VITTORINO E ANTONIA
VITURÌN e TUGNÈTA
Parte prima
Fiocca in quest’alba gravida
Fiocca, fiocca proprio intensamente in quest’alba gravida di neve, che scende
copiosa e lieve a tingere di candido biancore questa campagna intirizzita e
sonnolenta, che si lascia lambire contenta da questo soffice manto che la ricopre
lentamente, interamente, senza tregua. Simpatici giganti dalle bianche barbe
gelate, custodi invernali dei magazzini del cielo, si divertono a scaricare sulla terra
infinite gerle stracolme di neve.
E sotto la neve riposano mansueti campi di grano, che a suo tempo daranno il
pane, frutto saporito e fragrante di quel frumento che sa attendere pazientemente
la stagione rigogliosa e clemente.
Solitari stocchi di granoturco s’adornano di raffinati cristalli. Alberi sparsi
s’incipriano vanitosamente e tendono le braccia nude, orlate di candidi ricami. La
neve abbondante forzerà le loro nervature per saggiarne la consistenza.
Esco verso la campagna dall’antico portone di corte e larghe falde m’investono
festose e m’accompagnano compatte mentre calco il dorso della collinetta, che si
erge alle spalle della casa colonica e poi scivolo giù, curioso, dal Ronco del Zara,
un sopraffino contadino, verso l’ampia valle sottostante e a me, che affronto
decisamente la voglia di lasciarsi cadere di questa gelida neve e corro libero e
felice incontro alle sue capricciose infinite giravolte e la scalfisco ingiustamente con
mille faticose zampate, il fitto del bosco s’inchina riverente e m’incorona solenne
mentre cauto l’attraverso.
Tutto è ammutolito e soavemente sonnolente in questo mattino incipiente. Le
balze protese del Ronchetto si lasciano ricoprire ampiamente distese. Più in là non
vedo, scendo lungo il consueto sentiero fra gli alberi innevati e mi sorprende
l’inatteso fluire del ruscello che a tratti è sospeso.
Bisbiglia, mi parla e mi accende questo immenso manto di neve, che un cielo
cupo e generoso rende copioso fino là in fondo, sulle colline e sui monti, che
alimentano di nuovi bagliori le fioche luci che li rendono presenti.
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Sono tornato faticosamente in corte, dove la coltre è già alta e intatta e gli archi,
le case, la chiesa e il palazzo, sono ancor più belli e festosi ed i tetti si livellano
stretti, serrati da mille coppi che pur ricoperti permangono rossi. La linea spiovente
è adorna di mille taglienti candele di ghiaccio, che paiono aguzzi denti pronti a
mordere tutti i viventi.
Scendi, scendi abbondante o cristallina neve dicembrina e ricopri, come tenera
madre, tutte le impurità d’anime e di corpi di questo pugno di case, finché ci
sorprenda turgida e vigorosa primavera, carica di rinnovate promesse e moltiplicate
speranze. Sono stanco di banalità e bassezze che vengono a turbare questa nostra
quiete secolare. Attendo con ansia che il ramo fiorito del pesco oltrepassi il muro di
cinta!
Un lume solitario accende la scena, accentua questa furia travolgente e mi fa da
compagno, nell’attesa paziente dei primi scalpiccii di zoccoli sordi, che poi cedono il
passo al battere dei saliscendi (alzapee) e al cigolio dei chiavistelli (caenascioeu).
E si spalancano porte al giorno nuovo.
Fra poco si risveglieranno, tossendo, gli antichi solenni camini e riprenderanno a
sbuffare prorompendo da ogni lato, al di sopra di un mondo lontano. La tormenta di
neve ne smorza l’ardore, ma loro gareggeranno all’infinito, a volte col respiro più
corto, incrociando affratellati, sui culmini dei tetti, i loro afflati.
I focolari avidi e ghiotti riscalderanno mani e cuori, fra tanti delicati colori ed i
crepitii di mille vivide fiamme illumineranno i volti corrosi dalla quotidiana fatica e
allontaneranno ombre oscure dai muri freddi e duri. Scoppiettanti faville si
eleveranno danzando per perdersi sempre più in alto.
Le prime voci
Sentite?... Corrono già le prime voci, i primi concitati richiami, gli incipienti rumori
di chi traccia solchi tra la neve per raggiungere le stalle, per governare gli animali,
per rubare il tiepido latte alle vacche che rivendicano trepide il secco foraggio.
Anche Viturìn e Tugnèta sono già desti e all’opera, dopo aver tracciato un ampio
segno di croce sui loro corpi ristorati dal sonno: “Sègness Viturìn, sègness” ed
elevano concordi, al cielo, il mattutino sentimento di ringraziamento e di supplica:
“Signûr, Ve ringràzzi de tánti gràzzi, de tánti benefízzi ch’hoo ricevuu in quésta
sánta nòcc. Ve dumándi la grazia de passà una buna giurnàda, mì, mia mám, ul
mè pà e toeucc quíj de la mia cà”!
“Signore, Vi ringrazio di tante grazie, di tanti benefici che ho ricevuto in questa
santa notte. Vi chiedo la grazia di passare una buona giornata, io, la mamma, il
papà e tutti quelli della mia casa”!
