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MILANO
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UORI DALLE FINESTRE al sesto piano della casa
di Gillo Dorfles — pianoforte a mezza coda
nell’angolo, alle pareti un’antologia della pittura contemporanea da Toti Scialoja a Giosetta Fioroni a un 5BHMJP di Fontana — la Milano
in zona Buenos Aires, col sole e i terrazzi in fiore sui tetti,
si esibisce, come fa non più di una ventina di giorni all’anno tra primavera e estate, nella pretesa di sembrare una
città di bellezza italiana normale, con in più una leggera
euforia da Expo nell’aria.
Momento giusto per sfogliare la .JMBOP a due dimensioni fotografata con amore e rigore per quarant’anni da
Gabriele Basilico (il volume è edito in questi giorni da
Contrasto), cercando di capire come questa città sa cambiare. Con Dorfles — squisito padrone di casa e intelligenza critica cittadina in esercizio costante fin da quando arrivò qui negli anni Trenta — c’è Umberto Veronesi, che
nella periferia estrema di Milano è nato e da medico protagonista di rivoluzioni scientifiche l’ha vista e anche un
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po’ aiutata, con passione civile, a diventare com’è.
Tutti e due si lasciano trascinare nel gioco di riflessioni e ricordi, con la conquistata leggerezza, rispettivamente a 105 straordinari anni e a 89 impegnatissimi nella presidenza onoraria della sua Fondazione, di chi dello
spostamento dello sguardo dall’ordinaria prospettiva
della propria disciplina a uno più ampio ha fatto la cifra
del proprio percorso intellettuale. Premette Dorfles: «Se
vuole posso parlare delle fotografie di Basilico, che ho stimato sempre come artista, una a una. Ma non direi più di
quanto è già stato detto. Parliamo piuttosto, guardandole, di ciò che per scelta stilistica l’occhio del fotografo ha
omesso, ma è ciò che nell’evoluzione delle città conta
davvero: le persone». Raccoglie Veronesi: «Milano è ed è
sempre stata una città di tante genti. È capace di cambiamenti perché è prima di tutto un centro di traffici commerciali, in mezzo alla pianura e a cavallo delle direttrici
nord-sud ed est-ovest come dice “Mediolanum”, il suo antico nome. Chi commercia accetta volentieri chi è diverso, perché ha interesse agli scambi di merci e di idee».
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la Repubblica
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Gillo Dorfles: “È tanto bella quanto brutta”. Umberto Veronesi:
“È la nostra piccola New York”. Passeggiando tra le foto in bianco
e nero di Gabriele Basilico due grandi vecchi raccontano
la loro città. Si parte dai salotti anni Trenta e si arriva fino all’Expo
re il fascismo, il riformismo, il craxismo, il leghismo, il berlusconismo…
Veronesi: «Messa così, nell’elenco prevarrebbero di gran lunga le invenzioA SUA VOLTA CHI SI SPOSTA
ni negative. Ma io aggiungerei in positivo la vocazione della borghesia milaneper andare altrove è a suo se al mecenatismo illuminato, eredità di una tradizione che era già dell’aristomodo selezionato, lo fa per- crazia e ha creato fra l’altro tutti i grandi ospedali. Ho visto quella vocazione
ché oltre alla necessità lo da vicino: il mio Istituto europeo di oncologia nel Novanta è nato così. Enrico
spingono il bisogno di cono- Cuccia, il presidente di Mediobanca, un giorno nel suo studio mi disse: stai lì
scere, il senso dell’avventu- un attimo, che faccio qualche telefonata. Alzò il telefono, parlò con dieci persora e della fantasia. Che Mila- ne da Pirelli in giù, tutti e dieci tirarono fuori i soldi e iniziò un percorso, poi prono sia tanto cambiata e capa- seguito con la Fondazione, per mettere al centro della medicina la persona. E
ce di cambiare, non solo naturalmente, parlando della storia dei milanesi, non vanno dimenticati la Renell’architettura ma nel mo- sistenza e il ’68, che ha espresso una rivolta positiva dei giovani, finché nei Setdo di vivere e di pensare, si tanta-Ottanta non siamo precipitati nell’abisso del terrorismo. E poi di Tandeve al fatto che cambiano gentopoli. Quegli anni, essendo da tanti molto amico di Borrelli, li ho vissuti
profondamente i milanesi, tanto che sono pochissimi oggi quelli nati qui. In con apprensione insieme a lui».
questo è da molto tempo una “piccola grande mela”, un po’ come New York”.
Rivediamo intanto il film della caduta del fascismo.
Dorfles: «Sì, la città è cambiata enormemente non solo perché la popolazioVeronesi: «Ho in mente due date. Il 25 luglio tutti i milanesi si precipitarono
ne è cresciuta, ma perché non è più, letteralmente, quella di una volta. Il mio a cancellare le scritte mussoliniane e ad abbattere i simboli. Per dirla con Monprimo ricordo è di quando avevo due o tre anni e da Genova, dove con mia ma- tanelli, “tutti corrono in soccorso del vincitore”. E a diciassette anni mi diede
dre ci eravamo trasferiti dalla Trieste in cui sono nato, venivo a trovare la mia una grande sensazione di ipocrisia, perché le facce erano le stesse che avevo vibisnonna che aveva un palazzo in Corso Venezia. Allora tutti parlavano sem- sto andare alle adunate ad applaudire. Poi naturalmente cambiò subito di nuopre in milanese, se entravi in un negozio e volevi farti capire dovevi farlo per vo tutto col ritorno di Mussolini, l’occupazione nazista, Salò. L’8 settembre
forza. Fino agli anni Trenta si parlava in dialetto anche nella buona società, uscì il bando secondo il quale i nati nel 1925, la mia classe, dovevano essere arche allora ho abbastanza frequentato, dai Borromei ai Belgioioso. Compresa ruolati o fucilati. Pensammo di scappare in Svizzera, ma finii i una retata alla
mia moglie Chiara, che tutti chiamavano Lalla ed era figlia del direttore del stazione Centrale e fui aggregato come soldato alle truppe di occupazione. Per
Conservatorio Gallignani e figlioccia di Toscanini…».
fortuna, diciamo così, pochi giorni dopo saltai su una mina e mi feci quattro
Veronesi: «Lo stesso accadeva nella mia famiglia, che era di poveri e umili mesi e dieci interventi chirurgici in ospedale. Poi, guarito, per un anno e mezdelle campagne. Il milanese era la lingua ufficiale, se dicevi una cosa in italia- zo partecipai alla lotta clandestina con i Gap, e girare per la città con in tasca i
no era quasi riprovevole, come se oggi in una conversazione dicessi una frase volantini o i messaggi del Cln non era uno scherzo».
in inglese o in tedesco. Era anche bello, naturalmente, era un dialetto pieno di
Poco dopo, nell’immediato dopoguerra, Milano vive un’altra vivace stagiodetti e di battute».
ne creativa e nel 1948 Gillo Dorfles
Molto milanese, piuttosto, sembra
fonda con Bruno Munari e altri il
il fatto che, nelle “oscillazioni del
Movimento Arte Concreta. Cosa rigusto” — come ci ha insegnato a
corderebbe di quegli anni?
chiamarle Dorfles — tra nostalgia
Dorfles: «In generale, l’occasione di
della tradizione e spinta al nuovo,
nuovo mancata di ricostruire la città
il pendolo qui si sposti più spesso
con una visione urbanistica moderna,
sulla innovazione. Quando è comine le nuove idee anche in campo esteticiata questa attitudine?
co. Il design rinasce e diventa imporDorfles: «Se parliamo di tradizione
tante. Se mi chiede delle evoluzioni
e innovazione artistica, certamente
del gusto, è una domanda pericolosa,
con il Futurismo, che è stato fondaperché, come sa, parlo del cattivo gumentale e a lungo sottovalutato. Poi
sto da tanti anni, e l’argomento non
negli anni Trenta e Quaranta, quanmi sembra affatto superato. Ma se
do Milano è stata la vera culla dell’aguardo alle capacità che la città ha
vanguardia in architettura, da Gio
espresso nello stile degli oggetti induPonti ai BBPR - Banfi, Belgiojoso, Pestriali e nella moda, sì, mi pare che
ressutti e Rogers - alle case popolari di
con quella discussione qualche contriFranco Albini. Ma qui di Milano vorrei
buto a cambiare i milanesi devo averdire un limite: ha avuto grandi archilo dato anch’io. Purtroppo altre cose
tetti ma mai grandi urbanisti, e il risulmancano, per esempio stiamo ancora
tato è la sua peculiare miscela di bello
aspettando un museo dell’arte cone brutto, anche nelle stesse vie. Con
temporanea, come l’hanno Torino,
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poche eccezioni: come la zona di Porta
Genova, Napoli, per non dire di Roma.
Venezia che mi piace molto e una speranza recentissima, i nuovi
Scandalosamente, manca proprio a
grattacieli che stanno finalmente realizzando una vera “city”».
