Titolo originale: Rubinrot. Liebe geht durch alle Zeiten Traduzione dall’originale tedesco di Alessandra Petrelli In copertina: immagine © Burak Gökhan ÜLKER [email protected] www.khimaereus.deviantart.com Grafica Rumore Bianco Visita www.InfiniteStorie.it Il grande portale del romanzo PROPRIETÀ LETTERARIA RISERVATA Copyright © 2009 Arena Verlag GmbH, Würzburg, Germany through Giuliana Bernardi Literary Agency www.arena-verlag.de © 2011 Casa Editrice Corbaccio s.r.l., Milano Gruppo editoriale Mauri Spagnol www.corbaccio.it ISBN 978-88-6380-235-1 Prima edizione digitale 2011 Realizzato da Jouve Per alce, delfino e gufo, che mi hanno accompagnato fedelmente mentre scrivevo, e per un piccolo autobus rosso a due piani, che mi ha dato la felicità proprio al momento giusto Prologo Hyde Park, Londra 8 aprile 1912 Mentre lei si buttava in ginocchio e scoppiava a piangere, lui cominciò a guardarsi intorno. Come aveva previsto, il parco a quell’ora era deserto. Il jogging non era ancora di moda e per i barboni che dormivano sulle panchine coperti solo da un giornale faceva ancora troppo freddo. Avvolse con cura il cronografo nel panno e lo infilò nello zaino. Lei stava rannicchiata su un tappeto di crochi fioriti accanto a un albero sulla riva settentrionale del lago Serpentine. I singhiozzi le scuotevano le spalle e sembravano i versi disperati di un animale ferito. Lui non lo sopportava. Ma sapeva per esperienza che era meglio lasciarla tranquilla, perciò le si sedette accanto sull’erba bagnata di rugiada e aspettò fissando la superficie immobile dell’acqua. Aspettò che il suo dolore si placasse, pur sapendo che non l’avrebbe mai abbandonata. Provava la stessa emozione, ma cercava di dominarsi. Non voleva che, oltre a tutto il resto, lei stesse in ansia anche per lui. «I fazzoletti di carta sono già stati inventati?» chiese lei tirando su col naso e girando verso di lui il volto rigato di lacrime. «Non ne ho idea», le rispose. «Però ho un fazzoletto di stoffa con tanto di monogramma.» «G.M. Non l’avrai mica rubato a Grace?» «Me lo ha dato lei. Puoi usarlo senza problemi, principessa.» Lei fece un sorrisino storto mentre gli restituiva il fazzoletto. «Ora è da buttare, mi dispiace.» «Ma che dici! Di questi tempi lo si stende ad asciugare al sole e lo si utilizza ancora», replicò lui. «L’importante è che tu abbia smesso di piangere.» Queste parole le fecero subito spuntare nuove lacrime agli occhi. «Non avremmo dovuto abbandonarla così. Lei ha bisogno di noi! Non sappiamo se il nostro bluff funzionerà, e non abbiamo nessuna possibilità di scoprirlo.» Lui provò una stretta al cuore. «Da morti saremmo stati ancora più inutili.» «Se solo fossimo riusciti a nasconderci con lei, da qualche parte all’estero, sotto falso nome, almeno fino a quando fosse stata abbastanza grande...» Lui la interruppe scrollando il capo. «Ci avrebbero trovati dovunque, ne abbiamo già parlato tantissime volte. Non l’abbiamo abbandonata, abbiamo fatto l’unica cosa giusta: le abbiamo assicurato una vita protetta. Almeno per i prossimi sedici anni.» Lei rimase qualche istante in silenzio. In lontananza giunse fino a loro il nitrito di un cavallo, mentre dal West Carriage Drive si avvicinavano delle voci, sebbene fosse ancora buio. «So che hai ragione tu», gli disse infine, «ma l’idea di non rivederla mai più mi angoscia.» Si passò una mano sugli occhi gonfi di pianto. «Se non altro non ci annoieremo. Prima o poi ci scoveranno anche qui e ci troveremo i Guardiani alle costole. Lui non rinuncerà certo al cronografo e ai suoi progetti.» Il giovane sorrise soddisfatto, alla vista del lampo di entusiasmo che si accese negli occhi di lei, e comprese che la crisi per il momento era superata. «Forse siamo stati più furbi di lui, o magari l’altro affare alla fine non funzionerà. E allora rimarrà fregato.» «Già, sarebbe bello. Ma, in ogni caso, noi siamo gli unici in grado di intralciare i suoi piani.» «Proprio per questo abbiamo fatto la cosa giusta.» Si alzò e si tolse la polvere dai jeans. «Ora alzati! L’erba è bagnata e ti devi riguardare. Non voglio che ti ammali.» Lei si lasciò sollevare e baciare da lui. «Ora che cosa facciamo? Cerchiamo un nascondiglio per il cronografo?” Lanciò un’occhiata indecisa al ponte che divideva Hyde Park dai Kensington Gardens. «Sì. Ma per prima cosa svuotiamo le casse dei Guardiani e ci riempiamo le tasche di soldi. Poi prenderemo il treno per Southampton. Il Titanic salperà mercoledì per il suo viaggio inaugurale.» Lei rise. «È questa la tua idea per farmi riguardare? Comunque ci sto.» Lui era così felice di vederla ridere di nuovo che la baciò un’altra volta. «Stavo pensando... sai che il comandante di una nave in alto mare ha il potere di celebrare i matrimoni, vero, principessa?» «Mi vuoi sposare? Sul Titanic? Sei matto?» «Sarebbe molto romantico.» «Certo, iceberg a parte.» Gli posò la testa sul petto e nascose il volto nella giacca. «Ti amo tanto», mormorò. «Mi vuoi sposare?» «Sì», rispose con la faccia sempre premuta contro il suo petto. «Ma solo se sbarcheremo al più tardi a Queen-stown.” «Pronta per la prossima avventura, principessa?» «Quando vuoi», sussurrò lei. Un viaggio incontrollato nel tempo si preannuncia in genere con alcuni minuti, a volte ore o persino giorni di anticipo, con giramenti di testa, mancamenti allo stomaco e/o alle gambe. Molti gene-portatori riferiscono anche dolori al capo simili a emicranie. Il primo salto nel tempo – denominato anche salto iniziatico – avviene tra il sedicesimo e il diciassettesimo anno di vita del gene-portatore. Dalle Cronache dei Guardiani, volume 2, Regole generali 1 Lo percepii per la prima volta il lunedì mattina alla mensa della scuola. Per un istante provai un senso di vertigine, come quando l’ottovolante precipita dal punto più alto. Durò solo due secondi, ma fu sufficiente perché mi rovesciassi un piatto di purè con la salsa sull’uniforme scolastica. Le posate caddero a terra tintinnando, ma per fortuna riuscii a salvare almeno il piatto. «È lo stesso, tanto questa schifezza ha un sapore come se fosse stata raccolta da terra», osservò la mia amica Leslie, mentre cercavo di rimediare al disastro. Naturalmente tutti mi stavano guardando. «Se vuoi, posso spiaccicarti sulla camicia anche la mia porzione. Lo faccio volentieri.” «No, grazie.» La camicetta dell’uniforme della Saint Lennox era dello stesso colore del purè di patate, ciò nonostante la macchia purtroppo risaltava fin troppo bene. Provai ad abbottonarci sopra la giacca blu. «Guarda, guarda: la piccola Gwenny ha ricominciato a giocare col cibo», disse Cynthia Dale. «Non provare a sederti vicino a me, imbranata.» «Non ci penso nemmeno, Cyn.» Purtroppo mi capitava spesso di combinare pasticci alla mensa. Giusto la settimana prima il mio budino di gelatina verde era saltato fuori dall’involucro d’alluminio e dopo un volo di due metri era atterrato nel piatto di spaghetti alla carbonara di un ragazzo di quinta. La settimana precedente avevo versato del succo di ciliegia sul tavolo, schizzando tutti quelli che ci stavano seduti. Sembrava che avessero il morbillo. Per non parlare poi delle volte in cui la stupida cravatta dell’uniforme mi finiva nel sugo, nel succo o nel latte. L’unica differenza era che prima d’ora non mi ero mai sentita svenire. Era molto probabile che me lo fossi solo immaginato, però. Ultimamente a casa nostra non si parlava d’altro che di mancamenti. Certo, non riferiti a me, bensì a mia cugina Charlotte, che adesso, radiosa come il sole e impeccabile come sempre, era seduta accanto a Cynthia e mangiava con eleganza cucchiaiate di purè. Tutta la famiglia si aspettava che Charlotte si sentisse svenire. Certi giorni Lady Arisa – mia nonna – le chiedeva ogni dieci minuti se provasse qualcosa. Mia zia Glenda, la madre di Charlotte, approfittava dell’intervallo di tempo per chiederle esattamente la stessa cosa. E tutte le volte, quando Charlotte negava, Lady Arisa corrugava le labbra e zia Glenda sospirava. A volte capitava il contrario. Tutti gli altri – mia madre, mia sorella Caroline, mio fratello Nick e la prozia Maddy – alzavano gli occhi al cielo. Certo, era eccitante avere in famiglia un portatore del gene dei viaggi nel tempo, ma col passare degli anni l’esaltazione era scemata. A volte eravamo proprio stufi di tutto quel teatro intorno a Charlotte. Da parte sua Charlotte aveva l’abitudine di nascondere le proprie emozioni dietro un misterioso sorriso da Monna Lisa. Al suo posto non avrei saputo nemmeno io se sentirmi felice oppure irritata per l’assenza di mancamenti. Be’, a essere sinceri, probabilmente me ne sarei rallegrata. Ero un tipo piuttosto pauroso. Preferivo starmene in pace. «Prima o poi succederà», ripeteva Lady Arisa ogni giorno. «Dobbiamo essere pronti.» In effetti andò proprio così, dopo pranzo, durante l’ora di storia con Mr Whitman. Ero uscita dalla mensa affamata. Come se non bastasse, nel dessert – composta di uva spina con budino di vaniglia – avevo trovato un capello nero che non sapevo se appartenesse a me o a una delle cuoche. E così mi era passato l’appetito. Mr Whitman ci restituì il compito di storia che avevamo fatto la settimana precedente. «Vedo che vi eravate preparate bene. In particolare Charlotte. Ti sei meritata un dieci.» Charlotte si scostò dal viso una ciocca dei suoi capelli rossi e lucidi e disse: «Oh», come se quel voto per lei fosse una sorpresa. Invece prendeva sempre i voti migliori in tutte le materie. Comunque stavolta anch’io e Leslie potevamo essere contente. Avevamo preso entrambe un nove al dieci, anche se la nostra «buona preparazione» era consistita nel guardare i DVD dei film su Elisabetta con Cate Blanchett, mangiando patatine e gelato. In ogni caso eravamo sempre state attente durante la lezione, cosa che purtroppo non capitava invece con le altre materie. Il fatto era che le lezioni di Mr Whitman erano così interessanti che non si poteva fare a meno di ascoltarlo. Mr Whitman stesso era un tipo molto interessante. La maggior parte delle ragazze era innamorata di lui, in segreto o no. Come del resto Mrs Counter, la nostra professoressa di geografia. Tutte le volte che Mr Whitman le passava davanti, arrossiva come un peperone. Certo era di una bellezza inaudita, su questo concordavano tutte. Tutte a parte Leslie. Secondo lei Mr Whitman somigliava allo scoiattolo di un cartone animato. «Tutte le volte che mi guarda con quei suoi occhioni marroni, mi viene voglia di dargli una noce», diceva. Era arrivata addirittura al punto di soprannominare «Mr Whitman» gli invadenti scoiattoli che vivevano nel parco. Non so perché, ma era una cosa contagiosa al punto che ormai anch’io dicevo: «Guarda laggiù, com’è tenero quel piccolo Mr Whitman grassoccio!» quando uno scoiattolo saltellava verso di noi. A causa di questa storia degli scoiattoli, io e Leslie eravamo le uniche ragazze della classe a non sbavare dietro Mr Whitman. Io ogni tanto ci provavo (se non altro perché i ragazzi della nostra classe erano tutti un disastro), ma non c’era verso: il paragone con uno scoiattolo mi si era impresso nella mente in maniera indelebile. E uno scoiattolo non ha niente di romantico! Cynthia aveva sparso la voce che ai tempi dell’università Mr Whitman avesse lavorato come fotomodello. A riprova di questo aveva portato in classe una pagina ritagliata da una rivista patinata con la pubblicità di un uomo, abbastanza somigliante a Mr Whitman, che si insaponava con il bagnoschiuma. A parte Cynthia, però, nessun altro credeva che l’uomo del bagnoschiuma fosse Mr Whitman. Quello infatti aveva una fossetta sul mento che a Mr Whitman mancava. I ragazzi della nostra classe non lo trovavano altrettanto affascinante. In particolare Gordon Gelderman non poteva proprio sopportarlo. Prima dell’arrivo di Mr Whitman nella nostra scuola, infatti, Gordon era stato oggetto delle attenzioni di tutte le ragazze. Anch’io devo confessare a malincuore che mi ero innamorata di lui, ma avevo solo undici anni e Gordon era ancora abbastanza tenero. Ora che di anni ne aveva sedici, era soltanto stupido. Inoltre, erano due anni che aveva cominciato a cambiare la voce e ancora non si era stabilizzata. Purtroppo l’alternanza di timbro da stridulo a baritonale non gli impediva di dire solenni idiozie. Se la prese da morire per il cinque nel compito di storia. «Non è giusto, professore. Mi meritavo almeno un otto. Non può darmi un brutto voto solo perché sono un ragazzo.» Mr Whitman tolse il compito di mano a Gordon e lesse ad alta voce. «Elisabetta I era così orribile che non trovò mai marito. Per questo era chiamata da tutti l’orribile vergine.” La classe ridacchiò. «Sì, e allora? È così», si difese Gordon. «Senta, quegli occhi a palla, la bocca minuscola e soprattutto quell’impossibile pettinatura.» Ci era toccato esaminare a fondo i ritratti dei Tudor alla National Portrait Gallery, e in effetti l’Elisabetta I dei quadri non somigliava affatto a Cate Blanchett. Ma forse all’epoca labbra sottili e naso grosso erano considerati il massimo della bellezza e comunque gli abiti erano sensazionali. Inoltre, pur non avendo un marito, Elisabetta I aveva numerosi amanti, persino Sir... come si chiamava? Nel film era interpretato da Clive Owen. «Lei stessa si definiva la regina vergine», spiegò Mr Whitman a Gordon. «In quanto...» si interruppe. «Non ti senti bene, Charlotte? Ti fa male la testa?» Tutti si girarono verso Charlotte che si reggeva il capo. «È solo che mi sento... mancare», rispose guardando verso di me. «Mi gira tutto.» Io feci un profondo respiro. C’eravamo. La nonna sarebbe stata entusiasta. Per non parlare di zia Glenda. «Oh, forte», bisbigliò Leslie accanto a me. «Che fa, adesso diventa trasparente?» Sebbene Lady Arisa ci avesse inculcato fin da piccoli l’assoluto divieto di parlare con chicchessia delle faccende della nostra famiglia, con Leslie avevo deciso di ignorare tale regola. Dopo tutto era la mia migliore amica e le amiche del cuore non hanno segreti. Per la prima volta da che la conoscevo (ovvero da quando ero nata), Charlotte mi fece davvero pena. Comunque sapevo che cosa dovevo fare. Zia Glenda me l’aveva ripetuto fino alla nausea. «Accompagno a casa Charlotte», dissi a Mr Whitman alzandomi. «Se per lei va bene.» Mr Whitman continuava a fissare mia cugina. «Ottima idea, Gwendolyn», disse. «Mi raccomando, Charlotte, vedi di guarire.» «Grazie», rispose Charlotte. Mentre si dirigeva verso la porta, barcollò leggermente. «Vieni, Gwenny?» Io mi affrettai a prenderla sottobraccio. Per la prima volta in vita mia mi sentivo un po’ importante in presenza di Charlotte. Era bello sentirsi utili tanto per cambiare. «Chiamami assolutamente e raccontami tutto», mi bisbigliò Leslie. Arrivate alla porta, la vulnerabilità di Charlotte era già scomparsa. Disse che voleva prendere le sue cose dall’armadietto. Io la trattenni per la manica. «Non c’è tempo, Charlotte! Dobbiamo arrivare a casa il prima possibile. Lady Arisa ha detto...» «È già passato», disse Charlotte. «E allora? Potrebbe accadere in qualsiasi momento.» Charlotte si lasciò trascinare da me nella direzione opposta. «Dove ho messo il gesso?» Mentre camminavo, mi frugai nella tasca della giacca. «Ah, eccolo. E il cellulare. Vuoi che chiami a casa? Hai paura? Oh, che domanda stupida, scusami. Sono così agitata.» «Non importa. È tutto a posto.» La osservai di soppiatto, per valutare se stesse dicendo la verità. Aveva stampato in faccia il suo sorrisetto di superiorità da Monna Lisa, che rendeva impossibile capire che cosa provasse. «Devo chiamare a casa?» «A che cosa servirebbe?» replicò Charlotte. «Pensavo che...» «Lascia che sia io a pensare, non preoccuparti», disse. Scendemmo la scalinata di pietra l’una di fianco all’altra, e raggiungemmo la nicchia dove era solito starsene seduto James. Si alzò subito non appena ci vide, ma io mi limitai a sorridergli. Il problema con James era che, a parte me, non lo vedeva né sentiva nessuno. James era un fantasma. Per questo evitavo di parlargli se ero con altri. Facevo eccezione solo con Leslie. Lei non aveva dubitato neppure per un istante dell’esistenza di James. Leslie credeva a tutto ciò che le dicevo ed era questo tra l’altro a fare di lei la mia migliore amica. Era molto dispiaciuta di non riuscire a vedere o sentire James. Io invece ne ero molto contenta, perché la prima cosa che James disse alla vista di Leslie fu: «Santissimo Iddio! Questa povera bambina ha più lentiggini delle stelle in cielo! Se non comincia al più presto a utilizzare una buona lozione sbiancante, non troverà mai marito». «Chiedigli se magari ha sepolto un tesoro da qualche parte», furono invece le prime parole di Leslie quando feci le presentazioni. Purtroppo James non aveva proprio alcun tesoro da nessuna parte. Rimase molto offeso che Leslie gli attribuisse qualcosa del genere. Inoltre si offendeva sempre quando fingevo di non vederlo. Era un tipo davvero molto permaloso. «È trasparente?» aveva voluto sapere Leslie al primo incontro. «Oppure solo bianco e nero?» No, in realtà James aveva un aspetto del tutto normale. Abbigliamento a parte, certo. «Riesci a vedere attraverso di lui?» «Non saprei, non ci ho mai provato.» «Allora provaci adesso», aveva ribattuto Leslie. Ma James non mi permise di guardare attraverso il suo corpo. «Come sarebbe a dire, fantasma? Un James August Peregrin Pimplebottom, erede del quattordicesimo conte di Hardsdale non si lascia offendere, neppure da due ragazzine.” Come capita a tanti fantasmi, neppure lui voleva accettare il fatto di non essere più umano. Per quanto si sforzasse, non riusciva proprio a ricordare di essere morto. Ormai lo conoscevamo da cinque anni, dal mio primo giorno di scuola alla Saint Lennox High School, ma James sembrava convinto che fossero passati solo pochi giorni da quando sedeva al club con i suoi amici e giocava a carte disquisendo di cavalli, nei posticci e parrucche. (Sfoggiava entrambi, neo posticcio e parrucca, e in realtà era molto meglio di quanto potesse sembrare.) Preferiva ignorare bellamente il fatto che da quando c’eravamo conosciuti io fossi cresciuta di venti centimetri, mi fossi messa e poi tolta l’apparecchio ai denti e mi fossero cresciute le tette. Allo stesso modo fingeva di non sapere che la dimora cittadina di suo padre era stata trasformata da tempo in una scuola privata con acqua corrente, luce elettrica e riscaldamento centralizzato. L’unico particolare che sembrava registrare di tanto in tanto era la lunghezza della gonna della nostra uniforme. Alla sua epoca, infatti, la vista di polpacci e ginocchia femminili era ancora assai rara. «Non è educato da parte di una dama non salutare un gentiluomo d’alto rango, Miss Gwendolyn», mi gridò dietro adesso, piccato dal fatto che non lo avessi degnato di uno sguardo. «Scusa, siamo di fretta», replicai. «Se posso essere di qualche aiuto, sono a disposizione.” James si sistemò i polsini di pizzo della camicia. «Ti ringrazio, ma non serve. Dobbiamo tornare a casa il più in fretta possibile.» Figurarsi se James avrebbe potuto esserci di qualche aiuto! Non era in grado neppure di aprire una porta. «Charlotte non si sente bene.» «Oh, mi rincresce molto», disse James che aveva un debole per mia cugina. Contrariamente alla «lentigginosa maleducata», come chiamava Leslie, trovava Charlotte molto «leggiadra e di incantevole grazia». Anche quel giorno non mancò di esprimere i suoi untuosi complimenti. «Ti prego di porgerle i miei più vivi auguri. E dille che oggi è più affascinante che mai. Forse un po’ pallida, ma meravigliosa come un’elfa.» «Riferirò.» «Smettila di parlare con quel tuo amico immaginario», mi disse Charlotte. «Altrimenti finirai in manicomio.» Okay, meglio non riferirle niente. Tanto era già fissata di suo. «James non è immaginario, è visibile. C’è una bella differenza!” «Se lo dici tu.» Charlotte e zia Glenda erano convinte che James e gli altri fantasmi fossero solo una mia invenzione, un modo per darmi importanza. Mi pentivo di avergliene parlato. Da bambina, tuttavia, mi era stato impossibile tacere sull’esistenza di doccioni animati, che all’improvviso si mettevano a volteggiare e a farmi smorfie dalle facciate delle case. Avevo impiegato qualche anno per capire che gli spiriti non possono fare niente ai vivi. L’unica loro abilità è quella di fare paura. James, naturalmente, era un’eccezione. Lui era del tutto innocuo. «Secondo Leslie forse è stato un bene che James sia morto da giovane. Con quel cognome, Pimplebottom, di sicuro non avrebbe trovato moglie», commentai, dopo essermi assicurata che James non potesse sentirci. «Voglio dire, chi accetterebbe di chiamarsi Chiappabrufolosa?» Charlotte alzò gli occhi al cielo. «Guarda che non è per niente brutto», proseguii. «Ed è pure straricco, a sentir lui. L’unica sua mania poco maschile è quella di avvicinarsi continuamente al naso un fazzoletto di pizzo profumato.» «Peccato che nessuno possa vederlo a parte te», osservò Charlotte. Ero d’accordo con lei. «E peccato che tu debba parlare delle tue bislacche fissazioni al di fuori della famiglia», aggiunse. Questo era un tipico colpo basso alla Charlotte. L’aveva detto per umiliarmi, e purtroppo ci era riuscita. «Non sono bislacca!» «Invece sì!» «Senti chi parla, gene-portatrice!» «Almeno io non vado a spiattellarlo in giro», ribatté Charlotte. «Tu, invece, sei come la prozia Maddy-la-matta. Quella racconta le sue visioni persino al lattaio.» «Sei cattiva.» «E tu sei scema.» Attraversammo l’atrio della scuola bisticciando, superammo la guardiola a vetri del portiere e uscimmo nel cortile. Tirava vento e il cielo minacciava pioggia. Rimpiansi di non aver preso le nostre cose dall’armadietto. Un cappotto adesso avrebbe fatto comodo. «Mi spiace averti paragonata alla prozia Maddy», disse Charlotte un po’ pentita. «Sono ancora sottosopra.» Io rimasi allibita. Lei di solito non si scusava mai. «Posso capire», mi affrettai a dire. Volevo farle notare quanto prendessi sul serio le sue scuse. In realtà non si poteva parlare di comprensione. Al suo posto io mi sarei messa a tremare di paura. Mi sarei sentita anch’io sottosopra, certo, ma come quando si va dal dentista. «Comunque, la prozia Maddy mi è simpatica.» Questo era vero. Forse era un po’ logorroica e aveva la tendenza a ripetere le cose almeno quattro volte, ma preferivo di gran lunga questo suo modo di fare rispetto al confabulare cospiratorio degli altri. Inoltre la prozia Maddy ci regalava sempre tantissime caramelle al limone. Ma, certo, Charlotte ovviamente non se ne faceva niente delle caramelle al limone. Attraversammo la strada e proseguimmo a passo spedito sul marciapiede. «Non mi guardare così di sottecchi», disse Charlotte. «Tanto se dovessi sparire te ne accorgeresti. In quel caso disegnerai quel maledetto cerchio di gesso e correrai a casa. Ma oggi non succederà. Ne sono sicura.» «Come fai a dirlo? Sei emozionata al pensiero del luogo dove ti ritroverai? Volevo dire del tempo?» «Certo», confermò Charlotte. «Spero che non sia proprio durante il grande incendio del 1664.» «Il grande incendio di Londra fu nel 1666», mi corresse Charlotte. «È una data facile da ricordare. Inoltre questa zona della città all’epoca non era molto sviluppata, perciò qui non si incendiò niente.» Ve l’avevo già detto che i soprannomi di Charlotte sono «guastafeste» e «secchiona»? Non me la presi. Forse era cattivo da parte mia, ma volevo toglierle dalla faccia almeno per qualche secondo quel sorrisetto idiota. «Probabilmente queste uniformi prendono fuoco in un attimo», osservai distrattamente. «Comunque saprei che cosa fare», ribatté Charlotte laconica senza smettere di sorridere. Non potei fare a meno di ammirarla per il suo sangue freddo. A me l’idea di ritrovarmi di colpo nel passato metteva una gran paura. Di qualsiasi epoca si trattasse, il passato era comunque spaventoso. C’erano sempre guerre, epidemie e peste e bastava dire una parola sbagliata per finire sul rogo accusata di essere una strega. Inoltre esistevano solo le latrine e tutti avevano i pidocchi e al mattino rovesciavano il contenuto dei vasi da notte dalla finestra, senza curarsi se in quel momento passava qualcuno per strada. Charlotte aveva ricevuto fin da piccola un’adeguata preparazione in modo da trovarsi a proprio agio nel passato. Non aveva mai avuto tempo di giocare, di stare con le amiche, di andare per negozi, al cinema o con i ragazzi. Invece di queste cose aveva ricevuto lezioni di ballo, scherma ed equitazione, di lingue e di storia. Da circa un anno, inoltre, il mercoledì pomeriggio usciva con Lady Arisa e zia Glenda e tornava sempre a tarda ora. Loro le definivano «lezioni di mistero». Nessuno però voleva darci spiegazioni circa il tipo di misteri che affrontavano, men che meno Charlotte. «È un segreto» era stata forse la prima frase di senso compiuto che aveva imparato a dire. E subito dopo: «Non vi riguarda». Leslie ripeteva sempre che la nostra famiglia molto probabilmente aveva più segreti dei servizi segreti e dell’MI6 messi insieme. E forse aveva ragione. In genere prendevamo l’autobus per andare a scuola e per tornare; la linea 8 fermava a Berkeley Square, a poca distanza da casa nostra. Quel giorno preferimmo farla a piedi come ci aveva ordinato zia Glenda. Per tutto il tempo strinsi tra le dita il gessetto, ma Charlotte rimase al mio fianco. Quando raggiungemmo i gradini d’ingresso, ero quasi delusa. Qui si concludeva la mia parte nella storia. D’ora in poi la nonna avrebbe assunto il controllo della cosa. Tirai Charlotte per la manica. «Guarda! L’uomo nero è di nuovo lì.» «E allora?» Charlotte non si girò neppure. L’uomo era in piedi sull’altro lato della strada, davanti al numero civico 18. Come sempre portava un impermeabile nero e un cappello calcato sulla fronte. Sulle prime l’avevo preso per un fantasma, ma poi mi ero resa conto che anche i miei fratelli e Leslie riuscivano a vederlo. Erano mesi che teneva d’occhio casa nostra. Forse erano più d’uno, che si davano il cambio e avevano tutti lo stesso aspetto. Non riuscivamo a stabilire se si trattasse di un ladro che ci spiava, un detective privato oppure un mago cattivo. Quest’ultima ipotesi era caldeggiata da mia sorellina Caroline. Aveva nove anni ed era appassionata di storie con maghi cattivi e fate buone. Mio fratello Nick aveva dodici anni e trovava stupide le storie con maghi e fate, quindi propendeva per l’ipotesi del ladro-spia. Io e Leslie optavamo per il detective privato. Quando però attraversavamo la strada per osservarlo più da vicino, l’uomo scompariva dentro la casa, oppure saliva su una Bentley nera parcheggiata sul ciglio della strada e si allontanava. «È una macchina stregata», sosteneva Caroline. «Quando nessuno la vede, si trasforma in un corvo. E il mago diventa un omino minuscolo che vola sulle sue ali.» Nick si era annotato il numero di targa della Bentley, per ogni evenienza. «Tanto sono sicuro che dopo il furto la carrozzeria è stata riverniciata e la targa cambiata», diceva. Gli adulti sembravano non trovare niente di sospetto nel fatto di essere osservati giorno e notte da un uomo con il cappello vestito di nero. Lo stesso valeva per Charlotte. «Si può sapere che cosa avete contro quel poveraccio? Se ne sta lì a fumare una sigaretta, nient’altro.» «Come no!» Piuttosto preferivo credere alla versione del corvo incantato. Cominciò a piovere proprio in quel momento. «Almeno ti senti di nuovo mancare?» mi informai, mentre aspettavamo che ci aprissero la porta. Nessuna delle due aveva le chiavi. «Non essere tanto nervosa», disse Charlotte. «Quando sarà il momento, succederà.» Mr Bernhard ci aprì la porta. Secondo Leslie, Mr Bernhard era il nostro maggiordomo e la prova definitiva del fatto che fossimo ricchi almeno quasi quanto la regina o Madonna. Io non sapevo con precisione chi o che cosa fosse Mr Bernhard. La mamma lo definiva «il factotum della nonna», e la nonna da parte sua lo chiamava «un vecchio amico di famiglia». Per me e i miei fratelli era semplicemente «l’inquietante cameriere di Lady Arisa». Vedendoci, corrugò le sopracciglia. «Buongiorno, Mr Bernhard», dissi. «Un tempo orribile, vero?» «Proprio orribile.» Con il suo naso adunco e gli occhi scuri dietro gli occhialini rotondi con la montatura dorata, Mr Bernhard mi faceva sempre pensare a una civetta, o più precisamente a un gufo. «Non si può uscire senza cappotto con un tempo simile.» «Hmm, eh già, proprio così», dissi. «Dov’è Lady Arisa?» domandò Charlotte. Non era mai molto gentile con Mr Bernhard. Forse perché, al contrario di noi, fin da piccola non aveva mai nutrito rispetto per lui. E pensare che aveva la stupefacente abilità di apparire dal nulla in qualsiasi punto della casa e di muoversi silenzioso come un gatto. Non sembrava sfuggirgli nulla e, qualunque ora fosse, Mr Bernhard era sempre a disposizione. Abitava in casa nostra fin da prima della mia nascita e la mamma diceva che c’era anche quando lei era piccola. Di conseguenza Mr Bernhard doveva essere quasi coetaneo di Lady Arisa, anche se non sembrava così vecchio. Occupava un appartamento al secondo piano, che si raggiungeva da un corridoio separato al quale si accedeva da una scala. A noi era proibito persino mettere piede nel corridoio. Mio fratello sosteneva che Mr Bernhard avesse fatto costruire trappole e trabocchetti per tenere lontani i visitatori indesiderati, tuttavia non era in grado di dimostrare la sua tesi. Nessuno di noi aveva mai osato avvicinarsi a quel corridoio. «Mr Bernhard ha bisogno della sua sfera privata», ripeteva Lady Arisa. «Sì, sì, certo», diceva allora mia madre. «Ne avremmo bisogno tutti.» Ma lo diceva a bassa voce, per non farsi sentire dalla nonna. «Lady Arisa è nella stanza da musica», annunciò ora Mr Bernhard a Charlotte. «Grazie.» Charlotte ci lasciò nell’ingresso e salì le scale. La stanza da musica era al primo piano, e nessuno sapeva perché avesse quel nome. Dentro non c’era neppure un pianoforte. Era la stanza preferita da Lady Arisa e dalla prozia Maddy. All’interno c’era profumo di violetta e l’odore dei cigarillos di Lady Arisa. L’aria veniva cambiata di rado. A restarci troppo ci si sentiva soffocare. Mr Bernhard richiuse la porta d’ingresso. Io lanciai un’ultima occhiata fugace al lato opposto della strada. L’uomo misterioso era sempre lì. Mi sbagliavo, o stava alzando la mano, come se salutasse qualcuno? Forse Mr Bernhard, o addirittura me? La porta si richiuse e io non ebbi modo di rifletterci più a lungo, perché di nuovo fui assalita improvvisamente da quella sensazione di vertigine. La vista mi si appannò. Mi sentii mancare le ginocchia e fui costretta ad appoggiarmi al muro per non cadere. Tutto passò in un secondo. Il cuore mi batteva forte. C’era qualcosa che non andava in me. Non era possibile sentirsi mancare due volte nel giro di due ore senza andare sull’ottovolante. A meno che... ah, sciocchezze! Probabilmente stavo crescendo troppo in fretta. Oppure magari avevo... mmm... un tumore al cervello? O forse era solo fame. Sì, doveva essere fame. Dopo colazione non avevo più mangiato niente. Il pranzo era finito sulla camicia. Tirai un sospiro di sollievo. Solo in quel momento mi accorsi dello sguardo attento con cui mi fissavano gli occhi da gufo di Mr Bernhard. «Oplà», disse decisamente in ritardo. Io mi sentii arrossire. «Adesso vado... a fare i compiti», mormorai. Mr Bernhard mi rivolse un cenno d’assenso con espressione indifferente. Ma, mentre salivo le scale, percepii il suo sguardo alle mie spalle. Dagli Annali dei Guardiani 10 ottobre 1994 Sono tornato da Durham, dove ho fatto visita alla figlia minore di Lord Montrose, Grace Shepherd, che l’altro ieri, inaspettatamente, ha dato alla luce una bambina. Siamo tutti felici per la nascita di Gwendolyn Sophie Elizabeth Shepherd 2460 grammi, 52 centimetri. Madre e figlia godono di ottima salute. Rivolgiamo al nostro Gran Maestro i nostri più fervidi auguri per l’arrivo del suo quinto nipote. Autore: Thomas George, cerchia interna 2 Leslie aveva definito la nostra casa «un rispettabile palazzo» per via delle numerose stanze, i quadri, i pannelli in legno e le antichità che la riempivano. Immaginava che dietro ogni parete ci fosse un passaggio segreto e in ogni armadio quantomeno uno scomparto nascosto. Da piccole ci piaceva avventurarci in esplorazioni ogni volta che veniva a trovarmi. Il fatto poi che fosse severamente proibito ficcanasare in giro rendeva la cosa ancora più eccitante. Sviluppammo strategie sempre più raffinate per non farci scoprire. Negli anni individuammo effettivamente diversi scomparti segreti e addirittura una porta segreta. Si trovava nel sottoscala, dietro un dipinto a olio che ritraeva un cavaliere grasso e barbuto con la spada sguainata e lo sguardo torvo. Secondo le informazioni forniteci dalla prozia Maddy, quell’omaccione feroce era il mio pro-pro-pro-prozio Hugh, immortalato con la sua giumenta saura di nome Fat Annie. Oltre la porta dietro il dipinto in realtà c’erano alcuni gradini che portavano in una stanza da bagno, ma comunque era lo stesso qualcosa di segreto. «Hai davvero una fortuna sfacciata a poter vivere in un posto del genere!» ripeteva sempre Leslie. Da parte mia trovavo invece che quella fortunata fosse lei. Abitava con i genitori e un cane peloso di nome Bertie in un’accogliente villetta a schiera di North Kensington. A casa sua non c’erano segreti, né sinistri servitori né irritanti parenti. Un tempo anche noi avevamo vissuto in una casetta del genere, mamma, papà, mio fratello, mia sorella e io, a Durham, nell’Inghilterra settentrionale. Ma poi papà era morto. Mia sorella aveva solo sei mesi e la mamma si era trasferita a Londra portandoci con sé, probabilmente per la solitudine. Forse però non ce la faceva a tirare avanti da sola. La mamma era cresciuta in questa casa, insieme alla sorella Glenda e al fratello Harry. Zio Harry era l’unico che non vivesse a Londra. Abitava con la moglie nel Gloucestershire. All’inizio questa casa era sembrata anche a me un vero palazzo, proprio come a Leslie. Ma, quando si è costretti a condividere un palazzo con una famiglia numerosa, dopo un po’ non sembra più così grande. Visto che per di più era pieno di stanze inutili, come la sala da ballo che occupava tutto il pianterreno. Sarebbe stato un posto ideale per pattinare, ma era proibito. Era un ambiente bellissimo, con le grandi finestre, i soffitti stuccati e i lampadari di cristallo, ma da quando ero qui non vi si era mai tenuto neppure un ballo, né un ricevimento né una festa. Le sole attività che si svolgevano nella sala da ballo erano le lezioni di ballo e di scherma di Charlotte. Il palco per l’orchestra, raggiungibile dalla scala nell’ingresso, era del tutto inutile. Tranne per Caroline e le sue amiche, che usavano gli angoli bui sotto i gradini come rifugio quando giocavano a nascondino. Al piano superiore si trovava la già citata stanza da musica insieme agli alloggi di Lady Arisa e della prozia Maddy, un bagno (quello con la porta segreta) e la sala da pranzo dove la famiglia doveva riunirsi tutte le sere alle sette e mezzo per cenare. La sala da pranzo e la cucina, che si trovava esattamente sotto, erano collegate da un antiquato montavivande che a volte Nick e Caroline si divertivano a usare per calarsi e issarsi a vicenda, anche se, manco a dirlo, era severamente proibito. Da piccole lo avevamo fatto anch’io e Leslie, ma ora purtroppo eravamo cresciute troppo e non ci entravamo più. Al secondo piano si trovavano l’appartamento di Mr Bernhard, lo studio del mio defunto nonno – Lord Montrose – e una vastissima biblioteca. Inoltre c’erano la camera di Charlotte, d’angolo e con un bovindo di cui andava molto fiera, e le stanze occupate da sua madre: un salotto e una camera con le finestre affacciate sulla strada. Zia Glenda era divorziata e il padre di Charlotte viveva da qualche parte nel Kent con la nuova compagna. In casa quindi c’era una sola presenza maschile, Mr Bernhard, a meno di non contare anche mio fratello. Nessun animale domestico, per quanto li desiderassimo ardentemente. Lady Arisa non amava gli animali e zia Glenda era allergica a qualunque cosa avesse del pelo. La mamma, mio fratello, mia sorella e io alloggiavamo al terzo piano, nel sottotetto, dove c’erano molti soffitti obliqui ma anche due balconcini. Avevamo ciascuno la propria stanza e Charlotte era invidiosa del nostro grande bagno, perché quello al secondo piano non aveva finestre, mentre il nostro ne aveva addirittura due. A me piaceva abitare lassù anche perché lì potevamo stare per conto nostro, vantaggio non irrilevante in una casa di matti come questa. L’unico aspetto negativo era che eravamo maledettamente lontani dalla cucina, cosa che notai ancora una volta con rammarico mentre salivo. Mi sarei dovuta portare dietro quantomeno una mela. Invece così dovevo accontentarmi dei biscotti secchi che la mamma teneva di scorta nell’armadio. Per paura che mi potesse tornare quella strana vertigine, mangiai undici biscotti uno dietro l’altro. Mi sfilai le scarpe e la giacca, mi lasciai cadere sul divano della stanza da cucito e mi stirai a lungo. Oggi era una giornata strana. Voglio dire, più strana del solito. Erano soltanto le due del pomeriggio. Dovevo aspettare ancora almeno due ore e mezzo prima di poter telefonare a Leslie e sfogarmi dei miei problemi con lei. Nick e Caroline non sarebbero tornati da scuola prima delle quattro e la mamma finiva di lavorare sempre verso le cinque. In genere mi piaceva avere tutta la casa per me. Potevo farmi un bagno in santa pace, senza che nessuno bussasse alla porta perché aveva un bisogno impellente. Potevo alzare il volume della musica e cantare a squarciagola senza che nessuno mi prendesse in giro. E potevo guardare quello che volevo alla tv, senza che nessuno si mettesse a piagnucolare: «Adesso però è l’ora di Spongebob». Oggi però non avevo voglia di fare nessuna di queste cose. Non mi andava neppure di schiacciare un pisolino. Al contrario, il divano – solitamente un luogo di insuperabile comodità – mi sembrava come una zattera che ondeggiava trascinata dalla corrente di un fiume. Temevo che potesse essere strappata via, e io con essa, se avessi chiuso gli occhi. Per distrarmi, mi alzai e cominciai a riordinare la stanza del cucito. Era un po’ come il nostro salotto informale, perché fortunatamente né le zie né la nonna amavano cucire e quindi salivano di rado fino al terzo piano. Nella stanza non c’era neppure una macchina da cucire, però c’era una stretta scaletta che portava sul tetto. Era destinata allo spazzacamino, ma io e Leslie avevamo scelto il tetto come uno dei nostri rifugi prediletti. Da lassù si godeva di un panorama magnifico e non c’era posto migliore per parlare di cose da ragazze. (Per esempio di ragazzi e del fatto che non ne conoscessimo nessuno di cui valesse la pena innamorarsi.) Ovviamente era un po’ pericoloso, perché non c’era balaustra, soltanto una ringhiera decorativa alta fino al ginocchio. Ma del resto nessuno diceva che dovessimo esercitarci nel salto in lungo o ballare sul ciglio dell’abisso. La chiave per aprire la porticina sul tetto era conservata nella credenza in una zuccheriera con un disegno a rose. Nessuno della mia famiglia era al corrente del fatto che conoscessi il nascondiglio, altrimenti sarebbe sicuramente scoppiato l’inferno. Per questo stavo sempre molto attenta a che nessuno mi vedesse quando salivo di nascosto sul tetto. Lassù ci si poteva anche abbronzare, fare un picnic, oppure semplicemente nascondersi se si voleva un po’ di pace. Cosa che, come ho già detto, desideravo spesso, ma non oggi. Ripiegai il plaid, spazzolai le briciole di biscotto dal divano, sprimacciai i cuscini e rimisi al loro posto i pezzi della scacchiera rimasti in giro. Annaffiai persino l’azalea sistemata in un vaso sullo scrittoio nell’angolo, e pulii con uno straccio il tavolino davanti al divano. Poi mi guardai intorno perplessa nella stanza ora perfettamente ordinata. Erano passati soltanto dieci minuti e il mio desiderio di avere compagnia era più smisurato di prima. Chissà se Charlotte si era sentita di nuovo mancare di sotto nella stanza da musica? Che cosa succedeva in realtà se si balzava dal primo piano di una casa di Mayfair del XXI secolo nella Mayfair del, diciamo, XV secolo, quando in questo luogo sorgeva al massimo qualche baracca? Ci si ritrovava sospesi per aria e si precipitava per sette metri fino a terra? Magari dritti in un formicaio? Povera Charlotte. Ma forse nelle sue misteriose lezioni di misteri aveva imparato a volare. A proposito di misteri: all’improvviso mi venne in mente qualcosa con cui avrei potuto distrarmi. Andai in camera della mamma e guardai fuori dalla finestra verso la strada. L’uomo nero era sempre fermo davanti al portone del numero 18. Gli vedevo le gambe e l’orlo dell’impermeabile. Non mi ero mai accorta di quanto fossero alti i tre piani di casa nostra. Per divertimento provai a calcolare quale distanza ci fosse fino a terra. Si poteva sopravvivere a un salto di quattordici metri? Forse sì, se si aveva la fortuna di atterrare su un terreno morbido. Come quello di una palude. A quanto pare tutta Londra un tempo era un unico grande acquitrino, almeno era ciò che affermava Mrs Counter, la nostra prof di geografia. La palude poteva andar bene, se non altro si atterrava sul morbido. Ma soltanto per poi annegare nel fango. Deglutii. Questi pensieri mi davano la nausea. Per non essere costretta a stare da sola più a lungo, decisi di andare a fare visita al mio parentado nella stanza da musica, anche a costo di essere cacciata via a causa di conciliaboli strettamente riservati. Quando entrai, la prozia Maddy era seduta sulla sua poltrona preferita accanto alla finestra e Charlotte era in piedi accanto all’altra finestra, con il fondoschiena appoggiato allo scrittoio Luigi XIV, anche se normalmente ci era assolutamente vietato sfiorarne il piano laccato e dorato con qualunque parte del corpo. (Era inconcepibile che un oggetto tanto orribile come questo scrittoio fosse così prezioso come affermava sempre Lady Arisa. Non aveva nemmeno uno scomparto segreto, come avevamo appurato io e Leslie già da molti anni.) Charlotte si era cambiata e indossava un abito blu scuro che sembrava un incrocio tra una camicia da notte, un accappatoio e una tonaca da suora. «Come vedi sono ancora qui», disse. «Mi... mi fa piacere», risposi cercando di evitare di fissare troppo il suo sconvolgente vestito. «È intollerabile», dichiarò zia Glenda, che camminava ansiosa tra le due finestre. Era alta e slanciata come Charlotte e aveva gli stessi riccioli rosso carota. Anche la mamma aveva gli stessi capelli e da giovane pure la nonna era stata fulva. Il colore rosso acceso era stato ereditato persino da Caroline e Nick. Soltanto io ero mora, e liscia come mio padre. Da piccola avrei dato qualunque cosa per avere i capelli fulvi, ma Leslie mi aveva persuaso che la mia chioma nera creava un incantevole contrasto con gli occhi azzurri e l’incarnato chiaro. Leslie mi aveva anche convinta che la voglia a forma di mezzaluna che avevo sulla tempia – zia Glenda la chiamava «buffa banana» – era un segno distintivo misterioso e originale. Ormai anch’io avevo cominciato a trovarmi carina, non da ultimo grazie all’apparecchio che aveva domato i miei incisivi sporgenti togliendomi l’aria da coniglietto. Naturalmente non potevo in alcun modo competere con il fascino «leggiadro e di incantevole grazia» di Charlotte, per usare le parole di James. Ah, quanto mi sarebbe piaciuto che la vedesse con indosso quel sacco informe. «Gwendolyn, tesoro, vuoi una caramella al limone?» La prozia Maddy indicò con la mano lo sgabello accanto a lei. «Vieni a sederti vicino a me per distrarmi un po’. Glenda mi rende terribilmente nervosa a forza di camminare su e giù.» «Tu non puoi neppure immaginare i sentimenti di una madre, zia Maddy», dichiarò zia Glenda. «È vero, hai ragione», sospirò la prozia. Era la sorella del nonno e non si era mai sposata. Era una donnina tonda e minuta con limpidi occhi azzurri e capelli biondo dorati dove non di rado dimenticava qualche bigodino. «Dov’è Lady Arisa?» domandai mentre prendevo una caramella. «Sta telefonando di là», rispose la prozia Maddy. «Ma parla così piano che non si capisce nemmeno una parola. A proposito, questa è l’ultima scatola di caramelle. Per caso non avresti tempo di fare un salto da Selfridges per comprarne un’altra?» «Ma certo», risposi. Charlotte si dondolò sulle gambe, attirando all’istante su di sé lo sguardo di zia Glenda. «Charlotte?» «No, niente», rispose lei. Zia Glenda strinse le labbra. «Non sarebbe meglio se aspettassi a pianterreno?» suggerii a Charlotte. «Così non rischieresti di cadere da tanto in alto.» «Non sarebbe meglio se tenessi chiusa la bocca invece di parlare di cose che non sai?» ribatté Charlotte. «Sul serio, l’ultima cosa di cui Charlotte ha bisogno al momento sono consigli assurdi», sentenziò zia Glenda. Cominciavo a pentirmi di essere scesa. «Durante il primo salto nel passato il gene-portatore non torna indietro mai più di centocinquant’ anni», mi spiegò la prozia Maddy comprensiva. «Questa casa fu costruita nel 1781, quindi Charlotte è perfettamente al sicuro qui nella stanza da musica. Al massimo potrebbe mettere paura a qualche dama mentre suona.» «Vestita così è sicuro», osservai sottovoce. Solo la prozia Maddy mi sentì e ridacchiò piano. La porta si spalancò e Lady Arisa fece il suo ingresso. Come sempre camminava come se avesse inghiottito un bastone. Anzi, più d’uno. Uno per le braccia, uno per le gambe e uno che teneva insieme il tutto. Aveva i capelli bianchi pettinati all’indietro e raccolti in una crocchia sulla nuca, come un’insegnante di danza con cui non era consigliabile fraternizzare. «Sta arrivando una macchina. I de Villiers ci aspettano a Temple. In questo modo Charlotte potrà essere iscritta nel cronografo subito dopo il suo ritorno.» Io non ci capivo niente. «E se non succedesse oggi?» domandò Charlotte. «Charlotte, tesoro, ti sei sentita mancare già tre volte», puntualizzò zia Glenda. «Prima o poi succederà», disse Lady Arisa. «Ora vieni, l’auto sarà qui a momenti.» Zia Glenda prese Charlotte per un braccio e uscì dalla stanza insieme a Lady Arisa. Quando la porta si fu richiusa dietro di loro, io e la prozia Maddy ci scambiammo un’occhiata. «A volte si ha l’impressione di essere considerati invisibili, non trovi?» disse la prozia. «Quantomeno un arrivederci oppure un ciao sarebbero stati carini. O magari anche qualcosa di più intelligente, del tipo: Cara Maddy, hai forse avuto una visione che possa esserci d’aiuto?» «L’hai avuta?» «No», rispose la prozia. «Grazie al cielo no. Dopo le visioni mi viene una gran fame e sono già troppo grassa.» «Chi sono i de Villiers?» domandai. «Un branco di snob arroganti, se vuoi saperlo», mi spiegò Maddy. «Tutti avvocati e banchieri. Sono proprietari della banca privata de Villiers nella City. Teniamo i nostri conti lì da loro.» La cosa decisamente non aveva niente di mistico. «Che cosa c’entrano quelle persone con Charlotte?» «Mettiamola così, anche loro hanno problemi analoghi ai nostri.» «Quali problemi?» Anche loro dovevano vivere sotto lo stesso tetto con una nonna tirannica, una zia impossibile e una cugina presuntuosa? «Il gene dei viaggi nel tempo», rispose la prozia Maddy. «Nei de Villiers si eredita in linea maschile.» «Significa che anche loro hanno una Charlotte in casa?” «Il corrispettivo maschile. Si chiama Gideon, a quanto ne so.» «Anche lui sta aspettando di sentirsi svenire?» «È già successo. Ha due anni più di Charlotte.» «Significa che da due anni saltella allegramente nel tempo?» «Presumo di sì.» Cercai di aggiungere queste nuove informazioni a quel poco che sapevo già. Siccome oggi la prozia Maddy era così provvida di notizie, mi concedetti solo qualche secondo per farlo. «Che cos’è un croni... un crono...» «Cronografo!» La prozia Maddy rivolse al cielo i suoi occhi azzurri da cerbiatta. «Si tratta di un aggeggio con cui i gene-portatori – e loro soltanto! – possono essere spediti in una determinata epoca. Ha a che fare con il sangue.” «Una macchina del tempo?» Alimentata a sangue? Santo cielo! La prozia Maddy scrollò le spalle. «Non ho idea di come funzioni quel coso. Non dimenticare che anch’io so solo quello che sento mentre sto seduta qui facendo finta di niente. È una faccenda molto segreta.» «Già. E molto complicata», aggiunsi io. «Come fanno a sapere che Charlotte possiede questo gene? Perché ce l’ha proprio lei e non per esempio... mmm... tu?» «Io non posso averlo, grazie al cielo», rispose lei. «Noi Montrose siamo sempre stati tipi bizzarri, ma il gene è entrato nella nostra famiglia grazie a tua nonna. Per colpa di mio fratello che volle sposarla per forza.» Zia Maddy sogghignò. Era la sorella del mio defunto nonno Lucas. Non essendo sposata, si era trasferita a vivere da lui per occuparsi della casa. «Sentii parlare di questo gene per la prima volta dopo il matrimonio di Lucas e Lady Arisa. L’ultima gene-portatrice prima di Charlotte fu una signora che si chiamava Margret Tilney, che a sua volta era la nonna di tua nonna Arisa.» «Charlotte ha ereditato il gene da questa Margret?» «No, prima c’è stata la povera Lucy. Che disgrazia.» «Lucy chi?» «Tua cugina, la primogenita di Harry.» «Ah! Quella Lucy.» Mio zio Harry, quello del Gloucestershire, era molto più grande di Glenda e di mia madre. I suoi tre figli erano già adulti. David, il più giovane, aveva ventotto anni e faceva il pilota per la British Airways. Questo purtroppo non significava che noi avessimo diritto a uno sconto sui biglietti aerei. Janet, quella di mezzo, aveva già dei figli suoi, due piccole pesti di nome Poppy e Daisy. Lucy, la primogenita, non l’avevo mai conosciuta. Non sapevo molto di lei. La famiglia non ne parlava mai. Era la pecora nera dei Montrose. Era scappata di casa a diciassette anni e da allora non aveva più dato sue notizie. «Lucy è una gene-portatrice?» «Esatto», confermò zia Maddy. «Qui scoppiò l’inferno quando scomparve. Tua nonna rischiò di farsi venire un infarto. Fu uno scandalo inaudito.» Scrollò energicamente il capo, tanto che i boccoli dorati le si scompigliarono tutti. «Ci credo.» Potevo immaginare benissimo che cosa sarebbe successo se Charlotte avesse fatto le valigie e se ne fosse andata. «Non puoi nemmeno immaginarlo. Non sai in quali drammatiche circostanze scomparve, e tutto per colpa di quel ragazzo... Gwendolyn! Togliti il dito dalla bocca! È un’abitudine disdicevole!» «Scusa.» Non mi ero accorta di aver cominciato a mordicchiarmi un’unghia. «È colpa del nervosismo. Ci sono così tante cose che non capisco...» «Per me è lo stesso», mi assicurò la prozia. «E ascolto queste assurdità da quando avevo quindici anni. Del resto possiedo una specie di talento naturale per i misteri. Tutti i Montrose hanno un debole per i segreti. È sempre stato così. Se vuoi saperlo, è proprio per questo che quel disgraziato di mio fratello sposò tua nonna. Di sicuro non fu per il suo fascino irresistibile, dato che non ne aveva nemmeno un briciolo.» Infilò la mano nella scatola di caramelle e sospirò trovandola vuota. «Accipicchia, temo di essere diventata dipendente da questi cosi.» «Faccio un salto da Selfridges a comprarne una scatola», dissi. «Come sempre sei il mio angelo preferito. Dammi un bacio e mettiti il cappotto, ché piove. E non morderti più le unghie, capito?» Siccome il cappotto era rimasto nell’armadietto a scuola, infilai l’impermeabile a fiori della mamma tirandomi il cappuccio sulla testa prima di uscire di casa. L’uomo davanti al portone del numero 18 si stava accendendo una sigaretta. Seguendo un impulso improvviso, gli rivolsi un cenno di saluto mentre scendevo di corsa i gradini. Lui non mi rispose. Ovviamente. «Stupido.» Mi incamminai a passo svelto verso Oxford Street. Pioveva a dirotto. Oltre all’impermeabile mi sarei dovuta mettere anche gli stivali di gomma. La mia magnolia preferita all’angolo se ne stava lì tutta triste con i fiori penzolanti. Prima di raggiungerla, ero già finita dentro tre pozzanghere. Mentre cercavo di schivare la quarta, mi sentii strattonare in aria all’improvviso. Avevo lo stomaco sottosopra. La strada si trasformò in un fiume grigio davanti ai miei occhi. Ex hoc momento pendet aeternitas. ( L’eternità è appesa a questo momento.) Iscrizione su una meridiana, Middle Temple, Londra 3 Quando tornai a vedere chiaramente, scorsi un’auto d’epoca che girava l’angolo mentre io ero inginocchiata sul marciapiede e tremavo di paura. C’era qualcosa che non andava nella via. Era diversa dal solito. Come se tutto fosse cambiato di colpo. Aveva smesso di piovere, ma soffiava un vento gelido ed era molto più buio di prima, quasi notte. La magnolia non aveva né fiori né foglie. Non ero neppure sicura che si trattasse proprio di una magnolia. Le punte dell’inferriata che la circondavano erano pitturate d’oro. Avrei giurato che sino a ieri fossero state nere. Un’altra auto