Periodico d’informazione culturale dell’Associazione “Gli Stelliniani” di Udine – Anno XIV – Numero­­­­1 – Settembre 2015
Periodicità semestrale – Spedizione in abbonamento postale – D.L. 353/2003 (conv. in L. 27/02/2004 n. 46) art. 1, comma 1 DCB UDINE
Liceo Stellini, una scuola
al passo con i tempi
U
na magica atmosfera si respirava sabato 16 maggio nella chiesa di San Rocco a Udine, durante l’esibizione del
coro e dell’orchestra formati dagli studenti dello Stellini. Il professor Andrea Nunziata, coordinatore e regista di
entrambi i gruppi, con l’ausilio dei maestri – giovani, ma che
già dimostrano una grande maturità tecnica ed artistica – Fabio Cassisi, Elena Bulfon e Sebastiano Gubian, ha proprio colto
nel segno carpendo l’attenzione di un pubblico affascinato che
ha affollato la chiesa, attratto dalle puntuali, precise esecuzioni dei due complessi che si sono perfettamente integrati e che
hanno fermato per due ore l’attenzione meravigliata per l’esecuzione dei pezzi, particolarmente trascinanti ed emozionanti,
sulle note di Verdi, Tchaikovsky e Jenkins. Nel finale una unanime ovazione ha salutato la mirabile interpretazione dei brani
tratti in modo fantastico dal genio di Morricone, impreziositi
dall’arrangiamento indovinato di Sebastiano Gubian.
È stata una prova di compattezza, di serietà e capacità artistica offerta dagli interpreti coristi e musicisti, studenti dello
Stellini, a dimostrazione che, al di là degli studi classici e umanistici, essi sono plasmati e orientati verso ampi orizzonti del
vivere odierno. In un momento in cui si discute animatamente
e con visioni spesso alterate da ideologie non sempre capite o
non particolarmente spiegate sulla funzione della scuola, in un
clima di paventata esorbitanza dell’operato dei dirigenti scolastici, o sulla astrattezza talvolta del mondo della scuola, che
sembra un pianeta lontano da quelle che sono le realtà della
vita quotidiana, il Liceo Classico Stellini pare che stia dando
prova di una sensibile inversione di tendenza e, grazie alla lungimiranza del dirigente scolastico, il prof. Santoro, coadiuvato
da insegnanti motivati ed aperti al nuovo, dimostra che l’istruzione tradizionale può avere successo anche indirizzando gli
studenti verso interessi arricchenti, in grado di completare la
loro cultura e renderli pronti ad affrontare le esperienze e le
richieste della odierna società.
La proiezione della scuola nella società moderna costituisce,
dunque, il modello che sembra perseguire questo Istituto, che
è attraversato da un’aria nuova che sempre più prorompente
investe le aule che hanno rappresentato il luogo importante di
formazione di tante generazioni.
E la prefigurazione di una altrettanto positiva proiezione
nella società dei fasti del Liceo Stellini, costituisce l’ambizione dei nuovi responsabili, dalla presidenza all’intero Direttivo,
dell'Associazione Gli Stelliniani, organismo che raccoglie ormai
da un ventennio, oltre a noti, importanti e affermati ex studenti
della Scuola, diverse altre persone memori degli anni giovanili
trascorsi nelle aule del prestigioso Istituto, ed ambisce ad instaurare legami sempre più stretti con gli operatori scolastici
odierni, che si adoperano con passione e competenza perché
questa scuola possa costituire sempre di più un punto di riferimento e di confronto con la città, alla quale molto essa può offrire, con la Provincia e con le altre istituzioni e organizzazioni
pubbliche e private.
Si tratta di un appello pressante e sentito che l’intero Direttivo dell’Associazione rivolge a chi opera dentro la Scuola e a
chi potrebbe usufruire delle grandi opportunità che essa offre.
Gabriele Damiani
Presidente dell’Associazione “Gli Stelliniani”
Questa rivista è stata pubblicata con il sostegno della
Abbiamo 20 anni!
La foto e l'articolo sono tratti dal «Messaggero Veneto» del 9 febbraio 1995
I
l 20 febbraio 1995, presso lo studio del notaio Tania Andrioli di Udine, veniva stipulato l’atto costitutivo di un nuovo sodalizio culturale. Il suo nome era: Associazione Gli
Stelliniani. Ne erano soci fondatori l’avv. Lino
Comand, che era stato l’ispiratore dell’iniziativa e sarebbe stato nominato presidente, il
preside dello Stellini, prof. Pasquale D’Avolio, e colei che l’aveva preceduto nell’incarico, prof.ssa Isabella Baccetti Londero, l’avv.
Pier Eliseo De Luca, il dott. Licio Damiani,
la prof.ssa Mara Govetto e la segretaria dello Stellini, signora Elvina Del Negro. Quattro giorni dopo, il 24 febbraio 1995, la nuova
associazione veniva presentata al pubblico
nell’Aula magna del Liceo. Sarebbe stato proprio il preside D’Avolio a tenere il discorso
introduttivo, mentre il coro del Liceo salutava il festoso evento intonando le note del
Gaudeamus igitur. Trovava così compimento
Andrea Purinan
(segue a pagina 2)
2
(continua da pagina 1)
Dal «Messaggero Veneto» del 18 dicembre 1994
un progetto che era stato concepito alcuni anni prima, la cui
genesi è ben raccontata dalla prof.ssa Elettra Patti nel contributo dedicato alla storia dell’associazione e raccolto nel volume
Il Liceo Classico Jacopo Stellini. Duecento anni nel cuore del Friuli
(Forum, Udine 2010, p. 357 sgg.).
Sono trascorsi dunque vent’anni e sembra l’altro ieri che il
prof. Bruno Londero, sulla Voce del giugno 2005, commentava il raggiungimento del primo importante traguardo: quello
del decennale. Un traguardo al quale si era arrivati non senza
i patemi che, svanita l’euforia degli esordi, contraddistinguono ogni nuovo percorso. Di quei lontani inizi ricordiamo l’impegno profuso proprio dall’avv. Comand, che oltre ad essere
stato l’ideatore del progetto ne era stato anche l’animatore più
convinto. Egli mantenne l’incarico di presidente fino al 2002,
periodo nel quale l’attività degli Stelliniani cominciò a farsi apprezzare per iniziative di assoluto rilievo. Come le numerose
conferenze (la prima delle quali, nell’ottobre 1995, tenuta dal
prof. Mauro Ferrari). La ristampa del libro scritto nel 1977 dal
prof. Giovanni Battista Passone sulla storia del nostro liceo. Le
mai dimenticate e speriamo replicabili Feste di Primavera, occasione di ludico abbandono per gli stelliniani di tutte le età.
L’allestimento nell’ottobre 2001 (e sino al novembre 2004) di
una sede autonoma per gli Stelliniani, in quelle stesse stanze del
Liceo dove si trovava l’abitazione del custode Bepo Chiarandini (esperienza nella quale si distinsero due docenti che diedero,
anche in altri ruoli, un sostegno fondamentale alla crescita del
sodalizio: la compianta prof.ssa Annamaria Veneroso Zuccato
e la prof.ssa Elettra Patti). E la pubblicazione di una rivista, La
Voce degli Stelliniani, uscita nel giugno 2002 sotto la
direzione del dott. Aldo Rinaldi, al quale sarebbero
succeduti il prof. Daniele Picierno, il dott. Hubert
Londero, la stessa prof.ssa Patti e, nel 2009, l’autore
di queste note. Era il primo numero del nostro giornale e ne sarebbero seguiti, con questo, altri ventisei.
Nel 2003 all’avv. Comand venne conferito il titolo
di presidente onorario e gli subentrò nella presidenza del consiglio direttivo l’avv. Pier Eliseo De Luca,
mentre il prof. Daniele Picierno venne nominato vice
presidente, la prof.ssa Veneroso tesoriere e la prof.
ssa Patti segretaria organizzativa. Cominciò allora
una stagione particolarmente feconda di iniziative,
che videro gli Stelliniani impegnati su vari fronti: da
quello dei viaggi e delle visite culturali, a quello dei
progetti di carattere storico-filosofico, con seminari
di studi e concorsi fra gli studenti delle superiori,
fra i quali il più prestigioso è stato senz’altro il Progetto Diritto e Giustizia (ruotante intorno al Premio
Sergio Sarti e ideato sulla falsa riga del precedente Dal «Gazzettino» del 27 febbraio 1995
Progetto Theatron organizzato per qualche anno dagli
Stelliniani in ambito nazionale con l’assegnazione del Praemium che l’anniversario costituisse l’occasione per ristudiare e riEuripideum). Non meno degno di nota il concorso di traduzione scoprire questi duecento anni di storia. Storia che era stata
dalle lingue classiche al friulano, seguito dalla pubblicazione della non soltanto quella di una scuola, ma anche della città e del
collana «No dome a Aquilee». Meritano inoltre di essere ricordati territorio per i quali essa aveva rappresentato, almeno fino
sia il Progetto Batticaloa, con l’adozione a distanza di alcuni ragazzi alla nascita dell’Università di Udine, il più alto riferimento nel
dello Sri Lanka, colpiti dallo tsunami del 2004, sia l’intensa attività campo umanistico, oltre che il luogo della formazione morale
teatrale, con la costituzione di un gruppo salito su importanti ri- e culturale di studenti che si sarebbero poi affermati nella pobalte nazionali – pri- litica come nelle professioni, nelle scienze come nell’arte. Le
ma per importanza celebrazioni per il Bicentenario cominciarono il 21 dicembre
quella rappresentata 2008 con un’avvincente manifestazione al Teatro Palamostre
dal teatro greco di di Udine e si conclusero in quello stesso teatro, il 2 ottobre
Palazzolo Acreide 2010, con la presentazione del libro Il Liceo Classico ‘Jacopo
– per interpretare i Stellini’. Duecento anni nel cuore del Friuli, curato dal prof. Feclassici della lettera- derico Vicario e dalla prof.ssa Elettra Patti, al quale avevano
tura latina e greca e dato il loro contributo circa sessanta autori. A questa autentica
non solo.
impresa editoriale si sarebbe aggiunta, qualche anno dopo,
Questo
fervore la pubblicazione del primo volume della collana «Quaderni
di idee – che, salvo Stelliniani» (Lithostampa, Pasian di Prato 2013), con una morari quanto preziosi nografia dedicata dal prof. Stefano Perini alla storia del Liceo
contributi esterni, si dalla sua fondazione al 1866.
affidava quasi semNel frattempo (2009) alla presidenza era stata chiamata la
pre alla sola forza prof.ssa Elettra Patti, la cui energia, passione e competenza
del volontariato e al sono state decisive nel traghettare il sodalizio fino ai giorni
sostegno delle quo- nostri. È stato proprio con il doppio mandato della presidente
te associative – tro- Patti, conclusosi nel 2014, che l’associazione è diventata ‘magvò la sua massima giorenne’ e ha raggiunto quella dimensione di cui l’avv. Gaespressione
nelle briele Damiani, nominato presidente dal consiglio direttivo
celebrazioni per il insediatosi quest’anno, ha giustamente sottolineato l’imporbicentenario del li- tanza, sostenendo l’esigenza di stringere sempre più forti e
ceo classico udine- costruttivi rapporti sia con la comunità dello Stellini che con
se, istituito nel 1808. l’intera società civile.
Furono proprio gli
Questi sono, dunque, i vent’anni degli Stelliniani. E poiché
Stelliniani,
infatti, – come aveva ricordato nel suo discorso di saluto il preside
alla cui presidenza D’Avolio – «stelliniani si resta per tutta la vita», ci piace pensaIl nuovo consiglio direttivo degli Stelliniani per il triennio 2015-2017. Da sinistra in prima fila: il preside Giuseppe Santoro, Chiara
era stato elevato nel re che, ancora una volta, siamo anche noi ad avere vent’anni!
Tonutti, il nuovo presidente Gabriele Damiani, Francesca Tamburlini, la vicepresidente Elettra Patti e Francesca Venuto. In secon2006 il prof. Andrea
da fila: Lucio Costantini, Stefano Perini e Giacomo Patti. In terza fila: Marco Pezzetta, Daniele Picierno e Andrea Purinan. Gli altri
consiglieri sono Gabriele Ragogna e Francesco Zorgno
Andrea Purinan
Bergnach, a volere
3
TERZA PAGINA
Riflessioni in occasione del ventennale
Una presidente, un’associazione
I
l ventesimo anniversario dell’Associazione, che
il Consiglio direttivo si accinge a celebrare con
una serie di iniziative nel prossimo autunno, mi
ispira alcune riflessioni che si focalizzano sul periodo più recente, con speciale riguardo a chi, prima
come segretaria organizzativa (dal 2002 al 2008) e
poi come presidente (dal 2009 al 2014), ne è stata
l’anima motrice: la prof.ssa Elettra Patti.