Milano che è il principale mercato italiano dell’arte e una capitale
Veronesi: «Anche Basilico, come si vede, del resto non fa sconti:
del collezionismo privato».
fotografa — benissimo e impietosamente — periferie di una brutVeronesi: «È uno dei tratti meno simpatici della mentalità cittatezza desolante. Per me una grande colpa urbanistica è stata la codina, l’individualismo...».
pertura dei Navigli a partire dai primi anni Trenta, che ha fatCon qualche segnale in controtendenza, a quanto pare:
to di Milano una delle poche città europee senza acqua: né fiuqualche mese fa Dorfles si è detto entusiasta del moto sponme, né lago, né mare. Eppure l’acqua è l’elemento base della
taneo dei cittadini che sono scesi per le strade a pulire dopo
vita, biologicamente veniamo da lì».
le devastazioni dei black bloc anti-Expo. È ottimista anche
Dorfles: «Sì, fu un errore e un delitto. Ricordo le meravigliolei, Veronesi?
se passeggiate sui Navigli quando erano ancora una vera rete
Veronesi: «Di sicuro Expo è un grande evento che sta funziourbana navigabile, il Tombon de San Marc con il laghetto che
nando, il cibo è un tema che appassiona tutti, però non sembra
era un piccolo mare interno, i ponti e i canali fino a Pavia».
ancora voler affrontare a fondo il tema annunciato dell’evenVeronesi: «Io i Navigli scoperti ho fatto in tempo a vederli
to, nutrire il pianeta, ovvero combattere la fame nel mondo. In
da ragazzo. Come anche le case di ringhiera, adesso trasformaquello spirito ho lanciato già sei anni fa l’idea della “Carta di Mite in case ristrutturate per la boghesia medio-alta. Da giovane melano”: oggi è riapparsa nei programmi, ma bisogna puntarci ».
dico ci andavo a visitare tanti pazienti terminali, arrivando in
Dorfles: «Speriamo che non diventi un’altra occasione perduta.
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tram con la borsa in mano: bagno esterno, una sola grande stanza,
Ma per ora la speranza resta».
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con la cucina a destra e di fronte lettone e letti dei bambini. E la miE almeno finché resta, diventa quasi inevitabile un paragone
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seria: quando chiedevano “cosa le dobbiamo”, rispondevo “non si
con Roma sotto schiaffo dell’inchiesta di mafia: è la rivincita di
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preoccupi, le manderò il conto”. Era una città povera con una borMilano?
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ghesia molto ricca, cinquecento famiglie che contavano e un milioVeronesi: «Guardi, mi pare un po’ una semplificazione. Utile e
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ne e passa di persone che contavano poco. Ancora oggi del resto, alanche giusta, se è una denuncia del malaffare ovunque sia, ma ne1*Ä %* %6&$&/50
la Scala e nei salotti vedi sempre le stesse facce. Però le grandi famigli anni che ho vissuto a Roma, quando tra il 2000 e il 2001 sono sta'050(3"'*&
glie industriali hanno perso industrie e potere. Lo diceva bene Thoto Ministro della Sanità nel governo Amato e fino al 2009 senato$)& ("#3*&-&
mas Mann: “I ricchi amano la ricchezza, i figli dei ricchi amano gli
re, ho visto una realtà diversa, almeno al ministero dove i funziona#"4*-*$0
ideali”. Guardi la storia dei Pirelli: il primogenito del fondatore Alri erano in ufficio alle otto e ben lieti di trovarci anche me, e in un
berto, Giovanni Pirelli, era partigiano, comunista, anticapitalista
governo dove c’erano Mattarella alla Difesa, Fassino alla Giusti)" 4$"55"50
e scrittore. Restò il fratello Leopoldo, a occuparsi della fabbrica,
zia, Bersani ai Trasporti… No, Milano è stata troppo a lungo “capita" .*-"/0
ma non aveva la grandezza della generazione precedente e la Pirelle immorale” per poter dare lezioni. Piuttosto dovrà trovarsi un fu*/ 26"3"/5"//*
li è andata in altre mani. E adesso è cinese».
turo dopo Pisapia, che secondo me è stato un ottimo sindaco e anco*- 70-6.& 03"
Chi ha poi sostituito quella élite cittadina? I banchieri? Gli imra non mi rassegno al fatto che non si ricandidi. Perché per fare le
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mobiliaristi? I nomi del made in Italy, del design e della moda?
strade e i metrò bastano bravi assessori, ma per registrare i matriµ 45"50 $63"50
Dorfles: «Non si può più dire che è la Milano dei Visconti e neppumoni gay celebrati all’estero, per esempio, ci vuole coraggio e il
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re quella delle grandi famiglie imprenditoriali. Direi che sono
senso della civiltà dei diritti umani. Magari anche contro le piazze
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scomparse entrambi e le ha sostituite la media borghesia ricca».
gremite…».
Passando dalla ricchezza al potere. È un luogo comune che MilaNo, ai milanesi migliori vincere facile non piace mai.
no sia stato il laboratorio politico dell’Italia, avendo visto nasceª3*130%6;*0/& 3*4&37"5"
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L’AVANA
ARÀ MEGLIO METTERSI D’ACCORDO.
Sarà meglio che in quelle enormi palazzine dove si ammassano quindici o venti famiglie alla fine si trovi un compromesso e
si riesca a vendere la proprietà, in modo che ogni inquilino possa trovare un luogo decente dove andare ad abitare, che garantisca intimità e indipendenza, e che si riesca a salvare l’edificio restaurandolo. I cartelli “Vendesi” sono dappertutto.
Qui chiamiamo TPMBSFT quegli alveari pieni di CBSCBDPBT
(soppalchi realizzati per ricavare più spazi abitativi in ambienti dai soffitti alti, OEU) dove l’asfissia e il cattivo odore delle fosse biologiche ti aggrediscono fin dall’enorme portone di ingresso.
Ho vissuto in uno di questi posti per dodici anni; i tuoi lamenti si fondevano con la musica del vicino, a tutte le ore dovevi tenere accesa la luce elettrica, il labirinto di case non riceveva ventilazione; era un inferno sopravvivere in quel miscuglio di marginalità e promiscuità quotidiana.
Finalmente è arrivata la legge che permette la compravendita: in uno spazio incredibilmente ridotto, di pochissimi metri, nascono e muoiono quattro generazioni di cuba- un appartamento piccolo ma indipendente
ni che hanno bisogno di una via d’uscita da dove poter iniziare una vita dignitosa. In
questo dramma.
molti casi il processo di riadattamento di
Ma chi vende? E perché?
queste persone abituate a una vita collettiSe si calcola un prezzo generale per que- va in posti dove bisogna assuefarsi alla consti bellissimi ma fatiscenti palazzi coloniali vivenza intima e discreta di un palazzo più
in decadenza, quasi tutti si trovano fra L’A- moderno fatto di singoli appartamenti è alvana Vecchia e il Vedado, ogni condomino quanto complesso.
Alcuni vendono la loro parte per potere
(KFGF EF OÞDMFP, il capofamiglia, OEU) potrà
ottenere fra i quattro e i seimila Cuc (QFTPT coprire le spese del viaggio: pensano di ancubani convertibili, OEU) per il suo piccolo darsene definitivamente da Cuba.
E chi compra? E perché?
spazio, cifra con la quale potrà acquistare
Gente che viene da altri Paesi e magari
vuole mettere su un ristorante, una galleria d’arte, un locale notturno. Oppure emigranti che dall’estero spediscono denaro
sufficiente per rientrare in possesso di proprietà che in un’altra epoca avevano fatto
parte del proprio patrimonio familiare. Tenete conto che uno di questi palazzi può costare dai centocinquantamila ai quattrocentomila dollari.
Il problema è che i condòmini non sempre si mettono d’accordo. Il processo di convincimento è lungo e degno di una commedia cubana degli intrecci.
Il cambiamento si fonda sul fatto che ora
è possibile vendere e comprare immobili
che per quasi sessant’anni sono rimasti intoccabili o inamovibili perfino per i loro proprietari. Fino all’anno scorso lo Stato non ti
consentiva di decidere alcunché sul destino della tua abitazione.
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Nessuno ha chiesto al popolo cubano cosa rispondere all’offerta di Google. Voleva
regalarci l’installazione gratuita di internet.
Siamo troppo vicini agli Stati Uniti per
pensare che in piena fase di innamoramento americano non avremmo ricevuto un’offerta del genere.
Quello che ci hanno detto, fin da quando
internet è comparsa sulla scena, è che Cu-
ba è un Paese povero, così povero che non
può permettersi il lusso di installare la Rete. Ma questo punto mi domando: chi ha risposto a Google a nome nostro? È stato il secondo segretario del Partito comunista, José Ramón Machado Ventura.
Beh, vorrei dire che non mi sento affatto
vicina a questa risposta, se non altro perché non sono stata debitamente consultata. Nessuno di quelli che conosco è stato
consultato.