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E questa preghiera restava immutata nel tempo anche quando i genitori erano già
nell’aldilà liberi e contenti. E pure i ragazzi delle famiglie d’intorno, al loro risveglio
reciteranno ul patêr pregando così: “Vi adoro, mio Dio, Vi amo con tutto il cuore, Vi
ringrazio di avermi creato, fatto cristiano e conservato in questa notte. Vi offro tutte
le azioni della giornata…”
Dritta e mancina
Ora lei è in “casa”, a sbrigare le usuali faccende domestiche, lui nel suo stallino a
mungere la mucca. Vittorino è piccoletto, magro e irrequieto (piscinèla, màgher e
gnervusètt), con gli zoccoli di legno chiusi sul davanti (zacuròtt) e come si diceva
un tempo, con i calzoni “tiraa soeu cun la rüzzéla”, tirati su con la carrucola, cioè fin
troppo. Guardalo, munge seduto sullo sgabello (scagnèll) col secchio fra le gambe,
premendo alternativamente la mano destra e la sinistra, morsicando
simultaneamente la sua lingua in perfetta sincronia, prima a destra e poi a sinistra.
Esprime così la quotidiana fatica del vivere che diverte tantissimo noi ragazzi, che
lo scrutiamo apposta nella lunga mungitura serale, godendo della sua improvvisa
esplosione di rabbia non appena lo sorprendono i nostri risolini ed il nostro coro:
“Drízza e manscína, drízza e manscína, èl impiendìss la tazzína”! (Destra e
sinistra, dritta e mancina, riempie la terrina”).
A volte il suo istinto aveva avuto il sopravvento ed il secchio colmo di latte era
volato via nel tentativo di colpirci e la sua Antonia lo aveva duramente redarguito
perché non le restava più nulla ed aveva messo in guardia i nostri genitori, che
manifestavano il loro disappunto cogliendoci di sorpresa con un improvviso
scapaccione (scupazzùn), piuttosto che un sonoro ceffone (s’giafùn o slaviòtt) o un
irritante scappellotto (pelòcch).
Tugnèta
Tugnèta, cioè Antonietta se preferiamo la traduzione letterale, era una donna
alta, previdente e paziente, gentile ma ferma, di sani princìpi morali e d’una fede
ardente che permeava positivamente tutti gli eventi della sua magra vita quotidiana.
I due si incontrarono, nella loro trepida gioventù, in quel di Usmate dove lei abitava
e dove i contadini portavano quanto era d’obbligo al fattore e nella mia mente si
allineavano i capponi, destinati al padrone, che venivano sdegnosamente rispediti
al mittente per via d’un pizzico di catarro.
Vittorino, giovanotto vivace e insofferente, glieli avrebbe sbattuti sul muso, ma
non si poteva per non perdere tutto e finire nella più nera miseria e lei lo supplicava
e cercava pacatamente ma fermamente di fargli usare il buon lume della ragione.
Tutti sapevano che il pane del padrone è duro da guadagnarsi perché ha sette
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croste e poi un crostino ancora (“ul pán del padrùn èl gh’ha sètt cróst e peu un
crustìn amò”).
Non sappiamo se ci fu un intermediario per favorire il loro incontro e il loro sogno
d’amore; non ci è dato insomma sapere se ci fu il famoso “cinch e mèzz”, ma
coincidenza vuole che proprio ad Usmate si fosse accasato il fratello di Vittorino, un
giovane alto, distinto, intraprendente, con baffetti spioventi e ben curati, di cui
andava fiero e la sigaretta ovale che traeva dal portasigarette color argento e che
fumava con l’elegante bocchino nero.
Sappiamo comunque che Vittorino ed Antonia si sposarono felici e contenti pur
nella loro consunta povertà e lei venne ad abitare qui nei pressi della corte del
palazzo, entro la casa colonica della cascina dove lui abitava: un grappolo di
vecchie case, posato dalla Provvidenza e dalla mano dell’uomo su questo dolce
declivio.
La “casa” o cucina
Al pianterreno un locale unico, detto “la cà”, la casa o meglio la cucina: un soffitto
di robuste travi di rovere (rúgura, rúgula) ed un pavimento di mattonelle (tavèj) ben
curato; un grande camino, un tavolo robusto, qualche sedia (cadréga) impagliata di
lisca e una madia (marna) per impastare farine di segale (ségra) e granoturco
(furmentùn), macinate dal mugnaio (murnee) di Velate e per conservare in un
candido panno il lievito madre (ul levaa) e il pangiallo, che veniva cotto nel forno
comune, una volta alla settimana.
C’era poi il cassone della farine, con i vari scomparti, per l’alimentazione degli
animali (ul cassùn de la farína cun la crüsca, ul panèll, ul rugioeu, la curúbia); una
piccola credenza (un büfferìn) e l’asse su cui stagionavano i formaggini (l’assa di
furmagìtt) posta sulla parete laterale. È per questa ragione che si diceva di una
persona con gli occhi strabici, non senza un pizzico di cattiveria e di pungente
ilarità: “Èl varda in soeu l’assa di furmagìtt”!
Sopra lo stipite superiore del camino, al centro, un cane di gesso, un tocco di rara
bellezza, laccato di lucidi colori; a sinistra il macinino del caffè (ul masnìn del cafè)
col suo cassettino e la saliera del sale grosso (la pilótta de la saa gróssa); a destra
il ferro da stiro, la soppressa (la supréssa), che quando serviva, veniva alimentata
con la brace viva (brâs o brasca) e poi la scatola degli zolfanelli (zufranèj) che non
andavano mai sciupati.