Quale docente di lettere classiche allo ‘Stellini’,
in cui ha insegnato per ventiquattro anni fino al
2007, Elettra Patti non impartiva il suo insegnamento tentando di attualizzare la cultura classica
in un presente indicibilmente distante da essa, né
considerandola come oggetto di nostalgico rimpianto, sebbene l’oggi la condanni a una memoria
condivisa solo da pochi, ma come strumento irrinunciabile di formazione. Per lunghi anni Elettra
è stata anche un’organizzatrice instancabile di attività culturali che affiancava all’insegnamento delle
proprie discipline per meglio favorire la crescita degli studenti e, una volta entrata nel direttivo degli
Stelliniani, promoveva anche a beneficio dei soci e
della cittadinanza.
Una volta andata in pensione, Elettra Patti ha
continuato a ideare e attuare progetti all’interno
dell’Associazione, rivitalizzando l’idea del mondo
classico, oltre che sé stessa. Tra un impegno e l’altro
si sentiva una convalescente che, come dice Nietzsche, «per il minimo evento inatteso gioisce dell’energia che ritorna, della fede nuovamente ridesta in
un domani e un dopodomani, dell’improvviso sentimento e presentimento del futuro in cui avere fede».
Per la presidente Patti è stato difficile impedire
alle proprie mani di lanciare qualche sasso, al fine
di destare i dormienti. Molti amanti del mondo
classico e ammiratori degli eroi antichi, infatti,
giudicando quello che ci circonda come un incubo,
preferirebbero addormentarsi e sognare quella stessa cultura pervasi da un sentimento di pietas per i
giovani studenti, ma anche dal pathos che la pietas provoca. Meglio allora – ci ha insegnato Elettra
– il risveglio, perché il crollo dei sogni genera paura
e angoscia: molto meglio reagire cercando a occhi
aperti di catturare il nuovo.
In perfetta sintonia e consonanza con la sua presidente, l’Associazione non ha mai ceduto in questi
anni alla frenesia del fare per non essere tacciati di
inerzia, o al timore di osare per non compromettersi
col fallire, ma la sua cifra è stata sempre e comunque la misura: gli Stelliniani non possono, infatti,
indulgere puerilmente a bizzarrie ed eccentricità,
ai fuochi d’artificio della spettacolarizzazione di
eventi o ai preziosismi intellettuali. Prova ne sia
la sobrietà delle cerimonie organizzate in occasione
della celebrazione del bicentenario dell’istituzione
L'avvocato Lino Comand, presidente dal 1995 al 2002
Elettra Patti, presidente dal 2009 al 2014
del liceo classico a Udine (dicembre 2008), o della
presentazione del libro sulla storia dello stesso (ottobre 2010).
Niente mai dall’Associazione è stato organizzato in questi anni di arrischiato e provocante. Cerimonie, conferenze, seminari, spettacoli teatrali,
viaggi culturali e quant’altro, tutto è stato ideato e
realizzato in modo da non rendere anacronistica la
‘forma’ dei progetti e da non frantumare la ‘materia’
degli eventi in frammenti divisi e occasionali. Ogni
attività è stata pensata per trovare una sintesi e ridurre a unità il presente e il futuro, il liceo e la sua
città, la città e la sua storia, i giovani e gli anziani.
Come diceva Montaigne, «i classici sono il rifiuto
degli estremi, sono la sostituzione dell’intelligenza
alla sentimentalità». Ne sono esempi edificanti la
rivista culturale «La Voce», ormai al suo quattordicesimo anno di vita, e la collana culturale «Quaderni Stelliniani» di recente fondata, tutte attività
intraprese proprio per contribuire alla tradizione di
questi valori, come pure le dodici edizioni del progetto filosofico dedicato al tema 'Diritto e Giustizia'.
È stata la prof.ssa Patti a volere quest’ultimo progetto, attività che attualmente costituisce l’evento
principale nella nostra programmazione, ricalcando la struttura del progetto Theatron precedente-
mente da lei ideato e coordinato per anni nel Liceo,
spostando tuttavia l’interesse dal teatro greco alle
tematiche storico-filosofiche. Articolato in vari momenti, come lo era la precedente versione, esso resta
incentrato sull’agòn (confronto e competizione),
l’unica forma di lotta che oggi può dirsi, con beneplacito di tutti, veramente bella. Chi è nutrito di
studi classici, contro l’odierna cultura dell’immagine, ama il kalón e la sophía, di cui nell’antichità
Tucidide sottolineava la valenza, sostenendo che gli
Ateniesi erano superiori a tutti gli altri popoli proprio perché tali ideali perseguivano.
Pure Elettra ama il bello e la sapienza, e non solo
si accosta con animo e mente di filologa ai prediletti classici latini e greci – perché per lei, come diceva San Girolamo, tradurre non significa «voler
prevaricare l’autore per renderlo più interessante,
ma voler cogliere il midollo del reale oltre la corteccia» – ma si approccia con la medesima acribía
alle problematiche della vita. Dai tragici greci ha
imparato che la tremenda facoltà del nostro essere è
creare momenti fattivi. Questi generano éros che è
tra lógos, inteso come discorso e ragione, e sophía,
la sapienza che pilota tutte le cose. Perciò la filologia
che ama Elettra è insieme éros verso la razionalità
del pensiero nella sua unità e cura di ogni singola
parola. Da ciò deriva il suo éros verso la precisione e la preoccupazione di curare di persona i più
piccoli particolari di ogni evento progettato in seno
all’Associazione.
Ma se Elettra Patti in tutti questi anni ha rappresentato il motore dell’Associazione, nondimeno il
nostro sodalizio si è nutrito dei talenti e dello spirito
di tutti gli altri consiglieri: dell’entusiasmo e delle
idee nuove del direttore della «Voce degli Stelliniani», l’avv. Andrea Purinan, della briosa fantasia
del dott. Lucio Costantini, dell’energia responsabile
del prof. Andrea Nunziata, della prudente saggezza e forte personalità dell’avv. Gabriele Damiani,
della raffinata competenza della prof.ssa Francesca Venuto nel campo dell’Arte e dell’approfondita
conoscenza della lingua friulana del prof. Gabriele
Ragogna, della professionalità dell’ing. Francesco
Zorgno, che ha curato il sito internet del sodalizio,
del pragmatico ottimismo del dott. Giacomo Patti
e, infine, della fattiva collaborazione dei dirigenti
scolastici, dal prof. D’Avolio alla prof.ssa Marsoni,
sino all’attuale, il prof. Giuseppe Santoro.
È stato grazie alla collaborazione di questi e degli
altri consiglieri che si sono avvicendati in questo
ventennio che, come diceva Sartre, «una serie di
persone è diventata gruppo».
L’assetto del Direttivo presenta quest’anno grosse
novità. Visto che la prof.ssa Patti ha ritenuto oppor-
L'avvocato Pier Eliseo De Luca, presidente dal 2003 al 2005
tuno non ricandidarsi per la presidenza, convinta
che l’Associazione abbia bisogno di nuova linfa vitale, il Consiglio ha riconosciuto nell’avv. Gabriele
Damiani la persona più idonea a guidare il sodalizio e a darle nuovo impulso, grazie alle sue notevoli
qualità e al prestigio di cui gode nella nostra comunità. Vi sono inoltre entrati alcuni valenti stelliniani, quali il prof. Stefano Perini, colonna storica
dello Stellini e studioso di vaglia, la prof.ssa Chiara
Tonutti, anch’essa docente del nostro liceo or ora
andata in pensione dopo anni di preziosa ‘militanza
attiva’, la dott.ssa Francesca Tamburlini, studiosa
di spicco nel panorama culturale della città e il dott.
Marco Pezzetta, il cui bagaglio di esperto commercialista non mancherà di essere apprezzato.
Un sentito ringraziamento va a coloro che sono
usciti dal Direttivo: al neolaureato Francesco Grisostolo, al dott. Daniele Tonutti, che ha dato la
sua preziosa collaborazione nel campo telematico,
al prof. Andrea Nunziata, che in modo esemplare
ha fatto da tramite fra l’Associazione e il Liceo, e
soprattutto all’ing. Gaetano Cola, che, membro del
Consiglio fin dagli inizi, ha messo al servizio dell’Istituzione la sua saggezza, la sua competenza e la
sua fedeltà verso l’amato Liceo Stellini.
Concludendo queste riflessioni, esprimo quindi la
mia riconoscenza a Elettra Patti, che è anche atto di
gratitudine verso tutti quelli che si sono impegnati nell’Associazione. E debbo dire ‘grazie’ a lei e a
tutti gli altri alla doppia potenza, perché da filosofo
puro, amo i filosofi e il loro tempo e gli Stelliniani
sono stati come teoria e prassi, filosofia e filologia,
demoni oscuri della terribile e seducente filosofia,
angeli del pensiero puro e delle crudeli astrazioni
che ne derivano.
L’Associazione e chi l’ha guidata fin qui, forse
perché conoscitrice dei valori della polis greca, in
modo conscio o inconscio aveva in mente ciò che
Platone definisce nella VII lettera come un tìaso,
una comunità in cui le domande e le risposte vengono poste e date senza superbia né invidia. Servono
dunque fronesis e mens, saggezza e intelligenza
perché la prima ci dà il senso del bello e del giusto e la seconda la correttezza filologica che è già
rispetto ed eticità. A tali valori operativi e filologici
si è ispirato in questi anni il Direttivo intero, e con
esso tutti gli iscritti senza finta gerarchia e fittizia
priorità.
Grazie ‘Stelliniani’ per gli sforzi che fate affinché
una piccola storia di uomini e donne, intessuta di
fatica e di disciplina morale, divenga simbolo nella
storia di un’intera città.
Daniele Picierno
Il professor Andrea Bergnach, presidente dal 2006 al 2008
4
storie e personaggi
Una preziosa riscoperta nel centenario del conflitto 1915-18
Pasquale Pomarici, docente dello Stellini
deceduto durante la Grande Guerra,
fu tra i promotori dello scautismo a Udine
L
o scautismo, vasto movimento di giovani e
metodo educativo1, nato tra il luglio e l’agosto del 1907 sulla piccola isola di Brownsea – oggi area naturalistica protetta – nella baia
di Poole, nel Dorset, Gran Bretagna, grazie all’intuizione di un eccentrico generale britannico che
là invitò a praticare un campeggio sui generis una
ventina di ragazzi di classi sociali diverse, si estese in breve ad altre nazioni, adattandosi alle realtà locali. I primi esperimenti di scautismo italiani
risalgono al 1910, ma si deve arrivare al 1912 per
vedere l’istituzione di un’associazione con solide
basi, il CNGEI, Corpo Nazionale Giovani Esploratori Italiani, di ispirazione laica, eretto in Ente
morale con decreto reale del 21 dicembre 1916.
L’ASCI, Associazione Scautistica Cattolica Italiana, sorse quattro anni dopo.
Che cosa accadde in quegli anni a Udine?
Su «La Patria del Friuli» del 12 giugno 1913 G.
Scarpellon tesse le lodi dello scautismo e cita
Sir Francis Vane, un baronetto inglese amante
della nostra nazione che per primo promosse lo
scautismo in Italia, dando vita a Bagni di Lucca
nel 1910, insieme al mae-stro Remo Molinari, ai
‘Boy Scouts della Pace’. L’autore dell’articolo definisce il Vane «apostolo della nuova istituzione
in Italia»; basandosi poi su «un aureo libretto di
propaganda» curato dal Vane, illustra in modo
dettagliato le molteplici attività che coinvolgono i «ragazzini esploratori» della sezione di
Venezia, «che vive e fiorisce», alcune delle quali
prettamente marittime, segno di un’attenzione
particolare al contesto locale. È un articolo documentato, convincente e pieno di entusiasmo.
Il riferimento sul giornale udinese a Venezia più
che a Trieste, è ovvio, dato che la città giuliana
era ancora al di là del confine.
Il 24 novembre del 1914, l’ingegner G. Fachini scrive su «La Patria del Friuli»: «Un’iniziativa del prof. Pomarici, insegnante di educazione
fisica nel nostro Ginnasio-Liceo, ha messo in
questi giorni in subbuglio diverse famiglie, ove
irrequieti e vivaci scolari del ginnasio superiore pretendono l’autorizzazione dei genitori per
l’adesione ad una ‘Sezione scolastica di ragazzi
esploratori’. L’autore della lettera al giornale cita
Baden-Powell, fondatore del metodo educativo
scout e ne indica gli scopi. Riferendosi alla sua
Lord Baden-Powell, fondatore degli scout, raffigurato nel
parco di Udine a lui dedicato, in una scultura di Giovanni
Patat d'Artegna
diffusione in Italia afferma: «E sorsero così a Milano, a Roma, a Napoli e nelle altre città maggiori
tante istituzioni analoghe a quella dei boy-scouts,
ch’ebbero il solito nostro difetto, eminentemente
latino, della mancanza d’unità d’indirizzo, della suddivisione dell’iniziativa con inutile spreco
di energie. Sarà anche questa di Udine un’altra
variante o si uniformerà a quell’indirizzo che
probabilmente in quest’ultimi tempi sono andate
unificando diverse di queste iniziative?»