Il secondo segretario ha detto che ci rifiutiamo di farci installare gratuitamente le
antenne wi-fi in tutta Cuba. «Tutti sanno
perché internet, a Cuba, è poco sviluppata:
perché ha un costo elevato. Ora c’è qualcuno che vuole darcela gratis, ma non lo fa
perché vuole che il popolo cubano comunichi, lo fa con l’intento di penetrare fra noi e
svolgere un lavoro ideologico per portare a
termine una nuova conquista. Noi dobbiamo avere internet, ma a modo nostro, nella
consapevolezza che è intenzione del capitalismo usarla come un’altra via per distruggere la Rivoluzione».
La parola “imperialismo” ricompare
quando l’apertura ci sta un po’ troppo larga.
Ma perché non domandarlo al popolo,
che è adulto e sa discernere, e sa pensare
con la propria testa. Perché tanta paura?
Cosa temono? Google o la possibilità di avere una finestra sul mondo?
la Repubblica
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Per favore, smettetela di rispondere a nome del popolo, anche il popolo è uno.
*M DPSQP JM OPTUSP QJá HSBOEF TQB[JP EJ MJCFSUË
Quando, negli anni Settanta, subimmo
la 1BSBNFUSBDJØO, ovvero il giorno in cui gli
omosessuali qui a Cuba iniziarono a essere
perseguitati ingiustamente, espulsi dalle
scuole o dai centri lavorativi, quando furono costrette ad abbandonare il Paese migliaia di persone messe all’indice e incolpate per le loro preferenze sessuali, quando
intromettersi nelle suddette preferenze cominciò a separare famiglie, amici, collaboratori, fu allora che avvenne la grande rottura fra l’individuo e lo Stato.
Più di noi, sono stati i nostri genitori a soffrire per questa epurazione.
Vittime di una selezione disumana che
non aveva nulla a che vedere con le premesse della società giusta che aspiravano a costruire, molti cittadini cubani finirono reclusi forzosamente in centri come la Umap
(Unità militari di aiuto alla produzione),
per essere “rieducati”.
A partire da quel momento la nostra generazione decise, quasi senza rendersene
conto, di liberare la nostra fisicità, e nei collegi come nelle mobilitazioni, sulle spiagge
come nei campeggi, decretammo che eravamo liberi e che non avremmo mai lasciato che la nostra sessualità venisse governata da una ideologia.
Da quel momento percepimmo il corpo
come l’unico spazio di libertà intoccabile
per i cubani.
Sarà per questo che possediamo una libertà fisica che confina con il libero arbitrio.
-B QBSPMB PQQVSF MJNNBHJOF
Siamo in piena estate, la Bienal de Arte è
già finita da qualche settimana ma la città
è ancora decorata con sculture e installazioni. I simboli coronano le strade, e forti o duri che siano, lì stanno.
Molti cubani tornano qui per le vacanze,
e quelli che tornano per restare, grazie alla
legge sul reimpatrio, quelli che esigono il loro diritto a essere parte di un Paese che è di
tutti, quelli che già sono abituati a parlare
con libertà da decenni, anche loro tornano.
Mettono sul tappeto argomenti che non
tutti siamo in grado di affrontare, per lo
sforzo di stare in silenzio esercitato in tutti
questi anni.
Gli artisti che presentano le loro opere
sulla spianata del Malecón di solito dicono
(non senza fatica) la loro verità sotto il piedistallo dell’opera, di fronte alla meravigliosa luce di Cuba. Lo fanno anche quelli che
hanno uno spazio nelle gallerie d’arte, nelle esposizioni alternative e negli interventi
pubblici. È per questo che mi domando: perché dà tanto fastidio la parola? Forse l’immagine è un modo meno diretto di interve-
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$"453*45"
%&- nire sui problemi? Forse l’immagine è una
scenografia che illustra il problema e il suo
epilogo senza allargare la ferita?
Perché la maggioranza dei miei libri viene censurata? Perché ci sono, ci sono stati e
ci saranno tanti autori censurati?
La parola è un urto verbale e fa male.
Queste vacanze estive finiranno. Se ne
andranno quelli che sono venuti a insegnare la loro verità, e qui rimango io, parlando
da sola di una realtà che da fuori sembra
una festa e da dentro è ormai una scenografia che illustra il campo di battaglia dove sono muti gli spari e pericolose le parole.
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La piazza che sorge nel Vedado, quella
che si trova di fronte alla vecchia “Sezione
di interessi degli Stati Uniti”, la piazza che
noi cubani abbiamo soprannominato FM 1SP
UFTUØESPNP, la piazza delle lunghe marce
di fronte al Malecón, sotto i violenti acquazzoni mattutini, forse cambierà nome: non
la chiameremo più 5SJCVOB "OUJJNQFSJBMJ
TUB, conserverà il nome di José Martí e le
bandiere che sventolano lì prenderanno un
altro significato.
A partire da domani, 20 di luglio, tutti i
cartelli che recitano “:BOLFFT (P )PNF” saranno sostituiti da cartelli con sopra scritto
“8FMDPNF )PNF”.
Noi che dall’età di tredici anni abbiamo
imparato a sparare contro lo yankee op-
pressore che da un momento all’altro sarebbe venuto ad attaccarci, dovremo imparare a ossequiarlo in questo nuovo Paese
che cambia in modo sottile davanti ai nostri occhi: gli affitteremo le nostre case, le
nostre stanze, faremo colazione insieme
nella sala da pranzo di famiglia, perché gli
alberghi non ce la faranno ad accogliere tutti questi ospiti; sicuramente nasceranno
nuovi matrimoni misti, fra cubani e americani, e la guerra fredda sarà riscaldata dal
nostro modo così tropicale di dimenticare
in fretta il dolore o il risentimento.
La televisione cubana sta già trasformando il suo linguaggio: ora chiama il gruppo di persone che prende parte ufficialmente al processo negoziale iDPNQB×FSPT EF MB
EFMFHBDJØO OPSUFBNFSJDBOB”.
Dal nostro vocabolario è sparito il gruppo di offese solenni destinate ai vicini del
Nord, è stato bandito dalle allocuzioni ufficiali quell’appellativo, disegnato anche sui
cartelloni, di 4F×PSFT JNQFSJBMJTUBT.
Questa mattina mi sono alzata pensando a cosa ne sarà di quella frase del Che Guevara: «All’imperialismo americano non si
può cedere neppure un’unghia».
Domani, questo venti del mese di luglio,
il mio Paese si risveglia sottotitolato in inglese.
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PARIGI
SAPPIAMO
più guardare». Per Enki
Bilal, viviamo
in un universo
saturo d’immagini, ma è
come se fossimo
ciechi.
Dobbiamo
quindi tornare a interrogarci sulla percezione e la memoria visiva, perché solo così potremo riconquistare la capacità di guardare il mondo. È questo
il messaggio dell’ultima sfida dell’artista francese, grandissimo autore di storie a fumetti, ma anche pittore, cineasta e scenografo. La sfida si intitola *OCPY, fino al 2 agosto alla Fondazione Giorgio Cini sull’isola di San Giorgio a Venezia. L’affascinante installazione, nata con il sostegno della casa d’aste
parigina Artcurial, sprofonda l’osservatore in un ambiente
buio dove appaiono e scompaiono immagini parziali e sfuggenti che in maniera quasi ipnotica finiscono per restituire
il negativo di una coppia di grandi tele dipinte per l’occasione. «*OCPY è un dispositivo che gioca con la nostra percezione, la memoria, il buio e la luce, costringendo l’osservatore a interrogarsi sulla natura di ciò passa davanti ai
suoi occhi», ci spiega Bilal, da sempre critico spietato di
una società dove «l’eccesso di immagini finisce per uccidere l’immagine».