d’epoca sbucò dalla curva. Era un automezzo bizzarro, con le ruote alte con i raggi chiari. Guardai il marciapiede: le pozzanghere erano scomparse. E anche i cartelli stradali. Il selciato era irregolare e pieno di buche e i lampioni avevano un aspetto diverso, la loro luce giallastra lambiva appena il portone più vicino. Dentro di me si agitava un brutto presentimento, ma non ero ancora pronta a far affiorare del tutto l’idea. Mi costrinsi a fare un respiro profondo. Poi mi guardai intorno un’altra volta, con più attenzione. Okay, a essere precisi l’ambiente intorno a me non era poi tanto diverso. La maggior parte delle case era come sempre. Tuttavia... la drogheria più avanti, dove la mamma comprava i deliziosi biscotti Prince of Wales, era scomparsa, e la casa d’angolo con le grandi colonne sul davanti non l’avevo mai vista prima. Un uomo col cappello e un cappotto nero mi lanciò un’occhiata spazientita passandomi accanto, senza tuttavia dar segno di volermi parlare né tantomeno aiutare ad alzarmi. Lo feci da sola e mi scrollai la polvere dalle ginocchia. Il presentimento che mi aveva assalito si andava trasformando lentamente ma irrevocabilmente in un’agghiacciante sicurezza. Ma chi volevo prendere in giro? Non ero certo finita in mezzo a un raduno d’auto d’epoca, né era possibile che la magnolia di colpo avesse perso tutte le foglie. Avrei dato qualunque cosa per veder spuntare all’improvviso Nicole Kidman dietro l’angolo, ma sapevo che non si trattava del set di un film tratto da un racconto di Henry James. Sapevo benissimo che cos’era successo. Lo sapevo e basta. E sapevo anche che doveva esserci stato un errore. Ero finita in un’altra epoca. Non era successo a Charlotte. Era successo a me. Qualcuno doveva aver commesso un errore madornale. Cominciai a battere i denti, non solo per l’agitazione, ma anche per il freddo. Stavo gelando. «Io saprei che cosa fare.» Le parole di Charlotte mi risuonarono nelle orecchie. Chiaro, Charlotte avrebbe saputo che cosa fare. A me invece non l’aveva insegnato nessuno. Rimasi ferma all’angolo della strada, tutta tremante, mentre i passanti mi lanciavano occhiate perplesse. Non c’era molta gente per strada. Vidi avvicinarsi una ragazza con un cappotto fino al ginocchio e un cestino al braccio. Dietro di lei veniva un uomo con il cappello e il bavero rialzato. «Mi scusi», chiesi, «mi saprebbe dire in che anno siamo?” La donna fece finta di non avermi sentito e affrettò il passo. L’uomo scrollò il capo. «Che vergogna», borbottò. Sospirai. Non potevo certo dire di aver ottenuto informazioni utili finora. In realtà non aveva molta importanza che fossimo nel 1899 oppure nel 1923. Se non altro sapevo dove mi trovavo. Casa mia era a meno di cento metri da qui. Che cosa c’era di più facile che tornare a casa? Qualcosa dovevo pur fare. La via appariva tranquilla e silenziosa alla luce del tramonto, mentre tornavo indietro lentamente guardandomi intorno. Che cosa c’era di diverso, che cosa era rimasto uguale? Anche da vicino le case somigliavano molto a quelle della mia epoca. È vero, c’erano molti particolari che mi sembrava di vedere per la prima volta, ma forse dipendeva dal fatto che finora non ci avevo mai fatto caso. Il mio sguardo andò automaticamente al portone del numero 18, ma era vuoto, non c’era nessun uomo nero di guardia. Mi fermai. Casa nostra era identica a quella dove abitavo. Le finestre al pianterreno e al primo piano erano illuminate, anche in camera della mamma in soffitta c’era la luce accesa. Alzando gli occhi provai un’ondata di nostalgia. L’acqua gelata formava dei ghiaccioli che pendevano dagli abbaini. «Saprei che cosa fare.» Già, che cosa avrebbe fatto Charlotte? Ben presto sarebbe scesa la notte e faceva un gran freddo. Dove sarebbe andata Charlotte per non morire congelata? A casa? Osservai le finestre. Forse il nonno era ancora vivo. Forse mi avrebbe riconosciuta subito. In fondo mi aveva tenuto a cavalluccio sulle ginocchia quand’ero piccola... ah, che assurdità. Anche ammettendo che fosse nato, era difficile che ricordasse di avermi tenuto sulle ginocchia da vecchio. Il freddo mi entrava sotto l’impermeabile. Okay, avrei suonato il campanello e chiesto ricovero per la notte. L’unico dubbio era come formulare la richiesta. «Salve, mi chiamo Gwendolyn e sono la nipote di Lord Lucas Montrose, che molto probabilmente non è ancora nato.» Non potevo certo dare per scontato che mi credessero. Certo sarei finita in manicomio prima ancora di accorgermene. Sicuramente all’epoca doveva trattarsi di luoghi deprimenti dai quali, una volta entrati, non si usciva più. D’altro canto non avevo molte alternative. Entro breve sarebbe diventato buio pesto e dovevo pur trovare un posto dove passare la notte senza morire congelata. E senza essere scoperta da Jack lo Squartatore. Iddio santissimo! Quando aveva commesso le sue atrocità? E dove? C’era solo da sperare che non fosse lì nell’elegante Mayfair! Se fossi riuscita a parlare con uno dei miei antenati, forse sarei riuscita a convincerlo di conoscere più particolari della famiglia e della casa di quanto fosse possibile a una sconosciuta. Per esempio, chi oltre a me poteva sapere così su due piedi che il cavallo del pro-pro-pro-prozio Hugh si chiamava Fat Annie? Era decisamente un’informazione riservata. Una raffica di vento mi fece trasalire. Che freddo faceva. Non mi sarei sorpresa se avesse cominciato a nevicare. «Salve, sono Gwendolyn e vengo dal futuro. Per dimostrarlo le faccio vedere questa chiusura lampo. Scommetto che non è stata ancora inventata, giusto? Così come i jumbojet, i televisori e i frigoriferi. . .» Avrei potuto almeno tentare. Feci un profondo respiro e mi avvicinai alla porta di casa. I gradini mi risultavano stranamente familiari e nel contempo estranei. Con la mano tastai il muro alla ricerca del campanello. Ma non c’era. Evidentemente nemmeno i campanelli elettrici erano stati ancora inventati. Purtroppo nemmeno questo mi dava un indizio sicuro sull’anno in cui mi trovavo. Non sapevo nemmeno a quando risalisse l’invenzione dell’elettricità. Era stato prima o dopo le navi a vapore? Lo avevamo studiato a scuola? Se sì, purtroppo non lo ricordavo. Trovai un pomello appeso a una catena, molto simile all’antiquato sciacquone a casa di Leslie. Lo tirai con forza e udii il trillo di un campanello dietro la porta. Oh, mio Dio. Probabilmente sarebbe venuto ad aprire qualcuno della servitù. Che cosa avrei dovuto dire per farmi ricevere da uno dei membri della famiglia? Forse il pro-pro-pro-prozio Hugh era ancora vivo? Oppure era appena nato? Che importava. Avrei chiesto di lui. Oppure di Fat Annie. Sentii dei passi che si avvicinavano e raccolsi tutto il mio coraggio. Ma non potei vedere chi mi apriva la porta, perché fui travolta di nuovo da quella sensazione di essere sollevata bruscamente da terra, catapultata nel tempo e nello spazio e risputata fuori. Mi ritrovai sullo zerbino di casa nostra, balzai in piedi e mi guardai intorno. Tutto era come prima, quand’ero uscita a comprare le caramelle a zia Maddy. Le case, le auto in sosta, persino la pioggia. L’uomo nero davanti al portone del numero 18 mi fissava. «Che credi, non sei l’unico a essere sorpreso», mormorai. Quanto tempo ero stata via? L’uomo nero mi aveva visto sparire dietro l’angolo e poi riapparire di colpo sullo zerbino? Di sicuro non credeva ai suoi occhi. Gli stava bene. Così adesso si rendeva conto che cosa si provava a trovarsi davanti un mistero da risolvere. Suonai precipitosamente. Mr Bernhard aprì la porta. «Siamo di fretta?» domandò. «Lei forse no, io però sì!» Mr Bernhard alzò le sopracciglia. «Mi scusi, ho dimenticato qualcosa d’importante.» Lo superai di slancio e corsi su per le scale salendo i gradini due alla volta. La prozia Maddy alzò lo sguardo stupefatta quando mi precipitai nella stanza. «Pensavo che fossi già uscita, angelo mio.» Ansimando guardai l’orologio appeso al muro. Erano passati venti minuti da quando ero uscita dalla stanza. «Comunque mi fa piacere che tu sia tornata. Mi ero dimenticata di dirti che da Selfridges hanno anche le stesse caramelle senza zucchero e la confezione è identica! Non ti sbagliare, perché quelle senza zucchero fanno venire... ecco, la diarrea!» «Zia Maddy, perché sono tutti così sicuri che sia Charlotte ad avere il gene?» «Perché... non puoi farmi una domanda più facile?» La prozia Maddy aveva l’aria un po’ perplessa. «Le hanno fatto degli esami del sangue? È possibile che qualcun altro abbia il gene?» Il respiro pian piano mi si stava calmando. «Charlotte è sicuramente una gene-portatrice.» «Perché le hanno analizzato il DNA?» «Tesoro, stai chiedendo alla persona sbagliata. Sono sempre stata una frana in biologia, non so nemmeno che cosa sia questo DNA. Credo che la cosa non riguardi tanto la biologia, quanto l’alta matematica. Purtroppo anche in matematica prendevo pessimi voti. Quando si tratta di numeri e formule mi tappavo letteralmente le orecchie. Posso dirti soltanto che Charlotte è venuta al mondo proprio il giorno definito per lei e calcolato da secoli.» «È la data di nascita dunque a determinare se una persona possiede il gene oppure no?» Mi morsi il labbro inferiore. Charlotte era nata il 7 ottobre, io l’8. Tra di noi c’era solo un giorno di differenza. «Piuttosto direi il contrario», disse zia Maddy. «È il gene a determinare il momento della nascita. È stato tutto calcolato con precisione.» «Se si fossero sbagliati?» Di un giorno! Semplice. C’era stato uno scambio. Non era Charlotte a possedere quel maledetto gene, bensì io. Oppure ce l’avevamo entrambe. Ma... mi lasciai cadere sullo sgabello. La prozia Maddy scrollò il capo. «Non si sono sbagliati, tesoro. Se esiste una cosa che queste persone sanno fare proprio bene è calcolare.» Ma chi erano poi «queste persone»? «A tutti può succedere di sbagliare almeno una volta», obiettai. Zia Maddy sorrise. «A Isaac Newton temo di no.» «È stato Newton a calcolare la data di nascita di Charlotte?” «Mia cara, capisco la tua curiosità. Quando avevo la tua età, ero come te. Ma, tanto per cominciare, a volte è meglio restare all’oscuro e, secondariamente, vorrei davvero tanto avere le mie caramelle al limone.» «Ma non ha senso», dissi. «Solo in apparenza.» La prozia Maddy mi accarezzò la mano. «Anche se ne sai esattamente quanto prima, questa conversazione deve restare tra di noi. Se tua nonna venisse a sapere tutto quello che ti ho raccontato, si arrabbierebbe tantissimo. E quando si arrabbia diventa persino più terribile del solito.» «Stai tranquilla che non ti tradirò, zia Maddy. Ora vado a prenderti le caramelle.» «Sei davvero una brava bambina.» «Vorrei farti ancora una domanda: quanto tempo passa dopo il primo salto nel tempo prima che succeda di nuovo?» La prozia sospirò. «Ti prego», la implorai. «Non credo che esista una regola», rispose. «Ogni gene-portatore è un caso a sé. Ma nessuno è in grado di governare da solo i viaggi nel tempo. Il fenomeno avviene tutti i giorni, in maniera incontrollata, spesso persino più volte al giorno. Per questo il cronografo è tanto importante. A quanto ho potuto capire, grazie al suo aiuto Charlotte non finirà sballottata in su e in giù nel tempo, ma potrà essere spedita con grande precisione in epoche sicure, dove non potrà accaderle niente. Perciò non devi preoccuparti per lei.» A dire la verità, ero molto più preoccupata per me. «Per quanto tempo si scompare dal presente quando si rimane nel passato?» domandai trafelata. «Ed è possibile che la seconda volta si finisca indietro fino all’epoca dei dinosauri, dove qui c’era soltanto una grande palude?» La prozia mi zittì con un imperioso gesto della mano. «Ora basta, Gwendolyn. Non so proprio niente di tutte queste cose!» Ritrovai il mio contegno. «Ti ringrazio comunque per tutte le risposte che mi hai dato», dissi. «Mi sei stata molto utile.» «Non ne sono troppo convinta. Mi sento molto in colpa. In realtà non avrei dovuto alimentare il tuo interesse, dal momento che io stessa non dovrei saperne niente. Quando in passato chiedevo a mio fratello – tuo nonno – lumi sull’argomento, ottenevo da lui sempre la stessa risposta. Mi diceva: meno ne sai tanto è meglio per te. Adesso vai a comprarmi le caramelle? Mi raccomando, non ti sbagliare: quelle con lo zucchero.» La prozia Maddy mi congedò con una strizzata d’occhi. Com’era possibile che dei segreti potessero nuocere alla salute? E quanto ne sapeva mio nonno di tutta questa faccenda? «Isaac Newton?» ripeté Leslie perplessa. «Non era quello della forza di gravità?» «Esatto. Ma a quanto sembra è stato anche quello che ha calcolato la data di nascita di Charlotte.» Ero nel reparto latticini di Selfridges, davanti allo scaffale degli yogurt, e con la mano destra mi tenevo il cellulare premuto all’orecchio, mentre con la sinistra mi tappavo quell’altro. «Purtroppo però nessuno crede che possa essersi sbagliato. Certo, del resto chi ci crederebbe con uno come Newton! Ma deve per forza aver commesso un errore, Leslie. Io sono nata un giorno dopo Charlotte e ho fatto un salto nel tempo al posto suo.» «Di sicuro è un mistero. Uffa, questo catorcio ci mette un secolo per accendersi. Avanti, sbrigati, scemo!» esclamò Leslie rivolta al suo computer. «Oh, Leslie, è stato così... strano! Sono stata a un passo dal parlare con i miei antenati! Sai, magari potevo incontrare quel grassone del ritratto davanti alla porta segreta, il pro-pro-pro-prozio Hugh. Sempre ammesso che fosse la sua epoca e non un’altra. Ho corso il rischio di finire rinchiusa in manicomio.» «Chissà che altro poteva capitarti!» osservò Leslie. «Continuo a non capire. Sono tanti anni che fanno tutte quelle storie per Charlotte, e poi guarda che cosa è successo! Devi raccontarlo subito a tua madre. Anzi, devi tornare subito a casa. Potrebbe ricapitarti in qualsiasi momento.” «È spaventoso, vero?» «Assolutamente sì. Okay, finalmente sono collegata. Per prima cosa cerco Newton. E tu intanto torna a casa, forza! Per caso sai da quanto tempo esiste Selfridges? Chissà, magari prima era una buca e tu precipiti per una dozzina di metri!» «La nonna darà fuori di matto, quando verrà a saperlo”, dissi. «Già, e la povera Charlotte... prova a pensare, per anni ha dovuto rinunciare a tutto, e adesso non gliene viene neppure niente. Ecco, ci sono. Newton. Nato a Woolsthorpe – e dov’è? – nel 1643, morto a Londra nel 1727. Eccetera, eccetera. Qui non dice niente di viaggi nel tempo, parla solo del calcolo infinitesimale. Mai sentito, tu? La trascendenza di tutte le spirali... Quadratix, ottica, meccanica celeste, bla-bla-bla, ah, ecco la legge gravitazionale... vabbe’, quella cosa della trascendenza delle spirali mi sembra la più vicina ai viaggi nel tempo, non trovi anche tu?» «In tutta sincerità, no», risposi. Accanto a me una coppia discuteva animatamente della marca di yogurt da comperare. «Ma sei sempre da Selfridges?» esclamò Leslie. «Vedi di tornare subito a casa!» «Mi sto muovendo», dissi, andando verso l’uscita con il sacchetto di carta gialla con dentro le caramelle della prozia Maddy. «Leslie, a casa non posso raccontare niente. Mi prenderebbero per pazza.» Leslie sbuffò al telefono. «Gwen! Tutte le altre famiglie ti sottoporrebbero a un consulto psichiatrico, ma non la tua! Non fanno altro che parlare di viaggi nel tempo e cronometri e lezioni di mistero.» «Cronografi», la corressi. «È un aggeggio che funziona con il sangue. Non lo trovi disgustoso?» «Cro-no-gra-fo. Ce l’ho!» Avanzai faticosamente tra la folla di Oxford Street e mi fermai a un semaforo. «Zia Glenda dirà che mi sono inventata tutto per darmi delle arie e rubare la scena a Charlotte.” «E allora? Quando sparirai la prossima volta, si renderà conto dell’errore.» «E se non dovesse più capitare? Se si fosse trattato solo di una cosa momentanea? Come un raffreddore.» «Non ci credi nemmeno tu. Okay, un cronografo è un banalissimo orologio da polso. Se ne trovano a quintali su eBay, a partire da 10 sterline. Merda... aspetta, provo a cercare Isaac Newton e cronografo e viaggio nel tempo e sangue.» «Allora?» «Niente di niente.» Leslie sospirò. «Peccato non aver pensato prima a fare queste ricerche. Vedrò di procurarmi per prima cosa dei testi sull’argomento. Tutto quello che riesco a trovare sui viaggi nel tempo. Altrimenti, che cosa me ne faccio di quella stupida tessera della biblioteca? Dove sei?» «Sto attraversando Oxford Street verso Duke Street.» Fui assalita da un irrefrenabile risolino. «Me lo chiedi perché vuoi venire qui e fare un cerchio con il gesso nel caso la comunicazione s’interrompesse all’improvviso? Mi sono sempre chiesta a che cavolo servisse il cerchio di gesso nel caso di Charlotte.» «Mah, forse volevano spedirle dietro quell’altro viaggiatore del tempo. Com’è che si chiama?» «Gideon de Villiers.» «Che nome figo. Provo a cercare anche questo. Gideon de Villiers. Come si scrive?» «E come faccio a saperlo io? Per tornare al gesso: ammesso che fosse come dici tu, dove avrebbero spedito questo Gideon? Voglio dire, in quale epoca? Charlotte avrebbe potuto essere ovunque. In qualsiasi minuto, ora, anno e secolo. No, la storia del cerchio di gesso non ha senso.» Leslie cacciò un urlo così stridulo nel mio orecchio che rischiai di lasciar cadere per terra il cellulare. «Gideon de Villiers. Ne ho trovato uno.» «Sul serio?» «Già. Qui dice: la squadra di polo del Vincent College di Greenwich si è aggiudicata anche quest’anno il campionato scolastico nazionale di polo. Nella foto vediamo la squadra che festeggia la vittoria. Da sinistra a destra, il direttore William Henderson, l’allenatore John Carpenter, il capitano Gideon de Villiers... eccetera, eccetera. Uau, è pure capitano. Peccato che la foto sia troppo piccola e non si riesca a distinguere tra cavalli e persone. Gwen, dove sei adesso?» «Sempre in Duke Street. Corrisponde: collegio a Greenwich, polo, è lui di sicuro. C’è scritto pure che di tanto in tanto gli piace scomparire? Magari direttamente da cavallo?» «Aspetta, l’articolo è di tre anni fa. Nel frattempo forse ha già finito la scuola. Ti senti per caso mancare?» «Finora no.» «Dove sei esattamente?» «Leslie! Sempre in Duke Street. Sto camminando più in fretta possibile.» «Okay, restiamo al telefono finché arrivi alla porta di casa e, non appena entri, parli con tua mamma.» Diedi un’occhiata all’orologio. «A quest’ora non è ancora tornata dal lavoro.» «Allora aspetti finché non sarà a casa, ma poi le parli, capito? Lei saprà che cosa bisogna fare perché non ti succeda niente. Gwen? Sei sempre lì? Mi hai capito?» «Sì. Ho capito. Leslie?» «Sì?» «Sono contenta di avere te. Sei la migliore amica del mondo.» «Anche tu non sei male come amica», disse Leslie. «Voglio dire, la prossima volta mi potresti portare qualcosa di ganzo dal passato. Quale amica potrebbe farlo? E la prossima volta che dobbiamo studiare per uno stupido compito di storia potrai fare ricerche direttamente sul posto.” «Se non ci fossi tu, non saprei che cosa fare.» Mi rendevo conto io stessa di sembrare un po’ lagnosa. Ma, santo cielo, mi sentivo lagnosa. «È possibile portare via degli oggetti dal passato?» domandò Leslie. «Non ne ho idea. Davvero, neppure lontanamente. La prossima volta ci proverò. A proposito, ho raggiunto Grosvernor Square.» «Ce l’hai quasi fatta, allora», esclamò Leslie sollevata. «A parte questa storia del polo, Google non riporta altro su un Gideon de Villiers. Però ci sono moltissimi link a una banca privata de Villiers e uno studio legale de Villiers a Temple.» «Sì, devono essere loro.» «Ti senti mancare?» «No, ma grazie di averlo chiesto.» Leslie si schiarì la gola. «So che hai paura, ma per certi versi è davvero tosto. Voglio dire, è un’avventura bell’e buona, Gwen. E tu ci sei finita proprio in mezzo!» Già. C’ero finita proprio in mezzo. Che sfiga. Leslie aveva ragione: non c’era motivo per supporre che mia madre non mi avrebbe creduto. In effetti ascoltava da sempre con commovente serietà le mie «storie di fantasmi». Potevo sempre contare su di lei, se avevo qualche problema. Quando abitavamo ancora a Durham, ero stata perseguitata per mesi dal fantasma di un demone che in realtà avrebbe dovuto svolgere la sua funzione di doccione in pietra sul tetto della cattedrale. Si chiamava Asrael ed era un misto tra una persona, un gatto e un’aquila. Quando si era accorto che riuscivo a vederlo, era stato così entusiasta di poter finalmente parlare con qualcuno che mi seguiva dovunque, correndo o svolazzando, mi tormentava e di notte pretendeva persino di dormire nel mio letto. Dopo aver superato l’iniziale paura – al pari di tutti i doccioni Asrael era corredato da un grugno decisamente spaventoso – , pian piano eravamo diventati amici. Purtroppo non si era potuto trasferire con me a Londra e ne sentivo ancora la mancanza. I pochi demoni-doccioni che avevo visto qui a Londra erano piuttosto antipatici, quantomeno finora non avevo incontrato nessuno che fosse all’altezza di Asrael. Siccome la mamma aveva creduto all’esistenza di Asrael, di sicuro avrebbe creduto anche al viaggio nel tempo. Dovevo solo aspettare il momento giusto per parlarle. Ma, chissà come, questo momento non voleva decidersi ad arrivare. Non appena rincasata dal lavoro, si era messa a discutere con mia sorella Caroline, che si era offerta, durante le vacanze estive, di prendersi cura del terrario di classe, compresa la mascotte, un camaleonte di nome Mr Bean. Sebbene mancassero ancora diversi mesi alle vacanze, evidentemente non era possibile rimandare la discussione. «Non puoi portare a casa Mr Bean, Caroline! Sai benissimo che la nonna ha vietato l’ingresso agli animali qui in casa», disse la mamma. «E zia Glenda è allergica.» «Ma Mr Bean non ha la pelliccia», obiettò Caroline. «E rimane sempre chiuso nel suo terrario. Non dà fastidio a nessuno.» «Dà fastidio a tua nonna!» «Allora mia nonna è stupida!» «Caroline, non si può! E poi qui in casa nessuno ha idea di come trattare un camaleonte. Prova a pensare se sbagliassimo qualcosa e Mr Bean si ammalasse e poi morisse!” «Non accadrà. Io so come ci si occupa di lui. Ti prego, mamma! Lasciamelo prendere! Se non lo faccio io, se lo prenderà di nuovo Tess, e lei si dà sempre un sacco di arie come se fosse la prediletta di Mr Bean.» «Caroline, ho detto di no!» Un quarto d’ora più tardi stavano ancora discutendo, anche quando la mamma andò in bagno e si chiuse dentro a chiave. Caroline si piazzò di fronte alla porta ed esclamò: «Lady Arisa non si accorgerà di niente. Potremmo portare il terrario dentro casa di nascosto, quando lei non c’è. Tanto non sale mai in camera mia». «Possibile che non si riesca a stare in pace nemmeno al gabinetto?» sbottò la mamma. «No», replicò Caroline. Quando ci si metteva era davvero una rompiscatole. Smise di insistere quando la mamma le promise di intercedere personalmente presso Lady Arisa per il soggiorno estivo di Mr Bean in casa nostra. Mentre Caroline e la mamma erano impegnate nella loro discussione, io ne approfittai per togliere della gomma da masticare dai capelli di mio fratello Nick. Eravamo seduti nella stanza da cucito. Lui si era appiccicato in testa all’incirca due etti di quella roba, ma non riusciva a ricordare come avesse fatto. «Non è possibile. Ti sarai pur accorto di qualcosa!» esclamai. «Purtroppo devo tagliarti qualche ciocca.» «Non importa», disse Nick. «Puoi tagliare benissimo tutto quanto. Lady Arisa ha detto che sembro una ragazza.” «Per Lady Arisa tutti i ragazzi con i capelli più lunghi di un fiammifero sembrano delle ragazze. Con questi bei riccioli sarebbe un peccato tagliarli troppo corti.» «Tanto ricrescono. Taglia tutto, okay?» «Con le forbicine da manicure non ci riesco. Devi andare dal barbiere.» «Ma sì che ce la fai», disse Nick fiducioso. Evidentemente si era dimenticato completamente che avevo già provato una volta a tagliargli i capelli con le forbicine da unghie e che dopo l’operazione la sua testa somigliava a quella di un pulcino di avvoltoio appena nato. All’epoca avevo sette anni e lui quattro. Mi servivano i suoi riccioli perché volevo farci una parrucca. La cosa non aveva funzionato, e io ci avevo guadagnato un giorno di arresti domiciliari. «Non ci provare», disse la mamma. Era entrata nella stanza e per sicurezza mi tolse di mano le forbici. «Se proprio vuoi, Nick, vai dal barbiere. Domani. Adesso dobbiamo scendere per la cena.» Nick sbuffò. «Non preoccuparti, Lady Arisa stasera non c’è.» Gli rivolse un sorriso trionfante. «Nessuno protesterà per la gomma da masticare. Né per la macchia che hai sulla felpa.” «Quale macchia?» Nick si guardò. «Cavolo, deve essere succo di melagrana. Non me n’ero accorto.» Poverino, quanta pena mi faceva. «Te l’ho detto, nessuno ti rimprovererà.» «Ma non è mercoledì», obiettò Nick. «Però sono uscite tutte.» «Che bello.» Quando Lady Arisa, Charlotte e zia Glenda erano in casa, la cena era piuttosto pesante. Lady Arisa criticava soprattutto l’educazione di Caroline e Nick a tavola (a volte persino quella della prozia Maddy), zia Glenda si informava in continuazione sui miei voti a scuola per paragonarli con quelli di Charlotte e Charlotte sorrideva come Monna Lisa e diceva: «La cosa non vi riguarda», quando le chiedevamo qualcosa. Tutto sommato avremmo volentieri rinunciato a queste riunioni serali, ma la nonna pretendeva che vi partecipassero tutti. Solo in caso di malattia era possibile astenersene. I pasti venivano preparati da Mrs Brompton, che veniva a casa nostra dal lunedì al venerdì e si occupava anche del bucato. (Nei fine settimana cucinavano zia Glenda oppure la mamma. Di pizze da asporto o cibo cinese non se ne parlava nemmeno, con grande disappunto mio e di Nick.) Il mercoledì sera, quando Lady Arisa, zia Glenda e Charlotte andavano ad assistere ai loro misteri, la cena si svolgeva in maniera molto più rilassata. Per questo trovavamo tutti fantastico che oggi, sebbene fosse solo lunedì, non ci fosse nessuno. Non è che ci mettessimo a masticare rumorosamente, a fare rutti o mangiare con le mani, però ci azzardavamo a chiacchierare, a tenere i gomiti sulla tavola e ad affrontare temi che Lady Arisa giudicava inappropriati. Come i camaleonti, per esempio. «Ti piacciono i camaleonti, zia Maddy? Non ti piacerebbe averne uno per un po’? Uno molto addomesticato?” «Ecco, dunque... veramente... ma certo, ora che me lo dici, mi rendo conto di aver sempre desiderato un camaleonte», rispose la prozia Maddy mentre si riempiva il piatto di patate al rosmarino. «Sul serio.» Caroline era raggiante. «Forse il tuo desiderio ben presto si avvererà.» «Ci sono notizie di Lady Arisa e Glenda?» si informò la mamma. «Tua madre ha chiamato nel pomeriggio per dire che sarebbero rimaste fuori a cena», disse zia Maddy. «Io ho espresso a nome di tutti il nostro più profondo rincrescimento. Spero che siate d’accordo.» «Come no», ridacchiò Nick. «E Charlotte? È...?» domandò la mamma. «Finora no.» La prozia Maddy scrollò le spalle. «Ormai pensano che debba succedere da un momento all’altro. Quella povera ragazza continua a sentirsi svenire e adesso le è persino venuta l’emicrania.» «Poverina», commentò la mamma. Posò la forchetta e rivolse lo sguardo distrattamente ai pannelli di legno scuro che rivestivano la sala da pranzo, come se qualcuno per errore avesse messo il pavimento al posto delle pareti. «Che cosa succederebbe se Charlotte non viaggiasse nel tempo?» domandai. «Prima o poi succederà!» esclamò Nick imitando alla perfezione la voce ampollosa della nonna. Tutti risero, a parte me e la mamma. «E se non succedesse? Se si fossero sbagliati e in realtà Charlotte non possedesse questo gene?» insistetti io. Questa volta Nick imitò zia Glenda: «Fin da piccola si capiva che Charlotte appartiene agli eletti. Non la si può paragonare a una bambina qualunque». Altra risata generale. A parte la mamma. «Come mai ti è venuta quest’idea, Gwendolyn?» «Ma, così...» esitai. «Ti ho già spiegato che non esiste possibilità di errore», disse zia Maddy. «Già, perché Isaac Newton è un genio che non sbaglia mai, lo so», replicai. «Ma perché Newton ha calcolato proprio la data di nascita di Charlotte?» «Zia Maddy!» La mamma lanciò un’occhiata di rimprovero alla prozia. Questa si limitò a schioccare la lingua. «Non la smetteva più di farmi domande, che cosa dovevo fare? È tale e quale a te, quand’eri piccola, Grace. A parte questo, ha promesso di mantenere il più assoluto riserbo riguardo alla nostra conversazione.» «Solo nei confronti della nonna», precisai. «È stato forse Isaac Newton a inventare anche il cronografo?» «Spia», mi accusò zia Maddy. «Non ti dirò più niente.” «Quale cronografo?» domandò Nick. «È una specie di macchina del tempo con cui Charlotte viene spedita nel passato», gli spiegai. «E il sangue di Charlotte funziona più o meno come carburante per questa macchina.» «Forte», esclamò Nick mentre Caroline squittiva: «Che schifo, sangue!» «È possibile viaggiare anche nel futuro con il cronografo?” volle sapere Nick. La mamma sbuffò. «Guarda che cosa hai combinato, zia Maddy.» «Sono figli tuoi, Grace», ribatté sorridendo la prozia. «È normale che vogliano essere informati.» «Già, è probabile.» La mamma ci guardò uno alla volta. «Vi proibisco di fare certe domande a vostra nonna, capito?» «Peccato, perché probabilmente è l’unica a conoscere le risposte», ribattei. «Ma comunque non ve le darebbe.» «Tu che cosa sai di tutta questa faccenda, mamma?» «Più di quanto vorrei.» La mamma sorrise, ma il suo era un sorriso triste. «In ogni caso non si può viaggiare nel futuro, Nick, semplicemente perché il futuro non è ancora accaduto.» «Eh?» sbottò Nick. «Che razza di ragionamento sarebbe?” Si sentì bussare alla porta e Mr Bernhard entrò con il telefono. Leslie sarebbe rimasta allibita se avesse visto che il telefono era posato su un vassoio d’argento. A volte Mr Bernhard esagerava proprio. «Una telefonata per Miss Grace», annunciò. La mamma prese il telefono e Mr Bernhard si voltò e uscì dalla sala da pranzo. Cenava insieme a noi solo quando Lady Arisa lo invitava espressamente a farlo, il che avveniva un paio di volte l’anno. Io e Nick eravamo convinti che lui ordinasse di nascosto cibi italiani oppure cinesi e se li gustasse in santa pace. «Pronto? Ah, mamma, sei tu.» La prozia Maddy ammiccò verso di noi. «Vostra nonna sa leggere nel pensiero!» bisbigliò. «Sa che stavamo parlando di argomenti proibiti. Chi di voi vuole sparecchiare? Dobbiamo fare posto alla torta di mele di Mrs Brompton.» «E alla crema pasticcera!» Sebbene avessi divorato una montagna di patate al rosmarino con carote caramellate e arrosto di maiale, non ero ancora sazia. L’agitazione di quella giornata mi aveva messo appetito. Mi alzai e cominciai a impilare i piatti sporchi nel montavivande. «Se Charlotte tornasse all’epoca dei dinosauri, potrebbe portarci un cucciolo di dinosauro?» domandò Caroline. La prozia Maddy scrollò il capo. «Animali e persone senza il gene dei viaggi nel tempo non possono essere trasportati nel tempo. E inoltre non è possibile tornare indietro così tanto.» «Peccato», commentò Caroline. «Mah, io penso che sia meglio così», osservai. «Prova a immaginare che cosa succederebbe se i viaggiatori nel tempo continuassero a portarci qui dinosauri e tigri dai denti a sciabola, oppure Attila il re degli unni o Adolf Hitler.» La mamma aveva finito la telefonata. «Si fermano lì anche a dormire», annunciò. «Per sicurezza.» «Dove?» domandò Nick. La mamma non rispose. «Zia Maddy? Ti senti bene?» Dodici colonne sostengono del tempo il maniero. Dodici bestie reggono l’impero. Il falco è pronto a ergersi fiero. Il cinque è chiave e fondamento vero. Nel cerchio dei dodici, il dodici è il due invero. L’aquila spunta per settima, ma è terza davvero. Dagli scritti segreti del conte di Saint Germain 4 Zia Maddy era seduta stranamente rigida e impettita, gli occhi fissi nel vuoto e le mani contratte sui braccioli. Il suo volto era di un pallore mortale. «Zia Maddy? Oh, mamma, le è venuto un infarto? Zia Maddy! Mi senti? Zia Maddy!» Stavo per prenderle la mano, ma la mamma me lo impedì. «Non toccarla! Non devi toccarla.» Caroline scoppiò a piangere. «Che cosa le sta succedendo?» esclamò Nick. «Le è andato di traverso qualcosa?» «Dobbiamo chiamare il 999», dissi. «Mamma, fa’ qualcosa!» «Non è un infarto. E non le è andato nessun boccone di traverso. È una visione», ci spiegò la mamma. «Passerà presto.» «Sicura?» Lo sguardo sbarrato della prozia Maddy mi metteva paura. Aveva le pupille dilatate, le palpebre perfettamente immobili. «All’improvviso mi è venuto un gran freddo», bisbigliò Nick. «Lo sentite anche voi?» Caroline continuava a piagnucolare. «Fatela smettere.” «Lucy!» chiamò una voce. Sussultammo spaventati, poi ci accorgemmo che era stata la prozia Maddy a parlare. In effetti la temperatura nel soggiorno si era abbassata. Mi guardai intorno, ma nella stanza non c’erano fantasmi. «Lucy, la mia cara bambina. Mi porta sino a un albero. Un albero con le bacche rosse. Oh, dov’è finita ora? Non riesco più a vederla. C’è qualcosa tra le radici. Un’enorme pietra preziosa, uno zaffiro levigato. È un uovo. Un uovo di zaffiro. Quant’è bello. Ma adesso si sta crepando, c’è qualcosa dentro... vedo spuntare un uccellino. Un corvo. Saltella sull’albero.» La prozia Maddy scoppiò a ridere. Il suo sguardo però era sempre fisso. Le mani stringevano sempre convulsamente i braccioli. «Si alza il vento.» La risata di zia Maddy si spense. «Una tempesta. Tutto gira. Volo. Volo con il corpo verso le stelle. Una torre. In cima alla torre un enorme orologio. C’è qualcuno seduto, lassù sull’orologio, che fa dondolare le gambe. Scendi subito, bambina sconsiderata!» Di colpo la sua voce era carica di paura. Si mise a gridare. «Il temporale la butterà giù. È troppo alto. Che cosa ci fa lì? Un’ombra! Un grosso uccello si libra in cerchio nel cielo! Là! Sta piombando su di lei. Gwendolyn! Gwendolyn!» Non ce la feci più. Scostai la mamma, afferrai la prozia Maddy per le spalle e la scrollai leggermente. «Sono qui, zia Maddy! Ti prego! Guardami!» La prozia girò il capo e mi guardò. Pian piano il colore tornò sulle sue guance. «Angelo mio», esclamò. «Che sciocchezza arrampicarti fin lassù!» «Ti senti bene?» Lanciai un’occhiata alla mamma. «Sei sicura che non era niente di grave?» «Era una visione», mi confermò la mamma. «Ora sta bene.» «No che non sto bene. Era una brutta visione», obiettò la prozia Maddy. «Cioè, all’inizio era bella.» Caroline aveva smesso di piangere. Lei e Nick guardavano la prozia con espressione stralunata. «È stato tremendo», disse Nick. «Vi siete accorti di quanto faceva freddo?» «Te lo sei solo immaginato», obiettai. «Non è vero!» «Anch’io me ne sono accorta», confermò Caroline. «Mi era venuta la pelle d’oca.» La prozia Maddy afferrò di slancio la mano della mamma. «Grace, ho incontrato tua nipote Lucy. Era proprio come allora. Quel suo dolce sorriso...» La mamma sembrava sull’orlo delle lacrime. «Il resto non l’ho capito tanto bene», proseguì zia Maddy. «Un uovo di zaffiro, un corvo, Gwendolyn sulla torre dell’orologio e poi quell’uccellaccio. Tu ci capisci qualcosa?» La mamma sospirò. «Assolutamente no, zia Maddy. Sono le tue visioni.» Si mise a sedere accanto a lei su una delle seggiole da pranzo. «È vero, ma non per questo riesco a capirle», disse zia Maddy. «Ti sei appuntata ogni cosa, così poi potremo parlarne con tua madre?» «No, non l’ho fatto.» Maddy si sporse in avanti. «Allora sarà meglio farlo subito. Dunque, per prima cosa c’era Lucy, poi l’albero. Delle bacche rosse... forse era un sorbo? E poi c’era questa pietra preziosa, a forma d’uovo... Santo cielo, mi è venuta una gran fame! Spero che non abbiate mangiato il dolce senza di me. Me ne merito almeno due fette. Se non tre.» «Prima è stato davvero agghiacciante», osservai. Caroline e Nick erano già andati a dormire e io ero seduta sul ciglio del letto insieme alla mamma, cercando di trovare il modo giusto per affrontare il mio problema. Mamma, oggi pomeriggio è successo qualcosa e ho paura che possa ripetersi. La mamma era impegnata nelle sue cure estetiche serali. Aveva già finito con il viso. Tutte quelle attenzioni a quanto pareva davano i loro frutti. Nessuno avrebbe detto che la mamma aveva già superato la quarantina. «È stata la prima volta che assistevo a una delle visioni della prozia Maddy», dissi. «È stata anche la prima volta che le capitava durante la cena», replicò la mamma, mentre si massaggiava la crema sulle mani. Ripeteva sempre che l’età di una persona era rivelata in particolare dalle mani e dal collo. «E... le sue visioni possono essere prese sul serio?» La mamma scrollò le spalle. «Mah. Hai sentito come era confuso il suo racconto. Bisogna sempre trovare l’interpretazione giusta. Tre giorni prima della morte di tuo nonno, ebbe una visione. Di una pantera nera che gli saltava sul petto.» «Il nonno è morto d’infarto. Quindi era giusto.» «È proprio quello che ho detto io, di solito ci azzecca sempre. Vuoi un po’ di crema per le mani?» «Tu ci credi? Non mi riferisco alla crema, ma alle visioni di zia Maddy.» «Io credo che zia Maddy veda veramente ciò che racconta. Ma questo non significa che ciò che vede sia davvero il futuro. O che debba per forza voler dire qualcosa.» «Io non riesco a capire!» Porsi le mani alla mamma, che cominciò a spalmarmele di crema. «È un po’ come con i tuoi fantasmi, tesoro. Sono convinta che tu possa vederli, esattamente come credo che zia Maddy abbia delle visioni.» «Questo significa forse che credi che io veda dei fantasmi ma non credi che esistano?» esclamai allontanando le mani indignata. «Io non so se esistono davvero», rispose la mamma. «Quello che credo del resto non ha importanza.» «Però se non esistessero significherebbe che sono una mia invenzione. E questo a sua volta significherebbe che sono pazza.» «No», obiettò la mamma. «Significherebbe soltanto che... ah, tesoro! Non lo so neppure io. A volte ho l’impressione che in questa famiglia tutti abbiano un po’ troppa immaginazione. E che vivremmo molto più sereni e felici se ci limitassimo a credere a ciò in cui crede la gente normale.» «Capisco», dissi. Forse dopotutto non era un’idea così brillante raccontarle le mie novità. Ehi, mamma, oggi pomeriggio abbiamo fatto un viaggio nel passato, io e la mia eccessiva immaginazione. «Adesso non prendertela», disse la mamma. «So che tra cielo e terra ci sono cose che non siamo in grado di spiegare. Ma probabilmente diamo troppa importanza a queste cose, più a lungo ce ne occupiamo. Io non ti ritengo pazza. E nemmeno zia Maddy. Ma ora ti chiedo seriamente, credi che la visione di zia Maddy avesse davvero a che fare con il tuo futuro?» «Forse.» «Sul serio? Hai intenzione per caso di arrampicarti su una torre e di metterti seduta sull’orologio con le gambe penzoloni?» «Certo che no. Ma forse è un’immagine simbolica.» «Già, può darsi», disse la mamma. «Oppure può darsi di no. Ora va’ a dormire, tesoro. È stata una lunga giornata.” Guardò la sveglia che teneva sul comodino. «Speriamo che nel frattempo Charlotte ce l’abbia fatta. Oh, Dio, vorrei tanto che finalmente ci riuscisse.» «Magari anche Charlotte ha semplicemente troppa immaginazione”, replicai, poi mi alzai e diedi un bacio alla mamma. Ci avrei riprovato l’indomani. Forse. «Buonanotte.» «Buonanotte, piccola mia. Ti voglio bene.» «Anch’io, mamma.» Dopo essermi richiusa la porta della camera alle spalle ed essermi sdraiata sul letto, fui assalita da una grande tristezza. Sapevo che avrei dovuto raccontare tutto alla mamma. Ma quello che aveva detto mi dava da pensare. Sicuramente avevo troppa immaginazione, ma l’immaginazione era una cosa. Immaginarsi di viaggiare nel tempo, tutt’altra. Le persone che immaginavano certe cose venivano sottoposte a cure mediche. Giustamente, secondo me. Forse anch’io ero come quelli che sostenevano di essere stati rapiti dagli alieni. Forse ero un po’ tocca. Spensi l’abat-jour e mi rifugiai sotto le coperte. Che cosa era peggio? Essere pazze oppure saltare veramente indietro nel tempo? Probabilmente la seconda, mi dissi. Nel primo caso, infatti, magari si potevano prendere delle medicine per curarsi. Con il buio tornò anche la paura. Mi venne da pensare al salto che avrei fatto da quassù al suolo. Riaccesi l’abatjour e mi girai verso il muro. Per addormentarmi cercai di pensare a qualcosa di innocuo e neutro, ma proprio non mi riusciva. Alla fine decisi di contare all’indietro partendo da mille. A un certo punto dovevo essermi addormentata, perché stavo sognando un grande uccello quando mi svegliai con il cuore in gola e mi misi a sedere. Eccola di nuovo, quell’orribile sensazione di vertigine allo stomaco. Balzai giù dal letto in preda al panico e corsi, per quanto me lo consentivano le ginocchia improvvisamente molli, verso la camera della mamma. Non mi importava che mi prendesse per pazza, volevo solo smettere di sentirmi così. E non volevo precipitare di tre piani giù in una palude! Arrivai fino al corridoio, poi mi sentii strappare da terra. Convinta che fosse arrivata la mia ultima ora, serrai forte gli occhi. Caddi invece bruscamente sulle ginocchia e il pavimento sembrava quello familiare di assi di legno. Aprii lentamente gli occhi. C’era più luce, come se nell’ultimo secondo all’improvviso fosse diventato giorno. Per un attimo sperai che non fosse successo niente, ma poi mi accorsi che, pur essendo finita nel nostro corridoio, le cose intorno a me erano diverse dal solito. Le pareti erano tinteggiate di un color verde oliva e non c’erano lampadari al soffitto. Sentii delle voci che provenivano dalla camera di Nick. Voci femminili. Mi alzai svelta. Se qualcuno mi avesse visto... come potevo spiegare da dove venivo? Con il mio pigiama di Hello Kitty. «Sono proprio stufa di dovermi alzare così presto», disse una delle voci. «Walter ha il permesso di dormire fino alle nove! E noi? Tanto valeva restare alla fattoria e continuare a mungere le vacche.» «Walter ha avuto il turno di notte, Clarisse. Hai la cuffia storta», disse la seconda voce. «Metti a posto i capelli, altrimenti Mrs Mason ti rimprovererà.» «Tanto non sa fare altro», brontolò la prima voce. «Guarda che ci sono governanti ben più severe, mia cara Clarisse. Ora andiamo, siamo in ritardo. Mary è scesa già da un quarto d’ora.» «Già, ha pure rifatto il letto. Sempre diligente, sempre pulita, proprio come vuole Mrs Mason. Ma secondo me lo fa di proposito. Hai mai provato a tastare la sua coperta? È così morbida. Non è giusto!» Dovevo andarmene di qui al più presto. Ma dove? Per fortuna conoscevo la casa. «La mia coperta è ruvidissima», si lamentò la voce di Clarisse. «D’inverno sarai felice di averla. Adesso andiamo.» Vidi la maniglia che si abbassava. Corsi verso l’armadio a muro, spalancai l’anta e la richiusi proprio nel momento in cui la porta di Nick si apriva. «È solo che non capisco perché la mia coperta deve essere ruvida mentre quella di Mary è così morbida», continuò la voce di Clarisse. «Qui è tutto così ingiusto. Betty può partire per la campagna insieme a Lady Montrose. Noi invece dobbiamo starcene qui in città a sudare per tutta l’estate.» «Dovresti cercare di lamentarti un po’ meno, Clarisse. Sul serio.» Non potevo che dare ragione a questa sconosciuta. Clarisse era davvero una piattola. Le udii scendere le scale e sospirai sollevata. C’era mancato poco. Fortuna che conoscevo il posto. E adesso? Dovevo starmene lì nell’armadio ad aspettare di tornare indietro? Probabilmente era la cosa più saggia da fare. Con un sospiro mi strinsi le braccia al petto. Alle mie spalle udii un gemito nell’oscurità. Rimasi paralizzata dallo choc. Chi poteva esserci lì dentro? «Clarisse, sei tu?» chiese qualcuno dal ripiano della biancheria. Era una voce maschile. «Ho dormito troppo?” Santo cielo! C’era davvero qualcuno che dormiva nell’armadio. Ma che razza di abitudini erano? «Clarisse? Mary? Chi c’è qui?» domandò la voce, con un tono decisamente più sveglio. Sentii dei rumori nell’oscurità. Una mano si allungò a tastarmi e mi sfiorò la schiena. Senza aspettare che mi afferrasse, spalancai l’anta e scappai fuori. «Ehi! Fermati!» Mi voltai un attimo per guardarmi alle spalle. Un giovane con una lunga camicia bianca uscì dall’armadio dopo di me. Scesi di corsa le scale. Accidenti, dove potevo nascondermi? I passi dell’inseguitore risuonavano minacciosi alle mie spalle, mentre lui gridava a gran voce: «Al ladro!» Ladro? Dovevo aver sentito male! Che cosa gli avrei rubato? Il berretto da notte, forse? Fortuna che avrei potuto scendere queste scale anche nel sonno. Conoscevo alla perfezione ogni singolo gradino. Superai due pianerottoli alla velocità della luce, passai davanti al ritratto del pro-pro-pro-prozio Hugh che, con un certo rammarico, mi lasciai sulla sinistra, anche se la porta segreta sarebbe stata una via di fuga perfetta in queste circostanze. Il meccanismo tuttavia era sempre difettoso e avrei perso del tempo prezioso per aprirla, rischiando così di farmi acciuffare dall’uomo in camicia da notte. No, mi serviva un nascondiglio migliore. Al primo piano rischiai di scontrarmi con una cameriera con la cuffia che trascinava una pesante brocca. Lanciò un grido stridulo quando le sfrecciai davanti e fece cadere la brocca, proprio come nella scena di un film. Il liquido si sparse a terra insieme ai cocci. Mi augurai che il mio inseguitore ci scivolasse sopra, proprio come accadeva nei film. In ogni caso sarebbe stato rallentato. Approfittai del vantaggio che avevo per imboccare le scale che portavano al pulpito dell’orchestra. Spalancai la porta del piccolo sottoscala e mi rannicchiai lì dentro. Il piccolo vano era polveroso, disordinato e pieno di ragnatele proprio come alla mia epoca. Attraverso le fessure tra i gradini entrava un po’ di luce, quel tanto che bastava per assicurarmi che lì sotto non dormisse nessuno. Esattamente come ai nostri tempi, era pieno di ogni genere di cianfrusaglie. Udii delle voci concitate sopra di me. L’uomo in camicia da notte discuteva con la povera cameriera che aveva fatto cadere la brocca. «Doveva trattarsi di una ladra! Non l’avevo mai vista prima in questa casa.» Altre voci si aggiunsero alla sua. «È corsa di sotto. Forse ha dei complici con lei.» «Non ho potuto fare niente, Mrs Mason. La ladra mi è fuggita sotto il naso. Forse cercavano i gioielli di Milady.» «Sulla scala non ho visto nessuno. Dev’essere da qualche altra parte. Chiudete a chiave la porta d’ingresso e perquisite l’edificio», ordinò una voce femminile molto energica. «E tu, Walter, vai subito di sopra a vestirti. I tuoi polpacci pelosi non sono una vista piacevole di primo mattino.» Oddio! Da bambina mi ero nascosta migliaia di volte qui sotto, ma non avevo mai avuto così tanta paura di essere scoperta. Con la massima cautela, per non fare rumore, mi spinsi ancora più in mezzo alle cianfrusaglie. Mentre mi muovevo, un grosso ragno mi si arrampicò sul braccio, e fui sul punto di cacciare un urlo. «Lester, Mr Jenkins e Tott, voi cercate a pianterreno e in cantina. Io e Mary ci occuperemo del primo piano. Clarisse farà la guardia alla porta posteriore, Helen all’ingresso.” «E se fuggisse dalla cucina?» «Prima dovrebbe riuscire a superare Mrs Craine e le sue padelle di ferro. Guardate nei sottoscala e dietro tutte le tende.» Ero perduta. Ah, maledizione. Era tutto così... assurdo! Mi ritrovavo qui in pigiama tra grossi ragni, mobili impolverati e — iiiih, che cos’era, un coccodrillo imbalsamato? – in un sottoscala in attesa di essere arrestata per furto. E tutto perché qualcosa era andato storto e Isaac Newton si era sbagliato nei calcoli. Scoppiai a piangere per la rabbia e l’impotenza. Forse quelle persone avrebbero avuto pietà di me, se mi avessero trovato in questo stato. Nella penombra gli occhi di vetro del coccodrillo lampeggiavano sardonici. C’era rumore di passi dappertutto. La polvere dei gradini mi faceva bruciare gli occhi. Poi all’improvviso provai di nuovo quella stretta allo stomaco. Non l’avevo mai accolta con tanto sollievo come ora. Il coccodrillo sparì dalla mia vista, quindi tutto intorno a me cominciò a vorticare per poi fermarsi di nuovo. Era buio pesto. Feci un respiro profondo. Niente panico. Probabilmente ero tornata indietro ed ero finita in mezzo alle cianfrusaglie del sottoscala ai nostri giorni. Dove continuavano a esserci grossi ragni. Qualcosa mi sfiorò lieve la faccia. Okay, panico! Agitai le braccia in aria come una forsennata e mi graffiai le ginocchia sotto un comò. Un tonfo, un cigolare di assi, una vecchia lampada che cadeva a terra. Ovvero, immaginavo che fosse una lampada, perché non vedevo niente. Però riuscii a liberarmi. Raggiunsi a tentoni la porta e sgusciai fuori dal nascondiglio. Fuori dal sottoscala era ancora buio, ma riuscivo a riconoscere i contorni della balaustra, le alte finestre, i lampadari scintillanti. E una figura che veniva verso di me. Il fascio di una torcia mi accecò. Aprii la bocca per lanciare un grido, ma non mi uscì neppure un suono. «Stava cercando qualcosa nel ripostiglio, Miss Gwendolyn?” domandò la figura. Era Mr Bernhard. «Se ha bisogno, l’aiuto volentieri.» «Hmm... ecco, io...» Faticavo ancora a respirare per lo spavento appena passato. «Che cosa ci fa lei qua sotto?» «Ho sentito dei rumori», rispose altero Mr Bernhard. «Ha l’aria un po’... impolverata.» «Già.» Impolverata, graffiata e spaventata. Mi asciugai di nascosto le lacrime dalle guance. Mr Bernhard mi osservò alla luce della torcia con quei suoi occhi da gufo. Io sostenni il suo sguardo altezzosa. Non era mica vietato infilarsi di notte in un ripostiglio, giusto? E per quale motivo l’avessi fatto non era affare di Mr Bernhard. Chissà se dormiva con gli occhiali? «Mancano ancora due ore prima che suoni la sveglia», disse lui alla fine. «Le suggerisco di trascorrerle a letto. Anch’io torno a riposare. Buonanotte.» «Buonanotte, Mr Bernhard», risposi. Dagli Annali dei Guardiani 12 luglio 1851 Nonostante una minuziosa perquisizione, non è stato possibile rintracciare la ladra che nelle prime ore del mattino è stata sorpresa in casa di Lord Horatio Montrose (cerchia interna) a Bourbon Place. Con ogni probabilità è fuggita scavalcando una delle finestre sul giardino. La governante, Mrs Mason, ha redatto un elenco degli oggetti sottratti. Posate d’argento e preziosi di Lady Montrose, tra cui un collier donato alla madre di Lord Montrose dal duca di Wellington. Attualmente Lady Montrose si trova in vacanza in campagna. Autore: David Loyde, adepto di secondo grado 5 «Hai l’aria distrutta», mi disse Leslie durante l’intervallo. «Mi sento da schifo, infatti.» Leslie mi batté sul braccio. «Però queste occhiaie ti stanno bene», osservò cercando di rinfrancarmi. «Ti fanno sembrare gli occhi ancora più azzurri.» Non potei fare a meno di sorridere. Leslie era così tenera. Eravamo sedute sulla panchina sotto il castagno e dovevamo parlare sottovoce, perché dietro di noi c’era Cynthia Dale con un’amica e poco più in là Gordon anatra-starnazzante /orso-brontolone Gelderman discuteva di calcio con altri due ragazzi. Non volevo che sentissero quello che dicevamo. Già mi trovavano abbastanza bizzarra. «Ah, Gwen! Avresti dovuto parlare con tua madre.» «Me lo hai ripetuto almeno cinquanta volte.» «Certo, perché è così. Non riesco proprio a capire perché tu non l’abbia fatto!» «Perché... ecco, sinceramente, non riesco a capirlo nemmeno io. Non so, forse in fondo speravo che non sarebbe più capitato.» «Se penso a quello che ti sarebbe potuto succedere, da sola, di notte... prendi la profezia della tua prozia: può significare soltanto che sei in grave pericolo. L’orologio simboleggia i viaggi nel tempo, la torre alta il pericolo, e l’uccello... ah, non avresti dovuto svegliarla! Molto probabilmente stava per dire qualcosa di importante. Oggi pomeriggio proverò a fare ricerche approfondite su ogni cosa – corvo, zaffiro, torre, sorbo –, ho scoperto un sito sui fenomeni paranormali, molto ricco di informazioni. E poi mi sono procurata molti libri sui viaggi nel tempo. E dei film. Ritorno al futuro 1, 2 e 3. Chissà, magari impariamo qualcosa...» Pensai con nostalgia a quanto mi divertivo tutte le volte che guardavo un DVD con Leslie spaparanzata sul suo divano. A volte toglievamo il sonoro e doppiavamo noi stesse gli attori, con testi inventati. «Ti senti svenire?» Scrollai la testa. Ora sapevo come si era sentita la povera Charlotte nelle ultime settimane. Queste continue domande potevano dare davvero sui nervi. Anche perché io stessa passavo tutto il tempo ad ascoltarmi, in attesa del senso di vertigine. «Se solo fosse possibile sapere in anticipo quando accadrà», osservò Leslie. «È davvero ingiusto, secondo me: Charlotte è stata preparata fin da piccola a tutto questo, tu invece hai dovuto fare un salto nel buio.» «Non ho idea di che cosa avrebbe fatto Charlotte se ieri sera si fosse trovata al mio posto, inseguita da quell’uomo che dormiva nell’armadio a muro», dissi. «Non credo che le sue lezioni di ballo e di scherma sarebbero servite in simili