Il 10 dicembre successivo, sul medesimo giornale, il Prof. Pomarici rispondendo alla lettera
dell’ingegner Fachini tratteggiava le linee di fondo dell’educazione impartita tramite il metodo
scout e si preoccupava di rassicurare le mamme
sulla bontà dell’iniziativa pedagogica che stava
per nascere a Udine. L’articolo si chiudeva con
un invito esplicito: «(…) la sezione di Udine si
uniformerà alle prescrizioni del Consiglio Direttivo Nazionale dei Giovani Esploratori d’Italia.
Ma, e chi si unisce a me per la formazione del
Comitato? Per le Cariche ecc.».
Il riferimento al CNGEI era esplicito e il comitato fondatore si costituisce il 7 marzo 1915. «La
Patria del Friuli» ne dà notizia l’ 8 marzo 1915 titolando: «Il corpo dei ‘giovani esploratori’ costituito anche a Udine». Tra i promotori dell’iniziativa che daranno vita a un comitato provvisorio
troviamo dei nobili, dei notabili udinesi e degli
appartenenti alla borghesia: «presidente on. Avv.
Giuseppe Girardini; vice presidente cav. Dott.
Pietro Bocca; segretario rag. Ernesto Varutti».
Nel corso di quella prima, affollatissima riunione il conte Giuseppe di Colloredo, che presiede
l’assemblea «Corregge un errore in cui sono incorsi i giornali che a lui hanno attribuito il primo
pensiero dei giovani esploratori a Udine, mentre
il merito ne spetta primo al console del Touring
Club signor cav. Tedeschi, e poi ai signori prof.
Pomarici, cav. Rocca e ing. Fachini».
Alla neo costituita sezione del CNGEI, che fu
attiva fino all’ottobre del 1917, fu assegnata una
sede sotto la Loggia di San Giovanni, nell’attuale piazza Libertà. I Giovani Esploratori del CNGEI, seguendo le direttive della sede centrale di
Roma, diedero il loro operoso apporto «allo slancio interventista dei primi giorni (della guerra,
che si stava protraendo dal maggio 1915. N.d.A.)
prestando servizio ai distretti militari e ai pubblici uffici, ai posti di Croce Rossa, ai posti tappa
e ristoro delle stazioni». Da una dettagliata relazione spedita alla sede centrale del CNGEI dal
Cav. Dott. Pietro Bocca, segretario della sezione,
e ripresa, come il passo precedente, sul periodico
del CNGEI «Sii preparato!» del 1915, si apprende che gli scout furono utilizzati per portare rinfreschi e cibarie ai feriti sui treni in transito, al
‘Servizio Tappa’ per recare dispacci e per fare da
guida agli ufficiali e ai soldati in arrivo alle loro
destinazioni in città e nei dintorni e anche per
dare decorosa assistenza ai prigionieri austriaci.
Il Bocca segnala che «nonostante le molteplici
occupazioni, cerchiamo di non perdere di vista
gli altri scopi della nostra Istituzione. Così non
manchiamo di fare una passeggiata in campagna
la domenica mattina, durante la quale si svolge
una parte del nostro programma. Al giovedì si
fa pure una lezione di oltre un’ora durante la
quale si insegnano, secondo i casi, primi soccorsi, le segnalazioni, i nodi, ecc. Mi piace far notar
– conclude il dottor Bocca – lo slancio col quale i
Il Provveditore agli Studi Giulio Antonibon volle il nome del professor Pasquale Pomarici scolpito sulla lapide dedicata agli
insegnanti e studenti dello Stellini caduti durante la Grande Guerra, tuttora visibile nell'atrio del Liceo
ragazzi accorrono a inscriversi nel nostro Corpo.
In poco più di un mese siamo oltre sessanta».
Alla fine di ottobre del 1917, nei giorni immediatamente seguenti il drammatico, doloroso
sfondamento del fronte che generò la ritirata di
Caporetto, agli scout del CNGEI, vennero affidati
compiti di smistamento e assistenza a favore dei
profughi e ciò avvenne non solo a Udine, ma in
diverse località e stazioni ferroviarie. La maggior
parte dei soci della sezione di Udine si ritrovò,
profuga, a Bologna. In quella città, il 29 dicembre
1917, i Giovani Esploratori del CNGEI di Udine,
assieme ai fratelli di Belluno e di Treviso, ricevettero parole di apprezzamento e di elogio da parte
del Provveditore agli Studi, prof. Rocco Murari.
«Il capitano Di Colloredo Mels, Vice Presidente
della Sezione di Udine, vivamente commosso
ringraziò con applaudite parole» (in «Sii preparato!», pag. 1350).
Di quei lontani giorni restano i nomi di diversi
udinesi: Carlo Chiesa, Attilio Petri, Alvise Mizzau, Casonato, Del Piero, Venturini, Valentinis,
Roiatti, Pagura, Donda, Faleschini, Del Re, Giovanni Pellegrini, Enzo Pravisani, Giovanni Pecile, Feliciano Nimis, Dal Dan… Chissà se i loro
discendenti hanno conservato qualche immagine di quegli anni lontani. Nel corso della ritirata
di Caporetto, si legge sul periodico citato, due
giovani scout, Attilio Petri e Francesco Domini
vennero decorati dal Corpo della Croce di Bronzo per il loro valoroso contegno.
Quanto al professor Pasquale Pomarici, nato
a Potenza il 4 novembre 1882, venne richiamato
alle armi per mobilitazione e si presentò al distretto militare di Sacile il 25 maggio 1915. Inquadrato, data l'età non più giovane, nel 104°
Battaglione della Milizia Territoriale, arma di
fanteria, con il grado di sottotenente, morì il 3
novembre 1918, probabilmente a causa di una
malattia contratta in guerra, nell'ospedale di
Dicomano, in provincia di Firenze, dove il suo
nome è scolpito sul monumento che ricorda i caduti della Grande Guerra posto difronte al municipio. Il Provveditore agli Studi di Udine dottor
Giulio Antonibon, ricordò il docente nel discorso
vibrante da lui tenuto il 27 gennaio 1919 durante
la cerimonia d’inaugurazione della nuova sede
del Regio Ginnasio - Liceo2. Il suo nome, come
auspicò il Provveditore agli Studi, venne inciso
su una lapide tuttora visibile nell’atrio della nostra scuola.
Da quegli anni lontani molta acqua è passata
sotto i ponti. Lo scautismo è andato adattandosi
ai tempi, ha acquisito una più approfondita consapevolezza pedagogica e ottenuto il riconoscimento del mondo accademico. Diffuso in tutto
il mondo libero, conta quasi quaranta milioni di
aderenti.
La presenza protratta dello scautismo, laico e
cattolico, a Udine è tangibilmente ricordata in
città da un parco pubblico – collocato tra via Duchi d’Aosta e via Ciro di Pers – dedicato a lord
Robert Baden-Powell, là raffigurato in un’originale scultura realizzata nel 2000 dall’artista Giovanni Patat d’Artegna, a cui si accompagna una
breve frase del fondatore dalla valenza non semplicemente ludica – una metafora, direi, legata al
dare significato alla propria vita – che sollecita il
lettore: «Gioca, non stare a guardare!».
Lucio Costantini
1L’approfondimento degli scopi, dei principi e della
diffusione dello scautismo, uno dei metodi educativi
e una delle organizzazioni del tempo libero giovanili
più significativi della nostra epoca, esula dallo scopo
di questo contributo; per saperne di più si consultino
i siti: www.scout.org.; www.wagggs.org; per la realtà
italiana: www.agesci.org; www.cngei.it; www.fse.it
Sull’evoluzione dello scautismo in Italia, segnalo il documentatissimo testo di Mario Sica Storia dello scautismo
in Italia, Fiordaliso, Roma, 2006.
2 L’edificio, come noto, prima di accogliere gli allievi ai
quali era destinato, ospitò fino al 27 ottobre del 1917
il Comando Supremo del nostro esercito (cfr. Ferruccio
Costantini, Udine nel suo anno più lungo, ottobre 1917 novembre 1918, p. 85, Udine, Aviani & Aviani 2011).
5
Attualità culturale
Una proposta di Paolo Medeossi: presentiamo la nostra regione
esponendo, nell’aeroporto e nelle stazioni,
le immagini dei suoi talenti più illustri
Anche queste sono le nostre eccellenze
I
n occasione della presentazione
del libro Pasolini e la poesia dialettale (Marsilio, 2014), avvenuta al
Centro Studi Pier Paolo Pasolini di
Casarsa della Delizia, ho ascoltato
con estremo interesse le relazioni
di Giampaolo Borghello e Angela Felice, curatori del volume. Ma
ho tratto anche grande godimento
dall’intervento del giornalista Paolo
Medeossi, coordinatore dell’evento,
che con il suo eloquio spontaneo e
affabulatore, ma ricco di citazioni e
riferimenti, ha parlato di Pasolini e
non solo di lui. In particolare mi ha
colpito una sua riflessione a proposito degli scrittori della nostra regione.
Gli ho chiesto pertanto di metterla
per iscritto a beneficio del nostro
giornale. Ed eccola qui di seguito.
(E.P.)
N
el 1905 avvenne a Trieste un
incontro molto importante,
una di quelle vicende apparentemente minime e banali, ma che cambiano i destini degli uomini e della letteratura. Il commerciante quarantenne
Ettore Schmitz cerca un insegnante di
inglese e lo trova nel giovane irlandese
James Joyce, appena sbarcato lì senza
mezzi e senza soldi dopo essere scappato dal suo paese. Nasce così un’amicizia
forte e utile a entrambi, in particolare al
triestino che, incoraggiato dal maestro,
si trasforma sempre più nel suo autentico alter ego, quell’Italo Svevo che
sembrava finito e sepolto dopo la fredda
accoglienza ai primi due romanzi.
Pochi anni dopo, nel dicembre del
1916, Ettore Serra, un tenente accorto
e appassionato, recupera alcuni foglietti
che il fante Ungaretti Giuseppe teneva
nel tascapane, «destinati a nessun pubblico», riempiti mentre combatteva sul
Carso durante la guerra, e a insaputa dell’autore li porta a Udine facendo
stampare in ottanta copie dallo Stabilimento Tipografico Friulano la prima
edizione della raccolta Il porto sepolto,
un pugno di versi che cambia la prospettiva della poesia italiana.
Altro plumbeo periodo di guerra, una
trentina di anni dopo. Estate 1942, un
ragazzo di 20 anni, con papà emiliano
e mamma friulana, Pier Paolo Pasolini, pubblica in pochi esemplari Poesie
a Casarsa e dà una svolta al vorticoso
universo della poesia dialettale, producendo effetti che a cerchi concentrici,
attraverso straordinari autori, arrivano
fino ai giorni nostri, con nomi del livello
di Pierluigi Cappello, Federico Tavan,
Leonardo Zanier e Ida Vallerugo.
La poesia nata tra il golfo di Trieste, la
laguna di Grado, la pianura e la montagna friulana si esprime pure con altre altissime voci, in un Novecento che è tutto
lì da spiegare e raccontare. Il viaggio con-
templa la suggestione di Umberto Saba,
Virgilio Giotti, Biagio Marin, David Maria Turoldo. Ciascuno con la sua forza, con
la sua fragilità, con una misteriosa magia.
Storie e ancora storie, da conservare
gelosamente, da esplorare, da far conoscere a noi stessi e agli altri: a chi ci vuole
bene, a chi passa da queste parti e viene a
visitarci. Un po’ come sanno fare gli irlandesi, così unici nel diventare promotori di una terra sospesa tra il sogno e il
ricordo, fra la poesia e la dolcezza d’una
musica in sintonia con il colore del paesaggio. Una fantasmagoria in cui tuffarsi a capofitto, come in un incantato luna
park. Un nostro scrittore, Stanislao Nievo, che fu anche inesausto viaggiatore,
volle proporre un parallelo fra friulani e
irlandesi notando nei due popoli alcune
somiglianze caratteriali che si basano su
un sentimento di ribellione e su un lieve
senso di follia creativa. E per tali motivi
suggeriva di creare una sorta di alleanza, quasi «una taverna culturale», nella
quale proporre un focolare letterario con
in primo piano i rispettivi autori.
