mancanza di Sara (sterile!) un’altra madre si troverà (come è già
accaduto con la schiava Agar, dalla quale ha avuto Ismaele). Insomma, sta camminando
in avanti ma continua a guardare indietro.
La cosa più impressionante, però, è che Dio nonostante tutto questo, pur riconoscendo
l’onestà di Abimèlech, dica al re di Gerar che la maledizione che lo ha colpito potrà essere
allontanata soltanto dall’intercessione di Abramo. Lo chiama profeta e non ritira la sua
elezione anche se Abramo si è mostrato indegno di essa. Abramo, pur nel torto, si trova a
pregare per coloro che riteneva esclusi dalla prossimità di Dio. Così è spinto ad amarli, a
chiedere il loro bene (e quindi a volere bene). E Dio prontamente lo ascolta, mostrando
così quanto ami sia il suo eletto che la gente di Abimèlech. Anche in questo modo Dio
educa («e-duca» = conduce fuori) Abramo, e semina benedizione attraverso di lui.
Lasciare cosa?
Lasciare cosa? Andarsene da che cosa? Abramo deve abbandonare il suo progetto di
paternità (e Sara quello di maternità, poiché con Agar e Ismaele anche lei ha dato
pessima prova di sé) per evitare di proiettare su Dio la sinistra immagine del padrepadrone e per permettere finalmente l’incontro degli altri come fratelli e non come nemici
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(o «stranieri», avvertiti sempre, almeno in prima battuta, come potenzialmente ostili). Deve
riconoscere che la sua vocazione alla paternità è chiamata ad essere un inizio, non
l’origine; cura e servizio, non dominio. Abramo – come tutti noi – non crea, riceve in dono.
Come Adamo con il giardino, gli animali, la donna: li nomina ed è chiamato a prendersene
cura con regalità, ma non li crea. Li riceve in dono. E se se ne appropria al punto da
diventarne il padrone che può farne quello che vuole, tradisce la sua stessa costituzione:
neppure di sé Abramo ha potuto fare quello che voleva. Neppure Dio, per altro, fa di
Abramo quello che vuole. Non gli sta addosso continuamente, non lo «lega», lo lascia
andare.
Perché si arrivi a comprendere questa buona immagine di padre, Dio alla fine mette alla
prova Abramo chiedendogli in sacrificio il figlio Isacco. Per cancellare dal cuore del suo
uomo l’immagine crudele di un Dio che vuole il sangue dei figli il Signore decide per un
momento di abitarla (P. Beauchamp).
Abramo si trova in realtà a sacrificare la sua paternità. Ma non nel senso che l’uccisione di
Isacco lo condurrebbe a non essere più padre, giacché uccidere il figlio non farebbe che
confermare la peggiore immagine di Dio e di Abramo (non si mostra tanto più «padre» chi
può esercitare sul figlio un diritto di vita e di morte?). Piuttosto nel senso che, uccidendo al
posto del figlio un ariete (non un agnello che è il figlio della pecora, bensì un ariete che è il
padre della pecora) e lasciando andare Isacco riconosce insieme che è Dio a dare la vita e
che lui non ha potere sul figlio.
Sembra scendere dalla montagna da solo. Ormai il figlio è andato, libero di seguire la sua
strada. E Abramo è libero dall’ossessione della paternità (che è l’ossessione della propria
personale permanenza, l’ossessione della «famiglia» come identità, e molto altro ancora)
Abramo può finalmente diventare / riconoscersi figlio, che è la condizione originaria di tutti.
Non ha incontrato persone che conoscono Dio meglio di lui e che gli hanno restituito
immagini migliori di quelle che l’eletto si era fatto del suo Dio? Liberato dall’ambiguità di
legami tanto forti da apparire «sacri», che mentre assegnano un’identità separano, l’eletto
può vedere la benedizione di Dio per tutti i suoi figli. Ogni figlio di uomo e di donna è figlio
di Dio, e la funzione dell’eletto è di rendere possibile a tutti l’accoglienza di questa ospitale
paternità divina.
Quello che resta è la fede
18 Egli ebbe fede sperando contro ogni speranza e così divenne padre di molti popoli, come gli era
stato detto: Così sarà la tua discendenza. (Romani 4)
In questo senso preciso Abramo realizza la sua paternità e insieme la sua itineranza:
lasciando andare il figlio come figlio di Dio riconosce e rivela il fondamento della fraternità.
Quello che alla fine gli resta è la fede, cioè l’attesa di un compimento lasciato nelle mani di
Dio Padre. E questa è anche la sua eredità per noi. Come deve essere quando si è figli,
Abramo accetta la sua incompiutezza (cf per contrasto Genesi 15: «che mi darai?» e
l’epilogo della storia, dove tutto quello che ha è un figlio lasciato andare e una caverna per
essere seppellito) e attende da Dio, come fa un figlio, ciò che gli serve per vivere. Passerà
gli ultimi anni della sua vita (non pochi in verità) semplicemente vivendo.
Aver fede è accogliere la propria incompiutezza. Ma questa accoglienza rende liberi (e
benedicenti) solo se si accende davanti alla rivelazione della sovrabbondante bontà della
10
paternità divina. Altrimenti la paura di non avere abbastanza per vivere ricaccia nella
violenza, nell’invidia e nella ricerca del potere, ridicola maschera che tenta di nascondere
la disperante esperienza della propria radicale pochezza. E che perverte il volto dell’altro
(da fratello a nemico) e di Dio (da Padre a padrone).
11
2.
GIONA A NINIVE
1
2
Fu rivolta a Giona una seconda volta questa parola del Signore: "Àlzati, va' a Ninive, la grande città,
3
e annuncia loro quanto ti dico". Giona si alzò e andò a Ninive secondo la parola del Signore. Ninive
4
era una città molto grande, larga tre giornate di cammino. Giona cominciò a percorrere la città per un
5
giorno di cammino e predicava: "Ancora quaranta giorni e Ninive sarà distrutta". I cittadini di Ninive
6
credettero a Dio e bandirono un digiuno, vestirono il sacco, grandi e piccoli. Giunta la notizia fino al re
7
di Ninive, egli si alzò dal trono, si tolse il manto, si coprì di sacco e si mise a sedere sulla cenere. Per
ordine del re e dei suoi grandi fu poi proclamato a Ninive questo decreto: "Uomini e animali, armenti e
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greggi non gustino nulla, non pascolino, non bevano acqua. Uomini e animali si coprano di sacco, e
Dio sia invocato con tutte le forze; ognuno si converta dalla sua condotta malvagia e dalla violenza che
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è nelle sue mani. Chi sa che Dio non cambi, si ravveda, deponga il suo ardente sdegno e noi non
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abbiamo a perire!". Dio vide le loro opere, che cioè si erano convertiti dalla loro condotta malvagia, e
Dio si ravvide riguardo al male che aveva minacciato di fare loro e non lo fece.
1
2
Ma Giona ne provò grande dispiacere e ne fu sdegnato. Pregò il Signore: "Signore, non era forse
questo che dicevo quand'ero nel mio paese? Per questo motivo mi affrettai a fuggire a Tarsis; perché
so che tu sei un Dio misericordioso e pietoso, lento all'ira, di grande amore e che ti ravvedi riguardo al
3
4
male minacciato. Or dunque, Signore, toglimi la vita, perché meglio è per me morire che vivere!". Ma
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il Signore gli rispose: "Ti sembra giusto essere sdegnato così?". Giona allora uscì dalla città e sostò a
oriente di essa. Si fece lì una capanna e vi si sedette dentro, all'ombra, in attesa di vedere ciò che
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sarebbe avvenuto nella città. Allora il Signore Dio fece crescere una pianta di ricino al di sopra di
Giona, per fare ombra sulla sua testa e liberarlo dal suo male. Giona provò una grande gioia per quel
7
ricino. Ma il giorno dopo, allo spuntare dell'alba, Dio mandò un verme a rodere la pianta e questa si
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seccò. Quando il sole si fu alzato, Dio fece soffiare un vento d'oriente, afoso. Il sole colpì la testa di
9
Giona, che si sentì venire meno e chiese di morire, dicendo: "Meglio per me morire che vivere". Dio
disse a Giona: "Ti sembra giusto essere così sdegnato per questa pianta di ricino?". Egli rispose: "Sì,
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è giusto; ne sono sdegnato da morire!". Ma il Signore gli rispose: "Tu hai pietà per quella pianta di
ricino per cui non hai fatto nessuna fatica e che tu non hai fatto spuntare, che in una notte è cresciuta
11
e in una notte è perita! E io non dovrei avere pietà di Ninive, quella grande città, nella quale vi sono
più di centoventimila persone, che non sanno distinguere fra la mano destra e la sinistra, e una grande
quantità di animali?". (Giona 3-4)
Giona, profeta ribelle
Il libretto di G si trova tra i profeti «minori» ma è del tutto atipico: il protagonista non è mai
chiamato profeta (anche se la «formula del messaggero» con la quale viene incaricato di
una missione sembra renderlo tale); tenta di sottrarsi alla sua missione; riporta una sola
profezia, di 5 parole in tutto, e per il resto narra le avventure del protagonista nella forma di
una favola (cf p. es Tobia); è mandato ai pagani e non a Israele. «Profeta» allora è G o
l’autore che si nasconde dietro di lui? E qual è lo scopo del suo scritto?
