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Scrivere è sempre nascondere qualche cosa in modo che poi venga scoperto.
Italo Calvino
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UN DELITTO QUASI PERFETTO
ra una mattina d‟ottobre e nella scuola Pascoli regnava il caos totale,
specialmente nell'aula insegnanti perché, di lì a poco, si sarebbe tenuta
l‟importantissima gara provinciale di spelling, a cui solamente le classi
terze delle scuole secondarie di primo grado potevano partecipare. Una delle
classi più promettenti dell‟istituto era sicuramente quella di Mirko.
Mirko frequentava la 3^C, non amava studiare ma riusciva lo stesso a cavarsela.
La sua classe era composta, tra gli altri, da due gemelle soprannominate “le
ranocchie” a causa dei brufoli simili a porri che sovrastavano il loro volto, dal
suo compagno di banco Tom di corporatura grassottella, dal cosiddetto secchione
della classe Elvin, spudoratamente odiato dal ragazzo più temuto dell‟istituto:
Kevin.
Era appena suonata la penultima campanella, mancava solamente un‟ora e i
ragazzi della 3^C assaporavano già l‟aria della libertà, ma … arrivò un compito a
sorpresa di Matematica! L‟unico preparato era Elvin: il problema era che Elvin di
solito non sopportava l‟idea che qualcuno desse un‟innocua sbirciatina alla sua
verifica e creava intorno a sè una specie di muraglia con i libri; di solito, sì,
tranne quella volta, caso più unico che raro.
Ma la cosa ancora più anomala è che si fece posizionare nell'ultima fila di banchi
dicendo che il sole gli disturbava gli occhi.
Durante il compito Elvin alzava spesso la testa, dando occhiate distratte in giro
per la stanza e, al contrario delle altre volte, consegnò il foglio alla cattedra per
ultimo in simbiosi con la campanella. Tutti si precipitarono di corsa fuori dalla
porta.
L‟aula assunse allora un‟altra aria, quasi formale, senza persone, solamente con
qualche immondizia per terra. Ma in fondo, accanto al muro, con la faccia sul
banco, vi era ancora Kevin, che sembrava addormentato.
L‟indomani Kevin venne trovato nella stessa posizione, immobile. La
professoressa gli diede un leggero strattone temendo una reazione improvvisa
dell‟alunno, il quale fu invece impassibile. Il bullo così tanto temuto sembrava
dormire come un agnellino, facendo però preoccupare insegnanti e bidelli, che
chiamarono un‟ambulanza e comunicarono questo strano fatto alla polizia. Alla
vista degli investigatori i ragazzi dell‟istituto si allarmarono e vennero sbarrate
tutte le porte, anche quelle di emergenza.
Gli interrogatori iniziarono da Tom, per poi proseguire fino all‟ultimo alunno
dell‟elenco e risultarono tutti innocenti; ma secondo Mirko non era così.
Il ragazzo preso dalla curiosità si mise ad ipotizzare i vari fatti accaduti in quel
periodo risalendo, infine, a una conclusione plausibile. La sua capacità di
ragionamento e la sua astuzia lo portarono a ricostruire cosa realmente fosse
accaduto. L‟indomani si trovò a fianco degli agenti e li supplicò di poter esporre
la sua versione dei fatti: la polizia con fare scocciato accettò. Il ragazzo allora
incominciò sottolineando che durante il compito di matematica il silenzio era
stato interrotto da un rumore improvviso proveniente dalla finestra; tutti gli
E
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alunni avevano distolto lo sguardo dal banco e, in quell‟ istante, Elvin passò la
brutta copia del suo test a Kevin con una penna, perché Kevin non aveva mai
l‟astuccio. Il rumore proveniente dalla finestra era stato causato da un pezzo di
carta, con dentro un sassolino, lanciato da Elvin per non essere scoperto.
Nella penna era stato iniettato, insieme all‟inchiostro, un veleno molto potente e
simile a un sonnifero, il cui odore era compatibile con gli acidi del laboratorio di
chimica di cui solo Elvin possedeva le chiavi. Quindi Elvin aveva agito in modo
molto accorto, ma lasciando degli indizi chiave.
Tutti erano esterrefatti per questa scoperta e anche Elvin, che scoppiò in un
pianto infantile e confermò la storia dell‟amico. La classe 3^C avrebbe avuto
ottime possibilità di vincere il primo premio nella gara di spelling, ma
l‟ignoranza di Kevin avrebbe abbassato la media, facendo infrangere il sogno di
Elvin, ovvero quello di aggiudicarsi il primo premio.
L‟animo arrogante di Elvin venne punito e squalificato dalla competizione,
mentre Mirko ricevette le più sentite congratulazioni da tutto l‟Istituto e dalla
polizia.
Ilaria
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ARPALICE
A
rpalice: ventitrè anni, 1.67 m di indecisioni e 52 kg di paure. Bionda.
Con i suoi occhi verdi e indagatori osservava ogni piccolo fatto: la
classica ragazza attenta e minuziosa delle serie TV. Lavorava come
barista in un locale dei Parioli di Roma, dove respirava in continuazione cumuli
di fumo passivo fino alle tre di notte, orario in cui doveva chiudere secondo gli
ordini del proprietario, cacciando a forza di grida gli ubriachi e assidui
frequentatori del bar.
Ogni mattina si svegliava da sola Arpalice, in una casa vuota e risonante di
solitudine, si alzava e accendeva l‟ Iphone comprato con il suo ultimo stipendio,
ma, come da rituale, non vi era nessuna notifica, nessun messaggio o nessuna
chiamata persa per sbaglio mentre il sonno rapiva la sua stanchezza. Ah, quanto
avrebbe gradito ricevere una e-mail di buongiorno di tanto in tanto, ma la
solitudine era la sua migliore amica da sempre. Quel mattino il sole era già alto
nel cielo, nonostante fosse presto; solo Arpalice poteva odiare così tanto la luce,
flebile e portatrice di vita.
Con le mani affusolate e screpolate afferrò un vestito color porpora che soleva
indossare per indicare il suo malumore; nella borsa color cuoio infilò un beautycase e il suo quaderno rilegato in pelle, scrigno contenente tutti i suoi scritti,
protettore delle sue idee: infatti la giovane si rifugiava tra le parole e, in questo
mondo parallelo, fuggiva dagli sguardi della gente; era impaurita come una
tenera lepre che scappa da un‟astuta volpe.
Andò al lavoro a piedi, come era solita fare, con passo svelto e gli occhi fissi tra
il cielo e l‟infinito, sovrappensiero. Giunta a destinazione infilò la chiave della
porta d‟ingresso nella serratura e aprì il cupo locale, premette l‟interruttore e si
posizionò dietro il bancone. Aprì poi il suo quaderno e sfogliò le pagine, finché
non ne trovò una bianca. Improvvisamente nella sua testa venne riprodotto un
rumore simile a quello di un treno che corre sulle rotaie e venne trasportata da
tutt‟altra parte; vide, per una frazione di secondo, molti colori danzare assieme e
fotografie volare dentro al tunnel che stava percorrendo. Si ritrovò su un terrazzo
ricoperto da vigorose e colorate piante, guardando attraverso un vetro un‟anziana
donna. Questa sedeva su una poltrona a stampe inglesi e toccava delicatamente,
quasi accarezzandola, una collanina d‟oro, con un ciondolo a forma di stella.
Anche Arpalice ne aveva una uguale. L‟anziana quasi non si muoveva, sembrava
addormentata. Ad un certo puntò, di scatto, si sollevò dallo schienale della larga
poltrona ed estrasse da dietro di sé un vecchio libro ingiallito: era rovinato e le
pagine strappate uscivano dal margine della copertina e dalle altre non ancora
consumate dall‟inchiostro. Prese una penna e cominciò a scrivere;
inaspettatamente una voce si levò nel silenzio, era come se qualcuno stesse
leggendo a tono alto ciò che veniva scritto su quell‟antica agenda. “Adesso mi
pento delle mie precedenti scelte: avrei dovuto terminare gli studi come mia
mamma mi aveva consigliato invece di andare a rovinarmi i polmoni in quel bar
di scorbutici e maleducati. Quante parole non dette mi affaticano il respiro e mi
graffiano il cuore e mi grattano la gola, quante storie e quanti pensieri riportati tra
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questi fogli. Di quanta felicità mi sono privata a causa tua, paura? Tornassi
indietro, pubblicherei i miei libri che ho voluto nascondere anche a me stessa per
tanto tempo, studierei e supererei le mia timidezza attraverso la conoscenza, però
ora è tardi; non ho nessuno che mi telefoni per domandarmi qualcosa, qualsiasi
cosa. Sono sola, e parlo a te, vita: verso che fine mi hai portata? Oggi, giorno del
mio settantatreesimo compleanno, nessuno mi cerca, nessuno mi invita, nessuno
mi vuole. Potessi riavere un po‟delle forze che possedevo da giovane cambierei
ogni cosa”, recitò la voce confusa e piena. Arpalice si guardò attorno e si
accasciò a terra piangendo: le piastrelle color ocra erano fredde e si stavano pian
piano riempiendo delle sue lacrime, come una pioggia di desolazione e
incertezza: la giovane aveva capito: era lei l‟anziana signora, ma cosa poteva fare
Arpalice se non odiare e piangere il destino che le sarebbe toccato? Dopo intensi
minuti di disperazione si risvegliò nel suo bar, con la testa chinata sul suo
quaderno ben tenuto sul quale aveva sputato le sue frustrazioni, e con alcuni
clienti indifferenti alla scena e in attesa che la ragazza prendesse gli ordini.
Arpalice li servì, ma, appena il bar si svuotò di quelle insipide persone, chiuse
velocemente il locale e, sovrappensiero come al solito, si diresse verso casa, dove
si cambiò d‟abito: ne indossò uno giallo, corto e molto femminile, allegro,
simbolo di rinascita. Dopo di che tornò a lavoro e nel tragitto salutò tutti a testa
alta, non voleva più perdere tempo e occasioni di conoscere altra gente, era
decisa a vivere senza maschere di vergogna. Dopo un anno dallo strano accaduto,
Arpalice pubblicò il suo primo libro, che dedicò a se stessa: Arpalice e la gente.
Sconfisse così la paura di essere giudicata, aveva capito che è meglio una vita
piena di critiche piuttosto che una vita passata a non vivere realmente.
Giordana
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LA MORTE DI PATROCLO
D
a molti giorni noi Mirmidoni stavamo nelle nostre tende poiché il grande
Achille, nostro re, aveva deciso di non combattere più dopo l‟affronto di
Agamennone. Per me era quasi umiliante vedere i miei compagni achei
perire in molti sul campo, ma certo non potevo disobbedire al mio sovrano.
Inoltre la mia patria mi mancava molto, non potevo certo nasconderlo. Per
scacciare questi tristi pensieri la sera salivo in cima ad una piccola duna vicina
alla mia tenda e mi guardavo intorno: i fuochi del nostro accampamento
ballavano con le onde del mare una danza proibita, e forse per questo tanto
affascinante; alle mie spalle invece troneggiavano le mura di Troia, imponenti e
compatte, che ormai da quasi dieci anni esercitavano un‟attrazione fatale su noi
Achei. A separare l‟immensa profondità del mare e l‟immensa grandezza delle
mura c‟era un fiume, lo Xanto, che sembrava emettere gorgoglii di
incoraggiamento per i Troiani, e pareva che questi fossero efficaci dato che da
giorni i Teucri avanzavano vittoriosi verso di noi.
Un giorno la quiete al campo venne bruscamente interrotta: una nostra nave era
avvolta dalle fiamme, circondata da Troiani urlanti. Il glorioso Achille allora,
rispettando la parola data, ci diede il permesso di combattere sotto la guida del
giovane Patroclo, suo amico. Ci lanciammo quindi contro i nemici con grande
impeto e ferocia, e presto questi cominciarono a cadere trafitti dal nostro bronzo.
Uccisi un gran numero di Troiani con la mia bella lancia, e ogni corpo che facevo
rotolare tra la polvere mi dava nuova energia e mi riempiva d‟orgoglio.
Credo che anche il giovane Patroclo provò le stesse sensazioni: infatti, mosso
dall‟entusiasmo, si spinse fin sotto le mura di Ilio, nonostante Achille glielo
avesse severamente proibito. Mi preoccupai per Patroclo poiché aveva poca
esperienza in battaglia e poiché stava indossando le armi del Pelide, cosa che lo
rendeva una “preda” molto ambita dai nemici. Lo seguii di corsa e quando gli fui
vicino capii però di non potergli essere d‟aiuto in alcun modo: il dio Apollo lo
aveva colpito, facendolo cadere a terra, e certo io non potevo fronteggiare la
divinità. Subito dopo giunse un secondo colpo, tra le spalle del giovane, assestato
dal troiano Euforbo con la sua lancia. Questi poi riprese l‟arma e scappò per
paura di una vendetta di Patroclo, che stava cercando di allontanarsi dalla
battaglia trascinandosi a fatica.
Alla vista della viltà di Euforbo il mio cuore si riempì d‟ira e provai a
raggiungere il troiano per ucciderlo. Non riuscii però a trovarlo nella confusione
furiosa del combattimento e feci per tornare sui miei passi, questa volta in cerca
del povero Patroclo. Ma quando mi voltai mi si presentò dinnanzi una scena
straziante: Patroclo giaceva a terra, trafitto dall‟arma di Ettore. E allora,
rivedendo nella mente le belle membra di Patroclo muoversi con ardore mentre il
viso giovane sorrideva e gli occhi gli brillavano più dell‟armatura colpita dal
sole, qualcosa mi scosse e mi provocò un immenso dolore: mi sembrava che la
superficie cristallina del mare fosse precipitata sul fondale, frantumandosi, e che
gli abissi mostruosi fossero saliti fino al sole, per deriderlo.
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Una lacrima, salata come le profondità marine, mi bagnò la guancia e poi cadde
tra il sangue e la polvere, scomparendo. E io la seguii: in quel momento infatti
una lancia mi attraversò la gola, e anche la mia anima volò via dal mio corpo e
scese nell‟Ade, piangendo il destino avverso e la giovinezza e il vigore perduti
insieme. La guerra, si sa, non ha spazio per i sentimenti.
