Ultimi baci nei «giardini del Decameron». Allusioni intertestuali nei libretti di Boito per Verdi  Anselm Gerhard «Il pessimismo è l’angolo acuto dell’intelletto, l’ottimismo è l’angolo ottuso, e per far breccia nell’avvenire c’è gran bisogno di pungere, di piagare, di crivellare.» 1 Sulla vasta formazione letteraria di Arrigo Boito non può sussistere alcun dubbio. L’aristocratico, di educazione francese, era un attento osservatore di tutte le correnti dell’epoca e disponeva a proprio piacimento dei canoni storici della letteratura italiana e straniera. A tale riguardo non risulta affatto sorprendente che costui pure nell’attività librettistica eccellesse sempre per richiami intertestuali. Da questo punto di vista il caso più clamoroso è rappresentato sicuramente dal Mefistofele, scritto per se stesso compositore, dove la maggior parte delle allusioni genera un vero dialogo virtuale con l’originale goethiano. Ma anche nei tre libretti per Giuseppe Verdi – con un po’ di generosità si permetta di considerare le integrazioni di Boito al Simon Boccanegra di Piave e Montanelli alla stregua di un suo scritto effettivo – si rinvengono allusioni letterarie le quali – per giunta – non si riferiscono alle fonti principali dei drammi presi in considerazione. Il fatto più sbalorditivo – forse non esclusivamente per l’osservatore straniero – emerge quando si consideri quanto tardi simili rimandi puntuali vennero identificati – si potrebbe parlare addirittura di citazioni – e a quale studio poco dettagliato siano stati fino ad oggi sottoposti. Pur attenendomi alla sintesi richiesta, nelle righe seguenti vorrei occuparmi con maggiore minuziosità di due esempi, e cioè di una scena dal primo atto del Simon Boccanegra e di un distico dal Falstaff – protagonisti in questo primo approssimarsi alle tecniche letterarie peculiari del penultimo fin‐de‐siècle sono accanto a Boito e Verdi i tre padri della letteratura italiana: Petrarca, Boccaccio e Dante. 1 Solo negli anni ’80 del secolo scorso si definì con più precisione il ruolo svolto dal «romito di Sorga» nella concezione della scena della camera di consiglio nel finale del primo atto del Simon Boccanegra; in seguito a una relazione di Leonardo Pinzauti 2 proposta nelle vesti di semplice abstract, Daniela Goldin richiamò l’attenzione sullo sfruttamento intensivo da * Un ringraziamento di cuore a Giada Viviani (Berna) per la traduzione in italiano del mio testo tedesco e a Luca Zoppelli (Friburgo) per i vari suggerimenti e la lettura critica di una precedente versione del presente scritto. 1 ARRIGO BOITO, Polemica letteraria («Figaro», 4 febbraio 1864), in: ARRIGO BOITO, Opere letterarie, a cura di ANGELA IDA VILLA, Milano, Edizioni Otto/Novecento, 20012, p. 330. 2 Cfr. LEONARDO PINZAUTI, «Simon Boccanegra» nel romanticismo italiano e nelle identità democratiche di Verdi. In: Quarto congresso internazionale di studi verdiani (Chicago – Lyric Opera 1974). Sunti delle relazioni, Parma, Istituto di Studi Verdiani, [s.d.]; cfr. anche la versione edita in seguito: LEONARDO PINZAUTI, Le due «stupende lettere» del Petrarca e il romanticismo di Giuseppe Verdi, «Quadrivium», n. 27 (1986), pp. 115‐121. 1
parte di Boito delle Lettere familiari di Petrarca, indirizzate al Doge di Genova. L’edizione del testo originale in latino era apparsa nel 1862, quindi cinque anni dopo il debutto della prima versione dell’opera verdiana; successivamente il curatore Giuseppe Fracassetti ne fece seguire anche una traduzione in italiano. 3 Per quanto concerne la risoluzione di impostare la scena orientandola sulla corrispondenza di Petrarca, si potrebbe convenire con le «riserve nei riguardi di Boito librettista» espresse dalla Goldin in attinenza all’assetto propriamente letterario, ma con tutta la stima per i suoi eccellenti lavori scientifici non posso condividerne il giudizio secondo cui perfino in tali libretti estremamente artificiosi sia stato «sempre Verdi il responsabile primo dei suoi testi». 