«Giona» vuol dire colomba. E’ la colomba che Noè manda a verificare se le acque si sono
ritirate (Gen 8,8); è la colomba del Cantico, che indica l’amata (Ct 2,14; 5,2; 6,9; cf anche
1,15; 4,1; 5,12); è la colomba che si offre in sacrificio se si è poveri (Lv 1,14; 5,7; 12,6;
ecc.); ma è anche il participio del verbo janà, opprimere (Sof 3,1). G è entrambe le cose.
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Il libro si trova tra il profeta Abdia che annuncia la vendetta di Dio su Edom, reo di non
aver difeso il «fratello» Giacobbe (Israele) quando è stato invaso, e Michea che annuncia
la devastazione di Giuda e insieme però anche la vendetta sulle nazioni, e che profetizza
la salvezza di Sion facendo conto soprattutto sulla hesed (l’amore benevolo e
misericordioso) del Signore (cf 6,8; 7,18; riprenderemo questo aspetto assolutamente
centrale). Subito dopo Michea, il libretto di Naum è interamente dedicato a profetizzare i
peccati e la distruzione di Ninive.
Il riferimento al profeta Giona figlio di Amittai (=fedeltà) di 2 Re 14,25 sembra collocare la
vicenda al tempo di Geroboamo II (783-743) re di Israele, circa 40/30 anni prima dalla
distruzione di Samaria (722) ad opera degli Assiri (Ninive!). In realtà il libro, per ragioni
linguistiche e contenutistiche, sembra scritto in epoca persiana (475-450), ben lontano
ormai dalla distruzione di Ninive (612) e dall’esilio babilonese (587-539 [rimpatrio con
Zorobabele e Giosuè 520 / ricostruzione del Tempio 520-515]), e per reagire alla chiusura
del «resto di Israele», tentato di isolarsi per conservare la sua specificità, ma insieme
irritato dalla marginalità alla quale questo atteggiamento di chiusura pare condannarlo.
L’autore potrebbe essere più o meno contemporaneo del profeta Malachia. Vedi la
sintonia con il carattere del popolo in quel periodo, incline alla chiusura,
all’autocommiserazione e alla collera; in una parola al risentimento, leggendo Ml 1,2-5;
2,17; 3,14-15.
La «figura» di G, esagerata apposta per rendere esplicito il messaggio che l’autore vuole
comunicarci, appare ridicola. Questo fatto potrebbe indurci a prendere facilmente le
distanze da lui, ma sarebbe un errore. La questione che egli solleva, e che non a caso si
attiva a contatto con gli «stranieri», è seria e chiede che ci confrontiamo onestamente con
essa.
Riassumiamo la vicenda. G viene incaricato di portare un messaggio di accusa a Ninive,
una città che rappresenta il nemico più feroce che Israele abbia conosciuto. Senza una
parola G scappa dalla parte opposta, pur sapendo che a Dio non si può sfuggire.
Una tempesta, che lo coglie sulla nave nella quale è l’unico ebreo, contrasta il suo piano e
G sceglie la morte come estrema possibilità di sottrarsi a Dio e alla missione che gli è
stata affidata. Non solidarizza in alcun modo con i marinai (pagani ma insieme assai
religiosi, umani e generosi), pur essendo letteralmente «sulla stessa barca». Si fa gettare
in mare dove un grosso pesce lo inghiotte e lo risputa sulla spiaggia dopo tre giorni.
Il dono di una «seconda volta» (cap 3)
vv 1-3:
Si riparte, ma con la precisazione, un poco umiliante per G, che si tratta di «una seconda
volta». Quello della «seconda volta» è un passaggio strutturale nell’esperienza di fede,
segnata necessariamente da crisi, fallimenti e ripartenze offerte per pura misericordia
JHWH non dice più di «parlare contro», ma di annunciare «a lei [Ninive] la predicazione /
la chiamata che io dico a te». C’è come una prudenza di Dio nei confronti del suo profeta e
insieme trapela una disponibilità nuova verso Ninive e forse addirittura un’attesa.
13
Questa volta G obbedisce, e il testo precisa che lo fa «secondo la parola di JHWH». G va
dunque a Ninive, ora non più solo la grande città, ma la città grandissima (alla lettera:
«grande per Dio»).
v 4:
G percorre la città per un giorno di cammino. E’ dunque a un terzo della sua predicazione
e grida: «Ancora quaranta giorni e Ninive è distrutta». In ebraico sono in tutto cinque
parole, nelle quali tutto resta implicito: a) l’agente; b) il motivo; c) il cosa fare per evitarlo
(ma è evitabile?). Eppure viene subito capita.
o I «quaranta giorni» (che richiamo il diluvio, gli anni di cammino nel deserto) sono il
simbolo della purificazione e della pazienza di Dio
o Si parla di un evento che è una minaccia o una condanna? Il verbo «è distrutta»
alla lettera può essere tradotto: «è rivoltata».
Ci sono delle differenze rispetto al cap 2: là c’era un pericolo / qui è solo annunciato; là è
mancata la parola del profeta / qui viene offerta. Per i niniviti c’è senz’altro un vantaggio,
che però è uno svantaggio per l’inviato di Dio: G non può contare sulla paura che incute
un pericolo già in atto. Inoltre Ninive è l’immagine dell’arroganza. Come reagirà a questa
minaccia? G va incontro a morte certa? Se fosse così e se fosse sicuro di una vendetta
divina (sia pure postuma), G vivrebbe una situazione non priva di eroica bellezza. E
invece…
vv 5-9:
Siamo di fronte al racconto di una conversione autentica ed esemplare, e questo accade
prima ancora che il profeta abbia finito di attraversare la città. Dei niniviti si dice che
«credettero» (‘aman) e non come dei marinai che invece «temettero». Prima di pregare
assumono una prassi penitenziale, segno della volontà di cambiare vita. Così, in seconda
battuta, fa anche il re, che si appropria dell’iniziativa (astuzie infinite del potere!) e arriva a
rinunciare alla sua regalità riconoscendone una superiore alla sua. Il proclama del re
ribadisce l’obbligo della penitenza. Prima riguardava gli uomini, dal più grande al più
piccolo. Ora è estesa anche agli animali, coi quali si solidarizza. E’ un particolare
importante, perché esclude la possibilità di un culto sacrificale a Dio (a differenza dei
marinai, per i quali resta addirittura il dubbio se abbiano sacrificato un animale oppure un
uomo!).
C’è l’invito alla preghiera e soprattutto al cambiamento della vita (si usa il verbo della
conversione shub: invertire la direzione di marcia, tornare indietro). Di tutto questo nella
presunta conversione dei marinai non c’è traccia: non hanno cambiato vita, hanno solo
cambiato il Dio da temere. Leggiamo infine l’auspicio della «conversione» (shub) di Dio. Si
fa leva sulla sua pietà e sul suo «pentimento», nonché sulla sua capacità di dominare la
sua «ira». Certamente lo conoscono meglio dei marinai sebbene il profeta non abbia
neppure rivelato il suo nome. Lo conoscono anche meglio di G? Del resto, come abbiamo
visto nel caso di Abramo, già da tempo Israele doveva sapere che la fede è possibile
anche fuori dei suoi confini, e che in qualche caso è perfino migliore di quella che si vive
all’interno del popolo dell’alleanza.
v 10:
Avviene così il pentimento e la «conversione» di Dio. Il Signore vede la loro conversione
dal male e si pente del male (il testo dice proprio così!) che aveva minacciato di fare e non
lo fa. In questo versetto domina la radice ‘asa: fare, che richiama l’insistenza della torah
sul fare la volontà di Dio, la parola, …
14
A questo punto il racconto di G potrebbe finire, proprio come la parabola del «figlio
prodigo» (Lc 15,11ss) potrebbe finire con il ritrovamento del figlio perduto e la festa;
oppure quella degli «operai mandati nella vigna» (Mt 20,1-16) potrebbe finire con il
pagamento del salario pattuito e la felicità generale. La missione sarebbe compiuta, con
tanto di lieto fine.
E invece, in tutti questi casi, c’è qualcuno che esprime il suo risentimento: G, il figlio
maggiore, l’operaio della prima ora. Sembra che questi brani ritengano l’opposizione a Dio
e il rifiuto della solidarietà con chi è «indegno» da parte di persone di provata religiosità se
non inevitabile almeno abbastanza probabile, tanto che vogliono avvertire il lettore e
indurlo a un esame di coscienza «teologico»: che idea mi faccio di Dio e della sua
misericordia? E non è un caso che tutti e tre questi testi terminino con una domanda che
esce dal testo e si rivolge indirettamente a chi legge. Siamo pronti alle sorprese del cap 4.
La protesta di Giona (cap 4)
G è preda di un male «grande» (tutto è «grande», sproporzionato, rispetto a G): sta male
ed è arrabbiato. Lo stesso si dice del figlio maggiore della parabola evangelica (Lc 15,28),
ma soprattutto di Caino (Gn 4,3-7). E’ però almeno abbastanza saggio da rivolgersi a Dio.
E’ la seconda volta che prega, e questa volta non lo fa in modo formale, ma si mostra per
quello che è con grande libertà e confidenza. Almeno in questo è un esempio. Deve
essere profondamente convinto delle sue ragioni. Perciò non si possono giustificare letture
superficiali e sbrigative del suo malessere: dobbiamo chiederci seriamente quanto
importanti siano queste ragioni e se per caso non ci riguardino da vicino.
Gli esegeti notano come qui abbondino i possessivi di prima persona singolare. G mette di
fronte a Dio il suo io offeso. «Non era forse questo che dicevo quando ero nel mio
paese…?» G diceva: a chi? a se stesso? E’ probabile che questo verbo voglia rendere
«pensavo». «Perciò fuggii…». Quello che pensava è stato anche la causa della sua fuga.
