PARI OPPORTUNITÀ
AZIENDA ULSS 20
PREVENZIONE E CONTRASTO DELLE
MUTILAZIONI GENITALI FEMMINILI
Atti
del Corso di Formazione e del lavoro con le Comunità
realizzato nel territorio dell’ULSS 20 nell’anno 2012
In collaborazione con
Responsabile del Progetto
Dott.ssa Maria Scudellari DIRETTORE UOC AREA FAMIGLIA – ULSS 20
Comitato scientifico e organizzativo
Cinzia Albertini, Cristina Barbieri, Gigliola Bronzato,
Anna Franzon, Maria Scudellari, Nadia Urli
Gli atti sono a cura di Anna Franzon, Cristina Barbieri, Maria Scudellari
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PREMESSA
Negli ultimi anni, a seguito dell’aumento dei flussi migratori, il nostro territorio ha accolto un
grande numero di uomini e di donne, molti di loro provengono dai paesi africani. Si è posta quindi la
necessità di affrontare la salute di questa nuova popolazione, sia dal punto di vista della prevenzione che
della cura. Queste popolazioni, portatrici di culture e tradizioni proprie ci hanno sollecitati ad affrontare
problematiche nuove, in un’ottica di integrazione.
La pratica delle mutilazioni dei genitali femminili, costituisce una di queste problematiche, di
importanza tale da aver spinto anche il legislatore ad intervenire attraverso una legge specifica e
l’emanazione di linee guida per gli operatori sociali e sanitari.
L’avvicinamento a tale tipo di problematica, per le implicazioni e la complessità che essa
comporta, richiede di potenziare il lavoro multiprofessionale nelle strutture territoriali coinvolte nei
percorsi materno - infantili (corsi di accompagnamento alla nascita, Consultori Familiari, ostetricie e
pediatrie ospedaliere) e di favorire il coinvolgimento delle Comunità immigrate, anche attraverso
l’utilizzo dell’importante strumento della mediazione linguistico culturale.
L’accessibilità e la possibilità di fruizione dei servizi rappresentano per i nuovi arrivati l’
espressione della piena appartenenza alla società civile di accoglienza.
Questa pubblicazione, che raccoglie tutte le attività che l’ ULSS 20 di Verona insieme al Comune
di Verona e all’Azienda Ospedaliera Universitaria Integrata, ha realizzato durante l’anno 2012 per la
prevenzione e il contrasto delle mutilazioni dei genitali femminili, ha il merito di riportare i contributi
teorici proposti dai relatori intervenuti, tutti di altissimo livello, ma anche, e vorrei dire soprattutto, di
testimoniare il lavoro capillare fatto con le Comunità straniere presenti a Verona.
Infatti, perché la formazione dei professionisti possa avere una ricaduta operativa, è necessario
che, accanto al sapere, si tenga presente la cura delle relazioni, specialmente su tematiche tanto
complesse, non solo dal punto di vista strettamente sanitario, ma anche da quello delle tradizioni e della
cultura.
Scopo del presente lavoro è quello di sensibilizzare il mondo della sanità sulla problematica legata
alle mutilazioni dei genitali femminili e di fornire materiale formativo utile alle professioni che lavorano a
diretto contatto con bambine e donne immigrate.
IL DIRETTORE GENERALE AZIENDA ULSS 20
Dott.ssa M. Giuseppina Bonavina
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INDICE
INTRODUZIONE
Dott.ssa C. Bovo
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LE MUTILAZIONI GENITALI FEMMINILI: LA COMPLESSITÀ COME OCCASIONE DI CRESCITA
Dott. S. Caffi
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LA CORNICE ISTITUZIONALE E I SERVIZI
Dott.ssa M. Scudellari, Dott.ssa M.V. Nesoti
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TRADIZIONE E CAMBIAMENTO NEL COMUNE DI VERONA TRA PROGETTI E SERVIZI
Dott.ssa C. Albertini
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PROSPETTIVE TRANSCULTURALI NELLA FORMAZIONE DI BASE E PERMANENTE DEI
LAUREATI IN OSTETRICIA
Dott.ssa N. Urli, Dott.ssa F. Gaudino, Dott.ssa R.I. Riolfi
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IL PROGETTO FORMATIVO
Dott.ssa C. Barbieri
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PARTE PRIMA. IL CORSO DI FORMAZIONE
MGF E DIRITTI UMANI.
Cristiana Scoppa
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MGF: LEGISLAZIONE NAZIONALE E INTERNAZIONALE, FENOMENO E AZIONI DI CONTRASTO
Natalina Folla
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MGF: PRATICHE E ASPETTI SANITARI.
Lucrezia Catania
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L’ESPERIENZA PERSONALE DI DONNA SOMALA.
Lul Osman
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IL FENOMENO DELLE MGF IN RELAZIONE ALL’IDENTITÀ DI GENERE E ALLA SESSUALITÀ
NEL CONTESTO MIGRATORIO.
Pina Deiana
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LA RICERCA SULLE MGF: ALCUNE QUESTIONI DAL CAMPO
Federica De Cordova
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MGF E COMPETENZE DI COMUNICAZIONE E COUNSELLING: ASPETTI INFORMATIVI, EDUCATIVI,
DI NEGOZIAZIONE E SOSTEGNO
Silvana Quadrino
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MATERNITÀ E DONNA MIGRANTE
Marie Rose Moro
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LA MEDIAZIONE LINGUISTICO CULTURALE NEI SERVIZI SANITARI
Mara Fasoli
Safietou Sakho
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MGF: L’ASPETTO CHIRURGICO E RIABILITATIVO
Omar Abdulcadir
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PARTE SECONDA. IL LAVORO CON LE COMUNITÀ
CORPO E SALUTE DELLE DONNE TRA TRADIZIONE E CAMBIAMENTO
Associazione “Terra dei Popoli”
DIALOGO, SENSIBILIZZAZIONE E PREVENZIONE DEL DISAGIO SUI TEMI LEGATI
ALLA SESSUALITÀ ATTRAVERSO CORSI DI LINGUA ITALIANA
Nigerian Woman Association
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96
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PARTE TERZA. INCONTRO PUBBLICO
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Saluti delle autorità
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MGF. Legge n° 7/2006: dalla formazione al lavoro sul campo
127
“Guardare ed essere viste”. Parole di donne, parole di salute
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La salute delle donne straniere e le comunità di migranti. Un impegno condiviso
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Nuove progettualità per la promozione della salute: la cura attraverso la prevenzione
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LE LINEE GUIDA MINISTERIALI POSSONO ESSERE SCARICATE DAL SITO
http://www.salute.gov.it/saluteDonna
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INTRODUZIONE
La tematica trattata in questo corso, le mutilazioni genitali femminili, è un argomento che negli
ultimi anni ha fortemente richiamato l’interesse delle più grandi organizzazioni internazionali per i diritti
umani e della stessa Organizzazione Mondiale della Sanità.
Un po’ in tutto il mondo si sta conducendo una forte opera di sensibilizzazione alla popolazione e
agli operatori socio-sanitari e culturali. Questo perché le importanti correnti migratorie frutto della
globalizzazione portano tutti noi a confrontarci con culture e tradizioni diverse, le cui usanze hanno radici
profonde che non sempre trovano comprensione.
Il corso, i cui atti sono raccolti in questo manuale, nasce sia per una precisa indicazione normativa,
che vuole rispondere alle esigenze di chi si trova ad assistere in prima linea queste donne, sia ad un
grande sforzo organizzativo che ha visto coinvolti diversi enti e servizi dell’Azienda ULSS 20 di Verona,
incluso l’area della mediazione culturale ed il privato sociale.
La formazione del personale che opera in ambito socio-sanitario infatti
è una delle azioni
prioritarie previste dalla Legge 9 gennaio 2006, n.7 recante “Disposizione concernenti il divieto delle
pratiche di mutilazione genitale femminile” e di seguito dal Decreto 17 dicembre 2007 del Ministero della
salute che ha definito l’adozione di Linee guida destinate alle figure professionali sanitarie, nonché ad
altre figure professionali che operano con le comunità di immigrati, per la realizzazione di attività di
prevenzione, assistenza e riabilitazione delle donne e delle bambine affinché possano affrontare
correttamente queste problematiche nell’esercizio della loro professione, assistere e riabilitare le donne
che ne sono state vittime e prevenirne il ricorso.
Affermare la propria cultura come imperativo culturale civile e democratico a discapito di
tradizioni altre, può portare a giudizi e comportamenti inappropriati. Al contrario, conoscere il significato
delle tradizioni ci obbliga a confrontarci su vari livelli con le differenze culturali e rituali, e tramite gli
strumenti della mediazione culturale la conoscenza che il corso ha permesso di acquisire si trasformerà in
strumento di prevenzione, assistenza e sostegno per le donne che hanno subito o rischiano di subire
un’inaccettabile abuso contro la propria libertà, autodeterminazione e dignità.
I Paesi in cui le mutilazioni costituiscono ancora pratica corrente, si sono già mossi in questo
senso, ma è importante che anche i cittadini di Paesi come l’Italia dove la salute è un diritto
costituzionalmente garantito facciano rete per un convinto sostegno alla formazione, ai diritti umani ed
alla valorizzazione della dignità della persona.
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L’aspetto peculiare che caratterizza questa raccolta di atti del corso di formazione è che essi
offrono le diverse prospettive di chi con le donne che hanno subito mutilazioni genitali si confronta e ci
convive o di chi le ha subite. Tale molteplicità di punti di vista permette di dare risposte concrete e
esaustive ai dubbi di varia origine (sociale, legale, culturale, epidemiologico, religioso) che vanno
assolutamente risolti, perchè non devono ostacolare la lotta ad un fenomeno che configura uno dei delitti
più abietti: la negazione della libertà dell’essere umano.
IL DIRETTORE SANITARIO AZIENDA ULSS 20
Dott.ssa Chiara Bovo
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MUTILAZIONI GENITALI FEMMINILI:
LA COMPLESSITA’ COME OCCASIONE DI CRESCITA
La consapevolezza della presenza anche nel nostro paese di donne che hanno subito pratiche di
mutilazione genitale femminile (MGF) si è avuta nel corso dei primi anni ’90, quando le donne straniere
sono entrate in contatto con i servizi sanitari soprattutto per l’assistenza alla gravidanza e al parto, ma
anche per il trattamento di patologie legate alla diffusione di queste pratiche, che l’immigrazione e lo
sviluppo dei processi di integrazione hanno fatto conoscere anche all’Europa e all’Italia, e con le quali
anche queste aree del mondo hanno cominciato a confrontarsi.
Molto presto si è compreso come questo tema, nei suoi diversi aspetti sanitari, psicosociali,
antropologici e dell’identità di genere, ma anche giuridici e dei diritti umani, fosse identificato da parole
chiave come “complessità” e “reti collaborative”, senza dimenticare parole altrettanto importanti quali
“conoscenza”, “relazione”, “dialogo”, e dovesse necessariamente prevedere l’utilizzo di strumenti
adeguati per essere affrontato: dalla mediazione culturale, ai percorsi integrati, alla formazione.
Le Linee Guida emanate dal Ministero della Salute hanno rappresentato un passaggio importante,
utile per attivare sul territorio iniziative orientate alla formazione del personale sanitario per la
prevenzione delle MGF, e un invito al Sistema Sanitario perché adegui le proprie conoscenze e le proprie
modalità di cura a una realtà in continuo cambiamento, anche nei bisogni di salute.
Il valore della formazione in merito a queste tematiche, preziosa opportunità di riflessione e
occasione di crescita professionale e personale, è stato inserito nel corso di laurea in Ostetricia
dell’Università di Verona, recepito dalle Unità Operative dell’Azienda Ospedaliera Universitaria Integrata
che da tempo si avvalgono della collaborazione di mediatrici linguistico-culturali formate, fatto proprio
dai professionisti della salute che hanno condiviso l’esperienza di questo corso.
Complessità, formazione, ma soprattutto collaborazione tra istituzioni, tra ospedale e territorio, tra
operatori, associazioni e comunità: collaborazione che anche il tavolo di lavoro che si è andato costruendo
insieme al progetto ha potuto utilmente sperimentare.
IL DIRETTORE GENERALE
DELL'AZIENDA OSPEDALIERA UNIVERSITARIA INTEGRATA VERONA
Dott. Sandro Caffi
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LA CORNICE ISTITUZIONALE E I SERVIZI
Dott.ssa M. Scudellari 1, Dott.ssa M.V. Nesoti 2
Con L. n. 7 del 9 gennaio 2006, il Ministero della Salute ha provveduto ad emanare le
“Disposizioni concernenti la prevenzione ed divieto delle pratiche di mutilazione genitale femminile”.
Sono state quindi predisposte le “Linee Guida Ministeriali” destinate alle figure professionali sanitarie
nonché ad altre figure professionali.
In attuazione della Normativa Nazionale la Regione Veneto si è attivata istituendo, con il Decreto n. 116
del 14 agosto 2009, un Gruppo di Lavoro e Coordinamento attività per l’applicazione delle Linee Guida
Nazionali e successivamente con la DGR n. 4317 del 29 dicembre 2009 è stato formalizzato il
programma di formazione regionale per operatori socio-sanitari sulle pratiche di mutilazione genitali
femminili.
A tale formazione hanno partecipato figure professionali sia della nostra ULSS che dell’Azienda
Ospedaliera Universitaria Integrata. La Partecipazione al Corso ha rappresentato, per il nostro territorio,
la possibilità di prendere contatto con questa problematica, nelle sue diverse sfaccettature: medica,
psicologica, sociale, giuridica, antropologica, e con particolare attenzione ai diritti umani, all’identità di
genere, alla salute e alle normative di riferimento nonché agli strumenti
a disposizione degli operatori per contrastare tali pratiche.
Alle Aziende Ulss, è poi stato affidato il compito di presentare un progetto per la ricaduta territoriale
della formazione, per la diffusione delle linee-guida e per la realizzazione di interventi educativi, di
contrasto e di presa in carico, sia sanitaria che sociale , dirette ai gruppi etnici interessati.
L’Ulss20 ha presentato un progetto, che è stato approvato dalla Regione Veneto con DGR n. 571184 del
2/11/2010. Il Progetto ha previsto:
• la realizzazione del Piano Formativo Territoriale, mediante l’organizzazione di un Corso di
Formazione diretto ad operatori dell’Azienda ULSS, dell’A.O.U.I., del Comune di Verona
(Politiche dell’accoglienza), del Privato Sociale. Tale programma formativo si è concluso con un
Convegno aperto al mondo della sanità e della migrazione.
• La realizzazione di attività di prevenzione, sensibilizzazione, assistenza e riabilitazione delle
donne e delle bambine sottoposte alle pratiche di MGF.
La scelta di affidare il compito del coordinamento territoriale ai Consultori Familiari è stata certamente
motivata dal fatto che da sempre, i Consultori, si occupano della salute delle donne e, da quando il
fenomeno migratorio si è accentuato, hanno creato spazi dedicati per le donne e le famiglie straniere,
facilitandone l’accesso, in un’ottica di continuità assistenziale con gli ospedali, di sinergia e coprogettazione, assieme alle altre istituzioni del territorio, con particolare attenzione alle disuguaglianze di
salute, all’accesso ai servizi, ecc.
I Consultori si occupano di salute delle donne, e riteniamo sia basilare partire dalla donna per parlare,
poi, della salute di tutti: le donne da sempre, in tutti i luoghi della terra, sono portatrici di salute: è la
donna che si occupa della salute dei bambini, degli anziani, degli uomini. In tutte le società ha la funzione
sociale di curare i corpi, attraverso pratiche e saperi tramandati di generazione in generazione. Quanto più
la donna quindi è coinvolta nelle proposte di salute che provengono dalle istituzioni, tanto più si farà
promotrice di salute all’interno della famiglia, del gruppo sociale, dell’ambiente di vita.
La ricaduta territoriale è stata progettata all’interno di un tavolo di lavoro, dove sono state presenti, fin
dall’inizio, le diverse istituzioni: Azienda ULSS 20, Comune di Verona, Assessorato alle Pari opportunità
e alla cultura delle differenze, Azienda Ospedaliera Universitaria Integrata, Associazioni del privato
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Responsabile UOC Area Famiglia - ULSS 20 Verona
Dirigente Medico di Direzione Sanitaria - ULSS 20 Verona
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sociale in rappresentanza delle donne coinvolte: Terra dei Popoli, Nigerian Woman Association, Azalea
Cooperativa Sociale.
Coralità di voci, che tengono conto delle necessità dei diversi attori. Un progetto di prevenzione e
contrasto, in un ambito così delicato e particolare, ha efficacia se non è qualcosa che l’istituzione fa per
un gruppo di persone, ma qualcosa che si progetta insieme.
Il mondo della sanità, nell’incontro con altre culture, ha la necessità di possedere nuovi strumenti per
essere efficace nel promuovere salute. La Mediazione culturale ha certamente costruito dei ponti fra
culture, ma a questo occorre aggiungere, quando ci si occupa di argomenti molto coinvolgenti a livello
emotivo, la necessità per gli operatori socio-sanitari di fermarsi a comprendere, in una posizione di
ascolto e di riflessione.
La tematica delle Mutilazioni Genitali femminili è una tematica molto particolare, che richiama alla
nostra mente qualcosa di culturalmente molto lontano. Questa usanza è una convenzione sociale con
radici profonde: praticarla conferisce status sociale e rispetto alle bambine e alle loro famiglie. Non
effettuare la MGF, invece, è motivo di vergogna ed esclusione. Capire come e perché la E/MGF continui
ad esistere è essenziale per impostare delle strategie che abbiano maggiori probabilità di condurre
all’abbandono della pratica.
Il lavoro di formazione ha posto le fondamenta, per tutti, per la comprensione delle ragioni profonde che
sono alla base del fenomeno, affinchè l’approccio preventivo possa essere realizzato con una strategia
efficace. Ma ancor più, il lavoro con le donne stesse, all’interno delle comunità, e con gli uomini, ci ha
dato la misura di quanto sia possibile trovare spazi e modalità nuove perché il valore della salute sia
condivisibile e universale.
Molto importante è il sapere che i paesi stessi, nei quali questa usanza è diffusa, si stanno attrezzando, con
leggi e programmi di prevenzione ed educazione sanitaria, per il contrasto del fenomeno. Questo ci fa
capire come il rispetto dell’integrità del corpo della donna sia un valore sovraculturale.
Al termine di questo lungo ed impegnativo lavoro, possiamo dire con certezza che abbiamo capito che la
competenza in questo campo deve essere una competenza di tutti, di tutti noi che incontriamo le donne
straniere nei momenti importanti della loro vita, la gravidanza, la nascita di una bambina, le visite
pediatriche, i bilanci di salute, i momenti di dialogo e di aggregazione.
La competenza e la possibilità di intervenire è una competenza “diffusa , nel senso che tutti noi,
nell’incontrare le madri, i padri, le coppie, dobbiamo cogliere l’occasione per introdurre la possibilità di
dialogo su questa tematica. Usiamo il termine dialogo perché questa, come altre tematiche che
riguardano abitudini profondamente radicate nella cultura delle persone tanto da far parte dell’identità
delle persone stesse, vanno affrontate attraverso il dialogo in un clima di profondo rispetto e di scambio.
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TRADIZIONE E CAMBIAMENTO NEL COMUNE DI VERONA
TRA PROGETTI E SERVIZI
Dott.ssa C. Albertini 3
Il Comune di Verona attraverso l’Assessorato alle Pari Opportunità ha colto l’invito dell’ ULSS
20 ad essere presente come partner in questo progetto con molto interesse, in quanto il tema delle
“mutilazioni genitali femminili” (MGF) rappresenta uno degli aspetti più complessi all’ interno dello
scenario della multiculturalità . In questi anni si è lavorato molto su problematiche che riguardano i
cittadini stranieri e noi, come Amministrazione comunale, ci siamo impegnati e ci stiamo tuttora
impegnando su progettualità volte ad ampliare la capacità di integrazione del territorio veronese, inteso
come soggetto portatore di bisogni ma anche come referente di Servizi, disponibili a mettersi in ascolto
per poter accogliere i nuovi cittadini provenienti da altre culture, condividendo problematiche, attivando
risorse e, se necessario, individuando risposte adeguate . Già dalla fine degli anni ’90, grazie ad un
finanziamento della Legge 285/97, sono stati messi in campo percorsi mirati alla formazione di mediatori
culturali stranieri, in collaborazione con l’ Università degli Studi di Verona, che ci hanno permesso di
preparare un numeroso gruppo di professionisti su cui contare anche per la realizzazione di grossi Progetti
di durata spesso pluriennale quali : “ La lingua come strumento di scambio tra culture diverse”, “ Cantieri
di Integrazione – programma di integrazione sociale e scolastica rivolto a cittadini comunitari ed
extracomunitari” e la partecipazione al Fondo Europeo per l’integrazione di cittadini dei Paesi terzi.
Tra i Servizi attivati in particolare il Centro Interculturale Comunale “Casa di Ramia”, a cui fanno
riferimento quasi tutte le comunità straniere presenti a Verona, oltre a numerosi gruppi e associazioni
provenienti da Paesi diversi, con cui vengono promosse iniziative e organizzate attività volte a sostenere
il difficile processo di convivenza civile e di integrazione.
Casa di Ramia è un luogo d’incontro di donne migranti e italiane, presente a Verona dal 2004 e collabora
attivamente con diverse realtà, in particolare con: Ishtar, Nigerian Women Association, Semi di Culture,
Gore Onesta, Malve di Ucraina, Thapoda, Kajarare, Poesie dal mondo, Chiaroscuro, Le Ninfee, Stella,
Donne del Ghana. E’ inserita a Veronetta, il quartiere con la più alta percentuale di residenti immigrati .
Ramia è una pianta da cui si ricava una fibra tessile, infatti questo nome “Casa di Ramia” proprio per
privilegiare la capacità delle donne di tessere relazioni, intrecciare legami, trasmettere la cultura di origine
e al tempo stesso di aprirsi al nuovo.
Casa di Ramia si pone come uno spazio aperto all’ascolto delle donne per costruire qualcosa insieme o
entrare in contatto con altri luoghi della città che possano rispondere a bisogni diversi. Offre, inoltre, dei
servizi di base come l’apprendimento della lingua italiana, uno sportello di orientamento al lavoro,
progetti di scambio sui saperi manuali, appoggio allo studio per i ragazzi delle scuole medie e superiori.
L’Assessorato alle Pari Opportunità ha partecipato quindi al Progetto MGF fin dalla fase di costruzione
per proseguire poi nella fase di formazione e approfondimento partendo da un’altra esperienza portata
proprio all’interno di Casa di Ramia dall’associazione NWA dal titolo: “Prevenzione del disagio e
informazione sui temi legati alla sessualità attraverso corsi di lingua italiana rivolti a donne provenienti
dall’Africa sub-sahariana”.
Queste diverse esperienze e l’incontro quotidiano con donne di culture altre, ci fanno capire che ci
troviamo davanti ad un pluralismo in cui esistono alcune norme non scritte provenienti dalla tradizione, in
diretta opposizione con le norme legali. Ecco perché occorre una grande delicatezza nell’affrontare e
giudicare tale usanza.