4 Non mi sembra casuale che nel bel saggio del 1985 le sia sfuggita l’esatta citazione da Petrarca «E vo’ gridando pace / E vo’ gridando amor», la quale forse è priva di una funzione rilevante per la macrostruttura della scena, ma riveste d’altro canto un significato difficilmente soppravvalutato nei confronti dell’effetto drammaturgico‐musicale. I versi di Boito costituiscono una ripresa letterale di quelli posti a conclusione della Canzone n. 128 nel Canzoniere di Petrarca, dove l’ultimo metro del lungo componimento non è scandito da sette, bensì da undici sillabe: «I’ vo gridando: pace, pace, pace». Nel momento del pezzo concertante, decisivo ai fini della drammaturgia musicale, il verso di Boito si trova in una collocazione non meno “strategica” rispetto a quanto si verifica in Petrarca, poiché esso interviene come rinforzo a quell’apice lirico presso cui l’opera italiana tradizionale torna in un certo senso a se stessa. Rappresenta naturalmente una domanda scabrosa chiedersi fino a qual punto vogliamo attribuire agli autori di un’opera lirica l’intento di riflettere assieme sull’intero contesto di una citazione estrapolata da un ambito differente. Ma pure nella consapevolezza del rischio di un eccesso di interpretazione, déformation professionnelle di ogni umanista: intendo dire, dovrebbe indurci a meditare il fatto che l’appello di Petrarca all’«Italia mia, benché ’l parlar sia indarno» tratti tanto della necessità di ristabilire la pace tra le fazioni italiane come dell’inevitabile difesa del «Latin sangue gentile» e dell’«antico valore ne l’italici cor» contro «la tedesca rabbia» e il «bavarico inganno». Entrambi i concetti potrebbero aver influito sul pensiero di Verdi e Boito. Con quanta esattezza sia lecito leggere il Simon Boccanegra – soprattutto nella sua seconda versione – in qualità di commento contemporaneo ai problemi politici dell’appena riunito Regno d’Italia, è stato illustrato pochi anni fa da Jürgen Schläder. 5 Certamente in tali questioni di fondamento anzitutto sociale la contrapposizione storica con i vicini d’oltralpe non assume alcuna importanza. Un’ottica del tutto dissimile si apre quando guardiamo non alla situazione sociopolitica, ma a quella artistico‐ideologica degli anni ’80 dell’800. A partire dal 1872 il wagnerismo era assurto a parola d’ordine anche in Italia; la differenziazione nei confronti della musica tedesca fu un Leitmotiv della pubblicistica musicale del XIX secolo e la necessità di contrapporre un qualcosa di specificamente latino al modello di un “nuovo” dramma musicale imposto dal Nord non influenzò soltanto Verdi, divenuto anziano e scettico, ma addirittura Boito, originariamente wagneriano. Nel 1894, all’interno del carteggio con il critico parigino Camille Bellaigue, Boito interpretò senza mezzi termini il Cfr. DANIELA GOLDIN, Il «Simon Boccanegra» da Piave a Boito e la drammaturgia verdiana, in: DANIELA GOLDIN, La vera Fenice. Librettisti e Libretti tra Sette e Ottocento (Piccola biblioteca Einaudi, 454), pp. 283‐334: 308. 4 Ivi, p. 313. 5 Cfr. JÜRGEN SCHLÄDER, Die patriarchale Familie. »Simon Boccanegra« und Verdis Geschichtsphilosophie, in: »Simon Boccanegra«. Programma di sala della Bayerische Staatsoper, Monaco, 1995, pp. 28‐35: 28‐29. 2
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Falstaff di Verdi alla luce della critica mossa da Nietzsche a Wagner, quale componente cioè di una «mission» («missione») umanistica: «il faut méditerraniser l’esprit humain; le vrai progrès n’est que là». 6 Considerata in tal modo, l’implorazione di pace al culmine del pezzo concertato sembra però il manifesto di una prassi di teatro musicale decisamente latina. La frase del Doge, modulante in maniera quasi impercettibile da Fa diesis maggiore a Do diesis maggiore lungo il disegno di un tritono melodico, con la sua «pentatonic tinta» 7 è da annoverarsi, sicuramente non solo secondo il mio parere, tra le melodie più toccanti in tutta l’opera di Verdi – Claudio Abbado ha parlato di «une des phrases les plus significatives dans l’œuvre de Verdi»; 8 l’apice dell’intervento di Amelia in «questo pezzo d’assieme [che] va cantato da tutti con molta calma e dolcezza» – così la disposizione scenica compilata da Giulio Ricordi 9 – mostra quante potenzialità una convenzione del finale giudicata ormai esaurita fosse ancora in grado di offrire a un compositore consapevole di sé – sempre che le parole da intonare gli venissero fornite con un vivo senso per la qualità letteraria. 