Siamo prossimi allo scioglimento dell’enigma. Cosa pensava dunque e cosa l’ha fatto
scappare? E’ una vera sorpresa, che svela come fin dall’inizio, fin da prima che Dio lo
chiamasse, G sapesse … che Dio è buono!!! Quello che dice di lui, infatti, ogni buon ebreo
lo leggeva, o lo sentiva leggere fin da piccolo, nel libro dell’Esodo (34,6-72), dove appunto
Dio si rivela a Mosè come un Dio benigno, Dio di hesed (=bontà, amore misericordioso),
cioè un Dio la cui apertura verso l’uomo sussiste anche davanti al peccato e si manifesta
come disponibilità del tutto immeritata al perdono! (Vedi anche Gen 32,11; 50,20; Es
20,5s; Dt 5,9s; Os 2,21; Mi 6,8; 7,18; Ger 2,2; 31,3; Salmi [più della metà delle ricorrenze
di hesed nell’AT si trova in questo libro]…). Il punto della contestazione di G, ciò che lo fa
andare in bestia, è questo: il Signore è un Dio che si lascia impietosire riguardo al male
minacciato nei confronti del peccatore. E questo fa un enorme problema, perché a G un
Dio così non piace. Suscita il suo risentimento.
G ha una doppia preoccupazione, per sé e per Dio, e a mio parere a volte questa può
diventare anche la preoccupazione della testimonianza cristiana:
2
«5 Allora il Signore scese nella nube, si fermò là presso di lui e proclamò il nome del Signore. 6 Il Signore
passò davanti a lui proclamando: «Il Signore, il Signore, Dio misericordioso e pietoso, lento all'ira e ricco di
grazia e di fedeltà, 7 che conserva il suo favore per mille generazioni, che perdona la colpa, la trasgressione
e il peccato, ma non lascia senza punizione, che castiga la colpa dei padri nei figli e nei figli dei figli fino alla
terza e alla quarta generazione» (Esodo 34).
15
o Agli uomini cattivi bisogna annunciare una minaccia, come del resto ha fatto anche
Gesù. E il profeta che annuncia la rivelazione della giustizia e della forza di Dio,
così pensa G, si fa lui stesso forte di questo annuncio.
o Ma poi prevale la misericordia di Dio. E bisogna notare come qui, nelle parole di G,
e più sotto nelle parole di JHWH, non ci sia alcuna condizione: non si dice in
nessun modo che Dio si impietosisce a condizione che gli uomini si convertano in
maniera definitiva. E’ sottinteso? Oppure Dio si converte anche solo per un primo
moto di pentimento perché ha pietà dell’umana miseria ed è innamorato della vita?
Ma allora, e questo è il problema, a che serve la minaccia? E soprattutto, che figura si fa
se non si realizza? Non si perde forse di credibilità? Non ci si mostra pericolosamente
deboli di fronte a persone che (si ritiene) capiscono e rispettano solo la forza? Tutto
questo, se già fa problema a G nella sua terra, figuriamoci quanto sia devastante fuori, tra
i pagani. Specialmente con loro, Dio dovrebbe essere particolarmente duro. Questo è il
problema di G, tanto grave da mettere in dubbio l’opportunità della missione, da
giustificare la fuga «impossibile» e alla fine l’unica fuga possibile dal cospetto di Dio: la
morte (Mosè, Elia, Geremia, Giobbe, … tutti hanno invocato la morte davanti all’apparente
fallimento della loro missione).
G arriva a chiedere di morire: per lui la morte è meglio di questa vita da profeta che si
sente smentito dal suo Dio, un Dio che a lui non piace, che detesta, e che accetta solo
perché è il Dio! Si noterà come nella predicazione di G (che dobbiamo supporre «secondo
la Parola di JHWH») non ci sia stato per Ninive l’invito a seguire Dio. Si trattava piuttosto
di un avvertimento a vivere bene (convertirsi dalla violenza) per evitare di precipitare nella
rovina. Ora, questa gratuità di Dio (hesed!) a G proprio non va giù. A questo punto Dio
parla, e pone a G una domanda (in questo capitolo Dio farà solo domande) che può
essere anche tradotta così: «Ti fa bene la rabbia?». Nel libro Dio non è mai adirato. Gli
umani sospettano (e G spera, ma sa che non accadrà) che lo sia. Ma in questo racconto
non si dice mai che JHWH si adirò, o altro di questo genere. Ora ponendo a G questa
domanda è come se Dio lo invitasse a deporre la rabbia e dunque gli chiedesse di
assomigliare a lui, di avere i suoi sentimenti (cf Fil 2,5ss.). Di più, si preoccupa per lui; più
che della moralità di G a lui importa che il suo profeta sia felice dimorando nella sua hesed
e godendo della bellezza del vivere (proprio e altrui). Questa domanda rivolta a G non può
non ricordarci quella di Dio a Caino: «Perché sei irritato e perché è abbattuto il tuo volto?
Se agisci bene, non dovrai forse tenerlo alto? Ma se non agisci bene, il peccato è
accovacciato alla tua porta; verso di te è il suo istinto, ma tu dominalo» (Gn 4,6-7).
v 5:
Una risposta negativa di G (tipo: «non mi fa bene essere arrabbiato»), un suo
ripensamento e il ritorno (felice) a casa avrebbero potuto essere il lieto fine. Ma G, a
conferma della pertinenza del parallelo con Caino, non risponde al suo Signore (incredibile
affronto, già visto all’inizio del libro) e di nuovo agisce nella direzione opposta a quella
suggerita da Dio. G si ostina:
• Esce dalla città: il dialogo con Dio è avvenuto in mezzo alla grande città minacciata
di distruzione ma non ha prodotto alcuna solidarietà né alcuna preghiera di
intercessione (vedi invece Abramo; Mosè; …). In G non c’è pietà. Ora se ne va fuori
solo, rifiuta di nuovo la solidarietà come aveva fatto sulla nave (eppure nella
solitudine nel ventre del pesce aveva ricevuto immeritatamente quella di Dio).
• Non solo non torna a casa (verso occidente), ma va dalla parte opposta, verso
oriente!
16
•
Vuole vedere cosa succederà alla città, a costo di aspettare 39 giorni nel deserto!
E’ una sfida a Dio. Spera ancora nella distruzione della città? Spera che Dio si «riconverta»? Spera che Ninive ricada nel male? E’ il contrario di quello che dice
Mosè: «Ora, se tu perdonassi il loro peccato … E se no, cancella anche me dal tuo
libro che hai scritto» (Es 32,31); qui è come se G dicesse: se questa città
sopravvive, allora che io muoia!
v 6-8:
Il ricino > l’ombra > la grande gioia. Basta questo sollievo, per altro essenziale per la
sopravvivenza (come si vedrà sotto) in quanto la capanna evidentemente non bastava, a
ridare senso alla vita di G. Ricino seccato > sole > insolazione. Di nuovo G cade nella sua
prostrazione e chiede di morire.
v 9:
JHWH pone di nuovo a G la domanda del v 4. Là G neppure aveva risposto. Aveva agito
manifestando la sua ostinazione. Qui risponde che, sì, è bene / gli fa bene … al punto che
vorrebbe morire. E’ una palese contraddizione: la morte non può mai essere un bene;
semmai un male minore per porre fine a un male troppo grande.
v 10:
Dio si manifesta come creatore. Lui sì avrebbe diritto di dispiacersi per il ricino molto più di
G in quanto esso era opera sua, sua creatura (per l’esistenza della quale egli ha
«lavorato»). In realtà però G sembra dispiacersi più per l’ombra che ha perso che per il
ricino. Dio è creatore, e come tale è il Dio della vita. Non è un distruttore, come verrà
subito in chiaro con quello che segue.
Egli prova pietà (potremmo dire senz’altro anche tenerezza) specialmente per uomini e
animali. Secondo la Bibbia sono questi gli esseri viventi per eccellenza, quelli nei quali
abita il «respiro», la ruah, di JHWH e che quindi sono in qualche modo imparentati con lui.
L’accostamento tra gli uomini di Ninive e gli animali ha anche questo senso: quelli e questi
hanno in comune anche l’incoscienza. Dei niniviti si dice che non sanno distinguere tra le
destra e la sinistra. E’ un detto che di solito si usa per dire l’incoscienza dei bambini. Qui
sta a significare il fatto che questi suscitano pietà in quanto nessuno ha mai rivelato loro la
volontà di Dio. La «legge» è una peculiarità di Israele e della chiesa, e noi dobbiamo
sentire, come Dio, pietà per chi non ne è a conoscenza.
Misericordia e risentimento
Il libro di G termina con una domanda di Dio che resta aperta, come la parabola di Mt 20
(«Non posso fare delle mie cose quello che voglio? Oppure tu sei invidioso perché io sono
buono?» Mt 20,15): sentiamo noi questa pietà? Abbiamo pietà della «grande città»? Ci sta
a cuore che viva? Siamo abbastanza generosi da sopportare la «debolezza» della hesed
divina? Siamo disposti a essere suoi profeti, condividendo la «debolezza» di Dio? Oppure
questo ci rende rancorosi, risentiti, perché avvertiamo in questo comportamento divino una
ingiustizia? Siamo forse invidiosi perché lui è buono e perdona troppo a buon mercato? E’
proprio a noi che Dio chiede questa missione, anche se nel nostro cuore abita ancora
Caino.