Sul focolare la catena, nera di fuliggine, per sostenere la pentola di rame per
cucinare o il pentolone (stegnaa) per scaldare l’acqua e le farine per gli animali (i
bésti), con le fascine di stocchi di granoturco (mergàsc-melgàsc-margàsc) e con i
tutoli (luìtt-cüchìtt-burlìtt); il treppiede (tripee), la molla per levare i tizzoni accesi (la
moeuja), la paletta per togliere la cenere (ul bernàsc), lo scopino di meliga
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(scuinètt) per ammucchiare la cenere raffreddata; a lato la panchina di sasso per
scaldarsi da vicino e in bella vista il robusto pentolino di rame del caffè (ul pignatìn
o pügnatìn del cafè), sempre tirato a lucido (sguraa, sèmper bèll lüster) con la
cenere (scèndra) inumidita e strofinata con paglia di frumento (la pàja del
furmeent).
Nell’angolo esterno del camino, la regina della casa, sempre pronta all’uso: la
scopa di meliga (la scua o ‘l scuìn de mélga) che Vittorino sapeva realizzare e
intrecciare magistralmente con giunchi di salice (brucajoeu de sàles, strópa). Più in
là l’angolo di raccolta della legna, con ceppi e fascine (ul cantùn di lègn cunt i
sciócch e i fassìnn), ricavati dal bosco nella precedente stagione invernale.
Su di un’apposita mensola: l’asse del battuto, in particolare del lardo (pestalârd),
il mestolo (cazzuu), l’imbuto (ul pedrioeu), la schiumarola (scümaroeula); la padella
e il paiolo di rame (stegnaa de la pulènta) per la polenta che placava la fame: “la
pulènta la cuntènta” (la polenta accontenta, soddisfa); ul stüìn (pentolino in
alluminio per andare a prendere il latte appena munto per la colazione) e ‘l
zingherìn (pentolino in alluminio più ampio, per il latte e per la zuppa o minestra che
veniva portata a mezzogiorno ai contadini al lavoro nei campi).
Nella credenza, in basso, un bel servizio di piatti e le posate più belle; nel ripiano
superiore, in buon ordine, le stoviglie d’uso quotidiano: tre piatti, tre fondine, tre
scodelle, tre bicchieri (trii piàtt, trii tundìtt, tree tazzìnn e trii büceer), due terrine (dó
marmìtt); la scatola dello zucchero, merce assai rara e quella del caffè, con in
fianco un pacchetto di amarissimo estratto (ul strât), più nero del carbone, che
veniva aggiunto al caffè macinato, quello buono, per risparmiarne un po’; nella
credenza in alto, in bella vista, dietro i vetri disegnati, i bicchieri più belli, per gli
ospiti e le grandi occasioni e i bicchierini del liquore (i bicerìtt del licûri), poi sei
chicchere e sei tazzinette da caffè (sees chícher e sees chicherìtt bèj del cafè). Nel
cassetto del tavolo: il taglialardo (tajalârd) o battilardo, tre cucchiai, tre forchette e
tre coltelli (trii cügiaa, tree furcelìnn e trii curtèj) e qualche cucchiaino (cügialìn o
cügiarìn).
Nel grezzo armadio a muro (vestee) le scarse provviste alimentari: una terrina di
cagliata (un baslutèll de cagiàda), la farina per la polenta, il sacchetto del riso, due
lattine di salsa e un pezzetto di lardo, una treccia d’aglio ed un mazzetto di cipolle
(una trézza d’aj e un mazzètt de scigóll o scigój), un vaso di fagioli secchi (fasoeu
sìcch), un salame (un salamètt), la bottiglia del vino, qualche padellino (paelìn) o
tegamino (bielìn) e altre cosucce.
Sulla parete di fronte al camino, due grandi quadri ovali con le foto dei defunti più
cari ed un quadretto della Sacra Famiglia (Gesoeu, Giüsèpp e Maria e toeutt i poor
môrt in cumpagnía), mentre sulla parete verso l’uscio (oeurc, oeurs’c), il secchio di
legno (ségia) o di zinco (siéla) appeso ad un gancio, con l’acqua prelevata dal
pozzo, sia per bere che per cucinare, con la tazza di metallo lì vicino, in modo da
poter attingere liberamente ma moderatamente.
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Supplica e devozione
Fuori un portichetto comune, pavimentato di ciottoli (rísciu o rizzàda) e proprio
sulla parete d’entrata, fra l’uscio di Vittorino e Antonia e quello dei loro vicini
Celestino ed Eugenia, la “balorda”, cioè totalmente sorda (Celestrìn e Ügenia
balúrda), ecco un’antica nicchia (incúna) con una venerata statua della Madonna,
quotidiano punto di riferimento di supplica e devozione, in particolare mattutina e
serale, per tutti coloro che vi transitavano o che appositamente vi si radunavano.
E questa nicchia, che la mano di un giovane venuto da lontano voleva qualche
anno fa murare, è tuttora presente!
La camera da letto era al piano superiore, proprio sopra la cucina e vi si
accedeva tramite una breve scalinata di legno, comune a tutti i vicini che si
avviavano al riposo notturno, passando per il ballatoio (lóbia), biascicando
sommessamente una preghiera (ciarfüjàven sottvûs ul patêr).
“Signûr, Ve ringrazzi de tánti grazzi ch’hoo ricevuu in quésta sánta giurnàda. Ve
ufríssi toeutt a vósta sánta glòria, in bèn de l’ánima mia, in penitènza di mee pecaa,
in süfràgi di poor môrt”.
“Signore, Vi ringrazio di tante grazie che ho ricevuto in questo santo giorno. Vi
offro tutto per la vostra santa gloria, per il bene dell’anima mia, in penitenza dei miei
peccati, in suffragio dei poveri morti”.
E quindi una sequenza di “Requiem” per i propri cari defunti, sempre presenti nel
cuore, nella mente, nel ricordo, nelle azioni di ogni giorno e nella preghiera
personale e collettiva. Grande era anche la devozione, in particolare serale, agli
angeli custodi.