L’idea di Nievo fa accendere un’altra
lampadina, nata dal ricordo di ciò che
si vede quando si arriva all’aeroporto di
Dublino dove il viaggiatore è accolto da
una serie di grandi fotografie in cui sono
ritratti i nomi di spicco nella cultura irlandese, a cominciare dai quattro Nobel
per la letteratura (Yeats, Shaw, Beckett
ed Heaney). Numero eccezionale se si
pensa che vengono da un popolo piccolo,
di alcuni milioni di abitanti, più o meno
cinque volte la nostra regione. E se a
Dublino, fin dal primo istante in cui vi
si mette piede, è possibile vivere questo
viaggio sentimentale da Ulisse moderno,
perché non farlo anche da noi?
L’aeroporto o le stazioni ferroviarie
rappresentano il primo contatto con la
realtà locale, l’iniziale biglietto da visita. Al posto di prosciutti, vini, formaggi,
lavande e altri prodotti tipici (massimo
rispetto per loro, ovviamente) mettiamo
dunque i volti di chi, con talento artistico di ogni genere, spiega chi siamo, come
siamo, cosa cerchiamo di essere!
Trieste (come disse Carlo Bo) è uno dei
luoghi santi della letteratura italiana,
fra Saba, Giotti, gli Stuparich, Slataper,
Quarantotti Gambini, Tomizza, fino a
Magris, Pahor, Tamaro... Ma anche Gorizia è straordinaria, a cominciare dal
genio di Carlo Michelstaedter. Il Friuli
annovera poeti e scrittori amatissimi,
partendo da Pasolini per arrivare a Giacomini, Bartolini, Maldini, Sgorlon. E
poi c’è il mito più affascinante di tutti,
quello racchiuso nel volto di Tina Modotti.
E ancora dalle nostre parti, in un Settecento ribollente, passarono Carlo Goldoni (vissuto tre anni a Udine), Giambattista Tiepolo, Giacomo Casanova,
Lorenzo da Ponte. Napoleone abitò per
due mesi a Villa Manin: un primato as-
soluto per un inquieto come lui. Nomi,
scenari ed epoche citati certo alla rinfusa, ma su cui una riflessione complessiva e organica è possibile.
«Non siamo dei mangiapatate senza
storia», affermava nelle famose lezioni
allo ‘Stellini’ don Gilberto Pressacco,
vulcanico studioso dei mosaici aquileiesi. Cominciamo a farlo capire in giro,
partendo da quelle immagini. Sarebbe
un atto di giustizia per chi vi è ritratto e
un gesto di orgoglio per tutti noi.
Quasi da irlandesi.
Paolo Medeossi
Carlo Sgorlon
Tina Modotti
Afro Basaldella
Italo Svevo
Biagio Marin
Carlo Michelstaedter
Umberto Saba
Pier Paolo Pasolini
Ippolito Nievo
Caterina Percoto
Arturo Malignani
6
A queste e altre domande ha cercato di rispondere
il seminario ‘la Giustizia e la guerra’
Può essere legittima una guerra?
Quando il potere è causa di ingiustizia?
Da sinistra, Elettra Patti, Daniele Picierno, Angela Felice e Gabriele Damiani
I
l centesimo anniversario
dell’ingresso dell’Italia nella Prima Guerra Mondiale
ha costituito motivo di riflessione anche per gli Stelliniani, che hanno voluto dedicare
l’annuale seminario storico-filosofico, inserito nel Progetto
'Diritto e Giustizia', al tema La
giustizia e la guerra. Il convegno,
svoltosi il 10 gennaio nell’Aula
Magna dello Stellini, non poteva trovare cornice più consona,
perché proprio in quelle stanze si era insediato, nel giugno
1915, il Comando supremo
del nostro esercito. L’attuale
sede dello Stellini, completata
in quell’anno, potè infatti accogliere il Ginnasio-Liceo solo
a partire dal 27 gennaio 1919,
data di inizio del primo anno
scolastico post bellico.
La ricorrenza ha offerto,
tuttavia, l’occasione per un
ragionamento più ampio, che
ha riguardato, per un verso, il
mutare del concetto stesso di
pace e di guerra nel corso della
storia e, per l’altro, il rapporto
che si può instaurare tra potere
e giustizia, secondo l’interpretazione che ne ha dato, in una
sua opera teatrale, Pier Paolo
Pasolini.
Dopo i saluti del preside,
prof. Giuseppe Santoro, della
presidente uscente degli Stelliniani, prof.ssa Elettra Patti, e
del presidente della sezione di
Udine e Gorizia dell’Unione
Italiana Giuristi Cattolici, notaio Paolo Alberto Amodio, la
discussione è stata introdotta
da un breve intervento di don
Pierluigi Di Piazza, che ha portato il saluto del Centro Culturale ‘Balducci’. Don Di Piazza
ha ricordato la visita compiuta
da papa Francesco al Sacrario di Redipuglia, durante la
quale il Pontefice, nel commemorare i caduti della Grande
Guerra, non aveva potuto non
esprimere il proprio dolore
per quella che Benedetto XV
aveva definito un’«inutile strage» (cfr. la Nota del 1° agosto
1917). Di Piazza ha sottolineato
soprattutto la valenza negativa dell’aggettivo inutile, osservando come la guerra, ispirata
molto spesso da motivi esclusivamente politici ed economici,
non risolve affatto i problemi
esistenti mentre porta con sé
orrore, distruzione e morte.
Il seminario è quindi entrato nel vivo con le relazioni del
prof. Daniele Picierno, presidente onorario degli Stelliniani,
e della prof.ssa Angela Felice,
già allieva di questo Liceo e attuale direttore artistico del Teatro Club Udine. Come d’abitudine, i lavori sono stati moderati
dall’avv. Gabriele Damiani.
***
Contrariamente al solito,
grazie a una collaborazione
iniziata quest’anno con il Teatro
Giovanni da Udine, la premiazione dei vincitori dell’XI edizione del Premio Sergio Sarti,
concorso di filosofia abbinato
al seminario, è avvenuta in un
momento successivo, esattamente il 27 febbraio, nel contesto dell’incontro Casa Teatro dedicato all’Antigone di Sofocle,
la sublime tragedia greca che
affronta proprio la tematica
scelta quest’anno per il progetto stelliniano.
Dopo l’intervento di Paolo Patui, che ha ricordato con
toni commossi Sergio Sarti,
suo professore di filosofia allo
Stellini, e il saluto di Massimo
Sarti, figlio dell'illustre studioso e sponsor dell’iniziativa, la
presidente uscente Elettra Patti ha premiato i due gruppi di
studenti classificatisi con il loro
saggio al primo (Uccellis, V A)
e al secondo posto (Stellini).
Gianni Cianchi ha letto quindi
alcuni passi tratti dall’elaborato che ha riportato il primo
premio.
La Giustizia:
il conflitto
tra Pace e Guerra
di Daniele Picierno
L
a parola ‘guerra’ stimola un
immaginario che è metatemporale e non può mai essere
atemporale. Una riflessione su
di essa non può non riportarci,
dunque, anche a considerare il
legame esistente nel passato tra
i milites che combattevano a cavallo per difendere la vita degli
altri e i rustici che erano inermi
perché incapaci di fare la guerra.
Se la pace poteva essere anche
ingiusta, la guerra poteva essere anche giusta. Il senior, cui si
doveva rispetto, era il guerriero
anziano che con ascesi morale si
era esercitato tutta la vita per la
guerra giusta. Nei comitatus germanici era, insieme, contadino
e guerriero chi combatteva con
fraternitas guerriera ‘con’ e ‘per’
tutti gli altri.
Con il progresso tecnico servì sempre di più una cavalleria
pesante, specie dopo lo scontro
di Poitiers, in cui Carlo Martello
fermò gli Arabi di Spagna e salvò
l’Europa. Ma non è mai l’aspetto
tecnico a determinare la guerra,
come qualcuno crede: sono i valori morali e la visione del mondo, mentre sono le evoluzioni socio-economiche a condizionare la
tecnica. Se è vero, infatti, che fu
la staffa a permettere l’attacco a
fondo dei cavalieri, è altrettanto
vero che già i Romani e prima di
loro i cavalieri persiani usavano
l’attacco a fondo, sebbene non
usassero ancora la staffa. I contadini germanici usavano un’ascia
da lancio, la famosa francisca, e
un corto giavellotto, detto ango di
cui si servivano pure per il lavoro
nei boschi: lavoro che era collettivo, come appunto la guerra, per
l’idea che essi avevano della collettività.
La stessa armatura che chiude-
va il corpo del cavaliere era simbolo della casata nobile e identitaria. Come spiega bene Henri
Pirenne nella sua Storia economica
e sociale del Medioevo, l’addobbamento del cavaliere era una
solenne cerimonia consistente
in una preghiera cui seguiva la
consegna di una armatura con
cintura e speroni dorati, da indossare sopra una camicia senza
cuciture, come la tunica di Gesù,
simbolo di unità. L’armatura era
come un’uniforme che rendeva il
cavaliere gregario e simile agli altri, gli permetteva l’attacco a fondo contro un nemico individuale
e individuato con coraggio, rendeva forma perfetta un corpo
anche se deforme e gli riformava
l’animo con la virtù morale e la
forza. Senza tale concezione, il
ferro, sebbene usato con la tecnica adatta, non trasformava nessuno in un leale guerriero.
Come dice lo storico Franco
Cardini, il guerriero era, al tempo
stesso, un martire e un sacrificatore, secondo i modelli bellicosi
del Vecchio Testamento ripresi
dal cristianesimo guerriero del
Medioevo. A tutti si richiedeva
la prouesse (il coraggio), la sagesse
(la saggezza) e quindi la giusta
mensura, così che le guerre erano
poco cruente. Secondo Georges
Duby fu l’età cortese a inventare
sia l’amor cortese che il coraggio
in guerra, unì cioè Ares ed Eros.
La crisi della cavalleria pesante fu messa in luce dalla vittoria
dei fanti fiamminghi armati di
frecce sui cavalieri francesi nella
battaglia di Courtrai, combattuta nel 1302, e dalla vittoria degli
inglesi, forniti, oltre che di frecce
e del longbow (arco lungo), anche
di cannoni, sui francesi prima
a Crécy (1346) e poi a Poitiers
(1356). In quel caso, furono quindi la realtà economica borghese e
i suoi valori di spietata efficienza,
non il coraggio, a trionfare.
Ideali nuovi, dunque. Per San
Giorgio contavano la spada e
l’arma bianca, che è a forma di
croce, mentre le frecce sono dei
diavoli in quanto ti colpiscono da
lontano e all’improvviso. Come
le frecce che avevano trafitto il
corpo di San Sebastiano, un santo cattolico. Per i Luterani, invece, la tecnica allevia la pena del
peccato e forse anche la colpa, e
furono i luterani Gustavo Adolfo
di Svezia e Maurizio di Nassau
a usare gli archibugi, mentre gli
Spagnoli cattolici usarono di più
le picche.
Saranno poi le città borghesi,
anche le italiane, a servirsi di mercenari per avere più tempo per
sé da dedicare agli affari: furono
così assoldati mercenari svizzeri
e tedeschi che combattevano indotti dalla povertà. Veri imprenditori della guerra, gli Sforza, i
Montefeltro e altri ancora erano
signori di città importanti. Il sogno di Machiavelli di avere armi
cittadine era dunque in contrasto
con gli interessi della borghesia
cittadina, che guardava al guadagno. Si potrebbe obiettare che
già gli antichi cavalieri avevano
cercato guadagni nei tornei, ma
il fenomeno si accentuò senz’altro con i mercenari nel ’400 e nel
’500, e maggiormente ancora con
i soldati di mestiere degli eserciti
moderni. La differenza è che, dal
Medioevo sino al ’700, la guerra
era limitata negli effetti distruttivi e fu per molti motivo di mobilità sociale. Sino al ‘700, inoltre,
per svizzeri e tedeschi, spagnoli e
italiani poveri, il servizio d’armi
mercenario ebbe la valenza di un
lavoro.
Con la riforma protestante, da Gustavo Adolfo sino a
Cromwell, la guerra fu vista
come tensione etica accompagnata da canti e cerimonie religiose. Ma prima l’inflazione nel
’600, poi il mercantilismo rafforzarono gli stati moderni e fecero
decadere le classi e gli ideali del
vecchio mondo, e tutto divenne
più spietato e cruento. Più cresceva la ricchezza, dal ’600 in poi, e
più diminuivano i mercenari poveri, per cui Federico il Grande
in Prussia poteva vantare il 5%
della popolazione in armi, ma
con soldati stabili e ben pagati.
Come in Spagna sino a Napoleone e nella Prussia di Federico il
Grande, e in seguito nella Grande Guerra, i capi militari erano
anche capi di Stato. Addestramento, vita di caserma con controllo etico della vita dei soldati,
aiuti alle vedove e agli orfani,
assistenza sanitaria: lo Stato mo-
derno controllava tutto della vita
militare, che era sempre più violenta e spietata.