circostanze. E in ogni caso non c’era nemmeno un cavallo nelle vicinanze con cui scappare al galoppo.” Sghignazzai, immaginandomi Charlotte al mio posto mentre veniva inseguita per tutta la casa da quel forsennato di Walter. Forse avrebbe afferrato uno dei pugnali appesi al muro in salotto e avrebbe fatto una strage tra la povera servitù. «Ma no, sciocchina, a lei non sarebbe certo successo, perché sarebbe finita da qualche altra parte grazie al suo cronografo. In qualche posto dove tutto era tranquillo. Dove non poteva succederle niente. Tu invece preferisci rischiare la vita piuttosto che raccontare ai tuoi che hanno istruito la persona sbagliata.» «Forse nel frattempo anche Charlotte ha fatto il suo primo salto nel tempo. Così avranno quello che vogliono.” Leslie sospirò e cominciò a sfogliare il mucchio di documenti che teneva sulle ginocchia. Mi aveva preparato una specie di faldone pieno di presunte informazioni utili. E anche meno utili. Per esempio aveva stampato foto di auto d’epoca, scrivendoci accanto l’anno di produzione. In base alle sue ricerche, l’auto che avevo visto nel mio primo salto nel tempo risaliva al 1906. «Jack lo Squartatore commetteva i suoi delitti nell’East End. Era il 1888. Nessuno ha mai scoperto la sua vera identità. C’erano stati molti sospetti, ma prove certe nemmeno una. Quindi, nel caso dovessi trovarti una volta nell’East End, sappi che nel 1888 ogni uomo rappresenta un potenziale pericolo. Il grande incendio di Londra fu nel 1666, la peste c’era praticamente sempre, ma nel 1348, 1528 e 1664 l’epidemia fu particolarmente virulenta. Poi: i bombardamenti durante la Seconda guerra mondiale sono cominciati nel 1940. Tutta la città fu distrutta. Devi scoprire se casa vostra era rimasta in piedi. In questo caso lì saresti al sicuro. Altrimenti la cattedrale di St Paul sarebbe un altro luogo sicuro, perché, nonostante fosse stata colpita da una bomba, rimase miracolosamente intatta. Forse dovresti rifugiarti lì.» «Sembra tutto molto pericoloso», osservai. «Già, è vero. Non so perché, ma anch’io me l’ero sempre immaginato più romantico. Sai, credevo che per Charlotte fosse come vivere in un film storico. Ballare con Mr Darcy al ricevimento. Innamorarsi di un sexy highlander. Dire ad Anna Bolena di non sposare assolutamente Enrico VIII. Cose del genere.» «Era Anna Bolena quella che finì decapitata?» Leslie annuì. «Ci hanno fatto un bellissimo film con Natalie Portman. Se vuoi posso prendere in prestito il DVD... Gwen, promettimi che oggi parlerai con tua madre.” «Te lo prometto. Lo farò stasera.» «Dov’è Charlotte?» La testa di Cynthia Dale spuntò oltre il tronco del castagno. «Volevo copiare il suo tema su Shakespeare. Cioè, volevo dire, volevo leggerlo per trovare qualche spunto.» «Charlotte è malata», dissi. «Che cos’ha?» «Hmm...» «Dissenteria», rispose Leslie. «Un attacco molto forte. Passa tutto il tempo al gabinetto.» «Che schifo, risparmiatemi i particolari, per favore», esclamò Cynthia. «Posso vedere i vostri temi allora?» «Non l’abbiamo ancora finito», rispose Leslie. «Prima vogliamo vedere il DVD di Shakespeare in Love.» «Se vuoi, puoi leggere il mio di tema», si intromise Gordon Gelderman con la sua voce più baritonale. La sua testa spuntò dall’altro lato del tronco. «Ho preso tutto da Wikipedia.» «Allora tanto vale che vada direttamente su Wikipedia», ribatté Cynthia. In quel momento suonò la campanella di fine ricreazione. «Due ore di inglese», sbuffò Gordon. «Una vera tortura per chiunque. Ma Cynthia è già lì che sbava al solo pensiero del suo principe azzurro.» «Piantala, Gordon.» Ma Gordon non si faceva intimidire da nessuno. «Non so proprio che cosa ci troviate di tanto speciale in Mr Whitman. È un frocio.» «Non è vero!» esclamò Cynthia balzando in piedi indignata. «Eccome se lo è.» Gordon la seguì verso l’ingresso. Avrebbe continuato a tormentarla fino al secondo piano, senza nemmeno prendere fiato. Ne era capacissimo. Leslie alzò gli occhi al cielo. «Vieni», disse porgendomi la mano per aiutarmi ad alzarmi dalla panchina. «Andiamo dal principe degli scoiattoli.» Raggiungemmo Cynthia e Gordon al secondo piano. Stavano ancora parlando di Mr Whitman. «Lo si capisce da quel suo strambo anello con sigillo», stava dicendo Gordon. «È roba da finocchi.» «Anche mio nonno portava un anello con sigillo», intervenni, anche se in realtà non era mia intenzione. «Allora significa che anche tuo nonno era gay», disse Gordon. «Lo dici solo perché sei invidioso», replicò Cynthia. «Invidioso? Io? Di quello lì?» «Esatto. Invidioso. Perché Mr Whitman è semplicemente l’eterosessuale più bello, virile e intelligente che esista. E perché accanto a lui tu fai la figura del ragazzino stupido e rachitico.» «Grazie davvero per i complimenti», disse Mr Whitman. Era comparso silenziosamente alle nostre spalle, tenendo sottobraccio un plico di fogli e, come sempre, con un aspetto mozzafiato. (Anche se in effetti assomigliava un pochino a uno scoiattolo.) Cynthia diventò, se possibile, più rossa d’un pomodoro. Provai sincera compassione per lei. Gordon sogghignò malizioso. «E tu, mio caro Gordon, forse dovresti fare una ricerca approfondita sugli anelli con sigillo e i loro proprietari», proseguì Mr Whitman. «Per la prossima settimana vorrei che mi consegnassi una tesina sull’argomento.» Ora toccò anche a Gordon arrossire. Ma, contrariamente a Cynthia, non perse la parola. «Per inglese oppure per storia?» squittì. «Personalmente gradirei se dessi maggior risalto agli aspetti storici, ma lascio fare a te. Diciamo, cinque pagine per lunedì prossimo?» Mr Whitman aprì la porta della nostra classe e ci rivolse un sorriso raggiante. «Se volete accomodarvi.» «Lo odio», borbottò Gordon mentre andava al suo posto. Leslie gli diede una pacca di consolazione sulla spalla. «Credo che sia un sentimento reciproco.» «Per favore, ditemi che è stato solo un sogno», disse Cynthia. «È stato solo un sogno», ubbidii io. «In realtà Mr Whitman non ha sentito una parola quando lo descrivevi come l’uomo più sexy del mondo.» Cynthia si lasciò cadere sulla sedia con un gemito. «Vorrei sprofondare.» Mi accomodai accanto a Leslie. «Poveretta, è ancora rossa come un peperone.» «Già, e mi sa che resterà tale sino alla fine della scuola. Che scena penosa.» «Forse Mr Whitman adesso le darà dei voti migliori.» Mr Whitman guardò il banco vuoto di Charlotte e assunse un’espressione pensierosa. «Mr Whitman? Charlotte è malata», dissi. «Non so se mia zia ha chiamato in segreteria...» «Ha la dissenteria», belò Cynthia. Evidentemente sentiva la necessità di non essere l’unica ad avere qualcosa di penoso. «Charlotte è giustificata», disse Mr Whitman. «Probabilmente resterà assente per qualche giorno. Fino a quando... si sarà normalizzato tutto.» Si voltò e scrisse alla lavagna Il sonetto. «Qualcuno sa dirmi quanti sonetti ha scritto Shakespeare?» «Che cosa voleva dire con normalizzato?» mormorai rivolta a Leslie. «Non lo so, ma secondo me in ogni caso non era riferito alla dissenteria di Charlotte», mi rispose Leslie sottovoce. La pensavo come lei. «Hai mai guardato bene l’anello che porta?» bisbigliò Leslie. «Io no. E tu?» «C’è su una stella. Una stella a dodici punte!» «E allora?» «Dodici punte, come un orologio.» «Un orologio non ha mica le punte.» Leslie alzò gli occhi al cielo. «Possibile che tu non riesca a capire? Dodici! Orologio! Tempo! Viaggi nel tempo! Sono pronta a scommettere... Gwen?» «Accidenti!» esclamai. Lo stomaco aveva ricominciato a fare le capriole. Leslie mi guardò piena di raccapriccio. «Oh, no!» Io ero altrettanto sconvolta. L’ultima cosa che desideravo era di scomparire sotto gli occhi dei miei compagni di classe. Perciò mi alzai e barcollai fino alla porta, tenendomi una mano sullo stomaco. «Ho la nausea», dissi a Mr Whitman, poi spalancai la porta senza aspettare la sua risposta e mi precipitai in corridoio. «Sarà meglio che qualcuno vada con lei», sentii dire da Mr Whitman. «Leslie, ci pensi tu?» Leslie mi corse dietro e richiuse con forza la porta della classe. «Presto! Andiamo in bagno, non ci vede nessuno. Gwen? Gwenny?» Il viso di Leslie si sfuocò davanti ai miei occhi, la sua voce mi giunse da molto lontano. E poi scomparve del tutto. Mi ritrovai da sola in un corridoio tappezzato di sontuosi arazzi con fili d’oro. Sotto i miei piedi, al posto delle consunte lastre di travertino, c’era un impeccabile parquet tirato a lucido e decorato con intarsi. Doveva essere notte, o quantomeno sera, ma i candelieri alle pareti erano accesi e dal soffitto dipinto pendevano candelabri anch’essi forniti di candele accese. Tutto era soffuso in una luce dorata. Il mio primo pensiero fu: fantastico, non sono precipitata. Il secondo: dove posso nascondermi prima che mi veda qualcuno? Infatti non ero sola in quella casa. Dal piano di sotto saliva della musica, musica di violino. E un brusio di voci. Parecchie voci. Non era rimasto molto del mio familiare corridoio scolastico al secondo piano della Saint Lennox High School. Cercai di ricordare la suddivisione delle stanze. Alle mie spalle c’era la porta della mia classe, di fronte Mrs Counter stava facendo lezione di geografia in sesta. Accanto c’era un ripostiglio. Se mi fossi nascosta lì, se non altro nessuno mi avrebbe visto al mio ritorno. Tuttavia il ripostiglio in genere era chiuso a chiave, e forse non sarebbe stata una gran bella idea nascondermi lì. Se fossi tornata indietro in una stanza chiusa a chiave, mi sarei dovuta inventare una spiegazione plausibile su come diavolo fossi finita lì dentro. Se però fossi entrata in una delle altre stanze, al momento del salto temporale mi sarei materializzata di fronte a una classe piena di studenti e sotto gli occhi di un insegnante. Trovare una spiegazione per l’accaduto sarebbe stato ancora più difficile. Forse mi conveniva restare lì nel corridoio e sperare che la cosa non durasse molto. I miei salti precedenti erano stati di pochi minuti. Mi appoggiai alla tappezzeria di broccato aspettando con ansia la sensazione di vertigine. Da sotto mi giungevano suoni di voci e risate, tintinnio di bicchieri e poi di nuovo le note di violino. Sembrava ci fosse tantissima gente che se la spassava. Forse c’era anche James. Dopotutto quella era casa sua. Me lo immaginai – vivo e vegeto – che ballava al suono dei violini. Peccato non poter scendere di sotto a salutarlo. Di sicuro però non sarebbe stato contento di sapere in che modo ci conoscevamo. Voglio dire, quando ci saremmo conosciuti, molto dopo che era morto... mmm, che fosse stato morto. Se avessi saputo per quale motivo era morto, avrei potuto aiutarlo. Ehi, James, il 15 luglio a Park Lane, ti cadrà una tegola in testa, quindi resta a casa quel giorno. Purtroppo però nemmeno James sapeva come fosse morto. Non sapeva neppure di essere morto. Mmm. Che morirebbe. Che morisse. Più a lungo riflettevo su questa storia dei viaggi nel tempo e più mi sembrava tutto complicato. Udii dei passi sulle scale. Qualcuno stava salendo di corsa. No, erano due qualcuno. Accidenti! Possibile che non ci fosse mai il modo di starsene in santa pace da qualche parte? E adesso? Scelsi la stanza di fronte, ai miei tempi l’aula della sesta. La serratura della porta era difettosa, impiegai qualche secondo per capire che dovevo spingere la maniglia verso l’alto e non verso il basso. Quando finalmente riuscii a infilarmi nella stanza, i passi erano molto vicini. L’interno era illuminato da candelabri fissati al muro. Che sconsideratezza lasciarli ardere incustoditi! A casa mi rimproveravano se la sera mi dimenticavo di spegnere anche solo una candelina nella stanza da cucito. Cercai un nascondiglio, ma la stanza era poco ammobiliata. C’era una specie di divano con gambe ricurve dorate, uno scrittoio, sedie imbottite, niente dietro cui potersi nascondere se si era appena più grandi di un topo. Non mi restava altro che infilarmi dietro uno dei pesanti tendaggi dorati lunghi fino al pavimento, un nascondiglio assai poco originale. Ma nessuno ancora mi stava cercando. Fuori in corridoio sentii delle voci. «Dove vuoi andare?» disse una voce maschile piuttosto irata. «Non lo so! Basta che sia lontano da te», rispose un’altra voce. Era quella di una ragazza, una ragazza che singhiozzava, per la precisione. Con mio raccapriccio entrò di corsa proprio in questa stanza. E l’uomo la seguì. Vedevo le loro sagome confuse attraverso la stoffa della tenda. Figuriamoci, ma certo! Di tutte le stanze quassù dovevano proprio infilarsi nella mia. «Lasciami in pace», disse la voce femminile. «Non posso lasciarti in pace», rispose l’uomo. «Tutte le volte che lo faccio combini qualcosa di avventato.» «Vattene!» ripeté la ragazza. «No. Ascolta, mi spiace per quello che è successo. Non avrei dovuto permetterlo.» «Invece lo hai fatto! Perché hai occhi solo per lei.» L’uomo ridacchiò. «Sei gelosa.» «Ti piacerebbe!» Benissimo! Una coppia di innamorati litigiosi! La cosa poteva andare per le lunghe. Sarei rimasta bloccata lì dietro quella tenda fino al momento di saltare indietro e di comparire senza preavviso davanti alla finestra durante la lezione di Mrs Counter. Magari avrei potuto raccontarle di aver partecipato a un esperimento di fisica. Oppure di essere stata lì per tutto il tempo senza che lei si accorgesse di me. «Il conte si chiederà dove siamo finiti», disse la voce maschile. «Che mandi pure il suo fratello di sangue transilvano a cercarci, il tuo conte. In realtà non è nemmeno un vero conte. Il suo titolo è falso come le guance di pesca di quella... come si chiamava?» Mentre parlava la ragazza sbuffò rabbiosamente dal naso. Per qualche motivo mi risultava familiare. Molto familiare. Sbirciai con molta cautela oltre la tenda. I due si trovavano proprio davanti alla porta e li vedevo di profilo. La ragazza indossava uno stupendo abito blu di seta e broccato ricamato, con una gonna tanto ampia da impedirle quasi di passare da una porta normale. Aveva i capelli bianchi come la neve raccolti in una specie di montagna sulla testa e con dei boccoli che le scendevano sulle spalle. Poteva trattarsi solo di una parrucca. Anche l’uomo aveva i capelli bianchi legati sulla nuca con un nastro. Nonostante quel colore di capelli, entrambi sembravano giovani, e molto carini, soprattutto l’uomo. In realtà era più che altro un ragazzo, sui diciotto o diciannove anni. Ed era davvero bellissimo. Un profilo maschile perfetto, oserei dire. Non riuscivo a togliergli gli occhi di dosso. Mi sporsi più del dovuto dal mio nascondiglio. «Ho già dimenticato il suo nome», rispose il giovane sempre ridendo. «Bugiardo!» «Il conte non è responsabile del comportamento di Rakoczy», proseguì il giovane tornato serio. «Sicuramente lo punirà per ciò che ha fatto. Il conte non deve piacerti per forza, però lo devi rispettare.» La ragazza sbuffò nuovamente dal naso, e io provai ancora una volta quella strana sensazione di familiarità. «Io non devo fare proprio niente», disse voltandosi di scatto verso la finestra, ovvero, verso di me. Mi sarei voluta ritirare dietro la tenda, ma mi bloccai a mezza strada. Non era possibile! Quella ragazza aveva la mia faccia! Stavo guardando i miei stessi occhi sgomenti! La ragazza sembrava sorpresa quanto me, ma si riprese più in fretta dallo choc. Mi fece un eloquente gesto con la mano. Nasconditi! Sparisci! Io ritirai la testa dietro la tenda, con il fiato corto. Chi era quella? Non era possibile che esistesse una tale somiglianza tra due persone. Dovevo assolutamente controllare di nuovo. «Chi era?» sentii chiedere dalla voce maschile. «Niente!» rispose la ragazza. Possibile che pure la voce fosse la mia? «Alla finestra.» «Non c’è niente!» «Potrebbe esserci qualcuno nascosto dietro la tenda ad ascoltarci...» La frase terminò in un’esclamazione sorpresa. All’improvviso cadde il silenzio. Che cosa era successo adesso? Senza starci su a pensare, scostai la tenda di lato. La ragazza, che era uguale a me, aveva premuto le labbra sulla bocca del ragazzo. Dapprincipio lui non reagì, poi le strinse le braccia intorno alla vita e l’attirò a sé. La ragazza chiuse gli occhi. Provai uno sfarfallio allo stomaco. Era strano vedersi mentre si baciava qualcuno. Trovavo di essere piuttosto brava. Era chiaro che la ragazza aveva baciato il ragazzo solo per distrarlo dalla mia presenza. Era stata gentile da parte sua, ma perché lo faceva? E come avrei fatto a sgattaiolare via senza farmi vedere? Le farfalle nel mio stomaco si trasformarono in uccelli svolazzanti e l’immagine dei due giovani che si baciavano sfumò davanti ai miei occhi. E poi mi ritrovai di colpo nell’aula della sesta, con i nervi scossi. Silenzio. Avevo immaginato che la mia improvvisa comparsa avrebbe scatenato un putiferio tra i ragazzi e che qualcuno – magari Mrs Counter – sarebbe svenuto per lo spavento. Invece la classe era vuota. Sospirai di sollievo. Se non altro stavolta avevo avuto un pizzico di fortuna. Mi lasciai cadere su una sedia e posai la testa sul banco. Per il momento ciò che era accaduto superava la mia capacità di comprensione. La ragazza, il giovanotto carino, il bacio... La ragazza era identica a me. La ragazza ero io. Non c’era possibilità d’errore. Mi ero riconosciuta al di là di ogni possibile dubbio per la voglia a forma di mezzaluna sulla tempia, quella che zia Glenda chiamava sempre la «buffa banana». Non poteva esistere una somiglianza del genere. Opale e ambra, la prima coppia, s’avanza, canta agata, che del lupo ha sembianza, con acquamarina in si bemolle – solutio! Seguono smeraldo e citrino – coagulatio! – le due corniole gemelle in scorpione, e giada, numero otto, digestione. In mi maggiore: tormalina nera, zaffiro in fa, rischiara la sera. E subito appresso ecco diamante, undici e sette, leone rampante. Projectio! Scorre il tempo così lento, rubino è principio e fine del movimento. Dagli scritti segreti del conte di Saint Germain 6 No. Non potevo essere stata io. Io non avevo mai baciato un ragazzo ancora. Cioè, quasi. In ogni caso non così. C’era stato Mortimer, quello della classe dopo la nostra, con il quale ero stata l’estate scorsa esattamente per due settimane e mezza giornata. Non tanto perché fossi innamorata di lui, quanto perché era il miglior amico del ragazzo di Leslie e così era perfetto. Ma Mortimer non era tanto per i baci, preferiva molto di più lasciarmi succhiotti sul collo, mentre tentava di infilarmi la mano sotto la maglietta quasi in una manovra diversiva. Io ero stata costretta a girare con un foulard intorno al collo con trenta gradi all’ombra e passavo il tempo a sfuggire le mani di Mortimer (in particolare al cinema sembrava che gliene crescessero almeno altre tre). Dopo due settimane avevamo troncato il nostro «rapporto» di comune accordo. Secondo Mortimer io ero «troppo immatura» e per me Mortimer era troppo... mmm... appiccicoso. A parte lui avevo baciato solo Gordon, durante la gita di classe all’isola di Wight. Ma non contava, perché a) faceva parte del gioco verità o bacio (io avevo detto la verità, ma Gordon aveva insistito che fosse una bugia) e b) non era stato un bacio vero e proprio. Gordon non si era nemmeno tolto la cicca di bocca. Eccezion fatta per la «succhiotto-storia», come la definiva Leslie, e il bacio alla menta di Gordon, ero del tutto digiuna. Probabilmente anche «immatura», come affermava Mortimer. Ero in ritardo, con i miei sedici anni e mezzo, lo sapevo, ma Leslie, che comunque era stata con Max per un anno, era del parere che i baci in genere venissero sopravvalutati. Diceva che probabilmente la sua era stata solo sfortuna, ma i ragazzi che aveva baciato finora non erano stati granché. Secondo lei a scuola avrebbero dovuto insegnare una materia vera e propria denominata «bacio», magari al posto di religione, che non serviva proprio a nessuno. Ne parlavamo spesso, di come doveva essere il bacio assoluto, e c’erano tantissimi film che riguardavamo solo per questo, perché contenevano bellissime scene di baci. «Ah, Miss Gwendolyn. Oggi rimarrete a parlare con me, o mi ignorerete di nuovo?» James mi vide uscire dalla sesta e mi venne incontro. «Che ore sono?» Mi guardai intorno alla ricerca di Leslie. «Sono forse un orologio?» James mi lanciò un’occhiata indignata. «Ormai dovreste conoscermi abbastanza bene da sapere che per me il tempo non ha nessuna importanza.” «Proprio vero.» Girai l’angolo per dare un’occhiata al grande orologio in fondo al corridoio. James mi seguì. «Sono stata via solo venti minuti», dissi. «Dove siete andata?» «Ah, James! Credo di essere stata a casa tua. Davvero molto bella. Tutto quell’oro. E la luce delle candele, che atmosfera accogliente.» «Già. Mica così squallido e privo di gusto come qui», osservò James facendo un gesto con la mano ad abbracciare il corridoio grigio. All’improvviso provai molta compassione per lui. Dopotutto non era molto più grande di me ed era già morto. «James, tu hai mai baciato una ragazza?» «Come, prego?» «Hai già baciato?» «Non sta bene parlare di certe cose, Miss Gwendolyn.” «Vuoi dire che non hai mai baciato?» «Sono un uomo», rispose James. «E questo che cosa c’entra?» Mi scappava da ridere perché aveva assunto un’espressione profondamente offesa. «Sai almeno quando sei nato?» «Mi vuoi offendere? Certo che conosco la mia data di nascita. Il 31 marzo.» «Di quale anno?» «1762.» James protese il mento con aria di sfida. «Ho compiuto ventun anni tre settimane fa. Ho festeggiato sontuosamente con i miei amici al White Club e per celebrare la ricorrenza mio padre ha pagato tutti i miei debiti di gioco e mi ha regalato una bellissima cavalla saura. E poi mi è venuta quella stupida febbre che mi ha costretto a letto. Per poi trovare tutto diverso al mio risveglio e una mocciosa sfacciata che sostiene che io sia un fantasma.» «Mi spiace molto», dissi. «Probabilmente sei morto a causa della febbre.» «Sciocchezze! Era solo un leggero malessere», ribatté James, ma il suo sguardo tradiva una lieve incertezza. «Secondo il dottor Barrow era assai improbabile che fossi stato contagiato dalle pustole presso Lord Stanhope.» «Mmm», feci io. Avrei cercato le pustole su Google. «Che cosa significa mmm?» James mi guardò risentito. «Oh, eccoti qua!» Leslie uscì di corsa dal bagno delle femmine e mi gettò le braccia al collo. «Sono morta dalla preoccupazione.» «Non è successo niente. Solo che al ritorno sono finita nella classe di Mrs Counter, che però era vuota.» «Oggi la sesta è andata in gita al planetario di Greenwich», m’informò Leslie. «Oddio, quanto sono felice di rivederti! Ho detto a Mr Whitman che eri in bagno a vomitare anche l’anima. Lui m’ha rimandato da te perché ti tenessi la mano.» «Che schifo», commentò James premendosi il fazzoletto al naso. «Di’ alla lentigginosa che una dama non parla di certe cose.» Io feci finta di niente. «Leslie, ho assistito a una cosa molto strana... qualcosa che non riesco a spiegarmi.» «Ti credo sulla parola.» Leslie mi sventolò sotto il naso il mio cellulare. «Tieni, l’ho preso dal tuo armadietto. Adesso chiami subito tua madre.» «Ma è al lavoro, non posso...» «Chiamala! È la terza volta che salti nel tempo e questa volta l’ho visto con i miei occhi. In un istante eri sparita! È stato tremendo. Devi dirlo subito a tua madre, in modo che non ti succeda niente. Per favore.» Sbagliavo o Leslie aveva gli occhi pieni di lacrime? «La lentigginosa oggi è in vena di drammatizzare», osservò James. Presi il cellulare e feci un profondo respiro. «Per favore», ripeté Leslie. Mia madre era impiegata presso l’amministrazione del Bartholomew’s Hospital. Feci il suo numero diretto e poi attesi guardando Leslie. Lei annuì cercando di sorridere. «Gwendolyn?» Mia madre doveva aver riconosciuto il mio numero di cellulare sul display. Aveva la voce preoccupata. Non era mai accaduto prima che la chiamassi da scuola. «È successo qualcosa?» «Mamma... non mi sento bene.» «Hai la febbre?» «Non lo so.» «Forse ti sei presa quell’influenza che c’è in giro in questi giorni. Va’ a casa e mettiti a letto e io oggi farò in modo di uscire prima. Poi ti preparerò una spremuta d’arancia e degli impacchi caldi per la gola.» «Mamma, non è l’influenza. È molto peggio. Io...» «Forse sono le pustole», suggerì James. Leslie mi rivolse un’occhiata d’incoraggiamento. «Avanti!» sussurrò. «Diglielo.» «Tesoro?» Feci un respiro profondo. «Mamma, credo di essere come Charlotte. Sono appena... non ho idea dell’epoca. E anche stanotte... in realtà è cominciato già ieri. Volevo dirtelo, ma poi ho avuto paura che non mi avresti creduto.» Mia madre rimase in silenzio. «Mamma?» Guardai Leslie. «Non mi crede.» «In effetti hai blaterato parole incomprensibili», bisbigliò Leslie. «Forza, riprova.» Ma non fu necessario. «Rimani dove sei», disse mia madre con una voce affatto diversa. «Aspettami al cancello della scuola. Prendo un taxi e arrivo il più in fretta possibile.» «Ma...» La mamma aveva già riattaccato. «Finirai nei guai con Mr Whitman», dissi. «Chi se ne importa», ribatté Leslie. «Aspetto che arrivi tua madre. Non preoccuparti per lo scoiattolo. Me lo condisco come voglio.» «Che cosa ho fatto?» «L’unica cosa giusta», mi garantì Leslie. Le avevo riferito il più possibile circa il mio breve viaggio nel passato. Secondo Leslie la ragazza identica a me poteva essere una delle mie antenate. Io non ero troppo convinta. Non era possibile che due persone fossero così uguali. A meno che non fossero gemelle monozigoti. Leslie concordò che anche questo era possibile. «Già! Come in Genitori in trappola», disse. «Appena ce ne sarà l’occasione, prenderò in prestito il DVD.» Un groppo mi strinse la gola. Quando mi sarebbe ricapitato di guardare un DVD in tutta tranquillità insieme a Leslie? Il taxi arrivò prima di quanto pensassi. Si fermò davanti al portone della scuola e mia madre aprì la portiera. «Sali», disse. Leslie mi strinse la mano. «Buona fortuna. Chiamami, appena puoi.» Stavo per mettermi a piangere. «Leslie... grazie!» «Figurati», replicò lei, come me sul punto di piangere. Anche quando guardavamo i film, piangevamo entrambe negli stessi momenti. Raggiunsi la mamma a bordo del taxi. Avrei voluto rifugiarmi tra le sue braccia, ma aveva un’espressione così bizzarra che mi trattenni. «Temple», disse al tassista. Poi il vetro divisorio dell’abitacolo salì, e il taxi partì rombando. «Sei arrabbiata con me?» chiesi. «No, che dici! Tesoro, non è colpa tua.» «Esatto! Tutta colpa di quello stupido di Newton...» provai a sdrammatizzare con una battuta. Ma la mamma non era in vena di scherzi. «No, non è neppure colpa sua. Se c’è una responsabile, sono io. Avevo sperato che questo calice ci sarebbe stato risparmiato.» La guardai sgranando gli occhi. «Che cosa vuoi dire?» «Io... pensavo... speravo... non volevo...» Non era da lei balbettare così. Aveva l’aria tesa e terribilmente seria, come l’avevo vista solo quando era morto papà. «Non volevo accettarlo. Ho sperato per tutto il tempo che quella giusta fosse Charlotte.» «Era quello che credevano tutti! A nessuno è venuto in mente che Newton avesse potuto commettere un errore. La nonna di sicuro si arrabbierà da morire.» Il taxi si infilò nel traffico ingolfato di Piccadilly. «Tua nonna non conta», disse la mamma. «Quando ti è successo per la prima volta?» «Ieri. Mentre andavo da Selfridges.» «A che ora?» «Poco dopo le tre. Non sapevo che cosa fare, così sono tornata fino a casa nostra e ho suonato. Ma prima che qualcuno potesse venire ad aprirmi sono tornata indietro. La seconda volta è stato stanotte. Mi sono nascosta nell’armadio a muro, ma c’era qualcuno che ci dormiva dentro, un domestico. Un domestico davvero incavolato. Mi ha dato la caccia per tutta la casa e tutti mi cercavano, perché mi credevano una ladra. Per fortuna sono tornata prima che mi trovassero. E la terza volta è stato poco fa. A scuola. Stavolta dovevo essere saltata ancora più indietro, perché ho visto gente con la parrucca... Mamma! Se comincerà a ripetersi nel giro di poche ore, non potrò più condurre una vita normale! E tutto per colpa di quello stronzo di Newton...» Io stessa cominciavo a rendermi conto che la mia battuta non faceva più ridere. «Avresti dovuto dirmelo subito.» La mamma mi accarezzò la testa. «Hai corso troppi pericoli.» «Avrei voluto farlo, ma tu hai detto che abbiamo tutti troppa immaginazione.» «Non mi riferivo a te... non avevi la benché minima preparazione. Mi rincresce tanto.» «Non è colpa tua, mamma! Nessuno poteva saperlo.» «Io sì», disse la mamma. Dopo una breve pausa impacciata, aggiunse: «Sei nata lo stesso giorno di Charlotte». «Non è vero! Io sono nata l’8 ottobre e lei il 7.» «Anche tu sei nata il 7 ottobre, Gwendolyn.» Non credevo alle sue parole. La fissai allibita. «Ho mentito sulla tua data di nascita», spiegò la mamma. «Non è stato difficile. Sei nata in casa e la levatrice che ha redatto il certificato di nascita è venuta incontro al nostro desiderio.» «Ma perché?» «Volevamo proteggerti, tesoro.» Io continuavo a non capire. «Proteggermi? Da che cosa? Tanto adesso è successo.» «Noi... io volevo che tu avessi un’infanzia normale. Un’infanzia spensierata.» La mamma mi rivolse un’occhiata penetrante. «E poi avrebbe potuto darsi che non avessi ereditato il gene.» «Pur essendo nata il giorno esatto calcolato da Newton?” «Come ben sai la speranza è l’ultima a morire», ribatté la mamma. «E poi piantala con la storia di Isaac Newton. Lui è solo uno dei tanti che si occuparono della cosa. La faccenda è molto più grande di quanto tu possa immaginare. Molto più grande, più antica e più potente. E più pericolosa. Volevo tenertene fuori.» «Da che cosa, si può sapere?» La mamma sospirò. «Sono stata una sciocca. Avrei dovuto immaginarlo. Perdonami, ti prego.» «Mamma!» Il groppo in gola mi impediva quasi di parlare. «Non capisco niente di quello che stai dicendo.» A ogni sua frase la mia confusione e la mia disperazione crescevano un pochino. «So solo che mi succede qualcosa che non dovrebbe accadere. E questo mi rompe! Ogni paio d’ore mi sento mancare e mi ritrovo in un’altra epoca. Non so come evitarlo.» «Proprio per questo stiamo andando da loro», disse la mamma. Mi resi conto che la mia disperazione la faceva soffrire. Non l’avevo mai vista così preoccupata. «Chi sono loro...?» «I Guardiani», rispose la mamma. «Un’antichissima società segreta, denominata anche ‘Loggia del conte di Saint Germain’.» Guardò fuori dal finestrino. «Siamo arrivati.” «Una loggia segreta! Vuoi portarmi da una setta di dubbia reputazione? Mamma!» «Non è una setta. Di dubbia reputazione però lo sono sicuramente.» La mamma fece un profondo respiro e socchiuse gli occhi. «Tuo nonno faceva parte di questa loggia», proseguì. «E prima di lui anche suo padre e suo nonno. Anche Isaac Newton ne era membro, al pari di Wellington, Klaproth, von Arneth, Hahnemann, Karl von Hessen-Kassel e naturalmente tutti i de Villiers e molti, molti altri... tua nonna sostiene che persino Churchill e Einstein appartenessero alla loggia.» La maggior parte di quei nomi non mi diceva proprio un bel niente. «Si può sapere che cosa fanno?» «Ecco... già», disse la mamma. «Si occupano di miti antichissimi. E di tempo. E di persone come te.» «Ne esistono molti come me?» La mamma scrollò la testa. «Soltanto dodici. E la maggior parte di loro è morta da tempo.» Il taxi si fermò e il vetro divisorio scese. La mamma pagò il tassista lasciandogli il resto di mancia. «Che cosa siamo venute a fare qui, esattamente?» domandai una volta scese sul marciapiede, mentre il taxi si allontanava. Avevamo percorso lo Strand, fermandoci poco prima di Fleet Street. Intorno a noi brulicava il traffico cittadino, una folla di gente occupava i marciapiedi. I caffè e i ristoranti sul lato opposto erano strapieni, due autobus rossi a due piani che offrivano il giro turistico della città erano fermi poco più avanti e i turisti al piano superiore fotografavano il monumentale complesso della Royal Court of Justice. «Passando in mezzo a quelle case si entra nel quartiere di Temple.» La mamma mi scostò i capelli dal viso. Guardai verso lo stretto passaggio pedonale che mi stava mostrando. Non ricordavo di averlo mai percorso. La mamma doveva aver notato la mia espressione perplessa. «Non sei mai stata a Temple con la scuola?» mi chiese. «La chiesa e i giardini sono un vero gioiello. E anche Fountain’s Court. Per me è la fontana più bella di tutta la città.» Le scoccai un’occhiata risentita. Adesso si era trasformata all’improvviso in una guida turistica? «Vieni, dobbiamo attraversare», disse prendendomi per mano. Ci accodammo a un gruppo di chiassosi turisti giapponesi, dotati ciascuno di un’enorme piantina della città. Superato il passaggio pedonale tra le case, si entrava in un altro mondo. La frenetica attività dello Strand e di Fleet Street era scomparsa all’improvviso. Qui, tra i maestosi edifici senza tempo addossati l’uno all’altro, regnavano la pace e la quiete. Indicai il gruppo di turisti. «Che cosa stanno cercando? La fontana più bella della città?» «Andranno a visitare la chiesa di Temple», rispose la mamma ignorando il mio tono risentito. «È molto antica, è legata a molte leggende e miti. Ai giapponesi piace. E al teatro di Middle Temple Hall fu rappresentato per la prima volta Come vi piace di Shakespeare.» Per un po’ seguimmo i giapponesi, poi girammo a sinistra e percorremmo un vicolo lastricato tra le case. L’atmosfera era quasi idilliaca, con tanto di uccelli che cinguettavano, api che ronzavano, aiuole traboccanti di fiori; persino l’aria sapeva di fresco. Di fianco ai portoni delle case c’erano lucide targhe d’ottone con incise lunghe file di nomi. «Sono tutti avvocati. Docenti dell’istituto di scienze politiche», spiegò la mamma. «Non oso neppure pensare quanto costi l’affitto di uno studio in questo quartiere.» «Nemmeno io», risposi offesa. Come se non avessimo avuto cose ben più importanti di cui parlare! La mamma si fermò davanti a un portone. «Siamo arrivate», disse. Era una casa semplice che nonostante la facciata impeccabile e gli infissi tinteggiati di fresco aveva un aspetto molto antico. Cercai di leggere i nomi scritti sulla targa, ma la mamma mi spinse oltre la porta aperta e quindi verso una scala fino al primo piano. Ci vennero incontro due signorine che ci salutarono educate. «Dove siamo?» La mamma non rispose. Suonò un campanello, si sistemò la giacca e si scostò i capelli dal viso. «Non avere paura, tesoro», mi disse, ma non sapevo se parlasse con me o cercasse di convincere se stessa. La porta si aprì con un ronzio e ci trovammo in una stanza luminosa in tutto e per tutto simile a un ufficio qualunque. Schedari, scrivania, telefono, fax, computer... persino la bionda di mezza età dietro la scrivania aveva un’aria del tutto normale. Soltanto i suoi occhiali erano un po’ inquietanti, neri e con la montatura così grande da inghiottire metà del viso. «Desidera?» domandò. «Oh, ma lei è Miss... Mrs Montrose?» «Shepherd», la corresse la mamma. «Non uso più il mio nome da ragazza. Mi sono sposata.» «Oh sì, certo.» La donna sorrise. «Però non è cambiata affatto. Con i suoi capelli la riconoscerei sempre e ovunque.” Mi rivolse un’occhiata fugace. «Questa è sua figlia? Somiglia tutta a suo padre, vero? Come sta...?» La mamma la interruppe. «Mrs Jenkins, devo parlare subito con mia madre e Mr de Villiers.» «Oh, sua madre e Mr de Villiers sono in riunione, temo.” Mrs Jenkins sorrise piena di rincrescimento. «Se volete...” La mamma la interruppe un’altra volta. «Vorrei partecipare a questa riunione.» «Ecco... questo... lo sa anche lei, non è possibile.» «Allora faccia in modo che diventi possibile. Dica loro che gli porto rubino. Rosso-rubino.» «Come, scusi? Ma...» Mrs Jenkins guardò interdetta da mia madre a me e viceversa. «Faccia come le dico.» Non avevo mai sentito mia madre parlare con tanta determinazione. Mrs Jenkins si alzò e si allontanò dalla scrivania. Mi esaminò da capo a piedi, e io provai un profondo imbarazzo con indosso la mia orribile uniforme scolastica. Non mi ero lavata i capelli e li avevo raccolti in una semplice coda di cavallo. E non ero nemmeno truccata. (Mi truccavo di rado.) «Ne è proprio sicura?» «Naturale. Secondo lei sarei venuta qui solo per fare uno stupido scherzo? Si muova, per favore, non c’è molto tempo.» «Aspetti qui, per favore.» Mrs Jenkins si voltò e scomparve oltre una porta tra due scaffali. «Rubino?» ripetei. «Sì», confermò la mamma. «Ciascuno dei dodici viaggiatori nel tempo è classificato in base a una pietra preziosa. E tu sei il rubino.» «Come fai a saperlo?» «Opale e ambra, la prima coppia, s’avanza, canta agata, che del lupo ha sembianza, con acquamarina in si bemolle – solutio! Seguono smeraldo e citrino – coagulatio! – le due corniole gemelle in scorpione, e giada, numero otto, digestione. In mi maggiore: tormalina nera, zaffiro in fa, rischiara la sera. E subito appresso ecco diamante, undici e sette, leone rampante. Projectio! Scorre il tempo così lento, rubino è principio e fine del movimento.» La mamma mi rivolse un sorriso triste. «La so ancora a memoria.» Chissà perché, la sua spiegazione mi aveva fatto venire la pelle d’oca. Non mi era sembrata tanto una poesia, quanto piuttosto una formula magica, come quelle che le streghe pronunciano nei film quando mescolano un pentolone di un liquido verdastro. «Che cosa significa?» «È solo una filastrocca inventata da qualche vegliardo amante dei misteri per complicare ancora di più cose già complicate», rispose la mamma. «Dodici cifre, dodici viaggiatori nel tempo, dodici pietre preziose, dodici tonalità musicali, dodici ascendenti, dodici passi per creare la pietra filosofale...» «La pietra filosofale? Che cosa...?» lasciai la domanda a metà e sospirai. Non ne potevo più di fare domande che non riuscivo neppure a completare per ottenere risposte che mi lasciavano solo più all’oscuro e confusa di prima. Da parte sua la mamma non sembrava avere nessuna voglia di rispondere. Guardò fuori dalla finestra. «Qui non è cambiato niente. È come se il tempo si fosse fermato.” «Sei venuta spesso qui?» «Mio padre a volte mi ci portava», disse la mamma. «Era un po’ più generoso della mamma. Anche riguardo ai segreti. Da bambina mi piaceva venire qui. E in seguito, quando Lucy...» sospirò. Ebbi un momento di incertezza, chiedendomi se fosse il caso di domandare oppure fosse meglio lasciar perdere, poi la curiosità ebbe il sopravvento. «La prozia Maddy mi ha raccontato che anche Lucy è una viaggiatrice nel tempo. Per questo è scomparsa?» «Sì», rispose la mamma. «E dov’è finita?» «Nessuno lo sa.» La mamma si passò una mano tra i capelli. Si capiva che era agitata, non l’avevo mai vista così nervosa. Se non fossi stata tanto in ansia io stessa, avrei provato pena per lei. Rimanemmo in silenzio per qualche tempo. La mamma tornò a guardare fuori dalla finestra. «Allora io sono un rubino», dissi poi. «Rosso-rubino, giusto?» La mamma annuì. «E Charlotte che pietra è?» «Nessuna», rispose. «Mamma, non è che per caso ho una sorella gemella di cui ti sei scordata di parlarmi?» La mamma si voltò a guardarmi e mi sorrise. «No, tesoro, non hai nessuna sorella.» «Ne sei sicura?» «Assolutamente. C’ero anch’io quando sei nata, ricordi?” Sentimmo dei passi che si avvicinavano veloci. La mamma si irrigidì e fece un respiro profondo. Insieme alla segretaria occhialuta, nell’ufficio entrarono zia Glenda e, alle sue spalle, un ometto anziano e pelato. Zia Glenda era furibonda. «Grace! Mrs Jenkins afferma che tu avresti detto...» «È vero», disse la mamma. «E non ho nessuna voglia di perdere il tempo di Gwendolyn cercando di convincere proprio te della verità. Voglio andare subito da Mr de Villiers. Gwendolyn deve essere iscritta nel cronografo.» «Ma questo è ridicolo!» esclamò zia Glenda quasi urlando. «Charlotte...» «... non ha ancora fatto il salto nel tempo, giusto?» La mamma si rivolse all’ometto pelato. «Le chiedo perdono, so di conoscerla, ma non riesco a ricordare il suo nome.» «George», disse questi. «Thomas George. E lei è la figlia minore di Lady Arisa, Grace. Mi ricordo bene di lei.» «Mr George», disse la mamma. «Ma certo. Venne a trovarci a Durham dopo la nascita di Gwendolyn, anch’io mi ricordo di lei. Questa è Gwendolyn. Lei è il rubino che vi manca.» «È impossibile!» strillò zia Glenda. «È assolutamente impossibile! Gwendolyn non ha la data di nascita giusta. E comunque è nata con due mesi d’anticipo. Una prematura sottosviluppata. La guardi.» Era proprio quello che Mr George stava facendo. Mi fissava con sguardo benevolo. Aveva gli occhi azzurro chiaro. Io cercai di ricambiare il suo sguardo con la massima disinvoltura, nascondendo il mio disagio. Una prematura sottosviluppata! Zia Glenda non sapeva proprio quello che diceva! Ero alta quasi un metro e settanta e di reggiseno portavo la coppa B con una fastidiosa tendenza verso la C. «È saltata per la prima volta ieri», disse la mamma. «Vorrei soltanto che non le accadesse niente. A ogni salto nel tempo incontrollato i rischi aumentano.» Zia Glenda scoppiò in una risata sarcastica. «Chi vuoi che ci creda! È soltanto un patetico tentativo per mettersi al centro dell’attenzione.» «Ma chiudi la bocca, Glenda! Se vuoi saperlo, il mio massimo desiderio sarebbe di restare fuori da tutta questa storia e di lasciare alla tua Charlotte l’ingrato ruolo di oggetto di ricerca di pseudo-scienziati maniaci di esoterismo e meschini fanatici di misteri! Purtroppo non è Charlotte ad avere ereditato questo gene maledetto, bensì Gwendolyn!” Lo sguardo della mamma era carico di collera e disprezzo. Anche questo era un lato di lei a me del tutto sconosciuto. Mr George rise piano. «Vedo che non ha propriamente una buona opinione di noi, Mrs Shepherd.» La mamma diede un’alzata di spalle. «No, no, no!» Zia Glenda si lasciò cadere su una sedia. «Non sono disposta ad ascoltare un minuto di più queste idiozie. Ma se non è nata nemmeno il giorno giusto. E poi era un parto prematuro!» Evidentemente la storia del parto prematuro era fondamentale per lei. Mrs Jenkins bisbigliò: «Vuole che le porti una tazza di tè, Mrs Montrose?» «Mi lasci perdere, lei e la sua tazza di tè», sbraitò zia Glenda. «Qualcun altro desidera del tè?» «No, grazie», risposi. Mr George continuava a fissarmi con i suoi occhi azzurri. «Gwendolyn, dunque hai già viaggiato nel tempo?» Io feci segno di sì. «E dove, se posso chiederlo?» «Esattamente dove mi trovavo», risposi. Mr George sorrise. «Volevo dire in quale epoca hai viaggiato?» «Non ne ho la minima idea», risposi sprezzante. «Non è che c’era scritta la data da qualche parte. E quando l’ho chiesto nessuno ha voluto rispondermi. Senta! Io non voglio ! Voglio che smetta. Non può fare in modo che smetta?” Mr George non mi rispose. «Gwendolyn è venuta al mondo due mesi prima della data prevista», disse a nessuno in particolare. «L’8 di ottobre. Ho verificato personalmente il certificato di nascita e la registrazione in comune. E ho controllato anche la neonata.» Mi chiesi che cosa si potesse controllare in una neonata. Sarà stato vero? «Gwendolyn è nata la sera del 7 ottobre», disse la mamma con un lieve tremito nella voce. «Abbiamo pagato la levatrice affinché spostasse di qualche ora il momento della nascita sul certificato.» «Ma perché?» Mr George sembrava perplesso quasi quanto me. «Perché... dopo tutto ciò che accadde a Lucy, volevo risparmiare alla mia bambina la stessa sorte. Volevo proteggerla”, spiegò la mamma. «E speravo che magari non avesse ereditato il gene, ma che si fosse trattato semplicemente di un caso se era nata lo stesso giorno della vera gene-portatrice. Dopotutto Glenda aveva avuto Charlotte, e le speranze erano riposte in lei...» «Non mentire!» esclamò zia Glenda. «Lo hai fatto di proposito! La tua bambina sarebbe dovuta nascere a dicembre, ma invece hai manipolato la gravidanza rischiando un parto prematuro solo per poter partorire insieme a me. Invece non ci sei riuscita! Tua figlia è nata con un giorno di ritardo. Non sai quante risate mi sono fatta quando l’ho saputo.» «Non dovrebbe essere troppo difficile dimostrarlo», osservò Mr George. «Ho dimenticato il cognome della levatrice», disse la mamma precipitosamente. «So soltanto che di nome faceva Dawn. Comunque non ha nessuna importanza.» «Come no», ribatté zia Glenda. «Al tuo posto anch’io direi la stessa cosa.» «Sono certo che potremo recuperare il nome e l’indirizzo della levatrice dal nostro archivio.» Mr George si rivolse a Mrs Jenkins. «È importante rintracciarla.» «Non è necessario», disse la mamma. «Potete lasciare in pace quella povera donna. L’unica sua colpa è stata di accettare del denaro da noi.» «Vogliamo solo farle qualche domanda», insistette Mr George. «La prego, Mrs Jenkins, scopra dove abita adesso.” «Mi metto subito al lavoro», rispose Mrs Jenkins scomparendo di nuovo oltre la porta. «Chi altri è al corrente della cosa?» chiese Mr George. «Soltanto mio marito era informato», disse la mamma con un tono che vibrava di orgoglio e trionfo. «E ormai non potrete più chiamarlo per un controinterrogatorio. Purtroppo è morto.» «Lo so», disse Mr George. «Di leucemia, vero? Che tragedia.» Si mise a passeggiare per la stanza. «Quando è cominciato, m’ha detto?» «Ieri», risposi io. «Tre volte nelle ultime venti ore», precisò la mamma. «Sono molto preoccupata.» «Già tre volte!» Mr George si fermò. «Quand’è stata l’ultima?» «All’incirca un’ora fa», risposi. «Almeno credo.» Da quando gli avvenimenti avevano cominciato a sovrapporsi, avevo perso ogni nozione del tempo. «Allora abbiamo a disposizione un po’ di tempo per preparare tutto.» «Non è possibile che lei le creda», intervenne zia Glenda. «Mr George! Lei conosce Charlotte. Quindi, ora provi a guardare questa ragazza e la confronti con la mia Charlotte. Crede forse sul serio di avere davanti la numero dodici? Rosso rubino, che ha la magia del corvo nel cuore, chiude il cerchio dei dodici in sol maggiore. Lo crede davvero?» «Non escluderei questa possibilità», disse Mr George. «Anche se le sue motivazioni mi risultano piuttosto dubbie, Mrs Shepherd.» «Questo è un suo problema», replicò la mamma gelida. «Se davvero era sua intenzione proteggere sua figlia, non avrebbe dovuto lasciarla all’oscuro per tutti questi anni. È molto pericoloso saltare nel tempo senza un’adeguata preparazione.» La mamma si morse il labbro. «Speravo che la prescelta fosse Charlotte...» «Infatti lo è!» esclamò zia Glenda. «Sono due giorni che accusa sintomi inequivocabili. Può accadere da un momento all’altro. Forse sta già succedendo, proprio mentre siamo qui a perdere tempo con le assurde storielle inventate dalla mia sorellina invidiosa.» «Forse faresti meglio a connettere il cervello, tanto per cambiare, Glenda», ribatté la mamma. All’improvviso sembrava spossata. «Che cosa ne ricaveremmo a inventare una cosa del genere? Chi, a parte te, esporrebbe volontariamente sua figlia a un destino del genere?» «Io insisto che...» zia Glenda non concluse la frase. «Finirà tutto per rivelarsi un subdolo imbroglio. C’è già stato un episodio di sabotaggio e lei sa dove ci ha condotto, Mr George. E adesso, proprio a un passo dalla meta, non possiamo permetterci altri pasticci.» «Credo che non spetti a noi decidere», dichiarò Mr George. «La prego di seguirmi, Mrs Shepherd. E anche tu, Gwendolyn.» Poi, facendo una risatina, aggiunse: «Non avere paura, gli pseudo-scienziati maniaci di esoterismo e i meschini fanatici di misteri non hanno mai morso nessuno». Grinfie di tigre rodi, tempo audace, rendi alla terra in pasto la creatura, prendi le zanne orrende della fiera, ardi nel proprio sangue la fenice. William Shakespeare, Sonetto XIX 7 Fummo accompagnate su per una scala e lungo un corridoio tortuoso con molti angoli di quarantacinque gradi e di tanto in tanto un paio di gradini in su o in giù. Il panorama dietro le poche finestre che oltrepassavamo era sempre diverso: a volte un grande giardino, oppure altri edifici o ancora un piccolo cortile. Era un percorso interminabile, su pavimenti di legno o di pietra a mosaico, oltre numerose porte chiuse, sedie collocate lungo le pareti in file ininterrotte, dipinti a olio, librerie piene di volumi rilegati in pelle e figurette di porcellana, statue e armature equestri. Sembrava un museo. Zia Glenda continuava a lanciare occhiate invelenite alla mamma. Lei, da parte sua, faceva di tutto per ignorare la sorella. Era pallida e molto nervosa. Avrei voluto prenderle la mano, ma temevo che zia Glenda si accorgesse di quanto ero spaventata, ed era proprio ciò che volevo evitare. Non potevamo trovarci sempre nella stessa casa, secondo me dovevamo aver attraversato almeno tre edifici, quando Mr George finalmente si fermò e bussò a una porta. La sala dove entrammo era tutta rivestita di legno scuro, come la sala da pranzo a casa nostra. Anche i soffitti erano di legno scuro e ogni superficie era decorata con artistici bassorilievi in parte colorati. Pure i mobili erano scuri e imponenti. L’ambiente sarebbe potuto risultare buio e opprimente, ma dalle grandi finestre lungo un lato, affacciate su un giardino fiorito, la luce del giorno inondava la stanza. Oltre il muro di cinta in fondo al giardino si vedeva persino il Tamigi che luccicava al sole. Ma non erano solo la vista esterna e la luce a dare allegria; anche le decorazioni intagliate nel legno emanavano qualcosa di gioioso, nonostante qualche volto minaccioso e qualche teschio. Sembrava che le pareti fossero vive. Leslie si sarebbe divertita moltissimo a toccare i boccioli di rosa che parevano veri, i ghirigori arcaici e le buffe teste zoomorfe, in cerca di possibili meccanismi segreti. C’erano leoni alati, falchi, stelle, soli e pianeti, draghi, unicorni, elfi, fate, alberi e navi, ogni figura più verosimile dell’altra. Il soggetto più impressionante era il drago, che sembrava ondeggiare sopra le nostre teste appeso al soffitto. Doveva misurare almeno sette metri di lunghezza, dall’estremità della coda appuntita alla grossa testa rivestita di squame. Non riuscivo a togliergli gli occhi di dosso. Era davvero stupendo! Lo stupore mi fece quasi dimenticare il motivo per cui ci trovavamo lì. E il fatto che non eravamo sole. Al vederci, tutti i presenti restarono ammutoliti, come se fossero stati colpiti da un fulmine. «A quanto pare sono sorte delle complicazioni», annunciò Mr George. Lady Arisa, impettita in piedi davanti a una finestra, disse: «Grace! Non dovresti essere al lavoro? E tu, Gwendolyn, a scuola?» «Non sai quanto ci piacerebbe che fosse possibile, mamma», disse mia madre. Charlotte era seduta su un divano, proprio sotto una fantastica sirena con la coda ricoperta di squame finemente intagliate e colorate nelle più incredibili sfumature blu e turchesi. Accanto al sofà c’era un uomo appoggiato alla grande mensola di un camino. Indossava un raffinato abito nero e portava occhiali con la montatura nera. Persino la cravatta era nera. Ci guardò con espressione tetra. Un bambinetto intorno ai sette anni si teneva aggrappato a un lembo della sua giacca. «Grace!» Un uomo alto si levò da dietro una scrivania. Aveva una chioma leonina di capelli grigi e mossi che gli ricadevano sulle spalle. I suoi occhi di un nocciola particolarmente chiaro sembravano fatti di ambra. Il volto era molto più giovane di quanto lasciassero presumere i suoi capelli ed era uno di quei volti che non si dimenticano facilmente, perché emanano un fascino irresistibile. Sorrise scoprendo due file di denti bianchi e regolari. «Grace. Da quanto tempo non ci vediamo.» Girò intorno alla scrivania e porse la mano alla mamma. «Non sei cambiata affatto.” Io notai con stupore che mia madre arrossiva. «Grazie. Potrei dire lo stesso anche di te, Falk.» «Io sono ingrigito.» L’uomo fece un gesto di rassegnazione. «Invece ti trovo molto bene», ribatté la mamma. Pronto? Possibile che la mamma stesse flirtando con questo tizio? Il sorriso dell’uomo si fece più marcato, poi i suoi occhi d’ambra si spostarono dalla mamma a me, e ancora una volta ebbi la spiacevole sensazione di essere sottoposta a un esame. Erano occhi davvero particolari. Sembravano quelli di un lupo o di un felino. Mi porse la mano. «Sono Falk de Villiers. E tu devi essere la figlia di Grace, Gwendolyn.» La sua stretta di mano era forte e sincera. «La prima ragazza Montrose che conosco senza i capelli rossi.» «Ho ereditato il colore da mio padre», dissi impacciata. «Possiamo venire al punto?» domandò l’uomo in nero accanto al camino. Falk de Villiers mi lasciò la mano e mi fece l’occhiolino. «Prego.» «Mia sorella si è inventata una storia proprio assurda», dichiarò zia Glenda e si vedeva quanto le costasse non mettersi a urlare. «E Mr George non ha voluto darmi ascolto! Stando a quel che afferma Grace, Gwendolyn – dico, Gwendolyn! – avrebbe già viaggiato nel tempo per ben tre volte. E, siccome sa bene di non poterlo dimostrare, si è inventata di sana pianta una fandonia per giustificare la data di nascita sbagliata. Vorrei ricordare quanto accaduto diciassette anni fa, nonché il fatto che all’epoca il comportamento di Grace non fu proprio irreprensibile. Ora, a