17
Dal punto di vista di G (a meno che non abbia cambiato idea dopo la domanda di Dio) la
missione è fallita. La città non è stata «rivoltata», o almeno non come egli voleva. La sua
parola di profeta sembra andata a vuoto. Dio non ha manifestato la sua potenza e dunque
non potrà essere preso sul serio: né lui, né tanto meno il suo profeta. E G ha perso
l’occasione di imparare qualcosa di decisivo su Dio e sulla missione del popolo eletto
proprio da questi stranieri (e nemici) di Ninive. Ma perché G prova dolore per la bontà di
Dio, se non perché essa sembra portargli via qualcosa? Non è forse che alla radice c’è
una concezione della vita di fede intesa come diminuzione della vita?
Dal punto di vista di Dio, che è quello dell’amore tenero per la vita delle sue creature, la
conversione di Ninive rappresenta un successo: la città è stata davvero rivoltata! A lui non
importa né di essere riconosciuto, né di essere ringraziato. Né tanto meno di essere
temuto! A lui importa la felicità delle sue creature e la solidarietà di tutti nella cura della
vita, soprattutto quella più esposta e più fragile.
Resta un problema. Nei Vangeli, soprattutto in Luca, la vicenda della predicazione di Gesù
alla «città» è assai deludente, come lo sarà (sebbene in misura assai minore) per Paolo
negli Atti. Anche Gesù minaccia le città, ma i suoi sentimenti sono di sofferenza, non di
rabbia. Comunque la sua predicazione alla città non sortisce mai gli effetti, memorabili, di
quella di G. Eppure Gesù è ben più di G! Nonostante questo il Maestro non rinuncia mai a
predicare alla città (e alla fine a morire per essa!), anche se a volte si sottrae ad essa e
alle folle.
Occorre riconoscere che quella di G è come una fiaba. Ci dice come dovrebbero andare le
cose; cioè come dobbiamo sperare che vadano. E che dobbiamo comportarci di
conseguenza, costi quello che costi, fosse pure il martirio (Gerusalemme ucciderà Gesù).
Non si può predicare senza desiderare davvero che la città si converta. Altrimenti non lo si
fa, o lo si fa come lo ha fatto G, cioè con l’atteggiamento sbagliato. Se però la città non si
converte, come è probabile, nessuna sorpresa o ribellione. Ma anche: nessuna
concessione al cinismo, al pessimismo o al risentimento. Sono tutti nemici della speranza,
sostenuta dalla fede e dall’amore. E senza speranza non è possibile alcuna missione. E
se invece, sorprendentemente, si convertisse? Anche qui, soprattutto qui, occorrerà
guardarsi dal risentimento (come quello dei lavoratori di Mt 20: hanno lavorato un’ora
soltanto e hanno preso la stessa paga…; non è giusto!). G è figura del tradimento della
fede, e dunque di una profezia pervertita. Grande e consolante è il fatto che Dio non lo
molli e che anzi faccia comunque servire al bene (Gen 50,20) anche un uomo così. Spera
senz’altro che vedendo questo bene accadere nonostante la sua indegnità anche G, prima
o poi, possa convertirsi.
18
3.
GESÙ DALLE PARTI DI TIRO
24
Partito di là, andò nella regione di Tiro. Entrato in una casa, non voleva che alcuno lo sapesse, ma
25
non poté restare nascosto. Una donna, la cui figlioletta era posseduta da uno spirito impuro, appena
26
seppe di lui, andò e si gettò ai suoi piedi. Questa donna era di lingua greca e di origine siro-fenicia.
27
Ella lo supplicava di scacciare il demonio da sua figlia. Ed egli le rispondeva: "Lascia prima che si
28
sazino i figli, perché non è bene prendere il pane dei figli e gettarlo ai cagnolini". Ma lei gli replicò:
29
"Signore, anche i cagnolini sotto la tavola mangiano le briciole dei figli". Allora le disse: "Per questa
30
tua parola, va': il demonio è uscito da tua figlia". Tornata a casa sua, trovò la bambina coricata sul
letto e il demonio se n'era andato.
31
Di nuovo, uscito dalla regione di Tiro, passando per Sidone, venne verso il mare di Galilea in pieno
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33
territorio della Decàpoli. Gli portarono un sordomuto e lo pregarono di imporgli la mano. Lo prese in
34
disparte, lontano dalla folla, gli pose le dita negli orecchi e con la saliva gli toccò la lingua; guardando
35
quindi verso il cielo, emise un sospiro e gli disse: "Effatà", cioè: "Apriti!". E subito gli si aprirono gli
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orecchi, si sciolse il nodo della sua lingua e parlava correttamente. E comandò loro di non dirlo a
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nessuno. Ma più egli lo proibiva, più essi lo proclamavano e, pieni di stupore, dicevano: "Ha fatto
bene ogni cosa: fa udire i sordi e fa parlare i muti!". (Marco 7)
Gesù nel guado della crisi
Siamo nel contesto dei capp 6-8 di Marco, la sezione cosiddetta dei «pani». La prima
moltiplicazione dei pani, con la sua sovrabbondanza (12 ceste di avanzi!), ha convinto
Gesù che quello che ha visto accadere non poteva essere solo per Israele. Il banchetto
messianico (e insieme l’esodo, evocato dall’immagine del pane nel deserto che ricorda la
manna) è per tutti. Tuttavia la sua intenzione di andare nella Decapoli e di aprire così un
nuovo fronte missionario presso i pagani non si è realizzata (cf Mc 6,45-56). Approdato
con i suoi a Gennèsaret, Gesù è costretto a riprendere le noiose e faticose discussioni
con i farisei e gli scribi venuti da Gerusalemme. In particolare è trascinato in una polemica
che verte sul puro e sull’impuro. Gesù voleva aprire un fronte missionario in territorio
pagano (e perciò impuro) ma si trova ancora sulla costa ebraica del lago dove si sta
chiudendo la sua predicazione in Galilea in mezzo a incomprensioni e opposizioni, e dove
farisei e scribi vorrebbero che marcasse di nuovo la frontiera tra puro e impuro, una
frontiera che esclude.
Con il nostro brano siamo verso la fine del cap 7, e dunque a ridosso della «confessione
di Cesarea» (8,27ss.) che taglia in due il vangelo e che è un momento a prima vista
sorprendente poiché per un attimo Gesù interromperà il «segreto messianico» che poi,
però, scioglierà definitivamente soltanto alla fine (cf 14,61ss.). Questo episodio di
Cesarea, nel quale Gesù chiede ai suoi «Voi, chi dite che io sia?», rappresenta un
passaggio decisivo, un vero e proprio spartiacque nel vangelo, che inaugura la seconda
parte della narrazione ambientata per lo più in Giudea. Da lì in avanti il Maestro
comincerà ad annunciare apertamente la sua passione, provocando l’incomprensione
crescente dei suoi. Darà anche sempre più spazio all’istruzione dei Dodici, privilegiandoli
decisamente rispetto alle folle. Questo di Cesarea è come un passo di montagna, che si
19
valica avendo a destra e sinistra due maestosi rilievi: la siro-fenicia e la trasfigurazione
(altro momento di rivelazione, vero e proprio anticipo dello svelamento finale).
Che cosa ha fatto finora Gesù? Ha annunciato il regno di Dio insegnando e guarendo.
Che cosa ha intorno a sé? Folle che chiedono miracoli; la politica che lo teme (6,14); i
discepoli che non lo capiscono, pur essendo coinvolti da lui nella sua stessa missione;
farisei e scribi che lo osteggiano (fin dal cap 2 aleggia nell’aria la possibilità di una
condanna a morte). Un fatto scandaloso è ormai evidente: la religione istituita odia Gesù.
Che cosa farà adesso Gesù? Porrà la domanda circa la propria identità. Forse non nutre
dei dubbi su di sé. Ma mostra almeno di averne riguardo alla ricezione della «buona
notizia» che è venuto a portare. Cercherà dunque conferme sulla sua figura di
evangelizzatore. Tuttavia prima di porre la domanda di Cesarea fa due cose: si ritira per
un momento da solo (come Elia presso la vedova di Sarepta di Sidone? Cf 1Re 17,7ss);
e poi moltiplica di nuovi pani.
In questo momento Gesù sembra stanco di essere banalizzato, frainteso o osteggiato,
nonostante si sia preoccupato soltanto di comunicare il vangelo della salvezza che il
Padre prepara per i suoi figli. Ha appena terminato una polemica sul puro e l’impuro (su
chi è dentro e chi è fuori) con i capi religiosi ebraici e si ritira in territorio pagano, cioè in
mezzo a gente impura.
La tentazione della chiusura
In 6,30ss. Marco aveva narrato il ritorno dei 12 dalla missione e la decisione di Gesù di
ritirarsi con loro affinché potessero riposare. Preceduti dalla folla che si fa trovare in
attesa al loro arrivo e a causa della commozione che il loro bisogno provoca in Gesù, il
ritiro fu subito interrotto. Qui Gesù se ne va da solo, si ritira, e non per riposare. Sembra
ne abbia davvero abbastanza. «Esce» in territorio pagano (come già aveva fatto a
Gerasa, da dove per altro era stato cacciato: cf 5,1ss.; e come aveva tentato di fare dopo
la prima moltiplicazione dei pani inviando i suoi a Betsaida), sospende la sua missione e
si chiude in una casa per nascondersi. Anche per Gesù, Maestro itinerante, viene il
momento di un esodo, anche se quasi sicuramente si tratta di una casa di ebrei della
diaspora.
