Centro Ricerche di Storia e Arte
Bitonto
STUDI BITONTINI
2012 - n. 93-94
Studi Bitontini, rivista scientifica del Centro Ricerche di Storia e Arte-Bitonto, fondata nel 1969 e pubblicata
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Copertina: Paolo Azzella
ISSN 0392-1727
ISBN 978-88-7228-706-4
Sommario
SAGGI
Carmelo Cipriani, Percorsi di vita e arte: Francesco Saverio Altamura e i pittori
risorgimentali di Capitanata
5
Liliana Tangorra, L’iconologia del mito: l’eroe dei due mondi nel manifesto del
film di Alessandro Blasetti 1860. I Mille di Garibaldi
33
Carmela Minenna, L’istruzione pubblica e il movimento risorgimentale. La proposta del Liceo Classico di Bitonto
45
DOCUMENTI E DISCUSSIONI
Custode Silvio Fioriello, Anna Mangiatordi, Coltura e cultura dell’olio d’oliva
a Bitonto. Per un progetto di ricerca e di valorizzazione
67
Simona Maffei, La Resurrezione di Lazzaro in Puglia tra XI e XV secolo
87
Leonardo Evangelista, La chiesa del Santissimo Crocifisso a Bitonto
107
Giuseppe Fallacara, Nicola Parisi, Evoluzione delle aree sinaptiche della città tra
nucleo antico ed espansione moderna. Piazza Aldo Moro e piazza Guglielmo
Marconi a Bitonto
113
Marisa Fiore, Cancelli, fontane, portali. Su una mostra di disegni
127
Stefano Milillo, La stampa periodica a Bitonto in un secolo di storia
141
RECENSIONI
Franca Caterina Papparella, Calabria e Basilicata: l’archeologia funeraria dal IV
al VII secolo (G. Schiavarello)
155
SCHEDE BIBLIOGRAFICHE
Beatrice Alfonzetti, Silvia Tatti (a cura di), Vite per l’Unità, Artisti e scrittori del
Risorgimento civile (D. Taccogna)
161
Vito L’abbate, Pasquale Locaputo (a cura di), Il sud nel Processo unitario (L.
Naglieri)
165
Biblioteca Diocesana Mons. Aurelio Marena Bitonto, La stampa periodica locale
dall’Unità d’Italia ai giorni nostri, Bitonto (C. Minenna)
167
Biblioteca Diocesana Mons. Aurelio Marena Bitonto, La stampa periodica in terra
di Bari oggi, Bitonto (C. Minenna)
167
Franco Della Peruta, Il giornalismo italiano del Risorgimento. Dal 1847 all’Unità
(E. D’Acciò)
169
Giuseppe Fallacara, Ubaldo Occhinegro, Castel del Monte, nuova ipotesi comparata sull’identità del monumento (L. Naglieri)
171
Giacomo Lanzilotta, Francesco dell’Erba pittore 1846-1909. Il ritratto della
borghesia nell’Italia postunitaria (A. Sicolo)
172
Fernando Marzocca, Carlo Sisi, Anna Villari (a cura di), 1861. I pittori del Risorgimento. Catalogo della mostra (Roma, Scuderie del Quirinale, 6 ottobre 2010-16 gennaio 2011) (A. Sicolo)
174
Antonella Musitano, Adele Pulice, Il Sud prima dell’Unità d’Italia tra storia e
microstoria. 1848: massoni e carbonari a Santo Spirito (S. Milillo)
175
Nicola Pice, Alcesti e le Alcesti. Storia, forme, fortuna di un Mito (L. Carbonara)
177
Scuola secondaria I grado ‘A. De Renzio’, Bitonto verso l’Unità d’Italia, con il
coordinamento scientifico di Enzo Robles (L. Carbonara)
179
Lucia Schiavone, Risonanze classiche (M. A. Visotti)
180
Gaetano Valente, Cesano tra Storia e Arte-Culto e Cultura (sec. XI-XXI) (C.
Minenna)
181
NOTIZIE ED EVENTI
CeRSA-Bitonto. Calendario degli Eventi
185
Il ricordo di un grande storico dell’arte: il prof. Michele D’Elia
207
Ricordo di Mons. Gaetano Valente. Una vita per la Fede e la Cultura
208
La Puglia nel ’500: dalla pittura veneta al Manierismo
212
Mostra. Bitonto di luce e ombra (14 dicembre 2012 - 8 gennaio 2013)
214
ABSTRACTS/SOMMARI
221
Studi Bitontini
SAGGI
93-94, 2012, 5-32
Carmelo CIPRIANI
Percorsi di vita e arte: Francesco Saverio Altamura
e i pittori risorgimentali di Capitanata*
«È troppo bella questa Italia nella sua immobilità silenziosa,
perché Dio non la chiami a rivivere grande come per il passato,
nel pensiero e nell’azione».
G. Mazzini, Scritti editi ed inediti, II, Imola 1907, 316.
Un evento fondamentale per una prima, autentica rivalutazione della pittura pugliese
dell’Ottocento è rappresentato dalla retrospettiva allestita al Castello Svevo di Bari nel
1937 1, in occasione della IV Sindacale Fascista 2. «Era necessario – scrive Pasquale Morino nel testo di presentazione – richiamare l’attenzione del pubblico sul gruppo di pittori pugliesi dell’Ottocento che nell’arte italiana hanno avuto funzione di protagonisti».
Quattro gli artisti coinvolti, Francesco Netti, Giuseppe De Nittis, Gioacchino Toma e
Francesco Saverio Altamura, nati in aree geografiche differenti, scelti per significatività
delle opere, le uniche «sopravvissute ai massacri critici che hanno caratterizzato i primi
trent’anni del Novecento» 3.
Inserito a pieno titolo nel pantheon della pittura pugliese, il merito maggiore riconosciuto dalla storiografia all’Altamura è quello di aver contribuito all’avvio del gruppo dei
Macchiaioli 4. Com’è noto, dopo il fallimento dei moti del ’48, buona parte del dibattito
* Questo contributo riprende l’intervento di chi scrive al convegno Mezzogiorno e Costituzione dello
Stato Unitario. I linguaggi risorgimentali per la Nazione (Cavallino [Le], Galleria di Palazzo Ducale,
6-8 ottobre 2011), organizzato dall’Università del Salento.
1
Nello stesso anno, veniva pubblicato il primo saggio monografico sul pittore: C. Lorenzetti, Francesco Saverio Altamura, in Japigia VIII, 1937, 178-223.
2
Due opere di F. S. Altamura, L’Addio e La casa del calzolaio, risultano, esposte insieme ad altri dipinti di pittori pugliesi dell’Ottocento, già nel 1930, alla I Sindacale Fascista: Catalogo della I Mostra
Regionale del Sindacato Belle Arti di Puglia, catalogo della mostra (Bari, Castello Svevo, 15 settembre15 novembre 1930), Bari 1930, 30.
3
Le opere esposte sono Infortunio sul lavoro, Mandolinista, Dopo la lettura, Paesaggio, oggi tutte
al Museo Civico di Foggia: IV Mostra del Sindacato Belle Arti di Puglia. Catalogo della mostra (Bari,
Castello Svevo, maggio-giugno 1937), Bari 1937, 33-34, anche per la citazione.
4
Il ruolo avuto dal pittore pugliese nella vicenda macchiaiola è ricordato con precisione da Diego
Martelli: «Fu lui che in modo sibillino e involuto cominciò a parlare del ton gris, allora di moda a Parigi, e tutti a bocca aperta, ad ascoltarlo prima ed a seguirlo poi, per la via indicata, aiutandosi con lo specchio nero, che decolorando il variopinto aspetto della natura permette di afferrare più prontamente la
totalità del chiaroscuro, la ‘macchia’»: così Romanticismo e Realismo nelle arti rappresentative – con-
6
CARMELO CIPRIANI
artistico si sposta a Firenze. Qui il pittore, nel 1855, di ritorno dall’Esposizione Universale di Parigi, diffonde le prime notizie sulla pittura di Decamps e Delaroche, sulla Scuola
di Barbizon e sul realismo di Courbet. A giovarne sono soprattutto gli antiaccademici riuniti al Caffè Michelangelo 5 «ritrovo d’artisti che – come ricorda il Signorini –, dopo la restaurazione del governo granducale, raccoglie quasi tutti i pittori che avevano fatto la
campagna di Lombardia nel 1848 e la difesa di Venezia, di Bologna e di Roma nel 1849» 6.
In Altamura, come nei macchiaioli, la condivisione di ideali risorgimentali si unisce
alla volontà di trovare un linguaggio più aderente alla realtà: rivoluzione artistica e rivolta
politica si muovono di pari passo, alimentandosi l’una all’altra 7.
Definito dal Signorini «appassionato produttore di opere di merito, distintissimo ricercatore delle modernità nell’arte» 8, riecheggiando Courbet, F. S. Altamura sosteneva:
«L’arte non s’insegna, l’arte si coltiva! Il vero genio irraggia da sé, e non ha bisogno di
aiuto di alcun’accademia per ascendere sulla via che la natura l’ha destinato a percorrere.
Il vero artista non ha che una scuola sola ed è la natura, il vero» 9.
Il contributo di F. S. Altamura alla stagione toscana ottocentesca va inquadrato in una
visuale più ampia, di collegamento tra Napoli e Firenze, giacché è vero quanto scrive
Corrado Maltese che «[…] il rinnovamento intessuto a Firenze tra il ’55 e il ’70 era fatto
di fili italiani e non solo toscani, ed era veramente espressione del nuovo volto di tutta
l’arte italiana: anzi era di fatto la prima arte veramente italiana» 10.
Animatore della scena artistica all’avanguardia, gioca dunque un ruolo da protagonista nella Firenze della metà del secolo, spingendo, con il suo esempio, molti giovani artisti a votarsi alla pittura ‘dal vero’, condotta sull’esempio dei fratelli Palizzi, dai quali
apprende a «studiare l’effetto vero del colore di un oggetto alla luce del sole» 11.
Al suo arrivo nella capitale granducale, sette anni prima del soggiorno parigino, l’artista ha alle spalle l’esperienza napoletana, caratterizzata da una non sempre condivisa
formazione accademica e soprattutto dal naturalismo dei Palizzi, adottato sotto forma di
un verismo meramente tecnico, funzionale ad un’accomodante e virtuosa riattualizzazione della storia. Affiancato prima da Domenico Morelli e Bernardo Celentano, poi da
Giuseppe Abbati, l’Altamura diffonde nel capoluogo toscano le novità della pittura partenopea ancor prima di quelle d’oltralpe, offrendo il suo contributo al «problema delferenza del 1895 – ora in A. Boschetto (a cura di), Scritti d’arte di Diego Martelli, Biblioteca di Paragone, Firenze 1952, 198-212, qui 204. Per un approfondimento sul movimento dei Macchiaioli, F. Dini
(a cura di), I Macchiaioli. Sentimento del vero, catalogo della mostra (Roma, Chiostro del Bramante, 11
ottobre 2007-3 febbraio 2008), Cinisello Balsamo 2007.
5
Non si può fare a meno di segnalare in questa sede l’inspiegabile assenza di opere del Pittore pugliese nelle tante mostre dedicate al movimento e ai suoi antefatti.
6
T. Signorini, Caricaturisti e caricaturati al Caffè Michelangiolo (1848-1866), Firenze 1893, qui 43.
7
L. Lombardi, Mazzini, Garibaldi e la sua leggenda, in F. Mazzocca (a cura di), Romantici e macchiaioli. Giuseppe Mazzini e la grande pittura europea. Catalogo della mostra (Genova, Palazzo Ducale,
21 ottobre 2005-5 marzo 2006), Milano 2005, 151-152, qui 151.
8
Signorini, Caricaturisti … cit., qui 70.
9
M. Colio, Saverio Altamura, in Idem, A Saverio Altamura inaugurandosi il suo busto in Foggia, in
La Vita, 19 ottobre 1901, 155-160, qui 156.
10
C. Maltese, La pittura italiana dell’Ottocento e il Risorgimento, Firenze 1962, 192 per la citazione.
11
Così L. Callari, Storia dell’arte contemporanea italiana, Roma 1909, 208.
PERCORSI DI VITA E ARTE: FRANCESCO SAVERIO ALTAMURA E I PITTORI RISORGIMENTALI DI CAPITANATA
7
l’unificazione linguistica dell’arte italiana» manifestatosi all’indomani dell’epopea risorgimentale e risolto in gran parte attraverso l’adozione «di una comune iconografia
patriottica» 12.
Molti sono i pittori che partecipano al raggiungimento dell’unità nazionale impugnando le armi insieme al pennello. Alternando alla presenza sulle barricate quella davanti
alla tela, molti di loro hanno inteso l’arte un tutt’uno con la vita. Un coinvolgimento profondo in nome di una coscienza autenticamente italiana, riscontrabile anche in sede critica, nell’impiego di espressioni proprie dell’ambito militare 13.
All’origine di questa virtuosa fusione tra arte e vita, proficuamente perseguita anche
dall’Altamura, è l’insegnamento profuso da Giuseppe Mazzini che, nel 1832, esorta poeti
e artisti a un maggiore coinvolgimento nella causa nazionale, chiedendo loro «perché
scrivete inezie e canzoni d’amore invece di rivolgere la letteratura al popolo, all’utile
suo? […] Perché non rappresentate al popolo i suoi fatti antichi ne’ quadri, ne’ libercoletti, negli almanacchi, in tutti i modi che possano illudere la tirannide?» 14. È soprattutto
con il saggio La pittura moderna in Italia, pubblicato nel 1841, durante l’esilio londinese, che il Mazzini precisa il suo pensiero sulla funzione delle arti figurative. Respingendo sul nascere le teorie dell’art pour art 15, Mazzini definisce l’Arte «una
manifestazione eminentemente sociale, un elemento di sviluppo collettivo» 16. Facendo di
ogni grande artista «uno storico o un profeta», identifica il massimo sviluppo dell’arte
contemporanea nella ‘Pittura Storica’, spiegando all’Italia che «è nella continuità con la
tradizione che deve attingere le aspirazioni e le forze per fondare la sua nazionalità» 17.
Per il patriota genovese gli artisti «vivono della vita dell’Umanità attuale e la simbolizzano» 18 nell’attesa epifanica di rivelare liberamente la loro arte. Indicando in Francesco
Hayez il caposcuola della nuova pittura italiana, Mazzini definisce il compito del pittore
affermando che «la sua ispirazione emana direttamente dal Popolo. […] Il secolo gli dà
l’idea, e l’idea la forma» 19.
Molti sono i pittori italiani che sposano i dettami mazziniani, scegliendo, per le loro tele,
tematiche storiche, colme di pathos e in grado di sollecitare l’amor patrio 20. Capofila è Do12
E. Castelnuovo, G. Ginzburg, Centro e Periferia, in Storia dell’arte italiana. I. Materiali e problemi.
I. Questioni e metodi, Torino 1979, 283-352, qui 350.
13
Emblematico è l’esempio di Diego Martelli che, confondendo semanticamente gli ambiti, ricorre
ad un linguaggio insurrezional-militaresco per illustrare la novità della macchia: ‘si doveva dunque combattere e combattendo ferire; era quindi necessaria un’arma e una bandiera, e fu trovata la macchia in
opposizione alla forma’. D. Martelli, Su l’Arte, conferenza del 1877, ora in A. Boschetto (a cura di),
Scritti d’arte … cit., 85-97, qui 93.
14
G. Mazzini, D’alcune cause che impedirono finora lo sviluppo della libertà in Italia [1832], in
Idem, Scritti editi ed inediti. II, Imola 1907, 112-221, qui 220.
15
Atteggiamento non dissimile è assunto da Thorè Bürger, futuro scopritore del Vermeer, che negli
stessi anni contrappone all’art pour l’art la formula l’art pour l’homme.
16
G. Mazzini, La pittura moderna in Italia, a cura di A. Tugnoli, Bologna 1993, qui 5.
17
Idem, 77.
18
Idem, 75.
19
Idem, 77.
20
Anche Pietro Estense Selvatico, professando il «bisogno di addentrarci nel modo di vivere de’ nostri coevi», crede nel valore etico della riattualizzazione della storia: «Per ora non mi par possibile sperar impulso energico se non da un’altra specie di pittura, la quale è storica sì rispetto alla vita generale
8
CARMELO CIPRIANI
menico Morelli che, in un’intervista del 1889, dichiara: «[…] se si vuol essere qualcosa e
dire una propria idea, un pensier del proprio capo, è necessario tornar indietro, rituffarsi
nel passato, vivere in altre epoche, sentire e vedere il passato» 21. «Si trattava – dunque –
di rivestire di panni veristi gli stessi personaggi della tradizione classicista e romantica» 22,
così da raggirare la censura e trasmettere messaggi politici significativi. Una scelta pienamente condivisa da F. S. Altamura, per il quale «l’opera d’arte è qualcosa di più di un semplice episodio: è parte della vita, è la ricerca continua di sentimenti e di sensazioni» 23.
La formazione mazziniana dell’artista 24 è chiaramente rintracciabile nelle pagine dell’autobiografia Vita e Arte, edita a Napoli nel 1896, l’anno prima della morte. Uno strumento imprescindibile che, oltre a relazionare la produzione artistica altamurana con il
contesto socio-politico di appartenenza, consente di osservare, da un punto di vista privilegiato, alcune delle principali vicende storico-artistiche del secondo Ottocento.
Leggendo il memoriale non si può fare a meno di sottolineare la somiglianza verbale
oltre che ideologica con il pensiero mazziniano, a cui certamente sono da ricondurre le
affermazioni: «È stato sempre mio costume nel concepimento di un quadro prendere le
mosse da un’idea piuttosto che da una nota pittorica» oppure «[…] un quadro non è per
me un problema di colorito, ma l’occasione di vestire con forme sensibili un’idea» 25. Citazioni che attestano al contempo l’incoercibilità delle teorie estetiche di Francesco De
Sanctis, il quale, promuovendo la corrispondenza tra ‘forma’ e ‘contenuto’ e la convergenza tra idea progettuale e traduzione formale, fornisce una base etica, oltre che speculativa, alla rivoluzione realista 26.
Sin dal primo capitolo il pittore specifica i punti intorno ai quali si è incentrata la sua
vita: ‘Patria’, ‘Arte’ e ‘Donna’. Tralasciando quest’ultimo aspetto, non attinente al tema
d’indagine, ci concentriamo sui primi due.
Nato a Foggia nel 1822, sin dall’infanzia il Pittore respira umori risorgimentali, affiancando ad una canonica istruzione, impartita dai Padri Scolopi, un’altra anticonvenzionale, suggeritagli dai racconti paterni sui carbonari, sul periodo murattiano e sui
successivi moti insurrezionali. Una componente fondamentale della sua formazione è
rappresentata anche dalla madre, Sofia Perifano, appartenente a una famiglia di antiborbonici greci, all’interno della quale si è distinto Spiridione Perifano, cugino dell’artista,
scrittore e patriota amico di Mazzini e Luigi Settembrini.
della società, ma non designa avvenimenti particolari, se non in quanto sieno rivelazione de’sentimenti,
degli affetti, delle tendenze speciali dell’età nostra»: così P. E. Selvatico, Le condizioni dell’odierna pittura storica e sacra in Italia, Padova 1862, 66.
21
Così V. Della Sala, Ottocentisti meridionali, Napoli 1935, 165.
22
Maltese, La pittura italiana… cit., 177.
23
Della Sala, Ottocentisti meridionali … cit., 240.
24
Significativo è il fatto che nel saggio encomiastico del 1917 Francesco Jerace definisca F. S. Altamura «giovane mazziniano»: così in Saverio Altamura. Cenni biografici: memoria letta alla R. Accademia di Archeologia, Lettere e Belle Arti di Napoli dal socio ordinario residente Francesco Jerace,
Napoli 1917, 5.
25
F. S. Altamura, Vita e Arte, in M. Simone (a cura di), Saverio Altamura, pittore-patriota foggiano
nell’autobiografia, nella critica e nei documenti, Foggia 1965, 23.
26
M. A. Fusco, La “prima scuola” di De Sanctis: influsso su Federico Quercia e Giuseppe Bonolis.
Teorie artistiche e scritti didattici, in A. Marinari (a cura di), Francesco De Sanctis un secolo dopo,
Bari 1985, 340-342.
PERCORSI DI VITA E ARTE: FRANCESCO SAVERIO ALTAMURA E I PITTORI RISORGIMENTALI DI CAPITANATA
9
L’incalzare degli eventi, qualche anno più tardi, consente al giovane pittore di vivere in
prima persona le prodezze fino ad allora solo immaginate. Desideroso di cambiamenti nella
vita quanto nella pittura, è coinvolto nelle vicende risorgimentali napoletane, contestando
con la stessa veemenza il repressivo regime borbonico e gli obsoleti metodi accademici.
«L’Altamura ed io – scrive Domenico Morelli – con la fantasia accesa da tutto quel risveglio di italianità che vibrava nei discorsi dei giovani e nelle poesie dei contemporanei sognavamo un’arte di sentimento che non fosse chiusa nei precetti tradizionali della scuola» 27.
Vinto insieme all’amico Morelli 28 il pensionato a Roma, «delegato a sprovincializzare
e ad allargare gli orizzonti intellettuali degli allievi più dotati» 29, ha la possibilità di trasferirsi nell’Urbe. L’entusiasmo per le riforme di papa Pio IX, il pontefice riformatore
auspicato nel Primato di Gioberti, lo convince a interrompere momentaneamente gli studi
e a rientrare a Napoli dove, agli amici riuniti al Caffè De Angelis, racconta i fatti romani
contribuendo ad accendere le speranze dei liberali e gli entusiasmi del popolo. Sorpreso
ad inneggiare il papa liberale 30, è rinchiuso, insieme ad altri compagni rivoluzionari, nel
Carcere di Santa Maria Apparente. Rilasciato in seguito alla promulgazione della Costituzione, si arruola nel IV Battaglione della Guardia Nazionale.
Agli anni 1847 e 1848 risalgono i ritratti di Domenico Morelli, Carlo Poerio, Matteo
Imbriani, Gaetano Donizetti 31, Luigi La Vista, intellettuali uniti ad Altamura da un comune senso patriottico. Animati da fraterna amicizia, i ritratti appaiono stilisticamente
differenti. Si distingue per toccante verità il Ritratto di Morelli (fig. 1), colto di tre quarti
con lo sguardo fisso ma audace, teso a rifletterne la prontezza d’intelletto e d’azione in
27
D. Morelli, Filippo Palizzi e la scuola napoletana di pittura dopo il 1840, in Idem, E. Dalbono, La
scuola napoletana di pittura nel secolo decimonono, a cura di B. Croce, Bari 1915, 3-41, qui 20; M. Limoncelli, 1864: una data, un ambiente, una mostra, un dimenticato: Saverio Altamura, Napoli 1933, 32.
28
La commissione scelse come tema del concorso un episodio religioso riportato nel primo canto della
Gerusalemme liberata di T. Tasso: L’angelo che appare a Goffredo di Buglione. Morelli, che si aggiudicò il secondo posto, preceduto proprio da Altamura, nel 1901, ricorda quell’esperienza con queste parole: «Un anno dopo che la nostra rivoluzione fu soffocata nel sangue, il concorso pel pensionato venne
bandito. Che ansia e che palpiti! Essere o non essere! Perché con la pensione si aveva il modo di studiare a Roma, si era certi di progredire, di dipingere grandi tele, di essere riconosciuto come il migliore
fra i giovani artisti […]. Furono molti i concorrenti venuti da altre scuole: da quella del Bonolis il più
bravo e di bellissimo ingegno. La mattina si doveva fare l’extempore, eravamo tutti convulsi. Ma quando
uscì dall’urna il tema […] rimanemmo smarriti […]. Che fare con questo tema per noi contro natura?
[…] Restammo Altamura ed io tutto il giorno senza concludere nulla. Mancava solo un’ora al tempo assegnato; e se non si dava almeno uno schizzo, si restava fuori concorso. Ci decidemmo quindi a fare un
disegno, così come veniva sotto la mano, tanto per rimanere tra i concorrenti». Così D. Morelli, Ricordi
della Scuola napoletana. Memoria letta all’Accademia nella tornata del 21 giugno 1900 dal socio ordinario residente Domenico Morelli, in Napoli Nobilissima X, 6, 1901, 81-88, qui 85.
29
S. Pinto, La promozione delle arti negli stati italiani dall’età delle riforme all’Unità, in Storia dell’Arte italiana. II. Dal Medioevo al Novecento. II. Dal Cinquecento all’Ottocento. 2. Settecento e Ottocento, Torino 1982, 940-1060, qui 943.
30
«Un giorno – racconta Altamura nell’autobiografia – presentai un bozzetto al Re in persona. Ma
per mia disgrazia scelsi un soggetto dov’era protagonista un papa, e per soprappiù un Pio V. Nello spiegare il soggetto sbagliai la cifra e dissi Pio IX. A questo il Re con mal garbo torse lo sguardo, dicendo
con la sua grossa voce “che non facessi soggetti di Papi, ora che vogliono fari i Giacobini”»: Altamura,
Vita e … cit., 22.
31
Ch. Farese Sperken, Scheda, in C. Gelao (a cura di), La Pinacoteca Provinciale di Bari. II. Opere
dell’Ottocento e della prima metà del Novecento, Roma 2005, 14.
10
CARMELO CIPRIANI
un condiviso percorso di arte e vita; «un capolavoro – scrive Biancale – nel senso che ne vien
fuori il tipo d’un cospiratore e d’un rivoluzionario» 32, lo stesso ravvisabile nel coevo autoritratto
di Altamura.
Nello stesso anno, Altamura, insieme a Morelli, La Vista, Achille Vertunni, Pasquale Villari
ed altri, partecipa ai moti rivoluzionari, combattendo sulle barricate in Largo della Carità 33. Il 15
maggio, la rivolta scoppiata subito dopo lo scioglimento del governo Troya è duramente repressa:
Luigi La Vista muore, mentre Morelli e Altamura,
entrambi feriti, vengono imprigionati. Gli scontri
si concludono con 145 morti e 300 feriti. Durante
gli scontri sulle barricate, il pittore foggiano uccide due soldati svizzeri, che, in tarda età, con profondo rimorso, ricorda come «due belli e forti
zappatori» 34. Uscito di galera grazie a un salvacondotto del fratello del re, suo mecenate, è co1. - F. S. Altamura, Ritratto di Domenico
Morelli (Napoli, Collezione privata - 1848).
stretto all’esilio 35. Ripara prima a L’Aquila,
dall’amico Mariano D’Ayala, Intendente della
Provincia, e poi, nel 1850, a Firenze, dove lo raggiunge la condanna a morte in contumacia emessa dalla Gran Corte Criminale degli Abruzzi, perché coinvolto in una congiura contro i Borbone 36.
Direttamente legato ai fatti narrati è uno dei principali capolavori altamurani: La morte di un crociato (fig. 2), attualmente conservato nel Museo Civico di Foggia. Eseguito
nel fatidico 1848, subito dopo la scarcerazione dal penitenziario di Santa Maria Apparente,
32
M. Biancale, Arte italiana Ottocento-Novecento, I, Roma 1961, 108.
S. Di Giacomo, Il Quarantotto. Notizie, aneddoti, curiosità intorno al 15 maggio 1848 in Napoli,
Napoli 1903, 39.
34
Altamura, Vita e … cit., qui 121.
35
Un dipinto raffigurante la Madonna fu dato in dono dalla madre del pittore alla madre del commissario di polizia Pecchenda, perché inducesse il figlio a ritardare di qualche giorno la partenza di Saverio per l’esilio: B. Ascione, Il contributo delle arti all’Unità d’Italia. Pittori e pittura del Risorgimento,
Napoli 1970, 23. Durante il Risorgimento, l’esilio costituisce «una delle molteplici forme di martirio subito dai patrioti, assieme alla morte in battaglia, alla prigionia ed al sacrificio supremo dei volontari in
missioni impossibili. In quanto martirio, dunque, anche l’esilio era una testimonianza tangibile della
fede dei patrioti nella causa nazionale»: M. Isabella, L’esilio, in A. M. Banti et alii (a cura di), Atlante
culturale del Risorgimento. Lessico del linguaggio politico dal Settecento all’Unità, Roma-Bari 2011,
65-74, qui 70.
36
Non potendo più far ritorno in patria, anche F. S. Altamura vive il dramma dell’esilio, testimoniato
dalle scelte iconografiche compiute tra il 1848 e il 1849, anni in cui vengono dipinti Il primo passo dell’esule nella terra straniera, L’esule, I sogni dell’esule, Ebrei esuli in Babilonia. Quest’ultimo soggetto,
desunto dal biblico libro I Re, è un tema che all’epoca stava godendo di grande fortuna sia in pittura che
in musica: il Nabucco verdiano (Milano, Teatro della Scala, 1842), con il suo Và pensiero cantato dagli
ebrei in schiavitù, era stato accolto ovunque con successo e replicato nel corso degli anni seguenti in diversi teatri della penisola.
33
PERCORSI DI VITA E ARTE: FRANCESCO SAVERIO ALTAMURA E I PITTORI RISORGIMENTALI DI CAPITANATA
11
il dipinto si lega profeticamente all’esperienza delle barricate napoletane. Seguendo l’insegnamento mazziniano di una
pittura impegnata civilmente e
il noto suggerimento di Domenico Morelli di rappresentare
«figure e cose, non viste, ma
immaginate e vere a un tempo»,
Altamura rappresenta sulla tela
un avvenimento medievale
chiaramente allusivo di fatti
contemporanei. In uno scenario
desolato, infuocato dai bagliori crepuscolari del cielo, si assiste agli ultimi istanti di vita di
un crociato caduto per la liberazione del Santo Sepolcro.
Mentre una fanciulla lo accarezza delicatamente per alleviargli il trapasso, un monaco
vessillifero pare assicurane
l’anima a Dio. Per rendere credibile la scena e facilitare l’identificazione con accadimenti recenti, Altamura consegna ai 2. - F. S. Altamura, La morte di un crociato (Foggia, Museo Ciprotagonisti le fattezze dei com- vico - 1848).
pagni, dando ai volti dei due
crociati, uno morente e l’altro reggente, rispettivamente quelli del Morelli e di Achille
Vertunni. Mentre nei crociati è possibile riconoscere i patrioti italiani – gli stessi rappresentati in quello stesso anno nelle vesti di Martiri cristiani da Morelli 37 – nella fanciulla vestita di rosso e verde e con il capo cinto dal tricolore è, invece, individuabile
un riferimento all’Italia unita. Determinante per la nascita dell’opera dev’essere stata la
lirica Ai martiri della causa italiana 38 composta in ottave, nel dicembre 1847, da Ales37
Nell’opera morelliana «la composizione è solenne e raggiunge il tono icastico di una vera e propria narrazione religiosa da Deposizione del Cristo morto. La scena ha riflessi classicisti di matrice emiliana, rivisitati nel solco della tradizione che rimanda al naturalismo secentesco di Ribera e Massimo
Stanzione anche se i colori sono lievemente cambiati rispetto ai canovacci tradizionali degli antichi.
Non sembra infatti una circostanza occasionale quel nesso di natura simbolica che lega il corpo di Santa
Giustina, al polso di San Cipriano, per mezzo di una catena, nella sequenza di una cromia che evidenzia proprio gli accostamenti della bandiera tricolore, vessillo delle lotte risorgimentali che svelano i motivi ispiratori del soggetto ortodosso dei Martiri»: L. Martorelli, Scheda, in S. Pinto, L. Barroero, F.
Mazzocca (a cura di), Maestà di Roma da Napoleone all’Unità d’Italia, catalogo della mostra (Roma,
Scuderie del Quirinale, Galleria Nazionale d’Arte Moderna e Villa Medici, 7 marzo-29 giugno 2003),
Milano 2003, 293.
38
«Bevve la terra italica / Del vostro sangue l’onda, / E piova più feconda / Giammai non penetrò.
12
CARMELO CIPRIANI
sandro Poerio, fratello di Carlo che, come ricorda Altamura, «nelle sue visite [al carcere di Santa Maria Apparente] rinfocolava gli spiriti con le sue poesie calde di amor patrio e di speranze» 39.
Testimonianza d’identità nazionale ante litteram, la tela rientra in quel filone pittorico
di clandestinità «a cui per decenni sono stati obbligati i colori patri, allusi per via metaforica dalle tinte delle vesti o di altri oggetti che in maniera apparentemente casuale apparivano dipinti nei quadri» 40. Nell’angolo in basso a sinistra, oltre alla data di esecuzione,
sono riportati il motto crociato ‘Dio lo vuole’ – più volte ripreso dallo stesso Mazzini –
e l’anno ‘1197’, la cui presenza, sottaciuta dal pittore, è rimasta fino ad ora inspiegabilmente ignota agli studi. L’anno rievoca le dure repressioni compiute in Sicilia dall’imperatore Enrico VI, associato per brutalità d’operato al re Ferdinando che soffocava nel
sangue ogni ribellione regnicola.
Un Medioevo predisposto a diventare metafora di ideologie civili e fucina di concetti
anticlassici, il tutto magistralmente reso nell’opera altamurana che, dopo la sua esposizione alla Mostra Borbonica del 1848, «originò una serie di polemiche, aprendo idee
nuove alle giovani generazioni, e allarmò i vecchi, che in quelle opere ravvisarono una
vera e propria dichiarazione di guerra all’accademismo» 41.
La stessa tematica è ripresa da Altamura anche nell’opera Il giuramento dei crociati,
eseguita entro il sesto decennio del secolo XIX e di recente emersa dal mercato antiquario. Le ridotte dimensioni e una pennellata sciolta fanno pensare a uno studio preparatorio per un dipinto più grande mai eseguito 42.
Perfetta traslazione di avvenimenti contemporanei, l’iconografia crociata è nello stesso
giro di anni scelta da altri pittori della tendenza storica, primo su tutti Francesco Hayez
che al tema dedica Pier l’Eremita predica la crociata e La sete dei crociati sotto Gerusalemme. Quest’ultimo dipinto è considerato da Altamura uno dei vertici della carriera del
pittore milanese, al quale, da Napoli, all’indomani dell’Unità, scrive un’accorata lettera
in cui ancora una volta si mostra allineato alle idee mazziniane: «Te – scrive ad Hayez –
proclamiamo iniziatore della nostra scuola, alla quale ognuno di noi, operoso e con co/ Voi con ardir magnanimo / Di sacrificio intero, / Voi preparaste il Vero, / Il Ver che a noi spuntò. / Alziam concordi il cantico / Alla virtù di Pio, / Nel qual rivela Iddio / Questa novella età: / Ma pera chi
dimentica / Quei che con largo affetto / Fer della vita getto / Per nostra libertà. / Ei d’alta, di profetica
/ Morte per noi moriro; / Con ultimo sospiro / Vòlto a’ futuri dì. / Ei sien subietto fervido / Di splendide
canzoni, / Fin che nel mondo suoni / La lingua alma del sì. / Le tombe in cui si giacciono / L’ossa compiante e care / Sien ciascheduna altare / Di cittadino amor. / Innanzi a questi martiri / Prostatevi silenti,
/ Ma a sorgere frementi / Di bellico furor. / Questi dal nome italico / Inseparati nomi, / Che dall’oblio
non domi / Ne’ secoli saran; / Questi son segni fulgidi / Sull’inclite bandiere / Che incontro allo straniere / Vendicatrici andran»: P. Tuscano, Per altezza d’ingegno. Aspetti e figure dell’attività letteraria
calabrese tra otto e novecento, Soveria Mannelli 2002, 24-25.
39
Altamura, Vita e … cit., 21.
40
C. Poppi, Bianco, rosso e verde: simboli, metafore e allegorie, in C. Collina, E. Farioli, C. Poppi
(a cura di), Bandiera dipinta. Il tricolore nella pittura italiana 1797-1947, catalogo della mostra (Reggio Emilia, Chiostri di San Domenico, 23 marzo-8 giugno 2003), Cinisello Balsamo 2003, 49-67, qui
55.
41
Così F. Sossi, Il contributo pugliese alla pittura italiana dell’Ottocento, Taranto 1984, 52.
42
M. Melchiorre (a cura di), Pittori di Capitanata ‘800 ‘900, catalogo della mostra (Foggia, Palazzo
Siniscalco-Ceci, 23 gennaio-6 febbraio 2010), Foggia 2010, 43.
PERCORSI DI VITA E ARTE: FRANCESCO SAVERIO ALTAMURA E I PITTORI RISORGIMENTALI DI CAPITANATA
13
scienza, arrecherà la sua piccola pietra e della quale tu ardito e felice innovatore gettasti
le fondamenta» 43.
Stabilitosi a Firenze anche per la maggiore liberalità garantita dal regime dei Lorena,
Altamura vi resta fino al 1860 compiendo esperienze importanti e ricevendo molteplici
consensi. Partecipa attivamente alla scuola di Staggia fondata dall’amico Serafino De Tivoli (un livornese, milite a Curtatone e Montanara e difensore della Repubblica Romana)
e soprattutto figura tra i vincitori del noto ‘Concorso Ricasoli’ 44, indetto, nel 1859, dal governatore provvisorio della Toscana, per celebrare la seconda guerra d’indipendenza. Il
bando, pubblicato il 5 settembre sul Monitore Toscano, è rivolto agli artisti nati o – come
Altamura – residenti in Toscana, e ambisce ad associare l’Arte a intendimenti civili, ponendosi come il primo atto per la costituzione di un’arte realmente nazionale. Ai concorrenti è data la possibilità di scegliere il tema da rappresentare tra Mario vincitore sui
Cimbri (soggetto scelto dall’Altamura) e Federico Barbarossa sconfitto a Legnano 45,
«due solenni momenti della vita nazionale italiana, […] le due più splendide prove che
l’Italia abbia fatta ne’tempi antichi per la sua indipendenza» 46. Iconografie ancora una
volta assunte come metafore collettive, facilmente decifrabili in chiave risorgimentale.
Considerata la comune origine germanica di Cimbri e delle truppe imperiali del Barbarossa, infatti, non doveva essere arduo per i contemporanei leggere, nel trionfo di Mario
o della Lega Lombarda, un riferimento alla vicina vittoria franco-piemontese sugli austriaci 47.
L’opera altamurana (fig. 3), dotata di spirito cronachistico, con il suo libero uso di diversi registri – realistico, simbolico e metaforico –, ben interpreta gli entusiasmi preunitari, spingendo, nel 1926, Francesco Gentile a riconoscervi «l’apoteosi dell’italiano
fervente e della gran madre Italia, il coronamento del travaglio e dell’ascesa di ambedue,
il suggello di un’epopea» 48. «Mentre un altro artista per far sfoggio dei bei tipi – scrive
Michele Colio – avrebbe fatto un Mario dall’aria nobile e marziale, egli invece ce lo ri43
R. De Grada et alii, Pittura ‘800, Novara 1999, 101.
Il ‘Concorso Ricasoli’, accanto alla riproduzione di cinque quadri di storia antica, «assunti a testimonianza dell’alto prestigio culturale e politico-militare» acquistato dall’Italia nel corso dei secoli, prevedeva la realizzazione di cinque statue a uomini illustri, quattro statue in bronzo di Vittorio Emanuele
II e Napoleone III, «quattro quadri di costume che rappresentino episodi militari dell’ultima guerra
[1859]» e cinque scene di grande formato raffiguranti battaglie risorgimentali. Mentre l’Altamura e
Amos Cassioli si aggiudicarono i premi per il tema storico, uno dei premi sul tema contemporaneo fu
assegnato a Giovanni Fattori con il bozzetto de Il campo italiano dopo la Battaglia di Magenta: M.
Hansmann, Giovanni Fattori e la pittura di avvenimenti contemporanei al tempo delle guerre d’indipendenza, in M. Hansamnn, M. Seidel (a cura di), Pittura italiana nell’Ottocento, Venezia 2005, 231254, qui 231.
45
Simbolo della duratura contrapposizione al secolare nemico germanico e della conseguente riscossa italica, la battaglia di Legnano è protagonista, negli anni Quaranta del secolo, di un incompiuto
romanzo storico di Massimo D’Azeglio.
46
C. Bon, Il Concorso Ricasoli nel 1859: le opere di pittura, in Ricerche di storia dell’arte 23, 1984,
4-32, qui 8.
47
La fortuna dell’episodio nella cultura risorgimentale è testimoniata anche dalla tragedia Mario e i
Cimbri di Giovanni Battista Niccolini, edita a Firenze nel 1858. Per documentarsi sull’argomento probabilmente Altamura ricorse all’edizione delle Vite Parallele di Plutarco pubblicata a Firenze nel 1859:
Ch. Farese Sperken, Scheda, in C. Gelao (a cura di) La Pinacoteca Provinciale di Bari … cit., 12-13.
48
F. Gentile, Saverio Altamura patriota e pittore romantico, Lucera 1926, 8.
44
3. - F. S. Altamura, Mario vincitore sui Cimbri (Foggia, Museo Civico - ca. 1860).
produce con tratti volgari, volendo così indicare la bassezza delle origini del suo eroe» 49,
al fine di enfatizzare la vittoria del popolo italiano sull’invasore straniero.
Reso indimenticabile dal suo ‘materialismo storico’ 50, il dipinto è stato a lungo ritenuto
il capolavoro del pittore 51. Opinione oggi non più condivisa dalla comunità degli studiosi
che indica il vertice della produzione altamurana in opere tecnicamente più progredite
come I funerali del Buondelmonte 52 o Il lavoro (fig. 4) – il quadro più vicino alla maniera
49
M. Colio, Saverio Altamura … cit., qui 158.
«Il largo gesto, col quale il generale romano pianta il trofeo di Roma nella terra rivendicata oggi
sembra più bello, più muscoloso»: così S. Procida, La Galleria Rotondo al Museo napoletano di San
Martino, in Emporium XLIV, 261, 1916, 191-206, qui 204.
51
Ampia è la fortuna critica dell’opera. Mentre la principessa Della Rocca asserisce «che basterebbe
da solo a rendere immortale l’autore e ad assicurargli un posto accanto ai maestri degli scorsi secoli», il
pittore Camillo Miola nel necrologio dell’artista scrive: «Il quadro che egli trasse dal cartone del Mario
fu un’evocazione di romanità eroica assolutamente imprevedibile in un artista romantico per educazione
e per sentimento. Su grandi e pallidi corpi dei barbari feriti e moribondi si avanza un gruppo di veterani,
portando sulle spalle ed acclamando il duce vittorioso. Ed il gran plebeo d’Arpino si atteggia fieramente
come chi sa che la sua vittoria ha salvato Roma ed il suo imperio nel mondo. Un’aura d’epica grandezza
emana dai larghi gesti dei soldati e dai loro volti infiammati dalla pugna e dal giubilo del trionfo. Oh ricordo glorioso per la patria e per te o pittore che la illustravi con un’opera immortale! La recente cacciata
dell’Austriaco sollevava allora il tuo cuore di patriota e dettava al tuo pennello quell’inno meraviglioso»:
C. Villani, Scrittori ed artisti pugliesi antichi, moderni e contemporanei, Trani 1904, 25-26.
52
Il dipinto, dal 1901 alla Galleria Nazionale d’Arte Moderna di Roma, rientra nella Trilogia del Buondelmonte, personaggio storico del Duecento fiorentino, eseguita per il banchiere Giovanni Vonwiller, presentatogli da Domenico Morelli. L’opera, esposta nel 1861 a Firenze, alla prima Esposizione Nazionale
Italiana, fu premiata «per novità di concetto e vivezza d’intonazione»; il premio tuttavia fu rifiutato dal50
4. - F. S. Altamura, Il lavoro (Napoli, Museo di Capodimonte, in comodato dalla Provincia di Napoli - 1869).
dei macchiaioli 53 –, entrambe testimoni dell’ideologia mazziniana che, nel tentativo di
contrastare la decadenza dell’arte e della letteratura, indica nei modelli del Medioevo e
del Rinascimento una valida guida etica alla formazione di una coscienza nazionale.
l’artista per insofferenza verso la giuria. «Nel dipinto gli effetti della luce all’aria aperta studiati lavorando
dal vero in campagna, al fianco di Serafino De Tivoli, di Lorenzo Gelati, di Michele Rapisardi, si coniugano alla spigliatezza della pennellata, alle improvvise accensioni cromatiche ai patetici rapporti chiaroscurali, frutto della ritrovata dimestichezza con Morelli […]. Alle riflessioni sulla pittura di Paul Delaroche
e dell’allievo Auguste Gendron […], Altamura accosta l’ammirazione per i dipinti d’ambito anglosassone
concepiti come evocazioni fantastiche della storia; e da un quadro di Frederick Leighton quale La Madonna di Cimabue in Borgo Allegri […] sembra proprio dipendere il Buondelmonte. Infine, è alla maniera
sperimentata allora dai frequentatori del Caffè Michelangelo, suoi abituali interlocutori, che il pittore ricorre per tradurre secondo abbreviate sintesi formali i colti rimandi all’arte dei Primitivi toscani»: S. Bietoletti, Scheda, in Ch. Farese Sperken, L. Martorelli, F. Picca (a cura di), La Patria, l’Arte, la Donna.
Francesco Saverio Altamura e la pittura dell’Ottocento in Italia, catalogo della mostra (Foggia, Palazzo
Dogana e Museo Civico, 10 novembre 2012-12 gennaio 2013), Foggia 2012, 149. La scelta iconografica
è ricondotta da Christine Farese Sperken all’opera lirica di Giovanni Pacini su libretto di Salvatore Cammarano, il Buondelmente, presentata al San Carlo di Napoli nelle stagioni dal 1846 al 1848 e di cui Altamura ebbe certamente notizia: Ch. Farese Sperken, La pittura dell’Ottocento in Puglia, Bari 1993, 18-20.
Della trilogia fanno parte anche La tradita, oggi dispersa, e Le nozze di Buondelmonte con la Donati, opera
emersa dal mercato antiquario agli inizi degli anni Ottanta del Novecento e ora nella Collezione della
Banca Carime. Entrambi i dipinti, prima che se ne perdessero le tracce, sono attestati, fino al 1917, a Napoli, in casa del Principe Colonna di Stigliano: M. Tocci, L. Tononi (a cura di), Baci rubati e amorose passioni nell’arte e nella letteratura fra Settecento e Ottocento, catalogo della mostra (Andria, Castel del
Monte, 16 luglio-1 novembre 2010), Cinisello Balsamo 2010, 64. Per un approfondimento su Giovanni
Vonwiller e il collezionismo a Napoli, L. Martorelli, Dopo l’Unità: Domenico Morelli tra collezionismo,
istituzioni e mercato, in Hansamnn, Seidel (a cura di), Pittura italiana … cit., 151-172.
53
Firmato e datato 1861, il dipinto è eseguito durante il secondo, più breve soggiorno fiorentino. È
attualmente conservato al Museo di Capodimonte, dove giunge in seguito all’acquisto alla Promotrice
Napoletana del 1869, dopo il ritorno a Napoli nel 1867. Stagliata su un enorme blocco lapideo è la fi-
16
CARMELO CIPRIANI
Colmo di reminiscenze neoclassiche e di richiami a Delacroix, ma anche alla pittura
pompeiana e a Minchelangelo, il Mario 54 piacque anche al re Vittorio Emanuele II che
ne volle una copia per la Pinacoteca di Capodimonte. Quest’ultima, prontamente esposta
e premiata nel giugno 1863 alla Promotrice di Torino, fu riproposta nel 1870 all’Esposizione Nazionale di Parma e nel 1873 all’Esposizione Universale di Vienna, a chiusura
della quale entrò stabilmente nel Museo napoletano 55. «Esiste una certa differenza tra le
due redazioni: la prima conclusasi dopo oltre sette anni, riuscì pedante e troppo affastellata di personaggi e di simboli, mentre la seconda, esposta a Torino nel 1863, fu semplificata e si giovò di un sopralluogo che Altamura fece nei luoghi degli avvenimenti,
raggiungendo un risultato di maggiore armonia ed ariosità. Mutò anche il punto di vista:
quasi all’altezza del selciato e dunque molto basso, tale da conferire una sottolineatura retorica al trionfo dell’eroe, nella prima; più alto e spostato a destra, in modo da coinvolgere maggiormente lo spettatore nella scena, nella seconda» 56.
Del dipinto, oltre a diversi studi 57, esistono altre due repliche, una alla Pinacoteca
gura di un giovane in abiti rinascimentali, unica presenza umana del dipinto, come il ragazzo seduto nel
chiostro di Santa Croce dipinto dall’Abbati nel 1861. L’ambientazione è quelle delle cave di marmo di
Carrara, riconoscibili dalle colline del Santuario della Madonna delle Grazie, eretto a partire dal primo
quarto del Seicento lungo l’antica strada utilizzata per il trasporto dei marmi dalle cave al mare. Diversamente da quelli del Courbet, lo spaccapietre non è colto nel pieno dell’attività, ma in un’intima, malinconica meditazione, riflettendo lo sconforto dell’autore per gli effetti dei cambiamenti urbanistici e
della trasformazione antropica imposta al paesaggio rurale. I cumuli di macerie e i blocchi accatastati
stridono con l’armonia della campagna toscana, strutturata da linee oblique e segmentata da zone di
luce-ombra. Nota anche con il titolo Lo scalpellino, l’opera, nelle pennellate ampie e corpose, denuncia una condotta pittorica vicina a quella di Signorini e dell’ultimo Abbati. L’azzurro del cielo, il rosso
del copricapo e il bianco delle maniche costituiscono le uniche accensioni cromatiche di un dipinto dominato da tonalità brune: S. Bietoletti, M. Dantini, L’Ottocento italiano. La storia, gli artisti, le opere,
Firenze 2002, 131; L. Lombardi, Scheda, in Mazzocca, Romantici e macchiaioli … cit., 280-281. «Nello
specifico il giovane scalpellino potrebbe essere l’effigie delle schiere di scultori che si erano recati nei
secoli a Carrara per scegliere i marmi più perfetti […] in effetti le fattezze del giovane sembrano alludere alla fisionomia del Buonarroti»: P. Piscitello, Scheda, in Farese Sperken, Martorelli, Picca (a cura
di), La Patria, l’Arte … cit., 99.
54
Disperso il bozzetto originario, anche la versione definitiva si smarrisce poco dopo la genesi. A tal
proposito, nel 1876, il pittore Francesco Netti scrive: «Nei primi tempi fu messo nell’aula del Senato agli
Uffici di Firenze. Poi, nel trasferimento della capitale a Torino, nella confusione dello sgombero, si smarrì
[…]. Ne demandai all’autore, il quale mi disse che, non sapendone più nulla, avea fatto delle ricerche
presso delle persone competenti, che neppure ne sapevano nulla»: F. Netti, Mario vincitore dei Cimbri. Quadro di Saverio Altamura, in L’Illustrazione Italiana III, 50, 8 ottobre 1876, 290, 296-297, qui 290.
55
A. Imbellone, Il Trionfo di Mario. Dal Concorso Ricasoli alla satira del Circolo Artistico, in Farese Sperken, Martorelli, Picca (a cura di), La Patria, l’Arte … cit., 103-110.
56
M. Picone Petrusa, Le arti visive in Campania nell’Ottocento, in G. Pugliese Carratelli (a cura di),
Storia e Civiltà della Campania. L’Ottocento, Napoli 1995, 205-314, qui 232. Delle differenze fra le due
versioni e dei limiti della prima opera era perfettamente consapevole lo stesso Altamura che, senza lasciarsi abbagliare dalle lodi dei contemporanei, così giudicava il suo lavoro: «[…] tolsi pure la donna
che nel primo sorge accanto al Mario, e che dava un senso di allegoria a tutta la composizione. Il primo
infine sentiva dell’Accademia, ed il secondo è informato a quel realismo che è l’ultima parola del nostro tempo, sia nelle lettere che nelle arti». Si rinvia ad Altamura, Vita e … cit., 31.
57
Nella Galleria Nazionale della Puglia ‘Girolamo e Rosaria Devanna’ di Bitonto è conservato uno
studio del Mario Vincitore dei Cimbri, firmato e dedicato «All’amico Capuano/Altamura», olio su tavola, cm 30 x 17: R. Lorusso Romito (a cura di), Galleria Nazionale della Puglia Girolamo e Rosaria
Devanna, Bari 2009, 62.
PERCORSI DI VITA E ARTE: FRANCESCO SAVERIO ALTAMURA E I PITTORI RISORGIMENTALI DI CAPITANATA
17
Provinciale di Bari 58,
l’altra al Museo Civico
di Foggia, senza alcuna variante rispetto
alla versione napoletana, eccezion fatta per
le più ridotte dimensioni.
Con il preciso intento di comporre un repertorio iconografico
popolato da martiri ed
eroi, uniti sotto l’egida
della corona sabauda, il
governo Ricasoli, sempre nell’ambito del con5. - F. S. Altamura, La prima bandiera italiana portata in Firenze nel
1859 (Torino, Museo del Risorgimento - 1859).
corso, commissiona a
dieci pittori altrettanti ritratti di uomini illustri morti nel decennio. Altamura esegue il Ritratto di Carlo Troya, conosciuto a Napoli all’epoca della partecipazione ai moti del ‘48. Il dipinto, oggi in Galleria d’Arte Moderna di Palazzo Pitti, presenta l’effigiato in abiti eleganti, di fronte ad uno
scrittoio. Ambientazione e posa baldanzosa ne esaltano le abilità politiche e la sicurezza
nell’attività di governo 59.
Il ritratto, riprodotto in forme più contenute nel 1893 per i fratelli Pastina di Andria, è
esposto da Altamura, insieme ad altri cinque dipinti, tra cui I funerali di Buondelmonte, alla
‘Prima Esposizione Italiana’ di Firenze del 1861. Promossa da Bettino Ricasoli, stavolta in
qualità di primo ministro del neonato Regno d’Italia, l’esposizione aveva lo scopo di mostrare al pubblico una visione unitaria dell’impegno artistico nazionale, promuovendo al contempo il confronto fra le diverse realtà locali. In essa «[…] ogni parte d’Italia è splendidamente rappresentata […] a renderci vieppiù certi – asserisce Tullio Dandolo – che l’Italia è
fatta, ch’è grande, degna del suo passato, promotrice di un avvenire glorioso» 60; palcoscenico importante soprattutto per l’arte napoletana, che vi si impone in modo trionfale, al punto di apparire «una rivelazione pel resto d’Italia» 61. Molti sono gli artisti partenopei premiati,
ma nessuno accetta le onorificenze da giudici non eletti, considerati alfieri della maniera accademica più restrittiva. Non senza partigianeria, Paolo Ricci registra che Altamura, oltre
a rifiutare il premio, «protesta per il modo con cui gli organizzatori della mostra, collocando male e cercando di nasconderne il più possibile le opere, tentavano di sminuirne l’im58
Ch. Farese Sperken, Scheda, in C. Gelao (a cura di), Intorno a Corrado Giaquinto. Acquisizioni –
donazioni – restauri 1993-2004, catalogo della mostra (Bari, Pinacoteca Provinciale, 20 novembre 200427 febbraio 2005), Matera 2004, 192-193.
59
S. Bietoletti, Scheda, in Farese Sperken, Martorelli, Picca (a cura di), La Patria, l’Arte … cit., 77.
60
S. Pinto, Arte e Risorgimento a misura di Garibaldi, in Idem (a cura di), Garibaldi. Arte e Storia.
Arte, catalogo della mostra (Roma, Museo di Palazzo Venezia e Museo Centrale del Risorgimento, 23
giugno-31 dicembre 1982), Firenze 1982, 18-26, qui 23.
61
L. Celentano, Due settenni della pittura. Notizie e lettere intime di Bernardo Celentano, Napoli
1883, qui 448.
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CARMELO CIPRIANI
portanza dei rappresentanti meridionali, che
secondo la sua opinione,
dominavano su tutte le
scuole regionali e concludeva la sua protesta
con queste parole: “Tengano a mente che a Napoli la rivoluzione non è
ancora compiuta e quando spariranno Chiavone
e compagni allora ci vedremo tutti in viso”» 62.
A seguito del definitivo allontanamento
6. - B. Celentano, Episodio risorgimentale sullo sfondo di san Miniato
dei Lorena e sotto gli
(Ubicazione ignota - 1859).
auspici di un governo
liberale, la pittura di F.
S. Altamura si sveste dei panni antichi per indossare, alla luce del sole, quelli contemporanei. La genesi dell’opera La prima bandiera italiana portata in Firenze nel 1859
(fig. 5) – «tema patriottico trasfigurato in lirica naturalistica» 63 –, oggi al Museo del
Risorgimento di Torino 64, è da collegarsi alla cosiddetta ‘rivoluzione di velluto’, manifestazione popolare che costringe il granduca Leopoldo II prima a concedere ai fiorentini di inalberare il tricolore, poi ad abbandonare lo Stato. Sullo sfondo di San Miniato al Monte, in un’atmosfera sospesa e quasi sacrale, un giovane solitario avanza
con passo sicuro, stringendo il tricolore. La scena, pervasa da un senso di pacatezza,
esprime esiti pittorici prossimi ai macchiaioli e partecipa alla stessa atmosfera che, due
anni più tardi, induce Odoardo Borrani a dipingere Il 26 aprile 1859 in Firenze connotando la liberazione della Toscana in senso intimista e meno plateale. Il dipinto, presentato alla Promotrice Fiorentina del 1860 con il titolo Il ritorno del garibaldino, potrebbe essere identificato con Il ritorno di un volontario dopo la guerra del 1859, tela
di soggetto analogo e medesime dimensioni registrata a Palazzo Reale a Napoli nell’Inventario di Proprietà Privata di S. M. il Re Vittorio Emanuele II. Qualora l’identificabilità di un’opera con l’altra fosse supportata da ulteriori ritrovamenti, si potrebbe
ipotizzare che il dipinto sia passato al mercato antiquario in seguito ai disordini causati dal secondo conflitto mondiale 65, giungendo così a Torino. La tela condivide iconografia e composizione con Episodio risorgimentale sullo sfondo di San Miniato al
Monte (fig. 6), dipinto nello stesso anno da Bernardo Celentano 66. Più che a una re62
Così P. Ricci, Arte e artisti a Napoli [1800-1943], Napoli 1981, 47.
C. Sisi, Il Quarantotto e il dibattito sul vero tra Napoli e Firenze, in Civiltà dell’Ottocento. Cultura e Società, catalogo della mostra (Napoli, Palazzo Reale, 24 ottobre 1997-26 ottobre 1998), Napoli
1997, 101-104.
64
Il dipinto è stato acquistato nel 1964 presso la Galleria d’Arte Bottisio di Torino.
65
C. Napoli, Scheda, in Farese Sperken, Martorelli, Picca (a cura di), La Patria, l’Arte … cit., 93.
66
L’opera è pubblicata in G. Matteucci, Genesi della macchia, “espressione della realtà moderna”,
in R. Barilli (a cura di), Il secondo ‘800 italiano. Le poetiche del vero, Milano 1988, 116-128, qui 123.
63
PERCORSI DI VITA E ARTE: FRANCESCO SAVERIO ALTAMURA E I PITTORI RISORGIMENTALI DI CAPITANATA
19
ciproca dipendenza, sono propenso a credere che la vicinanza tra le opere sia da attribuire a un avvenimento realmente accaduto e contestualmente registrato dai due artisti. In entrambi, infatti, l’attenzione al dato reale scaturisce da un sincero coinvolgimento nella vicenda, in cui un giovane recante il tricolore è assunto a metafora del senso collettivo.
Dopo aver appreso la notizia dell’arrivo di Garibaldi nel Regno meridionale, Altamura raggiunge Napoli partecipando fattivamente alla delicata transizione dal governo
borbonico a quello sabaudo. Scelto fra i notabili della città per andare incontro al generale, il 7 settembre 1860 entra trionfalmente a Napoli al suo fianco. Dopo aver combattuto tra le fila garibaldine ai Ponti della Valle, al Volturno, a Capua e a Gaeta, è eletto
decurione 67, lavorando, al fianco di Morelli, alla costituzione della Pinacoteca di Capodimonte 68. Il recente ritrovamento, in collezione privata napoletana, del dipinto raffigurante Lo sbarco di Garibaldi a Napoli testimonia la partecipazione diretta di F. S.
Altamura al bando pubblicato su Il Giornale di Napoli, il 4 dicembre 1860, che invitava
gli artisti a rappresentare «ognuno nel suo genere […] opere celebrative dei recenti gloriosi avvenimenti» di Napoli. In un’atmosfera festosa, una folla trepidante attende, sul
molo dell’Immacolata, lo sbarco di Garibaldi. Sulle placide acque il generale avanza in
una scialuppa, su cui è issato il doppio tricolore. Realizzata con tocchi compendiari degni
della migliore pittura impressionista, la tela dà conto delle suggestioni acquisite prima a
Parigi e poi a Firenze, al fianco di Serafino De Tivoli, Cristiano Banti e Lorenzo Gelati,
come lui impegnati nella resa del vero 69.
Giuseppe Garibaldi è il personaggio più evocato nei quadri italiani del Risorgimento, sia come protagonista dei fatti legati alle imprese militari, sia come ispiratore della
lotta per la libertà 70. Raggiunta l’unità nazionale, infatti, si tenta di armonizzare le molteplici differenze storiche e ideologiche attraverso i ritratti dei protagonisti e la rappresentazione degli episodi cruciali del Risorgimento. Le opere, esibendo i presupposti di
una coscienza nazionale, contribuiscono a porre le basi di un percorso comune fra le genti
d’Italia. Exemplum virtutis, il generale personifica mito e realtà del processo d’unificazione, diventando immagine venerabile di una sorta di religione laica. «Santo, salvatore,
eroe, invincibile combattente, ammirato da molti uomini, amato da molte donne», Garibaldi, nell’immaginario risorgimentale, fondava in sé «la componente religiosa, quella
avventurosa, quella più specificatamente politica» 71. Di Altamura sono documentati cinque ritratti di Garibaldi, in gran parte eseguiti dal vero nel 1860 72. La tela del Museo del
Risorgimento di Milano (fig. 7) ritrae l’eroe dei due mondi a mezzo busto, vestito con
la classica camicia rossa, adottata sin dall’epoca dei combattimenti in Sudamerica e il
tricolore legato al collo. Uguale abbigliamento Garibaldi indossa nell’acquerello con-
67
A. Cutolo, Il Decurionato di Napoli: 1807-1861, Napoli 1932, 47.
Altamura, Vita e … cit., 28-30.
69
L. Martorelli, L’artista e il patriota. L’impegno nell’età del Risorgimento, in Farese Sperken, Martorelli, Picca (a cura di), La Patria, l’Arte … cit., 63-70, qui 66-67.
70
G. Nicodemi, Giuseppe Garibaldi nell’arte, in Emporium LXXV, 449, 1932, 308-318.
71
Lombardi, Mazzini … cit., 151-152.
72
Al momento è difficile stabilire quale tra questi sia identificabile con quello della Raccolta di Paolo
Anania de Luca: Limoncelli, 1864: una data … cit., 36.
68
7. - F. S. Altamura, Ritratto di Garibaldi (Milano,
Museo del Risorgimento - 1860).
8. - F. S. Altamura, Ritratto di Garibaldi (Caprera, Museo Garibaldino - 1860).
servato nel Museo del Risorgimento di
Roma, in cui l’effigiato è seduto, in camicia rossa, con cappello piumato e sigaro
nella mano destra. Il ritratto più noto è tuttavia quello donato nel 1966 dal mecenate
americano Leo George Nunes al Museo
Garibaldino di Caprera (fig. 8) 73. Sfruttando decisi contrasti di luce e ombra, il
busto del Generale è fatto emergere dal
fondo scuro. Particolarmente riuscito è il
brano delle vesti a cui pennellate rapide e
sapienti colpi di luce conferiscono una
valenza tattile. Qualitativamente sostenuto è anche il ritratto di proprietà della
Provincia di Napoli (fig. 9) che coglie il
Generale leggermente di profilo, vestito
con il tradizionale poncho grigio che, secondo i biografi, indossò da Quarto in poi
sopra la camicia rossa 74. L’indicazione
9. - F. S. Altamura, Ritratto di Garibaldi (Napoli,
Provincia di Napoli - 1860).
73
M. G. Scano, Pittura e scultura dell’Ottocento, Nuoro 1997, 254.
74
G. Guerzoni, Garibaldi. I-II, Firenze 1882,
passim.
PERCORSI DI VITA E ARTE: FRANCESCO SAVERIO ALTAMURA E I PITTORI RISORGIMENTALI DI CAPITANATA
21
‘Monte S. Angelo, 1 ottobre 1860’,
in basso a destra, reca data e luogo
simbolici, rievocando l’ultima battaglia dei Mille. Un’aggiunta successiva, invece, è la scritta in alto
a destra ‘Ei fu! 2 giungo 1882’, allusiva alla compianta scomparsa
del generale. Il ritratto, esposto nel
1882 alla XVIII Promotrice Napoletana, ha il suo bozzetto nel dipinto di dimensioni inferiori, firmato e datato 1860, proveniente
dal Circolo della Caccia di Napoli
e attualmente conservato nel Museo del Risorgimento di Santa Maria Capua Vetere 75. Tuttavia la vicinanza del ritratto napoletano a
quello eseguito nel 1866 dal pittore
piemontese Eleuterio Pagliano
(fig. 10) rende poco credibile l’ipotesi di una presa diretta, attestando
la derivazione di entrambi da una
fonte comune, quasi certamente la
celebre foto di Alphonse Bernoud 10. - E. Pagliano, Ritratto di Garibaldi (Casale Monferrache a quel tempo godeva di ampia to, Museo Civico e Gipsoteca Bistolfi - 1866).
diffusione 76.
Nonostante i molteplici vantaggi che potevano provenirgli dalla vicinanza a Garibaldi,
Altamura, nel 1862, si dimette dal Consiglio Comunale, abbandona il progetto di riforma
della pinacoteca di Capodimonte, rifiuta la presidenza dell’Istituto di Belle Arti e torna a
Firenze, dove lo attende il Mario vincitore sui Cimbri, rimasto incompiuto nello studio.
Nel capoluogo toscano F. S. Altamura non trova più lo stesso entusiasmo che aveva accompagnato il Granducato per tutto il percorso risorgimentale fino all’annessione plebiscitaria. Infastidito dalle modifiche urbanistiche della nuova capitale, il pittore, nel 1867,
ritorna nella patria adottiva, morendovi trent’anni più tardi 77. Dall’autobiografia apprendiamo che, in occasione di un breve rientro a Napoli nel 1866, s’infervora per l’accordo
75
G. Brevetti, Scheda, in L. Mascilli Migliorini, A.Villari (a cura di), Da Sud le radici meridionali
dell’unità nazionale, catalogo della mostra (Napoli, Palazzo Reale, 1 ottobre 2011-15 gennaio 2012), Milano 2011, 347-348.
76
L. Martorelli, Scheda, in Farese Sperken, Martorelli, Picca (a cura di), La Patria, l’Arte … cit., 82.
77
È tumulato nel sepolcreto dei professori di Belle Arti al Cimitero monumentale di Poggioreale.
L’epigrafe tombale è stata dettata da Gabriele D’Annunzio, amico del Pittore: «Saverio Altamura / nobilmente visse / d’amore patrio e d’arte / Dalla suprema sentenza / de’ Borboni colpito / esule trasse /
in Toscana gentile / ove conforto chiese ed ottenne la gloria»: M. Simone (a cura di), Saverio Altamura,
pittore-patriota foggiano nell’autobiografia, nella critica e nei documenti, Foggia 1965, 96.
11. - F. S. Altamura, Lettera dall’Africa (Foggia, Museo Civico - 1896).
piemontese-prussiano che, al termine della terza guerra d’indipendenza, avrebbe consentito all’Italia di annettere il Veneto. Pronto a partire in guerra, il pittore è tratto in inganno dai famigliari che, nel riuscito tentativo di salvarlo, lo fanno condurre
forzatamente in manicomio a Capodichino 78, dove esegue una serie di disegni e acquerelli rimasti inediti 79.
Nel decennio che intercorre tra la morte di Mazzini (1872) e quella di Garibaldi (1882),
comprendente anche la scomparsa di Vittorio Emanuele II (1878), mentre nell’Italia unita cresce l’insoddisfazione di democratici e repubblicani, si va costituendo un vero e proprio mito del Risorgimento, che tocca l’apice nell’Esposizione Nazionale di Torino. Inaugurata il 26 aprile 1884, nel venticinquesimo anniversario della guerra del 1859, Altamura
vi partecipa con Excelsior, dipinto di evidente carattere simbolico, acquistato dal Comune di Torino. Ispirato alla poesia omonima di Henry Wadworth Longfellow, l’opera mostra le fatiche dell’uomo per raggiungere le mete prefissate.
Negli anni della maturità la qualità pittorica dell’artista s’impoverisce così come s’assopisce il fervore per le passate imprese risorgimentali. Nell’ultimo periodo napoletano
infatti, si attesta quella profonda oscillazione qualitativa per la quale Altamura è stato più
volte accusato dalla critica, privato così di un posto di primo piano nella pittura ottocentesca. Nei decenni successivi all’unificazione, l’artista continua a rievocare soggetti di storia antica e medievale, traendoli soprattutto dalla letteratura. Privati della passione patriottica,
i suoi dipinti finiscono con l’inserirsi nella disprezzata tradizione accademica, procurandogli le critiche di Telemaco Signorini, suo antico ammiratore. L’impegno non si affievolisce, ma l’ardore giovanile sembra cedere il passo al rammarico suscitato dalle con78
79
Altamura, Vita e … cit., 36-39.
Lorenzetti, Francesco Saverio Altamura … cit.
PERCORSI DI VITA E ARTE: FRANCESCO SAVERIO ALTAMURA E I PITTORI RISORGIMENTALI DI CAPITANATA
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traddizioni tra l’Italia agognata e quella vissuta. In pittura la cultura verista di matrice
socialista diviene l’erede naturale del Risorgimento tradito.
Dopo l’unità si fa strada, negli ambienti
più avvertiti della politica e della cultura,
la consapevolezza delle contraddizioni e
delle divisioni che lacerano la società italiana. Sono gli anni delle inchieste che rivelano quanto gravi siano i mali che
affliggono il Paese. Se l’unità politica è
fatta, la nazione resta da fare. L’arte interpreta in modi originali queste tendenze
della cultura postunitaria, generando una
pittura che, al pari delle inchieste degli
scienziati, mette a nudo le storture, le ingiustizie, le contraddizioni, documentando
povertà, fame e sfruttamento 80. In alternativa alla grande pittura storica, gli artisti riprendono la tradizione fiamminga e
olandese della pittura di genere, abbandonando il passato per rappresentare il presente, in particolare la dura vita quotidiana
dei ceti popolari.
12. - F. S. Altamura, Sigismondo Castromediano
In un Autoritratto del 1892, dedicato al (Roma, Collezione privata - 1892).
parente Paolo Anania De Luca, il pittore si
domanda «È questa l’Italia sognata?», lasciando lampante testimonianza dello sconforto per
la nuova condizione nazionale. In egual modo, sentendo l’approssimarsi della dipartita, in
una lettera datata 25 febbraio 1894 e indirizzata a un altro parente leccese, l’ingegnere Gaetano Marschizek, scrive: «[…] muore tanta gente intorno a me, della mia età, che ò molto
conosciuta, con la quale abbiamo sperato, operato, goduto, del realizzare delle nostre aspirazioni politiche e con le quali abbiamo pianto della caduta delle nostre speranze». Cocente
delusione ravvisabile anche in talune scelte iconografiche compiute nei decenni successivi
all’unità. Datemi un soldo (esposto alla Promotrice del 1870 e oggi smarrito) L’infortunio
sul lavoro e La lettera d’Africa, entrambi al Museo Civico di Foggia, sono le testimonianze
più alte della nuova situazione emotiva vissuta dal pittore, che non nasconde la tristezza per
i problemi sociali dell’Italia unita. Con forti accenti pietistici l’artista si concentra sulle sofferenze patite dalle classi più umili, spesso dettate da negligenze superiori.
In Lettera d’Africa (fig. 11) del 1896, Altamura rivela il suo disappunto per l’impresa coloniale in Etiopia, esprimendosi per l’ultima volta sulle vicende politiche del suo tempo. In primo piano s’impongono quattro donne, differenti per generazione, strette nel loro
dolore per la perdita del milite congiunto. Sul tavolo è appoggiata la drammatica lettera
80
D. Sogliani, Arte e Risorgimento dal Quarantotto al primo Novecento, in M. Bertolotti (a cura di),
La nazione dipinta. Storia di una famiglia tra Mazzini e Garibaldi, catalogo della mostra (Mantova, Palazzo Te, 14 ottobre 2007-13 gennaio 2008), Milano 2007, 29-37, qui 35.
13. - N. Parisi, I feriti di Porta Pia (Roma, Palazzo Montecitorio, Camera dei Deputati - 1870).
in cui le parole ‘sono prigioniero e ferito. Michele’ sono accompagnate dalla croce, triste presagio di prossimo decesso. Inserendosi nel clima polemico seguito alla disfatta di
Adua, il dipinto alla veemenza accusatoria preferisce la tacita celebrazione del dolore delle donne che, prima nelle guerre d’indipendenza, ora in quelle coloniali, continuano ad
aspettare taciturne e speranzose il ritorno degli amati. Il legame con i trascorsi risorgimentali
è suggellato dalla presenza sullo sfondo del gruppo canoviano Ercole e Lica, tema iconografico fungibile di interpretazioni simbolico-patriottiche sin dai tempi della rivoluzione
francese. Due sequenze dunque: una rivolta alle guerre d’indipendenza, l’altra ai nuovi
problemi della politica estera italiana.
Collegabili alle esperienze risorgimentali di Altamura sono anche i ritratti di Paolo Emilio Imbriani, realizzato «di memoria» nel 1878, di Carlo Poerio, eseguito a Firenze nel
1867 e donato nel 1933 al Museo di San Martino di Napoli dal proprietario Michelangelo Fonseca, di Francesco De Sanctis, del 1890, anch’esso nel Museo napoletano in seguito
alla donazione della vedova Maria Teresa De Sanctis, e di Sigismondo Castromediano (fig.
12), realizzato dal vero nel luglio del 1892, in casa del patriota salentino 81. Al momento
di eseguire il ritratto, pure destinato al Museo di San Martino, l’artista s’impegna a dipingerne
un altro per il costituendo Museo Provinciale di Lecce. Tuttavia nessuno dei due ritratti
raggiungerà mai le sale di un museo, il primo perché trattenuto da amici leccesi, e ancora oggi in collezione privata romana, il secondo perché mai realizzato.
Tra gli artisti di Capitanata, Altamura è certamente il più noto e dotato. Eletto capostipite della presunta ‘scuola foggiana’, i cui confini si inseriscono integralmente nel più vasto al81
Di Sigismondo Castomediano, Altamura scrive: «[…] compagno di galera di Poerio, Spaventa,
Settembrini e Nico, che ha finito in quest’anno in un vecchio castello una vita di martire, tutta data all’indipendenza della patria». Così Altamura, Vita e … cit., 93.
PERCORSI DI VITA E ARTE: FRANCESCO SAVERIO ALTAMURA E I PITTORI RISORGIMENTALI DI CAPITANATA
25
veo della tradizione napoletana, il pittore diventa un punto di riferimento costante per gli artisti suoi conterranei.
Il primo tra questi è il cugino Nicola Parisi (Foggia, 1827 – Casalnuovo di Napoli 1887), anche lui
studente a Napoli, prima d’ingegneria
poi di pittura. Amico di Palizzi, Dalbono e Toma, anche N. Parisi si dedica
alle tematiche storiche, affiancando a
soggetti antichi 82 e medievali avvenimenti risorgimentali 83. Sue opere note
sono I veneti all’annuncio della pace
di Villafranca, acquistata da Vittorio
Emanuele II alla Promotrice Napoletana del 1866, certamente erede della
più famosa opera induniana, «tela
davvero grandiosa, sia per l’alta concezione patriottica, che per l’esecuzione» 84; e I feriti di Porta Pia (fig.
13), opera pervasa da un sentimento di
accorata malinconia, commissionata
nel 1870 dalla Casa Reale per celebrare la conquista di Roma 85. Qui il
pittore conferma la sua predilezione 14. - N. Parisi, Carlo Poerio tratto in carcere (Napoli, Muper le composizioni ampie e affollate, seo di Castelnuovo - 1867).
raccontando, con virtuosismo calligrafico, l’eroismo dei combattenti, per il quale alla trionfale breccia preferisce la sofferenza
fisica di martiri laici. Ancor prima dell’analogo dipinto del Cammarano, il quadro parisiano
costituisce «il suggello dell’acquisto di Roma a compimento del riscatto nazionale» 86.
Il dipinto risorgimentale più celebre è tuttavia Carlo Poerio condotto all’ergastolo (fig.
14), premiato alla Esposizione Universale di Vienna del 1873 e apprezzato anche dall’esigente critica francese, non tenera con la coeva produzione artistica italiana. Accusato ingiustamente di cospirare per l’unità, C. Poerio, nel 1849, è imprigionato scontando la
condanna prima nelle carceri borboniche e poi con l’esilio in America, fortuitamente evitato insieme a L. Settembrini e a S. Castromediano 87. Circondato da soldati borbonici,
82
A un avvenimento di storia antica è dedicato il dipinto più celebre del Pittore, L’ingresso di Diomede in Arpi, ora al Museo Civico di Foggia, realizzato come scenografia per il Teatro Giordano di Foggia: F. Di Gioia, Scheda, in Farese Sperken, Martorelli, Picca (a cura di), La Patria, l’Arte … cit., 60-61.
83
G. Piemontese, Scheda, in Melchiorre (a cura di), Pittori … cit., 115.
84
F. Gentile, Profili di artisti, Foggia 1929, 67-73, qui 71.
85
A. Rodolfo, I feriti di Porta Pia. Scheda di catalogo, in A. Paolucci (a cura di), La bella Italia. Arte
e identità delle città capitali, catalogo della mostra (Torino, Reggia della Venaria, 17 marzo-11 settembre 2011), Cinisello Balsamo 2011, 117.
86
Gentile, Profili … cit., 72.
87
Le accuse contro Carlo Poerio erano false e infondate, ma egli fu condannato, perché si voleva col-
26
CARMELO CIPRIANI
Poerio esce dalla Vicaria di Castel Capuano insieme a un comune detenuto. I
grotteschi lineamenti di quest’ultimo
esaltano la fierezza del patriota, assurto
a emblema di chi ha sofferto per il bene
della Patria, sacrificando libertà e averi.
Mentre gli altri personaggi assumono
pose casuali, Poerio, quasi frontale, rivolge lo sguardo allo spettatore, esprimendo coscienza e tacita accettazione
del proprio destino. Seppur non unanime, la critica non mancò di rivolgere
al dipinto apprezzamenti favorevoli.
Riprendendo taluni giudizi che contestavano la riproduzione fedele della realtà e persino la foggia delle vesti,
Vittorio Imbriani, oltre ad apprezzare la
semplicità e risolutezza della tecnica
pittorica – il dipinto gli apparve «fatto
con niente» – considerò l’abito nero indossato da Poerio indispensabile alla
riuscita del quadro, perché «macchia»
di contrasto con quella porpora del galeotto 88. La tendenza caricaturale mostrata da Parisi nel detenuto e nelle
15. - N. Parisi, Ritratto di Garibaldi (Foggia, Museo Ciguardie borboniche è stata, in passato,
vico - 1860).
legata a un interesse non ben documentato per Gaspare Traversi e la pittura di
genere settecentesca 89. Il dipinto, realizzato nel 1867, anno di morte del grande riformista
moderato, è acquistato dal Municipio di Napoli alla Promotrice Napoletana di quello stesso
anno. Vent’anni più tardi, è scelto per rappresentare l’autore, appena scomparso, nella Promotrice del 1888 90.
pire il maggiore esponente del partito liberal-moderato napoletano. Incarcerato, fu rinchiuso in attesa del
processo nelle Carceri della Vicaria, «[…] in una stanza – a ricordarlo è il compagno brindisino Cesare
Braico – che aveva appese alla finestra quattro teste di banditi e nella quale mandava le sue esalazioni
un luogo fetido». La notizia del suo processo suscitò scalpore in tutta Europa, facendolo diventare il simbolo delle aspirazioni napoletane alla libertà. La sua vicenda umana fornì argomento alla pubblicistica
di Gladstone e ispirò alcuni versi a Victor Hugo, che volle rendergli omaggio ricordandolo come difensore del popolo e del diritto: «Battyani, Sandor, Poërio, victimes! Pour le peuple et le droit en vain nous
combattimes!»: F. Esposito, Carlo Poerio, Napoli 1978, passim.
88
I. Valente, Le forme del reale. Il naturalismo e l’immaginario storico ed esotico nella pittura napoletana del secondo Ottocento, in F. C. Greco (a cura di), La pittura napoletana dell’Ottocento, Napoli 1993, 47-73, qui 49.
89
M. Corgnati (a cura di), Soldati e pittori nel Risorgimento italiano, catalogo della mostra (Torino,
Circolo Ufficiali, 25 aprile-2 giugno 1987), Milano 1987, 151.