2 Nel contempo ogni studioso di Verdi sa, alla pari di qualche appassionato, che due versi fondamentali del Falstaff di Verdi e Boito risalgono a Boccaccio: «Bocca baciata non perde ventura. / Anzi rinnova come fa la luna». Ci si può tuttavia meravigliare del ritardo con cui la ricerca, appena negli anni ’70 del ‘900, si fece attenta a questo importante rimando intertestuale presente nella poesia di Boito, tra l’altro grazie una segnalazione di Lorenzo Bianconi pubblicata da Wolfgang Osthoff. 10 Ciò è irritante, perché Boito nel libretto stampato ha sempre evidenziato entrambi i versi in corsivo, identificandoli quindi quali corpi estranei, ma il fenomeno è spiegabile nella misura in cui era possibile, come è apparso fino ad oggi, ascrivere la suddetta frase al repertorio di proverbi di carattere popolaresco. 11 Nonostante da allora si sia ampiamente diffusa la cognizione dei riferimenti a Boccaccio contenuti nel Falstaff, all’apparenza però nessuno ha mai affrontato il quesito su cosa il contesto originario di questi versi potrebbe significare ai fini della concezione «Bisogna rendere “mediterraneo” lo spirito umano; il vero progresso non è che lì»; lettera del gennaio 1894 indirizzata da Boito a Camille Bellaigue; citata da: Il carteggio completo Boito‐Bellaigue del Museo teatrale alla Scala, a cura di GIAMPIERO TINTORI, in: Arrigo Boito musicista e letterato, a cura di GIAMPIERO TINTORI, [Milano], Nuove edizioni, 1986, pp. 151‐179: 155. 7 «Tinta pentatonica»; JULIAN BUDDEN, The operas of Verdi, Londra, Cassell, 1978, vol. II, p. 312. 8 «Una delle frasi più significative nell’opera di Verdi»; cfr. anche CLAUDIO ABBADO e SYLVIANE FALCINELLI, Commentaire musical, «L’Avant‐scène opèra», n. 19 (gennaio/febbraio 1979): Verdi: «Simon Boccanegra», pp. 20‐
92: 62. 9 GIULIO RICORDI, Disposizione scenica per l’opera «Simon Boccanegra» di Giuseppe Verdi compilata e regolata secondo la messa in scena del Teatro alla Scala, Milano, Ricordi, [1883], p. 25 (ristampa anastatica in: MARCELLO CONATI e NATALIA GRILLI, «Simon Boccanegra» di Giuseppe Verdi, Milano, Ricordi, 1993, pp. 127‐186: 153). 10 Cfr. WOLFGANG OSTHOFF, Il sonetto nel «Falstaff» di Verdi, in: Il melodramma italiano dell’Ottocento. Studi e ricerche per Massimo Mila, a cura di GIORGIO PESTELLI (Saggi, 575), Torino, Einaudi, 1977, pp. 157‐183: 160, nota 2. 11 Cfr. GIOVANNI BOCCACCIO, Decameron, a cura di Vittorio Branca, Firenze, Le Monnier, 1951, p. 249, nota 7: «È questa, credo, la prima testimonianza del proverbio popolarissimo». 3
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letteraria e drammatico‐musicale di Verdi e Boito. La citazione deriva dalla settima novella della seconda giornata del Decameron; tornerò a occuparmi dettagliatamente di essa al termine delle mie riflessioni. Prima dobbiamo ragionare attorno alla questione riguardo a chi, come e perché Boito e Verdi abbiano posto in bocca i versi di Boccaccio. 3 Volgiamo perciò lo sguardo alla giovane coppia d’innamorati composta da Nannetta e Fenton, alla quale persino da parte di osservatori critici viene attribuita la funzione di garantire un momento di ottimistico sollievo nell’ambito della struttura sperimentale cinico‐sarcastica che il Falstaff rappresenta. All’incirca così argomenta Thomas Bauman, affatto risoluto contro «the image of playful, innocent young souls taking refuge from reality in their own world». 12 Egli pensa tuttavia di poter inoltre constatare essere Fenton e Nannetta «two of opera’s most chaste young lovers», 13 e questo a suo avviso sarebbe «beyond dispute». 14 La lettera spesso citata di Boito a Verdi dove si legge che «quel loro amore […] serve a far più fresca e più solida tutta la commedia» 15 pare confermare una simile interpretazione. Deve esserci concesso però l’interrogativo se termini quali «fresco» e «solido», nonché la metafora ivi impiegata («come si cosparge di zucchero una torta»), 16 possano davvero venire intesi testualmente, soprattutto quando sfruttati da un personaggio della levatura di Boito. Per anticipare la mia tesi: il sarcasmo della prospettiva d’autore di Verdi e Boito mi sembra giungere nel Falstaff a un tale grado d’impellenza che non considero fondata l’asserzione secondo cui Nannetta e Fenton incarnino un’eccezione rispetto al pervasivo