«Ma non potè restare nascosto...»: spesso in Marco Gesù appare quasi costretto dal
bisogno altrui a fare altrimenti rispetto a quanto ha deciso. Ma mentre in altre occasioni si
adegua alle richieste e cambia i suoi programmi, qui sembra intenzionato a resistere.
Infatti non vuole incontrare nessuno. E tuttavia, pur essendosi nascosto in una casa, a
quanto pare non vi si è chiuso dentro in maniera inarrivabile: qualcuno riesce a scovarlo.
E a stanarlo. Chi è l’autore di una simile impresa?
«Una donna…». Prima il testo dice che è una donna, poi racconta cosa fa e infine spiega
chi è. «Subito», «appena»... Il passaggio di Gesù chiede una reazione tempestiva, come
il passaggio di Dio che apre una opportunità che va colta senza esitazioni. Una madre
disperata corre a intercedere per la figlia posseduta dal male. Le sue azioni sono
emblema di affidamento: «lo seppe… andò… si gettò ai suoi piedi… continuava a
supplicarlo...». Ma come ha potuto sapere? Forse faceva parte di quelli che erano andati
da Gesù in Palestina (cf 3,7ss.)? Ne aveva sentito parlare? Il testo qui vuole sorprenderci,
appunto lasciando avvolta nel «mistero» la conoscenza che questa donna ha dell’identità
di Gesù come portatore di salute. E’ una sottolineatura tipica di Marco e questa
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sorprendente conoscenza di Gesù sembra avere a che fare con il fatto che è una donna.
Il suo nome non appare infatti decisivo. Qui secondo me Marco vuole dirci che in luoghi
inattesi, da parte di persone improbabili, possiamo essere sorpresi. Incontreremo persone
che mostreranno di saperla lunga, molto lunga, e molto bene su Gesù e su suo Padre; e
la loro conoscenza delle cose di Dio ci stupirà. Come hanno fatto a sapere? Chi gliel'ha
detto? Un'opera misteriosa dello Spirito nel loro cuore. Teniamo conto che nei vangeli
non si dice mai che Gesù crea la fede nelle persone che incontra. Egli cerca di suscitarla,
ma quando la trova è stupito e la apprezza come opera di un Altro. Davanti all'emorroissa
dice: «Figlia, va’, per questa tua fede sei guarita». L’apertura della porta del cuore,
preparata dal lavoro dello Spirito, è possibile solo dall'interno. Gesù non la forza. Incontra
le persone, suggerisce una possibilità di apertura. Ma se trova la porta aperta benedice il
Padre, riconoscendo l'opera misteriosa di Dio che ha già aperto questi suoi figli, e
insieme magnificando i figli per aver accolto questa possibilità di apertura. Spesso Marco
ci fa incontrare delle persone che conoscono di Dio pur non essendo le più adatte a
sapere, come ad esempio il centurione (soldato romano!), questa siro-fenicia (pagana!), il
cieco Bartimeo (ha un nome mezzo aramaico e mezzo greco; inoltre è cieco, dunque
«peccatore»! Ma ne sa più di tutti, vede meglio di tutti l'identità profonda di Gesù
chiamandolo figlio di Davide, cioè Messia).
E’ una donna, è pagana («greca»), è siro-fenicia. Probabilmente è ricca e rappresenta
gente in mezzo alla quale gli ebrei immigrati sono poveri e fanno fatica ad essere accolti.
Ce n’è abbastanza per giustificare un atteggiamento di chiusura da parte di Gesù. Questi
elementi identitari della donna devono creare il paradosso: è la meno indicata per sapere
di Gesù, la più «straniera» (estranea) rispetto a lui. Eppure sa... Forse perché è una
madre e dunque se ne intende della vita e della cura che essa richiede? Si tratta
comunque di un «miracolo», capace di sorprendere Gesù stesso. Un miracolo non così
raro, però, che con i suoi incontri imprevisti la missione di Gesù gli regala generosamente
facendogli così ritrovare (di nuovo e nuovo) il senso profondo del suo servizio.
Il dono di una madre
Gesù resiste alla donna con una «parabola»: «Lascia prima che si sazino i figli, perché
non è bene prendere il pane dei figli e gettarlo ai cagnolini». Nonostante l’impatto venga
mitigato dal diminutivo (cagnolini), Gesù qui è per lo meno scortese e sorprendentemente
allineato alla mentalità ebraica, la quale qualificava i pagani appunto con l’appellativo di
«cani» (animali impuri).
Gesù parla di sé come di un padre / una madre che deve nutrire i suoi figli, e che non può
sottrarre il cibo destinato a loro senza commettere una imperdonabile trascuratezza.
Questo è un altro modo nel quale si rivela la delusione di Gesù: ha fatto tanti sforzi per
farsi capire e non ha visto risultati apprezzabili, e ora è come se temesse di non avere
abbastanza risorse per chi non è di famiglia (nonostante in 3,31-35 avesse decisamente
relativizzato i legami famigliari) e perciò rischia di chiudersi ai bisogni di coloro che non
appartengono alla sua gente. Il «pane» che ha deve riservarlo per i figli. Posta così la
questione non può che essere accolta, specie se ad ascoltare è una madre. E tuttavia
questa donna suggerisce uno sviluppo della parabola tanto inatteso quanto stringente. La
madre non si rassegna al rifiuto di Gesù. Chiamandolo «Signore»3 e alludendo in questo
3
E’ l’unica a chiamare direttamente così il Maestro in tutto il vangelo di Marco, confermando la «speciale»
conoscenza che essa ha di lui.
21
modo al mistero della sua identità profonda, accetta di stare nel posto che Gesù le ha
assegnato tra i «cani», ma propone un ampliamento della parabola che conquista Gesù.
Le parabole, delle quali Gesù era specialista, sono dispositivi per spingere a prendere
posizione; questa volta tocca a Gesù di essere spinto a decidersi proprio da una
parabola! In fondo, dice la donna, non chiedo molto: non pretendo «pane», mi bastano le
briciole. Così ai figli non verrà a mancare nulla di essenziale e io avrò comunque di che
vivere. La donna accetta di stare al suo posto. Ma Gesù deve cambiare il suo: «prendere
posizione» vuol dire anche per lui cambiare posto, e questo significa che in questo
momento perfino il Maestro non sta occupando il posto giusto.
Questa donna compie il miracolo di restituire a Gesù, in un momento di difficoltà,
l’evidenza di quella sovrabbondanza che dall’inizio segna la sua missione,
sovrabbondanza che mostra in atto la benedizione divina che «passa» attraverso di lui.
Rileggiamo alcuni testi:
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3,9-10: « Allora egli disse ai suoi discepoli di tenergli pronta una barca, a causa
della folla, perché non lo schiacciassero. Infatti aveva guarito molti, cosicché
quanti avevano qualche male si gettavano su di lui per toccarlo»
4,3-8: «Ascoltate. Ecco, il seminatore uscì a seminare. Mentre seminava, una
parte cadde lungo la strada; vennero gli uccelli e la mangiarono. Un'altra parte
cadde sul terreno sassoso, dove non c'era molta terra; e subito germogliò perché il
terreno non era profondo, ma quando spuntò il sole, fu bruciata e, non avendo
radici, seccò. Un'altra parte cadde tra i rovi, e i rovi crebbero, la soffocarono e non
diede frutto. Altre parti caddero sul terreno buono e diedero frutto: spuntarono,
crebbero e resero il trenta, il sessanta, il cento per uno»
4,26-27.30-32: «Diceva: "Così è il regno di Dio: come un uomo che getta il seme
sul terreno; 27dorma o vegli, di notte o di giorno, il seme germoglia e cresce.
Come, egli stesso non lo sa. (…) Diceva: "A che cosa possiamo paragonare il
regno di Dio o con quale parabola possiamo descriverlo? 31È come un granello di
senape che, quando viene seminato sul terreno, è il più piccolo di tutti i semi che
sono sul terreno; 32ma, quando viene seminato, cresce e diventa più grande di
tutte le piante dell'orto e fa rami così grandi che gli uccelli del cielo possono fare il
nido alla sua ombra"».
5,27-28: «…udito parlare di Gesù, venne tra la folla e da dietro toccò il suo
mantello. Diceva infatti: "Se riuscirò anche solo a toccare le sue vesti, sarò
salvata"»
6,42-44.56: « Tutti mangiarono a sazietà, e dei pezzi di pane portarono via dodici
ceste piene e quanto restava dei pesci. Quelli che avevano mangiato i pani erano
cinquemila uomini. (…) E là dove giungeva, in villaggi o città o campagne,
deponevano i malati nelle piazze e lo supplicavano di poter toccare almeno il
lembo del suo mantello; e quanti lo toccavano venivano salvati»
A questo punto Gesù dichiara che per questa parola di lei, che attesta la sua fede nella
possibilità del passaggio della sovrabbondante benedizione di Dio Padre proprio
attraverso il Figlio, la figlia è guarita.
Sebbene riluttante Gesù ha fatto spazio alla donna. Lasciandola «entrare», lasciandosi
forzare e accogliendone il bisogno l’ha restituita a se stessa e alla sua «capacità di
essere», che torna immediatamente utile anche a lui e alla figlia di lei. La benedizione che
la siro-fenicia «conosce» in Gesù la costituisce tramite di benedizione per la figlia. Gesù
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riconosce il passaggio e lo ratifica. Si lascia così lui pure istruire dall’incontro e viene
restituito a se stesso e alla sua missione. Incantevole!