Con la controriforma e il calvinismo la vita militare doveva essere, come detto, stoica ed etica:
la caserma era come un monastero ed è dai doctores religiosi che
la severità di vita si estendeva ai
bellatores e si imponeva alle truppe e al popolo. Spesso è la pace
a essere pericolosa e viziosa, ma
anche la guerra può risolversi
in vanagloria ed edonismo. In
considerazione di ciò i calvinisti, come Giusto da Lipsia, si
rifecero, per purificarla, all’etica
stoica della guerra di Machiavelli, facendo propria l’idea che
una repubblica vada difesa non
dai mercenari ma dai suoi cittadini e che a questi non basti il
solo addestramento militare, ma
serva pure l’educazione morale.
Per questo già San Bernardo aveva indicato la crociata non solo
come cammino militare, ma anche come peregrinatio poenitentialis, da farsi non secondo volontà
singola, ma per necessità.
Così dal bellum iustum di Agostino, Graziano e San Tommaso
si arriva allo ius in bello (cioè a
quella parte del diritto internazionale che contiene le regole
umanitarie da osservare durante
una guerra), che va ben oltre lo
ius ad bellum (che è il diritto di
fare ricorso, in determinate circostanze, ad atti di forza: la cosiddetta ‘guerra giusta’). Il diritto
umanizza la guerra sino alle teorie del tomista Francisco Suarez
sulla carità e il soccorso benefico
e sino al De iure belli ac pacis di
Ugo Grozio. La guerra giusta, il
bellum iustum, doveva sottostare
7
a condizioni precise: non doveva
avere alternativa, bensì evitare
un male peggiore; non doveva
essere distruttiva, ma procurare
migliori condizioni di vita.
Però, se tutti sanno cos’è la
giustizia in confronto con l’ingiustizia, più difficile è stabilire
se sia meglio la pace come indifferenza, complicità e quietismo
pacifista o la guerra come mezzo
per raggiungere condizioni di
vita migliori, compresa la pace
stessa. Albert Camus si chiedeva: «Il fine giustifica i mezzi? È
possibile. Ma chi giustificherà
il fine?». Questa domanda vale
anche per la guerra, che può non
trovare e spesso non trova un
fine superiore che la giustifichi.
La stessa logica antinomica
che si coglie nell’espressione
«amico-nemico» di Carl Schmitt,
ribaltando la celebre definizione
di Carl von Clausewitz secondo
cui «la guerra è la continuazione
della politica con altri mezzi»,
porta alla reciproca verità che la
politica è la continuazione della
guerra con altri mezzi.
Così, però, mai più ci sarebbe
pace, né in guerra né in politica,
mentre gli uomini a una guerra
permanente preferiscono la pace
e a volte anche il rischio della
morte pur di raggiungerla.
Non c’è uomo poi, specie se
vittima che si considera innocente, che non cerchi la giustizia nella grazia di un dio, da lui
invocato come abbà (‘papà), o
nell’aiuto, anche incruento, di
un amico che intervenga gratuitamente, comportandosi con lui
come un fratello. L’uomo, infatti
– al contrario di Dio che, come
sosteneva la filosofa ebrea Hannah Arendt, è il solo a non avere
nemici – ne ha sempre ed è perciò in continuo stato di guerra. Si
crea, pertanto, degli amici perché
gli sono necessari contro i nemici e gli possono garantire quella
«giustizia del caso particolare»
di cui parlava Croce. A nessuno
sfugge, così, che il caso particolare della giustizia è il diritto
naturale rivendicato da ciascuno
di noi, cioè il caso particolare di
quei «diritti umani e naturali alla
vita, alla proprietà, alla libertà e
alla felicità» dichiarati, nell’ambito della civiltà moderna, nelle
costituzioni del 1776, 1789, 1793,
1948 e così via.
Ne consegue, come tutti sanno, che il mondo moderno si
basa sull’idea dell’ «a ciascuno
il suo», cioè la difesa del proprio particulare, che è il contrario
dell’«Ars veri et boni» di Celso,
cioè della pace condivisa e giusta. Sembrerebbe, dunque, che i
diritti naturali moderni e individuali di vita, proprietà e libertà
portino al conflitto dei singoli
che quei diritti reclamano e dunque non al bellum iustum di cui
parlava Sant’Agostino, ma ad un
conflitto dove la giustizia è soltanto «l’utile del più forte», come
diceva Trasimaco a Socrate nel
dialogo di Platone.
Può esistere, invece, anche una
guerra sacra o santa, come sosteneva San Bernardo di Chiaravalle a proposito di una crociata che
venga condotta non per vanagloria personale o per utilità, ma per
motivi religiosi. In questo caso,
se la guerra è ispirata a motivi religiosi, vi dovrebbero essere delle
regole che essa è tenuta a rispettare: è quello che Grozio ha definito come lo ius in bello. Contro
l’idea laica della guerra, sembra,
perciò, che la religione istituisca
dei limiti invalicabili, ma è quasi
impossibile che una guerra religiosa non sia legata anch’essa a
motivi economici e politici e perciò obbedisca a dei limiti.
Se dunque è vero il paradosso
secondo cui anche le crociate e
le guerre religiose ebbero giustificazioni di natura economica, è
altrettanto vero che anche la ragione moderna e il pacifismo affarista sottendono un fine meno
nobile: quello per il quale, secondo un concetto di ispirazione calvinista, la vita è lotta e chi vince
è il «prescelto da Dio». La stessa
ragione e i suoi interessi, come
spiega lo storico tedesco Mosse,
sono stati del resto una religione,
così come lo è la globalizzazione
economica del nostro tempo. La
guerra non fu mai di necessità
solo crudeltà e si è accompagnata a progresso scientifico e a
valori come l’onore, la fedeltà e
l’amore per la famiglia, l’etnia e
la religione.
La Pax Romana, la Pax Mongolica, la Pax Hispanica, la pace
europea voluta da Napoleone e,
infine, la pace auspicata da Wilson nei Quattordici punti alla fine
della Prima Guerra Mondiale,
sono stati un intervallo tra i conflitti di civiltà.
Da sempre esiste il tabù della
guerra come antitesi alla volontà
di pace e, se si dovesse ragionare
secondo la Historia magistra vitae,
la sola conclusione possibile sarebbe che è la volontà di pace a
dover prevalere. Oggi il mondo
evoluto ha abbandonato l’idea
che la guerra possa essere giusta
o addirittura santa. Ma di fronte ad una guerra ingiusta, come
rispondere se non con un atto di
resistenza che sarebbe pur sempre un atto di guerra? E questo al
di là di quello che dicono i pacifisti di professione, i quali aspettano che altri rischino per loro e
sono come i sognatori che – come
diceva Hegel – continuano a rendere la loro e le nostre teste «piene di vento» e – aggiungiamo noi
– di ipocrisie.
L'abitazione del poeta a Casarsa, attualmente sede del Centro Studi P. P. Pasolini diretto da Angela Felice
noto che Pasolini subì in
vita una vera odissea giudiziaria, che lo portò sul banco
degli imputati in ben 33 processi e sotto i più diversi capi
d’accusa, dai quali peraltro uscì
sempre assolto: da quelli collegati alla sua biografia, a partire
dal primo, celebrato nel 1952
a Pordenone per il cosiddetto
scandalo di Ramuscello, a quelli conseguenti al suo operato artistico, di volta in volta chiamato alla sbarra come espressione
recidiva di vilipendio.
Può dunque suonare strano
che una così accanita e sofferta
persecuzione processuale non
trovi eco esplicita nell’opera
pasoliniana e non si traduca in
tema centrale di qualcuna delle
sue multiformi manifestazioni,
letterarie o cinematografiche.
Il paradosso, tuttavia, è solo
apparente, né certo va ricondotto alla reticenza pubblica
dell’autore sugli incidenti della
propria cronaca personale, ove
mente eletto dall’assemblea. Il
mito, così prolungato e inventato, si presta dunque esemplarmente a diventare maschera
allusiva della vicenda pubblica
italiana coeva all’autore, nel
contesto degli anni Sessanta
segnati dall’euforia del boom e,
in politica, dalle prospettive riformatrici di inediti governi di
centro-sinistra.
Le intenzioni di questo voluto strabismo temporale, con
conseguente forzatura attualizzante, si dichiarano peraltro fin dal quadro iniziale del
dramma. Lì infatti la lugubre
immagine dei cadaveri di Egisto e Clitemnestra, figure dell’
‘antico regime’ ora penzolanti
in piazza, racchiude l’evidente
controfigura di altri impiccati
più recenti, Mussolini e Claretta
Petacci, simboli di una dittatura
sconfitta da cui, con la conquista della libertà democratica,
l’Italia del dopoguerra si era
o pareva essersi riscattata. Ma
con quali sviluppi successivi?
E con quali prospettive future?
Intanto, nel Pilade pasoliniano, la volontà dell’attualizzazione e la sottintesa tensione a
interrogare, capire o denuncia-
si pensi al persistente autobiografismo, anche narcisistico,
che ne fa lievitare l’ispirazione
e il pensiero.
È vero invece che, in particolare dagli anni Sessanta, a
Pasolini preme soprattutto il
discorso sul potere, tanto nel
suo essere paradigma ontologico e necessario della vita sociale
organizzata, quanto nelle forme
diverse che esso assume nella
fenomenologia storica, inclusa
la configurazione democratica
dell’Italia post-fascista. Ed è in
questo orizzonte di evidente
spessore politologico che Pasolini colloca la sua sporadica
riflessione sui meccanismi della
giustizia umana, sottraendoli
ad una lettura di tipo settoriale
e interpretandoli invece come
corollari, conseguenze e specchi della gestione complessiva
della polis, di cui replicano per
automatismo lo stato di salute,
compresa l’eventuale degenerazione autoritaria.
Riflesso chiaro di questa problematica, e per molti versi un
unicum nel corpus pasoliniano,
è Pilade, una delle sei tragedie
in versi stese tra il 1966 e il 1967.
Pasolini vi completa idealmente
la trilogia eschilea dell’Orestiade
con un quarto tempo immaginario, in cui viene rappresentata l’evoluzione politica della
città di Argo dopo il passaggio
dalla tirannide alla democrazia,
l’assoluzione di Oreste dalla
colpa di matricidio, con verdetto legalmente sancito, e la sua
conseguente assunzione a leader
politico della comunità, libera-
re il presente comportano radicali modifiche nella fisionomia
tradizionale dei personaggi del
mito, in particolare per Atena,
emblema della ragione umana
chiarificatrice, e per i giovani
Pilade e Oreste, convenzionalmente uniti da una fraterna
amicizia. La dea, innanzitutto,
di per sé ispiratrice positiva di
bene, si rovescia qui in ambigua
fonte negativa di dogmatismo e
fanatismo. È l’effetto inevitabile
di una Ragione stravolta, perché assolutizzata e ciecamente ‘illuministica’, impegnata a
portare i suoi lumi ovunque,
anche dentro la ‘luce oscura’
del passato e della tradizione,
che a lei, nata solo dal padre,
sono sconosciuti. Tutta ‘moderna’, radicata nel presente
ed esaltata dalle prospettive
di progresso del futuro, questa
Atena condensa in sé i disvalori che Pasolini vede incombere
sulla imborghesita e normalizzata società italiana del suo
tempo, avviata sulla china della
secolarizzazione materialistica,
dell’alienante edonismo consumistico e della perdita di realtà
conseguente all’oblio del passato, la sola dimensione della vita
– scrive – «che noi veramente
conosciamo e amiamo».
Il nuovo potere democratico
nasce dunque su basi monche
e sostanzialmente tarate dall’ingiustizia, se la stessa assoluzione di Oreste nell’Areopago è
stata imposta da una divinità
miope, più che essere frutto
della libera scelta, per quanto
arbitraria, del tribunale umano.
Il caso ‘Pilade’ di
Pier Paolo Pasolini
di Angela Felice
È
E su quelle fondamenta il nuovo
governo non può che scivolare
in dispositivo di sopruso e di
potere arrogante, formalmente
democratico ma nella sostanza
totalitario.
Come per un teorema teatrale, questa deriva è dimostrata
dal caso esemplare di Oreste,
che è sottoposto da Pasolini a
una forte revisione in chiave
negativa. L’eroe democratico,
informato dalla ragione tecnocratica e progressista che regge anche il mondo occidentale
avanzato, finisce per degradarsi in figura di politico astuto,
attento alla difesa degli interessi di proprietà, suoi e della
fazione che lo appoggia, e per
stravolgere la giustizia in privilegio di classe, giungendo infine per puro tatticismo anche a
stringere un’alleanza innaturale, contraddittoria per un laico
come lui, con le forze oscurantiste e reazionarie rappresentate
dalla sorella Elettra. Si tratta di
un patto di reciproco puntello
in cui è evidentemente controfigurato l’avvicinamento ‘storico’ tra gli ambienti della Sinistra e la Democrazia Cristiana.