sfacelo di un “mondo integro” di sentimenti puri. Perché già alla sua prima entrata in un pezzo d’assieme anche Nannetta si rivela forza trainante della «burla» ed esprime violenza contro il triste eroe eponimo. In ciò lei – al contrario di tutti gli altri personaggi – non può una sola volta far valere l’attenuante di aver subito una qualche angheria. No, il piacere suscitato da un’azione orribile è per la fanciulla fine a se stesso; nel grande ensemble all’inizio della seconda sezione del primo atto dichiara ad Alice con parole inequivocabili: «Se ordisci una burla / Vo’ anch’io la mia parte». E un po’ più oltre alla proposta sadica avanzata da Alice di arrostire Falstaff sul fuoco risponde, a mo’ di commento, con l’esclamazione «Che gioia!». Davanti a simili antefatti appare sospetta nel dialogo intimo tra Nannetta e Fenton la scelta di introdurre sin dal principio in un vorticoso crescendo un vocabolario che rinvia a inganno, rapina, se non addirittura a guerra. Certo: un siffatto lessico è da secoli proprio della poesia d’amore europea. L’effetto risulta tuttavia notevole quando Boito nella seconda parte del primo atto fa parlare i personaggi con una grande profusione di «man malandrine», «ciglia assassine», «pupille ladre», di una «freccia fatal» e di un «assalto». Fenton crede persino di poter arrischiare un bacio, ma questo, apposto sulle trecce di Nannetta, rappresenta una vittoria di Pirro, perché esclusivamente tale offensiva permette «L’immagine di anime giovani, gaie e innocenti in fuga dalla realtà per rifugiarsi in una dimensione propria»; THOMAS BAUMAN, The young lovers in »Falstaff«, «19th‐century music», n. 9 (1985/86), pp. 62‐69: 62. 13 «Due tra i più casti giovani innamorati della storia dell’opera»; ivi, p. 63. 14 «Fuori discussione»; ibid. 15 Lettera del 12 luglio 1889 indirizzata da Boito a Verdi, in: Carteggio Verdi‐Boito, a cura di MARIO MEDICI e MARCELLO CONATI, Parma, Istituto di Studi Verdiani, 1978, p. 150. 16 Ibid.: «Vorrei come si cosparge di zucchero una torta cospargere con quel gajo amore tutta la commedia». 4
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alla ragazza di strozzare – simbolicamente – l’assalitore: lei avvolge la sua treccia attorno alla gola di lui, e a Fenton rimane soltanto di implorare grazia per la propria vita. Dopo le suddette considerazioni di sicuro non giudichiamo più troppo sorprendente che in quel “duettino” di vita e di morte le voci di Nannetta e Fenton non risuonino mai assieme. 17 Unicamente nel motto a guisa di ritornello si arriva a un canto in simultanea ma ciononostante nient’affatto comune. Nel ricordo permangono così i conflitti “guerreschi” tra Nannetta e Fenton, riguardanti semplicemente una cosa: un bacio, o forse addirittura due. «Che vuoi?» domanda Nannetta la prima volta che i due si possono parlare. La risposta di Fenton è chiara: «due baci». Altri due gli vengono però rifiutati. Il distico «Bocca baciata non perde ventura. / Anzi rinnova come fa la luna» suggella assai meno il bacio d’amore di quanto non esprima invece un desiderio irrealizzato da parte di Fenton. Anche nella sua ultima entrata solistica, il sonetto del terzo atto, si narra solo della nostalgia per un bacio quasi fosse una reminiscenza dal passato più lontano. Quale apice di una poesia artificiosa interamente all’insegna del “labbro” Fenton canta: «Così baciai la disiata bocca!» 4 Ma Fenton non è certo l’unico – e con ciò si apre un’ulteriore prospettiva intertestuale – a nutrire una simile fissazione per i baci. Nel contesto delle ultime opere di Verdi è praticamente impossibile di fronte a tutte queste evocazioni d’ultimi non pensare all’Otello. In una maniera analoga l’eroe eponimo della prima opera shakespeariana di Boito e Verdi concentra nell’atto del baciare il proprio intero immaginario connesso all’erotismo e all’intimità. Alla fine del duetto d’amore del primo atto pretende da Desdemona «un bacio…» ed è quindi da lei richiamato all’ordine («Otello!