Nome file
030628SC1.pdf
data
28/06/2003
Contesto
SC
Relatori
GB Contri
G Genga
Liv. revisione
Trascrizione
STUDIUM CARTELLO 2002-2003
IDEA DI UNA UNIVERSITÀ
ENCICLOPEDIA DEL PENSIERO DI NATURA
28 GIUGNO 2003
GIORNATA CONCLUSIVA
TESTO INTEGRALE
GLAUCO GENGA
INTRODUZIONE
Benvenuti a questa mattinata di lavori che secondo tradizione facciamo coincidere con la giornata
conclusiva dei lavori dello Studium Cartello di quest’anno. In realtà ci occuperà soltanto nella mattinata.
Al termine dei lavori di questa mattina vi preannuncio fin da ora che seguirà un brindisi: lo Studium
Cartello rimane, in un certo senso, il “club dello champagne”, così l’aveva chiamato il Dr. Contri prima
ancora che lo fondassimo, quando aveva ancora solo esistenza metafisica, come a lui piaceva dire. E quindi
siete pregati, chi può, di rimanere ancora un istante.
A questo punto do la parola al Dr. Contri per l’apertura dei lavori e il resto con altri annunci verrà
data in seguito.
GIACOMO B. CONTRI
Il primo atto del Presidente è di pregare il Dr. Glauco Genga di portare al termine la sua esposizione
della volta scorsa.
Non è tematicamente casuale, non è un recupero, ma il tema dell’imputabilità è al cuore di tutto.
GLAUCO GENGA
IMPUTABILITÀ. PARADISO E ALDILÀ
Il fascicolo che ho allestito in vista di questa mattina e che non era pensato, non l’avevo progettato
quando ho preso la parola sabato scorso, contiene un paio di schemi che vi ho già mostrato, circa come
intendo suddividere il tema dell’imputabilità, secondo i due diritti e secondo i tre momenti di Studium
Cartello — Il Lavoro Enciclopedico, Scuola Pratica di Psicopatologia e Il Lavoro Psicoanalitico — alcune di
queste parti, le riconoscerete dai titoli, sono già state trattate e diciamo il lavoro è in progress, la costruzione
della trattazione completa è in progress.
Troverete una prima pagina con quattro citazioni a mo’ di esergo: due che possiamo inserire,
considerare nel capitolo dell’Antico Testamento, Atene e Gerusalemme, due nel Nuovo Testamento: una si
riferisce al diritto statuale, l’altra alla psicoanalisi.
Troverete invece soltanto un cenno iniziale a quello che ho esposto sabato scorso, perché qui altri
che hanno preso la parola come me sanno quanto sia più oneroso passare allo scritto rispetto al parlato. Non
era poi così facile allestire uno scritto, dopo che io stesso però ho lanciato l’idea sabato, per cui troverete
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soltanto l’inizio. Il resto verrà. Anzi, finisce proprio con un punto interrogativo, perché dico: allora in che
cosa si distinguono i due diritti? E non c’è il seguito. Il seguito sarà alla prossima puntata.
Troverete invece quelli che ho chiamato altri materiali, che sono degli appunti, proprio come se fosse
un diario che ho tenuto nel corso di quest’anno — notazioni circa notizie, film, altre cose dove mi sembrava
di scorgere il tema dell’imputabilità appunto — e ve li propongo anche questi come materiali del libro in
costruzione.
La seconda parte è invece questa breve antologia iconografica sulla storia del paradiso, che già vi
annunciavo sabato scorso. Ci arriviamo per gradi.
Torno un momento sul punto su cui ho interrotto la volta scorsa: cerco di illustrare quel passaggio
del concetto di imputabilità da penale a premiale che non si trova nei testi di filosofia del diritto, non si trova
nei testi degli autori che si occupano del diritto statuale, se non per dire — e giustamente a mio avviso — che
il diritto statuale non può, oltre certe piccole debite eccezioni, come alcune che ho indicato nella tabella alla
voce “Diritto statuale e imputabilità premiale”, ma altrimenti la posizione più generale è che il diritto statuale
non possa farsi carico dell’imputabilità premiale, cioè di riconoscere, di sanzionare premialmente le condotte
dei singoli individui che migliorano, o tese a migliorare la convivenza civile; e in ogni caso sempre condotte
che mentre vengono attuate seguono e si conformano a norme già stabilite dal diritto: non c’è produzione di
nuove norme.
Quindi, rimane la nozione di imputabilità soprattutto delineata come imputabilità penale nel diritto
statuale. L’articolo 85 del Codice Penale dice: «Nessuno può essere punito per un fatto previsto dalla legge
come reato se al momento in cui l’ha commesso non era imputabile» e qui si stabilisce che imputabile viene
a coincidere grosso modo con chi possiede la capacità di intendere e di volere.
Avevo accennato già ad alcune critiche; una di Padre Gemelli, credo del 1936, critica di questo modo
di intendere l’imputabilità che dice: «Sarebbe stato meglio ricavare la definizione di imputabilità non già dal
concetto di libertà, ma da quello dell’esame della condotta dell’individuo, nel senso che azione umana
imputabile è quell’azione che ci si presenta con tali caratteristiche grazie alle quali essa si può e si deve
attribuire ad un determinato uomo come autore e padrone di essa», cioè un criterio che definirei oggettivo: la
condotta è materiale, è registrabile, e l’individuo è autore e sovrano della sua condotta.
Continua Padre Gemelli: «Questo modo di concepire l’imputabilità avrebbe così permesso
nell’accertare praticamente se un atto è o no da imputarsi a un soggetto di limitarsi all’esame della condotta
dell’uomo»; lui aggiunge: «dell’uomo e delle ragioni che l’hanno determinata» e questo vuol dire già entrare
nel merito delle ragioni, e — e questo è l’obiettivo della sua critica — «senza incorrere nel groviglio della
valutazione diretta della libertà, se sia piena o diminuita, grazie alla quale ai periti psichiatri fu facile nel
passato trovare modo di eludere la legge».
L’altra critica — queste notizie sono tratte dall’Enciclopedia del diritto di Giuffré — afferma:
«Imputare significa attribuire e l’aggettivo corrispondente, “imputabile”, dice se i risultati di un’azione
possono addebitarsi all’autore dell’azione stessa, ma se allorché si parla di non imputabilità di un uomo,
letteralmente si dice che costui non può essere imputato di alcun fatto, ciò non corrisponde alla dottrina
giuridica attuale, perché anche a persone che siano immature o incapaci, si attribuiscono comunque alcuni
fatti commessi da loro».
Quindi, secondo già l’autore di questo articolo, entrambe le critiche, quelle di Padre Gemelli e questa
seconda, che credo sia sua, colgono nel segno.
Questi due spunti mostrano secondo me, in maniera sufficientemente persuasiva, che il rigore del
secondo diritto, del diritto statuale, si infrange contro gli scogli di quello che è un po’ un malinteso, cioè un
sapere e un non volere definire la persona stessa in termini di primo diritto: se non lo si fa a un certo punto
non si sa più di che cosa si parla.
Penso che Kelsen rispetto ad altri autori, ad altri filosofi del diritto faccia un po’ eccezione: c’è
qualcosa di unico in lui, proprio per la sua concezione normativistica del diritto.
Sostenendo, come fa Kelsen, che ciò che qualifica il diritto è la nozione stessa di norma, come nesso
fra illecito e sanzione, è tutt’altra cosa dal qualificare il diritto come imperativo. Sono questi due
intendimenti opposti sia quanto al diritto e sia quanto a cosa significa il verbo “dovere”, Sollen in tedesco.
Già nell’articolo del Dr. Contri che vi ho distribuito la volta scorsa è detto che Sollen, che i traduttori
di Kelsen in italiano hanno reso con “dover essere”, a suo giudizio — critica che avanza garbatamente,
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perché dice: «Io stesso sono traduttore e quindi so quanto sia difficile» — è e dovrebbe rimanere tradotto
soltanto con il verbo modale “dovere” e non “dover essere”.