Fisico giovanile e tutto vestito di nero, l’artista francese nato a Belgrado sessantaquattro anni fa ci accoglie nel suo luminoso atelier nel centro di Parigi a due
passi da Les Halles. È qui che, tra una testa di zebra
impagliata e un grande cactus, tra cavalletti e tavoli
ingombri di tele, carte, disegni, foto, matite e colori, è nata
l’idea d’*OCPY. Qui ha fatto i primi schizzi ed elaborato le prime soluzioni, sugli stessi tavoli dove in passato sono nate le sue storie visionarie che hanno contribuito a rivoluzionare l’universo del fumetto: #BUUVUB EJ DBDDJB, -B 'JFSB EFHMJ JNNPSUBMJ o -B EPOOB
USBQQPMB, opere bellissime e inquietanti, a cui hanno fatto seguito
la tetralogia del .PTUSP e la nuova trilogia che, dopo "OJNBM[ e +V
MJB 3PFN, si conclude oggi con *M DPMPSF EFMMBSJB (appena pubblicato in Italia da Alessandro Editore). In quest’ultimo lavoro Bilal,
che in passato ha spesso raccontato un mondo plumbeo e post apocalittico, sembrerebbe ritrovare una nota di speranza che gli consente perfino di tornare al colore. «L’artista non deve commentare
il presente, ma anticipare il futuro. I giornalisti descrivono il reale,
i politici provano a modificarlo, noi artisti dobbiamo guardare verso un orizzonte più lontano. Nelle mie storie ho anticipato le catastrofi, le dittature, le guerre, il terrorismo religioso, gli incubi di
una società in sfacelo», ci spiega Bilal. Il nostro sistema economico,
sociale e ideologico, sostiene, è ormai in fase terminale: «Siamo alla fine di un ciclo, così ci ritroviamo in un mondo più fragile e in pie-
na mutazione. In quanto cittadino me ne rendo conto tutti i giorni,
ma in quanto disegnatore tutto ciò è alle mie spalle, l’ho già raccontato. Adesso guardo avanti. Provo a disegnare il futuro. E la prossima tappa è la consapevolezza che bisogna assolutamente salvare
il pianeta. Semplicemente perché altrimenti non ci sarà più futuro. Per nessuno». Rivendicando «un discorso più umanistico che
ecologico», l’artista francese spera soprattutto nelle giovani generazioni, le sole capaci di una presa di coscienza in grado di favorire
trasformazioni radicali. È per loro che ha disegnato *M DPMPSF EFMMB
SJB, un viaggio quasi western alla ricerca di una salvezza possibile,
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“Nelle mie storie ho anticipato catastrofi, guerre,
terrorismo religioso. Ora c’è da salvare il pianeta”
Il grande illustratore francese ci apre le porte
del suo atelier. E, sorpresa, non è affatto da incubo
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nelle cui pagine finali la poesia e il sogno prendono il sopravvento
sul caos e la crisi: «Con la fantasia provo a liberarmi degli incubi
contemporanei. È una speranza, un bisogno d’utopia che cerco di
trasformare in favola attraverso il disegno». E a chi sostiene che
l’arte non può nulla per cambiare il mondo, Bilal ricorda invece
che «proprio l’arte, la cultura e l’immaginazione fanno sempre
paura all’oscurantismo». Tanto che, aggiunge, tutte le forme di
oscurantismo censurano gli artisti, cercando di ridurre le capacità
espressive e le parole a disposizione degli individui: «È una forma
di lobotomia della memoria, della lingua e della cultura contro cui
noi artisti dobbiamo continuamente combattere. Naturalmente
conosco i limiti della nostra azione, ma bisogna insistere, inventando ogni volta nuove soluzioni».
Non è un caso se Bilal, che ama Lucian Freud, Francis Bacon,
Goya e Velazquez, ma anche il surrealismo e Bill Viola, considera
l’arte una forma di sperimentazione a tutto campo: «Cambiando
tecniche, linguaggi e generi mi rimetto di continuo in discussione
e quindi rinnovo il mio lavoro. In fondo, il mondo del fumetto è molto conservatore, dato che si fonda sulla ripetizione. I lettori vorrebbero ritrovare in ogni storia gli stessi personaggi e gli stessi meccanismi narrativi. Io invece cerco sempre nuove strade. Per questo,
per esempio, ho abbandonato le gabbie tradizionali del fumetto,
creando immagini indipendenti che poi assemblo secondo il principio del montaggio cinematografico». Al cinema, per altro, l’artista
guarda da parecchio tempo, tanto che in passato ha diretto film come #VOLFS 1BMBDF )PUFM, 5ZLIP .PPO et *NNPSUBM BE 7JUBN). Ora
sta lavorando a due nuovi progetti: una docufiction tratta dal libro
di Alan Weisman *M NPOEP TFO[B EJ OPJ, che prova a immaginare
la Terra dopo la scomparsa dell’uomo, e un lungometraggio tratto
da "OJNBM[ in cui tornerà a confrontarsi con quel tema dell’ibridazione che gli è caro da sempre e da cui è nata anche la serie di quadri intitolata 0YZNPSFT: «Quelle tele sono il risultato di un progetto sulla mutazione, la fusione e l’ibridazione uomo/animale, maschio/femmina, alla ricerca di corpi universali che si liberano e lottano nello Spazio quasi in levitazione», racconta parlando di una
serie ricca di quei colori mediterranei portati nell’atelier parigino
dai suoi molti soggiorni in Corsica, un luogo dove ama ritirarsi a dipingere.
Il tema dell’ibridazione, frutto anche del suo vecchio amore per
la fantascienza, è presente perfino nell’installazione veneziana, il
cui principio verrà poi ripreso nella prossima mostra giapponese,
a Tokyo, nel gennaio del 2016: «Sono convinto che ciascuno di noi
sia sempre la staffetta di se stesso. Passando da un progetto all’altro, si prolunga l’esperienza precedente in quella successiva, come in una corsa a staffetta. Così a Tokyo presenterò una ventina di
tele inedite con un particolare lavoro sulla luce che non esisterebbe senza l’esperienza di *OCPY». Insomma, alle prese con innumerevoli progetti — e tra i tanti anche quello di un nuovo fumetto dominato da un realismo più vicino allo stile delle sue prime opere —
Bilal continua a scrutare il mondo, trasformandolo in sorprendenti immagini piene di rabbia e di poesia: «Sperimentare», conclude,
«significa correre il rischio di sbagliarsi. Un’artista deve sempre tenerlo presente, ma non per questo deve rinunciare a inseguire i
propri sogni. La ricerca, infatti, è una forma d’impegno necessaria
per un artista che voglia essere libero».
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la Repubblica
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FIRENZE
RIMA UNA VOCE ALTERATA DAL VOCODER E POI COME UNA VIBRAZIONE. “Ed è arrivato anche Giorgio
Moroder con la sua 'SPN )FSF UP &UFSOJUZ”, annuncia il dj. Sul suono alieno e secco come un colpo di frusta, un timbro maschile sibila “#BCZ HJWFT NF MPWJO MFBWFT NF OFBSMZ OPUIJO OPUIJO
MFGU XJUI NF”. Oscurità e mistero. E poi un ritornello. Dietro, una sensuale, orgasmica voce femminile. Quasi sei minuti che ridefiniscono l’elettronica. Era il 1977 e allora la si chiamava con
sufficienza “disco music”. Oggi 'SPN )FSF UP &UFSOJUZ viene considerato un album-capolavoro
e Giorgio Moroder è stato di nuovo catapultato al successo planetario grazie al brano-dedica intitolato (JPSHJP CZ .PSPEFS dei Daft Punk, signori miliardari dell’elettronica contemporanea.
Ha settantacinque anni, Re Giorgio, ed è quel distinto signore con camicia blu a pallini bianchi
che si palesa nella hall di un lussuoso hotel fiorentino. È in forma splendida. A segnare l’età solo i suoi celebri baffi, un tempo inevitabilmente a manubrio (e forse fu proprio lui ad aver fatto
scuola), oggi candidi. Di lui Brian Eno disse: “Ho sentito il suono del futuro”. Era sempre il ‘77:
un anno in cui tutto sembra accadere. L’anno del punk. E della disco. Questa è la storia dell’italiano che l’ha inventata.
Quando ha capito che voleva fare il musicista?
«A quindici anni suonavo la chitarra e volevo già diventare un compositore. Un giorno ho sentito un pezzo di Paul Anka,
%JBOB, che potevo anche cantare e così ho iniziato. Venivo da un piccolo paese senza contatti con il mondo esterno e fare il
musicista era un sogno, ma un sogno che mi sembrava impossibile realizzare».
E invece…
«Invece a poco a poco è diventato realtà: a diciannove anni mi hanno offerto un impiego come musicista e così ho girato
l’Europa per cinque o sei anni. Allora la musica buona si ascoltava su 3BEJP -VYFNCVSH: Elvis, i Platters, The Trashmen, i
gruppi neri. Un mio amico aveva un registratore professionale e avevamo inciso un pezzo. Suonavamo negli alberghi di sera, e di giorno, con due registratori Revox facevo i miei esperimenti, passando dall’uno all’altro. Poi sono andato a Berlino
dove avevo una zia e lì ho trovato lavoro come tecnico del suono. Ma dopo un mese l’ho lasciato: volevo fare il compositore,
non il tecnico. Il primo successo in questo ruolo l’ho avuto con un pezzo in tedesco per Ricky Shayne: la canzone fatta per lui
ha venduto centomila copie. Allora era un buon risultato, oggi sarebbe una cosa incredibile».
Lei è nato a Ortisei, Val Gardena: tutti si chiamano Moroder da quelle parti. Che lingua parlava da ragazzo?
«In effetti è un cognome diffusissimo. Viene da “mureda” che era la prima casa fatta con le mura invece che usando il legno. Da lì NPSFEB, NPSJEB, NPSVEFS, NPSPEFS e così via. Si parlavano tre lingue: italiano, tedesco e ladino».
Un cognome che pare fatto apposta per il mondo dello spettacolo. Ha ancora parenti lì?