…»), ma il fatto lo induce soltanto a ripetere: «Un bacio… ancora un bacio». Tale culmine della trama amorosa viene, grazie l’idea del bacio, posta in relazione diretta con la catastrofe finale. Perché sopra il corpo di Desdemona uccisa da lui stesso Otello canta di nuovo – e saranno le sue ultime parole: «Un bacio… un bacio ancora… un altro bacio…», dove nella formulazione di Boito a invocare un «altro bacio» prima della morte si può certamente supporre una precisa “eco” a un “classico” della letteratura italiana: lo stesso Boito durante il lavoro al Falstaff fa riferimento a Foscolo 18 e nelle Ultime lettere di Jacopo Ortis leggiamo, scritto da Lorenzo a Lauretta: «O! un altro tuo bacio, e abbandonami poscia a’ miei sogni e a’ miei soavi delirj: io ti morrò a’ piedi!» 19 Assegnando la medesima messa in musica a entrambe le scene del «bacio» – in Shakespeare esclusivamente quella conclusiva era stata preparata tramite un inequivocabile «to die upon a kiss» – Verdi nell’Otello conferì all’“idée fixe” del bacio un Per una discussione più dettagliata sulla struttura musicale di questo “duettino” cfr.: ANSELM GERHARD, Arrigo Boito und Giuseppe Verdi »Falstaff«. Liebe und Trug »in den Gärten des Decameron«, in: Meisterwerke neu gehört. Ein kleiner Kanon der Musik. 14 Werkporträts, a cura di HANS‐JOACHIM HINRICHSEN e LAURENZ LÜTTEKEN, Kassel, Bärenreiter, 2004, pp. 257‐284 e 326‐330: 264‐270. 18 Cfr. la lettera del 9 luglio 1889 indirizzata da Boito a Verdi, in: Carteggio Verdi‐Boito, cit., p. 146 (e il commento, ivi, pp. 385‐386); riguardo il possibile influsso di Foscolo sul sonetto di Fenton cfr. anche JAMES A[RNOLD] HEPOKOSKI, Giuseppe Verdi: »Falstaff«, Cambridge, Cambridge University Press, 1983, p. 30. 19 UGO FOSCOLO, Ultime lettere di Jacopo Ortis [1802], a cura di GIOVANNI CAMBARIN, Edizione nazionale delle opere di Ugo Foscolo, 4) Firenze, Le Monnier, 1955, rispettivamente pp. 207 e 375 (lettera del 27 maggio [1798]). 5
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significato quasi da rimembranza. Ma il baciare nell’ambito di un’opera, in cui si parla – anche – d’amore, non è la cosa più normale di questo mondo? E una tale insistenza a porre in parallelo i baci dell’Otello e del Falstaff verdiani non è pertanto smodatamente eccessiva? A simili domande si può rispondere con un no secco, constatando come un bacio sul palcoscenico dovesse costituire per il pubblico dell’epoca un’esperienza percettiva estremamente ardita, 20 sfruttata forse per la prima volta in un libretto dalle tinte francamente ›décadent‹ quale Ero e Leandro di Boito, dove nel 1871 si assiste a »lascivi abbracciamenti e, assolutamente nuovi per l’opera, […] baci passionali«. 21 Teniamo presente le rigide concezioni morali del secolo di Giuseppe Verdi e della regina Vittoria: riveste appieno un senso che qualcosa di così intimo ed erotico quanto un bacio non fosse ritenuto riproducibile in scena. Proprio nel contesto di una vasta tradizione operistica “priva di baci” risulta pertanto ammissibile vedere la scena del bacio del Falstaff in uno stretto rapporto con l’addirittura necrofila “idea fissa” di Otello morente. 5 La strana vicinanza delle scene del bacio in Falstaff e Otello viene posta in risalto da Boito e Verdi mediante inconfondibili mezzi testuali e musicali. Nel sonetto del terzo atto la melodia termina la prima volta con una cadenza perfetta sul battere (tuttavia in pianissimo), all’altezza del verso di Fenton: «Così baciai la disiata bocca!». Dal punto di vista linguistico balza qui agli occhi soprattutto il passato remoto. Come ho esposto in altra sede, il verbo «baciare» ricorre molto di rado nella librettistica italiana; 22 la prima persona del passato remoto è tanto inconsueta e presuppone un tale distacco dallo stato d’animo evocato che si impone formalmente l’associazione con le ultime parole di Otello in fin di vita – «Pria di ucciderti, sposa, ti baciai». Questa affinità con la scena della morte di Otello viene rilevata con vigore non da ultimo grazie alla messa in musica di Verdi. 23 Nello specifico il compositore non cadenza in Mi maggiore, sebbene nelle battute in questione esso rimanga sempre indicato quale tonalità di riferimento, bensì in Si maggiore. A prescindere dalla piccola differenza rispetto al corrispondente Mi maggiore nel finale dell’Otello, la configurazione melodica della cadenza è assolutamente identica: minime e semiminime puntate in Otello, semiminime e crome puntate in Falstaff per il passaggio dal terzo al secondo grado tinto agli archi da un accordo di settima di dominante, avanti la tonica conclusiva. 