Le MGF, sono pratiche tribali, oltretutto molto diverse per entità da un luogo all’altro. Nelle popolazioni
che le praticano ciò che domina è la convinzione di un obbligo sociale vincolante e radicato, cui è quasi
3
Dirigente Pari Opportunità e Cultura delle Differenze – Comune di Verona
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impossibile sottrarsi. E’ un fenomeno che interessa circa 140 milioni di donne, 2 milioni l'anno, e ha
origine in almeno 28 Paesi africani, in alcuni Paesi asiatici e in Medio Oriente; oggi è presente ovunque a
seguito dei processi migratori, secondo le cifre fornite dall'OMS e dal Fondo delle Nazioni Unite per la
popolazione.
Abbiamo visto che la prima generazione di migranti sente spesso come imprescindibile la necessità di
mantenere i propri usi e le proprie tradizioni, tra i quali anche queste, nonostante il fatto che moltissimi
Paesi africani interessati dal fenomeno si siano da tempo dotati di leggi che condannano più o meno
duramente le pratiche più invasive.
Non c'è mai stato un accordo generalizzato su come intervenire sulla prevenzione, la quale risulta
fondamentale dal momento che appare lampante come una semplice legge non sia sufficiente. Si può
portare come esempio l'Egitto, primo Paese africano ad aver introdotto una legge di condanna alle MGF
ma che vede il 95,8% delle donne interessate dal fenomeno.
Anche in Italia oggi il fenomeno è conosciuto, grazie ai flussi migratori che hanno interessato il Paese
negli ultimi 30 anni, introducendo costumi, tradizioni e comportamenti prima inesistenti.
Per rispondere al fenomeno l'Italia, oltre alla doverosa preparazione ed istruzione del personale sociosanitario che per primo si trova a doversi rapportare con le donne migranti, ha approvato una legge,
fortemente voluta trasversalmente dalle donne di tutti i partiti politici.
La legge 7/2006 cerca di conciliare prevenzione, repressione e protezione delle vittime, facendo proprio
quindi il paradigma dei Diritti Umani pur con numerose riserve, e va ad integrare il codice penale con un
apparato sanzionatorio molto severo.
Gli aspetti più innovativi della legge sono in primis il tentativo di sensibilizzare le comunità migranti
coinvolte e poi la cooperazione tra Ministero delle Pari Opportunità, Ministero degli Esteri, Ministero
della Salute e Ministero degli Interni, ad indicare la complessità del fenomeno, che non può essere ridotto
ad una sola dimensione. Anche in Italia così come nei Paesi d'origine, non è sufficiente una legge, ma è
necessario un intervento molto più ampio.
Per questo credo che la formazione e il lavoro di scambio e confronto fatto con le comunità straniere in
questi mesi, sia stato un importante momento di informazione, riflessione e crescita per tutti gli operatori
e i soggetti coinvolti.
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PROSPETTIVE TRANSCULTURALI NELLA FORMAZIONE DI BASE E
PERMANENTE DEI LAUREATI IN OSTETRICIA
Dott.ssa N. Urli 4, Dott.ssa F. Gaudino 5, Dott.ssa R.I. Riolfi 6
Le mutilazioni genitali femminili (MGF) sono uno degli argomenti del vasto tema dell’assistenza
transculturale che la laurea triennale in Ostetricia dell’Università di Verona propone dall’anno
accademico 2006-2007. Il piano di studi, in anticipo su quasi tutte le lauree in Infermieristica e in
Ostetricia, ha inserito gli insegnamenti di Infermieristica Generale e Transculturaleal primo annoequello
di Ostetricia Transculturale al terzo.
Il programma del primo modulo si concentra sui quadri teorici di riferimento dei modelli assistenziali, in
particolare del caring, che comprende anche la visione antropologica di Leininger. L’autrice della teoria
dell’assistenza culturale si colloca a pieno titolo nella filosofia del care ed è noto a pochi che questo
modello della metà del 1950 è in assoluto la prima teoria infermieristica. A partire dal presupposto che le
persone hanno diritto alla migliore assistenza possibile, nel rispetto della loro individualità, nonché
fortemente ancorata alla propria preparazione antropologica e psichiatrica, Leininger elabora la teoria
incentrata sull’influenza del contesto culturale sul significato/valore di salute e la sua gestione. La ricerca
delle similitudini e delle caratteristiche peculiari in tema di salute, malattia, cura e assistenza nelle diverse
culture promuove il campo di ricerca del nursing transculturale. Nei paesi anglosassoni, Inghilterra, Stati
Uniti e Australia, in cui ha avuto origine, è diventato nel tempo un percorso curricolare, raggiungendo il
massimo sviluppo. Attualmente i gruppi di lavoro della Transcultural Nursing Societydi Leininger sono
diffusi in tutto il mondo.
Nella formazione di base dei laureati in Ostetricia questo insegnamento risponde alla finalità di favorire
un approccio assistenziale alla persona considerata nella sua unità e in relazione con il tutto. In questa
prospettiva è determinante l’influenza di molteplici variabili e in particolar modo di quella culturale. Si
predispongono le condizioni necessarie per lo sviluppo di quella sensibilità che consente all’operatore di
interpretare l’assistenza con lo sguardo attento alla totalità e complessità della persona e dei fenomeni
trattati, uscendo così dagli stereotipi culturali e dall’etnocentrismo, e contemporaneamente
l’apprendimento di alcuni elementi metodologici utili all’approccio culturale.
Tale sapere è considerato propedeutico, e pertanto necessario, al tirocinio e all’acquisizione delle
competenze richieste al futuro professionista.
La teoria di Leininger costituisce anche uno dei quadri teorici per l’insegnamento della metodologia
clinica. Rappresenta la guida per l’accertamento infermieristico/ostetrico, attraverso la ricerca,
classificazione e interpretazione dei dati secondo appositi metodi e strumenti in parte propri
dell’etnografia e in parte del nursing, e per il progetto assistenziale declinato sulle tre modalità
identificate di conservazione, negoziazione e ristrutturazione dell’assistenza culturale.
Inoltre, il corso propone i risultati di alcune ricerche in campo transculturale sia di interesse generale,
come l’assistenza ai pazienti oncologici, sia di carattere specifico nel caso della gravidanza e del parto
nelle donne ucraine.
Il modulo di Ostetricia Transculturale approfondisce in particolare i temi dell’assistenza specifica alla
gravidanza, parto e puerperio in rapporto alle etnie e culture maggiormente presenti sul territorio
nazionale. Propone un modello di preparazione alla nascita secondo la clinica tranculturale di Moro,
4
Coordinatrice del corso di laurea in Ostetricia e docente di Counselling ostetrico-ginecologico. AOUI-Verona
Docente di Ostetricia Clinica e di Metodologia della ricerca Ostetrica, Tutor. AOUI-Verona
6
Docente di Fondamenti di Infermieristica Generale e Metodologia Applicata, già Infermieristica Generale e Transculturale,
Tutor . AOUI-Verona
5
14
alcuni aspetti della sessualità e problematiche ginecologiche specifichepresenti in alcuni gruppi culturali
come le mutilazioni genitali femminili.
Nel 2006 la collaborazione del Corso di Laurea in Ostetricia dell’Università di Verona con quella di
Modena e Reggio Emilia per il Master Transculturale nel campo della Salute, del Sociale e del Welfare,
diretto da Bruno Ciancio e oggi all’VIII edizione, vede anche la nascita dell’Associazione Nazionale
Infermieri e Ostetriche Transculturali(ANIOT) con sede a Verona.
L’intensa attività del gruppo di lavoro neinumerosi seminari e corsi di Educazione Continua in Medicina,
per l’Azienda Ospedaliera Universitaria Integrata di Verona e altre Ulss della Regione Veneto, prosegue
con la collaborazione di Natale Filippidel Dipartimento di Filosofia, Pedagogia e Psicologia
dell’Università di Verona, Carlo Melegari Direttore del Centro Studi Immigrazione (CESTIM), Salvatore
Geraci della Società Italiana di Medicina delle Migrazioni, Sabina Dal Verme dell’Università Statale di
Milano e della Cooperativa Crinali e Raffaella Mezzetti dell’ASL di Bologna.
Suggerimenti bibliografici
Cattaneo M.L., Dal Verme S., Donne e
genere.Unicopli, Milano 2005.
madri nella migrazione. Prospettive transculturali e di
Cattaneo M.L., Dal verme S., Terapia transculturale per le famiglie migranti. Franco Angeli, Milano
2009.
Leininger M., Universalità e diversità dell’asistenza culturale. Ed. ital. a cura di Riolfi R., Piccin, Padova
2005.
Moro M.R., Bambini di qui venuti da altrove. FrancoAngeli, Milano 2005.
Moro M.R., Far nascere in esilio. Clinica del diverso e della finitudinein Scabini E., Rossi G. (acura di)
La migrazione come evento familiare in “Studi Interdisciplinari sulla famiglia”, n. 23, 2008, pp 107-122.
SitiInternet
www. clinicque-transculturelle.org
www.tcns.org
www.cestim.it
http://www.unimore.it/didattica/master.htlm?ID0106
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IL PROGETTO FORMATIVO
Dott.ssa C. Barbieri 7
La scelta della Regione Veneto di affidare all’ULSS 20, a fronte di un finanziamento importante,
la costruzione di un progetto per la sensibilizzazione e la formazione degli operatori sulla legge 7 del
2006, relativa alle pratiche di mutilazione genitale femminile (MGF) e sulle linee guida ministeriali, è
stata una grande occasione di crescita professionale e umana.
E’ stata da subito sentita, da parte della Responsabile del progetto, d.ssa Maria Scudellari, l’esigenza di
costituire un tavolo di lavoro progettuale che mettesse insieme operatori di professionalità diverse, con
ruoli diversi, di diverse appartenenze istituzionali: l’ULSS20, l’Azienda Ospedaliera Universitaria
Integrata, il Comune di Verona, Associazioni di mediazione linguistico culturale, rappresentanti di
Comunità straniere residenti sul nostro territorio. Il tavolo è stato costituito alla fine del 2010.
L’obiettivo condiviso, e ambizioso, era di declinare il percorso formativo che eravamo chiamati a
progettare in modo che, a partire dal tema delle MGF, si potesse perseguire l’obiettivo più ampio di una
presa in carico più competente della salute sessuale e riproduttiva delle donne che provengono da altri
paesi del mondo e da altre culture. Si trattava della progettazione di un intervento che nasceva in assenza
di una domanda specifica dell’utenza e che quindi avrebbe richiesto agli operatori e all’Istituzione di
mettere in campo, fin dalla fase progettuale, una capacità di ascolto attento e competente.
Il tavolo progettuale, pensato all’inizio solo come luogo organizzativo di eventi, ha assunto una funzione
importante di confronto, sollecitato proprio dal compito sul quale si era costituito: da subito infatti è
risultata evidente la complessità e la portata dei temi che ci accingevamo a trattare, perché sollecitavano
aspetti culturali legati a vissuti emotivi e identitari profondi.
Gli incontri infatti hanno assunto via via anche una funzione di laboratorio gruppale, che ha consentito
agli operatori impegnati nella programmazione, di sperimentare, lì e allora, gli aspetti emotivi e la
complessità del confronto e dell’ascolto: un ascolto che avrebbe dovuto portare con sé, insieme al
desiderio di capire, anche la capacità, talvolta, di tollerare di ascoltare senza capire. Riconoscere le
differenze e interrogarsi su appartenenze e valori diversi, infatti, rimette in gioco la definizione di sé e i
propri confini identitari, con il rischio implicito di sollecitare chiusure difensive. Il primo livello di
sperimentazione e di confronto è stato quindi quello avvenuto attorno al tavolo progettuale: tra operatrici
diverse, con ruoli diversi, di diversa provenienza istituzionale, ma anche di diversa formazione
professionale e culturale, impegnate a confrontarsi tra loro sul tema delle MGF: premessa indispensabile
per poter arrivare alla costruzione di un progetto formativo comune.
Il ‘passare attraverso’, la possibilità di sperimentare in vivo la complessità che il tema delle MGF portava
con sé e le risonanze emotive che il confronto tra noi sollecitava, ha orientato verso un percorso che non
fosse solo cognitivo.
Nell’ottica di coniugare l’aspetto cognitivo e quello emotivo, il progetto formativo si è quindi tradotto
organizzativamente in due filoni paralleli che in parte si sono intrecciati.
Uno, che è partito per primo in ordine di tempo, è stato finalizzato ad aprire la comunicazione e il
confronto con le Comunità e le Associazioni di donne che vivono a Verona e provengono da zone in cui è
attiva la pratica delle MGF, specialmente dall’Africa. E’ stato a questo fine prezioso l’apporto delle
mediatrici linguistico culturali (m.l.c.), in particolare le operatrici dell’Associazione Terra dei Popoli, che
da anni collaborano con i Servizi del nostro Territorio. La prima, delicata, fase di questo lavoro, gestita
da loro, è stata di cura dei legami con le Comunità di immmigrati, che ha reso poi possibili gli incontri
successivi con le donne delle stesse Comunità.
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Psicologa – psicoterapeuta, Consultori Familiari – ULSS 20, Referente del Progetto Formativo “MGF”
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Parallelamente un’altra Associazione, la NWA (Nigerian Women Association), avviava un percorso di
sensibilizzazione sul tema della sessualità e delle MGF attraverso la promozione e la realizzazione di un
corso di italiano per donne africane immigrate presso una sede comunale dedicata, chiamata Casa di
Ramya.
I primi contatti dell’Associazione Terra dei popoli con le Comunità di donne immigrate, finalizzati a
realizzare con loro incontri sul tema delle MGF, sono iniziati nel Dicembre 2011.
E’ stato quindi possibile avviare nel gennaio 2012 i focus group: gruppi ristretti di confronto e
approfondimento sul tema delle MGF , costituiti da donne rappresentanti i diversi gruppi etnici, dalle
mediatrici culturali e da nove operatrici socio sanitarie (di cui sei dei Consultori Familiari dell’ULSS20,
una dell’Azienda Ospedaliera Integrata, una del Comune di Verona e una dell’Ufficio Educazione alla
Salute dell’ULSS20).
Quello dei focus group è stato un percorso articolato e ricco: ogni focus group è diventato un incontroconfronto creativo: il setting era volto a favorire uno scambio circolare e affettivo di esperienze e di storie
che a loro volta portavano dentro la stanza tradizioni, culture, miti fondanti di luoghi umani diversi e le
fatiche nel passaggio dai luoghi noti a quelli non noti, in un contesto che favoriva l’empatia, il
rispecchiamento e l’identificazione reciproca. I focus group sono stati incontri e tessiture di geografie
diverse: di luoghi e di emozioni. Sono stati propedeutici alla fase successiva: quella dell’incontro vero e
proprio delle operatrici con i diversi gruppi comunitari stranieri. Incontri avvenuti dietro la richiesta di
essere ospitate, operatrici e mediatrici, nei luoghi e nei tempi decisi dagli stessi gruppi o Comunità:
quindi all’interno della riunione mensile di Comunità, o di una festa o di un incontro a carattere
religioso... Talvolta in luoghi istituzionali, talvolta in una casa privata. Talvolta con la presenza anche
della componente maschile della Comunità, talvolta con la presenza della sola componente femminile.
Ad alcune di queste occasioni hanno poi fatto seguito incontri più ristretti con gruppi di donne, dedicati
alla discussione di temi più specifici: a partire da quello delle MGF, a quello più generale della salute
sessuale e riproduttiva delle donne, a quello dell’accessibilità ai Servizi per le donne.
I rimandi avuti di volta in volta dalle operatrici e dalle rappresentanti delle Comunità straniere rispetto a
questi incontri, sono stati molto positivi: parlavano di incontri reciprocamente arricchenti. L’impressione
era che le donne migranti si sentissero viste e ascoltate, e che questo aprisse la possibilità di un confronto
vero con loro anche sul tema delle mutilazioni genitali. Dal canto loro le operatrici, alcune delle quali già
impegnate sul campo con le donne straniere, hanno avuto la possibilità di sperimentare incontri con
queste stesse donne, in un contesto diverso da quello abituale (istituzionale), che ha favorito le emozioni
e la vicinanza e quindi lo scambio, la condivisione e la possibilità di un confronto aperto.
Il secondo filone è stato articolato organizzativamente come un vero e proprio corso, cui hanno
partecipato anche le m.l.c. e le operatrici che si incontravano nei focus group con le donne immigrate. Il
corso era aperto, dietro iscrizione, a 80 operatori del nostro territorio ed era rivolto a diverse
professionalità: medici di base, pediatri, ostetriche, ginecologi, assistenti sociali, psicologi, infermieri,
avvocati. La partecipazione è stata molto buona. Uno degli esiti auspicati e dichiarati è stato anche quello
di rinforzare, attraverso il corso, la rete tra professionisti e tra Servizi diversi, tra Istituzioni e
Organizzazioni del Privato Sociale, con l’obiettivo di poter articolare poi, su questa rete, la ricaduta sul
piano operativo del percorso formativo comune.
Il corso, gratuito, con accreditamento ECM, è stato strutturato in diversi incontri, che hanno offerto la
possibilità di affrontare il tema delle mutilazioni genitali femminili nei diversi aspetti: medico,
psicologico, sociale, giuridico, antropologico, dei diritti umani e dell’identità di genere.
Sono stati contattati a questo scopo docenti esperti che da anni si occupano dei temi della migrazione e in
particolare del tema specifico delle mutilazioni genitali femminili.
Il corso è stato impostato prevedendo, per ogni incontro, un tempo dedicato alla lezione frontale del
docente, un tempo dedicato al lavoro dei partecipanti in sottogruppi, con ritorno in aula per un lavoro
conclusivo in plenaria.
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Ogni sessione del corso è stata arricchita da un buffet etnico, preparato da donne immigrate e offerto a
tutti i partecipanti: questo ha contribuito di volta in volta a creare quel clima conviviale che facilita lo
scambio relazionale.
I contenuti portati dai docenti e i temi emersi dal lavoro dei sottogruppi, testimoniano un’elaborazione
ricca e approfondita, che ha saputo confrontarsi con culture diverse e antiche, con una pratica che richiede
sguardi non univoci: che richiede la volontà e la capacità di ascoltare e di guardare, di localizzare e
differenziare, per avvicinare comportamenti tradizioni e linguaggi che vengono da mondi diversi ma che
convivono con noi.
Credo si possa dire che esito importante di tutto questo processo, è stato quello di aver imparato che ciò
che ciascuno di noi può modificare, nell’incontro con l’altro da sé, è il proprio sguardo.
Questo aspetto, di tipo relazionale, rimane come patrimonio formativo per tutti coloro che, con ruoli
diversi, sono stati attori di questo percorso.
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PARTE PRIMA
IL CORSO
DI FORMAZIONE
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MGF E DIRITTI UMANI
CRISTIANA SCOPPA 8
Mi presento: mi chiamo Cristiana Scoppa, dal 2000 e fino a metà 2012 ho lavorato ad AIDOS,
l’Associazione italiana donne per lo sviluppo, un’organizzazione non governativa di cooperazione allo
sviluppo fondata nel 1981, che ha avuto il merito di aver “esportato” in diversi paesi in via di sviluppo,
adattandolo, il modello italiano dei consultori familiari. Sono nati così i centri per la salute delle donne
che AIDOS ha creato in collaborazione con organizzazioni locali in Palestina, Giordania, Siria, Nepal,
Argentina, Venezuela, Burkina Faso.
Nel 1986 è stato avviato il primo progetto di prevenzione delle mutilazioni dei genitali femminili di
AIDOS, un progetto nato su invito e in collaborazione con l’Associazione democratica delle donne
somale, l’unica associazione nazionale femminile esistente in Somalia all’epoca della dittatura di Siad
Barre, che aveva chiesto al governo italiano un sostegno per una campagna nazionale per promuovere
l’abbandono dell’infibulazione.
Occupandosi di salute materna, è stato naturale per AIDOS occuparsi di mutilazioni dei genitali
femminili: l’alto tasso di mortalità materna in numerosi paesi africani è legato anche alla presenza della
pratica e ai matrimoni precoci, e dunque delle gravidanze precoci. L’impegno per innalzare l’età del
matrimonio, organizzato dalle famiglie, e ridurre la mortalità materna caratterizza il lavoro di agenzie
delle Nazioni Unite quali l’UNFPA, il Fondo delle Nazioni Unite per la popolazione, e oggi se ne
cominciano a vedere i risultati.
L’obiettivo del mio intervento, che apre questo corso destinato a professionisti/e della salute, pur essendo
io una giornalista, è di fornire un’idea complessiva della dinamica e del funzionamento della pratica delle
mutilazioni genitali femminili che possa poi servire di inquadramento per gli approfondimenti che ne
verranno fatti durante il corso da specialisti/e che ne affronteranno aspetti specifici.
MGF: STORIA E CONTESTO SOCIO - CULTURALE
Importante è considerare la storia di questa pratica e il contesto sociale-culturale in cui avviene. La pratica
è una tradizione antica, le cui origini si perdono nella notte dei tempi e ha a che fare con uno strutturarsi
delle società in una chiave che oggi definiamo patriarcale. Sono società, come quella italiana in cui
viviamo, che sono nate e si sono evolute nel corso del tempo in una condizione di disparità fra uomini e
donne, in cui agli uomini era concesso e lasciato gestire lo spazio pubblico, mentre le donne erano
sostanzialmente confinate nello spazio privato/domestico e il compito principale, l’obiettivo principale
della vita delle donne era la maternità e l’allevamento dei figli. Anche la società occidentale si struttura
così, siamo ancora in parte una società che funziona così, anche se dalla rivoluzione industriale in poi
tante cose sono cambiate. Sicuramente in Italia tante cose sono cambiate dal dopoguerra in poi. Infatti, dal
dopoguerra abbiamo assistito all’ingresso in massa delle donne nell’istruzione, non solo nella scuola
elementare, dagli anni ’70 le donne sono entrate in massa nel mondo del lavoro e via via si è affermata
una visione diversa che fa spazio nella vita delle donne di altri obiettivi, come la realizzazione
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Cristiana Scoppa, giornalista, da anni si occupa del tema delle Mutilazioni dei Genitali Femminili e dei Diritti Umani.
Collabora con AIDOS – Associazione Italiana Donne per lo Sviluppo - come responsabile dell’ attività di comunicazione e
programmazione per la prevenzione delle MGF . Ha coordinato, tra gli altri, un progetto per l’abbandono delle mgf finanziato
dal Fondo delle Nazioni Unite e ha gestito per l’Italia la campagna “End MGF” promossa da Amnesty International Irlanda.
Ha svolto anche attività di formatrice sul tema delle Mgf. Ha fatto parte della Commissione istituita presso il Ministero della
Salute per l’elaborazione delle Linee Guida destinate alle figure professionali sanitarie e non, e nel 2005 ha collaborato con
le Commissioni Parlamentari Giustizia e Affari Sociali della Camera dei Deputati e Giustizia del Senato per l’elaborazione
della Legislazione italiana sulle mgf. Come giornalista ha prodotto numerosi articoli, inchieste e reportage sul tema.
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professionale, l’autonomia, l’indipendenza, e questo va di pari passo con la gestione di sé e la possibilità
di decidere per sé, anche in relazione alla maternità.
Ogni processo decisionale avviene all’interno di relazioni strutturate dentro dinamiche personali che si
possono definire dinamiche di potere. Le donne, in Italia come altrove, nel loro percorso individuale e
collettivo verso l’autonomia decisionale hanno fatto grandi lotte in cui hanno messo al centro il corpo. È
in questo clima che negli anni ’70 nascono i consultori, in un momento di riforme fondamentali, fra cui
prima di tutto la riforma del codice della famiglia, poi la legge 194 sul’interruzione volontaria di
gravidanza e poi il referendum sul divorzio.