90
Il soggetto è noto in tre diverse redazioni. Tra queste la più nota è quella al Museo di Castelnuovo,
il cui bozzetto compare a Capodimonte, nell’Inventario delle private spettanze del Re. Danneggiata a
PERCORSI DI VITA E ARTE: FRANCESCO SAVERIO ALTAMURA E I PITTORI RISORGIMENTALI DI CAPITANATA
27
Nell’arco della sua carriera, Parisi
esegue anche numerosi ritratti infondendo personalità e carattere ad ogni
soggetto rappresentato. Nella sua folta
galleria non potevano di certo mancare
i ritratti di Vittorio Emanuele e di Giuseppe Garibaldi, eseguiti nel 1860 quali
miti separati di una stessa leggenda in
cui il popolo amava riconoscersi. Il Ritratto di Garibaldi (fig. 15) è identico a
quello dipinto nel 1860, in forme più
piccole e corsive, da Francesco Paolo
Palizzi, confermando, nella presenza di
un modello comune, il fondamentale
ruolo svolto dalla fotografia nell’elaborazione e diffusione dell’iconografia
risorgimentale, garibaldina in particolare 91. Giuseppe Garibaldi è rappresentato a figura intera, vestito dalla camicia rossa e da un ampio tabarro. La
gamba destra è leggermente sollevata
sopra uno stemma spezzato, che, insieme ai vessilli caduti per terra, ricordano l’antica divisione d’Italia. La
mano destra è infilata nella cintola con
un atteggiamento di solida fermezza. 16. - N. Parisi, Ritratto di Vittorio Emanuele II (FogAl fianco sinistro pende la sciabola, gia, Museo Civico - 1860).
identica per foggia all’originale, ancora
oggi conservata nel Museo del Risorgimento di Roma. Dietro di lui, in lontananza, si intravede la silhouette di una città turrita. Su una quinta rocciosa è appoggiata una carta d’Italia, fermata da un cannocchiale e dal cappello del generale. Poco più in alto sventola il
tricolore con l’insegna sabauda. Garibaldi assume vesti e atteggiamenti di un capo militare sicuro della sua forza, intento a consultare mappe e cartine e a prendere possesso delle
terre appena liberate piantando il vessillo dell’unità nazionale. Inserendosi nell’ampissima
serie d’icone garibaldine del nostro Risorgimento, l’opera di Parisi testimonia come l’iconografia garibaldina vada via via conformandosi alla politica artistica sabauda, abbandonando con gradualità i tratti della contemplazione emotiva per avvicinarsi all’ufficialità dell’effigie. Accanto al ritratto di Garibaldi, nel Museo Civico di Foggia è conservato quello
coevo di Vittorio Emanuele (fig. 16). Il re, ritto, con le mani sovrapposte sulla spada e il
Palazzo Reale nel secondo dopoguerra, l’opera si trova oggi in temporaneo deposito presso gli uffici della
Corte dei Conti di Napoli. Recentemente, sul mercato antiquario, è emersa un’ulteriore redazione, di dimensioni inferiori, proveniente da una collezione privata: G. Puccio, Scheda, in Mascilli Migliorini,
Villari (a cura di), Da Sud le radici meridionali … cit., 313.
91
Al rapporto tra pittura e fotografia, e al ruolo svolto da entrambe nel codificare una produzione iconica specifica connessa ai fatti risorgimentali Wladimiro Settimelli ha dedicato alcune interessanti pa-
28
CARMELO CIPRIANI
tradizionale mantello in velluto rosso ed ermellino alle sue spalle, ribadisce la leadership
sabauda, proponendosi al popolo in alta uniforme, nella duplice veste di condottiero e sovrano. Come nella moltitudine di ritratti reali postunitari, anche nel dipinto di Parisi il re
sfrutta l’iconografia celebrativa per accreditarsi come pater patriae, strenuo difensore del
sentimento nazionale, fornendo ad esso l’appoggio della spada e l’ufficialità dello Stato 92.
Improntati al verismo storico morelliano e imbevuti di umori risorgimentali sono
anche Fanfulla da Lodi, ispirato alla celebre disfida di Barletta, in quei tempi rinverdita
dall’omonimo romanzo di Massimo d’Azelio, e Giovanni da Procida alla vigilia dei Vespri esposto insieme al Poerio a Vienna, nella cui figura il Picucci riconosce «l’audacia
e la risolutezza dell’eroico cospiratore» 93.
Seguendo le orme del più illustre concittadino, dopo l’unità Parisi affronta il tema sociale con grande sensibilità, esaltando la forza d’animo e l’umiltà dei suoi soggetti in
opere come Mezzodì dell’operaia (donato dall’artista alla Società Operaia di Napoli), Lavoro e miseria e Il diseredato, entrambi dispersi. Il disincanto si manifesta soprattutto sul
piano sociale, restando una delle note dominanti della cultura postunitaria.
Anche Vincenzo Dattoli (Foggia, 1831 – Roma, 1896) ha eletto la storia a campo prediletto per le sue speculazioni artistiche, inserendosi sulla via tracciata da Francesco Saverio Altamura e da Domenico Morelli. Compiuti i primi studi a Napoli, nel 1857 si
trasferisce a Roma dove esegue i primi dipinti risorgimentali: Sono fratelli, aprite!, classificato dal Gentile «l’ultimo canto di un poema di fede, di pietà, di amore ispirato egualmente dal sentimento patriottico ed anche dal sentimento umanitario» 94, e Masaniello,
rivoluzionario nel concetto e nella forma, associato per sentimento patriottico a La Morte
del crociato di Altamura 95. Nel dipinto, esposto a Milano nel 1864, la figura del rivoltoso
è ormai sottratta al passato per diventare archetipo del presente, simbolo della raggiunta
libertà 96. I sentimenti di arte e patria apparvero al Wiphesbaden così ben espressi da consentirgli di definire l’autore «l’artista del tempo» 97, cogliendo anche in Dattoli la capacità di raccontare tematiche attuali attraverso episodi di storia passata. Da un punto di
gine nel saggio Garibaldi. L’album fotografico, Firenze 1982, passim, qui 31. Lo studioso, dopo aver
elencato i nomi degli artisti, degli incisori e illustratori più importanti del tempo, nota che essi quasi
sempre si sono rifatti a immagini fotografiche, anche dello stesso Garibaldi, da tempo diffuse in Europa. Pertanto si può ritenere «proprio guardando il loro lavoro, che almeno tre quarti di quello che è stato
dipinto, disegnato, inciso, litografato, acquerellato, scolpito, è stato ‘rilevato’ dalle vecchie fotografie».
92
A Vittorio Emanuele Altamura ha dedicato un componimento poetico: «A Vittorio Emanuele II. /
Te vidi nella fedel Torino, / Poi Re in Firenze ti chiamammo eletto, / poi di Napoli mia sotto il divino /
Sole, Re ti gridai dall’imo petto. / Oggi in Milano a Te, sire, m’inchino, / Milano calda pur di santo affetto;
/ Un’altra volta salutar ti voglio / Primo Re dell’Italia in Campidoglio»: Gentile, Profili … cit., 9-10.
93
L. Picucci, Per Nicola Parisi pittore storico insigne, Foggia 1887, qui 8.
94
Gentile, Profili … cit., 85-94, qui 91.
95
Ibidem.
96
Alla Promotrice Napoletana del 1863 altri artisti esposero immagini riecheggianti il rivoltoso e
l’insurrezione antispagnola. Tra gli altri Teofilo Patini con I napoletani insorgono contro gli spagnoli,
Michele Alfano con Origine della rivoluzione di Masaniello, Giuseppe Planeta con Salvator Rosa e
Micco Spadaro ritraendo Masaniello, Filomeno De Leonardo con Masaniello: Valente, Le forme del
reale … cit., 51-52.
97
Gentile, Profili … cit., 90.
PERCORSI DI VITA E ARTE: FRANCESCO SAVERIO ALTAMURA E I PITTORI RISORGIMENTALI DI CAPITANATA
29
vista tecnico-formale, il quadro rivela un deciso allontanamento dall’accademismo, anticipando la prossima conversione del pittore al colorismo morelliano.
Nel 1861, anno della grande Esposizione Nazionale, si trasferisce a Firenze, facendo
coincidere il suo soggiorno toscano con quello più breve dell’Altamura. Dev’essere stato
proprio quest’ultimo a introdurlo nel gruppo dei Macchiaioli, consentendogli di frequentare la tenuta di Castiglioncello a partire dal 1862 98. Partecipa all’Esposizione Nazionale vendendo al Re il suo Muzio Attendolo Sforza strappa gli stendardi all’alfiere
aragonese e acquisendo la fama di «innovatore della scuola napoletana» insieme ai Morelli, Altamura, Vertunni, Celentano. Durante la permanenza in Toscana, realizza anche
L’esule, rivelando la conoscenza degli analoghi dipinti altamurani, precedenti di un decennio 99. Trascorsi i dieci anni fiorentini rientra a Roma, rimanendovi fino alla morte.
Nella Capitale interviene nei dibattiti intellettuali, proponendo progetti di riforma per
l’istruzione artistica. Nel lavoro, ai consueti soggetti storico-patriottici riconoscibili in
Alle armi!, Il giuramento di Pontida, I carbonari, I vespri siciliani, La confessione di Cavour con Padre Giacomo, il Dattoli affianca le tematiche sociali, confermando la comparsa di un nuovo, fortunato genere pittorico tipico della neonata Italia. Tra tutti il più noto
è Coraggio e sacrificio in cui il pittore, descrivendo un incidente sul lavoro in un cantiere
edile, adotta un tema contestualmente affrontato da Altamura.
Tra i foggiani quello meno allineato ai percorsi altamurani è Giuseppe De Nigris (Foggia, 1837 – Marano di Napoli, 1903). Più noto a Napoli che in patria 100, tenuto in grande considerazione da Macinelli e Netti 101, il pittore è inserito da Michele Biancale nel solco tracciato da Toma, senza giungere mai «alla sua pienezza formale e alla sua sapienza
compositiva» 102. Nel giugno 1848, all’età di 17 anni, tenta, insieme a Vincenzo Dattoli,
la fuga a Roma, per arruolarsi e andare a combattere gli austriaci in Lombardia 103. Bruscamente fermati a Cassino dalla polizia borbonica, i due vengono arrestati e trattenuti per
un mese, perché trovati in possesso di un’arma e di una raccolta di poesie di Gabriele Rossetti 104. Dopo gli studi presso il Real Istituto di Belle Arti, dove segue gli insegnamenti
del noto pittore neoclassico Costanzo Angelini, soggiorna per un anno a Firenze, ospite
nello studio del Vertunni. Rientrato a Napoli nel 1860, prova a raggiungere la Sicilia per
unirsi alle truppe garibaldine nella risalita del Regno, ma impossibilitato alla partenza si
arruola nella ricostituita Guardia Nazionale. Con ventisei presenze su trentuno edizioni
il De Nigris è tra gli artisti più presenti alle edizioni della Promotrice Napoletana, dove
98
Farese Sperken, La pittura … cit., 62.
P. Sorrenti, Pittori, scultori, architetti e artigiani pugliesi dall’antichità ai nostri giorni, Bari 1990,
156-157.
100
L’assenza di contatti con la città di origine gli hanno precluso l’inserimento nel volume Profili di
artisti, dedicato da Francesco Gentile, nel 1929, agli artisti foggiani.
101
P. Ricci, Arte e artisti a Napoli…, cit., p. 41.
102
M. Biancale, Arte italiana. Ottocento-Novecento. I, Roma 1961, 93.
103
Il tentativo di fuga è descritto in M. Della Rocca, L’arte moderna in Italia, Milano 1883, 104.
104
Padre del più famoso Dante Gabriele, esponente di spicco dei Preraffaelliti inglesi, Rossetti fu
carbonaro e letterato. Laureato a Napoli, transfuga a Londra, dove continua la sua attività di scrittore,
pubblicando opere poetiche e letterarie che incoraggiano le imprese risorgimentali italiane: A. Ciccarelli,
Gabriele Rossetti: il poeta cieco, Napoli 1925.
99
17. - G. De Nigris, Les merveilles du chassepot (Napoli, Provincia di Napoli - ca. 1870).
18. - G. De Nigris, Impressioni di un quadro (Collezione privata - 1863).
sovente, al fianco di scene vernacolari, nature morte 105 e tematiche neopompeiane, ha esposto dipinti risorgimentali quali La rivoluzione di Palermo, Bersaglieri sugli spalti (esposta nel 1870), Garibaldi a Caprera, opera approvata dallo stesso effigiato, che lo vede colto in un momento di riposo, seduto su un masso e affiancato da una carta geografica del105
Una piacevole Natura morta, di evidente impronta seicentesca, gli è stata attribuita da Riccardo
Ferrara: F. Picca, Scheda, in La Pinacoteca Provinciale di Bari … cit., 23.
PERCORSI DI VITA E ARTE: FRANCESCO SAVERIO ALTAMURA E I PITTORI RISORGIMENTALI DI CAPITANATA
31
l’Italia. Alla Promotrice Napoletana del 1862 il De Nigris partecipa con Garibaldi
dicente: che tristo destino degli uomini scannarsi fra
loro!, in cui il generale è ritratto a cavallo, innanzi a
un gruppo di cadaveri garibaldini e borbonici. L’opera,
acquistata dal Conte Tosca di
Palermo, registra l’altra faccia del Risorgimento, denunciando la guerra fratricida che aveva portato all’Unità.
Ai caduti a Mentana è
dedicata Les merveilles du
chassepot (fig. 17), opera
esposta alla Promotrice Napoletana del 1870 e acquistata dalla Provincia di
Napoli. Un prete corpulento
stringe il rosario e osserva il
passaggio di un carro pieno
di cadaveri garibaldini e il
suo mesto corteo funebre
costituito da un cane con lo 19. - D. Induno, Pensiero a Garibaldi (Milano, Collezione privata
sguardo basso. All’estrema - 1859).
sinistra una croce, puntellata
dai simboli del supplizio di Cristo, sottolinea il sacrificio degli eroi morti per la causa
italiana. Il sole, vicino al tramonto, determina lunghe ombre sul terreno, accrescendo l’inquietudine della scena e il dolore per il trapasso. Il titolo, richiamando alla memoria il celebre fucile di cui era dotato l’esercito francese, ritenuto l’artefice della vittoria
franco-pontificia sulle truppe garibaldine, riprende il truce sarcasmo con cui il generale
De Failly, nel suo dispaccio a Parigi, parlando di Mentana, scrisse: «Les chassepots on fait
merveilles».
Il dipinto più noto del De Nigris è tuttavia Impressioni di un quadro (fig. 18), datato
1863 e da molti ritenuto il suo capolavoro. In un interno borghese – probabilmente uno
spazio pubblico, forse una galleria – un’intera famiglia è colta a osservare un dipinto. In
primo piano una bambina indica il quadro a un coetaneo in divisa garibaldina. In secondo piano tre eleganti donne e un uomo di età avanzata contemplano l’opera. L’uomo in
piedi accanto al quadro, probabilmente l’autore, è rivolto verso le donne e sembra scrutare sui loro volti le impressioni suscitate dal dipinto. Autentico protagonista è il quadro
in cui è ritratto Giuseppe Garibaldi ferito in Aspromonte, soccorso dai suoi fedelissimi,
uno dei quali reca lo stendardo con il motto ‘O Roma o morte’. Notevole è l’interesse do-
32
CARMELO CIPRIANI
cumentario dell’opera che, oltre a rendere conto della commozione suscitata nell’opinione
pubblica dal ferimento del Garibaldi, sembra affermare il valore della pittura nella trasmissione dei valori patriottici, specie alle giovani generazioni. Il pittore, rappresentando la targhetta del quadro lacerata e illeggibile, sottrae il riferimento all’opera in particolare,
estendendolo a tutte le creazioni artistiche, nella consapevolezza che «l’artista è un soldato che combatte per la patria con risolutezza e determinazione e l’arte è strumento di
progresso sociale e l’espressione di una nuova civiltà» 106. Il pittore avverte in anticipo uno
dei compiti manifestatosi agli intellettuali italiani all’indomani della presa di Roma: educare le giovani generazioni a una nuova coscienza nazionale, fondata sulla conoscenza della storia del Paese e sulla consapevolezza delle diversità territoriali. La modernità del dipinto, esposto per la prima volta alla Promotrice Napoletana del 1864, risiede soprattutto nell’insolita inquadratura da taglio fotografico. La trovata del quadro nel quadro è, invece, una soluzione ampiamente sperimentata nella pittura ottocentesca. In particolare, l’opera di De Nigris presenta assonanze con Un pensiero a Garibaldi (fig. 19), eseguito quattro anni prima da Domenico Induno, che con il dipinto del pittore foggiano condivide composizione e intenti educativo-didascalici.
Nel periodo postunitario, a umoristiche scene di genere, connotate da linguaggio pittorico libero e bozzettistico, De Nigris affianca i temi sociali eseguendo Giornata triste
(esposta alla Promotrice Napoletana del 1888), Le cieche operaie (datata 1876 ed esposta alla Esposizione Nazionale di Napoli dell’anno successivo) e soprattutto L’ultima risorsa, opera esposta a Venezia nel 1877, in cui è rappresentata una povera ragazza
impegnata a vendere la sua treccia per pochi spiccioli.
Accomunati ad Altamura da un medesimo percorso d’arte e di vita imbastito da amor
patrio e da compartecipazione civile, De Nigris, Dattoli e Parisi, con le loro azioni e le
loro opere, si dimostrano orgogliosi «di essere italiani e del proprio tempo e di agire nel
presente» 107.
106
107
Sogliani, Arte e Risorgimento … cit., 29.
Altamura, Vita e … cit., qui 77.
Studi Bitontini
Liliana TANGORRA
93-94, 2012, 33-45
L’iconologia del mito: l’eroe dei due mondi
nel manifesto del film di Alessandro Blasetti 1860.
I Mille di Garibaldi
Le commemorazioni riguardanti il centocinquantenario dell’Unità d’Italia hanno visto
nel cinema uno strumento capace di raccontare il passato, un passato alquanto recente.
Pellicola dopo pellicola la coscienza nazionale ha ricostruito la storia tricolore, intrisa di
influenze socio-politiche. Non sorprende quindi che l’Assessorato Regionale al Mediterraneo, Cultura, Turismo e Spettacolo della Puglia, in occasione della celebrazione dei
150 anni dell’Unità d’Italia – presso la Mediateca Regionale di via F. Zanardelli, 30 –, nel
periodo tra settembre e dicembre 2011, abbia voluto festeggiare la ricorrenza con una
mostra di manifesti cinematografici originali (fig. 1).
1. - Cinema 150 anni. Mostra manifesti cinematografici d’epoca sul Risorgimento. Manifesto della mostra curata dall’Area Politiche per la promozione del Territorio, dei Saperi e dei Talenti - Servizio Cultura e Spettacolo della Mediateca Regionale di Bari.
34
LILIANA TANGORRA
La mostra, a cura dell’Area
Politiche per la promozione del
Territorio, dei saperi e dei Talenti
- Servizio Cultura e Spettacolo
della Mediateca Regionale di
Bari, è l’unica nel suo genere in
Italia e ha avuto lo scopo di porre l’attenzione sugli avvenimenti risorgimentali attraverso uno
dei media più popolari: il cinema.
L’importanza storica e la valenza documentale dei manifesti
originali hanno permesso la circolazione delle sole riproduzioni nelle città pugliesi coinvolte:
Lecce, Cavallino, Brindisi, Barletta, Foggia, Mola di Bari, Taranto, Bari-Palese, Noci. Il Centro Ricerche di Storia e Arte-Bitonto ha avuto la possibilità di
ospitare – nella sua sede di via
Santi Medici, 7 – la mostra, dal
6 al 28 febbraio 2012.
Sono stati esposti ventinove
manifesti tra cui: i 1860 - I Mille di Garibaldi (1934) di Alessandro Blasetti; Piccolo Mondo
Antico (1941) e Donne e briganti
(1950) di Mario Soldati; Camicie
Rosse - Anita Garibaldi (1952) di
2. - A. Cesselon, Manifesto del film 1860. I Mille di Garibaldi
Goffredo Alessandrini; Eran tre(Bari, Mediateca Regionale - 1951) (da Aa.Vv., Cinema 150 anni,
Bari 2011, 24-25).
cento… La spigolatrice di Sapri
(1952) di Gian Paolo Callegari;
Il Brigante di Tacca del Lupo (1957) di Pietro Germi; Il Gattopardo (1963) di Luchino
Visconti; Nell’Anno del Signore (1969) di Luigi Magni, e ancora altri.
Il manifesto in cui emerge la figura del Garibaldi quale protagonista, quasi assoluto,
del Risorgimento italiano è quello del film 1860. I Mille di Garibaldi (fig. 2).
La notorietà nazionale e internazionale rappresentò un importante incoraggiamento per
la costruzione del mito iconografico di G. Garibaldi: l’aspetto che qui si intende analizzare, in rapporto con il manifesto del film di A. Blasetti, è l’uso propagandistico della
sua figura in Italia nella prima metà del Novecento. Alla base della mitizzazione del Garibaldi c’è sempre stata una precisa e mirata azione politica che, scaturita vicendevolmente da campi ideologici e politici contrapposti, fece del Nizzardo una figura versatile,
adattabile ai codici e alle esigenze delle differenti forme retoriche della propaganda. Poderoso uomo dallo spirito rivoluzionario e patriottico dai noti tratti distintivi, fissati nella
L’EROE DEI DUE MONDI NEL MANIFESTO DEL FILM DI ALESSANDRO BLASETTI
35
memoria collettiva attraverso la costante cromia rossa della divisa e della capigliatura, G.
Garibaldi assurse a ricercatissimo simbolo politico, in grado di adeguarsi alle differenti
concezioni ideologiche ed estetiche dei movimenti che ne adottarono l’epica figura.
Le sue sembianze furono idealizzate nelle immagini e nelle descrizioni delle cronache del tempo; il tutto era enfatizzato dal suo bell’aspetto e dal suo modo di vestire frutto
di un’abile auto-sponsorizzazione.
Il ‘culto di Garibaldi’, a partire dall’intitolazione a suo nome delle principali piazze e vie
italiane, o dell’indicazione dei luoghi che ne testimoniano il passaggio, ha comportato il
nascere di una vasta letteratura più o meno veritiera: poemi, inni, opere teatrali e musicali.
Monumenti che celebrano l’eroe e le sue vittoriose battaglie sorgono a partire dalla fine
dell’Ottocento in quasi tutte le città italiane e in molte città straniere, mentre una proliferazione di oggetti a lui dedicati, che vanno dai volantini patriottici alle cartoline postali, ai calendari, alle figurine, alle ceramiche da tavola, hanno nutrito uno smodato collezionismo di
appassionati della materia. Medaglie e placche in suo onore vengono eseguite da scultori
di larga fama, ma – come anticipato – la figura di Garibaldi viene ampiamente sfruttata in
tutti i campi delle arti applicate, superando lo stesso re Vittorio Emanuele II.
Il Garibaldi degli oggetti di uso quotidiano è forse solo paragonabile al volto o al busto
di Benito Mussolini, riproposto a fini propagandistici durante gli anni del regime. Il divario tra Garibaldi e Mussolini sta nella celebrità a livello internazionale: mentre la figura
del Duce rimane iconograficamente un fenomeno a livello nazionale, l’eroe nizzardo incontra all’estero un successo che pochi uomini illustri italiani hanno raggiunto nella storia. Anche le ultime generazioni, poco interessate alle vicende risorgimentali, riconoscono
Garibaldi come simbolo nazionale, ma lo sostituiscono a Ernesto ‘Che’ Guevara, il quale
– come scrive la storica inglese Lucy Riall – è una «figura di natura alquanto diversa,
[...] mostra tuttavia alcune importanti analogie con l’eroe dei due mondi e in particolare
una predilezione per la guerriglia e per la rivoluzione piuttosto che per il governo, una prospettiva internazionalista e uno straordinario aspetto fisico» 1.
Il teatro e il cinema, fino ai giorni nostri, focalizzano molto spesso l’attenzione sulla
figura di G. Garibaldi. Il volto fiero e aitante diventa il fulcro (nonostante le poche ‘comparsate’ nel film) del manifesto realizzato dall’artista Angelo Cesselon 2 per il film 1860.
I mille di Garibaldi, di cui si intende qui fare un’analisi iconologica.
Il film di Alessandro Blasetti – con Maria Denis, Gianfranco Giachetti, Otello Toso,
Giuseppe Gulino, Aida Bellia, Mario Ferrari – racconta un episodio inventato sullo sfondo
dell’epopea garibaldina 3.
1
L. Riall, Garibaldi. L’invenzione di un eroe, Roma-Bari 2007, XIX.
Angelo Cesselon (Settimo di Cinto Caomaggiore, 17 febbraio 1922 – Velletri, 26 settembre 1992)
è stato un pittore italiano. Cesselon inizia la sua attività in giovane età nel suo paese di nascita seguendo
il filone della pittura veneta della fine dell’Ottocento. Trasferitosi con la famiglia a Roma, in questa città
comincia ad avvicinarsi alla pittura contemporanea, frequentando i molti studi grafici e artistici presenti
in città. Nell’immediato dopoguerra inizia a collaborare con le case di produzione cinematografica, realizzando i primi bozzetti pittorici per i manifesti pubblicitari dei film: A. Casella, P. Morelli, M. Cicolini, Catalogo Bolaffi del manifesto italiano: dizionario degli illustratori, Michigan 1995, 56.
3
P. Mereghetti, s.v. 1860, in Aa. Vv., Il Mereghetti. Dizionario dei film 2008, Milano 2007, 18311832.
2
36
LILIANA TANGORRA
Un giovane patriota siciliano, Carmeliddu, è inviato sul continente, perché dia notizie precise al Garibaldi, che è in procinto di preparare la sua spedizione, e perché ne
solleciti la partenza. Salpa da Quarto e sbarca a Marsala. Garibaldini e picciotti siciliani
combattono insieme e vincono a Calatafimi: la liberazione dal dominio borbonico è cominciata. Il film è tratto da un racconto di Gino Mazzucchi, autore della sceneggiatura
con il Blasetti e con Emilio Cecchi che lo produsse per la Cines e invitò il regista, prima
delle riprese, a leggere Noterelle di uno dei Mille (1880) di Giuseppe Cesare Abba 4.
Assai apprezzato dalla critica 5 (meno dal pubblico) dell’epoca, il film fu considerato
dopo la guerra uno dei precursori del neorealismo, fu oggetto poi di una lunga polemica
di carattere storicistico, in quanto implicite sono alcune scene fomentatrici della propaganda del regime fascista 6. Oggi conta per la sua asciuttezza stilistica, le importanti riprese del paesaggio, l’utilizzo di personaggi popolari, l’efficacia del montaggio, la
percettibile presenza come eroe di G. Garibaldi che pur vi appare fisicamente soltanto
in sei veloci inquadrature. Blasetti stesso ne curò, dopo la guerra, un’edizione tagliando
4
M. Cardillo, Da Quarto a Cinecittà. Garibaldi e il risorgimento nel cinema italiano, S. Elia Fiumerapido 1984, 29.
5
Attingendo a Cardillo, Da Quarto a Cinecittà ... cit., 38-39, si riportano qui alcuni passaggi dalle
recensioni sul film: «Abbiamo finalmente il grande film italiano, grande per la realizzazione cinematografica e per l’idea realizzata» (in Lavoro, 3 aprile 1934). «Se non fosse nota la data di nascita di questo 1860, si sarebbe indotti ad attribuire al realizzatore un deliberato proposito di dimostrare, dopo recenti
infelici esperimenti, come sia possibile fare un film di ambiente storico e d’intento patriottico senza cadere nel dilettantismo oleografico e nel teatro filmato» (in Popolo di Roma, 3 aprile 1934). «I pregi migliori del film sono dati dal movimento delle masse, dalla ben ordinata successione dei quadri, in un tema
così difficile, e la adeguata utilizzazione di tutti gli elementi interpretativi, dai protagonisti all’ultima
comparsa» (in Gazzetta di Venezia, 1 aprile 1934). Quanto a G. Garibaldi (in Stampa, 3 aprile 1934), «la
maggior difficoltà che il film presentasse era quella di far sentire la presenza trasfiguratrice di questa
grande figura e di non mostrarcela concretamente con un’interpretazione che, anche se ottima, avrebbe
pur sempre corso il pericolo di cadere nell’oleografia; è la difficoltà è stata ottimamente superata».
«Forse in nessun’altra opera cinematografica si è vista una descrizione di battaglia come quella che conclude il film. [...] Questa battaglia di Calatafimi può fare testo» (in Lavoro Fascista, 4 aprile 1934).
L’operatore Brizzi «è riuscito ad ottenere [...] una fotografia tutta ad effetto, bellissima pastosa, con un
carattere, dal principio alla fine, senza squilibri» (in Tevere, 2 aprile 1934). «Quest’epopea garibaldina
contiene in sé tali doti spettacolistiche e patriottiche che ha commosso ed esaltato il pubblico» (in Tribuna, 3 aprile 1934).
6
G. Garibaldi ha incarnato, come nessun altro personaggio dell’Ottocento, la popolarità della causa
del Risorgimento in Italia e all’estero, conferendo a essa un’impronta diretta, senza proposito deliberato,
senza ragionamento e sistemi di idee, in breve con il solo fascino della persona, della parola, del gesto.
Origine questa della confusione perpetuantesi del mito dell’eroe invincibile. Al Garibaldi furono intitolate la brigata di volontari italiani antifascisti costituitasi nell’aprile del 1937, all’epoca della guerra civile spagnola, e le formazioni partigiane di prevalente ideologia comunista, impegnate durante la
Resistenza nella lotta contro il nazi-fascismo. Questa potenziale adattabilità ideologica del personaggio,
strattonato e camuffato da opposte ragioni politiche, emerse anche nel dopoguerra, in occasione delle elezioni politiche del 1948, che videro contrapposti il Fronte Popolare, schieratosi sotto l’effigie del Garibaldi, e lo schieramento cattolico, la cui macchina propagandistica si sforzò di decostruire la fisionomia
dei ritratti del Nizzardo che apparivano sui manifesti dei ‘rossi’ rivelando, nella perpetuazione di un
gioco trasformistico, la maschera di Stalin che sotto di essi si celava. G. Garibaldi non fu tuttavia solo
un simbolo paradigmatico delle divisioni della politica italiana: così Barisone, Fochessati, Franzone (a
cura di), Garibaldi il mito ... cit., 24-25.
L’EROE DEI DUE MONDI NEL MANIFESTO DEL FILM DI ALESSANDRO BLASETTI
37
quei cinque minuti in cui venivano inquadrate le camicie nere sullo sfondo del Foro romano 7. Uscì col titolo I Mille di Garibaldi nel 1951 8.
Sul manifesto 9 e sui volantini del film 10 di Angelo Cesselon (realizzato per la seconda
edizione del film) risulta quindi imperante il ritratto del Garibaldi. L’artista mette in risalto i suoi peculiari caratteri fisici che, durante tutto il Novecento, furono iconograficamente elaborati secondo l’ampio repertorio della ritrattistica ottocentesca e risorgimentale
dedicata al Nizzardo 11. I modelli ai quali generalmente si faceva riferimento erano desunti
dalla produzione artistica dei pittori Silvestro Lega, Gerolamo e Domenico Induno, Filippo Palazzi, Giovanni Fattori, Plinio Nomellini o Gaetano Gallino: a quest’ultimo si
deve il primo ritratto conosciuto di Garibaldi 12.
Al fianco dei dipinti bisogna considerare di grande importanza la diffusione dei monumenti eretti nelle piazze delle principali città italiane che crearono un continuum con
la produzione pittorica e incrementarono la diffusione di un modello contestualmente riprodotto sui manifesti, in una sorta di celebrazione del mito iconografico garibaldino. Il
monumento più celebre è quello inaugurato nel piazzale del Cunicolo, il 20 settembre
1895, sul Gianicolo a Roma, in ricorrenza del venticinquesimo anniversario della Breccia di Porta Pia e realizzato dallo scultore Emilio Galloni (fig. 3). Effigiato anche in un
manifesto di Luigi Martinati per la ‘Esposizione garibaldina’ del 1932 (fig. 4), il complesso monumentale comprendeva un’imponente statua equestre collocata su un alto piedistallo, attorno al quale quattro rilievi bronzei raffiguravano la rievocazione della
battaglia di Calatafimi, l’assalto alla baionetta dei bersaglieri di Luciano Manara, l’allegoria dell’America, con le figure del Commercio e dell’Industria, e quella dell’Europa,
con le statue della Storia e del Genio 13. Anche la Puglia dedica un monumento a G. Garibaldi: la città di Molfetta – caso unico nel panorama pugliese –, alla fine del secolo,
sentì il ‘dovere democratico’ di erigere un monumento ai tre protagonisti dell’Unificazione d’Italia, affidando l’esecuzione del Vittorio Emanuele II e del Giuseppe Garibaldi
ai due scultori operanti a Milano Gerolamo Oldofredi e Giovanni Seleroni, veri e propri
7
G. Giraud, Dieci film sul Risorgimento, in A. Rinaldini et alii (a cura di), Il Tempietto, Genova 2009,
189-198, qui 189.
8
Cardillo, Da Quarto a Cinecittà ... cit., 38-39.
9
I manifesti sono fogli stampati per l’affissione, con informazioni per lo più pubblicitarie. Ripercorrere nel tempo le immagini riprodotte nei manifesti significa poter ritrovare momenti e stili emblematici del nostro tempo. Manifesto è anche il cartellone della stagione sinfonica, delle manifestazioni
culturali: s.v. Manifesto, in F. Ferrarotti et alii, Dizionario delle comunicazioni, Roma 1995, 129.
10
Foglio stampato che si diffonde a mano tra la gente: s.v. Volantino, in Ferrarotti et alii, Dizionario …
cit., 199.
11
Il gesuita Antonio Bresciani così descrive G. Garibaldi: «[...] è di mezzana statura e di persona
complessa e atticciata, ma in uno muscolosa e svelta come il leone, il quale accoppia la forza alla destrezza, il massiccio allo snello, l’occhio ardente e lo sguardo posato, l’animo fiero e clemente; ha gran
chioma bionda che gli scende per gli omeri e fulva barba e fronte alte e il sembiante grave e severo al
primo aspetto, ma a chi bene lo affissa generoso, aperto, sereno, che ti impone riverenza, fiducia, simpatia»: S. Gerace, Parlar male di Garibaldi. Carlo Emilio Gadda e la cognizione dell’eroe, in F. Zanet
(a cura di), Quaderni del «Bobbio», Carignano 2011, 37-52, qui 41.
12
Barisone, Fochessati, Franzone (a cura di), Garibaldi il mito ... cit., 34.
13
Ivi, 35.
38
LILIANA TANGORRA
specialisti di questo genere. Per
il terzo monumento, invece,
quello di Giuseppe Mazzini, il
Comune si rivolse nel 1894 a
un concittadino: lo scultore Filippo Cifariello che, interessato
a dotare la città natale di una
sua opera significativa, rinunciò a un compenso, chiedendo
soltanto il rimborso delle
spese 14.
L’opera di G. Oldofredi e G.
Seleroni del 1884 riprende lo
sguardo fiero e imperante del
Nizzardo senza trascurare l’abbigliamento che lo rese famoso,
il copricapo, la camicia rossa, i
pantaloni di tela grezza e gli stivali di cuoio, caratteristiche
che, in parte, si ritrovano nel
manifesto di Cesselon (fig. 5).
3. - E. Gallori, Monumento a Garibaldi (Roma, piazzale del Gianicolo - 1895) (foto dell’Autore - 2011).
In queste sculture le sembianze di G. Garibaldi appaiono cristallizzate in pose ieratiche, ma allo stesso tempo enfatiche, portatrici di un’eredità
storica e storicizzata tipica degli eroi risorgimentali.
Il regime fascista – come accennato – sfruttò l’immagine di Garibaldi e dei Mille, per
scopi propagandistici, nel cinema.
I film in costume dedicati a vicende storiche del XIX secolo furono intesi dall’enorme
macchina propagandistica del regime come tappa decisiva del lungo cammino verso l’unificazione (sancita nella ‘data simbolo’ del 1861, ma effettivamente non conclusasi prima
della seconda Guerra Mondiale), perpetuatosi con la vittoria conseguita sui campi di battaglia della Prima Guerra Mondiale, ma anche come anticipazione di quello spirito nazionalistico e del complesso ideologico del fascismo, che ovviamente provvide a spurgare il
Risorgimento di ogni suo elemento eversore e democratico 15. Tra il 1923 e il 1927, furono
14
Ch. Farese Sperken, La scultura monumentale in Puglia nell’Ottocento e Novecento, Bari 2008, 71.
Il pensiero politico di G. Garibaldi si rifaceva a un socialismo fatto di fratellanza, giustizia, umanità per tutti, non di eguaglianza: poggiava in una parola non sulla lotta di classe, ma sulla riduzione
della tensione tra capitale e lavoro – così seguendo le riflessioni di D. Mack Smith –. Da questo socialismo «buono», deriva «il regime che più s’avvicina all’idea che l’uomo si fa del regno di Dio in
terra». Non appena però il Garibaldi passava dalla diagnosi dei mali all’applicazione del rimedio politico, la sua inesperienza emergeva fin troppo chiara. Riflettendo poi sulle forme istituzionali, se il
sistema rappresentativo andava bene per l’Inghilterra e la Svizzera, in Italia esso era – secondo lui –
una degenerazione peggiore del più aperto dispotismo. L’Italia mancava di un «robusto e terribile fascio» di forze politiche progressiste, e fino a quando la società non fosse divenuta meno corrotta ed
egoistica c’era bisogno d’una dittatura temporanea. È anche questa un’idea-forza del suo striminzito
vocabolario politico. Un dittatore, consapevole dello stato generale della nazione, può difendere lo
15
L’EROE DEI DUE MONDI NEL MANIFESTO DEL FILM DI ALESSANDRO BLASETTI
39
5. - G. Seleroni, G. Oldofredi, Monumento a Garibaldi (Molfetta, piazza Effrem - 1884) (da Ch. Farese Sperken, La scultura monumentale in Puglia
nell’Ottocento e Novecento, Bari 2008, 769).
realizzati una decina di film sull’argomento
e alcuni di essi contribuirono in maniera
evidente a rafforzare in ‘funzione promozionale’ il ritratto ieratico del Garibaldi 16.
A differenza di altre pellicole dedicategli, incluso Garibaldi e i suoi tempi di Sil4. - L. Martinati, Manifesto della Esposizione Epovio Laurenti Rosa del 1926, A. Blasetti
pea Garibaldina (Stabilimento Guazzoni Toma lasciò G. Garibaldi sullo sfondo, accen1932) (da S. Barisone, M. Fochessati, G. Franzone
tuando l’aspetto dell’epica popolare. At(a cura di), Garibaldi il mito. Manifesti e propaganda,
traverso scene di massa girate in presa
Genova 2007, 57).
diretta e le interpretazioni di attori non professionisti, il regista proponeva dunque una visione realistica dell’epopea risorgimentale,
riconfermando tuttavia lo stretto legame tra le vicende narrate e la genesi del fascismo. Il
Stato dall’estero e purgarne all’interno le impurità. È eletto per un periodo di soli due anni, durante i
quali il parlamento è in vacanza. Anzi è proprio colpa dei parlamentari e della loro scarsa dialettica,
se il tiranno riesce ad andare al potere e ci rimane fino a quando non maturi il tempo di eleggere un
successore. Questo concetto pratico-politico avrebbe conosciuto altre applicazioni negli anni a venire nella storia del nostro Paese, ed il richiamo a G. Garibaldi acquistava così titolo di legittimità storica: così A. Cardillo et alii, G. Garbardi 1805-1882: storia letteratura immagine, Santa Maria Capua
Vetere 1983, 22-23.
16
Barisone, Fochessati, Franzone (a cura di), Garibaldi il mito ... cit., 37.
40
LILIANA TANGORRA
Blasetti infatti dichiarò: «Il film, in due parole, vuol essere questo: evocare l’atmosfera
del 1860 per molti aspetti simile a quella del 1920-1922. Torrenti di chiacchiere, torre di
Babele politica, incoscienza della immane rovina di ogni possibilità di unione della patria.
Nuclei isolati di patrioti e di ribelli muti, decisi, votati alla morte resistono nella fiducia di
un uomo che convoglierà le loro forze, e altre ne attirerà fatalmente quando porterà la realtà politica attuale dal campo della discussione a quello dell’azione» 17.
L’icona di G. Garibaldi quindi, durante il fascismo, divenne sintesi della moltitudine,
fu assunta nella sua essenza idealistica e, all’interno dell’elaborazione di un culto secolarizzato del fascismo messa in atto dal regime stesso, quasi spirituale. Anche l’immagine
dei garibaldini in marcia, che in centinaia di immagini incarnò la raffigurazione di G. Garibaldi, sostituendone di fatto le fattezze fisiche o rappresentandone un’appendice, si può
dunque collegare con il tema del rapporto tra leader e massa che, all’interno dei più avanzati strumenti iconografici di persuasione e propaganda del Novecento, determinò la creazione di una moderna rappresentazione mitologica del leader attraverso un’estrema
varietà di soluzioni grafiche e stilistiche: sempre protagonista, ma rarefatto, come succede
nel manifesto di ‘1860’ e affiancato dai Mille e dalle fotografie dei protagonisti in camicia rossa. I due aspetti dell’iconografia del Garibaldi (quello ieratico e quello spirituale)
sono quindi riscontrabili nel manifesto e nei volantini realizzati dal Cesselon, il quale imprime nel manifesto la figura estatica e predominante dell’eroe dei due mondi, non trascurando, però, la presenza dei Mille, imperante in alcuni volantini del film, dove
l’immagine del Garibaldi viene confinata all’estrema destra del foglio e i fotogrammi la
fanno da padrone. Lo sguardo fisso e baldanzoso emerge dal fondo chiaro, colpito da una
luce intensa che modula il resto del viso disegnandolo con piccoli tocchi di luce intono
agli occhi, sulla fronte e intorno alla bocca; il cappello rosso segna il profilo del volto accentuandone lo sguardo combattivo e non arrendevole. Lo stile del Cesselon, basato su
composizioni originali e armoniosamente equilibrate e caratterizzato da una intensa ricerca cromatica tipicamente veneta, emerge con chiarezza dal manifesto. I contrappunti
di tinte vibranti e sapientemente giustapposte come i rossi, i violetti, i verdi, ne identificano il linguaggio e lo rendono immediatamente riconoscibile al pubblico. Nel volto di
Garibaldi Cesselon individua il tratto psicologico dell’uomo e del personaggio; il suo ritratto è caratterizzato da una figura grandiosa, eterna e indimenticabile.
L’immagine di G. Garibaldi riprodotta dal Cesselon non è lontana da quella espressa
da molti artisti che lo hanno preceduto: similitudini si ritrovano – per esempio – facendo
un’analisi comparativa con il dipinto di Silvestro Lega del 1861, Ritratto di Giuseppe
Garibaldi (fig. 6). La camicia rossa, indossata sin dagli anni dell’esilio in Sud America,
il foulard bianco e azzurro, i colori del Rio della Plata, allusivi alla lotta per l’indipendenza
dell’Uruguay cui G. Garibaldi aveva partecipato nel 1842, sono elementi che ritornano
spesso nell’iconografia del personaggio. Il Nizzardo viene raffigurato dal Lega in un momento di tranquillità apparente, mentre sullo sfondo incombe un cielo plumbeo che sembra annunciare tempesta. Lo sguardo meditabondo e distante rivela la concentrazione del
suo pensiero rivolto alle vicende ancora irrisolte dell’Italia 18.
17
Ibidem.
La proclamazione del Regno d’Italia lasciava irrisolta la ‘questione romana’, una ferita per Garibaldi, Mazzini e per tutti i democratici e i repubblicani che avevano lottato per l’unificazione del Paese
18
L’EROE DEI DUE MONDI NEL MANIFESTO DEL FILM DI ALESSANDRO BLASETTI
41
Un ritratto fisico e morale quindi,
quello del Lega, tradotto in una pittura
di grande rigore ed eleganza formale
e che combacia con le tante descrizioni letterarie e pittoriche, e divenuto,
nell’immaginario comune come in
quello dei patrioti e intellettuali italiani
ed europei, figura mitica di salvatore
dei popoli e tutore della libertà. Tra le
altre testimonianze dirette, di grande
efficacia, vi è quella lasciataci da Alexandre Dumas padre – che si unì al
Garibaldi e ai Mille tra la primavera e
l’autunno del 1860 –, autore di una
serie di articoli apparsi nel 1862 sul
giornale Le Monte Cristo e confluiti
successivamente in Viva Garibaldi!
Une odyssée en 1860: «Garibaldi è un
uomo di quarant’anni di altezza media
ben proporzionato, con capelli biondi,
occhi azzurri, fronte, naso, mento
greci, cioè si avvicinano quanto più
possibile all’autentico tipo della bellezza, come il Gesù dell’Ultima Cena
di Leonardo da Vinci, cui assomiglia
molto. Porta la barba lunga. Il suo ab6. - S. Lega, Ritratto di Giuseppe Garibaldi (Modigliabigliamento abituale e una sorta di ca- na, Museo civico - 1861) (da F. Mazzocca, C. Sisi (a cura
sacca aderente al corpo, o addirittura di), 1861. I pittori del Risorgimento, Milano 2010, 127).
una camicia senza alcuna insegna militare: i suoi movimenti sono pieni di eleganza; la sua voce, di infinita dolcezza, somiglia
a un canto. Abitualmente è più distratto che attento, e sembra più un uomo pacato che di
immaginazione, ma pronunciate dinanzi a lui le parole ‘Italia’ e ‘indipendenza’ e lo vedrete
risvegliarsi come un vulcano, con le sue eruzioni di fuoco e i suoi torrenti di lava» 19.
Sappiamo inoltre che G. Garibaldi, sin da giovane, ebbe particolare cura per la propria persona, soprattutto per le mani e la capigliatura biondo-rossastra, che lasciava crescere fluente sulle spalle. Una figura quindi dai modi e dai tratti sobri, ma eleganti, delicati
addirittura – amava cantare e aveva una voce bellissima che colpiva chiunque lo sentisse
parlare –, a bilanciare quasi l’aspetto singolare caratterizzato dall’abbigliamento assunto
durante gli anni sudamericani e che certo dovette sembrare eccentrico nell’Europa di
metà Ottocento. Non rimasero insensibili al suo magnetismo guerriero e umano giornalisti, scrittori, fotografi, i pittori-soldati che lo conobbero sui campi di battaglia (Gerolamo
e contro il potere temporale del papa: F. Mazzocca, C. Sisi (a cura di), 1861. I pittori del Risorgimento,
Milano 2010, 126.
19
A. Dumas, Viva Garibaldi! Une odyssée en 1860, Paris 2001, qui 20.
42
LILIANA TANGORRA
Induno tra tutti) e quanti ebbero modo di incontrarlo durante le sue numerose peregrinazioni per l’Italia, da Silvestro Lega al siciliano Salvatore Lo Forte, al milanese Eleuterio
Pagliano, agli scultori Ercole Rosa o Ettore Ximenes, tutti autori di effigi nelle quali G.
Garibaldi, ammantato di leggenda e di coraggio, sembra riassumere in sé le straordinarie
abilità del condottiero e l’attrattiva virile dell’uomo che sacrifica la propria intera esistenza all’ideale comune 20. Al fascino subito dagli artisti che lo conobbero, sicuramente,
si ispirò il Cesselon, che riprende dal Lega lo sguardo fiero, ma assorto, la definizione
della barba e dei capelli rossastri acconciati sotto un berretto rosso e il foulard bianco e
azzurro. L’artista non rimane inerte di fronte all’escamotage del Lega nel riprendere simbolicamente nel cielo le nuvole grigie annunciatrici di tempesta. Il Cesselon, con pennellate veloci ed efficaci, mutua dal Lega l’idea della bufera come annunciatrice di una
enorme rivoluzione socio-culturale e politica.
In un volantino, prodotto in concomitanza con il manifesto, viene evidenziata la forza
morale e fisica degli uomini in marcia verso la conquista della tanto agognata Italia 21
(fig. 7). I fotogrammi del film di A. Blasetti sicuramente fanno riferimento anche alle
stampe che si diffusero alla fine dell’Ottocento con la rappresentazione dei Mille in marcia verso Genova, Roma… o dei garibaldini durante la battaglia.
L’uso della fotografia sui manifesti di propaganda si diffuse dal 1918 nell’ambito del
dada berlinese e poi in Unione Sovietica, ma si affermò lentamente 22. Le immagini e le
scritte vennero progressivamente modificate e spostate dagli artisti a seconda delle necessità,
fino ad arrivare a una composizione più organica, che volle i volti dei protagonisti colorati e in evidenza (in primo piano o al centro) e i comprimari in monocromia o arretrati.
20
Mazzocca, Sisi (a cura di), 1861. I pittori … cit., 127.
Un aspetto – forse ancor poco studiato – della problematica garibaldina è quello di G. Garibaldi
nel romanzo I Mille, tendente a evidenziare i rapporti intercorrenti tra il prode generale e gli uomini che
vollero seguirlo nella impegnativa impresa di Sicilia. Scrive il Garibaldi: «Com’eran belli – Italia! – i
tuoi Mille! in borghese, pugnando contro i piumati, gli sgherri, spingendoli davanti a loro, come se fosse
un gregge. Belli! belli! e vario-vestiti come si trovavano nelle loro officine quando chiamati dalla tromba
del dovere! Belli, belli! erano, coll’abito ed il cappello dello studente, colla veste più modesta del muratore, del carpentiere, del fabbro... Belli! I tuoi Mille, Italia! Essi rappresentavano il tuo esercito dell’avvenire. Non più Mille allora ma milioni! ripeto. Ed allora? Allora spariranno dalla tua terra, bella
Infelice! I tuoi dominatori, e con loro chi infamemente speculava sulle tue miserie, e le tue vergogne!».
Questa voglia del nizzardo di dar dignità al popolo dei Mille è presa in considerazione sia da Blasetti
nel suo film, sia da Cesselon nei suoi manifesti e volantini, sia dalla filmografia che irrompe gli schemi
letterari e artistici, focalizzati sull’immagine creata dai mille eroi. L’industria dell’immagine, il cinema,
ha avuto molte difficoltà nel ricostruire sullo schermo l’Eroe e la sua epopea. Dai primi del secolo ad
oggi, non molti sono i films a lui dedicati e spesso Garibaldi più che essere presente realmente viene evocato, compare fugacemente, hanno, quindi, più spazio le figure di contorno: si rinvia a Cardillo et alii,
G. Garbardi 1805-1882 ... cit., 116-117.
22
L’arte del manifesto, tra la fine dell’Ottocento e gli inizi del Novecento, diventò un canale e allo
stesso tempo un mezzo importante per lo sviluppo del concetto, maturato nell’ambito musicale da Richard Wagner, nello spettacolo da Gordon Craig e nell’arte dal Futurismo e dal Bauhaus, che è ‘l’opera
d’arte totale’; il manifesto o gli affini mezzi pubblicitari, oltre a essere ‘sfruttati’ quali mezzi di promozione per le nuove esperienze commerciali e artistiche, riuscivano a inglobare, nella loro semplice forma,
le varie sperimentazioni allora in atto nell’arte pubblicitaria: dall’uso della litografia all’uso della fotografia, dall’invenzione di nuovi caratteri attraenti e leggibili alla composizione formale e grafica, dalla
scelta del colore all’ideazione dello slogan: A. Gilardi, Storia sociale della fotografia, Milano 2001,
252.
21
L’EROE DEI DUE MONDI NEL MANIFESTO DEL FILM DI ALESSANDRO BLASETTI
43
Le scritte colorate si disponevano di traverso o si curvavano 23.
Lo stesso è visibile nel
Cesselon. Nel manifesto il
volto di G. Garibaldi è spostato verso il margine sinistro del manifesto, accostandosi in altro, a destra,
alle figure dei Mille arretrati,
mentre incurvata è la scritta ‘1860’ sottoscritta da ‘I
mille di Garibaldi’. Nel volantino preso in considerazione, il fotogramma del
7. - A. Cesselon, Volantino del film 1860. I Mille di Garibaldi (Bari, Mefilm diventa il protagonista
diateca Regionale - 1951) (da Aa.Vv., Cinema 150 anni ... cit., 24-25).
e richiude ai margini le immagini scavalcate delle scritte in primo piano. La foto riprende il dipinto di Remigio Legat La battaglia di Calatafimi (fig. 8). Con il dipinto siamo di fronte alla glorificazione della nazione, alla mitizzazione di fatti ormai lontani nel tempo. Il quadro è un tripudio di rosso, per quelle camicie che i Mille, a quella data non possedevano ancora. Lo stesso accade per i Mille ripresi
nel fotogramma il cui tratto distintivo rimane il rosso 24.
L’attenzione ai precedenti pittorici nella pratica del cinema italiano è un fenomeno
diffuso; lo si nota in un altro volantino diffuso per il film di A. Blasetti. Non si deve dimenticare che dai critici Emilio Cecchi, nella sua attività dirigenziale alla Cines, venne
definito come il precursore del cinema «calligrafico» 25.
Alessandro Blasetti ebbe certo dal Cecchi, nel 1933, mentre girava ‘1860’, l’idea di
riferirsi alla pittura di Giovanni Fattori 26, che servì certamente come fonte per le scene
di battaglia: per esempio, il carro molto simile a quello dipinto dall’artista toscano nel
Campo italiano dopo la battaglia di Magenta (fig. 9) – opera molto importante quale
fonte iconografica anche per il Visconti di Senso – 27, altrettanto simile al cannone ripreso
nella Battaglia di Custoza (Quadrato di Villafranca) (fig. 10).
23
E. Velati, Note sul manifesto cinematografico italiano, in V. Attollini (a cura), Cinema al Muro. Mostra del manifesto del cinema italiano, Bari 1986, 10-14, qui 11.
24
S. Abita, M. A. Fusco, Garibaldi nell’iconografia dei suoi tempi, Milano 1982, 76.
25
R. Campari, Il fantasma del bello. Iconologia del cinema italiano, Venezia 1994, 37.
26
Giovanni Fattori (Livorno, 1825 – Firenze, 1908) dopo un apprendistato presso il pittore Giuseppe
Bandini, studia all’Accademia di Firenze con Giuseppe Bezzuoli. Frequenta il Caffè Michelangiolo.
Nel 1854, frequenta la ‘scuola del nudo’ insieme al Signorini e al Pointeau e forse è grazie alla loro influenza che inizia a fare studi dal vero in campagna. Nel 1859, dipinge alcune tavolette raffiguranti i soldati francesi di stanza alle Cascine di Firenze. Quell’anno partecipa al ‘Concorso Ricasoli’, per il tema
‘storia risorgimentale’ e vi risulta vincitore con il bozzetto della Battaglia di Magenta: così S. Bietoletti,
I macchiaioli. La storia, gli artisti, le opere, Milano 2001, 126.
27
Campari, Il fantasma … cit., 37.
8. - R. Legat, La battaglia di Calatafimi (Milano, Museo del Risorgimento - 1860) (da S. Abita, M. A.
Fusco, Garibaldi nell’iconografia dei suoi tempi, Milano 1982, 77).
9. - G. Fattori, La battaglia di Magenta (Firenze, Galleria d’Arte Moderna - 1861-1862) (da S. Bietoletti, I macchiaioli. La storia, gli artisti, le opere, Milano 2001, 129).
L’EROE DEI DUE MONDI NEL MANIFESTO DEL FILM DI ALESSANDRO BLASETTI
45
10. - G. Fattori, La battaglia di Custoza (Il Quadrato di Villafranca) (Firenze, Galleria d’Arte Moderna - 1876-1880) (da http://digilander.libero.it/fiammecremisi/fileimmagini/terzaguerra.htm).
Lo stesso carro è evidente nel fotogramma presente in un altro volantino
realizzato dal Cesselon, il
quale sicuramente nella
scelta non era estraneo
alla volontà di rifarsi al celebre predecessore toscano
(fig. 11).
Garibaldi quindi, come
in ogni romanzo d’avventura che si rispetti, ha in sé
assunto, durante il corso
della storia, il simbolo di
una nazione con le sue vicende ed evoluzioni. La 11. - A. Cesselon, Volantino del film 1860. I Mille di Garibaldi (Bari, Mesua immagine fu imme- diateca Regionale - 1951) (da Aa.Vv., Cinema 150 anni ... cit., 24-25).
diatamente tradotta in una
‘enciclopedia’ iconografica fatta di sculture, dipinti, manifesti, ceramiche e medaglie, che
glorificavano G. Garibaldi quale padre della Patria più illustrato, o meglio visualizzato,
o ancor meglio spettacolarizzato – come pure il più raccontato –, lasciando che diventasse
l’emblema della più romantica e travagliata tra le biografie del Risorgimento.
Studi Bitontini
Carmela MINENNA
93-94, 2012, 47-66
L’istruzione pubblica e il movimento risorgimentale.
La proposta del Liceo Classico di Bitonto
Credano e fortemente credano gl’insegnanti,
vivano nella loro missione e dalla fede
e dal convincimento trarranno
eloquenza di parola e vigoria di concetti,
accendendo così d’entusiasmo
e trascinando dietro a sé con forza irresistibile!
Eurialo Baggiolini
Introduzione
Si potrebbe ‘anche’ convenire sul fatto che la scuola ottocentesca, quella targata ‘pregentiliana’, fosse carente sul piano pedagogico e docimologico. Nessuna traccia di programmazione didattica e di contratto formativo, nessuna analisi del profilo socio
comportamentale del discente, nessuna valutazione del contesto di riferimento dell’utenza, nessuna condivisione degli indicatori di valutazione con conseguente applicazione di arbitrarietà sia in fase didattica che valutativa.
Altre considerazioni suggerisce, invece, la dinamica del patrimonio valoriale che la
scuola ottocentesca ha inteso e ‘forse’ saputo additare attraverso l’insegnamento in cattedra. C’è da chiedersi, in forma prioritaria, se la convinzione condivisa di erudizione e
di nozionismo scolastico sia da confermare o da reinterpretare in forma più cautelativa.
Certo, per un discente della scuola ottocentesca, sottrarsi a martellanti e disumani esercizi di memorizzazione dei contenuti disciplinari e fare a meno di un dilagante nozionismo teorico sarebbe stato alquanto improbabile. Ma è pur vero che ogni bilancia ha
sempre due piatti e il peso didattico, che ha letteralmente schiacciato intere generazioni
di discenti provocandone la mortificazione o addirittura l’annichilimento motivazionale,
ha conosciuto la sua contropartita nell’affinamento degli strumenti finalizzati alla definizione di un profilo identitario consapevolmente inquadrato nel contesto storico-sociale
di riferimento 1 .
1
Per un quadro di insieme sulla scuola in età contemporanea, E. De Fort, Le alfabetizzazioni degli
Italiani, in Dalla Unità alla Repubblica. Percorsi e temi dell’Italia contemporanea, Venezia 2011, 6779; A. Scotto Di Luzio, Il liceo classico, Bologna 1999; L. Montevecchi, M. Raicich (a cura di), L’inchiesta Scialoja sulla istruzione secondaria maschile e femminile (1872-1875), Roma 1995; R. Fornaca,
Storia della scuola moderna e contemporanea, Roma 1994; L. Pazzaglia (a cura di), Chiesa e prospet-
48
CARMELA MINENNA
L’aspetto più qualificante di questa didattica valoriale è riconducibile alle lezioni di
‘cittadinanza attiva’. Se ne avverte l’esigenza a cominciare dai gradi inferiori dell’istruzione scolastica visto che, nel rispetto dei programmi emanati dal Ministro Mariani nel
1860, si raccomanda al maestro di «ispirare così ai suoi alunni il sentimento del dovere,
l’onore alla patria, l’urbanità dei modi» 2.
Autentica fucina di spirito liberale fu la scuola secondaria, luogo cruciale di formazione delle élites e, soprattutto, di quel più vasto ceto medio candidato a diventare ‘italiano’ e a formare una classe dirigente nutrita di coscienza nazionale e civile 3.
La riorganizzazione scolastica nel periodo postunitario: una scuola per tutti
Prima che strategia politico-militare, l’unificazione territoriale è dunque delicata operazione ideologica. Soprattutto per la penisola italiana, assuefatta ad una duratura tradizione di dominio che vede passare sul teatro istituzionale protagonisti e figuranti
variamente prestati dalle dominazioni.
Si è molto lontani dal ritenere che baionette, fucili e spadini abbiano ‘costruito’ l’unificazione. Ad assicurare il trionfo dei valori patri di libertà e di indipendenza è stata, piuttosto, una autentica rivoluzione di coscienze, costruita non già in trincea o sui campi di
battaglia, quanto nell’abitudine quotidiana al recupero valoriale dell’individuo che, da
solo, assurge a garanzia di libertà.
Basterebbe, del resto, chiamare in causa pochi frammenti del percorso umano lungo
le tappe della storia per asserire che è l’uomo, e non il soldato, ad essere garante e tutore dei valori patri: dal più noto apologo di Menenio Agrippa, tappa inderogabile nel
processo di costruzione di una coscienza civica repubblicana a Roma, al meno noto discorso degli abitanti di Melo che, attraverso la testimonianza tucididea, rimane insuperato monumento al valore della libertà e pubblica condanna della legge del più forte.
Non sembri audace dunque, sulla base di tali presupposti, avanzare l’ipotesi di una operazione tutta ‘culturale’ a sostegno del graduale cammino della popolazione dello Stivale in direzione ‘Unità’. Perché, come insegna l’insuperato modello augusteo di cui la
tive educative in Italia, tra Restaurazione e Unificazione, Brescia 1994; C. Covato, A. N. Sorge (a cura
di), L’istruzione normale dalla legge Casati all’età giolittiana, Roma 1994; G. Cives, La scuola italiana
dall’Unità ai nostri giorni, Firenze 1990; G. Chioso (a cura di), Scuola e stampa nel Risorgimento. Giornali e riviste per l’educazione prima dell’Unità, Milano 1989; G. Talamo, La scuola dalla legge Casati
all’inchiesta del 1864, Milano 1960.
2
E. Catarsi, Storia dei programmi della scuola elementare (1860-1895), Firenze 1990, qui 197.
3
Preme precisare che la progettualità scolastica post-risorgimentale non investe l’istruzione secondaria femminile che rimane ancorata ai modelli clericali di educandati, conservatori e istituti di beneficenza. La penalizzazione dell’istruzione femminile viene legittimata dalla legge Casati del 13
novembre 1859 che, pur riconoscendo la parità dei sessi, per le donne prefigura soltanto l’avvio a
scuole professionali. Sul tema dell’istruzione femminile, S. Franceschini, P. Pozzuoli, Gli istituti femminili di educazione e di istruzione (1861-1910). Archivio Centrale dello Stato, Fonti per la Storia
della Scuola, Roma 2005; G. Di Bello, L’Istituto Superiore di Magistero Femminile nell’Ottocento, in
Idem, A. Mannucci, A. Santoni Rugiu (a cura di), Documenti e Ricerche per la storia del magistero,
Firenze 1980, 23-75; M. Raicich, Liceo, università, professori: un percorso difficile, in S. Sodani (a cura
di), L’Educazione delle donne. Scuole e modelli di vita femminile nell’Italia dell’Ottocento, Milano
1989, 147-181.
L’ISTRUZIONE PUBBLICA E IL MOVIMENTO RISORGIMENTALE
49
storia, da quella recente ad impronta fascista a quella ancora più recente dei nostri
giorni, propone sbiadite e pretenziose imitazioni, la solidità di un progetto politico è
solo nella efficacia di una operazione culturale che lo possa alimentare e supportare
nel tempo.
Anche la nostra unificazione territoriale si svolge dunque in due tempi e soprattutto
in due luoghi. I tempi sono quelli dell’intero XIX secolo, con le sue decadi a cavallo del
1861, con un ‘prima’ e un ‘dopo’ ugualmente funzionali al rivoluzionario progetto politico. I luoghi, invece, sono quelli della storia ‘scritta’ che evoca le memorie di Milano, Torino, Sicilia; ma anche quelli di una storia ‘non scritta’ e dei molteplici centri di
promozione culturale che da Nord a Sud, da Oriente ad Occidente, hanno concorso ad infiammare le coscienze.
E se a Torino, insignita poi dell’onore di prima capitale del Regno, si costruiva l’Italia negli storici caffè dei suoi portici, tra una tazzina del pregnante e avvolgente aroma e
un gustoso gianduiotto, in altre città le istituzioni scolastiche, e i licei in prima linea, fecero da efficace cassa di risonanza per la propaganda politica di ispirazione nazionale.
Il processo di configurazione di una identità patria si sviluppa infatti in parallelo alla
istituzionalizzazione dell’istruzione superiore pubblica. Dopo il marzo 1861, un vento di
novità soffia in tutta l’Italia. Si percepisce esigenza di rinnovamento, di svecchiamento,
di crescita e di progresso. Tra le istituzioni più sensibili alle istanze liberali, la scuola raccoglie la diffusa aspirazione al cambiamento nella consapevolezza di disporre di strumenti operativi ad azione capillare.
La legge Casati del 13 novembre 1859, completata del Regolamento attuativo del 19
settembre 1860, introduce i principi di obbligatorietà e gratuità della istruzione primaria
e prescrive ai Comuni l’obbligo di provvedere all’istruzione superiore attraverso l’istituzione di ginnasi e licei. Con tale provvedimento si mette in cantiere una politica di alfabetizzazione e di programmazione scolastica finalizzata alla rinascita culturale dell’Italia,
una Italia che i dati emersi dal censimento del 1861 collocano nell’area dei paesi europei
meno sviluppati 4.
Nel contempo si avvia un processo di risemantizzazione dell’istruzione in una accezione che non è puramente informativa bensì formativa. Matura la convinzione infatti
che l’istruzione sia veicolo di una formazione umana e civile, che le scuole siano fucine
di coscienza piuttosto che di erudizione. In questa rinnovata prospettiva si inquadrano il
dibattito sulla opportunità di una scuola per tutti in luogo di una istruzione per pochi,
nonché la ridefinizione dei concetti di pubblico e privato. In Italia le idee più avanzate del
credo laico e liberal-moderato, impegnate a mettere sotto scacco il monopolio clericale,
investono soprattutto il settore della istruzione elementare. È rimarchevole in proposito
la scelta dell’Ispettore Laudisi, bitontino, di presenziare alla cerimonia di inaugurazione
dell’anno scolastico 1861 «onde persuadere e indurre tutti a mandare i loro figliani a tale
insegnamento, vista l’utilità che le classi povere siano istruite ed educate dal pari che le
agiate» 5.
D’altronde le ricadute positive dell’istruzione elementare pubblica investono anche la
dimensione sociale. Le statistiche confermano il più facile attecchimento di fenomeni de4
5
T. De Mauro, Storia linguistica dell’Italia unita, Bari 2011, 20 sgg.
Archivio Storico Comunale Bitonto (da ora in poi A.S.C.B.), Preunitario, b. 300, fasc. 4.
50
CARMELA MINENNA
linquenziali nelle frange più disagiate del popolo, là dove più alta è la percentuale di analfabetismo, tanto da dedurre che «il pauperismo dell’anima è più crudele, più disastroso
e funesto di quello dell’istesso corpo: l’uomo indigente, ma civilizzato e morale, può affrancarsi dalla miseria col lavoro, perché, nemico del delitto, apprezza giudiziosamente
i suoi diritti e i suoi doveri» 6. L’istruzione dunque mal si coniuga con la delinquenza e si
configura quale efficace strumento per strappare la «giovine famiglia del proletario quella
dell’artigiano […] alla inesperienza, al vagabondaggio» 7.
A partire dalla scuola elementare, il processo di laicizzazione e democratizzazione si
estende anche all’istruzione superiore, sia pure con ritmi diversi. La lentezza del processo di alfabetizzazione secondaria è riconducibile in gran parte alla reticenza del ceto
medio, e quindi dei proprietari terrieri, nei confronti di un sistema scolastico che cercava
di sostituire i titoli tradizionali, acquisiti per censo e per ‘ghenos’, con altri conquistati per
meriti, come la laurea o il diploma.
Se dunque a livello periferico sopravvive questa reticenza, a livello centrale si consolida, invece, la convinzione che l’istruzione sia il fondamento ideologico dell’uomo e
del cittadino. Nell’ignoranza infatti si annidano i presupposti della sottomissione, del servilismo, della dipendenza; in uno stato libero, invece, il cittadino trova, proprio attraverso l’istruzione pubblica, gli strumenti del riscatto individuale e collettivo, nonché il
presupposto per la crescita e lo sviluppo sociale. Ne deriva un capillare monitoraggio con
conseguente censura di tutte le proposte educative a iniziativa privata, innanzitutto i seminari, accusati di promuovere una istruzione clandestina 8.
La formazione dei cittadini d’Italia: la ‘cospirazione’ didattica di Luigi Della Noce a Bitonto
A Bitonto l’eco di una incipiente coscienza nazionale promana dalle austere mura di
un convento carmelitano che, sottratto ai frati riformati da s. Teresa d’Avila, assurge dal
XIX secolo a faro della cultura locale sotto la titolazione di Liceo Classico e, attraverso
precise scelte di politica didattica e organizzativa, si impone sugli scenari nazionali dell’unificazione territoriale e politico-educativa 9.
6
Ibidem.
Archivio Diocesano A. Marena Bitonto (da ora in poi A.D.B.), Fondo Martucci-Zecca, vol. IX, Discorso inaugurale pronunziato in occasione dell’apertura della scuola magistrale in Bari da Giuseppe
Laudisi, Ispettore agli studi del distretto, Bari 1861, 3-4.
8
Sull’ingerenza delle scuole private nel periodo post-unitario, X. Toscani, Alfabetismo e scolarizzazione dall’Unità alla guerra mondiale, in L. Pazzaglia (a cura di), Cattolici, educazione e trasformazioni
socio-culturali in Italia tra Otto e Novecento, Brescia 1999. Il Seminario di Bitonto è costretto, con nota
ministeriale del 26 agosto 1869 n. 6844, alla «immediata chiusura delle scuole liceali, ginnasiali ed elementari abusivamente aperte» (A.S.C.B., Preunitario, b. 301, fasc. 9, cat. 249).
9
L’analisi che qui si propone sulla progettualità didattica esperita a Bitonto nel campo dell’istruzione secondaria è fortemente penalizzata dalla esiguità del materiale archivistico conservato dal Liceo
Classico. In gran parte divorato dalle fiamme sviluppatesi accidentalmente nei locali di deposito, attigui alla fabbrica conventuale, il patrimonio archivistico più antico restituisce la serie dei Registri dei voti
e quella dello Stato del Personale, quest’ultima, incompleta. La scrivente ha colmato la lacuna, sia pure
parzialmente, con la consultazione di fonti archivistiche indirette confluite nel fondo Martucci-Zecca
presso l’Archivio Diocesano e l’Archivio Storico Comunale di Bitonto.
7
L’ISTRUZIONE PUBBLICA E IL MOVIMENTO RISORGIMENTALE
51
Tutto l’Ottocento vede la città di
Bitonto impegnata a definire una sua
identità culturale. I tempi sono maturi
per l’inaugurazione di una istituzione
scolastica che concorra a completare
il processo educativo avviato dalla
scuola primaria in vista di un efficace
inquadramento sociale e professionale. L’occasione si presenta a seguito
della soppressione degli Ordini Conventuali, voluta da Gioacchino Murat
nel 1809. In questa spirale soppressiva
finisce anche l’Ordine Carmelitano,
costretto ad abbandonare, a Bitonto, la
fabbrica conventuale con l’attigua
chiesa di S. Teresa. Per una felice intuizione di Carmine Sylos 10, a cui
oggi è intitolato il Liceo Classico, la
fabbrica viene candidata a finalità culturali con l’istituzione di un convitto,
prima, e di un liceo, dopo.
Inaugurato nel 1823, il Convitto
viene affidato ai Canonici Lateranensi che ne assicurano la gestione
1. - Disegno ad inchiostro di china raffigurante lo stemma
per un quarantennio, fino al 31 ottodell’Ordine Lateranense, sotto il cui rettorato viene inaubre 1865, data di soppressione della
gurato a Bitonto, nel 1823, un collegio destinato alla procasa canonica (fig. 1) 11. Reca perciò
mozione dell’istruzione pubblica.
il marchio lateranense il periodo cruciale che ha traghettato il territorio dello Stivale verso la meta dell’unificazione territoriale
e politica. A qualificare l’attività didattica della fabbrica teresiana, in questa fase incipitaria, è l’impostazione di tipo laicistico, scevra dai retaggi moralistici e storico-culturali
della formazione clericale. Ed è rimarchevole constatare che questa lezione di laicismo,
perfettamente consona con i fondamenti culturali di uno stato liberale, venga additata ai
discenti del Sylos proprio quando a dirigere l’istituzione è il lateranense canonico Luigi
Della Noce e a salire in cattedra è il sacerdote Domenico Urbano. In questa svolta tutta
10
Nato a Bitonto nel novembre 1767, Carmine Sylos si trasferisce ben presto a Napoli, dove completa il corso di studi e svolge brillantemente la professione della avvocatura. Nominato Cavaliere Gerosolimitano dell’Ordine di Malta e collaboratore della Biblioteca Cattolica di Napoli, continua a
coltivare un profondo amore per la terra natia per farvi ritorno nel 1827. Comincia, a questo punto, la
stagione politica che lo vede Presidente del Consiglio Provinciale per tre mandati e Sindaco di Bitonto:
quest’ultimo incarico lo impegna su più fronti, quali la riorganizzazione degli spazi rurali, l’economia
olivicola, la sicurezza e l’igiene. Con lui nasce l’istruzione pubblica, in quanto destina le strutture del
complesso conventuale carmelitano all’Ordine Lateranense con l’obbligo che i Canonici vi istituiscano
un convitto e una scuola pubblica. Si rinvia a L. Sylos, Appunti su Carmine Sylos, in A.D.B., Fondo Martucci-Zecca, vol. XXV, anno 1893, Juvenilia, anno I, n. 2, 1893, 3.
11
A.D.B., Fondo Martucci-Zecca, vol. XIII, Istituto Carmine Sylos in Bitonto.
52
CARMELA MINENNA
‘laica’ della settecentesca sede conventuale si colgono le premesse di un progetto politico
che Bitonto coltiva a beneficio di una identità nazionale non ancora costituitasi.
Questa transizione epocale è legata quindi al nome di Luigi Della Noce, canonico lateranense e direttore del Collegio bitontino a partire dal 1827. Nato nel 1808 a Rovescala,
piccolo centro in provincia di Pavia, da Giovanni e Rosa Prataioli, Della Noce deve proprio all’abito lateranense l’impegnativa trasferta bitontina che lo chiama a una fortunata
missione politico-culturale a Bitonto presso la chiesa di S. Teresa. E proprio in queste
mura, impregnate di valori umani e cristiani, viene intessuta la trama di un progetto civile e politico che intreccia i fili della efficacia didattica e di un precoce patriottismo. In
tempi non ancora pienamente maturi per una conquista territoriale e politica, in cui la parola Italia è appena accarezzata, il convitto lateranense di Bitonto assurge a fucina di Uomini e di Italiani.
Durante la direzione di Della Noce, il convitto si trasforma in salotto culturale della
cospirazione che, animato da giovani e validi collaboratori, quali Eusebio Reali, Pietro
Cristini, Nicola Calamita, Giuseppe Comes e Domenico Urbano, indirizza le giovani generazioni ai doveri verso la patria e al sentimento della nazionale rivendicazione. Veicolo di questo progetto culturale, le parole incalzanti del lateranense indirizzate ai docenti
in assise collegiale: «Insegnate la storia, non sulle tracce dei tisici manualetti ma con i libri
fortemente concepiti e italianamente scritti. La Italianità sia in cima ai vostri pensieri;
cercatela dovunque, con insistenza, con pazienza, con passione, insinuatene il sentimento
nei giovani, combattete per essa, cospirate per essa nella scuola. E sia cospirazione serena
ed amorosa la vostra, e sia intesa a preparare liberi ordinamenti e costumi civili alla patria, non odi e vendette» 12.
Chiari palpiti di italianità si percepiscono persino lungo i corridoi e tra le camerate del
convitto, quando molti libri censurati, di chiara ispirazione patriottica, e appositamente
privati di frontespizio, passavano di mano in mano tra i convittori bitontini; e dietro le
quinte di questo traffico illecito di letture patriottiche era proprio quel Della Noce, considerato, assieme a Vito Fornari e Giuseppe Massari, tra i primissimi giobertiani di Puglia. È sempre lui, del resto, che nel 1848 prende parte attiva al Plebiscito di Piacenza;
che nel giugno dello stesso anno viene eletto Vicepresidente del Circolo Politico Nazionale, che fonda il giornale espressione del Circolo La Democrazia Italiana. La testimonianza diretta più attendibile, quanto rara, che ancora sopravviva nel patrimonio
archivistico a riecheggiare lo spirito giobertiano del canonico Della Noce riporta in calce
la firma di alcuni discenti del Liceo Sylos che, il 4 marzo 1875, sottoscrivono una nota
di encomio a favore del loro preside, destinatario di calunnie ingiuriose e infamanti non
meglio specificate. Nelle loro parole si delinea il profilo di un educatore, di un patriota,
di un giobertiano già presente alla consapevolezza dei suoi allievi che di lui così dicono:
«imparò ai nostri padri ad amar l’Italia, ed informò gli animi loro a quelle virtù civili che
formano la vita vera e la grandezza di un popolo […]; fu l’amicissimo del Gioberti, del
Giordani, del Mariani e di tanti altri illustri di cui si onora l’Italia» 13.
12
L. Sylos, Vita di Luigi Della Noce 1808-1885, Bitonto 1893, 7.
Biblioteca Comunale Bitonto (da ora in poi B.C.B.), Rog. Op. A15/34, 30 Al chiarissimo professore Luigi della Noce Direttore dell’Istituto classico tecnico di Bitonto: sempre a Bitonto l’energica
azione patriottica del coraggioso Canonico viene coronata nel 1862 dall’istituzione di una Sala di Lettura, il cosiddetto Gabinetto, frequentato dai liberali del paese, sia preti sia borghesi.
13
L’ISTRUZIONE PUBBLICA E IL MOVIMENTO RISORGIMENTALE
53
Pur logisticamente lontana dai caffè torinesi e dai salotti milanesi che hanno rinfocolato la comune aspirazione all’unità nazionale, Bitonto non risulta condannata alla
marginalità culturale e ideologica tipica delle periferie. La incoraggiante energia giobertiana è vicariata a Bitonto proprio dal canonico Della Noce, che, vissuto nella cittadina pugliese dal 1827 al 1847 per ritornarvi dopo il 1860, assurge a gancio di una
martellante propaganda politica lanciata dalle colonne de La Democrazia Italiana, dove
pure si legge: «Nulla è possibile finché in Italia sia gente straniera; e perciò chiediamo
armamento immediato, chiediamo un esercito grande e degno dell’antica fama dei popoli subalpini» 14.
I programmi didattici: le scelte coraggiose di Domenico Urbano
Fattore di comprovata qualificazione del processo educativo è sicuramente l’autonomia scolastica che, già negli ultimi decenni dell’Ottocento, garantisce ad alcuni Licei
ampi margini di libertà sia nella definizione del piano dell’offerta formativa che sul versante didattico e metodologico. Entro questi margini si applicano scelte di indirizzo orientate anche alla definizione di una coscienza nazionale.
La possibilità di garantire un piano di studi flessibile trova pronta accoglienza nel
Liceo-Ginnasio municipale di Bitonto che, almeno fino al 1865, durante la fase di reggenza lateranense può adottare un piano formativo solo parzialmente rispondente ai Regolamenti previsti per gli Istituti Nazionali. Viene elaborato perciò un piano di studi
finalizzato ad assicurare la globalità della formazione attraverso un dosaggio di saperi
umanistici e di saperi tecnico-scientifici: compare quindi in testa alle discipline l’insegnamento di ‘doveri dell’uomo e del cittadino’, coniugato alla terna umanistica italianolatino-greco e a discipline di taglio scientifico.
Ampi spazi di approfondimento sono riservati alla storia. Nelle scuole, soprattutto nei
Licei, vengono reinterpretati il ruolo e il significato della disciplina in una prospettiva di
formazione dell’identità nazionale: senza ricorrere a toni agiografici, si propone una particolareggiata analisi del periodo che conduce all’Italia Nazionale, al fine di infondere il
senso della complessità del processo storico 15.
L’insegnamento sistematico della storia d’Italia a Bitonto viene introdotto sin dal 1843
e ad assumerne l’impegno, rischioso, quanto gradito, sarebbe stato Domenico Urbano
(fig. 2) 16, l’uomo del passaggio, colui che, raccogliendo l’eredità culturale e morale di
Luigi Della Noce, traduce in quotidiana prassi didattica gli indirizzi ideologici già seminati dal valente preside nelle aule e nei corridoi della fabbrica teresiana.
Nato a Bitonto nel 1819, anch’egli come l’illustre suo predecessore e maestro, indossa
l’abito sacerdotale nella convinzione di farne efficace veicolo di valori civili e cristiani
piuttosto che baluardo della propria umana debolezza o corazza di un soldato mercena14
Sylos, Vita ... cit., 14.