Anna
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LA VITA
C
on sguardo spaurito il Viaggiatore portò gli occhi al taschino del suo
panciotto e guardò la sua mano tremante estrarre il foglio ingiallito
ripiegato in quattro.
Mentre in lui la speranza combatteva per l'ennesima volta col disincanto, spiegò
entrambi i lembi di carta e confrontò il disegno con l'oggetto che la sua mano
destra stringeva trepidante. I suoi occhi scorsero righe di elegante inchiostro che
lui stesso, undici anni prima, aveva versato: le caratteristiche del disegno e
dell'oggetto sembravano coincidere.
Un singolo sussulto squassò il suo corpo, le dita prontissime a stringersi sulla
chiave minuscola: non l'avrebbe persa. Questo, mai!
Si alzò a fatica, le gambe sprofondate nelle cianfrusaglie ferrose della vetta del
Cumulo 5 e iniziò l'ardua discesa, stando attento a non provocare smottamenti sul
Cumulo 4, nel caso si fosse sbagliato.
Undici anni.
Giunse a terra trascinando al suolo uno sciabordio tintinnante, come onde sul
bagnasciuga. I Cumuli si stagliavano sopra di lui, montagne alte oltre
cinquecento metri. Ci vollero tre giorni per arrivare alla Porta. In cima alla
scalinata si voltò a guardare quel mondo assurdo, sperando nel profondo che
quella fosse l'ultima volta.
Lontano, l'orrida Macchina vomitava una cascata di metallo, facendo scintillare
nell'aria una pioggia sonora di chiavi, tutte diverse. Il futuro Cumulo 16.
Si girò, trattenne il respiro e provò la chiave.
Entrava.
Girava.
La porta si aprì, liberando l'accesso ad un mondo, lontano da lì, altrove. Solo
allora il Viaggiatore esplose nel pianto, figlio di anni di prostrazione, privazione
e sofferenza. Il pensiero stupido che si potesse richiudere lo spinse oltre la soglia,
dove cadde carponi. Solo quando riprese fiato vide davanti a sé una chiave. E
sollevò lo sguardo davanti a cumuli di porte.
Lisa
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IL FUTURO
E
anche quella notte Kilian vide la donna incappucciata mentre faceva la
sua solita passeggiata.
Era l'ottavo giorno che la vedeva camminare lentamente da lontano, però
non l'aveva mai vista in faccia e così, preso da una voglia di guardare cosa si
nascondesse sotto quel mantello, la seguì.
La donna era alta e snella, ma Kilian non sapeva altro, non riusciva a scorgere
niente dietro quei veli neri che la coprivano e questo lo turbava, voleva vedere
cosa c'era là sotto e l'avrebbe scoperto.
Kilian non appena vide che la donna era vicina al lampione, si decise che era ora
di sapere, quindi, preso coraggio, si diresse verso di lei; ma quando si avvicinò si
accorse che non le era vicino, era ancora a quattro lampioni da lei: sembrava
irraggiungibile, perché era così difficile guardarla in faccia?
Kilian la seguì per quasi tutta la notte, e quando la donna si fermò era nel parco,
proprio sotto ad un albero di ciliegio, vicino ai cespugli di rose spinose; era tutto
illuminato dalla luce del lampione e Kilian poteva notare che quel mantello era
fatto di vecchi stracci logori. Non capiva, però era deciso a vedere cosa c'era
sotto: il ragazzo alzò il braccio per toglierle il cappuccio che le copriva il viso, lei
era immobile, come se fosse un manichino, chissà quale espressione avrebbe
avuto, quali occhi avrebbe trovato sotto; la mano che alzò tremava e quando
toccò quegli stracci, sentì il timore che cresceva dentro di sé, l'aveva così tanto
cercata e tutto ad un tratto non riusciva nemmeno a sbattere le palpebre. Era
accecato dalla paura e scappò via prima di riuscire a guardarla.
Anche le notti seguenti, Kilian si presentò sempre nello stesso luogo, alla stessa
ora, rinunciava a tutto pur di guardarla, ma alla fine risultava sempre un
fallimento: infatti non riuscì nemmeno una volta a toglierle quel suo mantello
logoro.
Quando era giorno provava a disegnarla, immaginava come potesse essere in
viso, magari aveva gli occhi marroni, forse azzurri, forse il suo naso era alla
francese o forse era storto. Il pensiero di quella misteriosa donna lo tormentava
giorno e notte: non usciva più di casa se non di notte e non parlava più con
nessuno.
Trascorsero le settimane, i mesi, gli anni.. Finché un giorno Kilian vide la donna
passare, però questa volta non aveva il mantello, ma era girata di spalle; non
riusciva a vederla in faccia ma poteva solo vedere che i suoi capelli erano mossi e
di color mogano; Kilian la seguì fino al parco, vicino all'albero di ciliegio e al
cespuglio di rose con le spine, lei era girata di spalle e Kilian si avvicinò per
vedere finalmente quello che aveva immaginato fino a quella notte, ma proprio in
quel momento lei si girò e si mostrò in volto. Kilian la guardò stupito, senza dire
una parola.
Swami
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CAPPUCCETTO ROSSO
NELL’ERA DI
FACEBOOK
‟era una volta, non molto tempo fa, una bella bambina dai capelli castani
e dagli occhi verde-azzurro, che viveva non molto lontano dalle pendici di
un bosco in un‟ adorabile casetta insieme alla sua mamma.
Veniva chiamata da tutti Cappuccetto Rosso perché fina da piccolina aveva
sempre indossato una mantella con cappuccio di colore rosso acceso che le aveva
cucito su misura la sua nonnina e che lei amava tanto.
Come ogni mattina Cappuccetto Rosso si alzava amorevolmente svegliata dalle
candide parole della madre per poi…
“ Silenzio! Insomma, vuoi smettere per un attimo di parlare e continuare a
blaterare questa storia ormai vecchia di secoli?!” “M-ma io sono il narratore…”
“Taci! Oggi le regole cambiano; oggi me la scrivo io la mia storia”.
Dunque, come ogni mattina dormivo placidamente nel mio letto, con un sonno
così beato da fare invidia alla Bella Addormenta, quando, con un gesto violento
ed energico, la porta della mia stanza fu aperta dalla grazia femminile di mia
madre.
Facendosi strada tra le pile di libri e CD e i vestiti sparsi sul pavimento arrivò al
mio letto e, con un gesto altrettanto femminile, lo prese per un lato e lo sollevò;
facendomi così cadere rovinosamente a terra.
Ancora intontita per il sonno e per la caduta mi alzai e con un sorrisetto furbo
dissi: “Buongiorno anche a te mamma!”.
Lei mi squadrò con aria truce e mi rispose: “Ascolta scansafatiche; solo perché è
finita la scuola e sei in vacanza non significa che devi stare tutto il giorno in
camera tua con quel cavolo di cellulare. Fai una cosa utile e vai da tua nonna che
sta male!”. E dopo aver concluso questo amorevole discorso tra madre e figlia
uscì sbattendo la porta.
Mi gettai sul letto e non potei fare a meno di pensare: “ Che palle! Ma sempre
malata è mia nonna e poi l‟unico motivo per cui dice di stare male è perché vuole
che le porti una bottiglia di vino che poi si scola in due ore. Aspetta, com‟è che
mi diceva sempre? Ah sì: ricordati, Cappuccetto Rosso, bere aiuta a dimenticare;
e io ogni volta le rispondevo: e tu ricordati che il bere porta tristezza e l‟alitosi.
Mi alzai dal letto e cominciai a vestirmi: leggins neri strappati, scarponi rosso
scuro con borchie e punta chiodata, T-shirt rosso porpora e la mia amata
mantellina.
Dopo aver finito la vestizione, andai in bagno e mi guardai allo specchio: “ E‟
incredibile… anche se sono vestita e truccata così pesantemente riesco ancora a
intravedere la vecchia me, quella sciocca e innocente bambina che ero un
tempo.”
Tirai un pugno allo specchio: “ Ora non sono più così.”; e me ne andai.
Scesi in salotto dove mia madre sedeva con la solita sigaretta in mano; andai in
cucina, presi il cestino e mi avviai, quando vidi mia madre sulla porta della
cucina che mi disse: “ Veramente non capisco Cappuccetto Rosso… una volta eri
una così brava bambina”.
C
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La squadrai nei suoi occhi così pensierosi ed afflitti e dissi: “ Già mamma ero…
ero”; e chiusi la porta dietro di me.
Mi avviai verso la casa di mia nonna e per far passare il tempo cominciai ad
ascoltare il mio gruppo preferito: Tre Porcellini all‟Inferno.
Mentre i miei passi andavano a tempo con la musica profonda e tonante, percepii
alle mie spalle uno strano fruscio.
Mi tolsi una auricolare e mi guardai intorno cercando ogni minima imperfezione
all‟ambiente a cui ormai ero abituata e che per me era diventata una
consuetudine.
Mi voltai e continuai a camminare.
In quel momento sentii un suono che mi fece sobbalzare e quasi prendere un
infarto. Per lo spavento gettai in aria il cestino e corsi a nascondermi in un
cespuglio, accorgendomi poi che il suono proveniva dal mio cellulare, che
squillava perché mi stavano chiamando.
Uscii dal mio nascondiglio e andai a raccogliere il cestino e il mio cellulare.
Guardando il monitor bieca lessi il nome: Riccioli D‟Oro.
Risposi alla chiamata con una voce stizzita: “ Sì…” non feci neanche in tempo a
finire che Riccioli cominciò a gridare come una pazza sgretolandomi i timpani e
dicendomi: “ Oh Red! Non puoi immaginare cosa sia successo! Ti ricordi la festa
nel Paese delle Meraviglie, quella a cui non sei voluta venire? Beh, il Cappellaio
Matto voleva fare le cose in grande e ha chiamato la tua band preferita Tre
Porcellini al…”.
Non la lasciai neanche finire: non avevo la minima voglia di sentire quell‟ochetta
arrogante vantarsi in maniera così sfrontata.
Continuai a camminare finché non arrivai alla casa della mia cara e dolce
nonnina; bussai alla porta e quella si aprì da sola con uno scricchiolio.
La osservai con aria assorta: brutto segno.
Entrai e misi il cestino sul tavolo e cominciai a gridare: “Nonna sono arrivata! Ti
ho portato da mangiare e da bere: vieni fuori!”.
Una voce rauca uscì dalla sua camera e mi invitò ad entrare.
Alzai gli occhi al cielo e pensai: “ No, non di nuovo.”
Entrai nella stanza e mi feci luce con il cellulare.
Andai verso il letto e la guardai, feci un salto indietro e sbattei contro l‟armadio.
Cominciai a gridare: “Com‟è possibile! Tu non eri morto?! Non ti aveva ucciso il
cacciatore? Ma che diavolo!”.
Il lupo si alzò e con sguardo malizioso mi osservò:” Ma che bocca grande che hai
nonnina… è per mangiarti meglio!”, e mi si gettò addosso divorandomi in un
solo boccone.
Che noia! Essere sempre legati alla stessa storia, allo stesso destino senza mai
poter cambiare.
Non potersi mai sentire vivi del tutto e sé stessi perché costretti a stare in un
limbo perpetuo. Cambierà pure il tempo e anche la tua personalità, ma tu rimarrai
per sempre ciò che hanno deciso che devi essere.
Beh, almeno adesso ho il cellulare.
Lucrezia D’I.
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L’ELFO
M
i piaceva rimanere seduto in riva al mare e guardare le onde infrangersi
sulle coste, perché nonostante la vita non fosse come mi aspettavo e
non avessi nessuno con cui osservare il mare, quando me ne stavo lì,
da solo, mi sentivo felice; ma non potevo ammaliare a lungo lo sguardo con
quello spettacolo, dovevo tornare a casa, l‟ultimo posto sulla terra dove avrei
voluto essere, con le ultime persone al mondo che volevo vedere, i miei genitori.
Ho ritirato i piedi dall‟acqua e ho infilato i calzini, stando attento a non toccare la
sabbia con i piedi bagnati, ho preso le mie Vans nere, ormai consumate, e dopo
averle indossate mi sono alzato in piedi. Ho messo le cuffiette, con il volume al
massimo e ho iniziato a correre, senza pensare alle cose a cui stavo andando
incontro e a quelle che avevo lasciato, correvo e basta, a ritmo di musica.
Sono arrivato a casa dopo circa cinquanta minuti e non avevo mai smesso di
correre; la mia famiglia era felice di vedermi, io non tanto di vedere loro, ero
talmente abituato ad essere solo che il minimo contatto umano mi infastidiva.
Mia mamma ha urlato il mio nome un po‟ di volte prima che io mi accorgessi che
mi stava chiamando e mi togliessi le cuffiette. Mi sono seduto a tavola, i miei
genitori continuavano a guardarmi, mi sentivo in imbarazzo, ma dopo qualche
minuto mia mamma mi parlò: “Senti, Charlie, tuo padre ha avuto una
promozione e noi abbiamo deciso di trasferirci, speriamo che per te non sia un
problema”. Ricordo di aver annuito, lavato i piatti e di essere andato a dormire
molto presto quella sera, per potermi svegliare all‟alba e correre verso l‟Oceano
come ogni mattina.
Mi sono svegliato molto presto, ho sistemato con le mani i capelli neri e sono
corso verso la spiaggia. Ho guardato a lungo l‟oceano, così infinito e spettacolare
persino sotto le luci violacee dell‟alba; i gabbiani canticchiavano tra di loro e per
fortuna, a parte me, non vi era nessuno sulla riva.
Dopo circa trenta minuti sorse il sole, ad est come ogni mattina, che noia, che
monotonia. Mi sono tolto i jeans e la camicia e senza nemmeno pensarci mi sono
tuffato in acqua: la vita è troppo breve per sprecare del tempo pensando alle
conseguenze delle proprie azioni, avevo già vissuto quindici anni e non sapevo
quanti me ne rimanevano, non potevo permettermi di avere rimpianti.
Mentre me ne stavo tranquillo nel mare, mi travolse un‟onda e io ero troppo
debole per reagire, mi lasciai sballottare di qua e di là tra le onde e poi persi il
senso dell‟orientamento.
Mi sono svegliato sulla riva, pensando a come ero riuscito ad uscire dall‟acqua.