24 Ancora più appariscente è l’inconsueto fenomeno per cui in entrambe le cadenze una parte della frase musicale “muore” prima dell’accordo finale. Anche se le note mancanti nell’accompagnamento degli archi producono un effetto molto meno drastico in paragone alla morte di Otello, subentrata a monte del suo suono estremo, ciononostante nel Falstaff la mancata Cfr. a riguardo l’excursus: Der Kuss auf der Opernbühne, in: ANSELM GERHARD, »Falstaff«, cit., pp. 270‐274. EMANUELE D’ANGELO, Il «Tristan und Isolde» di Boito, in: ARRIGO BOITO, Ero e Leandro. Tragedia lirica in due atti, a cura di EMANUELE D’ANGELO, Bari, Palomar, 2004, pp. 15‐80: 31. 22 Cfr. ANSELM GERHARD, »Falstaff«, cit., pp. 270‐274. 23 Per un’analisi più dettagliata della forma musicale di questo “duettino” cfr.: ivi, pp. 274‐277. 24 Riguardo il significato di questa formula musicale anche nel Te Deum di Verdi composto nel 1895 e 1896, l’ultimo brano dei Quattro pezzi sacri, cfr. ANSELM GERHARD, »Commovente fino al terrore!« – Die Inszenierung der Hoffnungslosigkeit in Verdis »Otello« und »Te Deum« mit liturgischen Mitteln, in: Verdi‐Studien. Pierluigi Petrobelli zum 60. Geburtstag, a cura di SIEGHART DÖHRING e WOLFGANG OSTHOFF, Monaco, Ricordi, 2000, pp. 129‐151. 6
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risoluzione delle sensibili ai violini assume un senso esclusivamente alla luce di un’identica idea di «morendo», realizzata su cadenza d’inganno: Esempio musicale 1a: Falstaff, Atto III, parte 2 Esempio musicale 1b: Otello, Atto IV, scena 4 Ma cos’è questa spiacevole prossimità alla morte contemplata nel ruolo di Fenton? A quanto pare Boito e Verdi vollero rendere manifesta l’analogia tra morte e adempimento dell’amore – forse assistiamo pure a ciò che sotto l’influsso dell’attuale concetto di «embodying» («personificazione») viene designato come «separation of body and voice, the impossibility of simultaneity between them». 25 In ogni caso riconosciamo qui un tema di rilevanza primaria nell’universo letterario di Boito e dell’intero fin‐de siècle. Già nella prima versione di Ero e Leandro, portata a termine nel 1871 e da poco accessibile grazie un’edizione critica esemplare, il futuro librettista di Verdi fa comprendere cosa rappresenti un bacio per il proprio pensiero poetico: «Baciami! e il bacio sia / lungo, ansimante, languido, / siccome un’agonìa, / siccome un’abbandon». 26 Ancora quattro anni dopo, nell’egloga orientale La falce scritta per Alfredo Catalani, si comportano in modo assolutamente analogo i versi indirizzati da Zohra al falciatore: «Ah! più pallido sei di un fiordaliso, / Pover angelo stanco! e se non puoi / Levar quell’arma che ogni stel recide,/ Nel duol ove mi giacio / Coi freddi labbri tuoi / Dammi quel bacio, / Quell’agghiacciato tuo bacio, che uccide». 27 Nonostante simile palese associazione tra bacio e morte il compositore ovviamente non fa spirare Fenton sulla cadenza riprodotta nell’esempio musicale. Però alla fine dell’ultimo verso del sonetto Verdi esplicita con fare categorico il perire del canto di cui parla la poesia di Boito, mentre il letterato ai due endecasillabi già ripetutamente citati lascia seguire un terzo: «Bocca baciata non perde ventura. / Anzi rinnova come fa la luna. / Ma il canto muor nel bacio che lo tocca»; un ultimo verso non desunto da Boccaccio, ma che di nuovo – come già il primo «Dal labbro il canto estasiato vola» – riecheggia bensì Foscolo, quando nel 1848 all’interno de Le grazie narrava di Tessalo, il quale «su’ labbri il canto le rompea co’ baci» 28 «Irride / L’un altro ogni mortal». Le secche parole dalla fuga finale del Falstaff mostrano quanto il singolare capriccio di due anziani sia impregnato di scetticismo. L’esito della commedia musicale sembra basarsi pure su una frase dal credo di Jago nel secondo atto dell’Otello di Boito: «Vien dopo tanta irrision la Morte. – E poi? – La Morte è il Nulla». Tale principio pessimista può essere interamente trasposto su Fenton. La morte minaccia anche questo amore. E sebbene i due giovani amanti non vogliano ammettere di essere nell’essenza perituri, dinanzi all’estinguersi del loro amore saranno altrettanto impotenti quanto contro la propria morte stessa. Chissà: forse alla giocosa guerra della schermaglia «Separazione di corpo e voce, l’impossibilità di una loro presenza in simultanea»; EMANUELE SENICI, Verdi’s »Falstaff« at Italy’s fin de siècle, «The musical quarterly», n. 85 (2001), p. 274‐310: 290. 26 ARRIGO BOITO, Ero e Leandro, cit., p. 148. 27 ARRIGO BOITO, La falce [1875], citato da: ARRIGO BOITO, Tutti gli scritti, a cura di PIERO NARDI, Verona, Mondadori, 1942, pp. 561‐571: 566. 28 UGO FOSCOLO, Le grazie, I 281; cfr. anche il commento di D’ANGELO in: ARRIGO BOITO, Ero e Leandro, cit., p. 147, n. 61. 7
