L’arte povera dei trabocchi
Carlo Pozzi
Bruce Chatwin nel suo album di fotografie pubblicato ne “L’occhio assoluto” (1) attribuisce valore
artistico ad aggregati precari e talvolta in disuso, come l’ingresso ligneo ad una miniera nello
Wyoming (USA) o abitazioni costruite come sommatoria di materiali raccattati nella bidonville di
Nouakchott in Mauritania.
Quello di mettere in valore una certa casualità di accostamento all’interno di una operazione di
nuova lettura dei materiali artistici presi a prestito dalla realtà e dislocati su una parete di museo,
fino ad allora riservata ai materiali colti illustrati dalla pittura a olio, a tempera, ad acquerello, è parte
delle provocazioni delle avanguardie artistiche della seconda metà del novecento, raggruppate con
qualche forzatura nella cosiddetta Arte Povera.
C’è poi la Land Art che misura questi procedimenti direttamente su ipotesi di installazione e modificazione, più o meno duratura, del paesaggio, intervenendo sui siti presi a prestito: da Christo a
Smithson, per intenderci.
Un trabocco della costa medio-adriatica potrebbe essere letto a partire da questi approcci fotografici e artistici come macchina da pesca auto-costruita che, con aggregazioni semplici di materiali
poveri, scelti solo per il ruolo funzionale e come elementi di un continuo “rattoppo”, entra con una
dignità sua propria ed un ruolo protagonista nella costruzione del paesaggio su una linea di margine tra terra e acqua, instabile per sua stessa natura.
Il trabocco nasce dal principio della bilancia: abbassando un braccio della bilancia, si ottiene l’innalzamento dell’altro braccio al quale è connessa la rete. La voce diventa travocche in dialetto
pescarese, trabbucche in teramano, trabbaucche in vastese.
Il termine indica quella particolare costruzione che in prossimità di una scogliera o alla punta di una
baia è composta da una passerella fissata precariamente su pali di legno, successivamente integrati con profilati in ferro, che dà accesso ad un casotto di legno nel quale sono l’argano per sollevare la grande rete a intervalli regolari di circa quindici minuti.
L’attività dei trabocchi si sviluppava da ottobre a novembre per la pesca di cefali, ombrine, spigole
e degli altri pesci da scoglio. In giugno per le sardine e il novellame: le fitte maglie della rete non
lasciavano passare le sardelle appena nate (la papalina).
I legni utilizzati erano quercia, leccio, messi in opera almeno sedici mesi dopo il taglio.
I profilati ferrosi erano spesso costituiti da materiale accantonato per la manutenzione dalla linea
ferrata immediatamente a ridosso della costa.
A tutt’oggi la descrizione più meticolosa di un trabocco della costa di San Vito Chietino viene offerta da due brani di Gabriele D’Annunzio nel “Trionfo della morte” (2): un primo accenno più impressionistico ne descrive il ruolo paesaggistico:
“Dall’estrema punta del promontorio destro, sopra un gruppo di scogli, si protendeva un Trabocco,
una strada macchina da pesca, tutta composta di tavole e di travi, simile a un ragno colossale”
Acqua & Architettura. Rappresentazioni
Fig. 1
Comparazione grafica tra il ponte di Rialto realizzato da Antonio
Da Ponte e il progetto del ponte monumentale a tre archi proposto
da Andrea Palladio, secondo studi eseguiti da Antonio Rondelet
nel 1840.
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Fig.4
Ricostruzione della sezione e del prospetto laterale del ponte
secondo il progetto di Andrea Palladio eseguita da A. Rondelet.
Tav. VIII “Alzato d’un ingresso del ponte” da Opere di Giovanni
Rondelet…voltate in italiano per cura di B. Soresina e L. Masieri,
con note e giunte importantissime fra le quali il Saggio sul Ponte
di Rialto a Venezia di Antonio Rondelet, Mantova 1840, vol. VI.