Il meglio di quello che Gesù è e ha «passa» (come un’energia, una forza) principalmente
attraverso i suoi incontri personali. La scelta di questa strategia colpisce perché non
sembra risultare da una attenta riflessione sulle forze a disposizione rispetto all’obiettivo
immenso che si deve perseguire (la salvezza del mondo, in soli tre anni di ministero
pubblico, con collaboratori del tutto inadeguati…). Insomma, sembra che Gesù si lasci
distrarre e si perda in una serie di incontri che appaiono troppo particolari e che
sembrano condannare la sua predicazione a restare troppo circoscritta. In realtà questa
scelta strategica di Gesù corrisponde alla verità di Dio e dell’uomo. Ecco cosa c’è in
gioco, niente meno che questo: Gesù si concentra e si trova nell’incontro con le persone,
e in questo farsi del tutto particolare nell’incontro propizia il ritrovamento di sé da parte
delle persone e la possibilità di intravedere finalmente una relazione effettiva e affettiva
con Dio. La «verità» cristiana (che è Gesù e la sua rivelazione del Padre) è universale in
quanto realtà personale che si particolarizza sempre e ovunque; è cioè l’offerta di una
relazione personale con Dio possibile a ciascuno in ogni luogo e in ogni tempo.
Il dono dei «lontani»
Come Elia dopo l’incontro con il «silenzio» di Dio (un Dio che qui appunto non è mai
nominato), Gesù può tornare sui suoi passi e riprendere con decisione il suo cammino
verso Gerusalemme. Non prima però di «aprire» un sordomuto alla vita, segno forse che
lui stesso, Gesù, è stato «aperto». Fare spazio all’altro, anche e soprattutto a chi è «molto
altro» rispetto a noi, si rivela dunque una scelta che non è prima di tutto sacrificio,
arretramento, rinuncia, bensì promessa di ritrovamento anche di sé. Senza rientrare nel
territorio di Israele Gesù farà una seconda moltiplicazione dei pani, segno di accoglienza
al banchetto del regno anche per i cani-pagani.
Gesù ha cercato fino alla fine, come era giusto fare, riconoscimento da parte del popolo
di Israele. E tuttavia nel vangelo di Marco le conferme più importanti circa la sua missione
e la sua identità profonda non gli sono venute dai «vicini» ma dai «lontani». Si tratta di
figure del tutto improbabili come testimoni del Signore. Esse disegnano un paradosso
profondo e ci ricollocano per sempre in una profonda umiltà davanti al mistero di Dio che
abita Gesù.
Penso prima di tutto all’indemoniato di Gerasa (5,1ss), apostolo ante litteram della
Decapoli, che va ad annunciare ovunque la misericordia di Dio. Ecco poi la siro-fenicia,
capace di cogliere la signoria di Gesù nella sovrabbondanza della benedizione che
«passa» attraverso di lui. Abbiamo appena letto dello stupore di quelli della Decapoli
davanti al sordomuto sanato, i quali riconoscono in Gesù il «bene-fattore», cioè uno
capace di «fare bene» ogni cosa. Ma è sotto la croce che ci aspetta la sorpresa più
grande: il centurione che comanda il drappello armato che ha crocifisso Gesù e «che si
trovava di fronte a lui, avendolo visto spirare in quel modo, disse: Davvero quest'uomo
era Figlio di Dio!» (15,39). E’ il punto più alto del riconoscimento della rivelazione di Gesù
e lo dobbiamo a una voce umana – non più divina come in 1,11 e 9,7 – e per di più
«pagana». Se seguiremo i passi di Gesù nella missione presso le «genti» incontreremo
senz’altro, qua e là, persone così. Ed esse ci istruiranno sul vangelo, perché sono abitate
da una misteriosa conoscenza di Dio in quanto semplicemente amanti e custodi (come ha
da essere u n fratello per il fratello; cf Gen 4,9!) della vita umana in quanto tale.
23
4.
PIETRO A CESAREA
1
2
Vi era a Cesarèa un uomo di nome Cornelio, centurione della coorte detta Italica. Era religioso e
timorato di Dio con tutta la sua famiglia; faceva molte elemosine al popolo e pregava sempre Dio.
3
Un giorno, verso le tre del pomeriggio, vide chiaramente in visione un angelo di Dio venirgli incontro
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e chiamarlo: "Cornelio!". Egli lo guardò e preso da timore disse: "Che c'è, Signore?". Gli rispose:
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"Le tue preghiere e le tue elemosine sono salite dinanzi a Dio ed egli si è ricordato di te. Ora manda
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degli uomini a Giaffa e fa' venire un certo Simone, detto Pietro. Egli è ospite presso un tale Simone,
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conciatore di pelli, che abita vicino al mare". Quando l'angelo che gli parlava se ne fu andato,
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Cornelio chiamò due dei suoi servitori e un soldato, uomo religioso, che era ai suoi ordini; spiegò
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loro ogni cosa e li mandò a Giaffa. Il giorno dopo, mentre quelli erano in cammino e si avvicinavano
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alla città, Pietro, verso mezzogiorno, salì sulla terrazza a pregare. Gli venne fame e voleva
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prendere cibo. Mentre glielo preparavano, fu rapito in estasi: vide il cielo aperto e un oggetto che
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scendeva, simile a una grande tovaglia, calata a terra per i quattro capi. In essa c'era ogni sorta di
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quadrupedi, rettili della terra e uccelli del cielo. Allora risuonò una voce che gli diceva: "Coraggio,
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Pietro, uccidi e mangia!". Ma Pietro rispose: "Non sia mai, Signore, perché io non ho mai mangiato
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nulla di profano o di impuro". E la voce di nuovo a lui: "Ciò che Dio ha purificato, tu non chiamarlo
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profano". Questo accadde per tre volte; poi d'un tratto quell'oggetto fu risollevato nel cielo.
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Mentre Pietro si domandava perplesso, tra sé e sé, che cosa significasse ciò che aveva visto, ecco
gli uomini inviati da Cornelio: dopo aver domandato della casa di Simone, si presentarono
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all'ingresso, chiamarono e chiesero se Simone, detto Pietro, fosse ospite lì. Pietro stava ancora
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ripensando alla visione, quando lo Spirito gli disse: "Ecco, tre uomini ti cercano; àlzati, scendi e va'
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con loro senza esitare, perché sono io che li ho mandati". Pietro scese incontro a quegli uomini e
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disse: "Eccomi, sono io quello che cercate. Qual è il motivo per cui siete venuti?". Risposero: "Il
centurione Cornelio, uomo giusto e timorato di Dio, stimato da tutta la nazione dei Giudei, ha
ricevuto da un angelo santo l'ordine di farti venire in casa sua per ascoltare ciò che hai da dirgli".
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Pietro allora li fece entrare e li ospitò. Il giorno seguente partì con loro e alcuni fratelli di Giaffa lo
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accompagnarono. Il giorno dopo arrivò a Cesarèa. Cornelio stava ad aspettarli con i parenti e gli
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amici intimi che aveva invitato. Mentre Pietro stava per entrare, Cornelio gli andò incontro e si gettò
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ai suoi piedi per rendergli omaggio. Ma Pietro lo rialzò, dicendo: "Àlzati: anche io sono un uomo!".
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Poi, continuando a conversare con lui, entrò, trovò riunite molte persone e disse loro: "Voi sapete
che a un Giudeo non è lecito aver contatti o recarsi da stranieri; ma Dio mi ha mostrato che non si
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deve chiamare profano o impuro nessun uomo. Per questo, quando mi avete mandato a chiamare,
sono venuto senza esitare. Vi chiedo dunque per quale ragione mi avete mandato a chiamare".