Sulle disposizioni ministeriali intorno all’insegnamento della storia nelle scuole elementari, normali e secondarie si veda A. Ascenzi, Tra educazione etico-civile e costruzione dell’identità nazionale,
Milano 2004.
16
Su questa figura di docente-patriota, F. Saponieri, Domenico Urbano, insigne educatore, in Studi
Bitontini 44, 1986, 88-91.
15
54
CARMELA MINENNA
rio prestato alla causa borbonica. E così
proprio quando dalla penna di Alessandro Manzoni prendeva corpo la camaleontica e riuscitissima figura di don
Abbondio, al nostro Domenico Urbano
l’identità di vaso di terracotta tra vasi di
ferro dovette risultare fin troppo stretta,
tanto da scegliere per sé una vita di rinunce e di umiliazioni piuttosto che di
compromessi.
Coinvolto nel clima infervorato delle
giornate quarantottine, Urbano si vede
costretto ad emigrare dal suo paese natale, ma, tornato a Bitonto, gli viene affidata la cattedra di Lettere Italiane e
Latine, nonché l’ufficio di Direttore delle
Scuole presso il Seminario Diocesano a
cui proprio il 2 febbraio 1854 il neoeletto
vescovo Materozzi, filoborbonico, decide
di riaprire i battenti. Evidentemente, però,
nel piano di rilancio del conservatorismo
politico e culturale, il lateranense Urbano
torna a vestire i panni di un personaggio
2. - Domenico Urbano (1819-1882). Sacerdote libescomodo; quando perciò «il vecchio sirale, animato da spirito democratico, fu assertore
stema di studi tentò di rialzare il capo avdegli ideali patrii nel Collegio Lateranense di Bitonto, nella duplice veste di docente e, per il quinvalendosi di arti tenebrose e dell’incubo
quennio 1865-1870, di rettore.
politico, cominciò a creare ostacoli al direttore degli studi e combatterne il metodo; […] non potendo, dunque, il suo carattere trasgredire col falso, abbandonava la
direzione degli studi […] deplorandone la cecità imperdonabile che sacrificava le giovani menti alla ostinatezza delle tenebre e al livore dell’ignoranza». Di lui, infatti, il suo
stesso maestro Della Noce disse che «nel tempo dei sospetti, delle ire, dei pericoli soffrì
calunnie e persecuzioni, vagheggiando giorni di calma e di savia libertà» 17. E sempre di
lui si dirà che «non apparteneva a quel clero che non benedì il risorgimento di una nazione,
che non unì i suoi inni di grazia alle acclamazioni di un popolo risorto [….]; appartenne
a quella nobile schiera di liberali, che tanto ed in modi sì diversi contribuirono alla redenzione dell’Italia» 18.
Le mura seminariali non erano evidentemente l’ambiente più congeniale per un sacerdote, giobertiano di formazione e liberale per convinzione. Un contesto laico sarebbe
stato più coerente con gli ideali professati da questa figura anticonformista. Non rimane
perciò che il Sylos, per i cui allievi il liberale Urbano non elabora una programmazione
17
L. Della Noce, In memoria di Domenico Urbano, Palermo 1911, 40. Per la citazione precedente si
rinvia a G. Valente, in verbis.
18
D. Urbano, In morte di Alessandro Manzoni in Bitonto, Bitonto 1873, 7.
L’ISTRUZIONE PUBBLICA E IL MOVIMENTO RISORGIMENTALE
55
ridotta alla condizione di fossile didattico, ma un progetto culturale e formativo, coraggiosamente innovativo e pienamente inquadrato nel clima di fermento ideologico maturato a metà del XIX secolo.
Il campo della sperimentazione didattica si apre a due discipline in particolare: italiano
e storia. Con riferimento all’italiano, quanto mai vario e sempre politicamente impegnato
si presenta il campionario delle letture che hanno alimentato la formazione di una coscienza nazionale. In testa alle preferenze, il sacerdote torinese, filosofo e scrittore, Vincenzo Gioberti, caposcuola del neoguelfismo ed energico promotore dell’indipendenza
italiana: di lui si leggono il Primato d’Italia e Del Rinnovamento civile degli Italiani. Ma
si sfogliano anche, con sagace curiosità e spirito patriottico, le pagine di Silvio Pellico,
cantore delle Mie Prigioni, del filologo milanese Giovanni Gherardini e del più noto
poeta, anch’egli milanese, Giovanni Berchet. Non deve destare meraviglia, ma solo convinta ammirazione, la precoce lettura del Manzoni politico che i lungimiranti docenti del
Liceo Sylos colgono ne I Promessi Sposi a pochi anni dalla sua pubblicazione 19. Proprio
Urbano asserisce infatti di cogliere nel romanzo manzoniano non già «una semplice istoria di due promessi sposi […] ma tutta un’epopea, l’epopea dell’età moderna, l’epopea
del popolo, del quale sublima ed eterna i dolori, la virtù, le speranze […] L’arte dunque
del Manzoni, originale nel Romanzo, quanto nell’Iliade e nella Divina Commedia, è […]
quasi la genesi universale del nuovo pensiero in Italia in quanto i germi delle lettere e della
vita nuova si trovano in essi essenzialmente compresi» 20. Di ogni testo viene curata non
solo l’analisi contenutistica, ma anche la forma espositiva, in ottemperanza ad alcune direttive emanate nei primi anni del postunitario che, pur nella salvaguardia del latino e del
greco, mirano a incentivare lo studio dell’italiano; infatti «la lingua che si riattacca alla
nostra Nazionalità, non è stata apprezzata per quanto si conviene e deve tanto più esserne
promosso lo studio […] Esso è di massima importanza nei tempi in cui viviamo; chè essendo già rotte le barriere, ravvicinate le distanze, i popoli legati, vieppiù per interessi materiali e morali sapessero intendersi tra di loro» 21.
Le scelte didattiche dell’istituzione scolastica bitontina si presentano perciò quanto
mai precoci e orientate verso un duplice fine di educazione civile e di formazione politica; «più che con la nuda narrativa di fatti storici, [scil. Urbano] infiammava i giovani
cuori ad amare la patria, unendo a commento del testo la lettura di brani tratti da quei
sommi scrittori antichi e moderni, il cui delitto era l’amore dell’Italia e perciò severamente banditi dalla scuola, tanto da dichiararsi reo di Stato con pene severissime chiunque fosse ritrovato possederli; così educava ai sensi generosi le novelle generazioni e nel
silenzio della scuola dava prova di amare sinceramente la patria» 22.
A subire significativi cambiamenti di rotta non è solo il programma di italiano, ma
19
D. Urbano, Scritti scelti ad uso delle scuole, Milano 1917, 34-35.
Urbano, In morte di Alessandro Manzoni … cit., 118. Le parole di Urbano fanno eco all’iscrizione
che il suo maestro Della Noce formula per la morte del romanziere in questi termini: «In giorni di oppressione e di terrore / levò una insegna / vendicatrice della sua patria oltraggiata / redentrice della sua
patria colpevole».
21
A.D.B., Fondo Martucci-Zecca, vol. III, fasc. 27, Alcune osservazioni su la Istruzione Pubblica in
Italia, Catania 1864, 5.
22
G. Urbano, Scritti su Domenico Urbano raccolti e pubblicati nel 1° centenario della sua nascita
(1819-1919), Milano 1919, 18.
20
56
CARMELA MINENNA
anche quello di storia che viene potenziato da un approfondimento della storia d’Italia
e da un percorso didattico dedicato al processo di indipendenza delle Americhe. In seno
alla istituzione scolastica, classicista per tradizione, ma progressista per scelte didattiche, si denuncia la forte criticità di un programma interamente catalizzato dalla storia
delle civiltà classiche: «tutto si riduce a Greci ed a Romani, e non più oltre, e nulla dell’Egitto, dell’America ed altri popoli» 23. Questa è la denuncia di Domenico Urbano,
nella convinzione che lo studio della storia sia un cospirare per l’Italia nella scuola, investita della delicata missione di preparare liberi ordinamenti, costumi civili e cittadini
rispettosi della patria. «Se v’ha cosa, che più strettamente si attenga a bennato cittadino e che più decorosa renda l’educazione di un giovane, a grandi cose sortito, essa è
certamente lo studio della storia della sua patria […] E per patria io intendo tutta Italia
a misurarla dalle Alpi fino al capo Lilibeo, naturalmente una e indivisibile per ragione
di confini, di religione, di lingua, di costumi, di comuni sciagure e di gloriose memorie» 24. La storia insegnata nella fabbrica teresiana non è quella evenemenziale di tradizione annalistica, ma la storia delle civiltà con una attenzione, degna delle più recenti
indicazioni programmatiche ministeriali, alle istituzioni, alla cultura, ai costumi di un
popolo. E all’inadeguatezza dei sussidi didattici si sopperisce mediante una ‘storia d’Italia’ manoscritta.
Persino l’insegnamento della religione viene piegato alle idee liberali nella convinzione che «bisogna da prima togliere di mente ai giovani tutte le idee di superstizione religiosa, ed anzi svegliarli ad un franco pensare e giusto di Dio […] che tutti siam fratelli,
e da natura creati ad eguaglianza ed a reciprocanza di affetti» 25: non dunque una religione bigotta, ma una disciplina laica che gli stessi Della Noce e Urbano si impegnano a
sintetizzare in una pubblicazione monografica di ‘storia sacra’.
Si riconosce perciò al lateranense Domenico Urbano la scelta delicata di un cammino
in netta collisione con la chiesa locale filoborbonica, perché «italiano fu il suo insegnamento, sentimenti italiani inculcò nei giovani, italiani rese i suoi scolari, e con questi cospirò amorosamente per preparare l’Italia a scuotere il giogo straniero e l’oppressione
politica e papale» 26.
Al Liceo Sylos viene elaborato infatti un percorso didattico spiccatamente orientato
alla autonomia di pensiero nella prospettiva di una rivoluzione culturale e ideologica,
protesa a fare della scuola un laboratorio della coscienza civica e una agenzia della formazione piuttosto che dell’informazione.
L’impegno del Liceo nella formazione dei cittadini d’Italia: l’impresa di Vincenzo Rogadeo
Non solo valori e ideali. Anche azione e concretezza di operato. Il contributo della scuola al processo di unificazione nazionale non si esaurisce nella pur efficacissima ventata
di idealità patrie promosse dall’anticonformistica azione didattica di Della Noce e di Ur23
Urbano, Scritti scelti ... cit., 34.
Ibidem.
25
Idem, 52.
26
V. Lozito, Domenico Urbano. La vita, le opere, Livorno 1922, 30.
24
L’ISTRUZIONE PUBBLICA E IL MOVIMENTO RISORGIMENTALE
57
bano, ma trova perfezionamento nell’apporto operativo assicurato all’impresa garibaldina da Vincenzo Rogadeo.
Nato a Bitonto nell’agosto del 1834 da Eustachio, cavaliere del Regno delle Due Sicilie nel 1848, e da Chiara De Lerma dei duchi di Castelmezzano, assurge ben presto,
nell’immaginario collettivo locale, provinciale e nazionale, a eroe del Risorgimento Italiano. E della sua vicenda biografica non è secondario lumeggiare la proficua formazione, consumata anch’essa entro le mura del convento carmelitano. Perspicace fruitore della provocatoria azione didattica impostata dalla istituzione bitontina, Rogadeo porta a compimento una missione politico-sociale che approda sul campo di battaglia garibaldino. Freschissimo di studi presso il Liceo Sylos e infervorato dalle alte idealità patrie che Della Noce promuoveva nella gioventù locale, a soli venti anni non esita a scegliere la strada della cospirazione. E infatti convinto sostenitore della fede mazziniana,
«giovanissimo ancora, fece parte di comitati politici segreti che preparar dovevano la
rivoluzione nelle provincie napoletane per liberarle dal giogo dei Borboni» 27. Con lui
la formazione patriottica ispirata a una unità politica e territoriale travalica le porte del
Liceo Sylos e le mura di Bitonto per proiettarsi sul territorio nazionale. Rogadeo infatti
mette il braccio di Bitonto al servizio della causa meridionale quando, dopo lo sbarco
garibaldino e la decadenza borbonica in Sicilia, viene proclamato il governo provvisorio prima ad Altamura e poi a Bari. Di qui la sua nomina voluta dallo stesso Garibaldi
a Governatore della Provincia: è il 1860 ed ha poco più di venticinque anni, ma anche
la tempra giusta per arginare eventuali fenomeni di riviviscenza borbonica. E il rischio
di una rivalsa dell’elemento reazionario e borbonico sopravvive ancora in ambiente ecclesiastico, dove persiste la palese ostilità «dei preti, che attaccati all’antico regime, schizzavano veleno contro i rivoluzionari giacobini, e sfruttando la loro influenza sulle plebi, volevano aizzarle contro i patrioti, nella speranza di un prossimo ritorno del Borbone» 28.
Si rivela perciò risolutiva la nomina di Rogadeo che si adopera ad uniformare in senso liberale l’amministrazione della provincia barese proprio in concomitanza con la nomina episcopale su Bari del vescovo Francesco Pedicini, palese avversario dei liberali e dei garibaldini.
Altrettanto risolutivo e propositivo si rivela l’intervento del giovane bitontino in seno
all’adunanza provinciale tenuta in Bari, il 20 gennaio 1861, per la designazione dei candidati al Grande Parlamento Nazionale: trapela dalle sue parole una nitida fotografia dell’Italia, a cui urge assicurare «il trionfo dopo la vittoria, la sua indipendenza esterna e
mettere le basi del suo organamento interno» 29.
A distanza di trenta anni, su proposta di Francesco Crispi, viene nominato Senatore del
Regno e, dopo essere stato tra gli audaci dodici che votano contro l’arresto di Garibaldi
ad Aspromonte, in occasione dell’anniversario cinquantenario del plebiscito, giunge postumo il meritato riconoscimento degli organi di governo nazionali che, in un telegramma
indirizzato al Sindaco di Bitonto, così si esprimono sul valoroso patriota bitontino: «Profondamente commosso generoso pensiero, risaluto con voi sacra Aurora nostra riscatto
rievocando memoria valorosa schiera bitontina indimenticabile figura Vincenzo Roga27
B.C.B., Rog. Op. A15/34, In memoria del Comm. Vincenzo Rogadeo, patrizio bitontino.
S. La Sorsa, La vita di Bari durante il secolo XIX, Cassano Murge 1987, 413.
29
B.C.B., Rog. Op. B 10 (3), Adunanza Provinciale tenuta in Bari il 20 gennaio 1861, 4.
28
58
CARMELA MINENNA
deo rivivendo palpito
giovanile nostra fede comune» 30 (fig. 3). Non si
calcolano poi le numerose attestazioni di merito giunte per la morte
del noto patriota bitontino 31, tutte sintetizzate
dall’avv. Antonio SylosCalò: «Si dedicò alla politica quando in Italia
cominciava a spandersi
da un capo all’altro il
grido della rivolta contro la tirannide […] Nel
1860 egli si trovò a capo
di quelli che proclama3. - Telegramma ufficiale, inviato dagli organi istituzionali nazionali al
rono in Altamura la desindaco di Bitonto in occasione dell’anniversario cinquantenario del
Plebiscito: il documento rende merito alla memoria di Vincenzo Rogacadenza dei Borboni e
deo, artefice dell’impronta laica conferita all’istruzione pubblica di Biun governo provvisorio
tonto nel periodo postunitario (da A.S.C.B. Postunitario, b. 179, cat.
[…] e cioè toccò a lui
VI, fasc. 5, cl. 3: Festa cinquantenaria del Plebiscito in Bitonto).
fare lo stesso nel suo
paese […] Menò felicemente a fine, nella provincia da lui dipendente, il plebiscito che
proclamava Vittorio Emanuele e i suoi discendenti Re D’Italia» 32.
A beneficiare della spiccata personalità di Rogadeo è sempre quel Liceo Sylos a cui
il patriota deve la sua formazione liberale. Nominato infatti Presidente della più alta e
prestigiosa istituzione culturale bitontina, il Senatore del Regno torna ad investire nelle
ricadute educative di una efficace azione didattica improntata alla promozione di alti
ideali piuttosto che allo sterile nozionismo.
Ambiziose, forse utopistiche, le aspirazioni che il Liceo Sylos coltiva attraverso l’organizzazione strutturale e la pianificazione degli studi durante l’era Rogadeo. In un clima
ancora troppo acerbo di promesse, si confida nelle potenzialità del Meridione in un’ottica
europea. Prende corpo, in altre parole, l’audace proposito di inquadrare l’Italia in un contesto sopranazionale nella convinzione che l’ingresso di Vittorio Emanuele in Napoli con
il titolo di Re d’Italia schiuda la via al progresso della nascente Europa. E nell’apostrofe
rivolta agli abitanti di Bari proprio Rogadeo così continua: «Esultiamo della santa ebbrezza della libertà; esultiamo del trionfo ottenuto nella battaglia suprema che con tanti
30
A.S.C.B., Postunitario, b. 179, cat. VI, fasc. 5, cl. 3: Festa cinquantenaria del Plebiscito in Bitonto.
Tra le altre, si segnala quella dell’altamurano Ottavio Serena che, durante la commemorazione in
Camera e Senato, lo ricorda tra coloro che «prepararono e compirono l’unione di tutte le varie province
d’Italia alla monarchia di Savoia […] accoppiando mirabilmente il culto della grande patria italiana
colla più amorevole e operosa sollecitudine per il progresso economico e sociale del suo piccolo borgo
natio e della sua Provincia»: B.C.B., Sez. Pugl. A 1/2.
32
B.C.B., Sez. Pugl. A 1 (2). Il testo di Sylos-Calò è trascritto sulla pergamena custodita in apposita
cassettina depositata nella bara.
31
L’ISTRUZIONE PUBBLICA E IL MOVIMENTO RISORGIMENTALE
59
sacrifici abbiam combattuto; tripudiamo ancor noi abitatori di questa più eletta parte d’Italia, ché mercè la nostra concordia ed abnegazione abbiamo resa possibile e compiuta la
unità della Patria» 33. Egli tuttavia si illude di vedere in Puglia e nella sua Terra del Sud
la filigrana del proletariato inglese, già proiettato verso la svolta industriale che, in Italia,
viene procrastinata di circa cento anni.
Diverse, rispetto a quelle adottate da Della Noce e da Urbano, le modalità di intervento
esperite dal Senatore del Regno nel versante culturale. Il ruolo istituzionale che lo vide
dirigere la cabina di regia dell’Istituto scolastico per trentacinque anni gli garantì infatti
efficaci strumenti di intervento sul piano pedagogico attraverso un monitoraggio costante,
ma anche severo, dell’azione didattica 34. Il Rogadeo non risparmia parole di ammonimento nei confronti del corpo docente la cui criticità viene ben inquadrata in una fuorviante interpretazione del processo educativo, dal taglio prevalentemente informativo
piuttosto che formativo. Con sorprendente anticipo rispetto agli attuali orientamenti pedagogici il Liceo Sylos scopre la centralità del discente nel processo di insegnamento-apprendimento nella consapevolezza che «non ha un grande valore l’abilità e la memoria
dell’alunno nel rispondere ad un esaminatore: occorre, e questo sarà il maggiore merito
dell’insegnante, eccitare nel giovane la curiosità, e la iniziativa, cui va connesso l’amore
allo studio» 35. Ne riviene l’alto grado di responsabilità dei docenti contro cui Rogadeo non
esita a puntare il dito: «Molto aspetta la Patria da voi, o Insegnanti! […] Elevare i caratteri, imprimere quella fede ne’ grandi ideali, che duole dirlo, è scarsa e vacillante fra noi:
educare la crescente generazione al culto della verità, alla operosità, all’ardire, alla costanza, è supremo bisogno di un paese» 36. Ed ancora: «la soluzione del gran problema che
interessa il presente e l’avvenire d’Italia in gran parte dipende da voi, cooperando voi vigorosamente a riparare i danni di una educazione viziata, triste eredità d’ignoranza e di
servitù politica» 37.
Per intuizione di Rogadeo il Liceo di Bitonto precocemente inaugura, a fine Ottocento, la riflessione sulla efficacia di una formazione globale dell’individuo che solo attraverso la sintesi di istruzione classica e tecnica concorre alla promozione
dell’individuo in un’ottica locale e nazionale 38. «Una forte coscienza nazionale – ribadisce il Presidente in un critico ripensamento sul trentennio 1860-1890 – non può
33
Ivi, 423.
La valorizzazione dell’azione didattica viene assicurata non solo attraverso un piano di strategie
pedagogiche, ma anche sul piano pratico della politica gestionale. Dall’elogio funebre pronunciato nell’Istituto si evince infatti che «dai Lateranensi [scil. Rogadeo] non ricevè che nude muraglie, ma queste nude muraglie adornò di ogni suppellettile, dotò di rendita sufficiente allo scopo, seppe insomma dar
loro vita e vita prosperosa»: A.D.B., fondo Martucci-Zecca, vol. XXXI, a. 1899, Discorso del prof. Clemente Valacca, docente di lettere latine e greche nel liceo, 5 marzo 1899.
35
B.C.B., Rog. Op. A 8 (3), Prolusione del Senatore Vincenzo Rogadeo, Presidente della Commissione Amministrativa dell’Istituto pareggiato Carmine Sylos di Bitonto nella festa scolastica della premiazione degli alunni 18 dicembre 1892, 11-12.
36
A.D.B., Fondo Martucci, vol. XXVI, anno 1894, cc. vv.: Premiazione degli alunni anno scolastico
1892/1893, pp. XXII-XXIII.
37
B.C.B., Rog. Op. A 9 (1), Discorso del Senatore Vincenzo Rogadeo Presidente della Commissione
Amministrativa e di vigilanza nella premiazione agli alunni dell’anno scolastico 1892 /1893, 12.
38
B.C.B., Prolusione del Senatore Vincenzo Rogadeo nella festa scolastica della premiazione degli
alunni 18 dicembre 1892, 12-13.
34
60
CARMELA MINENNA
altrimenti formarsi nei giovani, se non con quella cultura, che ad essi è apprestata nei
Ginnasi e nei Licei: la quale si propone di sviluppare tutte le facoltà dello spirito, di elevarlo e di ingentilirlo con lo studio dei capolavori dell’antichità e di infondere nei giovani petti i sentimenti del diritto e del dovere, e di tutte quelle virtù che nobilitano la
natura umana» 39.
All’epilogo dunque di un secolo epocale per la storia d’Italia e d’Europa, si intuisce
la cogente responsabilità formativa delle istituzioni scolastiche nella prospettiva della
crescita culturale, sociale ed economica della patria e, nella convinzione che la marginalizzazione economica della Puglia e di tutto il Meridione sia l’effetto di una periferia culturale piuttosto che geografica, si concorre a sanare la devastante carenza di alfabetizzazione postunitaria attraverso una lotta senza quartiere all’ignoranza riconoscendo
alla scuola una funzione sociale e civile, perché «là dove si insegna ai nostri bambini il
primo credo politico, che vi è una patria e questa patria si chiama Italia […] sta la vita nazionale» 40.
Associazionismo e stampa periodica: una iniziativa culturale di docenti e discenti
Il movimento risorgimentale che approda alla formazione e al consolidamento di una
coscienza nazionale è, in definitiva, una operazione culturale, in quanto solo la capillare
diffusione dell’istruzione consente di abdicare al prono servilismo per costruire una autonomia di pensiero e di azione.
Il processo di acculturazione della neonata nazione non passa solo attraverso la promozione dell’istruzione scolastica. Nell’ultimo ventennio del XIX secolo, si delinea la necessità di costituire un laboratorio culturale finalizzato alla diffusione dell’istruzione in
tutte la classi del popolo, anche attraverso iniziative che trasmettano e facciano maturare
lo spirito di appartenenza.
Un valido supporto in tale prospettiva proviene dall’associazionismo e dalla stampa
periodica che, degli Istituti di istruzione superiore, sono una promanazione. Nella seconda metà dell’Ottocento, si assiste infatti all’esplosione del fenomeno associazionistico, ora di matrice politica, ora di matrice religiosa: fanno scuola peraltro i numerosi
circoli di natura partitica sorti nel clima del socialismo 41. Questa promozione associazionistica trova terreno fertile anche nel campo culturale: proprio in margine alle istituzioni scolastiche fioriscono non pochi circoli che nei docenti di istruzione superiore
39
Ivi, 10.
B.C.B., Vincenzo Rogadeo ai Socii della Sala di lettura di Bitonto, Bitonto giugno 1881, 10.
41
Il movimento associativo promosso dall’ondata socialista trova a Bitonto un terreno di straordinaria floridezza. Nell’ultimo decennio, quasi tutti per iniziativa del delegato Giovanni Ancona Martucci,
sorgono l’Associazione operaia ‘Luce e Libertà’ (1890-1891), il Circolo Popolare ‘Lavoro e Sapere’
(1892-1893), il Circolo di ‘Studi Sociali’ (1894), il Circolo Elettorale Socialista ‘C. Cafiero’ (18961898), il Circolo Socialista ‘Avanti’ (1899). Sulle società e circoli operai sorti a Bitonto nella seconda
metà dell’Ottocento si vedano B.C.B., Sez. Puglia, Op. B 12 (36) e C. Colella, Ancona-Martucci nel movimento operaio bitontino (1891-1900), Bari 1955. Sulla stessa linea si pongono le altrettanto numerose
confraternite laicali che, sulla spinta della Rerum Novarum di Leone XIII, incarnano un’alternativa di
matrice cattolica all’associazionismo socialista di fine Ottocento: C. Minenna, L’associazionismo ‘leonino’ di fine Ottocento a Bitonto, in Studi Bitontini 68, 1999, 159-176.
40
L’ISTRUZIONE PUBBLICA E IL MOVIMENTO RISORGIMENTALE
61
trovano convinti assertori. Si tratta, in genere, di punti di riferimento socio-politico, luoghi di comune sentire, animati dall’esigenza di divulgare la voce del popolo.
Anche Bitonto conosce un’espressione associazionistica del Liceo Classico. Trattasi
del Circolo Filologico ‘Della Noce’, intitolato al promotore del movimento risorgimentale e fondato da Giovanni Tria, docente di latino e greco presso il Sylos. Sull’onda degli
ideali positivisti che concorrono a fare dell’Italia una nazione in prospettiva europea, e
sulla scia di esperienze affini già operanti a livello nazionale, quali il ‘Circolo Filologico’
di Napoli e quello di Milano, nonché la ‘Sala Ginori’ di Firenze, nella cittadina pugliese
il circolo ‘Della Noce’ assume quale finalità prioritaria la diffusione delle arti, delle
scienze, della cultura. Parola chiave del programma statutario è infatti il sapere nella convinzione che «i Butuntinenses […] assetati di civiltà, per la passata ombra malefica di tenebrosa tirannide, si lanciarono sulla fonte del sapere e la gioventù […] fu compatta a
inalberare il vessillo della scienza e delle arti» 42.
Costituito prevalentemente da ex studenti del Liceo Sylos, il Circolo trovò la mente
ispiratrice in Giovanni Tria 43 che non solo lo fondò, ma ne fu anche presidente. Lo strumento di formazione delle coscienze giovanili fu la conferenza: pensato nella forma di un
salotto letterario, il Circolo assurge ben presto a spazio privilegiato dell’incontro e del
confronto per una utenza prevalentemente giovane affascinata dal rigore della forma,
della profondità dei contenuti e dell’eleganza della parola. Dopo l’originaria spinta propulsiva, il Circolo estingue la sua attività fino alla perdita totale di qualsiasi traccia. A
pesare su questo sviluppo dell’ente fu, con ragionevole probabilità, anche l’allontanamento del suo promotore Giovanni Tria, rimasto a Bitonto per un incarico triennale di docenza in latino e greco.
L’esperienza del Tria non fu comunque espressione di uno sterile e isolato sperimentalismo culturale, in quanto il percorso professionale condiviso con i colleghi del Liceo
di Bitonto creò le condizioni favorevoli per una propositiva gara di emulazione che vede
nel prof. Giovanni Colella 44 un brillante promotore culturale. Lo strumento di cui si avvale il giovanissimo professore, durante gli anni della sua docenza al Liceo Sylos, è la
stampa periodica che, a fine Ottocento, conosce una esponenziale proliferazione.
A fronte della crescita politica e organizzativa del movimento operaio e socialista,
42
D. Ambruosi, Savoia e Peucezia ovvero la splendida aurora del 14 marzo 1891, Bitonto 1891,
196.
43
Nato a Napoli il 15 gennaio 1867 da Eusebio e Anna Müller, dopo la laurea e l’abilitazione, conseguite sempre a Napoli, Giovanni Tria insegna latino e greco presso il Sylos negli anni scolastici
1888/1889, 1889/1890, 1890/1891: Archivio Liceo Classico C. Sylos, anno sc. 1890/1891, cc. vv. A documentare la sua profonda cultura di classicista sono le numerose pubblicazioni, tra cui un commento
all’Ippolito Coronato di Euripide, pubblicato a Napoli nel 1887 presso Domenico Marano Editore, e
una puntuale analisi della Farsalia di Lucano, edita a Trani dalla Tipografia Vecchi nel 1891 col titolo
Un poema repubblicano ai tempi di Nerone.
44
Nato a Bitetto da Carlo e Donata De Robertis nel 1867, Giovanni Colella frequenta da studente il
Liceo Classico di Bitonto e consegue la laurea in Filologia presso l’Istituto di Studi Superiori in Firenze: Archivio Liceo Classico C. Sylos, Stato Personale, anno sc. 1890/1891, cc. vv. Discepolo di Pasquale Villari e di Antonio Labriola, egli seppe infiammare il dibattito culturale di fine Ottocento con
una personale interpretazione della storia che lo vide contestare il concetto crociano di storia. Fu anche
politico impegnato sul fronte della lotta proletaria a favore di un ‘socialismo umanitario’ proprio durante
il quadriennio dal 1891 al 1894, che lo vide docente di latino e greco al Liceo Classico di Bitonto.
62
CARMELA MINENNA
anche l’attività editoriale si intensifica in termini di produzione attraverso la stampa di
giornali e periodici, laddove, solo qualche decennio prima, la sorveglianza ideologica
della polizia borbonica aveva soffocato qualsiasi iniziativa editoriale. Il mutato contesto
dell’ultimo quarantennio dell’Ottocento determina una intensificazione della stampa periodica, non solo quella di taglio politico 45, ma anche quella di divulgazione culturale.
Il Colella sa bene che «il movimento letterario si viene accentrando nelle riviste, nei
periodici e nelle pubblicazioni settimanali e quindicinali, che sono il vero indice misuratore della cultura moderna» 46. Intuisce infatti il potenziale comunicativo insito nella carta
stampata e ne fa veicolo di circolazione culturale e politica. Nel gennaio del 1893 fonda,
assumendone la direzione, il quindicinale Iuvenilia, un periodico di scienze, lettere ed
arti ispirato al motto Mens agitat molem. Tra i collaboratori e redattori Colella recluta intellettuali bitontini e non, gravitanti quasi tutti intorno alle mura carmelitane che ospitano
l’Istituto di istruzione superiore; tra gli altri si riconoscono Nicola Fano, Giovanni Abbatescianni, Luigi Sylos-Calò, Angelo Lella, Oronzo Rucci, Giuseppe Modugno e Giovanni Catucci. Il taglio del quindicinale si delinea con una certa chiarezza sin dai primi
numeri che ampio spazio dedicano al movimento letterario contemporaneo. Se ne propone
una lucida e oggettiva analisi che mai si abbandona a una edulcorata apologia della produzione letteraria, ma, con puntuale realismo, se ne lamenta la povertà di genere e di contenuti, nonché il ritardo rispetto alle letterature europee, soprattutto quelle francese,
inglese e tedesca. L’analisi lascia cogliere sul piano letterario una impennata della critica
e della prosa scientifica a discapito della produzione poetica e del romanzo, fenomeno che
il docente del Sylos riconduce a una matrice storico ideologica, in quanto, dopo lo slancio propulsivo dei grandi ideali risorgimentali in concomitanza con gli eventi politico
militari che concorrono a disegnare una nuova Italia e quindi una nuova Europa, il panorama valoriale sembra isterilirsi a tal punto da svuotare di contenuti la contemporanea
produzione delle lettere.
In definitiva il Colella reinterpreta la stagione culturale dell’Italia postunitaria alla
luce della parabola evolutiva che anche la letteratura latina vive nel passaggio dai torbidi,
ma vitali anni della crisi repubblicana alla pax restituta del primo periodo imperiale: con
gusto, a tratti, nostalgico, Colella rievoca la vivacità valoriale e culturale del periodo preunitario e riconosce ai suoi giorni «un periodo di crisi profonda, di transizione dolorosa,
incerta, tra i vecchi tempi e i nuovi» 47.
Un limite si riconosce ‘comunque’ al progetto editoriale della stampa periodica: quest’ultima, pur avendo un forte potenziale comunicativo, risente fortemente dei limiti imposti da una circolazione circoscritta ed elitaria. Lungi dall’essere un periodico popolare,
Juvenilia è una pubblicazione specialistica che accentua il carattere epidermico del fenomeno post-risorgimentale e radica la convinzione di una Italia per pochi, una Italia che,
45
M. Giorgio, La vita culturale a Bitonto nell’Ottocento: scuole, circoli, giornali, in F. Moretti, V.
Robles (a cura di), Cultura e società a Bitonto nell’Ottocento. Atti del Convegno Nazionale (Bitonto,
Palazzo di Città, 18-20 ottobre 2001), Bari 2003, 191-230, qui 222-230; Idem, La stampa periodica in
terra di Bari ed i tentativi fatti a Bitonto tra il 1861 e il 1881, in Studi Bitontini 21-22, 1977, 28-35.
46
A.D.B., Fondo Martucci-Zecca, vol. XXV, anno 1893: G. Colella, Il movimento letterario nel 1892,
in Juvenilia, anno I, n. 3, febbraio 1893, 3.
47
A.D.B., Fondo Martucci-Zecca, vol. XXV, anno 1893: G. Colella, Il movimento letterario nel 1892,
in Juvenilia anno I, n. 2, gennaio 1893, 1.
L’ISTRUZIONE PUBBLICA E IL MOVIMENTO RISORGIMENTALE
63
a distanza di tre decenni dal 1861, esiste solamente nelle coscienze di una fetta esigua
della popolazione. Di questo d’altronde fu ampiamente consapevole lo stesso Colella, a
cui non sfuggivano i disagi delle masse lavoratrici sia a livello locale che a livello nazionale. Non a caso, in un biennio di particolare intensità, contestualmente alla fatica culturale che lo vede dirigere il periodico Juvenilia, aderisce alla politica associazionistica
che nel 1892/1893 lo vuole al fianco del socialista Giovanni Ancona-Martucci a fondare
il Circolo Popolare ‘Lavoro e Sapere’.
Di chiara fede socialista, il prof. Colella vive i sette anni di docenza al Liceo Classico
di Bitonto all’insegna dell’impegno politico-sociale che lo proietta al di fuori dell’ente
scolastico, quale figura attiva e propositiva del movimento socialista di fine Ottocento.
Convinto della condizione periferica delle popolazioni del Sud, il docente riconosce proprio nelle regioni meridionali le potenzialità del riscatto sulla scia di eventi, consegnati
ormai alla storia, che trovano nelle popolazioni del meridione il più alto tributo al processo
di unificazione territoriale. La stagione risorgimentale si inaugura, nell’interpretazione
del Colella, il 25 luglio 1844 con il martirio dei fratelli Bandiera e in occasione del 47°
anniversario a lui spetta il discorso commemorativo 48. La vicenda dei martiri che fa eco
ai moti del 1837 a Catania, Siracusa e Cosenza, viene rievocata in termini di stringente
attualità «soprattutto nel mezzogiorno di Italia dove essi morirono col grido della libertà
e col nome d’Italia sulle labbra» 49. Sbarcati in Calabria per infiammare una sollevazione
popolare contro il dominio borbonico, gli eroi di Cosenza incappano nel traditore di turno
che li consegna al sacrificio in nome di una «Patria oppressa, lacera, dissanguata, calpestata, avvilita, asservita dallo straniero». Di fatto dunque il Colella dà voce alla corrente
antiborbonica che ravvisa nel governo dei re di Napoli, ormai decaduto dopo gli eventi
del 1861, una matrice tirannica e vede nella condanna a morte dei Bandiera un «vessillo
del patrio rinnovamento politico di queste nostre regioni, […] principio del patrio riscatto
[…] rivelazione di gloria del genio italiano, […] segno che il popolo italiano risorgeva
[…] dai sotterranei, dalle scuole, dalle piazze, dalle carceri e dai palchi di morte, dai
campi di battaglia» 50.
Gli orientamenti pedagogici e la politica scolastica del Liceo
Il ‘come’ insegnare non è aspetto secondario rispetto al ‘cosa’ insegnare. L’urgenza
della problematica pedagogica si delinea in tutta la sua attualità nell’ultimo ventennio
dell’Ottocento, quando, ormai sopito il fervore dei moti risorgimentali, tutte le istituzioni,
compresa la scuola, sono impegnate a costruire la nuova identità del Paese.
48
Superando l’ostruzionismo di alcune rappresentanze politiche, la Città di Bitonto commemora l’anniversario del martirio il 7 agosto 1891 a iniziativa di un Comitato composto da Michele De Capua,
Stefano Speranza, Domenico Binetti, Giovanni Ancona-Martucci, Antonio Sallustio. Anche in occasione del cinquantenario, nel 1894, il clima di forte tensione costringe a relegare l’evento commemorativo in una trattoria di periferia, dove sempre il Colella «ricordò il sacrificio di quei generosi e dei loro
compagni apportatori di una nuova luce di libertà e di giustizia fra le plebi meridionali»: B.C.B., Sez.
Pugl. Op. B 12 (36); G. Colella, Ancona Martucci nel movimento operaio bitontino, Bari 1955, 9.
49
A.D.B., Fondo Martucci-Zecca, vol. XXIII, 1891, cc. vv.
50
Ibidem.
64
CARMELA MINENNA
Ne sono consapevoli i docenti dell’Istituto Carmine Sylos a cui non sfugge il ruolo
di responsabilità che a loro compete, nella prospettiva di un progetto sociale di definizione di una identità collettiva. A dare voce a questa matura consapevolezza è il prof. Eurialo Baggiolini, docente di storia e geografia, che nel 1882 dà alle stampe per i tipi di
Gissi-Avellino un opuscolo monografico su L’educazione in Italia. La sua proposta pedagogica prende le mosse da una lucida analisi del contesto storico-politico-sociale dell’Italia nel ventennio immediatamente successivo alla unificazione territoriale. Se ne
ricava una fedele fotografia di una realtà dicotomica che, costretta a una netta separazione
tra settentrione e meridione, ha la sua cifra caratterizzante nella multietnicità. L’Italia infatti nella visione di Baggiolini, che intuitivamente precorre l’attuale identità europea,
sintetizza il marchio multietnico dell’Europa: «molte e svariate cause determinano una
certa discrepanza fra regione e regione, fra provincia e provincia, donde il principio unitario da tutti accettato, anzi idoleggiato come fondamento dell’italica grandezza, nel poi
della pratica non ha raggiunto ancora la necessaria solidità». Di qui la proposta pedagogica di un progetto educativo mai viziato dall’assolutismo, ma qualificato dal relativismo:
viene elaborato perciò, anche sulla scia della flessibilità già esperita da Della Noce e Urbano, un piano pedagogico fortemente contestualizzato nel periodo storico di riferimento
e calibrato sulle esigenze del soggetto educando. Il Baggiolini teorizza non la scuola del
dogmatismo assoluto e dei maestri convertiti in oracoli umani, ma la scuola della libertà
pedagogica. «Il giovane – egli spiega – completati gli studi, dovrebbe avere un’idea concreta dei suoi diritti e dei suoi doveri come uomo e come cittadino, conoscere la società
ed essere in grado di rendere utili la sua intelligenza e tutti i mezzi che la natura gli ha
dato» 51.
Le riflessioni pedagogiche del docente di storia e geografia fanno eco peraltro alle considerazioni espresse appena un anno prima dal prof. Nicola Fano che, in occasione della cerimonia di premiazione delle eccellenze, esprime l’opportunità di un capillare processo di
acculturazione finalizzato ad acquisire capacità argomentativa, autonomia di pensiero e spirito critico. Si ribadisce infatti che solo «quando avremo colla luce dell’istruzione fugate le
tenebre dell’ignoranza, assottigliato e distrutto il numero ancora assai grande degli analfabeti […] allora solamente la redenzione d’Italia potrà dirsi compiuta» 52.
Nella stessa direzione si orienta anche la politica organizzativa della Commissione
Amministrativa che tra fine Ottocento e inizi Novecento a Bitonto è presieduta da Giuseppe Laudisi. Bitontino di nascita, napoletano per formazione, anche il giurista 53 tra51
B.C.B., Op. Rog. B 51/2: E. Baggiolini, L’educazione in Italia, Bari 1882, 17 per le citazioni.
B.C.B., Op. Rog. 17/2: N. Fano, Discorso letto nella solenne premiazione delle scuole primarie e
secondarie classiche e tecniche di Bitonto, Bitonto 1881, 16.
53
Nato a Bitonto nel 1836 da Francesco e da Francesca Agera, Giuseppe Laudisi, dopo aver condotto
i primi studi a Bitonto, completa il ciclo di istruzione superiore laureandosi a Napoli in Giurisprudenza.
Membro del Comitato Nazionale presieduto da Camillo Caracciolo, marchese di Biella, su proposta del
Settembrini ricopre l’incarico di Ispettore di Circondario e, investito di tale funzione, nel 1861 presta il
«debito giuramento di fedeltà e di obbedienza al nostro adoratissimo sovrano Vittorio Emanuele, re
d’Italia»: A.S.C.B., Preunitario b 300, fasc. 4. Il suo incarico viene poi convertito in quello di Ispettore
provinciale della Pubblica Istruzione e, nel 1864, fu nominato provveditore agli studi prima a Bari, poi
a Siena, a Parma, ad Ancona e infine di nuovo a Bari, dove rimase per 34 anni. Nel 1895 e nel 1900 fu
eletto deputato al Parlamento dal collegio di Bitonto: D. A. De Capua, L’Ospedale di Bitonto nell’età
del Risorgimento, in Atti del II Congresso Italiano di storia ospitaliera, Torino 1961, 310.
52
L’ISTRUZIONE PUBBLICA E IL MOVIMENTO RISORGIMENTALE
65
smette alla cabina di regia del Liceo Sylos una indiscussa impronta liberale che lascia registrare significative ricadute nella formazione dei discenti. A questi ultimi è rivolto infatti l’indirizzo di saluto pronunciato in occasione della Cerimonia di premiazione delle
eccellenze del 1902/1903: «Or l’Italia c’è, è una, è libera, è indipendente; a voi, o giovani,
il farla grande, a voi che potete studiare e apprendere alla luce del sole» 54.
È trascorso un quarantennio dagli eventi che hanno unificato l’Italia, ma nei corridoi
della istituzione bitontina l’eco di quegli eventi e soprattutto lo spirito che li ha animati
non sono ancora sopiti. Ritorna pertanto nelle coscienze dei discenti la convinzione che,
lontana da interpretazioni sovversive, la cospirazione sia piuttosto atto d’amore a beneficio dell’unificazione territoriale. Una scuola quindi di cospirazione che, nella memoria
di scelte coraggiose, per l’anno 1903 propone la felice coincidenza tra la festa della Premiazione e la festa dello Statuto.
Il Liceo Classico si conferma così scuola laica dove si porta a perfezione il binomio
stato-istruzione, perché «è sacrosanto suo dovere – ossia dello Stato unitario – elevare a
dignità di popolo la massa incolta della società» 55.
«Per tal modo, un soffio di modernità e di italianità animava la vita intima del collegio. Sentitasene bisogno in Bari, povera di buoni istituti di educazione, onde fu un rapido
accrescersi del numero dei richiedenti che vi fossero accettati i loro figliuoli […]. I giovani vi stavano volentieri, e più volentieri ve li inviavano le loro famiglie: molti dei pugliesi che poscia nella vita pubblica e negli studi emersero per dottrina, per integrità di
carattere e per liberalità di sensi, vi ebbero la prima educazione» 56.
Conclusione
In definitiva, il Risorgimento non è una rivoluzione armata. È piuttosto una rivoluzione
delle coscienze. È promozione di ideali. È valorizzazione della cultura quale veicolo di
conquista di una virtus sapienziale che rende libero l’uomo, prima ancora che il cittadino. Questa libertà interiore proprio a Bitonto sembra precedere, e non di poco, la conquista della libertà territoriale e politica. Ne sia conferma, alla vigilia del plebiscito,
l’insediamento episcopale di mons. Materozzi, espressione di una politica borbonica, che,
negli auspici del Vaticano, era candidato a soffocare l’affermazione di ideali liberali, di
fatto già operanti in tutti gli strati della popolazione 57. Non a caso dietro l’invito dell’Intendente di Bari al trasferimento del vescovo a Napoli, nell’agosto 1860, non si può non
leggere l’intervento tempestivo e incisivo di una operativa intellighentia locale animata
54
A.D.B., Fondo Martucci-Zecca, Annuario dell’Istituto pareggiato Carmine Sylos per l’anno scolastico 1902/1903.
55
B.C.B., Rog. Op. B 57 (1), La funzione dello Stato nella società moderna. Lettere di Giuseppe
Laudisi ex deputato a Gaetano Baglio, provveditore agli studi di Bari, Bari 1920, 66.
56
Sylos, Vita ... cit., 9.
57
Per il ruolo del clero bitontino nella fase di elaborazione degli ideali liberali, V. Robles, La diocesi
di Bitonto verso e dopo l’Unità d’Italia: alcune considerazioni, in Moretti, Robles (a cura di), Cultura
e società ... cit., 157-168; S. Milillo, Vescovo, clero e popolo a Bitonto negli anni della Unità, in Studi
Bitontini 37-39, 1982-1983, 62-69.
66
CARMELA MINENNA
da ideali liberali, nonché la riprova storica che avvalora la felice intuizione di chi ha riconosciuto nel nostro Risorgimento, e in quello del Mezzogiorno, radici indigene piuttosto che le propaggini della Rivoluzione Francese 58.
Se a Bitonto si riconosce dunque un contributo al processo di unificazione nazionale,
questo prende avvio ‘anche’ entro le mura del Liceo Sylos che ha sperimentato una didattica controcorrente e una politica liberale. Questa proposta della fabbrica conventuale
è a significare il potere della cultura e della formazione umana non già come arma di
guerra, ma come strumento di pace e di edificazione civile e morale. E l’esclusività di un
coraggioso piano di studi, vanto di un meridione spesso accusato di un periferico meridionalismo lontano dalla politica attiva del centro-nord, risiede nella radicalità di una
scelta di vita ispirata all’amore patrio. Un amore che non si è mai esplicitato «nello sventolare le bandiere dalle finestre e nello scendere in piazza – musica in testa – a convociare
evviva ed abbasso», ma solo nello «sfidare ogni sorta di pericolo nella battaglia e non
chiedere mai nulla per sé, ma tutto a sacrificare per il paese nostro» 59.
Anche il costituirsi delle nazioni a unità politica non esaurisce l’operato dei popoli,
chiamati a una missione rivoluzionaria che si espleta nel conseguimento di un predominio civile e intellettuale. A Bitonto il programma didattico-educativo proposto dal Liceo
Sylos concorre a promuovere la precoce acquisizione di una coscienza nazionale attraverso la felice sinergia di ideologia politica e didattica. Può emergere, a questo punto, il
dubbio di una pericolosa coincidenza tra il progetto educativo e la propaganda politica,
coincidenza che rende sfumati i confini tra politica didattica e didattica politicizzata. La
perplessità, di legittima natura, ma di difficile soluzione, perde di incisività nella considerazione che la nazione è sintesi di individui e, come tale, riviene dalla sintesi di corpo
e spirito; e se l’identità di stirpe, l’unità di lingua e la condivisione di un suolo natio costituiscono il corpo, lo spirito è nella cultura intellettuale a cui si conformano abitudini,
aspirazioni, interessi, speranza. E se qualcuno non avesse coltivato la speranza di una italianità, anche attraverso una formazione didattico-educativa, come quella audace dell’intellighentia bitontina, forse l’anelito di italianità, pur tradotto in conquista politica,
sarebbe stato segnato da una avvilente epidermicità.
58
De Capua, L’Ospedale di Bitonto … cit., 299, ma anche 309-310: la monografia del De Capua è
ancora valida per una rassegna puntuale di tutti i Bitontini che, a vario titolo, hanno operato attivamente
nel clima risorgimentale, chi dal pulpito, chi nelle farmacie e nei salotti e caffè, chi nelle dimore estive
sulla marina di Santo Spirito.
59
Corriere delle Puglie, n. 33.
Studi Bitontini
DOCUMENTI E DISCUSSIONI
93-94, 2012, 67-85
Custode Silvio FIORIELLO, Anna MANGIATORDI
Coltura e cultura dell’olio d’oliva a Bitonto.
Per un progetto di ricerca e di valorizzazione
Nell’ambito di ‘BIOL 2012-XVII International Prize’ 1, tra i più importanti eventi internazionali annuali legati alla qualità ambientale dei prodotti alimentari (sostenuto da
Enti Territoriali e Istituzioni pubbliche e private pugliesi e patrocinato dalla Municipalità
di Andria), manifestazione dunque di ampio respiro e prestigio, che pone a confronto e
celebra i migliori olî extravergini biologici del mondo, è stata presentata la mostra didattica ELAION OLEVM OLIO. Coltura e cultura dell’olio d’oliva in età romana, promossa
dal G.A.L. ‘Le città di Castel del Monte’ s. c. a r. l. 2.
La mostra, accolta presso il chiostro di San Francesco di Andria, nei giorni 15 e 16
marzo 2012, si articola in 6 sezioni (§ 1. La coltivazione – § 2. La produzione – § 3. Il
commercio e il trasporto – § 4. L’alimentazione – § 5. L’illuminazione e la pittura – § 6.
La cosmesi e la farmacologia) dedicate alla produzione e commercializzazione dell’olio
in primis in età romana, nonché ai suoi molteplici impieghi nella società antica, noti dalle
fonti letterarie e testimoniati dalle evidenze archeologiche (tavv. I-VI) 3.
1
Istituito nel 1996 ad Andria, per iniziativa di C.I.Bi. s. c. a r. l.-Andria (Consorzio Italiano per il Biologico – www.premiobiol.it) e dello staff tecnico del ‘Programma Olio & Qualità’, il Premio BIOL, riservato agli olî di oliva extravergini biologici, rappresenta un punto di riferimento globale per tutto il
settore dell’olio di oliva. La società C.I.Bi., costituita nel 1991 da tecnici e operatori del settore e con
sede in Andria, opera da molti lustri per la promozione, diffusione e valorizzazione delle attività agricole e agroalimentari a forte connotazione ambientale, riservando particolare attenzione all’agricoltura
biologica – settore nel quale è azienda leader a livello regionale pugliese –, promuovendo importanti iniziative legate allo sviluppo locale e al marketing territoriale, conducendo – insieme ad altri Partner – importanti progetti educativi tesi alla diffusione dell’agricoltura biologica.
2
L’ideazione e il coordinamento si devono all’amico N. Curci e allo scrivente, che ha curato la definizione scientifica e organizzativa dell’evento assieme ad A. Mangiatordi e si è avvalso della collaborazione di Al.T.A.I.R. s.r.l.-Bari – spin-off dell’Università degli Studi di Bari Aldo Moro
(www.altairsrl.net) –, azienda specializzata in attività di studio, valorizzazione e gestione del patrimonio culturale. Gratitudine sincera va all’Amministrazione Comunale di Andria e alla Direzione del
G.A.L. ‘Le città di Castel del Monte’ s. c. a r. l., in particolare nelle persone rispettivamente del Sindaco,
avv. N. Giorgino, e del Direttore tecnico, avv. P. de Leonardis.
3
Per i temi affrontati e per le illustrazioni rielaborate nei pannelli didattici della mostra qui riproposti, si rimanda alla bibliografia di seguito indicata. Colgo l’occasione per ringraziare sia i Colleghi – R.
Conte (§§ 4-6),V. Giannico (§§ 2-3), D. Palmisano (§ 1) – che hanno collaborato alla redazione dei testi
e alla scelta iconografica sia l’équipe – P. Azzella, M. D. De Filippis, F. De Luca, impegnati sotto l’egida
di QUORUM ITALIA s.r.l.-Bari (www.quorumitalia.com) – che ha curato il progetto grafico, la realizzazione e l’allestimento dell’esposizione e della connessa ‘guida breve’ a stampa.
68
CUSTODE SILVIO FIORIELLO, ANNA MANGIATORDI
L’evento espositivo, che ha ottenuto un discreto successo di pubblico e riscosso l’interesse di Operatori culturali ed economici attivi sul territorio soprattutto del Nordbarese,
offre pertanto l’occasione per una riflessione sull’importanza dello studio della cultura e
coltura dell’ulivo e dell’olio, in generale, in Puglia – dove, secondo la tradizione diffusa
in area italica, il giovane pastore Apulus, incorso nell’ira di Apollo, per aver insultato le
Muse-Ninfe care alla divinità, ne fu tramutato in ulivo selvatico, pianta tenace e agra, di
cui le foglie resistenti e i frutti amari parevano forse consoni allo sgarbato comportamento
del temerario pastore 4 – e, in particolare, a Bitonto, città che vanta una lunga e solida tradizione nella coltivazione della ‘pianta di Athena’ e nella produzione di olio d’oliva 5.
Per un progetto di ricerca
La definizione del quadro culturale e socio-economico, nel quale si sono articolate le
modalità colturali, le evidenze materiali, nonché le forme ideali e tradizionali connesse a
produzione, commercializzazione e utilizzo dell’olio d’oliva, offre infatti un ulteriore
contributo all’analisi e alla ricostruzione dei paesaggi della Apulia centro-meridionale in
età antica, dei quali è possibile al momento delineare un quadro complesso e articolato
sulla base della documentazione archeologica e della cultura materiale 6.
L’adozione di un orientamento diagnostico interdisciplinare, integrato e comparato,
può consentire di affrontare il problema delle origini della domesticazione della pianta
d’ulivo nell’areale italiano – pugliese, in particolare – e di definire così il vincolo che
lega questa nobile produzione agricola al territorio e alle sue comunità, peraltro consolidato secondo un orizzonte esteso dall’evo antico al periodo contemporaneo.
Al pari delle tracce lasciate dalle attività antropiche nelle evidenze materiali, il paesaggio conserva infatti anche nella facies vegetazionale, mediante anche l’interazione
con i geositi, alcuni caratteri sviluppati nel corso della vicenda demografica di un ambito
insediativo: lo studio di microcontesti paleobotanici, riferibili al consumo di olive e di olio
d’oliva, nonché di persistenze di piante d’ulivo, rinselvatichite e plurisecolari, censiti
presso i siti archeologici selezionati attraverso le analisi del profilo genetico e di pari
passo con la storia dei siti, potrebbe dunque ricondurre ai relitti di antiche coltivazioni offrendo la possibilità di ripercorrere l’articolazione storica dell’olivicoltura e, con la caratterizzazione in termini di identità, di relazioni di similarità genetica e di pedigree, di
consolidare i legami con i territorî d’origine 7.
4
Ov. Met., XIV, 517-526: Speciale Giorgi 1993; Palmiotto 2011-2012.
D’Itollo 1984; Carrino, Salvemini 2003; Pice, Minenna 2008, 40-87, 131-134, 149-164, 166-181,
189-194, 203-225; Pice 2011; Palmiotto 2011-2012, con bibliografia; Saracino 2013, 9-12, 547-559.
6
Per l’arco cronologico compreso fra il III sec. a.C. e il VI sec. d.C., Fioriello 2003; Fioriello, Mangiatordi 2008; Mangiatordi 2008-2009; 2011, con bibliografia.
7
Esempi recenti di progetti di studio della cultura e coltura dell’olio d’oliva in età antica, per lo più
basati sulle evidenze archeologiche, in Brun 2003; 2004; 2004a; Profumi 2007; Warnock 2007; Olio
2009; Scardozzi 2010; Tassaux et alii 2010; Puglia 2011; Pecci et alii 2013. Di riferimento solido e articolato – anche per le analogie che possono riscontrarsi per l’ambito apulo – è il lavoro finalizzato per
la Toscana da Eleiva 2010 ed espresso nell’ambito di un ampio progetto promosso dall’Università degli
Studi di Siena, dall’Agenzia Regionale per lo Sviluppo e l’Innovazione in Agricoltura della Regione
Toscana, dalla Comunità Montana Amiata Senese-Val d’Orcia, da Olivicoltori Toscani Associati. Peraltro
in questo settore di approfondimento scientifico, grande importanza stanno assumendo le indagini pa5
COLTURA E CULTURA DELL’OLIO D’OLIVA A BITONTO
69
L’approccio ‘globale’ al datum storico consentirebbe l’individuazione dei caratteri insediativi e strutturali dei poli demici – urbani e rurali –, dei loro rapporti con lo spazio fisico e con le infrastrutture, delle dinamiche di gestione delle risorse naturali, della
produzione agricola e dell’allevamento, delle attività manifatturiere, dei traffici commerciali che collegano il comparto apulo all’intero bacino mediterraneo, lungo direttrici
e rotte privilegiate di scambio culturale e mercatale, nell’ambito di una intensa consistenza storica che da sempre riconosce all’olio un rilievo importante. L’albero d’ulivo
offre pure il vantaggio di analizzare il germoplasma di esemplari centenarî e la presenza
di genotipi rari, potendo garantire così di delineare un interessante patrimonio comparativo con piante prossime ai siti archeologici, che peraltro rappresenta in questo modo una
sorgente di variabilità genetica utile ai fini sia del miglioramento varietale attuale sia delle
positive ricadute in termini di sostenibilità in agricoltura e di tutela per l’ambiente. Lo
scopo è recuperare aspetti delle origini del patrimonio olivicolo pugliese, in funzione
anche di tutela ambientale consapevole delle trasformazioni del paesaggio rurale e di valorizzazione storica, oltre che economica, delle produzioni locali 8.
L’applicazione di tecnologie innovative e il coordinamento tra professionalità distinte
e complementari possono garantire gestione ed elaborazione integrate delle informazioni
raccolte in funzione dell’analisi, della comunicazione e della valorizzazione, in un’ottica
volta alla realizzazione di uno studio organico, funzionale sia alla pianificazione e gestione sostenibile del territorio coinvolto da questa ricerca sia allo sviluppo di una ‘coscienza di luogo’ nelle persone che abitano o frequentano il comparto considerato sia
all’elaborazione di uno strumento scientifico di supporto all’attuazione di politiche di tutela e promozione dei paesaggi e dei prodotti agricoli pugliesi adottate dagli Enti Territoriali e dalle aziende agrosilvopastorali, nonché ora espresse secondo il dettato normativo
dell’analogo ‘Programma’ disciplinato dalla Regione Puglia 9.
In quest’ottica progettuale, il paesaggio diventa organismo attivo e pulsante, principale giacimento identitario, ponte fra conservazione e innovazione, che consente alla cultura locale di ripensare sé stessa, di ancorare l’innovazione alla propria identità, ai propri
miti, sviluppando coscienza di luogo 10.
Attraverso il censimento, la schedatura e il posizionamento su piattaforma GIS dei nuclei insediativi, di età indigena e romana, ubicati nel comparto centrale della Puglia e compresi fra Canusium e Brundisium, lungo la via Traiana, a E, e la via Appia, a W, risulterebbe
possibile l’analisi del paesaggio antropico – urbano e rurale –, dei suoi rapporti con l’ambiente e delle forme di gestione del territorio, nonché della cultura materiale e delle evidenze
archeologiche collegate alla filiera manifatturiera e distributiva di merci e derrate, con parleobotaniche e, in generale, bioarcheologiche: una collaborazione specifica – nell’ambito di tradizionali
intese funzionali a ricerche da tempo condivise sul campo e in laboratorio – è stata così avviata da chi
scrive con i Colleghi del Laboratorio di Archeobotanica e Paleoecologia-Dipartimento di Beni Culturali
dell’Università del Salento, in particolare con il prof. G. Fiorentino e i dott. G. Colaianni e A. Stellati,
che pure ringrazio per i consigli e i suggerimenti rassegnati per l’elaborazione di queste note.
8
Conviene ricordare la L.R. 04.06.2007 n. 14 ‘Tutela e valorizzazione del paesaggio degli ulivi monumentali della Puglia’ elaborata dagli Uffici dell’Assessorato all’Ecologia, di concerto con gli Assessorati alle Risorse Agroalimentari, Assetto del Territorio e Turismo e Industria Alberghiera, che integra
strettamente il concetto di tutela con quello di valorizzazione.
9
B.U.R.P. 14.02.2012 n. 22.
10
Magnaghi 2009.
70
CUSTODE SILVIO FIORIELLO, ANNA MANGIATORDI
ticolare riferimento ai prodotti olivicoli. In tal senso si procederebbe secondo i seguenti
momenti di documentazione, analisi, ricostruzione e interpretazione:
– censimento delle evidenze e delle infrastrutture archeologiche e sistemazione in ambiente GIS di tematismi correlati (geomorfologia, pedologia, idrografia, ecc.);
– raccolta delle fonti letterarie, documentarie, archivistiche, grafiche, cartografiche, fotografiche, iconografiche, odeporiche, per l’individuazione dei luoghi di persistenza delle
coltivazioni, così da indirizzare i campionamenti sul terreno, evitando ricognizioni random;
– ricerca di sopravvivenze tradizionali e rituali legate alla cura dell’ulivo e all’uso dell’olio d’oliva nel mondo rurale;
– censimento dei siti archeologici (abitati, necropoli, fattorie, villae, ecc.) e di correlati
microcontesti paleobotanici, e verifica di eventuale contiguità con ulivi rinselvatichiti e
secolari;
– individuazione, anche attraverso aerofotointerpretazione, di eventuali terrazzamenti e
di sistemazioni (a filari, a ciglioni, a terrazze, ecc.) della superficie quali relitti di antiche coltivazioni;
– individuazione di ‘case studies’, in cui testare la metodologia implementata;
– raccolta di dati sulle aziende che ospitano esemplari/impianti olivicoli di interesse storico ovvero utilizzano, per la filiera di produzione olivicola, attrezzature di interesse demoetnoantropologico;
– studio archeologico, paleobotanico, archeometrico dei ‘siti-campione’, che hanno rivestito un ruolo importante in un’economia di scala calibrata su vicende economico-produttive e commerciali di ambito locale e/o transmediterraneo.
La raccolta e lo studio dei dati così desunti porterebbe alla definizione di un ‘modello
diagnostico’, di un protocollo di intervento fungibile, trasferibile e utilizzabile in altri
comparti geografici e ambiti euristici, che possa da un lato pianificare nel dettaglio le
tecniche di indagine in relazione alle caratteristiche del sito e agli obiettivi della ricerca,
dall’altro sostenere la conoscenza delle produzioni agricole locali del territorio – pugliese,
in particolare – conferendo spessore storico e valenza scientifica.
All’aspetto scientifico, la cui fruizione verrebbe sostenuta dalla presentazione, edizione
e disseminazione sistematica dei dati raccolti ed elaborati, si accompagnerebbero importanti
ricadute di tipo socio-economico, quali la valorizzazione culturale delle qualità olivicole locali, attraverso la migliore caratterizzazione in termini di profondità storica delle produzioni
legate a uno specifico territorio di origine; lo sviluppo di nuovi contenuti scientifici a supporto di ‘buone pratiche’ capaci di garantire sostenibilità all’utilizzo – non solo colturale –
del territorio, anche attraverso il recupero e la valorizzazione della dimensione storica del settore olivicolo, secondo i ‘criterî-guida’ di crescita sostenibile dettati dal Piano Paesaggistico
Territoriale della Regione Puglia 11; lo sviluppo di nuove soluzioni di marketing territoriale
11
Sulla struttura del nuovo Piano Paesaggistico Territoriale Regionale (‘PPTR’), che si avvia a sostituire il vigente Piano Urbanistico Territoriale Tematico per il Paesaggio (‘PUTT/P’: Piano Urbanistico
Territoriale Tematico. Paesaggio e Beni ambientali. Adozione: Delibera Giunta Regionale 11.10.1994
n. 6946; Pubblicazione: Bollettino Ufficiale della Regione Puglia 8, suppl. 17.01.2002) e nell’ambito del
quale è stata elaborata la Carta dei Beni Culturali della Regione Puglia, secondo la Delibera Giunta
Regionale del 28.11.2006 n. 1787, si rinvia a Magnaghi 2009.
1. - Bitonto, ambito rurale. «Rigogliose gammètte si rincorrono in un uliveto a pianta giovane. L’alberello, o gammètte, viene piantato in una fossa profonda circa un metro e scavata con l’ausilio di vari attrezzi a seconda della consistenza e della natura del terreno: la zappa (zàppe), il piccone (zappàune), il
maglio (màgghie). Bitonto vanta un primato per l’estensione delle zone olivetate con piantumazione a
filari diritti, più recente rispetto a quella a filari confusi e più efficace a livello produttivo, visto che meglio si presta ai lavori di aratura e ad una maggiore aerazione» (da Pice, Minenna 2008, 192).
attraverso la promozione del concetto di ‘territorio di qualità’, dove ambiente e cultura,
quindi spazio fisico, geositi, biotopi e aspetti antropici del paesaggio siano fortemente caratterizzati e possano fungere da solida base e condiviso brand per il consolidamento e il rilancio di un turismo sostenibile; l’assunzione di accentuato valore da parte dei marchi
territoriali D.O.P. e I.G.P. che, oltre a garantire il consumatore sul piano della qualità, offrano maggiori tutele per i produttori nei confronti della globalizzazione – talora veicolatrice
di imitazioni e di truffe – e più consapevole ‘coscienza di luogo’ nelle comunità locali.
C. S. F.
Per un progetto di valorizzazione
La comunicazione del datum storico e dei risultati scientifici acquisiti deve essere
legata sia alla ‘fruizione orientata’, che renda inclusiva e consapevole la partecipazione del pubblico, sia allo sviluppo della ‘cultura del territorio’, intesa quale specifico valore identitario 12, attraverso l’impiego di forme innovative e interattive di condivisione e promozione (figg. 1-4).
12
In questo senso, appare qui opportuno ricordare Azzena 2009, 194, che, a proposito dell’approccio metodologico funzionale alla lettura del paesaggio, sottolinea la necessità di costruire non tanto la
«‘storia della città e del territorio’, ma la visione del territorio e della città orientata storicamente».
2. - Bitonto, ambito rurale. «È il momento della pausa in un campo d’ulivi: le fiamme avvampano il viso,
il fumo rende acre l’aria, il freddo pungente irrigidisce gli arti, ma la gioia ristoratrice del bivacco è irrinunciabile. Tutti fanno corona intorno al fuoco: uomini e donne, capo d’opera e guardie campestri. C’è
chi è accovacciato sulla terra bagnata e chi, in piedi, sovrintende al bivacco: è l’occasione per rifocillarsi con una parca merenda, per rinfrancarsi dalla fatica e per socializzare le ultime novità della raccolta»
(da Pice, Minenna 2008, qui 224).
In quest’ottica è orientata la proposta di progetto di valorizzazione della coltura dell’ulivo e della cultura dell’olio a Bitonto, espresso mediante l’ideazione di un percorso tematico urbano che, grazie a installazioni fisse a carattere multimediale – ben commesse
nell’ordito tettonico e dunque per nulla invasive –, consenta l’acquisizione diretta di informazioni connesse a questa tematica e pure rimandi alla vasta e sapida messe di suggestioni e storie attinte ‘a distanza’ all’ambito rurale bitontino.
Lungo il percorso, la narrazione si traduce in forme visive, sonore ed evocative e diventa una storia incisa sulla pietra. Ogni tappa prevede uno spazio allestito dedicato a un
particolare aspetto dell’olivicoltura, nel quale immagini, suoni e odori contribuiscono ad
3. - Bitonto, ambito rurale. «Imponente e massiccio, contorto eppure maestoso: è l’albero dello ‘stabile’, una scultura vegetale incisa dai secoli nel legno d’ulivo» (da Pice, Minenna 2008, qui 189).
a
4. - Bitonto, ambito rurale. «Situato lungo la via Appia, volgarmente chiamata Stradàppie, l’‘albero del
mulattiere’ (u’àrve du mulattìre) ricorda la morte di un mulattiere aggredito proprio in uno dei posti privilegiati dalla malavita locale [a]. Si narra che l’uomo, di ritorno dai mercati di Ruvo con il suo carro
ricolmo di sacchi di farina e di grano, aveva già subito per ben due volte il furto della mula e del carico;
il terzo assalto dei briganti fu troppo … questa volta reagì, ma la sorte gli fu avversa. A ricordo su un
albero di ulivo del fondo che si affaccia sul punto dell’aggressione fu ‘intaccata’, scolpita con la scure,
una croce ad indicare l’orribile morte del mulattiere [b]» (da Pice, Minenna 2008, 190-191).
COLTURA E CULTURA DELL’OLIO D’OLIVA A BITONTO
b
75
76
CUSTODE SILVIO FIORIELLO, ANNA MANGIATORDI
arricchire l’itinerario conoscitivo. Le tappe rappresentate sono sette e ciascuna di esse
propone una ‘parola chiave’ che restituisce il senso del racconto:
– la coltivazione dell’ulivo: il paesaggio e i ‘saperi invisibili’;
– la filiera della produzione: i trappeti;
– la commercializzazione e il trasporto dell’olio d’oliva: le merci, i mercati e gli
scambi;
– l’utilizzo dell’olio d’oliva nella vita quotidiana: l’alimentazione;
– l’utilizzo dell’olio d’oliva nell’esperienza antropica: l’illuminazione e la pittura;
– l’utilizzo dell’olio d’oliva nella dinamica esperienziale: la cosmesi e la farmacologia;
– la vicenda e l’immaginario: le storie di ulivi e di briganti.
Le installazioni verrebbero ubicate in punti nevralgici e strategici della città, lungo un
percorso ideale e materiale che dalle porte di Bitonto, dove estese sono ancora oggi le piantagioni di ulivi, snodandosi lungo il centro urbano, col suo nucleo storico, giunge fino ad
uno dei più antichi trappeti di Bitonto, nei pressi del solco della Lama di Macina-Balice 13.
Lungo le sette tappe, il visitatore avrebbe la possibilità di fruire di tre percorsi in parallelo. Attraverso la passeggiata ‘letteraria’, la fruizione del paesaggio e del percorso tematizzato sarebbe accompagnata da frammenti narrativi legati alla storia della città 14. Il
percorso ‘visionario’ consentirebbe la scoperta di un itinerario articolato in sette installazioni artistiche che riprendono l’immaginario popolare condiviso. Infine l’itinerario
‘paesaggistico’, teso a scoprire le peculiarità dello spazio rurale e della trama urbanistica
e monumentale di Bitonto lungo un percorso articolato su aree di sosta posizionate negli
intervalli estesi tra le diverse tappe.
La fruizione condivisa del paesaggio integra in modo sostenibile il proprio patrimonio identitario, in conformità peraltro alle tematiche del ‘Programma Horizon 2020’ e, in
particolare, all’obiettivo inerente le ‘Società inclusive, innovative e sicure’ 15, soprattutto
per quanto concerne la promozione della crescita intelligente, sostenibile e inclusiva 16.
La proposta progettuale trova il suo naturale contesto di applicazione in Bitonto, il
cui territorio è occupato assai ampiamente da uliveti e dove la produzione di olio d’oliva
vanta una lunga tradizione, ancora oggi intensa, sapida e vivace, che trova espressione
pure nella cultura popolare contadina, in cui «gli uliveti sono il luogo comune di storia e
mito, dove la storia non ‘arrossisce’ di essere mito e dove il mito dà forma e sostanza alla
storia» 17.
A. M.
13
L’ipotesi progettuale qui delineata, sostenuta dall’analisi critica esposta supra nel contributo di C.
S. Fioriello, è stata discussa con i Colleghi di ULIXES s. c. a r. l.-Bitonto (www.cooperativaulixes.it),
al fine di affinarla, strutturarla e renderla così fungibile nell’ambito delle linee di intervento sul territorio promosse da Enti Locali.
14
Si veda, ad esempio, Pice 2010; 2011.
15
Sezione III, 6.
16
Sezione III, 6, 1, 1.
17
Minenna 1993, qui 62.
ELAION
OLEVM
OLIO
La coltivazione
Coltura e cultura dell’olio d’oliva
in età romana
M.
Il Deuteronomio (XXIV, 20), testo
biblico redatto intorno al VI-V secolo
a.C., così raccomanda in riferimento
alla raccolta delle olive: «Quando
bacchierai i tuoi ulivi, non tornerai
a ripassare sui rami: le olive rimaste
saranno per lo straniero, per l’orfano
e per le vedove».
Poreč (Croazia), Museo Archeologico.
Base funeraria per il ricco proprietario
terriero Volusius Hermes (I secolo d.C.).
Bassorilievo con la raffigurazione della
raccolta delle olive.
Cartagine, Museo del Bardo. Mosaico
da Tabarka (fine del IV secolo d.C.).
Raffigurazione di una azienda agricola.
Sono rappresentati lavori e attività
campestri svolti nel corso delle diverse
stagioni: in alto, a sinistra, la raccolta delle
olive.
Porcio Catone
(234-149 a.C.)
nel De agricultura (VI-VII) elencava alcune
varietà di olive conosciute al suo tempo, tra
le quali segnalava quelle adatte alla produzione dell’olio, più grosse (licinia e sergia), e
altre da tavola (sallentina e albicera).
L’ulivo è una pianta sempreverde molto
esigente: ha bisogno di abbondanti bagni di
sole e luce, non sopporta né il freddo eccessivo
Cherchell (Algeria), Museo Archeologico. Mosaico con
né l’umidità persistente e prospera nelle scene di aratura e di semina (metà III secolo d.C.).
regioni dal clima temperato, come la penisola
iberica, l’Italia, l’Africa settentrionale. È
notoriamente una pianta longeva, che può
vegetare per secoli: tuttavia con lo sviluppo il
centro del fusto si decompone e si trasforma
in una cavità, quindi non se ne può valutare
l’età contando gli anelli.
Il metodo tradizionale di coltivazione
descritto dagli agronomi romani M. Porcio
Catone (De re rustica XL, 2, 4) e L. Giunio
Moderato Columella, vissuto tra 4 e 70 d.C.
(De re rustica V, 11), si basa sull’innesto di Passo di Corvo (Foggia). Evidenze archeologiche relative
rami o germogli sulle piante che l’esperienza al ‘relitto’ di un campo di ulivi di età romana: le fosse
quadrangolari (in nero) rivelano un impianto regolare che
indica particolarmente fruttuose.
prevede una fascia libera ampia 6 metri posta tra ciascun
La progettazione di un uliveto deve tener albero.
conto di diversi fattori che concorrono alla
buona riuscita dell’impianto: preparazione
del terreno, livellamento del suolo,
concimazione di fondo e aratura profonda.
Anche la forma della piantumazione è
importante: generalmente è prevista la
disposizione delle piante sia in file regolari
sia lungo i percorsi viari o ai margini delle
proprietà fondiarie. Un’operazione colturale
importante è la potatura, finalizzata ad una
buona fruttificazione e ottenuta garantendo
la migliore illuminazione e areazione della Saint-Germain-en-Laye (Francia), Musée d’Archéologie
Nationale. Mosaico da Saint-Romain-en-Gal (III secolo
chioma.
Raffigurazione del contadino che raccoglie le olive
Il metodo di raccolta del frutto è, insieme alla d.C.).
riponendole nei cesti.
scelta della varietà, il fattore che più influisce
sulle caratteristiche dell’olio: C. Plinio Secondo Maior, noto come Plinio il Vecchio (23-79
d.C.), nella Naturalis historia XV, 12, fa notare i danni procurati dalla ‘bacchiatura’ e ricorda
l’antichissimo consiglio rivolto ai raccoglitori: «Guardati di non scorticare e di non bacchiare
le olive». Infatti, M. Terenzio Varrone (116-27 a.C.), nel De re rustica (I, 55), prescrive di
battere i rami delle piante con frasche e non bastoni, così da non danneggiarli, e pure
suggerisce di raccogliere manualmente le olive migliori prima di procedere alla battitura.
La raccolta delle olive avveniva da ottobre ai mesi primaverili, a seconda del luogo, della
maturazione e della qualità dei frutti, ed era spesso appannaggio di manodopera femminile:
gli uomini, invece, si impegnavano in altre attività, come la ripulitura e l’aratura del terreno,
da svolgersi a fine inverno.
ELAION
OLEVM
OLIO
La produzione
Coltura e cultura dell’olio d’oliva
in età romana
L’
Plinio il Vecchio (23-79 d.C.) nella
Naturalis historia (XV, 8) e Strabone
(58 a.C.-22 d.C.) nella Geographia (V,
3, 10) riferiscono che all’olio d’oliva
della Spagna e dell’Africa settentrionale era preferibile il prodotto italico, come il raffinato olio del Sannio,
soprattutto di Venafro.
Roma, Vaticano, Museo Pio Clementino.
Bassorilievo (I secolo a.C.). Tre schiavi
impegnati in lavori agricoli sotto la
sorveglianza del padrone, il civis romanus T.
Paconio Caledo.
Saint-Romain-en-Gal (Francia). Mosaico
(III secolo d.C.). Raffigurazione di una
pressa manovrata da schiavi.
Pompei, via degli Augustali, torcular
(frantoio: prima del 79 d.C.). Il torchio
a vite (torculum), usato in tutto il
Mediterraneo dalla metà del I secolo d.C.,
comportava l’azione diretta della vite sulle
olive e consentiva dunque l’allestimento
del dispositivo per la produzione olearia
con relativa facilità permettendo così al
negoziante di vendere in città un prodotto
tipico della campagna.
olio era prodotto in
specifiche
aziende
agricole, che spesso
possedevano sia un impianto
vinicolo sia un oleificio ed erano strutturate
in due settori principali: la pars urbana,
con ambienti riservati al padrone, e la pars
fructuaria destinata alla produzione, con gli
alloggi degli schiavi, le scuderie e i magazzini
Il trapetum è composto da un grosso mortaio, in cui
(pars rustica).
girano due macine emisferiche, secondo la descrizione
Nei frantoi si svolgevano due operazioni: la dettagliata di M. Porcio Catone Censore (234-149 a.C.)
frantumazione delle olive, o molitura, e la nel De agricoltura XX-XXII. Le mole rotanti erano sospese
mediante la columella (colonnetta), in modo da permettere
conseguente spremitura della polpa erano alle olive di scendere nella cavità del mortarium ed essere
realizzate in ambienti contigui per agevolare quindi schiacciate.
il ciclo produttivo. La molitura era ottenuta
con l’utilizzo di una macina emisferica, fissata a un asse orizzontale, che ruotava all’interno
di un mortaio. Nel trattato sull’agricoltura De re rustica (XII, 52, 6), L. Giunio Moderato
Columella (4-70 d.C.) distingue diversi tipi di macine e dà preferenza alla mola rispetto al
trapetum: quest’ultimo prevedeva l’utilizzo di due macine che giravano attorno ad un piccolo asse verticale, schiacciando le olive nel mortarium.
Meno diffuso era un altro dispositivo costituito da una base con superficie piana (solea) o
perimetrata da solchi circolari (canales), sulla quale le olive venivano schiacciate da zoccoli
o da pietre. Peraltro in tutti e tre i sistemi veniva impiegata soprattutto la forza dell’uomo:
l’uso di animali era, infatti, riservato quasi esclusivamente ai mulini per il grano. Gli schiavi
impegnati nella produzione dell’olio erano sorvegliati dai vilici (sovrintendenti) o dai padroni
medesimi, ed erano sottoposti a condizioni di lavoro estremamente dure.
A seguito della molitura, la polpa ottenuta veniva spalmata su fiscinae (fiscoli, bruscole o
corbelli, intessuti di vimini, sparto o giunco) impilate e pressate dal torculum (torchio),
donde il liquido ricavato era convogliato verso un contenitore o un bacino di decantazione:
qui l’olio veniva separato dall’amurca (la
morchia, il sedimento contenente acqua
e polpa, riutilizzato anche per lubrificare
dispositivi meccanici), e infine conservato
in grandi vasi (dolia).
Boscoreale (Napoli),
villa della Pisanella
(seconda metà
del I secolo d.C.).
Planimetria: A) pars
urbana; 1) sala da
pranzo; 2) camere;
3) panificio con
macine e forno; 4)
cucina con scala; 5)
focolare del bagno;
6) tepidarium; 7)
caldarium; 8) latrine.
B) Pars fructuaria
e pars rustica; 9)
ripostiglio per gli
attrezzi; 10) stalla;
11) cubicoli per gli
schiavi; 12) cantina
con tre torchi per
l’uva e dolia; 13-14)
torchio per le olive
(frantoio); 15) dolia
per l’olio; 16) cortile
scoperto con dolia
interrati; 17) granaio.
Boscoreale, villa della Pisanella
(seconda metà del I secolo
d.C.). Plastico.