In ogni caso, nell’esperienza individuale è proprio questo che fa la differenza fra obbligazione e
Super-io, fra obbligazione e imperativo assoluto. Fra obbedienza al rapporto oppure obbedienza astratta a
una teoria, patologica dunque.
Quindi, mi sembra importantissimo che Kelsen consideri il diritto tutto incentrato sulla norma, e che
dica che norma è concetto diverso da quello di imperativo, che lascia nella parte di individuo che comunque
è assoggettato a quel diritto, una sua iniziativa di uniformarsi, di seguire la norma o di contravvenirla. Nel
momento in cui contravviene alla norma si apre un ulteriore quesito: contravviene a una norma del diritto o
sta seguendo una sua propria norma o altra norma ancora?
Diciamo che a me sembrano problemi molto interessanti e mentre gli autori che si oppongono a
questa concezione normativistica del diritto criticano questa concezione dicendo che mettendo così le cose si
aprono dei problemi appunto nei confronti dei quali non si sanno trovare soluzioni. Però a mio avviso il fatto
che si aprono dei problemi nei confronti dei quali non si sa dare soluzione, non è un buon motivo per mettere
da parte una ricerca o una dottrina.
Il pensiero di Kelsen, a mio avviso, con la sua Dottrina pura del diritto, permette l’affacciarsi del
pensiero a concepire un altro diritto, appunto quello che abbiamo chiamato primo diritto o pensiero di natura.
È il punto in cui Kelsen dice: «Vi sono due tipi di interpretazione chiaramente distinguibili: l’interpretazione
del diritto da parte dell’organo che deve applicarlo» — magistratura, etc. — «e l’interpretazione del diritto
che ha luogo non da parte di un organi giuridico ma da parte di una persona privata, e particolarmente da
parte della scienza del diritto». Anche qui è molto curioso che accosti la persona privata alla scienza del
diritto.
«Ciò è della massima importanza per la costruzione di un concetto di imputabilità più completo» — come
quello che cercavo di tracciare nello schema — in cui allora si possa prendere e considerare anche il caso
dell’imputabilità premiale di cui vive il pensiero di natura.
La fonte di quello che chiamiamo primo diritto è e rimane l’individuo, il singolo, e in esso il soggetto
non procede soltanto accordando la propria condotta su norme esistenti e già poste, ma ponendo egli stesso
delle norme: stabilisce leggi e norme del proprio agire. In che cosa questo non si contrappone al diritto
statuale?
Qui richiamo quella quadripartizione che ora non ripercorro per intero per non essere troppo lungo e
pesante. Mi pare che nelle pagine dei nostri testi il punto in cui è illustrato in modo più dettagliato, più
preciso, sia all’interno del libro La questione laica, credo nel primo articolo di Giacomo B. Contri e cioè
quando descrive la quadripartizione dell’agire umano secondo il diritto statuale: vale a dire che il diritto può
o prescrivere-proibire l’azione, oppure può permettere un certo comportamento, oppure può permettere
negativamente, oppure può permettere positivamente, autorizzare.
Adesso non la ripercorro se non così, per titoli.
Diciamo che il primo diritto o vita del pensiero di natura si colloca e trova posto all’interno
dell’ambito di ciò che per lo stato è permesso negativamente, cioè di ciò che non essendo previsto da
specifiche norme che debba essere fatto, né vietato, né occorra una particolare autorizzazione per mettere in
essere quelle condotte, per ciò stesso… il fatto che noi fra poco berremo dello champagne si inserisce, è un
esempio in ciò che è permesso negativamente; nel senso che non c’è nulla nel diritto che prescriva che si
debba farlo, nulla che lo vieti, nulla che lo autorizzi o permetta con una norma.
C’è tanta maggiore salute psichica quanto più nella nostra giornata le nostre azioni corrispondono a
questo tipo di condotta: un qualcosa che trova posto nell’ambito del permesso negativo.
Badate che ci sono certe forme di psicopatologia, segnatamente la querulomania, che proprio a ciò si
oppongono e che faranno di tutto perché il proprio agire sia più o meno scientemente contemplato da uno
degli altri casi: ciò che è proibito, oppure ciò che è imposto dal diritto, oppure ciò che è soltanto autorizzato.
Il caso del sordomutismo, cui accennavo la volta scorsa con il caso che Raffaella Colombo ci ha
raccontato un po’ di anni fa, è un caso interessante a mio avviso, perché che il diritto penale si sia mosso a
chiedersi se un individuo sordomuto sia o meno per questo stesso fatto da considerare necessariamente e
sempre psicopatologia, se la condizione del sordomutismo sia sempre da considerare psicopatologia li ha
portati a pensare che non sempre è psicopatologica, ma va accertato di volta in volta. Si sta parlando di un
sordomuto che sia stato indiziato di reato. Se il sordomuto commette un reato o altro, allora si pone il
problema per il diritto del suo essere imputabile in ciò che ha fatto, dell’illecito che ha commesso.
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Qual è il nesso di questo con la mia ricerca: a me sembra che nel momento in cui si è detto che non
perché sordomuto, cioè con una forte deprivazione sensoriale e nella comunicazione, per questo semplice
fatto dobbiamo considerarlo sempre non imputabile, ma dobbiamo aprire un’indagine, un’inchiesta per
ciascun sordomuto indiziato di reato.
Ora leggo per esteso quello che Raffaella Colombo ci raccontò in quell’anno, quando diceva di aver
trattato a Zurigo un bimbo di 4 anni. È un’analoga inchiesta questa, dove però il sordomuto in questione non
è affatto uno che sia stato indiziato di reato, ma è semplicemente uno, in quel caso un bimbo, di cui si tratta
per chi voglia, per chi ci si metta, senza chiedere autorizzazioni, senza che gli sia imposto, senza che gli sia
vietato, di andare ad accertarne l’imputabilità premiale; ossia, se sia un individuo capace e di provare
soddisfazione e di darne a chi si rapporta con lui.
Rileggo la pagina. Lei stessa era in formazione a Zurigo dove si occupava di bambini minori di 6
anni con patologie molto gravi. Questo bambino, che ella ricordava benissimo perché la faceva star male,
era un bambino nato prematuro, al settimo mese di gravidanza, e quindi posto subito in
incubatrice e ancor prima della nascita già destinato all’adozione. Ma nato prematuro, con
difficoltà in quanto non era riuscito a nutrirsi da solo, veniva nutrito per sonda e dunque non era
stato allattato. Dall’incubatrice, nutrito per sonda, era passato al reparto ospedaliero, poi all’asilo
nido, poi in un istituto
in cui in uno di questi laboratori Raffaella Colombo lavorava.
Di lui nella cartella clinica si diceva che aveva un ritardo psicomotorio grave; appunto che era
sordo, cieco, ipotonico, autolesionista
che è già un giudizio diverso rispetto al dire che era sordo, cieco
e incapace di mangiare. Nel cantone svizzero in cui si trovava il termine “autismo” per pudore non
veniva usato, perché per dire che un bambino era autistico occorrevano molti tratti, almeno sette.
Qui c’era un sospetto di cecità e sordità; poteva essere un handicappato, ma non era stata spesa
la parola “autistico”.
Raffaella Colombo doveva occuparsene
un’ora al giorno, tutti i giorni della settimana. Questo bambino passava il tempo a picchiarsi con la
mano, a battere la testa, a strizzarsi gli occhi con le dita e a infilarsi le dita nelle orecchie fino a
farle sanguinare. Era indifferente a tutto; non sorrideva e soprattutto non piangeva: emetteva
solo qualche suono gutturale.