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Nel corso del romanzo l’autore pescarese torna a descrivere il trabocco di Turchino , posto sugli
scogli del promontorio di Capo Turchino, in territorio di S. Vito Chietino, dando prova di capacità
analitiche che sfiorano la descrizione ingegneristica della grande macchina lignea e sfociano in
analogie col mondo animale, prima, infine con la decadenza dell’essere umano:
“E Candia indicò su la scogliera nerastra la grande macchina pescatoria composta di tronchi scortecciati, di assi e di gomene, che biancheggiava singolarmente, simile allo scheletro colossale di un
anfibio antidiluviano.
Si udiva stridere l’argano, nell’aria tranquilla. (…) Per gli interstizi della piattaforma si vedeva brillare e
spumare l’onda. In un angolo della piattaforma sorgeva una capanna bassa (…) A destra e a sinistra
sorgevano dalla scogliera le due maggiori antenne verticali, sostenute alla base da piuoli di tutte le
grossezze, che s’intersecavano, s’intralciavano congiunti tra di loro per mezzo di chiodi enormi, stretti da fili di ferro e da funi, rinforzati con mille ingegni contro le ire del mare. Due altre antenne orizzontali, tagliavano in croce quelle e si protendevano come bompressi, di là dalla scogliera, su l’acqua
profonda e pescosa. Alle estremità forcute delle quattro antenne pendevano carrucole con i canapi
corrispondenti agli angoli della rete quadrata. Altri canapi passavano per altre carrucole in cima a
travi minori; fin negli scogli più lontani eran conficcati pali a sostegno dei cordami di rinforzo; innumerevoli assicelle erano inchiodate su per i tronchi a confortarne i punti deboli. La lunga e pertinace
lotta contro la furia e l’insidia del flutto pareva scritta su la gran carcassa per mezzo di quei nodi, di
quei chiodi, di quegli ordigni. La macchina pareva vivere d’una vita propria, avere un’aria e un’effige
di corpo animato. Il legno esposto per anni ed anni al sole, alla pioggia, alla raffica, mostrava tutte le
sue fibre, metteva fuori tutte le sue asprezze e i suoi nocchi, rivelava tutte le particolarità resistenti
della sua struttura, si sfaldava, si consumava, si faceva candido come una tibia o lucido come l’argento o grigiastro come la selce, acquistava un carattere e una significazione speciali, un’impronta
distinta come quella d’una persona su cui la vecchiaia e la sofferenza avesser compiuta la loro opera
crudele.
L’argano strideva girando per l’impulso delle quattro leve; e tutta la macchina tremava e scricchiolava allo sforzo, la vasta rete emergendo a poco a poco su dalla profondità verde con un luccichìo aurino.”
Dal 1894, data della prima pubblicazione del romanzo, sono passati due guerre mondiali e molti
decenni di sviluppo accelerato e pasticcione, che ha trasformato le coste in spazi per il turismo e
le aree urbane in accumulazione di materiali dissonanti, senza la capacità di mettere in risalto elementi ereditati da una tradizione così singolare.
Questo risalta in particolar modo nella vicenda dei trabocchi che si allineavano lungo il molto nord
del porto canale di Pescara, senza la necessità delle lunghe e instabili passerelle della costa chietina, presentando piuttosto caratteri (nei colori e nei materiali) più urbani e integrati all’immagine
complessiva dell’impianto portuale, e costituendo una serie di contrappunti alla passeggiata domenicale tra il fiume e il mare, attraverso i quali era possibile cogliere l’intero water front della riviera
nord.
Nonostante queste specifiche qualità, sono stati travolti dalle modificazioni introdotte negli ultimi
decenni con la pretesa di salvaguardare la costa, ottenendo un risultato esattamente contrario. Così
è accaduto che la curvilinea scogliera frangiflutti posta come diga foranea a difesa dell’imboccatura dello stretto sbocco portuale pescarese ha determinato una sorta di tappo che ha coinvolto la
costa nord sia scaricandole parte delle acque fluviali inquinate sia creando l’insabbiamento proprio
delle strutture da pesca.