ELAION
OLEVM
OLIO
Il commercio
e il trasporto
Coltura e cultura dell’olio d’oliva
in età romana
Il
Ricostruzione dello scafo di una nave,
con lo stivaggio delle anfore realizzato per
impilamento verticale, e particolare del
relitto di una nave oneraria. L’anfora, in
età romana, costituiva un fondamentale
contenitore per il trasporto e dunque finì
per diventare anche una vera e propria
unità di misura: in ‘amphorae’ è calcolata la
‘stazza’ delle navi, a conferma degli stretti
rapporti tra questi manufatti e il commercio
transmarino. Il traffico delle merci poteva
svolgersi su lunga distanza - condotto
attraverso grandi navi onerarie - oppure
secondo media e breve distanza – garantito
da imbarcazioni di minori dimensioni.
trasporto dell’olio era affidato a contenitori fittili,
come le anfore, e a recipienti in materiale deperibile, utilizzati anche per la conservazione e per la distribuzione in ambito locale.
Le città destinavano appositi spazi pubblici,
come i mercati, alla compravendita del prezioso liquido, che spesso arrivava da regioni
anche assai lontane: di particolare successo
era l’olio prodotto nel Mediterraneo occidentale, nelle campagne della Spagna, dell’Italia, dell’Istria, dell’Africa settentrionale.
Nel periodo tardorepubblicano, il commercio dell’olio italico del Sannio, della Campania e della Puglia ha svolto un ruolo trainante nell’economia romana. A partire dal
principato di Augusto, sul mercato si affermò anche l’olio della penisola iberica e, dal
II secolo d.C. sino alla fine dell’età tardoantica (VII secolo), l’olio africano si impose nei
traffici commerciali del Mediterraneo quale
protagonista dell’approvvigionamento civile
e militare.
A partire dall’età imperiale, secondo un’antica consuetudine, si consolida inoltre il
commercio di olio profumato, aromatico e
medicamentoso: piccoli contenitori erano
utilizzati per trasportare olio
di buona qualità, usato di
frequente negli edifici
termali e nella toeletta
personale ovvero, più
tardi, nelle liturgie legate alla celebrazione
dei riti di culto cristiano.
Pompei, caupona (osteria) della via di Mercurio (prima del
79 d.C.). Affresco. La distribuzione dell’olio nell’impero
romano si svolgeva anche attraverso percorsi terrestri: da
un’importante iscrizione, conosciuta come ‘Tariffario di
Palmira’, sappiamo che venivano impiegati cammelli per
il trasporto degli otri contenenti l’olio della Siria. E ancora
nel De re rustica (II, 6, 5) M. Terenzio Varrone (116-27 a.C)
ricorda che l’olio brindisino – come pure altri prodotti della
Apulia – raggiungeva il mare conservato negli otri trasportati
dalle carovane di muli (aselli dossuarii).
Ostia, Piazzale delle Corporazioni. Mosaico con scena
di trasporto di anfore da una nave oneraria ad una nave
d’appoggio (fine II secolo d.C.). Il Piazzale delle Corporazioni
di Ostia è un importante contesto archeologico che assume
anche valore di documento figurativo del commercio
marittimo: su questa grande piazza colonnata si affacciavano
gli uffici degli agenti e delle compagnie commerciali romane
e straniere, come testimoniano le indicazioni epigrafiche e le
raffigurazioni di imbarcazioni sui pavimenti musivi.
Le anfore prodotte nella penisola iberica sono molto
diffuse nel Mediterraneo occidentale e dotate di un ricco
repertorio epigrafico, che può essere interrogato per
conoscere importanti informazioni sul mondo dei mercatores
(commercianti) e dei navicularii (armatori), sui controlli
fiscali e doganali, su consistenza e qualità del contenuto
trasportato e sull’organizzazione del lavoro.
II-I secolo a.C.
I-II secolo d.C.
I-III secolo d.C.
II-IV secolo d.C.
IV secolo d.C.
Reno
bio
Danu
NARBONESE
Marsiglia
b
TARRACONESE
LUSITANIA
Roma
Brindisi
BETICA
SIRIA
Chio
a
Atene
Corinto
CILICIA
Cos
Rodi
Cartagine
MAURETANIA
Cipro
Creta
AFRICA
c
Leptis Magna
EGITTO
Principali prodotti delle diverse regioni dell’Impero, con le rotte commerciali. I traffici non riguardavano
soltanto prodotti di prima necessità come grano, vino ed olio, ma anche merci preziose: seta cinese, lino,
papiro egiziano, perle indiane, profumi arabi, belve dell’Asia e dell’Africa. Le navi romane battevano le
rotte del Mediterraneo e raggiungevano anche i porti della Manica, quelli del Mar Nero, del Golfo Persico
e del Golfo del Bengala.
La struttura delle anfore aveva per l’acquirente e per il
consumatore uno specifico valore semantico: l’immediato
riconoscimento della sagoma permetteva la conseguente verifica
della merce trasportata. Allo stesso modo, la forma di un’anfora
consente di individuare, in generale, il luogo dove è stata prodotta:
a) anfore globulari di produzione iberica; b) anfore ovoidali di
produzione italica; c) anfore cilindriche di produzione africana.
ELAION
OLEVM
OLIO
L’alimentazione
Coltura e cultura dell’olio d’oliva
in età romana
Le
Pompei, Casa dei Casti Amanti (I secolo
d.C.). I commensali bevono vino sdraiati
su appositi letti (lecti conviviales) rivestiti
con drappi di vari colori e dotati di morbidi
cuscini.
Pompei, scodella in ceramica sigillata di
produzione italica con resti bruciati di olive
(I secolo d.C.). Le olive venivano preparate
sott’olio, in bottiglie di vetro: queste si sono
conservate perfettamente fino ad oggi,
grazie alla cenere dell’eruzione del 79 d.C.,
che le ha sigillate e ‘protette’ per secoli.
abitudini alimen- Ricetta del moretum (pizza a base di formaggio
tari dei Romani ed erbe) riportata da Columella (De re rustica
sono note soprat- XII, 59, 1).
tutto grazie alle ricette raccolte «Metti nel mortaio della santoreggia, della menta,
dagli scrittori antichi: vi apprendiamo che della ruta, del coriandolo, del sedano, del porro
l’olio di oliva, assieme ai cereali, al pane e da taglio o, in mancanza di questo, una cipolla
fresca, foglie di lattuga, di ruchetta, di timo verde
al vino, era tradizionalmente alla base del- o di nepitella e anche del puleggio verde e del
la ‘dieta mediterranea’ e costituiva dunque il cacio fresco e salato; pesta insieme tutte queste
condimento essenziale nell’arte culinaria ro- cose, aggiungedovi un pochino di aceto piperato;
quando avrai disposto questa composizione in un
mana, secondo le raccomandazioni gastro- piccolo piatto, versavi sopra dell’olio».
nomiche sancite sia da M. Gavio Apicio, autore del trattato De re coquinaria (‘Sulla cucina’) e vissuto al tempo dell’imperatore Tiberio
(I secolo d.C.), sia da L. Giunio Moderato Columella (4-70 d.C.), da M. Terenzio Varrone
(116-27 a.C.) e da Plinio il Vecchio (23-79 d.C.).
Sappiamo che i Romani erano grandi consumatori di legumi, zuppe e verdure, preparate
o condite con olio di oliva di buona qualità che non doveva quindi mai essere sprecato, a
causa del suo costo elevato. Particolarmente rinomati erano l’olio di Venafro, con il quale si
condivano le insalate, e gli oli prodotti in Liburnia (l’odierna Croazia) e in Istria.
L’olio era fondamentale anche nella preparazione delle salse a base di spezie, erbe e salse di
pesce (garum), con le quali si condivano vari tipi di carni, alimenti di lusso che abbondavano
tuttavia solo sulle mense dei ricchi.
Nel corso dei banchetti si consumavano anche grandi quantità di olive: ne sono testimonianza
quelle carbonizzate contenute in una scodella rinvenuta in un’abitazione di Pompei.
Peraltro l’importanza del cibo nel mondo antico è anche riflessa nelle valenze simboliche
che ad esso vengono attribuite: infatti, numerose e mutevoli sono le immagini legate alle
pietanze che animano sogni e profezie. Artemidoro di Daldi (città dell’odierna Turchia)
scrive nel II secolo d.C. un trattato in cui interpreta la simbologia legata al consumo del cibo:
alcuni alimenti sono considerati bene auguranti, mentre altri hanno valenza negativa. Ad
esempio, sognare di bere acqua fresca oppure vino è un segno positivo, mentre consumare
olio di oliva preannuncia malattie: l’indicazione nefasta forse è legata alla considerazione
della grande fatica che si accompagna all’intero ciclo della produzione di olio e quindi
all’opportunità di non sciuparlo.
Ascoli Satriano, località Faragola (Foggia). Disegno ricostruttivo della sala da pranzo
della sontuosa villa appartenuta ad un ricco, e sinora ignoto, esponente dell’alta
società romana. Il pavimento era realizzato con pregiati marmi colorati; sulla
parete di fondo è visibile il divano in muratura (stibadium), addobbato con preziosi
paramenti, dove prendevano posto i commensali (fine IV-V secolo d.C.).
Ostia, trattoria (termopolium) lungo la via di Diana (II secolo d.C.). In questi luoghi
di ristoro, ben attestati nelle città romane, si potevano consumare vivande calde a
base di carne bollita e verdure lesse.
ELAION
OLEVM
OLIO
L’illuminazione
e la pittura
Coltura e cultura dell’olio d’oliva
in età romana
Lo
Lucerne ad olio: tipologia. Le prime
lucerne in terracotta, dalla forma molto
semplice, furono realizzate tra il VII e il
V secolo a.C.. Più tardi, si diffuse l’uso
di lucerne fabbricate al tornio, dotate di
becco e di ansa utile alla presa.
Foto di alimentazione
Ansa
Stoppino
Serbatoio
Imbuto
Parete
Ansa
Combustibile
Stoppino
Fondo
Lucerna: le parti costitutive.
Lucerne fittili a matrice: fasi di
fabbricazione. Nelle due matrici,
superiore e inferiore, si inseriva l’argilla
cruda pressandola a mano; le due forme
ottenute venivano fatte combaciare,
quindi si operavano i fori sul disco e sul
becco. Il lavoro era ultimato dall’aggiunta
dell’ansa. Le lucerne acquistavano l’aspetto
definitivo con la cottura in apposite
fornaci, nelle quali erano impilate in
modo da consentire la diffusione dell’aria
e del calore.
strumento per illuminazione
più diffuso nell’antichità era la
5.4 - Pompei,
lucerna, nella quale veniva bruTempio di
ciato come combustibile soprattutto olio di oliva.
Iside. Coppia
di candelabri
In età romana, le lucerne erano realizzate con matrici che
in bronzo (I
ne facilitavano la produzione in serie, garantendone così
secolo d.C.).
la grande diffusione all’interno delle abitazioni, nelle
botteghe, nelle sepolture, quali elementi dei corredi, e
anche nei luoghi di culto come ex voto o donum da
offrire alle divinità.
Le lucerne, realizzate in terracotta o in bronzo, erano
prodotte in diverse forme. Quelle polilicni (cioè dotate di molti fori) offrivano una luce migliore: «Rischiaro
con le mie fiammelle i tuoi convivi, sono un’unica lucerna con più fori», dice il poeta M.
Valerio Marziale (ca. 38-104 d.C.) negli Epigrammi (XIV, 41).
Nelle sale da pranzo o negli ambienti di rappresentanza erano spesso usati candelabri e lucerne di bronzo, note tuttavia in numero limitato, a causa del costo maggiore, mentre gli
oggetti in terracotta erano diffusi in ogni strato sociale.
Attraverso analisi di laboratorio è stato possibile accertare i diversi tipi di combustibile utilizzato: olio di oliva puro, più costoso, che non lasciava residui fumosi e che offriva un’illuminazione migliore, e olio misto a sego, di peggiore qualità, che veniva forse utilizzato per
illuminare gli ambienti destinati ai servi. Dalle fonti letterarie sappiamo che alcuni tipi di
olio di oliva, considerati di minore qualità, come quello africano, erano utilizzati preferibilmente quale combustibile piuttosto che per l’alimentazione.
Le notizie tramandate dagli scrittori antichi, specialmente da Plinio il Vecchio (Naturalis historia XXXV, 41), sono inoltre molto preziose, perché consentono di capire che l’olio era
utilizzato anche nella preparazione dei colori
e nella pittura parietale, realizzata mediante la
tecnica dell’affresco, che consiste nella stesura
del pigmento cromatico sull’intonaco ancora
fresco il quale, asciugandosi, fissa i colori.
Per ottenere migliori risultati ed evitare l’alterazione dei colori, M.Vitruvio Pollione (I secolo a.C) consiglia di stendere mediante pencoppette contenenti colori utilizzati per affrescare le
nello, sul muro dipinto e già asciutto, della cera Pompei,
pareti di abitazioni in cui erano in corso lavori di restauro, al
fusa, mista ad olio (De architectura VII, 9,3). momento dell’eruzione del 79 d.C. (I secolo d.C.)
Sens (Francia), museo comunale. Raffigurazione di pittori e decoratori al lavoro: rilievo e restituzione grafica. Da sinistra:
il responsabile dei lavori che consulta il progetto di decorazione; il pittore che compone i colori; l’artigiano che stende
l’intonaco; l’addetto alla preparzione dell’impasto di calce (II secolo d.C.)
ELAION
OLEVM
OLIO
La cosmesi
e la farmacologia
Coltura e cultura dell’olio d’oliva
in età romana
L’
Roma, Villa della Farnesina. Affresco con
figura femminile che versa profumi da
un’ampolla (inizi del I secolo d.C.).
Taranto, Museo
Nazionale
Archeologico.
Ampolle e
balsamari in
vetro colorato
e in alabastro
utilizzati per
contenere oli
e unguenti
profumati (I
secolo d.C.).
uso dell’olio di oliva per
Herdonia, settore
del ginnasio. Strigili
la cura del corpo, per la
in ferro (I-III secolo
cosmesi e per esigenze
d.C.), costituiti
da un’ampia
terapeutiche era assai diffuso.
lamina (ligula)
L’olio veniva utilizzato quotidianamente quainternamente
concava, usata per
le detergente per cospargere il corpo prima
asportare dal corpo
e dopo i bagni e, con l’aggiunta di sostanl’olio in eccesso, e da
un manico (capulus)
ze odorose, come unguento. L’importanza
che consentiva la
di queste abitudini, che i Romani appresero
presa dell’utensile.
dalle esperienze greche, è riflessa nella grande quantità di contenitori per olio prodotti
in diversi materiali e in svariate forme, rinvenuti nel corso degli scavi e conservati nei
musei archeologici, anche in Puglia. Le nostre conoscenze relative all’uso e al confezionamento di cosmetici e balsami si devono
anche alle notizie fornite da fonti letterarie:
ad esempio, nelle ricche descrizioni della Naturalis historia (XXXV) di Plinio il Vecchio
(23-79 d.C.) e nelle indicazioni (De re rustica XII, 11) registrate da L. Giunio Moderato Columella (4-70 d.C.), che raccomanda la
preparazione degli unguenti mediante l’aggiunta di olio di oliva a sostanze profumate,
Pompei, cofanetti e cucchiaio in bronzo (I secolo d.C.). I
a coloranti, a piante o a minerali. L’olio era medicamenti venivano conservati in piccoli contenitori,
molto usato per la cura di sé all’interno delle con coperchio scorrevole e numerosi scomparti interni
adatti a contenere molte sostanze. Per la preparazione e
terme: alle stanze dedicate ai bagni erano an- la somministrazione dei medicinali si utilizzavano invece
nessi, infatti, anche appositi spazi per i mas- cucchiai di varie forme e dimensioni.
saggi e per l’unzione del corpo (unctorium):
dopo il bagno si usavano oli e unguenti, il cui eccesso veniva poi rimosso con lo strigile.
Oltre che per il confezionamento di balsami profumati, l’olio di oliva per le sue note proprietà terapeutiche veniva utilizzato per la produzione sia di unguenti per curare le ferite
sia di pomate officinali dal largo spettro curativo. La preparazione dei medicamenti richiedeva cura paziente e avveduta, una vera e propria sapiente attività artigianale, che prevedeva l’uso di strumenti specifici per triturare erbe e ottenere infusi attraverso l’aggiunta di
solventi ai tradizionali ingredienti delle pozioni della farmacopea antica quali acqua e vino.
Roma, Museo
della Civiltà
Romana.
Rilievo
in calcare
raffigurante
la bottega di
un farmacista
(età romana
imperiale).
Al centro è
rappresentata la
dea Meditrina
nelle sembianze
di una giovane
donna.
Pompei, Casa dei Vettii. Affresco con Amorini che preparano profumi (I secolo d.C.). Il ciclo di lavorazione
degli oli profumati prevedeva la spremitura delle olive all’interno della pressa, la macerazione delle essenze
vegetali in olio caldo, il confezionamento del prodotto finito all’interno delle ampolle.
COLTURA E CULTURA DELL’OLIO D’OLIVA A BITONTO
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COLTURA E CULTURA DELL’OLIO D’OLIVA A BITONTO
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contesto di Bitonto e Giovinazzo, tesi di laurea triennale, Facoltà di Lettere e Filosofia, Università degli Studi di Bari Aldo Moro, a.a. 2011-2012.
Pavolini 1996 - C. Pavolini, La vita quotidiana a Ostia, Bari 1996.
Pecci et alii 2013 - A. Pecci et alii, Understanding residues of oil production: chemical analyses of floors in traditional mills, in Journal of Archaeological Science 40, 2013, 883-893.
Pice 2010 - N. Pice, Il taccuino di Bitonto. Andar per borghi e paesi, Bari 2010.
Pice 2011 - N. Pice, Bitonto e i suoi trappeti, in Puglia 2011, 19-25.
Pice, Minenna 2008 - N. Pice, C. Minenna, Cultura dialettale e civiltà contadina. Una indagine demologica a Bitonto. Il Grifo. 8, Bari 2008.
Pitture 1982 - I. Bragantini, M. De Vos (a cura di), Le pitture. 1. Le decorazioni della villa romana della Farnesina, Roma 1982.
Profumi 2007 - M. R. Belgiorno (a cura di), I profumi di Afrodite e il segreto dell’olio. Scoperte archeologiche a Cipro. Catalogo della Mostra (Roma, Musei Capitolini, 14 marzo2 settembre 2007), Roma 2007.
Puglia 2011 - A. Carbone (a cura di), La Puglia e i suoi frantoi. Bitonto, Bari 2011.
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IBM-Italia, New York City, IBM Gallery of Science and Art (12 July-15 September 1990),
Roma 1990.
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Salza Prina Ricotti 2005 - E. Salza Prina Ricotti, Banchetti e ricette romane, in Archeo 241,
2005, 98-111.
Saracino 2013 - G. Saracino, Lessico dialettale bitontino. Edizione riveduta e ampliata da Nicola Pice, Bari 2013.
Scardozzi 2010 - G. Scardozzi, Oil and wine production in Hierapolis of Phrygia and its territory during Roman and Byzantine Age: documentation from archaeological excavations
and surveys, in Ü. Aydinoǧlu, A. K. Şenol (ed.), Oil and wine production in Anatolia during Antiquity. International Symposium Proceedings (6-8 November 2008, Mersin, Turkey), Istanbul 2010, 277-302.
Schafer Schuchardt 1988 - H. Schafer Schuchardt, L’oliva, la grande storia di un piccolo
frutto, Bari 1988.
Speciale Giorgi 1993 - C. Speciale Giorgi, L’ulivo di Apulunas e di Minerva nelle Culture del
Mediterraneo, Bari 1993.
Storie 2003 - P. G. Guzzo (a cura di), Storie da un’eruzione. Pompei, Ercolano, Oplontis.
Guida alla mostra, Milano 2003.
Tassaux et alii 2010 - F. Tassaux et alii, Les Milliardaires de l’Adriatque Romaine. Catalogue
de l’Exposition (Bordeaux, Institut Ausonius à l’Archéopôle d’Aquitaine, 19 mars-18 juin
2010), Bordeaux 2010.
Vidale 2004 - M. Vidale, L’albero del fluido verde, in Archeo 229, 2004, 72-81.
Warnock 2007 - P. Warnock, Identification of Ancient Olive Oil Processing Methods Based on
Olive Remains. BAR International Series. 1635, Oxford 2007.
Studi Bitontini
Simona MAFFEI
93-94, 2012, 87-106
La Resurrezione di Lazzaro in Puglia
tra XI e XV secolo*
Premessa
L’iconografia delle guarigioni miracolose operate da Cristo, medico del corpo e dell’anima 1, ebbe grande fortuna tra III e VI secolo. Anche le raffigurazioni medievali di questi episodi evangelici risultano tuttavia particolarmente interessanti, se analizzate in
rapporto alla condizione dell’infirmus, presenza quotidiana e ossessiva negli spazi so* Questo contributo sviluppa uno degli argomenti trattati nella tesi di laurea in ‘Iconografia e Iconologia’ elaborata da chi scrive sul tema Cristo medico nella produzione artistica pugliese tra XI e XV
secolo presso il Corso di Laurea Magistrale in Storia dell’arte della Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università degli Studi di Bari Aldo Moro nell’a.a. 2009-2010: relatore la prof. Rosanna Bianco, correlatore il prof. Liborio Dibattista. Desidero ringraziare la prof. Rosanna Bianco, per aver seguito con
dedizione e impegno costante la preparazione di questo lavoro. Esprimo tutta la mia gratitudine al prof.
Liborio Dibattista per l’attenzione dedicata alle mie ricerche e per la generosa disponibilità. Ringrazio
inoltre la prof. Raffaella Cassano e il prof. Paolo Fioretti per i preziosi consigli.
1
La concezione del Cristo medico delle anime e dei corpi, chiaramente espressa nei Vangeli sinottici
e trasmessa attraverso una lunga elaborazione teologico-pastorale, ebbe grande popolarità nel II e nel III
secolo, perché particolarmente funzionale alla battaglia portata avanti dagli apologisti cristiani contro il
culto di Asclepio, la divinità greca della medicina. Sulla concezione del Cristo medico si rinvia essenzialmente a R. Abersmann, The concept of Christus medicus in St. Augustine, in Traditio 10, 1954, 1-29;
C. Lavarra, Maghi, santi e medici. Interazioni culturali nella Gallia Merovingia, Galatina 1994, 59-77;
S. Fernández, Cristo medico segun Orígenes. La actividad médica como metáfora de la acción divina.
Studia Ephemeridis Augustinianum. 64, Roma 1999. Per quanto concerne l’iconografia paleocristiana
legata al soggetto, D. Knipp, “Christus Medicus” in der frühchristlichen Sarkophagskulptur. Ikonographische Studien zur Sepulkralkunst des späten vierten Jahrhunderts. Supplements to Vigiliae Christianae.
XXXVII, Leiden-Boston-Köln 1998. Sulla contesa fra Cristo e Asclepio, R. J. Rüttimann, Asclepius and
Jesus. The form, character and status of the Asclepius cult in the second century and its influence on
early Christianity, Cambridge (Mass.) 1990; E. Dal Covolo, G. Sfameni Gasparro (a cura di), Cristo e
Asclepio. Culti terapeutici e taumaturgici nel mondo mediterraneo antico fra cristiani e pagani. Atti del
Convegno internazionale. Accademia di Studi Mediterranei (Agrigento, 20-21 novembre 2006). Nuova
Biblioteca di Scienze Religiose. 11, Roma 2008: qui si vedano, in particolare, E. Dal Covolo, Asclepio /
Esculapio nella letteratura cristiana antica (secc. II-IV), 103-112, e G. Filoramo, La vittoria di Cristo su
Asclepio. Malattia e guarigione nella Storia filotea di Teodoreto di Cirro, 113-128. Per quanto concerne
l’espressione artistica di tale contesa, soprattutto E. Dinkler, Christus und Asklepios. Zum Christustypus
der polychromen Platten in Museo Nazionale Romano. Sitzungsberichte der Heidelberger Akademie der
Wissenschaften. Philosophisch-historische Klasse. 1980. 2, Heidelberg 1980 e T. F. Mathews. Scontro di
dei: una reinterpretazione dell’arte paleocristiana, Milano 2005, 35-50.
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SIMONA MAFFEI
ciali dell’epoca. Il confronto costante 2 con la malattia doveva infatti rendere particolarmente sensibile l’uomo del tempo al messaggio trasmesso dalle immagini di quei prodigi.
Nelle piazze, nelle chiese, lungo le vie di pellegrinaggio i pauperes infirmi 3 si mescolavano ai sani, senza essere oggetto di segregazione o di mirati interventi terapeutici, bensì
di una pedagogia della sofferenza e della carità che coinvolgeva anche e specialmente
chi li circondava. Il malato era infatti considerato farmaco e medico, esempio della diretta
giustizia di Dio che correggeva con i flagella del morbo i suoi prediletti, in modo da rafforzarne l’anima nei confronti delle tentazioni e dei peccati 4.
Gli infermi, come si legge nella Regula di san Benedetto, dovevano essere assistiti e
accolti, in quanto immagine del Cristo sofferente. Essi allo stesso tempo incarnavano ed
esibivano il peccato, poiché la malattia e la debolezza fisica erano considerate la condizione umana dopo la Caduta. Adamo, peccando, aveva perso per sé e per l’umanità, assieme all’immagine e alla somiglianza con Dio, anche l’integrità del corpo e l’immortalità
di cui godeva 5. Il peccato originale aveva infatti permesso a Satana di acquisire potere non
soltanto sulle anime degli uomini, ma anche sui loro corpi per cui, sebbene il battesimo 6
offrisse una protezione contro la malattia, soltanto rimanendo in uno stato di grazia l’individuo poteva conservare la sua salute. Era sufficiente peccare nuovamente perché il
diavolo potesse tornare a reclamare il suo corpo 7. La malattia era quindi intesa in modo
ambivalente: gli infermi erano considerati allo stesso tempo eletti e reietti. Cristo era medico non solo per le sue guarigioni miracolose, ma anche perché restituiva la vera salute
all’umanità inferma dopo il peccato. La guarigione dei malati era considerata l’espressione dimostrativa e quasi metaforica di questa più vasta azione soteriologica 8.
I prodigi compiuti da Cristo taumaturgo, che entrarono precocemente nel mondo dell’arte e per i quali è possibile effettuare uno studio iconografico abbastanza approfondito, anche per il Medioevo, sono la Guarigione dell’emorroissa, la Guarigione del cieco,
la Guarigione del lebbroso, la Guarigione del paralitico, la Guarigione degli ossessi e
l’Episodio di Lazzaro di Betania. Quest’ultimo colpiva particolarmente l’immaginazione
2
La completa salute del corpo costituiva una rarità: J. Sumption, Monaci santuari pellegrini. La religione nel Medioevo, Roma 1999, qui 94.
3
Nell’Altomedioevo, come si evince ampiamente dalle cronache e dai testi agiografici, non veniva
operata una netta distinzione tra povero, malato, pellegrino e neppure si riservava attenzione specifica
a determinate malattie e quadri patologici. Queste condizioni rientravano nell’indifferenziata area dell’infirmitas, socialmente percepita come debolezza, incapacità di lavorare, mancanza di status e dignità,
dipendenza. L’unica istituzione che, almeno a partire dai secoli XII e XIII, assunse frequentemente una
chiara connotazione terapeutica è l’ospedale, cui si deve la prima distinzione fra poveri e malati: così J.
Agrimi, C. Crisciani, Medicina del corpo e medicina dell’anima, Milano 1978; Eaedem, Malato, medico e medicina nel Medioevo, Torino 1980, 9-21; Eaedem, Carità e assistenza nella civiltà cristiana medievale, in M. D. Grmek (a cura di), Storia del pensiero medico occidentale. 1. Antichità e Medioevo,
Roma-Bari 1993, 217-259, in particolare 220.
4
Agrimi, Crisciani, Carità e assistenza … cit., 221-223.
5
Eaedem, Malato, medico e medicina … cit., 9; Eaedem, Carità e assistenza … cit., 222.
6
Vedi Iacopo da Varazze, Legenda aurea, 163 (Commemorazione delle anime dei defunti), a cura di
A. e L. Vitale Brovarone. I millenni, Torino 1995, qui 903: «Il battesimo in virtù della passione di Cristo libera da ogni peccato, originale, mortale o veniale».
7
Sumption, Monaci santuari pellegrini … cit., 99.
8
Agrimi, Crisciani, Carità e assistenza … cit., 225.
LA RESURREZIONE DI LAZZARO IN PUGLIA TRA XI E XV SECOLO
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e la sensibilità dell’uomo medievale, poiché narrava la resurrezione di un morto, il miracolo più straordinario secondo le classificazioni degli agiografi del tempo 9.
La Resurrezione di Lazzaro 10, raffigurata sin dal III secolo più degli altri due miracoli
dello stesso tipo 11 narrati nei Vangeli, probabilmente perché maggiormente adatta a dimostrare il potere del Signore sulla morte e la fede nella resurrezione della carne 12, conservò notevole importanza all’interno dei programmi iconografici medievali. L’episodio
– come si chiarisce di seguito – fu inoltre oggetto di significative rielaborazioni che condussero talvolta a soluzioni radicalmente innovative.
L’iconografia medievale della Resurrezione di Lazzaro risulta tuttavia, allo stato attuale delle ricerche, ancora non sufficientemente indagata. Questo silenzio riguarda in
realtà tutti i miracoli di guarigione operati da Cristo e deve essere riferito con ogni probabilità alla minor fortuna che questi episodi ebbero nel Medioevo. È noto infatti che, a
partire dal XII secolo, i Miracula Christi cominciarono a essere emarginati a favore delle
scene relative all’infanzia di Gesù e ad altri eventi riguardanti la sua vita e la sua morte.
Tale spostamento di interesse è stato ricondotto in primo luogo all’influenza del pensiero
allegorico che, nella ricerca di analogie tra l’Antico e il Nuovo Testamento, assegnò sempre minore importanza ai miracoli, e in secondo luogo al cambiamento della liturgia, che
privilegiò i brani del Vangelo spiegati in volgare nel corso delle festività fondamentali 13.
La Puglia conserva alcune raffigurazioni della Resurrezione di Lazzaro, realizzate fra XI
e XV secolo, che riflettono alcune delle novità caratterizzanti l’iconografia del miracolo fra
Medioevo ed Età Moderna e che possono per questo essere considerate meritevoli di analisi.
9
J. C. Schmitt, Spiriti e fantasmi nella società medievale, Roma-Bari 1995, 20.
Sull’iconografia della scena, H. Leclercq, s.v. Lazare, in Dictionnaire d’archéologie chrétienne et
de liturgie. VIII, Paris 1928, 2009-2037; E. Josi, s.v. Lazzaro, in Enciclopedia Cattolica. VII, Città del
Vaticano 1951, 995-998; É. Mâle, La résurrection de Lazare dans l’art, in Revue des Arts 1, 1951, 4452; R. Darmstädter, Die Auferweckung des Lazarus in der altchristlichen und byzantinischen Kunst,
Bern 1955; L. Réau, Iconographie de l’art chrétien. II. Iconographie de la Bible. II. Nouveau Testament,
Paris 1957, 386-391; G. Schiller, Ikonographie der christlichen Kunst. I, Gütersloh 1966, 189-194; H.
Meuer, s.v. Lazarus von Bethanien, in Lexicon der christlichen Ikonographie. III, Freiburg 1971, 33-38;
G. Santagata, s.v. Lazzaro, in Dizionario Patristico ed Antichità Cristiane. II, Casale Monferrato 1983,
1914-1915; J. S. Partyka, La résurrection de Lazare dans les monuments funéraires des nécropoles chrétiennes à Rome (peintures, mosaïques et décors des épitaphes). Étude archéologique, iconographique
et iconologique. Travaux du Centre d’Archéologie Méditerranéenne de l’Académie Polonaise des Sciences. 33, Varsovie 1993; M. Guy, s.v. Lazzaro, in F. Bisconti (a cura di), Temi di iconografia paleocristiana, Città del Vaticano 2000, 201-203.
11
Si tratta della Resurrezione del figlio della vedova di Naim (Lc 7, 11-17) e della Resurrezione della
figlia di Giairo (Mt 9, 18-19, 23-26; Mc 5, 21-24, 30-43; Lc 8, 40-42, 49-56). Per un quadro sintetico e
generale sull’iconografia di questi episodi, Réau, Iconographie de l’art chrétien … cit., 384-386 ; Schiller, Ikonographie der christlichen ... cit., 187-189. Per quanto concerne l’iconografia dei due miracoli
nella produzione artistica paleocristiana si vedano D. Calcagnini Carletti, La Resurrezione del figlio della
vedova di Naim nell’iconografia del IV secolo, in Bessarione 5, 1986, 121-145; Eadem, s.v. Resurrezione
del figlio della vedova di Naim, in Bisconti (a cura di), Temi di iconografia … cit., 268-269; Eadem, s.v.
Resurrezione della figlia di Giairo, in Bisconti (a cura di), Temi di iconografia … cit., 269-270.
12
Lazzaro, secondo il racconto giovanneo, giaceva nel sepolcro ormai da quattro giorni. Il soggetto
nel repertorio funerario indicava il cristiano defunto, in attesa della propria resurrezione per mezzo di
Cristo: così G. Wilpert, Le pitture delle catacombe romane, Città del Vaticano 1903, qui 40; Idem, I sarcofagi cristiani antichi. II, Città del Vaticano 1932, 302; Calcagnini Carletti, La Resurrezione del figlio
… cit., 122-123.
13
J. van Laarhoven, Storia dell’arte cristiana, Milano 1999, 163-164.
10
90
SIMONA MAFFEI
La Resurrezione di Lazzaro: il cammino dell’iconografia
Il Vangelo di Giovanni (Gv 11, 1-44) racconta che, quando Lazzaro si ammalò, le sue
sorelle, Marta e Maria, mandarono a chiamare Gesù, affinché egli si recasse a Betania,
presso Gerusalemme. Cristo sapeva che Lazzaro sarebbe morto e, quando giunse a destinazione, l’amico era stato deposto nel sepolcro ormai da quattro giorni. Recatosi dinanzi
alla grotta assieme alle sorelle del defunto, Gesù restituì la vita a Lazzaro invitandolo ad
abbandonare il sepolcro. Questi uscì, destando lo stupore dei giudei presenti, con i piedi
e le mani avvolti nelle bende e il viso coperto da un sudario.
La particolarità del prodigio fu colta già dai primi autori cristiani: «praecipuo resurrectionis exemplo» per Tertulliano 14 e, per Agostino 15, il miracolo fu inteso anche quale
prova inconfutabile della natura divina di Cristo 16, prefigurazione della sua stessa resurrezione e quindi immagine della remissione dei peccati 17.
La Resurrezione di Lazzaro è attestata sin dal III secolo nella plastica funeraria e nella pittura cimiteriale associata al Miraculum fontis, alla Visio Ezechielis 18 o ad altre immagini a carattere battesimale e salvifico 19. La scena presentò sin dall’inizio uno schema che le garantiva immediata riconoscibilità. Nelle prime raffigurazioni, Cristo opera
il miracolo toccando generalmente con la virga taumaturga 20 il capo del defunto, rap14
Tertulliano, De resurrectione mortuorum 53, 3: ed. J. G. P. Borleffs, CCL 2, 2, Turnholti 1954, 998.
Agostino, Tractatus in Iohannis Evangelium 49, 1: ed. D. Radbodus Willems, CCL 36, Turnholti
1954, 419-420.
16
Efrem, Commentarium in Diatessaron 20, 9-10, 33; 21, 21: introduzione, traduzione e note di L.
Leloir, SC 121, Paris 1966, 349-350, 367, 385.
17
Clemente Alessandrino, Paedagogus 1, 2, 6, 3-4: introduzione e note di H. I. Marrou, traduzione
di M. Harl, SC 70, Paris 1960, 118; Ambrogio, De poenitentia 2, 7, 54-58, introduzione, traduzione e
note di R. Gryson SC 179, Paris 1971, 166-170; Agostino, Sermones 98, 6, PL 38, 594-595; Isidoro di
Siviglia, Allegoriae quaedam Sacrae Scripturae 241, PL 83, 128.
18
È il caso – ad esempio – del sarcofago conservato nel Museo Capitolino di Roma, dove il passaggio dalla scena di Lazzaro alla Visio Ezechielis è mediato dalla figura ripetuta del profeta rivolta verso
il Salvatore e dall’immagine di uno dei risorti della scena di Ezechiele che assiste al prodigio operato
da Cristo e che evidenzia il rapporto tra la prefigurazione veterotestamentaria e il miracolo neotestamentario come prova della fede nella resurrezione: così F. Bisconti, Un coperchio di sarcofago paleocristiano nel Cimitero Maggiore, in Quaeritur Inventus Colitur. Miscellanea in onore del padre Umberto
Maria Fasola B., Città del Vaticano 1989, 23-49, 46; A. M. Ramieri, Sull’iconografia dell’edicola di Lazzaro a proposito di un frammento inedito di sarcofago di S. Callisto, in Rivista di Archeologia Cristiana
LXXIII, 2, 1997, 341-370, qui 368.
19
Guy, s.v. Lazzaro … cit., 202.
20
La virga, accolta nell’iconografia cristiana anche su basi scritturistiche, in riferimento soprattutto
ai primi capitoli dell’Esodo, fu associata quasi esclusivamente alla figura di Mosè e successivamente a
quella di Gesù (ma, in seguito, anche a Ezechiele nel miracolo delle ossa, e ancora a Pietro, nella scena
battesimale dei carcerieri Processo e Martiniano). Sebbene nei Vangeli non si parli dell’uso di una virga
da parte di Gesù, l’iconografia paleocristiana adotta questo particolare attributo iconografico con l’intento di mostrare che ciò che Mosè operava con questo ‘dito’ prestatogli da Dio, Cristo lo opera con la
propria mano. Su alcuni vetri dorati di età paleocristiana si giunge ad allungare il dito di Gesù in forma
di breve virga, oppure quando egli impugna la virga, a confondere il bastone con il suo dito, in modo
che sia quest’ultimo a toccare l’infermo e a compiere il prodigio. Si veda Bisconti, s.v. Virga, in Dizionario patristico … cit., I, 3597-3598; M. Dulaey, “Virga virtutis tuae, virga ori tui”. Le Bâton du Christ
dans le Christianisme ancien, in Quaeritur Inventus … cit., 237-245; U. Utro, s.v. Virga, in Bisconti (a
cura di), Temi di Iconografia … cit., 300-302.
15
LA RESURREZIONE DI LAZZARO IN PUGLIA TRA XI E XV SECOLO
91
presentato come una
mummia all’entrata del
sepolcro, secondo un’iconografia spesso ricondotta all’arte alessandrina 21.
La raffigurazione della
tomba di Lazzaro in questo periodo si discostò dal
sepolcro di tipo palestinese descritto da Giovanni per assumere l’aspetto
di un naiskos 22.
Tipica dei sarcofagi è la
resa per lo più frontale o
leggermente obliqua dell’edificio (correntemente
denominato edicola, edi1. - Ravenna, chiesa di Sant’Apollinare Nuovo. Resurrezione di Lazcola funeraria o sepolcrazaro (da G. Bovini, Mosaici di Sant’Apollinare Nuovo di Ravenna: il
ciclo cristologico, Firenze 1958, tav. VII).
le 23) e la presenza, a partire dal IV secolo, di una delle sorelle di Lazzaro, probabilmente Maria. Coerentemente con la narrazione evangelica,
la donna si prostra ai piedi del Cristo (Gv 11, 32), come sul sarcofago di Claudianus, o
ne bacia la mano, come sul sarcofago di Lot a San Sebastiano 24.
Accanto al tipo paleocristiano della scena (fig. 1), contraddistinto dalla cosiddetta
edicola, si diffuse in ambito bizantino una versione più aderente al racconto evangelico, in cui Lazzaro risorge da una grotta. Questa iconografia è attestata per la prima
volta in una miniatura del Codex Purpureus Rossanensis (fig. 2) 25, datato al pieno VI
secolo 26, attualmente considerata la più antica versione pervenuta di una celebre e originale composizione che ebbe grande fortuna nella pittura medievale bizantina e occidentale 27, conservando inalterati per secoli i suoi elementi precipui. La scena mostra un
gruppo di apostoli, guidati da Pietro e Andrea, che segue Gesù, il cui cammino si arresta
21
Guy, s.v. Lazzaro … cit., 201.
Per una sintesi esaustiva del complesso dibattito critico sul modello di edificio alla base dell’iconografia paleocristiana del sepolcro di Lazzaro e per un’ampia bibliografia sull’argomento, Ramieri,
Sull’iconografia dell’edicola di Lazzaro … cit., 341-370, nonché A. Recio Veganzones, Iconografia
«minor» decorando el podium sepulcral de Lazaro en sarcofagos constantinianos, in Rivista di Archeologia Cristiana LXVI, 1-2, 1990, 185-232, qui 187 e Guy, s.v. Lazzaro … cit., 202.
23
Ramieri, Sull’iconografia dell’edicola di Lazzaro … cit., 343.
24
Guy, s.v. Lazzaro … cit., 202.
25
Sul Codice di Rossano, A. Muñoz, Il Codice Purpureo di Rossano, Roma 1907; F. De Maffei, Il
Codice purpureo di Rossano Calabro: la sua problematica ed alcuni risultati di ricerca, in C. D’Angela
(a cura di), Testimonianze cristiane antiche ed altomedievali nella Sibaritide. Atti del Convegno nazionale (Corigliano-Rossano, 11-12 marzo 1978). Vetera Christianorum. Scavi e ricerche. 3, Bari 1980,
121-264; G. Cavallo, Codex Purpureus Rossanensis, Roma 1992.
26
Cavallo, Codex Purpureus … cit., 11.
27
Ivi, 21.
22
92
SIMONA MAFFEI
2. - Codex Purpureus Rossanensis, Resurrezione di Lazzaro (Rossano Calabro, Museo Diocesano di
Arte Sacra - da Cavallo, Codex Purpureus … cit., f. 1r, tav. 1).
dinanzi alle sorelle del defunto, prostrate nel centro della composizione e ancora ignare
della resurrezione del fratello. Cristo è colto nel momento in cui esorta Lazzaro a venir
fuori dal sepolcro, mentre a destra un giovane, la cui rosea veste appare tirata fin sopra il
naso per non avvertire l’odore, conduce il risorgente fuori da una buia caverna, avvolto
nelle bende 28. La raffigurazione di entrambe le sorelle di Lazzaro, la folla dei giudei che
assistono al miracolo e il gruppo degli apostoli complicano e arricchiscono notevolmente
la scena rispetto alle più antiche raffigurazioni del soggetto che, in linea con il carattere
sintetico proprio di tutta l’iconografia cristiana delle origini, prevedevano solo la presenza dei protagonisti e dei dettagli indispensabili alla narrazione. Il gesto di tapparsi il
naso o di coprirsi il volto, compiuto da coloro che sciolgono le bende del risorgente e talvolta anche da chi assiste al miracolo, divenne quasi una costante delle raffigurazioni medievali dell’episodio, secondo l’esclamazione attribuita dal testo giovanneo a Marta:
«Signore, già manda cattivo odore, poiché è di quattro giorni» 29.
Alla vicenda di Lazzaro, simbolo della redenzione di un’umanità peccatrice e prefigurazione della resurrezione universale alla fine dei tempi 30, continuò a guardare con interesse anche la cultura medievale. Lo si evince non soltanto da fonti artistiche, ma anche
dalle notizie contenute nella Legenda aurea 31 e dalle tradizioni 32 riguardanti la vita di Lazzaro dopo la resurrezione.
28
Ibidem.
Gv 11, 39.
30
San Bonaventura, Commentarius in Evangelium s. Ioannis 2, 11, 1-63: traduzione di E. Mariani,
note e indici di J. G. Bougerol. Nuova Collana Bonaventuriana. VII.2, Roma 1991, 19-51, qui 11, 30,
33: «Lazaro significa “aiutato dal Signore”. Egli simboleggia l’uomo aiutato dalla grazia […]».
31
Iacopo da Varazze, Legenda aurea 96 (Vita di santa Maria Maddalena), 105 (Vita di santa Marta),
518, 522, 560.
32
Josi, s.v. Lazzaro … cit., 998.
29
LA RESURREZIONE DI LAZZARO IN PUGLIA TRA XI E XV SECOLO
93
L’iconografia occidentale attinse spesso alla redazione bizantina della scena, talvolta variandola con l’adozione di alcuni elementi di matrice paleocristiana come l’edicola, la
virga taumaturga o il rotolo 33. Inoltre, l’evoluzione dei riti funerari e le relazioni instauratesi fra l’iconografia della vita pubblica di Cristo e il teatro liturgico determinarono ulteriori novità nella resa del soggetto. Il risorgente fu spesso raffigurato – a causa
dell’influenza esercitata sull’iconografia dell’episodio dalla messa in scena dei Misteri –,
mentre si solleva dal suo sepolcro 34, avvolto esclusivamente in un sudario, privo delle tradizionali bende di lino 35. Queste ultime continuarono tuttavia a essere rappresentate nelle
altre varianti iconografiche, dalla redazione bizantina della scena all’altrettanto comune soluzione che collocava Lazzaro in piedi o giacente all’interno del proprio sarcofago. Dal XII
secolo, l’iconografia dell’episodio attinse talvolta alla rappresentazione occidentale del
monumento a Lazzaro in Autun 36, distrutto nel 1766, del quale restano le tre statue dei
santi Andrea, Marta e Maria Maddalena conservate al Musée Rolin (figg. 3-4) 37. È quanto
si può osservare in una delle formelle della porta di san Ranieri realizzata dallo scultore
Bonanno Pisano (fig. 5) per il duomo di Pisa 38.
La contaminazione dell’iconografia della scena con quella della Resurrezione di Cristo portò a elaborare una soluzione piuttosto rara proposta da Giovanni da Milano nell’affresco della cappella Rinuccini (1365 circa) all’interno della chiesa di Santa Croce a
Firenze 39 (figg. 6-8). Lazzaro è raffigurato, avvolto in un sudario, mentre scavalca, con
33
Con riferimento inequivocabile alla dottrina cristiana il rotolo compare come attributo di Cristo,
dei profeti, degli apostoli, dei santi, di semplici defunti e anche come simbolo a sé stante. Come attributo di Cristo lo si ritrova nelle scene di insegnamento (dove è rappresentato svolto), nelle immagini di
traditio legis, nelle scene di miracolo ecc.: M. Greenhalgh, Iconografia antica e sue trasformazioni durante il Medioevo, in S. Settis (a cura di), Memoria dell’antico nell’arte italiana. II. I generi e i temi ritrovati, Torino 1985, 151-197, qui 179: «In accordo con la sua importanza come pensatore, maestro e
legislatore, e con un’iconografia che è, in ultima analisi, greca, il Cristo può anche essere raffigurato con
gli aspetti e gli attributi di un filosofo pagano, mentre tiene – come i filosofi che si possono vedere sui
sarcofaghi pagani – un libro o un rotolo». Si rinvia anche a M. Busia, s.v. Rotolo, in Bisconti (a cura di),
Temi di iconografia … cit., 274-275.
34
Van Laarhoven, Storia dell’arte … cit., 167: «[…] la tomba di Lazzaro su un capitello del 1140 circa
della cattedrale di Vienne non è resa con una grotta, come nell’arte bizantina, ma con la cassa, utilizzata
nelle rappresentazioni teatrali».
35
Réau, Iconographie de l’art chrétien … cit., 389.
36
Per quanto concerne il problema della tipologia di Lazzaro ad Autun, R. Hamann, Das Lazarusgrab
in Autun, in Marburges Jahrbuch für Kunstwissenschaft 8-9, 1936, 182-328.
37
Josi, s.v. Lazzaro … cit., 998; E. Vergnolle, s.v. Autun, in Enciclopedia dell’Arte Medievale. II,
Roma 1991, 742.
38
W. Melczer, La porta di Bonanno nel Duomo di Pisa. Teologia e immagine, Pisa 1988; Idem, Le
porte bronzee di Bonanno Pisano, in S. Salomi (a cura di), Le porte di bronzo dall’antichità al secolo XIII.
I, Roma 1990, 373-387, qui 381: «Un Lazzaro ‘seduto’ nella sua tomba è un caso troppo evidente per dovervi insistere: la rappresentazione occidentale del monumento a Lazzaro in Autun è alla base del pannello di Pisa. Ciò che è particolarmente interessante in questo caso è la sottigliezza con cui Bonanno
arriva ad indicare la concavitas della tomba in quel famoso monumento della cattedrale di Saint-Lazare».
39
Réau, Iconographie de l’art chrétien … cit., 389; M. Boskovits, Giovanni da Milano. I Diamanti
dell’arte. 13. Biblioteca di pittura, scultura e architettura diretta da Alberto Busignani, Firenze 1966,
qui 22: «L’invenzione secondo cui il morto risuscitato sembra esser cavato con forza dal sepolcro non
può che derivare da Giovanni, ma la realizzazione meccanica e inabile indica chiaramente la mano di
un collaboratore meno dotato». Vedi anche Schiller, Ikonographie der christlichen … cit., 193.
3. - Autun, Musée Rolin. Resurrezione di Lazzaro: particolare di Marta (da Hamann, Das Lazarusgrab in Autun … cit., 206, fig. 16).
4. - Autun, Musée Rolin. Resurrezione di Lazzaro:
particolare di Maria Maddalena (da Hamann,
Das Lazarusgrab in Autun … cit., 205, fig. 14).
5. - Pisa, Museo dell’Opera del Duomo.
Porta di san Ranieri, formella: Bonanno
Pisano, Resurrezione di Lazzaro (da Salomi [a cura di], Le porte … cit., II, tav.
CCCXLV, fig. 11).
6. - Firenze, chiesa di Santa Croce. Cappella Rinuccini: Giovanni da Milano, Resurrezione di Lazzaro (da Giovanni da Milano. Capolavori del Gotico fra Lombardia e Toscana. Guida alla mostra [Firenze, Galleria dell’Accademia, 10 giugno-2 novembre 2008], Firenze 2008, 27, fig. 33).
7-8. - Firenze, chiesa di Santa Croce. Cappella Rinuccini: Giovanni da Milano, Resurrezione di
Lazzaro, particolari (da Boskovits, Giovanni da Milano … cit., figg. 56-57).
96
SIMONA MAFFEI
9. - Nicolas Froment, Resurrezione di Lazzaro, particolare (Firenze, Galleria degli Uffizi - da
Spears Grayson, The Northern
Origin of Nicolas Froment’s …
cit., 352, fig. 1).
l’aiuto di due apostoli, il bordo del suo sepolcro, voltandosi verso Gesù raffigurato alle
sue spalle.
In opere del XV secolo 40, tra le quali la Resurrezione di Lazzaro (1461) di Nicolas Froment, conservata agli Uffizi 41, è attestata un’ulteriore variante iconografica: il risorgente
è rappresentato nell’atto di sollevarsi dal proprio sarcofago con le mani legate (fig. 9). Pietro provvede a liberarlo in virtù della facoltà di legare e sciogliere 42 attribuitagli dal Vangelo di Matteo 43.
40
Sulle raffigurazioni della Resurrezione di Lazzaro nell’arte italiana del Quattrocento e del Cinquecento, A. S. Molinié, La résurrection de Lazare entre pénitence et espérance. Études de quelques
peintures murales italiennes de la Renaissance, in Journal de la Renaissance III, 2005, 121-134.
41
M. Spears Grayson, The Northern Origin of Nicolas Froment’s Resurrection of Lazarus Altarpiece
in the Uffizi Gallery, in The Art Bulletin 58, 1976, 350-357.
42
Mt 16, 18-19: «Tu sei Pietro e su questa pietra edificherò la mia chiesa e le porte degli inferi non
prevarranno contro di essa. A te darò le chiavi del regno dei cieli, e tutto ciò che legherai sulla terra sarà
legato nei cieli, e tutto ciò che scioglierai sulla terra sarà sciolto nei cieli».
43
Réau, Iconographie de l’art chrétien … cit., 389.
LA RESURREZIONE DI LAZZARO IN PUGLIA TRA XI E XV SECOLO
97
Le testimonianze pugliesi
Nell’Occidente medievale – come già indicato – alcuni elementi tipici dell’iconografia
paleocristiana della Resurrezione di Lazzaro non vennero dimenticati e talvolta continuarono
a essere adoperati. L’esempio contenuto nell’Omiliario latino VI B 2 (fig. 10), attualmente
conservato nella Biblioteca Nazionale Vittorio Emanuele II di Napoli, documenta efficacemente questa persistenza. Allo stato attuale delle ricerche, si ritiene che il manoscritto, tradizionalmente attribuito a uno scriptorium di Troia 44, dove fu acquistato dall’abate Leto fra il
1041 e il 1059 45, sia stato realizzato a Bari 46 entro il primo trentennio dell’XI secolo 47.
Se il linguaggio degli episodi evangelici e la ricchezza del repertorio dell’Initialornamentik sono stati convincentemente messi in relazione con i testi-base della miniatura
beneventano-cassinese del X e degli inizi dell’XI secolo, il sistema illustrativo del codice
(mutuato dai Lezionari greci del X e dell’XI secolo) e alcune soluzioni iconografiche attingono alla tradizione bizantina 48. La sequenza delle scene illustra la liturgia quaresimale
e comprende, oltre alla Lamentatio Geremiae (f. 302v), nove episodi neotestamentari, tre
dei quali raffigurano prodigi operati da Cristo medico: la Guarigione del paralitico (f.
72v), l’Episodio del cieco nato (f. 169r) e la Resurrezione di Lazzaro (f. 200r). Nell’ultimo caso Cristo, munito di rotolo, restituisce la vita all’amico, raffigurato avvolto nelle
bende, ritto dinanzi all’edicola di memoria paleocristiana. Il risorgente è sostenuto da due
personaggi maschili, uno dei quali si tappa il naso, per evitare di respirare il cattivo odore
emanato dal miracolato. Qui come altrove il Maestro dell’Omiliario, responsabile dell’apparato decorativo del nucleo più consistente del manoscritto (da f. 25r a f. 313v) 49,
44
M. Avery, A Manuscript from Troia: Naples VI B 2, in W. R. W. Koehler (a cura di), Mediaeval Studies in memory of A. Kingsley Porter. I, Cambridge (Mass.) 1939, 153-164; A. Petrucci, Scrittura e cultura nella Puglia altomedievale, in La Capitanata 5, 1967, 1-20, qui 10-11; M. Fuiano, Libri, scrittorii
e biblioteche nell’Alto Medioevo, Napoli 1973, 81.
45
Sul recto della prima carta si legge «Recordatione facio ego Letus abbas de ista homelia quod
comparavit in civitate Troia ante Hiohanne episcopus et Ambrosius archipresbiter et Iohannes de Ursengari trumarcho da Iohannes sacerdos filius de Guido et guadia michi dedit et mediatore michi posuit seipsum et boni fratres eius». Per quanto concerne la nota d’acquisto e l’identificazione dei
personaggi che in essa sono menzionati, si rimanda a Petrucci, Scrittura e cultura … cit., 10-11; Cavallo,
Struttura e articolazione della minuscola beneventana libraria tra i secc. X-XII, in Studi Medievali 3ª
s., 11, 1970, 343-368, qui 356, nt. 62.
46
Con ogni probabilità il manoscritto fu eseguito nello scriptorium del monastero di San Benedetto:
G. Bertelli Buquicchio, M. Milella Lovecchio, Architettura e arti figurative, in F. Tateo (a cura di), Storia di Bari. I. Dalla Preistoria al Mille, Roma-Bari 1989, 383-409, qui 402-403; F. Magistrale, Cultura
grafica a Bari fra IX e XI secolo, in Tateo (a cura di), Storia di Bari … cit., 411-443, qui 432; G. Orofino, Miniatura in Puglia agli inizi dell’XI secolo: l’Omiliario VI B 2 della Biblioteca Nazionale di Napoli, in Miniatura 3/4, 1990/1991, 21-36, qui 32; Eadem, La decorazione dei manoscritti pugliesi in
beneventana della Biblioteca Nazionale di Napoli, in G. Vitolo, F. Mottola (a cura di), Scrittura e produzione documentaria nel Mezzogiorno Longobardo. Atti del Convegno internazionale di studi (Badia
di Cava, 3-5ottobre 1990), Badia di Cava 1991, 457-488, qui 462.
47
Per la datazione del manufatto si rimanda all’ampia bibliografia citata in Orofino, Miniatura in Puglia … cit., 21, nt. 2; Eadem, Miniatura in Capitanata. Bilancio e prospettive di una ricerca, in M. S.
Calò Mariani (a cura di), Capitanata medievale, Foggia 1998, 202-213, qui 210, 212, nt. 4.
48
Orofino, Miniatura in Capitanata … cit., 203.
49
La decorazione dell’Omiliario è attualmente considerata opera di due mani diverse: Orofino, Miniatura in Puglia … cit., 22.
98
SIMONA MAFFEI
10. - Resurrezione di Lazzaro
(Napoli, Biblioteca Nazionale
Vittorio Emanuele II. Ms. VI B 2,
f. 200r - da V. Pace, La pittura
delle origini in Puglia (secc. IXXIV), in La Puglia fra Bisanzio e
l’Occidente, Milano 1980, 317400, qui 329, fig. 435).
11. - Altamura, cattedrale di Santa Maria Assunta. Portale centrale, formella: Resurrezione di Lazzaro (da M.
Saponaro [a cura di], Scelus. Le sculture del portale della cattedrale di Altamura, Altamura 2006, fig. 71).
LA RESURREZIONE DI LAZZARO IN PUGLIA TRA XI E XV SECOLO
99
aderisce a modelli di provenienza diversa, ricorrendo sia all’edicola che al gesto proprio
dell’iconografia bizantina di turarsi il naso compiuto da uno dei presenti 50. L’esiguità
dello spazio a disposizione per le immagini, dovuta a una non attenta pianificazione del
ciclo, ha indotto talvolta il miniatore ad abbreviare le scene. In questo caso, egli rinuncia
alla raffigurazione degli apostoli e delle sorelle del miracolato prone dinanzi a Cristo.
L’omissione di questi e di altri particolari episodici è stata inoltre considerata, assieme alla
semplificazione dei dettagli iconografici, all’ingrandimento delle figure per conseguire effetti monumentali e alla centralizzazione degli schemi compositivi, riflesso di «quel passaggio dal narrativo al simbolico che, tra la fine del X e l’XI secolo, cristallizza
l’illustrazione del Lezionario bizantino in un ciclo di valore dogmatico, che enfatizza
l’aspetto liturgico della iconografia neotestamentaria» 51.
La Resurrezione di Lazzaro è il soggetto di una delle formelle che decorano l’archivolto
del portale della cattedrale di Altamura 52 (fig. 11), tradizionalmente riferito alla committenza
di Roberto d’Angiò, ricostruttore della chiesa gravemente danneggiata nel 1316 da un imprecisato disastro, ma – allo stato attuale delle ricerche – datato al tardo XIV secolo 53. Il risorgente è in questo caso raffigurato in piedi all’interno del sarcofago, avvolto nelle bende,
secondo una variante iconografica adoperata talvolta anche per Samuele nell’episodio veterotestamentario di Saul e la pitonessa di Endor (1 Sam, 28, 3-25) 54 (fig. 12). Le sorelle del
miracolato sono raffigurate sullo sfondo della scena dietro il sarcofago. Marta si copre il
volto per non sentire il fetore emanato dal corpo di Lazzaro 55.
50
Eadem, 26.
Ibidem.
52
Sebbene la bibliografia sull’edificio negli ultimi decenni sia notevolmente cresciuta, raramente
l’iconografia delle scene scolpite sul portale altamurano è stata oggetto di approfondimento. Per quanto
concerne le vicende costruttive della fabbrica e per il contesto storico e culturale nella quale essa si inserisce, si veda soprattutto V. U Celiberti, Altamura federiciana, in Altamura 15, 1973, 29-78; P. Belli
D’Elia, La facciata ed il portale della cattedrale di Altamura. Rilettura e riflessioni, in Altamura 36,
1994-1995, 215-245; R. Bonelli, C. Bozzoni, Federico II e la cattedrale di Altamura, in Altamura 36,
1994-1995, 141-166; K. Kappel, D. Kemper, La chiesa di Santa Maria di Federico II in Altamura (Puglia), in Altamura 36, 1994-1995, 253-297; A. Pepe, M. Civita, La cattedrale di Altamura, in M. S.
Calò Mariani, R. Cassano (a cura di), Federico II. Immagine e potere. Catalogo della mostra (Bari, Castello Svevo, 4 febbraio-17 aprile 1995), Venezia 1995, 276-283; A. Pepe, M. Civita, Le trasformazioni
della cattedrale di Altamura dalle absidi all’attuale facciata, in Altamura 38, 1997, 63-97; P. Corsi, Altamura bizantina e sveva, Bari 2005. Si veda, per quanto concerne i restauri, A. R. Baldassarre, Scheda
n. 2, in Restauri in Puglia 1971-1983. Catalogo della mostra (Bari, Castello Svevo, marzo-ottobre 1982).
II, Fasano 1983, 17-19; M. Benedettelli, G. Fragasso, Il restauro del portale, del rosone e della bifora
della cattedrale di Altamura, in Altamura 36, 1994-1995, 181-214; C. Bozzoni, Il duomo di Altamura:
vicende e restauri, in Altamura 36, 1994-95, 107-139.
53
Si veda P. Belli D’Elia, Presenze pugliesi nel cantiere della cattedrale di Traù. Problemi e proposte,
in Vetera Christianorum 28, 1, 1991, 387-421, qui 410-411; Pepe, Civita, La cattedrale di Altamura … cit.,
280. Recentemente il portale altamurano è stato ricondotto alla committenza della regina Giovanna I e di
Roberto, figlio di Filippo, principe di Taranto. Per quanto concerne il problema della committenza dell’opera si veda Belli D’Elia, La facciata ed il portale della cattedrale di Altamura … cit., 239-240.
54
L. Réau, Iconographie de l’Art chrétien. II. Iconographie de la Bible. I. Ancien Testament, Paris
1956, 252. Anche il re, che si copre il volto col mantello per non farsi riconoscere dalla pitonessa, ricorda
coloro che assistono alla resurrezione di Lazzaro tappandosi il naso per non respirare il fetore emanato
dal miracolato: Schmitt, Spiriti e fantasmi … cit., 23.
55
Per questo gesto compiuto da Marta, che compare spesso nelle raffigurazioni medievali della scena
51
12. - Spettro di Samuele (Erlangen, Universitätsbibliothek. Gumbertsbibel, ms. 1, f. 82v - da
Schmitt, Spiriti e fantasmi … cit., fig. 2).
13. - Vienne (Isère), chiesa di Saint-André-le-Bas.
Capitello: Giobbe re, la moglie, un mendicante (da
Hamann, Das Lazarusgrab in Autun … cit., 310,
fig. 198).
Non è semplice individuare le dirette
fonti iconografiche per questa e per le altre
Storie della vita di Cristo e di Maria disposte a corona lungo gli stipiti e l’archivolto
del portale altamurano. Alcune riflessioni
sono state formulate in proposito da P. Belli
D’Elia 56, al cui contributo si rimanda, tuttavia la questione resta tutt’altro che risolta.
La variante iconografica della scena
proposta sul portale altamurano si trova
parzialmente riproposta in un affresco della
(figg. 3, 11), si rimanda a V. Lassalle, L’origine
antique du geste de Marthe dans les représentations médiévales de la Résurrection de Lazare, in
Rivista di Studi Liguri XXXVII, 1-3, 1971, 200206. L’autore vede nella figura della moglie di
Giobbe, che si copre il naso, presente su alcuni
sarcofagi paleocristiani – ad esempio, su quello di
Giunio Basso, datato al 359 – e riproposta a
Vienne (Isère) su un capitello della chiesa di
Saint-André-le-Bas (metà del XII secolo), il modello al quale si sarebbero ispirati gli scultori romanici per rappresentare Marta che compie lo
stesso gesto, evitando così di respirare il cattivo
odore emanato da Lazzaro (figg. 13, 14).
56
Belli D’Elia, La facciata ed il portale della
cattedrale di Altamura … cit., 242-245.
14. - Città del Vaticano, Grotte Vaticane. Sarcofago di Giunio Basso: Giobbe seduto, la moglie in
piedi, figura virile emergente sullo sfondo (da L.
Carnevale, Giobbe dall’Antichità al Medioevo.
Testi, tradizioni, immagini. Quaderni di Vetera
Christianorum. 33. Collana del Dipartimento di
Studi Classici e Cristiani dell’Università degli
Studi di Bari Aldo Moro, Bari 2010, 179, fig. 5).
LA RESURREZIONE DI LAZZARO IN PUGLIA TRA XI E XV SECOLO
101
15. - Bitetto, chiesa di Santa Maria la Veterana. Resurrezione di Lazzaro (foto Soprintendenza per i
BbAaAaAaSs della Puglia - 1996).
chiesa francescana di Santa Maria la Veterana 57 (fig. 15), situata nella periferia meridionale di Bitetto in Terra di Bari. L’edificio, una chiesa a pianta basilicale divisa in tre navate con ampio transetto, ricoprì un ruolo considerevole 58 nel contesto culturale della città
fra XIII e XV secolo, periodo nel quale si svolsero le fasi fondamentali della ricostruzione
57
Per approfondimenti sulla storia e sulla decorazione pittorica della chiesa di Santa Maria la Veterana si veda M. Salmi, Appunti per la Storia della pittura in Puglia, in L’Arte XXII, 1919, 149-192; M.
D’Elia, Lettera sulla Veterana di Bitetto, in Studi di Storia pugliese in onore di G. Chiarelli. II, Galatina 1973, 137-152; A. Ambrosi, Scheda n. 18, in Restauri in Puglia 1971-1983 … cit., 134-141; R. Lorusso Romito, Scheda critica n. 9, in Restauri in Puglia 1971-1981. Catalogo della mostra (Bari, Castello
Svevo, marzo-ottobre 1982). I, Fasano 1983, 39-44; F. Navarro, La pittura a Napoli e nel meridione nel
Quattrocento, in F. Zeri (a cura di), La pittura in Italia. Il Quattrocento. II, Milano 1987, 446-477, qui
468-469; L. Palmisano, La chiesa di S. Maria La Veterana a Bitetto, in Fogli di Periferia VII, 1, 1995,
30-38; Eadem, Bitetto e la Veterana. Un percorso storico e storiografico, in Nicolaus VII, 1, 1996, 185224; Eadem, La fabbrica di S. Maria la Veterana a Bitetto, in Fogli di Periferia VIII, 1, 1996, 41-47;
Eadem, A Bitetto il santuario della primavera e dei bambini. Santa Maria la Veterana. Volume a cura
della ‘Confraternita M. SS. Annunziata’, Bitetto 1996; Eadem, Il tempio dell’eterno ritorno. Santa Maria
La Veterana a Bitetto. Pubblicazione a cura dell’‘Archeoclub d’Italia Sede di Bitetto-Bari’, s. l. 2007.
58
Per quanto riguarda la complessa e poco nota vicenda medievale della chiesa di Santa Maria la Veterana, l’insediamento nel XV secolo di una comunità francescana è considerato una tappa fondamentale. Un altro elemento da non trascurare è il ruolo svolto dall’edificio in qualità di santuario mariano,
oggetto di particolare devozione per gli abitanti di Bitetto e per le popolazioni limitrofe: Palmisano, La
chiesa di Santa Maria la Veterana … cit., 31.
102
SIMONA MAFFEI
della fabbrica altomedievale 59 e della sua decorazione pittorica giunta frammentaria 60. La
parete di fondo del transetto ospita le Scene della vita di Cristo, disposte ai lati dell’arcone che immette nel coro rettangolare e la cui leggibilità risulta compromessa dalle diffuse abrasioni 61.
La Resurrezione di Lazzaro è indubbiamente di difficile lettura, a causa di un’estesa
lacuna, che interessa il centro della composizione, ma alcuni elementi sono comunque riconoscibili. A sinistra è raffigurato, seguito da un apostolo, Cristo ai piedi del quale sembra di poter scorgere la figura prostrata di una delle due sorelle del risorgente. Lazzaro,
la cui immagine non è pervenuta, doveva verosimilmente trovarsi al centro della composizione, molto probabilmente in piedi e avvolto dalle tradizionali bende di lino, all’interno del sarcofago aperto, ancora chiaramente visibile. La scena, prefigurazione della
resurrezione, ben si inserisce all’interno di un ciclo che, assieme a quello mariologico e
al Giudizio, raffigurati rispettivamente sulla parete sinistra e nei tre registri inferiori della
parete destra del transetto, costituisce un programma iconografico rispondente al disegno divino della Salvezza 62.
In Terra d’Otranto l’episodio potrebbe aver svolto un ruolo particolarmente significativo all’interno della chiesa di Santa Caterina d’Alessandria 63 a Galatina, edificata insieme all’attiguo convento fra il 1380 e il 1391 per volere dell’allora conte di Soleto e di Lecce, Raimondello Del Balzo Orsini, e concessa all’Ordine francescano. La
59
Lorusso Romito, Scheda critica n. 9 … cit., 39. L’edificio fu profondamente rinnovato per iniziativa del vescovo di Bitetto, Marino Scicutella (1294-1302), cui si deve gran parte dell’assetto attuale.
60
Palmisano, La chiesa di S. Maria La Veterana … cit., 30.
61
Eadem, 35-36.
62
Eadem, 38.
63
Per quanto concerne la chiesa e la sua decorazione pittorica, si rimanda all’ampia bibliografia sull’argomento: A. Putignani, Il tempio di S. Caterina in Galatina, Galatina 1947; A. Antonaci, Gli affreschi di Galatina, Milano 1966; A. M. Matteucci, Gli affreschi di S. Caterina in Galatina, in Napoli
Nobilissima V, V-VI, 1966, 182-190; M. Montinari, La basilica cateriniana di Galatina, Galatina 1978;
M. S. Calò Mariani, Note sulla pittura salentina del Quattrocento, in Archivio Storico Pugliese XXXII,
I-IV, 1979, 139-164; C. Marsicola, Scheda critica n. 34, in Restauri in Puglia 1971-1981… cit., 115-119;
T. Presta (a cura di), La basilica orsiniana di Santa Caterina in Galatina, Genova 1984; Navarro, La pittura a Napoli … cit., 467-468; P. Belli D’Elia, Restauri. Gli affreschi di Galatina. Apocalisse nel Salento, in Art e Dossier 38, 1989, 23-31. Per una sintesi sull’oscillante cronologia dell’impresa pittorica,
P. Belli d’Elia, Principi e mendicanti. Una questione d’immagine, in C. Lavarra (a cura di), Territorio
e feudalità nel Mezzogiorno rinascimentale. Il ruolo degli Acquaviva tra XV e XVI secolo. Atti del I
Convegno internazionale di studi ‘La casa d’Acquaviva d’Atri e di Conversano’ (Conversano-Atri, 1316 settembre 1991). II, Galatina 1996, 261-294, in particolare 276, nt. 37. Per una approfondita e ben
argomentata lettura iconografica del ciclo neotestamentario, M. S. Calò Mariani, Predicazione e narrazione dipinta nella chiesa di Santa Caterina d’Alessandria a Galatina (Terra d’Otranto), in A. C. Quintavalle (a cura di), Medioevo: immagine e racconto. Atti del Convegno internazionale di studi (Parma,
27-30 settembre 2000), Milano 2003, 474-484. Per una sintesi storica, approfondimenti iconografici e
per gli ultimi restauri che hanno interessato la chiesa, F. Russo (a cura di), La parola si fa immagine. Storia e restauro della basilica orsiniana di Santa Caterina a Galatina, Venezia 2005. Per quanto concerne
il ruolo della committenza, C. Poso, La fondazione di Santa Caterina: scelta devozionale e committenza
artistica di Raimondo Orsini del Balzo, in A. Cassiano, B. Vetere (a cura di), Dal Giglio all’Orso. I
Principi d’Angiò e Orsini del Balzo nel Salento, Galatina 2006, 194-223; B. Vetere, I del Balzo Orsini
e la basilica di Santa Caterina in Galatina. Manifesto ideologico della famiglia, in Cassiano, Vetere (a
cura di), Dal Giglio all’Orso … cit., 2-23.
LA RESURREZIONE DI LAZZARO IN PUGLIA TRA XI E XV SECOLO
103
decorazione dell’edificio, una
basilica divisa in tre navate separate da due ambulacri, con
coro a pianta ottagonale, fu commissionata nel XV secolo dalla
moglie di Raimondello, Maria
d’Enghien, e dal figlio, Giovanni Antonio 64. La terza campata
della navata centrale ospita le Scene della vita di Cristo, tra le
quali la Resurrezione di Lazzaro
(fig. 16), raffigurata sul lato destro nell’ultimo riquadro del terzo registro. L’episodio è reso secondo la versione iconografica
occidentale che prevede la raffigurazione di Lazzaro nell’atto
di sollevarsi dal proprio sarcofago, coperto da un sudario, fatta
eccezione per il viso. Ai piedi del
Cristo, dietro il quale si intravedono le figure di due apostoli,
sono rappresentate prostrate le sorelle del miracolato. I giudei che
assistono al prodigio indossano un 16. - Galatina, chiesa di Santa Caterina d’Alessandria. Resurrezione di Lazzaro (da M. Milella, La parola si fa immacopricapo tipico del XV secolo 65 gine, in Russo (a cura di), La parola si fa immagine … cit.,
e sono colti nell’atto di coprirsi il 65-133, qui 68, fig. 77).
volto e le narici. Due dei presenti aiutano Lazzaro a spogliarsi del sudario. Uno di essi afferra il tessuto con entrambe
le mani e utilizza per questo il becchetto del mazzocchio – un copricapo tipico del Quattrocento fiorentino e dell’Italia centrale –, per ripararsi dal fetore 66. Il gesto è legato
– come si è proposto – alle parole attribuite a Marta dal testo giovanneo, sulle quali si
sono basate per secoli le interpretazioni che vedono nel miracolo la metafora della resurrezione della carne e della remissione dei peccati 67. Sul particolare del cattivo odo-
64
La commissione degli affreschi è tradizionalmente riferita a Maria d’Enghien, dal 1405 vedova di
Raimondello, ma i lavori dovettero di certo protrarsi sino al tempo di Giovanni Antonio come attestano
le sue armi ripetutamente dipinte sulle pareti dell’edificio: Calò Mariani, Note sulla pittura salentina del
Quattrocento … cit., 245.
65
P. Peri, Vestire al tempo dei del Balzo Orsini, in Cassiano, Vetere (a cura di) Dal Giglio all’Orso
… cit., 417-443.
66
M. Milella, Abbigliamento maschile, in Russo (a cura di), La parola si fa immagine … cit., 180.
67
Sull’obiezione di Marta si soffermano con particolare attenzione alcuni esegeti medievali. Si veda
in proposito san Bonaventura, Commentarius in Evangelium s. Ioannis 2, 11, 31, 33: «Questo Lazaro
langue nel piacere del peccato […] perché raramente avviene che l’indugiare nel piacere non finisca nel
peccato mortale. Ma la morte si ha col consenso, col quale il peccato è compiuto anche internamente […]
104
SIMONA MAFFEI
re emanato da Lazzaro insiste particolarmente anche lo pseudo Bonaventura nelle Meditationes 68, testo più volte considerato dalla critica 69 fonte di ispirazione per il ciclo
galatinese.
La lettura del programma iconografico degli affreschi della navata centrale proposta
da M. S. Calò Mariani 70 consente di formulare una riflessione sul ruolo ricoperto dall’episodio all’interno del ciclo galatinese. Con la bolla Pia Vota (19 settembre 1391) la
chiesa e il convento di Santa Caterina furono concessi da Bonifacio IX a fra’ Bartolomeo
della Verna e ai frati Osservanti della Vicaria di Bosnia 71. In terra bosniaca, fra Trecento
e Quattrocento, la violenza dei Bogomili 72 contro i missionari era notevolmente cresciuta.
Questo rese indispensabile l’organizzazione di missioni alle quali partecipò anche la comunità osservante di Galatina. La sede cateriniana divenne in tali circostanze un centro
di formazione, per i frati destinati a quell’ardua impresa, e asilo, per coloro che tornavano
dalle terre di missione. In un simile contesto storico-culturale si può a ragione ritenere che
i temi cristologici raffigurati nell’edificio fossero funzionali a una sistematica confutazione delle teorie dei Bogomili. La vicenda di Lazzaro, metafora della resurrezione della
carne che quegli eretici negavano 73, doveva quindi, con ogni probabilità, essere considerata un soggetto particolarmente importante, poiché adatto a sostenere la lotta contro
tale eresia.
Affinità iconografiche e stilistiche hanno portato all’individuazione di rapporti evidenti tra gli affreschi galatinesi e quelli della chiesa di Santo Stefano a Soleto, ben sufPoi diventa di quattro giorni e puzza, quando dal consenso si passa all’azione, e dall’azione all’abitudine, dall’abitudine all’impudenza allorché l’uomo diventa sfrontato come una meretrice incapace di arrossire; e allora è già fetido perché diffonde il peccato negli altri». Anche Tommaso d’Aquino evidenzia
il significato mistico dell’esclamazione di Marta: «[…] quelle parole “Già manda cattivo odore”, valgono per il peccatore che pecca per abitudine; poiché per la pessima fama un fetore insopportabile emana
dal suo peccato. Infatti come dalle opere buone emana il buon odore […] così dalle opere cattive evapora il fetore e l’odore cattivo. E giustamente si dice che costui “è di quattro giorni” perché gravato dal
peso degli affetti terreni e delle concupiscenze carnali. La terra infatti è l’ultimo dei quattro elementi».
Vedi Tommaso d’Aquino, Super Evangelium s. Joannis lectura 2, 11, 1546: traduzione a cura di T. S.
Centi. Fonti cristiane per il Terzo Millennio. 5, Roma 1992, 273-274.
68
«E così, tra una parola e l’altra, arrivano al sepolcro. Gesù dà ordine di togliere la lastra di pietra
che lo chiude, ma Marta protesta: “Signore – gli fa osservare – è da quattro giorni che è lí!”. Dio mio!
Guarda che razza d’amore hanno per Gesù quelle sorelle: non vogliono che il puzzo arrivi alle sue narici!». Si veda Anonimo francescano del Trecento, Meditationes Vitae Christi 63: traduzione e prefazione
a cura di S. Cola, Roma 1982, 108; Giovanni di Caulibus, Meditaciones vite Christi olim S. Bonauenturo attributae 66, 48-53, a cura di M. Stallings-Taney, CCCM 153, Turnholti 1997, 230.
69
Presta (a cura di), La basilica orsiniana … cit., 65; Belli d’Elia, Restauri. Gli affreschi di Galatina … cit., 25.
70
Calò Mariani, Predicazione e narrazione dipinta … cit., 474-476.
71
Per quanto concerne la presenza dei frati Osservanti della Vicaria di Bosnia in Puglia, P. Coco, La
Vicaria di Bosnia e i primordi dell’Osservanza in Puglia (1391-1446), in Studi francescani 7, 1921,
246-272; P. Corsi, I francescani della Vicaria di Bosnia in Puglia, in Cassiano, Vetere (a cura di), Dal
Giglio all’Orso … cit., 236-249.
72
I. Dujčev, I Bogomili nei paesi slavi e la loro storia, in L’Oriente cristiano nella Storia della Civiltà. Atti del Convegno internazionale (Roma, 31 marzo-3 aprile 1963; Firenze 4 aprile 1963), Roma
1964, 619-641; R. Manselli, L’eresia del male, Napoli 1980, 84-105.
73
Calò Mariani, Predicazione e narrazione dipinta … cit., 476: «con la morte essi assumono la natura di Cristo e il loro corpo, ridotto in polvere, non resusciterà mai».
17. - Soleto, chiesa di Santo Stefano. Resurrezione di Lazzaro (da Ortese, Sequenza del lavoro in Santo
Stefano a Soleto … cit., 376, fig. 33).
fragati da argomentazioni storiche 74. L’edificio ad aula unica è contraddistinto da un’ampia decorazione pittorica, la cui rilevazione stratigrafica è stata condotta da S. Ortese.
Egli ha evidenziato la netta distinzione di due facies prive di interferenze: una tardotrecentesca, legata a linguaggi bizantini, e una quattrocentesca, in sintonia con il cantiere tardogotico di Galatina, articolata in tre fasi pittoriche corrispondenti a tre campagne di
lavoro distinte 75. A questa seconda facies appartiene il ciclo cristologico affrescato nella
parte superiore della parete settentrionale. La Resurrezione di Lazzaro 76 (fig. 17) è col74
Il fondatore di Santa Caterina Raimondello, principe di Taranto e conte di Soleto, fu anche committente di rilevanti imprese architettoniche nel centro salentino. Due scudi araldici sono inoltre scolpiti rispettivamente sulla ghiera e sull’archivolto del rosone della chiesa di Santo Stefano. Sul primo
stemma sono stati rilevati alcuni contrassegni onorifici appartenenti alla casata dei del Balzo Orsini. Alcuni particolari del programma iconografico dell’edificio indicherebbero un intervento di Raimondello
nell’ideazione e nella realizzazione della chiesa. Si veda in proposito M. Berger, A. Jacob, La chiesa di
S. Stefano a Soleto. Tradizioni bizantine e cultura tardogotica, Lecce 2007, 98. Sull’apparato pittorico
dell’edificio, Calò Mariani, Note sulla pittura salentina del Quattrocento … cit., 152-153; Lorusso Romito, Scheda n. 42 … cit., 144-150; M. S. Calò Mariani, Dal Chiostro alle corti, in Vetere (a cura di),
Storia di Lecce. Dai Bizantini agli Aragonesi, Bari 1993, 661-734, in particolare 722-723.