pochi passi dalla meta, non mi sorprende che si presenti qui per sabotare tutto quanto.» Lady Arisa si era staccata dalla finestra per avvicinarsi. «È così, Grace?» Il suo atteggiamento era quello di sempre, severo e implacabile. A volte mi chiedevo se i capelli tirati ferocemente all’indietro fossero il motivo per cui i lineamenti del suo viso rimanessero impassibili. Forse non riusciva più a muovere i muscoli. Al massimo i suoi occhi si aprivano di tanto in tanto, quando era agitata. Come ora. Mr George disse: «Mrs Shepherd afferma che lei e suo marito avrebbero convinto la levatrice con una somma di denaro a cambiare la data di nascita sul certificato, in modo da impedire a chiunque di scoprire che anche Gwendolyn poteva essere annoverata tra le possibili gene-portatrici”. «Ma per quale motivo avrebbe fatto una cosa del genere?” chiese Lady Arisa. «Lei sostiene che voleva proteggere la bambina, e di aver sperato che la gene-portatrice fosse Charlotte.» «Sperato, come no!» esclamò zia Glenda. «Io trovo che sia una spiegazione perfettamente logica», osservò Mr George. Lanciai un’occhiata a Charlotte che, seduta pallida sul divano, guardava dall’uno all’altro. Quando i nostri sguardi s’incontrarono, girò di scatto la testa di lato. «Io non riesco proprio a capire che cosa ci sia di logico in tutto questo», dichiarò Lady Arisa. «Stiamo verificando la storia», annunciò Mr George. «Mrs Jenkins rintraccerà la levatrice.» «Tanto per saperlo, quanto hai pagato la levatrice, Grace?» domandò Falk de Villiers. Negli ultimi minuti i suoi occhi si erano rimpiccioliti e ora che li aveva posati sulla mamma somigliava davvero a un lupo. «Io... non lo ricordo più», rispose la mamma. Mr de Villiers alzò le sopracciglia. «Di certo non poteva essere una cifra troppo esosa. A quanto ne so, gli introiti di tuo marito erano piuttosto modesti.» «Parole sante!» esclamò velenosa zia Glenda. «Un vero pezzente!» «Se lo dite voi, allora non può essere stata una cifra significativa», replicò la mamma. L’insicurezza che l’aveva assalita alla vista di Mr de Villiers era scomparsa all’improvviso, insieme al rossore sul viso. «Allora perché la levatrice ha fatto ciò che le chiedevate?” proseguì Mr de Villiers. «Dopotutto si trattava pur sempre di falsificare un documento ufficiale. Non è un crimine da poco.» La mamma alzò la testa. «Le raccontammo che la nostra famiglia apparteneva a una setta satanica e soffriva di una patologica superstizione negli oroscopi. Le dicemmo che una bambina nata il 7 ottobre avrebbe sofferto dolorose rappresaglie e sarebbe stata utilizzata come oggetto di riti satanici. Questo la convinse. Siccome aveva il cuore tenero e non sopportava i satanisti, falsificò la data di nascita sul certificato.» «Riti satanici! Che sfacciataggine.» L’uomo al camino sibilò come un serpente e il bambino si strinse ancora di più a lui. Mr de Villiers sorrise con aria compiaciuta. «Niente male come storia. Vedremo se la levatrice la confermerà.» «Non mi pare sensato perdere tempo con queste ricerche», si intromise Lady Arisa. «Giusto», l’appoggiò zia Glenda. «Charlotte potrebbe saltare da un momento all’altro. Così sapremo che la storia di Grace è solo un’invenzione per metterci i bastoni tra le ruote.» «Non sarebbe possibile che entrambe avessero ereditato il gene?» obiettò Mr George. «È già successo una volta.” «È vero, ma Timothy e Jonathan de Villiers erano gemelli monozigoti», osservò Mr de Villiers. «Ed erano stati preannunciati come tali anche dalla profezia.» «Per questo nel cronografo sono previste due corniole, due pipette, due serie di dodici scomparti per gli elementi e due serie di ingranaggi», disse l’uomo in nero. «Il rubino è solo.» «Anche questo è vero», riconobbe Mr George. La sua faccia rotonda rifletteva la sua preoccupazione. «Sarebbe più importante analizzare le ragioni della menzogna di mia sorella.» Zia Glenda rivolse alla mamma un’occhiata carica d’odio. «Se pensi di ottenere l’inserimento del sangue di Gwendolyn nel cronografo, per renderlo inutilizzabile, sei più ingenua di quanto pensassi.» «Come può pensare che crediamo anche solo a una parola di ciò che ha raccontato?» disse l’uomo in nero. Quel suo modo di fare arrogante, come se io e la mamma non fossimo presenti, mi irritava molto. «Ricordo bene come mentì Grace all’epoca per proteggere Lucy e Paul. Così diede loro il vantaggio di cui avevano bisogno. Se non fosse stato per lei, forse sarebbe stato possibile impedire la catastrofe.» «Jake!» lo ammonì Mr de Villiers. «Quale catastrofe?» domandai. E chi era Paul? «Trovo inaudita già solo la presenza di questa persona in questa stanza», dichiarò l’uomo in nero. «Lei chi sarebbe?» Lo sguardo e la voce della mamma erano gelidi. Rimasi colpita da come riuscisse a non farsi intimidire. «La cosa non la riguarda.» L’uomo non la degnò di uno sguardo. Il bambino biondo si sporse cauto oltre la sua schiena e mi guardò. Con le lentiggini che aveva sul naso mi ricordava Nick, quand’era più piccolo, perciò gli sorrisi. Poverino: avere uno scorbutico simile come nonno era una vera disgrazia. Incassò il mio sorriso sgranando gli occhi spaventato, poi si rifugiò nuovamente al sicuro dietro la giacca. «Lui è il dottor Jacob White», disse Falk de Villiers con un’inconfondibile nota divertita nella voce. «Un genio in campo medico e biochimico. Di solito è più educato.” Jacob Grey sarebbe stato un nome più indicato. Persino il suo colorito dava sul grigio. Mr de Villiers mi guardò, poi tornò a fissare la mamma. «In ogni caso, dobbiamo prendere una decisione. Dobbiamo credere a te, Grace, oppure stai tramando qualcosa?” La mamma lo fissò rabbiosa per qualche secondo. Poi abbassò gli occhi e rispose piano: «Non sono qui per impedire la vostra magnifica missione segreta. Sono qui soltanto perché voglio proteggere mia figlia. Con l’aiuto del cronografo i viaggi nel tempo possono essere innocui e lei potrebbe vivere un’esistenza abbastanza normale. È tutto ciò che voglio». «Come no!» esclamò zia Glenda. Andò a sedersi accanto alla figlia sul divano. Anch’io avrei voluto sedermi: mi sentivo le gambe stanche. Ma siccome nessuno mi offriva una sedia non mi rimaneva altro da fare che restare in piedi. «Ciò che feci allora non aveva niente a che fare con... i vostri affari», proseguì la mamma. «Sinceramente ne so ben poco e, di ciò che so, capisco solo la metà.» «Allora non riesco proprio a capire perché ha avuto l’impudenza di immischiarsi in cose che non capisce», osservò il nero dottor White. «Volevo soltanto aiutare Lucy», replicò la mamma. «Era la nipote prediletta, mi sono presa cura di lei fin da quando era piccola e mi aveva chiesto di aiutarla. Che cosa avrebbe fatto lei al mio posto? Santo cielo, erano così giovani e così innamorati... non volevo che accadesse loro niente.» «Già, allora ha combinato proprio un bel pasticcio!» «Amavo Lucy come una sorella.» La mamma lanciò un’occhiata a zia Glenda e aggiunse: «Più di una sorella». Zia Glenda prese la mano di Charlotte e gliel’accarezzò. Charlotte teneva lo sguardo chino a terra. «Noi tutti volevamo bene a Lucy!» dichiarò Lady Arisa. «Per questo sarebbe stato tanto importante tenerla lontana da quel giovane con le sue idee balzane, invece di spingerla ancora di più verso di lui!» «Ma quali idee balzane! È stata quella vipera dai capelli rossi a inculcare nella testa di Paul quelle stupide teorie cospiratorie!» disse il dottor White. «È stata lei a convincerlo a commettere il furto!» «Questo non è vero!» obiettò Lady Arisa. «Lucy non avrebbe mai fatto niente del genere. È stato Paul a sfruttare la sua ingenuità giovanile e a sedurla.» «Ingenuità! Mi fa proprio ridere!» sbottò il dottor White. Falk de Villiers alzò una mano. «Abbiamo già affrontato anche troppe volte questa sterile discussione. Credo che ciascuno conosca l’opinione altrui.» Consultò l’ora. «Gideon dovrebbe tornare da un momento all’altro, e per allora dovremmo aver preso la decisione su come procedere. Charlotte, come ti senti?» «Ho sempre mal di testa», disse Charlotte senza sollevare lo sguardo da terra. «Visto?» disse zia Glenda con un sorriso velenoso. «Se è per questo anch’io ho mal di testa», osservò la mamma. «Ma ciò non significa che io debba saltare nel tempo da un momento all’altro.» «Sei... sei una vipera!» disse zia Glenda. «Secondo me dobbiamo partire dal presupposto che Mrs Shepherd e Gwendolyn dicano la verità», dichiarò Mr George, mentre si tamponava la pelata con un fazzoletto. «Altrimenti rischieremmo soltanto di perdere del tempo prezioso.» «Non dirai sul serio, Thomas!» Il dottor White batté un pugno sulla mensola del camino, con tanta forza da rovesciare un vasetto di ottone. Mr George trasalì, ma poi proseguì con voce calma: «Ricapitolando, l’ultimo salto nel tempo risale a un’ora e mezzo, due ore fa. Potremo preparare la ragazza e documentare nella maniera più precisa possibile il prossimo viaggio nel tempo». «Anch’io la penso così», dichiarò Mr de Villiers. «Qualche obiezione?» «Tanto sarebbe come parlare al muro», protestò il dottor White. «Esatto», concordò zia Glenda. «Proporrei come luogo la stanza dell’archivio», disse Mr George. «Lì Gwendolyn sarebbe al sicuro e al suo ritorno potremmo subito iscriverla nel cronografo.» «Io non la farei nemmeno avvicinare al cronografo!» esclamò il dottor White. «Santo cielo, Jake, adesso basta», lo ammonì Mr de Villiers. «È solo una ragazzina! Credi che tenga nascosta una bomba a mano sotto l’uniforme scolastica?» «Anche l’altra era solo una ragazzina», osservò diffidente il dottor White. Mr de Villiers fece un cenno d’assenso a Mr George. «Facciamo come hai proposto tu. Occupatene di persona.” «Vieni, Gwendolyn», mi disse Mr George. Io non mi mossi. «Mamma?» «È tutto a posto, tesoro. Ti aspetto qui.» Si sforzò di sorridermi. Lanciai un’occhiata a Charlotte. Continuava a fissare il pavimento. Zia Glenda aveva chiuso gli occhi e si era appoggiata all’indietro con aria rassegnata. Anche lei sembrava essere stata assalita da un brutto mal di testa. La nonna al contrario mi fissava come se mi vedesse per la prima volta. Molto probabilmente era proprio così. Il bambino fece capolino di nuovo da dietro la giacca del dottor White con gli occhi sgranati. Povero piccoletto. Quel vecchio bisbetico non gli aveva rivolto la parola neppure una volta, si comportava come se non esistesse. «A più tardi, tesoro», disse la mamma. Mr George mi prese per un braccio con un sorriso di incoraggiamento. Io lo ricambiai timidamente. Non sapevo perché, ma mi era simpatico. In ogni caso era il più amichevole fra tutti i presenti. E l’unico che sembrava disposto a credere alla nostra storia. Ciò nonostante, non avevo un bel presentimento a lasciare la mamma da sola. Quando la porta si richiuse alle nostre spalle e ci ritrovammo nel corridoio, mi sarei messa a piangere. «Voglio restare con la mamma!» Ma mi sforzai di trattenermi. Mr George mi aveva lasciato il braccio e mi precedeva, dapprima lungo lo stesso tragitto dell’andata, poi oltre una porta in un altro corridoio, giù per una scala, quindi un’altra porta e un nuovo corridoio: era un vero e proprio labirinto. Sebbene delle torce sarebbero state più appropriate allo stile dell’edificio, i corridoi erano illuminati da moderne lampade che li rischiaravano a giorno. «All’inizio si perde l’orientamento, ma dopo un po’ di tempo si impara a muoversi qui dentro», disse Mr George. Scese un’altra scala, molto lunga, un’ampia scala a chiocciola di pietra che sembrava avvitarsi all’infinito nel terreno. «L’edificio venne eretto nel XII secolo dai Templari, anche se prima esisteva una costruzione romana e prima ancora celtica. Per tutti era un luogo sacro e tale è rimasto sino a oggi. Lo si percepisce da ogni centimetro quadrato, non trovi anche tu? È come se da questo pezzetto di terra emanasse un’energia particolarmente intensa.” Io non avvertivo niente del genere. Al contrario, mi sentivo stanca e confusa. Cominciavo ad accusare la mancanza di sonno della notte scorsa. In fondo alla scala girammo subito a destra e improvvisamente ci trovammo davanti un ragazzo. Per un pelo evitammo di scontrarci. «Ops!» esclamò Mr George. «Mr George.» Il giovane aveva capelli mossi che gli arrivavano alle spalle e occhi verdi, tanto luminosi da farmi pensare che portasse le lenti a contatto. Pur non avendo mai visto i suoi capelli e i suoi occhi in precedenza, lo riconobbi subito. Anche il suono della sua voce lo avrei riconosciuto dovunque. Era l’uomo che avevo visto durante il mio ultimo viaggio nel tempo. Per essere più precisi, il giovane che aveva baciato la mia sosia, mentre io guardavo sbigottita da dietro la tenda. Non potei fare a meno di fissarlo allibita. Visto di fronte e senza parrucca era mille volte meglio. Dimenticai completamente il fatto che a me e Leslie non piacevano i ragazzi con i capelli lunghi. (Secondo Leslie i ragazzi si lasciavano crescere i capelli solo per nascondere le orecchie a sventola.) Lui mi rivolse un’occhiata piuttosto irritata, scrutandomi da capo a piedi, poi guardò Mr George con aria interrogativa. «Gideon, ti presento Gwendolyn Shepherd», disse Mr George con un sospiro. «Gwendolyn, questo è Gideon de Villiers.» Gideon de Villiers. Il giocatore di polo. L’altro viaggiatore nel tempo. «Ciao», disse lui educato. «Ciao.» Perché all’improvviso avevo la voce rauca? «Credo che voi due avrete occasione di conoscervi meglio.” Mr George rise nervoso. «Esiste la possibilità che Gwendolyn sia la nostra nuova Charlotte.» «Come dice?» I suoi occhi verdi mi sottoposero a un nuovo esame, stavolta limitato al viso. Io purtroppo non potei far altro che fissarlo interdetta. «È una storia piuttosto complicata», dichiarò Mr George. «Le consiglio di andare nella sala del drago e di farsi spiegare tutto da suo zio.» Gideon annuì. «Stavo per andarci comunque. Ci vediamo, Mr George. Arrivederci, Wendy.» Chi era Wendy? «Gwendolyn», lo corresse Mr George, ma Gideon aveva già girato l’angolo. I suoi passi risuonarono sulle scale. «Sono sicuro che avrai tantissime domande», disse Mr George. «Cercherò di risponderti per quanto mi sarà possibile.” Ero contenta di potermi finalmente sedere e allungai le gambe. La stanza dell’archivio si era rivelata davvero accogliente, anche se si trovava in un sotterraneo dal soffitto a volte ed era priva di finestre. Il fuoco era acceso nel camino e le pareti erano ricoperte da librerie e armadi. C’erano inoltre poltrone dall’aria invitante e un grande divano sul quale mi ero accomodata. Al nostro ingresso un giovane si era alzato da una scrivania. Aveva rivolto un cenno a Mr George ed era uscito senza dire una parola. «Quell’uomo era sordomuto?» chiesi, perché fu la prima cosa che mi venne in mente. «No», rispose Mr George. «Ma ha fatto voto di silenzio. Nelle prossime quattro settimane non parlerà.» «E che cosa ci guadagnerà?» «Si tratta di un rituale. Gli adepti devono superare tutta una serie di esami prima di essere ammessi nella nostra cerchia esterna. Tra le varie prove devono dimostrare soprattutto di essere in grado di tacere.» Mr George sorrise. «Scommetto che ci trovi piuttosto strambi, vero? Tieni, prendi la torcia elettrica. Mettitela al collo.» «Che cosa mi accadrà adesso?» «Aspetteremo che tu compia il prossimo viaggio nel tempo.» «Quando sarà?» «Nessuno può dirlo con precisione. Per ogni viaggiatore nel tempo è diverso. Per esempio, la tua antenata Elaine Burghley – era la secondogenita nel cerchio dei dodici – in tutta la sua vita viaggiò nel tempo al massimo cinque volte. C’è da dire che morì a soli diciotto anni di febbre puerperale. Il conte invece da giovane saltava da due a sette volte al giorno. Puoi immaginare come fosse pericolosa la sua vita, fino a quando non riuscì a comprendere l’utilizzo del cronografo.» Mr George indicò il dipinto a olio sopra il camino. Ritraeva un uomo con una parrucca bianca riccioluta. «Questo è lui. Il conte di Saint Germain.” «Sette volte al giorno?» Ma era terribile. Non sarei più riuscita a dormire in pace né andare a scuola. «Non preoccuparti. Ammesso che succederà, ti ritroverai in questa stanza dove sarai al sicuro in ogni caso. Aspetterai qui fino al tuo ritorno. Non devi muovere un passo. Nel caso dovessi incontrare qualcuno, gli mostrerai questo anello.» Mr George si sfilò l’anello con sigillo dal dito e me lo porse. Me lo rigirai nella mano osservando l’incisione. Era una stella a dodici punte con al centro un cartiglio di lettere intrecciate. Quella furba di Leslie aveva visto giusto ancora una volta. «Mr Whitman, il mio professore di letteratura e storia, ne ha uno uguale.» «Era una domanda?» Sulla pelata di Mr George si rifletteva la luce del fuoco. Aveva un’aria bonaria. «No.» Non era necessario che mi desse una risposta. Era chiaro: Mr Whitman era uno di loro. Leslie lo aveva intuito. «C’è qualcos’altro che vorresti sapere?» «Che cosa è accaduto a Paul e Lucy? E di quale furto parlavano? E che cosa fece mia madre all’epoca che tutti ce l’hanno con lei?» domandai tutto d’un fiato. «Oh.» Mr George si grattò il mento imbarazzato. «Ecco, a questo non posso proprio risponderti, purtroppo.» «Me lo aspettavo.» «Gwendolyn. Se davvero sei la numero dodici, allora ti spiegheremo tutto fino all’ultimo particolare, te lo prometto. Ma prima dobbiamo esserne sicuri. Se vuoi, però, posso rispondere volentieri ad altre domande.» Rimasi in silenzio. Mr George sospirò. «E va bene: Paul è il fratello minore di Falk de Villiers. Era l’ultimo viaggiatore nel tempo della linea dei de Villiers prima di Gideon, il numero nove del cerchio dei dodici. Per ora devi accontentarti di questo. Se hai domande meno scabrose...» «Potrei andare al bagno?» «Ma certo. È proprio qui dietro. Ti accompagno.» «Posso andarci anche da sola.» «Certo», ripeté Mr George, seguendomi fino alla porta come un’ombra. Il giovane di prima, quello che aveva fatto voto di silenzio, era in piedi oltre l’uscio, come una sentinella. «La porta qui avanti.» Mr George indicò verso sinistra. «Ti aspetto qui.» Una volta in bagno – era uno stanzino che odorava di disinfettante con tazza e lavandino – tirai fuori dalla tasca il cellulare. Non c’era campo, naturalmente. E pensare che mi sarebbe piaciuto tanto informare Leslie degli ultimi avvenimenti. L’orologio però funzionava, e rimasi sorpresa vedendo che era solo mezzogiorno. Mi sembrava che fossero passati giorni. E mi scappava proprio. Quando uscii dal bagno, Mr George mi sorrise sollevato. Evidentemente aveva temuto che potessi sparire al gabinetto. Tornai a sedermi sul divano nell’archivio e Mr George si accomodò su una poltrona di fronte a me. «Allora, riprendiamo il nostro gioco delle domande», disse. «Però stavolta facciamo a turno. Una domanda tu, una domanda io.» «Okay», risposi. «Cominci lei.» «Hai sete?» «Sì. Vorrei un bicchiere d’acqua, se possibile. O del tè, magari.» Là sotto in effetti c’erano acqua, succo e vino, oltre a un bollitore per il tè. Mr George preparò una teiera di Earl Gray per entrambi. «Tocca a te», disse tornandosi a sedere. «Se la facoltà di viaggiare nel tempo è determinata da un gene, come mai la data di nascita è importante? Come mai non avete fatto un prelievo di sangue a Charlotte per determinare se possedeva questo gene? E come mai non è possibile inviarla grazie al cronografo in un’epoca sicura prima che abbia fatto il suo primo salto nel tempo con il pericolo di finire chissà dove?» «Una cosa alla volta. Noi crediamo che si tratti di un gene, ma non ne abbiamo la certezza. Sappiamo soltanto che avete qualcosa nel sangue che vi distingue dalle persone normali, ma non abbiamo ancora trovato il fattore X. Le ricerche durano da moltissimi anni e sono condotte da scienziati di altissimo livello. Credimi, sarebbe molto più facile se fosse possibile individuare il gene, o qualunque cosa sia, nel sangue. Siccome però non è possibile, dobbiamo basarci su calcoli e osservazioni fatte dalle generazioni precedenti.» «Se il cronografo fosse stato riempito con il sangue di Charlotte, che cosa sarebbe accaduto?» «Nel caso peggiore l’avremmo reso inutilizzabile», rispose Mr George. «A proposito, Gwendolyn, ti prego di notare che stiamo parlando di una minuscola goccia di sangue, non di un serbatoio da riempire! Ora però tocca a me. Se potessi scegliere, in quale epoca ti piacerebbe viaggiare?” Ci pensai su. «Non vorrei risalire tanto indietro nel tempo. Dieci anni basterebbero. Così potrei vedere di nuovo mio padre e parlare con lui.» Sul volto di Mr George comparve un’espressione addolorata. «Certo, è un desiderio comprensibile. Ma non è realizzabile. Nessuno può tornare indietro nel tempo all’interno della propria vita. Devi raggiungere almeno un’epoca precedente alla tua nascita.» «Oh.» Peccato. Mi ero immaginata di tornare al tempo delle elementari, per la precisione al giorno in cui un bambino di nome Gregory Forbes mi aveva chiamato «caccola puzzona» nel cortile della scuola dandomi quattro calci di fila nello stinco. Mi sarebbe piaciuto comparire lì come WonderWoman: così ero sicura che Gregory Forbes non avrebbe più preso a calci una bambina. «Tocca di nuovo a te», disse Mr George. «Mi era stato detto di tracciare un cerchio con il gesso nel punto in cui Charlotte fosse scomparsa. Ma a che cosa doveva servire?» Mr George fece un gesto spazientito. «Sono solo sciocchezze. È stata tua zia Glenda a insistere che il luogo della scomparsa venisse presidiato. Avremmo dovuto quindi mandare Gideon nel passato con la descrizione esatta del luogo e i Guardiani avrebbero dovuto aspettare Charlotte e proteggerla finché non fosse tornata indietro.» «Capisco, ma non si può sapere in quale epoca sarebbe finita. I Guardiani avrebbero dovuto sorvegliare il punto ventiquattr’ore al giorno per anni e anni!» «Già», sospirò Mr George. «Proprio così! Ora tocca a me. Ti ricordi ancora di tuo nonno?» «Certo. Avevo dieci anni quando morì. Era molto diverso da Lady Arisa, spiritoso e per niente severo. Gli piaceva raccontare storie di paura a me e a mio fratello. Lo conosceva anche lei?» «Eccome! Era il mio mentore e il mio miglior amico.» Mr George fissò per qualche istante il fuoco con aria assente. «Chi era quel bambino?» domandai. «Quale bambino?» «Quello di prima, che stava attaccato alla giacca del dottor White.» «Come dici?» Mr George distolse gli occhi dal camino e mi guardò confuso. Ma come! Non avrei potuto essere più precisa di così. «Era un bambinetto biondo, di circa sette anni. Stava attaccato a Mr White», ripetei scandendo le parole. «Non c’era proprio nessun bambino», replicò Mr George. «Mi stai prendendo in giro?» «No», risposi. All’improvviso avevo capito ciò che avevo visto, e mi irritava il fatto di non essermene accorta subito. «Un bambino biondo, hai detto? Di circa sette anni?» «Dimentichi quello che ho detto.» Feci finta di provare un improvviso e irrefrenabile interesse per i libri sullo scaffale alle mie spalle. Mr George rimase in silenzio, ma sentivo il suo sguardo penetrante su di me. «Tocca di nuovo a me», disse dopo un po’. «È un gioco sciocco. Perché non giochiamo a scacchi, invece?» Sul tavolino c’era una scacchiera. Mr George, però, non si lasciò distrarre. «Ti capita a volte di vedere cose che gli altri non riescono a vedere?» «I bambini non sono cose», precisai. «Comunque sì, a volte vedo cose che gli altri non vedono.» Non sapevo nemmeno io perché, ma mi fidavo di lui. Per qualche motivo le mie parole parvero rallegrarlo. «È incredibile, davvero incredibile. Da quando possiedi questa dote?» «L’ho sempre avuta.» «Affascinante!» Mr George si guardò intorno. «Ora, per favore, dimmi quante persone sono qui dentro insieme a noi.» «Siamo soli.» Dovetti reprimere una risata alla vista dell’espressione delusa di Mr George. «Oh. E pensare che avrei giurato che queste mura brulicassero di fantasmi. Soprattutto in questa stanza.» Bevve un sorso di tè. «Vuoi dei biscotti all’arancia?» «Sì, grazie.» Non so se dipendesse dal fatto che avesse parlato di biscotti, ma provai di nuovo quella strana sensazione allo stomaco. Trattenni il respiro. Mr George si alzò e andò a frugare in un armadio. La sensazione di vertigine aumentò. Mr George ci sarebbe rimasto male se, voltandosi, non mi avesse più trovato. Forse avrei dovuto avvisarlo. Magari era debole di cuore. «Mr George?» «Tocca di nuovo a te, Gwendolyn.» Sistemò i biscotti ordinatamente su un piatto, quasi come faceva sempre Mr Bernhard. «Credo di sapere già la risposta alla tua domanda.” Ascoltai dentro di me. La vertigine diminuì leggermente. Okay, falso allarme. «Allora, mettiamo che dovessi viaggiare in un’epoca in cui quest’edificio non esisteva ancora. Finirei sottoterra rischiando di morire soffocata?» «Oh! E io che pensavo che mi avresti chiesto notizie del bambino biondo. Dunque, vediamo: in base alle nostre informazioni, nessuno ha mai viaggiato più indietro di cinquecento anni. Anche sul cronografo la data per il rubino, ovvero per te, arriva soltanto fino al 1560, l’anno di nascita del primo viaggiatore nel tempo, Lancelot de Villiers. Ce ne siamo rammaricati spesso. Così perdiamo tanti anni molto interessanti... tieni, prendi. Sono i miei biscotti preferiti.» Allungai la mano, ma il piatto d’un tratto sfumò sotto i miei occhi e provai la sensazione che qualcuno mi avesse tolto il divano da sotto il corpo. Linea di discendenza maschile Dalle Cronache dei Guardiani, volume 4, Il cerchio dei dodici 8 Atterrai con il sedere sulla pietra fredda e con in mano un biscotto. Per lo meno aveva tutta l’aria di essere un biscotto. Tutt’intorno regnava la più totale oscurità, più nera del nero. Avrei dovuto sentirmi paralizzata dal terrore, ma stranamente non avevo paura. Forse dipendeva dalle parole tranquillizzanti di Mr George, forse dal fatto che nel frattempo mi ero quasi abituata. Addentai il biscotto (davvero squisito!), poi cercai con la mano la pila che avevo appesa al collo e me la sfilai. Dopo un paio di secondi trovai l’interruttore. Il fascio di luce illuminò scaffali pieni di libri, il camino che riconobbi subito (purtroppo freddo e spento), il dipinto appeso esattamente come prima, il ritratto del viaggiatore nel tempo con la parrucca bianca a riccioli, il conte di Nonsocosa. Mancavano soltanto le poltrone, il tavolino e – guarda caso – proprio il comodo divano dove mi ero seduta. Mr George mi aveva istruito di aspettare lì il salto di ritorno. Probabilmente sarebbe stato quello che avrei fatto, se ci fosse stato ancora il divano. Però non ci sarebbe stato niente di male a dare un’occhiata fuori dell’uscio. Avanzai con cautela a tentoni. La porta era chiusa a chiave. D’accordo. Per fortuna non dovevo andare in bagno. Alla luce della pila esaminai la stanza. Forse potevo trovare un indizio circa l’anno in cui mi trovavo. Magari c’era un calendario appeso al muro, oppure posato sulla scrivania. La scrivania era ingombra di carte arrotolate, libri, lettere aperte e scatoline. Il fascio di luce si posò su un calamaio e una penna d’oca. Presi un foglio. Era spesso e ruvido. Era difficile decifrare le parole scritte con una grafia tutta svolazzi. «Egregio signor dottore», c’era scritto. « La vostra lettera mi è arrivata oggi, dopo soltanto nove settimane. Una tale speditezza è sorprendente, se si pensa al lungo viaggio compiuto dal suo ameno resoconto sulla situazione nelle Colonie.» Feci un sorrisetto. Nove settimane per una lettera! E pensare che la gente si lamentava sempre dell’inaffidabilità delle poste britanniche. Okay, allora mi trovavo in un’epoca in cui le lettere erano spedite tramite piccioni viaggiatori. Oppure lumache. Mi sedetti alla scrivania e lessi qualche altra lettera. Tutta roba piuttosto noiosa. Neppure i nomi mi dicevano niente. Allora esaminai le scatoline. La prima che aprii era piena di timbri per sigilli con elaborati simboli. Cercai una stella a dodici punte, ma trovai solo corone, cartigli e soggetti vegetali e animali. Davvero graziosi. C’erano anche bastoncini di ceralacca di tutti i colori, persino oro e argento. La scatola accanto era chiusa a chiave. Forse la chiave si trovava in uno dei cassetti della scrivania. Questa piccola caccia al tesoro cominciava a divertirmi. Se il contenuto dell’astuccio mi fosse piaciuto, l’avrei portato con me. Solo per fare una prova. Con il biscotto del resto aveva funzionato. Avrei portato a Leslie un piccolo souvenir, di sicuro era permesso. Nei cassetti sotto la scrivania trovai pennini e boccette d’inchiostro, lettere ordinatamente riposte nelle buste, quaderni rilegati, una specie di pugnale, un coltellino con la lama ricurva e... delle chiavi. Tante, tantissime chiavi, di tutte le forme e le dimensioni. Leslie sarebbe impazzita. Probabilmente in questa stanza esisteva una serratura per ciascuna di queste chiavi e dietro ciascuna serratura un piccolo segreto. Oppure un tesoro. Ne provai alcune, quelle che mi sembravano abbastanza piccole per la serratura della scatola. Ma non trovai quella giusta. Peccato. Forse conteneva gioielli. Avrei dovuto portare con me tutta la scatola? Non era molto pratico ed era troppo voluminosa per la tasca interna della mia giacca. In un’altra scatola trovai una pipa. Una bella pipa, in effetti, intagliata, probabilmente d’avorio, ma non era adatta per Leslie. Forse potevo portarle uno dei sigilli? O magari quel bel pugnale? O ancora uno dei libri? Sapevo bene che non bisognava rubare, ma la mia era una situazione eccezionale. Ero convinta di aver diritto a un risarcimento. Inoltre dovevo provare se funzionava trasferire oggetti dal passato al presente. Non provavo neppure un briciolo di rimorso, e la cosa mi sorprendeva, perché di solito mi indignavo quando Leslie non si limitava a prendere solo gli assaggi offerti nel reparto prelibatezze di Harrods, oppure – com’era accaduto di recente – quando coglieva un fiore da un’aiuola nel parco. Il problema era che non sapevo decidermi. Il pugnale mi sembrava l’oggetto più prezioso. Se le pietre dell’impugnatura erano autentiche, doveva valere una fortuna. Ma che cosa se ne faceva Leslie di un pugnale? Di sicuro un sigillo le sarebbe piaciuto di più. Ma quale? Non ebbi tempo di prendere una decisione, perché fui assalita di nuovo dalla vertigine. Mentre la scrivania svaniva sotto i miei occhi, afferrai il primo oggetto a portata di mano. Atterrai dolcemente sui piedi. Fui accecata da una luce abbagliante. Feci scivolare precipitosamente la chiave che avevo afferrato all’ultimo istante nella tasca insieme al cellulare e mi guardai intorno. Nella stanza era tutto esattamente come prima, quando avevo bevuto il tè con Mr George. Il fuoco del camino riscaldava piacevolmente l’ambiente. Mr George però non era più solo. Insieme a lui c’era Falk de Villiers e quell’antipatico del grigio dottor White (insieme al piccolo fantasma biondo) che parlavano al centro della stanza. Gideon de Villiers era appoggiato comodamente con la schiena alla libreria. Fu il primo ad accorgersi di me. «Ciao, Wendy», mi disse. «Gwendolyn», lo corressi. Accidenti, non era poi così difficile da tenere a mente. Io non lo chiamavo mica Gisbert . Gli altri tre uomini si voltarono a guardarmi, il dottor White con gli occhi socchiusi e diffidenti, Mr George con evidente soddisfazione. «Sono passati quasi quindici minuti», disse. «Ti senti bene, Gwendolyn? Tutto a posto?» Io annuii. «Ti ha visto qualcuno?» «Non c’era nessuno. Non mi sono mossa dalla stanza, come mi aveva detto lei.» Restituii a Mr George la pila e l’anello con sigillo. «Dov’è mia madre?» «Di sopra con gli altri», rispose asciutto Mr de Villiers. «Voglio parlare con lei.» «Non preoccuparti, lo farai più tardi», mi assicurò Mr George. «Ma prima... ecco, non so neppure da dove cominciare.” Era raggiante. Cos’è che gli metteva tanta allegria? «Conosci già mio nipote Gideon», disse Mr de Villiers. «Lui fa quello che ti è appena accaduto da due anni. Tuttavia era più preparato di te. Non sarà facile recuperare tutto ciò che è stato perso con te negli anni scorsi.» «Io direi piuttosto che sarà impossibile», osservò il dottor White. «Non è necessario», disse Gideon. «Posso farcela molto meglio da solo.» «Staremo a vedere», dichiarò Mr de Villiers. «Credo che sottovalutiate la ragazza», disse Mr George. Aveva un tono di voce allegro ma quasi untuoso. «Gwendolyn Shepherd! Ora anche tu sei partecipe di un anti-chissimo segreto. Ed è giunto il momento che tu sappia tutto. Prima volevi sapere...» «Non siamo precipitosi», lo interruppe il dottor White. «Avrà anche ereditato il gene, ma questo non significa che ci si possa fidare di lei.» «Né che capisca di che cosa si tratta», aggiunse Gideon. Oh-oh. Evidentemente mi considerava un po’ limitata. Che stupido arrogante. «Chissà quali istruzioni ha ricevuto da sua madre», disse il dottor White. «E chissà da chi lei a sua volta ha ricevuto indicazioni. Abbiamo un cronografo soltanto, non possiamo permetterci un altro intoppo. Vorrei solo far presente questo.» Mr George fece una smorfia come se avesse ricevuto uno schiaffo. «A volte si complicano inutilmente le cose», mormorò. «Ora la porterò nel mio ambulatorio», disse il dottor White. «Stai tranquillo, Thomas. Per le spiegazioni ci sarà tempo anche più tardi.» Le sue parole mi provocarono un brivido lungo la schiena. L’ultima cosa che desideravo era di andare in un ambulatorio con il dottor Frankenstein. «Voglio la mamma», dichiarai, anche a costo di sembrare una bambina piccola. Gideon schioccò la lingua con evidente disprezzo. «Non avere paura, Gwendolyn», cercò di tranquillizzarmi Mr George. «Ci serve soltanto qualche goccia del tuo sangue, e poi il dottor White è responsabile delle tue difese immunitarie e della tua salute. Nel passato sono in agguato innumerevoli fattori di contagio che l’organismo degli uomini moderni non è in grado di combattere. Comunque sarà una cosa veloce.» Si rendeva conto di quanto fossero minacciose le sue parole? Ci serve soltanto qualche goccia del tuo sangue... e ... sarà una cosa veloce. Santo cielo! «Ma io... io non voglio stare da sola con il dottor Frank... White», ribattei. Non mi importava più che questa persona mi ritenesse educata o no. Inoltre lui stesso non aveva un briciolo di buone maniere. E, per quanto riguardava Gideon, che pensasse pure quello che voleva di me! «Il dottor White non è così... cattivo, come può sembrare”, disse Mr George. «Davvero, non devi...» «Invece deve», ringhiò il dottor White. Cominciavo a perdere la pazienza. Ma che cosa si credeva quello snob? Tanto per cominciare, avrebbe dovuto comperarsi un abito del colore giusto! «Davvero? E che cosa mi farebbe se mi rifiutassi?» ribattei piccata, e subito mi accorsi che i suoi occhi, che lampeggiavano irati dietro gli occhiali neri, erano rossi e infiammati. Un ottimo medico davvero, pensai. Non sapeva nemmeno curare se stesso. Prima che il dottor White avesse il tempo di pensare a ciò che mi avrebbe fatto (nella mia mente si affacciarono alcune ipotesi poco piacevoli), con mio grande sollievo Mr de Villiers prese la parola. «Informerò Mrs Jenkins», annunciò con una voce che non ammetteva repliche. «Mr George resterà con lei fino al suo arrivo.» Rivolsi un’occhiata di trionfo al dottore, una di quelle di solito accompagnate da una linguaccia, ma lui fece finta di niente. «Ci ritroviamo tra mezz’ora di sopra nella sala del drago”, concluse Mr de Villiers. Senza volerlo, prima di uscire, mi voltai velocemente verso Gideon, per controllare se la mia vittoria sul dottor White avesse avuto qualche effetto su di lui. Evidentemente no, perché mi stava guardando le gambe. Con ogni probabilità le stava confrontando con quelle di Charlotte. Maledizione! Le sue erano più lunghe e più magre. E di sicuro non era piena di graffi alle caviglie, perché la notte prima non era rimasta accucciata tra cianfrusaglie e coccodrilli impagliati. L’ambulatorio del dottor White era identico a un qualunque studio medico. E quando il dottore indossò un camice bianco sopra il vestito, e si lavò a lungo e scrupolosamente le mani, assunse l’aspetto di un medico qualsiasi. Solo il fantasma bambino che gli stava di fianco era un po’ fuori dall’ordinario. «Togliti la giacca e tira su la manica», mi ordinò il dottor White. Mr George mi fornì la traduzione. «Per favore, abbi la cortesia di sfilarti la giacca e di arrotolare la manica.» Il piccolo fantasma biondo ci guardava con interesse. Quando gli sorrisi, si nascose subito dietro il dottor White, per poi spuntare di nuovo un secondo dopo. «Riesci a vedermi?» Io feci cenno di sì. «Guarda da un’altra parte», ringhiò il dottore, mentre mi metteva un laccio intorno al braccio. «Sopporto la vista del sangue», replicai. «Anche del mio.» «Gli altri non possono vedermi», disse il fantasmino. «Lo so», risposi. «Mi chiamo Gwendolyn. E tu?» «Per te sempre e solo dottor White», disse il dottore. «Robert», ribatté il fantasma. «È davvero un bellissimo nome», dissi. «Grazie», replicò il dottor White. «Tu in compenso hai delle bellissime vene.» Non avevo quasi sentito la puntura dell’ago. Il dottor White riempì con cura una provetta con il mio sangue. Poi la sostituì con una vuota e riempì anche quella. «Non sta parlando con te, Jake», disse Mr George. «Ah, no? E con chi allora?» «Con Robert», risposi. Il dottor White sollevò la testa di scatto. Per la prima volta mi guardò negli occhi. «Come hai detto?» «Niente, niente.» Il dottor White borbottò qualcosa di incomprensibile. Mr George mi rivolse un sorriso complice. Qualcuno bussò alla porta e Mrs Jenkins, la segretaria con gli occhiali spessi, entrò nello studio. «Finalmente è arrivata», l’accolse il dottor White. «Vai pure, Thomas. Mrs Jenkins farà la dama di compagnia. Può sedersi su quella sedia. Ma tenga la bocca chiusa.” «Galante come sempre», commentò Mrs Jenkins, andandosi però a sedere docile al posto indicato. «A presto», mi salutò Mr George. Sollevò una delle provette con il mio sangue e sorrise. «Vado a fare il pieno”, annunciò. «Dove tenete questo cronografo? E che aspetto ha?» domandai mentre Mr George si chiudeva la porta alle spalle. «Ci si può sedere dentro?» «L’ultima persona che mi fece domande sul cronografo, lo rubò giusto due anni dopo.» Il dottor White mi sfilò l’ago dal braccio e mi premette una garza nel punto del buco. «Capirai quindi che preferisco non rispondere alle tue domande.» «Il cronografo fu rubato?» Il fantasmino Robert annuì energicamente. «Dalla tua affascinante cugina Lucy in persona», disse il dottor White. «Mi ricordo ancora benissimo la prima volta che si sedette qui. Aveva la tua stessa aria candida e innocua.» «Lucy è simpatica», disse Robert. «A me piace.» Siccome era un fantasma, probabilmente gli sembrava di aver visto Lucy per l’ultima volta giusto ieri. «Lucy ha rubato il cronografo? E perché?» «Che cosa vuoi che ne sappia io? Probabilmente un disturbo schizoide della personalità», brontolò il dottor White. «Deve essere una caratteristica di famiglia. Tutte donne isteriche, queste Montrose. E Lucy possedeva anche una buona dose di energia criminale.» «Dottor White!» esclamò Mrs Jenkins. «Questo non è affatto vero!» «Le ho già detto di tenere la bocca chiusa», ribatté il dottor White. «Ma se il cronografo è stato rubato da Lucy come fa a trovarsi ancora qui?» domandai. «Già, com’è possibile?» Il dottor White mi sfilò il laccio dal braccio. «Ce n’erano due, sciocchina. Quando hai fatto l’antitetanica?» «Non lo so. Quindi ci sono diversi cronografi?» «No, soltanto due», rispose il dottor White. «Scommetto che non sei vaccinata contro il vaiolo.» Mi tastò pensieroso la parte alta del braccio. «Qualche malattia cronica? Allergie?» «No. Non sono vaccinata neppure contro la peste. O il colera. O le pustole.» Mi venne in mente James. «Ci si può vaccinare contro le pustole? Credo che un mio amico ne sia morto.» «Ne dubito», rispose il dottor White. «Le pustole sono un altro nome per il vaiolo. E ormai di vaiolo non muore più nessuno.» «Il mio amico è morto tanto tempo fa.» «Credevo che fosse un altro nome per il morbillo», disse Mrs Jenkins. «E io credevo che fossimo d’accordo che lei stesse zitta, Mrs Jenkins.» Mrs Jenkins tacque. «Perché è sempre così sgarbato con tutti?» domandai. «Ahia!» «È stato solo un pizzico», disse il dottor White. «Che cos’era?» «Fidati di me, è meglio se non lo sai.» Sospirai. Anche il piccolo Robert sospirò. «È sempre così?» gli chiesi. «Quasi sempre», mi rispose Robert. «Non dice sul serio», intervenne Mrs Jenkins. «Mrs Jenkins!» «Va bene.» «Per il momento sono a posto così. Per la prossima volta avrò i risultati dei tuoi esami e chissà che la tua gentile mamma non riesca a trovare anche la tessera delle vaccinazioni e il tuo libretto sanitario.» «Non sono mai stata ammalata. Adesso sono vaccinata contro la peste?» «No. Tanto sarebbe inutile. Il vaccino dura solo sei mesi e ha pesanti effetti collaterali. Se dipendesse da me, non ti ritroveresti mai in un anno di peste. Puoi vestirti. Mrs Jenkins ti accompagnerà di sopra dagli altri. Io vi raggiungo tra un minuto.» Mrs Jenkins si alzò. «Vieni, Gwendolyn. Avrai fame. Tra poco è pronto da mangiare. Oggi Mrs Mallory ha preparato arrosto di vitello e asparagi. Molto delicato.» In effetti avevo proprio fame. Persino di arrosto di vitello con asparagi, che di solito non era il mio piatto preferito. «Sai, in realtà il dottore è una persona di buon cuore», disse Mrs Jenkins mentre salivamo. «È solo che gli costa sempre una certa fatica mostrarsi amichevole.» «Me ne sono accorta.» «Prima era diverso. Allegro, sempre di buonumore, anche se già portava quegli orribili vestiti neri, ma se non altro aveva cravatte colorate. Questo prima che il suo figlioletto morisse... ah, che tragedia. Da allora è completamente cambiato.» «Robert.» «Esatto, il bambino si chiamava Robert», confermò Mrs Jenkins. «Mr George ti ha già parlato di lui?» «No.» «Un bambino d’oro. È annegato nella piscina di amici durante una festa di compleanno, pensa un po’.» Mrs Jenkins contò gli anni sulla punta delle dita. «Sono passati già diciotto anni. Povero dottore.» Povero Robert. Ma se non altro non aveva l’aspetto di un annegato. Alcuni fantasmi si divertivano ad andare in giro con l’aspetto che avevano appena morti. Per fortuna non ne avevo mai incontrato nessuno con una freccia conficcata in testa. O magari senza testa. Mrs Jenkins bussò a una porta. «Facciamo una breve sosta da Madame Rossini. Deve prenderti le misure.» «Le misure? Perché?» La stanza in cui Mrs Jenkins mi sospinse mi diede la risposta che cercavo: era una sartoria, e, tra pezze di tessuto, vestiti, macchine da cucire, manichini, forbici e passamanerie, c’era una donna rotondetta con una fluente chioma biondo-rossiccia che mi sorrideva. «Benvenuta, tu devi essere Gwendolyn», mi salutò storpiando il mio nome alla francese, Guendo-lèn. «Io sono Madame Rossini e mi occupo del tuo guardaroba.» Sventolò un metro. «Del resto non possiamo mica farti andare in giro nel passato con questa orribile uniforme scolastica, n’est-ce pas?» Risposi di sì con un cenno del capo. Le uniforrrmi, come pronunciava Madame, erano davvero orrribili in qualunque secolo. «Molto probabilmente causeresti una rivoluzione se ti facessi vedere vestita così», continuò contorcendo le mani, metro compreso. «Purtroppo dobbiamo sbrigarci. Di sopra ci aspettano”, annunciò Mrs Jenkins. «Ci vorrà un minuto. Puoi toglierti la giacca, per favore?” Madame Rossini mi mise un metro intorno alla vita. «Meraviglioso. E ora i fianchi. Oh, come una giovane puledra. Penso che potremo riutilizzare molto di quello che avevo preparato per l’altra, magari con qualche piccolo ritocco.» Con «l’altra» di sicuro intendeva Charlotte. Notai un abito giallo pastello con una guarnizione di pizzo bianco trasparente appeso a una gruccia, che sembrava uno dei costumi di scena di Orgoglio e pregiudizio. Di sicuro a Charlotte stava benissimo. «Charlotte è più alta e più magra di me», dissi. «Sì, leggermente», confermò Madame Rossini. «Uno spaventapasseri.» (Lo pronunciò spa-vànta-pase-rrrì e mi fece ridere.) «Ma non è un problema.» Mi misurò anche il collo e la circonferenza della testa. «Per cappelli e parrucche», disse con un sorriso. «Che bello, come sono contenta di poter cucire per una mora, finalmente. Con le rosse bisogna sempre fare tanta attenzione ai colori. Sono anni che tengo da parte una stupenda pezza di taffetà, del colore del sole al tramonto. Potresti essere la prima a cui sta bene questo colore...» «Madame Rossini, la prego!» Mrs Jenkins indicò l’orologio. «Sì-sì, ho finito», replicò Madame Rossini volteggiando intorno a me con il metro e misurandomi persino le caviglie. «Questi uomini hanno sempre tanta fretta! La moda e la bellezza però non si possono prendere precipitosamente.” Alla fine mi diede una pacca amichevole e disse: «Ci vediamo presto, collo-di-cigno». Mi accorsi in quel momento che lei effettivamente non aveva collo. Sembrava che la sua testa posasse direttamente sulle spalle. Però era davvero simpatica. «A dopo, Madame Rossini.» Una volta fuori, Mrs Jenkins partì a passo di carica e io faticai a starle dietro, anche se portava i tacchi a spillo, mentre io avevo comodi mocassini blu bassi e un po’ sformati. «Ci siamo quasi.» Davanti a noi si apriva l’ennesimo interminabile corridoio. Per me era un vero mistero capire come ci si orientasse in un simile labirinto. «Lei abita qui?» «No, sto a Islington», rispose Mrs Jenkins. «Alle cinque stacco. Poi torno a casa da mio marito.» «Che cosa ne pensa suo marito del suo impiego presso una loggia segreta che tiene in cantina una macchina del tempo?» Mrs Jenkins rise. «Oh, lui questo non lo sa. Ho sottoscritto un patto di silenzio nel contratto di assunzione. Non posso parlare con nessuno, neppure con mio marito, di ciò che accade qui dentro.» «Altrimenti?» Molto probabilmente tra queste mura marcivano gli scheletri di tante segretarie troppo loquaci. «Altrimenti perdo il lavoro», rispose Mrs Jenkins, con il tono di chi trovava l’idea assolutamente intollerabile. «Comunque nessuno mi crederebbe», aggiunse allegramente. «Men che meno mio marito. Quel brav’uomo non ha fantasia. È convinto che mi guadagni da vivere in uno studio legale qualsiasi, in mezzo a pratiche noiose... oh, no! I documenti!» Si fermò. «Li ho lasciati di là! Il dottor White mi ucciderà.» Mi guardò indecisa. «Ce la fai a trovare la strada da sola da qui? Non manca molto. In fondo a sinistra e poi la seconda porta a destra.» «In fondo a sinistra, seconda porta a destra, nessun problema.» «Sei un tesoro!» Mrs Jenkins si era già allontanata di corsa. Continuavo a chiedermi affascinata come facesse con i tacchi che portava. Io al contrario potevo prendermela con calma per gli ultimi metri. Finalmente potevo esaminare con comodo i dipinti alle pareti (scoloriti), battere contro un’armatura (arrugginita) e passare l’indice delicatamente lungo una cornice (impolverata). Quando arrivai in fondo al corridoio, udii delle voci. «Aspetta, Charlotte.» Mi fermai di scatto e mi appiattii contro il muro. Feci in tempo a vedere Charlotte che usciva dalla sala del drago seguita da Gideon, che la teneva per un braccio. Mi augurai che non mi avessero notato. «È tutto così umiliante», disse Charlotte. «No, non è vero. Non è colpa tua.» Come sapeva essere morbida e affettuosa la sua voce. È cotto di lei, pensai, e per qualche assurdo motivo provai una piccola fitta al cuore. Mi addossai ancora di più alla parete, anche se mi sarebbe piaciuto vedere che cosa stavano facendo quei due. Si tenevano teneramente per mano? Charlotte sembrava inconsolabile. «Sintomi-fantasma! Sarei voluta sprofondare. Ho creduto davvero che potesse accadere da un momento all’altro...» «Anch’io avrei pensato la stessa cosa al posto tuo», disse Gideon. «Tua zia deve essere pazza ad aver taciuto la verità per tutti questi anni. E tua cugina mi fa davvero pena.” «Dici sul serio?» «Prova a pensarci! Come potrà cavarsela? Non ha la più pallida idea... come potrà recuperare tutto ciò che abbiamo imparato negli ultimi dieci anni?» «Già, povera Gwendolyn», disse Charlotte. Per qualche motivo la sua compassione non sembrava autentica. «Però bisogna ammettere che ha delle capacità anche lei.» Oh. Questa era una cosa carina. «Sa spettegolare con le amiche, scrivere SMS e conosce a memoria l’elenco dei film a noleggio. In questo è davvero brava.» No, non era carina. Mi sporsi con cautela oltre l’angolo. «Esatto», confermò Gideon. «Ho pensato anch’io la stessa cosa quando l’ho vista per la prima volta. Ehi, mi mancherai proprio, per esempio durante le nostre ore di scherma.» Charlotte sospirò. «Ci siamo divertiti molto, vero?» «Sì. Ma pensa alle possibilità che hai adesso, Charlotte! Non sai quanto ti invidio. Ora sei libera e puoi fare ciò che vuoi.» «Ma io volevo soltanto ciò che avevo qui.» «Lo dici perché non avevi altra scelta», ribatté Gideon. «Ora hai il mondo davanti: puoi studiare all’estero e fare lunghi viaggi, mentre io non posso allontanarmi per più di un giorno da questo mal... cronografo e trascorro le notti nel 1953. Credimi, non sai quanto vorrei essere al tuo posto!” La porta della sala del drago si aprì di nuovo e Lady Arisa uscì in corridoio insieme a zia Glenda. Ritirai subito la testa. «Se ne pentiranno», dichiarò zia Glenda. «Glenda, per favore! Dopotutto siamo una famiglia», disse Lady Arisa. «Dobbiamo restare uniti.» «Va’ a dirlo a Grace», ribatté zia Glenda. «È stata lei a metterci in questa situazione assurda. Per proteggerla! Ah! Nessuno con un po’ di buonsenso crederebbe a una sola parola! Non dopo tutto quello che è successo. Ma adesso non è più un problema nostro. Vieni, Charlotte.» «Vi accompagno alla macchina», disse Gideon. Leccapiedi! Aspettai che i loro passi scomparissero, poi uscii dal mio nascondiglio. Lady Arisa era sempre in corridoio e si massaggiava la fronte con un dito. Di colpo mi sembrò vecchissima, molto diversa dal solito. Sembrava aver perso tutta la disciplina da ballerina classica e persino i suoi lineamenti erano un po’ in disordine. Provai compassione per lei. «Ciao», le dissi piano. «Tutto a posto?» La nonna si ricompose all’istante. Tutti i bastoni inghiottiti tornarono in posizione a sorreggerla. «Ah, sei tu», disse. Il suo sguardo indagatore si soffermò sul davanti della mia camicetta. «Cos’è quella, una macchia? Bambina mia, devi imparare a curare di più il tuo aspetto.» Se non sono controllati dal cronografo, gli intervalli tra i salti nel tempo variano da gene-portatore a gene-portatore. Con le sue osservazioni il conte di Saint Germain era giunto alla conclusione che i gene-portatori di sesso femminile saltassero con meno frequenza e per meno tempo rispetto a quelli di sesso maschile, ma gli studi odierni non ci permettono più di suffragare tale teoria. Sulla base delle informazioni in nostro possesso, la durata dei salti nel tempo incontrollati varia tra otto minuti e dodici secondi (salto di iniziazione di Timothy de Villiers, 5 maggio 1892) a due ore e quattro minuti (Margret Tilney, secondo salto, 22 marzo 1894). La finestra temporale messa a disposizione dal cronografo per i salti nel tempo va da un minimo di trenta minuti a un massimo di quattro ore. Non è dato sapere se si siano mai verificati salti incontrollati all’interno della propria epoca. Nei suoi scritti il conte di Saint Germain sostiene che ciò non sia possibile a causa del continuum cfr. volume 3, Leggi del continuum). Le impostazioni del cronografo rendono altrettanto impossibile un viaggio all’interno della propria vita. Dalle Cronache dei Guardiani, volume 2, Norme generali 9 La mamma mi abbracciò come se fossi stata via almeno tre anni. Dovetti assicurarle mille volte che stavo bene, prima che smettesse di chiedermelo. «E tu stai bene, mamma?» «Sì, tesoro mio, sto bene.» «Allora stiamo tutti bene», dichiarò Mr de Villiers ironico. «Fa piacere aver chiarito la cosa.» Si avvicinò così tanto a me e alla mamma che riuscivo a sentire il profumo della sua acqua di colonia. (Qualcosa di speziato-fruttato con una punta di cannella. Il mio appetito aumentò all’istante.) «E ora che cosa vogliamo fare, Grace?» I suoi occhi da lupo inchiodarono la mamma. «Ho detto la verità.» «In effetti sì, almeno per quanto riguarda Gwendolyn», confermò Mr de Villiers. «Resterebbe ancora da chiarire come mai la levatrice, a quel tempo tanto disponibile a falsificare il certificato di nascita, proprio oggi sia dovuta partire all’improvviso.» La mamma scrollò le spalle. «Io non darei troppa importanza a ogni minima coincidenza, Falk.» «Trovo altrettanto singolare che tu abbia scelto un parto in casa per una nascita prematura. Qualsiasi donna con un po’ di buonsenso sarebbe andata all’ospedale alle prime avvisaglie delle doglie.» Su questo dovevo dargli ragione. «Fu tutto molto veloce», spiegò la mamma senza batter ciglio. «Fu una fortuna che la levatrice fosse con me.» «Ciò nonostante, con un neonato prematuro, chiunque si sarebbe recato all’ospedale subito dopo il parto, per far visitare il bambino.» «Questo lo abbiamo fatto.» «Sì, ma