Il degrado e gli incendi hanno fatto il resto, creando così le premesse per due estremi che si specchiano nei risultati: l’abbandono da un lato, la ricostruzione con nuove metodologie dall’altro. La
reinterpretazione con tecniche costruttive contemporanee ha generato manufatti forse interessanti
dal punto di vista stilistico, però più vicini ad una immagine nord europea dell’architettura del legno
che a quella del trabocco descritto da D’Annunzio: certo non più di arte povera si può parlare, ma
di un passaggio brusco dalla tradizione popolare al design. D’altronde non si tratta più di macchine da pesca ma al più di piccoli ristoranti, il cui dispiegamento non viene più “letto” passeggiando
sul molo ma dall’alto del recente ponte del mare che ha legato con un percorso ciclo-pedonale le
due riviere della città.
Questi materiali così singolari, installazioni capaci di abitare il paesaggio, si propongono come un
Il ponte di Rialto a Venezia secondo i progetti di Vincenzo Scamozzi 1587-88
Figg. 5-6
Progetto palladiano per il ponte di Rialto, alzato e pianta, da
Ottavio Bertotti Scamozzi, Le fabbriche e i disegni di Andrea
Palladio e le terme romane figurate dal medesimo, Torino 187273, Tavv. LII, LIII.
Acqua & Architettura. Rappresentazioni
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“giano bifronte” rivolto al passato senza nostalgia e con lo sguardo ben saldo verso il futuro. Infatti
ci riportano ancora oggi con la memoria agli stabilimenti balneari su palafitte costruiti a Pescara tra
fine ‘800 e primi ‘900; allo stesso tempo interrogano il futuro di una città di sole case, che si è dimostrata più volte incapace di rielaborare la propria storia e che per questo continua a distruggere le
testimonianze della prova di questo ripetuto paesaggicidio.
La Facoltà di Architettura di Pescara, che non riesce a incidere abbastanza sulla trasformazione
della città, raddrizzandone le sorti paesaggistiche, ha però il merito di avere indagato su tali materiali così singolari: testimonianza ne rimane in un libretto della serie degli Ossimori, dal titolo
“Resistenti leggerezze. Capanni da pesca sulla costa abruzzese” (3), che costituisce il catalogo dei
lavori esposti in mostra a San Vito, costituiti dal rilievo di numerosi trabocchi della costa medioadriatica da Giulianova a San Vito Marina e da alcune sperimentazioni progettuali realizzate dagli
studenti di architettura.
Ma sono quelli di Pescara il tesoro nascosto, che permette la comparazione tra il rilievo dettagliato
di quindici anni fa e lo stato attuale, a cui si è fatto cenno prima.
Parlare di nuovo dei trabocchi ed illustrarli deve avere quindi non tanto e non solo il senso di trattare di un manufatto che appartiene al passato, ma riproporne con forza quell’equilibrio instabile che
interroga la grande diffusione urbana medio-adriatica che va da Rimini almeno a San Salvo che fa
parlare ormai di una città con un corso urbano di 350 chilometri (la statale adriatica in continuo cambio di senso e declassamento di ruolo a favore di nuove circonvallazioni e by-pass) che tra i suoi
innumerevoli problemi presenta proprio quello dello stravolgimento del plafond naturale e del rapporto con il mare.
Più che restaurare o ricostruire su progetto oggetti il cui valore era dato da un incredibile processo
di auto-costruzione, oggi non riproponibile, si tratta di indicare un procedimento che costruisce
nuove centralità mutanti, rincorrendo i luoghi proposti dal magma urbano in perenne movimento, al
cui centro occorre mettere sistemi di costruzione che abbiano il senso dell’installazione, della modificazione più che della permanenza.
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Il ponte di Rialto a Venezia secondo i progetti di Vincenzo Scamozzi 1587-88
Acqua & Architettura. Rappresentazioni
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NOTE
B. Chatwin, L’occhio assoluto. Fotografie e taccuini, Adelphi, Milano 1993
G. D’Annunzio, Il trionfo della morte, Per l’oleandro, Roma1934
Resistenti leggerezze. Capanni da pesca sulla costa abruzzese, a cura di Paola Misino e Nicoletta
Trasi, Ossimoro n. 5, Sala editore, Pescara 1995
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Il ponte di Rialto a Venezia secondo i progetti di Vincenzo Scamozzi 1587-88
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