«Ho tre fratelli: uno abita ancora a Ortisei, uno a Salisburgo e uno tra Vienna e Ortisei. Ci telefoniamo quasi tutti i giorni».
In famiglia ci sono altri musicisti?
«Mio padre era concierge negli alberghi. Suonava il piano, ma solo se poteva leggere la musica. Il pianoforte che aveva
era talmente stonato che non ho mai avuto la possibilità di praticarlo, ed è stato un peccato. Mio fratello, che ha tre anni più
di me, prendeva lezioni di fisarmonica, non so perché lui sì e io no. Poi ho incominciato a suonare la chitarra da solo».
Agli inizi della carriera, negli anni ‘70, andava nelle discoteche per guadagnare qualcosa. Che cosa suonava?
«Giravo con un nastro con sette-otto pezzi e mettevo su dei dischi: ero una sorta di dj. Prendevo trecento marchi e spesso
mi fermavo a dormire in macchina per risparmiare. Anche perché ti davano da bere e quindi era meglio non rischiare…».
È stata dura?
«L’unica cosa buonissima che abbiamo fatto con il gruppo di allora fu decidere: smettiamo tra un anno, ognuno metta via
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tutti i soldi che può. Io avevo sedicimila franchi svizzeri, oggi forse circa centomila euro. Ci ho vissuto per due anni a
Berlino. Ci sono stati anche momenti in cui non avevo più
un soldo. Ma per fortuna è arrivata la canzone di Ricky Shayne e poi un secondo successo con .FOEPDJOP che ha venduto un milione di copie. Poi da Berlino sono andato a Monaco».
Perché?
«A Berlino c’era il muro, era triste. E poi è a Monaco che
ho incontrato Donna».
Come è successo?
«Era il 1974. Con Pete Bellotte, che era il mio produttore,
avevamo bisogno di una voce femminile e si è presentata
lei. Ci ha subito colpiti. Abbiamo fatto due pezzi insieme,
5IF )PTUBHF e -BEZ PG UIF /JHIU. Poi è arrivato -PWF UP -PWF
:PV #BCZ che ha lanciato Donna e segnato la mia carriera».
Ci sono molte storie su come è nata “Love to Love You”.
«Beh è andata così. Io le ho detto: “Voglio fare qualcosa di
veramente sexy e ho in mente un titolo”. Siamo andati in
studio e la questione era che Donna avrebbe dovuto simulare un orgasmo. Lei però non se la sentiva, e allora ho buttato
fuori tutti, compreso il marito e…».
E…?
«C’è riuscita».
Quindi in pratica c’era solo lei con Donna in studio…
«Esatto. Per scherzo infatti dico sempre: “Immaginate
un po’ a chi si è ispirata”…».
Ed è vero?
«Non lo so. Io avevo un po’ di luce nella “control room” ma
non credo proprio che...».
Donna era molto giovane...
«Era una bella ragazza, aveva una magnifica voce. Quando le ho detto che avremmo fatto uscire il disco era contenta, ma anche un po’ preoccupata. Sa, in quegli anni per una
donna non era facile fare certe cose. Era un mondo diverso e
lei veniva da una famiglia molto religiosa. Quando siamo
tornati negli Stati Uniti infatti c’erano i genitori e le sorelle
che non mi hanno neanche salutato: pensavano che fosse
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colpa mia. D’altronde con quel pezzo abbiamo venduto credo più di tre milioni di dischi e lei è diventata una superstar.
Eravamo al numero uno dappertutto nel mondo».
In pratica la disco music l’avete creata voi.
«C’erano degli altri pezzi, non credo di poter dire che siamo stati i primi: c’era una canzone che si chiamava 3PDL UIF
#PBU. Però è vero che siamo stati i primi ad avere uno straordinario successo in radio e ovviamente nelle discoteche».
Chi era il vostro principale rivale? Cerrone?
«No, Cerrone no, poveretto. L’unico vero rivale era Nile
Rodgers, perché lui aveva gli Chic ma anche Sister Sledge e
altri tre o quattro gruppi».
Ma è vero che lei allo Studio 54 di New York c’è stato una
sola volta?
«Quando ero in testa con -PWF UP -PWF :PV ho deciso che
dovevo andare a vedere: tutti parlavano di quel locale. C’era una fila enorme. Quando siamo entrati era vuoto! Non facevano entrare nessuno perché non c’è nulla come una lunga coda fuori per indurre la gente ad andare in un posto».
Ma lei ballava?
«No, non ho mai ballato in vita mia».
Davvero?
«Ogni tanto a Monaco ci andavo, ma più che altro per vedere che succedeva, quali pezzi funzionavano…».
Lavorava sempre.
«Quando Donna è diventata numero uno e io con lei, sì,
ero sempre in studio, giorno e notte».
Nelle discoteche giravano molte
droghe, cocaina soprattutto, basta
pensare a film come “Boogie Nights”…
«A Monaco non c’era niente, mentre a Los
Angeles come le ho detto io lavoravo e basta. I miei
musicisti, loro sì, andavano avanti tutta la notte e so
che prendevano droghe. Ma io no, mai preso cocaina».
La molto vituperata disco music in realtà ha portato
avanti alcune istanze di liberazione sociale di cui il rock
stile Led Zeppelin o The Who, molto amato e considerato
dai critici, non si è mai fatto portatore.
«La disco è stata un fenomeno non solo musicale ma anche di costume con la gente che si vestiva in un certo modo
e ha contribuito all’affermazione del movimento gay che
prima di allora era nascosto. Con -PWF UP -PWF :PV #BCy e *
'FFM -PWF si sono sentiti finalmente liberati».
Quelli però erano anche gli anni del rock appunto: nel
1977 c’era addirittura stata l’esplosione del punk.
«Tutti quelli che amavano il rock odiavano la disco».
Ma perché?
«Si sentivano superiori e la disco per loro era troppo femminile, troppo gay, era happy music, si ballava… Però c’è
una certa contraddizione perché il rock, a parte la contestazione del Vietnam, alla fine politicamente non ha fatto niente, riaffermando anzi certi stereotipi da macho».
A un certo punto è nato addirittura un movimento chiamato “Disco sucks!” culminato nei disordini della cosid-
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detta “Disco Demolition Night” del 12 luglio 1979.
«Bisogna dire però che tutto questo fu anche dovuto al
successo della disco: c’è stato un momento in cui tutti, ma
proprio tutti si sono messi a fare disco music, comprese
band icone del rock come Kiss o Rolling Stones. C’erano
troppi pezzi e troppo brutti: cose tipo 3JOH .Z #FMMT. Insomma il genere si era inflazionato e così arrivò il momento del
rifiuto. Io però non me ne sono neanche accorto, perché allora mi stavo dedicando alla composizione di colonne sonore.
Mi ero già reso conto che non poteva durare».
E poi che cos’è successo?
«Eh, per Donna è stata dura: non è più riuscita a reinventarsi come, che so, Madonna. È stato anche un errore mio:
quando abbiamo fatto )PU 4UVGG che era più rock, avremmo
dovuto fare un disco su quel versante.
Oggi anche lei è stata rivalutata».
Con Donna Summer lei ha avuto uno straordinario rapporto anche umano. La vedeva negli ultimi anni della sua vita?
«L’ho vista di più negli ultimi due anni che nei venti precedenti perché eravamo vicini di casa, a Los Angeles, dove
vivo tuttora. L’avevo invitata per un pranzo e a lei il nostro
palazzo è piaciuto moltissimo per cui ha comperato l’appartamento di sotto: mi diceva che poteva sentirmi quando
suonavo il pianoforte».
Poi si è ammalata…
«Io non mi ero accorto di nulla. Perché era sempre a dieta
e mi diceva ‘”Sai, ho trovato dei succhi naturali, vedi che sto
perdendo peso?”. In realtà dopo la sua morte, avvenuta tre
anni fa, ho capito: lei non voleva più fare la chemioterapia e
stava cercando di seguire una terapia alternativa che purtroppo non è servita a niente».
Lei ha lavorato con tutti, David Bowie compreso.
«Fu grazie a Brian Eno. Aveva sentito il mio pezzo * 'FFM
-PWF e mentre stava incidendo a Berlino con Bowie e gli disse: “David, ho ascoltato la musica del futuro”. Qualche tempo dopo con il regista de *M CBDJP EFMMB QBOUFSB, Paul Schrader, siamo andati da lui e in mezz’ora abbiamo registrato
$BU 1FPQMF: perfetto. L’ha poi ripreso Quentin Tarantino in
#BTUBSEJ TFO[B HMPSJB. Ha anche detto che gli piaceva così
tanto che aveva sempre voluto usarlo per una scena che durasse quanto tutta la canzone».
Parliamo di cinema. Lei ha vinto tre Oscar con altrettante colonne sonore.