solo il giorno seguente», precisò Mr de Villiers. «Nel registro dell’ospedale c’è scritto che il neonato fu sottoposto a una visita scrupolosa, ma che la madre rifiutò di farsi visitare. Perché, Grace?» La mamma scoppiò a ridere. «Credo che mi capiresti un po’ meglio se tu stesso avessi dato alla luce un figlio e avessi superato qualche dozzina di visite ginecologiche. Stavo benissimo, volevo sapere soltanto se la bambina era a posto. Quello che mi sorprende è come tu sia riuscito a consultare con tanta rapidità il registro dell’ospedale. Credevo che certe informazioni fossero vincolate dal segreto professionale.» «Se ti va, puoi benissimo denunciare l’ospedale per violazione della privacy», disse Mr de Villiers. «Nel frattempo noi continueremo a cercare la levatrice. A questo punto muoio dalla curiosità di sentire che cos’ha da raccontarci.” La porta si aprì per far entrare Mr George e il dottor White, accompagnati da Mrs Jenkins, che si trascinava appresso una pila di raccoglitori. Dietro di loro entrò Gideon con passo disinvolto. Stavolta mi concessi il tempo di esaminare anche il resto del suo corpo, e non solo la sua bella faccia. Cercavo qualcosa che non mi piacesse, in modo da non sentirmi tanto inadeguata paragonandomi a lui. Purtroppo non trovai niente. Non aveva né le gambe storte (a furia di giocare a polo!), né le braccia troppo lunghe, né le orecchie a sventola (caratteristica che, secondo Leslie, indicava una propensione all’avarizia). Con una scioltezza inimitabile appoggiò il sedere alla scrivania e incrociò le braccia sul petto. L’unica cosa che avrei potuto trovare stupida a questo punto erano i capelli lunghi fino alle spalle. Purtroppo non mi riuscì nemmeno quello. Erano capelli così sani e splendenti che mi domandai mio malgrado come sarebbe stato accarezzarli. Un tale spreco di bellezza era davvero un peccato. «È tutto pronto», annunciò Mr George ammiccando verso di me. «La macchina del tempo è pronta a partire.» Robert, il fantasmino, mi rivolse un timido cenno di saluto. Io lo ricambiai. «Allora siamo d’accordo», disse Mr de Villiers. «Purtroppo Glenda e Charlotte sono dovute andare via. Comunque salutano tutti calorosamente.» «Ci avrei scommesso», commentò il dottor White. «Povera ragazza! Non deve essere stato piacevole soffrire per due giorni di quei sintomi-fantasma», osservò Mr George con una smorfia di compassione sul viso rotondo. «Per non parlare poi della madre che si ritrova», mormorò il dottor White mentre sfogliava uno dei raccoglitori portati da Mrs Jenkins. «Un vero castigo per la poveretta.” «Mrs Jenkins, a che punto è Madame Rossini con il guardaroba di Gwendolyn?» «Credo che abbia appena... vado a chiedere.» Mrs Jenkins uscì velocemente dalla stanza. Mr George si strofinò le mani con aria impaziente. «Allora possiamo partire.» «D’accordo, ma non la metterete in pericolo, vero?» domandò la mamma rivolta a Mr George. «La lascerete fuori da questa storia.» «Di sicuro la lasceremo fuori», disse Gideon. «Faremo di tutto per proteggerla», assicurò Mr George. «Non possiamo lasciarla fuori, Grace», intervenne Mr de Villiers. «Lei è parte di questa storia. Avrebbe dovuto esserti chiaro fin dal principio. Prima di dare inizio a quello stupido gioco di depistaggio.» «Grazie a lei la ragazza è del tutto impreparata e ignara», disse il dottor White. «E questo renderà la nostra missione molto più difficile. Ma è evidente che era proprio questa la sua intenzione.» «La mia intenzione era di non mettere in pericolo Gwendolyn», obiettò la mamma. «Ho già ottenuto molto da solo», osservò Gideon. «Posso benissimo concludere la cosa senza Gwendolyn.» «Era proprio ciò che speravo», dichiarò la mamma. Posso benissimo concludere la cosa senza Gwendolyn. Santo cielo! Con uno sforzo riuscii a soffocare un risolino. Parlava come il protagonista di uno di quei film d’azione idioti nei quali un energumeno muscoloso con lo sguardo malinconico salva il mondo combattendo solo soletto contro un battaglione di centoventi ninja, una flotta di navi spaziali nemiche oppure un intero villaggio di fuorilegge armati fino ai denti. «Vedremo di appurare se c’è un incarico adatto a lei», osservò Mr de Villiers. «Abbiamo il suo sangue», replicò Gideon. «Non ci serve nient’altro di lei. Per quanto mi riguarda può venire qui a trasmigrare quando le pare, e saremo tutti felici e contenti.» Come, prego? Trasmigrare? Sembrava uno di quei termini con cui Mr Whitman si divertiva a confonderci nell’ora di letteratura. « In complesso non male come interpretazione, Gordon, ma la prossima volta devi storicizzare un po’ di più, per favore.» Oppure diceva trasmigrare un po’ di più? Tanto non fregava niente a nessuno, né a Gordon né al resto della classe. A parte Charlotte, naturalmente. Mr George notò la mia espressione perplessa. «Con il termine trasmigrare indichiamo un indirizzamento mirato del tuo potenziale di salto nel tempo, mandandoti nel passato per qualche ora grazie al cronografo. In questo modo evitiamo salti incontrollati.» Si rivolse agli altri. «Sono convinto che, con il passare del tempo, Gwendolyn sorprenderà tutti noi con il suo potenziale. Lei...» «È solo una bambina!» lo interruppe Gideon. «Non sa niente di niente.» Mi sentii arrossire. Perché tanta cattiveria? E con quanto disprezzo mi guardava. Era solo un... giocatore di polo presuntuoso e arrogante! «Non è vero», protestai. Non ero una bambina! Avevo sedici anni e mezzo. La stessa età di Charlotte. Alla mia età Maria Antonietta era già sposata da tempo. (Lo sapevo non grazie alla lezione di storia, bensì dal film con Kirsten Dunst che io e Leslie avevamo guardato in DVD.) E Giovanna d’Arco aveva solo quindici anni quando... «Ah, no?» La voce di Gideon trasudava scherno. «Allora dimmi, che cosa sai per esempio di storia?» «Abbastanza», risposi. Non avevo appena preso un nove al dieci proprio nel compito in classe di storia? «Ne sei sicura? Chi è salito al trono in Inghilterra dopo Giorgio I?» Non ne avevo la più pallida idea. «Giorgio II?» buttai lì. Ah! Sembrava deluso. Forse ci avevo azzeccato. «E quale casa regnante prese il posto degli Stuart nel 1702 e perché?» Accidenti! «Mmm... non ci siamo ancora arrivati», risposi. «Ma certo.» Gideon si rivolse agli altri. «Non sa niente di storia. Non sa nemmeno parlare in maniera adeguata. Dovunque saltassimo, si farebbe notare come un pesce fuor d’acqua. E poi non sa neppure lontanamente di che cosa si tratta. Sarebbe non solo inutile, bensì un pericolo per l’intera missione!» Come, prego? Non sapevo nemmeno parlare in maniera adeguata? In quel momento invece mi venivano in mente alcune parolacce più che adeguate, che gli avrei detto volentieri. «Credo che tu abbia espresso in maniera più che soddisfacente la tua opinione, Gideon», disse Mr de Villiers. «Ora però sarebbe interessante scoprire che cosa ne pensa il conte.» «Non potete farlo.» Era stata mia madre a parlare. La sua voce all’improvviso era strozzata. «Il conte sarà certamente più che felice di conoscerti, Gwendolyn», dichiarò Mr George senza badare alle proteste della mamma. «Il rubino, la dodicesima, l’ultima del cerchio. Il vostro incontro sarà senza dubbio un lieto evento.» «No!» esclamò la mamma. Tutti si girarono a guardarla. «Grace!» disse la nonna. «Non ricominciare!» «No», ripeté la mamma. «Per favore! Non è necessario che lui la conosca. Deve accontentarsi di sapere che con il suo sangue il cerchio è completo.» «Sarebbe stato completo», intervenne il dottor White, che continuava a sfogliare i documenti. «Se non ci fosse toccato ricominciare tutto daccapo dopo il furto.» «Come che sia, non voglio che Gwendolyn lo incontri», dichiarò la mamma. «Sono le mie condizioni. Gideon può farlo da solo.» «La decisione non dipende certo da te», disse Mr de Villiers mentre il dottor White esclamava: «Condizioni! Ma sentitela, vuole porre delle condizioni!» «Ha ragione lei! Non serve a nessuno coinvolgere la ragazza nella faccenda», affermò Gideon. «Spiegherò al conte l’accaduto e sono sicuro che concorderà con me.» «Quantomeno vorrà vederla, per farsi un’opinione su di lei», osservò Falk de Villiers. «Non è pericoloso per lei. Non dovrà neppure uscire di casa.» «Mrs Shepherd, le assicuro che non accadrà niente a Gwendolyn», disse Mr George. «Sono sicuro che la sua opinione sul conte si basa su pregiudizi che sarebbe meglio per tutti dissipare.» «Temo che non sarebbe possibile.» «Di certo vorrai spiegare anche a noi sulla base di quali informazioni detesti il conte, un uomo che non hai mai conosciuto», osservò Mr de Villiers. La mamma strinse le labbra. «Stiamo aspettando!» la incalzò Mr de Villiers. La mamma continuava a tacere. «È soltanto... una sensazione», mormorò alla fine. Mr de Villiers fece un sorriso cinico. «Non posso fare a meno di pensare che tu continui a nasconderci qualcosa, Grace. Che cos’è che ti fa tanta paura?» «Si può sapere chi è questo conte e perché non dovrei incontrarlo?» domandai. «Perché tua madre ha una sensazione strana», rispose il dottor White aggiustandosi la giacca. «Comunque le ricordo che quell’uomo è morto da più di duecento anni, Mrs Shepherd.» «E tale dovrebbe restare», mormorò la mamma. «Il conte di Saint Germain è il quinto dei dodici viaggiatori nel tempo, Gwendolyn», mi spiegò Mr George. «Hai visto il suo ritratto prima nella stanza dell’archivio. È stato il primo a capire il funzionamento del cronografo e a decifrare le antiche scritture. Non scoprì soltanto come viaggiare in un giorno preciso di un anno a sua scelta grazie al cronografo, bensì anche il segreto dietro il segreto. Il segreto dei dodici. Grazie al cronografo riuscì a rintracciare i quattro viaggiatori del tempo a lui precedenti nel cerchio e a renderli partecipi del segreto. Il conte cercò e trovò sostegno presso le menti più brillanti della sua epoca, matematici, alchimisti, maghi, filosofi, tutti rimasero affascinati dalle sue scoperte. Insieme decifrarono le antiche scritture e calcolarono le date di nascita dei sette viaggiatori nel tempo non ancora nati per completare il cerchio. Nel 1745 il conte fondò qui a Londra la Società dei Guardiani, la loggia segreta del conte di Saint Germain.” «L’interpretazione delle antiche scritture è opera di personaggi celebri come Raimundus Lullus, Agrippa von Nettesheim, John Colet, Henry Draper, Simon Forman, Samuel Hartlib, Kenelm Digby e John Wallis», aggiunse Mr de Villiers. Tra quei nomi non ce n’era nessuno che mi dicesse lontanamente qualcosa. «Tra questi nomi non ce n’è nessuno che le dica lontanamente qualcosa», osservò Gideon sprezzante. Cavoli! Possibile che riuscisse a leggere nel pensiero? Nel caso fosse così, lo guardai in cagnesco pensando con tutte le mie forze: stupido presuntuoso! Lui girò la testa di lato. «Isaac Newton però morì nel 1727. Com’è possibile che fosse entrato a far parte dei Guardiani?» Rimasi sorpresa da me stessa, per essermene ricordata. Leslie me lo aveva detto il giorno prima al telefono e per qualche inspiegabile motivo il dato si era impresso nella mia mente. In fondo non ero tanto stupida come affermava il caro Gideon. «Giusta osservazione», confermò Mr George con un sorriso. «È uno dei vantaggi di essere viaggiatori nel tempo. Ci si può scegliere gli amici nel passato.» «Quale sarebbe allora il segreto dietro il segreto?» domandai. «Il segreto dei dodici si rivelerà quando tutti i dodici viaggiatori nel tempo avranno inserito il loro sangue nel cronografo», spiegò Mr George entusiasta. «Per questo è necessario chiudere il cerchio. È la grande missione da compiere.» «Ma, se io sono l’ultima dei dodici, il cerchio dovrebbe essere completo!» «E lo sarebbe», disse il dottor White, «se diciassette anni fa a tua cugina Lucy non fosse venuto in mente di rubare il cronografo.» «Fu Paul a rubarlo», precisò Lady Arisa. «Lucy si limitò...” Mr de Villiers alzò una mano. «Sì, sì, diciamo semplicemente che l’hanno rubato insieme. Due ragazzi indotti in errore... cinque secoli di lavoro gettati al vento. La missione rischiò di fallire e il lascito del conte di Saint Germain si sarebbe perduto per sempre.» «Il lascito è il segreto?» «Per fortuna tra queste mura si trovava un secondo cronografo», spiegò Mr George. «Non era previsto che entrasse in funzione. Giunse in possesso dei Guardiani nel 1757. Era difettoso, era rimasto dimenticato per secoli e derubato delle sue pietre preziose. Con un faticoso e minuzioso lavoro di ricostruzione durato due secoli i Guardiani hanno riportato l’apparecchio...» Il dottor White lo interruppe spazientito: «Per farla breve, venne riparato e risultò funzionante, cosa che ci fu possibile appurare solo quando l’undicesimo viaggiatore nel tempo, per la precisione Gideon, raggiunse l’età per l’iniziazione. Però avevamo perso un cronografo e il sangue di dieci viaggiatori. Ci toccò ricominciare daccapo con il secondo». «Per... mmm... scoprire il segreto dei dodici», dissi. Stavo quasi per dire «rivelare». Cominciavo a sentirmi come se mi avessero fatto il lavaggio del cervello. Per tutta risposta ottenni un soddisfatto cenno d’assenso da parte del dottor White e di Mr George. «Bene, e di quale segreto si tratta?» La mamma scoppiò a ridere. Era del tutto fuori luogo, ma rideva di gusto come faceva Caroline quando guardava Mr Bean alla televisione. «Grace!» sibilò Lady Arisa. «Controllati!» La mamma invece rise ancora più forte. «Il segreto è il segreto del segreto», disse tra i singulti. «È stato sempre così.» «Lo dico sempre io: le femmine sono tutte isteriche!» borbottò il dottor White. «Mi fa piacere che tu riesca a trovare un lato comico in tutta questa storia», osservò Mr de Villiers. La mamma si asciugò le lacrime dagli angoli degli occhi. «Scusate. È stato più forte di me. In realtà avrei voglia di piangere.» Compresi che non sarei riuscita a ottenere ulteriori informazioni circa la natura del segreto. «Che cos’ha di tanto pericoloso questo conte che io non dovrei incontrarlo?» chiesi allora. La mamma si limitò a scuotere la testa, di colpo serissima. Cominciavo a preoccuparmi per lei. Questi sbalzi d’umore non erano nel suo carattere. «Proprio niente», rispose al suo posto il dottor White. «Tua madre teme semplicemente che potresti confrontarti con un patrimonio di idee spirituali contrario ai suoi principi. In ogni caso non spetta a lei decidere dentro queste mura.» «Patrimonio di idee spirituali», ripeté la mamma e stavolta era la sua voce a trasudare ironia. «Non è un po’ pomposo?» «Non ha importanza: lasciamo che sia Gwendolyn a decidere se vuole incontrare o no il conte.» «Solo per un colloquio? Nel passato?» spostai lo sguardo interrogativamente da Mr de Villiers a Mr George e viceversa. «Lui potrebbe rispondere alla mia domanda sul segreto?» «Se vorrà», rispose Mr George. «Lo incontrerai nel 1782. All’epoca il conte era già anziano. E per nostra comodità era venuto in visita qui a Londra. Per una missione strettamente segreta di cui non sono a conoscenza né storici né biografi. Pernottò proprio in questa casa. Per questo sarà molto facile combinare un incontro. Ovviamente Gideon ti accompagnerà.» Gideon borbottò qualcosa di incomprensibile, in cui colsi solo le parole «idiota» e «baby-sitter». Un baby-sitter per idioti? Quanto lo detestavo. «Mamma?» «Di’ di no, tesoro.» «Ma perché?» «Non è ancora il momento.» «Non è ancora il momento per che cosa? Perché non devo incontrare questo conte? Che cos’ha di tanto pericoloso? Dimmelo, mamma.» «Già, diglielo, Grace», la incalzò Mr de Villiers. «Non le piace tutta questa segretezza. Da parte della propria madre credo poi che sia davvero umiliante.» La mamma rimase in silenzio. «Vedi com’è difficile ottenere da lei informazioni veramente utili», disse Mr de Villiers posando i suoi occhi d’ambra su di me. La mamma continuava a tacere. Avrei voluto scuoterla. Falk de Villiers aveva ragione: con le sue assurde allusioni non mi era proprio di nessun aiuto. «Vorrà dire che lo scoprirò da sola», dichiarai. «Voglio incontrarlo.» Non so che cosa mi avesse preso all’improvviso, ma tutt’a un tratto non mi sentivo più come una bambinetta di cinque anni che avrebbe voluto correre a casa per nascondersi sotto il letto. Gideon sbuffò. «Grace, hai sentito anche tu», disse Mr de Villiers. «Ti suggerirei di tornare a Mayfair e di prendere un tranquillante. Riporteremo Gwendolyn a casa quando... avremo finito con lei.» «Non la lascio sola», bisbigliò la mamma. «Caroline e Nick stanno per tornare da scuola, mamma. Vai pure senza problemi. So badare a me stessa.» «No che non lo sai fare», bisbigliò la mamma. «Ti accompagno io, Grace», si offrì Lady Arisa con una voce sorprendentemente dolce. «Sono qui ininterrottamente da due giorni e ho mal di testa. Abbiamo assistito a una svolta davvero imprevedibile degli eventi... ma ora le cose non sono più nelle nostre mani.» «Parole sante», disse il dottor White. La mamma sembrava sul punto di piangere. «D’accordo”, disse. «Me ne vado. Confido che venga fatto tutto il possibile affinché non accada niente a Gwendolyn.» «E affinché domani possa tornare a scuola puntuale», aggiunse Lady Arisa. «Non può permettersi troppe assenze. Non è come Charlotte.» La guardai allibita. Non avevo più pensato alla scuola. «Dove sono il mio cappello e il mio cappotto?» chiese Lady Arisa. Gli uomini presenti nella sala emisero una specie di sospiro collettivo. Non si udì, ma si vide. «Si occuperà di tutto Mrs Jenkins», assicurò Mr de Villiers. «Vieni, bambina mia», disse Lady Arisa rivolta alla mamma. La mamma esitava. «Grace.» Falk de Villiers le prese la mano e se la portò alle labbra. «Mi ha fatto davvero molto piacere rivederti dopo tutti questi anni.» «Non era passato poi tutto questo tempo», ribatté la mamma. «Diciassette anni.» «Sei», lo corresse la mamma con un tono leggermente offeso. «Ci siamo visti al funerale di mio padre. Ma probabilmente te ne eri dimenticato.» Rivolse un’occhiata a Mr George. «Si prenderà cura di lei?» «Mrs Shepherd, le prometto che Gwendolyn con noi è al sicuro», dichiarò Mr George. «Può fidarsi di me.» «Non ho altra scelta.» La mamma sfilò la mano dalla stretta di Mr de Villiers e si mise la borsetta a tracolla. «Posso scambiare ancora due parole in privato con mia figlia?» «Naturale», rispose Falk de Villiers. «Se vuoi, nella stanza accanto non vi disturberà nessuno.» «Preferirei uscire all’aperto», disse la mamma. Mr de Villiers alzò le sopracciglia. «Temi forse di essere controllata? Attraverso un foro nei quadri?» Scoppiò a ridere. «Ho solo bisogno di un po’ d’aria fresca», replicò la mamma. A quell’ora il giardino non era aperto al pubblico. Alcuni turisti – riconoscibili per le ingombranti macchine fotografiche appese al collo – guardarono invidiosi la mamma aprire il cancello di ferro battuto alto più di due metri e poi richiuderselo alle spalle con il catenaccio. Io rimasi ammirata di fronte alle aiuole rigogliose, al verde vellutato dei prati e al profumo che aleggiava nell’aria. «Hai avuto un’ottima idea», le dissi. «Cominciavo a sentirmi come un proteo.» Rivolsi la faccia verso il sole per catturarne il tepore. Per essere i primi di aprile era molto forte. La mamma si sedette su una panchina di legno e si passò la mano sulla fronte, in un gesto molto simile a quello di Lady Arisa poco prima, solo che nel caso della mamma la faceva apparire vecchissima. «È tutto un incubo», disse. Io mi accomodai accanto a lei. «Già. Si fatica anche solo a pensarlo. Ieri mattina era tutto ancora come prima e all’improvviso... mi sento scoppiare la testa per tutte le cose che il mio cervello ha dovuto elaborare in così poco tempo. Migliaia di piccole informazioni che non vogliono accordarsi tra loro.» «Mi spiace davvero tantissimo», disse la mamma. «Avrei voluto risparmiarti tutto questo.» «Che cosa hai fatto in passato per attirarti la collera di tutti quanti?» «Ho aiutato Lucy e Paul a fuggire», rispose. Si guardò intorno brevemente, come per assicurarsi che nessuno ci stesse ascoltando. «Per un certo periodo sono rimasti nascosti a casa nostra a Durham. Ma naturalmente loro sono venuti a saperlo. E Lucy e Paul sono dovuti fuggire.» Ripensai a tutto quello che avevo appreso quel giorno. E d’un tratto seppi dove si trovava mia cugina. La pecora nera della famiglia non viveva tra gli indigeni dell’Amazzonia, né in un remoto convento di suore in Irlanda, come avevamo sempre immaginato io e Leslie da bambine. No, Lucy e Paul erano da tutt’altra parte. «Si sono rifugiati con il cronografo nel passato, giusto?” La mamma fece un cenno affermativo. «Dopotutto non avevano altra scelta. Però non è stata una decisione facile da prendere per loro.» «Perché?» «Non è consentito portare via il cronografo dalla sua epoca. Chi lo fa non potrà più tornare indietro. Chi si reca nel passato con il cronografo, deve restarci.» Deglutii. «Per quale motivo qualcuno potrebbe decidere di compiere un simile sacrificio?» domandai piano. «Si erano resi conto che nel presente non esisteva un nascondiglio sicuro per loro e il cronografo. I Guardiani prima o poi li avrebbero rintracciati ovunque.» «Ma perché lo hanno rubato?» «Volevano impedire che... il cerchio di sangue si chiudesse.” «Che cosa succede quando il cerchio di sangue si chiuderà?” Per la miseria, cominciavo a parlare come uno di loro. Il cerchio di sangue. Ci mancava solo che mi mettessi pure a parlare in rima. «Senti, tesoro, non abbiamo molto tempo. Anche se adesso loro affermano il contrario, cercheranno sicuramente di coinvolgerti nella loro cosiddetta missione. Hanno bisogno di te per chiudere il cerchio e rivelare il segreto.” «Qual è il segreto, mamma?» Avevo la sensazione di aver ripetuto questa domanda almeno un migliaio di volte. Esplose dentro di me con la veemenza della mia collera. «Anch’io so esattamente quel poco che conoscono gli altri. Posso solo fare supposizioni. Di sicuro è potente e darà grande potere a chi saprà sfruttarlo. Ma il potere nelle mani delle persone sbagliate è molto pericoloso. Per questo Lucy e Paul erano del parere che il segreto non fosse svelato. Per questo hanno compiuto un grande sacrificio.” «Questo l’ho capito. Solo che non riesco a comprendere perché.» «È possibile che alcuni degli uomini là dentro siano animati soltanto da puro spirito scientifico, ma molti altri hanno motivazioni meno rispettabili. So che non si fermeranno davanti a niente pur di raggiungere il loro obiettivo. Non puoi fidarti di nessuno di loro. Di nessuno, Gwendolyn.” Sospirai. Niente di ciò che mi stava dicendo mi risultava anche solo lontanamente utile. Udimmo il rombo di un motore che si fermava davanti al cancello del giardino, anche se il transito delle auto era proibito. «È ora, Grace!» chiamò Lady Arisa da fuori. La mamma si alzò. «Che magnifica serata mi aspetta. Di sicuro le occhiate di Glenda faranno gelare la cena.» «Perché la levatrice è partita proprio oggi? E perché non mi hai partorito in ospedale?» «Dovrebbero lasciare in pace quella povera donna», rispose la mamma. «Grace! Ti decidi a venire?» Lady Arisa colpì l’inferriata con la punta dell’ombrello. «Se non vai via, temo che sarai castigata», dissi. «Mi si spezza il cuore a lasciarti da sola.» «Potrei tornarmene a casa con te», dissi, ma già mentre lo dicevo mi resi conto che non era ciò che volevo. Era esattamente come aveva detto Falk de Villiers: ora facevo parte di quella storia e per qualche motivo la cosa mi piaceva. «Non puoi venire», disse la mamma. «Un altro salto nel tempo incontrollato potrebbe farti del male, persino ucciderti. Se non altro qui sei al sicuro da quel punto di vista.» Mi abbracciò. «Non dimenticare quello che ti ho detto. Non fidarti di nessuno. Neppure del tuo istinto. E guardati dal conte di Saint Germain. Si dice che abbia la capacità di insinuarsi nella mente altrui. Può leggerti nel pensiero e, cosa ancora peggiore, se glielo permetti può controllare la tua volontà.» Mi strinsi forte a lei. «Ti voglio bene, mamma.» Oltre la sua spalla mi accorsi che anche Mr de Villiers era comparso davanti al cancello. Quando si girò, anche la mamma lo vide. «Ti raccomando di non fidarti soprattutto di quello là», mi sussurrò. «È diventato un uomo pericoloso.» Nella sua voce colsi un’inconfondibile nota di meraviglia e, seguendo un impulso inspiegabile, le chiesi: «Hai avuto una storia con lui, mamma?» Compresi di aver colto nel segno dalla sua espressione, prima ancora che mi rispondesse. «Avevo diciassette anni ed ero facilmente impressionabile», disse. «Capisco», replicai con un sorriso. «Certo che ha degli occhi fuori dal comune.» La mamma ricambiò il mio sorriso mentre ci dirigevamo verso il cancello con deliberata lentezza. «Proprio così. Paul aveva gli stessi occhi. Ma al contrario del fratello maggiore non era affatto presuntuoso. Sfido io che Lucy si sia innamorata di lui...» «Mi piacerebbe tanto sapere che fine hanno fatto quei due.» «Temo che prima o poi ci riuscirai.» «Dammi la chiave», disse Falk de Villiers impaziente. La mamma gli porse il mazzo di chiavi attraverso l’inferriata e lui aprì il cancello. «Ho fatto venire un’auto per voi.» «Ci vediamo domattina a colazione, Gwendolyn», disse Lady Arisa prendendomi il viso sotto il mento. «Testa alta! Sei una Montrose e noi manteniamo sempre e comunque un contegno.» «Ci proverò, nonna.» «Ben fatto. Uffa!» Agitò le braccia come se dovesse scacciare delle mosche moleste. «Ma che si credono quelli là? Non sono mica la regina!» Con l’elegante cappello, l’ombrello e il cappotto in tinta, però, aveva un’aria così britannica agli occhi dei turisti che tutti la fotografavano entusiasti. La mamma mi abbracciò un’ultima volta. «Per questo segreto sono già morte diverse persone», mi sussurrò all’orecchio. «Non dimenticarlo.» Con il cuore in tumulto la guardai allontanarsi insieme alla nonna e poi sparire dietro un angolo. Mr George mi strinse una mano. «Non avere paura, Gwendolyn. Non sei sola.» Esatto, non ero sola. Ero insieme a persone di cui non potevo fidarmi. Di nessuno di loro, aveva detto la mamma. Guardai gli occhi simpatici di Mr George cercandovi dentro qualcosa di pericoloso, di inquietante. Ma non scoprii nulla. Non fidarti di nessuno. Neppure del tuo istinto. «Vieni, rientriamo. Devi mettere qualcosa nello stomaco.” «Spero che il breve colloquio con tua madre sia stato illuminante per te», disse Mr de Villiers mentre salivamo le scale. «Proverò a indovinare: ti ha messo in guardia da noi. Siamo tutti senza scrupoli e bugiardi, giusto?» «Questo di sicuro lei lo sa meglio di me», risposi. «In realtà abbiamo parlato della storia che avete avuto in passato lei e mia madre.» Mr de Villiers alzò le sopracciglia colto di sorpresa. «Te lo ha detto lei?» In effetti sul suo viso comparve un’espressione simile all’imbarazzo. «Sì, certo, ma è passato tanto tempo. Ero giovane e...» «... facilmente impressionabile», conclusi io. «È quello che ha detto anche la mamma.» Mr George scoppiò in una fragorosa risata. «Già, è vero! Me n’ero completamente dimenticato. Tu e Grace Montrose eravate proprio una bella coppia, Falk. Anche se durò solo tre settimane. Poi, in occasione di quel ballo di beneficenza a Holland House, ti ha spiaccicato una fetta di torta al cioccolato sulla camicia dicendo che non voleva più rivolgerti la parola.» «Era una torta di lamponi», precisò Mr de Villiers ammiccando verso di me. «In realtà voleva buttarmela in faccia. Per fortuna mi prese sulla camicia. La macchia non è più andata via. E solo perché era gelosa di una ragazza di cui non ricordo neppure più il nome.» «Larissa Crofts, figlia del ministro delle Finanze», precisò Mr George. «Dici sul serio?» Mr de Villiers sembrava sinceramente sorpreso. «Quello attuale o quello dell’epoca?» «Quello dell’epoca.» «Era carina?» «Incantevole.» «In ogni caso Grace mi aveva spezzato il cuore, perché si era messa con un ragazzo della scuola. Il suo nome invece me lo ricordo bene.» «Ci credo. Gli avevi rotto il naso e i suoi genitori per poco non ti denunciarono», disse Mr George. «È tutto vero?» Io ero affascinata. «Fu un incidente», spiegò Mr de Villiers. «Giocavamo nella stessa squadra di rugby.» «Che te ne pare, Gwendolyn? Sono storie incredibili, vero?» Mr George rideva ancora mentre apriva la porta della sala del drago. «Può ben dirlo.» Mi bloccai alla vista di Gideon seduto al tavolo al centro della stanza. Lui mi guardò aggrottando la fronte. Mr de Villiers mi sospinse dentro. «Non c’era niente di serio», disse. «Le storie d’amore tra i de Villiers e i Montrose non sono mai nate sotto una buona stella. Si potrebbe quasi dire che sono destinate al fallimento fin dal principio.” «Credo che questo avvertimento sia del tutto superfluo, zio», disse Gideon incrociando le braccia sul petto. «Lei non è affatto il mio tipo.» Con «lei», ovviamente, si riferiva a me. Impiegai un paio di secondi per registrare l’insulto. Il mio primo impulso fu di replicare con qualcosa del tipo: «Nemmeno a me piacciono i boriosi arroganti», oppure: «Oh, che sollievo. Ho già il ragazzo. Uno che conosce la buona educazione». Poi però decisi di tenere la bocca chiusa. Okay, non ero il suo tipo. E allora? Chi se ne fregava. Per me era la stessa identica cosa. Dagli Annali dei Guardiani 4 agosto 1953 Ricevuta oggi una esaltante visita dal futuro. L’undicesimo nel cerchio dei dodici, Gideon de Villiers, in futuro trasmigrerà ogni notte per tre ore da noi. Gli abbiamo preparato un giaciglio nello studio di Sir Walters. Lì si sta freschi e tranquilli e il giovane sarà protetto da sguardi indiscreti e domande inopportune. Durante la sua visita odierna, diversi liceali in servizio sono passati «casualmente» da qui. E, casualmente, avevano tutti qualche domanda sul futuro. Il giovane ha consigliato l’acquisto di azioni Apple, anche se nessuno sa che cosa possano essere. Robert Peel, cerchia interna 10 «Mantello: velluto veneziano con fodera di taffetà di seta. Vestito: lino tedesco stampato, pizzo del Devonshire, corsetto di broccato di seta ricamato.» Madame Rossini depose sul tavolo con cura un capo alla volta. Dopo mangiato, Mrs Jenkins mi aveva portato di nuovo nella sartoria. L’ambiente circoscritto mi piaceva molto di più della solenne sala da pranzo, era pieno di tessuti meravigliosi e Madame Rossini, con il suo collo da tartaruga, era forse l’unica persona nei confronti della quale neppure la mamma aveva pronunciato una parola ostile. «Il tutto di una tinta blu polvere con rifiniture color crema, un elegante completo da pomeriggio», proseguì. «Per finire, scarpe di broccato di seta intonate. Molto più comode di quanto appaiano. Per fortuna tu e lo spaventapasseri avete lo stesso numero di piede.» Spostò la mia uniforme scolastica, usando la punta delle dita. «Uffa, uffa, uffa, questa roba fa somigliare anche la ragazza più bella a uno spaventapasseri. Se almeno fosse possibile accorciare la gonna a una lunghezza di moda. Ah, e questo orribile giallo pipì! Chi l’ha concepito deve proprio odiare gli studenti dal profondo del cuore!» «Posso tenere almeno la biancheria?» «Soltanto le mutandine», rispose Madame Rossini. «Non sono autentiche, ma nessuno ti guarderà sotto la gonna. E, anche se lo facesse, tu prendilo a calci, in modo che gli passi la voglia di sentire e vedere. Anche se non sembra, queste scarpette hanno la punta rinforzata in ferro. Sei andata in bagno? È importante, perché con il vestito addosso diventerà complicato...» «Sì, me lo ha già chiesto tre volte, Madame Rossini.» «Voglio solo essere sicura.» Continuavo a sorprendermi di come tutti si occupassero di me e prendessero in considerazione anche i minimi dettagli. Dopo mangiato, Mrs Jenkins mi aveva porto una trousse da bagno nuova fiammante perché mi lavassi i denti e il viso. Mi ero aspettata che il busto mi togliesse il respiro, facendomi schizzare fuori dallo stomaco la cotoletta di vitello, e invece era incredibilmente comodo. «E io che pensavo che le donne svenissero per quanto erano strizzate.» «In effetti succedeva. Primo, perché lo stringevano troppo. E poi perché l’aria era mefitica, dato che nessuno si lavava e tutti si profumavano», spiegò Madame Rossini rabbrividendo all’idea. «Nelle parrucche si annidavano pidocchi e zecche e da qualche parte ho letto che a volte ci si infilavano persino i topi. Ah, la moda più bella di tutti i tempi, ma di certo non l’epoca giusta per l’igiene. Tu non indossi un busto come quelle povere creature, bensì una creazione originale à la Madame Rossini, comoda come una seconda pelle.» «Capisco.» Ero molto eccitata quando mi infilai la crinolina con il cerchio rigido. «Sembra di portarsi dietro un’enorme gabbia per uccellini.» «Questo non è niente», mi garantì Madame Rossini, mentre mi infilava con cautela l’abito dalla testa. «Questa crinolina è molto stretta, a paragone di quelle di moda a Versailles nella stessa epoca. Quattro metri e mezzo di diametro, sul serio. E poi la tua non è fatta di stecche di balena, ma di fibra di carbonio ultraleggera. Tanto non la vede nessuno.» Tutt’intorno a me si gonfiò una nuvola di stoffa azzurra con tralci fioriti color crema, molto indicata anche come rivestimento per divani. Tuttavia, dovevo riconoscere che, nonostante la lunghezza e la mostruosa ampiezza, l’abito era proprio comodo e mi stava davvero a pennello. «Incantevole», disse Madame Rossini, sospingendomi verso lo specchio. «Oh», esclamai sorpresa. Chi avrebbe mai immaginato che un tessuto da tappezzeria potesse risultare tanto bello? E io insieme a lui. Che vita sottile, che occhi azzurri. Acc... ! Solo il mio décolleté somigliava a quello di una cantante lirica poco prima di esplodere. «Bisogna aggiungere ancora del pizzo», spiegò Madame Rossini che aveva seguito il mio sguardo. «Dopotutto è un abito da pomeriggio. Di sera invece bisogna mostrare ciò che si ha. Spero davvero che avremo il piacere di preparare un abito da ballo per te! Ora pensiamo all’acconciatura.” «Mi metterò una parrucca?» «No», rispose Madame Rossini. «Sei una ragazza ancora giovane ed è pomeriggio. Basta pettinare con garbo i capelli e portare un cappello. La tua pelle è perfetta così. È di alabastro purissimo. E quella graziosa voglia a forma di mezzaluna sulla tempia può benissimo essere scambiata per un neo di bellezza. Très chic.» Madame Rossini mi arricciò i capelli con il ferro caldo, poi mi lisciò la parte anteriore fissandola abilmente con delle forcine e lasciò ricadere in morbidi boccoli sulle spalle il resto della chioma. Mi guardai allo specchio e rimasi ammirata da me stessa. Mi ricordai la festa in costume dell’anno precedente, quella organizzata da Cynthia. In mancanza di un’idea più brillante, c’ero andata vestita da fermata dell’autobus e alla fine della serata mi sarei data volentieri la locandina sulla testa, perché tutti avevano continuato a chiedermi l’orario delle corse. Ah! Se avessi conosciuto Madame Rossini allora! Sarei stata la star della serata. Mi rigirai ancora una volta incantata davanti allo specchio, ma poi fui richiamata all’ordine quando Madame Rossini ricomparve alle mie spalle e mi sistemò in testa il cappello. Era un enorme coso di paglia con piume e nastri azzurri e a mio parere rovinava irrimediabilmente tutto l’insieme. Cercai di convincere Madame Rossini a lasciarlo perdere, ma lei fu irremovibile. «Senza cappello no, no, non va! Non è un concorso di bellezza, ma chérie. Qui si tratta di rispettare l’autenticità.” Cercai il cellulare nella tasca dell’uniforme. «Può almeno farmi una foto senza cappello?» Madame Rossini scoppiò a ridere. «Bien sûr, tesoro!» Mi misi in posa e Madame Rossini mi fece almeno una trentina di foto, da tutte le angolazioni, alcune delle quali con il cappello. Leslie avrebbe avuto qualcosa di cui ridere. «Bene, a questo punto avviso quelli di sopra che sei pronta. Aspettami qui e non toccare più il cappello! È perfetto così.» «Sì, Madame Rossini», risposi ubbidiente. Era appena uscita dalla porta che subito composi il numero di Leslie e le inviai una delle foto con cappello per MMS. Mi chiamò quattordici secondi dopo. Grazie al cielo la copertura telefonica nella stanza di Madame Rossini era ottima. «Sono sull’autobus», mi gridò Leslie all’orecchio, «ma ho con me blocnotes e matita. Devi parlare più forte, perché accanto a me ci sono due indiane sorde che parlano tra loro, purtroppo non a gesti!» Le feci un breve riassunto di tutto ciò che era accaduto e cercai di spiegarle in poche parole dove mi trovavo e cosa aveva detto mia madre. Nonostante il mio racconto piuttosto confuso, Leslie parve seguirmi. Continuava a ripetere alternativamente «che figata» e «fa’ attenzione!» Quando le descrissi Gideon (volle sapere ogni dettaglio), commentò: «In fondo non ho mai trovato i capelli lunghi così negativi. Possono essere anche sexy. Pensa a Il destino di un cavaliere. Però controllagli le orecchie». «Tanto non ha nessuna importanza. È presuntuoso e arrogante. E poi è innamorato di Charlotte. Ti sei segnata la pietra filosofale?» «Sì, mi sono scritta tutto. Non appena arrivo a casa mi butterò su Internet. Il conte di Saint Germain, perché il suo nome mi risulta così familiare? Potrebbe essere che fosse citato in qualche film? No, quello è il conte di Montecristo.” «E se sapesse veramente leggere nel pensiero?» «Allora ti converrà pensare a qualcosa di innocuo. Oppure ti metti a contare all’indietro da mille. Ma saltando di otto in otto. Vedrai che non potrai pensare ad altro.» «Potrebbero arrivare da un momento all’altro. Ora chiudo. Ah, vedi se riesci a trovare qualcosa su un bambino di nome Robert White, annegato diciotto anni fa in una piscina.» «Scritto», disse Leslie. «Accidenti, che figata. Avremmo dovuto procurarti un coltello a serramanico, oppure uno spray al pepe... senti, sai una cosa? Portati almeno il cellulare.» Mi avvicinai alla porta inciampando nell’abito e gettai un’occhiata circospetta nel corridoio. «Nel passato? Credi che potrei chiamarti da lì?» «Ma va’, che dici! Però puoi fare delle foto, che ci saranno d’aiuto. Ah, e ne vorrei anche una di questo Gideon. Se possibile con le orecchie. Le orecchie dicono tantissime cose di una persona. Soprattutto i lobi.» Sentii dei passi che si avvicinavano. Chiusi lentamente la porta. «Ci siamo. A più tardi, Leslie.» «Stai attenta», fece in tempo a dirmi, prima che io richiudessi il cellulare e lo lasciassi scivolare dentro la scollatura. Il piccolo incavo sotto il seno aveva giusto le dimensioni adatte a un cellulare. Che cosa ci custodivano mai le dame di un tempo? Boccette di veleno, revolver (minuscoli), lettere d’amore? La prima cosa che mi passò per la testa quando Gideon entrò nella stanza fu: perché lui non porta il cappello? La seconda fu: com’è possibile che uno con un panciotto rosso marezzato, pantaloni alla zuava verde scuro e calze di seta a righe possa risultare bello? Se pensai qualcos’altro al massimo fu una cosa del tipo: speriamo che non mi si legga in faccia ciò che penso. Due occhi verdi mi guardarono fugacemente. «Bel cappellino.» Idiota. «Splendida», disse Mr George entrando nella stanza da cucito dopo di lui. «Madame Rossini, avete fatto un lavoro eccezionale.» «Sì, lo so», riconobbe Madame Rossini. Era rimasta in corridoio. La sartoria non era abbastanza grande per ospitarci tutti, il mio abito da solo occupava metà del pavimento. Gideon si era legato i riccioli sulla nuca e io colsi al volo l’occasione di vendicarmi. «Ma che bel nastro di velluto», commentai con tutta l’ironia che riuscii a manifestare. «La nostra prof di geografia ne porta sempre uno identico.” Invece di lanciarmi un’occhiataccia, Gideon sorrise. «Il nastro non è niente. Dovresti vedermi con la parrucca.» Lui non lo sapeva, ma io l’avevo già visto una volta. «Monsieur Gideon, le avevo preparato dei pantaloni giallo limone, non quelli scuri.» Quando era arrabbiata, Madame Rossini parlava con un accento straniero più marcato. Gideon si girò verso di lei. «Calzoni gialli con panciotto rosso, calze a righe da Pippi Calzelunghe e un cappotto marrone con bottoni dorati? Mi sembrava un po’ troppo vistoso.» «L’uomo del rococò veste vistoso!» Madame Rossini gli scoccò un’occhiata severa. «E qui sono io l’esperta, non lei.» «Certo, Madame Rossini», rispose Gideon cortese. «La prossima volta le darò retta.» Gli esaminai le orecchie. Non erano per niente a sventola né possedevano altre caratteristiche appariscenti. La cosa mi sollevò quasi. Anche se naturalmente non aveva la minima importanza. «Dove sono i guanti gialli scamosciati?» «Oh, ho pensato che, non indossando i calzoni, potevo lasciare perdere anche quelli.» «Ma certo!» Madame Rossini schioccò la lingua. «Mi compiaccio del suo buon gusto in fatto di moda, giovanotto. Ma qui non si tratta di gusto, bensì di autenticità. E, a parte tutto il resto, ho prestato la massima attenzione affinché tutti i colori scelti si accordassero al suo viso, caro il mio ingrato giovanotto.» Ci sfilò davanti brontolando. «La ringrazio davvero molto, Madame Rossini», le dissi. «Figurati, mio collo-di-cigno! È stato un piacere. Se non altro tu sai apprezzare il mio lavoro.» Mi venne da sorridere. Mi piaceva essere chiamata collo-di-cigno. Mr George mi rivolse un cenno ammiccante. «Se vuole seguirmi, Miss Gwendolyn.» «Prima bisogna bendarle gli occhi», osservò Gideon allungando la mano per sfilarmi il cappello dalla testa. «Il dottor White è irremovibile su questo», spiegò Mr George con un sorriso pieno di rammarico. «Ma così le rovinerete l’acconciatura!» Madame Rossini allontanò le dita di Gideon. «Tiens! Vuole proprio strapparle i capelli? Non ha mai sentito parlare di spilloni per cappelli? Ecco!» Porse cappello e spillone a Mr George. «Faccia attenzione!» Gideon mi bendò gli occhi con un panno nero. Quando la sua mano mi sfiorò la guancia, trattenni il fiato per un impulso automatico e non potei fare a meno di arrossire. Per fortuna lui non poteva accorgersene perché mi stava alle spalle. «Ahia!» esclamai quando alcuni capelli rimasero impigliati nel nodo. «Scusa. Vedi qualcosa?» «No.» Davanti ai miei occhi c’era solo buio. «Perché non posso vedere dove andiamo?» «Non ti è permesso conoscere l’esatta collocazione del cronografo», rispose Gideon. Mi posò una mano sulla schiena e mi spinse. Era davvero una strana sensazione essere condotta alla cieca nel vuoto, e la mano di Gideon mi irritava ulteriormente. «Trovo che sia una precauzione del tutto superflua. Questa casa è un vero labirinto. Non riusciresti mai a ritrovare la stanza, neanche se lo volessi. E comunque Mr George ritiene che tu sia al di sopra di qualunque sospetto per quanto riguarda un possibile tradimento.” Era carino da parte di Mr George, anche se non capivo bene che cosa dovesse significare. Chi poteva avere interesse a conoscere la collocazione del cronografo, e perché? Sbattei con la spalla contro qualcosa di duro. «Ahia!» «La prenda per mano, Gideon, razza di maleducato», disse Mr George un po’ alterato. «Non è mica un carrello della spesa.» Sentii una mano calda e asciutta stringere la mia e sussultai. «Tranquilla», disse Gideon. «Sono io. Adesso scendiamo qualche gradino. Fa’ attenzione.» Proseguimmo affiancati in silenzio per un po’, in piano, in discesa, oltre una svolta, e io ero concentrata soprattutto a impedire alla mia mano di tremare. O di sudare. Non volevo che Gideon pensasse che la sua vicinanza mi creasse imbarazzo. Chissà se si era accorto di come mi batteva forte il cuore? E poi il mio piede destro finì nel vuoto e io barcollai e sarei caduta se Gideon non mi avesse afferrato con entrambe le mani riportandomi al sicuro sul pavimento. Mi teneva abbracciata per la vita. «Attenta, gradino», disse. «Ah, grazie, me n’ero accorta pure io», replicai stizzita. «Quando mi sono storta la caviglia!» «Per amor del cielo, Gideon. Stia attento», lo rimproverò Mr George. «Ecco, lei prenda il cappello. Io aiuto Gwendolyn.» Accompagnata dalla mano di Mr George mi risultò più facile camminare. Forse perché riuscivo a concentrarmi meglio sui passi anziché sulla mano. La nostra passeggiata durò una mezza eternità. E di nuovo provai la sensazione di inoltrarmi nelle viscere della Terra. Quando finalmente ci fermammo, non potei fare a meno di sospettare che mi avessero fatto fare qualche deviazione per confondermi. Sentii una porta che si apriva e si richiudeva, poi finalmente Mr George mi tolse la benda dagli occhi. «Eccoci arrivati.» «Bello come un mattino di primavera», disse il dottor White. Però lo disse rivolto a Gideon. «Grazie!» Gideon fece un piccolo inchino. «È l’ultima moda di Parigi. In realtà avrei dovuto indossare calzoni e guanti gialli, ma non ce l’ho proprio fatta.» «Madame Rossini è infuriata per questo», disse Mr George. «Gideon!» esclamò Mr de Villiers in tono di rimprovero, dopo essere spuntato alle spalle del dottor White. «Calzoni gialli, zio Falk!» «Non devi mica vedere i tuoi compagni di scuola, che ti prendono in giro», osservò Mr de Villiers. «No», ribatté Gideon gettando il mio cappello su un tavolo. «Vedrò solo tipi che portano giacche rosa ricamate e le trovano terribilmente chic.» Si diede una scrollata. Dopo essermi abituata alla luce abbagliante, mi guardai intorno con curiosità. Era una stanza senza finestre, com’era da aspettarsi, e non c’era neppure il camino. Cercai invano una macchina del tempo. Vidi soltanto un tavolo, qualche sedia, un baule, un armadio e un motto latino inciso nella pietra e appeso al muro. Mr de Villiers mi sorrise benevolo. «L’azzurro ti dona molto, Gwendolyn. Madame Rossini ha fatto un lavoro splendido con i tuoi capelli.» «Mmm... grazie.» «Vediamo di sbrigarci, sto morendo di caldo con questi vestiti.» Gideon scostò di lato il pastrano, rivelando una spada appesa alla cintura. «Vieni qui.» Il dottor White si avvicinò al tavolo e svolse da un panno di velluto rosso un oggetto che a prima vista somigliava a un grosso orologio da camino. «Ho già preparato tutte le regolazioni. Avete a disposizione una finestra temporale di tre ore.» Guardando meglio vidi che non era un orologio, bensì un bizzarro apparecchio di legno lucido e metallo pieno di pulsanti, sportellini, rotelle. Tutte le superfici erano decorate con miniature di sole, luna e stelle e ricoperte di segni e lettere misteriose. Era bombato come una custodia da violino e incastonato di pietre preziose scintillanti, talmente grosse che di sicuro non potevano essere vere. «Quello sarebbe il cronografo? Così piccolo?» «Pesa quattro chili e mezzo», disse il dottor White, con lo stesso orgoglio di un padre che parla del peso del figlio appena nato. «E – prima che tu me lo chieda – le pietre che vedi sono tutte autentiche. Questo rubino da solo ha sei carati.» «Gideon andrà per primo», disse Mr de Villiers. «La parola d’ordine?» «Qua redit nescitis», recitò Gideon. «Gwendolyn?» «Sì?» «La parola d’ordine!» «Che parola d’ordine?» «Qua redit nescitis», disse Mr de Villiers. «La parola d’ordine dei Guardiani per questo 24 settembre.» «Ma oggi è il 6 aprile.» Gideon alzò gli occhi al cielo. «Viaggeremo fino al 24 settembre, sempre tra queste mura. Per evitare che i Guardiani ci mozzino la testa, dobbiamo conoscere la parola d’ordine. Qua redit nescitis. Ripeti!» «Qua redit nescitis», ripetei. Non sarei mai riuscita a ricordarmela per più di un secondo. Ecco, l’avevo già dimenticata. Chissà, magari potevo scrivermela su un foglietto? «Che cosa significa?» «Ma scusa, non studi latino a scuola?» «No», risposi. Studiavo francese e tedesco ed era più che abbastanza. «‘Voi non conoscete l’ora del suo ritorno’», disse il dottor White. «Una traduzione molto libera», osservò Mr George. «Si potrebbe dire anche: ‘Voi non sapete quando...’» «Signori!» Mr de Villiers indicò con aria eloquente il suo orologio da polso. «Non abbiamo molto tempo. Sei pronto, Gideon?» Gideon porse la mano al dottor White. Questi aprì uno sportellino del cronografo e infilò l’indice di Gideon nell’apertura. Si sentì una specie di ronzio, quasi una melodia, mentre dentro l’apparecchio gli ingranaggi si mettevano in movimento. Come in un carillon. Una delle pietre preziose, un gigantesco diamante, si illuminò improvvisamente dall’interno e diffuse una luce bianca e limpida sul viso di Gideon. Nello stesso istante lui scomparve. «Che figata», bisbigliai impressionata. «Puoi ben dirlo», concordò Mr George. «Ora tocca a te. Mettiti esattamente qui.» «E ricorda quello che ti abbiamo detto», proseguì il dottor White. «Farai tutto ciò che ti dice Gideon. Restagli sempre vicino, qualunque cosa accada.» Mi prese la mano e infilò il mio dito indice nell’apertura di uno sportellino. Qualcosa di appuntito mi bucò il polpastrello e io sussultai indietreggiando. «Ahia!» Il dottor White mi tenne la mano saldamente premuta contro l’apertura del cronografo. «Non muoverti!» Stavolta fu una grossa pietra rossa a illuminarsi. Una luce rossa si diffuse e mi accecò. L’ultima cosa che vidi fu il mio ingombrante cappello, dimenticato sul tavolo. Poi tutt’intorno a me si fece buio. Una mano mi afferrò per una spalla. Accidenti, com’era quella stupida parola d’ordine? Qua ciripà ciripitis. «Sei tu, Gideon?» bisbigliai. «Chi altri?» rispose lui sottovoce, lasciando la mia spalla. «Brava, non sei caduta!» Accese un fiammifero e un attimo dopo la stanza fu rischiarata da una torcia. «Ganzo. Ti eri portato dietro anche questa?» «No, era già qui. Prendila tu.» Quando afferrai la torcia, fui contenta di essermi dimenticata quello stupido cappello. Con le sue enormi piume sospese, si sarebbe incendiato in un batter d’occhio e allora mi sarei trasformata anch’io in una bella fiaccola umana. «Fai piano», disse Gideon, anche se non mi ero mossa di un millimetro. Aveva aperto la porta (si era portato dietro la chiave, oppure l’aveva trovata nella serratura? Non ci avevo fatto caso) e si era affacciato per guardare nel corridoio. Era buio pesto. «C’è puzzo di marcio», dissi. «Sciocchezze. Vieni!» Gideon richiuse a chiave la porta alle nostre spalle, mi tolse la fiaccola e avanzò nel corridoio buio. Io lo seguii. «Hai intenzione di bendarmi di nuovo?» gli chiesi metà per scherzo e metà sul serio. «È buio pesto, comunque non riconosceresti niente», rispose Gideon. «Ragione di più per restarmi vicina. Entro tre ore al massimo dobbiamo tornare qua sotto.» Ragione di più perché anch’io sapessi la strada. Come me la sarei cavata se gli fosse successo qualcosa, oppure se ci fossimo separati? Decisamente non era un buon piano lasciarmi così all’oscuro. Però mi morsi la lingua. Non avevo voglia di litigare proprio adesso con Mr So-tutto-io. C’era puzzo di muffa, molto più forte che alla nostra epoca. Sino a che anno eravamo risaliti? Era un odore davvero singolare, come se ci fosse qualcosa lasciato a putrefarsi lì sotto. Non so perché, ma mi vennero in mente i topi. Nei film i lunghi corridoi bui e le fiaccole erano sempre accompagnati da topi! Orribili ratti neri, con gli occhi che luccicavano al buio. Oppure topi morti. Ah già, e poi c’erano i ragni. Anche i ragni facevano parte dell’insieme. Mi sforzai di non superare le pareti e di non immaginare i grossi ragni che si aggrappavano all’orlo del mio abito e risalivano lentamente all’interno per arrampicarsi sulle mie gambe nude... Mi concentrai invece a contare i passi sino a ogni svolta. Dopo quarantaquattro passi si girava a destra, dopo cinquantacinque a sinistra, poi ancora a sinistra fino a raggiungere una scala a chiocciola che saliva. Mi sollevai la gonna il più in alto possibile, per riuscire a stare al passo con Gideon. Da qualche parte in alto c’era una luce, che diventò sempre più forte man mano che salivamo, finché ci ritrovammo in un ampio corridoio rischiarato da molte fiaccole fissate al muro. In fondo al corridoio si apriva una grande porta, fiancheggiata ai lati da due armature equestri, arrugginite come alla nostra epoca. Per fortuna non mi parve di scorgere ratti, anche se avevo l’impressione di essere osservata. Più ci avvicinavamo alla porta più tale sensazione aumentava. Mi guardai intorno, ma il corridoio era vuoto. Quando una delle armature mosse di scatto il braccio puntandoci addosso una lancia (o qualunque cosa fosse) con aria minacciosa, mi bloccai trattenendo il fiato. Ora sapevo chi ci aveva osservato. Una voce metallica dentro l’armatura pronunciò un «Alt!» del tutto superfluo. Sentii un grido di terrore risalirmi in gola, ma ancora una volta dalla mia bocca non uscì neppure un suono. In effetti avevo compreso abbastanza velocemente che non era stata l’armatura a muoversi e parlare, bensì la persona che ci stava dentro. Anche l’altra armatura sembrava animata. «Dobbiamo parlare al Maestro», disse Gideon. «Si tratta di una faccenda molto urgente.» «Parola d’ordine», disse la seconda armatura. «Qua redit nescitis», recitò Gideon. Ah, sì, giusto. Per un attimo rimasi sinceramente ammirata. L’aveva imparata sul serio. «Potete passare», disse la prima armatura aprendoci addirittura la porta. Oltre l’uscio si diramava un altro corridoio, anch’esso rischiarato da fiaccole. Gideon infilò la nostra in un sostegno a muro e avanzò a passo svelto. Io lo