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amorosa succederà prima o poi addirittura la violenza spietata cui i rapporti tra i due sessi così spesso si conformano. 6 Un’attenta lettura del cosiddetto racconto di Alatiel di Boccaccio conferma il carattere tetro di una simile interpretazione. È lì narrata la storia della principessa islamica Alatiel, la quale nel corso di una tempesta marina viene spinta verso Mallorca e a causa della bellezza mozzafiato diventa preda del desiderio di tutti gli uomini. All’inizio un primo pretendente fallisce nel tentativo di sedurla. Solo con il ricorso all’alcool gli riesce di attirare l’incantevole donna nel letto e di persuaderla dei pregi del suo «Santo Crescinmano». Dopodiché la principessa, condotta in rovina da così tanta avvenenza, avvicenda gli amanti con un ritmo sempre più veloce, quantunque in assoluto contrasto con la propria volontà. Poiché uno dopo l’altro essi vengono uccisi a sangue freddo dall’aspirante successivo, questi uomini inselvatichiti raffigurano esclusivamente la completa estrinsecazione della brama sessuale di lei. Alla fine la principessa torna a casa e si lascia convincere da un confidente a raccontare la propria storia secondo una versione per nulla fedele alla realtà: quale vergine intatta si sposerà con il «re del Garbo»: «E essa che con otto uomini forse diecimila volte giaciuta era, allato a lui si coricò per pulcella e fecegliele credere che così fosse; e reina con lui lietamente poi più tempo visse». 29 Persino nella variopinta opera narrativa di Boccaccio esistono ben poche novelle parimenti adatte all’illustrazione di una società sfrenata dove ciascuno diventa un lupo omicida nei confronti del suo prossimo, dando origine in tal modo a un «folle sovvertimento di tutti i valori morali». 30 In questo racconto «tutto è eccessivo, smisurato, disumano», 31 e precisamente perché ogni evento – fino all’astuto finale – è «burla», inganno perfido, mascalzonata. In un siffatto contesto si rivela quindi più che coerente la scelta attuata da Boccaccio di aggiungere ancora una singola frase all’appena citato scioglimento: «E per ciò si disse: –Bocca basciata non perde ventura, anzi rinnuova come fa la luna–». 32 La sentenza finale non è da interpretarsi soltanto «Bocca baciata non perde valore (oppure la sua buona sorte)», bensì anche – appunto se nel rimando alla luna si vuole vedere un’allusione al palese legame con il ciclo mestruale, la fertilità e la libido – «Bocca baciata desidera altre avventure, perché si rinnova come la luna». Nel labirinto tra modelli di esegesi moralisti, libertini, femministi e oltre in cui ci si può imbattere entro la ricca letteratura su Boccaccio, in particolare seduce per la sua semplicità un giudizio dalla lontana prima metà del XX secolo: «più che in questo o in quel sentimento umano la novella di Alatiel consiste nel senso stesso dell’avventura, nella successione dei casi e nella lor fatalità ingenua». 33 La vicinanza etimologica tra «ventura» e «avventura» sottintesa nel detto conclusivo, all’apparenza assai scarso di appigli per gli arditi voli pindarici delle più GIOVANNI BOCCACCIO, Decameron, a cura di VITTORIO BRANCA, Firenze, Le Monnier, 1951, p. 249. GUIDO ALMANSI, Tre letture boccaccesche: 2. Alatiel [1971], in: GUIDO ALMANSI, L’estetica dell’osceno, Torino, Einaudi, 1974 (La ricerca letteraria, 20), pp. 143‐160:159. 31 Ivi, p. 157. 32 GIOVANNI BOCCACCIO, Decameron, cit., p. 249. 33 FRANCESCO FLORA, Storia della letteratura italiana, Milano, Mondadori, 1940, vol. I (Dal medio evo alla fine del Quattrocento), p. 302. 8