Risulta importante affrontare questo quadro storico per meglio aver presente quali sono le dinamiche
nelle quali le donne che migrano vengono a trovarsi una volta arrivate nel nostro paese.
Parallelamente, anche nel contesto africano la società sta mutando; ci sono delle dinamiche di sviluppo
rispetto al raggiungimento dell’uguaglianza fra uomini e donne che portano a una forte rinegoziazione
riguardo alla pratica delle mutilazioni genitali femminili. I limiti della donna che caratterizzavano la
società africana tradizionale vengono progressivamente rotti, e così le donne acquisiscono un ruolo
diverso rispetto alla propria autonomia e quindi anche rispetto alla capacità decisionale riferita a questa
pratica.
Le donne migranti che approdano come utenti nei servizi italiani sono donne della contemporaneità e
quindi portatrici di tutti questi processi di cambiamento che vanno tenuti in considerazione nel momento
in cui si affronta il tema delle mutilazioni genitali femminili, in primis per evitare una visione
cristallizzata della pratica in una forma che si ripete sempre uguale.
Le mutilazioni genitali femminili sono una pratica culturale legata alla società patriarcale, poiché l’atto ha
come obiettivo quello di contenere la sessualità femminile. Si può considerare l’escissione, ovvero
tagliare il clitoride, tagliare le piccole labbra, o l’infibulazione, quindi incidere le grandi labbra, suturarle
in parte, restringere l’apertura vaginale, come una pratica che agisce sulla sessualità.
Vi cito un aneddoto che mi piace sempre ricordare, una volta eravamo in Burkina Faso per un lavoro,
avevamo perso tutto il bagaglio con i materiali per il corso che non era arrivato con il nostro volo, e tutti i
giorni per cinque giorni siamo andate in aeroporto per chiedere dov’era il bagaglio e mentre eravamo lì e
aspettavamo abbiamo fatto una specie di indagine sul campo andando da tutti gli uomini che
incontravamo - facchini, macchinisti, viaggiatori - spiegando: “Noi siamo qua per fare un corso sulla
prevenzione delle mutilazioni genitali femminili, secondo lei perché si fa questa pratica?” Diciamo che
facendo una statistica a occhio, il 98% delle risposte era: per controllare la sessualità femminile, declinata
in varie versioni.
Da questo aneddoto si può evincere quello che è il senso ultimo della pratica, ovvero limitare il desiderio
sessuale femminile all’interno della dimensione matrimoniale, dove l’iniziativa sessuale è lasciata al
marito, e assicurare così la certezza della paternità in un contesto di poligamia dove alla discendenza è
legata non solo l’eredità di un nome, ma anche la trasmissione di beni.
I L SENSO DELLA PRATICA IN UNA MATRICE ANIMISTA . P RATICA ED IDENTITÀ .
Per approfondire la comprensione del senso delle mutilazioni è necessario tenere presente che questa
pratica avviene in un contesto animistico dove anima e corpo sono strettamente connessi; quindi dove si
ritiene che intervenendo sul corpo, si interviene sul disciplinamento del comportamento morale ed etico
della persona e su quello che questa diventerà.
Molto diverso da quanto avviene nella nostra società dove, a partire da un certo punto, si è praticata una
scissione tra anima e corpo, e si ritiene che la mente e l’anima possono avere il controllo sul corpo.
Invece, il forte legame tra mente e corpo, o meglio la loro unitarietà, nelle società animiste si riscontra
anche nella ritualità fisica molto presente, come le prove di coraggio o le iniziazioni, riti in cui il corpo è
sollecitato e viene modificato dalla cerimonia.
In un’ottica animistica il controllo che si fa sul corpo ha un effetto diretto sul comportamento. Le
mutilazioni dei genitali femminili contribuiscono dunque a forgiare donne “come si deve”, ovvero donne
fedeli che porteranno in grembo il figlio del marito legittimo. E questo in società che considerano
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essenziale per una donna avere dei figli, quasi che le donne che non ne hanno siano donne solo “in parte”.
Sposarsi e diventare madri e dunque un obiettivo di vita condiviso da quasi tutte le donne.
Anche perché sposarsi e avere dei figli legittimi spesso si traduce anche come sopravvivenza, soprattutto
nei contesti rurali, poiché la casa, così come i terreni da cui si ricava il reddito, spesso sono proprietà
esclusiva del marito. Le mutilazioni genitali femminili sono state interiorizzate come una pratica
necessaria per assicurarsi i benefici sociali ed economici derivanti dal matrimonio e dalla prole: le donne
molto spesso le considerano un modo per cautelarsi rispetto ai propri istinti e desideri, un “aiuto” per non
correre il rischio di cedere alle proprie “tentazioni” e restare invece donne “come si deve”. Non è un caso
che le mutilazioni dei genitali femminili siano praticate da donne anziane/adulte sulle bambine: le madri
stesse, che hanno a loro volta subito la pratica e ne conoscono la sofferenza, finiscono per imporla anche
alle loro figlie, perché sanno che il dolore che si prova è sostenibile, mentre invece, se poi le figlie
venissero emarginate, se restassero nubili, se venissero rifiutate dal possibile marito, questo potrebbe
avere conseguenze molto più gravi in termini di povertà, marginalizzazione, rischio di dover ricorrere alla
prostituzione per guadagnarsi da vivere.
Tuttavia, il contesto sociale sta mutando, e le donne africane non la pensano tutte allo stesso modo, non
per tutte si tratta ormai di una pratica necessaria.
Per comprendere la portata del mutamento in corso ci può aiutare un altro aneddoto. Quando sono stata a
lavorare in Sudan ho conosciuto una suora di Vicenza che era ostetrica e lavorava in una maternità aperta
una trentina di anni fa dalle suore comboniane; in questo ospedale questa ostetrica è arrivata la prima
volta 26 anni fa - ci è stata ininterrottamente per 19 anni, poi è tornata a Vicenza per 6 anni e quando l’ho
incontrata era da un anno di nuovo a Khartum. Nella sua maternità avvenivano circa 100-120 parti al
mese e lei ha detto che nel suo secondo soggiorno, quello durante il quale l’ho conosciuta io, non ha visto
più nemmeno una donna “così chiusa” come quelle che lei aiutava a partorire quando è arrivata. Questo
vuol dire che in 26 anni in Sudan, dove si pratica l’infibulazione, le campagne di sensibilizzazione volte
principalmente a ridurre il rischio di parto hanno portato a un cambiamento nella modalità in cui la pratica
viene fatta, cambiamento che le donne somale traducono dicendo che prima si faceva “a 7-8 fili, oggi a 34 fili”; il che vuol dire che prima le cuciture prevedevano 8 punti, mentre oggi sono solo 4, l’apertura che
viene lasciata è molto più grande, e riduce il dolore durante i rapporti sessuali oltre a rendere meno
rischioso il parto.
Questo testimonia che l’infibulazione è stata modificata anche se non abbandonata, e ciò è l’effetto di un
tipo di campagna preventiva il cui focus è stato intervenire rispetto al rischio di morire di parto.
La pratica non viene abbandonata proprio perché avere la possibilità di controllare il proprio istinto e
desiderio sessuale è considerato utile e necessario. È come se questo controllo, in un’ottica in cui la mente
e il corpo sono uniti, passasse anche attraverso il corpo, forgiandone l’identità femminile, a differenza di
quanto avviene nella cultura occidentale in cui si ritiene che tale controllo possa avvenire in altri modi,
attraverso la consapevolezza, la valutazione di opportunità, di sentimenti, il rispetto.
Ad ogni modo oggi l’Africa è in evoluzione, grazie anche ai movimenti politici in cui l’apporto delle
donne è sempre più significativo, per cui si assiste a una rinegoziazione rispetto al tema delle mutilazioni
e a tutto il suo portato nella costruzione identitaria.
L A DOCU - FICTION “V ITE IN CAMMINO ”
La sceneggiatura di questa docu-fiction nasce da un laboratorio condotto insieme alla psicologa Pina
Deiana con un gruppo di donne africane a Roma, ai quali ha partecipato anche la regista, Cristina Mecci.
Sono stati condotti dei focus group discutendo non solo di mutilazioni dei genitali femminili, ma di altri
eventi della vita che hanno relazione con la pratica: la maternità, il rapporto con la famiglia rimasta in
patria, l’educazione delle figlie, l’incontro con uomini italiani, la sessualità. Gli incontri sono stati
realizzati nelle case e sono stati registrati da una telecamera, ma tenendo l’obiettivo chiuso. In un secondo
momento, servendosi del materiale audio, insieme alla regista Cristina Mecci, l’equipe ha iniziato a
costruire un canovaccio per la storia della docu-fiction.
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La collaborazione con Omer Gnamey, un mediatore culturale che collaborava con Culture Aperte,
l’assocazione partner del progetto a Trieste, ha dato forma all’idea finale. Omer e la moglie Romaine
(Romana) Gennadje aspettavano una bambina, e dalla loro storia ha preso spunto la docu-fiction. Loro ne
sono diventati i protagonisti, mentre con loro familiari, amici e amiche e con altre persone di origine
africana con cui Culture Aperte era in contatto, sono stati costruiti gli altri personaggi. La regista ha
soggiornato per qualche giorno da Omer e Romana, ha parlato con loro, con gli amici e la famiglia
allargata, e da lì è nata la stesura della sceneggiatura, in cui ciascuno ha dato il proprio contributo,
decidendo il ruolo che voleva interpretare e cosa voleva dire.
Nei quaranta minuti di video ci sono una serie di discussioni dentro la comunità africana e il contesto
degli amici e le istituzioni che servono a guidare un percorso di consapevolezza. È stato costruito un
percorso di presa di coscienza, e di cambiamento della visione della pratica – da necessità imprescindibile
a pratica che può essere abbandonata – sulla base delle conversazioni avvenute nel laboratorio romano.
Le animazioni sono di Mahnaz Ezmaeili, scenografa animatrice di origine iraniana, sposata con un
italiano, che ha studiato scenografia digitale alla Sapienza a Roma; la regista, Cristina Mecci, lavora per
la RAI, è principalmente regista di documentari e reporter giornalistica, si occupa anche di regie teatrali e
in passato ha lavorato come regista radiofonica.
Molte persone rimangono colpite dall’apertura degli uomini in questa docu-fiction, ci tengo a precisare
che Omer è un uomo originario del Benin, ingegnere, che pensa le cose che dice, pari pari. Romana non è
stata sottoposta alla pratica, è stata sua madre, ancora in Benin, a opporsi e trovare il modo per evitare che
la bimba venisse sottoposta alla pratica. La famiglia di Romana è arrivata in Italia quando Romana aveva
circa 11-12 anni, lei ha una sorella più piccola, che ha adesso forse 12 anni. Quando l’ho conosciuta ne
aveva 8-9, la mamma di Romana è riuscita a salvare la figlia dal taglio con un escamotage: loro abitavano
a Cotonou, ma la cerimonia si faceva nel villaggio di origine perché la tradizione è portata avanti dalle
donne anziane, e dunque la mamma doveva accompagnare la figlia al villaggio dove tutto era predisposto
per l’evento. Allora, per evitare la mutilazione dei genitali alla figlia, la mamma di Romana ha fatto finta
di perdere la borsa con dentro il denaro e i doni necessari per compensare l’exciseuse (la praticante
tradizionale). Era assolutamente impensabile che lei si presentasse senza poter pagare per il suo servizio,
in un contesto culturale dove lo scambio di doni è parte integrante delle relazioni sociali. Così
apparentemente mogia mogia se ne torna, rimandando al futuro la pratica. Nel frattempo la famiglia si
trasferisce in Italia, e in questo modo lei ha salvato la prima figlia. La seconda figlia è nata qui in Italia, e
non subirà mai la pratica, perché la mamma di Romana pensa le cose che dice nel film, è infatti lei che
interpreta l’amica con il copricapo giallo. Il papà di Romana ha scelto invece di interpretare la parte del
“sostenitore del rispetto della tradizione”: ma recita una parte, appunto, perché nella realtà, quando la
moglie ha portato avanti la sua scelta di non sottoporre Romana alla pratica, l’ha fatto in accordo col
marito, loro non volevano litigare coi nonni quindi per mantenere la pace in famiglia hanno messo in
scena un trucco. Anche il padre di Romana è dunque un uomo che già pensa che la pratica vada
abbandonata. Le persone pensano questo per ragioni diverse. L’interprete dell’amico di famiglia che
incontra il protagonista al bar, è un medico congolese anche lui convinto delle cose che afferma nel film.
Secondo lui, le persone migranti sono oggi in una posizione molto interessante per promuovere
l’abbandono della pratica nei propri paesi di origine perché sono il pilastro di sostegno di intere famiglie,
che possono contare fino a 20-25 persone. Tutta la sceneggiatura è stata costruita sulla base di un
canovaccio, presentato dalla regista al gruppo: poi ognuno ha scelto la propria parte e ha preparato le sue
battute. Con la regista poi abbiamo costruito il “filo dei pensieri” che Romana confida al diario che scrive
per la figlia. E per dare l’idea che i pensieri non venivano pensati in italiano ma nella lingua di origine e
abbiamo fatto recitare i pensieri a un’attrice.
Non è che gli uomini sono “più emancipati”, semplicemente spesso hanno a disposizione più mezzi,
dispongono di più opportunità di studiare e quindi di prendere parte a contesti in cui confrontarsi con
contenuti nuovi. Per questo AIDOS ha realizzato, con la collaborazione dell’Associazione Audiodoc di
Roma e di un radio giornalista appartenente all’associazione veronese Suoni Quotidiani, una campagna di
promozione dell’abbandono delle mutilazioni dei genitali femminili in Africa attraverso la radio,
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incentrata sulla realizzazione di audio documentari. L’idea alla base del progetto era proprio quella di far
emergere il racconto di chi si è già incamminato sulla strada dell’abbandono della pratica, per diffondere
queste esperienze e far crescere, attraverso il coinvolgimento del pubblico, il numero delle famiglie che
scelgono di non sottoporre le proprie figlie alla mutilazione dei genitali.
Le mutilazioni dei genitali femminili sono una esperienza complessa e solo se si tiene conto di questa
complessità è possibile affrontare questa tematica. Bisogna avere in mente che ci si rapporta con persone
per cui la pratica ha un portato positivo ed è riferita a una tradizione che le donne hanno sempre tenuto
per sé, che ha rappresentato una protezione e una valorizzazione che adesso ha cambiato di segno e che
quindi richiede di essere metabolizzata. La cosa più difficile per gli operatori è trovare un modo per non
essere giudicanti e contemporaneamente non dare l’idea che si autorizza la pratica; questo è l’equilibrio
che nella comunicazione rappresenta una grande sfida.
Mi è stato domandato se questa tradizione che si tramanda al femminile possa nascere dall’identificazione
con l’aggressore, nel senso che le donne che non provano piacere possono ipotizzare che questo debba
essere anche il destino della propria figlia. Ho letto alcuni saggi che ipotizzavano una sorta di vendetta
delle madri sulla giovinezza e la capacità procreativa delle figlie. Io non so se c’è una dimensione
chiamiamola subconscia, per cui le madri esercitano una sorta di vendetta sulla bellezza e la capacità
procreativa della figlia o se viceversa si identificano nelle antenate che a loro volta le hanno tagliate e
quindi riproducono il comportamento, ma posso dire questo: nella cultura africana in generale, e vi sarà
forse capitato di sentire conversazioni fra donne africane, il rispetto degli antenati, come pure delle
persone più anziane, è una base fondante della struttura socio culturale. La struttura socio culturale della
famiglia è gerarchica, al primo posto ci sono le persone anziane che in una cultura di tradizione orale
incarnano il patrimonio dei saperi necessari per vivere. C’è un modo molto bello di imparare tradizionale
africano, il modo di imparare attraverso le storie. Le storie sono narrate e rinarrate, nei villaggi i bambini
si riuniscono, le persone si siedono la sera, non c’era la televisione, e i più anziani raccontano la storia, la
storia ti viene narrata molte volte nel corso della vita e ogni volta crescendo tu apprendi un pezzetto in più
del comportamento che è giusto che tu tenga da uomo adulto. Le storie raccontate dagli anziani sono
dunque un tramite essenziale alla umanità, al comportamento retto, etico, quindi il rispetto degli anziani è
molto importante. Anche se chi migra dall’Africa all’Italia si trova in un contesto diverso, non bisogna
dimenticare il contesto culturale complessivo del percorso di socializzazione e di costruzione dell’identità
di genere, perché si rischia di attribuire anche alle persone di origine africana delle dinamiche estranee a
quel contesto e di matrice piuttosto occidentale.
La cultura europea è senz’altro incentrata sull’individuo. La società africana è sostanzialmente
collettivistica anche se oggigiorno, dietro la spinta della globalizzazione, si sta avvicinando all’Occidente.
Le mutilazioni dei genitali femminili sono una norma sociale, oltre che una pratica culturale. Sono una
tradizione e le tradizioni sono parte del patrimonio culturale, ma funzionano come una norma sociale
perché agiscono attraverso la percezione di un senso di obbligo a fare una certa cosa, di aspettativa da
soddisfare, pena una sanzione sociale che è espressa nell’emarginazione.
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Sceneggiatura e regia: Cristina Mecci
Animazione 2D: Mahnaz Esmaeili
Musica: Rokia Traoré e Salvatore Passaro
Montaggio: Leo Cariati
2009
Tipo: DVD
Durata: 40'
Lingue: italiano
V ITE IN CAMMINO
Il percorso di formazione di una nuova coscienza di se attraverso il confronto di idee con gli altri,
protagonista un’africana friulana
La docufiction Vite in cammino racconta la storia di una madre, Samira, beninese di religione
mussulmana che, dal momento in cui sa di attendere una bambina, comincia a essere tormentata dal
dubbio se attuare o meno su sua figlia la mutilazione dei genitali. Nell’affrontare questo angoscioso
dilemma coinvolge suo marito Kader, uomo africano illuminato e sentimentalmente partecipe anche verso
la figlia che verrà. Kader è contrario alla pratica e non vorrebbe che sua figlia vi sia sottoposta ma, nello
stesso tempo, non vuole sbrigativamente imporre le proprie convinzioni a sua moglie. Le espone le sue
riflessioni, la incoraggia a chiedere l’opinione della comunità africana che frequenta la loro casa, si reca
dall’esperto di Islam per conoscere i veri precetti della religione mussulmana al riguardo. Parallelamente
Samira, attraverso un diario che prende a scrivere proprio per la figlia, inizia un percorso di
consapevolezza di sé e della propria condizione di migrante, di puerpera e di lavoratrice in un paese
straniero, di donna e di africana divisa tra la tradizione d’origine e la nuova realtà occidentale, dei legami
con la comunità e delle scelte per la sua nuova piccola famiglia. Anche il suo inconscio partecipa a
questa profonda elaborazione del sé inviandole messaggi, espressi in animazioni stilizzate, sotto forma di
memorie, ricordi dolorosi, incubi di perdita di identità. Il suo percorso, dopo molti confronti e riflessioni,
tra i quali decisivo sarà quello con la zia, sottratta dal padre al feroce destino delle mutilazioni dei genitali
femminili, si conclude con la decisione di non infliggere la pratica alla sua bimba e con la riconferma
dell’intesa con suo marito, col sostegno del quale riuscirà a convincere anche la famiglia africana ad
abbandonare questa tradizione.
Il dvd è accompagnato da un libretto che offre spunti per accendere un dibattito sui temi toccati dalla
docufiction, con l'obiettivo di sollecitare una presa di coscienza e promuovere l'abbandono della pratica
delle mutilazioni dei genitali femminili. Il pdf del libretto si può scaricare dal link in fondo a questa
pagina.
Video realizzato nell’ambito del progetto Mutilazioni dei genitali femminili e diritti umani nelle
comunità migranti in collaborazione con Culture Aperte di Trieste e ADUSU - Associazione diritti
umani sviluppo umano in Veneto e con il sostegno del Dipartimento Pari Opportunità
E' POSSIBILE RICHIEDERE IL DVD: TEL.066873214 - EMAIL: [email protected].
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MGF: LEGISLAZIONE NAZIONALE E INTERNAZIONALE, FENOMENO E AZIONI DI
CONTRASTO
NATALINA FOLLA 9
Io credo che, se i parlamentari che nel 2006 hanno promulgato la legge sulle mutilazioni genitali
femminili avessero fatto qualche corso di formazione su questo tema, forse l’avrebbero formulata in
modo diverso da come hanno fatto, e cercherò anche di spiegare perché.
Ma prima vorrei dare uno sguardo alla cornice normativa italiana. La legge 9 gennaio n. 7, volta a
prevenire le pratiche di MGF, è stata introdotta dal legislatore nel nostro ordinamento nel 2006. E’ una
legge che consta di due parti: la prima - e meno male che c’è questa prima parte – in origine, quando la
legge ha cominciato a muovere i primi passi, non esisteva, e, soprattutto, non esisteva in modo così
articolato. Ritengo che si debba all’impegno di varie associazioni femminili nonché delle comunità
straniere residenti sul nostro territorio, se essa ha visto la luce, assumendo, quanto meno simbolicamente,
una significativa centralità nel contesto normativo in parola.
La legge, dunque, si suddivide in una parte prima, che contiene le norme volte a contrastare il fenomeno
in chiave preventiva, e una parte seconda, che invece ha un taglio più spiccatamente repressivo e che
introduce nel codice penale il reato di mutilazione dei genitali femminili. La prima parte, oltre a
tratteggiare, nel primo comma dell’art. 1, le finalità, in forza delle quali il legislatore ha deciso di
disciplinare questa materia, finalità che naturalmente mirano a tutelare valori come quello della vita,
dell’integrità fisica, dell’autodeterminazione della donna, della salute delle donne e delle bambine,
contiene, inoltre, delle disposizioni destinate a promuovere la formazione e l’informazione circa la pratica
medesima; si parla espressamente di campagne informative, e nell’art. 4, in particolare, di formazione
(anche) del personale sanitario. Quindi, credo che, senza dubbio, essa vada valorizzata; e anzi penso che
più ci si adopererà per renderla operativa e meno bisogno ci sarà di utilizzare l’altra, che è appunto quella
repressiva.
Il legislatore, però, non soltanto ha deciso di criminalizzare questa tradizione, ma ha deciso di farlo in
modo estremamente severo; a mio avviso, troppo, o, per meglio dire, in modo non efficace; ed illustrerò
le ragioni di questa mia convinzione. Ma, prima delle considerazioni, un cenno al dato normativo,
partendo dall’art. 583 bis del codice penale. Questo testo prevede che chiunque, in assenza di esigenze
terapeutiche, cagiona una mutilazione degli organi genitali femminili è punito con la reclusione da 4 a 12
anni. Ai fini del presente articolo, si intendono come pratiche di mutilazione degli organi genitali la
clitoridectomia, l’escissione, l’infibulazione e qualsiasi altra pratica che cagioni effetti dello stesso tipo.