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Cornelio allora rispose: "Quattro giorni or sono, verso quest'ora, stavo facendo la preghiera delle
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tre del pomeriggio nella mia casa, quando mi si presentò un uomo in splendida veste e mi disse:
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"Cornelio, la tua preghiera è stata esaudita e Dio si è ricordato delle tue elemosine. Manda dunque
qualcuno a Giaffa e fa' venire Simone, detto Pietro; egli è ospite nella casa di Simone, il conciatore
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di pelli, vicino al mare". Subito ho mandato a chiamarti e tu hai fatto una cosa buona a venire. Ora
dunque tutti noi siamo qui riuniti, al cospetto di Dio, per ascoltare tutto ciò che dal Signore ti è stato
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ordinato". Pietro allora prese la parola e disse: "In verità sto rendendomi conto che Dio non fa
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preferenza di persone, ma accoglie chi lo teme e pratica la giustizia, a qualunque nazione
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appartenga. Questa è la Parola che egli ha inviato ai figli d'Israele, annunciando la pace per mezzo
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di Gesù Cristo: questi è il Signore di tutti. Voi sapete ciò che è accaduto in tutta la Giudea,
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cominciando dalla Galilea, dopo il battesimo predicato da Giovanni; cioè come Dio consacrò in
Spirito Santo e potenza Gesù di Nàzaret, il quale passò beneficando e risanando tutti coloro che
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stavano sotto il potere del diavolo, perché Dio era con lui. E noi siamo testimoni di tutte le cose da
lui compiute nella regione dei Giudei e in Gerusalemme. Essi lo uccisero appendendolo a una croce,
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ma Dio lo ha risuscitato al terzo giorno e volle che si manifestasse, non a tutto il popolo, ma a
testimoni prescelti da Dio, a noi che abbiamo mangiato e bevuto con lui dopo la sua risurrezione dai
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morti. E ci ha ordinato di annunciare al popolo e di testimoniare che egli è il giudice dei vivi e dei
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morti, costituito da Dio. A lui tutti i profeti danno questa testimonianza: chiunque crede in lui riceve
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il perdono dei peccati per mezzo del suo nome". Pietro stava ancora dicendo queste cose, quando
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lo Spirito Santo discese sopra tutti coloro che ascoltavano la Parola. E i fedeli circoncisi, che erano
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venuti con Pietro, si stupirono che anche sui pagani si fosse effuso il dono dello Spirito Santo; li
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sentivano infatti parlare in altre lingue e glorificare Dio. Allora Pietro disse: "Chi può impedire che
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siano battezzati nell'acqua questi che hanno ricevuto, come noi, lo Spirito Santo?". E ordinò che
fossero battezzati nel nome di Gesù Cristo. Quindi lo pregarono di fermarsi alcuni giorni. (Atti degli
Apostoli 10)
Chiamata e sequela
Lo schema della vicenda petrina è del tutto simile a quello degli altri discepoli. Chiamato
sulle rive del lago di Galilea4 senza che abbia particolari caratteristiche che giustifichino la
sua elezione (appartiene a gente comune), Pietro è indotto dal Maestro a un «esodo»
dalla sua vita ordinaria (Mc 1,16-18) lasciando tutto e mettendosi alla sequela. Inizia così
una itineranza che non avrà fine se non con il martirio, che a buon conto il NT non
racconta (per evitare una indebita «venerazione» del «capo» degli apostoli?). Questa
itineranza è il luogo della missione e insieme dell’apprendimento del «mistero del Regno»,
mistero che non può essere compreso altrimenti. La sua esperienza si configura come
apprendimento e assunzione dello stile del Maestro, secondo la linea del profetismo
ebraico e del discepolato rabbinico.
Il suo nome, Simone, a un certo punto viene cambiato da Gesù in Cefa (pietra) / Pietro. Il
cambio del nome nella bibbia si collega quasi sempre a una missione / a un ruolo che in
quel momento si chiarisce e si determina. Da una parte, però, la «pietra» è prima di tutto e
soprattutto Gesù: lui è la pietra (angolare): Mc 12,10 / Ef 2,20-22 / Rm 9,33 / 1Pt 2,4-8...;
dall’altra pietre vive sono anche tutti i cristiani: cf Ef e 1Pt. Sebbene abbastanza presto
Pietro assuma una preminenza nel gruppo (cf Mt 10,2 / Mc 3,13-19), dunque, egli non può
stare tra il Maestro e gli altri discepoli: è a servizio della relazione che essi hanno
comunque con Gesù anche a prescindere dalla sua mediazione. Rappresenta (senza
sostituirla) la solidità di tale relazione, secondo quello scambio reciproco di doni che nella
comunità si realizza a tutti i livelli tra i carismi / servizi.
Partecipa a momenti particolarmente decisivi con un gruppetto ristretto: risurrezione della
figlia di Giairo (Mc 5,37); trasfigurazione (Mc 9,2-8); Getsemani (Mc 14,33). In qualche
momento si fa portavoce degli altri ma senza che questo comporti che sempre si debba
affidare a lui la propria voce. In ogni caso appartiene a un gruppo che, secondo l’espressa
volontà del fondatore, è caratterizzato dal SERVIRE (Mt 20,24ss) e non invece dal
DOMINARE. E in definitiva non mostra comunque di capire / fare più o meglio degli altri.
«Va’ dietro a me, satana»
In Mc 8,29ss e paralleli Pietro si spinge a confessare la messianicità (addirittura la
figliolanza divina) di Gesù. Anche qui parla a nome di tutti e dice la cosa giusta, almeno a
parole. Risponde bene (tanto da essere gratificato dal Maestro: vedi Mt 16,18-19) ma non
riesce affatto a integrare nella sua concezione messianica lo scandalo della croce che
Gesù comincia subito dopo ad annunciare.. Per questo si sente dare del «satana», poiché
4
La regione, piuttosto disprezzata dai Giudei, era vista come impura. La presenza di confini molto permeabili
la esponeva all’influenza pagana e faceva ritenere a chi stava in Giudea e a Gerusalemme che l’ebraismo
che vi veniva praticato non fosse del tutto ortodosso.
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così si oppone alla via del Maestro che, nella dedizione fino alla morte (e a quella morte),
rivela il volto sorprendente del Padre.
Questa relazione tra l’«apostolo» (=inviato) e il satana è sorprendente e ritornerà evidente
per tutti i Dodici durante la prova della passione; ma essa è presente per tutte le figure
«apostoliche»: vedi il caso dell’indemoniato di Gerasa, «apostolo» ante litteram (Mc 5,1ss)
e quello di Maria di Magdala (Mc 16,9; Lc 8,1ss). Questa sottolineatura è dettata forse dal
fatto che per essere discepoli / apostoli occorre annunciare soprattutto la misericordia di
Dio? E che questo annuncio, per essere onesto, deve passare dall’esperienza personale
di essere stati strappati al male per pura misericordia (vedi Paolo!), oggetti di un perdono
«impossibile agli uomini ma non a Dio»? Credo senz’altro di sì.
Mostratosi inadeguato già subito dopo la confessione di Cesarea e poi ancora in altri
momenti, la caduta di Pietro si fa drammatica nel triplice rinnegamento del Maestro dopo
l’arresto al Getsemani. E’ il momento più buio, nel quale Pietro nega perfino di aver mai
conosciuto Gesù. Mai così falso, quello che dice; e per tragica ironia mai così vero.
Il riscatto e la condizione
15 Quand'ebbero mangiato, Gesù disse a Simon Pietro: «Simone di Giovanni, mi vuoi bene tu più di
costoro?». Gli rispose: «Certo, Signore, tu lo sai che ti voglio bene». Gli disse: «Pasci i miei agnelli».
16 Gli disse di nuovo: «Simone di Giovanni, mi vuoi bene?». Gli rispose: «Certo, Signore, tu lo sai che
ti voglio bene». Gli disse: «Pasci le mie pecorelle». 17 Gli disse per la terza volta: «Simone di
Giovanni, mi vuoi bene?». Pietro rimase addolorato che per la terza volta gli dicesse: Mi vuoi bene?, e
gli disse: «Signore, tu sai tutto; tu sai che ti voglio bene». Gli rispose Gesù: «Pasci le mie pecorelle. 18
In verità, in verità ti dico: quando eri più giovane ti cingevi la veste da solo, e andavi dove volevi; ma
quando sarai vecchio tenderai le tue mani, e un altro ti cingerà la veste e ti porterà dove tu non vuoi».
19 Questo gli disse per indicare con quale morte egli avrebbe glorificato Dio. E detto questo aggiunse:
«Seguimi».
20 Pietro allora, voltatosi, vide che li seguiva quel discepolo che Gesù amava, quello che nella cena si
era trovato al suo fianco e gli aveva domandato: «Signore, chi è che ti tradisce?». 21 Pietro dunque,
vedutolo, disse a Gesù: «Signore, e lui?». 22 Gesù gli rispose: «Se voglio che egli rimanga finché io
venga, che importa a te? Tu seguimi» (Giovanni 21)
Se nei sinottici il riscatto di Pietro è offerto con la possibilità di un nuovo inizio della
sequela a partire da quella Galilea dove tutto era cominciato (cf Mc 16,7), in Giovanni
(21,15ss) Gesù mette prima alla prova Pietro e lo fa di fronte alla comunità dei discepoli.
Lo chiama Simone e lo incalza con tre domande. Notiamo la progressione: a) mi ami
(agapàs) più di costoro? b) mi ami (agapàs)? c) mi vuoi bene (filèis)? Gesù abbassa
progressivamente la sua attesa nei confronti del discepolo per portarlo al riconoscimento
dei limiti del suo amore (filèin) e all’affidamento a lui. Pietro cambia la sua risposta dal «tu
sai» al «tu sai tutto». E’ necessaria una grande umiltà, che egli attesta dall’inizio e di fronte
ai suoi fratelli, ma che deve passare attraverso la ripetizione della richiesta, quasi che
Gesù non ci creda da subito (le tre volte, che producono in Pietro tristezza, richiamano i
suoi rinnegamenti; ma anche le tre manifestazioni che Gesù risorto ha dovuto donare ai
discepoli per abilitarli alla sequela). In realtà è così che veniamo istruiti sulla nostra poca
fede e il nostro poco amore. Ma solo così possiamo essere «pastori» misericordiosi per i
nostri fratelli, cioè farci loro servitori, accoglierli e amarli come lui ha accolto e amato noi
peccatori.
26
L’esodo di Pietro
Dopo l’incontro con il Risorto e la «consegna» della missione, non tutto è però ancora
compreso. I primi capitoli degli Atti degli Apostoli documentano le prime «prove di
missione» e insieme narrano in maniera ironica di resistenze permanenti da parte degli
«apostoli». Esse verranno a poco a poco superate (alcune mai del tutto…), ma intanto
veniamo istruiti sul fatto che la testimonianza cristiana onora il suo compito accettandosi
come itineranza, sequela, chiamata continua alla conversione. Non potrebbe essere
altrimenti: il vangelo (negli Atti è il protagonismo dello Spirito e della Parola) ci supera
sempre, e perciò non può mai essere posseduto una volta per tutte.