Raffaella Colombo aveva notato che l’unica sua attività — attività: qui comincia appunto quella che
chiamavo l’indagine per cercarne l’imputabilità premiale. Aveva notato che la sua unica attività era quella di
battersi, di colpirsi, e ha pensato di proporgli dall’esterno, visto che non sentiva la voce, non voleva essere
toccato, qualche cosa di analogo. Gli ha messo cioè la testa su un tamburo e ha continuato a spingergli il
braccio verso l’esterno in modo che battesse sul tamburo accanto alla testa e non sulla testa. Questa è stata,
per quel bambino, la possibilità di una prima sorpresa.
Per la prima volta in assoluto questo bambino ha aperto gli occhi, si è fermato sentendo,
ascoltando e tentando poi di ripetere, ma questo solo dopo parecchio tempo.
Da lì a qualche mese è stato riconsegnato alle educatrici; dopo un po’ ha smesso di essere nutrito
con la sonda e ha iniziato a mangiare. E si è scoperto che sentiva e non era cieco. Si è saputo dopo
qualche anno che aveva iniziato a camminare e che era un bambino, tutto sommato, contento;
con un ritardo che per certi motivi gli era rimasto, ma in realtà non era né sordo, né cieco, né…
Questo è un caso di quello che abbiamo chiamato psicopatologia precoce: un avvio alla
psicopatologia precoce, perché il corpo di quel soggetto, fin dai suoi primi atti, era stato pensato come non
imputabile. La vita dei sensi, i bisogni, l’amore, il rapporto, esistono solo come derivati non della natura, ma
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da un investimento e da un atto imputativo operato da qualcun altro su un soggetto, fino dai suoi primi atti e
giorni di vita extrauterina.
Nel far questo Raffaella Colombo si è mossa non perché quest’invenzione del tamburo fosse già
contemplata nei testi che aveva studiato, o perché lei fosse pagata per fare questo, o perché abbia chiesto a
qualcuno cosa doveva fare. Ha inventato qualcosa che in quel caso ha funzionato per il meglio.
Questo era per cercare di spostare o di ricentrare il concetto di imputabilità tenendo presente anche
l’imputabilità premiale.
Qualche tempo fa mi sono imbattuto in questo libro, Storia del Paradiso, i cui autori, Colleen
McDannell e Bernhard Lang sono due studiosi di storia delle religioni, uno statunitense e un tedesco. Il libro
raccoglie molta documentazione sui modi in cui le culture, specialmente la cultura cristiana, non solo
cattolica, ma anche le varie religioni riformate, hanno inteso la vita eterna, la vita dopo la morte, la vita allo
stato finale. E gli autori, anziché lasciarsi scandalizzare dal disordine che hanno trovato, in quanto si predica
tutto e il contrario di tutto, quanto al Paradiso, hanno cercato un qualche ordine e significato, che io non
ripercorrerò, ma dico soltanto che l’approccio di questi due mi ha persuaso perché le linee portanti di questa
confusione su come rappresentarsi la vita eterna, possono essere rintracciate, ricercate proprio nel paragone
con il pensiero di natura. Ma questo ovviamente non è contenuto nel libro: è un lavoro che va fatto.
Il punto è se il Paradiso sia stato immaginato o meno, rappresentato, teorizzato, proposto come luogo
di sanzione premiale o no, per il dato elementare del catechismo cattolico dovrebbe essere di sì: ricompensa
per i giusti, comunità dei santi, ingresso nel regno di Dio, al cospetto di Dio; insomma, premio per gli eletti.
Ciò nonostante, appunto, siccome si occupa soprattutto, pur riferendo delle dottrine, di immagini figurative
in cui è stato rappresentato il Paradiso, trovano una certa povertà di immaginazione. È più facile pensare a
come potrebbe funzionare l’inferno e le torture che verranno lì subite che neanche provare a immaginare il
Paradiso.
Questo mi ha fatto pensare al mio esame di terza media inferiore, perché io non ero affatto bravo nel
disegno, anzi era il mio punto debole, e il tema del disegno era: il luogo dove vorreste passare le vacanze. Io
che ero abituato ad andare in montagna con i miei, ho provato a disegnare un albergo in montagna. È venuto
un obbrobrio, cupo e angoscioso, e l’insegnante di lettere che passava fra i banchi, sapendomi in difficoltà,
mi ha detto: «Vedo che…» e io: «Guardi, se c’è un posto dove non vorrei passare le vacanze, è questo». Ma
lì mi mancava la competenza tecnica, non sapevo disegnare. Qualcosa del genere però, guardando le
raffigurazioni del Paradiso, viene in mente: io in un posto come quello non solo non vorrei passare l’eternità,
ma neanche le vacanze.
Il punto di partenza di questi autori:
Abbiamo voluto indagare che cosa fa eternamente questa comunità, come si comportano i santi,
come interagiscono l’uno con l’altro, e in quale rapporto Dio sta con loro. Ponendo queste
domande siamo entrati in un mondo largamente ignoto di godimenti, progressi, matrimoni,
società celeste;
Da chi dice che Dio basta da solo a altri che hanno immaginato invece che i santi si incontrano, si
ammaestrano, lavorano, giocano insieme. Il Paradiso cioè ha una sua struttura sociale. Alcuni presentano i
santi nudi, altri che sfoggiano abiti lussuosi. In alcune rappresentazioni stanno immoti, in altre suonano il
pianoforte, assistono a cerimonie nunziali. Gli autori terminano, come già introducevo la volta scorsa,
dicendo: noi non siamo dei visionari, dei credenti; la vita futura ha per noi un interesse soltanto in quanto
spiega il mistero di questa vita: «i diversi modi di immaginare il paradiso ci dicono come gli uomini
intendono se stessi, le loro famiglie, la loro società, il loro Dio. Ci fanno penetrare nelle dimensioni private e
pubbliche della società occidentale».
Vorrei leggere, rammentano a tutti le poche righe in cui nel Pensiero di natura si parla del Paradiso.
Ci sono solo due punti in cui si parla del paradiso; leggerò soltanto il primo dei due, in cui Giacomo B.
Contri si esprime così (pag. 213):
Forse è soltanto ingenuità quella paradisologia, per chiamarla così, che rappresenta i beati
facendo occupare loro i punti di un cerchio o una sfera che “vede” Dio come occupante del
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centro. Preoccupante centrismo cristiano, non perché si debba passare all’estremismo, la solita
malattia infantile, ma abbiamo già detto il pericolo dell’ingenuità.
Questa sfera non è altro che la proiezione in cielo della sfera della sessualità, del non rapporto,
del non accadere. Invidia celeste, odio eterno. Penso che Dio mi scuserà per l’impertinenza
pertinente appena screziata di antropomorfismo. Se osassi immedesimarsi con Lui, intendo con il
suo pensiero, peraltro secondo l’esortazione dell’apostolo, penserei che tutta quella gente che
sta lì a fissarmi per l’eternità mi annoia, che non mi va e che non va. Che non voglio voyeuristi
intorno né essere fissato nella posizione di feticcio. Non li voglio fissati, né che mi fissino. Libero
io, liberi loro; che si muovano, liberamente appunto, in una Città o polis la politica della quale non
si adatta affatto al modello a raggi della ruota della bicicletta.
Mi sembrava interessante richiamare questo brano.
Adesso soltanto alcune di queste immagini. Non le troverete proprio tutte nel fascicolo che
distribuisco, ma quasi tutte. Non pretendo di essere esauriente o che questo ripercorra per intero la storia di
questi venti secoli. Sono giusto per mostrare un paio di punti, come sono resi o non resi in tutte queste
diverse rappresentazioni. Questa per esempio, la prima, è riportata nel libro in quanto ritrovata in una
catacomba del IV sec. d.C. ma attribuita però ad un’arte pagana, quindi un uso di catacombe pagane e non
cristiane. Rappresenta una nobildonna romana che entra appunto nei Campi Elisi, introdotta da un angelo, e
poi la stessa nobildonna che si chiama Vibia, la troviamo al centro di una tavolata. Questo è un modo di
rappresentare la vita eterna, pagano, anche se in epoca cristiana, in cui nell’aldilà questa viene accolta, è
vestita, è al tavolo come sarà stata al tavolo secondo il suo rango nella vita aldiqua. È questo che viene da
pensare, non è che io ho fatto degli studi. Sembra proprio così: di là mangeremo insieme.