“In lècc mi voo, quatr’ánger trueroo, duu de pee e duu de coo. Ánger bùn, ánger
câr, tegnîm tüta la nòcc fina ch’èl vègn ciâr”.
“A letto io vado, quattro angeli troverò, due ai piedi e due a capo del letto. Angeli
buoni, angeli cari, sostenetemi tutta la notte finché la luce riappare”.
La “casa”, la camera e quanto contenevano, erano di proprietà di una zia di lui,
una lontana zia, che non s’era mai sposata e che li aveva amorevolmente accolti,
confidando anche in qualche futuro nipotino che purtroppo non arrivò, con grande
amarezza dei due sposini, che di questo si vergognavano un po’.
“Ghiàzza”
L’anziana zia Enrica, detta Richèta, ma che tutti in verità chiamavano col
soprannome di “Ghiàzza”, era piccola di statura ma ben messa, capigliatura folta e
riccia, occhi sereni, simpatica, gentile, sempre sorridente e ciò contribuiva a
rasserenare il clima familiare. La sua semplice ma profonda saggezza e ancor
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meglio la sua sapienza, che è l’espressione massima della saggezza, permeava i
consigli che distribuiva con discrezione ai molti che si rivolgevano a lei
spontaneamente. Per i due la zia era anche un sostegno economico e fra i tre
regnava una buona intesa quotidiana.
Ghiàzza dormiva in una camera situata a metà del ripido e lunghissimo scalone di
legno che portava al grande granaio (granirùn): una camera ordinata, con poche
cose ma di buon gusto, un ampio letto in ferro battuto con belle coperte da lei
pazientemente e appassionatamente ricamate, il quadro della Madonna, il
comodino (ul cifunìn), un bel comò (cifùn), la poltroncina (la pultrunéta), il
portacatino (pórtacadìn) e una stupenda “petineuse”, in dialetto la “sciscè”, davanti
alla quale amava soffermarsi a lungo al mattino per specchiarsi, pettinare la sua
rigogliosa capigliatura e agghindarsi, particolarmente nei giorni di festa. E una bella
finestrella, con due vivaci tendine, dava proprio sulla corte e le consentiva di
osservare inosservata il quotidiano svolgersi della vita.
I lunghi giorni invernali
Sonnolenti e pigri come i gatti di casa di oggi, ma non altrettanto grassi, erano i
giorni invernali, che gocciolavano lentamente come i panni di lana stesi ad
asciugare vicino al focolare. L’attività agricola era limitata e le molte ore passate in
casa, accanto al camino, intristivano il nostro Vittorino che si sentiva come albero
spoglio che sopravvive all’inverno tra le nebbie dell’incertezza. Riparava nel più
assoluto silenzio, con la solerte compagnia del fuoco scoppiettante, gli utensili da
lavoro (udesèj) per la buona stagione e preparava scope di meliga (scûf de mélga),
dopo averne raschiato i chicchi rossastri per le galline e predisponeva ramazze per
il portico e la stalla, con i rametti giovani e flessibili delle betulle che
macchiettavano il bosco.
La zia e la moglie, con lo scaldino di brace ardente ai piedi, rammendavano i
calzerotti (mendàven i scalfaròtt) con l’aiuto dell’uovo di legno e sferruzzavano a
maglia (fàven ul scalfìn), anche loro in silenzio e ogni tanto allungavano l’occhio sul
suo lavoro. I suoi pensieri, dopo averlo torturato a lungo, facendolo vagare per
mondi a lui sconosciuti, lo abbandonavano repentinamente, lasciando il posto ad
altri pensieri ancora più oscuri e fuggivano altrove in cerca di nuova accoglienza,
come le volute di fumo che imboccavano la via della libertà. Le fiamme prima
ardenti e poi sonnolenti del camino e la brace viva gli seccavano lentamente ma
inesorabilmente la gola e siccome “l’acqua fra tremare e il vino fa cantare” (“l’aqua
la fa tremà, ul vìn èl fa cantà”), lui andava cercando proprio ciò che lo aiutasse a
cantare.
Era un’anima in pena perché il vino gli mancava veramente, nel suo cantinino
non ce n’era e lui ne avvertiva l’impellente necessità. Gli pungeva dentro una vera
insopprimibile urgenza, come la voglia di liberarsi immediatamente da un groviglio
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di spine. Céser Magnoeula, che abbiamo già conosciuto e che abitava dall’altra
parte del cortile, proprio di fronte a lui, non lo invitava mai nella sua cantina per non
avere poi discussioni con la moglie di lui.
Infatti l’Antonia non perdeva mai d’occhio il suo Vittorino e lo accompagnava
anche quando andava a portare il latte della sera e quello appena munto del
mattino ai primi Lattai del paesello, i Malurìtt, che lavoravano il latte, come ci
ricorda Emilio, per farne formaggini da vendere in particolare a Milano e dintorni ed
in seguito quando lo portava, qualche passo più in giù, ai “Lacee” del patriarca Luigi
Galbusera, che dal 1948 proseguirono ufficialmente l’attività in maniera più estesa.
Per evitare che Vittorino deviasse spontaneamente verso l’osteria, la sua Antonia
lo seguiva passo passo, ma lo faceva anche per controllare di persona il peso del
latte, che aumentava decisamente in primavera e che veniva segnato su di un
apposito libretto, con saldo in contanti a fine mese, che veniva interamente riscosso
e intascato da lei.
