Le decisioni che ci riguardano, in
Europa, vengono prese dal Consiglio,
dalla Commissione, dalla BCE o dal
Parlamento europeo? Perché, per
risolvere la crisi ucraina, Obama non ha
potuto fare altro che chiamare Angela
Merkel,
invece
che
l’Alto
rappresentante per la politica estera
europea?
La maggior parte degli italiani e degli
europei, e non per loro colpa, non
saprebbe rispondere. E forse neanche
farsi queste domande. L’Unione europea
è stretta tra la mancanza di trasparenza
dei
meccanismi
decisionali
e
l ’i ncompl etezza del processo di
unificazione. I risultati sono la
disaffezione dei suoi cittadini, cresciuta
negli ultimi anni, e l’incapacità
dell’Europa di far valere la propria
voce sui temi che oggi veramente
contano su scala globale. Rischiamo per
q u e s t o di buttare via un’enorme
opportunità costruita sull’incredibile
intuizione e lavoro dei padri fondatori
dell’Unione europea. È così inevitabile?
Cosa possiamo fare per prendere
un’altra direzione?
Se potessimo vivere una giornata “senza
Unione”, come se non esistesse, ci
renderemmo conto di quanto l’Europa
sia importante nel nostro quotidiano, di
quante cose consideriamo scontate.
Schiacciati nello sterile scontro tra chi
vuole distruggere l’Europa e chi la
difende acriticamente, non facciamo
molti passi avanti. Questo libro vuole
uscire dall’alternativa secca bianco o
nero, e invece vedere tutti i colori di cui
è fatta oggi l’Unione europea. Insomma,
una riflessione equilibrata su quali
errori sono stati fatti, quali condizioni
non sono state realizzate, ciò che di
buono esiste e come possiamo
utilizzarlo al meglio. Soprattutto, qual è
l’Unione europea che vogliamo costruire
a misura dell’Italia, e come possiamo
cominciare a farlo.
ALESSIA MOSCA, nata a Monza nel
1975, è la promotrice della legge
120/2011 sulle quote di genere nei
consigli di amministrazione, della legge
238/2010 sul rientro dei talenti in Italia
e a gennaio 2014 ha presentato una
proposta di legge sullo smart working.
Dottorato in Scienza della Politica, è
Young Global Leader - WEF (2009),
Rising Talent - Women’s Forum for the
Economy and Society (2010) e World of
Difference Award Winner - TIAW
(2014).
Deputata
del
Partito
democratico, nella XVII legislatura è
capogruppo in Commissione Politiche
europee alla Camera.
ALESSIA MOSCA
L’UNIONE, IN
PRATICA
Un’Europa a misura d’Italia
Proprietà letteraria riservata
© Alessia Mosca
Prima edizione digitale marzo 2014
L’UNIONE, IN
PRATICA
Prefazione
di Eric Jozsef
Per decenni, si è pensato che la marcia
in avanti dell’Europa fosse inesorabile.
Magari a piccoli passi. Magari con
alcuni passi di lato. Ma con l’idea che la
pace – in un continente segnato, nel
passato, dalle sofferenze delle guerre –,
la democrazia – in uno spazio
geografico a lungo diviso e sopraffatto
dai totalitarismi – e il benessere
economico e sociale sviluppati per
scardinare il ritorno di vecchi fantasmi,
fossero garanzie per continuare ad
associare costruzione dell’Unione e
progresso. Era il periodo in cui i
dirigenti dei Paesi europei pensavano,
illusoriamente e ingenuamente, che un
bel giorno, dopo una lunga notte serena,
i popoli si sarebbero svegliati cittadini
di un’Europa una e unita. Ma la notte si
è fatta incubo. La storia del mondo è
cambiata a una velocità spaventosa (tra
fine dei due blocchi, rivoluzione
tecnologica, emergere di nuove potenze
ed esplosione demografica di più di
200.000 persone per giorno, circa una
città come Trieste ogni 24 ore) e i
cittadini hanno cominciato a perdere
punti
di
riferimento
dando
prioritariamente la colpa delle loro
angosce a un’Europa incompleta, lenta,
burocratica e ancora sottomessa ai diktat
dei singoli governi nazionali. La crisi
economica iniziata con il crac
finanziario
del
2008
è
stata
l’acceleratore di questa sfiducia, perché
si era «venduta» l’Europa come una
convenienza economica più che come un
grande progetto comune. Venuta meno la
convenienza immediata e visibile, la
prospettiva
di
questa
avventura
collettiva straordinaria e unica nelle sue
forme di pace, di modello economico,
sociale, ambientale, di rispetto delle
minoranze e dei diritti civili è stata
rimessa in discussione.
Pertanto, bisogna ripartire. Urge
rilanciare, riformare, ritrovare un
orizzonte comune mettendo in evidenza
che solo un’Europa forte e unita può
essere rimedio e soluzione per i cittadini
europei. Solo un’Unione europea decisa
e coesa è capace di imporre delle regole
a un capitalismo finanziario senza freni.
Solo un’Europa unita è in grado di
correggere gli squilibri provocati dalla
mondializzazione, di suggerire nuove
regole, di inventare nuove soluzioni.
Nessun singolo Paese, compresa la
Germania, può pensare di contare nel
mondo di domani. Nel 2050 non ci sarà
più nessun Paese europeo nel G20.
Mentre insieme siamo, ancora e
malgrado la crisi, la prima potenza
economica del mondo con un’attenzione
al sociale senza paragoni. L’UE
rappresenta il 50% delle spese mondiali
nel sociale. È questo il modello di
civiltà che bisogna difendere, evitando
che mere operazioni contabili creino,
come in Grecia, sacche di inaccettabile
povertà. Per questo bisogna riprendere
il cantiere delle proposte, delle riforme,
delle speranze. Questo si potrà fare solo
ricordando, come scrive Alessia Mosca
in questo piccolo testo, sintetico ed
efficace, le ragioni della costruzione
dell’Unione, evocando le radici del
nostro passato comune, mostrando le
realizzazioni, le possibilità offerte già
oggi ai cittadini e le formidabili
potenzialità dell’Europa.
L’Europa è, oggi, a un bivio cruciale.
È il bivio dell’accelerazione, del salto
politico verso una forma di Stati Uniti
d’Europa
o
la
progressiva
decomposizione del sogno europeo che
porterà a un declino per tutti. «Senza
Europa politica resta solo l’Europa
tecnocratica» scrive Alessia Mosca, che
sottolinea giustamente quanto le vicine
elezioni europee saranno decisive. Solo
i cittadini, in particolare attraverso i
loro rappresentanti al Parlamento di
Strasburgo, saranno in grado di spingere
i capi di Stato e di Governo nazionali a
fare il salto per un nuovo cammino
comune verso un’Europa più forte, più
unita e più equa.
«Le dodici stelle [della bandiera
europea, ndr] significano per me che si
potrebbe vivere meglio su questa terra»
concludeva Vaclav Havel nel 1990,
pochi mesi dopo la caduta del Muro di
Berlino, «solo se, ogni tanto, si alzasse
gli occhi a guardare le stelle.»
Introduzione
Le decisioni in Europa vengono prese
dal Consiglio, dalla Commissione, dalla
BCE o dal Parlamento europeo?
Perché Obama, per risolvere la crisi
ucraina, non ha potuto fare altro che
chiamare Angela Merkel invece che
l’Alto rappresentante per la Politica
estera europea?
La maggior parte degli italiani e degli
europei, non per colpa loro, non sa
rispondere a queste domande. L’Unione
europea è stretta tra una mancanza di
trasparenza dei meccanismi decisionali
e un’incompletezza del processo di
unificazione. I risultati sono la
disaffezione dei cittadini europei,
dimostrata ampiamente negli ultimi anni,
e l’incapacità dell’Europa di far valere
la propria voce sui temi che oggi
veramente contano su scala globale.
Credo che siamo sul punto di buttare
via un’enorme opportunità costruita
sull’incredibile intuizione e sul lavoro
dei padri fondatori dell’Unione europea.
Io sono profondamente convinta che
l’unica via d’uscita possibile sia quella
di un’apertura delle istituzioni a noi
europei e un completamento del
processo di integrazione.
In più l’Italia, storicamente il Paese
più euro entusiasta, è quasi sempre agli
ultimi posti in Europa a livello di
europeizzazione, intesa per esempio
come utilizzo dei fondi comunitari,
mentre è ai primi posti per numero di
procedure di infrazione per mancato
recepimento di direttive comunitarie.
Inoltre, sembra che il nostro Paese
subisca decisioni prese altrove, invece
che concorrere alla loro formazione a
livello europeo. Perché?
La nostra classe dirigente, a partire da
quella politica, ha investito poco
sull’Europa. A parte rari casi, abbiamo
avuto rappresentanti poco avvezzi alle
dinamiche internazionali e spesso
neppure in grado di parlare una lingua
straniera. Se non si cambia anche su
questo versante, il rischio di essere
tagliati fuori sarà sempre più reale.
Il semestre europeo di presidenza
italiana è dunque un’opportunità per
consentirci anche di risalire dal rango di
«Paese periferico» a quello di «Paese
fondatore» dell’UE. Sono passati 10
anni dal 2003, da quando l’Italia
presiedette un altro semestre europeo da
non rimpiangere. L’inizio fu pessimo in
quanto nella seduta del Parlamento
europeo del 2 luglio il presidente del
Consiglio italiano, Silvio Berlusconi,
che si insediava nella carica europea,
ebbe uno sgradevole scontro con Martin
Schulz, allora vicepresidente del gruppo
parlamentare socialista. Poi venne la
violazione del vincolo sul deficit da
parte di Francia e Germania che si autoesentarono dalle sanzioni senza che
l’Italia volesse o potesse fare nulla. Per
evitare di essere il notaio di decisioni
altrui, l’Italia del 2014 dovrebbe
focalizzarsi su poche e concrete
iniziative politico-economiche connesse
alle varie scadenze europee.
Negli ultimi anni e soprattutto nel
corso degli ultimi mesi – per via del mio
ruolo di capogruppo in commissione
Politiche europee alla Camera – ho
avuto modo di ascoltare molte persone
sul tema dell’Europa, la maggior parte
delle quali erano accomunate da una
qualche forma di aspettativa che è
rimasta disattesa. Ho raccolto qualcuna
delle loro storie (nelle quali è possibile
che ogni lettore ritrovi qualche pezzo
della propria, di storia). Se ne ricava in
generale che i problemi dell’Europa e
della sua relazione con i cittadini si
articolano su diversi livelli: l’attuale
organizzazione dell’Unione europea,
percepita dalle persone come un gruppo
di tecnocrati che “assegnano i compiti a
casa” agli Stati membri e alle loro
popolazioni; la sensazione di un’Unione
“zoppicante”
per
l’eterogeneità
normativa che rende complicato sentirci
più “cittadini europei”; le difficoltà di
comunicazione e comprensione. Se da un
lato l’Unione europea ha già messo in
atto possibili soluzioni alle nostre
richieste che noi non sfruttiamo,
dall’altro l’Europa esiste già, è
fortissimamente presente nella nostra
quotidianità, solo che non lo sappiamo.
Vi racconterò nel capitolo 1 qualche
esempio di opportunità, che spesso non
sfruttiamo perché non le conosciamo,
partendo da storie vere. Questo capitolo
è anche una sorta di vademecum non
esaustivo di informazioni e occasioni da
cogliere. Nel capitolo 2 invece sono
raccolti esempi concreti di come
l’Europa ci renda la vita più facile e più
sicura molto più di quanto non
immaginiamo. Nel capitolo 3 mi
soffermerò poi brevemente su una
ricostruzione storica delle nostre radici
europee, letta attraverso la mobilità dei
confini, fisici e immateriali. I capitoli 4,
5 e 6 delineano le criticità dell’Unione
europea e del ruolo dell’Italia nell’UE.
Il capitolo 7, infine, individua, sulla
base di queste criticità, alcuni spunti di
lavoro circoscritti ma simbolici, vicini
alle esigenze quotidiane dei cittadini
europei. Perché l’Europa è fatta in
primis dalle persone che ci vivono e che
vogliono viverci bene oggi e meglio
domani.
E gli italiani, più degli altri, potranno
salvare se stessi solo costruendo ponti
verso l’Europa e usando questi ponti
come trampolini verso il domani. Ogni
ponte inizia sempre con un progetto
tracciato su una pagina bianca, e io
spero di contribuire alla sua costruzione.
Ho scritto queste pagine nel tentativo
di elaborare sia una diagnosi sia
possibili soluzioni, senza pretesa di
esaustività su un tema così complesso.
Vi chiedo perciò la pazienza di seguire
il ragionamento che ho cercato di
rendere quanto più scorrevole e
semplice possibile. Pur sapendo che,
oggi, l’Europa semplice non è.