Quest’altra è una rappresentazione dei Campi Elisi, qui c’è una citazione dall’Eneide. Un
manoscritto del IV secolo: «la miniatura illustra un passo dell’Eneide. C’è chi esercita il corpo nelle palestre
dei prati, contendono in gare, lottano sopra la sabbia rossastra, e c’è chi col piede le danze ritma e canta
canzoni», cioè si farebbe ancora nell’aldilà ciò che si ha piacere di fare nell’aldiqua.
C’è un nutrito capitolo su Gesù Cristo, non ci sono immagini a questo riguardo. Dico soltanto che ciò
che più colpisce questi autori della dottrina dell’insegnamento di Gesù Cristo circa l’aldilà riguarda il tema o
problema, l’esistenza o meno del matrimonio nell’aldilà. Non so se i farisei o Sadducei, quando lo
interrogano dicendo: ma se la tale è stata sposa del tale, che poi è morto e in vita come era costume o legge
per gli ebrei deve andare sposa al fratello, sono sette fratelli e tutti muoiono, questa è sette volte vedova,
nell’aldilà di chi sarà la sposa legittima? E Gesù risponde che nell’aldilà non ci sarà né marito, né moglie,
etc. Allora, punta molto su questo punto questa raccolta. Però rappresentando Gesù Cristo come un capo
politico, carismatico, che insomma non avrebbe tempo di mettere su famiglia, perché si tratta di fare la
rivoluzione e dunque… È chiaro che ne deriva una certa condotta astinente o comunque niente affatto
incentrata intorno alla famiglia. Ma quanto è senza immagini non sto a neanche a riassumerlo.
A un certo punto si è incominciato a rappresentare l’anima che incontra nell’aldilà Gesù Cristo come
suo sposo — questo si vede così così, ma le due scritte sopra sono appunto «sponsus» e «sponsa» — e siamo
nel XII secolo. L’anima vestita, ancora una volta. Dico questo perché da un certo punto in avanti l’anima
comincia ad essere rappresentata sempre di più come nuda di fronte a Dio, nuda in paradiso.
Ma prima di arrivare a questo troviamo un mosaico in San Marco a Venezia: questo non rappresenta
l’aldilà, ma la cacciata di Adamo ed Eva dal paradiso terrestre per opera di Dio ma Dio non solo è vestito,
ma riveste Adamo ed Eva con abiti di pelli e anche gli strumenti del lavoro mentre li condanna a lavorare: la
donna avrà un fuso, l’uomo una zappa per zappare. Ma ho pensato che se Dio li veste mentre li caccia, certo
vuol dire che in quel momento erano nudi, però vuole anche dire che questa nudità — e Giacomo B. Contri
già qualche anno fa ci diceva che Adamo ed Eva prima del peccato originale vestivano l’abito da sera —
significa che questa nudità non era affatto originaria. Sono entrati nella nudità a un certo punto, e addirittura
il Padreterno, mentre li caccia e li sanziona li riveste.
Questo Adamo ed Eva cacciati dal Paradiso terrestre ma vestiti si trova anche nel Beato Angelico. E
fanno da corrispondenza a quello che avviene nel quadro e cioè l’Annunciazione. Sono vestiti.
Abbiamo ora o forse conviene mostrarlo adesso: siamo nel XV secolo e queste sono le anime che
salgono nella torre che rappresenterebbe la Gerusalemme celeste e nel libro dice che vengono pesate da un
angelo. Io qualcosa che assomiglia a una bilancia non sono stato capace di scorgerlo. Qui vengono pesate
nude. Ora le anime pesate nude è un particolare un po’ curioso, perché capisco se si volessero pesare dei
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vestiti: allora a seconda di quanto uno in vita si sia procacciato vesti più o meno lussuose e pesanti,
potrebbe… È un’allusione al concetto di merito. Ma pesare le anime nude… Più che il tessuto muscolare e
quello adiposo, non si capisce in che cosa… Ci stacchiamo parecchio dall’idea di ricompensa per un merito,
secondo me.
L’altro particolare interessante di questo quadro, e che si ritrova in molti quadri, è la distinzione fra
la Gerusalemme celeste e una sorta di Paradiso celeste inteso come giardino, vale a dire che non tutti, ma c’è
chi pensa che nell’aldilà cristiano cattolico tutti occuperemo il medesimo luogo o la medesima Città, vita
trinitaria di Dio e vita della comunità dei santi, quindi ormai purificati e perfetti, stessa Città, stesso luogo.
Ma c’è anche una corrente opposta che dice che la Trinità se ne starà nella Gerusalemme celeste, una Città o
una torre e gli altri vanno nel giardino: giardino ugualmente bello…
Però, due luoghi separati e distinti; noi dovremmo vedere quello che accade nella vita Trinitaria e godere di
questa visione. Ma non nello stesso luogo.
Anche qui le anime sono nude e sedute — altro punto: accanto a quello della nudità mi interessava
quello del moto o dell’immobilità — un’immagine della vita eterna presa dal catechismo protestante di
Melantone, stampata a Wittenberg nel 1550, credo che sia l’immagine che illustra il credo riformato proprio
dove dice: «Credo nella vita eterna». Questa vita eterna viene fatta coincidere in realtà con il giudizio e ha
qualche prossimità, qualche somiglianza con il Michelangelo della Cappella Sistina: Cristo adirato e
minaccioso e sotto… Se questa è la vita eterna, rimane fotografato per sempre l’istante in cui c’è soltanto da
temere: non c’è certo la possibilità di essere amici di uno così, di mangiare alla stessa mensa, etc. No. Qui
c’è da provar paura.
Ho saltato però una cosa che poteva essere interessante, e cioè Dante Alighieri, di cui ci ha parlato
Vera. Il paradiso di Dante Alighieri è molto organizzato, diciamo così. Questo è una delle illustrazioni fatte
da Doré. Ma c’è fiore e fiore di schematizzazione che fa vedere di cosa si tratta. Con tutta questa
organizzazione di cui ci ha parlato Vera, voglio dire una cosa che fa ridere, ricorderete quando ci ha
raccontato di Beatrice che lo accompagna fino a un certo punto, però poi viene messa a sedere in un banco.
Lei la maestrina, viene relegata in un banco.
In una incisione a Padova del 1300 è raffigurata Beatrice che fulmina Dante con il suo sguardo e lo
stende.
Ora, 1300 vuol dire cento anni dopo. Chi ha fatto questo aveva capito questa medesima cosa,
secondo me. Beatrice, trattata così da Dante, come immota, etc., si vendica e lo fulmina. Non è male. Questo
a scuola non ce l’hanno insegnato.
Dopo di che, per brevità, salto sui secoli — c’erano anche delle tavole di Swedenborg che non ho
riprodotto — per dire qualche cosa di William Blacke, L’ultimo giudizio. William Blacke è un pittore e
incisore londinese dei primi dell’ottocento, che aveva letto e studiato Swedenborg, e aveva illustrato i libri di
Swedenborg, si era anche iscritto a una setta religiosa, non so se della Nuova Gerusalemme, comunque
visionario anche lui, e all’interno di questa visione del giudizio universale prende posto a poco a poco la
famiglia. Proprio la famiglia di cui — a sentire questi autori — Gesù Cristo non si è troppo occupato fino a
passare la Pasqua con i discepoli, cosa inusuale per la cultura ebraica, fino alla risposta: «Mio padre e mia
madre sono coloro…». Non è il sangue quindi che fa il legame, ma il medesimo pensiero, seguire
nell’obbedienza al Padre. Invece qui prende sempre più piede la famiglia: la preoccupazione sarebbe di
rappresentare l’aldilà come il luogo in cui — queste sono tutte coppie — potremo riabbracciare i nostri cari.
