Terza Pagina 39
Corriere della Sera Martedì 31 Marzo 2009
Elzeviro
Incontri Parla la giovane scrittrice: una narrativa spregiudicata, lontana da ogni nostalgia o esotismo
Il diario di Tullio Kezich sulla «Dolce vita»
Iran, l’altra diaspora liberal e scurrile
FELLINI COME GOYA
CRITICO DELLA SOCIETÀ
di FERNANDO PROIETTI
di LIVIA MANERA
Tullio Kezich, autore di «Noi che abbiamo fatto La dolce vita» (Sellerio), è stato appena nominato presidente onorario
della Fondazione Federico Fellini di Rimini. Kezich, autore,
sceneggiatore e critico del «Corriere della Sera», ha dedicato
(tra l’altro) al regista riminese una biografia edita da Rizzoli.
D
ieci anni dopo l’uscita del film nelle sale,
Ennio Flaiano, che
dell’opera era stato il
principale ispiratore e sceneggiatore, scriveva a Federico Fellini con il quale, nel tempo, i rapporti si erano andati sciupando
tra lo sconforto degli amici: «Ieri sera ho rivisto La dolce vita.
Ti confesso che c’ero andato col
lugubre presentimento di trovare tutto abbastanza offeso dal
tempo (…) Invece sono caduto
nel film come se non l’avessi
mai visto prima…». Oggi, a distanza di quasi mezzo secolo, il
capolavoro felliniano è giustamente ricordato come un
«film-emblema» (Alberto Asor
Rosa). Una pellicola che, secondo la critica (e non solo), fa da
spartiacque tra il cinema del neorealismo del primo dopoguerra e quella che sarà un’altra straordinaria stagione politico-culturale.
Una rottura «epocale» che,
caso raro in Italia, fu subito colta e recepita dal mondo intellettuale (Calvino, Moravia, Arbasino, Pasolini per citarne alcuni).
Il che con il passare del tempo
non ha obbligato, cosa altrettanto rara e desueta, ad autocritiche, riletture o revisioni. Una
messe di lodi non soltanto dal
fronte della sinistra (con qualche riserva nel Pci), ma da parte, per esempio, di voci al tempo insospettabili. Dopo aver assistito ad una proiezione privata del film, Indro Montanelli
scrive entusiasta: «Fellini (…)
non vi tocca vette meno alte di
quelle che Goya toccò in pittura, come potenza requisitoria
contro la sua e la nostra società».
Ecco perché è meritevole che
Tullio Kezich, critico cinemato-
Porochista Khakpour contro «il perbenismo neocon» di Azar Nafisi
grafico del Corriere della Sera e
testimone di quell’avventura,
abbia rovistato a fondo nei cassetti della sua memoria per ampliare e mettere a punto il suo
journal di lavorazione. Un viaggio che egli considera, a ragione, un vero e proprio «bagno di
pellicola». Un amarcord in presa diretta, rimontato alla moviola del tempo che passa, sui lunghi mesi in cui Kezich fu imbarcato da mozzo provetto sulla nave governata dal maestro Federico. Un diario oggi riproposto
con il titolo da reduce un po’ nostalgico di quell’avventura tra
Cinecittà e la Roma notturna e
magica degli anni Sessanta: Noi
che abbiamo fatto La dolce vita
(Sellerio, pp. 252, e 13).
Un volumetto ricco di aneddoti, curiosità intellettuali, annotazioni soavi, ricordi e memorie. Dove la storia di un film diventa a sua volta un racconto
per immagini. O forse qualcosa
di più importante e profondo.
«Dobbiamo fare il montaggio
dei nostri ricordi, il girato della
memoria, per ricreare una continuità, per farne un racconto»,
ha osservato Marc Augé nel delizioso incipit al suo libro Casablanca (Bollati Boringhieri). Un
altro film memorabile interpretato da un’altra mitica coppia di
attori, Humphrey Bogart e Ingrid Bergman, di cui, appunto,
il grande antropologo francese
si serve per rievocare non solo
gli anni della sua infanzia, della
sua giovinezza e della guerra.
Per l’autore dei Nonluoghi, le
immagini di Casablanca restano ancora oggi un «detonatore
di ricordi». Anche Tullio Kezich
s’illudeva di essere stato soltanto testimone e spettatore de La
dolce vita prima di accorgersi
che era dentro la storia sua e
della nostra vita.