Nel secondo comma dell’ articolo 583 bis del codice penale è contenuta, poi, un’altra figura di reato; in
essa, il legislatore stabilisce che chiunque, in assenza di esigenze terapeutiche e al fine di menomare le
funzioni sessuali, provoca lesioni agli organi genitali femminili diverse da quelle indicate al primo
comma da cui derivi una malattia nel corpo e nella mente è punito con la reclusione da 3 a 7 anni. In
questo caso, il legislatore ha previsto una diminuzione della pena fino a due terzi, rispetto alla pena
edittale della reclusione compresa fra i tre e i sette anni, se la lesione è di lieve entità. Per inciso, va detto
che, su questo punto, si è sviluppata una discussione in seno alla dottrina penalistica circa la potenziale
applicabilità di questa attenuante anche al primo comma (ossia all’ipotesi delle mutilazioni), ma la
risposta è negativa, nel senso che l’interpretazione più logica della norma porta a dire che questa
diminuzione della pena è riferita soltanto alla ipotesi della lesione e non invece alla pratica di mutilazione
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Natalina Folla è professore titolare dell’insegnamento di Diritto Penale nel Corso di Laurea Magistrale della Facoltà di
Giurisprudenza di Trieste. Nell’ambito dell’attività scientifica ha indirizzato le sue ricerche su vari fronti: dai reati sulla
persona, nelle sue varie manifestazioni lesive, con riguardo particolare alle problematiche della violenza di genere e ai reati
“culturalmente orientati”. Alcune delle sue pubblicazioni scientifiche trattano in particolare del tema della mutilazione dei
genitali femminili. Sua è la voce “Mutilazioni genitali femminili (reati in materia di)” in Enciclopedia Giuridica Treccani.
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di cui al primo comma. Questa opzione è determinata dal fatto che la figura di reato di cui al primo
comma non può mai essere lieve proprio perché si tratta di quelle categorie di mutilazione che cagionano,
tutte, degli effetti (più o meno) devastanti per il corpo della donna e della bambina in particolare.
Veniamo ora al terzo comma dell’art. 583 bis c.p. Esso stabilisce che la pena base prevista nel primo
comma è aumentata di un terzo quando le pratiche di cui al primo e al secondo comma sono commesse a
danno di un minore ovvero se il fatto è commesso per fini di lucro. Ne consegue che la pena detentiva
base, compresa tra i quattro e i dodici anni di reclusione, con gli aumenti, può raggiungere la soglia di ben
sedici anni di detenzione! Il che, quanto meno in astratto, potrebbe diventare diventa la regola, atteso che
le vittime di questi delitti, si sa, sono, nella stragrande maggioranza dei casi, bambine minorenni.
Allora, ciò che colpisce, riguardo al regime sanzionatorio, è il rigore estremo, persino eccessivo direi,
adottato dal legislatore. Perché faccio questa affermazione? Perché se andiamo a comparare questa norma
con altre presenti nel codice, che prevedono reati altrettanto gravi, ebbene, possiamo avvederci che la
risposta punitiva dell’art. 583 bis c.p. è attestata su parametri veramente elevati. E allora viene da
chiedersi qual è la ratio di questa sorta di accanimento che il legislatore ha usato; perché non c’è dubbio
che per il nostro ordinamento la pratica di mutilazione degli organi genitali costituisca un reato; non
potrebbe essere diversamente: ce lo impone la nostra Carta costituzionale, oltre che la normativa
sovranazionale. Tuttavia, va detto che l’apparato punitivo si sarebbe potuto modulare diversamente. Si
sarebbe potuto prevedere una soluzione che fosse sì rigorosa, in modo da porre in risalto il disvalore
(anche) penale della pratica, ma che, al contempo, consentisse di fare ricorso a forme alternative di
esecuzione della pena, come nel nostro ordinamento è previsto per molti reati, e che qui, invece, non è
possibile, considerate le soglie edittali molto elevate.
Sta di fatto che il legislatore, congegnando la norma in questo modo, ne ha decretato la sua
disapplicazione. Dal 2006 (anno di entrata in vigore della legge) ad oggi, infatti, noi non disponiamo di
una statistica giurisprudenziale, sulla quale ragionare, perché c’è un’unica sentenza di cui siamo venuti a
conoscenza e che peraltro è stata pronunciata proprio dal Tribunale di Verona, ma non vi sono altre
pronunce note.
Dobbiamo, allora, ritenere che la minaccia di una pena tanto severa abbia davvero eliminato la pratica?
Io, onestamente, non credo che sia avvenuto questo; penso, piuttosto, che la risposta fornita
dall’ordinamento sia controproducente, nel senso che le donne (ma la considerazione vale anche per gli
uomini), anziché essere incoraggiate a prendere consapevolezza del problema e a parlarne liberamente,
finiscono per rinchiudersi all’interno delle proprie comunità, in una sorta di processo di ulteriore
ghettizzazione del fenomeno. Del resto, pene così elevate non consentono nemmeno di applicare la
sospensione condizionale della pena. Apro una breve parentesi per fare un rapidissimo cenno a questo
istituto giuridico, di cui senz’altro vi è capitato di sentir parlare in alcune occasioni. Detto in estrema
sintesi, essa è una sorta di beneficio, che può essere applicato a chi viene condannato a una pena detentiva
(o anche pecuniaria) che non superi il tetto dei due anni (mi riferisco solo a questo limite per far
comprendere il senso dell’istituto, ma la disciplina è molto più articolata); per questi soggetti, la pena non
diventa esecutiva perchè interviene una sorta di messa alla prova per un determinato numero di anni: se
nell’arco di quel periodo di tempo, il condannato non delinque, il reato si estingue. Ciò avviene perché,
tecnicamente, la sospensione condizionale della pena è una causa di estinzione del reato per cui, lo dico
semplificando, non rimane poi traccia del reato commesso. Non si può, peraltro, sottacere che, nel nostro
ordinamento, la sospensione condizionale della pena, nella sua disciplina generale, è manchevole di
quella valenza rieducativa, che, invece, si riscontra ad esempio nell’ambito del mondo anglosassone, dove
l’omologo istituto di probation è accompagnato da prescrizioni che il giudice impone al condannato.
Ebbene, mi chiedo perché il legislatore non abbia ritenuto opportuno costruire il delitto di MGF secondo
uno schema sanzionatorio attestato su limiti di pena tali da consentire, come già si è detto, per un verso,
una condanna finalizzata a confermare il disvalore di questa pratica, ma, dall’altro, anche la sospensione
condizionale della pena, auspicabilmente corredata di prescrizioni per l’autore del reato. Naturalmente, va
detto che le prescrizioni dovrebbero essere adeguate a ogni singola figura di reato perché ogni illecito
penale ha una natura diversa; in questo caso, ad esempio, si sarebbe potuto prescrivere ai genitori di
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seguire un corso formativo sull’argomento. Esso avrebbe potuto svolgere nei loro riguardi una efficacia
dissuasiva per cui, pur avendo essi optato per la mutilazione di una prima figlia, avrebbero potuto essere
indotti, dopo l’acquisizione di informazioni di natura, ad esempio, sanitaria e giuridica, ad abbandonare la
pratica in relazione ad una seconda figlia. In altre parole, sono persuasa che, se nella costruzione della
disciplina penale si fosse seguito l’indirizzo di politica criminale che, in modo del tutto sommario e
generale, abbiamo ora tratteggiato, tale approccio avrebbe dato dei frutti migliori di quelli che sembra
dare la legislazione vigente. Purtroppo, quando si congegnano delle norme, con una funzione
prevalentemente simbolica, a cui si aggiunga anche il fine di un certo effetto mediatico, cosa succede? Si
placano le preoccupazioni della collettività in ordine a un determinato problema (vero o presunto), perchè
apparentemente il legislatore, attraverso la risposta legislativa ha illusoriamente soddisfatto l’istanza della
comunità; di fatto, però, il sistema resta privo di risposte adeguate perché lo strumento introdotto è
inefficace.
Ecco, allora, che, sulla base di tali considerazioni, si può ben affermare che questa disciplina penale delle
MGF non è idonea (o lo è parzialmente) a scoraggiare il fenomeno in questione.
Continuando nella ricognizione legislativa, ricordiamo, poi, che il terzo comma dell’art. 583 bis c. p.
prevede la punizione del fatto illecito anche quando esso venga commesso all’estero. Il fondamento di
questa previsione è da ricondurre all’abitudine ricorrente di molti genitori di portare, durante le vacanze
scolastiche estive, i loro figli nel paese d’origine per sottoporli ai riti previsti dalle loro tradizioni.
Ricordiamo che ai figli maschi viene praticata la circoncisione, la quale, però, com’è noto, nel nostro
ordinamento non ha rilievo penalistico. In ordine a questa disposizione , devo dire che essa aveva
sorpreso non poco gli appartenenti delle comunità straniere, che avevo avuto occasione di incontrare a
Trieste e a Pordenone (durante le giornate di formazione programmate all’interno di un progetto volto a
prevenire le MGF); essi, infatti, pensavano che la pratica realizzata all’estero non fosse perseguibile.
Resta il fatto che chi ha concretamente operato il taglio dei genitali sulla piccola vittima, ad esempio in
Africa, sarà difficilmente raggiungibile dalla giustizia italiana; però lo può essere la coppia di genitori che
ha fatto tale scelta, laddove venga individuata e denunciata.
La cornice normativa è incompleta se non si fa riferimento anche all’art. 583 ter c. p., che contiene una
pena accessoria per i sanitari. Brevemente, la pena accessoria va ad aggiungersi alla pena principale, che
il giudice irroga all’autore del reato, con lo scopo di affliggere ulteriormente quest’ultima.
Il medico che realizzi una mutilazione è, dunque, punibile con la pena detentiva (principale) prevista
nell’art. 583 bis c.p. e con la pena accessoria, consistente nell’interdizione dalla professione da 3 a 10
anni. Notiamo che, anche qui, rispetto ai parametri previsti in generale dal codice penale per le misure
interdittive, si è scelto di orientarsi verso il massimo della pena, andando ben oltre quelli che sono i limiti
dell’interdizione previsti comunemente. Non solo: della sentenza di condanna viene data comunicazione
all’ordine dei medici chirurghi e odontoiatri, evidentemente, per le conseguenze disciplinari. Quindi,
come vedete, una linea rigorosissima su tutti i fronti.
Ma la previsione che a me preoccupa di più è quella contenuta nell’art. 602 bis del codice penale. La
norma è stata introdotta con la legge 94 del 2009, nota con il nome di “pacchetto sicurezza” (in realtà
sono molteplici i pacchetti sicurezza che il legislatore ha emanato in questi ultimi anni). Ebbene, con
questo provvedimento il legislatore ha inserito nel codice penale una pena accessoria, per chi ha
commesso i delitti di MGF, di tratta di persone, di violenza sessuale violenza intrafamiliare, di violenza
sessuale di gruppo, consistente nella decadenza dall’esercizio della potestà genitoriale. In un’ottica di
coerenza sistematica, si può comprendere la scelta del legislatore di estendere la pena accessoria anche al
reato di MGF ; tuttavia, in riferimento a questa fattispecie, essa risulta, a mio avviso, assai poco
funzionale all’obiettivo di perseguire l’abbandono della pratica.
Perchè? Perché il genitore che abbia realizzato, autorizzato o voluto la pratica di MGF, non solo viene
condannato alla pena principale della reclusione, ma viene, altresì, a perdere la potestà genitoriale. Con
quali conseguenze? Che la vittima minore verrà allontanata dalla famiglia e verosimilmente potrebbe
essere affidata ad un istituto o ad un’altra famiglia, provocando in tal modo una lacerazione, che credo
abbia a risultare disastrosa dal punto di vista affettivo e famigliare; basti pensare alla coesione di cui ha,
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invece, bisogno una famiglia emigrata che si trova a vivere in un paese straniero. Insomma, la complessità
del fenomeno, che non può essere assimilato a quello della violenza sessuale per la sua origine culturale e
sociale, avrebbe dovuto indurre il legislatore ad essere più attento su questo punto.
Il quadro sanzionatorio non è, però, ancora completo, se non si richiama un’ulteriore pena, che è quella
contemplata nell’art 25 quater 1, del decreto legislativo 231 del 2001 (ecco perché prima ho parlato prima
di una sorta di accanimento punitivo).
Anzitutto, ricordiamo che questo decreto prevede la punibilità degli enti, delle persone giuridiche, delle
società per i fatti di reato commessi nel loro interesse o a loro vantaggio dalle persone fisiche, che
rivestano funzioni apicali, all’interno delle società e degli enti medesimi. Ad esempio: se, all’interno di un
cantiere edile, si verifica un infortunio sul lavoro, come la morte del dipendente oppure una lesione ai
suoi danni, di questo evento, non solo verrà incriminato per omicidio colposo o lesioni colpose il datore di
lavoro o chi sia delegato alla sicurezza nei luoghi di lavoro, ma sarà chiamata a rispondere anche la
società, con delle sanzioni penali (diverse, ovviamente, da quelle comminate per le persone fisiche e che
consistono in pene pecuniarie o in pene interdittive, come la sospensione o la chiusura dell’attività; si
pensi, di recente, al doloroso caso Thyssenkrupp, dove sono morti alcuni operai in seguito all’incendio
scoppiato nello stabilimento di Torino).
In realtà, nel 2001, quando il legislatore ha introdotto la disciplina della responsabilità degli enti, ha
escluso dalla sua portata applicativa tutta una serie di reati, ai quali sarebbe stato, invece, opportuno
allargare la responsabilità dell’ente (si pensi ai reati ambientali o a quelli societari o a quelli che
attengono, appunto, alla tutela della salute e della sicurezza nei luoghi di lavoro, che sono stati inclusi
solo in momenti successivi). Quando, invece, nel 2006, ha emanato la legge sulle MGF, si è subito
preoccupato di integrare il catalogo dei reati rientranti nella disciplina del decreto 231, aggiungendovi,
appunto, anche le MGF.
In verità, non credo che accada di frequente che un sanitario realizzi questa pratica in una struttura
pubblica o privata o convenzionata; in ogni caso, va precisato che la responsabilità riguarderebbe soltanto
le strutture private o quelle private convenzionate, perché il decreto legislativo n. 231/2001 non coinvolge
gli enti pubblici.
Sempre con il pacchetto sicurezza del 2009, il regime sanzionatorio delle MGF è stato ulteriormente
inasprito in forza di un’integrazione apportata all’originario art. 585 del codice penale. Esso ora
contempla un aggravamento della pena anche in ordine al reato di MGF, quando questo è commesso ai
danni di un discendente o ascendente. Siccome il reato è commesso quasi sempre dal genitore sulla figlia
(discendente), ne consegue che l’aggravante in parola andrà ad incidere anch’essa sulla commisurazione
della pena.
Un cenno, ora, alla sentenza pronunciata dal Tribunale di Verona (Tribunale civile e penale di Verona –
Sez. penale 14 aprile 2010, Giudice monocratico Ferraro) : essa è la prima, nota, nella quale sia stata
applicata la disciplina dell’art. 583 bis c.p.
Nella vicenda oggetto di questa sentenza, una donna nigeriana, che aveva svolto l’attività di ostetrica nel
suo paese d’origine, era accusata di avere effettuato un intervento sui genitali di una bambina di due mesi
e di essere in procinto di eseguirne un altro su una bimba ancora più piccola, nel momento in cui si è
proceduto al suo arresto.
Trattandosi di interventi non consistenti in una vera e propria mutilazione genitale (in un caso, una sorta
di puntura realizzata sul clitoride che addirittura i medici legali quasi faticavano a rilevare a occhio nudo;
nell’altro caso, un tentativo di reato, ossia il tentativo di sottoporre la bimba a mutilazione, per fortuna,
prevenuto e bloccato), i giudici hanno ritenuto sussistente in capo agli autori del reato - non solo
l’ostetrica nigeriana, ma, in concorso con lei, anche i genitori delle due bimbe che avevano richiesto il suo
intervento – la fattispecie incriminatrice di lesioni, contenuta nel comma secondo dell’art. 583 bis c.p. ,
che, abbiamo visto essere meno grave delle mutilazioni contemplate nel primo comma.
Sul piano della commisurazione della pena, i giudici hanno valorizzato il comportamento collaborativo
degli imputati e la motivazione culturale delle loro condotte, tenuta “sulla base di forti spinte culturali e
radicate tradizioni etniche” (così si legge nella motivazione della sentenza). Sulla scorta di questi
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elementi di valutazione, ai genitori delle due bambine è stata inflitta una pena detentiva di otto mesi di
reclusione, nella vicenda del reato di lesioni consumate, e di quattro mesi in quella del reato di lesioni
tentate; queste soglie di pena sono state raggiunte tenendo conto anche della circostanza attenuante di
lieve entità, di cui dicevo prima, prevista nel secondo comma dell’art.583 bis c.p., e delle circostanze
attenuanti generiche, di cui all’art. 62 bis c.p. Esse sono state ritenute prevalenti rispetto alla circostanza
aggravante di avere realizzato il fatto ai danni di una minore, che, come dicevo, è contenuta nel terzo
comma dell’art. 583 bis c.p.
L’ostetrica nigeriana è stata, invece, punita con una sanzione più elevata: la pena della reclusione pari a
un anno e otto mesi, essendole stato contestato, in continuazione con il reato di lesione degli organi
genitali, anche il reato di esercizio abusivo della professione medica.
E’ interessante osservare, poi, che a tutti gli imputati è stato concesso il beneficio della sospensione
condizionale della pena e quello della non menzione della condanna nel certificato del casellario
giudiziale.
Condivido questa sentenza perché la considero un esempio di grande equilibrio; ma l’apprezzabile
risultato al quale il Tribunale è pervenuto, e che ha visto i giudici attestarsi su un tetto di pena contenuto,
tale da consentire benefici come la sospensione condizionale della pena (quella che, nel corso della mia
relazione, ho auspicato) e la non menzione della condanna nel casellario giudiziale, qui è stato possibile
grazie alla lievità della lesione; a un fatto, quindi, complessivamente, di minima gravità. Non si sarebbe
certo potuto addivenire a questi esiti, se fosse stato contestato il reato di mutilazione di cui al primo
comma; che, come abbiamo detto, non lascia margini per la sospensione condizionale. E, allora, mi
chiedo come avremmo reagito nel caso in cui il giudice avesse deciso la decadenza dalla potestà
genitoriale. Ricordo che tale pena accessoria non dipende dalla discrezionalità del giudice, ma è una
conseguenza che segue la condanna. Lascio a voi le riflessioni.
Last but not least: l’obbligo per i pubblici ufficiali e per gli incaricati di pubblico servizio di denunciare il
reato, laddove ne vengano a conoscenza nell’esercizio della loro funzione o del loro servizio. Questo è un
tasto dolente. Nell’ambito dei diversi incontri formativi, ai quali ho partecipato, ho riscontrato che gli
operatori sanitari con i quali ho interagito, tutti, o quasi tutti, hanno espresso il loro rifiuto di denunciare i
genitori. Alcuni avevano visitato bambine sottoposte a MGF, altri erano a conoscenza dei propositi dei
genitori e lottavano per scongiurare il pericolo; quasi unanimemente, però, hanno affermato che non se la
sentirebbero (o non si sono sentiti) di presentare denuncia proprio per le motivazioni, già evocate sopra,
ossia, i rischi di disgregazione cui andrebbero incontro le famiglie, dannosissimo, a loro avviso,
soprattutto per le piccole vittime. Comprendo il loro dilemma. Per contro, da giurista, devo ribadire che il
professionista sanitario, che rivesta il ruolo di pubblico ufficiale o di incaricato di pubblico servizio, ha
l’obbligo di denunciare questi reati, quando essi sono perseguibili d’ufficio. Non vedo francamente la
possibilità di una soluzione diversa dal punto di vista giuridico.
L’obbligatorietà è prevista dagli artt. 361 e 362 del codice penale, che contemplano e reprimono,
rispettivamente, l’ “Omessa denuncia di reato da parte di un pubblico ufficiale” e l’ “Omessa denuncia di
reato da parte di un incaricato di pubblico servizio”.
L’art. 365, poi, punisce l’ “Omissione di referto” da parte di una persona esercente la professione
sanitaria. A differenza della denuncia, va detto che, per il referto, l’obbligo di segnalazione viene meno
quando esso potrebbe esporre la persona assistita ad un procedimento penale, come nell’ipotesi della
donna, che si rivolga ad un ginecologo per essere deinfibulata al fine di partorire. In tal caso, laddove il
medico comunicasse la notizia all’Autorità, si dovrebbe procedere all’incriminazione della donna, ai sensi
dell’art. 583 bis c.p. (sempre che, nel frattempo, non sia intervenuta la prescrizione del reato). Pertanto, se
il sanitario percepisce che il referto potrebbe avere come conseguenza immediata un procedimento penale
contro la sua assistita, non ha l’obbligo di referto. L’interesse ad utilizzare il referto nella prospettiva di
cooperazione con l’attività giudiziaria allo scopo di reprimere i reati, in questi casi, è, dunque,
controbilanciato dall’interesse contrapposto del segreto professionale e, in tal modo, si finisce per
concedere, ragionevolmente, priorità anche al diritto alla salute.
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MGF: PRATICHE E ASPETTI SANITARI
LUCREZIA CATANIA 10
I NTRODUZIONE 11
Negli ultimi anni esperti di varie discipline si sono occupati delle Mutilazioni Genitali Femminili con
interesse ed impegno, sviluppando in letteratura ed in Centri specializzati studi ed attitudini che
dovrebbero essere globalmente adottati per offrire alle donne con MGF una corretta presa in carico.
Inoltre, sono state approvate o sono attualmente discusse in diversi paesi del mondo, Africa e Occidente,
leggi specifiche a riguardo: tutte mirano non solo al divieto delle pratiche mutilatorie ma anche alla loro
prevenzione e alla formazione del personale sanitario per offrire alle donne e alle bambine portatrici di
mutilazione genitale la salute psicofisica e sessuale a cui hanno diritto.
In Africa tra il1994 e il 2003, Ghana, Djibouti, Burkina Faso, Costa d'Avorio, Tanzania, Togo, Senegal,
Kenya, Benin, Chad e Niger hanno introdotto leggi contro le MGF, ma questo non impedisce che molte
bambine vengano mutilate.
Nel 2004 è stata la volta dell'Etiopia e nel 2008 dell'Egitto, anche in questi paesi la pratica continua ad
essere eseguita. Si è trattato quasi sempre di un passaggio graduale attraverso la medicalizzazione delle
pratiche, il divieto delle forme considerate più severe e infine la messa al bando di ogni forma di
mutilazione genitale femminile. Nonostante l'impegno dei governi, l'approvazione di leggi e l'azione delle
ONG, le MGF sono ancora praticate clandestinamente.
Anche in Australia, Nuova Zelanda, Canada, Stati Uniti, Svezia, Norvegia, Regno Unito, Belgio, Italia,
Spagna, Austria, Danimarca sono state introdotte nel tempo leggi dirette non solo a prevenire, vietare e
punire le MGF ma anche a promuovere la salute delle donne mutilate e a formare personale sanitario. In
Europa il primo stato a emanare una legge specifica diretta al divieto e alla lotta contro le MGF è stata la
Svezia nel1983 seguita negli anni da Norvegia e Regno Unito. Austria, Belgio, Italia, Spagna, Danimarca
e Svizzera hanno introdotto un particolare articolo o atto o riferimento alle MGF; infine paesi come
Francia, Germania, Finlandia, Grecia, Olanda puniscono e condannano le MGF in base a leggi esistenti
come lesioni personali.