«Sì, uno nel 1979 per 'VHB EJ NF[[BOPUUF. Il secondo nel
1984 per 8IBU " 'FFMJOH in 'MBTIEBODF e il terzo nel 1987
per 5BLF .Z #SFBUI "XBZ in 5PQ (VO».
Come è nata invece la collaborazione con i Daft Punk che
due anni fa l’ha riportata sulla cresta dell’onda?
«Mi hanno chiesto di raccontare la storia della mia vita
davanti a una serie di microfoni nel loro studio».
E quando poi ha sentito il pezzo a lei intitolato, “Giorgio
by Moroder”...?
«Sono rimasto a bocca aperta. Non avevo la minima idea
di come l’avrebbero utilizzato».
E ora non solo ha fatto un nuovo album, “Déjà-Vu”, con
una parata di stelle che vanno da Britney Spears a Sia, a
Kylie Minogue, ma adesso ritorna, anche in Italia con
una serie di concerti a Roma e Milano.
«Sa qual è la cosa che mi fa più piacere? Che alcune delle
ospiti non erano ancora delle star quando abbiamo inciso il
disco, come Sia, come Charlie XCX: insomma sono contento di non aver perso il tocco dello scopritore di talenti».
Qual è il suono del futuro?
«Non lo so (ride). E se lo sapessi non ve lo direi».
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GENOVA
E SENTE PROFUMO DI MELASSA, EVGENY MOROZOV mette mano alla pisto-
la. Dopo esserne stato ospite, ha sbertucciato le conferenze TED («Libri diventano talk, talk diventano libri, fino a quando ogni traccia
di profondità o sfumatura spariscono in un vuoto virtuale»). Di
Steve Jobs, morto da poco, diede una memorabile definizione:
«Vegetariano sanguinario, buddista combattivo». Dei «critici
della tecnologia», una comunità di cui sino a qualche anno fa
si è sentito parte, oggi scrive che sono stati sconfitti dal pensiero unico che vede nella Silicon Valley il nuovo Eden («Al
meglio sono riusciti a farne una carriera, al peggio sono utili
idioti»). Dopo essere stato visiting scholar a Stanford questo trentunenne nato in Bielorussia, cresciuto in Bulgaria e
attualmente fidanzato con un’italiana, sta facendo un Phd in storia della scienza a Harvard. Tra i suoi bersagli recenti il “soluzionismo”, ovvero l’idea puerile che a ogni problema corrisponda una app in grado di per risolverlo. Piaccia o meno, è una delle voci meno
allineate nel dibattito su internet imbarazzantemente affollato da cheerleader più che da
analisti. Per questo l’abbiamo invitato alla 3FQVCCMJDB EFMMF *EFF a dialogare su dubbi e prospettive.
La chiamano “tecnoscettico”: è una definizione nella quale si riconosce?
«Non direi. Sono un grande entusiasta delle tecnologie, ma oggi ne esiste un solo grande fornitore, la
Silicon Valley, ovvero un gruppo di aziende private americane alle quali si delegano sempre più servizi pubblici. È questo che critico, non certo le tecnologie in sé. Stranamente, mentre ci piace parlar male di Big Pharma, Big Oil, Big Food e tutti gli altri conglomerati industriali, quasi nessuno lo fa di Silicon Valley, ovvero il detentore collettivo dei Big Data».
Sono stati bravi a vendersi come un capitalismo diverso, dal volto umano. Non a caso lo slogan di
Google è “Don’t Be Evil”, non essere malvagio. Potevamo capirlo prima che forse era solo marketing?
«Avvisaglie ce ne sono state. Tuttavia, man
mano che il welfare veniva smantellato, si è cominciato a cercare altrove risorse. Dove? Dove
c’erano i soldi. Ovvero da aziende private come
Apple che costruiva smartphone in grado di monitorare (ed eventualmente incoraggiare) l’attività fisica di ognuno di noi. Per un europeo questo presunto FNQPXFSNFOU del cittadino deve
sembrare terrificante. Così come la prospettiva
che Uber e le auto senza pilota di Google diventino i trasporti del futuro. La tecnofobia non c’entra niente, c’è solo da guardare alle cose in modo
critico».
Ripercorriamo i suoi libri. In “L’ingenuità della rete” (Codice) criticava l’eccesso di trionfalismo sulla portata politica del web. Quanto è
importante nel favorire rivoluzioni?
«Dalle Primavere arabe a Podemos un’infrastruttura tecnologica è un buon punto di inizio.
Anche Facebook e altri social network privati
possono essere utili, ma sarebbe meglio avere comunicazioni sicure, criptate, senza interessi
commerciali. Anche perché dopo un paio d’ore
su Facebook o Twitter, con tutti i loro link, sei sopraffatto, distratto, insomma non nel mood giusto per cambiare il mondo».
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In “Internet non salverà il mondo” (Mondadori) invece si occupa parecchio di Google. Nessuno ci conosce meglio di chi possiede le parole che cerchi, legge le tue email, i tuoi documenti e così via. Che impressione le fa?
«Google non è più nel mercato delle ricerche,
quanto in quello delle predizioni. È il soggetto
che, grazie alla spaventosa quantità di dati che
analizza, è in grado di prevedere al meglio dove
andrà il mondo. E a lui che si rivolge un’assicurazione o una banca per capire quante probabilità
di incendio o fallimento ha un loro cliente. In qualunque business, ormai, chi ha i dati vince».
Eppure, se azzardi queste obiezioni, la risposta standard è che stanno ottimizzando il
mondo precedente. La loro parola d’ordine è
“disrupt”, “disgregare”. Come le suona?
«È un termine che ha molta presa in America
perché lì è già tutto privatizzato. Start up private
smantellano altre imprese private. Da voi è diverso, si tratterebbe di un cambio di paradigma».
Mi vengono in mente i Moocs, i corsi universitari gratuiti su web. Quello è senz’altro un altro paradigma. Migliore o peggiore?
«L’unico motivo per andare all’università, almeno negli Stati Uniti, è trovare un lavoro, non
gustarsi Dante. Quelle competenze forse si possono acquisire anche premendo tasti davanti a
un computer. Per questo loro si scandalizzano
meno».
Ma gli utenti ci guadagnano o ci perdono?
«Se pensiamo a Uber, altro campione dell’outsourcing di servizi quasi pubblici, direi che il passeggero forse può anche risparmiare qualcosa,
ma non è affatto protetto. Se nevica, per dire,
Uber può decidere di fargli pagare cinque volte
tanto. Oppure può escludere i passeggeri cui puzza il fiato o quelli che mangiano tramezzini puzzolenti. Airbnb potrebbe fare la stessa cosa. A
quel punto uno, che prima era solo cliente, deve
preoccuparsi della propria reputazione. C’è di
più: se il mio vicino mangia male o non fa moto,
perché dovrebbe pagare la stessa polizza che pago io? Se questo modello individualistico ha la
meglio, il modello sociale si disgregherà. Nel welfare tradizionale potevamo permetterci il lusso
dell’anonimato, una difesa che non abbiamo an-
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cora imparato ad apprezzare abbastanza».
Sempre sulla sharing economy, in Italia hanno dichiarato illegale Uber Pop, dove i privati
possono trasformarsi in autisti. I tassisti non
hanno spesso fatto del loro meglio per risultare simpatici, ma è anche vero che hanno visto
svanire da un giorno all’altro l’investimento
per la licenza. Chi ha ragione?
«Il boom recente della sharing economy ha a
che fare con la crisi. Per compensare redditi stagnanti o in calo molte persone hanno pensato di
arrotondare, affittando una stanza o l’auto inutilizzata. Il problema vero è che la sinistra non ha
saputo fornire un’alternativa a questo espediente. Lamentarsi non serve, perché se continua così Uber se lo mangia il modello sociale! Un po’ di
Uber, inteso come maggiore competitività, poteva fare bene. Purtroppo non vedo autorità in grado di fissare dei paletti».
Da Coursera, dove due prof star fanno lezione
a centomila studenti, a Facebook che offre
une connessione sponsorizzata nel terzo mondo. Sarà il mercato a offrire tutti i servizi?
«Dipende se glielo lasceremo fare. Non deve
sorprendere che Silicon Valley applichi a tutto,
compresa l’istruzione universitaria, criteri di ottimizzazione tayloristica. Quando invece Facebook lancia internet.org per far navigare i poveri
africani o brasiliani attraverso una partnership
con operatori locali, dimentica di dire che sarà
una navigazione gratis giusto su Facebook e pochi altri siti. Il resto sarà a pagamento. L’ennesima sostituzione, interessata, di servizi che avrebbero dovuto essere pubblici».
Nel frattempo Zuckerberg diventa sempre
più ricco, anche più dei vecchi magnati del secolo scorso, e tutti gli altri sempre più poveri.
Vie d’uscita da questa disuguaglianza sempre più estrema?