Capitolo 1
Opportunità nascoste
Qualsiasi
buon intervento
parte
dall’ascolto
se
vuole
davvero
rispondere alle necessità, ai problemi
concreti. Una convinzione che vale in
modo particolare per la relazione tra
l’Unione europea e i cittadini italiani,
articolata in tantissimi livelli e
ingranaggi che spesso si inceppano.
Per tanti mesi ho ascoltato le
esperienze, le esigenze, le aspettative di
tante persone, che mi hanno dimostrato
che uno dei problemi più gravi di questa
relazione è la mancanza di informazioni.
La stragrande maggioranza dei cittadini
italiani non è a conoscenza delle tante
opportunità che l’Unione europea mette
a disposizione per tanti: imprenditori e
imprenditrici, enti locali, studenti,
operatori della cultura, per citarne solo
alcuni.
Vi racconto alcune di queste storie,
anche per dare qualche indicazione utile
a loro e a chi in loro si riconosce.
Lorenzo, liceale metropolitano
«Per me l’Europa è un luogo geografico,
niente più di questo.» Durante un
incontro con alcuni liceali e universitari,
in cui abbiamo parlato degli ideali
europei,
del
confronto
e
dell’integrazione tra culture diverse ma
con radici comuni, del grande progetto
dell’Europa che ci ha portato
sessant’anni di pace dopo due guerre
orribili, queste parole di Lorenzo,
studente al primo anno di liceo
scientifico, mai stato all’estero, ci
riportano bruscamente con i piedi per
terra.
Mi sono chiesta, allora, cos’è
accaduto, tra la nascita di quel grande
sogno e lo sguardo di questi ragazzi di
quattordici, quindici, sedici anni che
abitano la realtà oggi? Dove si è rotto
qualcosa, dove non è stato fatto,
proposto o anche solo raccontato
abbastanza?
Non si tratta di due dimensioni diverse,
una vera e giusta e l’altra no: si tratta,
piuttosto, di due sguardi differenti sullo
stesso oggetto.
La famiglia di Lorenzo non è abbiente,
entrambi i genitori lavorano ma le
risorse per crescere i tre figli non sono
sufficienti a offrire loro esperienze
formative più ricche e articolate che
integrino l’istruzione pubblica.
A maggior ragione se chiedete a un
ragazzo di una qualsiasi provincia
italiana che cosa rappresenti per lui
l’Unione europea, la sua risposta non
sarà dissimile se non ha genitori in
grado di offrirgli una vacanza all’estero,
o di pagargli un corso estivo in Europa.
Il percorso di conoscenza e
assimilazione della cittadinanza europea
è lasciato tutto alle famiglie, o ad altre
agenzie educative/formative private.
Questo genera, tra le altre conseguenze,
un’asimmetria culturale che si trasforma
ben presto in una disuguaglianza di
opportunità sociali: crescere sapendo di
far parte di una comunità più ampia di
quella ristretta nei confini del proprio
Stato significa, ad esempio, investire
nella conoscenza delle lingue, oltre che
acquisire la consapevolezza di poter
svolgere un periodo del proprio
percorso scolastico in un Paese europeo
e, dopo, di avere un orizzonte più ampio
all’interno del quale cercare lavoro.
Cosa potremmo fare? Innanzitutto,
riflettere sull’opportunità di inserire un
corso di Storia e istituzioni dell’Unione
europea all’interno di ogni ciclo
scolastico: dalla scuola materna alla
scuola superiore, articolato e costruito
in maniera diversa a seconda
dell’obiettivo e dell’età degli studenti.
In secondo luogo, la conoscenza e
l’integrazione, soprattutto a quell’età, si
ottengono in maniera più efficace
quando è possibile farne esperienze
tangibili: perché non utilizzare, allora,
programmi europei di scambio fin dalle
elementari, che prevedano per alcuni
giorni il soggiorno di una classe in un
altro Paese europeo, per poi, ad
esempio l’anno successivo, offrire
ospitalità in quella stessa classe agli
alunni di un Paese europeo ancora
diverso (programma Comenius).1 Nella
vita di tutti i giorni i bambini potrebbero
fare esperienza diretta delle differenze e
delle somiglianze tra mondi diversi e
toccare – in maniera molto più
immediata di quanto potrà mai
permettere un libro di storia – che cosa
significa nel concreto essere tutti
abitanti di una stessa casa chiamata
Europa.
In realtà,
qualche
risorsa
a
disposizione delle scuole già c’è, anche
se poco conosciuta e, dunque, poco
utilizzata. Penso, ad esempio, al progetto
promosso
dal
Europa=Noi,2
dipartimento Politiche europee, che
offre a studenti e insegnanti la
possibilità di scoprire storia, valori,
istituzioni dell’Unione, ma anche di
conoscere i programmi europei e,
soprattutto, i diritti connessi alla
cittadinanza europea. Ci sono, inoltre,
diverse iniziative riguardanti l’Europa
promosse dal Governo, che permettono
ai più giovani di avvicinarsi in maniera
creativa e divertente al mondo europeo:
un esempio è stato il concorso “La mia
Europa è”,3 organizzato dal MIUR in
collaborazione con il dipartimento
Politiche europee, che invitava gli
studenti alla realizzazione del logo e
dello slogan per identificare il semestre
di presidenza italiana dell’UE. A volte,
dunque, le opportunità esistono ma non
le conosciamo: sotto questo profilo un
maggior coordinamento tra scuole,
Regioni e Governo produrrebbe
sicuramente risultati significativi.
Francesca, universitaria di una piccola
città
Lo scorso autunno, durante un seminario
sull’Unione europea, ho avuto modo di
ascoltare le opinioni di circa cinquanta
studenti universitari sull’Europa, sulle
loro aspettative così come sulle loro
delusioni.
Durante
la
nostra
chiacchierata
sono
emerse
considerazioni interessanti e racconti di
esperienze avute in prima persona. Una
di queste riguardava Francesca, una
studentessa della provincia piemontese
che ha trascorso sei mesi in Erasmus,
all’Università di Sciences-Po a Parigi.
Quando ha raccontato della sua
permanenza in Francia, conclusasi da
poco, ho sentito nella sua voce quella
stessa
emozione,
quello
stesso
entusiasmo, che è facile trovare nei
racconti dei ragazzi che hanno avuto
l’opportunità di trascorrere un periodo
all’estero. Scoprire il mondo è
un’esperienza bellissima e formativa in
qualunque momento della vita, ma il
motivo per cui l’Erasmus porta con sé
quell’aura di romanticismo e nostalgia
contagiosi è che a vent’anni si assorbe
la vita in maniera irripetibile, con una
fiducia, una fame di emozioni e una
leggerezza che difficilmente si riescono
a conservare crescendo, quando si ha a
che fare col mondo del lavoro e, in
generale, con maggiori responsabilità.
Così, quando Francesca condivideva il
ricordo di una passeggiata solitaria alla
scoperta di Parigi o della prima cena
“sociale” con i suoi colleghi Erasmus
provenienti da Paesi diversi, io stessa
mi ci sono rivista e ho ricordato i
momenti passati a Bruxelles, dove
l’Europa riuscivi a toccarla, tanto era
reale, immersa tra lo stage al Parlamento
europeo e le serate con i colleghi,
europeisti di ogni angolo dell’Unione.
Tutto molto bello, dunque, ma poi?
Poi, tornata alla sua università italiana,
per Francesca è cominciata l’odissea:
esami non riconosciuti, conteggio dei
crediti che non torna, via vai tra le
segreterie.
Mesi
all’estero
che
dovrebbero essere un valore aggiunto si
trasformano, così, in una perdita di
tempo sulla tabella di marcia verso la
laurea.
Oltre a Francesca, nel gruppo c’è
anche chi lamenta problemi durante e
persino prima del soggiorno all’estero:
la maggior parte delle università italiane
lascia i propri studenti al loro destino
sia per quanto riguarda l’alloggio sia
per quel che concerne il programma di
studio, ad esempio la scelta degli esami
da sostenere in Erasmus.
L’Unione
europea,
allora,
non
dovrebbe
limitarsi
a
offrire
l’opportunità dell’Erasmus ma anche
monitorare la sua corretta applicazione,
incentivando un’omogeneizzazione tra le
università dei vari Paesi per evitare
problemi di riconoscimento di esami e
crediti una volta tornati a casa e
semplificando il trasferimento e la
sistemazione, magari attraverso una
sorta di “agenzia immobiliare europea”
che aiuti gli studenti nella ricerca di
alloggio.
Un altro grande tema emerso è
l’insufficienza delle borse di studio. Il
fatto è che, soprattutto se si scelgono
Paesi europei dove il costo della vita è
più elevato, le borse risultano
inadeguate e molto spesso coprono a
malapena il costo dell’abitazione. Senza
considerare un altro grande ostacolo,
che a discussione iniziata, sciolto il
ghiaccio, mi ha fatto notare un ragazzo
appena tornato da Glasgow: «Non si
potrebbe assegnare le borse di studio
prima della partenza, o almeno durante
il soggiorno? Io sono partito a gennaio
2013 e ho ricevuto la prima parte del
finanziamento al mio rientro a giugno, e
la seconda a ottobre. I miei genitori, con
un po’ di sacrifici, sono riusciti ad
anticipare tutto, ma con questo sistema,
ancora una volta, solo chi ha
disponibilità economiche può essere
certo di partire!».
Io ascolto e prendo appunti. Molti dei
loro racconti mi colpiscono perché
testimoniano come siano i tanti piccoli
dettagli a livello di applicazione che
rischiano di svuotare, di fatto, il grande
potenziale democratico di programmi
come Erasmus: dare a tutti la possibilità
di andare all’estero, perfezionare la
conoscenza delle lingue, apprendere
quanto più possibile da un ambiente
diverso per poi tornare a casa con un
vantaggio competitivo in più, legato solo
all’impegno e alla determinazione
individuali e non al censo della propria
famiglia.
Che cos’è, se non questo, l’Europa? Un
“garante” che dà forma concreta ai
diritti statuiti nelle costituzioni degli
Stati nazionali, eppure spesso disattesi
nella
loro
applicazione
pratica.
Dobbiamo far sì che il ruolo
dell’Unione europea non si limiti a
prevedere l’esistenza di una risorsa,
quale è Erasmus, ma si estenda al
monitoraggio e alla verifica della sua
attuazione nella maniera più corretta. Ed
equa.
Dario, in cerca del primo lavoro
La storia di Dario potrebbe davvero
appartenere a chiunque di noi. Dario è
un giovane siciliano che ha appena
terminato il suo corso di laurea in
Scienze politiche e vorrebbe fare
un’esperienza in Europa per crescere
professionalmente
e
imparare
concretamente a “fare”, visto che
l’università italiana soffre, soprattutto in
alcune facoltà, di un’asimmetria tra
l’apprendimento della teoria e la
capacità di utilizzo pratico. Ha fatto
application per un tirocinio al
Parlamento europeo, purtroppo senza
fortuna, e non sapeva a chi rivolgersi
per tentare strade alternative.
Mediamente, ogni anno circa un terzo
delle candidature totali ricevute dal
Parlamento europeo per i tirocini
retribuiti provengono dall’Italia. Non è
un dato che sorprende: la borsa di studio
per uno stage di 6 mesi ammonta a oltre
1200 euro lordi mensili, e le spese di
viaggio (da e per Bruxelles e
Strasburgo) sono riconosciute a parte.
Cifre del genere nel nostro Paese molto
spesso non vengono corrisposte neanche
come vero e proprio salario, figuriamoci
nel caso di stage o tirocini, il più delle
volte non retribuiti affatto.
I posti al Parlamento europeo, tuttavia,
sono limitati: circa 400 totali. Quali
altre opportunità offre l’Europa?
Per quanto riguarda i tirocini, è
possibile consultare la relativa sezione4
del sito dell’Unione, dove sono elencate
tutte le istituzioni che prevedono stage,
con le informazioni complete su come
accedere alla selezione, quali requisiti
sono
richiesti,
e
molte
altre
informazioni.
Per chi, invece, vuole sapere come
candidarsi per una posizione lavorativa
vera e propria, il sito da consultare si
chiama EPSO,5 l’Ufficio del personale
dell’Unione. Qui si trovano notizie sulle
posizioni attualmente aperte, sui
concorsi che si svolgeranno nel
prossimo futuro e indicazioni sulla
domanda da presentare.
Non esistono, tuttavia, solo le
istituzioni europee. Se l’obiettivo è fare
un’esperienza
di
apprendistato
all’estero, è possibile aggiornarsi sui
bandi del Progetto Leonardo:6 qui si
trovano moltissime opportunità di
tirocinio professionale nei diversi Stati
membri dell’Unione, suddivisi in base
all’ambito lavorativo e al Paese di
residenza.