75
S. Ortese, Sequenza del lavoro in Santo Stefano a Soleto, in Cassiano, Vetere (a cura di), Dal Giglio all’Orso … cit., 347-359.
76
Il soggetto iconografico, per quanto concerne il Salento, è attestato anche nella cappella di S. Nicola a Celsorizzo, datata al 1283. La leggibilità dell’affresco (fig. 18), collocato sulla parete W dell’edificio, risulta ormai irrimediabilmente compromessa, a causa di vistose lacune. Cristo e Pietro
(entrambi acefali) avanzano verso Lazzaro, la cui figura non è pervenuta. Maria è raffigurata prostrata
ai piedi del Salvatore: M. Berger, A. Jacob, Un nouveau monument byzantin de Terre d’Otrante: la chapelle Saint-Nicolas de Celsorizzo, près d’Acquarica del Capo, et ses fresques (an. 1283), in Rivista di
studi bizantini e neoellenici 27, 1990, 211-257, in particolare 228.
18. - Acquarica del Capo-Celsorizzo, cappella di San Nicola. Resurrezione di Lazzaro (foto dell’Autore - 2011).
locata nel registro intermedio 77, subito dopo la Guarigione del cieco nato e la Guarigione del sordomuto. L’episodio – come a Galatina – è reso secondo l’iconografia occidentale che prevede la raffigurazione del sollevamento di Lazzaro dal sarcofago. Cristo,
seguito da Pietro e Giovanni, chiama Lazzaro con un gesto della mano destra. Di fronte
al taumaturgo sono raffigurate – come di consueto – le sorelle del defunto, prostrate. Al
prodigio assistono i giudei meravigliati e infastiditi dal fetore del cadavere avvolto in un
sudario 78. Sebbene la composizione sia fondamentalmente la stessa dell’affresco galatinese, in questo caso il particolare del fetore emanato dal risorgente risulta meno accentuato.
In conclusione, ad un esiguo numero di raffigurazioni della Resurrezione di Lazzaro
in Puglia corrisponde, nell’arco cronologico esaminato, una grande ricchezza di soluzioni. La regione costituisce dunque un terreno di ricerca fertile per lo studio di questo
soggetto iconografico all’interno degli episodi legati alle guarigioni di Cristo.
77
È stato osservato come, diversamente da quanto accadeva generalmente nelle chiese bizantine, i
miracoli del ciclo soletano non siano rappresentati separatamente costituendo in tal modo un ciclo indipendente dalla serie delle grandi feste evangeliche, ma si qualifichino come parte integrante della sezione che illustra le tappe della vita pubblica e del ministero di Gesù. La mescolanza di momenti
essenziali della vita di Cristo con episodi solo apparentemente secondari andrebbe, secondo la critica più
recente, riferita ad una disposizione bizantina legata al significato simbolico attribuito dai commentari
liturgici medievali (fra cui la Protheoria di Nicola d’Adida e l’Historia ecclesiastica) alla chiesa, concepita come luogo ideale di svolgimento delle varie tappe della Storia della Salvezza, alle quali fa riferimento l’Anafora. Questi testi, molto diffusi tra i greci del Salento, come si evince dalla grande quantità
di codici pervenutici, stabilivano una relazione tra gli episodi della vita terrena di Cristo e i riti della celebrazione eucaristica. Per quanto concerne il significato della celebrazione liturgica nelle sue varie fasi,
il clero greco disponeva di una versione dell’Historia ecclesiastica notevolmente arricchita rispetto alla
redazione originaria alle cui indicazioni sembrerebbero attenersi pedissequamente i tre registri sovrapposti del ciclo cristologico soletano: Berger, Jacob, La chiesa di S. Stefano a Soleto … cit., 48-51.
78
Iidem, 46.
Studi Bitontini
Leonardo EVANGELISTA
93-94, 2012, 107-112
La chiesa del Santissimo Crocifisso a Bitonto*
Situata extra moenia nella zona orientale della città di Bitonto, la chiesa del Santissimo
Crocifisso (fig. 1) fu frequentata da pellegrini e devoti, fin dalla sua realizzazione, legati alla
presenza di un’edicola, detta del Repestingo 1, recante un Crocifisso affrescato 2 e inglobata
all’interno del nuovo edificio di culto costruito nella seconda metà del XVII secolo (fig. 2).
Già dal XVI secolo, il Crocifisso era considerato miracoloso e la devozione nei suoi confronti, favorita dal Capitolo della Cattedrale 3, superò i confini regionali 4.
Resta ignota la data della sua costruzione, ma dell’edicola del Repestingo si hanno notizie a cominciare dal 1529, quando don Vincenzo de Reccis, con testamento del 20 maggio di quell’anno, donò al Capitolo della Cattedrale un orto in via Bari con un’edicola che
aveva un Crocifisso dipinto, con l’intento di fare celebrare una messa quotidiana per la
salvezza della sua anima 5. Il Capitolo della Cattedrale, per sancire il diritto sull’edicola,
vi pose uno stemma sulla parte anteriore, ora murato sulla facciata della rinnovata chiesa,
nella parte superiore 6. Nella Platea del 1572, redatta da Francesco Grisulli, è annotato il
possesso di un orto sulla via di Bari, in cui era una «chiesuola» a pianta quadrata – con
lato di m 2,97 – e voltata a botte. Tale possesso viene confermato nella successiva Platea donata al Capitolo da Angelo Antonio Morea nel 1720 7.
* Ringrazio per i preziosi suggerimenti la prof. Anna Maria Tripputi, già docente di Storia delle tradizioni popolari presso l’Università degli Studi di Bari Aldo Moro, relatore della tesi di laurea Gli ex voto
della Chiesa del Crocifisso a Bitonto, discussa da Antonietta Gasparre presso la Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Ateneo barese nell’a.a. 2006-2007.
1
Il nome deriva verosimilmente dalla voce dialettale locale rapèste, che rinvia a una pianta selvatica
simile al ravanello, di cui la zona in cui si trovava la cappella del Crocifisso era ubertosa: S. Milillo, Il
Crocifisso, una chiesa tra gli ulivi, Bitonto 2002, 18; G. Saracino, Lessico dialettale bitontino. Edizione
riveduta e ampliata da N. Pice, Bari 2013, 377.
2
M. Basile Bonsante, Dal racconto all’icona. Modelli iconografici della historia Crucis tra Cinque
e Seicento, in M. S. Calò Mariani (a cura di), Il cammino di Gerusalemme. Atti del II Convegno di Internazionale di Studio (Bari - Brindisi - Trani, 18-22 maggio 1999), Bari 2002, 378-416.
3
S. Milillo, Chiese di Puglia. La chiesa e le chiese di Bitonto, Bitonto 2001, 34.
4
A. Castellano, La Chiesa del Crocifisso, Bitonto 1994, 164.
5
Archivio Diocesano di Bitonto, ms. s.n.c., Platea universalis R.mi Capituli Bituntini elaborata ab
admodum Rev.do sacrista D.no Francisco Antonio Grisullo in anno 1572, c. 67.
6
Milillo, Il Crocifisso … cit., 17-19.
7
Castellano, La Chiesa … cit., 163.
108
LEONARDO EVANGELISTA
Su sollecitazione dei fedeli e grazie alle numerose
offerte, si decise di costruire una nuova chiesa, progettata da Carlo Rosa nel
1663 8. I lavori iniziarono
l’anno successivo e furono
portati a termine nel 1671,
anno della consacrazione
da parte dal vescovo Tommaso Acquaviva, come attesta l’epigrafe dedicata all’interno della chiesa 9. Carlo Rosa impostò il suo progetto con l’intento di lasciare integro l’affresco originario, diventato nucleo
centrale della costruzione
medesima 10, e concepì la
nuova chiesa (fig. 3), costruita con conci di pietra
calcarea, quale edificio a
pianta centrale sormontato
da una cupola e preceduto da
un vano coperto da una volta a crociera 11: la lanterna
cupolata è decorata con maioliche 12.
L’ampio ciclo di affre1. - Bitonto, chiesa del SS. Crocifisso. Facciata principale (foto delschi, incentrato sulla
l’Autore - 2011).
‘Croce’, che trionfa sulla
cupola e conclude un percorso iconografico, fu progettato interamente dal Rosa e finalizzato a esaltare il venerato e più antico Crocifisso dipinto. Gli affreschi ripercorrono infatti momenti salienti ed episodi del Vecchio e Nuovo Testamento, che conducono al
Trionfo della Croce quale strumento della passione e rivelazione di Dio agli uomini 13.
8
Si rinvia alla bibliografia sopra ricordata, nonché a S. Rongone, Carlo Rosa e la chiesa del Crocifisso in Bitonto, Bitonto 1978; N. Cucinella, La Chiesa del Crocifisso in Bitonto, Bitonto 1978.
9
Milillo, Chiese di Puglia … cit., 34; Castellano, La Chiesa … cit., 166.
10
Milillo, Il Crocifisso … cit., 36.
11
M. D’Elia, La pittura barocca, in La Puglia tra Barocco e Rococò, Milano 1982, 244-260, qui
257. Per la consistenza e l’articolazione del complesso monumentale, studiato in successive occasioni
– in primis da S. Milillo – si veda l’ampia bibliografia già richiamata.
12
Castellano, La Chiesa … cit., 163.
13
La decorazione della chiesa si deve alla bottega di Carlo Rosa, il quale si avvalse delle esperienze
maturate nei cantieri napoletani e pugliesi. Tra gli altri vanno ricordati i suoi allievi Nicola Gliro, Vitantonio De Filippis, Nicolò Di Michele. Autografi di Carlo Rosa sono gli affreschi che fiancheggiano
LA CHIESA DEL SANTISSIMO CROCIFISSO A BITONTO
2. - Bitonto, chiesa del SS. Crocifisso. Interno: affresco del Crocifisso (foto dell’Autore - 2011).
109
Di particolare interesse
è l’affresco, presente in sacrestia sulla parete retrostante l’altare maggiore,
che riproduce l’antica edicola del Repestingo ornata
da ex-voto, venerata da
chierici e circondata da devoti e infermi (fig. 4).
In mancanza di testimonianze scritte e orali, dell’edicola si conosce ben
poco. Probabilmente risale
al XVII secolo, ma non è
noto da chi sia stata commissionata. Si può supporre
che, essendo la chiesa sotto
la giurisdizione del Capitolo della Cattedrale, la
committenza possa essere
venuta dallo stesso Capitolo; o altrimenti l’affresco
sarebbe stato sostenuto da
un ricco signore per la propria famiglia e quindi elaborato proprio come ex
voto ovvero quale espressione di pia devozione per
ottenere una grazia o chiedere protezione 14.
Analizzando stilisticamente l’affresco si può dedurre che molto probabilmente è opera di un pittore
locale.
Nella parte centrale dell’affresco è rappresentata
l’edicola, la cui facciata è or-
l’atrio; la Lavanda dei piedi, l’Entrata in Gerusalemme e gli affreschi nelle lunette delle tre arcate:
l’Orazione nell’orto, la drammatica e movimentata Flagellazione, la solenne e affollata Deposizione. La
cupola, gli arconi decorati con scene bibliche e i quattro pennacchi con gli Evangelisti sono attribuiti al
De Filippis, che dovette intervenire dopo la morte di Carlo Rosa, avvenuta nel 1678, e quando i fondi
raccolti dai fedeli lo permisero: D’Elia, La pittura barocca … cit., 244-260; F. Abbate, Storia dell’arte
nell’Italia meridionale. Il secolo d’oro, Roma 2001, 194-195.
14
A. M. Tripputi, Bibliografia degli ex voto, Bari 1995, 11.
110
LEONARDO EVANGELISTA
nata da tavole votive, ciocche di capelli e gioielli, secondo i modelli delle stampe votive. All’interno dell’edicola è riprodotta sulla
parete di fondo l’immagine
del Crocifisso, e ai piedi della croce San Giovanni, la
Vergine e Maria Magdalena, i quali hanno assistito
Cristo fino alla sua morte.
Sulle pareti laterali dell’edicola sono raffigurati
Sant’Elena, San Zaccaria,
vescovo di Gerusalemme, e
sulla parete destra Sant’Irene e Santa Concordia,
le cui reliquie sono conservate proprio nella chiesa
del Crocifisso. Sulla facciata
dell’edicola sono riprodotte tavolette dipinte, che rappresentano momenti della
vita di alcuni miracolati,
alternate a gioielli e ciocche
di capelli, che esprimono
con immediatezza l’intervento del Divino nella vita
quotidiana 15. La ciocca di
capelli
è uno degli ex voto
3. - Bitonto, chiesa del SS. Crocifisso. Interno, durante i lavori di restauro (foto dell’Autore - 2011).
oggettuali più frequenti, offerta dalle donne prive di altre ricchezze. Il taglio dei capelli da parte di una donna è senz’altro la forma più appariscente di privazione: i capelli lunghi sono uno degli attributi della bellezza femminile. Nel
caso di una donna nubile il dono si caricava anche del significato di offerta della propria
verginità, in quanto i capelli lunghi indicavano la condizione di donna da marito. Simbolo
di femminilità e vanità, la ciocca rappresentava quindi il dono di una parte di sé 16.
Nell’affresco sono rappresentate sei tavolette dipinte. Partendo dal basso, a sinistra, e
proseguendo in senso orario, la prima raffigura un miracolo che si può far rientrare nella categoria degli ‘ex voto segreti’, perché non è ben chiaro l’evento raffigurato. L’immagine rappresenta un cavallo prostrato in adorazione davanti all’edicola e il suo padrone incredulo.
Tale immagine fa parte di una tipologia narrativa che vede gli animali come intermediari tra
15
16
R. Mavelli, A. M. Tripputi, Ori del Gargano, Foggia 2005.
Tripputi, Bibliografia … cit., 26.
LA CHIESA DEL SANTISSIMO CROCIFISSO A BITONTO
111
4. - Bitonto, chiesa del SS. Crocifisso. Sacrestia: affresco della Cappella del Repestingo (foto dell’Autore - 2011).
l’immagine sacra e l’uomo, spesso strumenti inconsapevoli di conversione. Il semplice
gesto di adorazione da parte di un animale era infatti considerato un miracolo in sé.
Intervallata da una collana, la seconda scena rappresenta la guarigione di un ossesso,
liberato grazie all’invocazione del Crocifisso, raffigurato in alto a destra. Il posseduto, dal
viso delirante, è circondato da una schiera di diavoletti. La donna, in ginocchio davanti
a Lui, determinata a combattere i demoni, stringe nella mano destra la corona del rosario, simbolo di forza e fede.
Una ciocca di capelli funge da elemento separatore e introduce la terza scena, ovvero
un incidente: un cavallo imbizzarrito che disarciona e calpesta il suo padrone.
Al centro della facciata, in alto – come già detto – è presente lo stemma del Capitolo e
di seguito troviamo la quarta scena, dove il miracolato giace a letto assistito dalla consorte
che prega a mani giunte con lo sguardo rivolto al Crocifisso. L’ambiente è una stanza da
letto con il caratteristico letto a baldacchino attorniato da cortine.
Dopo un’altra ciocca di capelli, la quinta scena rappresenta un contadino in procinto
di cadere da un carretto trainato da due buoi: un incidente molto frequente in una società
rurale come quella bitontina del tempo. Osservando i colori della tavola si può pensare
che l’incidente sia avvenuto all’alba o al tramonto, in un periodo primaverile per la presenza del colore verde che indica i campi in fiore: peraltro il votante non indossa abiti
pesanti.
112
LEONARDO EVANGELISTA
Seguita dalla raffigurazione di un gioiello, l’ultima immagine rappresenta un’ammalata giacente a letto, assistita da una donna inginocchiata in atto di preghiera. L’inferma
solleva il braccio verso il Crocifisso. Nella stanza c’è solo un letto a baldacchino chiuso
da tendaggi 17.
Gli oggetti votivi, posti in parallelo ai lati dell’affresco, rappresentano corone di rosario e medaglioni. Il colore delle corone dà l’idea della preziosità dell’oggetto: infatti il
rosso è il colore del corallo, il giallo quello dell’oro. Generalmente si donavano oggetti
preziosi per privarsi di un bene materiale di valore in cambio di un bene spirituale, ovvero un miracolo.
Nella parte inferiore dell’affresco un corteo di devoti circonda l’edicola. Al centro
due chierici in ginocchio, in preghiera. Partendo da sinistra, un infermo é accompagnato
da una figura maschile per chiedere una guarigione miracolosa. Al centro un gruppo di
donne pregano, tra cui una è in ginocchio; una donna svenuta è sorretta da un’altra. Un
altro gruppo di tre donne di diversa età è raffigurato sulla destra e una di loro mostra, indicandolo a due bambini, il Crocifisso miracoloso.
Infine, sullo sfondo dell’affresco è raffigurata la città di Bitonto. Sulla destra sono riconoscibili il Torrione Angioino e la Porta Baresana, sulla sinistra il complesso di San
Francesco d’Assisi.
L’affresco rappresenta in sé un ex voto dipinto che si esprime con linee nette e colori
accesi, realizzato con pochi elementi, sobri, ma carichi di valore simbolico 18. Confrontate con altri ex voto locali di diversa epoca, soprattutto successivi all’affresco, le scene
di malattia e di incidenti campestri raffigurate sono tipiche del territorio pugliese abitato
soprattutto da agricoltori 19, mentre l’affresco nel suo insieme rappresenta una testimonianza unica di com’era l’antica cappella del Repestingo, ornata da tavolette votive.
17
A. M. Tripputi, Gli ex voto dipinti, in E. Angiuli (a cura di), Puglia ex voto. Catalogo della Mostra
(Bari, Biblioteca Provinciale De Gemmis, estate-autunno 1977), Galatina 1977, 197-231, qui 201.
18
Eadem, 197-198.
19
E. Angiuli, Ex voto in Biblioteca, in Eadem (a cura di), Puglia … cit., 15.
Studi Bitontini
Giuseppe FALLACARA, Nicola PARISI
93-94, 2012, 113-126
Evoluzione delle aree sinaptiche della città
tra nucleo antico ed espansione moderna.
Piazza Aldo Moro e piazza Guglielmo Marconi a Bitonto*
L’eredità storica del tracciato radiale extra moenia e la pianificazione urbana tra XIX e
XX secolo
Uno strumento utile alla comprensione della città contemporanea è sicuramente rappresentato dall’indagine storica, basata sulla ricostruzione dei processi diacronici di strutturazione urbana. Questa, risultando sin da subito per la città di Bitonto non esaustiva, o
sicuramente parziale, a causa della assenza di appropriata documentazione storica (relativa per esempio alla documentazione topografica risalente alla prima metà del XIX secolo, forse persa o custodita in un ignoto archivio), lascia spazio a studi e ipotesi tanto
necessari quanto utili al continuo aggiornamento della storia della città.
Muovendoci dall’originario nucleo storico, chiuso all’interno delle mura difensive
sino all’estensione novecentesca, è possibile leggere con chiarezza le tappe di un continuo ragionamento sulla forma della città, che non dimentica mai le ‘tracce’ del passato.
Le preesistenze vengono introiettate e rimesse in discussione con lucida volontà estetizzante dagli architetti protagonisti della storia ante-guerra bitontina.
Volendo semplificare il processo di sviluppo della città di Bitonto nelle fasi di sviluppo e intasamento extra moenia, si potrebbe far ricorso alla metafora dell’organismo
umano e, in particolar modo, allo ‘apparato vaso-cardiaco’, al fine di figurare il funzionamento e la morfogenesi della città che viene a crearsi (fig. 1).
Dapprima il cuore, ovvero il nucleo storico, con le sue logiche aggregative e funzionali, che fin dall’origine coincide con l’intero organismo, sufficiente a se stesso e ripartito tetralogicamente da un sistema cardo-decumanico. Alle necessità della crescita
corrisponde il primo diramarsi di arterie principali che alimentano gli altri ‘organi’ (Convento dei Cappuccini, Campo di San Leone, ecc.), necessari allo sviluppo e alla crescita
della città. Quindi il sistema vaso-capillare si irradia a costruire la rete stradale secondaria, su cui si attestano i fabbricati urbani che intasano la città.
* Il saggio qui presentato fu elaborato circa sei anni fa in occasione della impostazione del nuovo progetto funzionale alla ridefinizione di piazza Aldo Moro e legato alla realizzazione di un parcheggio pluripiano interrato, di cui gli Autori erano progettisti. Il progetto ha incontrato numerose difficoltà e forte
opposizione ed è oggi definitivamente caduto nell’oblio. Esso fu peraltro selezionato per la pubblicazione
in M. Fagioli (a cura di), Nuova Architettura Italiana. Tre progetti, tre luoghi dell’architettura. Quaderni
di Aion - numero speciale, Firenze 2006.
114
1. - Bitonto, area urbana. Schema dello sviluppo e intasamento extra moenia.
GIUSEPPE FALLACARA, NICOLA PARISI
Affrancando la metafora, la città di
Bitonto conosce le prime forme di
strutturazione urbana fuori dalle mura
verso la fine del XVI secolo, quando si
passò ad una razionalizzazione dei
primi collegamenti tra la città e i complessi conventuali del suburbio 1. Tra il
1581 e il 1616, a seguito della costruzione di una serie di grandi cisterne
(pescare) di acque piovane, fu migliorato il collegamento di origine medioevale tra la città e il Campo di San
Leone. Nello stesso periodo, fu realizzata da parte del Comune un’altra arteria per collegare la città con il
complesso conventuale di San Vincenzo dei Padri Cappuccini, a cui seguirà, a fine secolo, la definizione del
primo tratto dell’attuale via Crocifisso.
Nel 1756, a seguito della ricostruzione della chiesa di San Francesco da
Paola e del convento dei Padri Paolotti,
viene data una prima sistemazione al
suburbio con la definizione dello spazio fuori Porta Baresana, ad opera del
sacerdote-architetto bitontino Nicola
Pasquale Valentino. Lo spazio extraurbano fuori Porta Baresana, l’attuale
spazio afferente a piazza Aldo Moro,
già ‘Largo del Borgo’, si configura, in
una planimetria del 1727 2, come un
terreno coltivato triangolare perimetrato dalla chiesa dei Minimi, dalla via
per Giovinazzo e dalla strada di San
Leone. Il terreno triangolare, come
avremo modo di osservare nel prosieguo di questo studio, è ovviamente il risultato della convergenza radiale verso
il Maschio Angioino delle antiche arterie extraurbane. Tra il 1792 e il 1806, il
1
Si veda a proposito A. Castellano, La città di Bitonto e i nuovi borghi tra il XVIII e il XIX secolo,
in S. Milillo (a cura di), Cultura e Società in Puglia e a Bitonto nel sec. XVIII. Atti del Convegno di Studi
(Bitonto, Palazzo Episcopale, 22-23 maggio/6-7 novembre 1992), Bitonto 1994, 593-618.
2
T. Colletta, Piazzeforti di Napoli e Sicilia. Le “Carte Montemar”, Napoli 1981.
PIAZZA ALDO MORO E PIAZZA GUGLIELMO MARCONI A BITONTO
115
2. - Bitonto, area urbana. Cartografie e planimetrie storiche dal XV al XIX secolo.
Largo del Borgo si presenta come un ampio spazio definito da due edifici quasi simmetrici rispetto all’asse dalla strada di San Leone 3 (fig. 2).
Nel biennio 1778-1779, grazie all’autorizzazione emanata da Ferdinando IV di Borbone (figlio di Carlo III) per le Università di Terra di Bari, secondo la quale si permetteva
3
L’immagine di riferimento è una porzione della planimetria tratta da A. Rizzi Zannoni, Atlante geografico del Regno di Napoli, inc. da G. Guerra (1792-1806), Bitonto: Biblioteca Nazionale di Bari, fl.
16, canterano 39/2.
116
GIUSEPPE FALLACARA, NICOLA PARISI
di edificare case per civili abitazioni fuori dalle cinta murarie, si assiste ad un boom edilizio, privo di strumenti di controllo, e una forte crescita della forma urbis sulla nativa raggiera delle strade extraurbane. Vengono quindi realizzati gli altri edifici, strutturando via
della Guglia di San Vito e via Amedeo 4. Dal 1778 al 1814, vengono eretti, tra le radiali
‘Crocifisso’, ‘Corso’, ‘Guglia’ e ‘Molfetta’, in tre distinte maglie, ben tredici isolati «in
modo gretto e irregolare senza norma e piano stabilito, così […] all’azzardo» 5. Fino ai
primi decenni dell’Ottocento la forma della città fuori le mura risulterà priva di un razionale assetto urbano, pur sussistendo i presupposti per un futuro centro ‘polifocale’.
L’espansione ottocentesca, prevalentemente a N 6, si struttura – come si è indicato –
sul sistema viario preesistente, che si diparte radialmente dall’antica Porta Baresana (e dal
Maschio Angioino) sino a collegare le emergenze monumentali che tendono i ‘fili’ della
raggiera: Obelisco Carolino, Campo di San Leone, Chiesa del Crocifisso, Convento dei
Cappuccini.
Gli artefici di tale condizione urbana sono i componenti di quella che potremmo definire la scuola dell’architetto Francesco Saponieri (1788-1867), anche noti come i principali divulgatori del gusto neoclassico in Terra di Bari: Luigi Castellucci (1798-1877),
Michele Masotino (1824-1914), Raffaele Comes (1825-1891), i quali solo nel 1849 e nel
1863 si avvalsero di specifico «incarico per la redazione di piano per la formazione del
Borgo».
Per Bitonto si può parlare di un’adesione a un pensiero colto, teso a una calibrata e
consapevole ricerca di abellisement urbano; così la forma urbis è organizzata sapientemente facendo ricorso ad allineamenti prospettici per mezzo del disegno di lunghi assi,
incroci e convergenze in punti emblematici. I tradizionali rapporti con un territorio da
secoli utilizzato furono preservati da una cultura figurativa ancora organicamente strutturata alla scala urbana.
I principali canali prospettici, sui cui assi si fonda l’articolazione della città ottocentesca, sono, in senso orario, via Amedeo, via Carlo III, Corso Vittorio Emanuele II, via
Crocifisso, via Cappuccini. Tra questi spiccano, per dimensione e qualità, via della Repubblica e corso Vittorio Emanuele II, entrambi convergenti a S, verso Porta Baresana, a
conchiudere il Largo del Borgo. Gli architetti, animati da una concezione haussmaniana
«verranno a porre sul loro asse l’obelisco Carolino, monumentale decorazione di cui solo
le grandi capitali europee vanno superbe» 7, diventando il nodo moderno del sistema bitontino, elemento di qualificazione e arredo ambientale.
L’elegante modello di questa provincia del Regno di Napoli non assumerà quasi mai
i caratteri e le dimensioni degli esempi francesi da cui implicitamente deriva. Si tratta di
4
Per l’analisi della toponomastica, si riporta il seguente schema: via della Repubblica Italiana = già
via della Guglia, via Carlo III, poi Via Obelisco Carolino; via T. Traetta = già via Cappuccini; via G. Matteotti = già via Principe Amedeo; via G. Garibaldi = già via San Vito; piazza A. Moro = già piazza Vittorio Emanuele II, poi piazza Margherita di Savoia; piazza G. Marconi = già piazza Plebiscito.
5
Comunicazione all’intendenza del Sindaco di Bitonto, Vincenzo Sylos Labini, Pari del Regno, del
2 febbraio 1857: Archivio Storico del Comune di Bitonto, cat. X, Ll. Pp. C, 315/60.
6
Il nucleo murato urbano è circondato da SE a SW dalle anse del vallone del Tifre.
7
L. Castellucci, M. Masotino, R. Comes, Relazione al Sig. Sindaco e decurioni di Bitonto per conto
dei Fr.li Sannicandro, 30.4.1858: Collezione privata, ms. s.n.c. citato da Castellano, La città … cit., qui
610.
PIAZZA ALDO MORO E PIAZZA GUGLIELMO MARCONI A BITONTO
117
più o meno brevi canali prospettici longitudinali (lunghezza massima inferiore al chilometro), misurati visivamente da elementi pivot sapientemente organizzati, che abituano
gli osservatori a guardare più lontano e a collegare punti distanti della città e del territorio: questi elementi ben si legano alla minuziosa ‘neoclassica’ ricerca di qualità architettonica e di decoro borghese.
L’architetto Michele Masotino, successore del Castellucci, eredita l’impostazione precedentemente data per la definizione delle arterie principali del borgo e inizia a definire
i tracciati viari secondari secondo un sistema di maglie ortogonali rispetto agli assi primari. Il 13 luglio 1861 viene redatta dallo stesso la Pianta Topografica del lato Orientale
del novello spiazzo pubblico del Borgo Cappuccini in Bitonto (fig. 4: in alto), in cui è
chiaramente leggibile la definizione del Palazzo Ventafridda e della Novella Strada di
detto Borgo (che è ora via Marsala) su direzioni ortogonali alla grande arteria di via Cappuccini (attuale via T. Traetta) in luogo del vecchio tracciato planimetrico afferente ai
confini di proprietà. Il fianco a N della Chiesa di S. Matteo viene per metà inglobato all’interno del corpo di fabbrica, di cui è parte integrante. Con operazioni di taglio e rettificazione si viene a costruire il ‘fondale scenico’ a SE di piazza Plebiscito. Il Masotino è
anche autore del palazzo Pannone Luise, che presenta la facciata principale, sull’attuale
piazza A. Moro, orientata secondo l’ortogonale a via Cappuccini. Da questo e da ulteriori
riscontri 8 circa gli allineamenti di molti altri edifici, risulta lecito ipotizzare una originaria impostazione ‘ippodamea’, rispetto la suddetta arteria, da estendersi a gran parte dell’estensione urbana ottocentesca (fig. 3). Si potrebbe addirittura ipotizzare una sequenza
cronologica delle operazioni di pianificazione urbana secondo il rapporto dialettico tra sistema polare e rettangolare, che muovendosi in senso antiorario, dalla arteria di via Cappuccini, colma tutto il versante NE della città. È utile sottolineare che l’articolazione
radiale del sistema urbano bitontino non permette la crescita di un unico sistema ortogonale, costringendolo sempre al cambio direzionale nei punti di intersezione con le arterie polari. Risulta interessante, a tal proposito, interrogarsi sulla possibile forma di piazza
A. Moro inglobata dall’estensione della maglia ortogonale proveniente da via Cappuccini.
Dall’analisi di queste fonti, che rappresentano episodi parziali rispetto allo strutturarsi dell’organismo urbano, i documenti consentono di pervenire alla lettura di una prima
planimetria della città di Bitonto, con timbro del governo napoletano datata 9 novembre
1897, in cui l’edificato e la previsione di pianificazione presentano contorni abbastanza
netti. Risulta interessante notare come il versante orientale della città, ovvero le maglie
ortogonali di pianificazione su via Cappuccini, non vengano subito edificate rispetto al
versante occidentale di via Carlo III (totalmente non pianificato nella planimetria del
1897), che diventa l’oggetto della principale attività edilizia nei primi anni del Novecento. La pianificazione dell’asse di via Carlo III e dei relativi quartieri rappresenta un
momento di grande importanza per la crescita della città tra i secoli XIX e XX (fig. 4: in
basso).
Dai documenti rinvenuti presso l’Archivio Storico del Comune di Bitonto è sicuramente
possibile cogliere con assoluta chiarezza la volontà, da parte degli Enti/Amministrazio8
Il 27 maggio 1862, ancora l’architetto civile Michele Masotino viene incaricato del Progetto di
spesa del taglio di diversi edifici onde raddrizzare la strada Garibaldi. Tale strada, innestandosi dalla
via Obelisco Carolino, si dirige a NE in direzione parallela al Corso Vittorio Emanuele II, rappresentando
rispetto a questo il secondo asse di sviluppo urbano.
118
GIUSEPPE FALLACARA, NICOLA PARISI
ni e degli architetti locali,
di aderire a un programma
di razionalizzazione della
forma urbis attraverso un
sapiente lavoro di manipolazione degli spazi e dei
luoghi preesistenti.
Analizzando i termini
afferenti agli interventi di
pianificazione della città è
possibile cogliere con esattezza il pensiero operante
alla base di ogni azione di
restyling urbano. Termini
quali ‘taglio’, ‘raddrizzamento’, ‘rettificazione’,
‘allargamento’, ‘sistemazione’, ‘prolungazione’,
‘deviazione’, … chiarificano in maniera non ambigua la decisione di conseguire una forma pianificata attraverso micro-operazioni, se vogliamo anche
di un certo valore edilizio,
sull’esistente che diventa il
luogo principale della riflessione progettuale.
L’esempio di rettificazione
di via Obelisco Carolino e
dell’espansione del quar3. - Bitonto, area urbana. Impianto radiale e impianto ortogonale neltiere a questa annesso è
l’espansione ottocentesca (da Archivio Storico del Comune di Bitonto,
esemplare a tal riguardo.
busta 251).
La grandezza concettuale di tali operazioni sta nel fatto che il conseguimento del Kunstwollen urbano passa
attraverso precise operazioni di taglio/demolizione di parti edificate che sono chiamate a
conseguire maggior dignità architettonica se rapportate alla scala del complesso urbano.
Il costruito, privandosi della propria autonoma organicità, partecipa alla edificazione di
un disegno organico e unitario che rispecchia il pensiero progettante dell’architetto.
Entrando nel merito degli interventi di pianificazione dell’attuale via della Repubblica Italiana che, come perfetta ascissa della città, collega il Maschio Angioino con
l’Obelisco Carolino, nella planimetria del 1897 è possibile rinvenire, su alcuni fabbricati, le linee della ‘correzione’ topografica di via Obelisco Carolino. Questa, al pari di una
retta euclidea definita dai due punti della città, incontra nel suo percorso alcune preesistenze (Chiesa di S. Francesco da Paola) che, al livello icnografico, deviano leggermente
il rettifilo o invadono la sezione stradale.
4. - Arch. M. Masotino, Pianta topografia del lato orientale dello novello spiazzo pubblico del borgo Cappuccini in Bitonto (in alto) - ing. G. Masotino, Completamento della sistemazione del Rione compreso fra
Via Obelisco e Via Mazzini (in basso) (da Archivio Storico del Comune di Bitonto, bb. 223 e 234).
120
GIUSEPPE FALLACARA, NICOLA PARISI
Il 28 settembre 1900,
l’ing. dell’Ufficio Tecnico Comunale, Giuseppe Masotino, redige
il Progetto per la rettificazione, allargamento e sistemazione della
Via Obelisco Carolino
che consente la costruzione di una delle più
importanti attuali arterie
stradali, attraverso l’abbattimento di porzioni di
edifici che invadono la
nuova sezione stradale
(fig. 5). L’ing. Masotino
rende così attuativo e
esecutivo un pensiero
ereditato dai pianificatori del secolo precedente. Il ‘bisturi risanatore’ interviene a rettificare e sistemare i seguenti fondi e case:
«Fondo ortolizio Eredi
Buquicchio fu Giuseppe, Proprietà Buquicchio, Proprietà Saracino,
Vico III Obelisco, Fabbricato Ventafridda,
Vico II Obelisco, Fabbricato Ferrara, Vico I
Obelisco, Fabbricato
Defacendis e Fabbricato Natilla; casa del Sig.
Ciocia Arcangelo fu Filippo, fabbricato della
5. - Ing. G. Masotino, Progetto per la rettificazione, allargamento e siSignora
Sylos-Labini in
stemazione della Via Obelisco Carolino (da Archivio Storico del CoServadio, Casa Cela;
mune di Bitonto, b. 233).
Fondo ortolizio Fano
Francesco, Fondo ortolizio Galliani Francesco, Fondo ortolizio e giardino murato Ventafridda Angelantonio,
Fabbricato Cela, Strabella privata Cela, Suolo Edificabile Cela, Via Annita Garibaldi, fabbricato della Signora Sylos-Labini in Servadio, fabbricato del Sig. Ciocia Arcangelo fu
Filippo».
PIAZZA ALDO MORO E PIAZZA GUGLIELMO MARCONI A BITONTO
121
Ricostruzione crono-morfologica degli avvenimenti sulle piazze Aldo Moro e Guglielmo
Marconi secondo le fonti iconografiche
Ogni storia di carattere generale ne contiene tante altre di carattere particolare. A ogni
osservazione globale corrispondono numerose altre di natura specifica. La descrizione della natura del sistema urbano extra moenia e delle sue logiche di sviluppo, assieme alla processualità storica degli eventi che hanno contraddistinto le varie epoche, da quella tardomedievale a quella contemporanea, si traduce pertanto in specifiche descrizioni di storie
di mutazione continua riferite a particolari ambiti urbani. Nel caso della città di Bitonto,
il luogo tra i luoghi che meglio sintetizza e specializza la descrizione fatta in precedenza
dello sviluppo urbano postmedievale è quello slargo che sempre fu lo snodo principale attraverso il quale la vita all’interno della cinta muraria antica si riversava nelle campagne
verso altri centri urbani o complessi monastici extra moenia. L’area che risulta attualmente
occupata da piazza A. Moro e da piazza G. Marconi doveva presentarsi agli occhi di un
uomo del Cinquecento come un ampio slargo, appena fuori la Porta del Castello, dal quale muovevano le principali strade rurali che conducevano nelle campagne circostanti.
Il superamento dell’epoca medievale comporta un lento e progressivo spostamento della vita pubblica cittadina da piazza Cattedrale allo slargo di Porta Baresana e la naturale conquista civica del Borgo fuori le mura. All’interno delle mura l’area dell’attuale piazza C. Benso di Cavour vede sorgere, tra i secoli XVI e XVII, gli edifici di maggior pregio che definiranno la sua attuale conformazione 9. Nel 1639, viene consacrata la chiesa di San Francesco di Paola, nata sulle terre che dovevano probabilmente ospitare l’antica chiesa di Santa Caterina. Come testimonia una planimetria, datata al 1727, tratta dalle Piazzeforti di Napoli e Sicilia 10 (fig. 6), l’area appena fuori le mura dinanzi a Porta Baresana si presentava
come uno slargo in uscita dalla città, dove le principali radiali extra moenia erano già tutte
definite 11. Attraverso la veduta del Pacichelli e le ‘Carte Montemar’ si intuisce come, fino
alla prima metà del XVIII secolo, l’area fuori il Castello fosse principalmente un’area agricola, con prevalente presenza di cocevole, e con la consistenza del complesso conventuale
di San Francesco e di piccoli edificati a ridosso di esso. Nonostante ciò, quella che diventa
la conformazione urbana successiva, già si evince dal tessuto stradale esistente. In particolare, si osservi l’area triangolare prospiciente la Chiesa di San Francesco, che probabilmente
costituiva l’orto-giardino del complesso, derivando la sua forma dalla confluenza delle due
strade che arrivavano dinanzi alla Porta provenendo l’una da Bari e l’altra da Giovinazzo.
La Pianta ostensiva del territorio nel raggio di mezzo miglio dalla città … del 1819
(fig. 1) mostra la maglia stradale sulla quale si appoggiò la prima espansione edilizia non
controllata da statuti specifici e la conformazione all’epoca del Largo del Borgo, ossia la
stessa area occupata dall’orto triangolare ora sgombra e utilizzata come spazio pubblico.
L’attuale conformazione degli spazi di cui ci occupiamo si definisce progressivamente con
9
Tra i più importanti edifici sorti in questo periodo è bene ricordare la Loggia Sylos Calò, costruita
nel 1583, la Casa dei de’ Ferraris Regna, del 1585, il Sedile dei Popolari, la Chiesa e il Convento di San
Gaetano, ultimati nel 1606.
10
Colletta, Piazzeforti … cit., passim.
11
La più antica delle radiali che partivano da Porta Baresana era il rettifilo che oggi è il ‘Corso’; successivamente nel 1606, fu costruita dal Comune la strada che portava al complesso conventuale extra
moenia di San Vincenzo dei Padri Cappuccini, cui si affiancò, circa mezzo secolo dopo, la strada verso
la chiesa del Crocifisso, regolarizzata sul più antico tracciato che portava alla cappella del Rapestingo.
6. - Bitonto, area urbana. Documentazione storica e restituzione di cartografie secondo G. B. Pacichelli,
Veduta di Bitonto da Porta Baresana - 1703; “Piazzeforti di Napoli e Sicilia” del generale Montemar
- 1727-1734 (da Colletta, Piazzeforti … cit.); I luoghi della battaglia - 1734 (da Colletta, Piazzeforti …
cit.); A. Suppa, Pianta estensiva del territorio nel raggio di mezzo miglio dalla città [di Bitonto] con la
indicazione dei territori demaniali e delle corporazioni religiose - 1819.
le nuove edificazioni operate nel XIX secolo. La costruzione dei Palazzi Laudisi e Luiso, ad
opera del Castellucci e del Masotino, attraverso l’inglobamento di preesistenti edifici più antichi, assieme alla costruzione delle nuove cortine edilizie sui rettifili di via Carlo III e dell’attuale corso, operata dallo stesso Masotino, definiscono l’invaso dello spazio antistante la
Porta Baresana. Una ennesima operazione di raddrizzamento delle cortine edilizie operata dal-
PIAZZA ALDO MORO E PIAZZA GUGLIELMO MARCONI A BITONTO
123
lo stesso Masotino accanto alla chiesa di Santa Caterina d’Alessandria consentono, invece,
un ampliamento dello slargo presente tra le due vie che portavano al Crocifisso e ai Cappuccini.
Nel 1880, l’architetto Masotino disegna una pianta della città di Bitonto, ove la forma definitiva degli invasi fuori Porta Baresana è oramai data (fig. 2). Sono facilmente individuabili lo slargo, che poi diventa piazza A. Moro, e l’area che è destinata a ospitare
piazza G. Marconi.
Da questo momento in poi, la storia degli spazi tra gli edifici cede il posto alla storia
della piazze tra gli spazi; tutte le variazioni riscontrabili riguardano il disegno planimetrico di questi invasi senza nessuna modificazione degli invasi.
La stessa planimetria del Masotino del 1880 e un’altra pianta della città risalente al 1897
restituiscono le prime forme calate in questi invasi a costituire le piazze: la prima è un cerchio posto nella parte più ampia dell’attuale piazza G. Marconi e la seconda è un trapezio
posto a occupare l’area dell’antico Largo del Borgo. Due forme che, per la prima volta, interpretano attraverso un progetto la sistemazione di questi spazi. Entrambe le forme si distaccano dal contesto e dai tracciati edificati e vengono calate come forme proprie tra gli
spazi a determinare residui marginali. Se la misurata dimensione del cerchio di piazza G.
Marconi non comporta particolari problemi lì dove viene pensata, la forma quadrangolare di piazza A. Moro, nonostante si allinei con il corso, produce alcune infelici aree che la
situazione contemporanea eredita tutt’oggi: in primis la ‘non forma’ prospiciente la Chiesa di San Francesco e il restringimento in corrispondenza di Palazzo Laudisi.
Il primo decoro urbano operato sulle piazze descritte avviene con l’impianto di essenze arboree ad adornare gli spazi: sul rondò di piazza G. Marconi vengono piantate alberature di natura variegata, dalla palma al platano, che contraddistinguono tutt’ora il
verde in quell’area; sulla piazza A. Moro – che allora era intitolata a Margherita di Savoia
– appaiono piantati sei file di alberelli giovani, che riempivano quasi tutta l’area, lasciando
scoperta solo una stretta fascia centrale (fig. 7).
Una foto dei primi anni del Novecento (fig. 8), scattata dal campanile della Cattedrale, mostra che quegli alberelli piantati circa 20 anni prima sono oramai cresciuti e l’intera piazza Margherita di Savoia ha assunto l’immagine di un’area alberata a giardino
più che di una piazza. Dalla stessa foto si deduce che è stata già definita una lunga piazza
rettangolare, innestata sul rondò preesistente, che sarà la cosiddetta ‘manica della frisola’.
Un’altra foto, scattata con sicurezza nel 1912, fornisce due informazioni interessanti:
innanzitutto si nota che la cosiddetta ‘manica’, presente da almeno dieci anni, si estende
sino al limite segnato dal prolungamento del corso verso Porta Baresana; e inoltre si
evince che i cosiddetti ‘cento alberelli’ di piazza Margherita di Savoia sono stati spiantati, sicché al loro posto risultano impiantati solo due file di lecci (quelli tutt’ora presenti
nella piazza), posti sui lati lunghi, e che è determinata la presenza del chiosco ‘dell’acqua di Serino’, posto al centro della piazza, verso Porta Baresana.
Una foto del 1935 mostra che in punta alla ‘manica’, lì dove prima era solo un palo
illuminante, compare il Monumento ai Caduti della Prima Guerra Mondiale, posto su un
alto basamento circondato da piante, mentre si nota la presenza della casa del Fascio, addossata alle mura del Torrione. L’allora piazza dell’Impero, ora piazza G. Marconi, appare già adornata di alberelli posti sui lati lunghi fino al piedistallo della stessa statua.
In una successiva foto del 1950, nonostante permanga il piedistallo in marmo, la sta-
7. - Bitonto, area urbana. Documentazione storica e restituzione di cartografie secondo Pianta topografica del lato orientale dello novello spiazzo pubblico del Borgo Cappuccini in Bitonto (da Archivio Storico del Comune di Bitonto, b. 223); Planimetria di Bitonto con viabilità principale - 1892 (da Bari-Santo
Spirito, Collezione Masotino, ms. s.n.c.); Pianta della Città di Bitonto - 1897 (da Archivio Storico del Comune di Bitonto, busta 251); Veduta di Piazza Margherita di Savoia e Piazza dell’Impero - 1882 (da Bitonto, Collezione Pietro Sicolo, ms. s.n.c.).
tua bronzea del Monumento ai Caduti della Grande Guerra del 1915-1918 era stata già
tolta per deferenza all’alleata Germania dell’‘Asse Roma-Berlino’.
Una cartolina risalente al 1962 (fig. 9) mette in evidenza alcuni importantissimi cambiamenti operati su piazza G. Marconi. Si decide un ‘accorciamento’ della ‘manica’ di
8. - Bitonto, area urbana. Documentazione storica e restituzione di cartografie secondo Bitonto vista dal
campanile della Cattedrale - 1900 (Bitonto, Collezione privata); Veduta di piazza Margherita di Savoia
- 1912 (Bitonto, Collezione privata); ‘Mmènze a lla Pòrte’ - 1935 (Bitonto, Collezione privata); piazza
dell’Impero - 1950 (Bitonto, Collezione privata).
circa venti metri, spiantando gli alberi presenti sul tratto finale e spostando il basamento
del vecchio Monumento ai Caduti sulla cosiddetta ‘frisola’. L’area prima occupata dalla
piazza viene basolata e dedicata al traffico veicolare.
Un’altra cartolina del 1967 mostra, invece, piazza A. Moro, dalla quale nel frattempo è
scomparso il chiosco ‘dell’acqua di Serino’, spostato nella Villa Comunale: al suo posto compare la statua bronzea su piedistallo del musicista Tommaso Traetta montata dieci anni prima.
9. - Bitonto, area urbana. Documentazione storica e restituzione di cartografie secondo Piazza dell’Impero - 1962 (Bitonto, Collezione privata); Piazza Aldo Moro - 1967 (Bitonto, Collezione privata); Slargo
tra piazza A. Moro e piazza G. Marconi (foto dell’Autore - 2004); Ricostruzione virtuale di piazza A.
Moro - 2004 (da G. Fallacara, N. Parisi, Progetto di un parcheggio pluripiano interrato da realizzare
nelle aree interessate dalle piazze G. Marconi e A. Moro, ms. s.n.c.).
Nel frattempo, sulla ‘frisola’ di piazza G. Marconi il vecchio piedistallo in marmo è
stato sostituito dal nuovo Monumento ai Caduti.
Questi sono gli ultimi atti di una storia che dalla fine del Cinquecento fino ad oggi ha
caratterizzato gli spazi sinaptici tra nucleo antico e sviluppo ottocentesco. Una storia che
– come si è visto – appare più dinamica di quel che sembra.
Studi Bitontini
Marisa FIORE
93-94, 2012, 127-139
Cancelli, fontane, portali.
Su una mostra di disegni
In occasione della XIV Settimana della Cultura, la Fondazione De Palo Ungaro ha
ospitato la mostra Cancelli, fontane, portali. Esposizione dei disegni ornati e geometrici
della Ex Scuola Comunale Serale di Disegno ‘Francesco Spinelli’. Allestita presso le
sale del Museo Archeologico, la mostra ha riguardato l’esposizione di trenta disegni, ornati e geometrici, datati nel periodo compreso tra gli anni Venti e Trenta del secolo scorso
e selezionati tra tutti quelli conservati dopo la chiusura della Scuola intitolata al pittore
bitontino Francesco Spinelli che ne fu fondatore.
I disegni sono stati scelti e suddivisi per tematiche: dai cancelli alle fontane, dai disegni geometrici a quelli ornati.
La Scuola Comunale Serale di Disegno, prima nel suo genere in Puglia, sorse nel
1871, anno in cui si tenne a Napoli il VII Congresso Pedagogico che vide la partecipazione del pittore pugliese Francesco Netti, membro della Commissione Speciale di Disegno. L’avvenimento, notevole per la storia dell’educazione artistica, costituisce uno
degli antefatti dell’istituzione scolastica bitontina. Inoltre, negli stessi anni viveva e operava a Bitonto Vincenzo Rogadeo, uomo mosso da chiare idee liberali e democratiche, finalizzate all’emancipazione del Mezzogiorno. Nominato da Giuseppe Garibaldi primo
Governatore della Provincia, già con il proclama dittatoriale aveva tracciato il programma
per un effettivo rilancio del Sud e per la rigenerazione sociale delle «classi idiote» 1.
Nel 1870, Vincenzo Rogadeo decise di impegnarsi nell’ambito politico-amministrativo locale e condivise col pittore bitontino Francesco Spinelli la necessità di aprire una
scuola «ove si incontrò larga adesione fra i cittadini tutti, che la guardarono con occhi
commossi seguendone le varie vicende e che la scuola fatta sorgere così opportunamente
non fosse di superfluo, lo dimostrò subito l’affluire d’una numerosa schiera di giovani volenterosi ed adulti, che non frequentavano la scuola per sapere di novità, ma per amore
di sapere» 2. Vincenzo Rogadeo aveva dunque espresso tale volontà prima che fosse eletto
Sindaco nel 1871 e prima che si conoscessero le risultanze del Congresso di Napoli. Di1
A. Castellano, Una singolare e gloriosa istituzione bitontina: la scuola comunale serale di disegno
‘F. Spinelli’ (1871-1984), Bitonto 1998, 6.
2
Bitonto, Archivio Storico Comunale (d’ora in poi A.S.C.B.), Postunitario, b. 214, a. 1909, fasc. 2f,
cl. 2, cat. 9, Relazione per l’anno scolastico 1908-1909.
128
MARISA FIORE
venuto Sindaco istituì la Scuola, destinando a sua sede una camerata dell’ex Ospedale Civile, ossia del complesso di Sant’Agostino, e ne affidò la direzione a Francesco Spinelli
(1832-1907), notevole esponente della pittura napoletana in Puglia, allievo di Camillo
Guerra e di Giuseppe Bonolis. Amico di Gioacchino Toma, Giuseppe de Nittis e Francesco Netti, il pittore bitontino fece numerosi viaggi a Roma e a Firenze, fu molto vicino
ai pittori puristi e ai nazareni romani ed ebbe contatti con l’ambiente dei macchiaioli. Sacrificò anche la famiglia per la sua carriera artistica, che si mosse essenzialmente tra due
poli, la ritrattistica e la pittura religiosa, senza tralasciare la professione di educatore nelle
scuole tecniche cittadine. Si impegnò quindi a perfezionare i giovani artigiani bitontini
fornendo gli strumenti di base, perché imparassero l’arte che consentisse loro il facile accesso al mondo del lavoro 3. Per gli allievi, in prevalenza lapicidi e apprendisti dei mestieri tradizionali delle gloriose maestranze bitontine, il programma formulato dal direttore
Spinelli prevedeva due gradi specifici di apprendimento: gli studi generali di disegno
geometrico e a mano libera e lo studio professionale, cioè il disegno applicato alle diverse arti e ai diversi mestieri.
I risultati conseguiti dalla Scuola sul piano educativo e formativo furono possibili
anche per effetto del sussidio annuale erogato da parte del Ministero dell’Agricoltura, Industria e Commercio, nonché dalla Giunta Municipale, per acquistare tutto il materiale necessario allo svolgimento delle lezioni serali.
Le opere prodotte durante i corsi serali furono esposte, con successo, non soltanto durante mostre cittadine, ma anche nell’ambito di competizioni internazionali e nazionali,
come quelle di Milano del 1881 e del 1906, di Torino nel 1898, di Parigi nel 1900, di
Sant Louis nel 1905. Le diverse ispezioni ministeriali del 1883, del 1886 e del 1897 rappresentarono per la Scuola dei veri e grandi successi morali; anzi fu proprio a seguito
dell’ispezione del 1886 eseguita da illustri artisti, quali Camillo Boito, importante esponente del restauro a livello nazionale e internazionale oltre che critico d’arte e narratore,
e Alfredo D’Andrade, famoso architetto di origine portoghese, che l’orario scolastico
venne potenziato e la Scuola venne premiata dal Ministero con il raddoppiamento del
sussidio 4.
Tra le più significative attestazioni di lode che la Scuola ricevette, notevole fu la relazione del 1898, a cura di Primo Levi, al Ministro dell’Agricoltura, Industria e Commercio, Alessandro Fortis. In tale relazione Levi, grande giornalista mosso dall’obiettivo
di favorire l’affermazione dei giovani talenti capaci di combattere ogni accademismo e
ridare nerbo alla vita intellettuale della nuova Italia, dice tra l’altro: «La Scuola di Bitonto
non solo ha un’officina di ebanisti, da cui escono lodevoli saggi di intaglio in legno, ma
con opportuno riguardo all’arte dello scalpellino ci offre dei rari saggi di scultura in pietra, che serbano il sapore del vivo […] il Mezzogiorno non vale e non merita, a questo proposito, meno del Settentrione e, attraverso lacune facilmente colmabili sulla stessa Italia
media, non ci giunge da Bitonto e da Portici, voce men confortatrice che di Mondovì e
3
M. Giorgio, La vita culturale a Bitonto nell’Ottocento: scuola, circoli, giornali in F. Moretti, V.
Robles (a cura di), Cultura e società a Bitonto nell’Ottocento. Atti del Convegno Nazionale (Bitonto,
Palazzo di Città, 18-20 ottobre 2001), Bari 2003, 119-230, qui 221.
4
A.S.C.B., Postunitario, b. 214, a. 1900, fasc. 2a, cl. 2, cat. 9 (Relazione dell’anno scolastico 18971899).
CANCELLI, FONTANE, PORTALI. SU UNA MOSTRA DI DISEGNI
129
Tolmezzo […]. È una scuola che merita, dunque, e per la quale invoco un largo interessamento, non solo dal Governo, ma dalla Provincia, dagli enti morali, dai privati, da tutti.
Se tutti contribuissero in proporzione delle risorse che potrebbero assegnare a questa utilissima istituzione, essa potrebbe irraggiare, su tutta la Provincia, una influenza, il cui
beneficio, non solo rifletterebbe sulle condizioni economiche, ma rivestirebbe un carattere morale, la cui importanza non è da dimostrarsi per questa Puglia, la quale, per quanto
valga molto più della sua fama, ha ancora sete, non d’acqua soltanto» 5.
Nonostante l’elogio contenuto nella relazione di Primo Levi, il direttore Francesco
Spinelli, tra il 1897 e il 1899, inviò delle lettere al Municipio nelle quali denunciava l’inadattabilità dei locali in cui aveva sede la Scuola, ormai logori e malsani.
In una lettera del 27 settembre 1900, conservata tra le carte dell’Archivio Storico Comunale, il Ministro dell’Agricoltura, Industria e Commercio, Paolo Càrcano, scriveva al
Sindaco di Bitonto: «Mi è gradito di partecipare alla S.V. che, volendo concorrere allo
sviluppo della Scuola Serale di Disegno di codesta città, aderendo ai voti espressi dal
suo Direttore, ho stabilito di aumentare il sussidio annuo di questo Ministero a favore di
essa, elevandolo a 500 lire a partire dal corrente anno scolastico. Confido che ciò varrà
ad incoraggiare codesto Municipio a provvedere in misura più adeguata ai bisogni della
Scuola, affinché possa dare risultati più proficui ed accrescere l’efficacia degli insegnamenti pratici» 6.
Fino al 1882, la Scuola contava oltre cento iscritti. Fu quell’anno che ebbe inizio la
polemica tra Gennaro Somma da un lato e Francesco Spinelli con i suoi collaboratori dall’altro. Il pittore Somma rilevava l’inutilità dello studio della figura, dando opportuni suggerimenti sul piano didattico e consigliando una maggiore impronta artigianale. Lo
Spinelli, invece, era sostenitore della creatività del disegno anche nel campo delle arti applicate. Scrive infatti: «Perché deve bandirsi dalla scuola degli artigiani la figura? Non è
forse la figura dell’uomo la più bella, la più perfetta fra le cose create per la forma e per
l’armonia delle parti tra loro e delle parti col tutto e per il sentimento che traspare dai suoi
atteggiamenti? Voi dite che l’insegnamento del disegno agli artigiani deve circoscriversi
nella cerchia dei mestieri. Ma sapete voi se sotto qualcuno di quei ruvidi panni non batte
il cuore di un artista? Sapete voi se in qualcuna di quelle fronti giovanili non arde la fiamma
del genio? E perché chiudergli l’orizzonte? Perché non addestrarlo al volo? Questo giovine
fuori dalla scuola non avrà altro campo nel quale possa mostrare le sue nobili tendenze […]
dovrà dunque rassegnarsi all’alienazione, alla morte intellettuale?» 7.
In effetti Spinelli, con la direzione di quella scuola per trentacinque anni, riuscì a forgiare una generazione nuova di capimastri e lapicidi invidiata da tutta la provincia e la regione e richiesta da molte altre regioni italiane, nonché da stati esteri come la Turchia,
l’Austria e soprattutto la Germania.
Gennaro Somma, intanto, sollecitava a riflettere sul mutato rapporto tra arte e società
rapporto messo in crisi dalla scomparsa dei tradizionali committenti, e sull’unica possibilità, per le manifestazioni artistiche, di ritrovare un proprio ruolo nelle forme e nei modi
5
Ibidem.
A.S.C.B., Postunitario, b. 214, a. 1900, fasc. 2a, cl. 2, cat. 9, Lettera al Ministero dell’Agricoltura,
Industria e Commercio.
7
E. Vacca, M. Spinelli, Una risposta della scuola artigiana di Bitonto ad alcune osservazioni di G.
Somma pittore, Bitonto 1882.
6
130
MARISA FIORE
dell’Arte applicata alle attività dell’industria sempre più in espansione. Sosteneva quindi
la necessità di abbandonare l’idea dell’arte fine a se stessa, ma di ripensare l’arte come
spazio di correlazione ed interdipendenza con le moderne necessità 8. Dopo il pensionamento di Francesco Spinelli nel 1905, lo stesso Somma ebbe il posto di professore stipendiato nella scuola bitontina.
È del 1905 una lettera con la quale Francesco Spinelli raccomanda al sindaco il figlio
Michele, ingegnere, già docente nella stessa suola, per il ruolo di direttore 9. Il titolo di ingegnere nelle scuole operaie era più ricercato di quello di professore di disegno, giacché
la Scuola di Disegno si prefiggeva di avviare i giovani artigiani non tanto ad una educazione artistico-accademica, quanto ad una educazione che, non rifiutando le ragioni dell’arte, fosse soprattutto tecnica ed ispirata alle esigenze dell’industria del tempo. Nel
1907, anno in cui muore il grande maestro Francesco, il figlio Michele chiede, però, di
essere sostituito nella carica di direttore dal cugino Michele Spinelli del fu Diego.
La relazione dell’anno scolastico del 1908-1909 descrive l’andamento positivo della
Scuola in ambito didattico ma il nuovo direttore, Michele Spinelli del fu Diego, denuncia la ristrettezza del bilancio che non permette di «soddisfare i bisogni della scuola» 10.
Nel 1923 divenne direttore il prof. Antonio Amendolagine, titolare della tipografia
che aveva svolto un ruolo importante nella divulgazione della stampa nella società unitaria. Questi introdusse nuove tecniche, come il calco, l’intarsio, la legatoria artistica e ripristinò l’annuale appuntamento con l’esposizione pubblica dei manufatti, sospesa a
partire dal 1911 11.
Un documento attesta la premiazione degli insegnanti e degli alunni della Scuola per
il lusinghiero risultato riportato nella prima Esposizione Nazionale Dopolavoristica di
Bolzano «che è motivo di soddisfazione per l’Amministrazione e di orgoglio per la
Città» 12. D’altronde l’attività didattica è affidata, in questo periodo, ad artisti e artigiani
ben quotati a livello locale, da Gennaro Somma ad Alfonso Pantaleo, da Vito Lorenzo Ciccarone a Emanuele Saracino.
La relazione dell’anno scolastico 1931-1932 attesta la presenza di 231 alunni iscritti
di cui 59 muratori, 21 scalpellini, 13 stuccatori, 10 marmisti, 26 falegnami, 11 carpentieri,
10 intagliatori, 13 meccanici, 21 fabbri, 2 tappezzieri, 11 pittori, 25 ebanisti, 2 tipografi,
5 sarti e 2 barbieri.
8
Ibidem.
A.S.C.B., Postunitario, b. 214, a. 1905, fasc. 2c, cl. 2, cat. 9, Michele Spinelli, Lettera al Comune
di Bitonto per la carica di direttore della scuola di disegno, Bitonto 1905.
10
A.S.C.B., Postunitario, b. 214, a. 1909, fasc. 2f, cl. 2, cat. 9, Relazione dell’anno scolastico 19081909; A.S.C.B., Preunitario, b. 214, a. 1909, fasc. 2c, cl. 2, cat. 9, Pagamenti dei contributi governativi
alla scuola di disegno 1909; A.S.C.B., Preunitario, b. 214, a. 1909, fasc. 3, cl. 3, cat. 9, Informazioni sulla
scuola, Anno 1909-1910; A.S.C.B., Preunitario, b. 214, fasc. 1, cl. 3, cat. 9, Associazione Internazionale
tra i Giovani Artisti - Edificio Tarsia-Napoli.
11
Sul programma didattico previsto dalla Scuola durante la direzione di Antonio Amendolagine si
veda C. Minenna, Istruzione e formazione a colpi di sgorbie e scalpello, in da Bitonto, 241, giugno
2009, 9.
12
A.S.C.B., Postunitario, b. 214, a. 1931, fasc. 3, cl. 3, cat. 9, Lettera di premiazione degli insegnanti
e degli alunni della Scuola di Disegno per l’Esposizione Nazionale Dopolavoristica di Bolzano.
9
CANCELLI, FONTANE, PORTALI. SU UNA MOSTRA DI DISEGNI
131
Nell’anno scolastico 1938-1939 la Scuola di Disegno conferma le sue nobili tradizioni che la vedono «legata all’amore e alla simpatia delle Autorità e della Cittadinanza» 13.
La politica del regime fascista, con il revival del classico e l’insistenza della tradizione nell’edilizia, condizionò e promosse lo sviluppo della Scuola. Gran parte dei lavori per le opere in muratura voluti dal fascismo a Bari e nei maggiori centri in Puglia,
portano la firma dei capimastri bitontini formatisi nella Scuola di Disegno.
Durante il periodo che va dal 1943 al 1945 14 la Scuola perse un gran numero di iscritti
perché gli Alleati sottraevano una rilevantissima mano d’opera. In questi anni, inoltre,
non pervenne alcun contributo né dal Ministero dell’Istruzione Pubblica né dal Consiglio Provinciale per l’istruzione Tecnica Obbligatoria. Nonostante queste difficoltà gestionali la Scuola è riuscita a continuare le attività didattiche ricorrendo anche alla logica
del risparmio: era diffuso, infatti, l’espediente di far riutilizzare agli alunni il tergo dei
fogli già utilizzati in anni precedenti.
La sopravvivenza della Scuola fino al secondo dopoguerra rimase legata al permanere delle ultime botteghe di fabbri, ebanisti e scalpellini. La direzione assunta dal dott.
Pasquale Amendolagine e dal prof. Raffaele Catucci 15 tentò di raccordare l’istituzione
bitontina con il mondo della scuola, soprattutto quella dell’obbligo, ma il risultato non fu
lusinghiero a causa dell’introduzione, nella scuola primaria e della scuola secondaria,
dell’educazione artistica. I tempi erano decisamente cambiati con l’istituzione della scuola
dell’obbligo, la produzione in serie dell’industria cominciava a soffocare il lavoro artigianale, il cemento armato annullava il lavoro certosino degli scalpellini.
Quelle che seguono sono alcune delle opere realizzate dagli allievi della Scuola di Disegno conservate presso l’Archivio Storico del Comune di Bitonto.
13
A.S.C.B., Preunitario, b. 214, a. 1939, fasc. 3, cl. 3, cat. 9, Relazione dell’anno scolastico 19381939.
14
A.S.C.B., Preunitario, b. 214, anno 1945, fasc. 3, cat. 9, Relazione dell’anno scolastico 1943-1945.
15
Sui protagonisti e sugli eventi che caratterizzarono l’ultima fase della scuola di Disegno si veda P.
Catucci, La gloriosa Scuola Serale di Disegno ‘F. Spinelli’, in da Bitonto, 226, dicembre 2007, 3.
1. - Fontana ornamentale che presenta una grande vasca ellittica sostenuta da una base decorata, sormontata da un grande gruppo marmoreo composto da quattro colonne che formano, quasi, un ‘baldacchino’ ospitante quattro anatre dalle quali discende l’acqua. Sulla sommità della struttura sono disposte
due lanterne. La fontana è sormontata da una statua di donna abbigliata con un peplo che regge, con il
braccio sinistro, un bouquet di fiori (autore: Vito Barone - Bitonto 04.01.1932).
2. - Cancello decorativo in ferro battuto e vetro con ornamenti a predilezione floreale, tipici dello stile liberty; i materiali adoperati per la realizzazione dell’opera sono china e acquerello (autore: Vincenzo D’Acciò - Bitonto 30.03.1929).
134
3. - Cancello decorativo in ferro battuto e vetro con ornamenti a predilezione floreale, tipici dello stile liberty; i materiali adoperati per la realizzazione dell’opera sono china e acquerello (autore: Giacomo Sicolo - Bitonto 09.12.1927).
MARISA FIORE
4. - Cancello decorativo in ferro battuto e vetro con ornamenti a predilezione floreale, tipici dello stile
liberty, i materiali adoperati per la realizzazione dell’opera sono china e acquerello (autore: Nicola Mongiello - Bitonto 07.03.1934).
5. - Decorazione a stucco utilizzato come rivestimento e decorazione di muri e soffitti (autore: Valentino Lisi - Bitonto 19.12.1939).
6. - Capitello decorato con foglie di acanto e volute tipiche dello stile corinzio; dalla combinazione di
questi due elementi si ottiene lo stile composito riprodotto nel disegno (autore: Pasquale Catanzaro - Bitonto 01.04.32).
7. - Colonna decorata con foglie di acanto e volute tipiche dello stile corinzio. Lo stile composito è riconoscibile anche nel capitello decorato da elementi figurati quali i due cavalli in ogni angolo e una
maschera al centro di ogni lato (autore: Francesco Demundo - Bitonto 15.03.1928).
8. - Portale della Cattedrale di Bitetto ricco di particolari. La parte centrale del portale costituita dagli
stipiti esterni e l’arco intermedio ha una funzione portante, essendo il proseguimento della muratura
principale. La parte più interna del portale costituita dagli stipiti interni e dalla lunetta non ha una funzione portante, ma solo di tamponamento e decorazione. I due leoni stilofori, dalla folta criniera, sono
accosciati su mensoloni che fuoriescono dalla massa muraria. Sulla schiena di ciascun leone poggia
un’elegante colonna dal capitello traforato con intrecci viminei che sostiene un pesante pulvino anch’esso decorato. Sul pulvino di ogni colonna, da entrambi i lati, s’innesta l’archivolto appena aggettante,
adorno di una fascia di rigogliose e scanalate foglie di acanto. Sulla lunetta troviamo una rappresentazione sacra che si espande dagli stipiti esterni. In posizione centrale troviamo gli Apostoli con Cristo,
nell’area sovrastante, la Madonna in trono attorniata da angeli che elevano lo sguardo alla sfera celeste
(autore: Francesco Ventafridda).
Studi Bitontini
Stefano MILILLO
93-94, 2012, 141-153
La stampa periodica a Bitonto
in un secolo di storia 1
Mazziniano prima e seguace di Garibaldi poi, Vincenzo Rogadeo 2 (1834-1899) che
cominciò la sua carriera politica nei concitati anni dell’Unità d’Italia, come triumviro del
governo provvisorio, assieme a Luigi De Laurentis e Teobaldo Sorgente, e poi come primo
Governatore della Terra di Bari (9 settembre 1860) per diventare negli anni 70 sindaco di
Bitonto e poi senatore del Regno nel collegio di Gioia del Colle, attento osservatore e interprete della storia sociale e politica della nostra terra nel secondo Ottocento, fu il
primo, a soli ventisette anni, a proporre la pubblicazione di un quotidiano «sdegnoso delle
anfibologie giuridiche e coscienziosamente e scientificamente diretto alla riabilitazione
all’esercizio de’ diritti imprescrittibili dell’uomo» 3.
Un giornale fatto da uomini che oltre possedere le conoscenze migliori del mondo civile, possedessero la coscienza «dei bisogni presenti d’Italia e de’ mezzi migliori di levarli via […]. La polemica la accettiamo e la desideriamo se riguarda a principi, ed a
pratica applicazione di principi» 4.
Questi erano fondamentalmente gli intenti ispiratori de: L’iniziatore. Giornale quotidiano, letterario, politico e sociale.
Il giornale doveva avere diffusione nazionale ed essere accompagnato da un settimanale di carattere politico. Non conosciamo l’esito dell’iniziativa, non abbiamo riscontri
sulla effettiva pubblicazione del quotidiano voluto dal Rogadeo, nonostante siano rimasti gli inviti alla pubblica sottoscrizione. È importante cogliere l’esigenza di un grande
uomo politico di avviare la riscossa politica e sociale del Mezzogiorno utilizzando un
mezzo di comunicazione essenziale quale il quotidiano. Ma penso anche alla edizione di
1
Mi è doveroso in questa occasione riportare alla memoria, con grato pensiero, la gentilissima sig.na
Lisetta Martucci Zecca che ha inteso donare alla Biblioteca diocesana ‘A. Marena’ di Bitonto la raccolta
dei giornali effettuata da suo nonno Pasquale Martucci Zecca, nonché ringraziare sentitamente l’avv. Vito
D’Aluiso che ha reso possibile il compimento delle volontà della sua congiunta Lisetta.
2
Sull’impegno politico e culturale di Vincenzo Rogadeo si veda M. Giorgio, La vita culturale a Bitonto nell’Ottocento, scuole, circoli, giornali, in F. Moretti, V. Robles (a cura di), Cultura e società a Bitonto nell’Ottocento. Atti del Convegno Nazionale (Bitonto, Palazzo di Città, 18-20 ottobre 2001), Bari
2003, 191-230.
3
Biblioteca vescovile ‘A. Marena’, Bitonto, Emeroteca, L’iniziatore. Giornale quotidiano, letterario, politico e sociale, 1861.
4
Ibidem.
142
STEFANO MILILLO
un settimanale che doveva chiamarsi in maniera significativa Il cooperatore delle Puglie
con lo scopo di dare spazio alle notizie nazionali, ma nello stesso tempo aprire le porte
alle iniziative, anche politiche, locali e rendere edotti e partecipi tutti i cittadini, a qualsiasi classe appartenessero, della vita politica e sociale. Anche questa iniziativa del Rogadeo non ebbe successo, i tempi non erano ancora maturi, i responsabili politici e le
persone anche a lui vicine non si avvidero della rivoluzionaria idea di un giornale politico e di opinione 5.
L’Iniziatore e Il cooperatore delle Puglie, comunque rimangono i primi riferimenti giornalistici per disegnare un percorso di storia sui quotidiani stampati o editi a Bitonto, ma non
di respiro necessariamente localistico, dall’Unità d’Italia fino agli anni ’50 del XX secolo.
Uno dei primi giornali che ambiva e percorrere il territorio nazionale, ebbe una caratterizzazione particolare: si trattò di uno dei
rari periodici di enigmistica stampati in Italia in quel tempo, ideato da Giuseppe Acquafredda nel lontano 1881 con una discreta
tiratura e una buona diffusione. Suo intento
era di dilettare ed istruire. «Non è vero – si
legge nel foglio programmatico – che un
giornale di giuochi guasti la mente dei giovani e tolga loro tempo utile ad altre occupazioni più serie. Certamente che se i giovani le ore dell’ozio le occupassero con un
giornale enigmatico alla mano, farebbero
molto meglio che andare ronzando per la
città e porsi a giochi d’azzardo, fonti di cattive conseguenze». D’altra parte il titolo
stesso del mensile era già un programma: Il
martello dell’ingegno. Periodico enigmatico a premi 6. Un periodico interattivo giacché ospitava anche rebus, sciarade, enigmi
e indovinelli inviati dagli stessi lettori e
dalla redazione riproposti ad un pubblico più
vasto con premi ai vincitori. Il Martello dell’ingegno, stampato dalla tipografia di Nicola
Garofalo, non ebbe vita lunga, come d’altra parte la maggiore parte dei giornali di cui parleremo giacché affidati alla buona volontà di pochi e non sostenuti da gruppi editoriali forti.
Quasi tutti i giornali editi tra Ottocento e Novecento nasceranno sotto l’egida di associazioni e movimenti politici più o meno organizzati. La rondine bitontina 7, che vede
5
Giorgio, La vita culturale… cit., 223-224.
Biblioteca vescovile ‘A. Marena’, Fondo Martucci Zecca, Miscellanea (d’ora in poi F.M.Z.), vol.
XIII, nn. 33-36. Il giornale nasce nel mese di novembre 1881, gerente responsabile è Giuseppe Ricapito.
Il periodico è stampato presso Nicola Garofalo al prezzo di 4 centesimi la copia, 50 centesimi l’abbonamento per l’Italia, lire 1 per l’estero.
7
Ivi, vol. XIV, n. 49. Il giornale esce il 15 e il 30 di ogni mese. Costa 10 centesimi ogni copia; è possibile abbonarsi al costo di 3 lire annue. Nelle sue pagine possono anche leggersi notizie di carattere giudiziario, cronache cittadine, poesie, recensioni, annunci pubblicitari, ricordi di cittadini scomparsi,
aneddoti, rubriche. Non è il primo giornale politico letterario della Provincia. A Trani già dal 1874 si pub6
LA STAMPA PERIODICA A BITONTO IN UN SECOLO DI STORIA
143
la luce nel 1882, è l’organo ufficiale
del Circolo intitolato a Giuseppe Garibaldi. Si tratta di un quindicinale che
vuole affrontare tematiche varie: dalla
politica, alla letteratura, al commercio.
Pur rimanendo nell’ambito locale non
disdegna di affrontare temi di politica
nazionale con la rubrica ‘Corrispondenza da Roma’. Con una periodicità
quindicinale vive almeno per un anno
ed è ancora stampato da Nicola Garofalo dai cui tipi verrà fuori quasi tutta
la stampa bitontina per mezzo secolo.
Parallelamente al Circolo Garibaldi, di natura più conservatrice e vicino alla monarchia è il Circolo Savoia
che pubblica dal 21 ottobre 1883 il
giornale Il Campidoglio 8, diretto da
Niccolò Ragni, mentre Francesco
Cammarrota ne è il gerente responsabile. Sabaudo a tutti gli effetti, sostenitore degli ideali della nuova dinastia
regnante, il nuovo settimanale racconta la vita cittadina accanto a fatti di
natura letteraria, economica e sociale. Si hanno tracce della sua presenza nella vita cittadina fino a metà del 1884.
Un forte movimento di sinistra dà luogo nello stesso anno 1883 alla pubblicazione
dell’Avanti, giornale popolare 9, che vede tra i redattori Giovanni Ancona Martucci colui
il quale con Giovanni Colella sarà uno dei promotori e divulgatori delle idee del socialismo in Terra di Bari 10. Una testata che sarà ripresa con maggior fortuna naturalmente a
blica Il popolo. Giornale politico letterario. A partire dal 1878 si chiamerà Il popolo, Monito settimanale politico, amministrativo ed eco scientifica e commerciale. A Bari esce a partire dal 1864 Il piccolo
corriere di Bari, dal 1876 Il Bari, politico amministrativo commerciale e dal 1874 Il costituzionale.
8
Il settimanale sembra molto vicino alla monarchia regnante. Non mancano però nelle sue quattro
pagine corrispondenze da altri giornali, poesie, racconti, necrologi, cronache di vita cittadina, opinioni,
annunci economici, note di letteratura e storia, corrispondenze da Napoli e da Roma. È venduto al prezzo
di 10 centesimi a copia, gratis per i soci del Circolo Savoia.
9
Biblioteca vescovile ‘A. Marena’, F.M.Z., cit., vol. XVI, n. 26. Il settimanale esce la domenica, si interessa di argomenti di carattere poltico e amministrativo. Mostra particolare attenzione ai problemi di Bitonto, Grumo, Noicattaro, Trani e altri paesi limitrofi. Direttore responsabile è prima Giovanni Mitaritonda,
poi Pietro Speranza. Tra i collaboratori annotiamo Achille Contini, Domenico Scippa, Domenico Giusto,
Vito Calamita, Giovanni Cardone. Il giornale è stampato a Grumo presso la tipografia Binetti.
10
Nel 1893, subito dopo il Congresso di Genova, sorse in Puglia la ‘Federazione socialista pugliese’.
A Molfetta nell’estate di quell’anno si celebrava il I° Congresso regionale che dette l’avvio alla griglia
provvisoria del partito. Vi parteciparono figure destinate ad avere un ruolo importante nella diffusione
del socialismo: Giovanni Ancona-Martucci di Bitonto, Giovanni Colella di Bitetto, Leonardo Mezzina
di Molfetta, Carlo Musacchio di Gravina.
144
STEFANO MILILLO
livello nazionale nel 1896 quando ebbe come uno
dei primi redattori Leonida Bissolati. Per un certo
periodo, quello antecedente alla prima guerra
mondiale ne fu direttore anche Benito Mussolini.
Nel secondo dopoguerra diventò l’organo ufficiale
del Partito Socialista italiano.
«Più o meno – recita l’editoriale del I numero
stampato a Grumo Appula il 23 settembre 1883 –
il titolo del nostro giornale, o fratelli operai, vi dice
il programma. E vogliamo andare avanti non essendo contenti della vita, perché noi lavorando
continuamente proviamo l’estremazione, e qualche giorno ci manca anche il pane; mentre altri
culla i suoi ozi nei soffici guanciali, sotto profumate coltri, e fra vini spumanti passa i suoi giorni
in grazia alle vistose somme ereditate dai padri».
Ambizioni più ampie voleva avere l’Eco delle
Puglie che vede le stampe nel gennaio 1883 sotto
la direzione del dott. T. Rago, gerente Pasquale
Vacca. È stampato a Bari nella tipografia dei fratelli Pansini e si occupa naturalmente di politica, di
letteratura e di economia; dà spazio alla cronaca
cittadina e a quanto i corrispondenti comunicano
dai paesi vicini 11.
Significativo il supplemento all’Eco delle Puglie: un giornale intitolato Il Veltro, inteso come
liberatore, salvatore dell’Italia. Il giornale anticiperà, almeno come titolo, un’altra rivista letteraria
italiana che avrà molta fortuna nella seconda metà
del Novecento, Il veltro, Rivista della civiltà italiana, fondata nel 1957 da Aldo Ferrabino e Vincenzo Cappelletti. L’Eco delle Puglie ha vita
almeno fino ai primi anni del 1885.
Intenti culturali presenta invece una rivista che
si propone per la prima volta al pubblico il 1° gennaio 1893. Va sotto il titolo di Juvenilia 12. Non è un
giornale politico, ma di scienze, lettere e arti; un inno
al rinnovamento e un invito alla raccolta di tutte le
forze più giovani attorno ad alcune tematiche, quelle letterarie, che hanno bisogno di essere
riprese sul serio, vista la decadenza del momento, e quelle scientifiche che hanno bisogno di
11
Biblioteca vescovile ‘A. Marena’, F.M.Z., cit., vol. XVI, n. 62. Il quindicinale è chiaramente di ispirazione monarchica e si dichiara fedele alla casa sabauda e all’esito del plebiscito. Anzi tra le due correnti monarchiche, quella moderata e quella progressista, il giornale si schiera dalla prima parte.
12
Ivi, vol. XXV, n. 10 e segg.
LA STAMPA PERIODICA A BITONTO IN UN SECOLO DI STORIA
145
essere sostenute e conosciute visti i progressi che la stessa sta conseguendo in tutti i settori.