Mi sono alzato e ho sentito qualcuno parlarmi: “Ti sei svegliato, finalmente”.
Non vedevo nessuno, credevo di essere morto, ho guardato a terra e ho visto un
piccolo esserino verde che cercava di aggrapparsi alla mia caviglia. Mi disse di
essere un elfo e di avermi tratto fuori dall‟acqua quando avevo perso conoscenza.
Ero abbastanza sconvolto, non capivo, magari ero ancora addormentato e stavo
sognando, non era possibile che un elfo delle dimensioni di un fagiolino mi
avesse salvato. Mi sono seduto sulla sabbia bagnata e mentre ascoltavo la storia
dell‟esserino verde, guardavo il sole tramontare piano piano e scomparire dietro
il mare.
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L‟elfo ha continuato a raccontare per molto tempo, proveniva da un paese
chiamato “Baia degli Orizzonti”, non molto lontano da casa mia, in volo ci si
metteva qualche ora, ma io non sapevo volare e non sapevo nemmeno se stavo
sognando o se ero sveglio.
L‟elfo aveva perso la famiglia in una guerra contro gli gnomi che andava avanti
ormai da quindici anni a Baia degli Orizzonti e tutto ciò che gli rimaneva era sua
moglie, prossima a diventare madre; l‟elfo mi spiegò anche di trovarsi sulla
spiaggia per visitare le tombe dei genitori, sepolti lontano dalla guerra.
Io e il mio nuovo e unico amico abbiamo parlato per molto tempo ed era davvero
strano per me non avere nulla da raccontare della mia vita: ero figlio unico, con
genitori indaffarati, non avevo amici e passavo i giorni ad osservare il mare.
Non volevo tornare a casa, volevo rimanere a chiacchierare con l‟elfo per tutta la
notte, ma lui doveva tornare da sua moglie e io dovevo tornare a casa.
Io e l‟elfo, che mi disse di chiamarsi Fil, ci siamo incontrati anche il giorno
seguente e quello dopo ancora, tutti i giorni per una settimana, e ogni giorno lui
aveva qualcosa da raccontare della sua frenetica vita. Il giorno del mio
compleanno, la settimana dopo, Fil mi ha detto che sarebbe sparito dalla mia vita
nel giro di un mese, perché stava per diventare padre e perché secondo lui io
dovevo vivere la mia vita senza sprecarla parlando con gli elfi. Per me non era
uno spreco, mi sono sentito felice solo con lui, ma lui è stato irremovibile e mi ha
promesso che se ne sarebbe andato.
Sono stato tutti i giorni dell‟ultimo mese con l‟elfo e quando ci siamo incontrati
per l‟ultima volta l‟ho abbracciato forte, non volevo che se ne andasse; mi ha
rassicurato dicendo che lui mi sarebbe sempre stato accanto rimanendo invisibile.
Mi ha detto che sono un amico sincero e leale e mi ha raccomandato di stare
attento quando vado in mare; quindi mi ha regalato una boccetta di polvere
magica per diventare elfi, in caso io mi annoiassi della mia vita di uomo, e poi si
è voltato e se ne è andato.
Mi sono fermato per vederlo un‟ultima volta, ma il mio amico elfo si era
nascosto per sempre come promesso.
Anastasia
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PIROETTE DI RABBIA
M
attia entrò in palestra con la testa colma di pensieri. Strano, ma oggi
non gli andava minimamente di provare e riprovare sempre la stessa
coreografia, con quei cinque ballerini che danzavano con lui
aiutandolo nell'esecuzione degli splendidi salti liberatori che oggi gli parevano
più oppressivi che mai.
Scaraventò la sacca vicino alla parete di specchi. L'insegnante fece partire la
musica e Mattia eseguiva i passi meccanicamente, continuando a pensare a quelle
ingiustizie che non riusciva a spiegarsi come potessero essere trascurate in un
luogo come un'università.
Quando la musica prese ad aumentare di intensità e cominciò quindi la parte di
improvvisazione, Mattia iniziò, a passi di danza, ad allontanare da sé tutto quello
che gli stava intorno, come se rappresentasse ciò che voleva scacciare dalla
propria mente e dalla propria vita: allontanava i ballerini con finti calci e pugni e
loro, come se le sue mosse li colpissero, cadevano ai suoi piedi; alzò le sedie e le
portò alle pareti; trascinò i cuscinoni negli angoli.
Faceva tutto questo per ribellarsi, era il suo modo di esprimere le emozioni.
Dentro di sé lo faceva con violenza, ma fuori questa si trasformava in
temperamento, carisma e determinazione.
Chiara D.B.
17
ANCHE LE STELLE MUOIONO
C
'era il silenzio. Un silenzio profondo come quello che scende improvvisamente
mentre la neve cade, quello che ti avvolge completamente e in cui riesci a sentire
ogni singolo battito del tuo cuore.
Un uomo si stava preparando per uscire, davanti all'orologio a pendolo decorato con
rifiniture dorate, che produceva un fastidioso ticchettio metallico. Uscito di casa l'uomo
esitò un po', ma poi continuò ad avanzare deciso attraverso il vialetto che attraversava
ogni giorno. Era un uomo giovane, forse non era ancora un vero uomo: aveva
venticinque anni. Ed era fragile. Ogni giorno indossava la sua maschera che aderiva così
perfettamente alla sua sfera emotiva da farlo sembrare estremamente forte. Ma lui
dentro era fragile; e non era per una precisa causa, perché era rispettato da tutti ed era
sempre circondato da una moltitudine di persone che gli volevano bene. Tuttavia le
crepe nella sua anima si facevano sempre più profonde. Ogni giorno, quando tornava a
casa, piangeva. Piangeva fino a svuotarsi di quel poco che gli rimaneva dentro, e lo
faceva in silenzio. Gli mancava qualcosa? No. Possedeva tutto e tutti. Forse aveva
troppo. Non riusciva a trovare e distinguere le cose che lo facevano stare bene.
Una sera l'uomo era sul terrazzo, che guardava le stelle. Erano così belle, lassù, mentre
circondavano la Luna. E in tutta quell'oscurità sembravano spensierate e libere. E fu a
quel punto che l'uomo rientrò frettolosamente, strappò la sua giacca dall'appendiabiti e
scese velocemente le scale. Nel momento in cui superò la porta della sua casa, cominciò
a correre e inciampò sui ciottoli del vialetto, ma si rialzò e continuò la sua corsa.
Cominciò ad urlare e aprì le braccia per accogliere l'aria fresca con tutto il suo corpo.
Le maniche della sua giacca si gonfiavano e lui sorrideva e ululava, accarezzando l'aria
con le dita. Molte persone uscirono di casa e lo guardarono, ma a lui non interessava,
perché, con la sua forte determinazione, continuava a percorrere a grandi falcate il
cemento ruvido.
Attraversò il parco e, incespicando nella terra umida e fangosa, passò anche le piccole
colline.
Lo stava facendo per raggiungere le stelle, che erano così forti viste da laggiù, dal
pianeta delle menzogne; erano così belle da poter illuminare la sua anima danneggiata.
Si presentavano piccole, ma grandi allo stesso tempo.
Intanto l'uomo continuava a correre, sempre più veloce, fino a non sentire più le gambe
e non importandosene della gola secca, che gli faceva male. Ad un certo punto saltò.
Voleva proprio raggiungerle, quelle famose stelle. Ma cadde, in un vuoto che sembrava
non avere fine. Mentre precipitava e vedeva le sue amate stelle allontanarsi sempre di
più, si abbandonò in un ultimo pianto. Così la sua anima si ruppe definitivamente, in
mille minuscole schegge.
Eppure nella sua fragilità stava la sua vera forza.
Chiara D.M.
18
GIOVINEZZA PERDUTA
D
i prima mattina la signora Amy Adams, settantenne vedova, ricevette un'
inaspettata telefonata dalla sua compagna di studi del college, Mary
Turner, la quale la invitò a prendere il tè delle cinque nella sua dimora a
Londra. Quindi prontamente si diresse verso la stazione della cittadina in cui
risiedeva, Stratfield Mortimer e prese il primo treno per Londra. Il viaggio durò
all'incirca una settantina di minuti, dal momento che Stratfield distava soltanto
quaranta miglia dalla capitale del Regno Unito. Tuttavia le parve un tragitto
eterno poiché era impaziente di incontrare la sua adorata amica, di cui aveva
perso notizie pochi anni dopo il conseguimento del diploma. Nella mente della
signora Adams affiorarono i ricordi dei monenti più belli del college passati
con lei. Il treno arrivò puntualmente alla stazione "Chelsfield" di Londra, nella
quale prese il taxi per raggiungere il prima possibile Carnaby Street. Una volta
individuato il portone, senza esitazione suonò il campanello.
Alla porta si presentò una ragazza, in apparenza tra i venti e i venticinque anni,
che abbracciò calorosamente la signora Adams. Questa rimase attonita nel
trovare Mary tale e quale a come era cinquant' anni prima : la pelle vellutata,
morbida, lattea; il fisico slanciato; la chioma di capelli biondo cenere lunghi fino
alla vita e le guance rosee. Mary fece subito accomodare Amy su un divanetto,
posto davanti ad uno specchio appeso alla parete. Quando la signora Adams ci
buttò l' occhio, rimase di stucco dato che l' immagine riflessa non era quella di
una vecchia dalla pelle flaccida e secca, col volto solcato di rughe e i capelli
canuti, ma di una giovane e tenera donna. Ad Amy sembrò di essere ritornata
indietro nel tempo, ma con il corpo ben saldo nel presente, dunque di essersi
tuffata nel passato verso gli anni della giovinezza. Le due amiche conversarono
per intere ore, fino a quando Mary propose ad Amy di andare a teatro ad assistere
ad una commedia, come era consueta fare. Amy accettò. Giunsero in tempo per
acquistare i biglietti. Il bigliettaio disse loro che avrebbero pagato solo la metà
del prezzo dell'ingresso, poiché vi era uno sconto per le persone ultrasessantenni.
Amy rabbrividì nell' udire la parola "ultrasessantenne". Rivolse un'occhiata
interrogativa a Mary, ma questa non riusciva a capire la ragione per la quale Amy
fosse rimasta sbigottita. Amy si accorse che la loro giovinezza era una mera
illusione.
Cominciò lo spettacolo. Il sipario scese, calò il silenzio.
Lucrezia D.N.
19
BIANCANEVE
C
'era una volta una fanciulla bellissima, aggraziata e dalla voce simile al
canto di un usignolo; si chiamava Biancaneve.
Alla mattina usciva presto per passeggiare in mezzo ai boschi, ed era
chiaro che quello era per lei il momento più gioioso della giornata. Nei boschi
poteva essere sé stessa, cantare e giocare con tutti i suoi amici animali. E'
superfluo dire che nel paese tutti le volevano un gran bene: al suo passaggio i
bambini correvano a salutarla, i gentiluomini si prostravano ai suoi piedi e le
vecchie signore avevano sempre qualche dolcetto da offrirle. Veniva inoltre ogni
giorno nella mia bottega a comprare gli ingredienti per preparare deliziosi
manicaretti per tutti i suoi cari.
Ma la sua matrigna, una donna bella quanto spregevole, era invidiosa: sì,
invidiosa di tutte le attenzioni che la giovane otteneva, di tutti gli sguardi
d'ammirazione rivolti a quella piccola traditrice.
C'era stato un tempo in cui era stata la matrigna la più bella, oh, chi non lo
ricorda! Ogni giorno si rivolgeva al grande specchio rotondo che si trovava nel
suo castello, tutte le volte con la stessa domanda:- Specchio specchio delle mie
brame, chi è la più bella del reame?- e lui le rispondeva sempre che ovviamente
nessuna la superava in bellezza.
Un giorno però le rispose che non era più lei la più bella, ma la giovane
Biancaneve. La matrigna, furiosa, incaricò così un cacciatore di ucciderla.
Ero molto preoccupata: ho sempre voluto bene a quella cara ragazza! Però il
cacciatore non ebbe il coraggio di spararle e la lasciò fuggire. La ragazza,
spaventata, dopo lunghi giorni trascorsi fra le selve, finalmente riuscì a
raggiungere una graziosa casetta, dove vivevano sette laboriosi nani che la
tennero con loro per molti anni.
Ma nel frattempo la malvagia matrigna aveva scoperto l'inganno e, travestitasi da
anziana mendicante, bussò alla sua porta per offrirle una mela stregata. L'ingenua
fanciulla l'accettò con piacere e cadde a terra, morta. Tutta la gente del posto
sprofondò in un pesante e doloroso lutto, tranne ovviamente quella strega della
matrigna, che era tornata ad essere la più affascinante del regno. Io disponevo di
una pozione prodigiosa che dona a chi la beve ogni dodici giorni l'immortalità, e
tiravo avanti così. Ogni anniversario della morte di Biancaneve mi recavo alla
sua tomba per ravvivare i fiori che la adornavano.
Era il centesimo anniversario della morte di Biancaneve; mi recai di buon
mattino in cimitero per onorarne, come ogni anno, la memoria. Ma quando giunsi
alla lapide quasi caddi a terra dallo sbigottimento: dov'era finito il corpo?! Era
sparito, la tomba era vuota. Mi guardai attorno, smarrita, e qui la vidi: una
fanciulla che camminava smarrita e stralunata, con un vestito blu che non potei
non riconoscere. -Biancaneve!- esclamai gioiosa oltre ogni misura. La giovane
donna mi corse incontro, chiedendomi spiegazioni. A quel punto era evidente che
la mela da lei ingerita cent'anni prima non provocava la morte, ma il sonno di un
secolo. Invitai la ragazza a venire a casa con me per sistemarsi un po' e mangiare
qualcosa di caldo.
20
Biancaneve è quindi venuta a stare da me. Dopo cinque anni di scuola superiore
(dove era la più bella e brillante dell'istituto) ha deciso di frequentare la facoltà di
medicina all'università, affermandosi come cardiologa in tutta la regione e
prendendo un suo stipendio ogni mese, con il quale poteva occuparsi di me con le
migliori cure. Si è trovata anche un fidanzato, un giovane ingegnere di
bell'aspetto e dal cuore d'oro.