Un altro sito di riferimento dove
cercare le posizioni aperte all’interno
del proprio ambito professionale e
inviare il proprio curriculum, è EURES7
(Servizi europei per l’impiego), utile
anche per informarsi sulle condizioni di
vita e di lavoro negli altri Paesi europei.
È consigliabile, infine, dare uno
sguardo anche alla sezione dedicata
all’apprendimento permanente, dove è
possibile trovare sempre qualche
opportunità.
Anna, mamma che vuole lavorare
Quando prende la parola, durante un
incontro con giovani madri lavoratrici,
Anna per prima cosa mi dice: «Non
avete mai pensato che il termine
“conciliazione”
presuppone
un
conflitto?». Il linguaggio non è mai
neutro: è la voce di una società. L’uso
delle parole racconta moltissimo delle
dinamiche, delle credenze e abitudini,
delle barriere interne a un ambiente
sociale. Così, Anna ha ragione: l’uso
della parola “conciliazione” rivela tante
cose inerenti il ruolo della donna e la
nostra idea diffusa su diritti e pari
opportunità.
Sul dizionario si legge: «accordo tra
parti diverse e in contrasto». In
contrasto: una mamma non può essere
una lavoratrice, e viceversa. Essendo la
conciliazione sempre declinata al
femminile (raramente sentiamo parlare
di esigenze di conciliazione per i
colleghi uomini), ci rendiamo conto di
quanto fragili e a rischio siano i risultati
conquistati, negli ultimi decenni, nel
percorso della parità di genere. Tutto
bene, sembra, finché non si decide di
diventare mamma o non ci si deve
prendere cura, magari, dei genitori
anziani. A quel punto si innalza una
fortissima resistenza sociale, implicita e
non. Non è certo una dicotomia recente,
quella tra ambito di vita pubblico,
predominio maschile, e spazio privato,
racchiuso dentro le quattro mura della
dimora, regno femminile.
Il conflitto nasce qui. Le donne
reclamano a gran voce il diritto di poter
avere una famiglia senza dover
rinunciare al lavoro (come, del resto,
fanno gli uomini da diversi millenni…),
ma il sistema in cui siamo immersi
continua a mandare chiari messaggi
ostativi: le riunioni alle otto di sera, una
rigidità totale nell’organizzazione del
lavoro, pochissima disponibilità nella
concessione del part-time, assenza – o,
almeno, totale insufficienza – di servizi
alla famiglia, pubblici e privati. Senza
contare gli infiniti dibattiti su come
dovrebbe modellarsi il ruolo di madre,
sulla sua presenza a casa e sul tempo da
trascorrere con i figli. Dibattiti tanto
appassionati che verrebbe da chiedersi
come mai nessuno dei censori delle
madri lavoratrici abbia mai detto una
parola quando tanti uomini riescono a
stare con i loro figli il sabato e la
domenica, e durante la settimana solo
dopo le nove di sera.
Cosa può fare l’Europa per le giovani
mamme che non hanno intenzione di
abbandonare il loro lavoro? Qui la
risposta è più complicata: chiaramente
l’intervento dell’Unione non può
avvenire in maniera diretta (tanto per
fare un esempio, fornendo dei voucher
baby sitter alle madri lavoratrici) ma
deve necessariamente muoversi lungo
due direzioni: la prima è quella del
Fondo sociale europeo, attraverso il
quale vengono finanziati progetti
finalizzati all’aumento dell’occupazione
femminile o a una più efficace
conciliazione; la seconda, invece, è la
strada – più lunga, e storicamente poco
considerata, ma anche l’unica in grado
di produrre effetti profondi e duraturi –
dell’intervento sull’educazione e sulla
formazione.
Una strada che le donne hanno ben
presente. Me lo dimostra l’intervento di
Elena, una giovanissima ricercatrice
universitaria in Scienze sociali: «È vero
che servono le leggi sulle quote, le leggi
sui congedi di paternità, le leggi sul
part-time, ma è altrettanto importante
che non si perda di vista il nodo
centrale, la cultura individuale e
collettiva. Ciò che imparano i nostri
bambini, ora, è completamente lasciato
alle singole famiglie, e a me sembra
assurdo. Così come è giusto che a scuola
si insegni a tutti la matematica, perché
non solo il figlio di un professore sappia
far di conto, allo stesso modo è
assolutamente necessario inserire un
programma di educazione di genere,
ovviamente differenziato per gradi di
istruzione, che educhi tutti i bambini e le
bambine alla conoscenza e al rispetto gli
uni delle altre».
Elena ha ragione e anche se noi, in
Italia,
sembriamo
faticare
nella
comprensione e nella messa in atto di
queste indicazioni, a livello europeo si è
già un bel pezzo avanti: l’EIGE
(European Institute for Gender Equality)
ha dato vita a un progetto sulla
Formazione di genere,8 sulla base del
quale è stata fatta una breve scheda sulle
risorse,9 strumenti e metodi usati a
supporto del mainstream di genere sia a
livello internazionale sia dai singoli
Stati membri dell’Unione (tutte le
pubblicazioni relative a questo progetto
e ad altri portati avanti dall’EIGE sono
consultabili in rete).10
Oltre alla formazione, tuttavia,
l’Unione europea contempla misure di
genere anche nell’ambito del lavoro. Lo
racconto ad Anna, architetto che dopo la
sua prima gravidanza si è ritrovata
elegantemente accompagnata alla porta
del grande studio in cui lavorava. Per le
donne
è
ancora
difficilissimo
rivendicare il diritto alla maternità senza
dover temere per il proprio posto di
lavoro.
Tra i diritti sociali garantiti a tutti i
cittadini europei nella Carta dei diritti
fondamentali dell’Unione europea è
espressamente indicata la conciliazione
tra vita familiare e vita professionale e,
tuttavia, anche in Europa c’è ancora
moltissimo da fare sotto questo profilo.
Le tutele sono largamente insufficienti e,
soprattutto sul piano della cultura
condivisa, è necessario avviare un
lavoro profondo e capillare. Il mio
consiglio, però, è di cominciare a
sfruttare al massimo quello che è già sul
piatto, senza mai smettere di lottare per
chiedere di più, per ottenere ciò che è
giusto.
Una buona idea, allora, è quella di
informarsi, anche presso la Camera di
Commercio di riferimento del proprio
territorio, o le ramificazioni territoriali
delle associazioni di categoria, sui
finanziamenti
dell’UE
per
l’imprenditoria femminile, che spesso
sono significativi. In una sezione11
dedicata del sito della Commissione
europea si possono passare in rassegna
tutte le iniziative, le opportunità di
consulenza e assistenza attivate in questo
settore,
mentre
sul
Portale
è
dell’imprenditoria
femminile12
possibile entrare in contatto con tante
associazioni, di categoria e non, che si
occupano di promuovere e sostenere i
progetti d’impresa al femminile,
fornendo gli strumenti e le informazioni
disponibili per potersi muovere nel
mondo dei finanziamenti europei e delle
procedure da affrontare per presentare
domanda di accesso.
Giovanni, imprenditore alle prime armi
Un po’ perché vengo da una realtà
territoriale all’avanguardia nell’ambito
della produzione tecnologica in Italia, un
po’ per curiosità, sono sempre stata
affascinata dal mondo dell’innovazione
in ogni sua declinazione: innovazione
tecnologica,
imprenditoriale,
dei
processi produttivi. Quando abbiamo
organizzato un incontro con innovatori e
imprenditori, dunque, ero molto curiosa
di ascoltarli, e le opinioni emerse sono
state molto interessanti.
Nel corso di un focus group abbiamo
chiesto loro di raccontarci le
associazioni verbali collegate ai due
concetti di “Europa” e “innovazione”.
Nel primo caso, è emersa in maniera
molto forte l’idea dell’opportunità:
opportunità di finanziamenti, di nuovi
mercati, di una vision economica
differente da quella diffusa nel nostro
Paese, di condivisione di capitali e di
idee al di fuori dei confini nazionali. Ma
è stata citata di frequente anche
l’immagine di una scarsa accessibilità
dell’Europa, con la sua burocrazia
elefantiaca e la complessità dei suoi
vincoli, che trasmette un’idea di spreco
e inefficienza accomunando – nella
visione del gruppo – l’Europa alla
politica italiana. In sostanza, dunque, è
apparsa chiara la percezione di distanza
e “scollamento” tra le potenzialità
dell’Unione europea e la sua effettiva
azione concreta.
Per quanto riguarda l’innovazione,
nonostante il concetto sia di norma
strettamente collegato alla tecnologia, il
termine è stato inteso in senso molto
ampio, inclusivo di quelle attività
tecnologiche, culturali, organizzative,
sociali, finanziarie, comunicative che
sfociano nell’introduzione sul mercato
di un prodotto o di un servizio nuovo e
migliore, finendo per coincidere con
l’idea di impresa.
«Per me» racconta Giovanni, trent’anni
compiuti da poco e imprenditore di una
piccola ditta artigianale di mobili in
Brianza, «innovare significa fare in un
modo diverso e più “evoluto” cose già
esistenti. È strettamente connesso alla
ricerca, al cambiamento volto a
semplificare e a rendere, ad esempio,
più comodi gli oggetti, più fruibili gli
spazi, più agevoli le relazioni.»
Innovazione come progresso, dunque, a
sua volta inteso come miglioramento
della vita delle persone.
Un’altra associazione emersa da più
parti è quella tra innovazione e
necessità: l’idea che a questo punto o
l’Italia, e l’Europa in una prospettiva
più vasta, innovano profondamente, o si
muore. Che l’innovazione sia il motore
della crescita, del resto, è una
convinzione ormai condivisa da tutti,
non solo nei Paesi avanzati: non c’è
sviluppo senza innovazione e non c’è
innovazione senza ricerca scientifica.
Consolidare la leadership europea a
livello della ricerca e dell’innovazione
nel prossimo decennio è, dunque,
r i t e n u t a una strada obbligata e
imprescindibile al fine di posizionare
nella corsa della competitività globale
l’industria europea, in particolare le
piccole e medie imprese, che hanno un
ruolo primario per la creazione della
crescita economica e dell’occupazione.
Le richieste che questo piccolo gruppo
di imprenditori e innovatori farebbe
all’Unione europea, dunque, sono
diverse e spaziano dall’esigenza, molto
diffusa,
di
semplificazione
e
“sburocratizzazione”
fino
all’armonizzazione sia normativa che
formativa, dal sostegno (non solo
economico ma anche di consulenza nel
processo di avvio) alle start up al ruolo
della scuola e dell’educazione, in modo
particolare in tema di formazione
all’imprenditorialità e di maggiore
integrazione tra il mondo scolastico e
quello professionale.
Una delle mancanze maggiormente
lamentate è il gap informativo tra le
azioni delle istituzioni e le conoscenze
dei cittadini: in sostanza, sembra che
molte opportunità per le imprese
innovative siano in realtà già previste e
messe a disposizione dall’Unione
europea, ma che la loro comunicazione
sia talmente inefficace da renderle
inaccessibili ai potenziali beneficiari.
Pochi sanno infatti che c’è un’intera area
web della Commissione europea, il
Portale europeo per le Piccole e medie
imprese,13 dove è possibile non solo
scoprire come ottenere finanziamenti14
per la propria PMI ma anche scoprire
informazioni – nella sezione dedicata
all’educazione all’imprenditorialità15 –
sulle opportunità di formazione per i
giovani imprenditori. Ad esempio il
programma Erasmus per giovani
imprenditori,16 che aiuta gli aspiranti
imprenditori europei ad acquisire le
competenze necessarie per avviare e/o
gestire con successo una piccola
impresa in Europa, scambiando
conoscenze e idee di business con
imprenditori già affermati, dai quali
poter essere ospitati, e con i quali
collaborare per un periodo da 1 a 6
mesi.
Nell’area dedicata alle Politiche e ai
programmi dell’Unione europea a
sostegno degli imprenditori e dei
lavoratori autonomi,17 inoltre, viene
illustrata in maniera complessiva la
visione
dell’UE
relativamente
all’imprenditorialità,
basata
sulla
strategia Europa 2020 e articolata
attraverso diversi strumenti, tra i quali i
finanziamenti del Fondo sociale
europeo,18 lo strumento europeo di
microfinanza Progress19 e il Fondo
europeo di sviluppo regionale.20 Per
farsi un’idea di cosa è possibile
realizzare grazie all’aiuto del Fondo
sociale europeo è presente, inoltre, una
mappa,21 dove sono inseriti una serie di
esempi di progetti già messi in atto e cofinanziati dal Fondo, divisi per
argomenti e settori d’impresa.
Gaia, ricercatrice ostinata
Gaia è la conoscente di una mia
collaboratrice, la quale ci ha messe in
contatto spinta dal desiderio di aiutare
l’amica in un momento complicato.