È a queste manovre di opportunismo conservatore che si sottrae Pilade, personaggio che nel
mito è presenza muta, ombra di
Oreste e quasi suo accessorio,
mentre qui si eleva a protagonista, perno del dibattito e fin dal
titolo eroe centrale. Pasolini vi
proietta molta parte di sé e del
suo animus polemico, facendovi
confluire gli echi di tante altre
figure rilette in chiave di dissenso: Cristo, Dante, Leopardi.
Il timido e scandaloso Pilade è
appunto il disobbediente, l’eretico, il diverso che, in nome di
un suo ideale di ‘libertà e giustizia’ coniugata con il rispetto
dei valori sacri della tradizione
e della pietas, tradisce la sua
classe di origine e si mette dalla parte dei diseredati, di cui il
nuovo governo non pare voler
prendersi cura. È inevitabile
dunque che questo scomodo
campione irriducibile del no
debba essere messo a tacere,
se non con la violenza, quanto
meno con un processo apparentemente regolare, come avviene
nel raro quadro giudiziario del
terzo episodio ambientato in un
tribunale. È un procedimento,
tuttavia, viziato all’origine, in
diretta conseguenza della parabola degenerata della democrazia politica, ormai sclerotizzata
in sistema autodifensivo. Colpito infatti da una raffica di accuse pregiudiziali pronunciate
in sua assenza (frequentazioni
sospette, ambizione, nichilismo
distruttivo, blasfemia), l’imputato non gode nemmeno di un
avvocato difensore ed è infine
bandito dalla comunità, cacciato in un esilio che ne accomuna
il destino a quello di tanti altri
ribelli ostracizzati in vita e riconosciuti solo post mortem.
La rivolta di Pilade non approda ad alcun trionfo umano nel testo di Pasolini, in cui,
dopo quel processo-farsa avallato dal potere, fallisce anche
il progetto di una rivoluzione
proletaria e di una guerra civile, pallida e quasi parodica eco
della lotta resistenziale. Infine
l’eroe, abbandonato dai compagni partigiani che gli preferiscono le sirene del (falso)
benessere promesso dal duo
Oreste-Elettra, si ritrova isolato e sconfitto, in compagnia
di un ragazzo e di un vecchio
addormentati, fantasmi proiettivi delle diverse fasi della
sua vita, passata e futura, e
insieme richiami cristologici al
Gesù tradito e circondato dagli
apostoli appisolati nell’orto dei
Getsemani.
A vincere, in questa fantasia
teatrale che sovrappone il mito
alla storia verificabile, sono altre forze di cui Oreste, con il
suo cinismo opportunistico, è
stato l’antesignano e il primo
fautore. Nelle profezie delle
Eumenidi e di Atena, che aprono nel testo straordinari squarci visionari, il futuro conoscerà
infatti altri trionfi: la fine della
storia, in senso umanistico, e
l’avvio di una «nuova Preistoria», in cui tutti, dentro e fuori il
Palazzo, saranno omologati nel
penitenziario del consumismo,
automi di un modello unico di
«sviluppo senza progresso»,
della cui assolutezza, quando
sarà totale e irreversibile, si accorgeranno troppo tardi.
Furono i rovelli anche
dell’ultimo Pasolini corsaro,
polemista disperato ma anche
mai arreso nei confronti dell’inferno della società neocapitalistica in cui pure – lo dimostra la
vicenda del contraddittorio tra
Oreste e Pilade – ogni ipotesi rivoluzionaria di cambiamento è
destinata allo scacco e il potere
stesso, come un Moloch, pare
immutabile e intercambiabile.
E tuttavia brillano di luce alternativa e si fanno lieviti possibili di speranza utopistica altre
testimonianze e altre energie
ideali: la diversità, il rifiuto senza
cedimenti compromissori, il non
adattamento. Di questi principi
si fa carico il Pilade di Pasolini.
E, come lui, i poeti, «questi eterni indignati, questi campioni
della rabbia intellettuale, della
furia filosofica» – così scrisse
nel 1962 su Vie nuove – che non
si addormentano nella propria
normalità, vivono in perenne
emergenza e soprattutto non
dimenticano.
Il Pilade nella messinscena di Luca Ronconi (1993)
8
fogli dal cassetto
Caro professore...
Il prof. Giampaolo Favero Bordignon e il suo metodo ‘rivoluzionario’
nell’insegnamento della storia dell’arte
G
ià, la Storia dell’Arte…, disciplina che,
comunque la si
veda, di solito viene inserita nel novero delle ‘materie
Cenerentola’, data la sua
storica, presunta relativa
importanza rispetto a materie come Latino e Greco,
ed alla sua collocazione
didattica di due misere ore
alla settimana.
Sovente questa collocazione di retroguardia è
corroborata dallo scarso
interesse dei presunti discenti, che non se la sentono di penalizzare lo studio
delle ‘materie principe’ a
favore di una disciplina
che, non di rado, viene
snobbata (più per condizione che per convinzione)
dai docenti stessi.
Con il professor Giampaolo Favero Bordignon,
con il quale la mia classe
liceale ha condiviso due
anni scolastici, dal 1972 al
1974, le cose sono andate
molto diversamente, e cercherò nelle righe seguenti
di restituire il più possibile
la sensazione di quel ‘qualcosa di diverso e di nuovo’
che il prof. Bordignon ha
cercato di trasmetterci con
il suo entusiasmo ed il suo
amore per l’arte e il sapere in generale, riuscendoci
brillantemente.
Ottobre 1972, seconda
Liceo, sezione F. Si presenta in classe il nuovo insegnante di Storia dell’Arte:
«Buongiorno ragazzi!
Il mio nome è Giampaolo
Favero Bordignon, ma potete
chiamarmi Giampaolo e darmi del tu. Che ne direste di
andare fuori di qui a fare lezione?»
Stupore generale, naturalmente, per entrambe le proposte (anche se non mi risulta
che la prima sia stata utilizzata), ma adesione entusiastica
ed incondizionata all’idea di
‘evadere’ dalle mura dell’istituto.
«Bene allora! Forza che andiamo a capire qualcosa del
monumento alla Resistenza di
piazzale XXVI Luglio.»
Tutti hanno ben presente il
monumento inaugurato nel
1969 di fronte al Tempio Ossario, e che a più di qualcuno
ha fatto storcere il naso, non
vedendovi nulla di significativo o di artistico, a parte la scultura di Dino Basaldella. Beh,
anche per noi, studenti scettici
(o forse semplicemente superficiali), c’era una spiegazione a
quello che poteva essere visto
come un semplice ‘spreco di
cemento armato’.
Il prof. Bordignon ci spiegò, con dovizia di riferimenti
artistici, storici, letterari, filosofici, architettonici e politici,
come quel muro di cemento
sollevato dal suolo rappresenti la sopraffazione della
dittatura, e come i piloni che
lo sorreggono, in maniera
apparentemente, in realtà
studiatamente, precaria, in
quanto riconducibili al principio dei pilotis di Le Corbusier,
raffigurino la democrazia, che
consente ai popoli di neutralizzare gli effetti devastanti di
un ‘recinto di cemento’, rappresentante tanto la dittatura
quanto l’orrore dei campi di
sterminio nazisti, e quanto
conseguentemente sia importante che tutti contribuiscano
al mantenimento di quella libertà così faticosamente riconquistata.
Beh, come esordio non era
male. Prima di tutto, perché
finalmente ci era chiaro il significato di un’opera artistica,
che credo a tutt’oggi pochi conoscano per davvero, ed in secondo luogo perché avevamo
capito di avere a che fare con
un insegnante ‘speciale’, e che
questa era soltanto la prima
delle ‘sorprese’ che il professor Bordignon avrebbe in seguito estratto dal suo cilindro!
Infatti buona parte delle
sue lezioni, quando il tempo
(sia cronologico che meteorologico) lo permetteva, si svolgevano precedute da un gioioso esodo della classe verso
le mete che, di volta in volta,
l’insegnante si inventava.
E così si andava dal Castello alla cappella del Collegio
Uccellis, dall’Oratorio della
Purità (con gli affreschi del
Tiepolo) al chiostro della Basilica della Madonna delle
Grazie, per ammirare e commentare gli ex-voto, delle vere
opere naif ante litteram, che
all’epoca ne tappezzavano le
pareti. Naturalmente, il tutto
nello striminzito spazio temporale di un’ora, cosa che non
ci permetteva grandi spostamenti, se non nelle immediate
vicinanze dello Stellini. Erano
comunque delle occasioni per
scoprire inaspettate ‘rivelazioni’ e curiosità su luoghi e
scorci cittadini che spesso ci
vedevano distratti passanti.
Il professor Bordignon riuscì anche a portarci oltre i
ristretti confini udinesi, avendone preventive autorizzazioni dai colleghi insegnanti e
dal preside.
In quelle occasioni andammo a Gorizia, a Cividale e a
Venezia, unendo l’indiscussa
attenzione che meritavano
le spiegazioni del professore
all’insopprimibile desiderio
di approfittare di queste trasferte per imbastire qualche
simpatica ‘baraccata’ studentesca.
Memorabili, sia dal punto di vista esplicativo che da
quello ‘coreografico’, le sue
spiegazioni dei vari e innumerevoli siti artistici e architettonici di Firenze, durante
la gita scolastica della sezione
F nel marzo del 1973, gita alla
quale il prof. Bordignon partecipò in qualità di accompagnatore. Particolarmente degna di nota la sua performance
divulgativo-acrobatica nella
chiesa di San Lorenzo, dove,
per illustrarci con la consueta dovizia di informazioni il
magnifico soffitto a cassettoni del Brunelleschi, il fervore
didattico lo portava ad avere
un tono vocale piuttosto elevato e ad arrampicarsi, per
meglio illustrare il tutto, ora
sui banchi della chiesa, ora
sul pulpito ligneo, facendo
così disperare un custode, il
quale era costretto ripetutamente a interrompere le sue
Udine, piazzale XXVI Luglio, 25 aprile 1969: inaugurazione del monumento alla Resistenza, realizzato su progetto degli architetti Gino Valle e Federico Marconi
N
ato a Castelfranco Veneto nel 1918, Giampaolo Favero Bordignon si laureò in lettere a Padova, indirizzo storico-artistico, con una tesi sul Canova,
nella quale ebbe come relatore Giuseppe Fiocco, fondatore
della scuola padovana di storia dell’arte. Dopo aver preso
parte come ufficiale alla Seconda Guerra Mondiale ed essere stato costretto alla latitanza dopo l’8 settembre, intraprese la carriera di docente. Insegnò allo Stellini dal 1972/73 al
1975/76 e fu autore di un vasto catalogo di pubblicazioni.
Padre di Elia, già docente di storia dell’arte all’Università di
Udine, e di Alessandra, il prof. Favero Bordignon si è spento nella sua città natale il 4 febbraio 2008.
spiegazioni: «O Professore,
abbia pazienza… la si cheti! E
scenda di costassù, che ‘un si
pole sta’…!»
Le sue interrogazioni, poi,
erano quanto di meno stressante ci potesse essere, e, per
quanto lo riguardava, un obbligo che svolgeva per dovere
istituzionale. Fra l’altro, tali
interrogazioni non vertevano
mai su nozioni mnemoniche,
bensì sulle sensazioni che potevano dare un quadro, una
scultura, un reperto archeologico, un edificio architettonicamente degno di nota.
Tutto quanto potesse essere
ascritto ad una delle suddette
categorie, veniva dal professor
Bordignon enfatizzato e spiegato, dando così lustro artistico anche a ciò che normalmente non viene notato da noi,
passanti frettolosi. Di solito
nessuno si domanda il significato di certi fregi presenti sulla
facciata di un palazzo davanti
al quale siamo transitati mille
volte, o perché certi colatoi di
acqua piovana abbiano la parte terminale raffigurante dei
mostriciattoli sghignazzanti:
il ‘prof’ aveva una spiegazione per tutto ciò che un occhio
distratto non era mai riuscito a
notare, facendocelo capire ed
apprezzare. Grazie a questa
palestra credo di essere riuscito a comprendere la ricchezza
artistica che ci circonda quasi
ad ogni passo. Non soltanto al
cospetto di capolavori universali come la Cappella Sistina
o la Cappella degli Scrovegni,
ma anche di fronte alle
suggestioni caravaggesche
di Gerrit van Honthorst e
di Artemisia Gentileschi,
alle ‘luci silenziose’ dei
quadri di Edward Hopper,
al ‘furore’ di Jackson Pollock e alla vivacità futurista di Umberto Boccioni e
Fortunato Depero, o ancora ammirando la pulizia
formale del design architettonico di Gropius e della
Bauhaus o di Alvar Aalto,
è quasi inevitabile essere
colti da qualcosa che somiglia molto alla famosa ‘Sindrome di Stendhal’ e dal
desiderio di essere quasi
permeati da tanta bellezza.