In Italia nel 2008 sono state diffuse le Linee Guida Ministeriali sulle MGF, previste dalla Legge n.° 7 del
gennaio 2006 (Gazz.Uff. n. 14 del 18-1-2006) "Disposizioni concernenti la prevenzione e il divieto delle
pratiche di mutilazione genitale femminile" in cui, dopo l'articolo 583 del codice penale, vengono inseriti
gli art. 583-bis e 583-ter.
Art. 583-bis: "Chiunque, in assenza di esigenze terapeutiche, cagiona una MGF è punito con la reclusione
da quattro a dodici anni. Ai fini del presente articolo, si intendono come pratiche di MGF la
clitoridectomia, l'escissione e l'infibulazione e qualsiasi altra pratica che cagioni effetti dello stesso tipo..."
Le disposizioni del presente articolo si applicano anche quando il fatto è commesso all'estero da cittadino
italiano o da straniero residente in Italia o quando la mutilazione è eseguita su cittadino italiano o su uno
straniero residente in Italia.
Art. 583-ter (pena accessoria): "Il sanitario che commette il reato di MGF avrà una pena accessoria
dell'interdizione dalla professione da tre a dieci anni dopo comunicazione all'Ordine dei Medici." Si
ricorda che in Italia anche il Codice deontologico vieta ai medici di praticare la MGF (art.5). E'
10
Lucrezia Catania, medico – chirurgo, ginecologa e sessuologa, è responsabile del Settore Ricerca del Centro di Riferimento
Regionale per la Prevenzione e Cura delle Complicanze legate alla Mutilazione dei Genitali Femminili e Coordinatrice del
gruppo di studio toscano nella ricerca MGF. È stata consulente scientifico nella stesura delle Linee guida nazionali per
operatori sanitari per la prevenzione e il trattamento delle MGF. È membro del Tavolo di Lavoro permanente sulle MGF in
Regione Toscana. È autrice di numerosissime pubblicazioni scientifiche sul tema delle mutilazioni genitali femminili.
11
La relazione è tratta da “Le mutilazioni genitali femminili: inquadramento clinico e significati culturali” , pubblicata a cura
dell’ ASL di Bari - Regione Puglia, in: “Le mutilazioni genitali femminili, aspetti culturali e clinici”(2011). Si ringrazia per la
gentile concessione
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importante notare che l'art.583 bis è composto da un primo comma che prevede da 4 a 12 anni per chi
cagiona una mutilazione agli organi genitali femminili che comprendono clitoridectomia, escissione,
infibulazione e qualsiasi altra pratica che cagioni effetti dello stesso tipo; e un secondo comma che
prevede una pena più mite da 3 a 7 anni per chi provoca, al fine di menomare le funzioni sessuali, lesioni
agli organi genitali femminili diverse da quelle indicate al primo comma da cui derivi una malattia nel
corpo o nella mente e la pena è ulteriormente diminuita fino a due terzi se la lesione è di lieve entità. La
legge prevede anche campagne informative per gli immigrati da Paesi a tradizione escissoria, la
promozione di iniziative di sensibilizzazione per sviluppare l'integrazione socioculturale, l'organizzazione
di corsi di preparazione al parto per donne infibulate, di programmi di aggiornamento per gli insegnanti
delle scuole dell'obbligo e la promozione presso le strutture sanitarie o i servizi sociali di un monitoraggio
dei casi già noti. Prevede inoltre che i sanitari ricevano un'adeguata formazione per la diagnosi, la cura e
la prevenzione delle mutilazioni.
Purtroppo, sebbene le linee guida ministeriali siano dirette a tutti gli operatori che, nella società
multietnica in cui viviamo, si confrontano frequentemente e spesso da tempo con donne provenienti da
Paesi a tradizione escissoria, la pratica quotidiana e alcuni studi recenti sul personale medico mettono in
evidenza una conoscenza inadeguata o talvolta assente in materia e le stesse linee guida non sono
sufficientemente conosciute e diffuse. Nelle strutture che si occupano della salute di queste donne, la
cartella clinica è quasi sempre mal compilata, imprecisa, carente di informazioni e anche non veritiera.
Dobbiamo ricordare che una cartella clinica mal compilata, un foglio di dimissioni impreciso o, peggio
ancora, non veritiero possono essere prove importanti da un punto di vista legale nei contenziosi tra
pazienti e medici e/o aziende sanitarie. E' per tale motivo che sarebbe auspicabile l'uso di un foglio
integrativo da aggiungere alla cartella clinica di una paziente con MGF che acceda al reparto
ginecologico­ostetrico, in modo che l'operatore possa essere facilitato sia nella raccolta anamnestica che
nella corretta esecuzione dell'esame obiettivo dei genitali esterni.
Una corretta raccolta dei dati è utile anche a fini statistici e scientifici. A fianco di operatori indifferenti al
problema MGF esistono poi figure professionali che non distinguono i vari gradi di mutilazione e cercano
complicanze anche dove non ci sono, non conoscono i significati che queste pazienti danno all'esperienza
vissuta e così si scagliano in modo viscerale contro "il diverso e la sua cultura" e vorrebbero infliggere
indiscriminatamente anni di carcere a genitori che non hanno la minima cognizione su illegalità e
dannosità della pratica perché nessuno glielo ha spiegato e, anzi, credono di fare il bene delle loro figlie.
Ecco perché il lavoro continuo e attento contro le MGF deve essere mutidisciplinare, e deve essere svolto
a tutti i livelli: politico, sociale, sanitario, scolastico, legale, religioso, ecc. Le pratiche mutilatorie
rappresentano quindi un tema scottante che richiede da parte di operatori sanitari e medici una specifica
competenza diagnostica, terapeutica e preventiva, capacità di comunicare con queste donne e con i loro
uomini senza pregiudizi sulla loro cultura. Infine il contrasto alle pratiche delle mutilazioni deve essere
attivo su più fronti: da parte dei governi devono esserci efficaci politiche e legislazione chiara; le regioni
devono applicare queste politiche, realizzando efficaci programmi di formazione e di prevenzione, gli
operatori sul territorio (sia in Africa che nei paesi occidentali) e le singole persone saranno i veri
protagonisti del cambiamento.
C ENNI EPIDEMIOLOGICI
Secondo i dati diffusi dal Dossier Caritas Migrantes nel 2010 il numero di immigrati sul nostro territorio è
di circa 4 milioni e 919 mila (1 immigrato su 12 residenti) che rappresenta il 7% della popolazione
italiana, di cui il 51,3 % sono donne. l cosiddetti "stranieri di seconda generazione" sono 572.720. E'
difficile fare stime precise delle donne immigrate e portatrici di MGF presenti sul territorio e del numero
di bambine potenzialmente a rischio. Nel2008 l'istat parlava di 93.000 donne con mutilazioni genitali ma
nel2009 un sondaggio condotto dall'Istituto Piepoli di Roma su incarico del Dipartimento per le Pari
Opportunità e della Presidenza del Consiglio dei Ministri riportavano stime diverse: su 110.000 donne
provenienti da Paesi a tradizione escissoria e con regolare permesso di soggiorno, si calcolava che quelle
che avevano subito MGF fossero 35.000, delle quali 4.600 di età inferiore ai 17 anni.
33
Le mutilazioni genitali femminili sono una tradizione in rapporto molto stretto con l'identità etnica di chi
le pratica e per questo attraversano le frontiere. Sono pratiche che possono essere globali o concentrate in
alcune zone che corrispondono a gruppi etnici precisi. MGF vengono praticate in Africa centrale ed
orientale (Sudan, Nigeria, Costa d'Avorio, Uganda, Mali, Benin, Burkina Faso, Egitto, Etiopia, Eritrea,
Somalia, Gibuti), in Indonesia, Malesia, parte del Golfo Persico, tra alcune minoranze etniche in Yemen,
Oman, Iran, Iraq e, nelle comunità d'immigrati, in Europa, Canada, Stati Uniti, Australia e Nuova
Zelanda.
Le stime WHO diffuse nel 2008 indicano che nel mondo le donne sottoposte a mutilazione oscillano tra i
100 e i 140 milioni e che le bambine che ogni anno vengono mutilate in Africa si aggirano intorno ai 3
milioni. l Paesi a maggior incidenza sono: Somalia (97,9%), Egitto (95,8%), Guinea (95,6%), Sierra
Leone (94%), Djibouti (93,1%), Mali (91,6%) ed Eritrea (88.7%). In Paesi come India, Indonesia, Iraq,
Isra­ ele, Malesia, Emirati Arabi Uniti alcune ricerche hanno documentato queste pratiche, ma non
esistono stime ufficiali nazionali. Si tratta di un costume in forte cambiamento grazie ai movimenti delle
donne in difesa dei propri diritti, al contrasto dei governi locali, alle azioni di lotta promosse dalle
organizzazioni internazionali e dalle ONG.
BREVI CENNI SOCIALI E ANTROPOLOGICI
Le MGF sono pratiche arcaiche che nessuna religione ha prescritto, ma che appaiono profondamente
radicate nella società che le applica, in quanto fino ad ora ritenute essenziali per l’attribuzione di uno
status sociale, sia per la bambina che per tutta la sua famiglia. Sono variamente considerate a seconda
dell’etnia: necessarie per eliminare una parte maschile (clitoride), tutela di verginità e castità, garanzia di
matrimonio, di purezza e canone estetico femminile. Per un operatore socio sanitario occidentale, pur
rispettando la cultura altrui, queste pratiche non hanno le stesse implicazioni sociali, di genere, estetiche e
personali della paziente mutilata ma hanno implicazioni mediche – biologiche, etiche, legali e di
violazione dei fondamentali diritti umani, per cui vi è una oggettiva difficoltà a trattare queste pazienti in
modo efficace senza una formazione culturalmente sensibile e senza una mediazione linguistico-culturale
adeguata.
Inoltre in questi anni la popolazione di donne con MGF si è modificata per cui non possiamo ignorare le
conseguenti implicazioni che ci troviamo di fronte. Incontriamo non solo donne nate e cresciute fino
all'età adulta nei paesi d'origine e portatrici dei valori tradizionali, spesso non coscienti di un disturbo
perchè considerato "parte del normale essere donna" ma anche con seconde e terze generazioni. Sono
quindi da un lato bambine nate in occidente, per le quali è necessaria un'opera di educazione alla legalità
e alla salute dei genitori, di prevenzione e collaborazione con i pediatri e, dall'altro, ragazze e giovani
donne circoncise nel proprio paese e cresciute e residenti a lungo in un paese occidentale, che vivono un
confronto con le diversità culturali del paese ospitante.
Tale confronto può, in certi casi, causare conseguenze psicosessuali, infatti il contrasto tra valori originari
positivi della circoncisione e valori negativi occidentali sulla mutilazione può creare un conflitto di
identità e di lealtà nei confronti della propria cultura d'origine. Sensazioni di umiliazione, impotenza,
senso di tradimento della propria famiglia, vergogna, non accettazione dell'immagine corporea,
percezione negativa dei propri genitali, aspettative disastrose nei confronti della propria sessualità
possono essere all'origine di problemi psicosessuali, indipendentemente dalla gravità del danno
anatomico, che richiedono cure appropriate culturalmente sensibili.
Trattando con una donna che ha subito una MGF, non è corretto limitarsi al solo fatto che sia portatrice di
mutilazione: occorre considerarla come persona nel suo insieme, come ogni altra paziente immigrata,
tenendo conto delle possibili diversità linguistiche e culturali (usi, costumi, tradizioni, credenze, religione
diverse dalle nostre), della sua storia e del percorso di migrazione vissuto.
E' infatti possibile che la donna oltre ad essere mutilata abbia subito dei traumi: violenza, tortura, lutto,
guerra, impossibile ricongiungimento familiare. Bisogna tener conto dei fattori economici, del livello di
istruzione, dell'eventuale isolamento in cui la donna vive o, viceversa, dei contatti con la comunità di
appartenenza, e del tipo di accoglienza ricevuta.
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E' possibile che diffidenza e paura, in caso di accesso al sevizio sanitario, a causa della curiosità
irrispettosa del personale, dello stigma, del giudizio negativo sulla cultura della donna, della critica sulle
sue usanze e della possibile denuncia a causa della MGF, rischino di distruggere qualsiasi fiducia della
paziente nel medico e nel Servizio Sanitario Nazionale.
Per tutelare il diritto alla salute della paziente con MGF è dunque necessario garantire che il personale
medico, infermieristico e ostetrico, e i mediatori sociolinguistici vengano adeguatamente formati.
Occorre tener conto che il problema delle MGF può direttamente riguardare una famiglia occidentale in
varie occasioni che si presentano sempre più frequentemente:
1) adozione di una bambina mutilata i cui genitori adottivi non erano stati messi a conoscenza dell'evento;
2) ragazzo occidentale che inizia una relazione sentimentale e sessuale con una ragazza mutilata;
3) adolescenti occidentali che hanno nel loro gruppo una ragazza mutilata;
4) famiglia che ospita una badante o una colf mutilata.
D EFINIZIONE E C LASSIFICAZIONE
Si definisce Mutilazione Genitale Femminile ogni procedura che comporta la parziale o totale rimozione
dei genitali esterni femminili o ogni altra pratica dannosa sui genitali femminili per ragioni non
terapeutiche.
In Tabella 1 è riportata la nuova classificazione WHO delle MGF che risale al 2007. Rispetto alla
precedente non compaiono nel tipo IV le pratiche estensive di clitoride e piccole labbra (stretching o
longininfismo) che esistono tra alcune popolazioni di Malawi, Burundi, Ruanda e Uganda; per ogni tipo
sono stati aggiunti dei sottotipi e la definizione del tipo III (infibulazione) è stata modificata: si specifica
che ci può essere o meno escissione del clitoride, dati i risultati di studi sulla deinfibulazione, che hanno
messo in evidenza la presenza di parte o di tutta l'asta clitoridea sotto la cicatrice nel 40-90% dei casi.
Va inoltre considerato che quando si parla di rimozione del clitoride si deve intendere la rimozione della
parte visibile esterna del clitoride, sarebbe impossibile sradicare l'intero organo senza uccidere la
bambina.
Tipo I: Asportazione parziale o totale del Tipo Ia: rimozione del glande clitorideo o del
clitoride e/o del prepuzio (clitoridectomia)
solo prepuzio, paragonabile alla circoncisione
maschile
Tipo Ib: rimozione del clitoride e del prepuzio
Tipo II: Asportazione parziale o totale del Tipo IIa: rimozione delle piccole labbra
clitoride e delle piccole labbra, con o senza Tipo IIb: rimozione delle piccole labbra e
asportazione delle grandi labbra (escissione)
rimozione parziale o totale del clitoride
Tipo IIc: rimozione parziale o totale del clitoride,
delle piccole labbra e delle grandi labbra
Tipo III: Restringimento dell’orifizio vaginale
attraverso una chiusura ermetica coprente creata
tagliando ed avvicinando le piccole e/o le grandi
labbra, con o senza escissione del clitoride
(infibulazione)
Tipo IIIa: rimozione, apposizione e adesione
delle sole piccole labbra
Tipo IV: Non classificato
Rientrano in questa categoria tutte le altre pratiche
dannose per i genitali femminili condotte per scopi
non terapeutici (es. puntura/pricking, piercing,
incisione, raschiatura, cauterizzazione)
Tipo IIIb: rimozione, apposizione e adesione
delle grandi labbra
Tabella 1 . Classificazione delle MGF (WHO 2007)
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C ONSEGUENZE
Chi si occupa della salute delle donne immigrate deve conoscere i reali effetti delle MGF che sono
variabili e dipendono da vari fattori come quantità di tessuto asportato (tipo di mutilazione), modalità con
cui è stata operata la bambina, cioè se è stato usato strumentario non sterile o strumentario chirurgico,
competenza dell'operatore, condizioni igieniche in cui si è svolta, condizioni di salute della bambina, stato
socio-economico.
Le famiglie povere che vivono in ambiente rurale ricorrono alle figure tradizionali non sanitarie, le
famiglie benestanti affidano le loro figlie a personale medico in ambulatorio o in ospedale.
Così nelle zone rurali l'area vulvare viene trattata con il fumo di erbe disinfettanti messe a bruciare in una
buca scavata nel terreno su cui viene fatta sedere la bambina, dopo che la ferita è stata coperta con uova,
resine, misture argillose che tengono insieme, fissandola, la ferita, in contesti sanitari, la mutilazione
viene trattata come una normale operazione chirurgica e vengono usati anestetici, antibiotici e antitetanici.
In ogni caso le gambe della bambina vengono legate insieme in modo che la ferita non si riapra e possa
rimarginarsi bene.
Se non sopravvengono infezioni la cicatrizzazione avviene in 1- 3 settimane.
Dobbiamo distinguere le complicanze immediate, che colpiscono la bambina subito dopo l'operazione, e
quelle tardive che affliggono la donna nel corso della sua vita e che ci troveremo a diagnosticare e trattare
nelle nostre strutture sanitarie.
Le complicanze immediate sono di vario tipo e gravità: dolore e bruciori acuti alla minzione, ritenzione
urinaria acuta, anemia da lieve a moderata, emorragie più o meno gravi e anche mortali, infezioni, se la
ferita si riapre viene suturata di nuovo e la cicatrizzazione richiede un tempo lunghissimo. Possono
comparire infezioni delle vie urinarie, febbre, setticemia e, qualche volta può purtroppo verificarsi il
decesso della bambina. Quando non viene sterilizzato l'unico strumento usato per mutilare più bambine, è
facile trasmettere malattie come AIDS, epatite, tetano. Sono stati segnalati casi di fratture e lussazioni di
clavicola, omero e femore legati alle violente manovre di immobilizzazione della bambina non sedata.
Le complicanze tardive sono patologie che richiedono da parte del medico una particolare attenzione e
sensibilità, infatti la maggior parte delle donne con MGF spesso non è consapevole che i disturbi che le
affliggono siano dovuti alla mutilazione subita. Queste pazienti sono "abituate" alla sofferenza fisica
(durante il ciclo, i rapporti sessuali e il parto) che è ritenuta "naturale" per ogni donna. Una donna su due
non sa neanche se e cosa abbia subito da piccola. Inoltre alcune donne, anche quando sono diventate
consapevoli dei danni della MGF, si vergognano di parlarne perché non si fidano del medico e temono di
essere disprezzate. Con l'infibulazione il vestibolo vulvare (parte compresa tra le piccole labbra) insieme
con lo sbocco uretrale e l'ingresso vaginale vengono ricoperti da un ponte cicatriziale in cui è visibile
solo un piccolo foro (nella donna vergine è circa 2-3 millimetri) per far defluire il flusso mestruale e
l'urina: così, spesso, la donna infibulata lamenta dismenorrea. A volte l'orificio vaginale è troppo piccolo,
il sangue ristagnando in vagina prima e nell'utero poi provoca ematocolpo ed ematometra. Non bisogna
trascurare un'ipotesi di questo tipo di fronte a una ragazza infibulata adolescente con sintomi di addome
acuto e che non ha avuto ancora il menarca. Bisogna intervenire subito, prima con una ecografia e poi
con un'incisione della cicatrice per svuotare la vagina e a volte anche l'utero dal sangue accumulato.
Importantissimo è spiegare tutto alla ragazza e ai familiari che sicuramente richiederanno di reinfibulare i
genitali della ragazza. Nella donna infibulata vergine il deflusso delle urine è spesso difficoltoso
(disuria): una bambina infibulata può impiegare anche più di venti minuti per svuotare, goccia a goccia,
la vescica. Le urine possono ristagnare dietro la cicatrice portando alla formazione di piccoli calcoli
molto fastidiosi o dolorosi durante i rapporti sessuali.
Dopo i primi rapporti sessuali sono molto frequenti cistiti e vaginiti difficili da curare perché le donne non
sono abituate ad andare dal ginecologo e non hanno la cultura della prevenzione specialmente se non sono
sposate o incinte.
Molto comune è la formazione di cisti nella cicatrice dovute alla ritenzione di tessuto cutaneo ricco di
ghiandole sebacee; all'inizio sono piccole e asintomatiche ma con gli anni arrivano a raggiungere grosse
dimensioni. Anche queste di solito non danno sintomi ma possono trasformarsi in ascessi per
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superinfezione e dare dolore e rigidità dei tessuti. Le infezioni pelviche e i dolori ai rapporti sessuali
(dispareunia) specialmente all'inizio dell'attività sessuale sono praticamente la regola nelle donne
infibulate.
Rara ma possibile è la comparsa di un neurinoma clitorideo molto doloroso. E' legato alla proliferazione
anarchica delle fibre nervose del nervo clitorideo sezionato. Questa complicanza è invalidante perchè
causa dolore fisso ma è possibile asportarlo chirurgicamente.
Le complicanze psicologiche si manifestano soprattutto nelle giovani e nelle adulte che in contesto
migratorio si confrontano con modelli di socializzazione e di costruzione dell'identità femminile
completamente diversi dalla cultura d'origine.
Ci sono donne che attribuiscono all'esperienza mutilatoria sentimenti di umiliazione, di impotenza e
riferiscono di aver vissuto l'operazione come uno stupro e come un tradimento imperdonabile da parte
della famiglia; viceversa ci sono donne che si dicono fiere e orgogliose della loro MGF e negano qualsiasi
complicanza fisica o psicologica o sessuale arrivando, come abbiamo detto, a "normalizzare" alcuni
disturbi che solo con il tempo e con il contatto con altre donne vengono riconosciuti come tali. Questo si
verifica specialmente se il confronto avviene con donne correttamente informate magari prima della
deinfibulazione e che hanno potuto constatare personalmente la differenza tra prima e dopo l'operazione.
Nella donna infibulata gravida risultano difficili i controlli ginecologici e spesso la paziente si presenta
a gravidanza inoltrata senza aver fatto gli esami e le eco di routine. Ricordiamo che circa il 6% delle
donne infibulate rimane incinta prima che l'infibulazione sia stata aperta completamente per cui la visita
risulta quasi impossibile. La gravidanza può essere complicata da infezioni urinarie e vaginali che
possono portare a rottura prematura delle membrane.
Non bisogna trascurare la possibilità che siano presenti malattie che in Occidente non sono più frequenti
come la tbc, la malaria, ecc., specialmente se la donna è arrivata da poco su territorio italiano.
Durante il parto, se la donna con MGF di III tipo non é stata preventivamente deinfibulata, vi è una
oggettiva difficoltà a valutare la dilatazione cervicale, a monitorare la rotazione e la progressione del feto,
a eseguire un cateterismo vescicale. Il periodo espulsivo può prolungarsi con conseguenze negative sul
feto e possibilità di lacerazioni del perineo, lesioni dello sfintere anale con successiva incontinenza (eventi
questi rari in Occidente per il frequente ricorso al taglio cesareo, ma frequentissimi nei Paesi d'origine).
L'arresto o il rallentamento della progressione della parte presentata può essere causa dell'insorgenza di
fistole rettovaginali o vescicovaginali (comunicazione patologica tra retto e vagina, tra vescica e vagina,
tra vescica, cervice e vagina) legate alla sofferenza necrotica da compressione sulla cervice uterina da
parte dell'estremo cefalico fetale. Durante il periodo espulsivo bisogna porre attenzione all'inserimento del
catetere vescicale per evitare la formazione di un ematoma nello spazio vescico-uterino sottoperitoneale e
quindi successiva fistolizzazione e anemizzazione.