Ventotto anni, secondo anno di dottorato
in Sociologia, arrivato dopo oltre un
anno di tentativi poco fortunati, tanta
voglia di fare, moltissime idee e
altrettanta paura di cosa l’aspetterà nel
prossimo futuro. Gaia ha bisogno di un
consiglio e mi dice di aver pensato a me
un po’ perché sa che anch’io, per un
certo periodo, ho seguito la strada della
ricerca, un po’ perché l’amica le ha
raccontato delle mie esperienze di
studio e di lavoro in diversi Paesi
europei. La sua attenzione è tutta rivolta
là, oltre i confini del nostro Paese.
«Ho scelto questa strada di pancia, per
passione pura. In tanti vedono la ricerca
come una sorta di “piano B”, io ho
sempre voluto fare questo. Mi affascina
ed
entusiasma
l’opportunità
di
comprendere e interpretare la nostra
società, le dinamiche che la muovono, le
ragioni di tanti fenomeni. Il fatto è che
persino la ricerca nell’ambito delle
cosiddette hard sciences, come la fisica
o la medicina, soffre nel nostro Paese di
uno scarso riconoscimento, che si
traduce in una perenne insufficienza di
fondi. Figuriamoci le scienze cosiddette
soft, come la sociologia, appunto.» Mi
racconta che quando ha comunicato ai
genitori di voler perseguire questa
scelta, loro l’hanno appoggiata e
sostenuta, anche economicamente. Poi,
per fortuna, è riuscita a vincere il
concorso per entrare in una scuola di
dottorato e il punteggio conseguito le ha
permesso di ottenere una borsa di studio
che, pur non permettendole di essere
autonoma, perlomeno le consente di non
pesare completamente sulle spalle dei
suoi. L’ansia che l’accompagna durante
tutte le giornate, e che purtroppo
condivide con la maggior parte dei suoi
coetanei, è il pensiero di cosa ne sarà di
lei dopo quei tre anni, quando avrà in
mano un titolo prestigioso ma
difficilmente potrà vivere del suo
lavoro.
Che le cose debbano cambiare, anche
su questo versante, nel nostro Paese, è
fuor di dubbio. Viviamo nell’era della
conoscenza. In Italia pochi se ne sono
accorti, ma ormai i due terzi della
ricchezza prodotta nel mondo è ad alto
contenuto di conoscenza aggiunto. Per
oltre tre secoli l’Europa ha avuto il
monopolio pressoché assoluto nella
produzione di nuova conoscenza
scientifica e di innovazione tecnologica
ad essa legata. Per oltre settant’anni ha
diviso la partnership mondiale con gli
Stati Uniti. Ora fatica a tenere il passo
non solo con i Paesi di più antica
industrializzazione
come USA e
Giappone, ma anche e soprattutto con i
Paesi emergenti. L’Europa laurea meno
giovani di altre aree del mondo e investe
in ricerca meno di altre grandi aree
geografiche. Non a caso gli unici Paesi
europei che sono fuori dalla crisi e
riescono a competere nel mondo della
globalizzazione – Germania, Svizzera,
Paesi scandinavi – sono quelli che
investono
nell’alta
formazione,
nell’industria e nei servizi creativi, nella
ricerca scientifica e nello sviluppo
tecnologico.
Nel
2013 due europarlamentari
italiani, Amalia Sartori e Luigi
Berlinguer, hanno lanciato il manifesto
programmatico «Una Maastricht per la
ricerca»
che
pone
l’obiettivo
dell’innovazione come priorità assoluta
per creare nuovi posti di lavoro, con il
superamento della frammentazione delle
politiche degli Stati, che porta ad avere
28 diverse e spesso divergenti politiche
sulla ricerca.La necessità che
l’Europa riscopra il suo rapporto
privilegiato con la scienza e con
l’innovazione è una questione sia
culturale sia politica.
È anche quello che ci siamo detti
all’incontro con i giovani imprenditori e
startupper: in Italia o si innova o si
muore. Altro che “fuga dei cervelli”,
dunque: non solo dobbiamo lavorare per
essere in grado di tenere e valorizzare
talenti come Gaia ma dobbiamo creare
un ambiente talmente semplice, agile,
facile e ospitale da attrarre le eccellenze
di tutto il mondo. Fatto salvo questo
punto fermo, per il quale lavoro da quasi
dieci anni e da cui non intendo arretrare,
io quel pomeriggio, davanti a Gaia,
dovevo dare una risposta concreta alla
sua richiesta di un consiglio. Le
suggerisco di guardarsi intorno e di
leggere tutto ciò che sull’argomento del
suo progetto di ricerca avevano già
prodotto i centri di ricerca d’Europa.
«Trova i contatti, scrivi loro delle email, chiedi di poter parlare con i
direttori degli studi che ti interessano,
fai un periodo di ricerca all’estero.» È
una cosa in cui credo fortemente: la
contaminazione, la conoscenza di altri
metodi di lavoro, il confronto con altri
approcci sono sempre una ricchezza
immensa, soprattutto per un ricercatore.
L’Unione europea è una realtà che
dovrebbe significare esattamente questo:
la possibilità di aprire la mente al di là
delle nostre esperienze quotidiane,
dell’organizzazione e del sistema in cui
siamo nati e vissuti.
E dopo? Dopo le strade sono
molteplici.
Una
possibilità
è
EURAXESS,22 un portale pensato
specificatamente per i ricercatori
europei che cercano lavoro fuori dal
Paese di residenza, dove si forniscono,
oltre a luoghi di connessione domandaofferta di lavoro, informazioni utili
anche per il trasferimento in un altro
Paese europeo.
Fermo restando, dunque, che considero
la possibilità di viaggiare e di
confrontarsi con altri mondi un
vantaggio personale ancor prima che
professionale, oggi a Gaia e a tutti i
(tanti) giovani ricercatori come lei
consiglierei di fare un giro sul sito di
Horizon 2020.23
Solo il 5% degli investimenti in
ricerca nell’Unione europea è gestito a
livello centrale, dalla Commissione di
Bruxelles. Il 95% è gestito dagli Stati.
Fino al 2013 a disciplinare la politica
europea in merito a ricerca e
innovazione erano il VII Programma
quadro, il Programma quadro per la
competitività e l’innovazione (CIP) e
l’Istituto europeo per l’innovazione e la
tecnologia (EIT). Dal 1° gennaio 2014
c’è un solo programma, dal nome per
certo più evocativo: Horizon 2020,
appunto.
Quando
ho
incontrato
Gaia,
nell’autunno del 2013, ancora Horizon
2020 non esisteva in senso tecnico ma,
ovviamente, era già molto conosciuto
nell’ambiente di chi si occupa di
Europa. La sua portata, in effetti, è
straordinaria:
80
miliardi
di
finanziamenti nell’ambito della ricerca
da destinare a progetti meritevoli nel
corso di sette anni. Mai un simile
progetto europeo era stato tanto
ambizioso. Sul sito è possibile
consultare la procedura24 con la quale
fare richiesta di finanziamento, o
esaminare
l’elenco
delle
aree
considerate,25 per trovare i bandi
promossi all’interno del proprio settore
di interesse.
Molto spesso i centri di ricerca –
soprattutto all’interno delle università
meno grandi – non si attivano per
monitorare i bandi europei: è opportuno,
dunque, che chi è interessato si
documenti in prima persona sulle tante e
importanti possibilità che Horizon 2020
offre, per ottenere finanziamenti
destinabili al proprio centro di ricerca o
alla propria università, e per poter
trasformare una passione in lavoro,
senza necessariamente doversi trasferire
in un altro Paese europeo.
Guido, un regista e tante idee
Qualche mese fa, durante un convegno
proprio sul tema dei finanziamenti
europei, ho conosciuto Guido, 28 anni,
di professione regista, con una
formazione al Centro sperimentale di
cinematografia di Roma e, mi è parso
molto talentuoso.
Sono stata colpita subito dal suo
entusiasmo e dalla sua determinazione, e
alla fine dell’incontro mi sono fermata a
parlare con lui che, prima di andare via,
mi ha regalato un dvd con un paio di
suoi corti. Anche se il mio giudizio non
è quello di un esperto, da normale
spettatrice posso dire che mi sono
piaciuti davvero molto.
Cosa può fare l’Europa per i ragazzi
come Guido, dotati di tante idee ma
senza nessuno a cui rivolgersi per
poterle mettere in pratica?
Una prima risposta ha il nome di
Europa creativa: il programma di
bilancio 2014-2020 a favore dei settori
culturali e creativi. Evidentemente, a
differenza di qualche esponente politico
italiano, per la Commissione europea
con la cultura si mangia, infatti ha
presentato una strategia finalizzata a
esprimere pienamente il potenziale dei
settori della cultura e delle professioni
creative
dell’UE
per
stimolare
occupazione e crescita. La strategia,
delineata in un documento intitolato
«Promuovere la cultura e le professioni
creative per la crescita e l’occupazione
nell’UE», prevede una serie di iniziative
politiche e di modernizzazione del
quadro normativo. Nei prossimi sette
anni il programma offrirà finanziamenti
per progetti transnazionali, grazie ai
quali 250.000 artisti e professionisti
della cultura potranno raggiungere nuovi
pubblici all’estero. Il programma
investirà
inoltre
fortemente
nell’industria cinematografica europea,
sostenendo 2000 sale cinematografiche e
centinaia di film.
A Europa creativa, che disporrà di un
bilancio complessivo di 1 miliardo e 46
milioni di euro, non potranno rivolgersi
i singoli professionisti ma sarà
necessario avere l’intermediazione di
un’organizzazione culturale nazionale
(sia essa un teatro, un festival, una casa
di distribuzione cinematografica o
altro), oppure rivolgersi al desk Europa
creativa delle diverse nazioni, Italia
compresa.26
Una pecca rilevante del programma è
quella di non prevedere, tra le possibili
finalità idonee alla richiesta dei fondi, la
conservazione e il recupero di beni
culturali e artistici che – come appare
evidente – per il nostro Paese sarebbe,
invece, una grande opportunità, data la
vastità di produzione artistica che ha
arricchito l’Italia nel corso dei millenni,
ma la cui manutenzione e valorizzazione
hanno spesso costi faticosamente
sostenibili.
Nella guida del programma27 è
possibile consultare tutte le aree
finanziate con le rispettive scadenze per
la presentazione dei progetti. Cliccando
sulle singole voci si verrà reindirizzati a
una pagina che contiene tutte le
spiegazioni e le procedure su come fare
domanda e quali requisiti è necessario
soddisfare.
Guido, e come lui i tanti professionisti
della cultura, hanno la possibilità,
attivandosi, di prendere contatto con i
referenti nazionali di Europa creativa,
per cercare un partner a cui proporre il
proprio progetto e, attraverso questo,
presentare domanda per i finanziamenti.
È vero: spesso l’Europa è oscura e
lontana ma a volte, invece, le
opportunità non mancano, e i possibili
benefici sono reali e concretissimi.
Basta un po’ di curiosità, tanta
determinazione e, ovviamente, l’idea
giusta.
1.
http://eacea.ec.europa.eu/llp/comenius/comenius
2.
http://www.politicheeuropee.it/attivita/17123/eu
noi
3.
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4.
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5. http://europa.eu/epso/index_it.htm
6.
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7.
http://www.yourfirsteuresjob.eu/it/areacandidati
8.
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9.
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CatalogCategoryID=6e2ep2IxbqUAAAEnyIRL_Y
11.
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12.
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horizon-2020
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get-funding
25.
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26.
http://ec.europa.eu/culture/creativeeurope/creative-europe-desks_en.htm
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http://ec.europa.eu/culture/creativeeurope/calls/index_en.htm
Capitolo 2
Una giornata di vantaggi ignoti
Sono in molti ad accusare l’Unione di
essere una gabbia rigida di regole e
norme spesso eccessive, che soffocano
il mercato e i cittadini. Sicuramente è
vero, lo abbiamo detto, ma affiancare a
28 sistemi nazionali diversi un sistema
unico per semplificare le cose è un
processo complicato. Ed è tanto più
complicato in un Paese come l’Italia
dove il mancato rispetto delle regole si
accompagna alla produzione di tante di
quelle norme che è come se non ce ne
fosse una, perché in una selva caotica
nessuno si sa più orientare. Per questo la
Commissione europea ha sposato l’idea
britannico-tedesca di accompagnare alla
nascita di ogni nuova normativa
l’abolizione di una vecchia.
In realtà burocrazia e regolamentazione
sono molto diverse e la necessità di
semplificare non deve essere una scusa
per abolire le regole. I regolamenti sulla
salute e sulla sicurezza, per esempio,
possono effettivamente essere onerosi
per gli imprenditori, ma sono anche un
modo per scongiurare incidenti evitabili
e rischi legati al lavoro.