Non posso che ringraziare, e con me altri suoi
allievi, il buon ‘professor
Giampaolo’ per aver gettato nel nostro animo di
studenti, a volte distratti,
dei semi che evidentemente hanno dato, e continuano a dare, i loro frutti.
Firenze, settembre 2015
Pino De Vita
III F – 1973/74
P.S.: Un ringraziamento alla
cara amica e compagna di
classe di quegli anni, Gabriella Conedera, che ha condiviso
con me questi ricordi dopo
quarant’anni e ha richiamato
alla mia memoria alcuni particolari che inizialmente mi
erano sfuggiti.
9
fogli dal cassetto
Questo articolo ci era stato consegnato dall’ing. Roberto Gentilli, uno dei nostri soci più affezionati.
Pubblicarlo adesso ha un significato nuovo: quello di ricordare il suo Autore per ciò che è stato e ha testimoniato
Elogio della modulazione
T
alvolta penso che la vicinanza fra Stellini e Conservatorio non sia di natura soltanto fisica. Le lettere e la
musica, da sempre, costituiscono un binomio presente
nel pensiero umano. Del resto, lo Stellini ha fatto crescere ed
operare un’orchestra ed un coro di livello più che dilettantistico, ai quali si dedicano con entusiasmo e competenza i suoi
allievi.
In base a queste considerazioni mi sembra non ingiustificata
la presenza, nel nostro periodico, di una nota – da dilettante –
su un argomento musicale: la modulazione.
Nel linguaggio tecnico, la modulazione consiste in un cambio di tonalità all’interno di un brano; scolasticamente, si distingue tra modulazione ai toni vicini o ai toni lontani, e si
parla anche di ‘transizione’, come passaggio intermedio tra le
due tonalità.
Si potrebbe dire che la modulazione è nata assieme alle tonalità, arrivate alla attuale forma stabile con quel monumentale ‘Clavicembalo ben temperato’ che tutti, pianisti e non
pianisti, si sforzano di comprendere in tutta la sua geniale
complessità. Ma, per quanto io possa ricordare, nella musica
barocca (da Bach a Vivaldi) la modulazione, quando è presente, è collocata prevalentemente alla fine di un brano in tonalità minore, che si conclude, così, in un ottimistico, e talvolta
trionfale, maggiore.
Sempre nei miei ricordi, la modulazione si trova più frequentemente all’interno di un brano musicale, soltanto alla fine del
periodo classico e, ancor più, all’inizio del periodo romantico:
a partire da Beethoven e forse, talvolta, anche da Haydn.
Occorre qui ricordare che, mentre un tempo, la scelta della
tonalità credo fosse motivata principalmente dalle specifiche
possibilità esecutive delle varie categorie di strumenti a fiato,
nel periodo romantico invece, perfezionati e resi più versatili
Antonio Vivaldi
Johann Sebastian Bach
tali strumenti, il compositore era libero di scegliere la tonalità
che più riteneva idonea ad esprimere nel discorso musicale
uno stato d’animo, una descrizione, una visione.
La musicologia attuale – difficile dimenticare le magistrali
lezioni di Paolo Terni, su Radio 3 – ha indagato sui caratteri
specifici, sui significati reconditi delle tonalità scelte volta a
volta dai compositori, mettendo in luce significati e messaggi
spesso non comprensibili da un pur attento ascoltatore.
Sotto questo aspetto, il genio della modulazione, colui che
ne fa un uso meditato ed appassionato per variare, appunto
mediante la tonalità, il carattere, il linguaggio della sua musica, per conto mio è Schubert.
In Schubert la modulazione è preparata da ben prima: viene
creato un clima di attesa, talvolta quasi di ansia, che si placa,
si risolve finalmente, con un liberatorio cambio di tonalità. Il
ritorno alla tonalità principale talvolta può dare l’impressione
di una rassicurante ripresa della normalità; ma spesso può significare invece la deludente ricaduta in una invariabile, monotona malinconia.
In particolare, quando la tonalità del brano è in minore, il
passaggio al maggiore viene sentito come il tentativo di un’affermazione positiva, quasi, si potrebbe dire, di fiducia nell’avvenire; ma il ritorno al minore significa la rassegnata ‘riaccettazione’ di una quotidiana tristezza.
Che io sappia, non esiste un’antologia delle modulazioni,
magari con un cd allegato. Sarebbe un giusto riconoscimento del valore e del significato di una elaborazione musicale
che l’ascoltatore nota ed apprezza come un piacevole – o, talora, commovente – diversivo armonico-melodico; ma che al
compositore credo sia costato uno sforzo inventivo e tecnico
particolare.
Ma l’elogio della modulazione può essere oggi considerato,
Franz Joseph Haydn
purtroppo, un elogio
funebre.
Con l’atonalità o, se si
preferisce, la dodecafonia, la musica da ormai
non pochi anni ha abbandonato la tonalità, e
con essa la modulazione; come la poesia ha
abbandonato la rima, la
pittura la rappresentazione dal vero.
La civiltà artistica europea, che nei
secoli passati aveva
raggiunto il suo apice, lasciando la sua
impronta in tutto il
mondo, sta evolvendos i verso nuove ed
ancora non definite
forme; ma, come premessa ad una futura
trasformazione, abbiamo l’impressione che già si sia, di fatto
autodistrutta; salvo che, anche nel mondo delle arti, non possa valere quel noto principio della termodinamica secondo il
quale nulla si crea e nulla si distrugge, ma tutto si trasforma.
I posteri capiranno certamente meglio di noi contemporanei
la natura e l’esito delle trasformazioni in corso.
Intanto noi, pochi nostalgici superstiti, continuiamo ad
ascoltare Schubert.
Roberto Gentilli
Ludwig van Beethoven
Franz Schubert
I maturi dell’anno 2014/15
III A
BERTONI CASSANDRA
CALLA’ GIULIA
CORVO FRANCESCO MARIA
DAMIANI SERENA
DEGANO MARTINA
D’ORLANDO SEBASTIANO
FLOREANI CHIARA
GIAIOTTI FRANCESCA
GORTANI DANIELE
GRILLO ERIKA
LAROCCA ANNA
MARTINOIA VALENTINA
MILANO BRANDALISE ANNA
MILOJEVIC JELENA
PERSELLO CATERINA
TONAZZI ANNA
TRANQUILLI GIULIA
VEZZI MARC
III B
ARBORITANZA MARZIA
BADINO ANASTASIA
BALDIN SARA
BULFONE ELENA
CAPONE GIANMARCO
CARIGNANI SILVIA
COLUTTA CAMILLA
COMELLI MARIA
COZZI ELISA
DE MATTEIS ELENA
DI BERNARDO IRENE
DORDOLO MARTINA
FASIOLO GIOVANNI
LOMBARDI FRANCESCA
NASCIMBENI FRANCESCO
NDIAYE ASTA
PENZ ALESSANDRO
PERESSOTTI SOFIA
PUCILLO MARTINA
SOLDATI LIVIA MARIA
VALVASON GIULIA
III C
BERTOLO GIULIO
CAMPEOTTO ILARIA
CASSISI FABIO
CONTARDO GIULIA
DEL MEDICO FEDERICA
DREOSSI ALBERTA
FALONE FERNANDO
GENERO GIACOMO
GRAZIANO ANNALISA
KEBAT SARA
MAGAGNIN ANTONIA
MAHMUTOVIC ELISABETTA
NIMIS MARGHERITA
PAOLINI ELENA
PORTALE CHIARA
RUSSO DOMIZIA
STORI GINEVRA
STRIZZOLO FRANCESCA
TRINCARDI MARTA
TRUSGNACH MARTINA
III D
ALMACOLLE BIANCA
AVOLEDO CONSUELO
BAGIOLI FEDERICA
BELTRAME PIETRO
BERNARDINI GIADA
CAPORUSCIO CHIARA
CEKA MARIOLA
CONTIN VALERIA
FABBRO MARIA
FERRATO SIMONE
FLAMMINI FRANCESCA
GRANSINIGH SARA
KHIJNIAKOV LAURA
LADU MIRIAM
LAVAGI VALERIA
MANIAGO EDOARDO
MARCHIORI CARLOTTA
NICOLETTI MARTINA
PEZZOTTI LUISA
ROMANZIN ELISA
SPANGARO SAMANTHA
TOMMASINO ANDREA
TOSONI FRANCESCA
ZANNIER VALENTINA
III E
BALDO LUCA
BANELLI MICHELE
BARBAN LORENZO
BURBA CATERINA
CHIURLO ELENA
DINICOLA GIULIA ADELE
DRAGOTTI GIULIA
DRI ALESSIA
DURASTANTE MARGHERITA
FURLANIS MARTINA
GEATTI VERONICA
GRILLO SIMONE
MASOTTI ARIANNA
MATTIONI MARGHERITA
MISSIO SARA
PALMISCIANO NICCOLO’
PAVIOTTI IRENE
PETRI BARBARA
ROSSI MICHELE
TREVISAN JACOPO
ZUCCHI MATTEO
III F
BALDASSI SARA
BERTOLI MARIA ELENA
BERTOLI MARTINA
COMUZZI ALBERTO
DI PAOLA CARLOTTA
FONTANINI ENRICO
GAGLIANO ANTONELLA
MARCHETTA SILVIA
MONDINI MARIA VITTORIA
PIGHIN GABRIELE
SCIALINO GRETA
SORAMEL GIOVANNI
SURD VIORICA ALINA
TOGNATO FRANCESCO
TONIUTTI ISACCO
TREVISIOL MARTA
TUNIZ ANNA
VALEO MICHELE
VALLE GIULIA
In grassetto i nomi degli studenti che si sono diplomati
con il massimo dei voti. A tre
di loro, Margherita Nimis,
Veronica Geatti e Irene Paviotti, è stata attribuita anche
la lode.
10
lo stellini in musica
La genesi del coro e dell’orchestra
Questa è la riproduzione dell’articolo del «Messaggero Veneto» del 29 aprile 1974 sulla prima esibizione pubblica
del coro dello Stellini, avvenuta domenica 28 aprile nella chiesa parrocchiale di Gradiscutta di Varmo
Dal «Messaggero Veneto» del 29 aprile 1974
La copia di questo raro documento ci è stata fornita da Pino De Vita, uno dei ragazzi del Coro, che, nella foto in alto, è il quarto da sinistra nella quinta e ultima fila dal basso.
L'amico De Vita ha riconosciuto in quell’immagine i volti di alcuni coristi: I fila, da sinistra a destra: Lucrezia Marcuzzo, II G (prima) - Francesca Soramel, I F (terza) - Patrizia
Moroso, III F (nona); II fila: Maria Teresa Rubini, I F (prima) - Elvia Micheli, III G (seconda) - Daniela Zanin, III F (terza); III fila: Paolo Cella, III G (terzo) - Giovanna Roiatti, III F
(quinta) - Cristina Meneghel, III G (sesta); IV fila: Andrea Di Giusto, III F (primo) - Mauro Pascolini, III F (secondo) - Paolo Foramitti I F (terzo) - Fabrizio Turrini, III F (quarto)
Giuseppe Rocco, III F (quinto) - Francesco Bragagnolo, II G (settimo); V fila: Ugo Cugini, III B (secondo) - Roberto Beretta, I F (terzo) e, appunto, Pino De Vita, III F (quarto).
12 settembre 1999. Filippo Tervisan dirige la prima formazione dell'orchestra dello Stellini
11
lo stellini in musica
Il coro e l’orchestra del Liceo oggi
Periodico di informazione culturale
Anno XIV, N. 1 – Settembre 2015
Direttore editoriale
Andrea Purinan
[email protected]
Direttore responsabile
Davide Vicedomini
Comitato di redazione
Andrea Purinan – Elettra Patti
Daniele Picierno – Lucio Costantini
Direzione e redazione
Associazione “Gli Stelliniani”
c/o Liceo Ginnasio “Jacopo Stellini”
Piazza I Maggio, 26 - 33100 Udine
Hanno collaborato a questo numero
Lucio Costantini
Gabriele Damiani
Pino De Vita
Angela Felice
Roberto Gentilli
Paolo Medeossi
Elettra Patti
Daniele Picierno
Andrea Purinan
Consiglio direttivo
Presidente onorario:
Daniele Picierno
Presidente: Gabriele Damiani
Vice Presidente: Elettra Patti
Segretaria: Chiara Tonutti
Consiglieri
Giuseppe Santoro (Dirig. Scolastico)
Lucio Costantini
Giacomo Patti
Stefano Perini
Marco Pezzetta
Andrea Purinan
Gabriele Ragogna
Francesca Tamburlini
Francesca Venuto
Francesco Zorgno
Collegio Probiviri
Paolo Alberto Amodio
Pier Eliseo De Luca
Antonietta Locatelli
Collegio Revisori dei Conti
Gino Colla
Ettore Giulio Barba
Daniele Tonutti
Stampa e spedizione
Cartostampa Chiandetti
Reana del Rojale
Iscrizione al Tribunale di Udine
N° 27/2000 del 30/11/2000
Il coro e l'orchestra dello Stellini oggi
La sezione AFDS dello Stellini
compie 32 anni
AFDS
Associazione friulana
donatori sangue
COME DIVENTARE SOCI
Quote associative annuali
socio sostenitore:................................................................€40
socio ordinario:...................................................................€20
socio simpatizzante:...........................................................€20
socio studente universitario:............................................€5
Possono iscriversi, in qualità di soci sostenitori o ordinari, gli ex allievi, i docenti e il personale amministrativo e
tecnico dell’Istituto, anche se non più in servizio. Possono aderire come soci simpatizzanti tutti coloro che, pur
non godendo dei requisiti per iscriversi come soci ordinari o sostenitori, condividano le finalità dell’Associazione.