In alcuni Paesi, Sudan e Somalia soprattutto, viene spesso praticata la reinfibulazione che consiste nella
risutura dei margini della cicatrice dell'infibulazione, aperti per permettere alla donna di partorire per via
naturale. La reinfibulazione viene eseguita, non solo dopo un parto ma anche dopo un intervento
chirurgico che ha richiesto l'apertura dell’ infibulazione. E' difficile quantizzare il numero di donne che
vengono reinfibulate ma la WHO riferisce che si aggirano tra i 6.5 e i 10.4 milioni. Nei Paesi interessati
sono le ostetriche e i medici ad eseguirla da dopo 2 ore a 40 giorni dopo il parto o un intervento
chirurgico su vagina, cervice, utero. Secondo la WHO la richiusura della cicatrice, nei Paesi a tradizione
escissoria è condotta dagli operatori principalmente per motivi economici e per mantenere valori
tradizionali perpetuati da generazioni in generazioni e che riguardano il piacere sessuale maschile.
Ci sono degli studi condotti in Sudan che riportano più del 50% di donne infibulate che hanno ricevuto
una reinfibulazione e il 45% di queste sono state risuturate più di 5 volte, spesso senza che neanche
fossero interpellate. Addirittura sono descritti casi di donne con genitali intatti che, dopo aver partorito in
strutture dove veniva eseguita d'ufficio la reinfibulazione, hanno subito un'infibulazione fatta passare per
reinfibulazione. Altre volte sono le stesse donne a pretendere di essere ricucite e il medico è d'accordo
perché ritiene che la richiesta di una donna adulta e consenziente sia analoga a quella di una donna che
richiede un body piercing o un qualsiasi intervento di chirurgia estetica. L'obiezione è che, in questo caso,
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la donna viene informata, ascoltata e firma un consenso informato, può recedere dalla decisione o dettare
condizioni. Le donne adulte che nei loro paesi accettano la reinfibulazione non prendono parte attiva alla
decisione nè vengono informate sulle conseguenze sanitarie e così la loro decisione non è davvero libera e
pienamente consapevole.
Nel caso di richiesta di reinfibulazione da parte di donne infibulate è importante spiegare già prima del
parto che in Italia, come in altri paesi Europei (negli Stati Uniti non esiste divieto chiaro in proposito), la
reinfibulazione non può essere eseguita perchè viola il codice deontologico oltre ad essere dannosa per la
salute della donna ed è illegale.
E' indispensabile spiegare che il meato urinario deve essere scoperto e garantire il ripristino il più normale
possibile dell'anatomia dei genitali, senza lasciare l'ingresso vaginale eccessivamente ampio per non
creare nella paziente disagi psicosessuali anche con il marito che potrebbero spingerla a tornare nel
proprio paese per essere reinfibulata. È importante affrontare il dialogo sul cambio anatomico e
fisiologico dei genitali durante il postpartum. Una rieducazione del pavimento pelvico con esercizi di
Kegel aiuterà la paziente a sentire di nuovo i suoi genitali sensibili e reattivi.
D IALOGO E PRESA IN CARICO DELLA DONNA CON MGF
Diverse sono le occasioni in cui un ginecologo può incontrare una donna portatrice di MGF:
gravidanza, complicanze legate alla mutilazione genitale, visite di routine. La presa in carico di una
paziente simile deve prevedere accoglienza, empatia, dialogo e offerta di cure adatte, senza mettere la
paziente a disagio, condannarla, vittimizzarla o umiliarla. Può verificarsi il caso in cui la donna non
abbia alcun disturbo o che al contrario sia necessaria una presa in carico multidisciplinare (intervento di
sessuologo, pediatra, medico legale, psicologo). Di fronte ad una donna gravida di una bambina o che
ha partorito una figlia è bene iniziare subito a parlare con lei e il marito sulla illegalità e dannosità della
pratica allertando anche il pediatra. Nel caso di un problema sessuologico, non bisogna supporre che la
mutilazione sia l'unica causa responsabile ma si devono considerare tutti i fattori (biologici, culturali,
psicosessuali) e si deve essere preparati a fornire educazione sessuale, informazione corretta ed
eventualmente una terapia sessuologia, coinvolgendo il partner se necessario. Il trattamento principale
di complicanze come dismenorrea, dispareunia, penetrazione impossibile, cisti vulvare, cicatrici
ipertrofiche, infezioni recidivanti delle vie urogenitali, minzione prolungata, è sempre chirurgico. l
trattamenti chirurgici includono la deinfibulazione, la ricostruzione della clitoride e l'asportazione delle
cisti vulvari che si sviluppano soprattutto nella cicatrice delle donne infibulate.
D EINFIBULAZIONE
La deinfibulazione è un intervento chirurgico che ripristina l'apertura vaginale ed espone il vestibolo
vulvare ostruiti dalla cicatrice dell'infibulazione. Può essere parziale se espone il vestibolo soltanto fino
allo sbocco del meato urinario oppure totale se evidenzia il tessuto clitorideo o addirittura l'intera asta
clitoridea.
Si esegue incidendo lungo la linea mediana della cicatrice e suturando i margini delle ferita in modo
separato cercando di ricreare una parvenza di piccole labbra. Da un punto di vista chirurgico l'intervento è
semplice, ma il percorso che la donna intraprende e vive con il ginecologo è complesso per la presenza di
dubbi, resistenze, paure di stigmatizzazione da parte della comunità di appartenenza e per la dolorosa
presa di coscienza. La deinfibulazione fa parte della promozione della salute della donna perché rende
possibile la visita ginecologica di controllo, il PAP test e gli strisci batterioscopici, l'isteroscopia,
l'ecografia transvaginale, risolve le infezioni croniche del tratto urogenitale e permette il trattamento delle
problematiche psicosessuali come la dispareunia o la penetrazione impossibile. Inoltre permette lo
svolgimento del parto per via naturale, evitandone le complicanze e permettendo la valutazione della
dilatazione cervicale, la progressione del feto e l'inserimento del catetere vescicale. La deinfibulazione
può essere eseguita sia in anestesia locale che in anestesia generale. Le tecniche chirurgiche sono a) con il
laser o b) a lama fredda (bisturi, forbici).
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La tecnica è semplice quando la cicatrice dell'infibulazione è sottile, senza complicanze, e spesso è
possibile ricostruire una parvenza di labbra a protezione dell'ingresso vaginale. In altri casi, quando la
cicatrice è spessa, c'è un cheloide o una cisti da ritenzione oppure si sono create aderenze con l'uretra che
può essere distorta nel suo percorso, l'intervento risulta più impegnativo. Dopo l'intervento sono
necessarie igiene accurata e manovre divaricatorie quotidiane con creme anestetiche e antibiotiche per
impedire che i bordi si risaldino durante il processo di cicatrizzazione.
Poiché in queste culture la verginità fisica è molto importante e obbligatoria per il matrimonio bisogna
avere cura di non danneggiare l'imene, ma bisogna anche informare la paziente che la verginità fisica non
è la cucitura artificiale dell'ingresso vaginale. L'intervento deve essere preceduto dal colloquio che può
rappresentare il momento del dialogo, dell'educazione e dell'informazione della paziente e del partner su
salute, legalità, anatomia femminile e aspetto dei genitali postoperatorio. Importante è informare la
paziente che dopo l'operazione cambierà il modo di urinare, il getto di urina sarà continuo e non più lento.
Non esistono raccomandazioni ufficiali sul momento ideale per una deinfibulazione nel corso della
gravidanza (primo trimestre dopo 12 settimane, secondo trimestre o momento del parto).
La scelta varia a seconda del centro e dell'operatore. In base alla nostra esperienza è consigliabile
eseguirla alla fine del primo trimestre, subito dopo la prima ecografia di datazione per facilitare le visite,
evitare complicanze al momento del parto specialmente in caso di équipes prive di esperienza con donne
infibulate e per separare il momento del parto da quello della deinfibulazione, lasciando il tempo alla
donna di abituarsi al cambiamento anatomofisiologico genitale ed evitare eventuali richieste di
reinfibulazione. Se la donna arriva in travaglio si esegue la deinfibulazione intrapartum con le forbici da
episiotomia o il bisturi incidendo lungo la linea mediana della cicatrice fino al meato uretrale.
Dopo l'espulsione del feto e della placenta si procede alla sutura separata dei due lembi della
deinfibulazione con punti staccati a scopo emostatico. La necessità di episiotomia deve essere valutata
caso per caso.
Coloro che preferiscono rimandare la deinfibulazione intrapartum si basano sul fatto che alcuni studi
hanno evidenziato che non ci sono differenze in termini di durata del travaglio, tasso di episiotomia,
lacerazioni vaginali, APGAR, perdita di sangue e giorni di ospedalizzazione tra donne con MGF e donne
intatte. Comunque è meglio discutere con la paziente e valutare con lei, dopo le spiegazioni, che cosa
preferisce.
R ICOSTRUZIONE CLITORIDEA
Negli ultimi anni sempre più donne fanno richiesta di ricostruzione clitoridea e alcuni studi in proposito
raccomandano una valutazione psicologica e sessuologica prima di ogni intervento di questo tipo. Spesso
ci troviamo di fronte al desiderio di recuperare il clitoride e l'identità femminile perduti e a false
convinzioni di aver perso interamente gli organi genitali esterni.
E'prioritario quindi spiegare l'anatomia genitale e in particolare del clitoride alla donna e valutare con
prudenza l'indicazione a un tale intervento, magari con il sostegno di uno psicologo. La ricostruzione
clitoridea è stata ideata dal chirurgo francese P. Foldes e può essere eseguita sia nelle donne con MGF
di tipo l e II che in quelle infibulate.
L'intervento richiede una formazione chirurgica specifica, la paziente deve essere ascoltata riguardo alle
aspettative e motivazioni che la portano a chiedere l'intervento; nel 90% dei casi non ci sono
complicanze, vi può essere dolore persistente nei primi 2 o 3 mesi. Il follow­ up in questi casi prevede
anche sedute di counseling. Sono inoltre possibili deiscenza della ferita con retrazione della clitoride,
ematoma, infezione, ipertrofia cicatriziale.
La sensibilità clitoridea di solito compare dopo 4-8 settimane dall'operazione, la riepitelizzazione si
completa dopo 3 mesi ma non sembra che influenzi la sensibilità clitoridea.
Particolare attenzione va rivolta al peduncolo neurovascolare clitorideo la cui lesione può essere causa di
dolore cronico o di ischemia e necrosi del glande clitorideo.
Dopo l'intervento la donna deve imparare ad esplorarsi e a conoscere il proprio corpo e anche il partner,
se c'è, va sensibilizzato ed istruito.
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Riguardo alla funzionalità della clitoride ricostruita Foldes riporta il 30,5% di donne con orgasmo su 453
interventi, e 39% di miglioramento della funzione clitoridea. Il 3% ha riportato dolore cronico senza alcun
miglioramento della sessualità.
In Burkina Faso oltre a campagne contro la MGF vi sono campagne che invitano alla ricostruzione
clitoridea accettata dalle donne, dai loro familiari e dalla comunità di appartenenza.
l medici che la praticano sono ben accettati e ricevono una formazione specifica.
Anche il ministero della salute approva questa operazione che viene offerta gratuitamente negli ospedali
pubblici. In Europa viene eseguita solo nelle cliniche private e in Francia è codificato come un qualsiasi
intervento chirurgico nel CCAM (Common Classification of Medicai Procedures) ed è rimborsato. Sono
state riportate contestazioni contro i medici francesi che eseguono questo tipo di operazione.
Secondo gli studi di Foldes l’86% delle donne con MGF che hanno richiesto la ricostruzione clitoridea lo
ha fatto a causa dei forti sentimenti di "perdita di identità femminile", il 66% lo ha fatto per problemi
sessuali non specificati e dispareunia.
Spesso queste donne lamentano la perdità della "normalità" dei loro genitali con la MGF, in questi casi è
importante indagare sul concetto di normalità infatti il 7%, secondo Foldes si è mostrato insoddisfatto del
risultato finale sebbene il chirurgo lo ritenesse eccellente.
S ESSUALITÀ E MGF
Il contesto culturale in cui si vive può modificare la percezione del piacere e può inibire l'orgasmo a
prescindere dalla presenza o meno di una mutilazione, perciò massima attenzione deve essere rivolta alle
giovani pazienti giunte in occidente già mutilate nel loro Paese d'origine, poichè quando la cultura fa
vivere la mutilazione come una condizione positiva, l'esperienza del piacere sessuale e dell'orgasmo è
presente in alta percentuale e molti studi nazionali e internazionali lo dimostrano. Quando invece si crea
un conflitto culturale tra la condanna occidentale delle MGF e i significati positivi dati alla mutilazione
dalla cultura d'origine, la frequenza dell'orgasmo si riduce, sebbene la situazione anatomica lo renda
possibile.
Da studi svedesi (S. Johnsdotter 2011) è emerso che giovani somale cittadine svedesi arrivate in
Scandinavia già mutilate si sono dovute confrontare con le violente campagne di condanna delle MGF e
con i messaggi dei media sulla loro sessualità distrutta per sempre e sulla incapacità delle donne con MGF
di provare piacere e di avere l'orgasmo.
Queste ragazze devono affrontare l'inizio della loro vita sessuale ignorando completamente le loro reali
potenzialità, con conseguenze negative. Anche un precedente studio su ragazze eritreee ed etiopi aveva
mostrato che moltissime di loro erano convinte che la clitoridectomia subita avesse rovinato in modo
permanente la loro possibilità di avere una vita sessuale realmente piacevole, sebbene riportassero di
avere l'orgasmo e descrivessero la loro vita sessuale prima della migrazione come normale.
Questi sentimenti di perdita e di sofferenza sembrano derivati dalla violenza delle campagne anti-MGF,
per cui, pur rimanendo prioritario ogni contrasto alla MGF bisogna studiare modalità nuove che siano
efficaci ma non dannose.
Anche i nostri studi sono giunti alla stessa conclusione e abbiamo richiamato l'attenzione sul rischio di
aggiungere alla mutilazione fisica delle MGF anche una mutilazione psicologica.
I L DIBATTITO SULLA CHIRURGIA ESTETICA DEI GENITALI FEMMINILI
(F EMALE G ENITAL C OSMETIC S URGERY -FGCS) E SUL PRICKING
Negli ultimi anni nei paesi occidentali la chirurgia correttiva dei genitali femminili senza indicazione
terapeutica è diventata sempre più frequente anche tra le giovanissime: riduzione, armonizzazione delle
piccole labbra, riduzione o aumento delle grandi labbra, riduzione dell'introito vaginale, retrazione di
clitoride dietro il prepuzio, rimozione del prepuzio clitorideo, rimodellamento del monte di venere, g-spot
enhancing, ecc.
Tutti questi interventi, pur non avendo fini terapeutici, sono diventati molto frequenti al punto che, le
Associazioni scientifiche si sono attivate per fornire una direttiva medica al fenomeno.
40
L'ACOG (Associazione Ginecologi Ostetrici) nel2007, l'Olanda nel 2008 e l'Austria nel 2010 hanno
discusso del problema e in seguito hanno introdotto linee guida. Di fronte a queste iniziative, all'ultimo
congresso mondiale di sessuologia (WAS, World Association of Sexuology, Glasgow 2011) dove le linee
guida sono state presentate, alcuni ginecologi provenienti da paesi a tradizione escissoria attivisti contro
la pratica mutilatoria anche tra le donne maggiorenni (rifiuto di reinfibulazione alla donna infibulata che
dopo il parto richiede di essere "richiusa") hanno innescato una polemica con i ginecologi occidentali che
in Occidente praticano la chirurgia dei genitali femminili senza scopi terapeutici ma solo per desiderio
estetico e quindi culturale per rispondere ad un ideale di bellezza imposto dall'esterno che coinvolge
ragazze occidentali già a 11-13 anni di età. Il pricking, una procedura che fa parte, insieme ad altre
pratiche, del IV tipo delle MGF, consiste nella puntura del prepuzio clitorideo senza rimozione di tessuto.
In alcune regioni africane ha sostituito forme più severe di mutilazioni genitali femminili e dagli
anni 90 è stato proposto, anche in centri medici occidentali, come forma simbolica alternativa in
quelle famiglie che nell'immediato erano pronte a mutilare la loro bambina. Tuttavia la WHO ha preferito
includerlo nel tipo IV per il rischio di legittimare o coprire forme invasive di mutilazione dal tipo l al tipo
III.
Nel tempo il pricking (o nicking) è stato oggetto di numerose discussioni, l’ ultima delle quali apertasi
nell'aprile 2010, negli Stati Uniti dopo la proposta dell'Associazione Americana di Pediatria. Il primo di­
battito risale al 1992 quando il Ministro del Welfare, Salute e Cultura in Olanda suggerisce di autorizzare
i medici ad effettuare il pricking come rituale. Successivamente nel 1996 a Seattle, il comitato formato da
bioeticisti, un urologo, pediatri, un ginecologo-ostetrico, amministratori dell'ospedale e un chirurgo
plastico dell' Harborview Medical Center suggeriscono un medically safe pricking dopo rapplicazione di
un anestetico locale come procedura preferibile a forme più severe di mutilazione, che le bambine
potrebbero rischiare durante un viaggio nel paese d'origine.
Nel 2003 a Firenze al Centro di Riferimento per la Cura e la Prevenzione delle MGF, AOUC, viene fatta
la proposta di puntura simbolica, dopo applicazione di crema anestetica locale, destinata a famiglie
estremamente resistenti al cambiamento culturale con bambine ad immediato rischio di essere mutilate e
abbastanza grandi da dare un consenso. A Firenze come a Seattle, le proposte nascono in seguito alle
discussioni con le comunità immigrate, come rito non dannoso e simbolico, rivolto alle famiglie
resistenti all'abbandono della pratica tradizionale nonostante educazione e informazione, per
evitare forme più severe di MGF e rappresentare un passo nella transizione verso l'abbandono completo
della circoncisione. A Firenze la proposta viene studiata e discussa da psicologi, antropologi, sessuologi,
ginecologi e bioeticisti; viene valutata alla Facoltà di Legge e al Comitato di Bioetica di Firenze e viene
giudicata etica, legale, deontologica, nobile ed efficace. Ma, come negli altri Paesi, insorgono forti
polemiche e proteste tra le associazioni e a livello mediatico e la messa in atto del pricking viene
abbandonata. La stessa successione di eventi si verifica ad aprile 2010, negli Stati Uniti, quando
I'American Academy of Pediatricians dichiara che le leggi federali e statali dovrebbero concedere ai
pediatri la possibilità di offrire un ritual nick (puntura simbolica) come possibile compromesso,
fisicamente non dannoso e meno grave di una circoncisione maschile. Questa dichiarazione scatena
grandi proteste e il dibattito è tuttora in corso.
41
L’ESPERIENZA PERSONALE DI DONNA SOMALA
LUL OSMAN 12
La mutilazione dei genitali femminili è una pratica usata da alcune comunità che vivono in certe aree
dell'Africa: l’80% delle donne coinvolte in questa pratica provengono dalla Somalia, dal Sudan,
dall’Etiopia e dall’ Eritrea. Il restante 20% è costituito da Nigeria, Egitto, Costa d' Avorio, Burkina Faso,
Kenya, Mauritania e Ghana.
La prevalenza dei diversi tipi di mutilazione applicata in questi paesi africani è:
• del 67% per il I tipo (clitoridectomia)
• del 27% per il II tipo (escissione)
• del 6% per il III tipo (infibulazione)
Questo ultimo tipo è stato identificato più di frequente nelle donne di età compresa fra i 36 e 45 anni,
anche se la differenza non è stata statisticamente significativa.
Questa pratica causa il più delle volte dei problemi di ordine psicologico, ginecologico, dermatologico ed
internistico ad almeno l'80% delle donne.
Si è cercato di identificare spazi e modalità di comunicazione neutra e plurale su questa tematica con
singoli individui e comunità più ampie, perché i movimenti migratori da una parte hanno reso possibile
l'incontro di popoli estremamente diversi fra loro, dall'altra hanno contribuito alla nascita di una forma del
tutto nuova di società, nella quale convivenza pacifica e rispetto reciproco vengono costantemente messi
alla prova dal delicato intreccio di culture che avvolge la vita quotidiana.
Spesso l'equilibrio delle relazioni umane si spezza a causa della scarsa attenzione che una persona
dimostra nei confronti di un'altra, che una cultura dimostra nei confronti di un'altra. Molte volte
condannare è più facile che capire.
Ed ecco perché pensare di risolvere il problema delle pratiche tradizionali dannose soltanto attraverso le
normative che ne puniscono l'esecuzione, può risultare del tutto inutile.
L'intervento legislativo per raggiungere i risultati sperati trova un passaggio obbligato nella comprensione
e nel dialogo con le altre culture.
Si tratta di far comprendere che si può rimanere fedeli alla propria cultura abbandonando le pratiche
pericolose per l'integrità psicofisica delle bambine, ed è inoltre necessario intervenire con gli organismi
locali, attraverso progetti di cooperazione, formazione e di riconversione in attività sanitarie delle persone
che eseguono materialmente la mutilazione dei genitali femminili nei paesi dove tali pratiche sono così
diffuse.
Progetti quindi più ampi ed elaborati, che coinvolgono professionalità diverse.
Nel 1999 donne africane di diverse nazionalità africane, residenti in tutta Europa, si sono riunite
accomunate da esperienze di vita segnata dalla mutilazione dei genitali femminili.
Lo scopo dell'unione di queste donne, e della formazione di un network, era di scambiarsi le informazioni
e le esperienze di ognuna, in modo da poter aiutare chi non ha avuto la forza di esprimere i propri
problemi, stabilendo una rete di informazione sulle risorse, mettendo a disposizione materiale educativo,
materiale medico e formulando un database.
Ciò che si è cercato di fare quindi è stato:
- stabilire una cooperazione condividendo l'informazione tra l'Europa e l'Africa;
12
Lul Osman, laureata in economia e commercio all’università somala di Mogadiscio, in Italia dal 1990, fa parte del Network
Europeo “STOP MGF”. Presidente dell’ Associazione Italiana Donne Somale. Ha partecipato come formatrice a diversi corsi
sul tema delle MGF. Lul, che è madre di quattro figli, ha voluto essere presente per portare la propria esperienza personale
di donna somala che ha vissuto in prima persona la tradizione delle mgf.
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- promuovere la diffusione della conoscenza delle MGF come un problema, sentito specialmente in
occidente, attraverso i media, dal momento che la rete mediatica gioca un ruolo in educazione informativa
al pubblico come policy-makers.
Gli obiettivi sono sia generali che specifici: l'obiettivo generale è quello di migliorare la salute delle
donne emigrate in Europa, in particolare la lotta contro l'MGF; gli obiettivi specifici sono quelli di
sradicare la pratica della mutilazione, di promuovere lo scambio di informazioni ed esperienze, di creare e
mantenere un network con l'inter african comitee (iac).
Va aperta una considerazione rispetto alla religione poiché tante persone considerano l'MGF come una
pratica attribuita a quella musulmana. Gli esperti della religione musulmana affermano che c'è un "xadith"
(testimonianza di ciò che il profeta ha detto, fatto o tollerato, redatto dopo la sua morte) dal quale è stata
dedotta una "sunna" (modo d'agire esemplare, basato sugli insegnamenti del profeta).
A tal proposito è stato detto che qualora si dia credibilità a tale testimonianza, la circoncisione "lieve"
della donna sarebbe una pratica auspicabile. Ciò a dimostrare che nemmeno la religione è d'accordo su
questo punto.