seguii con la velocità che la crinolina mi permetteva. Ormai ero quasi senza fiato. «Sembra di essere in un film dell’orrore. Che spavento. Pensavo che quei cosi fossero solo decorativi! Voglio dire, le armature non sono più moderne neppure nel XVIII secolo, no? E nemmeno troppo utili, secondo me.» «Le sentinelle le portano per tradizione», mi spiegò Gideon. «Anche alla nostra epoca è lo stesso.» «Ma io non ho visto nessuna sentinella con l’armatura.” Poi però mi ricordai che forse qualcuna l’avevo vista. Avevo soltanto creduto che dentro non ci fosse il cavaliere. «Muoviti», mi incalzò Gideon. Facile parlare per lui, non doveva trascinarsi dietro una gonna larga quanto una tenda canadese. «Chi è il Maestro?» «L’Ordine è presieduto dal Gran Maestro. A quest’epoca ovviamente è il conte in persona. L’Ordine è ancora giovane, è stato fondato solo da trentasette anni. Anche in seguito furono spesso membri della famiglia de Villiers a ricoprire la carica.» Questo significava forse che il conte di Saint Germain apparteneva alla famiglia de Villiers? Ma allora perché si chiamava Saint Germain? «E oggi? Cioè, alla nostra epoca? Chi è il Gran Maestro?” «Attualmente è mio zio Falk», rispose Gideon. «Ha preso il posto di tuo nonno, Lord Montrose.» «Non mi dire.» Il mio caro nonno, sempre di buonumore, Gran Maestro della loggia segreta del conte di Saint Germain! E io che avevo sempre pensato che fosse totalmente succube di mia nonna. «Che ruolo occupa Lady Arisa nell’Ordine?» «Nessuno. Le donne non possono far parte della loggia. I parenti stretti dei membri della cerchia suprema entrano a far parte automaticamente della cerchia esterna degli iniziati, ma non hanno nessuna voce in capitolo.» Chiaro. Forse il suo modo di trattarmi era una caratteristica innata dei de Villiers? Una specie di difetto genetico, che li induceva a dimostrare nei confronti delle donne soltanto un sorrisetto sprezzante? Tuttavia dovevo riconoscere che con Charlotte era stato molto cortese. E anche in quel momento si stava comportando in maniera quantomeno educata. «Perché chiamate vostra nonna sempre Lady Arisa?» domandò. «Perché non le dite nonna, come fanno tutti gli altri nipoti?» «Perché sì», risposi. «Perché le donne non possono entrare nella loggia?» Gideon allungò il braccio verso di me e mi sospinse dietro di sé. «Chiudi la bocca per un po’.» «Come, scusa?» In fondo al corridoio c’era un ampio scalone, inondato di luce naturale proveniente dall’alto, ma prima che potessimo raggiungerlo due uomini sbucarono dall’ombra con le spade sguainate, come se ci aspettassero. «Buongiorno», disse Gideon che, diversamente da me, non aveva neppure battuto ciglio. Però aveva posato la mano sull’elsa della spada. «Parola d’ordine!» ordinò il primo dei due. «Siete stati qui anche ieri», disse il secondo facendo un passo avanti, per guardare meglio Gideon. «O forse era vostro fratello minore. La somiglianza è incredibile.» «Questo è il ragazzo che riesce a comparire dal nulla?» chiese l’altro. Entrambi fissarono Gideon a bocca aperta. Erano vestiti in maniera simile a Gideon e Madame Rossini evidentemente ci aveva azzeccato: l’uomo rococò amava i colori. Questi avevano abbinato turchese a fiorellini lilla con rosso e marrone e uno portava veramente una finanziera giallo limone. L’insieme avrebbe dovuto risultare orripilante, eppure aveva qualcosa di originale. Era soltanto un tantino vistoso. Entrambi portavano parrucche che formavano boccoli simili a salsicce sulle tempie e avevano sulla nuca una coda legata con un nastro di velluto. «Diciamo che conosco passaggi di questa casa che a voi non sono noti», disse Gideon con un sorrisetto arrogante. «Io e la mia accompagnatrice dobbiamo parlare con il Maestro. È una questione molto urgente.» «La parola d’ordine?» Quark edit bisquitis. O qualcosa del genere. «Qua redit nescitis», disse Gideon. Ecco, più o meno. Linea di discendenza femminile Dalle Cronache dei Guardiani, volume 4, Il cerchio dei dodici 11 L’uomo con la finanziera gialla rinfoderò la spada. «Seguitemi.» Incuriosita, guardai fuori dalla prima finestra che ci capitò di incontrare. Quello dunque era il XVIII secolo. Cominciai ad avvertire un prurito di eccitazione al cuoio capelluto. La finestra però dava semplicemente su un grazioso cortile interno con una fontana al centro che avevo già visto una volta. Salimmo un’altra scala. Gideon mi cedette il passo. «Sei stato qui anche ieri?» gli chiesi curiosa. Parlavo sottovoce, per non farmi sentire dal giallo che ci precedeva di qualche passo. «Per loro è stato ieri», rispose Gideon. «Per me sono passati due anni.» «Perché sei venuto qui?» «Mi sono presentato al conte e ho dovuto informarlo che il primo cronografo era stato rubato.» «Di certo non ha accolto bene la notizia.» Il giallo fingeva di non ascoltarci, ma si vedeva chiaramente come cercasse di allungare le orecchie sotto i salsicciotti bianchi della parrucca. «L’ha presa meglio di quanto credessi», disse Gideon. «E, dopo lo spavento iniziale, si è rallegrato molto che il secondo cronografo funzionasse e che in questo modo avessimo un’altra possibilità di completare con successo l’impresa.» «Ma, adesso, dov’è il cronografo?» bisbigliai. «Mi riferisco a questo momento di questa epoca.» «Probabilmente da qualche parte in quest’edificio. Il conte non si separa mai a lungo da esso, perché anch’egli è costretto a trasmigrare per evitare salti nel tempo incontrollati.» «Allora perché non possiamo semplicemente prendere il cronografo e portarlo con noi nel futuro?» «Per tutta una serie di buoni motivi», rispose Gideon. Il suo tono di voce era cambiato. Non era più tanto arrogante. In compenso però era diventato condiscendente. «I più importanti sono evidenti. Una delle dodici regole d’oro dei Guardiani rispetto al cronografo recita che il continuum non può essere mai interrotto. Se noi portassimo il cronografo nel futuro, il conte e i viaggiatori del tempo nati dopo di lui sarebbero costretti a cavarsela senza di esso.» «Sì, ma così nessuno potrebbe sgraffignarlo.» Gideon scrollò il capo. «Si capisce che non ti sei mai occupata seriamente del problema della natura del tempo. Esistono serie di eventi che sarebbe molto pericoloso interrompere. Nel caso peggiore potresti anche finire per non nascere mai.» «Ho capito», mentii. Nel frattempo avevamo raggiunto il primo piano, dove trovammo altri due uomini armati di spada con i quali il giallo ebbe un breve scambio sottovoce. Com’era la parola d’ordine? Mi veniva in mente soltanto qua nesquik mosquitos . Dovevo assolutamente trovarmi un altro cervello. I due uomini guardarono Gideon e me con malcelata curiosità e, non appena li superammo, si misero a confabulare. Mi sarebbe piaciuto molto sentire quello che si dicevano. Il giallo bussò a una porta. All’interno c’era un uomo seduto a una scrivania, anche lui con la parrucca – stavolta bionda – e un abbigliamento sgargiante. Sopra il piano della scrivania si era accecati da una finanziera turchese e un panciotto a fiori, sotto la scrivania ammiccavano calzoni al ginocchio rossi e calze a righe. Ormai non mi sorprendevo più. «Signor segretario», annunciò il giallo. «C’è di nuovo quel visitatore di ieri e anche oggi conosce la parola d’ordine...” Il segretario lanciò un’occhiata incredula a Gideon. «Com’è possibile che conosciate la parola d’ordine, dal momento che l’abbiamo cambiata giusto un paio d’ore fa e da allora nessuno è uscito dall’edificio? Tutti gli ingressi sono sorvegliati. E lei chi è? Le donne non possono entrare. » Stavo per dichiarare educatamente il mio nome, ma Gideon mi afferrò per un braccio e mi interruppe. «Dobbiamo parlare con il conte. Si tratta di una questione urgente. Abbiamo fretta.» «Vengono da sotto», spiegò il giallo. «Ma il conte non è in casa», disse il segretario. Era balzato in piedi e agitava le mani. «Possiamo mandare un messaggero per avvisarlo...» «No, dobbiamo parlargli di persona. Non abbiamo tempo di aspettare un messaggero. Dove si trova il conte in questo momento?» «È ospite da Lord Brompton nella sua nuova dimora di Wigmore Street. Un colloquio della massima importanza, che egli ha richiesto subito dopo la vostra visita di ieri.» Gideon imprecò sottovoce. «Ci serve una carrozza che ci porti a Wigmore Street. Subito.» «Questo posso farlo», disse il segretario rivolgendo un cenno al giallo. «Occupatene tu, Wilbour.» «Ma... abbiamo il tempo sufficiente?» domandai pensando al lungo tragitto per tornare nell’ammuffito scantinato. «Per riuscire ad arrivare in carrozza sino a Wigmore Street, ci vorrà...» In Wigmore Street c’era lo studio del nostro dentista. La fermata della metro più vicina era Bond Street, Central Line. Ma da qui bisognava fare almeno un cambio. E stavo parlando della metropolitana! Non riuscivo neppure a immaginare quanto tempo ci avrebbe impiegato una carrozza. «Forse sarebbe meglio tornare un’altra volta?» «No», disse Gideon rivolgendomi all’improvviso un sorriso. Sul suo volto stava scritto qualcosa che non riuscivo a decifrare. Sete d’avventura? «Abbiamo ancora più di due ore e mezzo», aggiunse di ottimo umore. «Andremo a Wigmore Street.» Il viaggio in carrozza per le strade di Londra fu l’esperienza più esaltante che avessi mai fatto. Mi ero sempre immaginata la città senza auto come un luogo placido e tranquillo, pedoni con parasole e cappelli, di tanto in tanto una carrozza che procedeva lentamente, niente gas di scarico, niente taxi che sfrecciavano senza riguardi, rischiando di investirti anche se attraversavi con il verde sulle strisce pedonali. In realtà l’atmosfera era tutt’altro che placida. Tanto per cominciare pioveva. E, in secondo luogo, il traffico era molto caotico anche senza macchine e autobus: carrozze e veicoli di ogni genere ingombravano le strade, spruzzando dappertutto schizzi d’acqua e fango. Non c’era puzzo di gas di scarico, ma l’aria non era neppure profumata, sapeva di stantio e di sterco di cavallo, e non solo. Non avevo mai visto tanti cavalli tutti insieme. La nostra carrozza era già un tiro a quattro, tutti neri e meravigliosi. L’uomo con la finanziera gialla era seduto a cassetta e conduceva gli animali attraverso quel bailamme, a rotta di collo. La carrozza ondeggiava paurosamente e, quando i cavalli imboccavano una curva, temevo sempre che ci saremmo ribaltati. Per colpa della paura e dello sforzo che facevo per non sbattere contro Gideon a ogni scossone, non mi godetti affatto il panorama della Londra che scorreva fuori dal finestrino. Quando guardai fuori, non riconobbi niente. Era come se fossi finita in un’altra città. «Questo è Kingsway», disse Gideon. «Irriconoscibile, vero?» Il nostro vetturino azzardò un’audace manovra di sorpasso, per superare un carro tirato da buoi e una carrozza simile alla nostra. Stavolta non mi fu possibile contrastare la forza di gravità che mi scaraventò contro Gideon. «Questo tizio si crede Ben Hur», osservai mentre tornavo nel mio angolo. «Guidare le carrozze è divertentissimo», commentò Gideon come se invidiasse l’uomo a cassetta. «È ancora meglio con una vettura aperta. Io preferisco un phaéton.» La carrozza ondeggiò di nuovo e io cominciai ad avvertire una certa nausea. Di sicuro non era un’impresa per stomaci delicati. «Da parte mia, credo di preferire una Jaguar», dissi debolmente. A parte tutto, devo ammettere che arrivammo in Wigmore Street più in fretta di quanto avessi ritenuto possibile. Mi guardai intorno, mentre scendevamo davanti a un edificio lussuoso, ma in quella zona della città non riuscii a riconoscere niente della nostra epoca, anche se purtroppo mi recavo dal dentista più spesso di quanto avrei voluto. Ciò nonostante aleggiava un’atmosfera familiare e aveva smesso di piovere. Il valletto che ci aprì la porta affermò dapprincipio che Lord Brompton era uscito, ma Gideon insistette che sapeva perfettamente che non era così e minacciò il servitore che, se non ci avesse condotto immediatamente da sua signoria e dal suo visitatore, avrebbe perso il posto. Mostrò al servitore intimorito il suo anello con sigillo, ordinandogli di sbrigarsi. «Hai un tuo anello con sigillo?» domandai mentre aspettavamo nell’ingresso. «Sì, certo», rispose Gideon. «Sei nervosa?» «Perché? Dovrei?» Ero ancora così scossa dopo il viaggio in carrozza che per il momento non riuscivo a immaginarmi niente di più tremendo. Ma, ora che me lo chiedeva, il cuore cominciò a battermi all’impazzata. Mi tornarono in mente le parole pronunciate da mia madre a proposito del conte di Saint Germain. Se era vero che quest’uomo sapeva leggere nel pensiero... Mi tastai l’acconciatura che probabilmente era stata rovinata dagli scossoni della carrozza. «Sei perfetta», mi assicurò Gideon con un sorriso. E questo che stava a significare? Voleva rendermi nervosa a tutti i costi? «Sai una cosa? Anche la nostra cuoca si chiama Brompton», dissi per superare l’imbarazzo. «Già, il mondo è piccolo», commentò Gideon. Il valletto scese di corsa le scale con i lembi della giacca svolazzanti. «Le loro signorie vi aspettano, sir.» Seguimmo l’uomo al primo piano. «È vero che può leggere nel pensiero?» bisbigliai. «Chi, il valletto?» replicò Gideon sottovoce. «Spero proprio di no. Stavo giusto pensando che assomiglia a una donnola.» Che cos’era, un attacco di ironia? Mr Fuori-dai-piedisto-compiendo-una-importante-missione-nel-te mpo aveva fatto una battuta? Abbozzai un breve sorriso. (È sempre meglio incoraggiare certi atteggiamenti.) «Non il valletto. Il conte», dissi poi. Lui annuì. «Così almeno si dice.» «Ha mai letto nella tua mente?» «Se l’ha fatto, non me ne sono accorto.» Il valletto ci aprì una porta e fece un profondo inchino. Io mi bloccai. Forse sarebbe stato meglio non pensare a niente. Ma era impossibile. Non appena cercavo di non pensare a niente, la mia mente si riempiva di milioni di pensieri. «Prima le signore», disse Gideon sospingendomi dolcemente oltre la soglia. Avanzai di qualche passo, poi mi bloccai di nuovo, incerta. Non sapevo che cosa ci si aspettasse da me. Gideon mi seguì, e il valletto richiuse la porta alle nostre spalle dopo un altro profondo inchino. Ci trovavamo in una grande sala dal sontuoso arredamento con finestre alte e tende ricamate, perfette per ricavarci un vestito. Tre uomini erano girati verso di noi. Il primo era un tipo grasso che riuscì a sollevarsi solo con grande fatica dalla sedia, il secondo era più giovane e molto muscoloso, l’unico senza parrucca, e il terzo era alto e slanciato, con il volto identico a quello del ritratto nella stanza dell’archivio. Il conte di Saint Germain. Gideon si inchinò, ma non tanto profondamente come il valletto. I tre uomini lo imitarono. Io non feci niente. Nessuno mi aveva insegnato a inchinarmi con una crinolina. E poi trovavo gli inchini alquanto stupidi. «Non avrei mai pensato di incontrarvi di nuovo tanto presto, mio giovane amico», disse quello che avevo riconosciuto come il conte di Saint Germain. Aveva un’espressione raggiante. «Lord Brompton, posso presentarvi il pro-pronipote del mio pro-pronipote? Gideon de Villiers. » «Lord Brompton.» Un altro piccolo inchino. Evidentemente la stretta di mano non era ancora in voga. «Direi che la mia discendenza si è sviluppata magnificamente, almeno per quanto riguarda l’aspetto esteriore», osservò il conte. «È evidente che ho avuto la mano felice nella scelta della dama del mio cuore. Il naso eccessivamente aquilino è del tutto scomparso.» «Ah, stimato conte! State cercando di nuovo di impressionarmi con le vostre incredibili storie», disse Lord Brompton mentre tornava a sedersi sulla poltrona, in apparenza così delicata che temevo potesse schiantarsi da un momento all’altro. Il Lord non era rotondetto come Mr George: era decisamente obeso! «Non che abbia niente in contrario, intendiamoci», proseguì con un lampo divertito negli occhietti porcini. «È sempre un piacere parlare con voi. Le sorprese non mancano mai.» Il conte rise e si girò verso l’uomo più giovane senza parrucca. «Mio caro Miro, Lord Brompton è e resta un inguaribile scettico! Dovremmo escogitare qualcosa di più efficace per convincerlo delle nostre affermazioni.» L’uomo rispose in una lingua straniera, dura e spezzettata, il conte rise di nuovo. Si rivolse a Gideon. «Questo, mio caro nipote, è il mio buon amico e fratello di sangue Miro Rakoczy, meglio conosciuto negli Annali dei Guardiani come ‘il leopardo nero’.» «Molto piacere», disse Gideon. Di nuovo una serie di inchini da tutte le parti. Rakoczy: perché questo nome mi suonava familiare? E perché la sua vista mi causò un immediato disagio? Un sorriso increspò le labbra del conte quando il suo sguardo si posò lentamente su di me. Cercai in lui qualche somiglianza con Gideon o Falk de Villiers, senza trovarne. Gli occhi del conte erano molto scuri e il suo sguardo aveva qualcosa di penetrante, che mi ricordò subito le parole della mamma. Non pensare! Il mio cervello però doveva trovare qualcosa con cui tenersi occupato, perciò mi misi a cantare mentalmente l’inno nazionale. Il conte parlò in francese e io non compresi subito ciò che diceva (tra l’altro perché ero tutta concentrata a cantare con trasporto God Save the Queen), ma, con qualche incertezza e le lacune causate dalla mia scarsa conoscenza dei vocaboli, lo tradussi grosso modo così: «E tu, graziosa ragazza, sei dunque una lacuna della cara lacuna Jeanne d’Urfé. Mi avevano detto che avevi i capelli rossi». Eh già, dovevo riconoscere che imparare i vocaboli era davvero l’alfa e l’omega della comprensione di una lingua straniera, come ripeteva sempre il nostro professore di francese. Purtroppo però non conoscevo neppure nessuna Jeanne d’Urfé, e questo mi impedì di comprendere appieno il senso della frase. «Lei non sa il francese», disse Gideon, parlando sempre in francese. «E non è la ragazza che vi aspettavate.» «Come è possibile?» Il conte scrollò il capo. «È tutto molto lacuna.» «Purtroppo, per la lacuna è stata preparata la ragazza sbagliata.» Già, purtroppo. «Un errore? Mi pare che sia tutto un unico grande errore.” «Lei è Gwendolyn Shepherd, cugina della suddetta Charlotte Montrose, di cui vi ho parlato ieri.» «Anche lei dunque è una nipote di Lord Montrose, l’ultimo lacuna. E quindi è cugina della lacuna?» Il conte di Saint Germain mi scrutò con i suoi occhi scuri e io ricominciai a cantare mentalmente. Send her victorious, happy and glorious... «Ciò che non riesco proprio a capire è il lacuna lacuna.» «I nostri scienziati affermano che è del tutto plausibile che si verifichi una lacuna genetica...» Il conte alzò una mano, per interrompere Gideon. «Lo so, lo so! Secondo le leggi scientifiche, potrebbe anche essere vero. Tuttavia ho un brutto presentimento.» Se era per quello, anch’io. «Allora niente francese?» mi domandò, parlando in tedesco. Con il tedesco me la cavavo un po’ meglio (avevo la media del sette già da quattro anni), ma anche qui emersero stupide lacune di vocabolario. «Come mai ha una preparazione così scarsa?» «Non è affatto preparata, conte. Non parla nessuna lingua straniera.» Anche Gideon era passato al tedesco. «Ed è completamente lacuna anche sotto tutti gli altri punti di vista. Charlotte e Gwendolyn sono nate lo stesso giorno. Invece si era erroneamente creduto che Gwendolyn fosse nata il giorno successivo.» «Come è stato possibile commettere un simile sbaglio?” Ah, finalmente capivo ogni parola. Erano tornati a parlare in inglese e il conte aveva una pronuncia impeccabile. «Perché ho la sensazione che i Guardiani della tua epoca non prendano il loro lavoro con la dovuta serietà?» «Credo che la risposta sia in questa lettera.» Gideon tirò fuori dalla tasca della finanziera una busta con sigillo e la porse al conte. Fui trafitta da un’occhiata penetrante. ... frustrate their knavish tricks, on Thee our hopes we fix, God save us all... Mi sottrassi al suo sguardo e osservai gli altri due uomini. Lord Brompton mi dava l’impressione di avere persino più lacune di me (teneva la bocca socchiusa sopra l’abbondante doppio mento e aveva un’aria un po’ ebete) e l’altro, Rakoczy, si fissava con insistenza le unghie delle mani. Era ancora giovane, sulla trentina, con capelli scuri e un volto lungo e affilato. Sarebbe stato bello, ma teneva le labbra contratte, come se avesse un sapore cattivo in bocca, e aveva la pelle d’un pallore malaticcio. Stavo valutando se si fosse dato una patina di cerone grigio chiaro, quando alzò di scatto lo sguardo e mi fissò negli occhi. I suoi erano neri come la pece, non si riusciva a distinguere l’iride dalla pupilla. Avevano un’aria stranamente morta, anche se non riuscivo a definire perché. La mia mente tornò a declamare l’inno nazionale. Nel frattempo il conte aveva rotto il sigillo e aperto la lettera. Cominciò a leggere con un sospiro. Di tanto in tanto sollevava il capo e mi guardava. Io non mi ero mossa dal punto in cui mi trovavo. Not in this land alone, but be God’s mercies known... Che cosa c’era scritto nella lettera? Chi l’aveva scritta? Anche Lord Brompton e Rakoczy sembravano interessati. Lord Brompton protendeva il grasso collo per gettare un’occhiata allo scritto, mentre Rakoczy era più concentrato sull’espressione del conte. La smorfia disgustata della sua bocca doveva essere innata. Quando tornò a girare la testa verso di me, fui assalita da un brivido. I suoi occhi erano come buchi neri e ora compresi perché parevano così morti: erano privi di quel riflesso di luce, quella scintilla chiara che di solito rende gli occhi vivi. Non era una semplice stranezza, era raccapricciante. Per fortuna tra me e quegli occhi c’erano almeno cinque metri di distanza. «A quanto sembra, bambina mia, tua madre è una persona davvero caparbia, non è così?» Il conte aveva terminato la lettura e stava ripiegando la lettera. «Le sue ragioni restano imperscrutabili.» Fece qualche passo verso di me e sotto il suo sguardo insistente mi dimenticai persino le parole dell’inno nazionale. Ma poi mi accorsi di ciò che da lontano non avevo notato, anche per colpa della paura: il conte era vecchio. Sebbene i suoi occhi sembrassero sprizzare energia, il suo portamento fosse altero e il tono della voce giovane e vivace, le tracce della vecchiaia erano incontestabili. La pelle del viso e delle mani era incartapecorita, la trama bluastra delle vene era ben visibile, le rughe spuntavano chiaramente anche sotto il cerone. La vecchiaia gli dava un che di fragile, che mi fece provare quasi un impeto di compassione. In ogni caso di colpo non avevo più paura. Mi trovavo davanti a un vecchio, più vecchio persino della nonna. «Gwendolyn non è informata né delle ragioni di sua madre né degli avvenimenti che hanno condotto a questa situazione», disse Gideon. «È del tutto ignara.» «Singolare, molto singolare», disse il conte mentre mi girava intorno lentamente. «In effetti non ci siamo mai incontrati prima.» Naturale che non ci fossimo mai incontrati, come sarebbe stato possibile? «Tuttavia non saresti qui se non fossi il rubino. Rosso rubino, che ha la magia del corvo nel cuore, chiude il cerchio dei dodici in sol maggiore.» Dopo aver concluso il giro, mi si piazzò davanti e mi guardò negli occhi. «Qual è la tua magia, fanciulla?» ... from shore to shore. Lord make the nations see... Accidenti! Che cosa stavo facendo? Era solo un vecchio. Avrei dovuto trattarlo cortesemente e con rispetto invece di fissarlo come una lepre paralizzata davanti a un serpente. «Non lo so, sir.» «Che cos’hai di speciale? Dimmelo.» Che cosa avevo di speciale? A parte il fatto che da due giorni ero in grado di viaggiare nel passato? Tutto a un tratto sentii nelle orecchie la voce di zia Glenda che diceva: Fin da piccola si capiva che Charlotte era destinata a imprese superiori. Non la si può paragonare a una bambina qualunque. «Credo di non avere niente di speciale, sir.» Il conte schioccò la lingua. «Probabilmente hai ragione. In fondo è solo una filastrocca. Una filastrocca di dubbie origini.» Di colpo sembrava aver perso interesse per me e si voltò verso Gideon. «Mio caro figliolo, ho letto con grande ammirazione delle gesta che hai già compiuto. Hai rintracciato Lancelot de Villiers in Belgio! Anche William de Villiers, Cecilia Woodville – l’incantevole acquamarina – e i gemelli che non ho mai conosciuto sono stati individuati. E pensate un po’, Lord Brompton, questo giovanotto si è recato a Parigi a far visita persino a Madame Jeanne d’Urfé, nata Pontcarré, convincendola a donare una goccia del suo sangue.» «Vi riferite alla Madame d’Urfé alla quale mio padre deve l’amicizia con la Pompadour e infine anche con voi?» «Non ne conosco nessun’altra», disse il conte. «Ma questa Madame d’Urfé è morta da dieci anni.» «Da sette, per la precisione», lo corresse il conte. «All’epoca dimoravo alla corte del marchese Karl Alexander von Ansbach. Ah, mi sento ancora molto legato alla Germania. L’interesse per la massoneria e l’alchimia là è molto spiccato. Come mi è stato comunicato già da diversi anni, morirò in Germania.» «Non divagate», disse Lord Brompton. «Com’è possibile che questo giovanotto sia andato a trovare Madame d’Urfé a Parigi? Sette anni fa era ancora un bambino.» «Ma voi vi ostinate a pensare nel modo sbagliato, caro Lord. Chiedete a Gideon quando ebbe l’onore di chiedere il sangue a Madame d’Urfé.» L’aristocratico guardò Gideon con aria interrogativa. «Nel maggio del 1759», rispose Gideon. Il Lord scoppiò in una risata stridula. «Ma è impossibile. Voi dovete avere al massimo vent’anni.» Anche il conte rise, chiaramente divertito. «1759. Non me ne aveva mai parlato, quella vecchia cospiratrice.» «All’epoca anche voi abitavate a Parigi, ma avevo ricevuto l’ordine tassativo di non intralciarvi.» «A causa del continuum, lo so.» Il conte sospirò. «A volte dubito io stesso delle mie stesse leggi... ma ora torniamo alla cara Jeanne. Avete dovuto usare la forza? Con me non è stata molto disponibile.» «Me lo ha raccontato», disse Gideon. «E anche di come voi siate riuscito a soffiarle il cronografo.» «Soffiarle il cronografo! Ma se non sapeva nemmeno che gioiello aveva ereditato dalla nonna. Il povero apparecchio maltrattato era stato abbandonato in una cassapanca polverosa in soffitta, inutilizzato e trascurato. Prima o poi sarebbe stato dimenticato del tutto. Io l’ho salvato e l’ho riportato al suo originario splendore. E, grazie ai geni che entreranno a far parte in futuro della mia loggia, oggi è tornato funzionante. È quasi un miracolo.» «Madame mi disse inoltre che voi l’avete quasi strozzata solo perché non conosceva la data di nascita e il nome da ragazza della bisnonna.» Strozzata? Forte! «Sì, è vero. Simili lacune mi sono costate un tempo infinito, trascorso a sfogliare vecchi registri ecclesiastici, invece di occuparmi di cose più importanti. Jeanne è proprio una persona rancorosa. Per questo mi sorprende ancora di più che vi sia riuscito di indurla a collaborare.» Gideon sorrise. «In effetti non è stato facile. Ma evidentemente devo averle fatto una buona impressione. Inoltre ho ballato la gavotte insieme a lei. E l’ho ascoltata con pazienza mentre si lamentava di voi.» «Che ingiustizia. In fondo le avevo pur procurato un’eccitante storia d’amore con Casanova e, anche se lui mirava solamente ai suoi soldi, lei era stata invidiata da molte dame. Ho condiviso fraternamente con lei il mio cronografo. Se non fosse stato per me...» Il conte si voltò ancora una volta verso di me, chiaramente sollevato. «Una femmina irriconoscente, la tua antenata. Purtroppo del tutto priva di intelligenza. Credo che non abbia mai afferrato fino in fondo che cosa le fosse accaduto, povera vecchietta. Inoltre era offesa per il fatto che le fosse stato assegnato soltanto il ruolo di quarzo citrino nel cerchio dei dodici. Perché voi potete essere uno smeraldo, e io soltanto un miserevole quarzo, si era lamentata. Oggigiorno il quarzo citrino è considerato poco più di niente dalla gente che conta.» Ridacchiò tra sé. «Era veramente di un’ingenuità senza pari. Mi piacerebbe tanto sapere quante volte avesse viaggiato nel tempo la vecchia. Forse nemmeno una. Non era mai stata una grande viaggiatrice. A volte trascorreva un mese intero senza che sparisse. Credo che il sangue femminile sia decisamente più pigro del nostro. Così come lo spirito femminile è inferiore a quello maschile per quanto riguarda la rapidità. Sei d’accordo con me, fanciulla?» Vecchio sciovinista, pensai, mentre abbassavo gli occhi. Fanfarone, noioso e presuntuoso. Santo cielo! Ero diventata matta? Non dovevo pensare a niente! Evidentemente, però, il conte non era così ferrato nell’arte di leggere nel pensiero, perché continuò a ridacchiare soddisfatto. «Direi che non è molto loquace, la piccola, no?» «È soltanto timida», rispose Gideon. Intimidita sarebbe stato un termine più adatto. «Non esistono femmine timide», obiettò il conte. «Si limitano a nascondere la loro ingenuità dietro uno sguardo apparentemente basso.» Ero sempre più convinta che non ci fosse motivo di aver paura di lui. Era solo un nonnetto misogino ed egocentrico, a cui piaceva ascoltare il suono della propria voce. «A quanto pare, non avete un’opinione molto elevata del gentil sesso», osservò Lord Brompton. «Al contrario!» ribatté il conte. «Io amo le donne. Sul serio! Solo che non credo dispongano del genere di intelligenza che fa progredire l’umanità. Per questo nella mia loggia non c’è posto per loro.» Rivolse un sorriso smagliante al Lord. «Per molti uomini, del resto, questo è spesso l’argomento decisivo per chiedere l’affiliazione, Lord Brompton.» «Eppure le donne vi amano! Mio padre non si stancava mai di raccontare dei vostri successi con le dame. A quanto pare avevate ferventi ammiratrici sia qui a Londra, sia a Parigi.» Il conte si abbandonò ai ricordi del suo periodo di dongiovanni. «Non è difficile conquistare le donne e piegarle alla propria volontà, mio caro Lord. Sono tutte uguali. Se non mi occupassi di faccende più elevate, avrei scritto già da tempo un manuale per gli uomini, con consigli su come comportarsi con le femmine.» Ma certo. E io avevo già in mente un titolo perfetto. Strozzare per il successo. Oppure: Come schiacciare e distruggere le donne. Mi venne quasi da ridere. Ma poi mi accorsi che Rakoczy mi fissava e il mio attacco di ilarità scomparve all’improvviso com’era arrivato. Dovevo essere pazza! I suoi occhi neri fissarono i miei per un secondo, poi abbassai lo sguardo sul pavimento a mosaico e cercai di combattere il senso di panico che minacciava di sopraffarmi. Non era il conte quello da temere, di questo almeno ero sicura. Ma ciò era ben lungi dal farmi sentire tranquilla. «È tutto davvero molto spassoso», commentò Lord Brompton, con il doppio mento che gli tremolava per il divertimento. «Voi e i vostri accompagnatori siete senza dubbio attori mancati. Come diceva mio padre, siete proprio in grado di inventare storie che lasciano allibiti l’ascoltatore, mio caro conte di Saint Germain. Tuttavia però non potete provare niente di ciò che affermate. Finora non mi avete offerto ancora neppure un capolavoro.» «Un capolavoro!» esclamò il conte. «Oh, mio caro Lord, siete davvero un animo scettico. Avrei perso già da tempo la pazienza con voi, se non mi sentissi in debito nei confronti di vostro padre, che possa riposare in pace. E se non avessi un così grande interesse per i vostri soldi e il vostro potere.» L’aristocratico rise leggermente imbarazzato. «Se non altro siete sincero.» «Dopotutto l’alchimia non può prescindere dai benefattori.” Il conte si voltò di slancio verso Rakoczy. «Dovremo offrire al nostro caro Lord un assaggio dei nostri capolavori, Miro. Appartiene a quella schiera di persone che credono solo a ciò che vedono. Ma, prima di farlo, vorrei scambiare due parole a quattr’occhi con il mio pronipote e redigere una lettera per il Gran Maestro futuro della mia loggia.» «Potete andare nello studiolo accanto», disse Lord Brompton indicando una porta alle proprie spalle. «Sono ansioso di vedere una vostra esibizione.» «Vieni, figliolo.» Il conte prese Gideon per un braccio. «Devo farti ancora qualche domanda. E c’è qualcosa che tu dovresti sapere.» «Abbiamo solo mezz’ora», disse Gideon dando un’occhiata all’orologio da taschino che aveva appeso a una catena d’oro. «Poi dovremo rimetterci in viaggio verso Temple.» «Ci basterà», lo tranquillizzò il conte. «Scrivo in fretta e so fare le due cose contemporaneamente: parlare e scrivere.” Gideon fece una breve risata. Sembrava che trovasse il conte davvero spiritoso e pareva essersi dimenticato del tutto della mia presenza. Mi schiarii la voce. Era quasi arrivato alla porta quando si voltò verso di me alzando interrogativamente un sopracciglio. Io gli risposi allo stesso modo, perché non potevo certo dire ad alta voce ciò che pensavo. Non lasciarmi qui da sola con questi pazzi. Gideon esitò. «Ci sarebbe solo di intralcio», disse il conte. «Aspettami qui», disse Gideon con inaspettata dolcezza. «Lord Brompton e Miro le terranno compagnia», osservò il conte. «Potete tranquillamente farle domande sul futuro. È un’occasione unica. Lei viene dal XXI secolo, potete chiederle dei treni automatici che corrono nelle gallerie sotto Londra. Oppure degli apparecchi volanti d’argento che si sollevano in aria con il rombo di mille leoni e attraversano l’oceano a molti chilometri d’altezza.» Il Lord scoppiò in una fragorosa risata che mi fece temere seriamente della tenuta della poltrona. Tutti i suoi rotoli di ciccia si agitavano. «E poi che altro?» Non volevo assolutamente restare da sola con lui e Rakoczy. Ma Gideon si limitò a sorridere, nonostante la mia occhiata supplice. «Torno subito», disse. Dagli Annali dei Guardiani 12 giugno 1948 Paul de Villiers, tormalina nera, è giunto oggi dall’anno 1992 come concordato per trasmigrare nella stanza dell’archivio. Stavolta tuttavia era in compagnia di una ragazza dai capelli rossi, che sosteneva di chiamarsi Lucy Montrose e di essere la pronipote del nostro adepto Lucas Montrose. Sotto ogni punto di vista possedeva una somiglianza incontrovertibile con Arisa Bishop linea di giada, numero d’osservazione 4). Abbiamo portato entrambi nello studio di Lucas. Ora è chiaro a tutti che Lucas chiederà la mano di Arisa, anziché quella di Claudine Seymore, come speravamo tutti per lui. (Bisogna ammettere però che Arisa ha gambe più belle e un ottimo rovescio.) È davvero bizzarro ricevere una visita dei propri nipoti ben prima di avere dei figli. Autore: Kenneth de Villiers, cerchia interna 12 Quando la porta si richiuse alle spalle di Gideon e del conte, io feci automaticamente un passo indietro. «Sedetevi pure», disse il Lord indicando una delle delicate poltrone. Rakoczy fece una smorfia. Forse era un sorriso? In quel caso doveva ancora esercitarsi a lungo davanti allo specchio. «No, vi ringrazio. Preferisco restare in piedi.» Un altro passo indietro sino a urtare quasi un putto nudo su un piedistallo a destra della porta. Maggiore distanza mettevo tra me e gli occhi neri, più mi sentivo tranquilla. «È vero che venite dal XXI secolo?» Avrei voluto dirgli che ne avrei fatto volentieri a meno. Però mi limitai a fare sì con la testa. Lord Brompton si strofinò le mani. «Benissimo, allora ditemi: quale sovrano regna in Inghilterra nel XXI secolo?” «Abbiamo un primo ministro, che governa il paese», risposi con una certa esitazione. «La regina ricopre soltanto funzioni rappresentative.» «La regina?» «Elisabetta II. È molto simpatica. Lo scorso anno è venuta addirittura alla nostra festa multietnica a scuola. Abbiamo cantato gli inni nazionali in sette lingue diverse e Gordon Gelderman si è fatto fare un autografo sul libro di inglese, mettendolo poi all’asta su eBay per ottanta sterline. Già, ma a voi tutto questo non dirà niente. In ogni caso abbiamo un primo ministro e un gabinetto di deputati eletti dal popolo.» Lord Brompton rise ammirato. «Davvero una bella prospettiva, che ne dite, Rakoczy? Molto divertente questa trovata del conte. E come stanno le cose in Francia nel XXI secolo?» «Credo che anche loro abbiano un primo ministro. A quanto ne so, non c’è più il re, neppure per scopi rappresentativi. Con la rivoluzione hanno spazzato via la nobiltà e il re. La povera Maria Antonietta è stata decapitata. Non lo trovate spaventoso?» «Ma certo», rispose il Lord ridendo. «Dopotutto i francesi sono gente tremenda. Per questo noi inglesi non vogliamo avere a che fare con loro. Ma ditemi una cosa: con chi faremo la guerra nel XXI secolo?» «Con nessuno?» risposi, con un po’ di incertezza. «In ogni caso nessuna vera guerra. Ogni tanto interveniamo qua e là, in Medio Oriente e simili. Sinceramente però non me ne intendo molto di politica. Piuttosto, potete chiedermi qualcosa sui... frigoriferi. Naturalmente non sul loro funzionamento, perché non ci capisco niente. So solo che funzionano. Ogni casa di Londra è dotata di un frigorifero dove si possono conservare per giorni formaggio, latte e carne.» Lord Brompton non sembrava molto interessato ai frigoriferi. Rakoczy si accomodò sulla poltrona come un gatto. Mi augurai che non gli venisse in mente di alzarsi. «Oppure potete chiedermi qualcosa sui telefoni», proseguii precipitosamente. «Anche se non so spiegarvi come funzionano.» A quanto potevo giudicare, nemmeno Lord Brompton l’avrebbe capito. Per dirla tutta, non sembrava all’altezza di comprendere neppure il principio della lampadina a incandescenza. Cercai qualcos’altro che potesse interessarlo. «Oppure... mmm, hanno scavato un tunnel tra Dover e Calais che passa sotto la Manica.» Questo suscitò grande ilarità da parte di Lord Brompton. Si percosse poderosamente le cosce. «Impagabile! Impagabile!» Stavo giusto per rilassarmi un po’, quando Rakoczy parlò per la prima volta. Aveva un accento aspro. «Che cosa succede in Transilvania?» «In Transilvania?» La patria del conte Dracula? Diceva sul serio? Evitai di guardare quegli occhi neri. Forse era il conte Dracula! Il colorito di sicuro era identico. «La mia bella patria nei Carpazi. Il principato di Transilvania. Che cosa accade in Transilvania nel XXI secolo?” La sua voce era un po’ rauca e risuonava senza dubbio malinconica. «E che cosa fa il popolo dei kuruc?» Il che? Il popolo dei kuruc? Mai sentiti. «Dunque, in Transilvania alla nostra epoca è tutto tranquillo», dissi cauta. A essere sincera, non sapevo nemmeno dove si trovasse. I Carpazi li conoscevo solo per sentito dire. Quando Leslie parlava del suo zio Leo dello Yorkshire, era solita dire: «Vive da qualche parte nei Carpazi», e per Lady Arisa tutto ciò che stava al di là di Chelsea era già «Carpazi». Già, ma evidentemente nei Carpazi vivevano i kuruc. «Chi regna in Transilvania nel XXI secolo?» si informò Rakoczy. Aveva un’aria tesa, come se fosse in procinto di balzare in piedi se la mia risposta non fosse stata soddisfacente. Mmm, mmm. Bella domanda. Faceva parte della Bulgaria? O della Romania? O dell’Ungheria? «Non lo so», risposi sincera. «È un luogo così lontano. Lo chiederò a Mrs Counter. È la nostra professoressa di geografia.» Rakoczy assunse un’espressione delusa. Forse avrei fatto meglio a mentirgli. In Transilvania regna il principe Dracula, già da duecento anni. È riserva naturale per specie di pipistrelli in via d’estinzione. I kuruc sono il popolo più fortunato d’Europa. Forse gli sarebbe piaciuto di più. «Com’è la situazione nelle colonie nel XXI secolo?» mi domandò Lord Brompton. Con sollievo vidi Rakoczy tornare ad appoggiarsi alla spalliera. Inoltre non si dissolse in polvere ora che il sole aveva squarciato il manto di nubi e aveva inondato la stanza di una luce abbagliante. Per un po’ parlammo quasi rilassati dell’America e della Giamaica e di alcune isole che vergognosamente non avevo mai sentito nominare. Lord Brompton accolse con sgomento la notizia che ora erano tutte indipendenti. (Non ero sicura che cosa me lo facesse pensare esattamente.) Era evidente che non credeva a una parola di quanto gli stavo raccontando e continuava a ridere. Rakoczy non s’interessava più alla nostra conversazione, limitandosi a osservare distrattamente le lunghe unghie ad artiglio e il tappeto. Di tanto in tanto mi rivolgeva un’occhiata. «Ah, trovo davvero deprimente che siate semplicemente un’attrice», sospirò Lord Brompton. «È un peccato, perché mi piacerebbe davvero credervi.» «Già», replicai comprensiva. «Al posto vostro anch’io non crederei a una parola. Purtroppo non ci sono prove... oh, aspettate un attimo!» Infilai la mano nel décolleté e tirai fuori il cellulare. «Che cos’è? Un portasigarette?» «No!» Aprii il cellulare. Emise un bip perché non trovava la rete. Naturale. «Questo è... non importa. Serve per fotografare.» «Per fare cosa?» Scrollai la testa e alzai il cellulare, in modo da inquadrare sullo schermo il Lord e Rakoczy. «Sorridete. Così, fatto.” Siccome c’era molto sole, il flash non era scattato. Peccato. Di sicuro ne sarebbero rimasti molto impressionati. «Che cos’è stato?» Lord Brompton aveva sollevato con incredibile rapidità la sua massa di grasso dalla poltrona e mi si era avvicinato. Gli mostrai l’immagine sullo schermo. Lui e Rakoczy erano venuti benissimo. «Ma... che cos’è? Come è possibile?» «Si chiama fotografia», risposi. Le dita grassocce di Lord Brompton accarezzarono entusiaste il cellulare. «Grandioso! Rakoczy, dovete venire a vedere.» «No, grazie» rispose Rakoczy indolente. «Non so come ci siate riuscita, ma è il trucco migliore che abbia mai visto. Oh, e adesso che cosa succede?» Sullo schermo era comparsa Leslie. Il Lord aveva schiacciato un tasto. «Questa è la mia mica Leslie», risposi con una punta di nostalgia. «La foto è della settimana scorsa. Guardate, dietro di lei si vede Marylebone High Street, l’insegna con il sandwich è quella di Prêt à Manger e lì c’è il negozio Aveda, visto? La mia mamma ci compra sempre la lacca.» Venni assalita da un’ondata improvvisa di terribile malinconia. «E quello è il pezzo di un taxi. Una specie di carrozza che viaggia senza cavalli...» «Che cosa volete per questo marchingegno? Vi pago qualunque cifra, dite!» «Ecco, no, veramente non è in vendita. Mi serve ancora.” Scrollai le spalle dispiaciuta e richiusi il marchingegno, cioè il cellulare, e lo lasciai scivolare nel suo nascondiglio sotto il busto. Appena in tempo, perché la porta si aprì e il conte rientrò in compagnia di Gideon. Il conte sorrideva divertito, Gideon invece era piuttosto serio. Rakoczy si alzò dal suo posto. Gideon mi lanciò un’occhiata penetrante che sostenni altezzosa. Pensava forse che nel frattempo me la sarei svignata? Se lo sarebbe meritato. Dopotutto era stato lui a ripetermi che dovevo rimanergli sempre accanto, e poi, alla prima occasione, mi aveva scaricata. «Allora, ditemi, Lord Brompton, vi piacerebbe vivere nel XXI secolo?» chiese il conte. «Senza alcun dubbio! Che idee fantastiche avete», rispose il Lord battendo le mani. «Davvero molto spassoso.” «Sapevo che vi sarebbe piaciuto. Però avreste potuto almeno offrire un posto a sedere alla povera fanciulla.» «Ma l’ho fatto. Però ha preferito restare in piedi.» Il Lord si sporse in avanti con aria complice. «Mi piacerebbe davvero molto acquistare quello scrigno argentato, caro conte.» «Quale scrigno argentato?» «È proprio ora di andare via, purtroppo», intervenne Gideon che, con poche veloci falcate, attraversò la sala e si mise accanto a me. «Capisco, capisco. Il XXI secolo vi aspetta, naturalmente», disse Lord Brompton. «Vi ringrazio molto della cortese visita. È stato tutto meravigliosamente spassoso.» «Non posso che concordare», disse il conte. «Spero che avremo ancora il piacere», aggiunse Lord Brompton. Rakoczy non disse niente. Si limitò a guardarmi. E all’improvviso fu come se una mano gelata mi stringesse la gola. Boccheggiai terrorizzata, guardando il mio corpo. Non c’era niente. E tuttavia sentivo nitidamente le dita che si richiudevano intorno al mio collo. «Posso stringere quando voglio.» Non era stato Rakoczy a dirlo, bensì il conte. Ma lo aveva fatto senza muovere le labbra. Guardai confusa dalla sua bocca alla sua mano. Era a più di quattro metri da me. Com’era possibile che me la tenesse intorno al collo? E perché avevo sentito la sua voce dentro la testa, anche se non aveva parlato? «Non so esattamente quale sia il tuo ruolo, ragazza, né se tu abbia importanza alcuna. Ma non tollero che si infrangano le mie regole. Questo è solo un avvertimento. Hai capito?” La pressione delle dita aumentò. La paura mi paralizzava. Teneva lo sguardo fisso su di me mentre ansimavo disperatamente. Nessuno si accorgeva di ciò che mi stava succedendo? «Hai capito?» «Sì», bisbigliai. La presa si allentò all’istante, la mano si allontanò. L’aria mi riempì finalmente i polmoni. Il conte corrugò le labbra e scrollò il polso. «Ci rivedremo», disse. Gideon fece un inchino. I tre uomini lo ricambiarono. Soltanto io rimasi immobile come un baccalà, incapace di muovere anche solo un arto, finché Gideon mi prese per mano e mi trascinò fuori dalla stanza. Tornati a bordo della carrozza, non riuscivo a rilassarmi. Mi sentivo sfinita e prosciugata e per qualche motivo anche sporca. Come aveva fatto il conte a parlare con me senza che gli altri lo sentissero? E come era riuscito a toccarmi, pur restando a quattro metri di distanza? La mamma dunque aveva ragione, era vero ciò che si diceva di lui: era capace di insinuarsi nella mente altrui e di controllarne le emozioni. Mi ero lasciata ingannare dalle sue chiacchiere vacue e discontinue e dal suo fragile aspetto esteriore. Lo avevo decisamente sottovalutato. Che stupida. Avevo sottovalutato tutta la faccenda in cui ero finita. La carrozza si era messa in movimento e oscillava violentemente come all’andata. Gideon aveva ordinato al Guardiano con la finanziera gialla di sbrigarsi. Come se fosse stato necessario. Già prima aveva guidato come un pazzo. «Tutto a posto? Sembra che tu abbia visto un fantasma.” Gideon si tolse il mantello e lo posò accanto a sé. «Fa piuttosto caldo per essere settembre.» «Non ho visto nessun fantasma», risposi senza riuscire a guardarlo negli occhi. La voce mi tremava leggermente. «Solo il conte di Saint Germain e uno dei suoi piccoli capolavori .» «Non è stato molto cordiale con te», tagliò corto Gideon. «Ma c’era da aspettarselo. Evidentemente si era fatto un’idea del tutto diversa di come dovevi essere.» Vedendo che non replicavo, proseguì: «Nelle profezie il dodicesimo viaggiatore viene sempre rappresentato come qualcosa di speciale. Che ha la magia del corvo nel cuore . Qualunque cosa significhi. Il conte in ogni caso non sembrava disposto a credermi quando gli ho detto che sei una semplice studentessa come tante». Stranamente quest’osservazione fece svanire di colpo il senso di stanchezza che il contatto fantasma con il conte mi aveva fatto piombare addosso. Al posto dello sfinimento e della paura provavo ora un’incommensurabile umiliazione. E rabbia. Mi morsi il labbro. «Gwendolyn?» «Che vuoi?» «Non prenderla come un’offesa. Intendevo semplice non nel senso di da poco, piuttosto come nella media, capisci?” Di male in peggio. «Non ha importanza», replicai scoccandogli un’occhiata furibonda. «Non mi interessa quello che pensi di me.» Sostenne il mio sguardo con la massima disinvoltura. «Del resto non è colpa tua.» «Tu non mi conosci affatto!» ringhiai. «Può darsi», concesse Gideon. «Però conosco parecchie ragazze come te. Siete tutte uguali.» «Parecchie ragazze? Ah!» «Le ragazze come te s’interessano solo di capelli, abiti, film e popstar. Ve ne state a confabulare e ridacchiare in continuazione e andate in bagno tutte insieme. E spettegolate di Lisa perché si è comprata una maglietta da cinque sterline da Marks & Spencer.» Nonostante la rabbia, scoppiai in una risata fragorosa. «Vuoi forse dire che tutte le ragazze che conosci spettegolano di Lisa che si è comprata una maglietta da Marks & Spencer?» «Hai capito benissimo cosa intendo.» «Sì, lo so.» Volevo finirla lì, ma le parole mi uscirono di bocca da sole: «Tu credi che tutte le ragazze che non sono come Charlotte debbano essere per forza superficiali e stupide. Solo perché hanno avuto un’infanzia normale senza continue lezioni di scherma e di mistero. In realtà, siccome non hai mai avuto il tempo di frequentare una ragazza normale, sei pieno di questi stupidi pregiudizi». «Ehi, senti un po’! Ho frequentato la scuola superiore proprio come te.» «Ma certo!» Ero come un fiume in piena. Inarrestabile. «Se hai ricevuto anche solo metà della preparazione di Charlotte come viaggiatore nel tempo, non hai amici né maschi né femmine e le tue opinioni sulle ragazze cosiddette nella media si basano soltanto su osservazioni fatte mentre ti trovavi nel cortile della scuola. Oppure vuoi forse dirmi che i tuoi compagni al college trovavano i tuoi hobby – studiare latino, ballare la gavotte e imparare a guidare la carrozza – incredibilmente fighi?» Invece di offendersi, Gideon mi guardò divertito. «Ti sei dimenticata suonare il violino.» Si appoggiò alla spalliera incrociando le braccia sul petto. «Suoni il violino? Sul serio?» La rabbia svanì da me tanto repentinamente com’era arrivata. Suonava il violino, per davvero! «Se non altro adesso il tuo viso ha ripreso un po’ di colorito. Prima eri pallida come Miro Rakoczy.» Giusto, Rakoczy. «Come si scrive il suo nome?» «R-a-k-o-c-z-y», rispose Gideon. «Perché ti interessa?” «Vorrei cercarlo su Google.» «Ti è piaciuto così tanto?» «Piaciuto? È un vampiro», replicai. «Viene dalla Transilvania.” «È vero, viene dalla Transilvania, però non è un vampiro.” «E tu come fai a saperlo?» «Perché i vampiri non esistono, Gwendolyn.» «Ah, sì? Se esistono le macchine del tempo» – e le persone in grado di strozzare una persona senza toccarla – «perché allora non dovrebbero esistere anche i vampiri? Gli hai visto gli occhi? Erano due buchi neri.» «È colpa degli infusi di belladonna con i quali fa esperimenti», spiegò Gideon. «Si tratta di un veleno vegetale che pare amplifichi le percezioni.» «E questo tu come lo sai?» «Sta scritto negli Annali dei Guardiani. Rakoczy viene definito ‘il leopardo nero’. Per due volte ha messo in guardia il conte da un’aggressione. È molto forte e incredibilmente abile con le armi.» «Chi voleva uccidere il conte?» Gideon scrollò le spalle. «Un uomo come lui ha molti nemici.» «Ci credo», osservai. «Però ho avuto l’impressione che sia perfettamente in grado di badare a se stesso.» «Questo è indubbio», concordò Gideon. Mi chiesi se fosse il caso di raccontargli ciò che aveva fatto il conte, ma poi decisi di no. Gideon non solo era stato molto cortese con lui, ma mi aveva dato anche l’impressione di essere suo amico intimo. Non fidarti di nessuno. «È vero che hai viaggiato nel passato da tutte queste persone e gli hai tolto il sangue?» gli chiesi invece. Gideon annuì. «Compresi te e me ora sono presenti nel cronografo otto viaggiatori su dodici. Non mi resta che trovare gli altri quattro.» Mi tornarono in mente le parole del conte e domandai: «Come hai fatto a spostarti da Londra a Parigi e Bruxelles? Se non sbaglio l’intervallo di tempo che si può trascorrere nel passato dura al massimo poche ore». «Quattro, per l’esattezza», disse Gideon. «A quell’epoca è impossibile che tu sia riuscito a spostarti da Londra a Parigi, per non dire poi di aver avuto ancora tempo di ballare la gavotte e di togliere il sangue a qualcuno.» «Infatti. Per questo ci siamo recati prima a Parigi con il cronografo, sciocchina», disse Gideon. «Lo stesso abbiamo fatto a Bruxelles, Milano e Bath. Gli altri li ho rintracciati a Londra.» «Ho capito.» «Sul serio?» Il sorriso di Gideon era di nuovo pieno di scherno. Stavolta feci finta di niente. «Sì, certo, pian piano le cose cominciano a essermi più chiare.» Guardai fuori dal finestrino. «All’andata non siamo passati da questi prati, giusto?» «Questo è Hyde Park», affermò Gideon di colpo teso e allarmato. Si sporse fuori. «Ehi, Wilbour, o come vi chiamate, perché passiamo da qui? Dobbiamo tornare a Temple il prima possibile!» Non riuscii a capire la risposta del cocchiere. «Fermatevi subito», ordinò Gideon. Quando si voltò verso di me, era pallido come un cencio. «Che cosa succede?» «Non lo so», disse. «Quell’uomo sostiene di aver ricevuto l’ordine di accompagnarci a un appuntamento al margine meridionale del parco.» I cavalli si erano fermati e Gideon aprì lo sportello della carrozza. «C’è qualcosa che non mi convince. Non ci resta molto tempo prima del salto nel tempo. Guiderò io i cavalli per tornare a Temple.» Saltò giù e richiuse lo sportello. «Tu resta in carrozza, qualunque cosa succeda.» In quell’istante si udì una detonazione. Io d’istinto mi chinai. Sebbene fosse un rumore che avevo sentito solo nei film, compresi all’istante che si era trattato di uno sparo. Si sentì un flebile grido, i cavalli nitrirono, la carrozza ebbe uno scossone in avanti, poi si fermò dondolando. «Abbassa la testa!» mi ordinò Gideon e io mi sdraiai precipitosamente sul sedile. Ci fu un secondo sparo. Il silenzio che seguì era intollerabile. «Gideon?» mi rialzai