L
a protagonista di questa storia è una ragazza esotica, minuta e molto graziosa in un
abitino di seta senza maniche e stivaletti
spavaldi, che dice: «Il primo ricordo della
mia vita risale a quando avevo due anni e mezzo e
ho visto i missili della contraerea nel cielo di Teheran. Era l’epoca della guerra Iran-Iraq, e i missili erano nostri, ma questo non lo sapevamo. Nel mio ricordo sono in braccio a mia madre davanti a un rifugio
antiaereo, e lei sta piangendo. Da allora ho sempre
avuto il terrore di qualunque cosa voli nell’aria. Per
cui immaginatevi lo choc dell’11 settembre. Pensavamo di esserci trasferiti in una terra senza terroristi, e
di colpo era come se il Medio Oriente ci avesse raggiunti».
Siamo a New York nella sala da pranzo déco di un
club per signore e l’allegra
originalità di questa ragazza a metà tra Amy Winehouse e Audrey Hepburn, è un
torrente in piena. In due
ore eccola raccontare della
sua passione per la cultura
pop, della vivacità dei blogger iraniani, di un incidente in taxi che nel 2005 le ha
portato via parte della faccia (ricostruita alla perfezione), dell’esperienza di giornalista al Village Voice e a
Spin, di quando ha fatto la
modella, la barista, la commessa, la critica di ristoranti e la cavia per un parrucchiere, di una quantità di fidanzati benestanti che hanno sempre pagato l’affitto,
dei periodi di penuria e da
single, del corso di scrittura creativa che sta tenendo alla Bucknell University,
della fuga in autobus con i genitori attraverso la Turchia, e del fatto che quando l’editore americano Grove/Atlantic ha comprato i diritti del suo romanzo
d’esordio (in uscita da Bompiani col titolo Figli e altri oggetti infiammabili), e ha voluto pubblicarlo in
tutta fretta senza revisioni, le è venuta una tale crisi
d’ansia da farla precipitare in uno stato di anoressia
grave.
Così è Porochista Khakpour (pronuncia Porocista
Hakpur): ambiziosa, talentuosa e fragile. Una ragazzina di trent’anni dal complicato nome zoroastriano, che dice: «Quando mi presento, tutti dicono: hai
un soprannome? E io rispondo: No, fai uno sforzo e
impara a dire: P, o, c...». Suo padre è un fisico nucleare con un dottorato al Mit di Boston. Sua madre è la
figlia del presidente della National Iranian Oil Company e la nipote del vice primo ministro e fondatore
del programma nucleare della Persia dello Shah. Po-
rochista è nata a Teheran, è scappata con i suoi in
California quando aveva tre anni, e crescendo americana ha trovato una voce letteraria piena di umorismo, intelligenza, ingenuità, allegria, tristezza, onnipotenza e frustrazione. Una voce che si potrebbe definire massimalista (ma si potrebbe anche ripescare
la definizione di «realismo isterico» coniata da James Woods per la Zadie Smith della prima ora), se
non rappresentasse anche la metà più spregiudicata, giovane, innovativa, scurrile e liberal della diaspora intellettuale iraniana. Dove l’altra metà è rappresentata dai romanzi anglo-iraniani che ostentano il
proprio conformismo fin dal titolo «speziato» (tipo:
Pollo allo zafferano), e dal conservatorismo di Azar
Nafizi, il cui bestseller Leggere Lolita a Teheran, con
la sua educata nostalgia per il passato pre-rivoluzionario dell’Iran e la sua rappresentazione di un Paese
che chiede di essere salvato dalla più abbietta censu-
Esordio
ra culturale, ha portato per anni acqua al mulino della destra neocon che invocava la necessità di «esportare la democrazia in Iraq» con le maniere forti.
Quella voce spregiudicata è la prima cosa che colpisce fin dal titolo in Figli e altri oggetti infiammabili, un romanzo d’immigrazione politicamente scorrettissimo, i cui protagonisti sono un ragazzo traumatizzato e ribelle che si chiama Xerxes come Serse
il figlio «perdente» di Dario, e il suo cinico e disilluso padre Darius come Dario il re dei persiani. Di cognome farebbero Odd-damn, ma in America diventano Adam, e come dice Darius a Xerxes bambino:
«Se ti chiedono se sei parente di Adamo tu digli di
no».