La dirige Giovanni Colella e nel comitato di redazione, allargato ad esponenti della cultura
regionale, annotiamo con piacere per la prima volta la presenza femminile: Adele Lupo Maggiorelli, Maria Perfetti, Rosina Polidoro accanto ai più noti a noi Nicola Fano, Giovanni Abbatescianni, Giuseppe Modugno, Luigi Sylos, Gabriele De Michele, Orazio Spagnoletti,
Luigi Ambrosi e tanti altri. La lodevole iniziativa durò probabilmente solo qualche mese
giacché non abbiamo tracce della rivista al di là dell’anno stesso di fondazione.
L’istituto pareggiato Carmine Sylos intanto continua a pubblicare annualmente un suo
bollettino di grande interesse culturale, dove sono raccolte notizie sull’istituzione scolastica e interessanti articoli di storia, arte, letteratura, scienze, scritti dagli insegnanti di
quel prestigioso liceo, anima culturale della città e forgiatore di professionisti che per
molto più di un secolo hanno dato lustro a Bitonto con il loro ingegno e la loro versatilità. Si tratta dell’Annuario dell’Istituto pareggiato Carmine Sylos che generalmente si
pubblica a periodicità annuale e che ancora oggi è pubblicato da quell’Istituto.
La storia politica bitontina della fine del secolo XIX fu dominata da due correnti politiche: l’una, più progressista, facente capo
a Pasquale Martucci Zecca che di Bitonto fu
sindaco dal 1882 al 1886, poi dal 1889 al
1891 e nel 1893, e l’altra più conservatrice
guidata da Pasquale Cioffrese sindaco dal
1892 al 1893, dal 1894 al 1899. La stampa
di conseguenza fu orientata a sostenere o
l’una o l’altra parte con un’intensità talvolta
aspra e con polemiche roventi.
Nel febbraio 1892 Domenico Piepoli e Antonio Casamassima danno origine al periodico
Il Vessillo della giovane Puglia, lettere, politica, commercio 13, a cadenza settimanale e di
orientamento di sinistra. Intensa ma breve la
sua vita. Troviamo tracce puntuali della sua
uscita settimanale per tutto l’anno 1892 e poi
nulla. Non è un giornale localistico, ha ambizioni più ampie quali quelle di occuparsi di politica nazionale e internazionale oltre che di
cronaca locale e di rubriche varie di intrattenimento. Direttore è Domenico Piepoli, gerente
Antonio Casamassima.
Stesso orientamento è quello del giornale dal significativo titolo: La Lotta 14 che vede
ancora come gerente responsabile Antonio Casamassima e Il Buonsenso 15, dal sottoti13
Ivi, vol. XXIV, n. 15 e segg.
Ivi, vol. XXIX, n. 11 e segg. La Lotta, il cui primo numero esce il 14 marzo 1897, si presenta come
un periodico bisettimanale ed è stampato da Nicola Garofalo. Le sue quattro pagine offrono spazio alla
politica, alla cronaca, informazioni varie, vite di personaggi illustri, letteratura. Ampio spazio è dedicato
nell’ultima pagina alla pubblicità e agli spettacoli.
15
Ivi, vol. XXVI, n. 32.
14
146
STEFANO MILILLO
tolo pubblicazione settimanale pugliese, Bitonto-Bari (1894) diretto dal socialista Giovanni Ancona Martucci reduce da Genova dove aveva partecipato alla fondazione del
Partito socialista d’Italia assieme a Giovanni Colella.
È di fatto il primo partito organizzato a livello nazionale che si radica nel territorio e finisce con il costringere altri gruppi e correnti parlamentari a coagularsi in partiti. Il direttore
de Il Buonsenso richiamava i suoi lettori ad averlo come referente nella corrispondenza che
generalmente era di carattere politico e ideologico. Su posizioni ancora più estremistiche troviamo gli anarchici che agli inizi del Novecento, radunati nel Circolo intitolato a Giordano
Bruno, faranno fortemente sentire la loro voce decisamente anticlericale, generando un forte
antagonismo con i cattolici che, ad esempio, finirono con l’addossare agli anarchici l’incendio verificatosi in cattedrale il 25 maggio 1900 con danni alla statua dell’Immacolata. I membri del Circolo Carlo Cafiero, invece, nel 1898 si limitano a pubblicare un numero unico dal
titolo Pane e alfabeto 16, ad indicare nettamente le linee programmatiche del movimento rivolto alla elevazione delle masse dalla indigenza culturale e materiale sempre e volentieri collegate. Carlo Cafiero, il più importante discepolo italiano di Bakunin nella seconda metà
dell’Ottocento, originario di Barletta, fu il primo divulgatore del Capitale di Marx in Italia
nel 1879, oltre che amico sincero dell’anarchico russo per alcuni anni.
Di orientamento socialista è La Puglia del popolo 17 che nasce a Bitonto nel gennaio
1899. Ha come sottotitolo Difesa settimanale dei lavoratori e si propone come l’organo
ufficiale della Federazione Socialista Pugliese-Lucana con sede a Bari. Il suo manifesto,
che richiama ad un socialismo non ben definito, oscillante tra quello riformista e quello
radicale, è esplicitato nelle righe sotto il titolo: «La miseria nasce non dalla malvagità dei
capitalisti, ma dalla cattiva organizzazione della società, dalla proprietà privata. Perciò noi
predichiamo non l’odio alle persone, né alla classe dei ricchi, ma la urgente necessità di
una riforma sociale che, a base dell’umano consorzio, ponga la proprietà collettiva». La
Puglia del popolo, sotto la direzione di Domenico Scelsi, è stampata a Ruvo nella tipografia di Pietro Speranza. Non è casuale la scelta di Bitonto come sede del primo giornale dichiaratamente socialista pugliese, visto il forte nucleo di aderenti a quelle idee: da
Colella a Casamassima, da Ancona Martucci allo stesso Scelsi e a tanti altri. Per un paio
di anni almeno questo giornale fu diffuso in tutta la regione.
Dello stesso periodo (1898) è Il piccolo corriere 18, giornale politico amministrativo
commerciale diretto da Luigi Speranza e subito dopo da Pietro Ribatti, mentre del 1895
è Cronaca bitontina 19, diretto da Domenico Jacopo Poli. Gli artigiani si uniscono nel
1896 attorno ad un loro foglio, La freccia 20.
16
Ivi, vol. XXX, n. 11.
Ivi, vol. XXXI, n. 6 e segg. Il mensile si compone di quattro pagine; sono trattati temi di carattere
politico e sociale, culturali, di informazione, corrispondenze da Bari, Barletta, Ruvo, Noci, Irsina. Tra
gli altri collaborano: Henry Brissac, Michele Adinolfi, Giovanni Ancona, Pasquale Martucci, Max Nordau.
18
Ivi, vol. XXX, n. 17 e segg. Il numero uno di saggio esce il 24 aprile 1898.
19
Ivi, vol. XXVII, n. 52 e segg. Il giornale ha come sottotitolo Giornale settimanale. Organo del collegio di Bitonto. Con il direttore collabora strettamente Deodato Giuliani nel ruolo di gerente responsabile. È stampato a Bari dalla tipografia Cannone. Cronaca bitontina informa naturalmente sui fatti di
Bitonto, dalla politica alla cronaca mondana, agli spettacoli, con rubriche di musica, scienze e arte.
20
Ivi, vol. XXVIII, n. 37.
17
LA STAMPA PERIODICA A BITONTO IN UN SECOLO DI STORIA
147
Nel 1899 è eletto vescovo di Bitonto Pasquale Berardi che reggerà la diocesi fino alle
origini del fascismo e quindi controllerà la chiesa locale per tutto il primo ventennio del Novecento. Berardi è un vescovo dinamico, aperto alle istanze sociali della chiesa di Leone XIII,
fautore di numerose iniziative di carattere religioso, attento alle problematiche cittadine. Forte
custode della ortodossia e fedele alla gerarchia esercitò un severo controllo sul clero e quando
possibile affermò anche con durezza il
primato della Chiesa. Capì l’importanza
della stampa nella diffusione del messaggio cristiano e già nei primi giorni del
1901 propose ai cattolici della sua diocesi
di fondare un giornale che fosse il Corriere diocesano Ruvo-Bitonto. Iniziativa
che prese piede l’anno successivo (18
gennaio) con la pubblicazione di Democrazia cristiana 21 stampato nella Tipografia vescovile. Il settimanale che riportava notizie sulla vita religiosa delle città
di Ruvo e Bitonto, ma anche note di cronaca sociale, di agricoltura, di amministrazione e che durò in vita per due anni,
si inseriva sulla strada intrapresa dalla
chiesa romana rivolta ad arginare il dilagante socialismo. Fu Romolo Murri che
propose assieme ad altri intellettuali cattolici un impegno nel sociale con la istituzione appunto di un movimento nazionale detto Democrazia cristiana 22, da cui
successivamente sorse il movimento politico guidato da don Sturzo, il Partito Popolare Italiano (18 gennaio 1819).
Al 1915 risale la pubblicazione di un altro giornale, mensile questa volta, con ambizioni nazionali. Si tratta de L’inno (himnum novum cantemus Deo nostro) 23 una rivista di
carattere musicale diretta da mons. Daniele Cepollaro, ruvese. La rivista si proponeva di
diffondere la conoscenza della musica, in particolare quella religiosa, a livello nazionale.
Perciò al suo interno c’era un’ampia sezione che raccoglieva spartiti musicali dei talenti
locali e non, che erano riproposti su scala nazionale.
21
Il settimanale, con il sottotitolo Corriere diocesano Ruvo-Bitonto, esce il sabato; non si limita a trattare argomenti religiosi, ma si propone di allargare i suoi orizzonti a tematiche di carattere sociale, agricolo e amministrativo. È un corriere che abbraccia le due antiche diocesi di Ruvo e Bitonto. Gerente
responsabile è Giovanni Palladino, amministratore Pasquale Paradisi. Tra i redattori il sacerdote Vito Antonio Vacca, già parroco di Santo Spirito, che nelle pagine del giornale si accingerà a scrivere una ‘Storia di Bitonto’.
22
S. Milillo, Introduzione in Biblioteca Diocesana ‘A. Marena’ - Bitonto, La stampa periodica locale
dal dopoguerra ai nostri giorni, pp. XII-XV, Bari 2010; Biblioteca vescovile ‘A. Marena’, F.M.Z., cit.,
vol. XXXIV, n. 63 e segg.
23
L’Inno è un mensile il cui gerente responsabile è Vito Carbonara.
148
STEFANO MILILLO
Sotto l’episcopato di mons. Berardi è
pubblicato anche L’eco del sacro Cuore che
nasce nel 1917 con la gerenza di Vito Carbonara. È l’organo di informazione delle
Maestre Pie dell’ordine di Santa Lucia Filippini, istituzione anch’essa voluta dal
Berardi per l’istruzione cristiana delle fanciulle. Agli albori dell’era fascista, proprio
nel 1922, fu avviata dal vescovo Placido Ferniani la pubblicazione del bollettino diocesano Vita religiosa, sospesa nel 1929 e ripresa nel 1950 dal vescovo Aurelio Marena per durare fino al 1978. Il bollettino naturalmente raccoglie notizie di vita diocesana,
disposizioni vescovili, atti dei pontefici.
I primi anni del Novecento sono segnati
dalla morte violenta di re Umberto, conclusione di un tormentato periodo storico,
e dalla progressiva affermazione in campo
politico del liberale Giovanni Giolitti.
Molto agitata fu la vita politica e amministrativa di Bitonto tanto che spesso fu necessario il ricorso a commissari di governo per la gestione della cosa pubblica.
Pur nel vivace dibattito politico del tempo, non schierati si dichiarano i responsabili del
giornale La Verità 24 che si pone come settimanale indipendente ma, intanto, appoggia l’amministrazione comunale che a suo dire nel maggio 1900 finalmente riesce a dare serenità
alla città e a ristabilire un periodo di ripresa. Diventa però l’Organo dei partiti popolari del
Collegio di Bitonto da novembre del 1901. L’anno seguente troviamo come gerente responsabile Antonio Ingannamorte. Si hanno sue notizie sino al 1903.
Dello stesso anno (1900) è L’Ordine 25, diretto da Vito Carbonara. Il numero di saggio esce
il 30 dicembre, ma un primo lancio era stato effettuato già nel maggio 1899 con il sottotitolo
Organo della Provincia di Bari. Il programma è quello di «curare i singoli avvenimenti amministrativi e di cronaca della Provincia, senza discutere le persone, ma le cose». Il giornale
si presenta comunque di stampo prevalentemente politico riassumendo gli avvenimenti più
salienti della settimana che hanno caratterizzato la vita politica nazionale e locale. Si interessa,
come dice il sottotitolo anche di Lettere attraverso rubriche di arte e cronache di avvenimenti
culturali. Anche L’Ordine al suo terzo anno di vita assume un ruolo più ampio e articolato
diventando nel febbraio 1902 Organo degli interessi delle province di Bari, Foggia e Lecce.
24
Biblioteca vescovile ‘A. Marena’, F.M.Z., cit., vol. XXXII, n. 47 e segg. Il settimanale si avvia il
22 aprile 1900. Ha come sottotitolo Giornale politico, amministrativo, letterario, commerciale, si stampa
presso l’editore N. Garofalo ed è gerente responsabile Domenico Noviello. L’editoriale di carattere politico è accompagnato da notizie dalla Provincia e dalla stessa Capitale. Sono presenti cronache cittadine,
annunci di pubblico interesse, pubblicità.
25
Ivi, vol. XXXIII, n. 79 e segg.
LA STAMPA PERIODICA A BITONTO IN UN SECOLO DI STORIA
149
Quel Luigi Sylos che con altri esponenti della cultura di terra di Bari aveva collaborato e sostenuto Juvenilia, fondò La Puglia tecnica 26, nel 1901, una rivista quindicinale prodigiosa a raggio regionale di cui fu direttore e su cui scrisse interessanti saggi scientifici sull’architettura, ma anche su Luigi Castellucci e sulle maestranze bitontine nell’Ottocento. La
rivista, che riporta interessanti illustrazioni, si occupava di scienza e tecnica, di strade e infrastrutture, di elettricità, di architettura, di storia dell’arte e novità tecnologiche; finanche
le automobili i cui primi esemplari giravano sulle strade pugliesi, sono oggetto di riflessioni.
La Breccia 27 è un giornale settimanale politico letterario, mondano e artistico, sportivo
e di pubblicità, come si definisce nel sottotitolo. Ne è direttore Nino Stellacci, un personaggio a noi sconosciuto che però è presente nella pubblicistica del tempo e che dunque
merita una certa attenzione. Nasce nel dicembre 1902 e come buon auspicio proprio il
giorno di Natale. Lo stesso Stellacci si mise alla guida del periodico L’Universo 28, una rivista universale di lettere, scienze, arti, teatro, commercio. È stampato nella tipografia di
Pietro Speranza di Ruvo che, con la tipografia vescovile, con quella di Garofalo e con
quella di Di Bari diffondono ampiamente la stampa bitontina tra Ottocento e Novecento.
Ancora giornali di sinistra si stampano a Bitonto agli inizi del Novecento, almeno quelli
raccolti da Pasquale Martucci Zecca. E certamente rappresentano la quasi totalità, visto che
per il ceto borghese intellettuale era quasi naturale confluire in questi ambiti ideologici; lo
stesso Liceo, forgiatore di coscienze, presentava un gruppo di insegnanti non certo reazionari. Per tutti citiamo Spartaco 29 (1902), periodico bisettimanale gestito da Michele
Longo e stampato a Modugno dalla tipografia Zema. Nel nome un programma. Spartaco
è quel guerriero della Tracia che guidò la prima grande rivolta degli schiavi contro Roma
nel I secolo a.C. Qui si trattava di dare voce alle classi più umili per un loro riscatto economico e sociale. Stesso l’intento del Fascio dei Lavoratori 30 il cui primo numero come
saggio vede la stampa il 25 ottobre 1903, diventando ancora in un periodo di prova La
giustizia del fascio dei lavoratori per tornare dal 15 novembre dello stesso anno alla intitolazione originaria. Dei fasci la storia fa memoria in quel di Sicilia nel primo governo
Giolitti, ma essi si diffusero rapidamente in tutta l’Italia, specie nel Meridione a dare voce
ai lavoratori, assieme alle leghe e poi alle Camere del Lavoro. Uno dei temi centrali del
giornale fu la questione del demanio della città, conteso tra il Comune e un gruppo di famiglie di latifondisti che pare, alla fine, abbiano avuto la meglio sul suo accaparramento.
26
Ivi, vol. XXXIV, n. 19 e segg. La rivista è edita da Giuseppe Laterza che già impone una veste tipografica particolarmente curata. Il sommario, ad esempio, è pubblicato al centro della prima di copertina.
27
Ivi, vol. XXXIV, n. 75 e segg. Il primo numero di saggio è dato alle stampe il 7 dicembre 1902. Il
giornale riporta notizie dall’Italia e dalla Puglia. Interessanti sono le rubriche per i giovani, l’arte, lo
sport, le recensioni di libri, finanche le barzellette.
28
Ivi, vol. XXXIV, n. 00. Il quindicinale si presenta in una maniera nuova rispetto a molti altri periodici del tempo. La prima e ultima pagina sono colorate, il numero delle stesse pagine mediamente è di dodici unità. Stampato dalla premiata casa editrice N. Garofalo, ne è gerente responsabile Deodato Giuliani.
29
Il giornale si presenta come Organo della democrazia pugliese. Spartaco trova nel tempo varie edizioni, a cominciare dal 1882 in Bari per i tipi di Petruzzelli e figli. Nella tipografia dei fratelli Petruzzelli al costo di lire 5 annuali per abbonamento. Nel Fascio dei lavoratori si trovano articoli su problemi
politici, sociali, inviti alla cittadinanza, documenti.
30
Biblioteca vescovile ‘A. Marena’, F.M.Z., cit., vol. XXXV, n. 81 e segg. Prima del numero inaugurale furono pubblicati altri numeri di saggio con titoli diversi ma da cui non mancava mai la parola
‘fascio’. Si stampava a Bari.
150
STEFANO MILILLO
Lo diresse per due anni Arcangelo Vasanella, uno dei tanti personaggi che meritano ancora
attenzione dalla storia. Interessante la polemica frequente con i popolari.
Arcangelo Caiati dà vita nel 1906 ad un periodico settimanale di varia natura con rubriche di politica, di cronaca, di corrispondenze da paesi limitrofi: La Vespa 31. Nello
stesso anno nasce La vedetta bitontina 32, di carattere politico amministrativo, che resiste
almeno per 3 anni fino al 1909 e con direzione nel capoluogo, come la stessa tipografia: fratelli Pansini. In pari data Vito
Zuccarino dà spazio al settimanale Bitonto
in avvenire e l’Avvenire di Bitonto 33, ancora un giornale socialista di forte stampo
laicista, in un periodo storico in cui l’amministrazione comunale è di diverso
orientamento, guidata com’è da Pasquale
Buquicchio, Luigi Cioffrese e Lorenzo
Achille che sarà ancora sindaco nel 1927
in pieno periodo fascista.
Interessante e decisamente curioso è Il
Pupazzetto 34, giornale quindicinale satirico ed umoristico il cui numero di saggio
fu pubblicato il 10 febbraio 1910. «Il cav.
Pupazzetto desidera che il pubblico gentile, almeno come si dice, non prenda a
male i suoi urli, pugni, calci e graffi, che
del resto per la sua muscolatura fanno pochissimo male». Da decifrare la sigla
Gisbi a margine del titolo.
Il ventennio naturalmente bloccò la libertà di stampa e appiattì il dibattito politico. A Bitonto circolò, come stampa locale, il quindicinale del Fascio di combattimento
intitolato Otto febbraio 35, mentre per il resto ci si limitò a timidi tentativi di giornali par31
Ivi, vol. XXXVIII, n. 3 e segg. Il settimanale si stampa a Bitonto presso la tipografia Di Bari; la direzione è nel capoluogo, in via Napoli, Arcangelo Caiati è bitontino. I temi trattati sono vari: dall’editoriale,
generalmente di carattere politico, alle notizie che provengono dal circondario della Terra di Bari. Si rilevano recensioni di libri, romanzi d’appendice, corrispondenze con i lettori, notizie sul cinematografo.
32
Il giornale fa seguito ad una pubblicazione simile, La vedetta, avviata nel 1871 dal bitontino Angelo Michele Calia a sostegno del partito di Petroni-Capruzzi.
33
Biblioteca vescovile ‘A. Marena’, F.M.Z., cit., vol. XLI, n. 43 e segg. Il settimanale, che ha come
gerente responsabile Arcangelo Vasanelli, esce, come saggio, la prima volta il 9 maggio 1909, passa attraverso Il nostro giornale, Bitonto in avvenire, per ritornare al titolo originario. È caratterizzato da forte
spirito polemico nei confronti degli avversari politici e della Chiesa.
34
Il giornale è stampato nella tipografia Giuseppe Di Bari. Gli articoli, tra satira ed umorismo, sono
firmati da pseudonimi come “Cento centesimi”, ‘Fedro’, ‘Petronius arbiter’ e lo stesso ‘Gisbi’. Anche
gli annunci pubblicitari sono falsi e ironici.
35
Il Bollettino quindicinale nasce nel 1919, ma diventa l’organo del partito fascista. Ne è direttore
responsabile Gaetano Rienzo.
rocchiali, vedi il Bollettino di S. Leucio e fogli informativi e di polemica, cosa certamente
non nuova qualora si pensi ai frequenti scontri degli anni precedenti manifestati attraverso volantini e numeri unici. Uno per tutti: La luce della Verità stampato nel 1910 a proposito di alcuni immobili a S. Spirito di proprietà della diocesi; ma ancora più importante
il resoconto degli storici fatti accaduti a Bitonto per le elezioni del 1913, Dopo il 26 ottobre, quando fu messo a tacere il partito dei salveminiani dai mazzieri cioffresisti, azione
che fece meritare a Giolitti l’epiteto di ‘ministro della malavita’.
Durante l’ultima guerra, e precisamente nel 1941, su iniziativa di alcuni giovani dell’Azione cattolica, che aveva qui salde radici per via di Anna e Maria De Renzio, cominciò a girare Filo d’oro il cui primo obiettivo fu quello di tenere legati le file dei giovani
cattolici bitontini con i colleghi costretti a stare sul fronte bellico. Animatori furono Ottavio Leccese e don Francesco Terlizzi che portarono avanti l’iniziativa fino al 1951 con
una breve sospensione nel 1944.
Nel 1948 mons. Andrea Taccone che aveva già intravisto le enormi possibilità di diffusione del culto dei Santi Cosma e Damiano, diede vita all’Eco dei Santi Medici che, rinnovato nella veste e nei contenuti, si diffonde in Italia e all’estero ancora oggi.
La dialettica culturale e politica bitontina, la cronaca ad essa afferente, trova naturalmente riscontri anche in altri giornali e periodici stampati in provincia, in particolare a
Bari: Lo scudiscio, Figaro – con una bella caricatura in prima pagina di Pasquale La Rotella e la sua nuova opera Ivan – Fra Melitone, Il Gazzettino delle Puglie, Il risveglio. Numerose le raccolte effettuate dal Martucci in occasione di eventi particolarmente rilevanti
come la tragica fine del finanziere che aveva impedito l’esecuzione di fuochi pirici in occasione della festa dell’Immacolata (1893) e l’omicidio della signora Cenzina Di Vagno
attribuita al marito tenente Modugno (1904).
152
STEFANO MILILLO
Queste brevi note sulla stampa bitontina tra Ottocento e Novecento offrono un’idea
delle numerose testate che si pubblicano nello stesso periodo in terra di Bari e nel capoluogo in particolare. Molti di questi giornali della provincia hanno i loro corrispondenti
da Bitonto e sono stati messi insieme in volumi da Pasquale Martucci Zecca che ha voluto raccogliere innanzitutto quanto stampato a Bitonto e quanto riguardava Bitonto dal
1877 alla data della sua morte (1908).
LA STAMPA PERIODICA A BITONTO IN UN SECOLO DI STORIA
153
Elenco dei titoli dei periodici della Provincia di Bari e non, presenti nel fondo Martucci
Zecca della Biblioteca vescovile di Bitonto.
Roma (Napoli 1877), Il Popolo (Trani 1877), Il secolo XIX (Napoli 1877), Giornale di Napoli
(Napoli 1877), Il libro nero (Napoli 1877), Mondo vecchio e mondo nuovo (Napoli 1877), Il
Costituzionale (Bari-Trani 1877), Il Bari, politico amministrativo (Bari 1877), Voce pubblica
(Napoli 1877), La Luce (Bari 1877), Il pungolo (Napoli 1877), La nuova gazzetta (Bari 1877),
Montecitorio (Napoli 1877), La Lupa (Roma 1877), La frusta, carica alla baionetta sull’alta
e bassa canaglia (Napoli 1877), La Gazzetta del popolo (Napoli 1879), Gli Operai (Napoli
1879), Il Piccolo corriere di Bari (Bari 1879), La Sinistra (Bari 1880), La Gazzetta dei tribunali (Napoli 1880), Il Piccolo (Napoli 1880), Il Progresso (Napoli 1880), La Riforma (Roma
1880), Il corriere del mattino (Napoli 1880), Il Crivello (Napoli 1880), La Nuova Gazzetta
(Bari 1880), Il Cittadino (Bari 1881), La vedetta (Bari 1881), Il Commercio (Bari 1882), La
Bussola (Bari 1882), Manfredi (Bari 1882), Il democratico (Bari 1882), Spartaco (Bari 1882),
L’Opinione (Roma 1882), La Nuova falange (Bari 1882), L’operaio barese (Bari 1882), Barion (Bari 1882), L’eco elettorale (Bari 1882), Il Machiavelli (Bari 1884), Fra Melitone (Bari
1884), La Gazzetta di Bari (Bari 1884), Il Meridionale (Bari 1884), L’Impiegato (Roma 1884),
La Stampa (Roma 1884), L’avvenire delle Puglie (Bari 1885), Il Risorgimento pugliese (Bari
1885), L’Annunziatore (Napoli 1885), Rassegna pugliese di scienze, lettere e arti (Trani 1885),
Arte e storia (Firenze 1885), Il Progresso (Bari 1866), La settimana (Bari 1886), Il Tribuno
(Bari 1886), Gazzetta musicale di Milano (Milano 1886), La Puglia agricola (Bari 1886),
Caronte (Bari 1889), Il Grillo (Bari 1890), La stampa libera (Bari 1890), La Tribuna (Roma
1890), La Puglia del popolo (Bari 1892), Imbriani, organo elettorale del collegio CoratoTrani (Trani 1892), L’indipendente (Bari 1892), Il Corriere meridionale (Lecce 1892), Sordello (Trani 1893), Corriere di Napoli (Napoli 1894), Il Don Chisciotte (Roma 1894), Il
Mattino (Napoli 1894), La Bandiera (Napoli 1884), Il Progresso (Bari 1886), La campana
degli studenti (Torino 1885), Gazzetta letteraria (Torino 1894), Gazzetta Piemontese (Torino
1894), Il Corriere italiano (Firenze 1894), Corriere delle Puglie (Bari 1895), Rinaldo (Bari
1895), L’opinione liberale (Roma 1895), La Capitale (Roma 1895), L’eco delle Puglie (Bari
1895), Lo scudiscio (Bari 1896), Il messaggero pugliese (Bari 1896), Bari gloriosa nella lotta
dei suoi destini (Bari 1897), La veglia (Bari 1897), Il Gazzettino bigio (Bari 1897), La vigilia (Bari 1898), Il giornale di Trani (Trani 1898), Il Paese (Napoli 1898), La Provincia di
Bari (Bari 1898), Il diavolo rosso (Napoli 1898), L’araldo pugliese (Bari 1898), L’uovo di Colombo (Bari 1898), Don Ficcanaso (Bari 1898), L’intransigente (Bari 1898), La Riscossa
(Bari 1899), L’Araldo pugliese (Trani 1899), La Settimana di Benevento (Benevento 1900),
Figaro (Bari 1900), Il Risveglio (Bari 1900), La Ragione (Bari 1901), L’Osservatore pugliese
(Martina Franca 1901), La Puglia tecnica (Bari 1902), Il Travaso della domenica (Roma
1902), La Folla (Milano 1903), Corriere vesuviano (Napoli 1903), La Patria (Roma 1903),
Il Popolo (Bari 1903), Il Gazzettino (Bari 1903), Il Fulmine (Bari 1903), La Patria (Ancona
1903), L’Oggi (Bari 1905), Il Giornalia d’Italia (Roma 1905), Il popolo pugliese (1906), Fanfulla (Bari 1907), Il Secolo (Milano 1907), Rivista medica (Milano 1907), La Terra (Bari
1907), La Conquista (Bari 1907), La Fiamma (Bari 1908).
RECENSIONI
Franca Caterina Papparella, Calabria e Basilicata: l’archeologia funeraria dal IV al VII secolo.
Ricerche. Collana del Dipartimento di Archeologia e Storia delle Arti dell’Università della
Calabria, diretta da Giuseppe Roma. 2.
Università della Calabria, Arcavacata di Rende (CS) 2009 - Pp. 278; illustrazioni e tavole b/n e a colori
+ 1 tavola fuori testo.
L’archeologia ‘funeraria’ suscita un interesse notevole
tra gli studiosi di antichistica, perché è considerata un settore di ricerca particolarmente privilegiato ai fini di una
più precisa definizione degli elementi sociali, economici e
culturali del mondo antico, dal momento che l’analisi del
sepolcreto – da intendere quale contesto strutturato – permette di analizzare e comprendere alcuni aspetti delle società antiche che difficilmente potrebbero essere spiegati
con il ricorso ad altri tipi di evidenze. Non bisogna tuttavia semplicemente intendere una necropoli come specchio
fedele della comunità a cui essa appartiene, tanto più che
essa riflette la realtà socio-culturale del gruppo umano cui
si riferisce in una forma riorganizzata, secondo specifiche
dinamiche, che riguardano, in modo particolare, talune
esigenze rappresentative.
Lo sviluppo di questo campo di indagine è da collocare nella seconda metà del XX secolo, quando nuove problematiche hanno suscitato curiosità e voglia di conoscenza tra gli studiosi che sono ricorsi ad approcci teorici innovativi, a
nuove strumentazioni, nonché a collaborazioni con altre discipline quali l’informatica, l’antropologia fisica, la genetica 1.
Negli anni 1960-1980, nel mondo anglosassone, specie per iniziativa di Lewis Binford 2,
si è sviluppato un indirizzo di ricerca archeologica volto a superare il pensiero, peraltro abbastanza diffuso, per cui ciascun fenomeno culturale era unico e irripetibile. La ‘New Archeology’ – nota anche come Archeologia Processuale – è ricorsa per prima all’apporto delle
scienze esatte: proprio questo è ritenuto il contributo più rilevante e durevole di tale movimento culturale 3. Infatti, per questi archeologi le pratiche funerarie rappresentavano un sistema
di comunicazione volto a trasmettere informazioni sul defunto alla comunità dei vivi: essi
1
Per ulteriori approfondimenti si rimanda a S. J. Lucy, Sviluppi dell’archeologia funeraria negli
ultimi 50 anni, in N. Terrenato (a cura di), Archeologia teorica: X ciclo di lezioni sulla ricerca applicata in archeologia (Certosa di Pontignano-Siena, 9-14 agosto 1999), Firenze 2000, 311-322.
2
L. R. Binford, S. R. Binford, New Perspectives in Archaeology, Chicago 1968.
3
N. Terrenato, s.v. New Archaeology, in R. Francovich, D. Manacorda (a cura di), Dizionario di archeologia. Temi, concetti e metodi, Roma-Bari 2005, 204-206, qui 205.
156
RECENSIONI
pertanto ritenevano che il trattamento del cadavere dipendesse dalla necessità di enfatizzare
alcuni dei ruoli sociali che la persona aveva avuto in vita 4. Da ciò derivava la convinzione che
l’energia spesa per la realizzazione della sepoltura era direttamente proporzionale all’importanza del gruppo che aveva avuto responsabilità nei confronti dell’individuo defunto.
In alcuni contesti scientifici come quello italiano, la New Archaeology è stata accolta con notevole scetticismo e, in più, causa la scarsa consuetudine con le procedure scientifiche utilizzate,
si è impedito di comprendere pienamente quanto teorizzato da tale movimento culturale.
Poco tempo dopo non sono infatti mancate critiche e revisioni proposte da archeologi che
hanno quasi completamente riletto o riformulato metodi e tecniche dell’Archeologia Processuale. Per questo motivo la nuova corrente di pensiero sviluppatasi negli anni Novanta del secolo scorso è stata definita Archeologia Postprocessuale 5. La semplificazione dei casi di studio
e il costante ricorso alle scienze esatte, che rappresentano alcuni degli aspetti centrali nella New
Archaeology, sono stati completamente superati dal nuovo filone di studi. Relativamente allo studio delle sepolture – ad esempio – questa nuova generazione di studiosi riteneva che la scarsa
presenza di materiali nel corredo deposto in tomba non doveva indicare esclusivamente e necessariamente la povertà del defunto e del suo gruppo, come, invece, precedentemente ritenuto 6.
Ancora, l’Archeologia Postprocessuale ha anche dimostrato come talvolta pratiche identiche
siano osservate da popolazioni lontane cronologicamente e geograficamente 7.
L’archeologia funeraria, che di recente è stata anche proposta quale ‘archeologia della
morte’ 8, negli ultimi dieci anni ha tratto notevoli benefici dallo sviluppo dell’antropologia fisica e delle discipline strettamente connesse a questa come – ad esempio – la paleopatologia 9
e la paleonutrizione 10. Inoltre sempre di più sono in corso di sviluppo studi più complessi in
cui alle conoscenze archeologiche si sommano quelle scientifiche: è il caso della paleoantropologia che si occupa dello studio del divenire biologico degli individui e dei gruppi umani del
passato 11. Antropologi, medici legali e archeologi collaborano sempre più attivamente per cercare di trarre informazioni dai resti umani, dai contesti deposizionali e dai materiali presenti
nelle sepolture, al fine di poter avere risposte non solo – come in passato – su questioni inerenti
il corredo, le tipologie sepolcrali, i rituali impiegati, ma anche su questioni inerenti l’individuo
e il gruppo a cui apparteneva (dieta alimentare, malattie, attività lavorativa, condizioni di vita) 12.
4
A. A. Saxe, Social Dimensions of Mortuary Practices, tesi di Dottorato, University of Michigan,
1970.
5
N. Terrenato, s.v. Postprocessuale, archeologia, in Francovich, Manacorda (a cura di), Dizionario
… cit., 220-222.
6
M. Cuozzo, Prospettive teoriche e metodologiche nell’interpretazione delle necropoli: la «postprocessual archaeology», in AnnAStorAnt n.s. 3, 1996, 1-37.
7
I. Hodder, Leggere il passato. Tendenze attuali dell’archeologia, Torino 1992.
8
Si veda, da ultimo, N. Laneri, Archeologia della morte, Roma 2011.
9
F. Mallegni, s.v. Paleopatologia, in Francovich, Manacorda (a cura di), Dizionario … cit., 216-218.
10
F. Mallegni, s.v. Paleonutrizione, in Francovich, Manacorda (a cura di), Dizionario … cit., 214-216.
11
Una sintetica presentazione della disciplina è in F. Mallegni, s.v. Paleoantropologia, in Francovich,
Manacorda (a cura di), Dizionario … cit., 211-214.
12
In articoli e monografie questi settori di indagine sono illustrati anche con il ricorso a numerosi
esempi; per una chiara ed efficace presentazione dell’impiego delle più moderne tecniche e dei risultati
che si possono ottenere, si rimanda ai lavori di F. Mallegni, M. Rubini, Recupero dei materiali scheletrici in Archeologia, Roma 1994; A. Canci, S. Minozzi, Archeologia dei resti umani. Dallo scavo al la-
RECENSIONI
157
Negli ultimi anni, grazie al notevole avvicinamento dell’archeologia all’informatica, si
sono sviluppati studi di archeologia funeraria in cui si utilizzano database, GIS o altre applicazioni vantaggiose per lo studioso sia nelle fasi di immagazzinamento dei dati archeologici
e di consultazione sia per la realizzazione di ‘prodotti’ accessibili a un pubblico ampio e variamente composto 13.
In un periodo quindi di massima fioritura degli studi di archeologia funeraria si inserisce la
pubblicazione del lavoro di Franca Caterina Papparella, ricercatrice calabrese, la quale con la
sua monografia Calabria e Basilicata: l’archeologia funeraria dal IV al VII secolo arricchisce,
senza dubbio, tale settore «di un’altra tessera di significativo interesse scientifico, in cui i territori di Calabria e Basilicata, in età altomedievale, ne escono storicamente valorizzati» 14.
Gli studi di archeologia funeraria tardoantica e altomedievale di contesti di area italica
sono molto numerosi 15, ma raramente queste ricerche hanno interessato le regioni oggetto di
trattazione nel testo di cui qui discutiamo. Infatti alla Calabria e alla Basilicata – da intendere, come la Papparella precisa 16, secondo i moderni confini geografici e amministrativi dell’antica provincia Lucania et Bruttii – sono stati dedicati solo pochi studi definibili prettamente
di archeologia funeraria 17; la maggior parte dei contributi, invece, tratta in maniera sommaria i contesti sepolcrali, dedicando maggiore attenzione ai corredi, secondo una tradizione di
studi ormai sentita come superata dalla comunità scientifica nazionale e internazionale.
La prima fase del lavoro svolto dall’Autrice è consistita nella capillare raccolta bibliografica, a cui è seguita la ricerca negli Archivi delle Soprintendenze, dove ha potuto verificare le
informazioni dei contesti già editi e recuperare segnalazioni ancora inedite.
L’ingente quantità di informazioni raccolte e la complessità delle stesse ha spinto Franca
Caterina Papparella a realizzare un geodatabase per facilitare immagazzinamento, gestione e
consultazione dei dati. Ai fini editoriali le quattro tabelle informatizzate sono state convertite
in un’unica scheda, che sarà illustrata successivamente. Inoltre manifestandosi la necessità di
un’analisi interpretativa su scala temporale e spaziale, si è resa indispensabile l’implementazione di un sistema informativo territoriale (SIT) 18.
La monografia può essere idealmente divisa in due parti: nella prima sono trattati, in maboratorio, Roma 2005; H. Duday, Lezioni di Archeotanatologia: archeologia funeraria e antropologia
di campo, Roma 2006.
13
Archeologia e Calcolatori è una rivista edita sin dal 1990 dal Dipartimento di Archeologia e Storia delle Arti dell’Università degli Studi di Siena.
14
G. Roma, Presentazione, in F. C. Papparella, Calabria e Basilicata: l’archeologia funeraria dal IV
al VII secolo. Ricerche. 2, Arcavacata di Rende 2009, 5-6, qui 6.
15
Tra i più interessanti, R. M. Carra Bonacasa, Agrigento: la necropoli paleocristiana sub divo,
Roma 1995; G. P. Brogiolo, G. Cantino Wataghin (a cura di), Sepolture tra IV e VIII secolo. Atti del VII
Seminario sul tardo antico e l’alto medioevo in Italia centro-settentrionale (Gardone Riviera, 24-26 ottobre 1996), Mantova 1998; A. Campese Simone, I cimiteri tardoantichi e altomedievali della Puglia
settentrionale: valle del basso Ofanto, Tavoliere, Gargano, Città del Vaticano 2003.
16
Papparella, Calabria e Basilicata ... cit., 7.
17
G. Roma (a cura di), Necropoli e insediamenti fortificati nella Calabria settentrionale. I. Le necropoli, Bari 2001; F. Mollo, Sulle tracce di Blanda paleocristiana: scavo di un complesso ecclesiastico in loc. S. Brancato di Tortora (CS), in MEFRM 114, 1, 2002, 197-218.
18
La struttura del database e del sistema informativo territoriale sono ben illustrate in Papparella, Calabria e Basilicata ... cit., 8-11.
158
RECENSIONI
niera puntale e con largo ricorso alle fonti letterarie, epigrafiche e archeologiche, tematiche
inerenti le tipologie tombali, la tipologia deposizionale e il corredo; è presente inoltre una riflessione sulle inumazioni ‘privilegiate’ e sul rapporto, molto interessante, tra i contesti funerari e i relativi insediamenti abitativi.
Le tipologie sepolcrali attestate in Calabria e in Basilicata sono a ‘fossa’ scavata nella
terra, delimitata da pietre, con o senza cassa lignea; escavata nella roccia, a sezione antropomorfa; a ‘cassone’ realizzato con lastre litiche; a ‘cassa’ realizzata con laterizi; a ‘cassa’ realizzata da struttura muraria; a ‘cupa’; ‘ad enchytrismós’; alla ‘cappuccina’. L’analisi effettuata
ha permesso di evidenziare eterogeneità e continuità delle strutture tombali, dal IV al VII sec.
d.C., e pure ha confermato l’impossibilità di identificare i popoli attraverso le sole strutture
sepolcrali, come alcuni studiosi hanno ipotizzato in passato 19.
Degna di particolare interesse è la presenza nel territorio dei Bruttii di numerose sepolture
‘ad enchytrismós’ relative a inumazioni infantili, per le quali sono state prevalentemente utilizzate anfore di produzione africana. Inoltre è anche attestato un suggrundarium nel sito di
Santa Maria del Mare 20.
La trattazione relativa alla tipologia deposizionale, all’orientamento del corpo e all’uso della
tomba lascia chiaramente intuire come Franca Caterina Papparella abbia anche approfondito lo
studio dell’antropologia fisica, in quanto la terminologia utilizzata e la sua capacità di analisi
sono pienamente in linea con le metodologie e le tecniche diagnostiche di tale settore di ricerca.
La lunga riflessione sui corredi porta a scorgere sostanziali differenze, ma anche alcuni
punti di contatto tra le due aree esaminate. Nelle necropoli lucane è maggiormente attestato
il corredo di tipo personale 21, a differenza dei contesti calabresi, dove prevale il corredo di tipo
rituale 22, sebbene in quest’ultima regione, tra il VI e il VII sec. d.C., si avverta un leggero aumento di quello di tipo personale. In entrambe le aree è stata riconosciuta la propensione ad
adagiare una brocchetta accanto all’inumato. Anche altri materiali risultano ugualmente attestati nelle aree sepolcrali delle due regioni (orecchini, armille, fibbie, fibulae). In una lunga e
precisa descrizione l’Autrice si sofferma sul significato dei materiali presenti nelle sepolture,
sottolineando per ciascuno di questi il significato simbolico sottointeso. Numerosi anche i
manufatti che testimoniano una esplicita fede cristiana, come croci, enkolpia e bracteae.
L’Autrice si ferma a riflettere, nel corso della trattazione, anche sulle inumazioni ‘privilegiate’; dopo un attento riepilogo delle posizioni assunte dagli studiosi che hanno cercato di
definire tali particolari contesti, Ella passa a fornire degli esempi di tombe privilegiate che le
19
Una sintesi di tale problematica è in S. Gelichi, s.v. Funeraria, archeologia. Medioevo, in Francovich, Manacorda (a cura di), Dizionario … cit., 150-154.
20
Il suggrundarium è un tipo di inumazione infantile realizzata nella nuda terra ed effettuata in prossimità dell’abitazione del piccolo defunto, spesso sotto la soglia o sotto il piano pavimentale della casa.
Per una buona esemplificazione di questa tipologia sepolcrale si rinvia a C. Tassinari, Archeologia funeraria a Colombarone (PU): il suggrundarium tardoantico. Caratteri e problematiche di un rituale
funerario, in Ocnus. Quaderni della Scuola di Specializzazione in Archeologia dell’Alma Mater Studiorum Università di Bologna 14, 2006, 303-308.
21
Il corredo personale è costituito da quegli oggetti che appartengono a una persona: elementi dell’abbigliamento, dell’ornamento, le armi e gli strumenti di lavoro.
22
Il corredo rituale è costituito dagli oggetti della vita quotidiana come il vasellame, le lucerne, le
croci, le monete, le offerte alimentari.
RECENSIONI
159
sue ricerche hanno contribuito a identificare. Risultano dunque ascrivibili a questo gruppo la
tomba di Cropani, di Piscino di Piscopio, di San Martino di Copanello, di San Fantino di Taureana e di San Pasquale di Bova, in Calabria, ma anche due sepolture del cimitero connesso
alla Chiesa di San Marco a Grumentum, una tomba attestata nella ‘chiesa vecchia’ della SS.
Trinità di Venosa e una di Pozzo d’Alitta di Lavello, in Basilicata. Infine, degna di maggiore
attenzione, perché unico esempio di tal genere, è l’inumazione ‘privilegiata’ in catacomba, di
matrice ebraica, rinvenuta sulla Collina della Maddalena di Venosa 23.
Non sempre facile risulta, invece, correlare i singoli contesti funerari ai relativi insediamenti abitativi: tuttavia anche per le regioni indagate da questo studio si nota che molti nuclei funerari censiti spesso sembrano essere ‘decontestualizzati’.
La Papparella ben presenta i risultati delle sue indagini anche grazie all’inserimento nel
testo di tavole a colori che riguardano la distribuzione e la tipologia dei contesti funerari indagati. La studiosa ha potuto determinare così che il territorio calabrese presenta maggiori
evidenze funerarie in corrispondenza di stationes poste in prossimità delle coste e di fertili pianure (Piana della Sibaritide, Valle dell’Esaro, Valle del Neto, Valle del Tacina, Altopiano del
Poro, Piana di Gioia Tauro), laddove già in età romana erano presenti numerose villae. Se in
Calabria sono quasi del tutto assenti testimonianze sepolcrali in quelle parti del territorio caratterizzate dal saltus montagnoso, in Basilicata, invece, tra il VI e il VII sec. d.C., sono notevolmente preferiti i siti elevati, soprattutto se in prossimità di vie di comunicazione
secondarie e di corsi d’acqua. Ancora, nel territorio lucano sono largamente attestate sepolture ed edifici cultuali ricavati negli ambienti delle villae di età romana e tardoantica. Questa
analisi termina con una riflessione sulle sepolture urbane, scarsamente documentate in Basilicata e in Calabria nel periodo compreso tra i secoli IV e VII 24.
La seconda parte, in cui si può suddividere la monografia della Papparella, si occupa della
presentazione dettagliata dei 219 contesti funerari indagati. Alla localizzazione spaziale di
ciascun sito, ottenuta per mezzo dell’inserimento delle Tavolette I.G.M. in scala 1:25.000,
segue una sintetica, ma chiara scheda di presentazione dell’area funeraria composta dalle seguenti voci: descrizione, contesto di riferimento, datazione, bibliografia. Molte schede sono
inoltre completate dalle planimetrie degli edifici funerari o degli edifici di culto connessi alle
aree cimiteriali, rappresentazioni grafiche o fotografiche dei materiali rinvenuti nelle sepolture, planimetrie generali dei siti. La monografia mostra un apparato bibliografico molto ricco
e aggiornato, che include sia testi a carattere generale, consigliati per approfondire le problematiche affrontate nel corso della trattazione, sia testi relativi ai singoli contesti analizzati.
Lo studio condotto da Franca Caterina Papparella risulta dunque degno di notevole considerazione per l’argomento trattato in relazione a un arco cronologico e a un comparto territoriale allo stato attuale scarsamente indagato, segnalandosi per la modernità degli strumenti
utilizzati nella ricerca e per le conclusioni cui l’Autrice è giunta. Senza alcun dubbio la monografia Calabria e Basilicata: l’archeologia funeraria dal IV al VII secolo costituirà pertanto
un ottimo riferimento per gli studiosi che vogliano approfondire simili temi di ricerca.
Giuseppe Schiavariello
23
24
Papparella, Calabria e Basilicata ... cit., 55-58.
Papparella, Calabria e Basilicata ... cit., 61.
SCHEDE BIBLIOGRAFICHE
Beatrice Alfonzetti, Silvia Tatti (a cura di), Vite per l’Unità, Artisti e scrittori del Risorgimento civile.
Donzelli, Roma 2011 - Pp. 195.
Vite per l’Unità: un travagliatissimo periodo
storico, il Risorgimento, viene rielaborato attraverso i sacrifici, i sentimenti e le azioni eroiche
di dodici figure emblematiche di tale periodo, tra
l’ultimo trentennio del Settecento fino al 1863.
Si tratta di eroi in armi, musicisti, attori ed
artisti di vario genere, accomunati da un dato imprescindibile: la straordinarietà delle loro vite.
La spietata lotta per l’unità e l’indipendenza
dell’Italia, fatta di illusioni, lacrime e delusioni
fino alla vittoria finale, decretata anche dalla diffusione mediatica del coraggio e dell’infaticabile energia di questi dodici eroi, viene delineata
attraverso il travaglio interiore di tali figure, costrette sovente a reprimere l’irruenza dei propri
ideali, rivolti alla cura della propria patria.
Non si può prescindere dall’esame di due figure che materialmente si prodigarono, esponendosi in prima persona attraverso la lotta
armata, alla formazione dello Stato italiano: Giuseppe Mazzini e Silvio Pellico. Due figure accomunate da una profondissima fede religiosa
che fa proferire a Mazzini le parole «Non ci può essere rigenerazione politica senza la rigenerazione religiosa».
«Ciò che è santo nel Cielo è santo sulla Terra»: questo messaggio di carità cristiana, insito nell’ideologia politica di Mazzini, è immortalato in un componimento del 1883 del milanese Antonio Maffi, dal titolo Ove il Lauro i venduti corona, all’interno del quale il martirio
di Mazzini rende gli uomini coesi tra loro in nome dello spirito di uguaglianza.
È ciò che avviene per la volontà di Dio che rende sacro il connubio tra gli uomini; e come
volontà di Dio, Mazzini accetta il martirio. Trascorre trent’anni in Inghilterra, fortemente stimato all’interno dell’ambiente intellettuale che ivi frequenta, dove risulta evidente il suo genio
politico. Potrà, quindi, agire da esule sul processo unitario della Nazione, propagandando fortemente la sua immagine (anche attraverso la fotografia) che diviene l’emblema dello spirito
di sacrificio di sé.
Esattamente come un profeta, Mazzini, fin da giovane, aveva avvertito quella malinconia
venata da romanticismo cui aveva trovato un corrispettivo nella figura di Jacopo Ortis, del
quale aveva condiviso lo spleen.
L’adorazione per il celeberrimo Ugo Foscolo accomuna Mazzini all’altro martire della
162
SCHEDE BIBLIOGRAFICHE
lotta risorgimentale: colpito dalla lettura dei Sepolcri, Silvio Pellico intratterrà un rapporto di
corrispondenza epistolare con Ugo Foscolo, verso il quale nutre una profonda stima, sebbene
non ci siano prove di un loro incontro fisico.
Jacopo Ortis colpisce così tanto l’immaginario di Silvio Pellico che lo scrittore imputerà
ad uno sconsiderato gesto di emulazione il suicidio di un suo allievo, Odoardo; tale gesto procurerà a Pellico un atroce senso di colpa e segnerà, in data 13 ottobre 1820 - data del suo arresto - l’inizio della composizione de Le mie prigioni. Il romanzo è incentrato sulla visione
introspettiva del suo processo di pacificazione nei riguardi di Dio che si svolge durante i dieci
anni di prigionia, tra Milano e Venezia. Propenso a non rinnegare la sua fede religiosa, vince
le sue remore vigilando continuamente sugli insegnamenti biblici e filosofici e trovando una
risposta ai suoi interrogativi nei passi del Vangelo che insegnano l’amore, il perdono e, soprattutto, la fratellanza di tutti gli uomini. Ma il più grande insegnamento della morale consiste anche nell’accettazione del sacrificio di sé: questa certezza segna la fine delle sue notti
senza Dio, trascorse allo Spielberg.
In seguito alla sua liberazione, Pellico, forse anche a causa della sua salute malferma, abbandona la causa nazionale limitandosi a compiere una difesa degli ideali romantici, diffusi
dal Conciliatore, consapevole che, come lui stesso asserisce, romantico oramai significa liberale. In realtà il suo impegno in questa rivista non era cosa da poco, considerando che i suoi
articoli, che disdegnavano la pacatezza del classicismo in favore dell’irruenza del romanticismo, erano stati una delle cause del suo arresto.
L’ideale romantico viene ripreso ed ampliato da un altro esimio esemplare della letteratura
risorgimentale, Alessandro Manzoni. Ricordiamo la sete di giustizia di alcuni dei suoi personaggi, l’impetuosità dei suoi scritti, anche quelli in cui affronta le vicende legate alla liberazione dell’Italia.
Il suo credo religioso si esprime anche nel non volere giudicare: «Ai posteri l’ardua sentenza», tuoneggiano alcuni versi del Cinque Maggio, scritta in occasione della morte del sanguinario conquistatore Napoleone. Viene tratteggiata la parabola ascendente e discendente di
colui che aveva deluso le aspettative degli italiani, che avevano accolto in un primo momento
Napoleone come un liberatore, rivelatosi successivamente un mero conquistatore. La drammaticità degli eventi costituisce la causa della censura austriaca del testo che comunque ebbe
una diffusione clandestina in grado di accendere gli animi di passione per una vicenda politica svoltasi nel giro di poche settimane.
Marzo 1821 è una cronaca politica contemporanea, il suo scritto più militante: questa volta
Dio è presente nella sua forma veterotestamentaria, si erge con furore a punire gli uomini, è
quindi un Dio vendicativo, capace di affogare gli Egizi nelle acque del Mar Rosso.
Il disegno provvidenziale di Dio è presente anche nelle altre opere di Manzoni che tra l’altro sovrappongono il desiderio di libertà della nazione alla sacralità dei legami di sangue, ove
si scorge la figura di Cristo, dato che siam tutti «Figli tutti d’un solo Riscatto». Ne deriva l’orrore per le lotte fratricide nelle tragedie manzoniane, intrise di forte pessimismo, nelle quali
Dio è la vittima sacrificale della cattiveria umana.
Una visione meccanicistica ma forse ancor più pessimistica è quella che si riscontra nell’ideale romantico di colui che vede «languido e spento l’amore di questa patria»: Giacomo
Leopardi invita i giovani italiani a soccorrere la propria nazione, offrendosi egli stesso come
compagno di lotta.
Vissuto a Recanati, abbastanza lontano dai più sanguinosi episodi della lotta risorgimentale, il poeta lotta per i propri ideali mediante le sottili armi di un animo nobile, seppur costantemente pervaso da una sensazione di infelicità. La sua battaglia patriottica avviene quindi
interamente all’interno del suo animo, là dove la sua sensibilità gli consente di stimolare i
SCHEDE BIBLIOGRAFICHE
163
suoi concittadini a sacrificarsi per il bene dell’Italia mediante una retorica colma di enfasi. La
sua vicenda personale si conclude con una sconfitta personale, se è vero che in una lettera del
5 dicembre 1831 a Fanny Targioni Tozzetti il poeta dichiara il suo totale distacco dalla politica, per l’amara consapevolezza che «gli individui sono infelici sotto ogni forma di governo».
Quella sensazione di irreparabile infelicità impedisce a Leopardi di comprendere l’azione corrosiva svolta da lui stesso nei riguardi del Risorgimento italiano, l’azione purificatrice dei
suoi scritti che nobilitano l’uomo al punto da inculcargli l’amore per la Patria mediante la riscoperta della propria identità storico-nazionale.
La negatività della storia e la consapevolezza della debolezza umana sono palesati in letteratura da Didimo Chierico, quel personaggio che è considerato l’alter ego dello scrittore risorgimentale per eccellenza, Ugo Foscolo. Con animo più distaccato rispetto all’irruento e
passionale nonché più famigerato Ortis, Didimo Chierico, esprime con parole nitide i moti dell’animo del suo creatore, il giovane Foscolo, soldato ed anche scrittore. Ortis verrà venerato
ed imitato da Mazzini e Silvio Pellico, come protagonista delle epistole che compongono un
romanzo ristampato varie volte e pubblicato anche all’estero, seppure messo all’indice in
Lombardia nel 1824.
All’interno dell’excursus di letterati che hanno accompagnato la lotta risorgimentale, Carlo
Cattaneo è considerato quasi all’unanimità il maggior saggista ottocentesco: straordinario
scrittore, formidabile polemista e soldato, si distinse come eroe durante le Cinque giornate di
Milano.
La sua personale lotta armata ben si concilia con l’incanto della sua prosa, elegante in
modo naturale. Con un forte raziocinio Cattaneo diffida della rivoluzione e del fervore delle
prediche di Mazzini, propende invece per la risoluzione del caso italiano attraverso la creazione di uno Stato italiano, che si articoli in una federazione armoniosa di libere repubbliche
democratiche.
Dal 1839 al 1844 Cattaneo diresse ‘Il Politecnico’, rivista che affrontava minuziosamente
il caso italiano, prendendo in esame i problemi della Patria ed ipotizzando eventuali risoluzioni, attraverso la suddivisione delle problematiche esposte nelle varie materie trattate nella
rivista. E ciò nella consapevolezza che il progresso «lento e graduale, condurrà la Nazione
verso un’età adulta, uscita per sempre dall’infanzia dei bruti».
Scettico verso Mazzini, pericolosissimo cospiratore e servitore di un’eloquenza troppo accentuata, è anche Ippolito Nievo, che concluse la sua breve esistenza a meno di trent’anni,
dopo una serie interminabile di attacchi ai nemici della Patria: romanzi, poesie, novelle ed articoli giornalistici delineano lucidamente l’amarezza dei tempi presenti, l’ipocondria degli
italiani definiti «vigliacchi e crapuloni».
Infaticabile in ogni ambito che riguardasse la vita politica, Nievo partecipò in prima persona agli scontri di Calatafimi, di Marsala ed all’ingresso in Palermo. Lavorò come intendente nell’amministrazione garibaldina siciliana e morì, forse non accidentalmente, mentre
ritornava in continente a bordo del piroscafo Ercole. La sua morte è tuttora avvolta nel mistero,
in quanto nel naufragio del piroscafo erano presenti preziosi documenti riguardanti l’apparato
burocratico garibaldino che si inabissarono nelle acque del Tirreno.
Sorprende ancora una volta la precocità intellettiva di questi straordinari patrioti italiani,
venerati sovente come icone anche al fine di suggellare l’amore della Patria. E, quindi, non
ci si deve meravigliare se all’interno del gruppo di lottatori risorgimentali si riscontrano personaggi in grado di commuovere gli animi, dotati di notevoli capacità che non riguardano
l’impegno bellico o politico, ma che divengono vere e proprie icone del Risorgimento italiano attraverso il fascino emanato dalle arti.
Viene così tratteggiata la biografia di Gustavo Modena, cui viene attribuita la nobilita-
164
SCHEDE BIBLIOGRAFICHE
zione del teatro attraverso il pathos, uno stile lacrimoso e dirompente che non disdegna l’utilizzo delle forme popolari. Ciò in contraddizione con la paludata recitazione neoclassica, di
stile settecentesco, cui si oppone l’irrazionalità dell’irruenza romantica, consona all’ideologia rivoluzionaria dei patrioti della nazione. «Patriota ed attore» viene definito Gustavo Modena che conduce un’esistenza pericolosa, priva di valori religiosi ed in genere di ogni senso
morale, in fuga continua dalle polizie politiche di tutta Europa.
L’esilio è sovente una costante nella biografia dei maggiori autori del Risorgimento tra i
quali inaspettatamente compaiono anche figure femminili di notevole spicco, quale la principessa Cristina di Belgiojoso.
Rocambolesca è la fuga della giovane principessa dall’Italia verso il Sud della Francia,
dove arriva sola e senza soldi, al fine di sfuggire alle persecuzioni ed alle ritorsioni della polizia austriaca. Totalmente dedita alla causa della sua «bella e cara Italia», là dove si trova la
principessa si dedica ad aiutare i fuorusciti italiani, arrecando loro consolazione mediante
quelle armi che fanno della sua fragilità un punto di forza per la lotta risorgimentale. Con la
sua bellezza e la sua raffinatezza, Cristina di Belgiojoso ha il potere di nobilitare la nazione,
rivolgendo gli animi verso la causa italiana mediante un’amabile conversazione unita a qualche comportamento stravagante.
Conduce vita mondana, si dedica agli umili, ai malati, migliorando anche le loro condizioni materiali e rimarrà per tutta la vita, peraltro costellata da drammi privati, un’attenta
e perspicace osservatrice delle vicende italiane, autrice feconda di saggi ed opere storiche
e politiche.
Bellezza, genio, amore sono le peculiarità che vengono associate al nome di un’altra icona
femminile del Risorgimento: Maria Malibran. Quest’ultima subirà un tale processo mediatico da essere considerata nella memoria agiografica italiana la «Santa Maria protettrice dei
poveri e degli oppressi». Grazie alla potenza del canto, la sua voce soave produce nel pubblico
un incantesimo tale da consentirle di stipulare con le autorità ufficiali accordi pacifici circa le
modalità di svolgimento delle sue prove teatrali. Sono significativi gli aneddoti in cui la Malibran riesce ad alleggerire oppure sospendere i regolamenti applicati agli applausi, durante le
sue esibizioni canore. Il canto rappresenta per la Malibran uno strumento per la lotta risorgimentale, viceversa il Risorgimento si servirà della sua immagine enfatizzata (le vengono attribuiti perfino miracoli) per divulgare il desiderio struggente di fare prodigi per la propria
Patria. Ciò grazie alle sue commoventi interpretazioni teatrali, prerogativa di una diva che si
santifica rimanendo «semplice, devota e coraggiosa».
Fortemente emblematica per il processo risorgimentale è l’attenzione rivolta nei riguardi
di un altro musicista ottocentesco: il pianista Giuseppe Verdi.
Prima di esaminare la sua biografia, un coerente filo conduttore suggerisce una correlazione tra le opere di Giuseppe Verdi e le innovazioni musicali introdotte da un suo predecessore, Gaetano Donizetti, il quale ha il merito di avere creato un più stretto connubio tra musica
e parola. Le innovazioni poste all’interno della musica melodrammatica permettono a Donizetti di affrontare in maniera incisiva il tema della libertà, centrale durante il Risorgimento ma
basilare anche in altre epoche. I patrioti italiani non gli perdoneranno, tuttavia, il suo vile avvicinamento alle autorità austriache: anche per questo la figura di Donizetti verrà gradualmente dimenticata e sostituita da quella di Verdi. Costui riprende e sviluppa le novità sul
melodramma introdotte da Donizetti, in un’epoca in cui oramai perfino la parola libertà era
ritenuta fuorviante dai dominatori austriaci.
In realtà Giuseppe Verdi dové spesso effettuare alcune autocensure alle sue opere per evitare l’arresto o l’esilio; non fu, infatti, tanto l’ambito musicale lo strumento più efficace della
sua lotta per la libertà, quanto la sua immagine di politicante, enfatizzata come stimolo per i
165
SCHEDE BIBLIOGRAFICHE
giovani patrioti. Lo aveva ben compreso Camillo Benso conte di Cavour, il quale gli aveva
chiesto di candidarsi al Parlamento italiano, consapevole del valore simbolico di tale gesto per
il prestigio che ne sarebbe conseguito.
La figura di Giuseppe Verdi rientra tra gli eroi del Risorgimento esaminati nel volume, oltre
che per le sue eccellenti doti musicali, anche e soprattutto per la parentesi, seppur molto breve,
riguardante il suo incarico da deputato, svolto dal febbraio al maggio 1861.
Successivamente alla morte di Cavour, il 6 Giugno dello stesso anno, la presenza di Verdi
in Parlamento fu minima. Verdi ammetteva, con onestà, di aver scarsa attitudine per la politica ed ironizzava su se stesso deputato. Ciononostante era ben consapevole dell’immagine che
gli Italiani gli avevano costruito addosso, di un’icona del Risorgimento.
Lo studio, dunque, dimostra a pieno come la storia dell’Unità italiana sia stata edificata non
solo tramite l’impegno bellico e politico, bensì anche grazie alla potenzialità dell’immagine
offerta da talune icone in grado di suscitare nei patrioti italiani il principio di emulazione e un
sentimento di riscoperta della propria identità nazionale.
Le arti possiedono quel fascino che, attraverso la stimolazione sensoriale, sviluppa la componente emotiva degli uomini, compreso l’orgoglio patriottico.
L’Italia libera ed indipendente dovrà affrontare numerosi problemi derivanti dal processo
unitario (si ricordi la dilagante piaga del brigantaggio) di cui si occuperanno le autorità del
nuovo Stato, con una nuova consapevolezza: i legami di sangue sono imprescindibili.
Si comprende allora il potere magico e struggente delle arti, che ci fanno ricordare le parole di un poeta nicaraguense, Jorge Bergè: «Non si può essere rivoluzionari senza lacrime
negli occhi e senza tenerezza nelle mani».
Diana Taccogna
Vito L’abbate, Pasquale Locaputo (a cura di), Il sud nel Processo unitario.
Edizioni Società di Storia Patria per la Puglia: sezione di Conversano - Noicattaro, Conversano 2012 Pp. 144; illustrazioni a colori e b/n.
Le modalità e i tempi attraverso cui i pugliesi
sono diventati italiani e il Sud ha contribuito a comporre l’articolato e più esteso contesto degli anni in
cui l’Italia è divenuta una nazione, è stato argomento
principale di una serie di iniziative di approfondimento storico organizzate dal Centro Studi ‘Maria
Marangelli’ di Conversano, in collaborazione con la
Società di Storia Patria per la Puglia, sezione di
Conversano-Noicattaro e con il coinvolgimento
delle scuole secondarie della città di Conversano,
per celebrare il 150esimo anniversario dell’Unità
d’Italia.
A seguito di un seminario di studi dal titolo
Fatti, luoghi e personaggi della società pugliese
nell’età del Risorgimento (Conversano, ottobre
2010-aprile 2011) e di una mostra didattica sul
tema Risorgimento e Unità d’Italia - Documenti
dal Sud, è nata la pubblicazione del volume Il Sud
nel Processo unitario, edito all’interno della col-
166
SCHEDE BIBLIOGRAFICHE
lana ‘Studi in Memoria di Donato Arienzo di Conversano’, a cura di Vito L’Abbate e Pasquale Locaputo.
La prima parte del testo, che raccoglie i contributi registrati durante le attività seminariali,
prende avvio dalla serrata argomentazione del professor Sebastiano Valerio sui testi che hanno
contribuito in modo preponderante a fare la storia dell’Italia. Sono i volumi adottati nella formazione scolastica che, secondo il docente, hanno principalmente forgiato ed educato i cittadini italiani: ci riferiamo a Storia della letteratura italiana di Francesco De Sanctis, alla Divina
Commedia di Dante Alighieri – fondamentale per la diffusione della lingua e pietra miliare
della cultura europea – e al romanzo I Promessi sposi di Alessandro Manzoni. Determinante
il ruolo dell’istituzione scolastica, secondo Valerio, nel favorire la lettura di tali sussidi a più
livelli, trascendendo la pura narrazione ed esaltandone il messaggio patriottico e la modernità
linguistica.
L’intervento di Vito L’Abbate si snoda, invece, tra il nutrito elogio e il commosso ricordo
di un’illustre figura locale, quella del sacerdote Domenico Morea (1833-1902), teologo ed
eminente rappresentante della voce cattolica negli anni Ottanta dell’Ottocento sull’importanza degli studi storici regionali in chiave antipositivista. Oltre che per il suo impegno pastorale, il sacerdote è commemorato dalle fonti per il suo certosino lavoro di catalogazione,
traduzione e analisi delle pergamene ritrovate nell’archivio dell’abbazia di Montecassino, riguardanti la storia del monastero benedettino di Conversano. Tale attività è confluita nel noto
Chartularium Cupersanense pubblicato nel 1892, opera che ebbe notevole impatto sull’ambiente culturale nazionale ed europeo, divenendo fondamentale eredità storiografica per la
cultura regionale.
Il contributo di Cesare Preti invita a valutare l’importanza dei percorsi didattici adottati,
in epoca post-unitaria, dagli intellettuali chiamati nelle scuole a plasmare le menti dei giovani
italiani; tra questi concentra la sua attenzione sul calabrese Felice Tocco, che fece confluire
la sua esperienza nel sistema scolastico, le conoscenze impartite e i metodi utilizzati nell’interessante pubblicazione nel 1869, Lezioni di filosofia.
L’intervento di Nicola Troiani si struttura sul confronto dialettico tra un passo de La giovinezza di Francesco De Sanctis e i versi della poesia Rimembranze di scuola di Giosuè Carducci. I due riferimenti letterari, in apparente antitesi, sono occasione per dimostrare che i
due grandi italianisti concordavano nella necessità «maggiormente sentita nelle aree più depresse del paese» di un insegnamento non nozionistico e cattedratico, ma «di una istruzione
moderna e partecipata».
Una panoramica, necessaria ed esaustiva, sulle ‘donne del Risorgimento’ è illustrata da
Marisa Cacciapaglia la quale sottolinea l’importanza, spesso trascurata, del ruolo non secondario delle patriote italiane, garibaldine e mazziniane, coraggiose attrici di una storia prevalentemente al maschile, la cui azione è stata raramente gratificata dalla storiografia regionale
e nazionale.
«Il ciel ripose/ in noi madri, in noi spose/ le sorti liete della patria o il danno./ Se concordi
saremo dell’alta impresa/ restano i figli nostri in sua difesa». Questi i versi di incitamento
della napoletana Laura Beatrice Oliva alla vigilia della mobilitazione del ‘48. Si va dalle più
note Antonia Masanello, che travestita e armata si arruolò nelle truppe di Garibaldi, all’artigliera di Longano, Giuseppina da Barcellona, dalla fervente mazziniana, inglese naturalizzata italiana, Jessie White, alle eroine locali come la spregiudicata salentina Antonietta de
Pace, che dopo la conquista dell’unità nazionale si dedicò all’impegno sociale e all’educazione
femminile.
Nella seconda parte del volume sono raccolte immagini e apparati testuali dei 36 pannelli presentati durante la mostra allestita presso la Biblioteca civica ‘Maria Marangelli’. Un sintetico e
SCHEDE BIBLIOGRAFICHE
167
agevole excursus storico che parte dal 1799, anno della rivoluzione liberale contro il governo borbonico e arriva agli anni postbellici; un percorso efficacemente corredato dalle testimonianze e
dai documenti raccolti nei diversi archivi dei Comuni del Sud-Est barese, grazie ai quali è possibile ricostruire gli eventi e le circostanze del processo risorgimentale pugliese.
Ecco, dunque, raccontati l’adesione barese ai moti carbonari, l’episodio della peste di Noja
(Noicattaro) del 1815-16, i moti rivoluzionari del ‘48 in Terra di Bari, gli uomini e le donne
del Risorgimento nel Sud, la presenza pugliese alla spedizione garibaldina, le cronache locali
della giornata del Plebiscito del 1861, il fenomeno del brigantaggio nelle province. Una sezione delle tavole afferisce alla storia conversanese, con digressioni sui profili di alcune figurechiave della storia locale – come il vescovo Giuseppe Maria Mucedola e il già citato sacerdote
Morea, dirigente del Liceo-Ginnasio di Conversano per quarant’anni – con approfondimenti
sulle trasformazioni urbane ed extraurbane della città, con analisi delle cronache delle rivolte
contadine degli anni ’80 e ‘90, conclusesi con l’assalto e l’incendio del palazzo municipale
nel 1886.
Il volume, quale atto finale di un’interessante iniziativa, è teso mantenere viva l’attenzione sul contributo regionale al Risorgimento e ad offrire spunti di discussione per una rilettura critico-scientifica della spinta centripeta delle periferie meridionali, alla luce di
documenti e testimonianze di memoria pubblica e privata.
Lucrezia Naglieri
Biblioteca Diocesana ‘Mons. Aurelio Marena’ Bitonto, La stampa periodica locale dall’Unità
d’Italia ai giorni nostri.
Burning Studio, Bitonto 2011 - Pp. 76; illustrazioni a colori.
Biblioteca Diocesana ‘Mons. Aurelio Marena’ Bitonto, La stampa periodica in terra di Bari
oggi.
Burning Studio, Bitonto 2011 - Pp. 116; illustrazioni a colori.
Dalla stesura dei logoi all’annotazione giornaliera della tradizione annalistica. Dalla campionatura di un argomento monografico alla ricostruzione storiografica scientificamente impostata. Dalla pietra alle tabulae ceratae, dal papiro alla pergamena, dalla carta al formato
digitalizzato.
Il raccontare di sé, attraverso le categorie del tempo e dello spazio, è processo di profonda
complessità metodologica che investe il profilo identitario di un popolo su un piano ideologico e sociale, ma anche pratico. Il fare storia, infatti, risponde all’intima esigenza di condivisione di una identità sociale attraverso un percorso evolutivo che ha finito col raccontare se
stesso attraverso la varietà degli approcci metodologici e la diversità dei supporti scrittori.
Ebbene un posto di diritto in questo processo lo merita anche la stampa locale. E senza
dover sgomitare per farsi strada entro uno scenario dominato dai veicoli più tradizionali del
fare storia. Tutt’altro. Perché alla stampa periodica, soprattutto a quella locale, si riconosce il
duplice status di ‘racconto storico’ e di fonte. In una prospettiva sincronica il pamphlet, il
giornale di borgata, il notiziario di paese si fanno racconto della identità storica di una comunità sociale fotografata entro le coordinate spazio-temporali di specifica pertinenza; ma
anche i supporti, quando il tempo conferisce loro l’affascinante patina di antico e l’inebriante
profumo di archivio, si candidano a diventare documenti di inconfutabile attendibilità nel processo di ricostruzione diacronica di fatti, eventi, personaggi.
A questo duplice identikit identitario non si sottrae neppure la stampa periodica prodotta
168
SCHEDE BIBLIOGRAFICHE
a Bitonto dopo il periodo unitario ed attualmente
custodita presso il grande serbatoio documentario
della Biblioteca Diocesana ‘Aurelio Marena’ di Bitonto, un patrimonio che, oggi, può anche raccontarsi grazie a due recenti monografie.
Dalla collaborazione fra Assessorato Regionale
alla Cultura, Arcidiocesi Bari-Bitonto e Burning
Studio nasce la doppia proposta editoriale di catalogazione della stampa periodica confluita nella Biblioteca Diocesana ‘Mons. Aurelio Marena’ di
Bitonto.
Articolata in due pubblicazioni autonome dedicate rispettivamente alla stampa circolante a Bitonto tra Ottocento e Novecento e alla stampa
attuale della provincia di Bari, la proposta sviluppa
un progetto unitario di catalogazione a scheda, corredato da un supporto fotografico esemplificativo
delle diverse testate giornalistiche e da una breve
presentazione che ne sintetizza l’anno o il periodo
di fondazione, il taglio, l’ideologia, la direzione, la
filiazione, le note tipografiche, la cadenza.
Nata da un intelligente e proficuo lavoro coordinato dal prof. Stefano Milillo, cui si deve anche
la preziosa raccolta del materiale bibliografico e archivistico confluito nella biblioteca diocesana di
Bitonto, la catalogazione ha messo a nudo l’insuperata presenza di un museo della carta stampata
che ambisce a diventare storia della stampa, storia
della comunicazione, storia della città.
Si propone, pertanto, la lettura delle due monografie quale strumento efficace di consultazione,
funzionale a lumeggiare l’evoluzione della stampa
periodica che nel tempo prevede un aumento della
foliazione, l’inaugurazione delle rubriche e l’ampliamento dello spazio riservato alla cronaca, nonché il processo di modernizzazione sociale che,
attraverso la stampa, diffonde e omogeneizza la
cultura, forma e orienta l’opinione pubblica.
Si evince anche la fotografia variegata di una
città e di una provincia che, assecondando un inarrestabile fenomeno di massa in risposta alla crescente sete di conoscenza, investono la facile
commercializzazione della carta nello sviluppo dell’arte tipografica e che, attraverso la pubblicazione di gazzette, notiziari, fascicoletti o semplici fogli, danno voce al movimento associazionistico di fine Ottocento in un globale fermento di opinioni, idee, progetti. Sfilano,
perciò, come nelle sale espositive di una mostra permanente, i simboli, i motti, le parole in cui
si è identificata e riconosciuta una società che, pur frantumata dal fenomeno associazionistico
SCHEDE BIBLIOGRAFICHE
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di matrice laica o di matrice ecclesiastica, vive con grande slancio lo spirito di appartenenza
ad una comunità dopo la grande svolta dell’unità nazionale.
Proprio in tale prospettiva, le schede attendono ora un analitico, scientifico e necessario
studio della prosa giornalistica che, attraverso l’introduzione di forme sintattiche sempre
nuove, ma fissate dalla carta stampata, ha concorso a rinnovare la lingua italiana.
Al di là dello scorrere piacevole di schede candidate ad appagare la curiosità del lettore
frettoloso, la pubblicazione può vantare molteplici potenzialità di ricostruzione storica che
investono la storia del movimento partitico, dell’associazionismo, della lingua, del costume,
della mentalità, della moda. In definitiva, la storia di un popolo.
Carmela Minenna
Franco Della Peruta, Il giornalismo italiano del Risorgimento. Dal 1847 all’Unità.
Franco Angeli, 2011 - Pp. 288.
Effervescente, tumultuoso, fortemente politicizzato ed essenziale per la formazione e la definizione
di un primo sentimento nazionale. Questo è l’affresco che Franco Della Peruta, presidente dell’Istituto
lombardo di Storia contemporanea, restituisce del
giornalismo italiano dal 1847 all’unità d’Italia.
Edito da Franco Angeli, per la collana di Studi e Ricerche di Storia dell’editoria, diretta dallo stesso
Della Peruta insieme a Ada Gigli Marchetti, Il giornalismo italiano del Risorgimento è un dettagliatissimo censimento di tutti i giornali pubblicati e
diffusi nell’Italia pre-unitaria: in tutto, poco più di
200 testate censite, di cui si riporta in appendice il
luogo e l’anno di pubblicazione, e alle quali si aggiungono altre 500 testate di cui si riferisce la contorta vicenda editoriale.
Si parte dalla Gazzetta Italiana, ritenuto dall’autore il «foglio con il quale prende avvio la storia di quella fase del giornalismo italiano che
accompagnò e stimolò il movimento liberale nel periodo immediatamente precedente le rivoluzioni del
1848». Il foglio, trisettimanale, che sarà in seguito acquistato dalla principessa lombarda Cristina di Belgioioso, era nato nel maggio del 1845 a Parigi. Non stupisce che il primo giornale
‘italiano’ sia nato in Francia, visto che, come testimonia Della Peruta, per lungo tempo il giornalismo politico italiano ha incubato all’esterno, in Francia soprattutto, arrivando perfino a
pubblicare in lingua francese.
Le restrittive leggi sulla stampa, a Roma, come a Firenze, come nel Regno delle Due Sicilie, rendevano possibile solo la stampa d’emigrazione o la stampa clandestina. Bisognerà
aspettare il 1848, e le progressive aperture alle libertà costituzionali perché si cominci a scrivere in Italia dell’Italia. Della Peruta analizza così, minuziosamente e dettagliatamente, stato
per stato, i vincoli costituzionali, le leggi sulla stampa e le loro concrete ricadute sull’attività
giornalistica.
170
SCHEDE BIBLIOGRAFICHE
Lo sviluppo storico del giornalismo rinascimentale è diviso in due periodi: il biennio rivoluzionario (1848-1849) e il «decennio di preparazione». Per ognuno di questi due macro periodi, l’autore elenca, giornale per giornale, l’orientamento politico e le principali firme,
precisando quali posizioni il singolo folio ha assunto rispetto alle questioni politiche dibattute
a livello nazionale ed europeo.
Il lungo elenco attraversa tutta l’Italia, dagli stati sardi al Mezzogiorno continentale, da Genova a Venezia, da Torino e Napoli. Il censimento restituisce così la polifonia del dibattito politico italiano del risorgimento e esprime fino a che punto e in quale misura, fin dagli esordi,
il giornalismo italiano è stato legato, a doppio filo, non tanto alla politica quanto al dibattito
politico. In questo modo, la storia del giornalismo risorgimentale diventa, a suo modo e quasi
suo malgrado, storia del Risorgimento e i giornali sono, al tempo stesso, oggetto di indagine
e fonti storiografiche dell’indagine stessa.
Proprio per questa ragione, di particolare interesse è il capitolo legato ai caratteri generali
della stampa periodica dal 1847 al 1859. Tralasciando per un attimo la mania censimentaria
e i soli contenuti politici, Della Peruta racconta e spiega come e quanto si scriveva, quali erano
i salari dei corrispondenti, dei direttori e dei ‘torcolieri’, come i giornali venivano finanziati
e come venivano distribuiti, come erano impaginati e come venivano raccolte le notizie. Questi elementi ‘tecnici’ non sono aspetti di poco conto perché hanno condizionato il giornalismo
di allora, lo hanno differenziato dal giornalismo di matrice anglosassone e lasciano le loro
tracce nel giornalismo di oggi.
L’analisi di Della Peruta parte da «la forte caratterizzazione politica, intesa nel doppio
senso che la generalità dei fogli apparsi in quei mesi fecero del dibattito e dell’informazione
politica il compito precipuo, e che si essi si configuravano come espressione di gruppi e circoli politici più o meno consistenti che se ne servivano per influire sull’opinione pubblica».