Ma certo, questo poteva anche essere in una certa concezione della famiglia celeste, ma qui sembra che ci
interessi soltanto abbracciare i nostri cari. Questo è una specie di ballo della mattonella, praticamente. Anche
i figli si abbracciano, gli angeli… tutto teso verso l’altro… tutto bene, insomma.
C’è un certo monaco che ho saltato, del Quattrocento, un certo Maffei, che dice che potremo baciarci
nell’aldilà anche a distanza, un po’ come baci virtuali. Ma comunque…
Finisco con l’ultima cosa che non è spiritosa.
Questa è la rappresentazione di una famiglia nell’altro mondo, del 1949, credo si trovi in una tomba
di famiglia negli USA. Qui è la Famiglia. Non c’è più Città: è soltanto l’esaltazione, la proiezione… Hanno
ragione questi autori quando dicono che con queste raffigurazioni in realtà ci diciamo come ci trattiamo fra
di noi. Questa famiglia, avranno o non avranno amici di famiglia? Gli faremo una cortesia ad andarli a
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trovare o gli faremo un dispetto? Saranno degli incartapecoriti che lavano l’auto il sabato mattina non
sapendo cosa fare…?
Viene da pensare anche di avanzare una riserva quanto al culto reso dalla Chiesa Cattolica alla Sacra
Famiglia, che è un culto tutto sommato recente, perché lo si deve alla Rerum novarum, 1891-93, che a me
sembra riflettere la medesima psicologia della famiglia illustrata qui, in questa immagine, nonché una specie
di doppio dell’altra società, la Trinità. Infatti ci sono rappresentazioni che pongono la vita dei santi da una
parte e la vita trinitaria dall’altra.
Allora cosa sono? Due legami? Due diritti? Ci si potrebbe inoltrare nell’ipotesi che anche il culto
reso alla Sacra Famiglia — Gesù, Giuseppe e Maria — derivi in realtà da questo sdoppiamento, da questi
due posti riservati alla divinità e agli uomini, pur beati. Un brutto affare, a me sembra, quando le due società
non si fondono in una.
In una e-mail che mi ha mandato Annalaura Sara mi ricordava non a questo riguardo ma a proposito
di un certo passo freudiano della Psicologia delle masse, Freud cita quell’indovinello scherzoso: Cristoforo
portava Cristo, Cristo portava il mondo intero. Ma allora dimmi, dove poggiò Cristoforo il piede? Se al posto
di Cristoforo mettiamo la famiglia, possiamo parlare di Cristo, possiamo parlare del bambino, ma qui è se è
nato prima l’uovo o la gallina. La famiglia porta Cristo, Cristo porta il mondo intero, ma allora questa
famiglia su che cosa si regge? Se diamo lo stesso grado di sostanza psichica alla famiglia, non si spiega come
uno possa mettere su famiglia, se deve mantenere i propri investimenti solo all’interno della famiglia.
Vi ringrazio, chiudo e do la parola al Dr. Contri.
GIACOMO B. CONTRI
L’ORDINE GIURIDICO DEL LINGUAGGIO: FREUD E NOI
Prima di un’informazione, osservo — osservo io; ognuno poi avrà o non avrà la stessa inclinazione
osservativa — che tutti questi paradisi a me danno e hanno sempre dato un forte senso di pornografia, nel
significato anche più tecnico di questa parola, che si potrebbe riassumere nell’espressione: «Guardare ma
non toccare».
Un dantista che ho conosciuto e letto parecchi anni fa interpretava la dantesca “candida rosa” come
la vulva, come l’organo femminile. E se andate a vedere, o se avete visto, sul libretto distribuito da Il sole 24 ore, la Pala di Brera, Vergine con Bambino e santi di Piero della Francesca, vedrete che in alto c’è la
conchiglia, la famosa shell, la valva. Cambiate solo una vocale e ci siete.
Sul tavolo in fondo ci sono più cose. Comunque vi informo che Ballerini ha terminato in
collaborazione con Filippo Guidon, la traduzione parziale in inglese del Pensiero di natura. Comparirà da un
momento all’altro sul sito.
Sul tavolo troverete dei fascicoli, approntati da Glauco Genga, come pure la riedizione del piccolo
libro, ma libro, che è anche il primo articolo della nostra enciclopedia, L’angoscia, di Maria Delia Contri, in
riedizione, riveduta e corretta, nonché molto più bella.
Il dulcis in fundo è ciò con cui concludiamo l’anno in vista di aprire il nuovo, che è il libro L’ordine
giuridico del linguaggio. Per il momento, facciamo un breve intervallo, affinché abbiate il tempo di
acquistarlo.
Posso dare un titolo a quello che dirò. Posso intitolarlo Siamo qui.
In quello che dirò spero solo di riuscire a dare un’idea di conclusione e nuovo inizio. Sarebbe buona
cosa che la parola conclusione suonasse sempre e comunque “nuovo inizio”. È il significato del titolo
dell’opera di Freud sempre citata Analisi terminabile e analisi interminabile dove il terminare è la
conclusione per il nuovo inizio. Interminabile non significa: «Uffa! Non finisce mai!». Ancora, ancora e
ancora.
L’ Ordine giuridico del linguaggio lo propongo come l’interminabile, per avere concluso. Lo
propongo addirittura come criterio di fine analisi, il passaggio all’ordine giuridico del linguaggio. In me è la
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novità di quest’anno, dopo la scoperta delle teorie presupposte. E l’inferno delle teorie presupposte, del vero
imputato della nostra imputazione sfavorevole.
Il nuovo inizio rispetto a che cosa?
Uso un’espressione corrente, che uso perché la sento ricorrere, usare molto, da persone che vedo e
ascolto. Adesso che ci penso è un’espressione che ho usato anch’io anni fa, un’espressione corrente: «I
giochi sono fatti».
Già pensiero di natura, principio di piacere, inconscio, pulsione, ora ordine giuridico del linguaggio,
che poi vuol dire la lingua che finalmente impariamo a parlare. Ma forse non serve neanche per cogliere
questo essere avanti nell’analisi; ma nell’analisi diventa vistoso: non riusciamo a parlare italiano. Le nostre
frasi si spezzano, non sappiamo concludere il periodo, non perché abbiamo studiato male a scuola. In specie
le conversazioni amorose sono un prodigio di sgrammaticatura. Se ci facessero gli esami per quello che si
dicono gli innamorati, guardate che sono tutti bocciati. Esame di italiano, eh?, esame di grammatica. Fino a
quella tipica soluzione dell’innamoramento scatenato, psicosi — lo diceva già Freud questo —, che finisce
con il “ci-ci-ci” alla Giulietta e Romeo, ossia alla maniacalità linguistica — senza rendersene conto, eh? — o
al mutismo amoroso, al mutismo del guardarsi negli occhi e basta.
Il paradiso naturalmente, quel paradiso.
È la catastrofe dell’amore, che chiamiamo innamoramento, che poi si ritrova come odio; ma è inutile
che io ridica questo, che è anche ripreso nel libro. Torniamo alla grande terna freudiana da cui è nata la
psicoanalisi: la critica dell’innamoramento, dell’ipnosi, della psicologia delle masse. È una terna. È il
disordine, non giuridico, del linguaggio.
È il disordine che è costituito da quel coacervo disordinato che è l’insieme ammucchiato, che è
l’ammucchiata delle teorie presupposte. Leggerete l’introduzione a questo riguardo.
Si tratta di passaggio dai giochi fatti, intendasi “mal fatti”, specialmente ma non solo la
psicopatologia, ossia questi nostri disastri della vita quotidiana, alla riapertura dei giochi, con da parte mia
anche il ripudio della parola “giocare”: niente teoria dei giochi.
Secondo me John Nash era matto perché ha cercato di scrivere l’amore in termini di strategie, di
teoria dei giochi. In qualche punto del libro risulta la frase: «L’amore fallito è una strategia riuscita». Spero
che vi falliscano le strategie.