«Hal Varian, chief economist di Google, sostiene al contrario che i poveri avranno ciò che i ricchi hanno già, tipo una app-assistente virtuale
che ricorderà loro cosa dovranno fare tra cinque
minuti, come veri maggiordomi. Quanto a me,
credo che un buon punto di partenza sarebbe tassare sul serio queste aziende, cosa che al momento non si fa. E pretendere la restituzione dei nostri dati. Perché anche quando crediamo che un
servizio sia gratis, oltre alla privacy cediamo tali
e tante informazioni su di noi che nel loro complesso valgono assai di più di quel che abbiamo risparmiato. È arrivato il momento di rendersene
conto e, considerata la vostra diversa sensibilità,
forse smettere di fare favori alle aziende americane».
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beddu cavuru, vassia veni a mancia,
sunnu cuosi ra bella vieru... u spinciuni, scarso d’oggio e chinu i pruvulazzu......”. Coloriti e ironici, gli ambulanti di Palermo invitano i passanti ad assaggiare gli sfincioni, caldi, profumati, fatti come si deve, scarsi d’olio e
pieni di polvere... Non esiste cibo da
strada più popolare della pizza, né impasto più diffuso nelle cucine del pianeta. Per questo, l’estate rappresenta il suo trionfo. Certo, mentre gli orientali amano zuppe e brodi caldi a prescindere dalla
stagione, appena le temperature salgono sopra i trenta gradi, i mediterranei si schierano
dalla parte di gelati, bevande e paste fredde. Negli anni, perfino alcuni ardimentosi produttori di vino si sono cimentati in rossi da
conservare in frigo e servire in glacette. SoIn realtà, a vincere nei mesi del grande
lo la pizza fa eccezione, non c’è solleone che caldo è la terza via della pizza, rappresentatenga. La vogliamo comunque calda, anzi ta dalle declinazioni locali, che trasformabollente. Ma quale pizza? Cornicione alto o no il magico assemblaggio di acqua e faribasso, piegata a libretto o tagliata a tranci, na in bocconi irresistibili, quasi sempre serbianca o rossa? In versione gourmet, a mo’ viti in modalità itinerante, lontano dalla
di ricetta gastronomica, come quelle di stanzialità dell’addentamento richiesta
Edoardo Papa (In Fucina, Roma) e Simone nei templi della Pizza Madre. Così, al di là
Padoan (I Tigli, San Bonifacio, Verona), o del tegamino torinese, che richiede coltello
da selezione ossessiva di lieviti e farine, co- e forchetta (ma si distingue comunque per
me le creazioni di Matteo Aloe (Berberè, il formato compatto e ridotto), l’altra pizza
Castelmaggiore, Bologna) e Bruno de Rosa si sbocconcella per strada, impudente e
(Montegrigna Tric Trac, Legnano)?
grassosa. Ripiena con ogni bendiddio a piaHI CIAVURU, U CULURI C’HA TALIARI,
cere del pizzaiolo, o finta magra per via del
colore dorato e del solo formaggio fresco a
velarla (ma le calorie scendono di poco,
complice l’extravergine generosamente irrorato). Cotta al forno per preservarne l’origine in comune col pane, oppure fritta, opulenta campionessa della trasgressione culinaria. Servita in un cartoccetto minuscolo,
insufficiente a proteggere mani e vestiti,
oppure appoggiata sul piatto di carta, che
permette il conforto di una sosta.
A fare la differenza, come sempre, la mano di chi prepara e la qualità delle materie
prime, entrambe in stato di agitazione per
la vicenda del latte in polvere, che l’Unione
Europea vorrebbe sdoganare per la facitura dei formaggi. Slow Food ha lanciato una
raccolta di firme, proprio come quindici anni fa. Nel 2000, la campagna voleva incentivare l’utilizzo del latte crudo (a garanzia
della bontà), oggi il traguardo è ridotto
all’uso del latte liquido (spesso men che
mediocre).
In questa lotta di retroguardia, il concetto di qualità è scomparso, lasciando a cuochi e pizzaioli la responsabilità — anche
economica — di supportare gli artigiani virtuosi, scegliendo i loro prodotti. Anche per
questo, non fidatevi di un panzerotto qualsiasi, ma cercate quelli buoni, puliti, giusti.
E ovviamente bollenti.
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1 MOZZARELLA DI MEDIA GRANDEZZA; MENTA FRESCA QB;
NERO DI SEPPIA (FACOLTATIVO); PEPE QB;
2 CUCCHIAI DI PECORINO GRATTUGIATO; ZESTE DI LIMONE QB
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ciolto il lievito in una tazza d’acqua, versatelo nel buco della
fontana di farina. Salate e mescolate per creare una cremina, poi cominciate a impastare, versando poco alla volta la restante acqua, fino a ottenere una
pagnotta liscia e setosa. Coprite con un panno umido e lasciate lievitare per 2 ore. Tagliate l’impasto
in formelle grandi come una mela e lasciatele lievitare per altre 5 ore, poi stendetele sul piano infarinato: dovrete ottenere uno spessore di circa 3 mm
al centro e 9 mm suk bordo, . Disponete l’impasto, condito con cubetti di bufala e filo d’olio,
in una teglia da infornare alla massima
temperatura per un quarto d’ora. Quando la base della pizza sarà dorata, aggiungete ricci, menta, pecorino, pepe nero
e il nero di seppia cotto pochi minuti
con poco olio e pomodoro
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IZZA FRITTA E CALZONE,
panzerotto e sfincione,
pala e focaccia, tegamino e
scaccia. Fanno rima,
proprio come gli italiani.
Assonanti e nello stesso tempo
differenti. Soprattutto quando decidono
di mettere le mani in pasta. Che
apparentemente è la stessa ovunque,
acqua, farina, sale e qualche volta
lievito. Ma in realtà a fare la differenza
tra una regione e l’altra, tra un paese e
l’altro, qualche volta addirittura tra una
famiglia e l’altra è proprio la mano. Il
gesto di amalgamare l’impasto,
schiacciarlo, accarezzarlo, pizzicarlo,
vezzeggiarlo, farlo crescere come una
creatura è la cifra invisibile, ma anche
inimitabile, che rende certi cibi unici e
irriproducibili. Anassagora diceva che
l’uomo pensa perché ha le mani. Arti
che articolano il mondo. Ecco perché
anche in un semplice panzerotto resta
impressa l’impronta digitale della
persona che lo ha fatto. Mettendoci
mani testa e cuore. E per la stessa
ragione la semplicità della pizza e delle
sue sorelle è solo apparente. Essenziali,
non elementari. Sono il basic istinct del
sapore. In realtà queste non-pizze, sono
degli straordinari contenitori edibili.
Degne discendenti delle mense di cui
parla Virgilio nell’Eneide. Schiacciate
cotte al forno che servivano
all’occorrenza anche da piatti. Un po’
come la pita greca e mediorientale, o
come il nan indiano. La loro fortuna
deriva anche dalla loro duttilità, che ne
fa degli hardware gastronomici
compatibili con qualsiasi software. Ci si
può mettere sopra di tutto perché la
forza sta nell’intelligenza delle mani.
È il caso della pizza fritta partenopea,
un aereo nembo di pasta dorata, ripieno
di una bianca nuvoletta di ricotta con un
cirro di pepe. Che fa pensare al gesto
consumato di Sophia Loren che ne
“L’oro di Napoli” lancia imperiosa dischi
nell’olio bollente, come saette d’amore.
E più a Sud, dove la Sicilia guarda
verso Oriente, si entra nel regno delle
madri catanesi e ragusane, che
impastano scacciate e scacce, sottili
come pergamene e ripiene come
cornucopie. E se l’Italia è la terra
promessa di questi street food, la
focaccia ligure è la sua manna. Caduta
dal cielo per essere modellata dai fornai
della Superba. I genovesi la mangiano
anche la mattina, al posto del croissant,
col caffè amaro e bollente. Un’apoteosi!
In realtà nella regione dove si
consuma pan per focaccia, le varianti
sono moltissime. Ma poche
raggiungono le vette della focaccia di
Recco. Due sfoglie sottili come ostie,
rigorosamente senza lievito, farcite di
latticino freschissimo. Una variante
moderna dell’antica schiacciata di
semola con la giuncata. Pare che i
Crociati la mangiassero prima di
imbarcarsi per Gerusalemme. Perché
gli restasse nell’anima quel gusto
dolceamaro. Inconfondibile. Come il
ricordo di una creuza de ma’.
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“Ho accettato il titolo di Sir perché faceva piacere ai miei cinque
figli. Ma io vengo dalla working class, a diciott’anni mio padre
mi disse che avevo studiato già fin troppo”. Al cinema arrivò per
caso, dopo anni di spot pubblicitari: “Fuga di mezzanotte”, “The
Wall”, “The Commitments”, “Evita”. E da anni non gira più un
film: “Preferisco scrivere sceneggiature che nessuno leggerà. E
poi dipingere. Così almeno non rischio di avere star tra i piedi.