Quando usciva di casa Vittorino doveva giustificarsi, precisare dove sarebbe
andato e a fare cosa, ma solo nel caso in cui non avesse già ricevuto direttamente
ordini perentori o precise sollecitazioni e indicazioni e se non tornava nei tempi
previsti e stabiliti, lei l’andava a cercare. Sapeva bene infatti che all’osteria di
Annunciata e Agostino (Nunziàda e Güstìn), che era a pochi passi da casa,
regnava piena solidarietà a tutela generale, fino a negare anche la più palese
evidenza.
C’era sempre qualcuno che proprio lì, in de l’ustùn (il grande oste), gli offriva un
bicchier di vino, ben sapendo che era quello che lui gradiva, non gli interessava
infatti né il “griogioverde” (grappa e menta), né la “mandurlàda” (grappa alle
mandorle), né “un marsalìn” (un bicchierino di marsala) e la sua soddisfazione,
dopo aver inzuppato il becco, era fortemente condivisa e replicata fino a vederlo in
difficoltà, fino a quando a lui sembrava che tutti gli gracchiassero contro come uno
stormo di corvi irrequieti.
La sua Antonia gli ricordava sempre che: “La trópa cunfidènza la teu la
riverènza”, la troppa confidenza toglie la riverenza, ma lui non ci sentiva affatto da
quell’orecchio perché il compiacimento dei suoi compagni di ventura ed il gusto
della trasgressione gli erano indispensabili!
E quando il vino contingentato in casa mancava, era lei, l’Antonia, a provvedere
direttamente all’acquisto, recandosi di persona all’osteria con la bottiglia vuota, a
chiusura ermetica (la butèglia cun la machinéta), che veniva riempita per tre quarti
di vino e per un quarto di acqua, con una tacita ed ormai consolidata intesa con
l’oste e che doveva bastare per almeno due giorni.
Ma lui s’accorgeva immediatamente dell’annacquamento perché il sapore (ul fà,
ul bucàtu) era diverso, non era pieno e lui lo faceva rimarcare immediatamente, a
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volte anche rabbiosamente, ma la sua Tugnèta negava, arrossiva un po’, ma
negava e negava ripetutamente.
Cominciarono così a nascere i primi tradimenti serali
Con l’avvento dell’estate cominciarono a nascere i primi tradimenti serali! Dopo la
devota e monotona recita del rosario e la cadenzata supplica delle litanie, la
consueta cantilena che storpiava la nobile lingua latina e la conclusione delle
preghiere della sera lungo le scale, i due si coricavano presto, troppo presto, per
volere dell’Antonia e l’osteria invece rimaneva aperta ancora a lungo e a volte
giungeva al fine udito del nostro Vittorino l’euforia degli amici che l’aspettavano.
Ben accertatosi che lei dormisse profondamente e meritatamente, lui scivolava
leggero fuori dalle lenzuola, si fermava un attimo, trattenendo il respiro per
verificare il buon andamento della fuga e poi in punta di piedi, con la massima
attenzione, i pantaloni e la camicia fra le mani, si avviava verso la porta che allora,
specialmente di notte e nella bella stagione, non si usava chiudere a chiave.
Ma, fattala franca le prime volte, veniva poi quasi sempre colto in flagrante,
perché anche l’Antonia aveva ben imparato a fingere e proprio quando lui stava
superando il confine fra la prigionia e la libertà, veniva beccato, richiamato e
umiliato proprio lì sulla soglia, sul valico di frontiera e lui si bloccava di colpo, con
un passo a metà, la rabbia fra i denti e il fumo negli occhi!
E la voce inaspettata della moglie, che lo richiamava all’ordine alle sue spalle, gli
ricordava quella autoritaria di un generale di corpo d’armata ed ogni parola
pronunciata con sottile ironia, era per lui un’improvvisa infuocata pallottola che si
conficcava profondamente nelle sue carni scoperte e gli bruciava dentro:
“Viturìn, indè veet?!... Vaa che t’hoo vìst!... Fà minga ‘l balòss, ánzi fà minga
l’asen che l’è câr ul fèn”! –
“Vittorino, dove vai?!... Guarda che ti ho visto!... Non fare il furbo, anzi non fare
l’asino che il fieno costa”!
Ed anche la scusa del bisognino fisiologico non reggeva:
“No, l’è minga véra, perchè ul bucaa, l’urinàri, l’è chì sótt al lècc”!
“No, non è vero, perché il pitale, l’orinale, è qui sotto al letto”!
Lei aveva anche pensato di serrare la porta e metterne la chiave sotto il cuscino,
ma le sembrava troppo, anche se alla disperata prima o poi l’avrebbe fatto! Lui
comunque non si scoraggiava mai e meditava sempre nuove strategie, che qualche
rara volta portavano ad esito positivo, fra il plauso degli amici dell’osteria.
Ma lei l’aveva avvertito severamente e ripetutamente: “Attento, Vittorino, che
prima o poi ti chiudo fuori e ti lascio lì tutta la notte! E ti assicuro che lo faccio
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veramente e proprio per il tuo bene!... Vittorino attento che non tira aria buona, non
spira buon vento”!
E qualche volta provò veramente a chiuderlo fuori, ma di fronte alle sue ripetute
suppliche:
«Dèrva, Tugnèta, dèrva per piesè! Te pruméti…» - “Prumètt un bèl nieent, Giüda”!
«Apri, Antonietta, apri per favore! Ti prometto…» – “Non promettere un bel niente,
Giuda”!