Ma sto solo dando nomi un po’ insoliti a ciò che ricorreva già, con grande chiarezza peraltro, in
Freud: i giochi sono cominciati bene, niente affatto chiusi, con l’Edipo o complesso edipico, che noi
incontriamo pochissimo, perché lo incontriamo nel suo disastro, non nel suo essere la via maestra, il primo
ordine giuridico del linguaggio. E tanto più universale in quanto è assolutamente non riconducibile alla
famiglia. Freud esplicita il disastro della patologia: inizia con Vernichtung, con l’annullamento, la
nullificazione del complesso edipico; usa anche la parola Zerstärung, che è proprio la distruzione dovuta alle
bombe che cadono e distruggono tutto.
Avere qualificato il pensiero di natura come pensiero del Padre designa la ricostituzione, la riapertura
dei diciamoli pure “giochi”, sotto la stessa insegna, ma dopo, a termini completamente rinnovati, dell’Edipo.
Una volta avevo suggerito una delle tante espressioni linguistiche che si possono trovare: «Mia
madre mi ha fatto dispiacere mio padre». Potrebbe benissimo essere accaduto a pari merito con mio padre.
Nella catastrofe non esiste la distinzione dei sessi. L’errore è asessuato. Ma identico chiamarlo l’amore
presupposto. L’amore presupposto è il nemico dell’amore, il nemico dell’Edipo. L’amore implica sempre i
sessi. Dipende da come li implica. La cosa interessante è che non è via pornografia. Adamo ed Eva la sera
vestivano l’abito da sera.
Ho appena visto Eva su una rivista: era Naomi Campbell. Io adoro Naomi Campbell, non solo
l’unico. Sfilata, di sera, con un perfetto abito da sera: il bikini più vertiginoso che abbia mai visto in tutta la
mia vita, ma è una figura che non dà la minima idea pornografica. Eppure vi assicuro, il top, due striscioline
color carne che a malapena coprivano i capezzoli, e un vero e proprio tanga che… non ho mai visto dei
francobolli così piccoli, insomma. Guardate che l’idea è quella di abito da sera. Non c’era la minima idea di
pornografia.
Beh, bisogna anche essere brave per sapere dare un’immagine di questa specie. Da un’immagine di
questa specie si capisce che cosa uno ha nella testa, il suo pensiero di natura o meno.
Bisogna essere avanti perché quel disturbo dell’ideazione che è l’idea di nudità si sia ridotta in noi.
Lo dicevo l’altra volta. L’idea di nudità è un disturbo dell’ideazione, è un’idea di troppo, come la sessualità,
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etc. È un’idea disturbante, perché di troppo. È un’idea estranea, come si dice un corpo estraneo, un proiettile
nel corpo.
Vi consiglio di prendere il libro in mano, un po’ come a scuola.
La parola “vocazione”. È al cuore di quello che ho da dire oggi. Nell’ultima pagina, il passo di Freud
che ho letto la volta scorsa, della lettera a Pfister:
Non so se lei ha indovinato l’intimo legame tra l’ ‘Analisi laica’/’La questione dell’analisi laica’,
1926/ e l’‘Illusione’/’il futuro di un’illusione’, 1927/. Nella prima voglio difendere l’analisi dai medici,
nell’altra dai preti [1]. Vorrei consegnarla a uno stato o ordine /Stand/ [2] di curatori d’anime
secolari /o laici, weltlich/ che non hanno bisogno di essere medici e possono non essere preti. [3]
Subito dopo il commento:
Dunque Freud è il fondatore di un Ordine.
Noi stiamo rilanciando l’idea e vorrei che ricominciassimo un nuovo anno anzitutto alla luce
dell’avere una vocazione e dell’appartenere a un Ordine.
Allora distinzione, professione, vocazione, etc. Un compito può essere militante; una vocazione non
è militante. Il resto lo potete leggere.
Dunque, a quest’Ordine corrisponde un lavoro.
Distinguiamo fra compito, militante, anche se non sempre, e atto. Il concetto di atto, sarà una delle
parole del seguito di questo libro, credo senza troppo ottimismo che potete già immaginare che fra tre mesi
sarà il doppio.
Anzi, una delle questioni aperte per un lavoro come questo è: se esistano limiti lessicali o no a un
ordine giuridico come questo. Che sia infinito o non sia infinito. Il diritto dello stato è finito: potete
benissimo considerare i codici come un lemmario dall’A alla Z i cui c’è contratto, reato, furto, etc. Tutta una
serie di parole. Il lemmario giuridico è limitato: non esiste, per esempio, la parola mangiare.
Il nostro lemmario implica la parola mangiare. Freud l’ha chiamata pulsione. Senza pensiero di
natura o ordine giuridico del linguaggio, voi non mangiate, siete anoressici. In un punto cercavo di
rispondere a questa domanda: ma a cosa serve il pensiero di natura o l’inconscio? Serve a mangiare. È la
prima cosa da capire: che serve a mangiare, sennò non si mangia, si muore di fame come nell’anoressia più
grave. O tutte le psicopatologie del mondo. O la salute, aut la salute. A cosa serve il pensiero di natura? Non
è una teoria: serve a mangiare.
Con l’interessante aggiunta che è tutto terra-terra, non terra-cielo. Non c’è il mangiare a terra e il
cielo del pensare. E il nostro pensare nel pensiero di natura non è di livello minore di quello di Parmenide o
di Platone o di Cartesio. Per carità! Io capisco che ci voglia una vita per tirare queste conclusioni. Io ci ho
messo una vita, e adesso non so neanche quanto ne avrò ancora e non è molto importante per me. Diciamo
che anch’io ricomincio, che i giochi sono meno fatti di quanto lo fossero per me cinque anni fa, un anno fa o
cinquant’anni fa. Anche per me l’ordine giuridico del linguaggio — espressione, giustamente, un po’ astratta
— fa nuovo inizio.
Per questo avevo scritto una lettera dicendo che volevo usare il tempo dell’estate per lasciarmi
muovere i pensieri in testa.
E vedremo.
Ma in ogni caso è l’idea di un Ordine. Di persone operanti a un ordine, ordine giuridico del
linguaggio che è anche un’offerta al mondo: poi c’è chi ci si mette e c’è chi non ci si mette. Dopotutto è
sempre stato valido il detto: «Molti sono i chiamati, ma pochi sono gli eletti». Vale anche per noi, come
valeva per quei tempi là.
La nostra facoltà imputativa — imputativa a pollice verso — ma con la grande precisazione che nel
nostro diritto, che non chiamerei neppure penale, ma in ogni caso — non so mai trovare un aggettivo giusto
— diciamo critico, non c’è distinzione fra giudizio e sanzione. La sanzione è tutta assorbita sul giudizio; non
ci sono prigioni. E ciò in cui il nostro giudizio — decenni di esperienza dell’analisi lo dicono — proprio è
duro ad applicarsi — si chiama resistenza — è alle teorie presupposte nell’altro.
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Erika ha ammazzato sua madre perché non ha giudicato la teoria presupposta in sua madre. Non perché l’ha
giudicata. Perché la sanzione è sillogistica; è un po’ come se girasse in aria per un po’ ma viene il momento
in cui precipita. E alla lettera, a chi la tocca la tocca. Non è toccata alla madre di Erika: è toccata ad Erika, è
piombata su di lei e passerà la vita in galera. È la sanzione che le è toccata per avere mancato lei la sanzione,
il giudizio.