Il governo italiano ha proibito questa pratica (anche la sunna) in modo categorico con una legge.
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IL FENOMENO DELLE MGF IN RELAZIONE ALL’IDENTITÀ DI GENERE E ALLA
SESSUALITÀ NEL CONTESTO MIGRATORIO
PINA DEIANA 13
Questo intervento è volto ad approfondire il fenomeno delle MGF in relazione al concetto di genere, di
identità, all’adolescenza ed alla sessualità nel contesto migratorio.
Va fatta una prima differenziazione tra il concetto di sesso che si riferisce alle differenze biologiche tra
uomini e donne, ed il concetto di genere che si riferisce a tutte quelle caratteristiche, qualità, attese e
aspettative che fanno parte del ruolo che in una determinata cultura l’essere donna o l’essere uomo
comporta.
I L CONCETTO DI GENERE
Il concetto di genere è:
− relazionale, nel senso che non descrive le caratteristiche di donne e uomini in quanto tali, ma le
relazioni che si instaurano fra loro e i modi in cui queste sono stabilite socialmente;
− gerarchico,quasi tutte le società tendono ad attribuire maggiore importanza e valore alle
caratteristiche e alle attività connesse con tutto quello che è maschile e a stabilire rapporti non
paritari di potere;
− storico, perché sostenuto da fattori che evolvono nel tempo e nello spazio e sono dunque
suscettibili di modifiche;
− contestuale, le differenze di genere si strutturano in funzione di altri fattori appartenenti a
ciascun contesto, quali ad esempio l’etnia, la classe sociale, la cultura ecc. È necessario perciò
tenere conto del contesto nell’analisi delle relazioni fra uomini e donne.
Infine, le relazioni di genere sono personali e politiche:
− personali perché i ruoli di genere che abbiamo interiorizzato definiscono ciò che siamo, ciò che
facciamo e l’idea che abbiamo di noi stessi/e;
− politiche perché i ruoli e le norme di genere sono sostenuti e promossi dalle istituzioni sociali –
famiglia, scuola, istituzioni governative, religione – e opporvisi significa opporsi al vigente
modello organizzativo della società.
Il genere è, dunque, in continua e incessante trasformazione nel tempo e nello spazio, e ciò che
caratterizza i rapporti di genere in una determinata epoca, contesto e spazio geografico, non è
necessariamente identico in altri contesti, nella stessa epoca o nello stesso contesto in epoche differenti. A
conferma di ciò viene proiettato un video di interviste svolte nel 1984 in Puglia in cui, tra le altre cose
riporta alcuni passaggi storici della costituzione dei Consultori Familiari. Il video mostra con grande
impatto il cambiamento di mentalità prodottosi in Italia da trent’anni a questa parte. aspetti che oggi qui
si danno per scontati ma che per le donne che vengono da contesti tradizionali, e che non hanno seguito
questo percorso, non sono familiari. Particolarmente interessante è vedere come l’istituzione dei
Consultori Familiari non ha comportato in automatico l’accesso delle donne a questi servizi ma era
necessario pensare a delle strategie affinché potessero accedervi. Anche oggi, affinché le donne straniere
si servano dei consultori è necessario pensare a delle strategie di avvicinamento che rendano il servizio
fruibile a tutte.
13
Pina Deiana, psicologa-psicoterapeuta, dal 2007 collabora con il C.I.R. (Consiglio Italiano per i Rifugiati), fa missioni
periodiche in Burkina Faso per la formazione del personale locale per l’abbandono delle MGF. Tra le sue attività scientifiche
e didattiche numerosi seminari formativi sulle MGF rivolti a operatori sociali, sanitari e a mediatori culturali. Collabora con
AIDOS, Associazione Italiana Donne per lo Sviluppo, per cui ha curato il manuale per trainer: “Strada facendo. Verso
l’abbandono delle MGF in Italia” finanziato dal Ministero per le Pari Opportunità.
44
I L CONCETTO DI IDENTITÀ
L’identità così come il genere è complessa, è un processo, non è qualcosa di statico, non si deve pensare
all’identità come a un’entità o a un contenuto, ma a un processo sempre in via di evoluzione insieme a
tantissimi fattori che lo determinano e lo condizionano.
La formazione dell’identità si realizza attraverso le identificazioni e le differenziazioni che l’individuo
affronta nel tempo; ciò significa che fin da quando il/la bambino/a nasce si identifica prima con la
mamma e poi col papà, e attraverso i legami affettivi più prossimi comincia a stabilire le somiglianze e le
differenze che progressivamente lo porteranno a costruire i confini di sé e della propria identità. La
risultante di questo processo, che avviene prima all’interno della famiglia, poi nella scuola, nell’ambiente
dei compagni e nel contesto sociale più vasto, è il sentimento di essere se stesso/a e allo stesso tempo di
condividere dei tratti che l’accomunano a tutti gli altri. C’è questa doppia valenza: appartenere a uno
stesso contesto culturale fa condividere insieme agli altri una serie di caratteristiche, di pensieri, di modi
di dire che si danno per scontati, ma all’interno di quello stesso contesto ci sono tanti altri tratti che fanno
sì che ognuno sia unico, singolo e non ripetibile, è proprio questo il significato di identità: identico/a solo
a se stesso/a.
Per affrontare questo tema si farà riferimento al modello realizzato da Leon e Rebeca Grinberg,
psicoanalisti argentini di fama internazionale, che si sono occupati per tanti anni di migrazioni e di esilio.
Secondo i Grinberg il sentimento di identità personale è il risultato di un processo di interazione continua
fra tre vincoli di integrazione: 1) il vincolo spaziale, 2) il vincolo temporale e 3) il vincolo sociale.
1) Il vincolo di integrazione spaziale implica una relazione fra le diverse parti del sé, compreso il sé
corporeo, e mantiene la coesione rendendo possibile il confronto con gli “oggetti” (oggetti interiorizzati
intesi nel senso psicanalitico). Favorisce inoltre la differenziazione fra sé e non sé e attraverso questo
costruisce il sentimento di individuazione.
Applicando questo modello al fenomeno MGF/E, la Dott.ssa Pina Deiana descrive come queste pratiche
partecipino alla costruzione del sentimento di individuazione.
Con le MGF/E il sentimento di individuazione legato al genere si costruisce:
− a livello corporeo: con l’asportazione del clitoride e/o delle piccole labbra e/o con la sutura
dell’apertura vaginale (infibulazione);
− a livello funzionale: con la regolazione del piacere/desiderio sessuale che la donna non deve
provare in maniera completa;
− a livello simbolico: con l’idea che il piacere/desiderio sessuale sia di dominio maschile e che la
donna lo debba assecondare passivamente.
“I miei organi genitali sono stati forgiati perché una donna possa essere una vera donna, non solo una
femmina che segue gli istinti animali. Questi segni indelebili hanno scolpito il mio corpo e insieme la mia
mente, essi aiutano mente e corpo ad arginare le pulsioni istintuali e indirizzano la mia sessualità nei
giusti binari per una donna”.
2) Il secondo è il vincolo di integrazione temporale che unisce le diverse rappresentazioni del Sé nel
tempo, stabilendo fra di loro una continuità e creando le basi al sentimento di essere se stessi nel tempo.
Come si può determinare l’identità nel cambiamento? Una persona è la stessa a distanza di vent’anni?
John Locke, filosofo del XVII secolo, risolve la questione dell’identità personale attraverso la “memoria”:
“io sono la stessa persona di vent’anni fa perché conservo il ricordo dei diversi stati del mio essere nel
tempo.
La rappresentazione di sé nel tempo è molto importante: nel momento in cui c’è una migrazione e si vive
in un altro paese il sentimento di identità non viene restituito dagli altri, ma è qualcosa che la persona, la
donna continua a portare come memoria di sé.
Le MGF/E forniscono all’identità di genere un ancoraggio corporeo stabile e visibile che il tempo non
potrà cancellare. Il carattere permanente della modificazione dei genitali preserverà la donna da
cambiamenti che nel tempo potrebbero stravolgerne l’identità femminile, tanto più se si trasferisce in un
contesto culturale diverso.
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“I segni sul corpo mi assicurano la continuità con me stessa e con la mia gente. Il mio modo di essere
donna mi accompagnerà per sempre, anche ora che ho lasciato il mio paese e vivo in un luogo in cui tutto
mi è straniero”.
3) Il vincolo di integrazione sociale, infine, implica i rapporti tra aspetti del Sé e quelli degli “oggetti”,
che si stabiliscono attraverso i meccanismi di identificazione proiettiva e introiettiva e rendono possibile
il sentimento di appartenenza.
Il sentimento di appartenenza in contesto migratorio è messo in crisi poiché la comunità che accoglie non
sa nulla di chi arriva, per questo diventa importante per molti/e migranti ritrovarsi tra connazionali,
cucinare i propri cibi, festeggiare le proprie feste..
Anche su questo vincolo di integrazione identitaria le MGF/E esercitano un’influenza rassicurante,
attraverso di esse una donna entra a pieno titolo nella comunità sociale di appartenenza, e in quanto
portatrice di questa modifica dei genitali essa sarà sempre riconosciuta come membro della comunità.
“Tutti mi portano il rispetto dovuto a una donna che ha fatto il suo dovere, il mio corpo testimonierà per
sempre la mia appartenenza alla mia gente, anche dopo una lunga assenza sarò sempre una di loro”.
P ROCESSI PSICOLOGICI : LUTTO MIGRATORIO E RIDEFINIZIONE IDENTITARIA .
(Proiezione di una docu-fiction a proposito del conflitto che vivono le madri migranti rispetto
all’educazione dell’identità di genere delle loro figlie).
Il conflitto che vivono le madri migranti rispetto all’educazione dell’identità di genere delle loro figlie, è
un conflitto enorme per le donne che devono educare le bambine qua in Italia con dei valori che non
capiscono e che, per quel poco che vedono, non sono tanto condivisibili.
Una mediatrice culturale mi diceva ‘io ho rifiutato le MGF/E per le mie figlie e questo ha generato
problemi con la mia famiglia, loro pensano che le mie figlie sono maleducate e cresceranno male e chissà
cosa diventeranno, per cui io sono ancora più rigida nella loro educazione, voglio che siano beneducate in
modo che dimostrino che nonostante non le abbia tagliate si comportano come si devono comportare le
ragazze da noi’. Ma anche questo, mi diceva, è un problema ‘perché non riesco a far capire a mia figlia,
che va a scuola in Italia, che si deve inginocchiare per salutare un estraneo adulto maschio quando entra
in casa, ma se non insegno questo a mia figlia quando la porto in vacanza dalla mia famiglia per loro
quella è la prova che non avendola tagliata mia figlia sta crescendo in maniera maleducata’
Le mutilazioni garantiscono da tutta una serie di problemi per i quali qui non ci sono vaccini. Il modo di
pensare in Italia è molto diverso e non è facile per una persona che arriva da un contesto culturale così
diverso districarsi in nel nostro universo culturale. In Africa la mentalità rispetto alle MGF è in
trasformazione in parte anche grazie all’influenza dei media e in parte anche perché tantissimi ormai si
spostano nelle città, dove la differenza è molto grande rispetto ai villaggi. Adesso nei paesi africani dove
si praticano le MGF la mentalità pian piano cambia, ci sono state molte campagne di sensibilizzazione e
quindi la maggior parte dei paesi hanno una legge che condanna le MGF che sono in via di abbandono,
anche se probabilmente ci sarà bisogno di più di una generazione affinché vengano abbandonate
completamente.
Le campagne di sensibilizzazione però viaggiano su tracciati diversi a seconda che siano portate avanti
nei paesi d’origine delle donne dove vengono praticate le mutilazioni genitali femminili, o che vengano
portate avanti in Italia.
Nel secondo caso infatti bisogna tener conto di quello che succede nell’impatto tra le culture e nelle
difficoltà sociali, materiali e politiche che le donne si trovano a fronteggiare nella migrazione.
Non si può inoltre prescindere dai processi psicologici che entrano in gioco; infatti la migrazione
comporta la separazione da tutto l’universo nel quale si è vissuti, universo affettivo, relazionale, culturale
e linguistico; ci si separa da dei luoghi a cui si era legati e che facevano parte del proprio ambiente di vita.
Lasciare odori, sapori, lingua, affetti e relazioni comporta l'attivazione di processi che si articolano
prevalentemente su due versanti, sul lutto migratorio e sulla ridefinizione identitaria.
Il lutto migratorio è un lutto un po’ particolare, specifico, perché non vi è la morte reale di qualcuno, ma è
la persona che migra a lasciare le persone che ama e ciò necessita l’elaborazione della sofferenza. Il lutto
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è proprio l’elaborazione del dolore che comporta questa separazione da tutto quello che ha rappresentato
il proprio mondo fino a quel momento. Contemporaneamente si è costretti ad adattarsi a un contesto
culturale sconosciuto, spesso la lingua non si conosce, non si conosce quasi nulla o poco del paese in cui
si è arrivati e quindi c’è un doppio lavoro che la psiche deve sostenere: fare il lutto da quello che si è
lasciato e ricostruire la propria identità in un paese ancora da scoprire.
Il termine lutto secondo Freud riguarda un concetto dinamico, non è un evento, è un processo che
coinvolge tutta la personalità sia in modo conscio che inconscio e comprende sia il dolore per la
scomparsa delle persone, nel nostro caso per la separazione dalle persone, sia la sofferenza per lo sforzo
per recuperare parti di sé che erano legate a ciò che si è perso. Quando perdiamo una persona cara il lutto
non è solo l’assenza di quella persona, ma anche di tutto quello di noi che avevamo messo in quella
persona e che si allontana insieme a lei; parte di tali perdite si possono recuperare col tempo attraverso un
lavoro di elaborazione del lutto, ma ad altre si deve rinunciare per sempre e quindi si deve proprio fare il
lutto per quello che non si riesce più a continuare ad avere. Quindi, chi migra affronta il lutto nello stesso
momento in cui è impegnato ad affrontare una nuova realtà e questo compito dal punto di vista
dell’energia psichica che viene richiesta non è sempre semplice da fare, richiede molta energia e per
questo soprattutto nei primi due anni di migrazione le persone migranti accusano tutta una serie di
problematiche fisiche. La percezione del lutto e la profondità del dolore di queste perdite dipende da molti
fattori sia interni che esterni. I fattori esterni sono quelli legati alle condizioni nelle quali si realizza
l’espatrio: il lutto sarà tanto più importante quanto più le condizioni esterne saranno sfavorevoli. I fattori
esterni che possono rendere più difficile, problematico e complesso il lavoro di elaborazione del lutto e di
adattamento al nuovo paese sono infiniti. Alcuni tra questi fattori possono essere: la distanza geografica
dal proprio paese d’origine; il carattere permanente dell’espatrio; l’immagine che le persone del paese di
accoglienza hanno del paese di origine dei migranti; la percezione che la cultura ospitante sia superiore
alla propria, e ciò sia da parte di chi migra che da parte degli autoctoni; avere o meno un lavoro nel paese
di approdo; avere o meno familiari o amici nel paese in cui ci si trasferisce.
I fattori interni riguardano le risorse psichiche, affettive e relazionali di cui la persona dispone per
affrontare il cambiamento e per superare le perdite collegate al cambiamento. Le risorse psichiche sono
legate anche all’integrazione delle identificazioni realizzate fino a quel momento e alla capacità di
resistere al cambiamento, quindi di fornire continuità e stabilità nel cambiamento.
“Secondo voi di questi tre vincoli, che cosa avviene quando si migra, questi vincoli di integrazione si
rafforzano o si indeboliscono, cosa vi viene in mente? Una persona arriva qua con una certa identità che
ha costruito nell’arco di tutta la sua vita precedente fino a quel momento e che le dà l’idea di chi è lei in
relazione agli altri, nel suo paese sa come comportarsi in relazione agli altri, se è una donna come
comportarsi con le altre donne e con gli uomini e viceversa se è un uomo, arriva qua in un ambiente che
non conosce, secondo voi cosa succede?”
L’emigrazione colpisce tutti e tre i vincoli che costituiscono i pilastri della propria identità e costringe,
appunto, ad una ridefinizione identitaria. Questa messa in crisi dei tre vincoli, temporale, spaziale e
sociale, che avevano una funzione organizzatrice, costringe a una ricerca di nuovi riferimenti che
garantiscano la possibilità di continuare a sentirsi se stessi. L’impatto con un paese sconosciuto ha un
effetto perturbante.
Il disorientamento e l’assenza di punti di riferimento a cui ancorare la continuità del proprio sé nelle
prime fasi del processo migratorio sono affrontati con l’ausilio di meccanismi psichici che servono a
difendere dalla confusione spesso paralizzante che l’ignoto produce e che sono già stati sperimentati nelle
prime fasi della crescita, uno di questi è la scissione fra buono e cattivo, che rispettivamente fanno parte
del familiare e dello sconosciuto. Tuttavia, mentre nello sviluppo psichico del bambino e della bambina il
buono è associato al familiare e, viceversa, il cattivo è associato allo sconosciuto, quando si migra nella
prima fase può avvenire il contrario, ovvero la polarità si inverte. Viene considerato buono tutto quello
che è sconosciuto ed estraneo, cioè il paese di approdo viene visto come una “terra promessa”, un
paradiso che darà tutti i frutti che la persona sogna e spera, mentre il paese di origine è visto come una
terra matrigna che non le ha saputo garantire una vita dignitosa.
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Quindi nella prima fase del processo migratorio, anche per poter superare la separazione, il distacco e
l’abbandono, una dose considerevole di entusiasmo viene messa al servizio di questo cambiamento, per
cui molto spesso c’è una idealizzazione del paese di accoglienza. Se però le condizioni sia esterne che
interne sono sfavorevoli, questa polarizzazione buono/cattivo si può rovesciare e portare a
un’idealizzazione nostalgica del paese di origine mentre la “terra promessa” si profila come un inganno,
un tradimento, una promessa non mantenuta. Col passare del tempo, se le condizioni interne e l’ambiente
esterno sono favorevoli, la scissione diventa progressivamente inutile, anzi fuorviante e gli individui
imparano a riconoscere idee, situazioni, persone che arricchiscono la propria identità a prescindere dal
loro appartenere al paese d’origine o a quello ospitante.
Gli esiti del processo migratorio possono essere: riuscire ad integrare in maniera pacifica e non
eccessivamente conflittuale le molteplici appartenenze di cui ognuno/a ormai è portatore o portatrice sia
nel paese di origine che in quello di accoglienza. Il primo esito possibile è dunque l’integrazione interna
tra cultura d’origine e cultura d’accoglienza, dove entrambe hanno diritto d’asilo e costituiscono con pari
dignità il sentimento identitario. Non è, però, un esito dato una volta per tutte, ci sono continuamente
delle negoziazioni e riposizionamenti rispetto alle due culture, ai due contesti, al come ci si sente, a
quanto si sente di appartenere e voler aderire al paese di accoglienza o quanto invece ci si sente rifiutati e
di conseguenza si rifiuti, “di conseguenza” ma anche attivamente, non è una condizione passiva questa.
Questo è l’esito che ha le maggiori probabilità di favorire l’abbandono delle MGF/E.
Un secondo esito possibile è la chiusura difensiva rispetto alla cultura di accoglienza per preservare una
continuità con la cultura di origine ed essere se stessi nell’unica appartenenza che si riesce a sperimentare,
si sente che l’unica appartenenza che garantisca un’identità è quella di provenienza mentre non si è
nessuno, non si è niente nel paese di accoglienza. Questo è l’esito che comporta il rischio maggiore di
conservare anche le tradizioni nocive e tra queste le MGF/E.
Un terzo esito possibile è l’automutilazione interna della cultura di origine sentita come “inferiore” a
quella occidentale, è un meccanismo più frequente fra le seconde generazioni. Questo esito anche se
favorisce l’abbandono delle tradizioni del paese d’origine, e quindi anche delle MGF/E, fa pagare un
prezzo troppo alto in termini identitari e produce altri disagi.
Riepilogando, gli esiti del processo migratorio possono essere una chiusura difensiva verso la cultura di
accoglienza oppure una chiusura difensiva rispetto alla propria cultura, in questo caso c’è un’adesione
indiscriminata, passiva e massiccia rispetto a valori che non sono propri ma che si sentono più utili o
vantaggiosi.
Quindi, la situazione ottimale verso la quale è importante tendere anche ai fini di prevenire le MGF/E, ma
non solo, è quello di lavorare affinché si possa sperimentare una integrazione interna fra cultura di origine
e cultura di accoglienza, affinché le culture abbiano pari dignità e quindi possano dialogare su un piano di
reciprocità sia internamente che nell’incontro con gli/le altri/e.
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LA RICERCA SULLE MGF: ALCUNE QUESTIONI DAL CAMPO
FEDERICA DE CORDOVA 14
Faccio una breve premessa: l’occasione più recente che ho avuto di occuparmi del tema delle mutilazioni
genitali femminili (da qui in avanti MGF) è stata la stesura di questo testo 15 a cui ho collaborato, esito di
una ricerca 16. Un aspetto che emerge nel libro credo sia apparso anche all’interno di questo consesso, ed è
il punto da cui vorrei partire per la mia discussione: perché occuparsi di un tema così specifico, che
riguarda in fondo un numero marginale di donne? Questa domanda si fa pressante a volte, pure tra gli
operatori, anche a fronte del cospicuo investimento economico da parte dello Stato, conseguenza
dell’applicazione della legge 7/2006 per la prevenzione e il divieto di pratiche di mutilazione genitale
femminile.
Allora voglio cominciare ricordando che l’unico caso in Italia giunto a sentenza ha riguardato proprio il
territorio di Verona 17. Pochi mesi fa ho avuto occasione di ascoltare l’intervento ad un convegno 18 della
dott.ssa Bacciconi, in quel contesto giudiziario perito per la Procura. Nella sua relazione, la dottoressa
descriveva le proprie certezze sulle pratiche di MGF, sia come professionista, ma anche come donna
italiana consapevole del potere che la società esercita sul corpo delle donne. Dunque, manifestava una
profonda solidità nello svolgere quel ruolo tecnico e nell’esprimere una netta e ferma condanna della
pratica. Andando avanti nel racconto, però, si faceva strada una sensazione parallela. Approfondendo la
conoscenza del caso e delle persone coinvolte - in particolare della madre della bambina operata - accanto
alla convinzione profonda della inaccettabilità di quella che per noi assume tutte le sembianze di una
mutilazione, sembrava convivere contemporaneamente un’altra prospettiva, per cui quando il medico si
metteva in relazione con questa madre, guardandola e parlandole, affiorava la figura di un genitore
amorevole e preoccupato, l’immagine di una buona madre e non di una cattiva madre.
Apro con questa citazione perché credo che sia da questa dissonanza, da questa sorta di contraddizione
che forse a tante di noi è capitato di sperimentare, che origina secondo me l'interesse per questa tematica,
perché ci costringe a confrontarci - in maniera drammatica ed emotivamente dirompente - con le
contraddizioni e la complessità del prendere posizione rispetto all’altro e, nello specifico, alle altre. Forse,
alla certezza che esprimiamo come osservatori esterni di fronte al fenomeno manifesto – il corpo segnato
delle bambine e delle donne - non corrisponde una altrettanto chiara “verità” riguardo al processo che va a
costruire quell’azione. Mi pare, allora, che affrontare la questione approcciandola a partire da questa
dissonanza ci conduca a focalizzarci sui processi che sottendono l’azione conclusiva che segna per
sempre il corpo delle donne. Dunque, il nostro interesse si concentra sul perché di questa contraddizione,
14
Federica De Cordova, psicologa, ricercatrice universitaria, docente di psicologia sociale; psicologia dei gruppi e di
comunità; psicologia transculturale Università degli Studi di Verona; membro del Comitato di pilotaggio del Progetto
“Verona libera dalla violenza”. Le sue pubblicazioni scientifiche vertono sul tema della migrazione e della mediazione
linguistico culturale oltre che sul tema specifico delle mgf.