La verità è che mi sono sempre romanzi (e, nel 2008, 4JE 7JDJPVT MJDPOB EFM QVOL, sul bassista dei Sex Pia fronte dei quattordici lungometraggi e della miriade di spot sfornati
in poco più di trent’anni, dal ’70 ai primi Duemila: «Il fatto è che davvero scrivesentito un clandestino del gran- stols)
re mi piace più che girare film. Il mio autore preferito? Steinbeck, forse. Hemingway, Fitzgerald? Allora, piuttosto, Shakespeare. Devo confessare che
sono un lettore accanito, come per esempio mia moglie, che si fa almeno
de schermo. Lo sa? Sul mio pas- non
due romanzi a settimana, tenendosi persino aggiornata sulle novità cinematografiche. Il guaio è che ne parla a tavola con gli ospiti e tutti chiedono il mio paFaccio finta di conoscerli tutti, libri e film, ma mia moglie sa bene che non
saporto non c’è scritto che sono rere.
li ho letti e non li ho visti. E così, a tu per tu, mi prende in giro: nel lavoro, mi dice, sei influenzato dai libri che non hai letto e dai film che non hai visto».
Una volta ha ammesso che negli zapping tv si fa prendere da sequenze traun regista, ma uno scrittore. E scinanti,
d’aspetto familiare e, quando ha ormai deciso che è proprio un bel
film, si accorge che è suo: «Sì, che vergogna, vero?». Ma perché prende le didalle sue glorie in pellicola? «Perché mi sono sempre ritenuto un clanforse un giorno anche pittore ” stanze
destino del grande schermo. Vi sono arrivato attraverso la scrittura e, prima,
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BARI
N REGISTA DOVREBBE AVERE LA PAZIENZA DI UN POETA e la forza fisica
di un muratore. Ricetta di Alan Parker, autore di film memorabili, da 'VHB EJ NF[[BOPUUF a 1JOL 'MPZE 5IF 8BMM e 5IF $PNNJU
NFOUT. Ricetta di un Sir del cinema, che da buon inglese ha subito il correttivo di humor: « Tanti i registi che scambiano gli ingredienti, adottando la pazienza di un muratore e la forza fisica di un poeta». Sir
Alan Parker, settantuno anni, siede trionfale davanti all’ennesimo bicchiere,
stavolta un rubicondo Primitivo di Puglia. La lunga sciarpa penzoloni nella tasca della giacca, camicia jeans in libertà dentro il panciotto piuttosto pancione, rotondo e vispo, occhialoni di tartaruga e candida frangetta, con le sue dita
paffute ha buttato giù in due secondi l’autocaricatura: «Quasi tutti quelli che
scrivono di me hanno ricevuto una mia vignetta. Da più di mezzo secolo, disegno e pittura sono la mia attività preferita, insieme alla scrittura. Ma vado più
veloce con le matite che con le mail. I disegni sono la migliore forma di comunicazione, superano ogni barriera linguistica: quanti ne ho mandati ai produttori di Hollywood per spiegare i miei progetti. La volta dopo, quando poi li andavo a trovare, li trovavo incorniciati nei loro Studios». Faccia, e statura, di putto
stagionato, Parker sorvola, appena può, sull’attività che l’ha reso famoso — il
cinema — per la quale è stato anche “incorniciato” al Bif&st di Bari con il premio di rito. Si schermisce, anche se quasi tutti i suoi film, proiettati in rassegna nell’omaggio al Festival Champs-Elysées di Parigi del mese scorso, sono
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veri e propri casi cinematografici: 1JDDPMJ HBOHTUFS, baby-parodia
dei film di mafia, con la tredicenne Jodie Foster, inaugurava
nel ’76 il filone giovanilistico; 'VHB EJ NF[[BOPUUF del ’78 riceveva il primo Oscar per una musica realizzata da Giorgio
Moroder con il sintetizzatore; altro Guinness, &WJUB del
’96, per il maggior numero di cambi d’abito in un film —
ottantacinque per Madonna, contro i sessantacinque di
Elisabeth Taylor in $MFPQBUSB — inclusi 39 cappelli, 45
paia di scarpe e 56 coppie d’orecchini.
«D’accordo — ammette Parker — ma sa quanto tempo mi ci è voluto per convincermi che, forse, potevo definirmi “regista”? Pensi che sul passaporto ho sempre indicato la professione di scrittore, non di regista». Scrittore lo è davvero, sia pure con pigra cadenza british: tre
gli spot. A diciotto anni, mio padre mi ha detto: “Hai già studiato anche troppo.
Stop”. Lui aveva smesso a quindici. Io vengo dalla working class, da quel tipo
di mentalità: perciò il titolo di 4JS mi fa sorridere, è come un marchio a fuoco su
una pelle riottosa. Ho accettato volentieri questo timbro di nobiltà per far piacere ai miei cinque figli. Fossi venuto fuori dalla comunità ebrea, sarebbe stato diverso: lì, i genitori sono orgogliosi di predisporre ai figli un destino di avvocato, di medico…». O di farmacista, com’era nelle ambizioni, ripetutamente
frustrate, del papà di Woody Allen, divenuto “solo” regista. «Anche lui vittima, come me, di una carriera sbagliata», ride Parker: «Abbandonati gli studi,
ho seguito i corsi di Belle Arti e ho cominciato a lavorare nella pubblicità: è stata la mia scuola di cinema e la mia università. Scrivevo i soggetti, imparavo via
via la tecnica delle riprese. Miei compagni di ventura erano Hugh Hudson, poi
regista di .PNFOUJ EJ HMPSJB, e i fratelli Ridley e Tony Scott: tutti scolaretti dello spot e, quasi subito, maestri di un cinema nuovo». Per Parker è stata un’esperienza preziosa, tra l’altro, per il futuro clippone grande schermo 1JOL
'MPZE 5IF 8BMM «L’ho realizzato nell’81, quando ancora Mtv non esisteva e il videoclip era ai primi vagiti. Se avessi ricevuto anche un solo dollaro per ogni
idea rubata a 5IF 8BMM nella valanga di clip successivi, sarei l’uomo più ricco
del mondo». Ha invece continuato ad arricchire le platee di originali exploit di
cinema & musica, come già era avvenuto nell’80 con 4BSBOOP GBNPTJ: «Sì, a
parte che, a fine riprese, avrei voluto ucciderli tutti, uno dopo l’altro. E non parliamo di Roger Waters o di Madonna...». Parliamone, invece. Parker chiede rinforzi a un secondo bicchiere di Primitivo: «Capirà perché preferisco essere
scrittore: tranquillo, a casa mia, davanti al computer, magari con un buon bicchiere a lato, ma nessuna star nei paraggi. Andiamo per ordine. Waters è stato
un inferno: non accettava ciak che non fossero come lui li aveva immaginati.
Non concepiva l’eventualità d’un confronto. L’ego che si nutre di sé. Il film è
stato comunque un successo. E ne ho ricavato una lezione: non è detto che solo
un set armonioso produca un buon film. È più probabile che esca da set di guerra, come 5IF 8BMM». E Madonna? «Discorso diverso. Durissima con tutti gli al-
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tri interpreti, ma adorabile con me. Aveva ottenuto il ruolo che aveva ostinatamente desiderato, battendo una concorrenza da capogiro: Meryl Streep,
Cher, Glenn Close, Olivia Newton-John e, soprattutto, Michelle Pfeiffer, che
da mesi studiava la parte e aveva già registrato le canzoni. Ho ricevuto da Madonna una lettera di cinque pagine, dove mi spiegava di essere l’unica in grado di ricoprire il ruolo. Che fare? Era, allora, la donna più famosa al mondo, come lo era stata a suo tempo Eva Peròn. Ma che fatica: quattro mesi per registrare le canzoni prima di metter piede sul set. Il film più costoso della mia carriera.
Quando penso che, di norma, le prove sono un lusso negato: gli attori costano, non puoi permetterti extra. Così succede che due interpreti, appena arrivati, girino subito una scena bollente
di sesso e, dopo, facciano conoscenza».
Dal 2003, cioè da 5IF -JGF PG %BWJE (BMF, sulla pena
di morte in Usa, non vediamo più suoi film. Perché ?
«Perché scrivo. Da allora a oggi, sono nate tante sceneggiature mai diventate film: un intero festival
che mi è rimasto in testa e che nessuno potrà
mai vedere. L’ultimo soggetto è il migliore di
tutti, ma non ha trovato produttori. Forse non
ho conservato la pazienza o la disperazione del
poeta: e la forza di un muratore non ce l’ho più.
Inoltre, un regista che invecchia non è, come il
vino, un regista che migliora: non ha più la freschezza, l’originalità delle prime volte. Perciò,
sempre di più, dipingo. Ho in progetto una mostra in autunno a Londra. La pittura è gioia, è
qualcosa che resta. Invece, se guardo indietro, a
quarantacinque anni fa, quando è cominciato il mio
cinema, apro la mano e la vedo vuota. Granello dopo granello, i film mi son scivolati via, come sabbia tra le dita».
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