Più normalmente il nostro mancare il giudizio, anzitutto sui nostri maggiori, non solo la mia solita
madre, per nostra fortuna non è sanzionato dal finire in prigione, ma è sanzionato dall’angoscia. Ma la
sanzione c’è sempre. Con la stessa inesorabilità — vedi angoscia — con cui nel sillogismo aristotelico si
conclude che allora Socrate è mortale. Non accade che non vi sia almeno questa conclusione, oppure altra
conclusione. Premiale, profittevole. È importante questo punto del sillogismo. Anche questo mi è venuto in
mente soltanto l’estate scorsa. Che toglie dai nostri cervelli — dalla nostra cultura sa Dio quanto ci vorrà;
mai credo — la solita domanda. E sono stati fatti convegni su questa domanda e libri e libri, con tanto di
psicoanalisti da una parte e filosofi della scienza dall’altra. Fuori le prove, Freud! Dacci le prove
dell’inconscio, della rimozione, etc. Naturalmente prove di carattere ordinariamente scientifico, il solito
laboratorio.
Ma se è un sillogismo — di un’altra specie da quello aristotelico, ma un sillogismo — è ridicolo chiedere le
prove. Qualsiasi filosofo si vergognerebbe a chiedere ad Aristotele: «Dacci le prove del sillogismo». Dove
sta il sillogismo? Sta nel neurone? Sta scritto nei libri? Sta scritto nel cuore dell’umanità? È una domanda
ridicola. Vero che poi si può discettare in che misura è nei cervelli di ciascuno, ma a nessuno verrebbe in
mente di chiedere le prove dell’esistenza del sillogismo. Non ci sono prove da dare dell’esistenza
dell’inconscio o del pensiero di natura.
Leggerete voi l’ Introduzione, che poi il mondo delle teorie presupposte sono il vaso di Pandora;
sono loro il simbolico di Lacan, etc. L’ordine del nemico. L’ordine del Super-io, etc.
A questo lavoro — prima dicevo: «Molti sono i chiamati» — può dedicarsi ognuno dei presenti.
Basta fare la prova.
Ma intanto con una scoperta della propria competenza che, ahimè, anche quando siamo gravemente malati
abbiamo esercizio di competenza: è un esercizio di competenza. Con il che poi siamo sempre lì a professare:
«Io non so…», «non posso…», «non sono capace…». Poi appena si va a vedere come è costruita la propria
patologia si vede che razza di dee Kalì siamo, con tre braccia per parte, nella costruzione del patologico
come simbolico. L’idea della dea Kalì non mi sembra molto male. Indaffarati da questa costruzione.
Dispendiosi.
Si tratta solo di cambiare l’orientamento alla competenza. La guarigione è il cambiamento di orientamento a
una competenza che è già esercitata.
A costo di prendere una piega forse non immediatamente correlata come passaggio logico senza
lacune in mezzo e anche perché cerco di atterrare… No, atterrare non mi piace. Non c’è il volo.
Sto scrivendo un pezzo da aggiungere sulla Madonna, in quanto direttamente e giuridicamente
connesso con tutto questo, con l’ordine del linguaggio, il pensiero di natura…
Perché? Perché solo recentemente mi sono accorto che ci ho messo vent’anni ad accorgermi di una
cosa. Sarà stato quindici o venti anni fa che mi sono accorto che la Madonna, stando alle definizioni, alle
narrazioni, ai dogmi, cattolici in questo caso — ai protestanti non va la Madonna. C’è il più grande rispetto;
la Madonna è anche una delle quattro donne che hanno ufficialmente ottenuto il rispetto dell’Islam, insieme
ad altre tre. Non si tratta nel protestantesimo di rigetto con infamia, della Madonna. Semplicemente è
rifiutato l’onore degli altari, anzi, del primo altare fra gli altari — sarà anche vero che quel mistificatore di
Dante, «Vergine Madre figlia del tuo Figlio», d’accordo, per la proprietà transitiva, essendo il Figlio uguale
al Padre, Figlia del Padre è figlia del Figlio. E fin qui va bene. Logica elementare. Madre di Dio: benissimo.
Poi aggiungete voi tutto quello che volete aggiungere. Ma è del tutto ovvio che per prima cosa è una figlia
che ha sposato suo Padre. Sposa di suo Padre. Legittima. Salvo che Cristo sia un figlio bastardo. Sapete cosa
vuol dire bastardo: il padre l’ha riconosciuto, ma non c’è una donna legittimamente coniugata con questo
padre che di quel figlio sia la madre. Quindi, in altri tempi — l’ho già segnalato più volte — non era neanche
un insulto come è oggi. Era un termine tecnico. Bastardo d’Orleans, il duca d’Orleans: non era duca, ma un
aristocratico d’alto bordo, che in Shakespeare è chiamato con questo nome dai suoi pari. E nessuno si sogna
di offenderlo o sentirsi offeso.
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Allora, abbiamo l’apoteosi dell’incesto. In cielo, eh, in cielo! Non l’ho detto io: l’hanno detto i sacri
testi. È sicuramente la sposa di suo Padre. Eh già! Ma in venti secoli non l’ha detto nessuno. È a capire
questo che ho impiegato vent’anni. Mi sono detto: ma perché non l’ha detto nessuno? È il dato di
osservazione mi si è ingigantito. Come vedete per dire ciò che sto dicendo non occorre avere fatto studi
teologici, patristici, mistici, esegetici. Non occorre niente: basta avere gli occhi aperti e le orecchie aperte.
Come sempre, patti chiari e amicizia lunga. Non è una faccenda di studi. Ma perché? Perché questa
ovvietà non è mai stata sottolineata. Anzi, la frase di Dante serve a metterci una pietra sopra. Così osannata
in quanto figlia del suo figlio, non c’è più bisogno di lasciare lavorare il pensiero in un’altra direzione, ossia
quella primaria.
È anche chiaro che non poteva essere, questa non sottolineatura, anzi questa non esplicitazione, non
ovvia esplicitazione, non poteva dipendere dal timore di una qualche idea di compromissione sessuale, per
l’ovvia ragione che il Padre non ha un corpo; quindi il motivo di questa censura non può essere il timore di
disseminare nei fedeli cristiani l’idea di una qualche impurità dei corpi, perché a buon conto Dio Padre per
definizione è senza un corpo. Quindi i rapporti sessuali non potevano esserci in ogni caso. Dunque, non era
per questa ragione.
Eh già! È stata per venti secoli in atto la proibizione del complesso edipico, in quanto complesso
edipico non è il pensiero che il padre e la figlia hanno dei rapporti sessuali.
Freud insiste moltissimo su questo. Insiste sull’essere una relazione preferenziale tenera, via maestra.
Ritroviamo nel caso della Madonna un caso piuttosto ingente — venti secoli non sono poco e riguardante
l’umanità anche al di fuori del mondo cristiano — di proibizione dell’incesto, di distruzione del complesso
edipico, in quanto via maestra e non in quanto implicante alcunché di concupiscente, per usare la celebre
parola. Se volete sapere che cos’è la proibizione del complesso edipico guardate cosa non è stato detto sulla
Madonna.
A questo punto io trovo semplicemente che i protestanti, nel rifiutare una certa specie di ossequio
alla Madonna, hanno semplicemente tratto le debite conseguenze: se non era una sposa, dopo tutto era una
pia donna, magari la prima delle pie donne, ma niente di più che una pia donna. Senza la sovranità in senso
tecnico, la sposa del sovrano è la sovrana, non si vede perché tributare un tale omaggio a questa personaggio.
E questi hanno tirato le conclusioni.
Con il che poi è subentrata dappertutto l’idea che esisterebbero due amori: l’amore materno e
l’amore paterno. Fatti i due amori è l’amore presupposto. La distinzione dei due amori farà giocare l’uno
contro l’altro.
Se volete sapere che cos’è l’ordine simbolico del linguaggio, guardate questo esempio: è l’amore
presupposto assunto in cielo, dato per assunto in cielo e glorificato come conflitto o comunque distinzione
fra l’amore materno, la maternità, e l’amore paterno.
Notate che per quello che sto dicendo, io non correrò mai il rischio di essere bruciato
dall’inquisizione. Io corro il rischio di venire beatificato. So benissimo cosa sto dicendo.