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controverse letture, avvalora il suddetto parere. E ancora: l’insistere dell’ultima frase sulla parola «ventura» chiude tra parentesi la poco edificante “morale” della storia insieme con il fattore scatenante alla fonte delle peregrinazioni di Alatiel, la sua «ventura»: all’interno del preambolo il racconto viene introdotto quale esempio della futilità intrinseca nell’anelito femminile alla bellezza, e nel passaggio a termine della premessa Boccaccio ribadisce il concetto facendo dichiarare al narratore che gli piacerebbe raccontare «quanto sventuratamente fosse bella una saracina». 34 Pure il termine «sventura» potrebbe dunque fungere da parola‐chiave appropriata alla concezione drammaturgica del Falstaff. Non solo vengono qui rappresentate in scena le sventure dell’eroe eponimo, bensì nel rammentare un amore con ogni evidenza giovane e ingenuo si allude inoltre – non da ultimo tramite il riferimento intertestuale alla novella di Boccaccio – a come nel corso della vita umana dietro alla felicità fugace stia in agguato ovunque la «sventura». Esattamente il medesimo campo di associazioni mi sembra nascosto anche dietro il verso già ripetutamente citato «E così baciai la disiata bocca». Di nuovo s’impone la domanda: perché questo passato remoto? E perché la forma arcaica «disiata» in luogo di «desiata» o del quotidiano «desiderata»? Simili scelte riecheggiano palesemente quattro versi assai popolari dalla Commedia di Dante, i quali a loro volta rivelano un rimando intertestuale al Roman de Lancelot: «Quando leggemmo il disiato riso / Esser baciato da cotante amante / Questi che mai da me non fia diviso / La bocca mi baciò tutto tremante.» Con le soluzioni grammaticali e lessicali di Boito quindi non solo l’«elemento sesso» risulta introdotto nell’universo drammatico verdiano; 35 allo stesso tempo il poeta ci conduce direttamente dal flirt zuccheroso dei due ragazzi all’inferno. L’allusione alla prima cantica della Commedia – da Boccaccio in persona definita «divina» – conferma proprio quanto la massima del racconto di Alatiel aveva già espresso: spesso, e non solo alla corte dei Malatesta, molto spesso l’amore è connesso a sventura, crimine, omicidio. Certo non si può provare in via definitiva fino a qual punto i riferimenti al poema di Dante siano da ascrivere a una scelta consapevole da parte di Boito. In ogni caso risulta però indubitabile che questi, dotato di una solida formazione letteraria, abbia saputo con precisione da quale contesto derivasse il distico cantato da Fenton e Nannetta: nel 1871 aveva infatti concepito assieme a Emilio Praga un libretto per un’opéra‐comique in tre atti dal titolo Decamerone. 36 E ancora oltre: in rapporto all’ultima rappresentazione del Falstaff cui Verdi assistette, a Milano, l’autore del «Credo» di Jago scrive al critico parigino Camille Bellaigue: «Venez, venez, cher ami, venez entendre ce chef d’œuvre; venez vivre pendant deux heures dans les jardins du Decameron». 37 GIOVANNI BOCCACCIO, Decameron, cit., p. 219; riguardo il motivo ricorrente della «sventurata bellezza» cfr. anche CESARE SEGRE, Comicità strutturale nella novella di Alatiel, in: CESARE SEGRE, Le strutture e il tempo, Torino, Einaudi, 1974, pp. 145‐159: 147. 35 LUIGI BALDACCI, Padre e figli [1971], in: LUIGI BALDACCI, Libretto d’opera e altri saggi, Firenze, Vallecchi, 1974, pp. 177‐202: 199; ripubblicato in: LUIGI BALDACCI, La musica in italiano. Libretti d’opera dell’Ottocento, Milano, Rizzoli, 1997, pp. 62‐90: 89. 36 Nel 1934 l’abbozzo del primo atto era ancora accessibile all’interno di una collezione privata; cfr. RAFFAELLO DE RENSIS, Franco Faccio e Verdi. Carteggi e documenti inediti, Milano, Treves, 1934, p. 98; cfr. anche PIERO NARDI, Vita di Arrigo Boito, Verona, Mondadori, 1942, p. 354. 37 «Venite, venite, caro amico, venite ad ascoltare quest’opera d’arte; venite a vivere per due ore nei giardini del Decameron»; lettera del 23 febbraio (?) 1893 indirizzata da Boito a Camille Bellaigue; citata da: Il carteggio completo Boito‐Bellaigue, cit., p. 154. Per la datazione cfr. PIERO NARDI, Vita di Arrigo Boito, cit., p. 623, nota 2. 9
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Ultimi baci nei «giardini del Decameron». Allusioni intertestuali nei