Colmo dell’ironia, Darius e Xerxes e Laleh la mamma, in fuga anche loro dai missili di Teheran, si ritroveranno a vivere in un condominio californiano che
si chiama «Giardino dell’Eden». Questo, s’intende,
prima che padre e figlio litighino e Xerxes se ne va-
Pioniera
Alfonso Gianni e la crisi del liberismo
Dibattito a Milano sull’imperatore svevo
Il nuovo «libretto rosso»
di chi spera nella Cina
Lo strano mito di Federico II
un sovrano un po’ federalista
P
lo hanno presentato a Bari
Q uando
un gruppo di guide di Castel del
er molti la crisi finanziaria internazionale è fonte di angoscia, ma Alfonso Gianni la vive con un certo sollievo, visto che «oggi il confronto fra destra e sinistra potrebbe essere meno impari di un tempo». L’autore del saggio
Goodbye liberismo (Ponte alle Grazie,
pp. 361, € 16,50) ritiene che siano venuti al pettine i nodi di uno sviluppo distorto, sul quale si era innestata l’egemonia culturale dei paladini del mercato.
La trascorsa fase di espansione produttiva era contraddistinta in America, nota
Gianni, «dalla sostanziale invarianza, se
Alfonso Gianni,
ex deputato di
Rifondazione
comunista, ha scritto
diversi libri con
Fausto Bertinotti
non diminuzione, del valore reale delle
retribuzioni e dalla crescente precarizzazione della forza lavoro», per cui l’unico
modo di proseguire sulla via dei consumi di massa era praticare il «credito su
larga scala» alle famiglie. Un meccanismo che si è inceppato con il disastro
dei mutui subprime.
L’altro punto su cui il libro insiste è
la coincidenza tra l’esaurimento di una
«fase della globalizzazione capitalistica»
e «la fine dell’egemonia americana e
l’inizio di quella asiatica e cinese in particolare», dato che ormai non è più l’Occi-
dente «a trainare il sistema su scala
mondiale».
Proprio questo mutamento sembra
però inficiare non poco la praticabilità
delle ricette suggerite da Gianni: rilancio e riforma dell’Onu (senza più diritto
di veto delle grandi potenze), governo
globale della finanza, ripresa del conflitto sociale, assunzione dei contenuti proposti dal movimento «altermondialista» (o no-global). Infatti la Cina resta
un Paese ferocemente geloso della sua
sovranità nazionale, con un regime a
partito unico che nega le libertà politiche e sindacali. Il suo sarà forse, come
scrive Gianni, un inedito «capitalismo
entro una crisalide statuale socialista»,
ma certo appare quanto meno azzardato
sostenere che «ricorda abbastanza da vicino il modello europeo degli anni Sessanta». E non sembra molto realistico
confidare nei fermenti di «nuova sinistra» che si agitano a Pechino.
Se l’alternativa viene dal gigante asiatico, conviene usare qualche cautela nel
rallegrarsi per il declino dell’influenza
americana. C’è il rischio concreto di rimpiangerla. Anche a sinistra.
Antonio Carioti
R Il saggio di Alfonso Gianni «Goodbye
liberismo» sarà presentato a Milano
domani alle 18 presso la libreria Feltrinelli di piazza Duomo. Interverranno: Dario Di Vico, Onorio Rosati, Cristina Tajani, Ferdinando Targetti
Monte è andato a manifestare contro
l’autore, reo di avere messo in dubbio
le teorie esoteriche legate all’edificio e
al suo principale inquilino, Federico II
di Svevia, da sempre pezzo forte delle
visite guidate per turisti. Succede anche questo, quando i grandi della storia sopravvivono ai secoli per diventare miti, piegando la propria realtà ad
uso di situazioni e conflitti moderni. E
del rischio che si corre adattando la storia alle necessità dell’oggi hanno diL’imperatore
Federico II di
Svevia (1194-1250),
re di Sicilia, ritratto
in una miniatura
del XIII secolo
scusso ieri a Milano, nella sala Guicciardini della Provincia, il presidente della
Provincia Filippo Penati, il direttore
del Corriere della Sera Paolo Mieli, lo
scrittore Piero Colaprico, il presidente
dell’«Associazione regionale pugliesi»
Dino Abbascià e Marco Brando, giornalista e autore del libro Lo strano caso di
Federico II di Svevia (edito da Palomar). Lo stesso incorso nella furia delle
guide di Castel del Monte.
Brando, genovese con alle spalle diversi anni a Bari al Corriere del Mezzogiorno, si è divertito a raccontare l’inna-
moramento della Puglia per l’imperatore svevo. Una cotta dura a morire ma
non condivisa né dai tedeschi, smemorati connazionali di Federico, né dai leghisti nostrani, che lo hanno eletto a
simbolo di uno statalismo pernicioso.