Semplificare significa innanzitutto
ammodernare
la
Pubblica
amministrazione, creare procedure
semplici e sicure per ovviare alle
complessità burocratiche, ottimizzare
processi, risorse, pratiche che oggi si
perdono nei meandri della burocrazia.
Se la burocrazia è troppa, le regole
possono servire per semplificare la vita
dei cittadini. Questo in Europa accade
già: tutti i giorni, usufruendo di un certo
servizio o beneficiando di un
determinato prodotto, noi utilizziamo
una semplificazione o un’agevolazione
rese
possibile
dall’intervento
dell’Unione europea.
Si tratta di vantaggi ignorati e invisibili
in quanto scontati, considerati quasi
produzioni naturali dello sviluppo del
mercato, e nei quali tuttavia l’Europa ha
svolto un ruolo fondamentale.
Abbiamo provato a immaginare, nella
giornata di un qualunque cittadino
europeo, alcuni momenti e occasioni in
cui direttive e norme che provengono
dall’Europa ci consentono di viaggiare,
comunicare,
curarci,
spostarci,
consumare, andare in vacanza, tutelare
la salute.
In modo normale, come in una giornata
normale.
UNA GIORNATA EUROPEA
ore 7.00
Giovanna, operatrice finanziaria, si
sveglia nella sua casa di Bergamo.
Mentre si prepara la colazione con
caffè, corn flakes e spremuta
d’arancia, accende pc e smartphone
per collegarsi con le borse del mondo.
Deve uscire presto di casa per
prendere il treno che la porta a
Milano, dove lavora.
G
Gli italiani hanno approfittato 63 milioni
di volte negli ultimi dieci anni della
cosiddetta portabilità del numero
telefonico del cellulare, ossia la
possibilità di cambiare operatore
mantenendo il proprio numero di
telefono. Ogni anno sono circa 10
milioni i numeri di telefono cellulare
italiani che sono passati da un operatore
all’altro. La portabilità è stata introdotta
in Europa con la direttiva Servizio
universale
in
materia
di
telecomunicazioni. Dopo il successo
ottenuto con la telefonia mobile, il
diritto alla portabilità è stato esteso
anche a quella fissa.
O
Si chiamano MVNO e oltre 5 milioni di
italiani li usano tutti i giorni per
telefonare e navigare con gli
smartphone. Grazie alla normativa Ue
2002/19 la liberalizzazione del mercato
viene rafforzata ulteriormente con
l’introduzione del Mobile Virtual
Network Operator ovvero gli operatori
virtuali di telefonia. Questi sono i
servizi offerti ad esempio da Coop
Voce, Erg Mobile, Fastweb Mobile e
Poste Mobile. In Italia coprono il 5,4%
del mercato, mentre in Spagna superano
già il 12%.
D
Rivoluzione
nel
settore
delle
telecomunicazioni europeo per abbattere
i costi extra del roaming internazionale.
Già nel 2007 è stata stabilita
l’Eurotariffa, ovvero il costo massimo al
minuto delle chiamate in roaming
intracomunitario che gli operatori erano
obbligati a offrire agli utenti. Da luglio
2012 l’Eurotariffa è stata aggiornata e
prevede un calo progressivo anno dopo
anno, consentendo ai clienti del vecchio
continente di chiamare, inviare messaggi
e connettersi a internet in mobilità,
risparmiando sensibilmente. Da luglio
2014 gli operatori dovranno rimodulare
i costi in base agli standard europei.
RASFF, L’ANTI-VIRUS UE CHE PROTEGGE
IL CIBO IN TAVOLA
Sicurezza alimentare tutelata grazie
all’UE e al RASFF, questo non è altro
che un efficace strumento informatico
che semplifica il flusso transfrontaliero
di informazioni tra le autorità nazionali
preposte alla sicurezza alimentare.
Grazie al RASFF (Europe’s Rapid Alert
System for Food and Feed), attivo 24
ore su 24, le autorità competenti in tutta
l’Unione europea sono in grado di
scambiare in tempo reale informazioni,
rintracciare rapidamente prodotti a
rischio e ritirarli dal mercato. Nel 2012
quasi il 50% delle notifiche ha
riguardato il respingimento alle frontiere
della UE di alimenti e mangimi che
presentavano rischi per la sicurezza
alimentare. Sempre nel 2012 gli allarmi
hanno raggiunto un totale di 8797, in
diminuzione del 3,9% rispetto al 2011.
Si tratta di un vero e proprio “antivirus”, in costante aggiornamento, che
protegge la nostra salute e disincentiva
l’immissione nel mercato di prodotti
irregolari che finirebbero sulle nostre
tavole.
T
Il treno ritarda? Il rimborso è d’obbligo.
L’Europa tutela i viaggiatori grazie
all’applicazione del Regolamento (CE)
relativo proprio ai diritti e agli obblighi
dei passeggeri nel trasporto ferroviario.
È stato deciso che un eventuale ritardo
compreso tra i 60 e 119 minuti verrà
risarcito con un corrispettivo pari
almeno al 25% del costo del biglietto.
L’indennizzo sale al 50% se vengono
superati i 120 minuti di ritardo. Il
rimborso dovrà essere erogato in denaro
se la cifra è superiore a una certa soglia,
ed entro un mese dalla presentazione
della domanda. Il consumatore può
inoltre scegliere se proseguire o
rinunciare al viaggio se l’arrivo prevede
almeno un’ora di ritardo, senza perdere
alcun diritto al relativo rimborso.
Dunque è possibile chiedere un
rimborso integrale del biglietto per la
parte del viaggio non effettuata e anche
per le parti già effettuate quando il
viaggio non risulti più utile ai fini del
programma originario del passeggero.
Questo regolamento impone inoltre alle
imprese ferroviarie e alle stazioni di
garantire la sicurezza personale dei
viaggiatori sia sui treni che nelle
stazioni oltre alle norme minime di
qualità del servizio.
ore 11.00
Lorenzo, pubblicitario, deve lasciare la
sua casa a Genova per un improvviso
viaggio di lavoro in Francia. Dopo
qualche giorno nell’agenzia di Parigi
dovrà raggiungere la Guadalupa per
supervisionare la registrazione di uno
spot. Contrariamente al solito, non è
contento di partire. Ha una gamba
ingessata e in viaggio dovrà cavarsela
da solo.
P
Problemi di overbooking? Il bagaglio è
stato danneggiato? Il Regolamento
dell’Unione Europea n. 261/2004
entrato in vigore nel 2005 tutela e
garantisce i diritti dei cittadini europei
in ogni fase del viaggio. Ad esempio
quando si compra un biglietto non è
possibile vedersi applicare una tariffa
più elevata in base alla nazionalità o al
luogo di acquisto. È possibile far valere
i propri diritti in qualsiasi aeroporto UE
e con le compagnie di un Paese
dell’Unione, e anche con quelle
islandesi, norvegesi e svizzere.
Nel caso in cui sia negato l’imbarco
per via di cancellazioni e overbooking
si ha diritto a essere trasportati alla
destinazione finale, al rimborso del
biglietto o a una compensazione. Il
diritto al rimborso è garantito anche se il
bagaglio è stato smarrito, danneggiato o
consegnato in ritardo. Non è previsto se
il volo viene cancellato causa maltempo,
sciopero, motivi di sicurezza. Resta
però l’obbligo di assistenza del
passeggero.
V
La possibilità di fare un viaggio in aereo
non è negata a nessuno. I passeggeri a
mobilità ridotta hanno diritto a poter
viaggiare in aereo come chiunque altro.
Lo dice l’Unione europea che ha redatto
il Regolamento (CE) n. 1107/2006:
anche le persone con una mobilità
ridotta dovuta a disabilità, all’età o a un
altro fattore devono avere le stesse
possibilità degli altri cittadini. Possono
avvalersi dell’assistenza gratuita nella
fase di imbarco e sbarco, durante il volo
e all’interno dell’aeroporto prima e
dopo il volo. In alcuni casi si può
richiedere
la
presenza
di
un
accompagnatore. L’imbarco può essere
negato solo per motivi di comprovata
sicurezza o per dimensioni insufficienti
dell’aeromobile.
TEAM,
EUROPEA
LA
TESSERA
SANITARIA
Si chiama TEAM, dal 2004 garantisce
l’assistenza sanitaria dei cittadini
europei in viaggio in uno degli Stati
dell’Unione e si trova sul retro della
Tessera sanitaria nazionale. La Tessera
europea di assicurazione e malattia,
utilizzabile in 32 Paesi, ovvero i 28
dell’Unione europea e i 4 dell’EFTA,
consente ai cittadini europei di poter
ricevere assistenza sanitaria presso
ospedali o studi convenzionati con il
sistema sanitario pubblico, presente
negli Stati dell’Unione europea ma
anche
in Islanda,
Liechtenstein,
Norvegia e Svizzera. Il tutto,
semplicemente esibendola. La sua utilità
è stata riconosciuta al punto di creare
una app per smartphone disponibile
nelle varie lingue dei Paesi UE.
UE:
Cieli più protetti in Europa grazie
all’elenco delle compagnie aeree
soggette al divieto di volo nello spazio
comunitario. Prima dell’arrivo della
lista nera europea, un vettore soggetto al
divieto di volare in un Paese
comunitario era libero di volare in un
altro. Dal marzo 2006 la situazione è
diversa. Sulla base del regolamento
(CE) n. 2111/2005, la Commissione
europea ha delegato il Comitato per la
sicurezza aerea, composto dagli esperti
degli Stati membri, a stilare l’elenco
degli operatori che non rispettavano gli
standard di sicurezza. Per questi vettori
sussiste un divieto operativo assoluto al
volo nei cieli europei. Grazie a questa
iniziativa della Commissione, i cittadini
europei possono inoltre consultare
online un registro costantemente
aggiornato delle compagnie a rischio.
V
Se si viaggia, o si soggiorna, in uno
Stato in cui non è presente l’ambasciata
né il consolato del Paese di
appartenenza, l’Europa ti viene in
soccorso. È infatti possibile ricevere
tutela consolare da parte di ambasciate o
consolati di qualsiasi altro Stato
membro dell’UE. Sono diverse le
situazioni in cui si può avere bisogno di
un aiuto di questo tipo, dalle situazioni
di crisi fino allo smarrimento o furto dei
titoli di viaggio. In questo caso
specifico, previa autorizzazione dello
Stato in questione, viene rilasciato un
documento di viaggio provvisorio
(DVP), di sola andata verso il Paese di
origine, verso quello in cui si vive o, in
casi
eccezionali,
verso
un’altra
destinazione, come stabilito dalla
Decisione 96/409/PESC. Il Paese
dell’UE che rilascia il DVP riscuoterà
dal richiedente gli oneri e le tasse che
sarebbero normalmente dovute per il
rilascio di un passaporto per motivi
d’urgenza, ma sono previsti dei fondi
base messi a disposizione dal Paese
membro di appartenenza. Per consentire
di fare ritorno nel luogo di provenienza,
il DVP copre il tempo minimo
necessario per effettuare il viaggio di
rientro.
ore 15.00
Luigi, autista di autobus per conto di
un tour operator, in teoria vive a Ivrea
ma è sempre in giro per l’Europa e non
riuscirebbe a fare un’altra vita. Gli
manca il cibo di casa, visto che mangia
sempre nei ristoranti lungo le tappe del
viaggio di turno. Dopo un turno di
riposo di due giorni sta di nuovo
partendo.
L’UE
Garantire la sicurezza sulle strade vuol
dire anche organizzare l’orario di lavoro
degli autotrasportatori. La direttiva
2002/15/CE, entrata in vigore in Italia il
1° gennaio 2008, si rivolge proprio a
questa categoria con una mirata
organizzazione degli orari di lavoro. La
durata della settimana lavorativa è di 48
ore, sommando le ore di guida effettiva
e le altre operazioni di autotrasporto
(carico, scarico, supervisione, salita e
discesa
passeggeri,
pulizia,
manutenzione tecnica del veicolo). È
possibile estendere fino a 60 ore la
durata della settimana, se nell’arco dei
quattro mesi la media rimane comunque
inferiore alle 48 ore. Con il regolamento
CE n. 561/2006, è stato poi fissato a 56
ore il limite massimo della guida
settimanale e a 90 ore per quello
bisettimanale.
Il
regolamento,
fondamentalmente, impone dei riposi
obbligatori e un numero massimo di ore
alla guida per garantire la sicurezza e
l’incolumità sia degli autotrasportatori,
sia degli altri utenti della strada.