Insomma, scrive solo chi ha interessi politici e si scrive solo di politica. Quanta distanza rispetto al giornalismo anglosassone che, oltre ai giornali economici, pressoché sconosciuti in
Italia, già sperimentava la cronaca, e in particolare la cronaca nera, per accattivarsi lettori
della piccola e media borghesia.
Inutile dirlo, i giornali costavano tantissimo, da un terzo a un quinto del salario giornaliero
di un operaio torinese, con una periodicità fortemente condizionata dalla difficoltà di distribuzione; in America i penny press, giornali quotidiani, venivano distribuiti capillarmente al
prezzo popolare di un solo penny. Il torchio meccanico usato dal Times già nel 1814, cominciò a diffondersi solo dopo il 1848. I giornali, costituiti da non più di 4 o 6 fogli, erano composti a mano, con rendimenti bassissimi – 10.000 lettere al giorno per compositore – con
conseguenti bassissime tirature.
Bassissima la produzione, bassissima la diffusione, soprattutto a causa dell’analfabetismo:
pubblicare un giornale, in sostanza, non era un affare vantaggioso, visto che gli spazi pubblicitari da vendere erano pochissimi e rendevano altrettanto poco. Si tentò così ben presto la
strada della società per azioni e da subito l’orientamento degli azionisti fu determinante per
la scelta e poi la nomina del direttore.
Pressoché assenti i corrispondenti dall’esterno, le notizie dai paesi vicini erano recuperate
con il taglia e incolla – analogico, non digitale, ça và sans dire – dai giornali stranieri mentre
i corrispondenti di guerra americani, inglesi e francesi già dettavano le regole del giornalismo
dal fronte. Non da ultimo, sottolinea Della Peruta, emergeva nel giornalismo italiano «un acre
spirito polemico e violenti toni personalistici», che spesso si accompagnavano alla «forte accentuazione politica e alla carica partecipativa di larga parte dei giornali».
Anche su questo fronte, aspetti e caratteri che distinguono tanta parte del giornalismo di oggi.
Enrica D’Acciò
SCHEDE BIBLIOGRAFICHE
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Giuseppe Fallacara, Ubaldo Occhinegro, Castel del Monte, nuova ipotesi comparata sull’identità del monumento.
PoliBaPress, Bari 2011 - Pp. 98; illustrazioni b/n e a colori.
Fortezza imperturbabile, mistero ottagonale,
Castel del Monte, costruito su una cima rocciosa
ai margini dell’alta Murgia, è ancora oggi una
delle manifestazioni più straordinarie del potere
di Federico II e dell’incidenza della storia del suo
impero sulla facies architettonica e paesaggistica
del territorio pugliese.
Da decenni oramai il monumento, spogliato
dalla varietà degli apparati ornamentali e mutilato nella complessità degli impianti, ha perso la
sua veste originaria e smarrito le prove della sua
funzionalità, ma per tante irrisolte questioni continua ad attirare l’attenzione di studiosi e ricercatori, intenti a decifrarne ogni aspetto e forma.
Una nuova e interessante rilettura del maniero
federiciano, che si inserisce nel vastissimo panorama della ricerca e dei contributi pubblicati sul
tema, è offerta dallo studio presentato dai due architetti, Giuseppe Fallacara e Ubaldo Occhinegro, nel volume Castel del Monte, nuova ipotesi
comparata sull’identità del monumento. Il libro
è il frutto delle ricerche condotte all’interno del
Dottorato di ricerca in ‘Progettazione architettonica per i Paesi del Mediterraneo’ della Facoltà
di Architettura di Bari a partire dal 2009.
L’ipotesi avanzata da Fallacara e Occhinegro propone di considerare il castello, eretto per
volontà di Federico II di Svevia, come «un tempio per lo spirito, per la redenzione e la purificazione dell’anima, per la cura del corpo e il culto della bellezza», un luogo in cui il Puer
Apuliae si poteva dedicare «alla ricerca dell’immortalità che gli spettava di diritto, quale imperatore di tutti gli uomini, eletto direttamente da Dio».
A sostegno di questa interpretazione, i due architetti hanno richiamato gli scritti e le teorie che attestano l’attenzione dello Svevo per la cura corporis e il suo rapporto con l’acqua –
in particolare gli approfondimenti della studiosa Maria Stella Calò Mariani –, ma anche l’ammirazione dell’imperatore per gli ingegnosi esempi di ingegneria idraulica offerti dai modelli
architettonici mediorientali che egli ebbe modo di vedere nei suoi viaggi e nei frequenti contatti con la cultura islamica, da cui fu, sin dalla sua formazione, influenzato e affascinato.
Altro punto argomentativo, la ricorrenza quasi ossessiva del numero otto, elemento non casuale anzi sicuro richiamo ad una vasta simbologia con incidenza sia in ambito orientale,
astronomico, matematico e, in particolare, cristiano, come si legge negli studi di Franco Cardini, da cui sono tratte le analogie che concorrono a spiegare la funzione di ‘battistero laico’
affidata all’imponente mausoleo di pietra.
Ed è per tali supposti motivi che il Puer Apuliae ha voluto erigere, nella terra in cui molto
spesso amava rifugiarsi, una «‘macchina termale’ unica al mondo» che si pone come «sintesi
della cultura classica romana, di quella bizantina, musulmana e normanna».
L’ipotesi è sostenuta, nell’agile volume bilingue, da puntuali argomentazioni e riferimenti
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SCHEDE BIBLIOGRAFICHE
materiali, supportati da un ricco corredo di disegni, proiezioni grafiche, ricostruzioni virtuali
e fotografie.
Già W. Schirmer dell’Università di Karlsruhe, nei rilievi effettuati tra il 1990 e il 1996, sottolineava l’importanza di valutare i rilievi architettonici e la descrizione dell’edificio nei suoi
dettagli costitutivi per aggiungere nuovi spunti alla discussione, individuando contestualmente
le innumerevoli asimmetrie e irregolarità della struttura compositiva, solo apparentemente
perfetta nella sua solida e geometrica fisionomia.
La proposta ha, dunque, l’indiscutibile merito di aver prestato attenzione ad alcuni dati oggettivi ancora rilevabili e non del tutto spiegati finora dalla ricerca, di aver dato primaria importanza alla presenza materiale delle tracce che lo scheletro del castello di Santa Maria del
Monte concede ancora agli studiosi e di porli insieme come tessere di un più ampio mosaico
di significati e relazioni in un’inedita visione globale.
Nonostante la serrata trattazione degli architetti Fallacara e Occhinegro suggerisca di prendere in considerazione l’utilizzo termale proposto per il maestoso edificio, una riflessione più
meditata sugli altri elementi, materiali e non, che la storia mette a disposizione, impone di
adeguarsi ad una visione più ampia della destinazione del castello, non esclusiva, ma multifunzionale e polisemantica.
È la storia dell’universo federiciano e del monumento in sé a parlarci, attraverso alcune importanti testimonianze, dalla funzione in primis difensiva del castello, ben inserito nel sistema
strategico tra i più funzionali d’Europa che l’Hohenstaufen aveva fatto realizzare nel suo
regno, alla valenza di luogo di rappresentanza, confermata dall’indiscussa qualità dell’esecuzione e della ricca decorazione.
Pur lasciando, quindi, dischiusi i margini ad un ulteriore dibattito, tutte le soluzioni all’enigma federiciano non possono prescindere dall’assioma che riconosce in Castel del Monte
il culmine celebrativo del dominio dello Stupor Mundi in Puglia, che «con la sua mole e i
suoi messaggi scritti nelle pietre, ostici per la nostra cultura, ma affatto oscuri per i colti dell’epoca» - come scrive Giambattista De Tommasi – «incombe sul territorio e lancia il suo
messaggio di potenza, colpendo la fantasia del popolo e l’intelligenza del dotto, ma sempre
affermando con il suo segno, il potere e la cultura di chi lo aveva voluto».
Lucrezia Naglieri
Giacomo Lanzilotta, Francesco dell’Erba pittore 1846-1909. Il ritratto della borghesia nell’Italia postunitaria.
Adda Editore, Bari 2011 - Pp. 217; illustrazioni a colori.
Nel corso degli anni e secondo una tradizione consolidata, la Cassa Rurale ed Artigiana di
Castellana Grotte - Credito Cooperativo ha cercato di valorizzare molta parte delle testimonianze culturali e delle tradizioni locali che altrimenti sarebbero andate disperse. In questa ottica è stato da poco pubblicato, per i tipi di Adda, il volume di Giacomo Lanzilotta dedicato al
pittore castellanese Francesco dell’Erba (1846-1909): si tratta di un’interessante raccolta dei
suoi dipinti, delle sue imprese decorative e delle sue opere grafiche, nonché di una selezione dei
documenti più significativi che gettano un fascio di luce sulla vita professionale e privata dell’artista, sui suoi studi, fin dagli esordi, sulla corrispondenza epistolare e sulla fortuna critica.
Il lavoro, curato da Giacomo Lanzilotta, storico dell’arte nonché ispettore della Pinacoteca
Provinciale di Bari, riesce a farci entrare nella vita del personaggio e ci permette di conoscerlo e apprezzarlo proprio attraverso le sue opere e i documenti originali.
SCHEDE BIBLIOGRAFICHE
173
Siamo nella seconda metà dell’Ottocento
quando, raggiunta l’Unità d’Italia, la borghesia
conosce un periodo di grande ascesa economica,
sociale e politica riuscendo a concentrare nelle
sue mani il potere e ad asservire l’arte ai propri
interessi: è questo il contesto storico in cui ha
operato Francesco dell’Erba, una personalità «di
grande interesse per caratura artistica, vigore,
spessore comunicativo», ma sulla cui opera per
molto tempo è calato il silenzio, «vittima di
un’omonimia su cui si è costruito un grosso
equivoco» (è stato, infatti, per anni confuso con
il giornalista Francesco dell’Erba nato a Vieste
nel 1866 e morto a Napoli nel 1952), ma anche
per responsabilità dello stesso pittore che «nella
seconda parte della sua vita amò dedicarsi a
molteplici interessi e attività, come lo studio
delle memorie domestiche, l’amministrazione
delle sue terre e l’enologia in particolare, di conseguenza ridimensionando in maniera drastica
la sua originaria vocazione d’artista».
Il volume raccoglie in maniera ben articolata e documentata un catalogo delle sue opere
ordinate in diverse sezioni (dipinti, imprese decorative e opere grafiche), che riescono a costruire uno splendido ritratto della borghesia nell’Italia postunitaria.
I quarantatré dipinti catalogati presentano una varietà di temi, ambienti e personaggi che
rivelano pienamente la connotazione artistica del pittore, dal lento e difficile percorso giovanile all’affermazione della propria personalità (Ritratto del nonno Vitantonio dell’Erba del
1865-69 o Danae, un olio su tela del 1869) fino alla ricerca, nel periodo della maturità, di
un’identità di stile, sia pure attraverso la copia accademica o la rivisitazione rielaborata di
soggetti famosi della tradizione pittorica italiana.
La sua attività si svolge essenzialmente in quattro tappe: Napoli, Firenze, Roma e Castellana Grotte.
Tra le opere del periodo napoletano, oltre alle due suaccennate, vanno ricordate gli oli
su tela L’attacchino (1870), la Marina con barche (1870-71) e la Marina con ragazzo dal
cappello di paglia (1870-71), nelle quali sono evidenti gli influssi dei suoi maestri dell’Accademia di Belle Arti di Napoli, Giuseppe Mancinelli per la pittura e Domenico Morelli per il disegno; anche se, come specifica Lanzillotta, «non si trattò ad ogni modo di
un’adesione indubbia e cieca, se è vero che queste tavolette possono definirsi dei piccoli capolavori naturalisti».
Tuttavia va sottolineato che, più che i paesaggi, egli predilige scene di genere e di costume
oltre ai ritratti, cioè «quell’ampia tematica di soggetti creati in studio e rappresentanti delle situazioni di carattere sociale, storico, privato, desunte dalla vita quotidiana: un genere sempre
alla moda all’epoca sua, fatto di microstorie, narrate con minuzia descrittiva e dovizia di particolari, che il pittore presentava al grande pubblico che frequentava le esposizioni».
Del triennio fiorentino (1872-1875), durante il quale il pittore, ormai maturo, fu pronto a
confrontarsi nelle competizioni artistiche, restano delle opere di notevole spessore: si tratta di
due oli su tela Flora (1872-75), replica della Flora di Tiziano agli Uffizi di Firenze, e La delusa (1872), quest’ultima scelta dal Lanzillotta per impreziosire la copertina del volume in og-
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SCHEDE BIBLIOGRAFICHE
getto per le graziose sembianze della fanciulla che «elegantemente vestita, medita rattristata
sul contenuto della lettera che tiene ancora tra le mani, adagiate in grembo».
Gli anni di permanenza a Roma (1875-83) rappresentano il periodo migliore della produzione dell’artista, durante il quale egli partecipa con assiduità alle grandi esposizioni collettive, ricavandone prestigiosi riconoscimenti e soddisfazioni per le vendite. Nelle opere di
questi anni continua a prevalere la pittura di genere, «un mondo idilliaco, popolare, descritto
in interni domestici o di osterie, con figuranti d’immediata simpatia radunati attorno a un tavolo, impegnati in faccende che costituiscono nel contempo l’aneddoto e la morale».
Degni di essere ricordati sono alcuni oli su tela: Madonna del Velo (1876-90), La magliaia
(1877), Il racconto del nonno (1877), Una partita amorosa (1877), Beffe all’ubriaco (1878),
Epifania a Roma (1880), Molière legge una commedia alla serva (1881), La velata (1882) e
La ciociara (1883).
Ritornato nella sua città natale nel 1883 e trasformatosi in un tranquillo signore di provincia dai molteplici interessi, limita la sua attività artistica alla decorazione delle volte dei palazzi di famiglia e alla realizzazione di un considerevole numero di ritratti, tra i quali degni
di nota e riportati nel catalogo del presente volume sono: il Ritratto di Vincenzo dell’Erba
(1883), il Ritratto di Giacomo Danisi (1883-84), il Ritratto della madre Rosa Sgobba (1885),
l’Autoritratto (1889), il Ritratto dell’architetto Sante Simone (1890) e il Ritratto della moglie
(1896).
A proposito di questa ragguardevole serie di ritratti, Lanzilotta a buon ragione osserva che
ci troviamo di fronte al «dell’Erba migliore, e forse fin qui il più conosciuto […] al punto da
poterlo definire un iconografo della società in cui viveva. Acuto indagatore delle personalità che
ritraeva, il pittore raggiunse risultati notevolissimi, tra i quali spiccano per spessore qualitativo
quelli raffiguranti Nicola Achille Leone, Vitantonio Giampietro, Francesco Pannacciulli».
Si può, inoltre, affermare che questi ritratti rappresentano una testimonianza di tante figure
ottocentesche di gentiluomini vestiti, atteggiati e curati nell’aspetto secondo la moda del
tempo, anche se le figure sono attentamente delineate non solo sul piano esteriore ma anche
su quello psicologico.
Di questo prezioso volume vivamente si raccomanda la lettura a tutti coloro che amano
l’arte e agli appassionati di studi storico-artistici rivolti al ‘locale’ al fine di valorizzare quegli artisti meridionali non menzionati nei manuali di Storia dell’arte.
Antonio Sicolo
Fernando Marzocca, Carlo Sisi, Anna Villari (a cura di), 1861. I pittori del Risorgimento. Catalogo della mostra (Roma, Scuderie del Quirinale, 6 ottobre 2010-16 gennaio 2011)
Skira, Milano 2011 - Pp. 182; illustrazioni b/n e colori.
Il catalogo della mostra, promossa dal Comune di Roma in occasione delle manifestazioni
per il centocinquantesimo anniversario dell’unificazione nazionale, analizza il biennio 1859
-1861 da un punto di vista storico-artistico.
Pittura e scultura sono chiamate a rappresentare la straordinaria vicenda unitaria. Il ruolo
eternatore della poesia e delle arti figurative è alimentato dall’esigenza di testimoniare ai posteri l’impresa unitaria come fiera panoplia di vittoria sullo straniero usurpatore: dipinti e statue registrano i sentimenti patriottici pre e post-unitari.
Un folto gruppo di artisti come Giovanni Fattori, il macchiaiolo già considerato esponente in immagini del verismo letterario di Verga, il pittore militante Gerolamo Induno, Federico Faruffuini, Michele Cammanaro, narrano le battaglie della Seconda Guerra d’Indi-
SCHEDE BIBLIOGRAFICHE
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pendenza: la poetica stilistica di questi pittori impegnati costruisce l’iconografia dell’eroe contemporaneo, erede illustre della tradizione battaglista seicentesca.
La rassegna, che apre un nuovo capitolo nei
libri di Storia dell’Arte, definisce un ampio percorso tra quadrerie, arti applicate e modelli plastici
che immortalano i molteplici aspetti dei moti del
biennio.
Un ruolo fondamentale spetta al ritrattista Silvestro Lega, chiamato a fissare nel pennello la mitica figura di Garibaldi, salvatore dei popoli e
tutore della nova libertas.
La scultura di Alessandro Puttinati e Vincenzo
Lela, caricata di vigor e pathos dalla poetica quasi
neo-ellenistica, è chiamata a riproporre le figure
eroiche del passato come Spartaco e Masaniello:
questi erano considerati validi exempla per la contemporaneità, strumenti necessari per il conseguimento dell’indipendenza socio-politica.
L’eroismo celebrativo è solo un aspetto dell’arte del Risorgimento: la retorica filo-indipendentista cede il posto al sentimento privato, domestico quando entra in gioco il romanticismo del lombardo Tommaso Hayez e del siciliano Giuseppe Sciuti, descrittori silenziosi e
attenti delle miserie e delle attese umane.
Un volume di alto profilo sotto gli aspetti contenutistici ed iconografici, che accogliamo con
grande interesse, perché costituisce il primo studio d’ambito storico-artistico sul Risorgimento.
Antonio Sicolo
Antonella Musitano, Adele Pulice, Il Sud prima dell’Unità d’Italia tra storia e microstoria.
1848: massoni e carbonari a Santo Spirito.
Levante editori, Bari 2011 - Pp. 136.
Non è solo il Sud – con particolare riferimento ai fatti di Santo Spirito nel 1848 – prima dell’Unità d’Italia il tema trattato da Antonella Musitano e Adele Pulice nell’agile saggio apparso con
tantissimi altri in occasione delle celebrazioni dei 150 anni dell’unificazione dell’Italia. Si tratta
di un testo che intenzionalmente si pone a difesa delle prerogative meridionali, dell’identità storica e culturale di queste regioni per una revisione storica più volte e in vari ambiti ripresa negli
ultimi decenni, intesa a riscattare il giudizio dei vincitori che ha gravato per decenni sul Sud facendolo apparire come il simbolo dell’arretratezza, del malcostume, dell’ignoranza, come una
terra da riscattare, un popolo da civilizzare, una situazione economica disastrosa da risanare.
Ma non era proprio così, fa rilevare Antonella Musitano, che nella prima parte del volume
traccia con grande capacità di sintesi, chiara ed efficace, la storia del Mezzogiorno, parlando
sì di dominazioni, ma anche di grande senso di dignità e volontà di riscatto del Sud. Non è casuale il riferimento alla battaglia di Bitonto (1734) e all’affermazione della dinastia dei Borboni che, in fin dei conti, pongono termine alle secolari dominazioni straniere per instaurare,
nel bene e nel male, una dinastia italiana, mentre il Lombardo Veneto, e non solo, era ancora,
e lo sarà per lungo tempo, ancora nelle mani degli austriaci.
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SCHEDE BIBLIOGRAFICHE
E con i Borboni nasce la grande stagione del riformismo napoletano, avviato da Carlo III, con nomi
e personaggi, che qui non è il caso di enumerare, e
che niente hanno da invidiare alle illustri personalità
che segnarono l’età dell’Illuminismo nel resto dell’Italia e dell’Europa.
Una rapida disamina poi ricorda le vicende di
Carlo III, di Ferdinando I e Ferdinando II, di Francesco I e Francesco II, quest’ultimo costretto ad assistere al declino del Regno, quando contingenze
internazionali e movimenti nazionali ne determinarono la fine non certo ingloriosa, giacché la fine del
Regno, a parere di non pochi studiosi che si sono interessati di economia e statistica, finì col creare il sottosviluppo del Mezzogiorno.
«A suffragio di chi continua – scrive la Musitano –
a predicare un Sud povero, ignorante ed arretrato al
momento dell’unificazione italiana, ecco che cosa,
questo regno così malignamente definito ‘malconcio’,
portò in ‘dote’ al Piemonte ‘liberatore’». Segue una
lunga serie di ‘primati’ del Regno delle due Sicilie elencati in maniera precisa e puntigliosa, a cominciare dagli aspetti economici per continuare con quelli scientifici, culturali e di interesse sociale. Sarebbe stata proprio questa realtà a svegliare gli appetiti di altre regioni del nord, Piemonte
e Lombardia in testa, meno progredite rispetto al Sud, ma capaci di alleanze e strategie utili alla
realizzazione dell’annessione.
Non è vero, poi, che tutti i meridionali fossero ostili all’unificazione d’Italia: i ceti borghesi
e lungimiranti avevano buoni motivi per sposare questa idea e scrollarsi di dosso una specie
di isolamento del Sud, determinato specialmente dagli ultimi Borboni. Ma l’idea che essi avevano del futuro di queste regioni non corrispondeva a quanto purtroppo si verificò dopo l’Unità
d’Italia, allorquando la strage dei briganti da una parte, l’imposizione di una legislazione tutta
piemontese e lontana dagli interessi del Mezzogiorno dall’altra, trascinarono queste regioni
in una condizione fallimentare, o almeno non agevolarono assolutamente la loro ripresa.
Proprio a dimostrazione del contributo che i meridionali portarono all’Unità d’Italia, Adele
Pulici ripropone un tema già affrontato da Saverio La Sorsa, Michele Viterbo, Luigi Sylos e,
non ultimo, Vito Lozito. Si tratta del convegno segreto svoltosi nella villa di Marco Cioffrese
a Santo Spirito fra il 20 e il 21 giugno 1848 cui parteciparono liberali della Terra di Bari con
Giovanni de Ildaris in testa e, a seguire, Giuseppe Bozzi, Giuseppe del Drago, Giuseppe Laginestra e tanti altri che avranno voce dopo il 1860.
Qui la Pulici riporta una parte della documentazione conservata nell’Archivio di Stato di
Trani relativa al processo contro «Associazione illecita con vingolo di segreto costituente
setta, avvenuta a S. Spirito nell’estate del 1848» che vide come imputato principale proprio
Marco Cioffrese proprietario della lussuosa residenza dove la riunione segreta si era tenuta.
Molti dei cospiratori subirono dure condanne e rimasero in carcere fino al 1860. Interessante
la lettura degli interrogatori di alcuni testimoni, agevolata dal fatto che la riproduzione degli
originali porta sul fronte, pur con qualche svista, la relativa trascrizione.
Il volume si chiude con alcune note storiche di Antonio Castellano su Santo Spirito e le
sue ville aristocratiche.
Stefano Milillo
SCHEDE BIBLIOGRAFICHE
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Nicola Pice, Alcesti e le Alcesti. Storia, forme, fortuna di un Mito
Edizioni Il Castello, Foggia 2011 – Pp. 354; illustrazioni a colori.
«Alcesti o le Alcesti. Una per la scelta. Una per le
lacrime. Una per la perdita. Una per il rimpianto. Una
per la preghiera».
È l’ultima opera del professor Nicola Pice, Alcesti
e le Alcesti. Storia, forme, fortuna di un Mito, edito da
Il Castello nella collana ‘Echo’. L’autore indaga l’attitudine all’urgenza del mito, alla sacralità del racconto, alla dissacrazione del ri-uso e alla naturalezza
della rappresentazione; traduce la messa in scena del
mito di Alcesti e racconta come le pratiche di lettura di
un mito si associno alle pratiche catartiche di accettazione e preservazione della storia dell’uomo.
Alcesti la donna forte e fedele, raccontata da Euripideche accetta di morire al posto del marito, Admeto.
Alcesti la donna senza ripensamenti e senza esitazioni che muore per non veder morire, abbandona per
non sentirsi abbandonata, sceglie per non spingere alla
scelta.
Una ‘tragedia’ dal sapore di commedia surreale, un
dramma liquido, che procede per emozioni ed inciampa in decisioni dolenti e addii struggenti.
L’autore sviscera i passi del mito per raccontare la rivelazione del pensiero umano.
«Il mito infrange l’universo chiuso dei segni, si apre verso l’altro da sé», o, per dirla con
Carchia, citato dall’autore, «mito è ciò che pone l’uomo come un transito, il luogo dove esistenzialmente la verità accade e si rivela, dove la natura dà energia allo spirito e quest’ultimo
dà voce alla natura». Non, quindi, una spiegazione, piuttosto una ‘nominazione’, la rivelazione dell’accadere; un violare il discorso razionale per inserirne ostinatamente un altro; una
spoliazione del linguaggio per rivestirlo di nuova soglia.
«Admeto e Alcesti si amano nella carne». Al rituale del sacrificio l’autore accosta la sacralità del donarsi, il sottile gioco e l’intreccio tra l’amore come annullamento del sé e la
morte come oltrepassamento del sé, ovvero, del sapersi realizzare attraverso l’altro e nella
memoria dell’altro.
In definitiva, un’accettazione della morte ed un suo superamento insieme: uno scegliere
la capitolazione della carne per la resurrezione dello spirito.
Il respiro drammatico del racconto ne isola il virtuosismo che si condensa in estasi mistica,
che è al tempo stesso vibrazione eroica e contegno etico, fremito votivo e gratitudine tacita.
Tanto più forte l’intreccio tra il sacrificio e il dolore se si pensa alla centralità della casa e del
letto come sussulti vitalistici e mortiferi, dimore sacre della dis-soluzione in cui si snodano vita
e morte, amore e fedeltà, amarezza e lutto, perdita e consolazione, lotta e ritrovamento.
La tragedia di Alcesti è il compiersi di una rassegnazione tragica con l’andamento barcollante dell’accettazione. L’eroina euripidea asseconda il piacere della sofferenza, ne mette
a nudo la voce, l’ombra dell’inevitabilità della soluzione, le pieghe della pena, le debolezze
dell’abbandono; in definitiva, per dirla con Agnese Grieco «Un tratto saggistico nel fare teatro, il piacere di inquietare gli animi mentre li si conquista meravigliandoli».
Dalla compostezza solenne dei vasi attici alle tonalità neoclassiche di Peyron, fino alle
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SCHEDE BIBLIOGRAFICHE
morbidezze drammatiche della Kauffmann, alle aritmie plastiche di Leighton, la narrazione
diventa riproduzione pittorica. La costruzione della struttura plastica dell’immagine, la direzionalità delle forme, gli incantesimi delle linee, le comunioni dei colori, i tripudi sensoriali
delle gestualità, sono un atto di conservazione; la celebrazione dell’ammonimento, l’attualizzazione della mitizzazione, la continuità e(ste)tica dell’atto passato nell’atto presente.
Nicola Pice passa in rassegna un’arte figurativa a cui importa «la funzione di maschera
della morte che abita senza scampo e, da sempre, la vita, talvolta l’effige silente e paradigmatica dell’accettazione della Necessità, dell’inevitabile destino di morte, così che la figura
di donna si impone per la sua fenomenica singolarità entro lo spazio del transitorio e del fuggitivo, tra l’eterno e l’immutabile».
«Ogni tempo ha la sua riscrittura di Alcesti, infinita nella variabilità dei linguaggi e delle
scelte»: Nicola Pice percorre la commistione di generi, forme e virtuosismi linguistici per
esplorare la re-interpretazione, la ri-lettura, la ri-scrittura di Alcesti dal sapore teatrale. Lontani dal racconto originale, le prime rappresentazioni su una scena seicentesca ricca di effetti
spettacolari e cori contrapposti, in cui la figura della morte viene completamente messa da
parte per esaltare invece il lampeggiare dell’esperienza amorosa.
Un ‘tradimento’ invece, la lettura del piemontese Tesauro, che attribuisce una significazione
politica all’atto di Alcesti, che perde la sua importanza virtuosa e assottiglia il suo spessore.
Più ricca la riscrittura settecentesca, caratterizzata invece da una ricerca barocca del moralismo
e da un’emotività artificiosamente poetica. Dalle vibrazioni patetiche di Martello, alla vigorosa
conflittualità psicologica in Handel, alle ‘fiorite descrizioni’ di Calzabigi, indugio melodrammatico sobrio ed equilibrato, alle suggestioni spirituali di Wieland, fino alla drammaturgia conflittuale ed intensa dell’Alfieri. Qui la dimensione è più corporea e il tormento più umano, il sacrificio
più pietoso e l’abbraccio più disperato. «È l’idea della morte installata nella vita».
Dal barocchismo melodrammatico settecentesco si passa allo spessore poetico dell’Ottocento, al lirismo simbolico del Novecento. Una solenne malinconia tinge la traduzione di Robert Browning, mentre una sottile preghiera sommessa e un suggestivo eroismo illuminato
colorano la narrazione di Hoffmannsthal. Romantica, sentimentale e inscritta in un intento
etico-pedagogico è la lettura di Benito Pèrez Galdòs, dedito ad un teatro di idee, d’ispirazione
sociale e liberale, non senza rimandi religiosi e morali.
Un sibilo senza speranza l’Alcesti diRainer Maria Rilke.
Un singhiozzo perduto, un ululato imprigionato in uno sfinimento feroce e senza uscita dai
risvolti più grotteschi, il rifacimento di Ettore Romagnoli, che gioca su contrasti irriverenti ed
esageratamente estatici.
È con Marguerite Yourcenar che l’Alcesti si impregna di un’universalità eroica e tenerissima, senza cedimenti. «Rivisitare con devozione una leggenda antica per renderla se possibile, più immediata e accessibile, per ricavarne da una parte l’eterna tragicommedia del lutto,
il girotondo degli inopportuni e degli indifferenti sempre presenti intorno ad un letto funebre
e dall’altro gli aspetti quasi liturgici, il gioco di morte e resurrezione, ciò che è veramente, un
mistero, vale a dire un dramma sacro».
Dall’aurea più contemporanea, dunque, i personaggi, che respirano una nuova coloritura
psicologica. Admeto è l’esteta intellettuale ed egoista; Alcesti, divorata dal dubbio, soffre per
l’abbandono del marito; Ercole, i cui tratti del paganesimo vengono assimilati alla tradizione
cristologica, si ammanta di religiosità; la Morte è senza possibilità di redenzione.
Un’indagine sull’amore coniugale è il dramma di Thomas Stearns Eliot, in cui i personaggi si alienano di un amore infedele e decadente.
Un ‘trionfo della morte’, invece, nella narrazione di Alberto Savinio, rivisitata nel ‘47/’48
sullo sfondo delle persecuzioni razziali, che con doloroso furore permeano ogni eco euripidea.
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È Corrado Alvaro che nel ’49 riprende i tratti solenni dell’eroina greca che si erge «contro ogni forma di avvilimento o di disperazione o di abbruttimento o di lucida follia».
Ancora il tema della follia sarà centrale nell’Alcesti di Ted Huges, delirio onirico dal sapore autobiografico. La ricerca della salvezza sarà il tema svilpuppato da una delle ultime rivisitazioni del mito.
Giovanni Raboni trasforma la leggenda in un «racconto fascinoso che sopravvive nella
psicologia del gruppo sociale e come percorso di domande e risposte che danno voce e senso
alla dimensione dell’esistenza umana pur senza scioglierne il dilemma».
Alcesti, la donna insolubile e assoluta di cui si respira il sentimento che la anima.
Una trama fitta e lacrimosa, un discioglimento passionale ed energico.
Uno strazio sfilacciato intriso di indagini psicologiche, come una incapacità di sopravvivere al monito che il respiro antico porta con sé.
Le voci tremano, si emozionano, si disperano, si spezzano, si accasciano, sanguinano, si
consumano, rinascono.
Così Nicola Pice dice l’esperienza della morte e la sua negazione, la finitezza della vita e
la ritualizzazione del suo sacrificio, l’infinito dualismo tra unione e separazione, raccontando
echi di Alcesti negli autori greci e latini e, in ultimo, un’appendice di lettura delle rappresentazioni neoclassiche e preraffaellite del mito euripideo, un di-vagare della sottoscritta sulla potenza evocativa della composizione cromatica-spaziale-gestuale dei segmenti pittorici.
Alcesti è donna, madre, moglie.
È dono perfetto e svuotamento ostinato.
È il sacrificio che scorre nel corpo di coloro che amano.
Amore. Tanto da restarne uccisi.
Il compromesso, il sacrificio, la guida. Il confine.È «racconto vitale […] nel suo dibattersi
tra vita e morte, tra verità e menzonga, tra fedeltà e infedeltà, tra luce e buio».
Lara Carbonara
Scuola secondaria I grado ‘A. De Renzio’, Bitonto verso l’Unità d’Italia, con il coordinamento scientifico di Enzo Robles.
Edizioni Favia, Bari 2011 - Pp. 180, ill. b/n.
È il frutto di un grande impegno, Bitonto verso l’Unità d’Italia, redatto dagli alunni delle
terze classi della scuola secondaria di I grado ‘Anna de Renzio’ in occasione della ricorrenza
del centocinquantesimo anniversario dell’Unità d’Italia. Gli alunni sono stati guidati dalle docenti Angela Bellezza, Marianna Cuoccio, Maria Gaetana Lovascio, Carmela Piperis, Anna
Ruggiero, Lucia Valla e coordinati dal prof. Vincenzo Robles.
Un lavoro preciso, condotto senza fretta, appassionato, minuzioso. I ragazzi hanno letto e
decifrato i documenti chiave del periodo pre e post unitario a Bitonto. Dagli ultimi mesi del
Regno delle due Sicilie all’avanzata garibaldina, dalle reazioni al plebiscito fino ai primi mesi
dell’Unità, ogni argomento è trattato con lucidità e oggettività e cerca di interpretare gli umori
e le volontà del popolo, le reazioni, le paure, i sospetti, la fedeltà e i tradimenti. Un capitolo
è anche dedicato ad «uno degli aspetti più tristi della nostra unità nazionale», il Brigantaggio,
con la sua vivacità e le sue contraddizioni, la sua miseria e la sua disperazione.
Attraverso la lettura e l’analisi di documenti, lo studio delle parole e degli scritti delle più
importanti voci della storia locale, gli alunni hanno conosciuto i protagonisti bitontini del periodo risorgimentale, le responsabilità della classe dirigente locale, l’ammirazione del popolo
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SCHEDE BIBLIOGRAFICHE
per il movimento garibaldino, il timore, la paura per
la rivolta dei briganti. Hanno avuto modo di scoprire
l’impegno, la generosità, l’amor di patria di gente
lontana dal potere, lontana dalle decisioni dei
‘grandi’ ma che già aveva nel cuore il vero significato di partecipazione e senso civico. Luigi della
Noce, Vincenzo Rogadeo, Domenico Urbano, Giuseppe Scivittaro, Marco Cioffrese, Giuseppe Comes,
Pasquale Carbonara, Giuseppe Laudisi, sono nomi
che hanno segnato gli anni del cambiamento, gli anni
dell’Unità italiana e si sono dedicati al riscatto culturale della città.
La sensazione per il lettore è trovarsi di fronte ad
un microcosmo intessuto della dignitosa povertà dei
nostri antenati e di muoversi insieme fra le vie e le
corti del centro storico del paese, fra la chiesa di San
Luca e porta La Maja; di scoprire come il prete fosse
l’unica fonte di conoscenza che dal sagrato istruiva,
guidava opportunamente la popolazione alle decisioni della casa regnante; di toccare con mano la venerazione di un paese per l’erede al trono Francesco di Borbone, in visita a Bitonto nel 1859
e ospitato in casa dal nobile Vincenzo Gentile, il quale vestiva a festa i balconi e le strade per
l’evento straordinario e distraeva, sia pure per pochi giorni, i bitontini dall’ordinaria e tetra
quotidianità; di assistere al passaggio lento, con l’avanzata delle truppe garibaldine, da una
sonnolenta ignoranza o accettazione della realtà, ad una sempre maggiore consapevolezza per
il destino della patria. Molti i bitontini, come Luigi Centola, che ricevono da Garibaldi l’incarico di arruolare volontari per l’esercito garibaldino, o bitontini, come Vincenzo Sylos-Labini, che raccolgono armi, viveri, danaro per i garibaldini.
La rappresentazione palpabile del passato di una storia non ancora conclusa; il pensiero
concreto non di una rivoluzione già fatta ma il preludio di una rivoluzione ancora da fare; la
concentrazione della speranza diluita in anni di resistenza; l’esistenza di un’identità dichiarata
dalla tregua delle armi. C’è tutto questo nel libro in oggetto.
E a noi non resta che colmare quel passo lungo 50 anni per ridare vita all’Unità, per farla
palpitare e per sentire sulle spalle ancora il peso della sua importanza, per dirla con le parole
diMazzini quando si rivolse a Pasquale Carbonara «A voi, giovani, raccomando, raccomando
l’Italia […] è troppo bella! Sulle vostre spalle è già troppo che io adagi il dolce ed immortale
peso dell’amata Patria. Io sulle mie spalle porto anche il divino peso dell’umanità, dell’esilio
ed il grande sogno della nuova Europa».
Lara Carbonara
Lucia Schiavone, Risonanze classiche.
Con-fine Edizioni, Monghidoro (Bo) 2012 - Pp. 49; illustrazioni a colori.
Leggere e osservare Risonanze classiche di Lucia Schiavone equivale ad iniziare un viaggio tattile tra i percorsi sinuosi di un’anima gentile e tenace, quella dell’artista, che esprime
sé stessa e la sua produzione artistica tumultuosamente, ed attraverso la concretezza della materia. Ella infatti privilegia in maniera vistosa la scultura, di cui è profonda conoscitrice e
SCHEDE BIBLIOGRAFICHE
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maestra. Lo si comprende immediatamente
mentre, sfogliando il catalogo, ci si sofferma su
opere come Maternità, dove il fascino caldo
della terracotta patinata scelta come supporto del
bassorilievo, si presta ottimamente a trasmettere
l’intenso vigore naturalistico del soggetto, mediato attraverso la conoscenza della statuaria
classica e di una matura padronanza della tecnica. Qui l’artista fa eco al non-finito michelangiolesco della Pietà Rondanini (Milano, Castello Sforzesco). Con Caronte, invece, è il pathos più disinibito che prende forma in maniera
quasi titanica, vivendo di natura propria all’interno del bassorilievo, nel quale pare esserci finito a forza e dal quale vuole liberarsi, suo
malgrado. L’espressività del sentimento qui raggiunge livelli considerevoli.
Altresì, invita ancora una volta al tatto la
Griglia di Gladioli, in cui la preziosità della foglia in similoro esalta la trama arabescata della
griglia su cui si intrecciano, gentili, delicati gladioli rosa. L’opera, a mio parere, è una metafora dell’esistenza terrena, una sorta di colloquio ideale tra fisica e metafisica: la bellezza finita dei rosei gladioli che anelano con tutte le loro forze all’infinito, simboleggiato in questo
caso dalla luce abbagliante e ramificata dell’intreccio dorato della griglia.
Il catalogo è l’ultimo prodotto editoriale della Schiavone, già dottoressa in Beni Culturali
e restauratrice, ed illustra una campionatura della sua produzione artistica. In questo volume
emerge tutta la fresca e sincera poesia della vita di una artista eclettica, degna erede di prestigiose generazioni di scultori e artisti pugliesi che nei secoli hanno abitato la nostra Puglia.
Ella, seguendo lo stesso solco tracciato secoli fa dagli artisti nostrani, ha fatto propri gli spunti
artistici classici, conosciuti attraverso gli studi cospicui, miscelandoli virtuosamente attraverso le immagini che nascono dalla natura, dalla terra natìa, dal ricordo, dal sogno, addizionandole ad una forte carica passionale. Le emozioni più profonde, echi evidenti della sua
femminilità, vengono così filtrate sottilmente attraverso la materia, e diventano concrete grazie dall’utilizzo magistrale delle svariate tecniche artistiche. Esse raccontano più d’ogni ulteriore considerazione la sua totale adesione alla materia artistica, che vive così prepotentemente,
e dialoga con l’infinito.
Maria Anna Visotti
Gaetano Valente, Cesano tra Storia e Arte-Culto e Cultura (sec. XI-XXI)
Pegasus Edizioni, Terlizzi 2012 - Pp. 155; illustrazioni a colori.
Squaderna ad ogni pagina la radicata esperienza di un veterano alla sua ultima fatica editoriale, ma lascia trapelare la freschezza giovanile di un ricercatore cui non si possa negare la
prospettiva entusiasmante di future indagini documentarie.
Si presenta, così, in questa duplice veste, l’opera candidata ad essere l’ultima di Gaetano
Valente. La prolifica, apprezzata stagione editoriale del sacerdote e studioso terlizzese conosce il suo suggello con la monografia dedicata al casale di Cesano, ieri ridotto a rudere ar-
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SCHEDE BIBLIOGRAFICHE
cheologico, oggi riacquistato al patrimonio storico,
artistico, cultuale e demoantropologico della cittadina alle porte di Bari.
E proprio come la titanica impresa che ha visto
risorgere concretamente il casale Cesanum, anche
la fatica editoriale di Valente si muove agilmente tra
l’indagine retrospettiva, sempre sostenuta dal rigore
metodologico di un approccio tradizionale alla storia, e la disincantata e fiduciosa disamina di una
realtà territoriale che, pur gravata dal peso dei secoli, osa guardare al futuro.
In questo dualismo prospettico si propone, in
terza edizione, un’agile monografia sul complesso
medievale con una veduta di insieme sulla chiesa
preromanica, sulla torre di difesa tardo medievale e
sulle emergenze architettoniche afferenti al priorato
benedettino, senza trascurare la cronaca puntuale
del recente restauro conservativo che ha candidato
Cesano a centro di religiosità dalla forte vocazione
turistica.
Il taglio rigoroso della prima parte consente all’autore di navigare con disinvoltura nel
mare magnum del patrimonio archivistico ed epigrafico che, ad un esperto come Valente, appare ormai senza veli, senza segreti, senza insidie. I fili della storia, intessuti nell’ordito della
documentazione primaria, si intrecciano in trama impeccabile quando le vicende territoriali
di Cesano si incrociano con la storia medievale di Terlizzi e con la parentesi post-bizantina dell’Italia Meridionale. L’appuntamento con la storia, per Cesano, reca la data del 1055 quando
l’antico casale prenormanno viene ricostruito da Umfredo, terzogenito di Tancredi d’Hautville.
A seguire, il rapido fluire del tempo investe l’antico casale tra l’Appia Antica e l’Appia Traiana, con i processi di censuazione e frantumazione del latifondo, di accorpamento delle microrealtà produttive, di latinizzazione ad opera del monachesimo benedettino.
Entrano in scena, a questo punto, tutte le potenzialità dell’opera in quanto al lettore attento non sfugge la lente di approfondimento, specialistica senza dubbio, ma spendibile anche
a più ampio spettro, abilmente puntata sulle dinamiche storico-sociali di tanti centri dell’Italia Meridionale che, come la terra Ilicium di Valente, hanno conosciuto nel Medioevo una
frantumazione demografica, cultuale e, conseguentemente, territoriale. Il casale Cesanum assurge, perciò, a nome semplificativo di un macrofenomeno medievale che, se sottoposto ad
un’indagine capillare, consentirebbe l’individuazione puntuale di una geografia demica e cultuale preesistente rispetto al più recente insediamento urbico.
Come confermano i riscontri archeologici e toponomastici – in primis i numerosi prediali
in -ano, frequenti nel tarantino (Luciniano, Fogliano, Levrano) e nello stesso agro di Bitonto
(Misciano, Cagnano, Primignano, Celiano – il nucleo demico, entro cui insiste il casale, rappresenta, in molti casi, l’evento terminale di un lungo processo evolutivo di strutture preesistenti, non ultime le villae romanae che, a seguito degli innesti etnici concomitanti con la
concentrazione insediativa successiva all’anno Mille, hanno registrato una ripresa socio-economica, anche dietro la spinta propulsiva di più recenti fenomeni cultuali. Infatti – ne sia riprova
l’exemplum di Cesano – il potere catalizzante di questi nuclei demici travalca il mero vincolo
abitativo-produttivo di una domus che aggrega terre coltivate, in quanto la condivisione della
sfera del culto finisce col condizionare anche i rapporti di compaesanità, l’organizzazione so-
SCHEDE BIBLIOGRAFICHE
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ciale, gli interessi locali. Ne deriva un paradigma economico, sociale e cultuale in cui sacro e
profano convivono in una simbiosi ideologica, in cui il tempo del lavoro si sovrappone e si innesta sul tempo della fede, in cui il calendario agrario coincide con quello liturgico.
In definitiva, non «un luogo nello spazio» ma, secondo la felice intuizione di Patrik Geddes, «un dramma nel tempo»: tale si configura l’identità demica, tale si configura anche il paradigma terlizzese di Cesano. Il risultato non è una sterile rassegna di informazioni, ma un epos
che racconta l’evoluzione di un centro demico sotto lo sguardo specialistico del ricercatore e
quello appassionato del cittadino.
Cesanum è, dunque, nome emblematico che etichetta un’operazione di testa e di cuore: si
rincorrono i sentimenti provati e i sentimenti trasmessi, riecheggia l’emozione della ricerca e
dell’operazione turistico-culturale, si risveglia la meraviglia infantile che dà senso ed efficacia all’attività scientifica.
Sempre puntuale nel cogliere il globale processo di sviluppo dinamico che ha investito il
casale Cesanum, la monografia dello studioso e storico Valente, con la sua copiosa messe di
informazioni e con il suo accattivante apparato fotografico, non solo merita l’attenzione degli
studiosi, ma chiama anche enti territoriali ed istituzioni ad una ricognizione sistematica di tutte
le microrealtà territoriali che non poco hanno condizionato i rapporti tra gli individui, il patrimonio etno-antropologico, le logiche produttive, lo spazio, l’ecosistema. In definitiva, sollecita
tutti ad una lettura più attenta ed a una salvaguardia più consapevole delle tracce antropiche
quali prodotti della cultura materiale di una società determinata nel tempo e nello spazio.
Carmela Minenna
Francesco De Martino (a cura di), Puglia mitica.
Levante editori, Bari 2012 - Pp. 1310; illustrazioni in bianco e nero e a colori.
Il mito, secondo la definizione del Vocabolario
Treccani, è una «[…] narrazione fantastica tramandata oralmente o in forma scritta, con valore spesso
religioso e comunque simbolico, di gesta compiute
da figure divine o da antenati che per un popolo, una
cultura o una civiltà costituisce una spiegazione sia di
fenomeni naturali sia dell’esperienza trascendentale,
il fondamento del sistema sociale o la giustificazione
del significato sacrale che si attribuisce a fatti o a personaggi storici». Ma, allo stesso tempo, secondo una
lettura più ampia del termine, il mito è anche una
idealizzazione di un personaggio o di un evento storico che, nel ricordo e nei racconti dei posteri, assume caratteri quasi leggendari. In questo senso sono
facilmente intuibili le motivazioni per cui, sin dalle
fasi più antiche della storia, l’uomo abbia elaborato
miti, li abbia tramandati e li abbia poi, molto spesso,
ripresi nel corso del tempo. Ogni civiltà, stato o città
ha costruito miti, talvolta differenti tra loro, talvolta
invece molto simili nella struttura del racconto e nella tipologia dei personaggi.
Anche in Puglia, regione costiera che dall’antichità ai giorni nostri è stata luogo di passag-
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SCHEDE BIBLIOGRAFICHE
gio e meta di popoli, si può trovare un vasto panorama di miti creati, rielaborati o analizzati in
tempi diversi da poeti, letterati, studiosi, docenti, giornalisti, artisti, musicisti o da persone appassionate a queste tematiche. Legati a questa terra sono, tra gli altri, i miti riconducibili alla fondazione della città di Bari e di aree interessate dall’arrivo di naufraghi dopo la guerra di Troia.
Alcune storie ricordano, quasi in maniera romanzata e con l’aggiunta di note mitiche, il
soggiorno ‘pugliese’ di personaggi storicamente esistiti come Giulia Major, la figlia dell’imperatore Augusto, o Annibale Barca. Interessanti sono pure i miti riferibili al Medioevo che
solitamente riguardano santi – come non ricordare le leggende fiorite intorno al culto nicolaiano – o luoghi di antico e documentato interesse. Pure non si può dimenticare il successo della
mitografia e della mitologia che si sono sviluppati dall’Umanesimo sino ai nostri giorni, coinvolgendo differenti forme espressive quali scultura, pittura, letteratura, poesia, musica, televisione e perfino pubblicità.
L’importanza e la fortuna del mito in Puglia è oggi ben intuibile grazie dunque alle 1310
pagine che compongono il volume Puglia mitica, impresa ‘titanica’, che ha richiesto una lunga
e accurata gestazione, ma sicuramente ben riuscita. Questo lavoro, curato dal professor Francesco De Martino, è stato realizzato nell’ambito delle attività di ricerca del Laboratorio di Mitologia dell’Università degli Studi di Foggia. È lo stesso curatore dell’opera a ricordare al
lettore come la realizzazione non sia stata certo facile, a causa della corposa documentazione
raccolta e delle differenti tipologie di contributi editi in tempi lontani e recenti.
Il volume si apre con una lunga introduzione, molto diversa da quelle a cui si è abituati.
Sono infatti presentati, con il ricorso a una bibliografia aggiornata e completa, personaggi e luoghi del mito in Puglia; sono ricordati anche i personaggi che con quei miti hanno interagito in
qualità di compositori o di studiosi. Segue poi la parte del testo denominata Miti et cetera: i contributi raccolti in numerose sezioni presentano i miti; i fatti storici entrati a far parte della mitologia – i cosiddetti ‘mitistorici’ –; i saperi ‘speciali’, come la musica, la filosofia, la medicina;
infine le memorie ovvero i racconti legati alla tradizione medievale o a luoghi simbolici.
La seconda parte del volume, la più ampia, è intitolata Letteratura. Comprende contributi
di autori che si sono soffermati su opere riferibili a diversi generi letterari (epica, poesia, lirica,
teatro, narrativa), in cui sono presentati esempi di miti e di storia mitizzata. In particolare,
degno di nota è uno studio sulla lirica mitologica, definita nella parte introduttiva al volume,
come una inedita panoramica, in quanto è la prima negli studi sulla Puglia letteraria. Questa
parte si distingue anche per la presenza della sezione più ricca di contributi, quella sul teatro.
La terza parte è dedicata all’Arte e lumeggia le arti tradizionali (pittura e scultura), seguita
da una rassegna sul mito ‘pugliese’ nel cinema, nella televisione, nella pubblicità.
Album, la quarta parte del testo, che è composta da immagini a colori, contribuisce ad arricchire notevolmente il volume di interessanti contributi figurativi, legati ai miti espressi in alcuni teatri della Puglia o ripresi in occasione di mostre ed eventi culturali.
Il libro si chiude con gli indici, articolati in due parti – personaggi mitologici; personaggi
storici e autori antichi –, da ritenere senza dubbio necessari per facilitare la consultazione del
monumentale lavoro.
Puglia mitica è un’opera ricca di interessanti studi, di personaggi e luoghi, diversi tra loro
per genere, cronologia, composizione, ma accomunati da un fil rouge ‘nobilitante e austero’
come quello del mito.
Giuseppe Schiavariello
NOTIZIE ED EVENTI
CeRSA-Bitonto. Calendario degli Eventi
Di seguito si ripropongono tutti gli eventi che si sono svolti a cura del CeRSA - Bitonto
nell’anno sociale 2012, da gennaio a dicembre
Eventi per i 150 anni dell’Unità d’Italia (6-28 febbraio 2012)
Dal 6 al 28 febbraio 2012 il Centro Ricerche ha ospitato una serie di eventi – mostre, conferenze, proiezioni, concerti – legati e funzionali a valorizzare la presenza della mostra Cinema
150 anni, realizzata dalla Regione Puglia e gentilmente concessa in prestito ad alcuni comuni
pugliesi tra cui Noci e Bitonto.
Nelle date 6, 13 e 20 febbraio sono state ospitate nella chiesa di san Giorgio tre proiezioni: I Mille di Garibaldi, per la regia di Alessandro Blasetti, Camicie rosse, di Goffredo
Alessandrini e Il brigante di Tacca del lupo, opera di Pietro Germi.
In data 8 febbraio è stata inaugurata la mostra di documenti dell’Archivio Storico Comunale dal titolo L’Unità d’Italia nelle pagine di storia locale, a cura dei giovani dottori del Servizio Civile Nazionale (Pietro Cannito, Luce Falcone, Francesca Dalila Fanelli, Marisa Fiore,
Gaetano Granieri e Grazia Pice).
In data 10 febbraio, poi, alla presenza di un nutrito gruppo di soci, si sono svolte due interessanti conversazioni con i soci proff. Enzo Robles e Stefano Milillo, rispettivamente sui
temi La diversa lettura dell’Unità d’Italia e Un vescovo borbonico nei difficili anni dell’Unità:
Vincenzo Materozzi.
Il 22 febbraio è stata la volta della prima delle due performance musicali. Nella splendida
cornice del teatro ‘T. Traetta’ numerosi amici e simpatizzanri del sodalizio hanno assistito al
concerto Tra memorie e passione: la storia d’Italia in musica, ad opera dell’orchestra sinfonica di fiati ‘Davide Delle Cese’, diretta dal Maestro Vito Vittorio Desantis, con la corale ‘Cor’aggiosi francescani’ di Bari diretta dal tenore Gaetano Piscopo e il coro di voci bianche del
I Circolo didattico ‘N. Fornelli’ diretto da Marianna Stellacci.
Il 23 febbraio, invece, presso la chiesa di San Giorgio, la voce recitante di Rossella Giugliano e le note del violino di Stefano Di Perna hanno animato Italia: i giorni della grandezza, un recital di poesie e prose legate al tema dell’Unità.
Quelle che seguono sono alcune note stilate da amici e soci del Centro che, a vario titolo,
sono stati ‘protagonisti’ degli eventi.
In merito alle tre proiezioni, si riporta uno scritto del maestro Marco Vacca che ha guidato
il cineforum di due dei tre film (mentre per l’ultimo ci si è avvalsi della disponibilità di Pier
Francesco Uva).
Per la mostra documentaria si accoglie il resoconto dei Volontari del Servizio Civile Pietro Cannito e Grazia Pice che hanno riportato una puntuale disamina dei documenti dell’Archivio Storico Comunale della sezione postunitaria, oggetto della mostra documentaria.
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NOTIZIE ED EVENTI
In relazione al concerto riportiamo una sintesi di Giuseppe Desantis, presidente dell’associazione musicale e culturale ‘Davide delle Cese’, con una coinvolgente analisi di numerosi testi patriottici italiani.
Chiara Cannito
Proiezioni I Mille di Garibaldi, Camicie rosse, Il brigante di Tacca del lupo
«Il cinema: la narrazione centrale che si è scelta è il Novecento, come il Settecento aveva
fatto con il melodramma» (Alessandro Baricco).
«Tutto il cinema potrebbe riscriversi come analisi del personaggio tempo» (Giacomo De
Benedetti).
«Nutro una sola grande passione che solo il cinema può soddisfare: far rivivere un’epoca»
(Roman Polanski).
La mostra dei manifesti e alcune proiezioni a disposizione dei soci della città sono state
la preziosa occasione per recuperare alcuni film fondamentali nella storiografia di quel cinema che si era ispirato all’epopea e alle problematiche risorgimentali.
Ora, tenendo conto che il primo film sul tema risale al 1905 (La presa di Roma di Filoteo
Alberini, produzione Cines, solo 250 metri, nel 35° anniversario della presa di Porta Pia), bisognerà attendere il 1934 per registrare
il ‘ritorno’ alle tematiche risorgimentali con 1860 di Alessandro Blasetti (rieditato nel 1951, con il nuovo titolo I Mille di Garibaldi) e La cieca di Sorrento
di Nunzio Malasomma, in cui Ferdinando II fa in tempo a mandare sul patibolo un innocente rispetto al vero colpevole di un delitto atroce che provoca,
nel famosissimo personaggio, quella
infermità che ha intrigato tante generazioni di lettori.
La visione del film di Blasetti, in verità depurato dalla sequenza finale in salsa fascista, ci consentiva di conoscere finalmente un testo fondamentale per verificare, in uno splendido bianco/nero, le
capacità registiche di un autore che
avrà modo di attingere anche ad altre
epoche della nostra storia, per raccontare,
da geniale contemporaneo, alune vicende
inventate dal vero, in omaggio ad un trasformismo culturale politico, tipico di
quella complessità della storia italiana fra
il 1930 e il 1950.
Il secondo appuntamento è stato
Camicie rosse di Goffredo Alessandrini, del 1952, con Anna Magnani nell’inevitabile parte di Anita (la Magnani
Locandina del film Camicie rosse.
era stata la consorte del regista). Raf Val-
NOTIZIE ED EVENTI
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lone faceva del suo meglio
nella parte dell’eroe e il
film riusciva a coniugare
spettacolari sequenze di
guerra con i percorsi geografici in progress che
costituiscono lo sfondo di
una narrazione che non
può non contestualizzarsi
in contesti e paesaggi notoriamente implicati nelle
battaglie e nelle guerre
risorgimentali.
Infine, per il nostro limitato accesso alla disponibilità del film, Il brigante di Tacca del lupo di
Locandina del film Il brigante di Tacca del lupo.
Pietro Germi anche del
1952: un attendibile e forte documento cinematografico su quell’altra storia che si consumò nell’Italia meridionale tra
l’esercito piemontese e i briganti lucani e dei dintorni.
Il film, ispirato ad un racconto di Riccardo Bacchelli, si fonda efficacemente sul carisma
attoriale di quell’Amedeo Nazzari che non potè interpretare Il Gattopardo di Luchino Visconti per motivi di cast prudentemente internazionali (si pensi che il posto di Nazzari fu preso
da quell’altra icona che era ed è Burt Lancaster).
I tre film sono stati presentati dallo scrivente e da Pier Francesco Uva, con le premesse alle
proiezioni e la sollecitazione a una qualche forma di dibattito che non si limitasse al commento del film di turno ma consentisse di verificare, ad esempio, anche qui ed ora, la tendenza, da parte degli italiani a contrarre la storia nella puntualità del presente, anziché
immettere il presente nel flusso della storia, come magari accade altrove. È la giusta osservazione di Roberto Esposito che, a ragione, cita una rilevazione del Censis a riguardo «Gli Italiani sono sempre più impegnati nel presente con uno scarso senso della storia e senza visione
del futuro».
Un ultimo accenno di tipo storiografico: nel 1961 Cesare Zavattini firma La lunga calza
verde, sedici minuti di un capolavoro dell’animazione italiana, con la regìa di Roberto Gavioli
e Giulio Cingoli. Il senso dell’operazione è in una dichiarazione di Cesare Zavattini «Abbiamo fatta l’Italia unita, sta a noi farla ricca e felice».
Altri tempi. Come ha intitolato Mario Martone il suo recente e fondamentale film sull’argomento, «Noi credevamo». Appunto.
I 150 anni dell’Unità d’Italia sono stati una preziosa occasione per riconoscerci, speriamo,
per ripensarci. Per rimediare. Le pagine oneste della storia e di alcuni film ci hanno comunque parlato di come eravamo prima: «Un’Italia contadina, manipolata, opportunista, rozza»
(Giuseppe Galasso, 2 marzo 2011 a Bari)…per diventare cosa? Per diventare chi?
Allora «Bisogna tornare ad amare la nostra storia. A prendersi cura delle sue ferite e
delle sue contraddizioni» (opportuna e tempestiva riflessione di Gianfranco Pannone, il regista del documentario Che storia realizzato con spezzoni di filmati dell’archivio dell’Istituto Luce).
Marco Vacca
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NOTIZIE ED EVENTI
Mostra documentaria L’Unità d’Italia nelle pagine di storia locale
Nell’arco delle manifestazioni per le celebrazioni dei 150 anni dell’Unità d’Italia, la Fondazione De Palo - Ungaro ha voluto offrire il proprio contributo con l’allestimento di una mostra organizzata dai volontari del Servizio Nazionale Civile in servizio nel 2011 presso la
sede del Museo Archeologico e dell’Archivio Storico del Comune di Bitonto, diviso nella sezione ‘pre-unitaria’ e ‘post-unitaria’. È stata la quotidiana frequentazione da parte dei volontari della documentazione presente all’interno dell’Archivio che ha favorito e contribuito
alla scoperta, talvolta fortuita, di una serie di atti comunali, articoli di giornale e carteggi
istituzionali. L’abbondanza di materiale trovato ha posto in essere l’esigenza di un approfondito e programmatico metodo di classificazione di questo fitto patrimonio documentaristico che è poi confluito in maniera naturale nella esposizione della mostra L’Unità d’Italia
nelle pagine di Storia locale.
Durante il lavoro di ricerca si è cercato di seguire una classificazione dei documenti per
anno e per tematiche. La selezione ha indotto a considerare degni di nota tutte le fonti risalenti al 1861 in grado di ricostruire un quadro più o meno generale del clima e del contesto
storico ed emotivo che si respirava a Bitonto durante l’anno dell’Unità. Una scelta tematica
più profonda, invece è ricaduta sulla volontà di ricostruire un particolare aspetto della storia
e della cultura locale: il brigantaggio. Interesse della mostra quindi è stato quello di offrire un
percorso di ricostruzione degli stati d’animo, dei sentimenti e delle questioni di vita pratica e
politica che hanno colto la comunità popolare, non proprio accondiscendente all’annessione
del Regno delle Due Sicilie al Regno Sabaudo.
La fase di ricerca non si è limitata, chiaramente, al recupero delle fonti dirette ma si è corroborata di un apparato bibliografico e di materiale documentario indiretto che ha contribuito
a ricostruire in maniera più ampia la tematica del brigantaggio in Puglia. A tal proposito si è
ritenuto necessario ricostruire in maniera problematica la genesi del brigantaggio partendo
da uno studio accurato della definizione stessa del termine ‘brigante’ e dalle prime comparse
di questo fenomeno sul suolo bitontino risalenti già al XVII secolo.
Nella fase di esposizione del lavoro di ricerca si è affacciato repentino il problema di quale
ordine strutturale dare alla mostra, in modo da rendere facilmente fruibile al visitatore la vasta
gamma di informazioni e materiale reperito. A tal fine si è deciso di articolare la mostra in un
percorso espositivo strutturato in tredici pannelli corredati da foto e dalle riproduzioni dei documenti originali manoscritti esplicitati ciascuno da un abstract del contenuto, in modo da agevolarne la comprensione.
Il percorso, quindi, prende il via da un primo pannello esplicativo del quadro generale ed
introduttivo della questione sul brigantaggio e procede attraverso ulteriori pannelli che restringono il campo problematico analizzando aspetti più specifici del tema: dal brigantaggio
come questione storica generale si passa quindi ad analizzare il brigantaggio nel territorio del
Mezzogiorno per poi passare al territorio di Bitonto, proseguendo poi con lo studio del brigantaggio al femminile e le biografie dei più importanti protagonisti di quel periodo.
Ad una prima sezione più descrittiva e argomentativa del brigantaggio segue la sezione finale dal titolo Avvenne quell’ anno a Bitonto che costituisce la parte più squisitamente documentaristica perché non analizza i concetti ma propone in maniera più diretta le riproduzioni
fotografiche dei documenti ufficiali del Comune di Bitonto nel 1861. In questa sezione finale
quindi, volutamente mancante di aspetti argomentativi e illustrativi, si è preferito rendere autoreferenziali i documenti esposti, lasciando così all’osservatore la facoltà di poter interpretare liberamente e fruire senza mediazione della notizia del documento stesso.
Partendo dal primo pannello si è cercato di offrire una definizione abbastanza soddisfa-
NOTIZIE ED EVENTI
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cente del tema della mostra ed è qui che risiedono tutte le notizie generali sulla chiarificazione del termine ‘brigante’. Termine usato comunemente per indicare chi vive fuori legge ed
è nemico dell’ordine pubblico, la voce ‘brigante’ venne adoperata inizialmente in Francia per
designare i combattenti filo monarchici e cattolici della Vandea che si opponevano ai cambiamenti portati dalla Rivoluzione Francese. La parola venne poi utilizzata anche in Italia per
denominare gli ‘insorgenti’, cioè i componenti delle bande popolari che si sollevavano in armi
contro gli invasori francesi e giacobini locali, loro alleati. Il fenomeno assume rilievo particolare nelle province napoletane dove le bande tra il 1709 e il 1806 difendono la loro patria
e religione. L’excursus storico del termine ha introdotto il significato attuale della parola che
si ricollega ad un contesto storico più circoscritto, il decennio 1860-1870, periodo appunto
preso in esame per l’esposizione. Si è ritenuto opportuno esplicitare le cause storiche del brigantaggio italiano post-unitario: dopo la caduta del regime borbonico sconfitto dall’esercito
garibaldino, il Meridione fu annesso agli altri Stati dominati dal controllo dei Savoia trovandosi in condizioni di profonda arretratezza e di grande squilibrio sociale. Tra le cause basilari
individuate come origine del brigantaggio si è individuata anche una profonda disillusione
delle masse popolari e contadine che nell’iniziativa garibaldina avevano trovato concrete speranze di rinnovamento delle politiche sociali locali, speranze disattese quando fu chiaro che
il nuovo governo sabaudo era espressione della borghesia che si limitò a stipulare accordi tra
i latifondisti del Sud e i proprietari del Nord, aggirando l’esigenza di un’organica riforma
agraria. Quando il governo ottenne dal Parlamento l’assenso ad estendere ai territori meridionali le leggi piemontesi, il Mezzogiorno si trovò a subire il gravoso ed intricato sistema fiscale sabaudo che colpiva pesantemente la piccola proprietà privata e l’agricoltura, primaria
forma di sussistenza per la popolazione meridionale, oltre che a sottostare al sistema di leva
obbligatoria e ai rigidi controlli da parte della nuova centralità amministrativa. In un contesto
di delusione e disordine dovuto alla fase di passaggio da un situazione politica ad una forma
di stato nazionale innovativa per il popolo meridionale, lo scoppio di movimenti di dissenso
fu una conseguenza logica che incentivò odio, violenza e desiderio di riscatto. La condizione
storico-politica in cui si incubò il fenomeno del brigantaggio avvicinò il popolo ai loro vecchi sovrani, agli antichi casati nobiliari e alla Chiesa.
In Calabria, Puglia, Campania, Basilicata e Abruzzo, bande armate di briganti (per lo più
ex soldati dell’esercito borbonico, giovani che si sottrassero alla leva obbligatoria, contadini
e persone ricercate per i crimini commessi durante l’invasione garibaldina, oltre ad una buona
schiera di carcerati o evasi, latitanti e sbandati senza possibilità di autosussistenza) iniziarono
nell’estate del 1861 a commettere azioni dimostrative di dissenso e fatti criminosi nei confronti
soprattutto degli esponenti della borghesia e dei sostenitori del nuovo regime sabaudo. I briganti ‘di professione’ ovvero quelli che si esponevano in prima linea nel condurre una vita
fuori legge e a compiere reati, potettero contare sull’omertà e sulla tacita o talvolta esplicita
complicità dei contadini e delle masse popolari, oltre che sull’assenso tacito di Chiesa e proprietari terrieri.
A completamento dell’eziologia del fenomeno storico, all’interno dei primi pannelli della
mostra, si è voluto far cenno anche ad una delle più violente repressioni dello Stato Italiano
contro i briganti: il generale Cialdini con un esercito di 120.00 soldati fu incaricato della repressione violenta di bande organizzate di briganti che avevano ormai stabilito vere e proprie
gerarchie interne oltre a programmi di lotta ben stabiliti e all’utilizzo di veri e propri micro
arsenali di armi illecite.
In questi pannelli introduttivi, un fitto apparato fotografico ha contribuito a illustrare la
questione del brigantaggio nel Mezzogiorno, come la foto del gen. E. Cialdini e le foto della
banda di A. Sacchitiello, noto luogotenente del brigante lucano Carmine Crocco.
190
NOTIZIE ED EVENTI
Dopo una ricognizione generale, l’interesse della ricerca ha subito virato su aspetti prettamente locali del fenomeno del brigantaggio sul suolo bitontino. È stato quindi fortemente
voluto un focus su quanto i testi storici dicono sul brigantaggio. Questo ha condotto la ricerca
alla scoperta di una figura divenuta quasi leggendaria per la spregiudicatezza e la forza delle
sue azioni di rivolta: si tratta della personalità di tale ‘mbà Giacò, più comunemente noto
come Bagiacco.
Collocato in un contesto cronologicamente lontano da quello preso in esame, cioè l’anno
dell’Unità d’Italia, la decisione di inserire nella mostra un pannello sulla figura di questo memorabile protagonista della storia locale del XVIII secolo è stata dettata dal desiderio di delineare le caratteristiche dei personaggi e delle vicende di dissenso che hanno caratterizzato
il territorio bitontino prima dell’avvento del brigantaggio post-unitario.
È emerso, quindi, che il fenomeno del brigantaggio si era radicato nel Meridione già dopo
l’agosto del 1808, come opposizione anglo-borbonica al governo di Gioacchino Murat che in
quell’anno assunse il trono del Regno di Napoli e continuò anche dopo la restaurazione borbonica. Nel territorio bitontino la microcriminalità rurale è stata sempre prospera ma combattuta
e contenuta dall’Universitas di Bitonto che godeva del privilegio di regia demanialità. Fuochi
permanenti di brigantaggio erano installati a S. Spirito (le forche di Pietro), nel Campo di San
Leone, fuori Porta Robustina e Porta Pendina. Tra i personaggi che hanno rappresentato tale fenomeno si ricorda proprio Bagiacco che aveva riunito un’ampia schiera di militanti tra cui Gaetano Cuoccio e Francesco Cicciomessere. Le vicende legate a quest’uomo sono intrecciate a un
contesto di degrado socio-economico della condizione rurale del Mezzogiorno. La lotta di questi briganti si rivolgeva contro i francesi e la ricca borghesia e questo spiega il fatto che il primo
delitto di Bagiacco fu l’uccisione di un ufficiale francese seguita poi da una serie di crimini, sequestri e ricatti contro la borghesia di Ruvo, Bitonto e Terlizzi. Sul brigante gravava una taglia
di 500 ducati e il momento del suo arresto si trasformò in una vera e propria esecuzione che fosse
da monito per ogni eventuale e futura azione eversiva: il brigante fu fucilato nel Campo di San
Leone e la sua testa mozzata esposta per giorni conficcata in cima ad una lancia, in un territorio collocabile nell’attuale Piazza XXVI Maggio (A. Castellano, Bagiacco e il brigantaggio
nel decennio francese a Bitonto, in A. Castellano, P. Cioce, M. Muschitiello (a cura di) Accadde
a Bitonto e Tradizioni. Collana di monografie, Bitonto 1993, 183-200).
Degne di nota sono sembrate anche le notizie riguardanti l’aspetto femminile del fenomeno del brigantaggio. Durante la grande rivolta filo-borbonica, infatti, non pochi furono i personaggi femminili che trovarono posto in queste bande di fuorilegge o patrioti.
Le donne, infatti, potevano rivestire vari ruoli quali quelli di fiancheggiatrici, compagne
a seguito, combattenti e avvisatrici.
Le fiancheggiatrici facevano da spola tra i nascondigli dei briganti e i centri abitati e,
spesso, avevano il compito di vedetta o quello di fuorviare i rappresentanti della legge.
Le compagne a seguito erano spesso le compagne dei briganti a volte costrette a mescolarsi tra loro.
Le combattenti erano, invece, coloro che spesso capeggiavano la banda se il loro compagno o marito cadeva in combattimento oppure tra le mani del nemico.
In Puglia molto importante fu la figura della brigantessa Elisabetta Blasucci di Ruvo di Puglia, donna del capo-banda lucano Giovanni Libertone, condannata a 20 anni di carcere che
non riuscì a scontare poiché morì di stenti oltre le sbarre. Importante fu anche Rosa Martinelli,
una ragazza di Ceglie Messapica, una brigantessa ‘a seguito’, compagna di Francesco Monaco,
un capo-banda della stessa città. Molte erano le ‘avvisatrici’ in Puglia: Francesca Cascione fu
una di quelle che «picchiava gli uscî dei vicini ingiungendo loro di aprire per essere venuti,
siccome diceva, i nostri fratelli».
NOTIZIE ED EVENTI
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L’interesse per la pluralità di fonti in grado di offrire preziosi riferimenti sui fatti storici
hanno trovato conferma poi nella lettura del saggio di Carmela Minenna (C. Minenna, Sette
ulivi raccontani, in Studi Bitontini 55-56, 59-80) in cui l’osservazione meditata di sette ulivi
dell’agro bitontino diventano occasione per il racconto di altrettanti aneddoti a metà tra storia e leggenda. Alcuni di questi ulivi parlano di briganti. Gli ulivi secolari, da sempre simbolo
di abbondanza, di gloria e di pace nell’agro bitontino, sono stati spesso testimoni di episodi
funesti inseriti nell’ambito del fenomeno del Brigantaggio. In particolare si ricordano tre vittime innocenti di tali atti criminali, ovvero un pesciaiuolo, un mulattiere e un povero impiccato i cui ricordi sono legati a tre alberi maestosi: l’albero ‘del Pesciaiuolo’ (sulla strada
provinciale Bitonto-Molfetta), l’albero ‘dell’Impiccato’ (sul bordo dell’antica stradina detta
de r’ mbròise) e l’albero ‘del Mulattiere’ (lungo la via Appia-Traiana).
L’albero ‘del Pesciaiuolo’ ricorda un pescivendolo, appunto, che fu assalito, derubato e ucciso da un gruppo di briganti.
L’albero ‘dell’Impiccato’ deve il nome alla sorte toccata a un popolano derubato e impiccato a tale albero da briganti. Secondo un’altra versione fu un gruppo di barbieri che lo decapitò per gioco.
L’albero ‘del Mulattiere’ si riferisce ad un mulattiere derubato e ucciso dai briganti.
L’agro bitontino, pertanto, è da considerarsi un vero e proprio cimitero nel quale giganteschi alberi d’ulivo ricordano, con le loro croci, le numerose tragedie di cui è stata testimone
la campagna. Vittime erano persone abbandonate dalla seconda metà dell’800 alla miseria e
all’ignoranza dalla legge.
Procedendo nell’analisi delle vicende bitontine durante l’anno dell’Unità d’Italia, è sembrato opportuno soffermarsi, poi, sulle vicende dei protagonisti politici di questi anni e in tal
senso l’attenzione si è concentrata sulla figura di Vincenzo Rogadeo.
Eletto come deputato del Parlamento dal Collegio di Gioia nel 1864, Rogadeo entrò alla
Camera conservando un concetto elevato di libertà politica ed economica, essenza del liberismo moderno. Rogadeo fu anche membro del Consiglio Provinciale di Bari della Pubblica
Istruzione e seppe far valere le sue idee improntate sulla convinzione che il riscatto del Sud
dallo stato di schiavitù materiale sarebbe stato possibile solo attraverso l’istruzione e l’educazione delle coscienze, soprattutto nei primi anni della vita unitaria, durissimi per le terre meridionali afflitte dal fenomeno del brigantaggio. Il decentramento dell’amministrazione
scolastica, l’istituzione di associazioni culturali, la lotta all’analfabetismo e la diffusione della
stampa furono le armi imbracciate dallo statista bitontino, come dimostra la richiesta pubblica ai cittadini abbienti di offrire contributi per «l’apertura di un modesto Gabinetto di Lettura, nel quale possano accogliersi artigiani e campagnoli nelle ore e giorni di riposo, ed
assistere alla lettura di pochi ed acconci giornali, nonché alla spiegazione dello Statuto, e leggi
amministrative». L’intento di Rogadeo partiva dall’osservazione che «L’ignoranza de’ principali avvenimenti politici […] induce le classi idiote del nostro paese ad accettare facilmente
le notizie più false ed insidiose che alcuni perversi di dentro e di fuori danno opera a diffondere». Per Rogadeo, quindi, la causa di fenomeni di resistenza e di brigantaggio era da ritrovarsi nell’ignoranza del popolo che veniva spesso alimentata da notizie distorte e mendaci.
Valida arma di combattimento era, dunque, l’istruzione.
Esplicitata questa fase introduttiva nei primi pannelli che hanno presentato un quadro generale della situazione meridionale nel 1861, la mostra ha offerto poi la sua sezione più autenticamente espositiva Avvenne quell’anno a Bitonto, costituita da una serie di altri pannelli
sui quali sono state inserite le riproduzioni dei documenti recuperati dall’Archivio Storico
Comunale di Bitonto. Le due sezioni, quella più argomentativa e quella più espositiva, sono
state collegate attraverso le citazioni delle parole di Carlo Dotto De Dauli e di F. S. Sipari di
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NOTIZIE ED EVENTI
Pescasseroli che offrono un ritratto del brigante il quale, per il prima cosa era «un povero
agricoltore pastore […] che si ribella alle ingiustizie e ai soprusi dei potenti […] anelando
vendicarsi della società che lo ridusse a quell’estremo», mentre per il secondo era «colui che
vuole migliorare le sue condizioni […] e attende invano la stupida pretesa rivoluzione».
Un breve resoconto incluso su un pannello ha esplicitato i fatti politici salienti avvenuti a
Bitonto durante il 1861, lasciando poi spazio ai documenti che ne rendono testimonianza tangibile.
Il 1861 fu l’anno dell’Unità d’Italia ma per Bitonto fu l’anno dell’anarchia e della piaga
del brigantaggio. Il 20 febbraio di quell’anno a Bitonto – prima ancora che a Martina Franca,
Gioia del Colle, Santeramo in Colle, Acquaviva delle Fonti – esplose la rivolta. Furono occupate tutte le terre murgiane e le Mattine. Vennero assediate le fattorie dei Gentile a Mariotto, dei De Ilderis sulla via Appia, dei Sylos Labini a Palombaio. Una masnada capeggiata
da Gaetano Murgolo saccheggiò la casa degli Ancarano su via Mozzicugno. Con la complicità di parte del clero secolare migliaia di persone si concentrarono tra la Cattedrale e la chiesa
di San Domenico impedendo l’accesso dei funzionari al Palazzo di Città. Il sindaco Vito
Amendolagine, già carbonaro e membro del comitato garibaldino, non aveva i mezzi per sedare il tumulto. A Vincenzo Sylos Labini spettò il merito di aver domato con audace ferocia
il 25 febbraio la ribellione, un moto insurrezionale borbonico scoppiato inatteso e violento, con
l’aiuto della Guardia Nazionale. Si riuscì a rinchiudere nel Torrione i capi della rivolta e ad
assicurarli alla giustizia militare.
L’assenza da Bitonto di Vincenzo Rogadeo e di Francesco Paolo Catucci, eletti nelle elezioni
del 20 e 27 gennaio 1861 e quindi impegnati nelle sessioni parlamentari a Torino, l’assoluto silenzio degli atti amministrativi (gennaio-giugno 1861) rendono tuttora misteriosi i fatti avvenuti
in città in quel terribile periodo in relazione al quale di cui è difficile trovare fonti dirette.
Diversi, invece, sono i documenti del Comune di Bitonto che si riferiscono all’espletamento delle pratiche burocratiche e di voto, come ne rendono testimonianza i diversi verbali
ritrovati utilizzati per la nomina dei Consiglieri provinciali, dell’Ufficio definitivo per l’elezione dei Consiglieri comunali, oltre alla convocazione dei Consiglieri nella Casa comunale
per eleggere fra loro i membri della Giunta Municipale, e alle proposte delle terne dei candidati per il Consiglio Provinciale e Distrettuale.
Interessante è risultato anche il tentativo di ricostruire le vicende e i dissidi tra Stato e
Chiesa che ebbero importanti ripercussioni sulle questioni locali. Singolare è stato, infatti,
l’atteggiamento del vescovo Materozzi, come si apprende dalla lettera del Sindaco all’Intendente in data 9 settembre 1860: il primo cittadino riferisce che il mattino del 7, sul far dell’alba,
il Vescovo spontaneamente s’allontanò dal Comune di Bitonto alla volta di Napoli a seguito
del sequestro delle rendite vescovili disposte dal Re, decreto che aveva reso necessario la nomina di un vicario sostituto.
Gli archivi bitontini conservano anche la nota del Luogotenente Generale del Re delle
Province Napoletane del 29 ottobre 1861 diretta al Sindaco in cui si richiama un atteggiamento assunto dal Clero che «come veri Ministri di Religione insegnano ai proterbi come non
sia necessario rinnegare la patria per farsi difensore dell’altare, come non si abbia a rovesciare
l’altare per difendere la Libertà e l’Indipendenza della Patria». Questa nota intende sottolineare
l’atteggiamento che lo Stato si auspicava dalla Chiesa, importante divulgatrice degli alti ideali
di rispetto verso lo Stato.
Tali speranze restarono disattese e probabilmente l’atteggiamento di Materozzi non sembrò convincere gli amministratori bitontini.