«Usare la storia per giustificare il
presente», chiamando in causa, magari
dopo l’11 settembre, l’accordo tra l’imperatore svevo e il sultano di Gerusalemme come esempio di concordia tra
Oriente e Occidente, «si può fare — ha
messo in guardia Mieli — ma solo a
prezzo di bestiali nefandezze. Perché la
storia, e solo se analizzata con strumenti sofisticati, può insegnare casomai a
capire le complicazioni del presente».
La tentazione però è forte se Federico,
«moderno nella sua capacità di leggere
le diverse realtà territoriali», nelle parole di Penati diventa portabandiera di
un federalismo che «se ben interpretato, può essere un incentivo alla coesione sociale e all’unità nazionale».
Un modello da maneggiare con cura. Il resto è folklore, e un mito tanto
radicato nel cuore dei pugliesi da partorire — e Brando li ha scovati con cura
— decine di istituti, alberghi, negozi di
ferramenta che, nel nome, rendono
omaggio all’imperatore amante della
poesia e della caccia col falcone. Anche
una compagnia aerea dalla vita breve,
la Federico II Airways. Lo slogan? «I fagiani volano, perché i foggiani no?».
Giulia Ziino
Sotto
a sinistra,
Porochista
Khakpour,
autrice
del romanzo
«Figli e altri
oggetti
infiammabili»
in uscita
domani
da Bompiani
(traduzione
di Licia Vighi,
pp. 424,
e 19)
Qui sopra,
Azar Nafisi
(foto Basso
Cannarsa).
È stata
la prima
donna
ad essere
eletta
al parlamento
iraniano.
Il suo
«Leggere
Lolita
a Teheran» è
stato tradotto
da Adelphi
da a studiare in un college della East Coast, per finire a vivacchiare a New York fino a quella splendida,
tersa mattina di settembre del 2001, in cui, insieme
alle Torri, andrà in frantumi anche la sua fragile
identità. «Non so cosa sia stato più inconcepibile —
ricorda Porochista che ha visto la tragedia delle Torri dalla finestra —, se assistere in prima fila al più
devastante spettacolo cinematografico della mia vita, o diventare cittadina americana due mesi dopo,
giurando fedeltà alla bandiera in un palazzo di Brooklyn dove si sentiva ancora puzza di bruciato». Scriverne, dice, è stata la sua terapia. E scegliere la forma di un romanzo brillante e maleducato, è stata la
sua ribellione all’ondata di narrativa e memorialistica «etnica e melensa» che ha invaso il mercato americano da Leggere Lolita a Teheran, in poi. «Dovrebbero prendersi un po’ meno sul serio e scrivere un
po’ meglio! Non se ne può più della zuccherosa sincerità di questi libri, del loro ammirevole contegno e
calcolata accettabilità. Non
se ne può più di quello che
scrivono gli iraniano-americani — che poi son tutte
donne. I loro memoir sono
pieni di donne velate e stereotipate, di orientalismo e
colonialismo». Così, dice,
stanno le cose a «Terangeles», ovvero nella sontuosa
Beverly Hills dei fedeli allo
Shah. E anche se la famiglia
di Porochista abita più modestamente a Pasadena, lei
ammette che ciò che l’ha
salvata dal diventare «la
Ann Coulter iraniana», è
stato partecipare con i genitori a una manifestazione
di protesta a Washington
nell’87, ed essere strappata
alla noia dall’improvvisa visione di un uomo che si
dava alle fiamme (era lo scrittore pacifista Neush Farrahi e morì due settimane dopo). In sostanza, è come se in Figli Porochista ci dicesse: venite a vedere
cosa significa crescere in una famiglia che ha nostalgia del Paese da cui è fuggita, e vive in uno da cui si
sente estranea. Sperimentate anche voi «come sono
soffocanti per i figli degli immigrati i ricordi dei genitori, e come si desideri solo ricominciare da zero».
Ma soprattutto venite a vedere come, quando da un
lato ti vergogni della violenza degli ayatollah e dall’altro ti senti morire scoprendo che mamma e papà bevevano Martini al country club mentre la polizia segreta dello Shah torturava e uccideva — venite a vedere come l’unica salvezza dal naufragio dell’identità sia la capacità di giocare con un idioma semplice
e ricchissimo come quello inglese, che è l’unico, vero, potente strumento di reinvenzione, almeno da
Nabokov in poi.
Scarica

Corriere della Sera 31 Marzo 2009