S
Filiera certa di provenienza di tutte le
carni. Dal 13 dicembre 2014, con le
novità introdotte dal Regolamento
1169/2011, i consumatori avranno
un’informazione completa dei prodotti
alimentari e potranno scegliere in modo
consapevole cosa portare sulle loro
tavole. Il testo consolida e aggiorna
l’etichettatura generica di prodotti
alimentari
e
quella
nutrizionale
migliorando
sensibilmente
la
tracciabilità della merce. Al pari di
quanto già avviene per la carne bovina,
sarà obbligatorio indicare in etichetta il
Paese d’origine o il luogo di
provenienza anche delle carni ovine,
suine e caprine. Tale indicazione
diventerà obbligatoria anche per le carni
utilizzate come ingrediente. Lo stesso
criterio, dal 1° gennaio 2014, vale anche
per le carni macinate. Il regolamento
prevede una maggiore trasparenza di
qualsiasi ingrediente o coadiuvante che
provochi allergie: ora dovrà figurare
nell’elenco degli ingredienti con un
riferimento chiaro alla denominazione
della sostanza in questione. Inoltre
questo dovrà essere evidenziato
attraverso un tipo di carattere
chiaramente distinto dagli altri, per
esempio per dimensioni, stile o colore
di fondo.
ore 17.00
Angelo, studente universitario di
Bergamo, sta preparando i bagagli per
la sua nuova avventura: un periodo di
10 mesi all’Università belga di Gand.
Ha deciso di andare in auto con un
amico, dividendo le spese. Anche
perché prima di iniziare i corsi intende
prendersi un periodo di vacanza in
Costa Azzurra.
E
Erasmus+, istituito dal Regolamento n.
1288/2013/UE, avrà un budget di circa
16 miliardi di euro e sosterrà per 7 anni,
dal 2014 al 2020, le attività di mobilità
in Europa e cooperazione per oltre 4
milioni di persone. L’accordo sul nuovo
programma europeo a supporto di
istruzione e formazione riunisce attività
precedentemente oggetto di una serie di
programmi separati con l’introduzione
dello
sport.
Saranno
finanziate
opportunità di studio, formazione,
insegnamento
e
volontariato
internazionali. Il programma è destinato
a studenti universitari e delle scuole
professionali, ma anche formatori,
insegnanti,
tirocinanti
e
giovani
lavoratori. Secondo le prime proiezioni,
il numero di persone che riceverà una
borsa di studio dall’UE sarà quasi il
doppio
rispetto
al
passato,
moltiplicando così le opportunità di
formazione e di lavoro per i giovani
europei.
R
Per la tua macchina scegli l’officina che
preferisci e mantieni la garanzia.
L’intenzione del regolamento è quella di
“aprire il mercato”, aumentando il
numero delle strutture autorizzate a
intervenire sulle autovetture ancora in
garanzia. Il proprietario della macchina
ha una maggiore possibilità di scelta tra
le varie officine e, quindi, di risparmio.
Non c’è più l’obbligo di rivolgersi ai
concessionari ufficiali della casa
costruttrice del veicolo, sia per i
periodici tagliandi sia per le riparazioni
ancora in garanzia. Ora tutti i tagliandi
di verifica previsti dal libretto di
manutenzione e le riparazioni ordinarie
possono essere eseguiti anche presso
autoriparatori indipendenti. Infine il
regolamento insiste sulla necessità di
rendere accessibili, ai riparatori
indipendenti, sia i pezzi di ricambio
originali delle autovetture, sia i dati
tecnici delle stesse. In questo modo
viene garantito a tutti la possibilità di
avere il servizio migliore per la propria
macchina.
S
Migliora la balneabilità delle acque in
Europa. Secondo il rapporto annuale
dell’Agenzia europea dell’ambiente, il
94% delle zone di balneazione
nell’Unione europea soddisfa i requisiti
minimi di qualità dell’acqua, con un
aumento del 2% rispetto al rapporto del
2012, con l’eccellenza raggiunta nel
78% delle zone. L’Italia è in regola e
con valori eccellenti: è sopra la media
UE l’85% delle nostre acque.
Questi i risultati dopo la Direttiva sulle
acque di balneazione (2006/7/CE) che
ha avuto l’obiettivo di salvaguardare,
proteggere e migliorare la qualità
dell’ambiente e di proteggere la salute.
Il metodo usato è stato quello di
monitoraggio, classificazione e gestione
della qualità delle acque di balneazione
garantendo al contempo una tempestiva
informazione al pubblico.
ore 19.00
Laura, infermiera in un ospedale di
Torino, torna a casa dopo il turno di
lavoro. Vive in un moderno quartiere
popolare in periferia con una madre
anziana, il marito impiegato e due figli
adolescenti. I conti non tornano mai e
risparmiare è una scienza.
L’E
Nuove lampadine: lei si accende e tu
risparmi. Dal settembre 2012 le vecchie
lampadine a incandescenza, quelle da 25
a 45 watt (W), sono state tolte dal
mercato grazie all’applicazione del
Regolamento (CE) n. 244/2009.
L’Europa ha favorito il passaggio alle
lampade a risparmio energetico: in
questo modo si può ridurre il consumo
totale di elettricità di una casa del 1015%. È stato calcolato un risparmio
complessivo per l’Europa di 40 miliardi
di kilowatt/ora all’anno, pari, ad
esempio, al consumo annuo di un Paese
come la Romania. Ogni singola
lampadina a basso consumo da 23W, in
un periodo di 6 anni, farà risparmiare
100 euro circa rispetto a quelle a
incandescenza tradizionali da 80W. Il
vantaggio è doppio se si pensa che il
loro ciclo di vita è di almeno 6-10 anni
rispetto agli 1-2 anni di quelle
tradizionali.
C
Bollette più leggere e ambiente tutelato
con le nuove regole per l’edilizia in
Europa. Infatti, la mancata efficienza dei
nostri edifici ci costa il 40% del
consumo totale di energia nell’Unione
europea. Questa è una delle priorità
nell’ambito
degli
obiettivi
dell’efficienza energetica fissati per il
2020. Viene così definita una
metodologia di calcolo della prestazione
energetica e fissati i requisiti minimi da
rispettare per i nuovi edifici e per quelli
già esistenti. È stato introdotto un
sistema di certificazione energetica per
comunicare ai consumatori sia le
informazioni chiare e dettagliate sul
consumo energetico degli edifici, sia le
raccomandazioni per il miglioramento in
funzione dei costi. In Italia questo
impegno si è tradotto in misure destinate
ad agevolare gli investimenti nel settore,
migliorare i controlli ed evitare le
sanzioni per la mancata osservanza delle
prescrizioni.
Capitolo 3
Una sfida lunga millenni
Vantaggi e opportunità. Ma anche
confronto, tolleranza, scambio tra
culture. Questa è l’Europa di ieri e di
oggi.
L’Europa è, e sarà, se saprà cogliere le
opportunità del XXI secolo senza
drammi né spinte ideologiche. Perché
tanto l’eurofobìa sorda alla ragione
quanto un’eurofilìa cieca ai problemi
darebbero frutti sterili, e il terreno del
conflitto
si
sta
dimostrando
sostanzialmente improduttivo.
Più di tante parole, per sperimentare
che l’integrazione vuol dire apertura
mentale e tolleranza, è utile vivere
un’esperienza nel centro delle istituzioni
europee. Così è capitato a me. Uno stage
al Parlamento europeo durante gli anni
dell’università, per puro caso. La vita
insieme a tanti ragazzi di tutte le
nazionalità possibili, allegri, pieni di
speranze e progetti per il futuro, pur in
una città grigia e solo apparentemente
noiosa.
E poi, capendo ogni giorno di più cosa
accadeva in quella città e in quei palazzi
di vetro specchiato, la voglia crescente
di far parte di quel mondo dinamico,
integrato,
talmente
abituato
ad
accogliere persone di Paesi e lingue
tanto diverse da non farci quasi più
caso. Un mondo che magari conferma
qualche stereotipo nazionale (è vero che
i tedeschi e gli olandesi sono un po’
rigidi, ed è vero che i greci e gli
spagnoli, come gli italiani, sono un po’
confusionari e disorganizzati) ma dove
poi si smussano le differenze e si
capiscono i vantaggi dell’imparare
qualcosa dagli altri. E da ultimo, ma non
meno importante, si apprezza quanto
dall’Italia diamo per scontato.
Un mondo quello di Bruxelles forse
anche un po’ finto, è vero, che non
riflette i popoli che rappresenta, ancora
molto divisi e poco integrati. Ma lì il
cuore europeo batte davvero. E non è
necessario viverci per sentirsene parte.
Basta, come è capitato a me, entrare in
contatto col virus europeista per restarne
contaminati, anche tornando nel proprio
Paese.
Ma al di là del fascino di un
macrocosmo in cui 28 e più nazionalità
si incontrano e si confrontano, cosa in
quelle istituzioni si produce e,
soprattutto, qual è la ricaduta su tutto il
resto del popolo europeo? Perché nella
mancata risposta a questo interrogativo
c’è la debolezza dell’Europa di oggi.
Quel microcosmo che resta micro e che
non fa abbastanza, o che sembra fare
troppo e nel modo sbagliato, che non
comunica bene quello che fa, e non
attrae alleati alla sua causa, che resta un
fatto ma non ancora una prospettiva, un
orizzonte ineludibile e indispensabile.
Ineludibile, perché siamo dentro una
mescolanza, un’integrazione di cui
spesso
neppure
percepiamo
la
profondità ma che tocca tutti, fino al
cittadino del più isolato comune di
frontiera. Indispensabile, perché non c’è
più alcun ambito della nostra vita che
non sia influenzato da dinamiche globali,
e solo un attore globale può avere la
scala e la forza per condizionare tali
dinamiche.
In fondo era soltanto ieri quando si
parlava del sogno realizzato di
un’Europa finalmente unita, sullo sfondo
di divisioni e di nuovi incubi
nazionalisti. Ma perché, allora, oggi è
così tanto messo in discussione? Al
punto che, tra quanti si candidano a
entrare nel prossimo Parlamento
europeo, c’è anche chi fa della
dissoluzione dell’UE la sua battaglia.
Ma dissolvere che cosa? Guardavo, di
recente, un video circolante in rete:
un’unica immagine, la mappa geografica
europea,
che
nel
cambiamento
velocissimo di forme e colori illustra i
mutevoli aggregati di confederazioni e
imperi, l’avvicendarsi degli Stati nel
corso di decine di secoli. Insomma, una
sintetica storia animata.28
Nell’Europa
così
rappresentata
i
confini sono costantemente mobili:
alcuni si spostano, altri mutano, altri si
trasformano, altri nascono di nuovo.
Quello che per noi oggi è il cuore
dell’Europa occidentale era la parte
dell’Impero romano che estendeva il suo
dominio su tutte le sponde, europea,
africana e asiatica del mare nostrum,
mentre l’impero di Carlo Magno aveva
il suo asse commerciale nella valle del
Reno e nei porti del Mare del Nord
come nota lo storico Alessandro
Barbero,29 «uno spazio politico ed
economico unitario, che andava da
Amburgo a Benevento, da Vienna a
Barcellona, e in cui già emergevano gli
orizzonti nazionali e regionali destinati a
dominare
l’Europa
millennio».30
del
secondo
Sia quello romano che quello
carolingio erano imperi aperti e
“porosi”, il cui dominio sui territori era
esercitato attraverso un ordinamento
composito, eterogeneo: un’entità plurale,
dai confini non definiti che non
cancellava ma assorbiva al suo interno
l’identità delle popolazioni, pur
controllandole e privandole della loro
sovranità.
Ma l’impero si concepisce come una
totalità che non ha “vicini”, non
stabilisce relazioni di cooperazione: dal
limes romano alla cortina di ferro, le
linee di divisione che hanno segnato la
storia del continente appaiono nel video
come cicatrici che demarcano invisibili
muri.
Eppure le comunicazioni e gli scambi
interni allo spazio europeo sono stati,
per secoli, molto maggiori di quelli con
l’esterno. Non è un caso che sistemi
economici, forme di governo e codici
culturali caratteristici dello spazio
europeo, pur nella loro varietà, mostrino
tratti comuni.
È proprio nell’epoca di Carlo Magno
che il nome Europa comincia a
comparire
nelle
citazioni
degli
storiografi antichi per descrivere un
mondo che a distanza di oltre mille anni
mantiene alcune costanti: un’Europa in
cui la Francia e la Germania sono
centrali, in cui l’Italia del nord è più
sviluppata
del
Mezzogiorno,
la
Catalogna più ricca del resto della
Spagna, mentre la Gran Bretagna resta in
qualche misura isolata ed estranea.
Un’Europa nordica e continentale,
latino-germanica nel suo mix culturale
ma guardinga verso le regioni
mediterranee, e quasi estranea a quelle
greco-slave dell’Est. Non è affatto un
caso che ancora oggi il cuore e il
cervello
dell’Unione
battano
a
Bruxelles, a Strasburgo, a Maastricht,
nel cuore dell’antico Paese franco.