L’idea di una Chiesa disposta a prodigarsi per la guarigione delle serie piaghe sociali e agricole si manifesta anche nella nota del Sindaco all’onorevole deputato pugliese Giacomo La-
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caita datata 22 giugno 1862: si chiede di presentare in Parlamento la petizione di ripartizione
dei beni degli enti ecclesiastici in piccole quote per la classe proletaria del Comune di Bitonto. Di questa importante lettera manoscritta si è inteso riportare anche la trascrizione a
stampa.
La ricerca di archivio di documenti ufficiali risalenti all’anno dell’Unità d’Italia ha fatto
riemergere notifiche e delibere comunali di ordinaria amministrazione che, al fine di ricostruire gli umori e le opinioni dei bitontini del 1861, si rivelano un importante strumento. Interessante è parsa soprattutto la sensibilità dell’amministrazione rispetto al tema del pane e
degli aiuti sociali. Dopo l’elezione della Giunta municipale di Bitonto avvenuta il 9 giugno
1861 con la nomina ad assessori effettivi Nicola Bovio, Gianbattista Sylos, Serafino Santoro,
Francesco Paolo Calamita, e assessori supplenti Ignazio Minardi e Raffaele Comes, una delibera del Consiglio Comunale del 6 novembre 1861 consentì un premio di due ducati mensili per coloro che avessero migliorato la manifattura del pane per vendita pubblica. Da ciò
consegue la decisione di stanziare nel bilancio da predisporre per l’anno successivo un fondo
di 24 ducati da destinare a titolo di premio ai pubblici panettieri che miglioreranno la manifattura del pane per uso della vendita pubblica.
Altre delibere datate 1861 ci parlano di importanti decisioni come quella dello stanziamento di dieci ducati alla farmacia dell’Ospedale Civico di Bitonto a seguito di richiesta di
rimborso spese avanzato da Suor Grandet figlia della carità, direttrice dell’Ospedale Civile,
o quella in data 20 ottobre 1861 in cui la Giunta Municipale, nel prendere in esame la petizione di alcuni venditori di sale che richiedono di rateizzare quanto dovuto allo Stato per la
vendita di tale prodotto, stabilisce che si venga incontro alla richiesta concedendo il pagamento con rate mensili di ducati due. Talvolta però il Comune è sembrato parco nel concedere
gli aiuti, come testimonia la delibera 8 novembre 1861 in cui il Consiglio comunale rigetta la
domanda di Francesco Triggiani con la quale si chiede un contributo economico per il mantenimento in Napoli del figlio Nicola perché possa seguire il corso triennale di perfezionamento in pittura figurativa.
Dagli atti ufficiali appare chiara la volontà del Comune di tentare una conciliazione tra amministrazione e popolo con l’intento di arginare la piaga della povertà adottando politiche di
aiuto in grado di frenare reazioni di rivolta potenzialmente degeneranti nel brigantaggio. Nel
1861 sembrano ormai lontani i rimedi forti con cui l’amministrazione tentava di ridurre tale
malcontento sociale. Le fonti da un lato ci parlano sia di totale fiducia del Comune di Bitonto
verso le gesta garibaldine (come mostra la delibera secondo cui, in ricorrenza dell’entrata del
generale Giuseppe Garibaldi a Napoli il 7 settembre, le campane dovessero suonare a festa,
alle ore 10.00 in Cattedrale si cantasse il Te Deum e nel corso della giornata, fino a sera, suonasse la banda municipale) e dall’altro ci riferiscono delle violente repressioni armate con cui
venivano soppressi tutti i tentativi di dissenso.
A dimostrazione di ciò è parso interessante il contenuto di una lettera datata 8 dicembre
1860 che ci racconta quanto il Decurione anziano, in sostituzione del Sindaco, riferisce al Governatore Provinciale. Nell’epistola si narrano le notizie di una tentata reazione popolare determinatasi il 29 novembre 1860, quando verso mezzanotte Giovanni Nacci, nei pressi delle
carceri, riferì ad Angelina, moglie di Vito Spano, che Francesco II era rientrato a Napoli tra
gli applausi generali e al grido di «Viva Francesco II e abbasso la Guardia Nazionale». La notizia si diffuse al largo Porta Robustina e nei rioni Civilizio, Sant’Andrea, Annunziata e Porta
la Maya creando uno scompiglio che richiese la presenza delle pattuglie della Guardia Nazionale. Le forze dell’ordine procedettero agli arresti di varie persone. In casa di Gaetano
Cannito venne trovata una bandiera bianca, quale certo indizio reazionario, con la sovrascritta
«Viva la Reale Bandiera del popolo Basso; viva Francesco II con tutte le Reali truppe». Tut-
Pannello 1° della mostra L’Unità d’Italia nelle pagine di storia locale.
Pannello 2° della mostra L’Unità d’Italia nelle pagine di storia locale.
Pannello 3° della mostra L’Unità d’Italia nelle pagine di storia locale.
Pannello 4° della mostra L’Unità d’Italia nelle pagine di storia locale.
Pannello 5° della mostra L’Unità d’Italia nelle pagine di storia locale.
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tavia una lettera firmata direttamente dal Sindaco al Governatore in data 6 dicembre 1860 comunicava che in riferimento alla tentata reazione del 29 novembre 1860, erano stati messi in
libertà quanti ritenuti non colpevoli, fra cui il carabiniere Cataldo Semeraro mentre erano stati
consegnati al potere giudiziario quanti colpevoli di reato, tra cui Gaetano Cannito.
Attraverso l’excursus storico a cui ci hanno condotto le documentazioni, è sembrato raggiunto l’intento di ricostruire le fila di uno spaccato della storia locale, eco di quella nazionale,
dando voce alle reali ragioni di quei briganti, troppo frettolosamente definiti con connotati dispregiativi ma che, alla luce di approfondimenti, appaiono come uomini desiderosi di non
soccombere passivamente alle vicende di uno Stato unitario, ai loro occhi ancora troppo lontano dal realizzarsi compiutamente.
Pietro Cannito, Grazia Pice
Concerto Tra memorie e passione: la storia d’Italia in musica
Questa dei 150 anni dell’Unità d’Italia è una ricorrenza che, forse, a pochi dice ancora
qualcosa, ma che racchiude il coronamento di un sogno che muove i primi passi nel 1860 con
l’annessione (per alcuni storici la ‘colonizzazione’ manu militari) del Regno delle Due Sicilie da parte dei Savoia. Perrché si realizzi compiutamente l’Unità d’Italia si dovrà attendere
l’annessione dei territori della Chiesa nel 1870 e dei territori posti sotto il dominio austro-ungarico nel 1918, con la vittoria dell’Italia nella prima guerra mondiale.
L’obiettivo del concerto celebrativo è stato quello di riportare alla memoria gli avvenimenti più importanti che portarono all’Unità d’Italia ricorrendo ad un itinerario musicale e
coinvolgendo un coro di voci bianche di alunni del I Circolo Didattico ‘Nicola Fornelli’ al
fianco di un coro di professionisti per un ideale passaggio di testimone fra due generazioni.
Un momento formativo volto non solo a trasmettere ai giovani il senso della Storia e, in
particolare, della storia d’Italia, ma soprattutto a veicolare quei valori che, prima facie, possono apparire slegati fra loro, ma che, in realtà, rivelano tutto l’orgoglio di appartenenza ad
una comunità etno-geografica. Non si possono, infatti, non ricordare accanto a Giuseppe Garibaldi, a Giuseppe Mazzini, agli studenti di Curtatone e Montanara, ai ragazzi del ‘99, ai partigiani o, ancora, agli angeli del fango, i carabinieri di Nassiriya, gli alpini dell’Afghanistan,
i volontari della Protezione Civile e via discorrendo.
Così come non si può scordare Giuseppe Girolamo, 30 anni, di Alberobello, batterista imbarcato sulla Costa Concordia per lavoro, morto annegato il 14 gennaio 2012 per aver ceduto
il suo posto sulla scialuppa di salvataggio ad una bambina. A Giuseppe è stato dedicato il
Concerto per i 150 anni dell’Unità d’Italia, tenutosi nel teatro comunale ‘Tommaso Traetta’
il 22 febbraio scorso, con il patrocinio del Comune di Bitonto.
Nel corso della serata, pur accennando, doverosamente, ad alcune musiche di Giuseppe
Verdi, vero araldo del Risorgimento italiano, sono stati eseguiti, volutamente, marce e canti
che, nei vari periodi, erano sulle labbra dei volontari, degli studenti, dei carbonari, dei soldati,
di tutta quella gente comune che credeva nell’ideale unitario dell’Italia.
Non sono stati esclusi brani come l’Inno delle Due Sicilie, la Marcia reale sabauda, Faccetta nera, La Sagra di Giarabub e Bella Ciao: da un lato, queste ‘canzoni’ fanno parte della
cultura musicale o della propaganda di determinati periodi e, quindi, sono parte della storia,
dall’altro, alcuni di questi sono risultati sconosciuti al grande pubblico, a causa di una sorta
di damnatio memoriae, per cui andavano proposti, non fosse altro che per dovere d’imparzialità oltre che di approfondimento.
Naturalmente sono stati eseguiti i canti della patria più famosi e significativi quali, ad
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NOTIZIE ED EVENTI
esempio, La Bandiera dei tre colori, L’addio del volontario, La leggenda del Piave, La canzone del Grappa e, ovviamente, l’Inno di Mameli che, pur non essendo ufficializzato nella costituzione italiana, ricevette l’imprimatur di inno nazionale dal Presidente della Repubblica
Oscar Luigi Scalfaro.
Peculiarità del concerto è stata l’esecuzione dei brani, in ordine cronologico, intervallati
dalla voce narrante di Loredana Ruggiero che li ha contestualizzati evidenziando, di volta in
volta, gli avvenimenti e i personaggi più importanti della storia unitaria come un filo conduttore che ha guidato gli spettatori dalla nascita del tricolore italiano, nel 1797, fino al miracolo
economico degli anni ‘60.
Ma ripercorriamo a grandi linee lo svolgimento del concerto e gli argomenti trattati.
L’Inno di Mameli ha aperto la serata seguito dall’Inno delle Due Sicilie, adottato come
tale solo nel 1816, composto da Giovanni Paisiello nel 1787 su commissione di Ferdinando
IV di Borbone e col titolo di Inno del Re. La scelta a voler quasi marcare un’ideale linea di
confine nel cambiamento epocale che interessò, soprattutto, la gente del Sud Italia.
È stato interessante scoprire che questo inno nel 1734, all’epoca, cioè, della battaglia di Bitonto, che sancì la nascita del Regno delle Due Sicilie, non era stato ancora composto.
Subito dopo un breve omaggio a Giuseppe Verdi, con l’esecuzione del coro de’ I Lombardi alla Prima Crociata, Loredana Ruggiero ha letto una sintesi riferita alle tre guerre d’indipendenza intervallata dalla Fanfara Reale e Marcia Reale di Casa Savoia e dal noto canto
patriottico La Bandiera dei tre colori.
La Marcia Reale fu scritta da Giuseppe Gabetti nel 1831, su incarico di Carlo Alberto di
Savoia, ed elevata a ruolo di inno nazionale fino al 1943, anche se dal ‘22 al ‘45 fu soppiantata dall’inno fascista Giovinezza e sostituita, nel 1946, dal Canto degli Italiani.
La Bandiera dei tre colori fu composta da Cordigliani e Dall’Ongaro nel 1848, in piena
prima guerra d’indipendenza. Era questo il canto dei volontari che andavano a morire per la
patria, volontari ai quali Carlo Alberto rifiutò l’appoggio nella battaglia di Novara.
In questa cornice si inserisce, anche, la famosissima Carica di Pastrengo condotta da 300
carabinieri per salvare la vita del re che stava per essere accerchiato dalle truppe nemiche.
Uno spazio adeguato, per la sua statura morale e militare, è stato riservato alla tanto dibattuta e complessa figura di Giuseppe Garibaldi, idealista e generale, sognatore e concreto
uomo d’armi, il cui grande cuore e la cui grande esperienza militare si rivelarono, innegabilmente, decisivi per l’impresa unitaria. L’ Inno di Garibaldi, da lui stesso commissionato nel
1858 al poeta Mercantini – autore de’ La spigolatrice di Sapri – e musicato da Olivieri, capo
musica del 2° reg. della brigata Savoia, ha fatto, letteralmente, vibrare i palchi del teatro per
la forza della musica e per la potenza evocativa.
Va sottolineato il fatto che il brano fu eseguito per la prima volta a Genova e presentato
come inno nazionale, alla presenza dello stesso Garibaldi e Nino Bixio.
L’Inno di Garibaldi ebbe molta fortuna tanto che, durante la Resistenza, fu insieme all’Inno di Mameli la sigla della rubrica ‘L’Italia combatte’, una delle più popolari, trasmesse
da Radio Bari con il ritornello «Va’ fuori d’Italia, [...] va’ fuori stranier» che ben si adattava
all’idea di Resistenza come di un secondo Risorgimento.
Si giunge all’acme della serata: l’esecuzione di brani scelti dalla fantasia caratteristica
Breccia di Porta Pia del maestro Davide Delle Cese riconsegnata alla memoria dei bitontini
dopo un lungo periodo di oblìo (fatta eccezione per un’unica replica nel 1997), infatti veniva
suonata in occasione dei comizi che Gaetano Salvemini teneva a Bitonto in Piazza XX Settembre 1870, antistante l’attuale chiesa di Sant’Egidio, a memoria della conquista di Roma
che, dal 1870, divenne capitale d’Italia. Il maestro Vito Vittorio Desantis, ristrumentandola per
organico bandistico moderno nel 2010, l’ha riproposta per l’occasione e inoltre l’ha fatta co-
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noscere ed apprezzare anche al di fuori dei confini cittadini eseguendola a Conversano e a San
Giorgio Jonico nel corso di importanti raduni bandistici nazionali.
L’esecuzione di questi brani antologici è stata accompagnata da un vivo racconto dello
svolgimento dell’azione, collante questo fra i vari momenti oltre che elemento funzionale ad
una resa quasi teatrale del concerto.
Successivamente sono stati presentati brani che rievocavano la prima guerra mondiale.
Tre i brani scelti perché evocativi delle difficoltà della vita in trincea.
Nel 1915 fu composto il canto Le campane di San Giusto che veniva eseguito ovunque ci
fosse una manifestazione patriottica e, perfino, nei teatri di varietà; conobbe il momento di
maggior diffusione dopo l’entrata delle truppe italiane in Trieste, il 5 novembre 1918.
Nell’ultimo anno di guerra furono composti gli altri due canti patriottici.
Il primo è La leggenda del Piave, composto da Ermete Giovanni Gaeta, noto come E. A.
Mario, all’indomani della ‘Battaglia del solstizio’ del 1918 sul Piave allorchè l’esercito austroungarico fu costretto ad arrestarsi grazie a un rinnovato slancio morale delle truppe italiane,
oltre che ad una provvidenziale piena del fiume.
Il secondo è La canzone del Grappa il cui testo fu composto dal generale Emilio De Bono
partendo da una scritta anonima «Monte Grappa tu sei la mia Patria», rinvenuta sul muro di
una casa bombardata della Val Cismon e che i soldati ripetevano spesso. Fu musicata dal capitano Anonio Meneghetti.
Poi un doveroso omaggio è stato reso al più antico corpo militare al mondo (1872) di fanti
di montagna, gli Alpini, con la canzone Sul cappello che noi portiamo.
La mancata annessione di Fiume all’Italia, etichettata da Gabriele D’Annunzio come «vittoria mutilata», anche a Bitonto ebbe una grande eco, tant’è vero che esistono sul tema ben
due composizioni di due nostri illustri concittadini: la prima è di Davide Delle Cese, la seconda
di Pasquale Larotella (oggetto di una specifica conferenza-concerto nella chiesa di San Giorgio nel 2009), che stanno a sottolineare quanto la questione stesse a cuore anche alla popolazione meridionale. La scelta è caduta su Inno a Fiume del maestro Larotella perché si tratta
di un piccolo, straordinario capolavoro musicale, fuori dagli schemi convenzionali dell’epoca,
con un uso di armonie che ricordano Stravinsky o Dvorak e che, in un certo qual modo, anticipano di cinquant’anni le sonorità delle colonne sonore dei film americani di John Williams.
All’indomani della grande guerra le pessime condizioni economiche dell’Italia e le forti
tensioni sociali portarono alla nascita e all’ascesa del fascismo che prometteva una nuova era
di grandezza della nazione e di equilibrio sociale. Tutta la cultura subì un processo di fascistizzazione e nacque una miriade di canti di propaganda del regime.
La scelta delle musiche del periodo è stata operata partendo da due momenti fondamentali del ventennio fascista: il primo, quello di realizzare un impero alla stregua di tutte le grandi
potenze europee e asiatiche; il secondo, la strenua resistenza opposta nei confronti degli inglesi dagli italiani a presidio dell’oasi di Giarabub, in Cirenaica, fra il settembre del 1940 e il
marzo 1941 (si trattò in realtà un episodio bellico di scarsa importanza ma che il regime fece
assurgere ad epopea per distrarre l’opinione pubblica dal tracollo in Cirenaica).
Il primo brano presentato è stata La Sagra di Giarabub che, al di là dei toni enfatici, rievoca
l’eroico comportamento del tenente colonnello Salvatore Castagna e dei suoi soldati, storicamente documentato, che dimostrano, semplicemente e solamente, l’orgoglio di essere italiani.
Il secondo brano scelto è stato Faccetta nera, composta nel 1935 da Giuseppe Micheli e
Mario Ruccione, canzone accolta con diffidenza dai gerarchi fascisti i quali la sottoposero a
censura per ben due volte pretendendo che il testo originario, steso scherzosamente in romanesco, fosse cambiato, benchè le leggi razziali non fossero ancora state imposte.
Al tracollo del regime fascista, iniziato il 25 luglio 1943 a seguito dello sbarco degli Al-
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NOTIZIE ED EVENTI
leati in Sicilia, seguì l’arresto di Benito Mussolini e l’armistizio con gli anglo-americani l’8
settembre dello stesso anno. L’Italia cadde nel caos generale e si ritrovò divisa in due e con
una guerra civile in atto: al nord i tedeschi appoggiati dai fascisti della Repubblica di Salò, a
sud gli anglo-americani appoggiati dalle truppe regolari italiane e da numerose bande armate
volontarie di partigiani desiderosi di liberare l’Italia dai nazi-fascisti.
Bella Ciao è la canzone più popolare, composta, si dice, da un anonimo medico modenese,
fra quelle cantate dai simpatizzanti del movimento partigiano italiano (la nostra Resistenza)
soprattutto nella zona circoscritta fra l’Appennino bolognese e le zone della repubblica partigiana di Montefiorino.
Secondo gli storici, tuttavia, questa canzone nacque nell’immediato dopoguerra e la sua
popolarità iniziò nel 1948, al Festival della gioventù di Berlino, dove fu cantata da un gruppo
di studenti italiani riscuotendo enorme successo.
Quando ancora le macerie delle città italiane bombardate erano fumanti, iniziò la ricostruzione grazie agli immani aiuti economici che gli Stati Uniti d’America fornirono col Piano
Marshall e grazie, anche, alla forte spinta morale dettata da un risveglio di orgoglio.
Pur in gravi momenti di altissima tensione sociale, che vedeva opposti schieramenti politici fronteggiarsi fino allo scontro fisico, pur nel caos del delicatissimo passaggio storico che
nel giro di un trentennio aveva visto la nazione attraversare prima la monarchia, poi la dittatura e, infine la repubblica, gli Italiani seppero trovare una coesione e un senso di rivincita morale degne di elogio.
Con la ripresa economica arrivò anche la voglia di divertirsi, un po’ per dimenticare le
atrocità della guerra, un po’ per dire a se stessi che la grande povertà che aveva caratterizzato
il periodo bellico e immediatamente post-bellico, stava pian piano lasciando spazio ad un benessere crescente.
La televisione fece il suo ingresso in molte famiglie e in moltissimi bar, l’italiano medio
poteva permettersi la lavatrice, il frigorifero, il telefono e la FIAT 500, divenuta il principale
oggetto dei sogni.
Anche in campo musicale, per rilanciare questa idea di benessere, si organizzò il ‘Festival della Canzone’ di Sanremo che, nato in tono minore nel 1951, fu proposto, a partire dall’anno successivo, in uno sfarzo di abiti, di fiori, di scenografie e di grandi orchestre
divenendo, in pochi anni, una vetrina internazionale per la musica italiana.
Col passare degli anni le canzoni abbandonavano sempre più lo stile melodico, tipicamente italiano, recependo le influenze swing d’oltreoceano che ritroviamo, mescolate col
nuovo stile degli ‘urlatori’, nella canzone proposta per questo concerto, Nel blu dipinto di blu
o, come fu ridepositata presso la SIAE, Volare, di Domenico Modugno e Franco Migliacci
composta per il Festival di Sanremo del 1958 e divenuta una delle due canzoni italiane più conosciute al mondo insieme a O sole mio.
Il concerto per i 150 anni dell’Unità d’Italia si conclude con l’esecuzione dell’Inno di Mameli o, come era intitolato quando fu scritto, Il canto degli Italiani.
Fu composto nel 1847 da Michele Novaro su testo del mazziniano Goffredo Mameli per
celebrare il centenario della cacciata degli austro-piemontesi da Genova.
Questo inno, più conosciuto come Fratelli d’Italia, sostituì la Marcia Reale piemontese a
partire dal 12 ottobre 1946 e fu scelto fra vari inni, anche di maggior valore poetico e musicale, poichè sintetizzava lo spirito risorgimentale e l’ispirazione repubblicana.
Chi ha letto con attenzione la costituzione italiana avrà notato che, mentre per del tricolore si dà la definizione di «bandiera nazionale», dell’Inno di Mameli non si fa menzione
come di uno dei simboli dello Stato; tuttavia, di fatto e per consuetudine, va considerato l’inno
nazionale e non se ne potrebbe accettare un altro.
Concerto Tra memorie e passione: la storia d’Italia in musica (foto B. Pica).
Un’ultima nota: Goffredo Mameli quando morì aveva solo ventidue anni; la stessa giovane
età di migliaia di martiri che hanno fatto l’Italia.
A loro abbiamo voluto dedicare questo concerto, a Giuseppe Girolamo, all’equipe di italiani che hanno progettato, costruito e messo in orbita, pochi giorni prima di questo concerto,
il razzo vettore Vega, costruito con una tecnologia rivoluzionaria tutta italiana, e decollato
con le note di Fratelli d’Italia. Anche di questi ‘eroi’ dovremmo essere, veramente, tutti orgogliosi per gli esempi e le testimonianze di italianità che danno al mondo.
Il concerto si è concluso fra l’ovazione della platea che ha interagito spesso con i protagonisti, specialmente cantando in diverse occasioni insieme al coro, promettente segno che la
sensibilità verso certe tematiche non è del tutto scomparsa.
La verve e l’esperienza, poi, di Augusto Garofalo, socio del Centro Ricerche e storico presentatore di quasi tutti gli eventi più importanti di Bitonto, hanno dato alla manifestazione quel
senso di agilità che l’ha resa abbastanza fruibile e apprezzata da tutte le fasce di età presenti.
Non va trascurata l’importanza di aver coinvolto, oltre al Comune di Bitonto che ha concesso il patrocinio, ben tre associazioni e un istituto scolastico: il Centro Ricerche di Storia e
Arte-Bitonto con il suo presidente prof. Nicola Pice che ha voluto fortemente la realizzazione
di questo progetto; l’associazione musicale culturale ‘Davide Delle Cese’ con il suo direttore
artistico-musicale maestro Vito Vittorio Desantis che ha curato gli arrangiamenti e la strumentazione di tutte le musiche eseguite e il sottoscritto che ha curato la stesura di tutti i testi
della serata; la Corale di Bari ‘Cor’aggiosi Francescani’ diretta dal tenore Gaetano Piscopo; il
coro degli alunni del 1° Circolo Didattico ‘Nicola Fornelli’ guidati dalle insegnanti Leccese e
Lozito. I due cori si sono alternati nell’esecuzione dei brani, accompagnati dall’orchestra sinfonica di fiati ‘Davide Delle Cese’ eseguendo insieme, in chiusura di serata, l’Inno di Mameli.
L’auspicio che questo concerto sia stato banco di prova e trampolino di lancio per future
iniziative che possano coinvolgere più soggetti e più realtà presenti sul territorio ha ulterior-
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NOTIZIE ED EVENTI
mente motivato l’impegno profuso da quanti vi hanno partecipato in maniera attiva con la
certezza che fare rete, a tutti i livelli, è essenziale poichè solo in questo modo si può avere la
condivisione delle tante esperienze, il rafforzamento del sentire comune e la formazione dei
futuri cittadini.
Le ricerche per i brani musicali del concerto e le notizie di carattere storico sono state effettuate su testi e materiale di proprietà del prof. Vito Desantis, che per molti anni ha rivestito
la carica di presidente dell’Associazione Nazionale Combattenti e Reduci (A.N.C.R.) - Sez.
di Bitonto, oltre che su testi e materiale di proprietà del sottoscritto, presidente dell’associazione ‘Davide Delle Cese’, fra cui testi appartenuti al canonico sacerdote Pasquale Sorgente,
classe 1899, Cavaliere di Vittorio Veneto.
Giuseppe Desantis
Visita guidata a Troia e ad Ascoli Satriano in Villa di Faragola (10 giugno)
Anche quest’anno all’insegna della scoperta delle ricchezze della nostra regione, il sottoscritto e Augusto Garofalo hanno organizzato un’interessante escursione nel foggiano.
Al mattino soci e amici dell’associazione hanno visitato la cittadina di Troia. Di notevole
pregio il restaurato Museo del Tesoro della Cattedrale (ospitato nell’ex Seminario vescovile)
che custodisce una ricca collezione di arte sacra tra cui argenti della scuola del ‘700 napoletano, paramenti liturgici, codici miniati, oltre cinquecento pergamene e i tre famosi rotoli miniati medievali degli Exultet. In tarda mattinata il gruppo si è spostato nella Concattedrale,
splendido esempio di romanico pugliese di Capitanata, acroce latina,costruita tra il1093e
il1125 e dedicata alla Beata Maria Vergine Assunta in Cielo. La pausa pranzo si è svolta nell’ottimo ristorante ‘Il Divino’.
Nel pomeriggio il gruppo ha visitato il sito della villa romana di Faragola, nel territorio
diAscoli Satrianoinprovincia di Foggia. Il sito archeologico, portato alla luce sotto la direzione del prof. Giuliano Volpe, è un vero e proprio palinsesto che reca tracce insediative dal
VI sec. a.C. sino al Medioevo. La facies più importante è una villa romana di proprietà di un
uomo colto e ricco, dotata di numerosi ambienti splendidamente decorati, che si sviluppa in
due fasi, dal III al VI sec. d.C. Eccezionale la guida dell’archeologa Giovanna Baldassarre –
partecipe anche ai lavori di scavo – che ha consentito ai visitatori, con la sua preparazione, di
apprezzare le peculiarità del sito e l’eccezionalità della scoperta.
Giandomenico Romano
Inaugurazione Piazza Cavour e presentazione del cofanetto di cartoline commemorative (10
agosto)
Anche per l’inaugurazione di Piazza Cavour il Centro Ricerche, nonostante la calura agostina, ha fatto sentire la sua accorata e sentita partecipazione allestendo una mostra e curando,
con la Burning Studio, la realizzazione di un cofanetto di mini cartoline che riproducono
Piazza Cavour nel corso di un secolo. Consultando gli archivi fotografici di Garofalo, Alinari, Modugno oltre che le collezioni private di Italo Maggio, Sandro Carbone e Arcangelo Antuofermo, si è potuta allestire questa interessante e ricca mostra che ha garantito all’evento di
‘restituzione della piazza’ – per anni interessata da lavori di ripristino dell’antico basolato lapideo – un momento di festa e corale partecipazione.
Chiara Cannito
NOTIZIE ED EVENTI
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Inaugurazione dei lavori di ristrutturazione e mostra Ex voto in devozione dei SS. Medici (19 ottobre)*
Finalmente ritrovato il primitivo habitus di un segno architettonico, artistico e religioso del
centro storico: si tratta della chiesa di San Giorgio, annessa alla sede associativa del Centro
Ricerche, la cui ristrutturazione, grazie ai fondi FESR 2007-2013, Linea di intervento 4.2,
Azione 4.2.1, ‘Sistema del Patrimonio culturale minore’, è stata ultimata lo scorso 19 ottobre.
I lavori di restauro hanno interessato il consolidamento della facciata principale e di quella laterale che si affaccia su via San Giorgio e la pulitura della scultura lapidea dell’Angelo
custode che troneggia nella nicchia sovrastante il portale, oltre che la risistemazione dei pluviali e la sostituzione dei vetri della finestre. Il Centro Ricerche ha,
poi, investito proprie risorse nella
sostituzione del vecchio portale
con uno nuovo in rovere massello,
nella ridipintura delle cappelle interne e nella sgrossatura delle
chianche calcaree del pavimento,
dopo aver dato nuova sistemazione alla biblioteca ‘Donato De Capua’, adesso allocata nella parte destra del transetto della chiesa.
Doppia inaugurazione, dunque,
il 19 ottobre: dei lavori di restauro
e di una mostra di Ex-voto legati al
culto dei SS. Medici, alla presenza di rappresentanti degli Enti locali, regionali ed ecclasiastici.
Si è trattato del primo di una
serie di eventi che il Centro Ricerche, insieme alla Basilica dei
Santi Medici, al Comune di Bitonto e alla Galleria Nazionale della Puglia ‘Girolamo e Rosaria
Devanna’, intendono organizzare
per il cinquantesimo anniversario
della traslazione (correva infatti
l’anno 1963) delle sacre immagini dei Santi Medici dalla chiesa di
san Giorgio alla nuova, presso il
Santuario. A partire da marzo
2013, infatti, e fino a novembre,
Bitonto, chiesa di San Giorgio. Facciata principale dopo i lavori di restauro (foto di I. Maggio).
presso la chiesa di San Giorgio e
* La seguente nota è già apparsa sul Notiziario Fraternamente Fratres, della sez. Fratres di Bitonto,
relativo al bimestre ottobre-dicembre 2012. La si riporta quasi fedelmente in uno al commosso ricordo
dell’amico Franco Marrone, presidente dell’associazione, che troppo prematuramente ci ha lasciato.
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NOTIZIE ED EVENTI
non solo, il Centro Ricerche realizzerà un convegno di studi dal titolo Temp(i)o della sofferenza, Temp(i)o di Dio. Malattia e Religione tra antico e moderno nell’ambito della traslazione delle sacre immagini dei Santi Medici dalla Basilica alla chiesa di San Giorgio.
Ancora una volta il Centro Ricerche, fedele alla sua missione di tutela e valorizzazione del
patrimonio culturale locale, persegue con il restauro di una chiesa (in precedenza era toccato
a San Francesco la Scarpa) un duplice fine: rendere il centro storico di Bitonto polo attrattore
di turisti e di abitanti che annullino l’epiteto di quartiere-ghetto e fare da trait d’union tra diversi soggetti pubblici e privati per la crescita culturale e sociale della collettività.
Chiara Cannito
Pranzo sociale (13 dicembre)
Per la seconda volta nell’accogliente cornice della Masseria Polvino si è svolto il pranzo sociale del Centro Ricerche di Storia e Arte. Sotto l’impeccabile organizzazione di Francesco
Stellacci, Giandomenico Romano e del sempre brillante Augusto Garafalo, sodali e simpatizzanti hanno trascorso una giornata all’insegna della gioviale e serena condivisione prandiale.
Chiara Cannito
Soci del centro durante il pranzo sociale 2012 (foto G. Romano).
NOTIZIE ED EVENTI
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Il ricordo di un grande storico dell’arte:
il prof. Michele D’Elia
Il 15 ottobre 2012 il mondo dell’arte, del restauro e della cultura piange la perdita del prof.
Michele D’Elia, socio e promotore fin dai primi anni del Centro Ricerche di Storia e ArteBitonto. Numerosi gli incarichi ricoperti in vita: direttore (conservatore) della Pinacoteca di
Bari (1958), dirigente della Soprintendenza ai Beni Storici, Artistici ed Etnoantropolgici della
Basilicata (1977), direttore dell’Istituto Centrale del Restauro di Roma (1987).
Ha insegnato, inoltre, presso l’Ateneo di Bari e l’Ateneo di Lecce, ha allestito numerose
mostre e curato moltissime pubblicazioni tra quali L’Arte in Puglia dal Tardoantico al Rococò.
Dal 1992 ha collaborato con l’associazione Zètema, centro di valorizzazione per i Beni Culturali di Matera.
Porto con me un particolare ricordo del professore.
Era il 25 novembre 2010 e insieme avevamo preso parte ad un convegno sul tema dei beni
culturali all’interno di Palazzo Lanfranchi a Matera.
Di ritorno a Bari, mentre viaggiavamo insieme in treno, il professore, sollecitato dalla mia
curiosità incalzante sulla monumentale opera Dopo la polvere, iniziò a raccontarmi le vicende
umane e le emozioni provate durante quell’esperienza di vita. Il racconto così vibrante mi riportò indietro nel tempo, al terremoto del 1980, sulle macerie di chiese sventrate e di case dirute nei piccoli centri al confine fra la Basilicata e la Campania, nell’Irpinia, cuore del terribile
sisma. Occorreva fare subito, salvare le pale d’altare, mettere al sicuro le statue, monitorare
lo stato degli affreschi: così nelle parole del professore rivivevo quelle urgenze e quelle preoccupazioni che a molti potevano e possono apparire delle frivolezze dopo un sisma. E invece
lui mi comunicava che come uomo, prima, e storico dell’arte, dopo, ha sempre visto nelle
espressioni e forme dell’arte un segno della fede, della storia, della tradizione, nonché l’espressione del vivere quotidiano di un popolo, che come tali vanno salvaguardate.
E così si era dato inizio all’infaticabile lavoro di restauro. E Michele D’Elia fu uno dei protagonisti di questo lavoro di recupero insieme a tanti giovani ‘vocati’ al restauro.
Iniziò a raccontarmi espisodi, aneddoti, paure e soddisfazioni di quell’avventura e il ricordo era ancora vivido nei suoi occhi dopo 30 anni.
Con la gentilezza d’animo che lo contraddistingueva e con disinvoltura riuscì in quell’ora
trascorsa insieme a passare dalle problematiche conservative de Il Cenacolo di Leonardo da
Vinci, agli episodi della sua infanzia quando, ancora bambino, portava cesti di frutta delle
campagne di Grumo Appula in dono ai vari parenti.
Vedendomi così affascinata dai suoi racconti, di una vita di altri tempi, mi confidò: «Sì,
sono stato fortunato, ho potuto visitare i grandi musei del mondo e contemplare le opere dei
grandi artisti, ma la fortuna più grande è che l’ho potuto fare con la Pina. E pensare che è nato
tutto per caso, grazie alla strumentazione fotografica della Pina persa e ritrovata, durante uno
dei viaggi-studio fra noi giovani storici dell’arte».
Uomini della levatura umana e culturale di Michele D’Elia in realtà non ci lasciano mai.
L’insegnamento, la vera eredità, il vero testamento di Michele D’Elia sono la passione per
l’Arte nelle sue molteplici forme materiche senza distinzione, il rispetto di tutte le testimonianze del passato, la consapevolezza e la conoscenza determinata dal saper ‘vedere’, vedere
per iniziare la vera tutela del nostro patrimonio storico-artistico.
Il prof. Michele D’Elia resta nel firmamento dei grandi: solo i grandi si avvicinano ai più
giovani, agli inesperti con quella semplicità e umiltà che infonde coraggio, sprona a non abbandonare le proprie passioni e invoglia a continuare, perché non si finisce mai di imparare.
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NOTIZIE ED EVENTI
Mi piace concludere il ricordo del prof. Michele D’Elia, riportando le parole da lui pronunciate ad un convegno sul restauro tenutosi a Matera il 16 dicembre 2006: «Sono venuto
da Bari apposta per sentirvi e ho fatto bene, perché ho imparato da voi un sacco di cose».
Grazie, professore, per questo insegnamento.
Lucia Schiavone
Ricordo di mons. Gaetano Valente.
Una vita per la Fede e la Cultura
A maggio 2012 veniva presentato l’ultimo lavoro di mons. Gaetano Valente Cesano tra storia e arte, culto e cultura (secoli XI - XXI), certamente il più ‘sentito’ tra i tanti che hanno segnato la sua lunga e laboriosa esistenza, di cui si dà debita notizia all’interno della sezione
‘Schede bibliografiche’.
Il 28 ottobre 2012 mons. Valente celebrava, gioioso, la messa nella restaurata chiesa del
complesso; un rito che si ripeteva da anni e che, per volontà di don Gaetano, era seguita dalla
‘Sagra del Melograno’, giunta ormai alla VII edizione.
Mentre il Comitato di Redazione di Studi Bitontini attendeva alla redazione del presente
numero, giungeva, improvvisa, la notizia della sua dipartita, avvenuta serenamente a Terlizzi,
nel suo amato paese natale, il 19 gennaio 2013, all’età di 94 anni.
Affidare a queste poche righe il suo ricordo è certamente un’impresa ardua sia per la grande
personalità che lo ha contraddistinto sia per la mole di scritti e pubblicazioni che ci ha lasciato.
È stato mio professore di religione negli anni della scuola media a Terlizzi e da allora,
onorandomi della sua sincera amicizia e stima, mi ha permesso di stargli accanto senza soluzione di continuità fino agli ultimi giorni, donandomi, nella sua semplicità e immediatezza, i
tesori del suo profondo sapere.
Don Gaetano ricevette una formazione classica a Milano, dove attese gli studi ginnasiali
e successivamente liceali presso un Istituto religioso, frequenza che evidenzia sin da allora la
sua vocazione alla vita sacerdotale; ivi ebbe anche assidui rapporti con ambienti cultuali ambrosiani che influenzarono la sua personalità.
Nel 1939, appena conseguita la maturità classica e non ancora ventenne, fu scelto per l’insegnamento presso il seminario di Cherasco, in provincia di Cuneo, un collegio per famiglie
della borghesia e dell’aristocrazia, gestito dai padri Somaschi. A don Gaetano, investito del titolo di istitutore, ossia insegnante di materie letterarie, furono affidate alcune classi di convittori, studenti di scuola media. La struttura monasteriale comprendeva anche il santuario di
Santa Maria del Popolo, titolo mariano, questo, che accompagnerà sempre il genuino e sincero cammino devozionale di mons.Valente.
Tornato a Terlizzi nel 1943 a causa della guerra, si iscrisse all’Ateneo di Bari frequentando il corso universitario di Lettere classiche, iter che portò a compimento con viva passione
e serietà, senza però conseguire la laurea, per obbedienza ad una disposizione del vescovo
della sua Diocesi. Questo ostacolo rappresentò certamente una grande amarezza per il giovane
universitario Gaetano, ma la convinta vocazione religiosa gli consentì di superare questa delusione. Molto tempo dopo lo stesso vescovo, certamente pentito, ritornò sui suoi passi ma don
Gaetano, ormai votato al Signore, non ritenne più essenziale perseguire il titolo accademico.
Non ebbe problemi, invece, più tardi, nel frequentare l’Archivio di Stato di Bari dove, nel
1977, conseguì il Diploma in Archivistica, Paleografia e Diplomatica.
Ordinato sacerdote nel luglio del 1945, divenne Rettore prima della Chiesa di Sant’Igna-
NOTIZIE ED EVENTI
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zio nel 1952 e poi, nel 1970, del santuario di Santa Maria di Cesano, in agro di Terlizzi, un
complesso medioevale benedettino extramoenia del secolo XI, al quale dedicherà la sua vita
di uomo di Dio, di studioso e di amante dell’arte.
Canonico e teologo del Capitolo Cattedrale dal 1961, gli furono affidati impegnativi incarichi: dal vice-rettorato alla docenza di lettere classiche presso il Seminario regionale di
Molfetta, ove ebbe per allievo Felice di Molfetta – oggi vescovo della Diocesi di CerignolaAscoli Satriano –, dalla direzione del Terz’Ordine Francescano alla guida spirituale della Fuci
e dell’AIMC. Per lungo tempo, inoltre, ebbe la cattedra di religione nella Scuola Media Statale e nella Scuola Magistrale di Terlizzi.
I suoi numerosi impegni di ecclesiastico si conciliarono egregiamente con gli studi storiografici che sin da giovane egli predilesse, in una prospettiva locale e regionale non avulsa però
dal contesto nazionale ed europeo. Questo impegno gli valse, su invito, l’entrata come socio ordinario nella Società di Storia Patria per la Puglia oltreché la collaborazione con numerose riviste tra cui Archivio Storico Pugliese, Studi Bitontini, Scienze Religiose, Luce e Vita.
Fu un instancabile divulgatore, ricercatore illuminato, difensore e conoscitore attento della
storia locale e regionale: lo dimostra la sua ricchissima produzione libraria che annovera più
di trenta grandi opere, oltre ad articoli, contributi in convegni di studio, interventi, relazioni.
Il monumentale Feudalesimo e Feudatari in sette secoli di storia di un comune pugliese
(Terlizzi 1076-1779), è uno studio articolato in sei volumi che abbraccia in modo puntuale e
documentato circa sei secoli corrispondenti ai periodi della storia di Terlizzi messa in stretta
relazione con quella dei comuni viciniori e dell’intero Regno meridionale.
Dalla sua particolare attenzione alla storia ecclesiale del territorio nascono varie opere tra
le quali si ricordano: Le questioni giurisdizionali tra gli arcipreti di Terlizzi e i vescovi di Giovinazzo - Documenti inediti (secoli XI-XV); Pagine di storia terlizzese. La chiesa e confraternita di Sant’Ignazio; L’icona di Ciurcitano; Cronotassi e araldica dei vescovi e degli
arcipreti prelati di Terlizzi (secoli XI-XX); Terlizzi: La Chiesa, le chiese.
Con l’amico Angelo D’Ambrosio ha pubblicato il saggio Per una storia dell’alimentazione in Puglia. Terlizzi e dintorni tra gola, clausura e magia.
Appassionato studioso di Federico II, ha contribuito a delineare aspetti inediti sulla cultura e sulla politica dell’età sveva, animando o promuovendo convegni nei quali sempre particolare attenzione è stata dedicata alla sua città natale (si ricordi il contributo Terlizzi nell’età
di Federico II in Atti delle Seste Giornata Federiciane; I casali medievali di Terlizzi in Studi
bitontini, 68; La resistenza agli Svevi in Terra di Bari).
La sua profonda cultura e la sua umanità gli valsero l’amicizia e la stima di grandi figure
del mondo aristocratico, ecclesiastico, letterario e artistico: ricordiamo S.A.S. il Principe di
Montecarlo Alberto Grimaldi (i Grimaldi sono stati feudatari del contado di Terlizzi nel XVI
secolo); i vescovi Donato Negro, Luigi Martella e Felice di Molfetta; gli accademici e gli studiosi quali Cosimo Damiano Fonseca, Pasquale Corsi, Gianfranco Liberati, Angelo Massafra,
Lorenzo Palumbo, Giuseppe Poli, Mario Spedicato, Luigi De Palma, Giuseppe Dibenedetto,
Francesco Maria De Robertis, Cosimo D’Angela, un cenacolo di menti elevate, nel quale egli
si trovava a suo agio e dal quale riceveva vivi consensi al suo instancabile lavoro. Ma gli
erano accanto anche rappresentanti ed esponenti locali delle istituzioni, delle associazioni cultuali e culturali, operai e contadini, tutti i concittadini terlizzesi orgogliosi di avere per amico
e compaesano il ‘grande’ e umile don Gaetano.
L’amore per il suo paese natìo emergeva anche nel concreto legame con le tradizioni della
civiltà contadina, che egli traduceva nella passione per la lavorazione dei prodotti agricoli. Don
Gaetano curava personalmente la vinificazione e ricavava un pregiato vino filtrato che, imbottigliato, donava, unitamente all’ultima pubblicazione, ai tanti amici e studiosi che, gene-
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NOTIZIE ED EVENTI
ralmente da aprile ad ottobre, riceveva con calorosa
ospitalità nel suo villino di
campagna.
La sua presenza operosa
nel contesto cittadino, il suo
fervore letterario, il profondo attaccamento al suo
territorio, il suo senso civico
profuso nella ricerca instancabile, gli valsero riconoscimenti prestigiosi: il titolo
onorifico di Cappellano di
Sua Santità da Papa Giovanni Paolo II; la Medaglia
di Benemerito della Scuola,
della Cultura, dell’Arte Presidente della Repubblica
1994, su proposta del Ministero dei Beni Culturali; il
Premio di cultura e medaglia d’argento dall’Accademia Nazionale dei Lincei; il
Premio di cultura Presidenza
del Consiglio dei Ministri
nel 1982; il Premio Letterario Presidenza del Consiglio
dei Ministri nel 1987; l’Europremio di cultura Renoir Regione Puglia nel 1988; il
Premio Nazionale Valle dei
Trulli - Premio Speciale per
la Saggistica, XVIII edizione
nel 2000, con il saggio
Terlizzi, Santuario di Cesano, 28 ottobre 2012. Nell’ultima domenica
storico Tu scendi dalle
di ottobre, a conclusione delle celebrazioni liturgiche annuali, per
stelle: dalla ‘pastorella’ tervolontà di mons. Gaetano Valente si festeggia anche la ‘Sagra del
Melograno’, giunta ormai alla VII edizione.
lizzese alla canzoncina di
Sant’Alfonso de Liguori; il
Premio Altamura nel 1975; il Premio Città di Terlizzi ‘per benemerenze culturali’ nel 1990;
la Medaglia d’oro per gli alti meriti culturali conferita dall’Amministrazione comunale di
Terlizzi in occasione della presentazione del VI e ultimo volume della raccolta Feudalesimo
e Feudatari nel 2004; il Premio ‘Dario Prisciandaro’ per la saggistica storica nel 2005.
A dispetto degli anni e di qualche malevolo, proseguì il suo cammino non risparmiandosi
nel suo amore per la verità, il senso civico, la responsabilità. Tutti ricordano l’impegno da lui
profuso nel Comitato cittadino istituito dal Consiglio Comunale di Terlizzi, in seguito all’incendio sacrilego del Carro Trionfale della Madonna di Sovereto nell’agosto del 1991: in quella
situazione difficile la città, a furor di popolo, affidò a lui e ai suoi amici Michele Gargano e
Angelo D’Ambrosio la speranza, la fede, l’orgoglio cittadino, valori che Don Gaetano seppe
NOTIZIE ED EVENTI
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tesaurizzare pervenendo, con la sua caparbietà e la sua capacità di coinvolgimento e aggregazione, alla costruzione del nuovo carro, simbolo indiscusso di una città operosa e dalle forti
tradizioni.
Fu proprio quest’ultima esperienza che lo portò a concentrare le forze «residue ma ancora
vigorose» (come soleva dirmi) nell’istituzione del Comitato ‘Pro Cesano’, un gruppo di volenterosi con i quali egli riuscì a salvare, dall’incuria del tempo e dalla ignavia storica, un
bene millenario, di grande rilevanza storica, artistica e religiosa qual è il complesso monastico
benedettino della Madonna del Popolo. Di questa impresa ardua e poderosa, realizzata grazie
alla compartecipazione delle istituzioni ecclesiastiche e civili, lasciò traccia nel suo ultimo
impegno storiografico Cesano tra storia e arte, culto e cultura.
È stato questo, simbolicamente, il suo commiato dalla sua amata Terlizzi e dai suoi ‘figli’
che in lui riconobbero sempre il pater patriae: un bene lasciato in testamento alle generazioni
future che certamente sapranno leggere il grande patrimonio di affetti e di valori dei loro padri.
E la nobiltà d’animo del vero pater e la profonda devozione per la Madonna prorompono
dallo stesso pensiero di Don Gaetano riportato nella bandella di copertina dell’ultima pubblicazione «priva del consueto corredo di note critiche e di commento, preferendo alla rigida incastellatura scientifica un percorso più semplice e lineare per consentire ad un pubblico più
vasto l’approccio immediato alla scoperta dei pregnanti valori di storia, di fede e di arte».
Mons. Gaetano Valente, uomo giusto, si spegne all’inizio di questo turbinoso anno 2013,
suscitando incredulità nella cittadinanza la quale, per l’affetto e il profondo rispetto della sua
autorevole e operosa presenza, voleva credere che egli fosse refrattario al tempo caduco e alla
mortalità umana.
Il solenne funerale è stato celebrato il 21 gennaio nella Cattedrale di Terlizzi, apparsa da
subito inadeguata per accogliere la moltitudine di persone che ha accompagnato don Gaetano
Valente dalla chiesa di Sant’Ignazio, presso la quale è stato parroco per oltre un cinquantennio. S. E. Luigi Martella, vescovo di Molfetta-Ruvo-Giovinazzo-Terlizzi nell’appassionata
omelia ha evidenziato la fede e la grande capacità di mons. Gaetano Valente nell’aver saputo
far tesoro del vasto patrimonio archivistico della Chiesa di Terlizzi, ribadendo che «fu anche
un devoto candido e semplice della Madonna e della Madonna di Sovereto» e, riferendosi a
Cesano, che «ha reso vivo e godibile quel sito tanto antico e prima ancora ne ha illustrato
l’importanza storica, artistica e religiosa e la ricerca della verità dei fatti storici come desiderio di vita piena».
L’omaggio, nella sua compostezza e forte partecipazione, ha fermato per poco la vita della
città, stretta, commossa, intorno al suo vescovo, ai suoi sacerdoti, alle istituzioni comunali e
regionali, per un grato pensiero a Dio che in mons. Gaetano Valente volle una Sua presenza
di fede, di amore e di speranza.
Il successivo rito funebre nella chiesa della Madonna delle Grazie prima della tumulazione, è stato celebrato da S. E. Felice di Molfetta, vescovo di Cerignola-Ascoli Satriano che
con profonda commozione ne ha ricordato la grande umiltà e l’immensa generosità. Per il
contributo cultuale e culturale offerto da don Gaetano alla società, si riporta il pensiero relativo a Cesano dell’amico Presule: «Se per un verso ci fa rivolgere lo sguardo indietro nel passato con la sua straordinaria ricchezza di cultura e di spiritualità, dall’altro diventa severo
monito a custodire questo scrigno di fede e di cultura perché l’energia dello Spirito racchiusa
per secoli nei conci dell’austera bellezza monumentale, investa le nuove generazioni».
Il nostro auspicio è che il Santuario della Madonna del Popolo di Cesano, ritornato a nuova
vita, possa accogliere nel proprio grembo le spoglie mortali del suo prediletto figlio don Gaetano e custodirle per l’Ultimo giorno.
Damiano Pasculli
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NOTIZIE ED EVENTI
La Puglia nel ’500: dalla pittura veneta al Manierismo.
Mostre Tiziano, Bordon e gli Acquaviva d’Aragona
e La Puglia, il Manierismo e la Controriforma
(15 dicembre 2012 - 8 aprile 2013)
La doppia mostra Tiziano, Bordon e gli Acquaviva d’Aragona e La Puglia il Manierismo
e la Controriforma ospitata dal 15 dicembre 2012 all’8 aprile 2013 presso la Galleria Nazionale di Puglia ‘Girolamo e Rosaria Devanna’, ha soddisfatto le aspettative di specialisti del
settore e amanti d’arte pugliese. L’intera esposizione, curata da Andrea Donati, Nuccia Barbone Pugliese, Lionello Puppi, è stata finanziata dal Fondo Europeo di Sviluppo Regionale,
patrocinata dall’Assessorato al Mediterraneo, Cultura e Turismo della regione Puglia e promossa dalla Direzione Regionale per i Beni Culturali e Paesaggistici della Puglia, dalla Soprintendenza per i Beni Storici, Artistici ed Etnoantropologici della Puglia, dalla Galleria
Nazionale della Puglia e dall’Assessorato alla Cultura del Comune di Bitonto.
Con questa rassegna, che ha visto protagonisti numerosi dipinti inediti di collezioni private,
la Puglia ha finalmente ottenuto un riconoscimento meritato nell’ambito della pittura del ‘500.
Narrata essenzialmente per le sue ricchezze romaniche e barocche, la nostra Terra, con
questo percorso espositivo, ha visto finalmente colmare un vuoto: la pittura rinascimentale,
non indagata a sufficienza e considerata fanalino di coda del percorso artistico pugliese, ha acquisito una sua precisa identità per origini, forme ed esiti.
Le due mostre, che costituivano un unicum di un solo percorso, tuttavia ben distinto, hanno
indagato, nello specifico, l’una la presenza incisiva, ma mai ingombrante, degli artisti veneti
in Puglia (Antonio e Bartolomeo Vivarini, Palma il Giovane, Lorenzo Lotto, il Pordenone) e
la relazione tra Tiziano, il suo allievo Paris Bordon e gli Acquaviva D’Aragona; l’altra ha tentato di raccontare le complesse vicende storiche, sociali e culturali che nell’arco di un secolo
hanno visto l’affermazione della cultura manieristica in Puglia e le nuove istanze estetiche
legate alla Controriforma cattolica.
Protagonisti assoluti della scena meridionale gli Acquaviva d’Aragona, duchi di Atri, marchesi di Bitonto nonché conti di Conversano, in seguito alla sconfitta nella guerra di Napoli
del 1528, furono costretti all’esilio in Francia in quanto feudatari di Francesco I. Banditi dal
Regno di Napoli, dunque, tentarono più volte di rientrare in patria e lo fecero per lo più attraverso Venezia, faro di libertà perché rimasta estranea alle lotte politiche che si consumavano
nella Penisola. È così i ‘fuoriusciti’ napoletani intrattennero diversi rapporti con la Serenissima
nella quale, dal punto di vista squisitamente artistico, erano state elaborate forme e linguaggi
originali rispetto agli altri centri del Rinascimento in Italia.
A Venezia, infatti, Gian Francesco I d’Acquaviva Aragona commissionò a Tiziano il proprio ritratto e a Paris Bordon quello di suo padre Giulio Antonio II, primo dei membri dell’antica casata baronale esiliato in Francia da Carlo V. Quest’ultima opera, appartenente a una collezione privata inglese, ha costituito la punta di diamante dell’intera esposizione veneta a Bitonto. Il ritratto, per lungo tempo attribuito alla mano del Vecellio, è stato riportato alla piena
leggibilità grazie ad un recente restauro che ha permesso ai curatori della mostra di riconoscervi –
grazie ad un’iscrizione che mette in luce finanche gli estremi biografici di Giulio Antonio II –
un autentico lavoro di Bordon. Il ritratto in esame, per la prima volta esposto al pubblico, costituisce soltanto lo specchio di un fenomeno crescente nella Puglia del ‘500. La ricognizione
dei dipinti veneti nella nostra regione dimostra che la Puglia, soprattutto sulla costa adriatica,
per ovvî motivi commerciali, di egemonia marittima e religiosa (basti pensare al culto di san
NOTIZIE ED EVENTI
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Nicola), era profondamente
legata a Venezia, quasi da costituirne, da un punto di vista
figurativo, una sub regione
culturale, per cui nessuno
dei centri strategici pugliesi
mancò di procurarsi un’opera d’arte che provenisse dalla Serenissima. All’interno di
questa ambiziosa ricostruzione della ‘rinascenza’ pugliese, vanno segnalati numerosi altri temi – e percorsi didascalico-didattici – che
la mostra ha consentito di sviluppare e approfondire.
In primo luogo l’analisi
delle opere e della loro ubicazione originaria ha consentito la ricostruzione degli
intermediari tra le istituzioni cittadine, civili o ecclesiastiche (i committenti)
e gli artisti veneti (gli autori). È il caso del Cristo
Pietoso di Lorenzo Lotto
che costituiva la cimasa del
polittico di San Felice realizzato nel 1542 per l’omonima chiesa di Giovinazzo
(oggi in san Domenico), di
cui sono andati perduti gli
scomparti laterali; commitLocandina della mostra Tiziano, Bordon e gli Acquaviva d’Aragona.
tente un commerciante barlettano di origini spagnole,
operante sull’intera costa adriatica, Alvise Catalan, che mediò tra la cittadina barese e il noto
pittore.
O ancora la Natività di Girolamo Savoldo, conservata presso la chiesa di Santa Maria la
Nova a Terlizzi, per la quale a mediare furono i Grimaldi di Monaco, conti di Terlizzi.
Un secondo filone è quello delle tecniche e dei supporti pittorici: si scopre un uso – a torto
poco indagato sia per errata declassazione di tali opere a meri esercizi, sia per l’ovvia deperibilità del supporto – del dipinto a olio su carta. Probabilmente privilegiata per consentire una
più facile ‘archiviazione’ di prototipi per gli allievi, questa tecnica vede nella bottega di Tiziano il suo più convinto esecutore. Ne sono esempi gli straordinari bozzetti di Tiziano che raffigurano L’Angelo e Tobia: si tratta di studi propedeutici alla pala d’altare della chiesa di san
Marziale a Venezia. Stesso discorso per un altro bozzetto, quello della Visitazione di Sebastiano del Piombo, modello per l’omonima opera conservata al Louvre di Parigi.
Terzo punto di forza della mostra, lo scioglimento di alcuni dubbi circa l’attribuzione di
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alcune opere della collezione ‘Devanna’ in mostra permanente: è il caso della Maddalena penitente, finora attribuita al Veronese, e da Andrea Donati identificata ormai con certezza come
opera di Damiano Mazza.
La seconda parte del percorso espositivo, come già accennato, si snodava tra opere provenienti da oratori e chiese di Puglia che vogliono raccontare l’apice della pittura sacra tra Manierismo e arte della Controriforma. Simultaneamente essa si esponeva alla Galleria Devanna
di Bitonto e a San Francesco della Scarpa di Lecce: l’allestimento bitontino, custodendo tra
le altre anche opere salentine, voleva già introdurre il pubblico alla visita da continuarsi a
Lecce. Lo scambio, infatti, ha consentito di mettere in relazione episodi e fatti artistici della
Puglia, individuando personalità e soprattutto dinamiche di sviluppo delle nuove correnti figurative fortemente ripensate alla luce delle indicazioni tridentine. L’ingombrante eredità che
i grandi maestri dell’arte, Michelangelo e Raffaello in primis, avevano lasciato insieme al fervore sperimentale degli artisti della ‘diaspora’ è stata chiaramente ravvisabile in numerosi dipinti di maniera: l’Adorazione dei pastori di Marco Pino, significativo tramite del manierismo
pugliese, l’Adorazione dei Magi del fiammingo Gaspar Hovic, le numerose rappresentazioni
della Madonna del Rosario, gloria dell’ordine dei Padri Predicatori Domenicani che grande
impulso ebbe in questo momento storico per la Chiesa così come l’Immacolata Concezione
tanto cara all’ordine francescano.
Ma la controriforma non è solo arte dipinta ma anche arte ‘preziosa’ come l’oreficeria,
malgrado per lungo tempo essa stessa sia stata ritenuta tra le minori dal sistema delle arti.
Tra gli oggetti di uso liturgico in mostra, una pace in argento con Madonna in trono, una
saliera in avorio con decorazioni di foggia orientale, una meravigliosa croce astile in metallo
dorato e argentato proveniente dalla cattedrale di Altamura che si presentava double face con
un Cristo doloroso sul recto e sul verso, in coerenza con la committenza francescana, l’Alter
Christus Francesco d’Assisi. Tutto quanto esposto testimonia l’evoluzione della cultura manieristica in Puglia esattamente un attimo prima che si diffondesse il nuovo linguaggio figurativo di marca caravaggesca e quindi barocca che avrebbe infiammato il mondo dell’arte di
lì a poco.
Valentina Giovanna Lucatuorto
Bitonto di luce e ombra Mostra
(14 dicembre 2012 - 8 gennaio 2013)
Bitonto, di luce e d’ombra è il nome della mostra fotografica realizzata e curata da Nicola
Bastiani e inaugurata venerdì 14 dicembre 2012, alle Officine Culturali di Bitonto. La mostra
ha proposto 16 scatti su Bitonto, per la precisione fotografie in bianco/nero, realizzate su pellicola e stampate in camera oscura dallo stesso fotografo su carta baritata Bergger semi mat.
La magia dello sviluppo e stampa in camera oscura conferiscono alle foto – e in particolare a
quelle di Bastiani – un particolare fascino, una certa suggestiva ricercatezza, oltre che una
netta tridimensionalità. Attraverso questa tecnica Nicola Bastiani, che ha già all’attivo diverse
pubblicazioni fotografiche sui beni artistici e storici di Bitonto in collaborazione con il Centro Ricerche di Storia e Arte-Bitonto e con le Officine Culturali, ha evidenziato scorci e aspetti
della città di Bitonto assolutamente inediti.
In uno alla mostra è stato presentato il calendario delle Officine Culturali, con lo stesso titolo della mostra, realizzato in collaborazione tra le Officine Culturali e CNN, il marchio che
indica il raggruppamento di più negozi e piccole attività commerciali del centro storico e del
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borgo nuovo, nato con l’obiettivo di rilanciare l’economia cittadina, valorizzando l’economia
del vicinato, la territorialità e le specificità locali. Il CCN promuove e supporta tutte le attività di valorizzazione del proprio territorio, anche in chiave turistica, favorendo la conoscenza
e l’amore per il patrimonio storico-artistico della città, attraverso pubblicazioni editoriali di
cui il calendario è stato il primo esempio.
Il giorno dell’inaugurazione della mostra erano presenti, oltre al fotografo Bastiani, il prof.
Nicola Pice e il fotografo Gaetano Loporto. Quello che riportiamo è l’intervento tenuto da Nicola Pice cui seguono i dodici scatti scelti per il calendario.
Chiara Cannito
Le foto di Nicola Bastiani sono foto che percorrono e raccontano luoghi che sembrano
aver perso ogni riconoscibilità e ti fanno scoprire emozioni lungo le strade della storia di Bitonto o lungo la traiettoria dell’io che è chiamato a scoprire una sospensione del tempo, una
sedimentazione dello sguardo, una immobilità dell’immagine, si tratti del rosone della facciata
principale della Cattedrale o della luce che si riflette sulla trifora della navata centrale, o si tratti
del campanile a vela della badia di san Leone Magno. Ogni foto sollecita la valutazione di un
tempo storico trascorso, un intreccio di rapporti relazionali e di legami umani, di abitudini e
di valori, sia dentro un luogo di identità privata (la dimora patrizia di Palombaio, il giardino
pensile di palazzo Bove) sia dentro un luogo di identità collettiva (la piazza Roma di Mariotto). Oppure uno spazio e un luogo da amare, da vivere, da comunicare, da condividere, da
vedere, come la corte e la loggia interna di palazzo Regna. Vedere come un teatro. Perché
ogni aspetto che l’obiettivo fotografico coglie ha un qualcosa da raccontare, ha un quid celato
da svelare. E la città si di-svela come una sorta di Itaca da non perdere, anzi, sotto un gioco
di luce e ombra, aspetti direi irrinunciabili e incomparabili anche rispetto all’isola di Calipso.
La foto lascia così riscoprire il senso e l’anima della città, e ti senti come spronato ad imparare a credere in essa, ad entrare nella sua anima, ad attraversare le sue strade, a cogliere le
istanze dei suoi tempi diversi che si rivelano capaci di incrociarsi e di rimandarsi nel tempo
e attraverso il tempo. Sei spinto ad imparare a cercala e a trovarla con te, se non addirittura
dentro di te.
Osservatore discreto e attento Nicola Bastiani posa il suo sguardo con straordinaria capacità creativa ed evocativa su forme di cui ritrae l’essenza, su tracce e segni luministicamente
reinventati e come sospesi in un gioco leggero di processualità simbolica o di vibrazione dell’anima. Penso all’anello in ferro per legare i cavalli di Corte de Ilderis, alla figura angelicata
dell’acquasantiera della Cattedrale. E sono cose che parlano di noi, che esprimono sensazioni
di profumi e di respiro di spazi. Magari si fanno metafora o sottolineano una dimensione
umana: penso alla metafora-albero d’ulivo col suo fusto secolare, allo specchio che riflette un
angolo di una stanza del Museo della civiltà contadina col suo carico fascinoso di memorie e
tradizioni perdute e che invece non possono andare disperse.
La foto crea l’incanto, oltre che per la magia naturale di ciò che si riproduce, soprattutto
per la natura della luce e dell’ombra, o meglio per il gioco che fanno la luce e l’ombra. Dal
contrasto e dall’incertezza del chiaroscuro si definiscono le forme con la pienezza di statue
vive. Luce-ombra. Ombra di luce. Ombra che non fa ombra, che assume l’aspetto di essenza
primordiale e che nobilita gli spazi con la intermittenza di oscurità.
Eppure ciò che ancor più impressiona in queste foto è il silenzio che le abita nella proiezione visiva di chi le ha fermate con l’obiettivo. Emblematica in tal senso la foto della Corte
del silenzio del centro storico. Silenzio e Tempo sembrano, per così dire, associati come a
voler esprimere i particolari modi di vivere l’interiorità e il primato dell’Io. La foto appare
216
NOTIZIE ED EVENTI
sempre alonata di silenzio, come se il silenzio fosse ritenuto un elemento indispensabile per
saturare di significato ogni immagine ritratta. Questo fa sì che ci sia un qualcosa di intimamente nostalgico, un simbolo, un ricordo, una promessa, un sottile legame silenzioso fra passato e futuro in un presente di rottura.
L’oggetto o lo spazio fotografato si fa testimonianza muta, ma si traduce in simbolo che
si associa nella sua valenza silenziosa alla metafora: ponte non più fra persone nel tempo, ma
fra espressioni che diventano visioni, immagini che entrano nei significati. Per i Latini silere
e tacere erano due aspetti del silenzio che potevano interagire tra loro, ma distinguibili. Silere
è affermazione del silenzio, mentre tacere è negazione del suono. Al silere si collega la mistica, l’arte intesa come poesia, pittura, musica, architettura, creatività, inconscio, natura; al
tacere viene associata la volontà del singolo individuo, l’equilibrio, la saggezza, la prudenza,
la paura.
Silere ovvero la calma delle cose, tacere ovvero la ‘cessazione del parlare’.
Il silenzio è dunque spazio di ascolto, è liberatorio, è fuga dalle troppe parole che confondono il nostro essere, è vocazione di chiarezza: ma, a ben pensarci, non sono questi gli
aspetti più immediati della personalità di Nicola Bastiani? Lui che ricerca ogni eliminazione
della sovrabbondanza, del rumore conseguente, e per questo si predispone all’ascolto come
liberato dalla nevrosi. E forse è anche in questo il senso e il fascino delle sue foto che si compiacciono di indugiare su scorci precisi per cercarne l’essenza e riavviare con essi una conversazione con la memoria e con il ricordo di ciò che fu e, in quanto fu, è ancora. Meglio se
immerso in una sorta di fiabesco e di fantasmagorico che spiega l’aria di inquietante tranquillità che lo abita. In fondo il suo non è che un viaggio negli enigmi dello sguardo, ovvero
una piccola smagliatura sulla superficie delle cose, dei paesaggi che abitiamo e viviamo, proprio come diceva Luigi Ghirri, quel Ghirri che soleva spesso citare queste parole di Giordano
Bruno «Le immagini sono enigmi che si risolvono col cuore». E qui ci siamo.
Nicola Pice
Le foto delle pagine successive sono di Nicola Bastiani.
Centro storico di Bitonto, Cattedrale: rosone della
facciata principale.
Centro storico di Bitonto, Corte del silenzio.
Centro storico di Bitonto, Corte de Ilderis: anello
in ferro per legare i cavalli.
Centro storico di Bitonto, Palazzo de Ferraris Regna: corte e loggia interna.
Centro storico di Bitonto, Palazzo Bove: giardino
pensile.
Centro storico di Bitonto, Cattedrale: dettaglio di
acquasantiera.
Palombaio: dimora privata.
Mariotto: Piazza Roma.
Bitonto, Badia di san Leone Magno: campanile a
vela.
Centro storico di Bitonto, sede del Centro Ricerche: Museo della civiltà contadina e delle tradizioni popolari.
Contado di Bitonto: fusto di ulivo secolare.
Centro storico di Bitonto, Cattedrale: navata centrale.
ABSTRACTS/SOMMARI
Carmelo Cipriani - Percorsi di vita e arte: Francesco Saverio Altamura e i pittori risorgimentali
di Capitanata
Motivazioni ed esiti di questo contributo di Carmelo Cipriani sono sintetizzati nell’incipit all’interno
del quale si fa riferimento al primo evento che intese rivalutare il pittore Francesco Saverio Altamura
insieme ad «un gruppo di pittori pugliesi dell’Ottocento che nell’arte italiana hanno avuto funzione
di protagonisti». I prescelti furono Francesco Netti, Giuseppe De Nittis, Gioacchino Toma e lo stesso
Altamura, artisti che, pur se nati in aree geografiche differenti, furono accomunati dal contesto
storico – l’Ottocento del Risorgimento, dei Macchiaioli, del Romanticismo – e da una notevole
significatività della produzione artistica cui ognuno di loro approdò.
Il saggio presenta studi e ricerche inedite sul pittore Francesco Saverio Altamura e sulle relazioni con
i suoi contemporanei presentati dallo studioso Cipriani nell’ambito del convegno Mezzogiorno e
Costituzione dello Stato Unitario. I linguaggi risorgimentali per la Nazione organizzato
dall’Università del Salento.
Reasons and results of Carmelo Cipriani’s contribute are synthesized in the incipit where it’s
indicated the first event that wants to re-value the painter Francesco Saverio Altamura with «a
group of Apulian painters of ‘Ottocento’ which were principal characters in Italian art». The selected
artists were Francesco Netti, Giuseppe De Nittis, Gioacchino Toma and the same Altamura, artists
which, even if born in different geographic areas, lived in the same historical contest – the
‘Ottocento’ of Risorgimento, of Macchiaoli’s style, of Romantic movement – and arrived, each
differently by others, to significant and original artistic production.
The essay presents unpublished studies and researches on the painter Francesco Saverio Altamura
and on the relationships among him and his colleagues, presented by Carmelo Cipriani during the
conference South Italy and constitution of United State. Risorgimento’s languages for the Nation,
organized from University of Salento.
Liliana Tangorra - L’iconologia del mito: l’eroe dei due mondi nel manifesto del film di
Alessandro Blasetti 1860. I Mille di Garibaldi
I festeggiamenti per il centocinquantenario dell’Unità d’Italia hanno portato ad una serie di ricerche
in campo socio-politico, culturale e artistico che hanno confermato la supremazia del ruolo di
Giuseppe Garibaldi tra i protagonisti del Risorgimento Italiano. Questo contributo parte da una
recensione realizzata per la mostra Cinema 150 anni. Mostra manifesti cinematografici d’epoca sul
Risorgimento a cura dell’Area Politiche per la promozione del Territorio, dei Saperi e dei Talenti Servizio Cultura e Spettacolo della Mediateca Regionale di Bari, per poi sviluppare un’analisi
iconologica del ‘mito di Garibaldi’ partendo dallo studio del ritratto presente sul manifesto del film
di Alessandro Blasetti 1860. I mille di Garibaldi.
The sesquicentennial celebrations for the Unification of Italy led to a series of research in the sociopolitical, cultural and artistic fields, which confirmed the supremacy of the role of Giuseppe
Garibaldi, one of the leaders of the Italian ‘Risorgimento’. This study starts with a review made for
the exhibition Cinema 150 anni. Mostra manifesti cinematografici d’epoca sul Risorgimento, edited
by the Department of Policies for the Promotion of Land, Knowledge and Talent – Culture Service
and Entertainment of the Regional Media Library in Bari and then develops an iconologic analysis
222
ABSTRACTS
of ‘the Myth of Garibaldi’ starting from the study of his portrait on the poster of 1860.The thousands
of Garibaldi, a film by Alessandro Blasetti.
Carmela Minenna, L’istruzione pubblica e il movimento risorgimentale. La proposta del Liceo
Classico di Bitonto
Il Risorgimento non è stata una rivoluzione armata, ma una rivoluzione delle coscienze.
Il contributo intende proporre un’analisi territoriale sul grado d’istruzione e sul peso culturale di
personaggi come Luigi Della Noce, Domenico Urbano e Vincenzo Rogadeo, responsabili della
diffusione dell’istruzione a Bitonto, paradigma, all’epoca, di ideale socio-politico, nonché veicolo
di conquista di una virtus sapienziale che poteva rendere l’uomo libero, prima ancora che cittadino.
L’analisi di alcuni documenti d’archivio palesano quanto l’ideale di libertà interiore, proprio a
Bitonto, sembrò precedere la conquista della libertà territoriale e politica prima e durante il periodo
risorgimentale.
‘Risorgimento’ was not an armed revolution, but a revolution of conscience. This contribution is
intended to make an analysis of the territorial level of education and the cultural weight of people
such as Luigi Della Noce, Domenico Urbano and Vincenzo Rogadeo who spread education in
Bitonto. At that time education was paradigm of social and political ideal, as well as a vehicle to
achieve the wisdom that can make men free, even before to be a citizen. The analysis of some archival
documents reveal how the ideal of inner freedom, here in Bitonto, seemed to precede the conquest
of the territorial and political freedom before and during the period of the ‘Risorgimento’.
Custode Silvio Fioriello, Anna Mangiatordi, Coltura e cultura dell’olio d’oliva a Bitonto. Per un
progetto di ricerca e di valorizzazione
L’edizione della esposizione didattica ELAION OLEVM OLIO. Coltura e cultura dell’olio d’oliva
in età romana (Andria, chiostro di San Francesco, 15 e 16 marzo 2012) ha offerto l’occasione per
una riflessione sull’importanza dello studio della cultura e coltura dell’ulivo e dell’olio in Puglia e
quindi sulla definizione di una articolata proposta progettuale, di profilo storico-archeologico,
connessa allo studio della produzione, commercializzazione e utilizzazione dell’olio d’oliva in età
antica in ambito apulo, anche con finalità di ottimale gestione del paesaggio e di sostegno del turismo
culturale sostenibile.
The edition of didactic exhibition ELAION OLEVM OLIO. Coltura e cultura dell’olio d’oliva in età
romana (Andria, courtyard of the church of ‘San Francesco’, March 15th and 16th 2012) represented
an opportunity to figure out the importance of the culture and cultivation of the olive tree here in
Apulia, and may represent the chance to propose a historical and archaeological project to analyse
olive oil production, commercialisation and its uses locally and during ancient ages. This project may
support local landscape management and cultural sustainable tourism.
Simona Maffei - La Resurrezione di Lazzaro in Puglia tra XI e XV secolo
Il contributo esamina l’iconografia della Resurrezione di Lazzaro in Puglia tra XI e XV secolo. Nella
regione, l’episodio fu raffigurato secondo le molte versioni che documentano la popolarità della
scena nei programmi iconografici medievali.
The essay investigates the iconography of Lazarus’s Resurrection in Apulia between the 11th and the
15th century. In the region, the episode was depicted according to the many versions that confirm
the popularity of this scene in the Medieval iconography.
ABSTRACTS
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Leonardo Evangelista, La chiesa del Santissimo Crocifisso a Bitonto
La chiesa del Santissimo Crocifisso a Bitonto fu costruita nel 1663 là dove sorgeva la vecchia
cappella del Rapestingo, della quale conserva un affresco raffigurante il Crocifisso. Progettata e
affrescata dal pittore Carlo Rosa, la chiesa è un importante simbolo della fede e del culto locale.
Nella sacrestia c’è un interessante affresco che riproduce la vecchia cappella del Rapestingo così
come doveva presentarsi, adorna di offerte votive. Questo affresco, la sola immagine superstite del
luogo di culto, è l’oggetto di studio del contributo.
The ‘Santissimo Crocifisso’ church, located in Bitonto, was built in 1663 and shows a fresco of the
Crucifix, previously placed at the ancient ‘Rapestingo’ chapel, replaced by the present church.
Designed and painted by Carlo Rosa, the church is an important landmark for the local faith. In the
sacristy there is an interesting anonymous fresco depicting the ancient ‘Rapestingo shrine’, how it
appeared, adorned with votive offerings. This work, the only remaining image of the shrine, is the
object of the study of the contribute.
Girolamo Fallacara, Nicola Parisi, Evoluzione delle aree sinaptiche della città tra nucleo antico
ed espansione moderna. Piazza Aldo Moro e piazza Guglielmo Marconi a Bitonto.
Il saggio mira al racconto dell’evoluzione formale documentata di uno degli spazi più importanti
della città di Bitonto.
Dapprima ingresso della città, poi cerniera di connessione tra tessuti storici e nuove espansioni,
l’area di Piazza Moro e Piazza Marconi, presso la Porta Baresana, è stata protagonista di evoluzioni
importanti che l’hanno condotta sino alla conformazione attuale che tutti conoscono.
The paper aims to study the formal evolution of the main urban space of Bitonto using the historical
documentation; it’s the area including Piazza G. Marconi and Piazza A. Moro.
At first, it was gateway to the city, then urban connection between old city and the nineteenth-century
neighborhoods.
The work shows the development of this urban area up to the present
Marisa Fiore, Cancelli, fontane, portali. Su una mostra di disegni
Il contributo di Marisa Fiore racconta la storia della Scuola Comunale di Disegno, gloriosa istituzione
bitontina fondata da Vincenzo Rogadeo e diretta, dal 1871 al 1905, dal pittore Francesco Spinelli.
La mostra dei disegni degli allievi della Scuola ospitata durante la Settimana della Cultura 2012
presso il Museo archeologico di Bitonto diventa occasione per analizzare la missione di questa
scuola – fornire gli strumenti per facilitare l’accesso al mondo del lavoro –, le diverse teorie in merito
alla didattica – tra Gennaro Somma scettico sull’utilità dello studio della figura e lo Spinelli, al
contrario, suo forte sostenitore –, la posizione di Enti comunali e, parallelamente, della politica
nazionale che, nel finanziare la scuola, evidenziavano la volontà di supporto delle attività artigianali
e degli antichi mestieri della società meridionale (fabbri, intagliatori, ebanisti, scalpellini, sarti, ecc.).
Il tutto è supportato da una valida e dettagliata ricerca archivistica.
Marisa Fiore’s contribute tells the history of Municipal Drawing School, glorious institution in
Bitonto founded by Vincenzo Rogadeo and directed, since 1871 to 1905, bythe painter Francesco
Spinelli.
The exhibition of students’ drawings, shown at ‘Museo Archeologico’ during the Culture Week 2012,
gives the opportunity to analyze the School’s target – to provide skills to the students in order to
224
ABSTRACTS
enter the world of work – and its different didactic theories – between the skepticism of Gennaro
Somma about studies on human figure and, on the contrary, Spinelli, a strong supporter of them –
. Furthermore, the analysis may involve the role played by Municipal institutions and the national
policy which financed the School activities, evidence of the will to support ancient crafts of South
Italy society (blacksmith, carpenter, carver, stonemason, tailor). Everything is supported by a valid
and rich archival research.
Stefano Milillo, La stampa periodica a Bitonto in un secolo di storia
La storia dell’Unità d’Italia raccontata dalla stampa periodica bitontina: è questo l’obiettivo del
contributo di Stefano Milillo che porta alla conoscenza dei lettori la ricca emeroteca della Biblioteca
diocesana ‘A. Marena’ e, in particolare, il fondo Pasquale Martucci Zecca, donato dai suoi eredi.
Si passano così in rassegna i giornali bitontini di carattere socio-politico ma non localistico
(L’iniziatore. Giornale quotidiano, letterario, politico e sociale e Il cooperatore della Puglia, fondati
da Vincenzo Rogadeo; il filo garibaldino La rondine bitontina; il filosabaudo Il Campidoglio; i
filosocialista Avanti e La Puglia del popolo), quelli dediti alla cronaca cittadina (L’eco delle Puglie,
Il piccolo Corriere e Cronaca bitontina), quelli che si occupano di scienze e letteratura (Juvenilia)
quelli di ‘intrattenimento’ (Il martello dell’ingegno. Periodico enigmatico a premi), quelli
d’ispirazione ecclesiastica (Corriere diocesano di Ruvo-Bitonto, L’Inno). E dopo la parentesi fascista,
si torna alla dialettica culturale nel dopoguerra con Lo scudiscio e Figaro.
Stefano Milillo’s study concerns the history of the Union of Italy told by Bitonto’s press. It allows the
readers to know the newspaper library of the Diocesan Museum ‘A. Marena’ and, in addition, the
fund ‘Pasquale Martucci Zecca’, given by his successors.
Many sorts of newspapers are analyzed. Social and political ones (L’iniziatore. Giornale quotidiano,
letterario, politico e sociale and Il cooperatore della Puglia, founded by Vincenzo Rogadeo; the proGaribaldi La rondine bitontina; the pro-Savoy Il Campidoglio; tha pro-socialist Avanti and La
Puglia del popolo); those that dealt with city chronicle (L’eco delle Puglie, Il piccolo Corriere e
Cronaca bitontina); those dedicated to science and literature (Juvenilia); entertaining newspapers
(Il martello dell’ingegno. Periodico enigmatico a premi) and ecclesiastical ones (Corriere diocesano
di Ruvo-Bitonto and L’Inno). After the fascist period, during the postwar years, the cultural debate
restarts with Lo scudiscio and Figaro.
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93_94, 2012 - Centro Ricerche di Storia e Arte