e guardai fuori. Gideon aveva sguainato la spada davanti al finestrino sul lato del prato. «Ti ho detto di tenere giù la testa!» Grazie al cielo era ancora vivo. Ma non per molto, probabilmente. Due uomini erano spuntati dal nulla, entrambi vestiti di nero, un terzo si stava avvicinando a cavallo dall’ombra degli alberi. Impugnava una pistola argentata. Gideon affrontò i due uomini contemporaneamente, tutti combattevano in silenzio; a eccezione degli ansiti e del clangore delle lame, non si sentiva un suono. Per qualche secondo osservai affascinata la bravura di Gideon. Sembrava la scena di un film, ogni affondo, ogni colpo, ogni salto erano perfetti, come se gli stunt-man avessero provato la coreografia per giorni e giorni. Quando però uno degli uomini lanciò un grido e cadde in ginocchio, mentre il sangue gli sgorgava dal collo come da una fontana, tornai in me. Non era un film, era la realtà. E, sebbene le spade fossero armi micidiali (l’uomo colpito era riverso a terra e si agitava lanciando grida disumane), mi sembrava che non avessero molte chance contro una pistola. Perché Gideon non portava la pistola? Sarebbe stato tanto facile portarsi un’arma così comoda da casa. E dov’era il cocchiere, perché non combatteva al fianco di Gideon? Intanto l’uomo a cavallo era arrivato ed era sceso di sella. Con mio stupore lo vidi sguainare la spada e lanciarsi su Gideon. Perché non usava la pistola? L’aveva gettata nell’erba, dove non serviva a nessuno. «Chi siete? Che cosa volete?» domandò Gideon. «Le vostre vite», rispose l’uomo giunto per ultimo. «Ebbene, non le avrete!» «Ce le prenderemo, potete fidarvi!» Il combattimento che si svolgeva oltre il finestrino sembrava di nuovo un balletto imparato a memoria, mentre il terzo uomo, quello ferito, era immobile a terra e gli altri gli giravano intorno. Gideon parava ogni affondo, come se intuisse in anticipo le intenzioni degli avversari, ma era chiaro che anche gli altri avevano ricevuto lezioni di scherma fin da bambini. A un certo punto uno di loro gli sfiorò la spalla con la spada, mentre lui era occupato a difendersi dal colpo dell’altro. Solo un’agile rotazione laterale evitò che il fendente gli staccasse il braccio. Udii lo schianto del legno che si spezzava, quando la spada si conficcò nella carrozza. Non poteva essere vero! Chi erano quei tizi e che cosa volevano da noi? Tornai a rannicchiarmi sul sedile e sbirciai dal finestrino sull’altro lato. Nessuno si era accorto di quanto stava accadendo? Possibile che fosse normale essere aggrediti in pieno pomeriggio in mezzo a Hyde Park? Il combattimento sembrava durare ormai da un’eternità. Sebbene Gideon si difendesse con coraggio, chiaramente non riusciva ad avere il sopravvento. I suoi due avversari lo incalzavano sempre di più, e alla fine avrebbero vinto. Non avevo idea di quanto tempo fosse passato dal primo sparo, né quanto mancasse ancora al nostro salto nel tempo. Forse troppo per sperare di svanire nel nulla sotto gli occhi degli aggressori. Non ce la facevo più a restare seduta in carrozza ad assistere impotente all’omicidio di Gideon. Forse potevo sgusciare fuori dal finestrino e andare a chiamare aiuto? Per un istante temetti che la mia enorme gonna non passasse dall’apertura, ma un attimo più tardi mi trovavo sul vialetto di sabbia, cercando di orientarmi. Dall’altro lato della carrozza provenivano ora ansiti, imprecazioni e lo spietato clangore delle spade. «Arrendetevi», ansimò uno degli sconosciuti. «Mai!» rispose Gideon. Avanzai cauta verso i cavalli. Rischiai di inciampare in qualcosa di giallo. Trattenni a stento un grido. Era l’uomo con la finanziera gialla. Era scivolato dal sedile a cassetta e giaceva supino nella sabbia. Orripilata vidi che gli mancava una parte della faccia e che aveva gli abiti insanguinati. L’occhio ancora intatto era spalancato e fissava il vuoto. Il primo sparo aveva colpito lui. Era uno spettacolo raccapricciante, e mi sentii salire in gola un conato di vomito. Non avevo mai visto un morto in vita mia. Che cosa avrei dato per essere seduta al cinema e poter chiudere gli occhi per non guardare! Questa però era la realtà. Quest’uomo era morto e la vita di Gideon era davvero in pericolo. Un tintinnio mi strappò alla paralisi. Il gemito di Gideon mi fece tornare finalmente in me. Prima di capire ciò che facevo, avevo afferrato la spada sul fianco del morto e l’avevo sguainata. Era più pesante di quanto pensassi, ma mi fece sentire subito meglio. Non avevo idea di come usare quell’arma, ma era affilata e appuntita, questo almeno era sicuro. I rumori del combattimento continuavano come prima. Gettai un’occhiata oltre l’angolo e vidi che i due uomini erano riusciti a spingere Gideon con le spalle contro la carrozza. Qualche ciocca gli era uscita dalla coda e gli ricadeva disordinata sulla fronte. Aveva la manica della giacca strappata, ma per fortuna non vidi sangue da nessuna parte. Era ancora illeso. Mi guardai intorno un’ultima volta, ma non trovai nessuna possibilità di aiuto. Soppesai la spada sulla mano e avanzai decisa. Se non altro la mia apparizione avrebbe distratto i due uomini, concedendo forse un po’ di vantaggio a Gideon. In realtà però accadde l’esatto contrario. Siccome i due uomini combattevano rivolgendomi le spalle, non si accorsero di me, mentre Gideon spalancò gli occhi terrorizzato dalla mia comparsa. Per una frazione di secondo si distrasse e questo bastò a uno degli sconosciuti vestiti di nero per mettere a segno un altro fendente, quasi nello stesso punto in cui la manica era già strappata. Stavolta sgorgò del sangue. Gideon continuò a combattere come se niente fosse. «Non resisterete ancora a lungo», esclamò l’uomo in tono di trionfo, incalzando Gideon con rinnovato impeto. «Pregate, se ci riuscite. Tra poco vi troverete al cospetto del creatore.» Afferrai l’elsa della spada con entrambe le mani e mi precipitai in avanti ignorando lo sguardo raccapricciato di Gideon. Gli uomini non mi sentirono sopraggiungere, si accorsero della mia presenza solo quando la spada affondò oltre gli abiti neri nella schiena di uno di loro, senza la minima resistenza e quasi in silenzio. Per un terribile istante pensai di aver mancato il bersaglio, ma poi l’uomo emise un rantolo e lasciò cadere l’arma a terra, poi si schiantò nell’erba come un albero reciso. Solo mentre cadeva, mollai l’impugnatura della spada. Oddio. Gideon approfittò di quel momento di confusione per colpire l’ultimo avversario, facendo stramazzare a terra anche lui. «Ma sei impazzita?» mi gridò mentre con un piede scagliava lontano la spada del suo avversario e gli appoggiava la punta della propria al collo. L’uomo perse subito la sua baldanza. «Vi prego... risparmiatemi la vita», disse. I denti cominciarono a battermi forte. Non è successo per davvero. Non ho appena infilzato un uomo con la spada. L’uomo colpito da me emise un rantolo. L’altro sembrava sul punto di piangere. «Chi siete e che cosa volete da noi?» domandò gelido Gideon. «Ho eseguito solo gli ordini. Per favore!» «Chi vi ha mandato?» Una goccia di sangue sgorgò sotto la punta della spada premuta alla gola dell’uomo. Gideon aveva le labbra serrate, come se faticasse a tenere ferma la spada. «Non conosco il suo nome, lo giuro.» La faccia contorta dalla paura cominciò a svanire davanti ai miei occhi, il verde dei prati turbinò vorticosamente intorno a me e quasi con sollievo mi lasciai cadere in quel gorgo e chiusi gli occhi. Dagli scritti segreti del conte di Saint Germain 13 Atterrai morbidamente in mezzo alla mia stessa gonna, ma non riuscii a rialzarmi. Mi sembrava di avere le ossa delle gambe rotte, tremavo da capo a piedi e i denti mi battevano forte. «Alzati!» Gideon mi porse la mano. Aveva rinfoderato la spada. Era insanguinata, me ne accorsi e rabbrividii. «Avanti, Gwendolyn! La gente ci sta guardando.» Era già scesa la sera e ci trovavamo sotto un lampione da qualche parte nel parco. Un jogger con le cuffie alle orecchie ci passò accanto correndo con espressione stralunata. «Non ti avevo detto di restare sulla carrozza?» Vedendo che non reagivo, Gideon mi afferrò per un braccio e mi fece alzare. Era bianco come un fantasma. «Ti sei comportata con grande leggerezza... hai corso un grave pericolo...” deglutì e mi fissò. «... E sei stata maledettamente coraggiosa.» «Credevo che si sentisse quando si colpisce una costola», dissi battendo i denti. «Non pensavo che fosse una sensazione come... quando si taglia una torta. Ma quell’uomo non aveva ossa?» «Certo che le aveva», rispose Gideon. «Però sei stata fortunata e l’hai colpito in un punto nel mezzo.» «Morirà?» Gideon scrollò le spalle. «Se la ferita era pulita, no. Ma la chirurgia del XVIII secolo non è certo paragonabile a quella di Grey’s Anatomy.» Se la ferita era pulita? Che cosa significava? Come faceva una ferita a essere pulita? Che cosa avevo fatto? Forse avevo appena ucciso un uomo! Questa consapevolezza rischiò di farmi accasciare nuovamente per terra. Ma Gideon mi teneva. «Vieni, dobbiamo tornare a Temple. Gli altri saranno in ansia.» Evidentemente sapeva con certezza in che punto del parco ci trovavamo, perché mi trascinò sicuro lungo il vialetto, passando accanto a due donne con i cani che ci osservarono incuriosite. «Smettila di battere i denti, per favore. È un suono raccapricciante», disse Gideon. «Sono un’assassina», replicai. «Hai mai sentito parlare di legittima difesa? Ti sei difesa e basta. Anzi, per la precisione hai difeso me.» Mi rivolse un mezzo sorriso e io mi sorpresi a pensare che soltanto un’ora prima avrei giurato che non sarebbe mai stato capace di ammettere una cosa del genere. Infatti non lo era. «Naturalmente, non era necessario...» precisò. «E come se lo era! Come va il braccio? Sanguini!» «Niente di grave. Il dottor White mi saprà medicare.» Per un po’ camminammo affiancati in silenzio. L’aria fresca della sera mi faceva bene, pian piano il battito del mio cuore rallentò e anche i denti smisero di battere. «Ho provato un tuffo al cuore, quando ti ho vista all’improvviso”, disse Gideon dopo un po’. Mi aveva lasciato il braccio. Evidentemente riteneva che fossi in grado di stare in piedi da sola. «Ma perché non avevi una pistola?» gli rinfacciai. «L’altro uomo ce l’aveva!» «Veramente ne aveva due», ribatté Gideon. «Perché non le ha utilizzate?» «Lo ha fatto. Ha sparato al povero Wilbour e mi ha mancato per un soffio con la seconda pistola.» «Ma perché ha sparato una volta soltanto?» «Perché ogni pistola ha un solo colpo, sciocchina», spiegò Gideon. «Le pratiche armi da fuoco che conosci dei film di James Bond non erano state ancora inventate.» «Ora però le hanno inventate! Perché ti porti nel passato una stupida spada anziché una pistola come si deve?» «Non sono un killer di professione», obiettò Gideon. «Però... cioè, a che cosa serve altrimenti venire dal futuro? Oh! Ecco dove siamo!» Eravamo arrivati esattamente a Hyde Park Corner. La gente a passeggio, i jogger e i padroni di cani ci guardavano incuriositi. «Prenderemo un taxi fino a Temple», disse Gideon. «Hai dei soldi con te?» «Certo che no!» «Io però ho il cellulare», dissi ripescandolo dalla scollatura. «Ah, lo scrigno argentato! Avrei dovuto immaginarlo! Razza di st... dammi qua!» «Ehi, è mio!» «E allora? Conosci forse il numero di telefono?» Gideon stava già pigiando sui tasti. «Mi scusi, mia cara.» Una signora anziana mi tirò leggermente per una manica. «Non posso fare a meno di chiederglielo. Viene dal teatro?» «Mmm, sì», risposi. «Ah, ecco, lo immaginavo.» La signora faticava a tenere al guinzaglio il suo barboncino che tirava come un forsennato verso un altro cane a pochi metri di distanza. «Sembra così autentico. È stupefacente quello che riescono a fare le costumiste. Sa, da ragazza mi piaceva cucire... Polly! Non tirare così!» «Vengono subito a prenderci», mi informò Gideon restituendomi il cellulare. «Ci incontreremo all’angolo con Piccadilly.» «In quale teatro recitate?» domandò ancora la signora. «Mmm, ecco, purtroppo stasera era l’ultima rappresentazione”, risposi. «Che peccato.» «Già, proprio così.» Gideon mi trascinò via. «Arrivederci.» «Non riesco proprio a capire come abbiano fatto a trovarci quegli uomini. Né da chi Wilbour avesse ricevuto l’ordine di portarci a Hyde Park. Non c’era stato tempo per preparare un’imboscata.» Gideon borbottava tra sé mentre camminava. Lì sul marciapiede eravamo oggetto di sguardi ancora più incuriositi che nel parco. «Parli con me?» «Qualcuno sapeva che saremmo stati lì. Ma come? Com’è possibile?» «L’occhio di Wilbour...» Di colpo fui assalita da un violento conato di vomito. «Che cosa stai facendo?» Vomitai, senza tirare su niente. «Gwendolyn, dobbiamo arrivare fin laggiù! Fa’ un respiro profondo e vedrai che ti passa.» Mi fermai. Ne avevo abbastanza. «Passa?» Sebbene avessi voglia di urlare, mi sforzai di parlare lentamente scandendo bene le parole. «Che cosa passa, che ho appena ucciso un uomo? Che oggi tutta la mia vita mi è passata davanti come un film? Che un insopportabile violinista arrogante, capellone e in calze di seta non abbia niente di meglio da fare che darmi ordini, anche se gli ho appena salvato la schifosissima vita? Se vuoi saperlo, trovo di avere tutte le ragioni per vomitare! E nel caso ti interessi: anche tu mi fai vomitare!» Okay, forse l’ultima frase l’avevo pronunciata con voce stridula, ma solo un pochino. Di colpo mi resi conto quanto fosse liberatorio sfogarmi così. Per la prima volta durante quella giornata, mi sentivo veramente libera e anche la nausea di colpo mi passò. Gideon mi fissava allibito, e la sua espressione mi avrebbe fatto ridere, se non fosse stata così interdetta. Ah! Finalmente ero riuscita a lasciarlo senza parole! «Voglio tornare a casa», conclusi nella maniera più dignitosa possibile. Purtroppo non mi riuscì di mantenere il contegno trionfale, perché il pensiero della mia famiglia mi riempì gli occhi di lacrime e mi fece tremare le labbra. Accidenti, accidenti, accidenti! «Su, non fare così», disse Gideon. La sua voce sorprendentemente tenera mi diede il colpo di grazia. Cominciai a piangere senza riuscire a fermarmi. «Ehi, Gwendolyn, mi spiace.» Gideon mi venne vicino, mi posò le mani sulle spalle e mi strinse a sé. «Che idiota a essermi dimenticato come devi sentirti», mormorò da qualche parte sopra il mio orecchio. «E pensare che ricordo bene la strana sensazione che provai la prima volta che sono saltato. Nonostante le ore di scherma. Per non parlare poi delle lezioni di violino...» Mi accarezzò i capelli. Io singhiozzai più forte. «Non piangere», disse confuso. «È tutto a posto.» Non era vero. Era tutto spaventoso. Il frenetico inseguimento della notte prima, quando ero stata presa per una ladra, gli occhi agghiaccianti di Rakoczy, il conte e la sua voce gelida e la mano che mi stringeva la gola, e infine il povero Wilbour e l’uomo che avevo infilzato con la spada. E, come se non bastasse, il fatto che non mi riusciva mai di dire la mia opinione a Gideon senza scoppiare a piangere e dover essere consolata da lui! Mi staccai bruscamente. Santo cielo, dov’era il mio amor proprio? Mi asciugai le lacrime con il dorso della mano. «Fazzoletto?» mi domandò, tirando fuori sorridendo dalla tasca un fazzoletto giallo limone bordato di pizzo. «Purtroppo nell’epoca rococò non c’erano ancora i fazzoletti di carta. Però te lo regalo.» Stavo per afferrarlo, quando una limousine nera si fermò accanto a noi. Dentro ci aspettava Mr George, la pelata lucida di sudore e, quando lo riconobbi, tutti i pensieri che mi vorticavano per la mente si placarono un po’. Vi rimase solo un’infinita stanchezza. «Siamo quasi morti di paura», disse Mr George. «Oddio, Gideon, che cosa hai fatto al braccio? Sanguini! E Gwendolyn è sconvolta! È ferita?» «Solo sfinita», ribatté asciutto Gideon. «La riportiamo a casa.» «Non è possibile. Dobbiamo visitare entrambi e bisogna curarti al più presto la ferita.» «Ormai non sanguino più, è solo un graffio, davvero. Gwendolyn vuole tornare a casa.» «Forse non è ancora trasmigrata abbastanza. Domani devi andare a scuola e...» La voce di Gideon assunse il familiare tono arrogante, ma stavolta non era rivolto a me. «Mr George, è stata via tre ore, quanto basta per le prossime diciotto ore.» «Probabilmente sì», riconobbe Mr George. «Ma è contrario al regolamento e inoltre dobbiamo sapere se...» «Mr George!» Mr George capitolò e, voltatosi, batté sul vetro divisorio, che si abbassò con un ronzio. «Giri qui a destra in Berkeley Street», ordinò. «Facciamo una piccola deviazione. Bourbonplace 81.» Tirai un sospiro di sollievo quando l’auto imboccò Berkeley Street. Potevo tornare a casa. Dalla mamma. Mr George mi fissava serio. Il suo sguardo era carico di compassione, come se non avesse mai visto niente di più pietoso di me. «Si può sapere, in nome del cielo, che cosa è successo?» Io ero sempre in preda a una stanchezza mortale. «La nostra carrozza è stata assaltata da tre uomini a Hyde Park», rispose Gideon. «Il vetturino è stato ucciso.» «Mio Dio», esclamò Mr George. «Non riesco a capire, però ha senso.» «Che cosa?» «È scritto negli annali. 14 settembre 1782. Un Guardiano di secondo grado, James Wilbour, viene trovato morto a Hyde Park. Un colpo di pistola gli ha portato via mezza faccia. Il colpevole non è mai stato scoperto.» «Ora sappiamo cos’è accaduto», osservò tetro Gideon. «Cioè, conosco la faccia del suo assassino, ma non il suo nome.» «E io l’ho ucciso», aggiunsi stordita. «Cosa?» «Ha conficcato nella schiena dell’aggressore la spada di Wilbour», spiegò Gideon. «Di slancio. Tuttavia non sappiamo se lo abbia davvero ucciso.» Mr George sgranò gli occhi azzurri. «Che cosa ha fatto?” «Erano due contro uno», mormorai. «Non potevo starmene lì a guardare.» «Tre contro uno», mi corresse Gideon. «Di uno mi ero già sbarazzato. Le avevo detto di restare in carrozza, qualunque cosa fosse successa.» «Non mi sembrava che avresti resistito ancora a lungo”, osservai senza guardarlo. Gideon tacque. Mr George guardò dall’uno all’altra scrollando il capo. «Che disastro! Tua madre mi ucciderà, Gwendolyn! Avrebbe dovuto essere un viaggio senza pericoli. Un colloquio con il conte, in casa, senza rischio alcuno. Non avresti dovuto essere in pericolo nemmeno per un secondo. E invece avete attraversato mezza città e vi siete fatti assalire dai briganti... Gideon, per amor del cielo! Che cosa ti è saltato in testa?» «Sarebbe filato tutto liscio, se qualcuno non ci avesse tradito.» Gideon ora sembrava adirato. «Qualcuno doveva essere al corrente della nostra visita. Qualcuno in grado di convincere questo Wilbour a condurci a un appuntamento nel parco.» «Ma per quale ragione qualcuno avrebbe voluto uccidervi? E chi avrebbe dovuto sapere della vostra visita di oggi? Non ha senso.» Mr George si morse il labbro inferiore. «Oh, eccoci arrivati.» Alzai la testa. Eravamo proprio sotto casa nostra, tutte le finestre erano illuminate. La mamma mi aspettava da qualche parte all’interno. E anche il mio letto. «Grazie», disse Gideon. Io mi voltai a guardarlo. «Di che cosa?» «Forse... effettivamente non avrei resistito ancora a lungo», riconobbe. Un sorriso storto gli passò sul viso. «Credo proprio che tu mi abbia salvato la pellaccia.» Ah. Non sapevo cosa dire. Lo guardai in silenzio e mi resi conto che il labbro inferiore aveva ricominciato a tremarmi. Gideon tirò fuori prontamente il suo fazzoletto di pizzo, che io stavolta presi. «Usalo per asciugarti il viso, altrimenti tua madre alla fine penserà che hai pianto», mi disse. Voleva farmi ridere, ma in quel momento sarebbe stato impossibile. Se non altro mi impedì di scoppiare di nuovo in lacrime. L’autista aprì la portiera e Mr George scese. «L’accompagno alla porta, Gideon, ci vorrà solo un minuto.» «Buonanotte», riuscii a mormorare. «Dormi bene», rispose Gideon con un sorriso. «Ci vediamo domani.» «Gwen! Gwenny!» Caroline mi svegliò scrollandomi. «Farai tardi se non ti muovi.» Mi tirai la coperta sopra la testa. Non volevo svegliarmi, nel sogno sapevo benissimo quali terribili ricordi mi aspettavano, una volta lasciato questo beato stato di dormiveglia. «Sul serio, Gwenny! Sei già in ritardo di un quarto d’ora!» Strizzai gli occhi invano. Troppo tardi. I ricordi mi avevano assalito come... mmm... Attila tra i... mmm, vandali? Ero davvero una schiappa in storia. I ricordi degli ultimi due giorni mi scorsero nella mente come un film a colori. Tuttavia non ricordavo come fossi arrivata in quel letto, ma soltanto che la sera prima Mr Bernhard mi aveva aperto la porta. «Buonasera, Miss Gwendolyn. Buonasera, Mr George, sir.» «Buonasera, Mr Bernhard. Ho riportato a casa Gwendolyn un po’ prima del previsto. La prego di porgere i miei saluti a Lady Arisa.» «Naturalmente, sir. Buonasera, sir.» L’espressione di Mr Bernhard era sempre imperscrutabile quando richiuse la porta alle spalle di Mr George. «Grazioso vestito, Miss Gwendolyn», mi aveva detto poi. «Tardo XVIII secolo?» «Credo di sì.» Ero così stanca che mi sarei rannicchiata a dormire direttamente lì sul tappeto. Non avevo mai desiderato il mio letto con tanto slancio come in quel momento. Temevo solo di essere intercettata mentre salivo le scale da zia Glenda, Charlotte e Lady Arisa che mi avrebbero subissato di rimproveri, sarcasmo e domande. «Mi rincresce, ma le signorie si sono sedute a tavola senza aspettarla. Però le ho preparato uno spuntino in cucina.” «È davvero molto gentile da parte sua, Mr Bernhard, ma io...» «Vuole andare a letto», concluse Mr Bernhard per me, mentre l’ombra di un sorriso gli illuminava il viso. «Allora le suggerisco di salire direttamente in camera da letto, le signore sono tutte nella stanza da musica e non si accorgeranno di lei se passerà silenziosa come un gatto. Poi avvertirò sua madre del suo ritorno e le porterò lo spuntino di sopra.» Ero troppo stanca per sorprendermi della sua lungimiranza e premura. Mormorando soltanto un «Grazie molte, Mr Bernhard», ero salita su per le scale. Mi ricordavo solo vagamente del colloquio con la mamma e dello spuntino, perché ero già mezzo addormentata. Di sicuro non ero riuscita a masticare niente. Ma forse avevo mandato giù qualche cucchiaio di zuppa. «Oh! Che bello!» Caroline aveva scoperto il vestito appoggiato a una sedia insieme alla sottogonna a balze. «Te lo sei portato dietro dal passato?» «No, lo indossavo già prima.» Mi sollevai a sedere. «La mamma vi ha raccontato le stranezze che sono avvenute?” Caroline annuì. «Non c’è stato bisogno che raccontasse molto. Zia Glenda ha brontolato così tanto che adesso anche i vicini lo sapranno di sicuro. Si è comportata come se la mamma fosse una vile traditrice, che ha sottratto il gene dei viaggi nel tempo alla povera Charlotte.» «E Charlotte?» «Si è rinchiusa in camera sua e non è più voluta uscire, nonostante le preghiere di zia Glenda. Zia Glenda ha urlato che adesso la vita di Charlotte è rovinata ed è tutta colpa della mamma. La nonna ha detto alla zia di prendere un tranquillante, altrimenti avrebbe dovuto chiamare un medico. E zia Maddy continuava a interrompere parlando dell’aquila, dello zaffiro, del sorbo selvatico e del campanile.» «Deve essere stato proprio terribile», dissi. «Terribilmente eccitante», replicò Caroline. «Io e Nick troviamo giusto che il gene lo abbia tu e non Charlotte. Credo che tu sia in gamba come Charlotte, anche se zia Glenda dice che hai il cervello piccolo come un fagiolo e non vedi a un palmo dal tuo naso. È così cattiva.» Accarezzò la stoffa lucida del corpetto. «Dopo la scuola puoi farmi vedere come ti sta il vestito?» «Certo», risposi. «Se vuoi, lo puoi provare anche tu.» Caroline ridacchiò. «È troppo grande per me, Gwenny! Ora mi sa che devi proprio alzarti, altrimenti non riuscirai a fare colazione.» Mi svegliai del tutto solo sotto la doccia, e mentre mi lavavo i capelli la mia mente era concentrata sugli avvenimenti della serata precedente, per la precisione sulla mezz’ora (tale mi era parsa) che avevo trascorso a piangere lacrime e moccio tra le braccia di Gideon. Mi ricordavo come mi aveva stretto a sé accarezzandomi i capelli. Nella mia disperazione non mi ero resa affatto conto di quanto all’improvviso fossimo vicini. Adesso però il ricordo era ancora più imbarazzante. Soprattutto perché lui, diversamente dal solito, era stato davvero carino. (Anche se lo aveva fatto solo per compassione.) E io che mi ero invece ripromessa di odiarlo fino alla fine dei miei giorni. «Gwenny!» Caroline bussò alla porta del bagno. «Apri! Non puoi restare in bagno in eterno.» Aveva ragione. Non potevo restare lì in eterno. Dovevo uscire, affrontare questa buffa vita che di colpo mi ritrovavo. Chiusi il rubinetto dell’acqua calda e lasciai scorrere su di me quella fredda, sino a sciacquarmi via anche l’ultimo rimasuglio di stanchezza. L’uniforme scolastica era rimasta nel gabinetto di Madame Rossini, e due camicie erano da lavare, così fui costretta a indossare la seconda uniforme che ormai mi stava un po’ piccola. La camicia mi tirava sul petto e la gonna era un filo troppo corta. Chi se ne importava. Anche le scarpe blu dell’uniforme erano rimaste a Temple, perciò mi infilai quelle nere da tennis, anche se era proibito. Ma di sicuro il preside Gilles non sarebbe passato in rassegna nelle classi proprio oggi. Non avevo più tempo per asciugarmi i capelli, così li strofinai alla meno peggio con un asciugamano e li pettinai. Mi ricaddero lisci e bagnati sulle spalle, senza più traccia dei morbidi boccoli che Madame Rossini era riuscita a creare come per magia. Per un istante rimasi a guardare il mio viso nello specchio. Non avevo proprio l’aria riposata, ma di sicuro meglio di quanto mi aspettassi. Mi spalmai un po’ di crema antirughe della mamma sulla fronte e sulle guance. La mamma diceva che non era mai troppo presto per cominciare. Avrei volentieri saltato la colazione, ma d’altro canto prima o poi mi sarebbe toccato incontrare Charlotte e zia Glenda, così tanto valeva farlo subito e non pensarci più. Sentii le loro voci fin dal primo piano, ancor prima di entrare in sala da pranzo. «Il grosso rapace è simbolo del male», stava dicendo la prozia Maddy. Accidenti! Di solito non si alzava mai prima delle dieci, era una gran dormigliona e considerava la colazione il pasto più inutile della giornata. «Vorrei che qualcuno mi desse ascolto.» «Ma insomma, Maddy! Nessuno sa come interpretare la tua visione. Ce l’hai raccontata almeno dieci volte.» La voce di Lady Arisa. «Giusto», confermò zia Glenda. «Se sento ancora una volta le parole uovo di zaffiro, mi metto a urlare.» «Buongiorno», dissi. Il mio saluto fu seguito da un breve silenzio durante il quale tutti mi fissarono come Dolly, la pecora clonata. «Buongiorno, tesoro», disse poi Lady Arisa. «Spero che tu abbia riposato bene.» «Benissimo, grazie. Ero molto stanca.» «Di sicuro è stato un po’ troppo per te», lasciò cadere dall’alto zia Glenda. In effetti era vero. Mi accomodai controvoglia al mio posto, di fronte a Charlotte, che non sembrava aver neppure toccato il suo pane tostato. Mi guardava come se la mia presenza le avesse definitivamente rovinato l’appetito. Per fortuna la mamma e Nick mi sorrisero complici e Caroline mi offrì una ciotola di cornflakes con il latte. Dall’altro capo del tavolo la prozia Maddy mi salutò con la sua vestaglia rosa. «Angelo mio! Sono tanto contenta di vederti! Finalmente porterai un po’ di luce in questa confusione. Con tutti gli strepiti di ieri sera non si capiva niente. Glenda ha tirato fuori vecchie storie, di quando la nostra Lucy è scappata con quell’attraente giovane della famiglia de Villiers. Non ho mai capito perché tutti se la siano presa tanto per il fatto che Grace li abbia ospitati qualche giorno a casa sua. Pensavo che ormai fosse acqua passata. E invece l’erba ha appena fatto in tempo a ricrescere che ecco arriva un cammello a strapparla daccapo.» Caroline ridacchiò sottovoce. Di sicuro si stava immaginando zia Glenda come un cammello. «Questa non è una serie televisiva, zia Maddy», latrò zia Glenda. «Per fortuna», ribatté la prozia. «Se lo fosse avrei perso il filo già da tempo.» «È tutto molto semplice», osservò gelida Charlotte. «Tutti pensavano che avessi io il gene, in realtà ce l’ha Gwendolyn.» Scostò il piatto e si alzò. «Ora tocca a lei vedere che cosa l’aspetta.» «Charlotte, fermati!» Zia Glenda però non riuscì a impedire a Charlotte di uscire dalla stanza. Prima di correrle dietro, gettò un’ultima occhiata maligna alla mamma. «Dovresti proprio vergognarti, Grace!» «Quella lì è proprio arcigna!» esclamò Nick. Lady Arisa fece un profondo sospiro. Anche la mamma sospirò. «Ora devo andare al lavoro. Gwendolyn: siamo d’accordo con Mr George che oggi verrà lui a prenderti a scuola. Verrai fatta trasmigrare nel 1956, in uno scantinato sicuro, dove potrai fare i compiti con tutta tranquillità.» «Forte!» esclamò Nick. Io la pensavo come lui. «E dopo tornerai subito a casa», aggiunse Lady Arisa. «Ma poi la giornata sarà già finita», obiettai. D’ora in avanti la mia vita sarebbe stata sempre così? Dopo la scuola a trasmigrare a Temple, per starmene seduta in una noiosa cantina a fare i compiti e poi a casa per cena? Che incubo! La prozia Maddy imprecò sottovoce, perché la manica della vestaglia le era finita su una fetta di pane e marmellata. «A quest’ora bisognerebbe essere a letto, lo dico sempre.” «Proprio così», confermò Nick. La mamma baciò lui, Caroline e me come tutte le mattine, poi mi posò una mano sulla spalla e mi disse sottovoce: «Se per caso incontrassi il mio papà, dagli un bacio da parte mia». A queste parole Lady Arisa trasalì leggermente. Bevve in silenzio un sorso di tè, poi guardò l’ora e disse: «Dovete sbrigarvi, se volete arrivare a scuola puntuali». «Prima o poi aprirò un ufficio come investigatore privato”, disse Leslie. Avevamo deciso di saltare l’ora di geografia con Mrs Counter e c’eravamo infilate in due in uno dei bagni delle femmine. Leslie era seduta sulla tavoletta del cesso e teneva sulle ginocchia un grosso faldone. Io stavo con la schiena appoggiata alla porta ricoperta di scarabocchi a penna e incisioni. Jenny ama Adam, Malcom è uno stronzo, La vita è uno schifo, c’era scritto tra l’altro. «Andare a caccia di segreti è la mia passione. Ce l’ho nel sangue», disse Leslie. «Magari all’università studierò storia e mi specializzerò in antichi miti e scritture. E poi farò qualcosa come Tom Hanks nel Codice da Vinci. Naturalmente sono meglio di lui e mi troverò un assistente veramente figo.» «Fallo», replicai. «Sarà divertente. Io invece trascorrerò il resto della mia vita finendo ogni giorno nel 1956 in una cantina senza finestre.» «Solo tre ore al giorno», precisò Leslie. Era al corrente di tutto. Sembrava che avesse colto molto meglio e molto più velocemente di me tutti i risvolti più complessi. Era stata a sentire tutto, compresa la storia degli uomini nel parco e l’incessante litania dei miei rimorsi di coscienza. «Hai fatto meglio a difenderti, piuttosto che lasciarti affettare come una torta», era stato il suo commento. E incredibilmente mi aveva aiutato più di tutte le assicurazioni di Mr George o Gideon. «Vedila così», mi disse ora. «Se sarai costretta a fare i compiti in uno scantinato, se non altro non rischierai di imbatterti in raccapriccianti conti capaci di agire per telecinesi.” Telecinesi era la definizione trovata da Leslie per la capacità dimostrata dal conte di strangolarmi stando a metri di distanza da me. Con la telecinesi, secondo lei, era possibile anche comunicare senza aprire la bocca. Mi aveva promesso di approfondire il tema quel pomeriggio stesso. Aveva passato tutta la giornata di ieri e metà della notte a cercare su Internet notizie sul conte di Saint Germain e gli altri dettagli che le avevo riferito. Rifiutò i miei accorati ringraziamenti, dicendo che tutta quella storia la divertiva da morire. «Dunque, questo conte di Saint Germain è un personaggio storico alquanto impenetrabile, non è nota con precisione neppure la sua data di nascita. Oscure sono anche le sue origini», mi raccontò, con espressione entusiasta. «A quanto sembra non invecchiava, cosa che alcuni attribuivano alla magia, altri a un’alimentazione equilibrata.» «Ti assicuro che era vecchio», dissi. «Forse si manteneva bene, ma vecchio lo era di certo.» «Allora ecco che abbiamo sfatato almeno una diceria», commentò Leslie. «Doveva avere una personalità affascinante, perché viene citato in molti romanzi e per certi circoli esoterici è una specie di guru, un eletto, una cosa così. Era membro di diverse società segrete, i massoni, i rosacroce e qualche altra, era un bravissimo musicista, suonava il violino e componeva, sapeva una dozzina di lingue e a quanto pare era in grado – tieniti forte – di viaggiare nel tempo. In ogni caso sosteneva di aver preso parte a eventi ai quali non avrebbe potuto presenziare.» «Già, questo è vero.» «Sì, una pazzia. Inoltre si dilettava di alchimia. Possedeva una torre alchemica in Germania, dove realizzava i suoi misteriosi esperimenti.» «Alchimia... ha a che fare con la pietra filosofale, giusto?” «Esatto. E con la magia. La pietra filosofale però non ha lo stesso significato per tutti. Ci sono quelli che la vogliono usare per creare l’oro, e questo ha portato alle aberrazioni più incredibili. Re e principi erano molto interessati a tutte quelle persone che affermavano di essere alchimisti, perché ovviamente erano tutti interessati all’oro. Nel corso dei tentativi per produrre l’oro, fu creata tra l’altro la porcellana, ma in genere non veniva fuori niente e per questo gli alchimisti spesso erano gettati in prigione oppure decapitati come eretici e traditori.» «Peggio per loro», osservai. «Avrebbero dovuto fare più attenzione durante l’ora di chimica.» «In realtà però gli alchimisti non volevano ottenere l’oro. Quella era solo una specie di copertura per i loro esperimenti. La pietra filosofale è piuttosto sinonimo di immortalità. Gli alchimisti pensavano che con gli ingredienti giusti – occhi di tartaruga, sangue di vergine, peli della coda di un gatto nero, ahahaha, no, è uno scherzo – dunque, con gli ingredienti giusti mescolati secondo i processi chimici giusti fosse possibile ottenere una pozione che rendeva immortali. I discepoli del conte di Saint Germain sostenevano che egli possedesse tale ricetta e per questo fosse immortale. In realtà le fonti affermano che morì in Germania nel 1784, però altrove ci sono testimonianze di persone che lo hanno incontrato molti anni dopo ancora in perfetta salute.» «Mmm, mmm», feci. «Secondo me non è immortale. Ma forse vuole diventarlo? Forse è questo il segreto dietro il segreto. Quello che accadrà se il cerchio si chiuderà...» «È possibile. Ma questa è solo una faccia della medaglia, quella propugnata da ardenti seguaci di teorie cospiratorie ed esoteriche, ansiosi di piegare le fonti a proprio vantaggio. Secondo i detrattori, invece, i miti sorti intorno alla figura di Saint Germain sono in gran parte frutto della fantasia degli ammiratori e delle sue abili messinscene.» Leslie sciorinò tutto questo ragionamento con tale convinzione ed entusiasmo che mi venne da ridere. «Prova a chiedere a Mr Whitman se puoi scrivere un tema sull’argomento», le proposi. «Con tutte le ricerche che hai fatto, probabilmente potresti scrivere un libro intero.” «Non credo che lo scoiattolo saprebbe apprezzare i miei sforzi», ribatté Leslie. «Dopotutto anche lui è un seguace di Saint Germain, tutti i Guardiani devono esserlo. Ecco, secondo me è lui il cattivo di tutta questa storia, mi riferisco a Saint Germain, non a Mr Scoiattolo. Ti ha minacciata e quasi strangolata. E tua madre ti ha messo in guardia da lui. Evidentemente sa più di quanto dice. E la sua fonte non può essere stata altri che questa Lucy.» «Io credo che tutti sappiano più di quel che dicono», sospirai. «In ogni caso ne sanno tutti più di me. Persino tu!» Leslie rise. «Considerami solo un prolungamento del tuo cervello. Il conte ha sempre mantenuto il massimo riserbo circa le sue origini. Di sicuro il nome e il titolo erano inventati. Potrebbe benissimo essere il figlio illegittimo di Marianna d’Asburgo, la vedova di Carlo II di Spagna. Sull’identità del padre esistono varie ipotesi. Secondo un’altra teoria, sarebbe figlio di un principe della Transilvania cresciuto in Italia dall’ultimo granduca de’ Medici. In ogni caso non c’è niente di comprovato e tutti brancolano nel buio. Ma noi due ora abbiamo una nuova teoria.” «Dici davvero?» Leslie alzò gli occhi al cielo. «Ma certo! Ora sappiamo che uno dei suoi genitori apparteneva alla famiglia de Villiers.” «E come facciamo a saperlo?» «Ma Gwen! Tu stessa hai detto che il primo viaggiatore nel tempo si chiamava de Villiers e il conte deve necessariamente essere membro legittimo o illegittimo di questa famiglia, lo capisci, no? Altrimenti i suoi discendenti non avrebbero quel nome.» «Mmm, sì», risposi poco convinta. Tutta questa faccenda ereditaria non mi era del tutto chiara. «Secondo me però anche la teoria della Transilvania è plausibile. Non può essere certo una coincidenza che questo Rakoczy venisse proprio da lì.» «Farò altre ricerche», mi promise Leslie. «Attenzione!” La porta dei gabinetti si aprì e qualcuno entrò. La sconosciuta – in ogni caso presumevamo che si trattasse di una lei – entrò nel gabinetto vicino a fare pipì. Restammo in silenzio finché non se ne fu andata. «Non si è nemmeno lavata le mani», disse Leslie. «Che schifo. Per fortuna non so chi era.» A poco a poco mi sentivo le gambe intorpidirsi. «Secondo te finiremo nei guai? Mrs Counter si sarà accorta di sicuro che non ci siamo. E se non l’ha fatto lei qualcuno di sicuro gliel’avrà detto.» «Per Mrs Counter tutti gli alunni si somigliano, non si accorge di niente. È dalla prima che mi chiama Lilly mentre a te ti scambia con Cynthia. Niente di meno! No, no, questa roba è più importante della geografia. Devi essere preparata il più possibile. Più cose si conoscono del proprio avversario meglio è.» «Se solo sapessi chi è il mio avversario.» «Non puoi fidarti di nessuno», disse Leslie, usando le stesse parole di mia madre. «Se fossimo in un film, alla fine il cattivo sarebbe il personaggio più insospettabile. Ma siccome non siamo in un film io opterei per il tizio che ti ha strozzata.» «Ma chi è stato a metterci alle calcagna quegli uomini neri a Hyde Park? Il conte no di sicuro! Lui ha bisogno di Gideon per rintracciare gli altri viaggiatori e prelevare loro il sangue per chiudere il cerchio.» «Già, questo è vero.» Leslie si mordicchiò pensierosa il labbro inferiore. «Ma forse in questo film c’è più di un cattivo. Anche Lucy e Paul potrebbero essere i cattivi. Dopotutto hanno rubato il cronografo. Che mi dici dell’uomo in nero al numero 18?» Scrollai le spalle. «Stamattina era lì come al solito. Secondo te anche lui potrebbe sguainare una spada?» «No. Penso piuttosto che sia uno dei Guardiani e che se ne stia lì impalato come uno stupido solo per principio.” Leslie tornò a consultare i suoi documenti. «Non sono riuscita a trovare niente sui Guardiani come tali, questa loggia segreta sembra molto segreta. Ma alcuni dei nomi che mi hai citato – Churchill, Wellington, Newton – li ho trovati anche tra i massoni. Si può quindi supporre che le due logge abbiano almeno un legame. Su Internet non ho trovato niente circa un ragazzino annegato di nome Robert White, ma in biblioteca è possibile consultare tutte le edizioni del Times e dell’ Observer degli ultimi quarant’anni. Sono sicura che lì troverò qualcosa. Cosa c’era ancora? Ah, sì, il sorbo, lo zaffiro, il corvo. . . dunque, potrebbero essere interpretati in molti modi e secondo le teorie esoteriche ogni cosa significa tutto e il contrario di tutto. Per questo non è possibile trovare definizioni affidabili. Dobbiamo cercare di basarci di più sui fatti piuttosto che sulle chiacchiere. Devi scoprire di più. Soprattutto su Lucy e Paul e sul motivo del furto del cronografo. Evidentemente sanno qualcosa di cui gli altri sono all’oscuro. O di cui non vogliono rendersi conto. Oppure di cui hanno un’opinione diversa.» La porta si aprì di nuovo. I passi stavolta erano pesanti ed energici. E si diressero decisi verso la porta del nostro gabinetto. «Leslie Hay e Gwendolyn Shepherd! Uscite subito e tornate in classe!» Io e Leslie restammo in silenzio, perplesse. Poi Leslie disse: «Lei sa che questo è il bagno delle ragazze, vero, Mr Whitman?» «Conto fino a tre», ribatté Mr Whitman. «Uno...» Al tre avevamo già aperto la porta. «Riceverete una nota sul registro», disse Mr Whitman fissandoci come uno scoiattolo severo. «Mi avete molto deluso. Soprattutto tu, Gwendolyn. Il fatto di aver preso il posto di tua cugina non ti dà il diritto di fare quello che ti pare. Charlotte non ha mai trascurato i suoi doveri scolastici.” «Sì, Mr Whitman», risposi. Questo contegno autoritario non era affatto nel suo stile. In genere era sempre galante e al massimo qualche volta sarcastico. «E adesso tornate in classe.» «Come faceva a sapere che eravamo qui?» chiese Leslie. Mr Whitman non rispose. Protese la mano verso il faldone di Leslie. «Questo, per il momento, lo prendo io!» «Oh, no, non può farlo.» Leslie si strinse il raccoglitore al petto. «Dammelo subito, Leslie!» «Mi serve... per la lezione!!» «Conto fino a tre...» Al due Leslie consegnò a malincuore il faldone. Passammo un momento molto imbarazzante quando Mr Whitman ci spinse dentro la classe. Mrs Counter aveva preso come un’offesa personale la nostra assenza, perché per il resto della lezione ci ignorò apertamente. «Avete fumato qualcosa?» si informò Gordon. «No, scemo», gli rispose Leslie. «Volevamo solo parlare tranquille da sole.» «Avete fatto forca perché volevate parlare?!» Gordon scrollò il capo. «Le femmine!» «Ora Mr Whitman potrà esaminare con tutta calma i tuoi documenti», dissi a Leslie. «E allora saprà, allora i Guardiani sapranno che ti ho raccontato tutto. Sono sicura che è proibito.» «Certamente», confermò Leslie. «Magari mi manderanno uno degli uomini neri per eliminarmi perché so cose che nessuno deve sapere...» Questa prospettiva pareva rallegrarla. «E se non fosse un’idea poi così strampalata?» «Allora... mi procurerò oggi stesso uno spray al peperoncino. Ne prenderò uno anche per te.» Leslie mi diede una pacca sulla spalla. «Forza, non prendertela! Non ci faremo intimidire.» «No, non ci faremo intimidire.» Invidiavo l’incrollabile ottimismo di Leslie. Riusciva a vedere le cose sempre dal lato migliore. Ammesso che ne avessero uno. Dagli Annali dei Guardiani 14 agosto 1949 Ore 15-18. Lucy e Paul sono venuti a trasmigrare nel mio ufficio. Abbiamo parlato di ricostruzione e risanamento urbano e dell’incredibile fatto che alla loro epoca Notting Hill sarà uno dei quartieri più ambiti e chic della città. (Loro lo definiscono «trendy».) Inoltre mi hanno portato un elenco di tutti i vincitori di Wimbledon a partire dal 1950. Io ho promesso di versare gli introiti delle scommesse in un fondo per l’istruzione dei miei figli e dei miei nipoti. Inoltre ho intenzione di acquistare un paio di immobili fatiscenti a Notting Hill. Non si sa mai. Autore: Lucas Montrose, adepto di terzo grado 14 Le ore trascorrevano con una lentezza esasperante, il pranzo fu disgustoso come sempre (Yorkshire pudding), e quando infine potemmo tornare a casa dopo due ore di chimica, avevo una gran voglia di andarmene subito a dormire. Charlotte mi aveva ignorato per tutta la giornata. A un certo punto, all’intervallo, avevo provato a parlarle, e lei mi aveva detto: «Nel caso tu voglia scusarti, scordatelo!» «Di che cosa dovrei scusarmi?» le avevo chiesto infuriata. «Mah, se non lo sai tu...» «Charlotte! Non posso farci niente se ho ereditato quello stupido gene al posto tuo.» Charlotte mi aveva fulminato con lo sguardo. «Non è uno stupido gene, è un talento. È qualcosa di speciale. Ed è del tutto sprecato in una come te. Sei troppo infantile per riuscire a capirlo anche solo lontanamente.» Detto ciò, si era voltata, piantandomi in asso. «Le passerà», mi confortò Leslie mentre prendevamo le nostre cose dall’armadietto. «Deve solo abituarsi al fatto di non essere speciale.» «Però non è giusto», protestai. «Io non le ho mica portato via niente.» «Se ci pensi bene, sì!» Leslie mi porse la sua spazzola. «Tieni.» «Che cosa dovrei farci?» «Spazzolarti i capelli, che altro?» Ubbidii docile. «Perché lo sto facendo?» domandai poi. «Per essere più carina quando incontrerai Gideon. Per fortuna non hai bisogno di mascara, hai le ciglia già naturalmente lunghe e nere...» Sentire il nome di Gideon mi fece arrossire violentemente. «Forse oggi non lo vedrò. Mi spediranno in uno scantinato nel 1956 a fare i compiti.» «Sì, ma potresti incontrarlo per caso, prima o poi.» «Leslie, non sono il suo tipo!» «Non mi pare che lui abbia detto questo», obiettò Leslie. «Invece sì!» «E anche se fosse? Si può sempre cambiare idea. In ogni caso lui è il tuo tipo.» Aprii la bocca e la richiusi senza parlare. Inutile mentire. Lui era il mio tipo. Anche se avrei tanto preferito il contrario. «Tutte le ragazze lo troverebbero fantastico», dissi, «quanto meno di aspetto. Però mi fa sempre arrabbiare, mi dà ordini in continuazione, è semplicemente... è semplicemente e insopportabilmente...» «... fantastico?» Leslie mi sorrise benevola. «Anche tu lo sei, sul serio! Sei la ragazza più fantastica che abbia mai conosciuto. Forse a parte me. E se vuoi anche tu puoi metterti a dare ordini. Ora vieni. Voglio assolutamente vedere la limousine che verrà a prenderti.» James mi rivolse un cenno impettito, quando passammo accanto alla sua nicchia. «Aspetta», dissi a Leslie. «Devo chiedere una cosa a James.» Quando mi fermai, James perse la sua espressione arrogante e mi sorrise contento. «Ho ripensato alla nostra ultima conversazione», mi disse. «A proposito del bacio?» «No! Delle pustole. Probabilmente le avevo prese. A proposito, hai dei capelli molto belli e lucenti, oggi.» «Grazie. James, potresti farmi un piacere?» «Spero che non ci siano di mezzo baci.» Scoppiai a ridere. «Non sarebbe una cattiva idea», dissi. «No, riguarda le buone maniere.» «Le buone maniere?» «Ti lamenti sempre che non le ho. E hai proprio ragione. Per questo vorrei che mi mostrassi qual è il modo giusto di comportarsi. Alla tua epoca. Come si parla, come si fa l’inchino, come... non so.» «... si tiene il ventaglio? Si balla? Come si sta quando il principe reggente è nella stanza?» «Esatto!» «Lo faccio volentieri», disse James. «Sei un tesoro», risposi, voltandomi per andare via. «A proposito, James, sai tirare di scherma?» «Naturalmente», replicò lui. «Non per vantarmi, ma tra gli amici al club ero considerato uno degli schermidori più bravi. Galliano stesso sostiene che sono un vero talento!” «Ottimo!» esclamai. «Sei un vero amico.» «Vuoi farti insegnare a tirare di scherma da un fantasma?” Leslie aveva seguito il nostro dialogo con interesse. Ovviamente aveva sentito solo la mia parte. «Ma un fantasma può tenere in mano una spada?» «Vedremo», dissi. «In ogni caso conosce meglio di me il XVIII secolo. Dopotutto è la sua epoca.» Gordon Gelderman ci raggiunse sulla scala. «Ti sei messa di nuovo a parlare con la nicchia, Gwendolyn. Ti ho visto.» «Sì, è la mia nicchia preferita, Gordon. Si offende se non parlo con lei.» «Lo sai che è una cosa stramba, vero?» «Sì, caro Gordon, lo so. Ma se non altro a me non sta cambiando la voce.» «È una cosa che passa.» «Sarebbe bello se anche tu passassi», intervenne Leslie. «Ah, ho capito, voi due volete ancora parlare», disse Gordon. Era sempre molto appiccicoso. «Lo capisco. In fondo oggi siete state insieme solo cinque ore. Ci vediamo dopo per un cinema?» «No», rispose Leslie. «Tanto non posso», disse Gordon, seguendoci nell’atrio come un’ombra. «Devo scrivere quel maledetto tema sugli anelli con sigillo. Ve l’ho già detto che odio Mr Whitman?» «Sì, ma solo un centinaio di volte», rispose Leslie. Vidi la limousine ferma davanti al cancello ancor prima di uscire. Il cuore cominciò a battermi un po’ più forte. Il ricordo della serata precedente mi creava ancora un profondo disagio. «Uau! E quel transatlantico cos’è?» Gordon fischiò piano. «Forse allora sono vere le voci che girano che la figlia di Madonna venga a scuola da noi, in incognito, naturalmente, e sotto falso nome.» «Come no», ribatté Leslie strizzando gli occhi per il sole. «Proprio per questo vengono a prenderla con la limousine. In modo che nessuno si accorga che è in incognito.” La limousine era stata notata anche da altri studenti. Persino Cynthia e la sua amica Sarah erano in piedi sui gradini con gli occhi sbarrati. I loro occhi, tuttavia, non erano rivolti alla limousine, bensì un po’ più sulla destra. «E io che pensavo che a quella secchiona non piacessero i ragazzi», disse Sarah. «Men che meno strepitosi come quello.» «Magari è suo cugino», osservò Cynthia. «Oppure suo fratello.» Io conficcai le dita nel braccio di Leslie. Quello lì davanti era proprio Gideon, nel cortile della nostra scuola, disinvolto con jeans e maglietta. E parlava con Charlotte. Leslie comprese all’istante. «E io che pensavo che avesse i capelli lunghi», mi disse in tono di rimprovero. «Ma sono lunghi», ribattei. «Mezzi lunghi», precisò Leslie. «È questa la differenza. Molto figo.» «Quello lì è frocio, sono pronto a scommettere cinquanta sterline che è un frocio», disse Gordon. Si appoggiò col braccio sulla mia spalla per riuscire a sbirciare meglio tra me e Cynthia. «Oddio, la sta toccando!» esclamò Cynthia. «Le prende la mano!» Il sorriso di Charlotte si vedeva benissimo fin da lì. Non sorrideva spesso (a parte quel suo mezzo sorriso alla Monna Lisa), ma quando lo faceva era incantevole. Le veniva addirittura una fossetta. Anche Gideon doveva essersene accorto e di sicuro la trovava tutt’altro che banale. «Le sta facendo una carezza sulla guancia!» Oddio. Era proprio così. La stretta che provai fu inequivocabile. «E ora la bacia!» Trattenemmo tutti il fiato. Sembrava proprio che Gideon avesse intenzione di baciare Charlotte. «Però solo sulla guancia», osservò Cynthia sollevata. «Allora deve essere suo cugino. Gwenny, per favore, dicci che è suo cugino.» «No», risposi. «Non sono parenti.» «E non è neanche frocio», aggiunse Leslie. «Dici? Guarda l’anello con sigillo che porta!» Charlotte lanciò un’ultima occhiata raggiante a Gideon, poi si allontanò con passo baldanzoso. Evidentemente il suo cattivo umore era stato spazzato via. Gideon si girò verso di noi. Mi resi subito conto dell’impressione che dovevamo fargli: quattro ragazze e Gordon, che confabulavano con gli occhi sgranati sulla scala. Conosco le ragazze come te. Come da copione. Fantastico. «Gwendolyn!» mi chiamò Gideon. «Eccoti, finalmente!” Esclamazione collettiva da parte di Cynthia, Sarah e Gordon. E anche mia, a essere sinceri. Solo Leslie mantenne la calma. Mi diede una spintarella. «E sbrigati. La limousine ti aspetta.» Mentre scendevo le scale sentivo gli sguardi degli altri su di me. Probabilmente se ne stavano lì a bocca aperta. Gordon di sicuro. «Ciao», dissi quando fui all’altezza di Gideon. Fu tutto ciò che riuscii a tirare fuori. Alla luce del sole i suoi occhi verdi erano più brillanti che mai. «Ciao.» Lui mi osservò, forse con un po’ troppa insistenza. «Sei cresciuta durante la notte?» «No.» Mi tirai la giacca sul petto. «È l’uniforme dello scorso anno.» Gideon sorrise. Poi guardò oltre la mia spalla. «Quelle sono le tue amiche? Credo che una stia per svenire.» Oddio. «È Cynthia Dale», dissi senza voltarmi. «Soffre di un eccesso di ormoni nel sangue. Se t’interessa, te la presento.» Il sorriso di Gideon si fece più intenso. «Magari in un altro momento. Ora andiamo! Abbiamo molto da fare oggi.” Mi prese per un braccio (dalla scala risuonò un brusio stridulo) e mi accompagnò verso la limousine. «Devo fare i compiti. Nel 1956.» «Il programma è cambiato.» Gideon mi aprì la portiera. (Stridio sincronizzato dalla scala.) «Andiamo a trovare la tua trisavola. Ha chiesto espressamente di te.» Mi posò una mano sulla schiena per spingermi dentro l’auto. (Nuovo stridio dalla scala.) Mi lasciai cadere sul sedile posteriore. Di fronte a me trovai ad attendermi una figura paffuta e familiare. «Salve, Mr George.» «Gwendolyn, mia coraggiosa ragazza, come stai oggi?» mi domandò, più raggiante della sua pelata. Gideon si accomodò accanto a lui. «Mmm, bene, grazie.» Arrossii, ripensando alla desolata impressione che dovevo avergli fatto la sera prima. Per fortuna Gideon non aveva fatto commenti sarcastici. Si comportava come se non fosse successo niente. «Che cos’è questa storia della mia trisavola?» chiesi precipitosamente. «Non ho ben capito.» «Veramente neanche noi abbiamo capito fino in fondo la faccenda», sospirò Gideon. La limousine partì. Io soffocai l’impulso di guardare i miei amici oltre il lunotto posteriore. «Margret Tilney, nata Grand, era la nonna di tua nonna Arisa e l’ultima viaggiatrice nel tempo prima di Lucy e te. I Guardiani l’hanno iscritta senza problemi nel