Alla mattina Biancaneve usciva di casa, prendeva il tram 712 per raggiungere la
sua clinica in un bel viale vicino al centro: qui lavorava tutta la mattinata per
curare i malati, che in lei trovavano la speranza e la guarigione. A pranzo si
sedeva al tavolo di un bel ristorante dove servivano piatti semplici ma sfiziosi. Al
pomeriggio usciva poi per divertirsi; solitamente andava in libreria a dare
un'occhiata ai nuovi titoli, in profumeria per acquistare una cipria che le
permetteva di mantenere quel suo incarnato candido, ed infine al supermercato e
in farmacia per fare la spesa e comperare le mie medicine. La sera tornava a casa,
cenavamo insieme parlando dei vecchi tempi e finivamo la serata tra lacrime e
sospiri nostalgici.
Biancaneve se ne andò dopo cinquant'anni di vita nel mondo moderno, e questa
volta per davvero. Sto soffrendo molto per la sua perdita; sono undici giorni che
non prendo più la mia pozione dell'immortalità.
Silvia
21
TOM HUNTER E LA SUA CHITARRA
C
iao, sono Tom Hunter. Sulla terra ho trascorso una vita molto bella e
spensierata: la mia gioia più grande era la mia chitarra acustica, ma avevo
anche una bellissima chitarra elettrica, della quale ricordo ancora il
modello, Ibanez RG 350 MZ.
Imparando a suonare la chitarra, mi sono automaticamente creato un nuovo modo
per avere amicizie, perché, in genere, quando nei vari gruppi si nota qualcuno
che sa suonare la chitarra, si familiarizza subito e allegramente si incomincia a
cantare.
Purtroppo, ad un certo punto della mia vita, un banale incidente mi ha portato via
e sono stato accolto in Paradiso.
Dopo poco tempo, in quel luogo mi si presentò una persona misteriosa che mi
disse: “Posso fare qualcosa per renderti più felice?” Io gli risposi: “Vorrei
potermi reincarnare in uno strumento musicale e precisamente in una chitarra”.
Rimasi per molti giorni a meditare sull'aspetto che avrebbe dovuto avere la mia
chitarra.
Alla fine andai dallo sconosciuto misterioso e gli dissi: “Voglio essere una
Gibson les paul custom shop, di color oro, argento e un rosso fiammante come
base.
Inoltre vorrei avere un bellissimo manico di legno di faggio e la paletta con la
scritta Tom Hunter's Gibson. Questa sarebbe la cosa più soddisfacente per me".
Mentre gli dicevo questo mi venne in mente se potesse far suonare quella chitarra
ad un grande chitarrista: Eddie Van Halen.
“Ci vediamo tra una settimana in Purgatorio” disse lui; io gli chiesi perché, ma
non mi rispose e andò via.
Arrivato il fatale giorno, lo incontrai in Purgatorio; egli mi presentò un'altra
anima in cerca come me di una chitarra.
Io lo riconobbi: era il mio vecchio amico Philip. Guardandolo ricordai subito
quando tutti e due suonavamo la chitarra in una band. Poco dopo attraverso un
tunnel trans-dimensionale, creato dall'uomo misterioso arrivammo sulla terra,
dove, assunte le sembianze di due chitarre, fummo subito esposti nella vetrina di
un negozio negli U.S.A.
Un mese dopo, in quel negozio, passarono per caso Van Halen ed il suo secondo
chitarrista.
Proprio Van Halen si fermò a guardarmi con attenzione e, dopo avermi provato
per un po', disse:" I'm buying this fantastic guitar, and you?" chiese al suo amico.
L'altro, guardando Philip, disse: "I don't like very much the colours of this guitar,
but the sound is fantastic; so I'm buying it".
Allora i due amici ci comprarono: eravamo quindi entrambi nelle mani dei nostri
idoli.
Partiti per fare una tournée con i Van Halen, ci aspettava un lungo viaggio verso
l'Italia, dove ci saremmo esibiti a Milano. Arrivati a destinazione i tecnici degli
impianti dell'audio e delle luci sistemarono tutto e la sera del 27/7/1997
iniziammo il concerto.
22
"Quello fu il concerto più bello della mia carriera" affermò in una conferenza
stampa Van Halen, "con la mia musica e questa chitarra ho infuso felicità,
allegria e tante emozioni al mio pubblico; ma la cosa più bella è che tramite il
rock ho raccontato la mia storia".
Io e il mio amico Philip eravamo molto soddisfatti ed insieme dicemmo: "Adesso
possiamo tornare in Paradiso, abbiamo raggiunto la felicità massima.”
Detto questo ritornammo alla vita ultraterrena.
Tommaso
23
SULLE MURA DI TROIA
A
ffacciato sulle mura di Troia, non riesco a muovermi, a pensare, a
parlare. Tutto quello che riesco a fare è guardare quella danza mortale.
Dove è finito il mio coraggio, che dicevano grande per un ragazzo
giovane come me, per andare ad aiutare Ettore, anche se sono tanto inferiore a
lui? Dov'è il mio onore, quell'ardore che fino ad ora mi ha spinto a compiere
imprese?
Ma forse il destino vuole che nessuno intervenga. Nell'aria avverto una
tensione fortissima e opprimente, evidenziata ancora di più da questo silenzio
irreale. Nessuno si muove.
Ettore è tutto solo nella grandissima piana sotto Ilio e, per quanto grande e
imponente sia la sua figura, sembra così piccolo e debole contro ciò che incombe
su di lui. Ettore è immobile e fissa un uomo.
È alto, ancora più alto del mio eroe, la sua spada è insanguinata. Quel pezzo di
bronzo è sporco del sangue della mia gente, della gente di Ettore: è il sangue per
cui Ettore combatte. Achille brilla come la stella più luminosa della notte buia,
sia per la splendida armatura, sia per quel terribile lampo assassino che riflettono
i suoi occhi.
Di colpo mi trovo a pensare all'ultimo colloquio del figlio di Priamo con la
moglie e il figlioletto, avvenuto poco tempo fa sulle stesse mura a cui sono
appoggiato, e a cui ho segretamente assistito. Ettore mi aveva incontrato mentre
cercava la bella Andromaca e io gli avevo indicato la strada. Ricordo come la
cercava, e credo che solo agli dei si riservino tutte quelle cure e attenzioni che le
dedicava. Non l'avevo mai visto piangere di gioia, mentre intanto accarezzava la
moglie e stringeva forte a sé il bambino.
Che ne sarà adesso di quell'uomo, così solo davanti al destino, di quella donna e
del piccolo? Li cerco con lo sguardo tra gli spettatori di quel terribile e
affascinante spettacolo e non riesco a fare a meno di tirare un sospiro di sollievo
non vedendoli. Scorgo invece i genitori Priamo ed Ecuba, sovrani della potente
Troia, stretti in un abbraccio e così deboli e vecchi da sembrare di vetro.
Non sento le parole pronunciate dagli eroi, mi accarezzano solo con le loro fragili
ali di emozioni.
Mi scuoto solo quando Achille, con un potentissimo e agghiacciante grido
lancia la sua asta contro Ettore. Vorrei riuscire a chiudere gli occhi per non
vedere l'impatto. E invece Ettore viene clamorosamente mancato. Qualcuno urla
qualche parola di incoraggiamento. Il volto del nostro eroe si apre in un grande
sorriso mentre scaglia a sua volta la lancia. Un forte clamore riempie la piana:
l'asta ha colpito lo scudo dell'avversario che però non viene minimamente
scalfito, anzi, fa rimbalzare lontano l'arma dall'ombra lunga. La lancia di Achille
è tornata come per magia nella mano forte del proprietario, che risplende della
luce divina dei protetti di Atena.
Ettore si volta per chiedere un'altra asta ma si accorge improvvisamente di essere
solo in mezzo alla piana, vittima di un inganno della dea dagli occhi di civetta;
senza dei o uomini ad aiutarlo.
24
Mi mordo le labbra cercando di ignorare il senso di colpa che mi divora: avrei
potuto esserci io ad assisterlo mentre invece sono rintanato quassù, su queste
altissime mura di marmo.
Ma chi voglio prendere in giro? Ettore è il solo motivo per cui Troia non è già
nelle grinfie degli Achei e noi Troiani avremmo dovuto difendere lui per salvare
la città ma, stolti, ce ne rendiamo conto solo ora, ed assistere alla sua morte sarà
come vedere in anticipo la ormai prossima caduta di Troia. Cadrai anche tu,
amata Ilio, vittima di un vile inganno?
Guardo giù: con le poche forze rimaste, compresa quella della disperazione,
Ettore ha sguainato la sua pesante spada e si è lanciato come un‟aquila in
picchiata su Achille, che spicca il volo a sua volta. Ora combattono avvinghiati
cercando disperatamente la pelle e il sangue dell'altro.
I volti che mi circondano sulle mura rispecchiano l'ansia e il terrore più puro
mentre dalla pianura, un tempo fertile e ricoperta di fiori, giungono grida,
clangore di armi e tonfi delle armature di bronzo.
Poi di colpo è come se il tempo si fermasse e tutto andasse a rallentatore: un
lampo attraversa il volto assetato di sangue di Achille che si riflette sulla spada di
bronzo, così bella e terribile, mentre cala impietosa.
Ettore si accascia e il suo viso è lo stesso di un qualunque uomo che muore. La
morte ci rende tutti tremendamente uguali.
I suoi occhi vagano sulle mura cercando di afferrare un'ultima volta l'immagine
di Andromaca. Poi li rivolge al suo carnefice, che lo sovrasta. Achille, sporco e
insanguinato, ha in volto un'espressione terribilmente soddisfatta che viene però
tradita dai suoi occhi: due buchi neri come pozzi, da cui trabocca ancora la
disperazione per la morte di Patroclo.
È scosso, trema, ansima e ringhia come un cane rabbioso mentre ascolta e nega
impietosamente le ultime volontà dell'uomo che ha appena ucciso.
Achille se ne va.
Neanche l'urlo e il pianto della madre di Ettore unito a quello delle altre donne
riesce a scuotermi mentre fisso quel corpo ormai anonimo, solo e fragile in
mezzo alla pianura.
Sara
25
IL SOGNO DI GIOIA
Fuori c'era una calura insopportabile e Gioia, con il palmo della mano, si
asciugò la fronte sudata e, sfinita, si distese su un morbido materassino turchese.
Lei era una delle ginnaste più promettenti d'Italia e il suo sogno era quello di
arrivare alle Olimpiadi. Per questo ogni giorno si allenava cinque ore e tornava
nel suo piccolo appartamento stremata. Per migliorare nella ginnastica si richiede
tanto impegno e i sacrifici a Gioia sembravano infiniti. Ormai non aveva più una
vita sociale, non abitava più con la sua famiglia e era costretta a studiare da
privatista. Alle volte voleva solo essere una ragazza normale e vivere un'altra
vita. Ma poi ripensava al suo sogno e sapeva di non voler mollare, doveva
riuscirci a tutti i costi.
Mentre pensava a tutto ciò arrivò l'allenatore che, sorridendo, le disse:
“Ora devi andare sulle parallele, non stare qui distesa a perdere tempo”. Già, le
parallele, le nemiche peggiori di Gioia. L'attrezzo in cui lei non riusciva ad
esprimersi pienamente. Sospirando inforcò i paracalli e cominciò a svolgere i
suoi esercizi, che quel giorno risultavano stranamente perfetti. “Molto bene”
esclamò soddisfatto l'allenatore e Gioia si sentì orgogliosa di se stessa.
Ma mentre stava per cambiare staggio, proprio mentre era in volo,
successe qualcosa di bizzarro: all'improvviso l'atleta si ritrovò in un immenso
giardino verde che si affacciava su una lussuosa villa rosata. Gioia, estremamente
confusa, si avvicinò all'edificio. La porta si aprì ed uscì una donna bellissima con
un sorriso candido e gli occhi color del mare. “Vieni, tesoro” la invitò la
sconosciuta “entra pure e siediti che ti devo parlare”. Gioia intimorita e
incuriosita seguì la donna all'interno della villa e si accomodò su una antica
poltrona in pelle. Davanti a lei c'era un tavolino imbandito di dolcetti e tè caldo e
la signora la esortò ad assaggiarli. La ginnasta non aveva mai mangiato niente di
più buono e meravigliata osservò la casa. I soffitti alti erano decorati da affreschi
raffiguranti paesaggi lussureggianti; le tende leggere lasciavano penetrare la luce
all'interno e il profumo dei ciliegi in fiore inondava le stanze sfarzose.
Ad un certo punto, la donna iniziò a parlare e le disse: “Gioia, io so che il
tuo grande sogno è quello di andare alle Olimpiadi, ma io adesso ti metterò
davanti ad una difficile scelta: puoi continuare ad allenarti e fare la tua solita e
faticosa vita oppure puoi venire qui da me, in questa villa dove non ti
mancherebbe niente. Anche i tuoi genitori si trasferirebbero qui e se vuoi potrai
portarci anche i tuoi amici e gli altri parenti. Avresti una vita stupenda, piena di
felicità ma non potresti realizzare il tuo sogno. Pensaci bene mia cara e rifletti sul
fatto che la tua vita potrebbe cambiare in meglio se scegliessi di stare con me.
Niente più fatiche, allenamenti, sacrifici, solitudine, stanchezza o difficoltà. Solo
divertimento e pace.” Gioia non aveva bisogno di meditarci sopra, sapeva già che
nessuno aveva il diritto di rubarle questo sogno e che per nessun motivo avrebbe
mollato. Non voleva una vita più facile, ma desiderava un'esistenza più
appagante e ricca di soddisfazioni. Perciò con grande coraggio disse alla donna
che non sarebbe andata a vivere con lei e che la ginnastica era semplicemente
tutto.
26
Allora all'improvviso la sconosciuta scomparve e Gioia si trovò a pancia
in giù sul materasso. Era caduta di nuovo dalle parallele, ma questa volta si rialzò
col sorriso sulle labbra e giurò al mondo intero e a se stessa che un giorno sul
gradino più alto del podio alle Olimpiadi ci sarebbe salita lei.