Nel video citato l’effetto lasciato da
uno sguardo così lungo sul passato è
spiazzante. La variabilità dei confini in
fondo è inscritta anche nell’Unione
attuale: dentro o fuori l’Europa, dentro o
fuori Schengen, dentro o fuori l’area
Euro.
Fra gli Stati europei intercorrono
attualmente 30.000 km di frontiere
internazionali. Circa 12.500 km sono
stati tracciati fra il 1990 e il 1993,
quando molti nuovi Stati nacquero dal
venir meno di Unione Sovietica,
Jugoslavia, Cecoslovacchia. Nel conto
bisogna però comprendere l’abolizione
dei circa 1500 km di cortina di ferro che
dalla fine della Seconda guerra
mondiale tenevano separati i due Stati
tedeschi, e l’eliminazione dei 150 km di
Muro con cui le autorità della Germania
Est avevano separato Berlino Ovest dal
retroterra circostante.
È storia nota, ma è bene ricordare che,
nel 1946, Churchill, mentre invitava alla
riconciliazione
franco-tedesca,
si
appellava a un europeismo finalizzato al
superamento della guerra, evocando il
sentimento di appartenenza a una patria
comune europea.
Con Yalta, quando l’Europa salvata
dal terrore hitleriano veniva dissolta e
smembrata in due blocchi dalle
superpotenze USA e URSS, la nuova
cornice bipolare che obbligava a una
scelta – al di là o al di qua della cortina
di ferro – determinò una divisione
geopolitica ma anche ideologica
togliendo spazio all’idea di riconoscersi
in una comunità sovranazionale. Gli
sforzi compiuti verso un’integrazione
degli Stati europei erano, allora,
guardati con forte sospetto soprattutto
dai partiti comunisti nazionali, che
vedevano in questa strada un’adesione
implicita all’atlantismo e alla politica di
potenza degli Stati Uniti.
Oggi le difficoltà di definire non solo
la natura dell’Unione, ma anche i suoi
potenziali confini sono maggiori che
nell’era della Guerra fredda. Con la
caduta del Muro di Berlino il problema
si è complicato senza però che le
istituzioni l’abbiano risolto. Lo stesso
aggettivo “europeo” si presta a
interpretazioni diverse, a seconda che si
metta in rilievo il dato fisico (la Russia
e la Turchia sono divise tra Europa e
Asia) o la struttura economica, la
tradizione giuridica o la posizione
geopolitica di un Paese. Le istituzioni
europee si limitano ad affermare
genericamente che «l’Unione è aperta a
tutti gli Stati europei che rispettano i
suoi valori e si impegnano a
promuoverli congiuntamente». Senza
chiarire come questo criterio possa
guidare l’eventuale inclusione della
Turchia e delle repubbliche exsovietiche, in particolare di quelle
caucasiche.
Le
recenti
vicende
travagliate dell’Ucraina rimandano alla
storica questione dei confini orientali,
dove l’appartenenza o meno all’Europa
della Russia e dell’intero mondo slavo
resta ancora irrisolta.
L’Europa di oggi corre il rischio di una
“nuova cortina di ferro” (la definizione
è stata usata al vertice europeo di
Bruxelles nel 2009), una divisione tra
Est e Ovest questa volta dettata dalle
differenze
economiche
all’interno
dell’Unione, con un Est che ha il piede
sul burrone di un’economia di mercato
in crisi, e cerca un baluardo nell’Euro, e
un Ovest che cammina sul filo del rasoio
del
protezionismo
politico
e
commerciale.
Per certi versi l’integrazione europea
ha permesso di reinterpretare le
frontiere fra gli Stati, modificando il
ruolo delle zone di frontiera. Gli accordi
di Schengen, che non costituiscono
un’abolizione dei confini bensì una
separazione
delle
funzioni
amministrative delle frontiere da un
sistema cooperativo di sicurezza, hanno
consentito di relativizzarli. Ma il
principio dell’autodeterminazione dei
popoli31 – per altro non ancora
riconosciuto da Spagna, Grecia,
Romania, Slovacchia e Cipro – non ha,
intanto, un suo posto al tavolo di
Bruxelles. Secondo i trattati se dovesse
nascere un nuovo Stato in Europa
dovrebbe affrontare l’intero processo di
adesione per assicurarsi l’approvazione
unanime di tutti i membri attuali
dell’UE. Ho fatto questa lunga
digressione sui confini perché, se ciò
che manca oggi più di tutto è un demos
europeo, è da lì che si deve partire per
indagarne le cause.
I nuovi confini sono simboli
dell’indipendenza e fanno parte del
presente del mondo democratico e
dell’Europa stessa. Da fronti di contesa
– spesso occasione e fulcro di conflitti
per il possesso esclusivo delle risorse
economiche e sociali – i confini sono
diventati poli di attrazione per
cooperazioni economiche, ecologiche,
turistiche, politiche, culturali.
Costruire una cittadinanza europea
oltre i confini è la grande sfida
contemporanea: individuare un demos
europeo, creando un senso d’identità e
di unione tra i suoi cittadini ed
eliminando le discriminazioni senza
annullare le differenze.
Con le sue mille contraddizioni,
passate e presenti, l’Europa è dunque
simbolo della società contemporanea
che fa fatica a costruire quella “cultura
del confine” dove la differenza si
incontra con le esigenze complesse delle
sue comunità.
Una complessità che nel tempo si è
espressa in diverse visioni dell’Europa.
Dal modello di integrazione politica che
intendeva
migliorare
i
rapporti
economici e sociali attraverso la
cooperazione delle associazioni di
categoria, riunite in una camera
parlamentare,
a quella dell’Europa
“delle patrie”32 che tiene conto
soprattutto degli interessi nazionali.
Dall’idea di un’Europa federale, con un
approccio comunitario in base al quale
l’Unione non è composta solo da Stati
membri, ma anche da cittadini, e
persegue l’interesse generale di tutte le
comunità. A quella del “patriottismo
costituzionale”, che riconosce e
costituisce l’identità politica sulla base
dei valori etico-politici, dei princìpi e
delle regole sanciti dalla legge
fondamentale, la Costituzione (che
tuttavia oggi non c’è ancora). Da quella
cosmopolita,33 che presuppone senza
cancellarla l’Europa delle Nazioni.
All’integrazione funzionalista della
CECA e della CEE, basata sull’idea che
gli Stati iniziassero a cedere porzioni
della propria sovranità a beneficio di
istituzioni indipendenti e sopranazionali
in settori economici cruciali, come il
comparto del carbone e dell’acciaio, per
espandere l’integrazione con un effetto
“a cascata”. A quella, universalistica,
per cui un nuovo legame condiviso
passa dall’adesione ai diritti e doveri
che discendono dalla lealtà al territorio
di appartenenza, all’adesione ai diritti e
doveri umani universali, legati alla
nostra comune esistenza sulla terra.34
Se i vecchi modelli del dentro e del
fuori non sono più validi, occorre
comunque ripensare a categorie
sganciate dalla chiave interpretativa
nazionale. La scommessa europea sta nel
tentativo di fondare un nuovo tipo di
comunità politica senza ricorrere ai
concetti classici di nazione e territorio.
Nel cambiare logica con un approccio
che non è schiacciato né sullo StatoNazione,
ma
nemmeno
sulla
globalizzazione
indifferenziata
e
sconfinata,
per
immaginare
una
cittadinanza slegata sia dalla comunità
nazionale sia da un cosmopolitismo
astratto, tracciando nuove demarcazioni
che devono rimanere fluide.35
La sfida di costruire una convivenza e
una nuova fiducia civica è una sfida
quotidiana. Senza negare i conflitti
esistenti ma senza rinunciare ad
abbattere i muri, fisici e immateriali,
costruiti secondo una logica fondata
sulla distanza e sulla paura anziché
sull’appeal della differenza. Perché la
varietà è ricchezza, opportunità:
valorizzare le rispettive identità in un
contesto associativo più ampio potrebbe
essere
l’alternativa
europea
ai
nazionalismi e ai fondamentalismi, che
portano, come anche la storia recente ci
insegna, scontri, guerra, distruzione e
povertà.
Si cita sempre, parlando di Unione
europea, il grande valore che ha avuto
nella storia un esperimento istituzionale
capace di garantire la pace. Ma, si dice,
la pace è troppo e troppo poco oggi per
giustificare l’ideale europeista. È un
valore troppo astratto, troppo distante,
troppo scontato per chi non ha
sperimentato la guerra. Troppo poco,
invece, se si pensa ai venti di guerra che
spirano sull’Europa e alla scarsa
capacità dell’UE di intervenire nei
conflitti. Ma il demos europeo affonda
le sue radici proprio nella volontà di
perpetuare quel sogno di pace.
D’altra parte, il pensiero federalista
nasce proprio come alternativa a una
divisione dell’umanità in Stati sovrani
che causa guerre, e vede nell’unica
autorità di uno Stato federale che li
unisce politicamente la speranza di
vivere in pace.
L’idea di creare una federazione fra gli
Stati d’Europa è, dunque, vecchia quasi
quanto la nascita degli Stati stessi. Già
nel XVIII secolo giuristi e filosofi
concepivano modelli costituzionali di
vasta portata a garanzia dell’equilibrio e
della pace tra le potenze europee: che
fosse una libera federazione per
assicurare la pace, una lega permanente,
una coalizione temporanea e revocabile
o una comunità di Stati soggetta a un
diritto comune sul cui rispetto vigilasse
un “senato europeo”, si trattava
comunque di forme embrionali di
Unione.
I grandi sogni nascono spesso dalla
paura. Il Manifesto di Ventotene ,36
punto più alto della visione europea, fu
elaborato nel periodo buio della guerra,
all’apice di una tragedia mondiale per
indicare una via d’uscita, un orizzonte
nuovo, una strada da percorrere dopo i
conflitti armati tra Stati e le spinte
totalitarie.
Nel Manifesto, scritto durante la
prigionia fascista da Altiero Spinelli,
insieme a Eugenio Colorni e a Carlo
Rosselli, si ritiene necessaria la
creazione di un’Europa unita in ogni
ambito, da quello economico a quello
sociale, culturale e politico. Una
federazione europea che doveva
surrogare l’istituzione dello Stato-
Nazione, scardinandone i limiti con una
visione di respiro internazionale.
Dopo allora, nel corso degli anni
successivi il processo di unificazione
europea ha conosciuto nelle sue tappe
che si intrecciavano con la storia
mondiale qualche stallo, molti ostacoli,
tante deviazioni. Ma anche molte
occasioni perse. Già negli anni
Cinquanta, alla nascita della CEE,
Altiero Spinelli sottolineava come la
conservazione della sovranità nazionale
avrebbe impedito un qualsiasi progetto
federalista, tradendo il sogno originario
che voleva abbattere i muri statuali.
E a distanza di altri anni ancora,
nonostante la Dichiarazione solenne
sull’Unione europea al Consiglio
europeo di Stoccarda del 1983, la
proposta avanzata da Spinelli insieme
ad altri deputati riuniti nel Club del
coccodrillo – allargare i poteri della
Commissione e del Parlamento europeo
– fu approvata a larga maggioranza, dal
Parlamento europeo nel 1984 ma mai
applicata, e ben presto cadde
nell’oblio.37 In tal modo, si perdeva
anche l’occasione per dare un nuovo
slancio alla funzione di cooperazione
politica dell’Unione europea. Gli
europeisti più convinti, tra cui mi
inserisco, richiamano quella idea
quando evocano gli Stati Uniti d’Europa.
Ma che senso ha parlarne oggi? Qual è
il contenuto concreto di quella visione in
un mondo che è radicalmente cambiato e
che ancora sta cambiando a grandissima
velocità?
Da un punto di vista valoriale prima
che istituzionale quell’unione di Stati
d’Europa è l’unità specifica dell’identità
europea, quel filo rosso tessuto in una
trama di differenze.
Così come la democrazia è una
costruzione in fieri, non un fatto
compiuto, così l’Europa unita è un
processo che non si è mai fermato e da
cui non si può tornare indietro, ma che
semmai richiede svolte nel cammino per
andare avanti. E anche se i “fantasmi del
passato” di un’Europa lontana sembrano
tornare con prepotenza vent’anni dopo,
la Storia non torna mai alla casella di
partenza, come nel gioco dell’oca.
La
compattezza
geopolitica
dell’Europa, la sua possibile identità
costituzionale e valoriale appaiono
tuttavia decisivi ai fini di qualunque
processo di consolidamento e coesione.
Il problema del “confine dell’identità
politica”, che ha costituito il punto di
forza nella difesa, da parte degli Stati
nazionali, dei loro confini territoriali,
appare ineludibile nella prospettiva di
un salto di qualità del processo di
integrazione europea.