«Dèrva, Tugnèta, dèrva, se no troo gió la porta…»
«Apri, Antonia, apri, altrimenti butto giù la porta…»
e per la preoccupazione, ancora una volta, di disturbare i vicini e di pubblicizzare
ulteriormente l’accaduto, lei alla fine desisteva, anche se al mattino la predica, fitta
di rimproveri, suppliche, pianti e lamenti, era davvero straziante e interminabile! E
lui si sentiva come un merlo in gabbia, attaccato da un gatto ostinato e i sensi di
colpa gli tiravano raffiche di pugni nello stomaco e alla fine si dimostrava pentito e
prometteva di comportarsi bene per un lungo periodo, tirando finalmente un sospiro
di sollievo.
Una grande epidemia influenzale
Qualche anno dopo sopraggiunse, nella stagione invernale, una grande epidemia
influenzale (un broeutt malascètt), una pandemia si direbbe oggi, che colpì
parecchia gente e fra i tanti anche il nostro amato Vittorino. Dovette rimanere a
letto e la sua Antonia gli riservava tutte le premure del caso, ma la febbre,
nonostante i continui brodini caldi, non voleva proprio abbandonarlo e la faccenda
si faceva seria, finché lei ritenne opportuno chiamare il medico condotto, una
persona molto stimata, un omone che incuteva soggezione, ma che aveva un
cuore grande, l’unica presenza sanitaria per decenni nel territorio casatese, molto
attento e disponibile verso tutti, ma in particolare verso la povera gente che era
tanta!
Il giorno calava e l’ossequiosa Antonia, dopo aver messo tutto in ordine e
cambiato lenzuola e federe (quatacoo), attese pazientemente il medico e lo
accompagnò su per le scale dal suo Vittorino che dopo un po’, per poter colloquiare
più liberamente, invitò la moglie, con un pretesto, a scendere un momento
dabbasso.
Fu allora che Vittorino confidò apertamente al medico, suo superiore in scienza,
sapienza e conoscenza, tenuto al segreto professionale almeno quanto un
confessore, la sua grande arsura, ulteriormente accentuata dal mal di gola, dalla
febbre prolungata e dai diversi giorni di astinenza e il dottore (ul sciûr dutûr), molto
professionale ma molto umano, lo comprese pienamente e con un pizzico di
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indulgenza, ben conoscendo le abituali trasgressioni di Vittorino, gli lanciò una
simpatica sfida:
“Uhej bersaglieer, gh’hoo amò duu malaa de nà a truà e peu hoo fenii. Mì, tra un
quârt d’ura, in toeutt i maneer, soo a l’usteria e se te troeuvi là t’en paghi un
quartìn. Varda tì, Viturìn!”...
“Ehi, bersagliere, ho ancora due ammalati da visitare e poi ho finito. Io, tra un
quarto d’ora, ad ogni modo, sono all’osteria e se ti trovo là te ne pago un quartino.
Vedi tu, Vittorino!...
La sfida era stata lanciata
La provocazione, la sfida, la competizione, era stata lanciata e per Vittorino era
ad alto rischio ma di grande profilo, mentre il medico ben sapeva che la stretta
vigilanza della Tugnèta avrebbe reso l’operazione praticamente impossibile! Il
medico salutò Vittorino col sorriso sulle labbra, scese a tranquillizzare l’Antonia, le
lasciò la ricetta per la farmacia, le chiese di lasciar riposare tranquillamente il marito
e gentilmente si accomiatò.
Quel quartino di vino Vittorino lo vedeva già davanti agli occhi e lo pregustava e
lo assaporava inumidendosi in continuazione le labbra, come se lo stesse già
sorseggiando. Lui doveva assolutamente raggiungere il traguardo, ma come?... Il
tempo assegnato era ristretto, l’obiettivo arduo, il risultato incerto, ma
quest’occasione propizia non poteva assolutamente lasciarsela sfuggire, essendo
digiuno da parecchi giorni del prezioso liquido, grande consolazione dei poveri.
Non poteva avventurarsi per le solite scale perché la moglie, la zia o qualche loro
amica spia, l’avrebbero sicuramente colto in fallo, comunque ed in ogni caso lui
doveva assolutamente provarci usando tutta la sua arguzia ed abilità. Ma non
riusciva proprio a venirne a capo finché, involontariamente ma fortunatamente, la
soluzione gliela indicò proprio l’Antonia che era salita a tranquillizzarlo.
“Ul dutûr èl t’ha urdenaa i medesìnn. Adèss ghe doo la rizzéta a Ingiulètu, inscì
dumán matína quând èl va in del Vismara a laurà, èl passa deent in del spizziee e ‘l
mi je porta a cà. Tì per adèss stà lì bèll quiètt, stà quataa e te vedaree che te
guarísset a svêlt… Vaa, Viturìn, ufèndess minga neh, ma mì preferíssi sarà soeu la
porta a ciâf, inscì tì te requíett püssee bèn e mì soo püssee sicüra! Urmài l’è squasi
sira… Se te gh’hee de bisoeugn d’un quejcòss te píchet gió e mì vègni soeu sübet
e se pròpi te gh’hee quèjcòss de dìmm, te peu dervì l’üsell* là in cantùn, te me
ciámet e mì te sculti”!
“Il dottore ti ha prescritto le medicine. Adesso io do la ricetta ad Angioletto, così
domani mattina quando va alla Vismara a lavorare, entra dal farmacista e ce le
porta a casa. Tu per ora rimani lì tranquillo, stai coperto e vedrai che guarirai in
fretta… Guarda, Vittorino, non offenderti nevvero, ma io preferisco chiudere la porta
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a chiave, così tu riposi meglio e io sono più sicura! Ormai è quasi sera... Se hai
bisogno di qualcosa picchia sul pavimento e io salgo immediatamente e se hai
proprio qualcosa da dirmi, puoi aprire la botola là in angolo, mi chiami e io ti
ascolto”!