Rebecca
27
SUPERSTIZIONI
«L
e linee continue della sua mano esprimono un ideale di vita duratura,
il cui equilibrio può essere spezzato in ogni momento». Queste
furono le parole che pronunciò, come se non ci fosse nulla di più
naturale al mondo; un giudizio apparentemente incontestabile, formulato da una
semplice indovina. «Potrebbe morire da un giorno all‟altro, ma il mio istinto mi
suggerisce che perirà presto, indicativamente fra una decina d‟anni, o forse di
meno. Succederà, e lei non se lo aspetterà. Mi dispiace davvero, sembrerebbe una
persona che ha voglia di vivere, determinata e difficile da abbattere. Ma si sa, alla
morte non scampa nessuno».
Un grande senso di vuoto mi trapassò l‟anima. Evidentemente si sentiva
un‟interprete di Atropo, tenuta ad intuire e ad ipotizzare approssimativamente il
destino di una persona, affibbiandole anche una possibile data di morte, futura o
prossima. Tutto ciò non rappresentava affatto la mia mentalità, ma soprattutto
non il mio personale modo di vedere, di percepire e di definire il fato. La vita è
imprevedibile, colma di sorprese positive e negative. Non bisogna temere la
morte: essa sarà l‟ultimo dei nostri viaggi. Si parte all‟improvviso e si giunge in
un luogo comune: prima o poi tutti lo popoleranno, chi prima, chi dopo. Sono
fortemente convinto che gli unici in grado di cambiare l‟avvenire siamo noi
esseri umani, protagonisti del passato, del presente e del futuro.
Dopo questa lunga riflessione me ne andai, lasciando quella stanza buia e tetra.
Un capitolo della mia vita che non volevo assolutamente ripetere: anche se
durato poco tempo, ha influenzato il seguito di quella giornata, infondendomi
preoccupazione. Ci volle un enorme lasso di tempo per dimenticare e cancellare
dalla memoria quell‟incontro. Possibile che mi avesse lasciato perplesso a tal
punto da rimanere impresso nella mia mente per mesi e mesi?
Ma il tempo passò, alle volte veloce, alle volte lento. Quel ricordo si offuscò
sempre di più. Fino a sparire totalmente, come per magia. Ed ecco arrivare un
altro inverno.
Un giorno di dicembre, mi affacciai alla finestra. Senza un motivo particolare.
Nevicava, e io ammiravo i panorami innevati con un irrefrenabile desiderio
interiore di essere libero, di riuscire a congiungermi con la natura, a sentirmi
parte di essa. Cominciai ad ammirare le piccole caratteristiche di tutti giorni,
come il sole di prima mattina, che rischiarava il paesaggio e illuminava la
rugiada. Ma anche la variazione netta della pioggia, della quale apprezzavo il
rumore. O le stelle, infinite e luminose, che caratterizzavano quelle lunghe notti
fredde, gelide, pallide… elementi insignificanti della mia giornata, che forse
prima notavo a stento. Ma che possedevano un‟incredibile bellezza,
all‟apparenza abituale, ma unica. Elementi che mancheranno, prima o poi,
quando si sarà costretti ad abbandonare la vita terrena, per qualcosa di ignoto,
che infonde paura. Ed è per questo che speravo di rinascere, di rivivere
assumendo un‟altra identità.
Avevo bisogno di cambiare, di variare dalla monotonia.
Arrivò Capodanno, e con esso una carica di nuove aspettative. Mi era concesso
prendere un periodo di ferie dal lavoro, quindi optai per una vacanza su un‟isola
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oceanica, lontana migliaia di chilometri da casa. Il freddo mi aveva davvero
stufato.
Il volo durò molte ore: mi addormentai e sognai di trovarmi solo in un‟isola
deserta, senza sapere come sopravvivere o dove trovare cibo e risorse per
costruire una semplice abitazione. Fu pressappoco un incubo, anche se molto
particolare. Mi svegliai quasi subito.
Al momento dello sbarco, dopo aver recuperato i bagagli, osservai a lungo i
luoghi intorno a me. Era tutto così diverso, una grande novità.
Quanto mi sarebbe piaciuto condurre una vita differente, che mi soddisfacesse di
più, proprio come quella vacanza.
Mi diressi all‟appartamento in affitto. Si affacciava sull‟oceano; era uno
spettacolo meraviglioso. Si poteva ammirare l‟orizzonte, apparente confine fra
terra e cielo.
Calarono le tenebre. Mi avvicinai a riva.
Non riuscivo più a distinguere il blu dell‟acqua dal buio della notte. Si
amalgamarono per bene, divennero un‟unica tonalità.
Fu in quel momento che capii: ci sono dei momenti in cui tutto è calcolato e
associato alla perfezione, altri in cui si notano facilmente le differenze di singoli
elementi. Bisogna imparare ad apprezzare i cambiamenti e a trovare un equilibrio
con ciò che si desidera.
Mi pentii amaramente, avrei voluto ricominciare tutto da capo.
Ma fu proprio in quel momento che persi il contatto con il mondo; mi sentivo
incredibilmente leggero, sollevato. Capii che era giunta la mia ora, e che qualche
forza sovrumana stava decidendo per me.
Mi abbandonai ad un sonno eterno, e il mio ultimo pensiero fu quello di capire
che l‟esistenza nasconde dei misteri destinati a non essere rivelati e percepiti da
nessun essere vivente. Ma era troppo tardi.
Lucia
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MENTRE LA FELICITÁ MI ABBANDONA
miei migliori amici si chiamavano Ronnie e Charlie, ci conoscevamo
dall'asilo.
In ogni cosa successa nella nostra vita, tutti e tre eravamo presenti, sempre, in
ogni occasione. Ogni giorno ci incontravamo al Jefferson Park per pianificare
una delle nostre stupidaggini della giornata.
Ma è ovvio che in un attimo tutto cambia se un pazzo drogato si presenta nella
tua scuola, uccide il tuo migliore amico e incolpa tutti per la sua vita senza
successo.
I
Era il 5 marzo, quando un ragazzo senza ragione di vita irruppe nella nostra
scuola. Diceva di essere un ex-alunno del nostro liceo e incolpava tutti noi perché
la sua vita era così senza senso.
Aveva una pistola in mano.
Accusava i professori perché gli ricordavano quelli che non gli avevano
insegnato argomenti che lo attirassero e gli piacessero, e che quindi non lo
avevano invogliato a studiare.
Incolpava noi alunni perché eravamo come quelli che lo insultavano perché non
studiava, anche se avevamo un volto diverso e solo per questo non eravamo già
morti.
Quindi incolpava tutta la scuola perché, secondo lui, non l'avevamo aiutato e per
colpa nostra non aveva potuto laurearsi, come tutti.
Ci disse che non potendosi laureare, per colpa nostra, non aveva potuto trovare
un buon lavoro, uno che gli avesse permesso di guadagnare abbastanza da poter
pagare le cure mediche della madre che era morta di cancro ai polmoni.
Era distrutto, gli mancava la madre, si sentiva in colpa e per tentare di alleviare
quel dolore incolpava anche noi.
Aveva chiuso tutte le vie d'uscita di sicurezza. Quel giorno, almeno, Ronnie non
c'era, era salvo.
Ad un certo punto il giovane entrò nella nostra aula e cominciò a fissare Charlie;
pensai "No,vieni da me, allontanati da Charlie", ma lui gli si avvicinava sempre
di più. Gli puntò la pistola al petto e cominciò a urlargli in faccia:"Sei tu quello
che mi ha picchiato perché non studiavo!! Per colpa tua ho abbandonato la
scuola!".
Charlie gli ricordava un ragazzo che lo aveva picchiato ai tempi della scuola.
Charlie gli disse di no, che si sbagliava, ma quello sragionava, accecato dalla
rabbia e dall‟odio.
Gli sparò.
Poi ci fece segno di tacere, altrimenti avrebbe fatto lo stesso con qualcun altro e
disse: "Almeno la morte di mia madre è stata vendicata" e si sparò anche lui.
Corsi subito da Charlie, ma non c'era più nulla da fare.
Quando Ronnie venne a sapere della morte di Charlie non riuscì a sopportare il
dolore, scappò dalla città, non venne più a scuola e cominciò a drogarsi.
Noi tre avevamo fatto progetti per il ballo di fine anno, avevamo anche invitato le
ragazze più carine della scuola, insieme a molti altri progetti per l'estate, ma un
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pazzo ci aveva rovinato la vita, perché non poteva sopportare che solo la sua
fosse rovinata!
Incredibile: il giorno prima ero così felice, pieno di voglia di vivere; il giorno
dopo non volevo altro che qualcuno per strada, anche per puro divertimento, mi
sparasse.
La polizia prese seri provvedimenti: telecamere in ogni singolo quartiere della
città, i poliziotti vegliavano giorno e notte, soprattutto l'ispettore Max.
Ronnie decise di venire l'ultimo giorno di scuola. Ero felice di vederlo, ma lui
non mi parlava, mi evitava. Arrivò finalmente l'ultima ora di scuola, non vedevo
l'ora che finisse, quando Ronnie si alzò, tremava, e cominciò a parlare: "Come
diavolo fate a starvene seduti e tranquilli? Non pensate a Charlie, che è morto
perché voi non avete mosso un dito per salvarlo?! Ma tranquilli, potrete presto
chiedergli scusa, in ogni cattedra di ogni aula c'è una bomba"- prese dalla tasca
un piccolo telecomando e schiacciò un pulsante rosso.
Eravamo tutti terrorizzati, in attesa della morte... ma non successe niente: gli
ispettori, dal giorno della tragedia, controllavano la scuola ogni notte e così
avevano fatto anche per quella, disattivando le bombe installate da Ronnie.
Sentimmo la polizia armata avvicinarsi. Ronnie cominciò a urlare per la
disperazione: "Volevo solo che fossimo tutti con Charlie alla fine del Liceo!".
L'ispettore Max irruppe nella stanza con gli agenti che immobilizzarono Ronnie.
Era la seconda volta che accadeva una cosa del genere nella mia vita ed entrambe
avevano a che fare con i miei migliori amici. La prima vidi uno di loro morire
davanti ai miei occhi, la seconda vidi una persona che credevo di conoscere
meglio di me stesso, cambiata a tal punto da poter dire "Non lo conosco quello
che hanno arrestato".... e forse tutto questo per colpa mia.
Selma
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STELLE
uardando le stelle del cielo invernale che si stendeva sopra l‟isola
D‟Elba, una coppia di ragazzi, avvolti nelle coperte, parlava sulla riva del
mare. “Sapevi che le nebulose che vediamo noi ora con i telescopi sono
fenomeni avvenuti più di 9000 anni fa? E che le stelle che stiamo guardando in
questo momento potrebbero essersi spente?” disse lui, fiatando sulle mani per
scaldarle. “Siamo stati fortunati a trovare una giornata serena” rispose la
ragazza, “ha piovuto tutta la settimana.” Il loro fiato condensava in nuvolette che
si divertivano a disfare con le mani, quando lui ricominciò a parlare: “Il primo
aprile del 1962 un astronomo australiano, John Lewis, conduttore di un
programma scientifico, espose le sue teorie su quello che lui chiamò l‟effetto
gravitazionale gioviano-plutoniano. Quel giorno, alle 16.47 esatte, la Terra,
Giove e Plutone si sarebbero allineati e l‟azione combinata della forza
gravitazionale dei due pianeti avrebbe contrastato la forza di gravità terrestre,
rendendo tutti decisamente più leggeri. Alle 16.47 John invitò i telespettatori a
saltare e, insieme all‟arredo dello studio, si mise a fluttuare per la stanza.” “E
poi?” chiese la ragazza. “Poi le linee telefoniche dello studio televisivo furono
prese d‟assalto da moltissime persone che giuravano di aver effettivamente
sperimentato l‟assenza di peso;” continuò lui, “Una ragazza olandese ha
dichiarato di aver fluttuato nella cucina del suo appartamento insieme al gatto.
Un uomo austriaco affermò che, durante una partitella a calcio tra amici,
entrambe le squadre si erano alzate a pochi metri da terra, nuotando nell‟aria. Lo
stesso accadde durante una gara di ciclismo, un ciclista volava con la sua
bicicletta stile E.T., e, appena finito l‟effetto gioviano-plutoniano, cadde
provocandosi una frattura alla gamba.” “Ma è tutto vero? Queste persone hanno
davvero galleggiato in aria?” domandò lei, curiosa di sapere se l‟amico le
mentiva. Il ragazzo rise finché non divenne rosso in viso: “Certo che no, era un
pesce d‟aprile organizzato da Lewis”. E continuarono a guardare le stelle, mentre
la notte scendeva su di loro.
G
Giulia
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PAGINE DI SALE
O
ggi è il 15 settembre 2015. È passato esattamente un anno dalla morte di
Cecilia, mia sorella. La cerco invano sul lungomare di Riccione e aspetto
speranzosa la sua squillante risata e il tocco rassicurante della sua mano
sulla mia spalla. Inutile.
Ogni cosa è sovrastata dal cupo infrangersi delle onde e il forte odore di
salsedine mi avvolge prepotente. Le mie gambe penzolano impotenti dal molo:
questo era proprio il suo posto preferito, dove amava rifugiarsi quando
litigavamo e isolarsi dal mondo tra gli splendidi paesaggi della costa, che soleva
racchiudere tra le pagine del suo piccolo taccuino. Lo stesso che reggo ora tra le
mani, tremante: un quadernino di pelle nera che geme impercettibilmente al
soffio del vento di settembre. Sfioro le pagine con cura e ogni particolare mi
colpisce dolorosamente: la scrittura minuta e ordinata, col caratteristico rientro a
destra, le piccole bozze di splendide poesie a margine e poi le date che
campeggiano
imponenti
su
ogni
pagina.
Numeri
che
pesano
incommensurabilmente e segnano il conto alla rovescia al triste giorno.
È una sensazione atroce: regna ancora forte il suo profumo di lavanda sulle
pagine e il pensiero che l‟ultima a toccare quel diario, scrigno di tante esperienze,
sia stata lei è insopportabile. Quanto vorrei gettare questo insulso pezzo di carta
nel mare schiumante e vedere come il mare lo corrode. È stato già abbastanza
duro vedere Cecilia su quel letto di ospedale: morente e stordita, ormai privata di
qualsiasi umanità che, attraverso la flebo, assumeva l‟ultima dose di veleno che
la separava da quell‟esistenza di dolori e abnegazione. Non mi sono bastati i suoi
occhi imploranti e il sorriso beato nato sul suo viso dopo che le macchine
avevano smesso di pulsare? Perché mi sottometto a questo ultimo supplizio,
ricercando nelle sue amare parole quei tristi momenti?