La durata dell’iscrizione è annuale. Lo statuto dell’Associazione e le altre notizie che la riguardano sono reperibili
sul sito internet www.stelliniani.it
L’iscrizione avviene:
– rivolgendosi alla segreteria dell’Associazione: cell. 347 / 9241345
– compilando il modulo che si può scaricare dal sito internet dell’associazione e inviandolo all’indirizzo di
posta elettronica [email protected], corredato della ricevuta di versamento sul c.c.b. n° 740/4341669 P,
presso la Cassa di Risparmio del Friuli Venezia Giulia - Codice IBAN IT80 V063 4012 3000 7404 3416 69
L’indirizzo di posta elettronica e quello del sito internet dell’Associazione sono:
[email protected] - www.stelliniani.it
Adesso gli Stelliniani
sono anche su
Vi aspettiamo con le
vostre foto,
i vostri contributi
e le vostre idee
12
i viaggi degli stelliniani
Visita all’Expo di Milano
Una sorpresa tra le sorprese
A
dire il vero, non era stato affatto nelle mie intenzioni organizzare una visita all’Expo per gli Stelliniani. Anche
se l’evento si prospettava memorabile, personalmente
mi lasciava piuttosto indifferente. Quando però, agli inizi di
luglio, alcuni soci mi chiesero di farlo, mi attivai senza esitare
inserendo anche il mio nome nell’elenco. Tuttavia, vuoi perché
l’estate torrida non invitava certo a Milano, vuoi perché molti
c’erano già andati per conto proprio, il numero delle adesioni si rivelò troppo esiguo per spuntare un prezzo conveniente
con le agenzie. Alla fine, quando ormai ci eravamo rassegnati,
trovammo accoglienza in un viaggio organizzato dall’associazione ‘Il Vento’, con cui gli Stelliniani hanno condiviso spesso,
negli ultimi anni, eccezionali esperienze di viaggio, come per
esempio lo è stata quella recentissima in Mongolia. Così il 31 di
agosto partimmo in pullman consapevoli di dover affrontare,
se ormai non più la calura insopportabile che aveva messo tutti
duramente alla prova, una visita comunque impegnativa, considerate le dimensioni ciclopiche del sito espositivo che occupa
una superficie di centodieci ettari.
Dell’Expo di Milano in questi mesi si è detto e scritto davvero molto; perciò non ho intenzione di fare un resoconto completo e dettagliato della visita – di troppo spazio avrei bisogno! –, né tantomeno di ripercorrere la storia delle esposizioni,
internazionali e universali finora organizzate: in questa sede
intendo condividere soltanto le impressioni che ne ho tratto.
Non prima, però, di avere fatto una premessa.
Grazie all’impegno e all’energia, di cui la tempra stelliniana
ancora una volta ha dato prova, siamo riusciti a visitare parecchi padiglioni e a vedere molte cose anche negli spazi esterni;
ma si è trattato di ben poco in confronto all’offerta. Due mezze
giornate, quali sono state quelle effettive di visita, si sono rivelate davvero insufficienti per apprezzare al meglio l’esposizione. Un terzo giorno, comunque, non avremmo resistito:
i continui e rapidi spostamenti per ottimizzare i tempi, e soprattutto le estenuanti code davanti all’ingresso dei padiglioni
più interessanti ci hanno messo a dura prova; senza contare
che le cose viste in tempi così concentrati, per la loro stessa
varietà e molteplicità, non sempre sono scampate al rischio di
sovrapporsi e di confondersi l’una con l’altra. La visita in verità andrebbe diluita nel tempo; sotto questo aspetto i milanesi
sono senza dubbio privilegiati, perché dalle ore diciassette il
biglietto di ingresso all’area espositiva costa solo 5 euro, e loro
quindi possono visitare l’esposizione in più volte, con maggiore profitto e con una spesa assai contenuta.
Detto ciò, non posso che unirmi al coro di quanti esternano
la propria ammirazione per lo straordinario sforzo sostenuto
dalla Società Expo 2015 S.p.a., che si è assunta la responsabilità di organizzare e gestire l’evento, nonché di realizzare le
opere di preparazione e costruzione del sito espositivo, quelle
infrastrutturali di connessione di esso al territorio circostante,
e ancora le opere di natura tecnologica e quelle riguardanti la
ricettività1. Debbo anche riconoscere di avere apprezzato la razionalità del progetto e l’efficienza della macchina organizzativa, nonché la cortesia e la solerzia del personale addetto. Ma,
cosa ben più importante, mi sono convinta che l’esposizione
valga proprio la pena di un viaggio a Milano, perché, anche
se molti padiglioni non centrano il tema e si limitano ad avere una valenza prettamente commerciale, o dissimulano male
l’intento di ‘propaganda turistica’, ha mantenuto l’impegno di
riflettere, e fare riflettere, sulla tematica dell’educazione alimentare e della fame nel mondo, in considerazione dell’attuale
situazione globale e delle problematiche ad essa collegate, presentando da una parte le varie culture e le tradizioni da salvaguardare, dall’altra l’innovazione, la tecnologia e la creatività
da mettere a frutto nel settore dell’alimentazione, per garantire il diritto di tutti gli abitanti del Pianeta a un’alimentazione
sana, sicura e sufficiente.
Confesso infine di essere rimasta davvero colpita, oltre che
dalla grandiosità del sito, anche dalla spettacolarità e dall’originalità del progetto espositivo di molti dei paesi presenti,
e soprattutto dagli strumenti tecnologici usati, vera cifra di
questa esposizione. Sotto quest’ottica merita sicuramente un
apprezzamento speciale l’Albero della Vita, la fantastica icona
del padiglione Italia che in un tripudio di colori e suoni rappresenta la grande forza da cui è scaturita ogni forma di vita,
la Natura Primigenia: uno spettacolo davvero sorprendente ed
Rosa4. Fiore del Cielo, portata in processione dal 2009 al 2014,
è stata costruita a Udine, su progetto degli architetti Arturo
Vittori e Andreas Vogler, dalla G. Engineering di cui è titolare
Loris Granziera, marito della nostra socia Sofia De Vincenzo.
Ed ecco svelato il motivo del mio interesse per tale struttura,
al di là del suo pregio intrinseco che è veramente eccezionale.
emozionante che ha addirittura superato ogni mia aspettativa.
Ma la vera sorpresa mi attendeva poco distante. Mentre mi
dirigevo verso il padiglione Eataly per visitare la mostra Il Tesoro d’Italia curata da Vittorio Sgarbi, improvvisamente apparve al mio sguardo trasportata e riassemblata per l’occasione
nel giardino del padiglione, la Macchina di Santa Rosa, simbolo della città di Viterbo. Con grande stupore vedevo dinanzi
a me la splendida struttura, denominata Fiore del Cielo, di cui
con entusiasmo e orgoglio mi aveva parlato la socia stelliniana
Sofia De Vincenzo mostrandomene la fotografia. Spettacolare con i suoi trenta metri di altezza e le cinque tonnellate di
peso, sfolgorante di luce che cambia gradualmente sfumatura
e tonalità, a giusto titolo si può dire che faccia da contraltare
all’Albero della Vita.
Ma di che si tratta? E perché Sofia me ne aveva parlato con
tanto fervore? A questo punto si rende necessaria una digressione.
La Macchina di Santa Rosa è la struttura che ogni anno, la
sera del 3 settembre, porta in processione per il centro storico
di Viterbo la statua di santa Rosa, patrona della città2. L’origine
di questo rito risale al 4 settembre 1258, quando per volere di
papa Alessandro IV il corpo della Santa fu traslato dalla chiesa di S. Maria in Poggio alla chiesa di Santa Maria delle Rose
(oggi Santuario di Santa Rosa), ma solo dal 1512 la processione
è divenuta un’istituzione annuale, mentre la tradizione della
macchina data dal 1657, quando gli abitanti di Viterbo portarono in processione una statua della Santa su un baldacchino,
come segno di gratitudine per aver fatto cessare la peste.
La struttura ha acquistato nei secoli dimensioni sempre più
grandi, assumendo in un primo tempo l’aspetto di un campanile gotico (da cui la denominazione di ‘campanile che cammina’ datole dallo scrittore Orio Vergani), ed evolvendosi, dalla
seconda metà del Novecento, in forme sempre più fantasiose
e pregevoli che la rendono piuttosto simile a una scultura. Anche i materiali usati un tempo, ferro, legno e cartapesta, sono
stati sostituiti con metalli leggeri, fibre e vetroresina, mentre
le nuove sorgenti luminose valorizzano le forme artistiche dei
rivestimenti.
Durante la processione la struttura viene sollevata e portata
a spalla da più di cento uomini, i cosiddetti ‘Facchini di Santa
Rosa’, e, mentre la folla scandisce con devoto entusiasmo il grido «Viva santa Rosa!», percorre il tragitto di mille e duecento
metri attraverso le vie del centro storico, e le piazze immerse
nel buio più assoluto, affinché solo la macchina sfarzosamente illuminata risplenda. Questa processione è l’evento più importante dell’anno, ed è capace di monopolizzare l’attenzione
dell’intera città e di attirare un numero sempre maggiore di
turisti.
Nel 2013 la Festa di Santa Rosa è stata inserita nel patrimonio orale e immateriale dell’umanità dell’UNESCO: da allora
il trasporto viene trasmesso in diretta da alcune emittenti televisive3.
Di norma ogni cinque anni, ma non sempre è stata rispettata
la scadenza, il Comune di Viterbo commissiona a un costruttore scelto con pubblico appalto una nuova Macchina di Santa
1 La Società Expo 2015 S.p.A. è costituita da: Governo della Repubblica Italiana (Ministero dell’Economia e delle Finanze); Regione Lombardia; Comune
di Milano; Provincia di Milano; Camera di Commercio Industria Agricoltura e Artigianato di Milano.
2 Rosa nacque a Viterbo nel 1233. Desiderosa di entrare nell’ordine delle clarisse, si vide respingere a causa della salute precaria. Guarita miracolosamente, entrò nel terzo ordine francescano. Predicò accanitamente contro i
catari, aizzati da Federico II contro il papa, e prese una forte posizione in
difesa del pontefice nella lotta fra guelfi e ghibellini. Mandata in esilio con
la famiglia dal podestà di Viterbo, si rifugiò prima a Soriano nel Cimino, poi
a Vitorchiano. Qui fu nuovamente miracolata, rimanendo incolume tra le
fiamme durante un incendio. Predisse la morte dell’imperatore Federico II
e, quando questa avvenne, tornò a Viterbo, dove morì nel 1251. L’anno stesso della sua morte iniziò il processo di canonizzazione che, non essendosi
concluso, venne ripreso nel 1457 sotto papa Callisto III, ancora una volta
senza esito positivo. Si ritiene che il processo possa finalmente concludersi
entro il pontificato di papa Francesco.
3 Per il 2013, per esempio, la diretta è stata data in appalto a TV2000 (digitale
terrestre, canale 28) e a Sky (canale 142).
4 Dal 1690 a oggi si sono succedute 42 macchine, ma solo a partire dal 1952 è
invalsa l’abitudine di assegnare loro un nome. Ecco qui di seguito elencate le macchine così contraddistinte: Rose Fiorite (1952-58), Macchina di Santa
Rosa (1959-66), Volo degli Angeli (1967-78), Spirale di Fede (1979-85), Armonia
Celeste (1986-90), Sinfonia d’Archi (1991-97), Una Rosa per il Duemila (19982002), Ali di luce (2003-08) e Fiore del Cielo (2009-2014). Per il quinquennio
2015-19, si è aggiudicata l’onore di sfilare a Viterbo la macchina Gloria, progettata dall’architetto Raffaele Ascenzi, ex facchino di Santa Rosa.
Elettra Patti
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Anno XIV - No. 1 - Gli Stelliniani