Detto e fatto, senza lasciare il benché minimo diritto di replica o di appello, un
paio di mandate affrettate e via a testa bassa, con la chiave nella tasca del suo
grembiule nero!
•
Nota - L’ “üsèll” era un’apertura quadrata o rettangolare, una botola, chiusa da un
coperchio di legno, che metteva in collegamento e in comunicazione due locali
sovrapposti evitando così di fare un lungo giro esterno. Era presente fra la camera
e la grande cucina sottostante, ma anche su alcuni fienili, con lo scopo di calare il
fieno direttamente nella mangiatoia o quantomeno nel portico della stalla.
Una via d’uscita c’era
Ora l’Antonia era tranquilla e per Vittorino non sembrava esserci più scampo, non
sembrava proprio ci fosse più alcuna via d’uscita… e invece no, anzi sì, una c’era
ed era piuttosto ardua, ma lui che aveva da perdere?... E allora all’improvviso
eccolo in piedi, in piena effervescenza, con i calzoni infilati sopra i mutandoni di
lana, la camicia sbottonata e il gilè sopra: toglie i due lenzuoli praticamente nuovi
dal letto e si contorce tutto, mordendosi la lingua, per poter fare un nodo resistente,
poi trova il modo di legare la lunga striscia all’asta di ferro che attraversa gli stipiti
della finestra e infine la lascia cadere all’esterno, sul retro della camera, per poter
verificare quanto manchi a terra.
Non vede bene, ma pare non manchi molto perché si tratta di un solo piano,
abbastanza basso e quindi può calarsi fra i campi, dove, complice la sera
imminente, nessuno lo vedrà!
La forza della disperazione da una parte e, dall’altra, la trepida speranza di una
buona riuscita lo rendono assolutamente euforico e incosciente: sale sulla sedia e
poi a fatica sul davanzale della finestra, s’aggrappa alla sbarra di ferro e poi alla
lunga striscia, si sporge all’esterno ed avverte immediatamente un gran giramento
di testa e lo assalgono all’improvviso anche le vertigini, la fiacchezza fisica e la
paura dell’altezza e quindi barcolla, trema tutto dal freddo, sente che la presa gli
sfugge, ma con un energico scossone, guardando verso l’alto, inizia una difficoltosa
discesa, che gli sembra lunga, infinita, quasi eterna e per sua fortuna le ante della
cucina sottostante sono già chiuse, così non possono vederlo ed il tessuto a cui è
aggrappato regge data la sua esigua figura.
Stremato, senza nemmeno stare a guardare, si butta infine fra le ortiche,
rotolando e urticandosi completamente le mani e il viso. Si rialza prontamente, una
veloce ripulitina e via quatto quatto verso il portone che lo conduce in corte e di lì,
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dopo aver attentamente spiato le mosse degli ultimi ritardatari, via veloce verso
l’osteria.
Al suo apparire improvviso, con i calzoni, le mani e la faccia tinti del verde delle
ortiche, ampia meraviglia e grande sorpresa da parte di tutti, soprattutto del medico
che, incredulo ed in verità anche pentito di aver lanciato la sfida, mantenne
pienamente fede alla sua promessa e poi si avviò scuotendo la testa e
raccomandando vivamente a Vittorino di recarsi subito a casa. Ma così non fu
perché i “cattivi” compagni non persero l’occasione per portarlo a piena ebollizione
e, come si sa, non ci volle molto in verità.
E quando la fredda notte era prontamente scesa a occupare il suo posto, lui,
stanco, tremante e malfermo sulle gambe, si incamminò sulla breve ma irta via del
ritorno, accompagnato per un breve tratto da un complice che poi lo stette a
guardare. Una pallida e malinconica luna lo osservava silente e lui ben sapeva che
invece lei l’aspettava a muso duro e si preparò mentalmente ad affrontare la cruda
realtà.
Adesso ti sistemo io!
La Tugnèta, infatti, lo sentì salire lentamente e affannosamente le scale, aprì
immediatamente le ostilità e riversò su di lui tutta la scarica della rabbia che aveva
in corpo e fu assolutamente irremovibile:
“Te me l’hee pròpi fada, o broeutt porcu, ma te se l’hee fada depertì, perchè
adèss te sistèmi mì, ciuchetùn d’un ciuchetùn!!! L’è minga ura de finíla?!... E
gh’heet minga vergúgna di geent o broeutt pelandrùn?... Gh’hoo vergúgna mì per
tì!”... - «Dèrva, Tugnèta, dèrva chéla porta lì per piesè, che stoo pròpi minga
bèn»… - “No, stavoeulta te dèrvi pròpi minga, se l’è per mì te peu crepà lì indè te
see… Te me l’hee fada trópa gróssa, o broeutt desgrazziaa d’un desgrazziaa!...
Adèss te stee lì de foeura tüta nòcc e inscì te impàret e te passa ánca la voeuja e
la cióca, datu che te see pièn ‘mè ‘n oeuf”!...
“Mi hai proprio ingannato, o brutto porco, ma in realtà ti sei ingannato da solo,
perché adesso ti sistemo io, ubriacone d’un ubriacone!!! Non è ora di finirla?!... E
non ti vergogni della gente o brutto pelandrone?... Mi vergogno io per te!”... - «Apri,
Antonia, apri quella porta per favore, che non mi sento per niente bene»… - “No,
stavolta non ti apro assolutamente, per quanto mi riguarda puoi crepare lì dove
sei… Me l’hai combinata troppo grossa, o brutto disgraziato d’un disgraziato!...