C‟è una risposta semplice: per Cecilia. Devo farlo per mia sorella, per
dimostrarle che, nonostante il dolore che mi assale qui proprio al petto ogni
mattina, resisto e vivo anche per lei. Giro così con foga le pagine: 1, 2, 3, 4, 5, 6,
7, 8, 9, 10, 11, 12, 13, 14 e infine il 15 che campeggia rosso. Le parole sono
ravvicinate e noto una scrittura stanca, rassegnata. Inizio a leggere con le lacrime
agli occhi:
“Ciao sono sempre io, Cecilia. Ho deciso di scriverti queste poche righe
giusto in punto di morte. Da giorni questo insistente dolore al petto mi
sconquassa e mi sveglia urlante di notte. I dottori, mia sorella, i miei genitori mi
guardano quasi con pietà, rammarico, ma non dicono niente: di certo non mi
servirebbero le loro parole a confortarmi. So perfettamente che la metastasi ha
colpito tutto il corpo e di certo non ho bisogno di un medico per capire che
questo è il mio ultimo giorno. Non voglio però annoiarti con le mie sofferenze. Il
vero scopo per cui ti scrivo è perché ho paura. Durante tutti questi mesi spesso il
desiderio di morire mi ha colto nei momenti peggiori come un’occasione per
sfuggire dal velo di sofferenze e promesse che mi hanno accompagnato durante
quest’ultimo anno. Ora però che mi ritrovo alle sue soglie non posso fare a meno
di rattristarmi: non per me stessa, ma per mia sorella Claudia e i miei genitori.
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Ho paura che non ce la possano fare, che non sopportino questo enorme peso: il
rapido spegnersi di una fievole stella.
Come una stella infatti sono bruciata, ma serenamente e questo lo devo
soltanto a mia sorella. Alle notti passate nello stesso letto rigido dell’infermeria
nonostante i rimproveri delle inservienti e la scappata al molo con l’infuriata dei
medici. Devo soltanto a lei quei momenti speciali che mi hanno dato la forza di
staccare le macchine quest’oggi e riservarle un destino più felice. E se leggi
queste righe, ne sono sicura perché sei una ficcanaso - ho un‟impercettibile
risata dopo mesi - sappi che ti voglio bene, sorellona, e solo grazie a te ora sono
felice”.
Mario
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LA SFERA DI NATALE
Q
ualche giorno prima di dicembre aveva nevicato; e come di consueto il
signor Amadei era arrabbiato. Viveva solo con il figlio Lucas, che
spronava il padre a diventare una persona migliore: infatti Amadei era un
uomo burbero, scontroso e addirittura temuto dai bambini del vicinato. Non
usciva mai se non per andare in ufficio, la gente pensava vivesse in un mondo
tutto suo e così lo lasciavano in pace. Ma una volta, mentre usciva di casa, notò,
sul muretto di pietre che contornava il cortile, una piccola sfera di vetro a carillon
completa di neve e città addobbata, ma nessun personaggio; con un calcio
scaraventò sul vialetto la sfera mandandola in mille pezzi: era ancora arrabbiato
per il litigio del giorno prima. La sera, rincasando non notò i cocci di vetro e
quasi vi scivolò sopra... “inutile immondizia” pensò entrando in casa. Quella per
Amadei fu una brutta notte : aveva passato in rassegna la casa ribaltandola da
cima a fondo, per cercare quel maledetto carillon che non lo faceva dormire; ma
non trovò nulla che potesse assomigliarvi: infatti il tintinnio assordante era nella
sua testa.
La mattina dopo, uscendo, si accorse che la neve che era caduta durante la notte
non era ancora stata spalata e sembrava che nessuno l‟avesse calpestata; non vi
fece molto caso e si incamminò verso l‟ufficio. Sentiva caldo, troppo caldo per
essere in dicembre , ma non fece in tempo a togliersi la sciarpa che iniziò a
barcollare, anzi a girare … non riusciva più a stare in piedi e le gambe gli
cedettero. Aprì gli occhi: era a terra, la testa non girava più ma il carillon della
notte precedente continuava a suonare; fu in quel momento che, tastando la neve,
si rese contro che non era fredda e che sembrava fatta di minuscole palline di
plastica che stavano continuando a cadere... per non parlare del fatto che per
strada non c‟era anima viva, ma le luci alle finestre erano accese come i
lampioni. Si alzò da terra e cominciando a correre raggiunse l‟ufficio in preda al
panico. Continuava a chiedersi quanto avesse bevuto la sera precedente o se
stesse ancora sognando, ma la neve cadeva, il carillon suonava e la testa
ricominciava a girare. Prese le chiavi dell‟ufficio, voleva entrare per calmarsi e
fare chiarezza … ma la chiave non entrava, la serratura era sparita come anche la
maniglia e i cornicioni delle finestre; l‟unica certezza era che stava sognando. Si
accovacciò preso dall‟ansia e cominciava a chiedersi se non fosse tutto reale. Ma
il carillon suonava, la neve cadeva trasparente e con un tintinnio meccanico tutto
girava attorno ad Amadei: era lui il personaggio mancante della sfera di vetro
trovata fuori casa ed era stato lui a farla andare in mille pezzi … imprigionandosi
per sempre in un mondo che aveva sempre odiato.
Margherita
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VOGLIA DI FRAGOLA, BRACCIALETTO D'ARGENTO
L
a luce rosata filtrava dalle pieghe statiche delle lunghe tende leggere e
candide. L'atmosfera intorno era tranquilla, il silenzio quasi palpabile.
Eppure io ero spaventata e sola, mi sentivo come perduta in quell'etere
infinito, quale mi sembrava la stanza irrorata dalla luce del sole.
Quella notte era accaduto qualcosa, qualcosa di disumano. Mi ritrovavo a vagare
disorientata per le pareti della stanza, come ombra invisibile. Tutto ciò mi
sembrava ingiusto e allo stesso tempo inconcepibile: io, un'anima rubata alla sua
dimora, come un feto strappato troppo presto dal ventre della madre. Ma non
avevo voce o lacrime per emettere quei vagiti tipici di un neonato.
Osservavo impotente quel corpo diviso in due, disteso sul candido lenzuolo, le
cui pieghe assomigliavano a onde in un mare tempestoso.
Le due parti erano simmetriche, divise tra loro dalla linea che un tempo le aveva
rese un corpo solo.
Osservandole più da vicino potevo notare le imperfezioni che le rendevano
fisicamente differenti. Quella piccola cicatrice sulla palpebra destra, un
braccialetto d'argento sul polso sinistro, la voglia di fragola sul fianco destro.
Vidi il mio corpo dimezzato aprire gli occhi, contemporaneamente, chiari,
limpidi, curiosi. Le mezze labbra dischiuse per lo stupore di sentirsi più leggere e
più incomplete, non parlavano.
Nessun rumore rompeva quel silenzio indescrivibile, ed io osservavo inerte. Nel
silenzio assordante della camera da letto, percepii la parte destra pensare.
Prendeva in considerazione tutte le esperienze positive e negative della sua,
nostra vita. La sua mente era impregnata di schemi e calcoli, liste di elenchi
scorrevano veloci. Valutava minuziosamente e attentamente il tempo che aveva a
disposizione e lo divideva per il tempo di cui aveva bisogno ogni giorno per ogni
singola azione. Moltiplicava il risultato per ogni anno che le restava da vivere e
qui si bloccava, poiché il dato le era sconosciuto. Ricominciava quindi a
riordinare ogni cifra, ogni dato e ripeteva il ragionamento. Mi annoiai di seguire
il flusso di questi complicati pensieri e provai ad intrufolarmi nella mezza mente
della parte sinistra.
Era offuscata da un pensiero fisso. Aveva un obbiettivo sicuro a cui guardare. Lei
la amava con tutte le sue forze, con tutte le valvole ed i ventricoli sinistri del suo
mezzo cuore. Voleva viverla fino alla fine, trovarne l'essenza, scoprire i meandri
più sconosciuti e misteriosi che essa celava. Amava la vita, amava la sua, nostra
vita e voleva esplorarla. Sapeva bene che avrebbe avuto una fine, ma la curiosità
la spingeva a voler scoprire cosa ci fosse dopo quella fine inesorabile.
Insieme alla dose di coraggio, però, in quell'emisfero sinistro di cervello, c'era
anche la paura di aver troppo poco tempo, non sapeva nemmeno quanto, per
vivere fino in fondo.
A volte, tra i mille pensieri, riaffioravano dal turbinio i volti sorridenti o
piangenti delle persone a cui pensava spesso. Le persone che rendevano speciale
quella vita, i suoi compagni di viaggio, coloro che avevano esplorato con lei le
più selvagge selve dell'infinito.
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Nella parte destra, in cui regnavano razionalità e ricerca della perfezione, c'erano
gli stessi volti.
Qui apparivano però più tetri, meno vissuti, la pelle perfetta non era segnata dal
tempo. Le espressioni erano vacue. Non assomigliavano nemmeno a volti, ma
fungevano da dati insignificanti di un'unica, complicata espressione matematica.
La parte razionale vedeva la nostra vita in modo lucido, perfetto. Ogni persona
era un numero, ogni ricordo veniva etichettato secondo contorte categorie.
Mi sentivo come sperduta tra ragione e amore ugualmente disumane che
lottavano tra loro in una battaglia psicologica e silenziosa, senza fine.
Cercavo di impormi su entrambe, di farle incontrare, di far capire loro che in
realtà perseguivano la stessa cosa. Entrambe, in due modi opposti, entrambi
imperfetti, volevano inconsciamente solo essere felici.
La ragione di tutti quei calcoli razionali, dell'ossessione di voler essere perfetti, di
ripercorrere all'infinito il complicato corso della vita per cercare quel dato
mancante e, nel contempo, quei volti espressivi, la voglia sfrenata di ridere e di
piangere, di abbracciarsi, viaggiarsi, sfidarsi non erano altro che la ricerca della
felicità.
Provai e riprovai invano, per un tempo incalcolabile, a spiegar loro il senso del
loro vivere. Ma non mi ascoltavano, continuavano a pensare la stessa cosa in
modo parallelo, nella stessa direzione, senza mai incontrarsi.
Rimasi vagante ad osservare i due turbinii dei loro pensieri, compatendo
quell'ostinazione dannata che caratterizzava entrambe le parti del corpo
dimezzato. Quell'ostinazione nel cercare qualcosa che non avrebbero raggiunto
mai, se non stando insieme, amandosi reciprocamente, amalgamando la ragione e
l'amore che c'è in noi.
E così rimasi sperduta in quella stanza, tenevo tra le mani il segreto della vita, la
perla della felicità.
Ma le due parti erano troppo occupate a contendersi qualcosa a loro sconosciuto.
Non potevano vedermi e riportarmi dentro di loro. Non avrebbero permesso che
io mescolassi con la mia mano invisibile l'amore e la ragione, che turbinavano
nella loro mente dimezzata.
Aurora
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LA CHIESETTA
C
ome ogni sabato mattina Alice infilò le sue Nike, compagne di tante
avventure, e dopo un breve riscaldamento per risvegliare i muscoli cominciò
a correre, prima piano, poi spingendo un po‟ di più, finché le gambe la
portarono lontano. Il fiato si fece corto e avido d‟aria ma Alice, molto allenata, lo
seppe gestire respirando con regolarità. Da anni, a causa del lavoro stressante, aveva
preso la salutare abitudine di farsi una corsetta all‟aria aperta, approfittando di una
stradina solitaria che scorreva sopra la sua casa, serpeggiando di fronte a un‟imponente
villa e poi a una umile chiesetta fronteggiata da un grande muro, umido e ricoperto di
muschio. Quella mattina, mentre il Mondo si stiracchiava ancora sonnolento sotto un
soffice piumino di nubi, Alice ammirava il sole e si beava di quella manna gratuita e
pura.
D‟un tratto, durante l‟allenamento sulle classiche andature, gettò uno sguardo al
vecchio rudere che era la chiesa e si bloccò improvvisamente trattenendo il respiro. Le
finestre e la porta, viste un attimo prima, erano scomparse e l‟edificio pareva più
malinconico e scarno che mai. Dimenticandosi la razionalità, la ragazza si avvicinò
alla chiesetta con un‟espressione preoccupata dipinta sul volto e appoggiò entrambi i
palmi sulla superficie ruvida. Sotto la sua pelle l‟edificio prese vita e Alice percepì un
lieve pulsare, un debole battito stanco, come se la chiesetta respirasse e avesse un
cuore. Sentendosi immensamente sciocca la ragazza avvicinò le labbra alla parete e
sussurrò :“Che succede?”. Poi si allontanò piano e accostò l‟orecchio in attesa di una
risposta. Dal muro sassoso si alzò un flebile lamento, straziante e struggente, e la
chiesa parlò :“ Non posso vedere il Mondo! Il Muro da egoista me l‟ha sempre
impedito, ma io voglio vederlo! È da secoli che tento, ma ormai ho perso ogni
speranza, così mi sono chiusa: se io non posso ammirare il Mondo, allora esso non
vedrà mai me!”.
Alice provava una tenera pietà nei confronti del vecchio edificio e piano, con mano
leggera, lo accarezzò cercando di dargli conforto. Dopo un paio di minuti appoggiò la
fronte alla parete e con tutta la concentrazione possibile si figurò nella mente il
Mondo, sperando di poter trasmettere alla piccola chiesa ciò che stava aldilà del Muro.
Capì che le immagini erano arrivate a destinazione dal sospiro felice ma rassegnato
che emise la chiesetta: un gemito sconsolato, quando Alice le mostrò l‟immensità del
mare, la gioia del sole, i fiori primaverili e i deserti aridi. Dopo aver terminato il
repertorio la ragazza domandò timida :“ Ma il tuo campanile non vede oltre il muro?”.
Allora la chiesetta parve arrabbiarsi e rispose con voce sommessa :“ Beh, quel
campanile è davvero inutile, è da anni che non suona, è pigro! E poi non lo sopporto.”.