Vi invito tutti al mio processo di beatificazione. Ci vorrà un pochino, ma…
Anzi, dato che ho preso questa strada lasciatemi dire un’ultima cosa. In fin dei conti so che riguarda
un argomento su cui alcuni si sono interrogati, stando oltretutto questa fissa/non fissa, che è il riferirsi spesso
al pensiero di Cristo preso esclusivamente come pensiero, come si dice il pensiero di Platone, di Aristotele,
etc., e con la mia solita tiritera sulla miscredenza, etc.
Ma in fin dei conti, tenuto conto che dopo tutto noi se guardiamo la nostra rosa di nomi, nomi autorevoli, alla
fin fine se andate a vedere abbiamo un grande mazzo di ebrei: Freud, Kelsen, Gesù Cristo — peraltro
sottolineato: ora non riprendo in che cosa sottolineo che Cristo era ebreo, e anche Freud; credo di avere già
scritto qualcosa al riguardo — e rilevantissimamente.
Qualcuno potrebbe anche chiedersi… alcuni hanno anche pensato che sia una banda di cattolici,
magari ciellini, oppure, se si va un po’ vedere, magari qui si va dalla parte dell’ebreo. Una specie di
conversione di massa dell’ultimo momento verso il X secolo, mi pare, in una certa regione slava.
Alla domanda se io considero cattolico o ebraico o chissà quale mix dei due — non siamo ridicoli,
manteniamo la distinzione — io non risponderei. Rilevo la ragione per cui non risponderei. Nulla a che
vedere con astuzia e neanche una più onesta prudenza. Perché io ho molto rispetto per l’autorità cattolica e
l’autorità ebraica e io non ne faccio parte. Io sono un laico e basta!
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Se mi avventurassi a rispondere a questa domanda, dall’una o dall’altra parte una qualche autorità di
quelle parti mi potrebbe dire che sono un corruttore dell’ortodossia, perché mi permetto di qualificare come
cattolico un qualche cosa che l’autorità di quelle parti non considera cattolico, né considera ebraico. Mi
direbbero: «Giù le mani!» e avrebbero ragione.
Io, semplicemente, faccio un lavoro con tutti i termini e gli attributi che il rigore in questo lavoro
consente di assegnare a tale lavoro e alle sue conclusioni. Semmai — permettetemi di dirlo così, intanto o
non lo farò o non avrebbe conseguenze — ma piuttosto io scriverei una lettera al papa e una lettera al
rabbino, presentando sia tutti i materiali, mandandogli la password del sito, poi magari con un foglietto che
riassume tutto tanto non leggerebbero niente e quindi bisogna fare un riassunto rapido, per chiedere: «Scusi,
mi dica lei se questo è cattolico, ebraico o qualcosa d’altro ancora. L’autorità è lei, non sono io». Io continuo
per la mia strada, perché nella sua autorità non potrebbe neanche venirle in mente di impedire la mia strada;
o si autocontraddirebbe se cercasse di impedire la mia strada. Ma se valuta cattolico o ebraico ciò che
andiamo dicendo, la valutazione è sua. A ognuno la sua parte.
Volevo riprendere tante cose, sulla nevrosi, sulla psicosi. Qualcosa ho detto la volta scorsa.
Come economisti, il nostro non è un pensiero — e questo è un salto all’estremo opposto — di
carattere distributivo, di distribuzione dei beni. L’accento non è sul donativo: timeo danaos e dona ferentes,
hanno detto i troiani un po’ troppo tardi quando ormai gli avevano distrutto la Città. Una delle porcherie del
linguaggio è il celebre detto: «A caval donato non si guarda in bocca». A caval donato gli si apre la bocca
tanto così! E se i miei genitori mi avessero detto che mi hanno donato la vita… Questa me l’hanno
risparmiata; altre no, ma insomma…
Il lavoro, l’atto… Perché no?, per qualcuno è anche compito; se io ho scritto un libro, ho anche
svolto un compito. Rifiuto di averlo fatto da militante. Il concetto giuridico di atto è un pasticcio in tutta la
filosofia giuridica. Sono anni che ne leggo e ho dovuto capire che lo stesso giurista non sa venirne a capo.
Chissà che non sia a partire dal primo diritto che se ne viene a capo.
Ma in ogni caso, già indicato in altri momenti — vedrete gli eserghi all’inizio del libro — il lavoro
dell’ordine giuridico del linguaggio, alla portata di ogni mano e di ogni lingua qui presente, dopo che i giochi
sono riaperti — fine dei giochi fatti e fatti precocissimamente, a 5, 6, 7 anni, facciamo 10 proprio ad andare
lontano, che vuol dire a giochi chiusi — la meta — e poi uno può essere pigro e non assumersi compiti:
benissimo. Vada per la pigrizia. Io per natura non sono mai stato un pigro, non lo sono. A volte sì, ma
normalmente no. A chi la tocca la tocca, non è rilevante — il lavoro è un lavoro di bonifica, l’opera è
un’opera di bonifica, di bonifica del linguaggio, che poi è la principale delle nostre attività.
La frase di Freud: «È un compito di civiltà come la bonifica delle paludi dello Zuydersee» su in
Olanda, tanti anni fa.
Nello stesso contesto di eserghi avevo voluto prendere il salmo 11: «A labiis dolosis libera nos»,
liberaci dalle labbra dolose — notevole, eh! Notevole che il traduttore latino ha tradotto con “dolose”; in
traduzioni più recenti la parola “dolose” è scomparsa, un po’ come quando ci veniva fatto osservare che il De
mendacio di Sant’Agostino è stato tradotto “la bugia” anziché “la menzogna”. O già nel libro della Genesi:
ogni cosa avrebbe dovuto portare il nome che l’uomo le avrebbe dato. La creazione della natura è una
banalità. «Che qualcuno», dice Dio, «Adamo ed Eva, si occupi di debanalizzare la natura!» È una banalità ed
è soprattutto frigida, specialmente frigida: la natura non conosce desiderio sessuale.
E poi ancora quella frase di Freud che sta ringraziando gli inglesi perché dopo essere riuscito ad
uscire dall’area europea di dominio nazista, arriva a Londra e allora comincia a parlare bene della perfida
Albione, senza dire che è perfida, ma poi ridice che è perfida, perché mentre è lì a ringraziare la libertà, la
generosità, etc., degli inglesi che gli hanno consentito non solo di essere libero fisicamente, ma anche di
essere nuovamente libero di: «parlare, scrivere» — e va bene — e poi dice: «quasi quasi stavo per dire
pensare». Eh, no! Fino al pensare, neanche l’Inghilterra!
Non aspiro a fare l’abate e quindi non vi lascio con la benedizione. La battuta è sciocca solo a metà.
Ha un lato che mi riguarda. Per il resto, gli auguri per tutti. Io vi suggerisco di averlo in mano questa estate,
anche per lanciare idee, proposte.
Buone vacanze e fin da settembre arriverà qualcosa di scritto per tutti.
Il brindisi è innanzitutto in onore del libro. Allora se volete, con auguri e saluti.
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Mariella suggerisce che uno potrebbe fare Dio, invece che l’abate… In effetti dovremmo fare una
discussione una volta se uno che si prende per Dio possa essere soltanto matto. Se esista solo come delirio,
perché dopo tutto all’inizio del libro della Genesi sta scritto che furono fatti «a immagine e somiglianza».
NOTE
[1] Notate che lui è un medico e sta scrivendo a un prete. Non gli importa assolutamente niente.
[2] Letteralmente “stato”, come si dice “stato di vita”: questa è un’estensione traduttiva da parte mia.
“Ordine”, come si dice “ordine religioso”, ma non religioso, nel senso non della specie degli ordini
religiosi. Una vocazione, dunque.
[3] Giacomo B. Contri, L’ordine giuridico del linguaggio, Sic Edizioni 2003, pag. 274
© Studium Cartello – 2007
Vietata la riproduzione anche parziale del presente testo con qualsiasi mezzo e per qualsiasi fine
senza previa autorizzazione del proprietario del Copyright
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28/06/2003 - SC - trascrizione