Tuttavia, per portare a compimento il
processo di unificazione europea
avviato nel 1950 con la Dichiarazione
Schuman,38 che proponeva di dar vita
alla CECA come primo passo per la
creazione della federazione europea,
l’Europa deve sciogliere l’equivoco
originario,
e
sancire
che
il
ridimensionamento dello Stato nazionale
costituisce un necessario presupposto
alla pacificazione del continente.
Europa sì o Europa no? Dalla firma del
Trattato di Lisbona del 2007, passando
per le tappe di Maastricht e Nizza,
siamo stati talmente sommersi di parole
che sembra ormai quasi impossibile
avere un’opinione netta. Ma la
contrapposizione
favorevoli-contrari
non rappresenta più un’alternativa utile:
sembra piuttosto una scelta forzata.
L’Europa è. Punto. È – lo si voglia o
meno – dentro ciascun Paese
dall’Atlantico ai Balcani, così come
ciascun Paese del gruppo dei 28 è
dentro l’Europa. Oggi, o fa un passo in
più,
ma
decisivo,
sulla
via
dell’integrazione reale, oppure esce
dalla Storia e sprofonda nel caos.
Allora, “Europa se”, piuttosto.
L’Europa sarà , se i suoi rappresentanti
e le sue istituzioni riusciranno a
procedere verso la creazione di una
solida unione politica, che in prospettiva
altro non può essere che gli Stati Uniti
d’Europa. Un federalismo che demandi
al centro solo il “macro” necessario: la
rappresentanza a livello internazionale,
una vera politica monetaria, il
mantenimento di diritti fondamentali e
doveri condivisi, la creazione di un
sistema valoriale finalmente comune.
Lasciando ai singoli Stati la gestione del
“micro” indispensabile.
Un
federalismo
che
consenta
all’Europa di svolgere il ruolo di ponte
solido che unisce culture comuni anziché
di muro improbabile verso il resto del
mondo, quello di contenitore familiare
anziché di super-Stato straniero e ostile,
di confine che allarga anziché di limite
che chiude gli orizzonti. Perché solo
attraverso una “fusione di orizzonti”,39
si può ottenere la conoscenza reciproca
come crescita: orizzonti cognitivi, che
vengono
tracciati
e
allargati
accumulando esperienze di vita. Come
fanno i giovani europei spostandosi tra
Parigi e Barcellona per “spaesarsi” e
ritrovarsi, conoscersi e ri-conoscersi nei
propri coetanei. Solo così si potrà
innescare la coscienza di un demos
europeo che condivide, storia, valori,
modelli, interessi.
La vocazione alla pace da cui nasce
l’Europa unita, la sua propensione a
costruire le fondamenta di una
cooperazione vasta si deve esprimere in
un modello di sviluppo sostenibile sul
piano dei rapporti intergenerazionali,
nella volontà di difendere e migliorare
le condizioni di vita e di lavoro dei suoi
cittadini senza ipotecare il futuro dei
giovani, senza tenere “in panchina” le
donne.
In estrema sintesi, quello che vorrei
trasmettere è la necessità di colmare i
vuoti dell’integrazione ancora imperfetta
con una dose di sano pragmatismo. Non
un
pragmatismo
sterile,
l’assolutizzazione del fare. Al contrario
un’attitudine a guardare in faccia
l’Europa
nelle
sue
molteplici
contraddizioni e al tempo stesso nella
tenacia della sua missione. Lo stesso
pragmatismo ragionevole che attraversa
le storie personali con cui ho aperto
questo libro.
28. http://video.corriere.it/confini-d-europa1000-anni-5-minuti/94272272-f0ba-11df9e3d-00144f02aabc
29. http://video.corriere.it/confini-d-europa-
1000-anni-5-minuti/94272272-f0ba-11df9e3d-00144f02aabc
30.
http://studiumanistici.unipv.it/semec/RECENSIO
31. Principio supremo e irrinunciabile del
diritto internazionale, che produce effetti
giuridici inderogabili per tutta la Comunità
degli Stati e non può essere derogato mediante
convenzione internazionale. Sancisce il diritto
di un popolo sottoposto a dominazione
straniera a ottenere l’indipendenza, associarsi a
un altro Stato o comunque a poter scegliere
autonomamente il proprio regime politico.
Viene ratificato da leggi interne (in Italia la n.
881/1977) e vale come legge dello Stato che
prevale sul diritto interno.
32. L’espressione indica la concezione del
processo di integrazione europea espressa da
De Gaulle, che vedeva la preminenza in ambito
comunitario degli organismi emanati dagli Stati
rispetto agli altri organismi comuni.
33. Ulrich Beck e Edgar Grande, L’Europa
cosmopolita. Società e politica nella seconda
modernità, Carocci, Roma 2006.
34. Jeremy Rifkin, Il sogno europeo,
Mondadori, Milano 2004.
35. I confini “sdrammatizzati” di cui parla
Jeremy Rifkin in Il sogno europeo, cit.
36.
http://www.altierospinelli.org/manifesto/it/manif
37. Il Trattato di istituzione dell’Unione
europea, comunemente noto come Progetto
Spinelli, di cui il 14 febbraio del 2014 si è
celebrato il trentennale, aprì la strada alla
riforma dei Trattati di Roma e ha ispirato una
parte importante delle innovazioni oggi
contenute nel Trattato di Lisbona, anche se
alcune essenziali proposte del Parlamento
europeo non hanno ancora trovato adeguata
collocazione nel sistema europeo.
38.
http://europa.eu/about-eu/basicinformation/symbols/europe-day/schumandeclaration/index_it.htm
39. Hans-Georg Gadamer, Verità e metodo , tr.
it. di G. Vattimo, Bompiani, Milano 1983.
Capitolo 4
Luoghi (non) comuni
L’Italia è stata, all’inizio della
costruzione unitaria, uno degli Stati più
europeisti
d’Europa,
e
dopo
l’introduzione dell’Euro nel 2002 ha
mantenuto più degli altri il suo sostegno
all’Unione “nonostante tutto”. Oggi la
stagione dell’entusiasmo sembra alle
spalle, sostituita dall’avvento della
delusione. Oltre 20 anni dopo la loro
nascita, le istituzioni dell’UE hanno
visto la fiducia di cui godevano erosa da
forze centrifughe che hanno creato
un’opinione pubblica frammentata.
L’Europa sembra aver perduto la sua
immagine di “luogo comune” per
apparire a molti un nemico, un
controllore rigido e oppressivo,
responsabile dei mali nostrani. Un
atteggiamento alimentato dal crollo di
immagine delle istituzioni nazionali,
anzitutto dello Stato, il cui livello di
credibilità è sceso assai più di quello
dell’Europa.
Secondo
l’ultimo
rapporto
di
Eurobarometro,
condotto
nella
primavera del 2013, nella graduatoria
che misura il senso di appartenenza
europea dei Paesi membri, gli italiani si
collocano al 23esimo posto sui 28
dell’Unione allargata: è la conferma di
un declino o un momento di stallo nella
storia dell’Unione? O non, piuttosto, un
segnale di insoddisfazione verso
“questa” Europa?
Anche negli altri Paesi membri dalla
prima ora si assiste a una sensibile
perdita di fiducia nell’UE. Ma
analogamente a quelli
dell’area
mediterranea – la più colpita dalla crisi
economica e da tagli sulla spesa
pubblica particolarmente pesanti imposti
dal governo dell’Unione – in Italia
l’attaccamento all’Europa si attesta al
34%: 20 punti in meno rispetto a dieci
anni fa, 15 rispetto al 2010.40
Intanto, l’Europa della mobilità nei
viaggi, nello studio, nel lavoro, nel
commercio è sempre più una realtà. La
libertà di movimento è il più apprezzato
tra i diritti derivanti dalla cittadinanza
europea. Ogni anno i cittadini europei
compiono più di un miliardo di
spostamenti nell’Unione e sono sempre
più numerosi quelli che esercitano il
diritto di vivere in uno Stato membro UE
diverso dal proprio: da 11,9 milioni nel
2009, i cittadini che vivono in uno Stato
dell’Unione diverso da quello di origine
erano passati a 12,3 milioni nel 2010.
Dati ancora più significativi se si tiene
conto dei cittadini UE che circolano
liberamente all’interno dell’Unione per
brevi periodi di tempo.41
Dal suo avvio nel 1987 a oggi oltre 3
milioni di studenti europei hanno
partecipato al programma Erasmus. Il
54% degli ex studenti Erasmus ritiene
che questa esperienza sia stata utile per
ottenere il primo lavoro. E dall’inizio di
quest’anno ha preso il via il nuovo
programma Erasmus+, che nei prossimi
sette anni aiuterà 4 milioni di giovani a
studiare all’estero con lo stanziamento
di 16 miliardi di euro entro il 2020,
oltre il 40% in più rispetto a quanto era
stato stanziato tra il 2007 e il 2013. Si
prevede che il numero di persone che
riceverà una borsa di studio dall’UE
sarà quasi il doppio rispetto al passato.
Sul fronte del lavoro, la Commissione
europea ha varato Your First Eures Job,
un’iniziativa per aiutare da una parte i
giovani tra i 18 e i 30 anni che
desiderano lavorare in un altro Paese
dell’UE, e dall’altra le imprese che
intendono assumere. Oltre ai servizi di
assistenza, informazione e consulenza
sui mercati del lavoro dei vari Paesi
europei, l’iniziativa prevede un sostegno
finanziario, erogato prima della partenza
per sostenere le spese di viaggio per il
colloquio di lavoro, e di un primo
trasferimento nel nuovo Paese, e
un’indennità
per
supportare
la
formazione del lavoratore al datore di
lavoro, qualora sia un’impresa con un
massimo di 250 dipendenti. Ma quanti
tra gli italiani conoscono queste
opportunità? Un sondaggio darebbe
risultati clamorosamente negativi.
È l’accessibilità dell’Unione – nella
conoscenza delle occasioni offerte e
delle risorse disponibili, dei programmi
e delle iniziative promosse, delle
istituzioni comunitarie con i loro
complessi meccanismi di funzionamento
– ad apparire ancora straniera: lontana,
difficile, non scontata.
L’“Eurocratese”42 è la neolingua delle
élite europee, incomprensibile e
misterica, che – con non poche ragioni –
si ritiene un ostacolo che impedisce ai
cittadini di partecipare e rendersi
consapevoli dei processi decisionali.
Ma al di là della lingua tecnica, che può
essere funzionale al lavoro complesso di
28
delegazioni
diverse,
manca
totalmente una strategia comunicativa
dell’UE, che volenti o nolenti, è
diventata parte integrante dell’essenza
stessa della democrazia.
Un eurocratese incomprensibile ai più,
che dimostra come l’Europa non abbia
ancora imparato a raccontare se stessa.
Basta leggere i trattati, destinati a una
platea di accademici e di funzionari che
parlano tra di loro più che alle società
in cui vivono gli elettori.
In effetti, a maggior ragione oggi –
quando quello europeo non sembra più
costituire un “sogno”, e sarebbe
necessario rappresentare la “realtà delle
cose” – per i non addetti ai lavori la
lingua della UE è inutilmente
complicata. Per orientarsi tra molte
procedure e troppe carte occorre, allora,
un’Europa che usi una “lingua parlata”
chiara e non l’eurocratese della
burocrazia.
In questione, naturalmente, non è solo
il linguaggio ma anche il riconoscimento
delle istituzioni da cui questo linguaggio
viene generato, la legittimazione
dell’autorità che ne istituisce regole e
codici.
Sebbene l’Unione europea giochi un
ruolo su più piani nella vita della gente,
notevoli problemi condizionano la
percezione della sua legittimità, e in
molti Paesi, tra cui l’Italia, si tratta di
una realtà vista come ancora lontana, se
non aliena.
È il principio di autorità riconosciuto e
condiviso che fonda l’adesione e
l’appartenenza a un progetto, legittima la
partecipazione
e
garantisce
una
rappresentatività reale. Senza la
riconoscibilità delle sue forme di
governo l’Unione rischia di esprimere
solo l’autorità astratta di anonime élite
tecno-finanziarie. E qualsiasi progetto
storico, in assenza di un’autorità
riconosciuta, non genera libertà ma la
nega.
I Parlamenti nazionali, secondo
un’opinione diffusa, sono stati i grandi
perdenti dell’integrazione europea, in
quanto possono solo mettere un timbro a
decisioni già prese a Bruxelles. Il tema
dell’erosione della sovranità degli Stati
nazionali a favore delle istituzioni
comunitarie coinvolte nei processi
normativi dell’Unione configura, in
realtà, un punto molto discusso nel
dibattito sul processo di integrazione.
Come membro della Camera dei
deputati ho potuto riscontrare molto da
vicino q
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