Adesso stai lì di fuori tutta notte e così impari e ti passa anche la voglia e la
sbornia, dato che sei pieno come un uovo!”....
Ma lui insisteva, alzava la voce e batteva forte alla porta, poi cambiava tattica e
supplicava dolcemente, sperando che lei, per non disturbare i vicini e non
vergognarsi poi di fronte a loro, alla fine gli aprisse. Ma così non avvenne: lei fu
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assolutamente irremovibile e lui era lì fuori, stanco e provato, al buio, a tremare
ancor più dal freddo per la febbre che aveva indosso.
Minacciò ripetutamente di gettarsi giù per le scale, ma niente da fare. Allora
smise all’improvviso di parlare e già lei all’interno cominciava a preoccuparsi che lui
stesse veramente male sia per il vino che per l’influenza. E Vittorino, ormai
rassegnato, si sedette sul gradino d’accesso alla camera e mentre pensava a come
passare quella lunga gelida notte, poggiò una mano su qualcosa che stava lì in
fianco, poi chinò la testa e vi ci si abbandonò e confusamente intuì che quello era il
mastello di legno (segiùn) usato per il bucato (la bügàda).
Pur non essendo del tutto lucido, il suo cervello cominciò a frullare, a rimuginare,
a macinare, mentre lei all’interno stava in piedi ad origliare per intuire le mosse di
lui, per percepire in qualche modo cosa stesse combinando.
All’improvviso Vittorino fece rotolare silenziosamente il mastello di legno fino ai
gradini delle scale, sostò un attimo, supplicò ancora una volta di poter entrare e di
fronte all’ennesimo energico rifiuto, diede una spinta al mastello che rotolò
fragorosamente giù per le scale, mentre lui era corso frettolosamente ad appiattirsi
contro la parete esterna della camera, a lato della porta.
La Tugnèta, sentendo quel gran baccano, aprì velocemente e corse fuori nel
buio, gridando con le mani nei capelli, verso l’imbocco delle scale:
“Viturìn, o Viturìn, s’heet cumbinaa, seet mai faa, seet faa maa?... O póra mì, me
dispiâs, me dispiâs debùn, te dumándi perdún… Ma indè seet casciaa induè?...
Respúndum, Viturìn, respúndum per piesè!”…
“Vittorino, o Vittorino, cos’hai combinato, cos’hai fatto, ti sei fatto male?... O
povera me, mi dispiace, mi dispiace veramente, ti chiedo perdono… Ma dove ti sei
cacciato?... Rispondimi, Vittorino, rispondimi per favore!”...
E mentre cominciava a scendere frettolosamente le scale, udì confusamente
sbattere una porta alle sue spalle e una voce eccitata ed acuta che diceva:
«Mì soo chì dedeent, Tugnèta e adèss sari soeu a ciâf, inscì mì foo una bèla
durmída e tì te stee lì de foeura tüta nòcc, al mè pòst, a barbelà del frècc. Heet
capii, Tugnèta?!... Un poo per oeun fa maa a nessoeun!»...
«Io sono qui dentro, Antonia e adesso chiudo a chiave, così io faccio una bella
dormita e tu stai lì di fuori tutta notte, al posto mio, a tremare dal freddo. Hai capito,
Antonia?!... Un po’ ciascuno non fa male a nessuno!»…
Passò alla storia…
E passò alla storia il fatto che Vittorino, uomo buono e mite, chiuse fuori, senza
alcuna pietà, la moglie per l’intera gelida notte e lei non ebbe nemmeno la
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possibilità di rifugiarsi in casa perché la chiave stava sul comodino, all’interno della
camera. Cercò allora di entrare nel granaio lì di fronte al pianerottolo, per ripararsi
in qualche modo; la porta era aperta ma una comprensibile grande paura di
quell’enorme spazio, suddiviso in tante paratie di cannucce di bambù, la fece
desistere! Trovò fortunatamente sulla soglia qualche sacco vuoto e una vecchia
coperta con cui, in qualche modo, ripararsi, ma la nottata, nonostante la sottoveste
di lana, fu lunga e terribile.
Lui, complice la sbornia, dormì profondamente per l’intera notte. Solo all’alba
ebbe un vago presentimento di una donna che piangeva sommessamente sul
pianerottolo e seppure a malincuore diede due mandate indietro alla chiave e la
Tugnèta entrò curva, umiliata e intirizzita, appena in tempo per non incrociare gli
sguardi ironici e compassionevoli di chi si stava già alzando e sarebbe passato
proprio di fronte a lei per scendere le scale!
Musi lunghi e assoluta astinenza dal vino accompagnarono gli interminabili e
mesti giorni successivi, ma le ripetute scuse del medico, che mai avrebbe
immaginato quel che sarebbe successo, il tenero affetto dell’anziana zia nei
confronti di ambedue e forsanche il discreto intervento del parroco (ul sciûr cürât),
uomo saggio che ben conosceva le miserie umane delle sue pecorelle, fecero
riattizzare il fuoco purificatore del perdono e prevalse ancora una volta, seppur
faticosamente, quell’amore che covava sempre pur sotto la cenere.
Fine parte prima
Angelo Galbusera
Rimoldo di Casatenovo, aprile 2014
Enrica – “Ghiazza” – 1882-1967 / Antonia Brivio 1913-1988
Nota: Tutti i diritti sono interamente riservati a Sentieri e Cascine e all’autore.
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Viturin 1 - Sentieri e Cascine