Alice risoluta e incoraggiante ribatté :“ Ma è parte di te! Spesso per raggiungere i
nostri sogni più profondi e veri dobbiamo usare tutto di noi stessi e accettare anche ciò
che vorremmo nascondere o dimenticare. Quindi metti da parte il tuo orgoglio e sfrutta
il campanile!”. La chiesetta era riluttante, ma il desiderio di vedere il Mondo vinse e si
allungò fino alla sommità di se stessa, dove abitavano le campane arrugginite, curiosa.
Allora il suo sguardo si colmò di meraviglia, sollievo e libertà. Il Mondo le si
spalancava davanti e lei era impaziente di leggere quell‟immenso libro, sfogliarne le
pagine e cogliere ogni sfaccettatura. Spalancò anche se stessa al Mondo e fece entrare
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aria e luce per rendersi degna di quella visita. Ruotò lo sguardo verso Alice, gli occhi
colmi di lacrime gioiose, e la ringraziò per averla resa completa e vera.
Da quel giorno Alice e la chiesetta, ogni sabato mattina, ammiravano insieme il
Mondo quando ancora era addormentato e sussurravano per paura di destarlo da teneri
sogni.
Caterina
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LA REALTÀ CI APPARTIENE?
di di gennaio 2015. È una notte buia, senza luna, piove, fa molto freddo e la
nebbia mi impedisce di vedere la strada. Sono di rientro da una lunga
trasferta di lavoro e non vedo l‟ ora di arrivare a casa per buttarmi tra le
braccia accoglienti del mitico Morfeo.
All‟improvviso l‟auto che sto conducendo sbanda e mi ritrovo in un
dirupo nei pressi di una folta boscaglia. Cerco di allertare i soccorsi. Purtroppo in
quel posto isolato e dimenticato da Dio il mio cellulare non prende. Una vocina
elettronica dal navigatore ripete incessantemente: “ Mancata ricezione satelliti”.
Provo anche a connettermi con i dispositivi, di cui dispongo, ma nulla. Il 4G non
funziona, come sempre, quando è questione di vita o di morte! Tabula rasa. Et
tenebrae factae sunt.
Mi precipito fuori dalla macchina, ormai inutilizzabile. Oddio, questo è l‟
inizio della fine. Non mi sono fatto nulla, sono incolume, ma mi sono perso. Ho
paura. Sento solo ululati in lontananza. Inciampo continuamente e sono molto
stanco. Le gambe mi reggono a malapena. Un fulmine d‟un tratto illumina il
bosco, facendo apparire ai miei occhi in lontananza una splendida vallata, ricca
di fiumi e di campi ben irrigati e curati. Ma non siamo a gennaio? Sogno o son
desto? Un fulmine in questa stagione? Ma dove sono finito? Come raggiungere
quel luogo? Affretto il passo. Al centro della piana verdeggiante scorgo un‟antica
villa, decorata da ombrosi portici e da giardini a perdita d‟occhio, fontane di
marmo ovunque, che alimentano vaste aiuole variamente decorate da fiori di ogni
genere.
Scrutando meglio l‟ orizzonte noto che un sentiero battuto passa proprio
accanto alla selva, all‟ interno della quale mi ero, mio malgrado, avventurato.
Oltre il muro di cinta, che circonda la proprietà scorgo innalzarsi un‟alta colonna
di fumo, che mi rassicura. Finalmente qualche anima viva!
Sfortunatamente il bagliore cessa e preclude ai miei occhi ogni vista.
Provo a seguire il sentiero, che costeggia la foresta. Il buio profondo purtroppo
mi ostacola. Sto per abbandonare ogni speranza, quando vedo all‟improvviso una
biga. Una biga? Di questi tempi? Ma dove caspita mi trovo?
L‟uomo alla guida mi nota, grazie alla sua lanterna ad olio e mi saluta
cortesemente con un cenno del capo. “Può portarmi, per favore, a quella tenuta?”
Domando.
“Certamente! Mi sto recando proprio là. Sali dunque a bordo”. Risponde
affabile. Sono talmente impaurito e sconcertato che non gli rivolgo alcuna
domanda e fremo per arrivare.
Dopo un breve tragitto ringrazio e saluto per scendere. Un portico
illuminato a giorno, sorretto da colonne ioniche, mi rassicura sulla presenza certa
di qualcuno all‟interno dell‟ abitazione. Ebbene, gli abitanti di questa stupenda
vallata hanno ricreato vita e costumi di Roma antica, imitandone in modo fedele
e rigoroso l‟architettura e le consuetudini. Non a caso il pavimento sotto i miei
piedi è costituito da uno splendido mosaico, raffigurante un‟ auriga che vince una
gara al circo.
I
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Gli abitanti del podere mi salutano affettuosamente e mi invitano ad
entrare.
I servi svolgono le loro mansioni abituali fino a tarda notte. I magazzinieri
spostano pesanti anfore decorate in stile greco e le riempiono di granaglie;
avverto tutt‟ intorno un inconfondibile profumo di spezie d‟India, terra in cui
solo il grande Alessandro, fra i mortali, riuscì ad arrivare vincitore.
In un‟altra ampia stanza, più all‟interno, intravedo due giovani ragazze che
suonano la cetra, cantando l‟amore di Andromaca dal braccio bianco per Ettore.
Arrivato alla fine del corridoio, incontro la mater familias, che mi saluta in
perfetto latino, come, pensavo, lo parlassero solo gli Italici. Dopo avermi
spiegato che oggi si celebra una festa, mi esorta a prenderne parte. Oddio non
capisco, ho fatto un viaggio a ritroso nel tempo? Possibile?
Come tornare nella mia era? In questo luogo non conoscono ancora l‟ elettricità!
Continuo a camminare incuriosito e spalanco una porticina, che conduce ad una
ampia sala. Vedo spuntare un corteo di camerieri con capienti vassoi, colmi
d‟ogni manicaretto, indaffarati ad imbandire la tavolata per i nobili signori. Forse
è la cucina, con forni a legna e tavoli da lavoro, ma senza sedie. Solo lunghe
panche.
Sullo spiedo viene arrostito del fegato d‟oca, che verrà servito fritto nel burro con
contorno di fichi e l‟invitante profumo di arrosto si diffonde gradualmente
nell‟aria. Donne e uomini in vesti romane preparano pietanze a non finire: il
macellaio prepara un ottimo prosciutto per la stagionatura; un‟anziana offre agli
umili servi pezzi di una focaccia a base di grano, farro e avena.
La stanza a poco a poco si riempie del fumo delle carni arrostite e risuona del
vociare disordinato dei numerosi e vari occupanti, nonchè del cadere a terra di
vari oggetti, ora un mestolo di metallo, ora un piatto di ceramica, ora una ciotola
in terracotta. Come son distratti e rumorosi „sti Romani! Mi viene giustamente da
pensare.
Nessuno mi chiede chi sono e da dove vengo. Provo a rivolgere allora io,
smarrito e confuso, le più disparate domande, ma non mi danno retta. Decido
quindi di stare al gioco, facendo finta di nulla.
“O straniero, vorresti assaggiare anche tu?” mi chiede in lingua latina
un‟altra matrona abbastanza in carne e con la bocca ancora piena di leccornie.
“Assaggiare? Divorerei anche un vitello intero!” ribatto nella stessa sua
lingua.
“Stiamo preparando un grande banchetto per il nostro signore ed i suoi
ospiti. Su vai a conoscerlo, così ti aggiunge il posto a tavola!” aggiunge ella.
“Non aspetto altro!” rispondo prontamente, cominciando subito a
camminare.
Giro a destra e poi scendo le scale, ritrovandomi in una stanza piena di
viveri: ortaggi freschissimi, sacchi enormi di farina dall‟Egitto, anfore d‟olio
dalla Sicilia e di vino dalla Grecia, salami appesi a fili assieme ad invitanti
prosciutti. Davanti a me infinite vivande, e in un angolo anche dei fiori, tenuti in
un pregiato vaso di vetro variopinto.
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Arriva nel frattempo il siniscalco che esordisce: “Questa è la cantina della
residenza ed io ho il compito di tenerla sempre rifornita per il dominus”. Dopo
quattro chiacchiere mi allontano.
Mentre mi aggiro per le stanze, disposte come un labirinto, incontro un
gentiluomo, abbigliato sfarzosamente, con una toga ornata di porpora, dai modi
molto gentili e signorili che si rivolge a me affabilmente: “Sei tu, vero, l‟ ospite
di stasera?”.
“Sì, certo che lo sono. Tu sei forse il proprietario di questa splendida
villa?” domando. “Certamente. Mi adopero in ogni modo per garantire il
benessere mio, della mia famiglia e di chi abita questa residenza. Sei invitato al
banchetto di stasera e sarai l‟ospite d‟onore!”
Mentre l‟aedo, invitato appositamente dalla Grecia per la cerimonia, si
alterna alle due ragazze che ho già udito cantare l‟Iliade, decido di chiedere
spiegazioni illuminanti al pater familias. “Quid?” Mi guarda a dir poco
sbalordito. “Davvero non sai dove ti trovi?” Si esprime ora in lingua italiana.
“Questo è il set del “Grande Pater Familias”, un reality show di successo, nel
quale i concorrenti devono vivere per alcuni mesi isolati dal resto del mondo,
senza tecnologia e usando solo la lingua latina per comunicare tra loro, pena la
squalifica e l‟ uscita dal gioco! Tu sei l‟ ultimo concorrente che attendevamo, era
tutto previsto in regia!”
Ma come? Siamo approdati ad un tal livello di alterazione ed alienazione
dalla realtà, che non siamo più coscienti della vita che conduciamo e delle azioni
che compiamo? La tecnologia ci ha espropriati del nostro stesso destino?
Siamo diventati inconsapevoli di ciò che ci accade? Penso a come
riprendere le redini della mia esistenza, quando d‟un tratto percepisco un
motivetto musicale che recita: “ Good Morning……”
Ma sì, è la sveglia del mio cellulare. Per fortuna era solo un incubo! Un
tremendo incubo! Mi riapproprio allora della mia vita di sempre con il timore
recondito sempre presente che il mio sogno possa un giorno avverarsi, non
lasciandomi via d‟ uscita alcuna.
Francesco
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LO STUDIO SOTTERRANEO
S
ono il proprietario di un piccolo supermercato. La mattina, verso le 7:30,
apro il negozio per accendere le luci, i registratori di cassa, i frigoriferi per
la carne da servire al banco etc.
Sempre la stessa routine, finché un lunedì vedo dall‟altra parte della strada un‟
anziana signora che mi fissa. Così per tutti i lunedì del mese, e del mese dopo, e
di quello dopo ancora. La situazione non mi piace affatto.
Il lunedì successivo non vado al lavoro. O meglio, apro il supermercato, vedo la
solita signora, aspetto che se ne vada e la seguo. Camminiamo. Camminiamo.
Camminiamo ancora. In salita. Quest‟anziana signora è più allenata di me. Si
mette addirittura a correre. E io a ruota che cerco di non farmi vedere. E intanto
faccio molta fatica. Ad un certo punto, dopo più di mezzora (mi stupisco che
costei non abbia vinto la maratona alle Olimpiadi), di cui un bel po‟ di corsa e in
salita, vedo la signora tirare una specie di ramo attaccato ad un albero.
Improvvisamente si apre un buco in mezzo al prato e scorgo delle scale. La
signora scende...
Dopo venti minuti buoni vedo uscire dal buco una rispettabile signora, vestita
con gonna, maglietta e tacchi alti. Nessuno sospetterebbe di lei, a meno che non
la vedesse entrare anziana e uscire ringiovanita improvvisamente. Aspetto che se
ne vada e tiro il ramo, il buco si riapre e scendo. Dentro vedo un sacco di
cineprese, luci da teatro, sedie, dischi, pellicole. Questo deve essere per forza il
set di un film e capisco anche come la signora anziana diventi giovane. Un buon
truccatore fa miracoli: togliete all‟anziana una parrucca bianca, una camminata
incurvata , il bastone e il gioco è fatto.
All‟improvviso sento dei passi scendere le scale: il classico rumore che fanno le
scarpe con il tacco. Sono sicuro che ora, chiunque sia, si arrabbierà e mi
denuncerà per “oltraggio alla proprietà privata”.
E invece quella, appena mi vede, si rallegra e gioisce. Non capisco più nulla:
prima l‟anziana mi spia, poi diventa giovane e ora è contenta di vedermi? La
faccenda non mi piace, ma appena provo a dire qualcosa, lei (sempre la vecchia
ringiovanita) mi zittisce, mi fa sedere in macchina ed insieme torniamo in città.
Vuole offrirmi un caffè con brioche e io accetto volentieri. Intanto che
aspettiamo mi parla: “Gentile signore, so che lei è il proprietario di un piccolo
supermercato qui vicino.” Io mi stupisco: “Continui!” le dico.
“Bene - riprende – avremmo bisogno di una persona che faccia la parte del
commissario di polizia in un film, ma non troviamo nessuno. Mi sono inventata
la storia dell‟anziana signora perché, se le chiedevo di fare delle riprese senza
preavviso, avrebbe certamente detto di no.”
Mi stupisco ancora più di prima, ma lei continua ancora: “Il suo carattere, da
uomo curioso, è perfetto per fare la parte del commissario di polizia, come ha
dimostrato venendo nel nostro studio”. E con questo chiude, direi finalmente, il
suo discorso. Non riesco nemmeno a palare. Sono talmente sorpreso da
rispondere solo parzialmente ad altre sue (che noia!) sue domande.
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Dopo un buon caffè decido di accettare questa parte nel film. E pensate un po‟
che idea: abbiamo riprodotto questa storia cambiandola nel finale. E senza
volerlo vi ho già raccontato la storia.
Speriamo che almeno abbia successo!
Simone S.
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L’OMBRA DELL’ANIMA
U
n cigolio stridulo. Le porte del penitenziario si aprirono lentamente; ne
uscì un giovane dallo sguardo buio, perso, gli occhi spenti, il viso magro
e secco. Si caricò la valigia sulle spalle e s‟incamminò di buon passo,
sotto lo scherno delle guardie. Era una fredda mattina d‟ottobre, gli alberi dipinti
di giallo e di rosso si spogliavano lentamente, lasciando le loro foglie alla
brezza gelida del vento autunnale. Nick si avviò lungo il viale deserto
accompagnato da quella brezza, la quale si faceva di minuto in minuto sempre
più forte, fino a quando il ragazzo non riuscì più ad avanzare di un passo. Tentò
allora di voltarsi, ma non vi riuscì, era immobilizzato: attorno a lui si era creato
un vortice di vento che non gli permetteva né di avanzare né di arretrare. Nick
provava stupore ma anche paura: cosa gli sarebbe accaduto ?