primo cronografo, quello originale, dopo il suo secondo salto nel 1894. Per il resto della vita – è morta nel 1944 – ha continuato a trasmigrare regolarmente con l’aiuto del cronografo e negli Annali è descritta come una persona molto affabile e disponibile.» Mr George si grattò nervosamente il cranio con la mano. «Durante i bombardamenti su Londra della Seconda guerra mondiale, un gruppo di Guardiani si rifugiò in campagna insieme a lei e il cronografo. Lì morì all’età di sessantasette anni per le complicazioni di una polmonite.» «Che... mmm... peccato.» Non capivo bene a che cosa dovessero servirmi queste informazioni. «Come sai, Gideon ha già rintracciato sette membri del cerchio dei dodici nel passato, inserendo il loro sangue nel secondo cronografo, quello nuovo. Per la precisione sei, se si considerano i gemelli come uno solo. Aggiungendo il suo e il tuo sangue, ne restano soltanto quattro da ritrovare. Opale, giada, zaffiro e tormalina nera.» «Elaine Burghley, Margret Tilney, Lucy Montrose e Paul de Villiers», aggiunse Gideon. «Questi quattro devono essere ancora contattati nel passato per poter prelevare loro il sangue.» Questo l’avevo già capito, non ero stupida. «Esattamente. Non pensavamo che avremmo incontrato complicazioni con Margret.» Mr George si appoggiò al sedile. «Con gli altri sì, ma nel caso di Margret Tilney non c’erano ragioni per aspettarsi difficoltà. La sua vita è stata protocollata dai Guardiani in ogni dettaglio. Sappiamo dove ha trascorso ogni giorno della sua esistenza. E per questo è stato anche semplice organizzare un incontro tra lei e Gideon. Stanotte lui si è recato nel 1937, per incontrare Margret Tilney nella nostra casa di Temple.» «Davvero? Stanotte? E quando hai dormito, accidenti?” «Doveva essere una cosa molto veloce», spiegò Gideon, incrociando le braccia sul petto. «Infatti avevamo programmato solo un’ora di tempo.» Mr George proseguì: «Contrariamente alle aspettative, però, Margret si è rifiutata di dargli il suo sangue dopo che lui le ha spiegato come stavano le cose». Mi guardò con aria interlocutoria. Oh, dovevo forse dire qualcosa? «Forse... mmm... non ha capito bene.» Dopotutto era una storia piuttosto complicata. «Mi ha capito benissimo.» Gideon scrollò il capo. «Infatti sapeva già che il primo cronografo era stato rubato e che io avrei cercato di ottenere il suo sangue per il secondo.” «Ma come poteva immaginare fatti che dovevano succedere molti anni più tardi? Era in grado di vedere nel futuro?» Avevo appena finito di formulare queste domande, che compresi da sola. Lentamente stavo interiorizzando tutta questa faccenda dei viaggi nel tempo. «Qualcuno era stato da lei prima di te e le aveva raccontato tutto, giusto?» dissi. Gideon annuì soddisfatto. «Non solo, ma l’ha anche convinta a non farsi prelevare il sangue. La cosa ancora più strana è che si è rifiutata di parlare con me. Ha chiamato in aiuto i Guardiani e ha preteso che venissi allontanato.” «Chi può essere stato?» Provai a riflettere. «In realtà gli unici autori possibili possono essere Lucy e Paul. Sono in grado di viaggiare nel tempo e vogliono impedire che il cerchio si chiuda.» Mr George e Gideon si scambiarono un’occhiata. «Al ritorno di Gideon ci siamo trovati davanti a un autentico rompicapo», disse Mr George. «Immaginavamo vagamente che cosa potesse essere accaduto, ma non avevamo le prove. Per questo stamattina Gideon è tornato nel passato a trovare di nuovo Margret Tilney.» «Giornata piena, eh?» Scrutai il viso di Gideon per cercare segni di stanchezza, ma non ne trovai. Al contrario, sembrava vigile e attento. «Come va il braccio?» «Bene. Ascolta Mr George. È molto importante.» «Stamattina Gideon è andato da Margret subito dopo il suo primo salto nel tempo, nel 1894», disse Mr George. «A tale proposito, devi sapere che il fattore X, o gene del viaggio nel tempo, come lo chiamiamo noi, diventa presente nel sangue solo dopo il salto di iniziazione. Infatti il sangue prelevato dai viaggiatori nel tempo prima del loro primo salto non è riconoscibile da parte del cronografo. Il conte di Saint Germain condusse diversi esperimenti in proposito, che alla sua epoca causarono quasi la distruzione del cronografo. Perciò non ha senso recarsi da un viaggiatore nel tempo quando era ancora bambino per prendergli il sangue. Anche se certo renderebbe tutto più facile. Capisci?» «Sì», mi limitai a rispondere. «Per questo Gideon ha incontrato la giovane Margret stamattina, in occasione del suo primo appuntamento ufficiale di trasmigrazione. Dopo il suo primo salto nel tempo era stata condotta direttamente a Temple. Durante i preparativi per l’inserimento nel cronografo saltò una seconda volta, e il suo fu il salto incontrollato più lungo mai registrato. Rimase via per più di due ore.» «Mr George, la prego, lasci da parte i particolari meno importanti», suggerì Gideon, con una traccia d’impazienza nella voce. «Sì, sì, giusto. Dov’ero rimasto? Gideon è andato a trovare Margret prima del suo primo salto programmato. Le ha spiegato di nuovo la storia del furto del cronografo e la possibilità di rimettere a posto le cose con il secondo cronografo.” «Ecco!» lo interruppi io. «È per questo che la vecchia Margret conosceva già tutta la storia. Era stato Gideon stesso a raccontargliela.» «Certo, è un’ipotesi plausibile», disse Mr George. «Ma anche in questa seconda occasione la giovane Margret non ascoltava la storia per la prima volta.» «Qualcun altro era stato da lei prima di Gideon. Lucy e Paul. Si sono recati nel passato con il cronografo rubato per raccontare a Margret Tilney che prima o poi qualcuno sarebbe andato da lei per chiederle di dargli il sangue.» Mr George non disse niente. «E stavolta ha permesso che le venisse tolto il sangue?» «No», rispose Mr George. «Si è rifiutata anche stavolta.” «Se non altro da sedicenne non era così caparbia come da anziana», intervenne Gideon. «Stavolta mi ha permesso di parlare un po’ con lei. E alla fine ha detto che, casomai, al massimo avrebbe trattato del suo sangue con te.» «Con me?» «Ha detto proprio il tuo nome. Gwendolyn Shepherd.” «Ma...» Mi morsi un labbro, mentre Mr George e Gideon mi osservavano attentamente. «Credevo che Paul e Lucy fossero scomparsi prima della mia nascita. Com’è possibile che conoscessero il mio nome e siano andati a raccontarlo a questa Margret?» «Già, è proprio questa la domanda», disse Mr George. «Vedi, Lucy e Paul rubarono il cronografo nel maggio dell’anno in cui sei nata. Dapprima rimasero nascosti con esso nel presente. Per un paio di mesi riuscirono a sfuggire abilmente ai detective dei Guardiani, spargendo falsi indizi e utilizzando altri espedienti. Cambiavano spesso città e viaggiarono con il cronografo per mezza Europa. Ma poi cominciammo a tallonarli sempre più da vicino e loro compresero che per sfuggirci definitivamente dovevano rifugiarsi con il cronografo nel passato. Non erano disposti a tornare indietro. Sostenevano le loro errate convinzioni senza compromessi.» Sospirò. «Erano tanto giovani e appassionati...» Il suo sguardo si velò di tristezza. Gideon si schiarì la voce e Mr George smise di fissare il vuoto. Proseguì. «Finora credevamo che avessero compiuto questo passo qui a Londra a settembre, un paio di settimane prima della tua nascita.» «Allora in questo caso non potevano sapere il mio nome!” «Esatto», concordò Mr George. «Per questo da stamattina abbiamo preso in considerazione l’ipotesi che siano saltati nel passato con il cronografo dopo la tua nascita.” «Ma non sappiamo ancora per quale motivo», concluse Gideon. «In questo modo però si spiegherebbe come mai Lucy e Paul conoscessero il tuo nome e il tuo destino. In ogni caso Margret Tilney si è rifiutata categoricamente di collaborare.” Riflettei su quanto avevo appena appreso. «E ora come faremo a ottenere il suo sangue?» Oddio! L’avevo detto per davvero, giusto? «Non vorrete usare la forza, vero?» Nella mente vedevo già Gideon che le dava la caccia con etere, catene e un’enorme siringa, e questo rovinò decisamente la mia immagine di lui. Mr George scrollò il capo. «Una delle dodici regole d’oro dei Guardiani stabilisce che si faccia ricorso alla forza solo nel caso in cui tutto il resto – trattativa e conciliazione – non abbia funzionato. Perciò per prima cosa faremo quanto proposto da Margret: ti manderemo da lei.» «Per fare in modo che io la convinca?» «Per ottenere informazioni circa le sue ragioni e i suoi informatori. Lei stessa ha detto che con te parlerà. Vogliamo sapere che cosa deve dirti.» Gideon sospirò. «Di sicuro non ne verrà fuori niente, ma è tutta la mattina che parlo al muro.» «Già. Per questo Madame Rossini ti sta già cucendo un grazioso abito estivo per il 1912», disse Mr George. «Conoscerai la tua trisavola.» «Perché proprio il 1912?» «Abbiamo scelto l’anno in modo del tutto arbitrario. Tuttavia Gideon teme che possiate cadere in una trappola.” «In una trappola?» Gideon mi guardò senza dire niente. Aveva l’espressione molto preoccupata. «Secondo le leggi della logica è un’eventualità da escludere a priori», disse Mr George. «Perché qualcuno dovrebbe tenderci una trappola?» Gideon si sporse verso di me. «Prova a pensarci: Lucy e Paul sono in possesso del cronografo dove è già stato inserito il sangue di dieci viaggiatori su dodici. Per chiudere il cerchio in modo da rivelare il segreto e utilizzarlo a loro vantaggio, devono solo inserire il sangue di noi due.» «Ma... Lucy e Paul volevano proprio impedire che il cerchio si chiudesse e il segreto venisse rivelato», obiettai. Mr George e Gideon si scambiarono un’altra occhiata. «Questo è ciò che crede tua madre», disse Mr George. Era anche ciò che avevo creduto fino a quel momento. «Voi non pensate che sia così?» «A noi sembra l’esatto contrario. E se Lucy e Paul volessero impossessarsi del segreto solo per loro?» domandò Gideon. «Se fosse per questo che hanno rubato il cronografo? Per battere sul tempo il conte di Saint Germain, gli basterebbe il nostro sangue.» Dopo qualche istante di silenzio, in cui lasciai sedimentare queste parole, dissi: «Siccome possono incontrarci solo nel passato, devono attirarci da qualche parte per poter ottenere il nostro sangue?» «Magari pensano di riuscire a prenderlo solo con la forza», disse Gideon, «esattamente come noi pensiamo che Lucy e Paul che non ci daranno mai il loro sangue volontariamente.” Pensai agli uomini che ci avevano attaccato il giorno prima a Hyde Park. «Proprio così», disse Gideon, come se mi avesse letto nel pensiero. «Se ci avessero ucciso, avrebbero potuto prendere tutto il sangue che volevano da noi. Resta solo da chiarire come facessero a sapere che saremmo stati lì.» «Conosco Lucy e Paul, non è il loro stile», disse Mr George. «Sono cresciuti seguendo le dodici regole d’oro dei Guardiani e di sicuro non farebbero uccidere i loro stessi parenti. Anche loro agiscono in base ai principi di trattativa e conci...» «Lei conosceva Lucy e Paul, Mr George», obiettò Gideon. «Ma può davvero sapere che cosa sia accaduto nel frattempo?» Il mio sguardo passava dall’uno all’altro. «Secondo me in ogni caso sarebbe interessante scoprire cosa vuole da me la mia trisavola», dissi. «E poi non è possibile che sia una trappola, se siamo noi stessi a scegliere il momento della nostra visita.» «È ciò che penso anch’io», disse Mr George. Gideon sospirò rassegnato. «Tanto ormai è cosa fatta.» Madame Rossini mi fece scivolare dalla testa un abito bianco fino al polpaccio con un delicato motivo a quadrettini e una specie di collo alla marinara. Era completato in vita da una fusciacca di raso azzurro e da un passante dello stesso tessuto cucito sulla scollatura dove si infilavano le cocche del colletto. Quando mi guardai allo specchio, rimasi un po’ delusa. Avevo un’aria molto per bene. L’insieme somigliava un po’ a quello dei chierichetti di Saint Luke, dove a volte andavamo a sentire la messa la domenica. «Naturalmente la moda del 1912 non è paragonabile alle stravaganze del rococò», commentò Madame Rossini mentre mi porgeva un paio di stivaletti con i bottoni. «Direi che la grazia femminile veniva nascosta anziché sottolineata.” «Lo direi anch’io.» «E ora l’acconciatura.» Madame Rossini mi sospinse dolcemente su una sedia e mi pettinò con una profonda scriminatura laterale, raccogliendo poi tutte le ciocche sulla nuca. «Non trova che siano un po’... mmm... gonfi sopra le orecchie?» «Si portano così», replicò Madame Rossini. «Ma secondo me non mi stanno bene. Lei che ne pensa?” «A te sta bene qualunque cosa, mio piccolo collo di cigno. Inoltre non siamo a un concorso di bellezza. Qui si tratta di...» «... autenticità. Lo so.» Madame Rossini rise. «Molto bene.» Questa volta fu il dottor White che venne a prendermi per portarmi nel nascondiglio sotterraneo del cronografo. Appariva di pessimo umore, come al solito, ma in compenso Robert, il piccolo fantasma, mi sorrideva raggiante. Io ricambiai il sorriso. Era davvero tenerissimo, con i riccioli biondi e la fossetta. «Ciao.» «Ciao, Gwendolyn», rispose Robert. «Non c’è nessun motivo di manifestare una tale spropositata gioia di rivedermi», osservò il dottor White, agitando la benda nera. «Oh, no, perché anche stavolta?» «Non c’è ragione di fidarsi di te», ribatté il dottor White. «Ah! La dia a me, maleducato!» Madame Rossini gli strappò di mano il panno nero. «Se no stavolta mi rovinerà l’acconciatura!» Sarebbe stato un vero peccato. Madame Rossini mi legò la benda personalmente con molta cautela, senza mettere fuori posto neppure un capello. «Buona fortuna, piccola», mi augurò, mentre il dottor White mi conduceva fuori. Io le rivolsi un cenno di saluto alla cieca. Di nuovo quella brutta sensazione di brancolare nel buio. A differenza dell’altra volta, tuttavia, il tragitto mi era un po’ più familiare. E c’era Robert ad avvertirmi in anticipo. «Ancora due gradini e poi a sinistra oltre la porta segreta. Attenzione sulla soglia. Ancora dieci passi, poi comincia la scala grande.» «Un servizio davvero prezioso, molte grazie.» «Niente ironia», disse il dottor White. «Perché tu riesci a sentirmi e lui no?» domandò Robert corrucciato. «Purtroppo non lo so neppure io», risposi, sopraffatta da un’ondata di compassione. «Ti piacerebbe dirgli qualcosa?” Robert tacque. Il dottor White disse: «Glenda Montrose aveva ragione. È proprio vero che parli da sola». Con la mano tastai la parete. «Ah, riconosco questa nicchia. Ora c’è un altro gradino, eccolo, poi dopo ventiquattro passi si gira a destra.» «Hai contato i passi!» «Solo per noia. Perché è così diffidente, dottor White?» «Oh, non lo sono affatto. Mi fido ciecamente di te. Per ora. In questo momento sei una ragazza abbastanza educata, al massimo un po’ esaltata dalle idee balzane di tua madre. Ma nessuno può sapere che cosa ne sarà di te. Per questo preferisco che tu non conosca il luogo dove viene custodito il cronografo.» «Di sicuro questo sotterraneo non può essere così grande», obiettai. «Non immagini nemmeno», replicò il dottor White. «È già successo che delle persone si perdessero qua sotto.” «Sul serio?» «Certo.» Nella sua voce risuonava una traccia di ilarità e allora compresi che stava scherzando. «Altri hanno vagato per giorni nei corridoi, fino a trovare l’uscita.» «Vorrei dirgli che mi dispiace», disse Robert. Evidentemente ci aveva dovuto riflettere a lungo. «Oh.» Poveretto. Mi sarebbe piaciuto fermarmi per abbracciarlo. «Ma non è stata colpa tua.» «Ne sei proprio sicura?» Era chiaro che il dottor White si riferiva ancora alle persone disperse per i sotterranei. Robert tirò su col naso. «Quella mattina abbiamo litigato. Io gli ho detto che lo odiavo e che avrei voluto avere un altro padre.» «Sono sicura che lui non ti ha preso sul serio. Sicurissima.” «Invece sì. E adesso pensa che io non gli volessi bene, e non posso più dirglielo.» La vocina stridula che ora tremava mi straziò quasi il cuore. «È per questo che sei ancora qui?» «Non voglio lasciarlo solo. So che non può vedermi e sentirmi, ma forse percepisce la mia presenza.» «Oh... tesoro.» Non ne potevo più, così mi fermai. «Sono sicura che lui sa che gli vuoi bene. Ogni padre sa che a volte i bambini dicono cose che non pensano sul serio.” «In genere è così», disse il dottor White con voce improvvisamente commossa. «Ma, quando a un bambino viene vietato di guardare la televisione per due giorni solo perché ha lasciato la bicicletta sotto la pioggia, non c’è da sorprendersi che si metta a urlare e dica cose che non pensa sul serio.» Mi spinse in avanti. «Sono contenta che l’abbia detto, dottor White.» «Anch’io!» disse Robert. Compimmo il resto del tragitto nella massima euforia. Una pesante porta venne aperta e richiusa dietro di noi. La prima cosa che vidi quando mi venne tolta la benda fu Gideon con un cilindro in testa. Scoppiai in una sonora risata. Ah! Adesso era lui l’idiota col cappello! «Oggi è particolarmente di buonumore», annunciò il dottor White. «Tutto merito di generosi dialoghi con se stessa.» La sua voce però non era sarcastica come al solito. Mr de Villiers si unì alla mia risata. «Anch’io lo trovo comico», disse. «Sembra il direttore di un circo.» «Sono contento che vi divertiate alle mie spalle», ribatté Gideon. Cilindro a parte, stava proprio bene. Calzoni lunghi e scuri, giacca scura, camicia bianca, un po’ come se dovesse andare a un matrimonio. Mi guardò da capo a piedi e io trattenni il fiato, mentre aspettavo con ansia che si prendesse la rivincita. Al suo posto mi sarebbe venuta in mente di getto almeno una decina di osservazioni offensive circa il mio aspetto. Lui però non disse niente, limitandosi a sorridere. Mr George armeggiava con il cronografo. «Gwendolyn ha ricevuto tutte le debite istruzioni?» «Credo di sì», rispose Mr de Villiers. Era rimasto a parlare con me una buona mezz’ora dell’«operazione giada”, mentre Madame Rossini preparava il costume. Operazione giada! Mi sembrava quasi di essere l’agente segreto Emma Peel. Io e Leslie andavamo pazze per il film con Uma Thurman The Avengers. Agenti speciali. Non riuscivo ancora a condividere la caparbia teoria di Gideon secondo cui avremmo potuto essere attirati in una trappola. Era vero che Margret Tilney aveva chiesto espressamente di parlare con me, ma non aveva indicato un momento preciso. Anche se la sua intenzione fosse stata quella di tenderci una trappola, non poteva sapere in che giorno e a che ora della sua vita saremmo comparsi. Ed era anche assai improbabile che Lucy e Paul riuscissero a intercettarci proprio nell’intervallo di tempo prescelto. Era stato scelto arbitrariamente un giorno di giugno del 1912. All’epoca Margret Tilney aveva trentacinque anni e abitava con il marito e i tre figli in una casa di Belgravia. Saremmo andati a trovarla proprio lì. Alzai la testa e vidi lo sguardo di Gideon posato su di me. Più precisamente sulla mia scollatura. Era proprio il colmo! «Ehi, mi stai forse guardando le tette?» sibilai indignata. Lui sorrise. «Non direttamente», bisbigliò. All’improvviso compresi ciò che voleva dire. Nel rococò era stato decisamente più semplice nascondere oggetti tra i pizzi, pensai. Purtroppo Mr George si stava rivolgendo a noi. «Cos’è quello, un cellulare?» domandò chinandosi in avanti. «Non puoi portare oggetti della nostra epoca nel passato. È proibito!» «Ma perché? Potrebbe rivelarsi molto utile!» (Inoltre la foto di Rakoczy e Lord Brompton era riuscita benissimo!) «Se l’ultima volta Gideon avesse avuto una pistola come si deve, sarebbe stato tutto più semplice.» Gideon alzò gli occhi al cielo. «Prova a pensare che cosa succederebbe se smarrissi il cellulare nel passato», osservò Mr de Villiers. «Probabilmente chi lo trovasse non saprebbe cosa farsene. Ma non è detto. E il tuo cellulare cambierebbe il futuro. Oppure una pistola! Non voglio nemmeno pensare a cosa potrebbe succedere se l’umanità dovesse scoprire prima di quanto non sia successo l’uso delle armi da fuoco.» «Inoltre questi oggetti sarebbero una prova della vostra e anche della nostra esistenza», aggiunse il dottor White. «Un piccolo sbaglio potrebbe cambiare tutto e il continuum sarebbe in pericolo.» Mi morsi il labbro inferiore, mentre mi chiedevo in quale misura uno spray al peperoncino smarrito nel XVIII secolo potesse cambiare il futuro dell’umanità. Forse solo per il meglio, se l’avesse rinvenuto la persona giusta... Mr George tese la mano. «Lo prendo in custodia io.» Con un sospiro infilai la mano nella scollatura e gli porsi il cellulare. «Però lo rivoglio subito indietro dopo!» «Abbiamo finito?» si informò il dottor White. «Il cronografo è pronto a partire.» Ero pronta. Sentivo un lieve formicolio allo stomaco e dovevo ammettere che questa situazione era molto meglio che dovermene stare rinchiusa a fare i compiti in una cantina di un anno noioso come il 1956. Gideon mi scrutò un’ultima volta con attenzione. Forse si chiedeva che cos’altro tenessi nascosto. Io lo guardai con aria innocente: lo spray al peperoncino l’avrei portato con me solo la volta successiva. Un vero peccato. «Pronta, Gwendolyn?» mi domandò alla fine. Io gli sorrisi. «Quando vuoi.» Il mondo è fuor dei cardini; ed è un dannato scherzo della sorte ch’io sia nato per riportarlo in sesto. Amleto, atto I, scena V William Shakespeare (1564-1616) 15 Una carrozza dei Guardiani ci accompagnò da Temple a Belgravia, costeggiando il Tamigi, e stavolta riuscii a riconoscere molti angoli della città che conoscevo. Il sole illuminava il Big Ben e la cattedrale di Westminster, e con mia grande gioia gli ampi viali erano gremiti di persone a passeggio, con cappelli, parasole e abiti leggeri uguali al mio, i parchi erano accesi di verde primaverile, le strade erano asfaltate e niente affatto fangose. «Sembra l’ambientazione di un musical!» esclamai. «Anch’io voglio un parasole così.» «Abbiamo scelto proprio una bella giornata», osservò Gideon. «E un buon anno.» Aveva lasciato il cilindro nel sotterraneo e, siccome al suo posto avrei fatto lo stesso anch’io, non gli avevo detto niente. «Perché non abbiamo incontrato Margret a Temple, quando ci andava per trasmigrare?» «Ci ho provato già due volte. Non è stato facile convincere i Guardiani delle mie buone intenzioni, nonostante la parola d’ordine e l’anello con sigillo e tutto il resto. È sempre molto difficile prevedere le reazioni dei Guardiani del passato. Nel dubbio preferiscono mettersi dalla parte del viaggiatore del tempo che conoscono e che hanno il compito di difendere, piuttosto che credere al visitatore del futuro che spesso non conoscono affatto. Lo stesso hanno fatto stanotte e stamattina. Con una visita a casa sua forse saremo più fortunati. Di sicuro la coglieremo di sorpresa.» «Non è possibile che sia sorvegliata giorno e notte da qualcuno che aspetta solo il nostro arrivo? Lei dopotutto ci conta. E già da molti anni, giusto?» «Negli Annali dei Guardiani non c’è traccia di incarichi straordinari di sorveglianza. Solo il novizio di ordinanza che tiene d’occhio la casa di ogni viaggiatore nel tempo.» «L’uomo nero», esclamai. «Ce n’è uno anche davanti a casa nostra.» «Scommetto che è piuttosto riconoscibile.» Gideon sorrise. «Già, proprio così. La mia sorellina crede che sia un mago.» Così dicendo mi venne in mente una cosa. «Tu hai fratelli o sorelle?» «Un fratello più piccolo», rispose Gideon. «Oddio, così piccolo poi non è. Ha diciassette anni.» «E tu?» «Diciannove», rispose Gideon. «Quasi.» «Se non vai più a scuola, che cosa fai? A parte viaggiare nel passato, ovvio.» E suonare il violino. E qualunque altra cosa facesse. «Ufficialmente sono iscritto alla University of London», rispose. «Ma credo che salterò questo semestre.» «Che facoltà?» «Ma sei proprio curiosa, lo sai?» «Conduco solo una conversazione», replicai. Quell’espressione l’avevo imparata da James. «Allora, che cosa studi?» «Medicina.» Sembrava un po’ impacciato. Io soffocai un «oh!» di sorpresa e tornai a guardare fuori dal finestrino. Medicina. Interessante. Molto interessante. «Quello insieme a te oggi a scuola è il tuo ragazzo?» «Cosa? Chi?» Lo guardai interdetta. «Quel tizio dietro di te, che ti teneva la mano sulla spalla.» Sembrava una domanda casuale, quasi disinteressata. «Ti riferisci a Gordon Gelderman? Dio ce ne scampi!» «Se non è il tuo ragazzo, perché può toccarti?» «Non può farlo. Sinceramente non mi sono nemmeno accorta che l’abbia fatto.» E il motivo era perché ero troppo occupata a osservare Gideon che si scambiava tenerezze con Charlotte. Quel ricordo mi fece arrossire violentemente. Lui l’aveva baciata. Almeno quasi. «Perché sei arrossita? Per colpa di Gordon Gallahan?» «Gelderman», lo corressi. «Quello che è. Aveva l’aria da idiota.» Scoppiai a ridere. «In effetti si comporta anche come tale», dissi. «E bacia in maniera orribile.» «Certi particolari non mi interessano.» Gideon si chinò per allacciarsi una scarpa. Quando si rialzò, incrociò le braccia sul petto e guardò fuori dal finestrino. «Guarda! Siamo già a Belgrave Road. Sei curiosa di conoscere la tua trisavola?» «Sì, molto.» Dimenticai all’istante ciò di cui stavamo parlando. Era tutto così strano. La mia trisavola che stavo per incontrare aveva diversi anni meno di mia madre. Doveva essersi accasata bene, perché la dimora su Eaton Place davanti alla quale si fermò la carrozza era molto signorile. E il maggiordomo che ci aprì la porta lo era altrettanto. Era persino più altezzoso di Mr Bernhard. Portava addirittura i guanti bianchi! Ci osservò diffidente mentre Gideon gli porgeva un biglietto da visita e lo informava che eravamo visitatori a sorpresa per il tè. Di sicuro la sua vecchia amica Lady Tilney sarebbe stata molto felice di sapere che Gwendolyn Shepherd era passata a trovarla. «Credo che non ti ritenga all’altezza», gli dissi dopo che il maggiordomo si era allontanato con il biglietto da visita. «Senza cappello e basettoni.» «E senza baffi», aggiunse Gideon. «Quelli di Lord Tilney vanno da un orecchio all’altro. Guarda, quello è il suo ritratto.» «Oh, mio Dio», esclamai. La mia trisavola aveva davvero un gusto bizzarro in fatto di uomini. I baffi del ritratto erano di quelli che di notte vanno arrotolati intorno ai bigodini. «E se non volesse riceverci?» domandai. «Forse non ha voglia di rivederti così presto.» «Così presto mica tanto. Per lei sono passati quasi diciotto anni.» «Così tanti?» Sulle scale era comparsa una donna, alta e slanciata, la chioma rossa pettinata in un’acconciatura non dissimile dalla mia. Era identica a Lady Arisa, ma con trent’anni di meno. Osservai stupefatta che anche la sua andatura rigida era perfettamente identica a quella di Lady Arisa. Quando si fermò davanti a noi, restammo tutti in silenzio, talmente eravamo assorti nell’osservarci a vicenda. Riconobbi anche qualcosa di mia madre nella mia trisavola. Non so che cosa o chi Lady Tilney vedesse in me, ma annuì sorridendo, come se la mia vista l’avesse soddisfatta. Gideon aspettò ancora qualche momento, poi disse: «Lady Tilney, ho da farle sempre la stessa richiesta di diciotto anni fa. Abbiamo bisogno di qualche goccia del suo sangue». «E la mia risposta resta quella di diciotto anni fa. Non otterrai il mio sangue.» Gli voltò le spalle. «Però posso offrirvi un tè. Anche se è un pochino troppo presto. Comunque davanti a una bella tazza di tè si chiacchiera meglio.” «Allora accettiamo volentieri una bella tazza di tè», rispose Gideon galante. La seguimmo di sopra in una stanza laterale della casa. Sotto la finestra c’era un tavolino rotondo apparecchiato per tre, con piatti, tazze, posate, pane, burro, marmellata e al centro un vassoio di raffinati tramezzini al cetriolo e focaccine. «Sembra quasi che ci stesse aspettando», osservai, mentre Gideon si guardava in giro per la stanza. Lady Tilney sorrise di nuovo. «Proprio così, vero? La tavola dà questa impressione, ma in realtà aspettavo altri ospiti. Comunque accomodatevi.» «No, grazie, date le circostanze preferiamo restare in piedi», disse Gideon improvvisamente nervoso. «Inoltre non vorremmo disturbarla troppo a lungo. Ci accontenteremo di qualche risposta.» «A quali domande?» «Come fa a conoscere il mio nome?» domandai. «Chi è stato a raccontarle di me?» «Ho ricevuto altre visite dal futuro.» Il suo sorriso si allargò. «Mi capita spesso.» «Lady Tilney, ho già cercato di spiegarle una volta che il suo visitatore le ha dato informazioni del tutto errate», disse Gideon. «Commette un grave errore a fidarsi delle persone sbagliate.» «È quello che dico sempre anch’io», disse una voce maschile. Sulla soglia era comparso un giovanotto che entrò con passo disinvolto. «Margret, te lo dico sempre che sbagli a fidarti delle persone sbagliate. Oh, ma che delizia. È per noi?» Gideon aveva trattenuto bruscamente il fiato, poi mi afferrò per un polso. «Non si avvicini più di così!» ordinò. L’uomo alzò un sopracciglio. «Voglio solo prendere un tramezzino, se non hai niente in contrario.» «Serviti pure.» Mentre la mia trisavola usciva dalla stanza, il maggiordomo si piazzò sulla soglia. Nonostante i guanti bianchi somigliava in tutto e per tutto al buttafuori di un locale malfamato. Gideon imprecò sottovoce. «Non devi avere paura di Millhouse», disse il giovane. «Anche se pare che abbia già spezzato il collo a qualcuno. Per sbaglio però, vero, Millhouse?» Io rimasi a fissarlo interdetta. Aveva gli stessi occhi di Falk de Villiers, gialli come ambra. Come un lupo. «Gwendolyn Shepherd!» Quando mi sorrise, la somiglianza con Falk de Villiers divenne ancora più marcata. L’unica differenza era che aveva almeno vent’anni di meno e i capelli corti nerissimi. Il suo sguardo mi intimoriva, era amichevole, ma tradiva anche qualcos’altro che non riuscivo a definire meglio. Rabbia? Dolore? «È un vero piacere conoscerti.» La sua voce per un attimo si fece più rauca. Mi porse la mano, ma Gideon mi afferrò con entrambe le sue e mi tirò verso di sé. «Non provare a toccarla!» Di nuovo un sopracciglio alzato. «Di che cosa hai paura, piccolo?» «So benissimo che cosa vuoi da lei!» Sentii il cuore di Gideon che batteva contro la mia schiena. «Sangue?» L’uomo si servì di uno dei minuscoli tramezzini e se lo infilò in bocca. Poi sollevò le mani mostrandoci i palmi e disse: «Niente siringhe, niente bisturi, vedi? Adesso lascia la ragazza. Rischi di stritolarla». Di nuovo quello sguardo indefinibile rivolto verso di me. «Mi chiamo Paul. Paul de Villiers.» «Lo avevo immaginato», dissi. «Lei è quello che ha sedotto mia cugina Lucy e l’ha convinta a rubare il cronografo. Per quale motivo?» Paul de Villiers fece una smorfia. «Trovo comico che tu mi dia del lei.» «E io trovo comico che lei mi conosca.» «Smettila di parlare con lui», mi ordinò Gideon. Aveva allentato un po’ la presa, mi teneva stretta a sé solo con un braccio, mentre con l’altro aveva aperto una porta di servizio e stava guardando nella stanza accanto. Un secondo uomo con i guanti bianchi comparve subito anche lì. «Questo è Frank», disse Paul. «Siccome non è grande e forte come Millhouse, ha una pistola, vedi?» «Sì», sibilò Gideon richiudendo la porta. Aveva visto proprio giusto. Eravamo finiti in una trappola. Ma com’era potuto accadere? Era impossibile che Margret Tilney passasse le giornate ad apparecchiare la tavola per noi e a tenere un uomo in attesa con la pistola nella stanza accanto. «Come faceva a sapere che saremmo venuti proprio oggi?» domandai a Paul. «Già. Se ora ti dicessi che non lo sapevo affatto, ma che sono passato di qui per caso, tu di sicuro non mi crederesti, vero?» Prese una focaccina e si mise a sedere su una sedia. «Come stanno i tuoi cari genitori?» «Zitto!» sibilò Gideon. «Avrò pure il permesso di chiederle come stanno i suoi genitori!» «Bene», risposi. «Almeno la mamma. Papà è morto.» Paul assunse un’espressione sbigottita. «Morto? Ma Nicolas è forte e sano come una quercia!» «Aveva la leucemia», ribattei. «È morto che io avevo sette anni.» «Oddio, quanto mi dispiace.» Paul mi guardò serio e addolorato. «Per te deve essere stato difficile, crescere senza un padre.» «Smettila di parlare con lui», ripeté Gideon. «Cerca solo di trattenerci in attesa di rinforzi.» «Continui a pensare che voglia il vostro sangue?» Gli occhi gialli lampeggiarono minacciosi. «Infatti», rispose Gideon. «E credi che Millhouse, Frank e io e la pistola non basteremmo per sbarazzarci di te?» domandò sarcastico Paul. «Infatti», ripeté Gideon. «Oh, sono sicuro che il mio caro fratello e gli altri Guardiani abbiano fatto di te un’autentica macchina da guerra», disse Paul. «Del resto tocca a te rimediare al pasticcio. Agli altri invece è stato insegnato un po’ di scherma e un po’ di violino giusto per tradizione. Scommetto però che tu conosci anche il tae-kwon-do e tutta quella roba lì. Dopotutto è necessario saperlo, se si deve viaggiare nel passato e ottenere il sangue dalle persone.» «Finora queste persone mi hanno dato il loro sangue volontariamente.» «Solo perché non sapevano a quale scopo servisse!» «No! Perché non volevano distruggere ciò che i Guardiani custodiscono, studiano ed elaborano da secoli!» «Bla-bla-bla! Anche a noi sono stati ammanniti per tutta la vita questi patetici discorsi. Ma noi conosciamo la verità e le intenzioni del conte di Saint Germain.» «E quale sarebbe la verità?» sbottai. Udimmo dei passi sulle scale. «Ecco i rinforzi», annunciò Paul senza voltarsi. «La verità è che lui mente tutte le volte che apre la bocca», disse Gideon. Il maggiordomo si spostò per lasciar entrare una delicata ragazza dai capelli rossi, un po’ troppo grande per essere la figlia di Lady Tilney. «Non posso crederci», disse la ragazza. Mi guardò come se non avesse visto mai niente di più strano di me. «Credici pure, principessa!» disse Paul con voce intenerita e un po’ preoccupata. La ragazza era rimasta sulla porta, come paralizzata. «Tu sei Lucy», dissi. La somiglianza era evidente. «Gwendolyn», rispose Lucy con un filo di voce. «Sì, lei è Gwendolyn», disse Paul. «E il tipo che la tiene stretta come se fosse il suo orsacchiotto preferito è il mio pronipote, o come diavolo si dice. Purtroppo vuole andarsene.» «Ti prego, no!» esclamò Lucy. «Dobbiamo parlare con voi.» «Un’altra volta, magari», disse Gideon gelido. «Quando ci saranno presenti meno estranei.» «È importante!» disse Lucy. Gideon scoppiò a ridere. «Come no.» «Tu puoi andartene quando vuoi, piccolo», disse Paul. «Millhouse ti accompagnerà alla porta. Ma Gwendolyn resterà ancora un pochino. Ho la sensazione che con lei si riesca a parlare meglio. Non ha ancora subito il lavaggio del cervello... oh, merda!» L’imprecazione era rivolta alla piccola pistola nera che era comparsa dal nulla nella mano di Gideon. La puntò verso Lucy. «Io e Gwendolyn ora ce ne andremo tranquillamente da questa casa», disse. «Lucy ci accompagnerà alla porta.” «Sei un vero... stronzo», disse Paul sottovoce. Si era alzato e guardava alternativamente da Millhouse a Lucy a noi, indeciso. «Siediti», ordinò Gideon. Aveva una voce gelida, ma io sentivo il suo cuore battere forte. Continuava a tenermi stretta a sé con il braccio libero. «E anche lei, Millhouse, si sieda, per favore. Sono rimasti molti tramezzini.» Paul si mise a sedere lanciando un’occhiata verso la porta laterale. «Provi a dire una sola parola a Frank e io sparo», lo minacciò Gideon. Lucy lo guardava con occhi sgranati, ma non sembrava intimorita. Al contrario di Paul, che invece sembrava convinto della serietà delle intenzioni di Gideon. «Fa’ come dice lui», disse Paul a Millhouse, e il maggiordomo lasciò il suo posto sulla soglia e si mise seduto a tavola, lanciandoci occhiate rabbiose. «Lo hai già conosciuto, vero?» Lucy fissava Gideon negli occhi. «Hai già incontrato il conte di Saint Germain.” «Tre volte», disse Gideon. «E lui sa bene che cosa avete in mente. Girati.» Puntò la canna della pistola contro la nuca di Lucy. «Cammina!» «Principessa...» «È tutto a posto, Paul.» «Gli hanno dato una maledetta Smith & Wesson automatica. Pensavo che fosse contrario alle dodici regole d’oro.» «Arrivati in strada, la lasceremo andare», disse Gideon. «Ma nessuno deve muoversi in questa stanza, altrimenti morirà. Vieni, Gwendolyn. Dovranno aspettare un’altra occasione per provare a prenderti il sangue.» Io esitai. «Forse vogliono davvero soltanto parlare», obiettai. Ciò che Lucy e Paul avevano da dire mi interessava tantissimo. Certo, se erano davvero così innocui come si fingevano, perché avevano fatto appostare quei buttafuori nelle stanze? Armati? Mi tornarono in mente gli uomini del parco. «Di sicuro non vogliono semplicemente parlare», ribatté Gideon. «È tutto inutile», disse Paul. «Gli hanno fatto il lavaggio del cervello.» «Colpa del conte», aggiunse Lucy. «Come ben sai, può essere molto persuasivo.» «Ci rivedremo!» esclamò Gideon. Nel frattempo avevamo già raggiunto il pianerottolo. «È forse una minaccia?» gridò Paul. «Puoi star certo che ci rivedremo!» Gideon continuò a tenere la pistola puntata alla nuca di Lucy fino a quando non raggiungemmo la porta d’ingresso. Mi aspettavo che da un momento all’altro quel Frank piombasse fuori dall’altra stanza, invece era tutto tranquillo. Anche la mia trisavola sembrava scomparsa. «Non dovete permettere che il cerchio venga completato», ci disse Lucy in tono angosciato. «E non dovete più andare a trovare il conte nel passato. Soprattutto Gwendolyn non deve incontrarlo.» «Taci!» Gideon fu costretto a lasciarmi mentre con una mano teneva la pistola e con l’altra apriva la porta d’ingresso e guardava per strada. Dal piano superiore si sentiva un mormorio. Io lanciai un’occhiata impaurita alla scala. Lassù erano radunati tre uomini e una pistola e lassù dovevano anche rimanere. «Ci siamo già incontrati», dissi a Lucy. «Ieri...» «Oh, no!» Lucy impallidì ulteriormente. «Lui conosce la tua magia?» «Quale magia?» «La magia del corvo», disse Lucy. «La magia del corvo è solo un mito.» Gideon mi afferrò di nuovo per un braccio e mi trascinò in strada. La nostra carrozza era scomparsa. «Non è vero! E anche il conte lo sa.» Gideon continuava a tenere la pistola contro la testa di Lucy, ma intanto guardava le finestre del primo piano. Probabilmente lassù c’era quel Frank con la pistola. Noi eravamo ancora protetti dalla tettoia dell’ingresso. «Aspetta», dissi a Gideon. Guardai Lucy. I suoi grandi occhi azzurri erano lucidi di lacrime e per qualche motivo mi risultava difficile non crederle. «Come fai a essere tanto sicuro che non stia dicendo la verità, Gideon?» chiesi sottovoce. Lui mi scoccò un’occhiata spazientita. I suoi occhi lampeggiarono. «Lo so e basta», bisbigliò. «A me però non sembra», intervenne Lucy con voce dolce. «Potete fidarvi di noi.» Era proprio così? Come mai si erano dati tanto da fare per tenderci un tranello qui? Mi accorsi dell’ombra con la coda dell’occhio. «Attento!» esclamai, ma Millhouse aveva già attaccato. Gideon si girò di scatto all’ultimo istante, mentre il corpulento maggiordomo si preparava a colpire. «Millhouse, no!» gridò la voce di Paul dalla scala. «Corri!» urlò Gideon, e in una frazione di secondo presi la decisione. Mi misi a correre con tutta la velocità che gli stivaletti abbottonati mi permettevano. A ogni passo mi aspettavo di sentire una detonazione. «Parla con il nonno», mi gridò dietro Lucy. «Chiedigli del cavaliere verde!» Gideon mi raggiunse all’angolo successivo. «Grazie», ansimò, mettendo via la pistola. «Se l’avessi persa, sarebbe stato un guaio. Da questa parte.» Mi guardai intorno. «Ci hanno seguito?» «Non credo», rispose Gideon. «Ma, in caso contrario, meglio affrettarci.» «Vorrei tanto sapere da dove è spuntato all’improvviso quel Millhouse. Non ho mai perso di vista la scala neppure un istante.» «Probabilmente c’era una scala di servizio. Non ci avevo pensato.» «Dov’è finito il Guardiano con la carrozza? Doveva aspettarci.» «Cosa vuoi che ne sappia!» Gideon era trafelato. I passanti sul marciapiede ci guardavano interdetti mentre avanzavamo di corsa, ma ormai ci ero abituata. «Chi è il cavaliere verde?» «Non ne ho la minima idea», disse Gideon. Cominciavo a sentire delle fitte al fianco. Non ce l’avrei fatta a tenere quell’andatura ancora a lungo. Gideon imboccò un vicolo laterale e si fermò davanti al portone di una chiesa. SANTA TRINITÀ, lessi su un cartello. «Che ci facciamo qui?» chiesi affannata. «Ci confessiamo», rispose Gideon. Dopo essersi guardato intorno, aprì il pesante portone, poi mi sospinse nella penombra dell’interno e richiuse la porta. D’un tratto fummo circondati da silenzio, odore di incenso e quell’atmosfera di serenità che regna nelle chiese. Era una bella chiesa, con vetrate colorate, i muri di pietra chiara e piccoli altari votivi con qualche candela accesa, simbolo ciascuna di una preghiera o di un voto di fede. Gideon mi indirizzò verso la navata laterale sino a un antico confessionale. Scostò la tendina e indicò il posto nel piccolo cubicolo. «Non dirai sul serio?» sussurrai. «Invece sì. Io mi siedo dall’altro lato e poi aspettiamo di tornare indietro.» Mi misi seduta poco convinta. Gideon richiuse la tendina davanti al mio naso. Un attimo dopo la finestrella con la grata si aprì. «Comoda?» Pian piano il respiro mi tornò normale, mentre gli occhi si abituavano alla penombra. Gideon mi guardò con finta gravità. «Allora, figliola! Ringraziamo il Signore per la protezione che ci offre nella sua casa.» Io lo guardai incredula. Come faceva a essere così rilassato, quasi sbruffone? Avevamo appena superato una situazione di grande tensione, santo cielo, aveva minacciato mia cugina puntandole una pistola alla testa! Non era possibile che la cosa lo avesse lasciato del tutto indifferente. «Come fai a scherzare in questo momento?» Lui assunse un’espressione impacciata. Scrollò le spalle. «Ti viene in mente qualcosa di meglio?» «Sì! Potremmo cercare di dare un senso a quanto appena successo! Perché Lucy e Paul affermano che qualcuno ti ha fatto il lavaggio del cervello?» «Come faccio a saperlo io?» Si passò la mano tra i capelli e io notai che gli tremava leggermente. Dunque non era così indifferente come voleva farmi credere. «Volevano instillarti il dubbio. E anche a me.» «Lucy ha detto che devo chiedere al nonno. Evidentemente non sa che è morto.» Ripensai agli occhi di Lucy pieni di lacrime. «Poverina. Deve essere terribile non poter più rivedere la propria famiglia nel futuro.» Gideon non rispose. Restammo in silenzio per qualche tempo. Io guardai verso l’altare dalla fessura nella tenda. Un piccolo doccione, alto forse fino al ginocchio, con le orecchie a punta e una buffa coda di lucertola uscì saltellando dall’ombra di una colonna e guardò verso di noi. Io distolsi subito gli occhi. Se si fosse accorto che riuscivo a vederlo, di sicuro si sarebbe messo a fare confusione. Gli spiriti-doccione potevano essere molto fastidiosi, lo sapevo per esperienza. «Sei davvero sicuro di poterti fidare del conte di Saint Germain?» domandai, mentre lo spirito si avvicinava saltellando. Gideon fece un profondo respiro. «È un vero genio. Ha scoperto cose che nessuno prima di lui... sì, mi fido di lui. Qualunque cosa pensino Lucy e Paul, si sbagliano.» Sospirò. «Almeno questo era quanto pensavo fino a un attimo fa. Mi sembrava tutto perfettamente logico.» Il piccolo doccione evidentemente ci trovava noiosi. Si arrampicò su una colonna e scomparve nella galleria dell’organo. «Adesso non è più così?» «So solo che prima della tua comparsa avevo la situazione sotto controllo!» disse Gideon. «Mi ritieni forse responsabile del fatto che per la prima volta in vita tua tutto non va come avevi deciso tu?» Alzai le sopracciglia, come gli avevo visto fare. Era davvero una sensazione fichissima. Ero così soddisfatta di me stessa che mi venne quasi da sorridere. «No!» Lui scrollò il capo e sbuffò irritato. «Gwendolyn! Si può sapere perché con te è tutto così più complicato che con Charlotte?» Si sporse in avanti con qualcosa nello sguardo che non gli avevo mai visto prima. «Boh. È di questo che avete parlato oggi nel cortile della scuola?» domandai offesa. Maledizione. Adesso gli avevo dato un punto di vantaggio. Che errore da principiante! «Gelosa?» ribatté prontamente lui con un sorriso smagliante. «Neanche per sogno!» «Charlotte faceva sempre quello che le dicevo. Tu invece no. E questo è molto scocciante. Però anche divertente. E dolce.» Stavolta non fu solo il suo sguardo a farmi vacillare. Mi scostai una ciocca di capelli dal viso con un gesto impacciato. La mia stupida acconciatura si era disfatta durante la fuga, le forcine dovevano aver lasciato una scia da Eaton Place al portone della chiesa. «Perché non torniamo a Temple?» «Qui si sta meglio. Se tornassimo lì, ricomincerebbero quelle interminabili discussioni. E sinceramente per una volta faccio volentieri a meno di essere comandato a bacchetta da zio Falk.» Ah! Adesso ero io in vantaggio. «Non è una bella sensazione, vero?» Lui scrollò il capo. «Decisamente no.» Udimmo un rumore provenire dalla navata. Sussultai e lanciai un’occhiata oltre la tenda. Era solo una vecchina che aveva acceso una candela. «E se dovessimo tornare indietro subito? Non vorrei finire in braccio a... mmm... un bambino che deve fare la comunione... e immagino che neanche il parroco ne sarebbe troppo contento.» «Non devi preoccuparti», rispose Gideon ridendo sottovoce. «Alla nostra epoca questo confessionale non è più in uso. È per così dire riservato a noi. Il pastore Jacob lo chiama l’ascensore per gli inferi. Ovviamente anche lui appartiene alla schiera dei Guardiani.» «Quanto manca ancora prima del ritorno?» Gideon guardò l’orologio. «Abbiamo ancora un po’ di tempo.» «Allora sarebbe meglio utilizzarlo in maniera sensata.» Ridacchiai. «Vuoi confessarti, figliolo?» Mi era uscito così, di getto, e subito mi resi conto dove saremmo andati a parare. Ero seduta con Mr Gideon-alias-So-tutto-io in un confessionale all’inizio del secolo scorso e non sapevo fare di meglio che flirtare! Cielo! Perché Leslie non mi aveva preparato un faldone di istruzioni al riguardo? «Solo se anche tu mi confiderai i tuoi peccati.» «Ti piacerebbe.» Mi affrettai a cambiare argomento. Era decisamente un terreno pericoloso. «Sai, avevi ragione con l’idea della trappola. Ma come facevano Lucy e Paul a sapere che saremmo arrivati proprio oggi?» «Non ne ho la più pallida idea», rispose Gideon sporgendosi improvvisamente così tanto verso di me che i nostri nasi si sfiorarono. Nella penombra i suoi occhi luccicavano scurissimi. «Forse però tu lo sai.» Lo fulminai con un’occhiata stizzita (due volte irritata: primo per la domanda, e poi, forse ancora di più, per la sua improvvisa vicinanza). «Chi, io?» «Potresti essere stata tu a rivelare a Lucy e Paul il luogo e l’ora del nostro appuntamento.» «Che cosa?» Dovevo avere di sicuro un’aria ebete. «Che scemenze! Quando lo avrei fatto? Non so nemmeno dove è custodito il cronografo. E non permetterei mai che...» mi interruppi, prima di lasciarmi sfuggire qualcos’altro. «Gwendolyn, tu non hai la minima idea di tutto ciò che farai in futuro.» Questo dovevo riconoscerlo. «Avresti potuto farlo benissimo anche tu», ribattei. «È vero.» Gideon tornò dalla sua parte del confessionale e vidi la sua dentatura bianca baluginare nella penombra. Stava sorridendo. «Credo che in futuro le cose tra noi diventeranno molto eccitanti.» Queste parole mi provocarono un formicolio allo stomaco. La prospettiva di future avventure avrebbe dovuto spaventarmi, e invece in quel momento mi riempì di una gioia sfrenata. Già, sarebbe stato tutto molto eccitante. Per un po’ restammo in silenzio. Poi Gideon disse: «Ti ricordi l’altra volta, in carrozza, quando abbiamo parlato della magia del corvo?» Me ne ricordavo benissimo. Ricordavo ogni singola parola. «Hai detto che io non potevo possedere questa magia perché ero una ragazza qualunque. Una ragazza come tante, di quelle che vanno al gabinetto in gruppo e spettegolano di Lisa che...» Una mano si posò sulle mie labbra. «Ricordo quello che ho detto.» Gideon si era di nuovo sporto dalla mia parte. «E mi dispiace averlo fatto.» Cosa? Rimasi seduta come fulminata, incapace di muovermi e anche di respirare. Le sue dita mi sfiorarono caute le labbra, mi accarezzarono il mento, poi risalirono sulla guancia fino alla tempia. «Non sei una ragazza qualunque, Gwendolyn», bisbigliò, mentre mi accarezzava i capelli. «Sei straordinaria. Non hai bisogno della magia del corvo per essere speciale per me.» Il suo viso si avvicinò ancora di più. Quando le sue labbra toccarono la mia bocca, chiusi gli occhi. Okay. A questo punto potevo svenire. Dagli Annali dei Guardiani 24 giugno 1912 Tempo soleggiato, 23 gradi all’ombra. Lady Tilney arriva puntuale alle nove per trasmigrare. Il traffico nella City è stato bloccato da un corteo di protesta di femmine esaltate che chiedono il diritto di voto per le donne. Di sicuro, prima che ciò accada, è più probabile che fonderemo colonie sulla luna. Per il resto niente da segnalare. Autore: Frank Mine, cerchia interna Epilogo Hyde Park, Londra 24 giugno 1912 «Questi parasole sono davvero molto pratici», osservò lei facendone ruotare uno tra le mani. «Mi chiedo come mai non vengano più utilizzati.» «Forse perché qui piove in continuazione?» Lui le sorrise. «Comunque sono davvero oggetti deliziosi. E anche gli abiti estivi di pizzo bianco ti stanno davvero benissimo. Pian piano mi sto abituando pure alle gonne lunghe. Quando le togli, è sempre un momento eccezionale.» «Io invece non riuscirò mai ad abituarmi a non portare più i pantaloni», si lamentò lei. «Mi mancano da morire i miei jeans.» Lui sapeva benissimo che non erano i jeans a mancarle da morire, ma evitò di dirlo. Rimasero in silenzio per un po’. Il parco era così meravigliosamente tranquillo e inondato dal sole estivo, la città che si estendeva alle sue spalle sembrava costruita per durare in eterno. Lui pensò al fatto che in un paio d’anni sarebbe scoppiata la Prima guerra mondiale e gli Zeppelin tedeschi avrebbero gettato bombe su Londra. Forse allora avrebbero fatto bene a rifugiarsi in campagna. «È identica a te», disse lei all’improvviso. Lui capì subito di chi stava parlando. «No, principessa, è uguale a te. Da me ha preso solo i capelli.» «E quel modo di piegare la testa di lato quando riflette.” «È bellissima, vero?» Lei annuì. «È anche molto buffo. Due mesi fa l’abbiamo tenuta tra le braccia che era appena nata e adesso ha già sedici anni e mi supera in altezza di una spanna buona. Pensare che ha solo due anni meno di me.» «Già, è pazzesco.» «Comunque sono anche molto sollevata di sapere che sta bene. Peccato per Nicolas... perché è dovuto morire così giovane?» «Di leucemia. Non l’avrei mai pensato. Poverina, perdere così presto il padre.» Lui si schiarì la gola. «Spero che si tenga alla larga da quel ragazzo. Dal mio... mmm, nipote o qualunque cosa sia. Questi rapporti di parentela sono sempre rimasti un mistero per me.» «Non è tanto difficile: il tuo bisnonno e il suo trisavolo erano gemelli. Quindi il tuo trisavolo è anche il suo quadrisavolo.” Di fronte alla sua espressione interdetta, lei scoppiò a ridere. «Ti faccio un disegno.» «L’ho detto io, è un mistero. In ogni caso quel tipo non mi piace. Hai visto come la comanda a bacchetta? Per fortuna lei non glielo permette.» «Lei è innamorata di lui.» «Non è vero.» «Invece sì. Solo che ancora non lo sa.» «E tu come fai a saperlo?» «Mah, è semplicemente un tipo irresistibile. Santo cielo, hai visto i suoi occhi? Verdi come quelli di una tigre. Anch’io mi sono sentita un po’ mancare quando mi ha guardato con tanta cattiveria.» «Che cosa? Non dirai sul serio! Da quando ti piacciono gli occhi verdi?» Lei rise. «Non preoccuparti. I tuoi occhi restano sempre i più belli. Almeno per me. Ma credo che lei preferisca gli occhi verdi...» «Non succederà mai che si innamori di quell’arrogante.” «Invece è già innamorata. E lui è uguale a te prima.» «Come, scusa? Quel. . .! Non è assolutamente come me. Io non ti ho mai dato ordini, mai!» Lei sorrise. «Lo hai fatto, invece.» «Ma solo quando era necessario.» Si scostò il cappello sulla nuca. «Farà meglio a lasciarla in pace.» «Sei geloso.» «Sì», riconobbe lui. «È normale, no? La prossima volta che lo vedrò, gli dirò di tenere le zampacce lontano da lei!» «Credo che in futuro li incontreremo spesso entrambi», disse lei tornando seria. «E penso che potresti cominciare già a ripassare le tue mosse di scherma. Ne vedremo delle belle.» Lui lanciò in aria il bastone da passeggio e lo riafferrò abilmente. «Io sono pronto. E tu, principessa?» «Quando vuoi.» L’avventura continua. . . Kerstin Gier è nata nel 1966 e vive con marito e figlio vicino a Bergisch Gladbach, in Westfalia. Alla sua attività di insegnante ha affiancato dal 1995 quella di scrittrice. I suoi romanzi, come Männer und andere Katastrophen, da cui è stato tratto un film, Für jede Lösung ein Problem e Die Mütter-Mafia sono rimasti per mesi in vetta alle classifiche tedesche dei libri più venduti, ma è con Red che Kerstin Gier ha raggiunto il successo mondiale. Un successo da 600.000 copie e diritti venduti in 15 Paesi.