A ridosso della conversione di Paolo e degli inizi della sua predicazione, Luca narra di
Pietro in visita pastorale. Il testo di Atti 9,32ss sembra supporre un’abitudine («mentre
Pietro andava a far visita a tutti…») frutto della sollecitudine di Pietro per i gruppi cristiani
che si vanno formando. Notiamo però che visita paesi che stanno nei confini di Israele, e
dal contesto arguiamo che si tratta di gruppi di ebreo-cristiani.
Di fatto, però, è la prima volta (secondo il «tempo del racconto») dall’inizio degli Atti che si
dice di un viaggio di Pietro fuori di Gerusalemme. Finalmente anche per lui è venuto il
momento di un esodo e di una itineranza. Che l’intento del narratore sia anche quello di
mostrare la progressiva somiglianza tra il discepolo e il suo Maestro è del tutto evidente.
Così come è evidente la ricerca di un punto di contatto tra Pietro e Paolo.
Questo esodo è caratterizzato dall’incontro con fratelli e sorelle, ma è anche e soprattutto
l’occasione di inciampare sul male e sulla morte. Di questo viaggio di Pietro vengono
ricordati due gesti di liberazione dal male: una guarigione e addirittura una risurrezione. Si
tratta di gesti intrinsecamente legati all’annuncio del vangelo. Luca infatti sottolinea come
essi siano stati motivo di conversione / di fede per molti. Per Pietro, tuttavia, si prepara un
esodo ben più decisivo. Il capitolo 10 lo racconta in maniera assai intrigante. Questa
pagina luminosa ci racconta la grandezza di Pietro. Ma non perché, come qualche volta si
è detto, narra la conversione del centurione romano Cornelio. Il nostro ufficiale in realtà è
descritto come un giusto. Chi invece vivrà una conversione, pur essendo cristiano, sarà
proprio Pietro; e qui sta la sua grandezza e insieme la ragione di esemplarità per noi e per
la nostra responsabilità a riguardo dell’evangelizzazione. Vediamo alcuni snodi del
racconto.
L’infrangersi di schemi «antichi»
Per capire al meglio questo testo occorre ricordare chi ha visitato finora Pietro. E’
immeditato dedurre dal contesto che si tratta di gruppi di cristiani ebrei. Pietro ritiene
ancora, con la comunità di Gerusalemme che gli chiederà conto della sua accoglienza del
pagano Cornelio attraverso il battesimo (cf Atti 11,1ss), che il vangelo sia destinato
soltanto ai suoi «fratelli», i figli di Israele, anche se le conversioni a Lidda e a Giaffa
alludono già con certezza anche alla presenza di cristiani pagani («Lo videro tutti gli
abitanti di Lidda e del Saron e si convertirono al Signore»; 9,35).
La prima scena (10,1-8) presenta Cornelio come «timorato di Dio», uno di quei
simpatizzanti dell’ebraismo destinati però a restare sulla soglia della religione ebraica.
Prega e fa molte elemosine. E’ un uomo buono e pio. Dio lo visita e gli ordina di far venire
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da Giaffa Simon Pietro (che non conosce). E’ ovvio che si tratti una cosa importante per lui
(«il Signore si è ricordato di te»), ma l’angelo non dice perché.
La seconda scena (10,9-23) narra una visione di Pietro: vede per tre volte animali impuri e
sente una voce che gli ordina di uccidere e mangiare. Egli resiste dicendo: «non ho mai
mangiato nulla di profano o di impuro». La replica ogni volta è questa: «Ciò che Dio ha
purificato tu non chiamarlo profano». Quando arrivano gli inviati di Cornelio lo Spirito
suggerisce a Pietro di seguirli «senza esitare». L’apostolo chiede però qual è il motivo
dell’invito ad andare a casa di Cornelio. La risposta narra la visione di Cornelio e aggiunge
(nella scena precedente si diceva solo di farlo venire) «per ascoltare ciò che hai da dirgli».
A questo punto Pietro è pronto a seguirli con alcuni fratelli che lo accompagnano.
L’esodo decisivo: imparare una ospitalità senza condizioni
Terza scena, in casa di Cornelio (10,24-48). Quando Pietro arriva a Cesarea trova ad
aspettarlo una piccola folla. Prima di entrare in casa Cornelio lo ferma prostrandosi in
adorazione. Pietro protesta e desacralizza la sua figura con queste parole «anche io sono
un uomo», che potremmo rendere con «io sono come te». L’esperienza religiosa secondo
lo Spirito del Maestro di Nazaret crea uguaglianza e riporta ognuno al suo posto nella
fraternità universale. A questo punto soltanto entra con Cornelio in casa sua. Viene così
sottolineato che questa soglia è simbolica: si tratta di una vera e propria frontiera, e il suo
attraversamento implica un esodo decisivo e profondo.
Pietro sottolinea la cosa esplicitando che ormai non deve più «chiamare profano o impuro
nessun uomo». Ma chiede per cosa è stato chiamato. Cornelio racconta la sua visione
aggiunge un altro particolare: «[l’angelo] mi disse: …la tua preghiera è stata esaudita».
Cosa aveva chiesto? Non sappiamo, ma di certo Cornelio chiedeva qualcosa che ora
Pietro è venuto a portare. Aggiunge soltanto: «siamo qui riuniti, al cospetto di Dio, per
ascoltare [udire e ubbidire] tutto ciò che dal Signore ti è stato ordinato».
Ed ecco finalmente scattare la comprensione in Pietro: «sto rendendomi conto che Dio
non fa preferenze di persone…». Pietro assume l’ospitalità di Gesù / di Dio e accoglie nel
vangelo Cornelio e i suoi. Rileggiamo lentamente il suo annuncio:
34 Pietro prese la parola e disse: «In verità sto rendendomi conto che Dio non fa preferenze di
persone, 35 ma chi lo teme e pratica la giustizia, a qualunque popolo appartenga, è a lui accetto. 36
Questa è la parola che egli ha inviato ai figli d’Israele, recando la buona novella della pace, per mezzo
di Gesù Cristo, che è il Signore di tutti. 37 Voi conoscete ciò che è accaduto in tutta la Giudea,
incominciando dalla Galilea, dopo il battesimo predicato da Giovanni; 38 cioè come Dio consacrò in
Spirito Santo e potenza Gesù di Nazaret, il quale passò beneficando e risanando tutti coloro che
stavano sotto il potere del diavolo, perché Dio era con lui. 39 E noi siamo testimoni di tutte le cose da
lui compiute nella regione dei Giudei e in Gerusalemme. Essi lo uccisero appendendolo a una croce,
40 ma Dio lo ha risuscitato al terzo giorno e volle che apparisse, 41 non a tutto il popolo, ma a
testimoni prescelti da Dio, a noi, che abbiamo mangiato e bevuto con lui dopo la sua risurrezione dai
morti. 42 E ci ha ordinato di annunziare al popolo e di attestare che egli è il giudice dei vivi e dei morti
costituito da Dio. 43 Tutti i profeti gli rendono questa testimonianza: chiunque crede in lui ottiene la
remissione dei peccati per mezzo del suo nome» (Atti 10)
Pietro può vedere compiersi il senso della sua missione di apostolo proprio rileggendo in
modo nuovo il vangelo alla luce dell’esodo e dell’ospitalità che gli accadimenti lo hanno
portato a vivere. Questa nuova rilettura, per altro, è decisiva e porta definitivamente Pietro
dall’economia antica a quella nuova.
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La conferma della mediazione dell’apostolo
Una pentecoste simile a quella del cap 2 stupisce i credenti (ebrei-cristiani) che
accompagnano Pietro e induce l’apostolo a donare ai pagani il battesimo. Ormai Pietro è
pronto a riconoscere come fratelli anche questi stranieri impuri.
La mediazione apostolica, visibile nell’annuncio e nel sacramento, viene confermata come
necessaria. Tuttavia essa costituisce una mediazione. Il lavoro della grazia è compiuto
dalla Parola e dallo Spirito, non senza convertire l’apostolo stesso. E l’efficacia di questa
conversione, che fa comprendere a Pietro l’universalità del vangelo (cioè del Padre) e
della fraternità, è dovuta al confronto con questi stranieri.
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sommario
introduzione .......................................................................................................................2
1. ABRAMO A GERAR .......................................................................................................4
Itineranza .........................................................................................................................4
Abramo e l’incontro con Dio .............................................................................................6
«Vattene… dalla casa di tuo padre» ................................................................................7
Incontri sorprendenti lungo la strada ................................................................................8
Lasciare cosa? .................................................................................................................9
Quello che resta è la fede ..............................................................................................10
2. GIONA A NINIVE...........................................................................................................12
Giona, profeta ribelle ......................................................................................................12
Il dono di una «seconda volta» (cap 3)...........................................................................13
La protesta di Giona (cap 4)...........................................................................................15
Misericordia e risentimento ............................................................................................17
3. GESÙ DALLE PARTI DI TIRO......................................................................................19
Gesù nel guado della crisi ..............................................................................................19
La tentazione della chiusura...........................................................................................20
Il dono di una madre.......................................................................................................21
Il dono dei «lontani» .......................................................................................................23
4. PIETRO A CESAREA ...................................................................................................24
Chiamata e sequela .......................................................................................................25
«Va’ dietro a me, satana» ..............................................................................................25
Il riscatto e la condizione ................................................................................................26
L’esodo di Pietro ............................................................................................................27
L’infrangersi di schemi «antichi» ....................................................................................27
L’esodo decisivo: imparare una ospitalità senza condizioni ...........................................28
La conferma della mediazione dell’apostolo...................................................................29
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