Ma proprio mentre una marea di pensieri affollava la sua mente scorse una figura
in fondo al viale. Attese che si avvicinasse ancora alcuni metri e poi ne ebbe la
conferma: era una sagoma umana ! Il suo cuore sussultò di gioia , ma la felicità
durò solo pochi istanti, poiché man mano che la figura gli si avvicinava notava
sempre più alcune anomalie: come faceva ad avanzare nel vento impetuoso ? E
come mai aveva quel portamento così leggero ? quando la figura fu più vicina il
ragazzo vide che non si trattava d‟un uomo in carne ed ossa bensì di un‟ ombra.
Essa ripeté più volte il suo nome a gran voce, poi il vento cessò e con esso si
dileguò anche l‟ombra. Nick rimase scosso per qualche istante, ma presto decise
di raggiungere la sua vecchia casa.
I giorni trascorsero tranquillamente e il ragazzo già non pensava più allo strano
incontro quando, nel bel mezzo della notte, fu svegliato di soprassalto dal
vecchio orologio a pendolo del trisnonno che annunciava la mezzanotte. Nick ne
fu sorpreso poiché l‟orologio, ancora di epoca ottocentesca, non era funzionante
da numerosi anni, perciò accese la lampada e sgusciò fuori dalle coperte,
dopodiché raggiunse il salotto e qui trovò un‟inquietante sorpresa: il camino era
acceso e sulla poltrona era seduto un uomo. Costui apparve a Nick da subito
piuttosto particolare per il suo abbigliamento davvero fuori moda: aveva un
panciotto con una catenina dorata collegata ad un orologio (anch‟esso d‟oro) che
spuntava fuori dal taschino; inoltre portava un vistoso monocolo. L‟uomo lo
invitò ad entrare e a sorseggiare una tazza di tè in sua compagnia; Nick obbedì e
si accomodò sulla poltrona, quindi l‟uomo cominciò a narrargli dei suoi viaggi
d‟affari attorno al mondo, proprio come fossero due vecchi amici, ma ad un tratto
s‟interruppe bruscamente, il suo tono di voce divenne grave e disse: “Ed ora
parliamo di te, di cosa hai combinato: ti sembra di aver rimediato a ciò che hai
fatto? Il tuo vecchio trisnonno, buon‟anima, mi ha pregato di venire qui a metterti
in riga”. Nick si sentì improvvisamente a disagio e ancor più quando aggiunse:
“Credi che dalle cose che non ci piacciono si possa sempre fuggire ? Ebbene non
è così, a volte bisogna anche decidersi ad affrontarle. Ora presta attenzione a
quello che sto per dirti, se un giorno non vorrai divenire un‟ombra senza volto
che si diverte a vagare tormentando i carcerati, come quella che hai incontrato
pochi giorni fa – e proseguì – Ti sei già scordato della madre e del padre ai quali
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otto anni or sono hai ucciso il figlio?” Allora Nick intervenne: “Ho scontato otto
anni d‟inferno in quel carcere, ho già pagato il mio errore!”. Ma l‟uomo proseguì
con tono severo: “Credi veramente che otto anni valgano quanto un‟intera vita
umana? Forse tu non immagini il dolore di quel padre e quella madre; bene, se la
prigionia come dici ti ha reso davvero un uomo migliore è il momento di
dimostrarlo andando a visitare i genitori del ragazzo che hai ucciso e a chiedere
loro perdono”. Detto ciò l‟uomo si alzò dalla poltrona e raggiunse il pendolo;
prima di entrare avvertì nuovamente Nick: “Ricordati, se la tua anima rimarrà
nera, un giorno sarai destinato a vagare come un‟ombra”. E subito scomparve
negli antri dell‟orologio. Per il resto della notte Nick non riuscì a chiudere occhio
ripensando alle parole del fantasma. La sua anima era spaccata in due, che fare,
andare o non andare ? Il giorno seguente prese la giusta decisione, trasse
dall‟armadio l‟abito elegante e si recò dai genitori del ragazzo che aveva ucciso;
lì fu ben accolto e fu solo la prima di tante visite.
Il fantasma, finalmente tranquillo, si addormentò all‟interno del vecchio pendolo
del trisnonno, del quale era stato tanto amico, e non gli apparve più per numerosi
anni.
Andrea Filippo
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L’APPUNTAMENTO
U
na nebbia avvolge ogni cosa, quasi a proteggerla, a nasconderla. Esco di
casa presto, come sempre, con talmente tanta fretta da non riuscire
nemmeno a seguire i miei pensieri. Sono le 7.29. Sul marciapiede una
gran folla, come di consueto, parla, tace, ride o piange, mentre cammina
scomparendo. In lontananza dei lampeggianti blu, intermittenti, si vedono
sfrecciare, alternati a grida e sirene, come a richiamare l‟attenzione di tutti. Cerco
di muovermi tra la gente il più velocemente possibile, sono già le 7.32. Passo
accanto al luogo del presunto incidente, una ragazza giace a terra, stesa, accanto a
lei un volto impassibile e cupo la fissa.
Sono le 7.34.
Da lontano sembra proprio Lui.
La giovane pare sia stata investita da quel furgoncino bianco abbandonato poco
distante. Comunque non devo farmi distrarre da queste cose, succedono in ogni
momento, non posso certo permettermi di tardare.
Lui mi aspetta seduto sul tavolino in ferro battuto del bar appena sotto casa,
vestito di un colore inevitabilmente scuro. Gli chiedo dell‟incidente, biascica
parole confuse, non del tutto comprensibili. Sembra non essersi accorto di nulla,
pur essendoci passato accanto poco prima. Ci incamminiamo.
L‟orologio segna ancora le 7.34.
Almeno non tarderò all‟appuntamento. La strada da percorrere sembra infinita, e
infinita sembra pure quella già percorsa. Non riesco a scorgere l‟arrivo,
nemmeno la partenza. Tutto si fa sempre più sfocato, le figure sono solo macchie
di colore sparse disordinatamente su sfondi irreali. Ad un tratto sento le gambe
cedere, guardo ancora una volta l‟orologio.
7.34.
Non riesco più a tenere gli occhi aperti, anche se qualcosa continua a dirmi di
non chiuderli, di non lasciarmi andare, ma è più forte di me.
Buio.
Intravedo appena dei lampeggianti blu, riconosco il suono di alcune sirene, la
sagoma di un furgoncino bianco poco distante e degli occhi vuoti, impassibili,
fissi su di me.
-Ora del decesso: 7.34-.
Federica
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L'AVVENTURA IN MARE DI GIOVANNI E PINO
U
n caldo giorno d'estate Pino e Giovanni decisero di andare a pesca.
Prepararono tutto l'occorrente e si diressero verso la costa, dove
avrebbero potuto affittare una barca per alcuni giorni .
I due, eccitati, partirono immediatamente senza esitare; infatti si accorsero che
non c'era abbastanza carburante solo dopo essersi allontanati troppo dalla baia.
Affamati e stanchi mangiarono le poche provviste di cibo a bordo, ma non erano
abbastanza per loro due, che già iniziavano a disperarsi; per tutta la notte nessuno
chiuse occhio e già sapevano che se fossero rimasti ancora lì per molto,
sarebbero morti.
Pino, che era un bravo pescatore, riuscì a prendere qualche pesce, che dovettero
mangiare crudo data la mancanza del fuoco e trascorsero la notte dormendo uno
accanto all'altro scomodamente. Passarono alcuni giorni e non successe niente
fino a quando Giovanni vide un'altra barca sulla quale c'erano delle guardie
costiere; iniziarono ad urlare e urlare per richiamare la loro attenzione. I due
giovani furono davvero fortunati perché una guardia li scorse al largo e diede
loro una mano agganciandoli con una grossa catena di metallo. A fine giornata
arrivarono alla baia dove ringraziarono di cuore i loro salvatori; dopo di ciò
tornarono a casa e decisero che non sarebbero mai più andati a pescare senza
prendere le giuste precauzioni.
Constantina
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IL RICHIAMO
A
ntonio doveva andare in guerra, era la legge, e chi provava ad evitare la
leva subiva pesanti punizioni; si arruolò e il 12 settembre del 1943 partì
per la Francia.
La guerra era iniziata con scontri brevi e poco intensi, diversi da come li
descrivevano i reduci di quelle precedenti; però poi, dopo qualche anno, le
battaglie si fecero sempre più lunghe, intense, sanguinose e gli uomini iniziarono
ad essere più stanchi e si fecero via via sempre più deboli: molti tra i compagni di
Antonio perirono sul campo di battaglia, altri a causa di subdole e logoranti
malattie. Il nemico accresceva la sua forza di giorno in giorno ed Antonio e i suoi
compagni perdevano sempre più la speranza che un giorno sarebbero ritornati a
casa dai loro affetti.
Un giorno però, arrivò inaspettata l‟ora per Antonio di ritornare a casa; solo un
altro soldato potrebbe capire la gioia che provava mentre ripercorreva quelle
strade acciottolate che una volta gli parevano fino noiose. Osservava tutto con
occhi diversi: ogni casa, ogni incrocio; non c‟erano molte persone in strada, il
silenzio avvolgeva il suo piccolo paesino come un velo sottile e nell‟aria
riecheggiava solamente il rumore dei suoi pesanti scarponi, che ad ogni passo
rompevano con la loro pesantezza la grazia di quella tranquillità e camminò per
un po‟ fino a quando non raggiunse la sua piccola casa che si affacciava sul
ciglio della strada.
Entrò e alla vista di tutti quegli oggetti così familiari, ma allo stesso tempo così
diversi, si commosse; le lacrime rendevano sfocata la sua vista e dovette cercare
quasi a tentoni la figura di sua madre. La trovò che lavorava a maglia sulla
vecchia sedia di suo padre. Antonio la chiamò e questa si voltò verso di lui pochi
attimi per poi riprendere il suo lavoro. Antonio la chiamò ancora, questa volta un
po‟ più forte e lei si alzò. Con gli occhi umidi si diresse verso di lui, con le
braccia tese in avanti, pronte ad afferrare qualcosa, lui le andò più vicino e si
chinò verso di lei, pronto ad abbracciarla; ma come si sporse in avanti sentì
qualcosa allo stomaco: la vide, era lei, sua madre, gli era passata attraverso
portando con sé ciò che rimaneva dell‟anima del figlio.
Chiara T.
49
IVA
Q
uel mattino Iva si svegliò alle otto in punto, come faceva ormai da
immemorabile tempo, nell‟assurdo tentativo di ripetere momenti,
comportamenti e situazione come quelle di quel lontano mercoledì di fine
aprile, sperando di ritrovare la sua felicità. Quel mattino, Iva decise che forse non
era il caso di andare al lavoro, necessitava di ritrovare se stessa. Così, avvolta in
un pastrano invernale benché fosse estate inoltrata, Iva uscì di casa e
s‟incamminò con la testa china, gli occhi sbarrati e fissi sull‟asfalto grigio, come
il suo animo, a passi lunghi ma lenti. Entrò nell‟ampio viale con gli alberi dai
fiori bianchi, il medesimo che per correva con Luciano. Già, Luciano, quanto
amore aveva saputo darle, e quanta la triste consapevolezza di non essere l‟unica
donna della sua vita…
Iva camminava e camminava, passava lungo quei massicci tronchi
irregolari come i ricordi le passavano davanti agli occhi. Giunse a un bivio: da
una parte si procedeva verso una campagna incolta, dall‟altra, oltre un vecchio
ponte di sassi, si raggiungeva la città. E proprio in quell‟istante, Iva cambiò idea
e decise che molto probabilmente era il caso di andare a lavorare, nessuno la
manteneva. Procedette verso il ponte con aria sbigottita; si fermò in mezzo a esso
e guardò giù, nell‟acqua, che scorreva vorticante in mille rivoli tra erba e arbusti
secchi e profumati, ove la sua immagine di donna – ma poteva ancora definirsi
tale? – era riflessa.
Quel mattino Iva aveva deciso di andare a lavorare. Ma un colpo d‟aria
l‟attraversò, negli abiti, nei capelli neri, ed ella scendeva, scendeva, s‟appressava
all‟acqua, raggiungendo così i ricordi d‟una vita serena e oramai passata.
Simone Z.
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ANSIA
S
i sedette. Appoggiò violentemente la cartellina di stoffa sul pavimento;
sfilò la giacca, che appese all‟ attaccapanni in fianco a lei. Batté
rumorosamente con il tacco della scarpa sul pavimento, sfregò più volte le
mani sui jeans.
Si alzò in piedi, cominciò a camminare lungo il corridoio, avanti e indietro, senza
fermarsi un secondo, pur nella sua lentezza.
Portava le mani curate vicino alla bocca, al fine di mordersi le unghie. Si
guardava intorno, alla ricerca di qualcosa di nuovo da poter fissare. Entrare in
quella sala d‟attesa per la donna era diventata una cosa abituale, ma non quel
giorno; qualcosa di strano e incredibilmente minaccioso la aspettava.
Dopo alcuni minuti si sedette nuovamente sulla sedia di plastica, riprese in
braccio la cartellina, dalla quale estrasse alcuni fogli ed una penna rossa.
Cominciò a scrivere freneticamente tenendola stretta tra le mani; ogni tanto la
mordeva in alto.
Passò circa un‟ora: la donna fissava l‟ orologio appeso al muro, muovendo
costantemente la gamba destra, accavallata a quella sinistra.
Prese un paio di cuffie bianche dalla tasca della giacca e, dopo averle collegate
al telefono, si tranquillizzò ascoltando della musica. Si addormentò dopo poco
tempo, con il capo appoggiato al ruvido muro color panna.
Improvvisamente si aprì una porta, dalla quale si sporse un uomo con un camice
bianco, che con aria soddisfatta guardò dritto negli occhi la donna, che
continuava a dormire. Si avvicinò a lei e ad alta voce pronunciò il suo nome. Il
silenzio si interruppe.
Arianna
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