15
Castiglioni M. (a cura di) (2011) “Identità e corpo migrante. Marchi sessuali femminili”. Guerini, Milano.
16
Si tratta della ricerca-azione “Sister’s Care” finanziata dal Dipartimento per le Pari Opportunità della Presidenza del
Consiglio dei Ministri nel biennio 2008/09, nell’ambito di una serie di iniziative volte a promuovere e sostenere indagini
scientifiche, azioni di sensibilizzazione, informazione e prevenzione rispetto al fenomeno delle MGF. Il gruppo di ricerca,
sotto la direzione scientifica del prof. Paolo Inghilleri, ha coinvolto la Cooperativa Sociale Kantara di Milano, l'Università
degli studi di Milano – Dipartimento di Geografia, Scienze Umane e dell'Ambiente e l'Università degli studi di Verona –
Dipartimento di Psicologia e Antropologia Culturale.
17
Faccio riferimento al processo svoltosi a Verona contro la cittadina nigeriana Gertrude Obaseki, che vedeva tra gli imputati
oltre alla donna colpevole di operare materialmente il danno, la madre di una bambina a cui era stata effettuata la pratica e il
padre di un’altra bambina che invece non arrivò a subire alcun intervento. L’arresto della donna avvenne nell’aprile del 2006,
primo caso di applicazione della legge 7/2006.
18
Intervento al corso di aggiornamento “Mutilazioni genitali femminili. Esperienza, conoscenza, riflessioni: una strategia di
intervento”, organizzato dalla ULLS 21 di Legnago il 18 novembre 2011.
49
cosa ci sta dietro, cosa stiamo mettendo in relazione con queste donne. Credo che sia una postura che ci
permette di uscire dalla dicotomia giusto/sbagliato, obbligandoci a partire dalla nostra relazione con
l’altra, chiamandoci in causa.
Ritengo allora che nel momento in cui parliamo di MGF abbiamo prima di tutto bisogno di un
orientamento, di collocarci cioè da qualche parte per definire e comprendere il nostro posizionamento, di
cosa stiamo parlando e che cornice andiamo a circoscrivere. Non torno sulla questione terminologica
perché avete già avuto degli incontri che la hanno approfondita, semplicemente voglio ricordare che
esistono organismi internazionali che danno indicazioni su cosa sono questo genere di pratiche, per mezzo
di una definizione linguistica 19. Mi riferisco al termine MGF e alla sua differenziazione in diverse
tipologie. E’ importante avere consapevolezza che le parole costruiscono una realtà, già ci collocano da
qualche parte; non è detto che il posizionamento che assumiamo nominando una pratica sia condivisa
dalle persone con cui siamo in relazione, interessate o meno da MGF. Infatti, questa azione di
posizionamento è spesso inconsapevole – quante volte abbiamo sentito dire che certe definizioni sono
neutre – e dunque non è immediato che un operatore, così come un utente, conoscano le implicazioni che
possono derivare dall’adottare certi linguaggi piuttosto che altri. Nominando la realtà per mezzo della
parola mutilazione, si costruisce dentro e fuori di sé una rappresentazione molto precisa, che potrebbe
collocare immediatamente, al di là della propria intenzione, gli interlocutori su piani inconciliabili: in
questo senso le parole possono essere il primo strumento che facilita o invece ostacola una relazione. Non
insisto oltre su questo discorso che immagino verrà affrontato anche nel secondo intervento del
pomeriggio; questo aggancio con la lingua e la sua complessità mi aiuta però a ragionare sul perché
interessarci a qualcosa di così particolare, perché investire tanto. Spesso si dice che le MGF sono un
evento limitato all’infanzia, cioè a un momento di vita passato; questo è vero se noi pensiamo alla
mutilazione in sé, se ci fermiamo ai genitali di una donna; ma se pensiamo invece alla donna nel suo
complesso e agli eventi a cui va incontro nella sua vita: al suo essere madre, moglie, compagna, al suo
desiderio, alla sua necessità di mettersi in relazione con altri e trasmettere dei valori e delle idee, allora
vediamo che quella stessa cosa – la MGF - ci porta molto lontano, molto al di là della semplice ablazione
dei genitali.
Ritengo che con la dottoressa Deiana abbiate affrontato la pratica di MGF come strumento di costruzione
sociale della soggettività femminile; allora, se abbiamo in mente questa funzione, sappiamo che stiamo
facendo riferimento a dinamiche fondamentali per strutturare il mondo esterno, così come il mondo
interno. Parliamo cioè di identità sociale e ruoli, di rapporto tra i generi e tra i sessi, fra le generazioni;
parliamo del senso profondo di sé di una donna, della strutturazione interna di un confine emotivo e
razionale. Tutto ciò dal punto di vista dell’operatore è molto interessante: se ci dimentichiamo un attimo
di questa parola – mutilazione genitale - e invece pensiamo a delle pratiche che definiscono e orientano i
rapporti fra le persone, fra le generazioni e i sessi, allora siamo in grado di capire perché ci può convenire
ampliare lo sguardo oltre il puro intervento sanitario. Queste pratiche sono fortissimamente connesse ai
rapporti di affiliazione, all’appartenenza, cioè sono fondamentali per definire il “chi sono”, anche in
relazione ai gruppi e ai contesti simbolici significanti, per ognuna/o. In questa prospettiva ribaltiamo
l’idea delle MGF come questione sanitaria per inquadrarle come pratiche sociali complesse, che
coinvolgono diverse dimensioni della vita di donne e uomini.
Nella mia esperienza di lavoro alcune chiavi di accesso sono state particolarmente utili per entrare in
relazione. La prima è proprio la dimensione linguistica, cioè trovare le parole per dire, dire la propria
esperienza di donna straniera che ha subito una pratica di MGF, ma anche l’esperienza di operatrice, di
donna italiana non appartenente a quelle culture, a parlare della propria difficoltà e a volte della propria
incomprensione.
19
“Female Genital Mutilation: Report of a WHO Technical Working Group, Geneva, 17-19 July 1995", Organizzazione
Mondiale della Sanità, Ginevra 1996.
50
Per esempio, per me una parola importante è stata "orrore", una tra quelle che hanno dato nome al mio
sentire, al mio stare nella relazione con le donne portatrici di MGF. Ma non mi è stato facile tirarla fuori,
ammettere e attraversare questo stato senza che ricadesse come giudizio sull'altra. Si tratta cioè di una
connotazione, emotiva e di senso (potremmo dire di non-senso), che ha segnato profondamente il mio
lavoro, creando un ostacolo alla possibilità di comunicare, così come di rappresentarmi l'altra e il posto
che occupava nella relazione. E' stato un processo lungo ed elaborato quello che mi ha consentito di
comprendere che il problema non stava in quel contenuto, cognitivo e affettivo, né che fosse giusto o
sbagliato sentirmi così. Il cuore della questione era un altro: un vissuto esclusivamente mio,
immediatamente "contagiava" la mia immagine dell'altra e la collocava in un posto ben preciso, che mi
rendeva impossibile, di fatto, vederla, ascoltarla nella complessità della sua esperienza. Questo processo,
che viene definito come transfert culturale, può essere di fatto un grosso ostacolo nella relazione, anche
quella di cura, perché lascia all'altro uno spazio di esistenza e di espressione piegato solamente a quello
che la nostra mente e i nostri occhi possono coglierne. Per questo credo che sia assolutamente necessario
trovare le parole per dire e dirsi in una maniera non giudicante verso l’altro.
Uno strumento molto importante è stato quello della mediazione linguistico-culturale (MLC) e con questo
intendo un dispositivo tecnico e teorico che diventa patrimonio non solo del mediatore o della mediatrice,
ma di tutto un gruppo che si mette in gioco rispetto a quel tema; cioè la mediazione linguistico-culturale
come metodologia di lavoro al di là della figura del mediatore. Una disposizione teorica e mentale per cui
è necessario insistere sull'esplicitazione di quello che solitamente funziona invece implicitamente.
All'interno di un contesto clinico, di cura oppure di ricerca come è stato il mio, la MLC fornisce un
dispositivo organizzato che funziona attivamente per rendere esplicite alcune dimensioni della
comunicazione e i processi di costruzione di significato che la ordinano. Vorrei essere molto chiara su
questa cosa. Questo processo non avviene "naturalmente", spesso diciamo che dobbiamo essere aperti,
andare incontro all’altro, che ci piace lo scambio; possiamo dire e pensare di noi tutte le cose migliori, ma
questo non è di per sé sufficiente a far sì che delle dimensioni fondamentalmente culturali non agiscano
come muri, come ordini che automaticamente applichiamo all’altro. Quindi, rendere esplicita la
dimensione culturale non solo della comunicazione, ma del senso stesso del mondo, di come noi
costruiamo e leggiamo gli altri e il mondo intorno in maniera sensata, non è una cosa che succede
naturalmente, la dobbiamo fare accadere. La cultura non può essere un concetto esplicativo, cioè non
funziona dire che la persona tale fa così perché è marocchina, che fa così perché è somala, che fa così
perché la sua cultura le dice di fare così. Non è questo un modo di utilizzare l’ordine simbolico culturale
in termini utili, perché poi alla fine vi trovate a gestire delle situazioni concrete che dovete cercare di
risolvere. E allora il problema è se introdurre il concetto di cultura mi aiuta o non mi aiuta:
personalmente ritengo che applicare la "cultura" nel modo che ho appena descritto sia non solo inutile, ma
anche dannoso.
Ritorno sulla questione dell'attivare processi di mediazione culturale partendo dalla dimensione
linguistica. Le parole che usiamo portano sempre con sé delle emozioni e questa cosa rispetto alle MGF e
alla sessualità è molto significativa, cioè intendo questo intreccio continuo fra l’oggettivazione dei fatti e
la carica emotiva che sta dietro tale oggettivazione. Spesso siamo abituate, specialmente quando
indossiamo la veste delle operatrici, a schermarci attraverso un linguaggio tecnico che ci permette di
distanziarci da certe situazioni. Ricordo che in un gruppo in cui erano protagoniste delle donne nigeriane,
eravamo andate avanti a lungo proprio a partire dalla questione della sessualità femminile e nella coppia;
loro stesse dichiaravano di partecipare alla ricerca fondamentalmente spinte dal desiderio di conoscersi e
vivere meglio una intimità di coppia. Ebbene, a un certo punto ci sorpresero ribaltando le posizioni e
dissero: 'va bene, abbiamo parlato tanto di noi, però visto che noi siamo così (escisse) e di conseguenza il
nostro desiderio è più controllato, voi che siete diverse perché siete "intere" parlateci di questa sessualità
libera, spiegateci un po’ di voi e di come funziona per voi'. A quel punto noi, che pensavamo di essere
state così abili ed efficaci nell'ascolto, nel far emergere le questioni, a creare la relazione mettendoci in
gioco, ecc. siamo state improvvisamente messe a confronto con la difficoltà di stare veramente nel gioco;
così come constatammo, sulla nostra pelle in quel caso, come fosse difficile subire e reggere lo sguardo di
51
chi ti fissa in un'immagine semplificata (donna bianca intera), e confrontarsi attraverso un immaginario
che l'altra ha di te e che non corrisponde a quello che possiamo avere in mente noi.
Dunque aprendo la dimensione culturale, lavorando sull'esplicitazione dei piani di senso che spesso sono
impliciti, emerge forte il problema del tradurre, la parola così come l'altra/o, in qualcosa di conosciuto.
Ora, ci sono spazi dell’alterità che rimangono ignoti, che non possono essere tradotti e compresi, perché
se si comprendesse tutto dell’altro ci sarebbe un’adesione, una sovrapposizione che cancellerebbe l'altra
proprio nella sua identità e specificità. Questo dato di fatto richiede, però, di tollerare uno stato di
indeterminatezza e di ignoto che in certe circostanze può confliggere con dei ruoli istituzionali, o con
l'interpretazione che ne viene data (es. tutela). Ciò introduce dei livelli di complessità, rispetto alla
mediazione linguistico-culturale, che non possono essere risolti nell'ambito della relazione
operatore/utente; se il processo di mediazione non si allarga comprendendo diversi livelli istituzionali - e
nella maggior parte dei casi questo non accade - la relazione utente/operatore e il processo di mediazione
non potranno che risentirne negativamente.
La complessità della traduzione e i suoi limiti intrinseci ci riportano alla necessità di confrontarci con una
idea dinamica e articolata di cultura, mai definibile una volta per tutte. La cultura mette a disposizione
dei singoli membri un repertorio simbolico, un ventaglio di "potenzialità di significato" che vengono poi
declinate concretamente, dai singoli, attraverso pratiche, scelte, comportamenti. Ci confrontiamo con un
abitare e un riabitare costante delle pratiche, delle cose; e questo significa che continuamente viene messo
in gioco qualcosa di nuovo, continuamente c'è una possibilità di cambiamento, di scarto di significato.
Ciò rende le cose più difficili e complesse per un verso, ma per un altro apre alla possibilità del
cambiamento: proprio perché le persone sono dei sistemi così dinamici nel nostro lavoro possiamo
intercettare un cambiamento.
Abbiamo detto che le MGF sono una pratica che affilia ad un gruppo e al suo ordine simbolico,
contribuisce a costruire il senso profondo di sé dentro una comunità. Nel contesto migratorio i presupposti
simbolici e valoriali che organizzavano il significato delle MGF cambiano in maniera radicale, a volte
anche improvvisa e inaspettata. Con quale esito? Tutti i gruppi agiscono una serie di pratiche che
inscrivono nel soggetto i confini simbolici, di senso, tra quello che può stare nell'ambito dell'esperibile e
quanto invece si pone al di fuori, "rompe" l'esperienza organizzata. Questo processo di costruzione
sociale delle identità, comune a tutti i gruppi e a tutte le culture, è assolutamente inconsapevole. Questo è
un bene, non entro adesso nello specifico, ma diciamo che tutti ci guadagniamo nel momento in cui
questo processo è implicito.
Quando si verifica un cambiamento drastico di contesto, ovvero dei presupposti simbolici che danno
senso ad una specifica forma identitaria, il processo di inscrizione della legge del gruppo nel singolo
rischia di emergere e di venire a galla ed è sempre un processo in qualche modo violento, un processo di
iscrizione nei corpi - e non parlo solo dei corpi mutilati -, di un potere che è un potere sociale. Questo
potere tante volte, nella maggior parte dei casi, ci è utile perché ci dà delle opportunità, delle possibilità,
ma ci vincola e in questo vincolarci è un processo violento; con la migrazione, dunque, quello che rischia
di emergere è la dimensione di violenza slegata da un ordine simbolico organizzato e questo origina
sofferenza, sofferenza psichica. E' come se rimanessi da sola con una mia soggettività che non è più ciò
che mi collega - ordinatamente - agli altri e alle loro esperienze, ma diventa invece una "unicità" disordinata, svalorizzata - che invece di accomunare esclude. Il tentativo di collegarsi al gruppo per
mezzo di questa espressione identitaria espone al rischio: dal mondo esterno non più ordine ma disordine,
non più valorizzazione ma orrore, non più desiderio ma rifiuto. Questa esperienza per le donne può essere
particolarmente drammatica rispetto a una genealogia femminile, al proprio rapporto con la madre o con
le donne delle generazioni precedenti che avevano una funzione di cura e un ruolo di accudimento; tutte
queste relazioni rischiano di essere rilette alla luce del nuovo disordine emergente, e allora la cura che si
è cnosciuta non era buona cura, il bene che c’è stato non era un bene ma una mostruosità, e vengono
messe fortemente in discussione la capacità di queste donne di svolgere un ruolo protettivo, un ruolo di
cura, ma anche di trasmissione valoriale verso le generazioni successive.
52
Alcune di queste questioni sono emerse all'interno del nostro lavoro di ricerca, che è stato circoscritto a
pochi soggetti su un territorio geografico limitato, ma molto in profondità. Quello che abbiamo "scoperto"
prima di tutto è che, come spesso succede quando si lavora con migranti, è che sono molto più avanti di
come noi li pensiamo. E loro, molto prima di noi, si erano posti delle domande; le donne, ma a volte
anche i mariti, gli uomini, i padri, si chiedono come in questo processo migratorio possono cambiare
senza diventare come noi, gli europei. Si chiedono: 'posso cambiare senza occidentalizzarmi?' Io migrante
capisco che questa cosa forse non mi va più (le MGF), non mi somiglia, non la voglio, ma come faccio a
non volerla, perché non volerla vuol dire diventare come vuoi tu occidentale, europeo, italiano, ma forse
io ho una posizione diversa, neanche io la voglio ma mi colloco da un’altra parte rispetto a quello che mi
stai indicando tu, e qua loro si interrogano e fanno fatica a trovare delle soluzioni. Sanno che si tratta di
una pratica tradizionale molto legata ai valori del loro passato, ma si chiedono se quello che
effettivamente andava bene lì (nel paese d'origine) va bene anche qua, se quello che andava bene per loro,
va ancora bene per le figlie. E questa preoccupazione ce l’hanno in testa, non hanno bisogno che noi li
educhiamo per fare il bene delle loro figlie perché loro – in tanti casi – hanno molto presente le difficoltà
e la realtà delle loro figlie. Si interrogano sul rischio di mistificare le tradizioni per giustificare delle
ingiustizie, delle oppressioni. Come vedete, le domande sono spesso le nostre, ma il loro problema è che
non necessariamente si trovano a proprio agio nelle soluzioni che proponiamo.
Queste domande producono difficoltà anche nell’agire quotidiano, difficoltà che spesso trovano delle
soluzioni o nell'adesione radicale, quasi pedissequa alla tradizione, oppure nel rinunciare ad assumere
precise posizioni educative, nella sensazione di aver perso gli strumenti per decidere, per giudicare, per
compiere delle scelte. Diverse donne esprimono una forte difficoltà a ridefinirsi attraverso un modello
adatto di femminilità, adatto per la società, per i mariti, per i figli, ma anche per se stesse. Spesso,
l'elemento dirompente è dato dal confronto: si tratta di donne che hanno vissuto il loro corpo e la loro
fisicità positivamente; nella relazione con le donne italiane, portatrici di un corpo diverso di cui - a volte
- non sapevano, entrano in una forte crisi con la propria esperienza del corpo. Raccontano della fatica di
capire come ridiventare adatta a sé stesse, come riordinare una esperienza profonda di sé e del proprio
piacere, ma tra sé e sé prima di tutto; parlano di un ordine, di un piacere non necessariamente sessuale,
ma proprio di un agio tra la propria corporeità e l’esperienza di sé.
Un altro tema riguarda la necessità di ridefinire legami di appartenenza e solidarietà con le generazioni di
anziani e dei giovani, i figli, sulla base di nuove forme fiduciarie e di affidamento. Sembra emergere il
rischio che la crisi indotta dalla necessità di una nuova rappresentazione del corpo, della femminilità, dei
valori, si ripercuota negativamente anche nella relazione fra generazioni. Alla base di questo c'è, in alcune
donne, un senso profondo di sfiducia e svalorizzazione di sé, a cui non si è in grado di opporsi; questo
rende ancora più complessa la relazione con le altre, e con le donne occidentali in particolare. Spesso le
donne non parlano (specialmente le donne infibulate, nella mia esperienza), non parlano con noi, c’è una
grossa difficoltà a mettere in parola, a mettere in una relazione un’esperienza.
Nell’ambito della relazione di coppia spesso la migrazione provoca un cambiamento, nei termini di
scoperta - per scelta o per forza - della famiglia nucleare: vengono meno tutte quelle reti sociali
disponibili nel paese di origine e questo richiede alla coppia di ridefinirsi. In certe occasioni questo può
offrire maggiore autonomia alla coppia rispetto alle scelte che riguardano i figli; questo elemento non è di
poco conto nell'ambito del processo decisionale che sta dietro alla scelta di far operare le figlie. Tante
volte le donne straniere ci hanno detto di non essere abituate a parlare delle loro intimità in maniera
"spudorata", come facciamo noi: esistono codici differenti, anche fra marito e moglie, e dove noi
enfatizziamo una relazione col partner basata sulla confidenza, loro mettono in primo piano un certo
senso del rispetto dei ruoli reciproci.
Il confronto con il corpo delle altre donne, la conoscenza di donne "intere" che hanno fatto scelte di vita e
conducono stili di vita diversi, fa nascere una grande curiosità che influenza anche la relazione di coppia,
al di là che venga manifestata o non manifestata; quello a cui noi abbiamo spesso assistito, nei gruppi, è
che poche donne prendono parola sul tema della sessualità, dei rapporti di coppia, ma tutte quelle che
sono in gruppo assistono con molta curiosità: non tutte si sentono di esporsi, ma sono molto partecipi.
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Infine, molte famiglie affrontano il tema dei ruoli educativi genitoriali, ovvero come far crescere i figli
qua, in un mondo profondamente diverso da quello dai paesi d'origine. Di nuovo, emerge dolorosamente
un senso di inadeguatezza che fa loro ritenere di non avere più strumenti per gestire questo mondo: un
senso di impotenza e impossibilità di essere una guida per i figli. Questo è un sentimento spesso
drammatico; al contempo, emerge la necessità di tutelare ancora di più i figli in Italia, proprio manca tutta
quella rete sociale che nel paese d'origine li poteva proteggere: qua, il fuori è tutto una minaccia, mentre
nel paese di origine il mondo esterno alla famiglia è più affidabile, conosciuto; quindi da una parte c’è
tutta questa difficoltà, questo sentimento di inadeguatezza, dall’altra l’urgenza di dover proteggere e
essere attivi ancora di più con i figli. Inoltre, le dinamiche appena descritte vanno a innestarsi in una
conflittualità intergenerazionale che scoppia nell’adolescenza, in un processo particolarmente complesso
che semplificando chiamiamo relazione tra seconda e prima generazione di migrazione.
54
MGF E COMPETENZE DI COMUNICAZIONE E COUNSELLING: ASPETTI INFORMATIVI,
EDUCATIVI, DI NEGOZIAZIONE E SOSTEGNO
SILVANA QUADRINO 20
Partiamo dal lavoro che è stato fatto nei 5 sottogruppi: si chiedeva di immaginare “una situazione
comunicativa con una donna o con genitori stranieri che ha messo, o potrebbe mettere, in difficoltà il
professionista”. Ecco le situazioni su cui si è soffermato ciascun gruppo:
I° GRUPPO
La situazione non ha a che fare strettamente con il tema delle mgf. Ne parla un avvocato che fa parte del
nostro gruppo, ma la situazione era nota anche a una mediatrice familiare del gruppo. I protagonisti sono
due coniugi africani, genitori di un bimbo nato con grave prematurità e con patologie talmente gravi che
lo hanno portato in seguito alla morte. Terminato il periodo di degenza della madre i genitori sono
praticamente spariti, lasciando il bimbo alle cure dell’ospedale. Per i medici e per gli altri operatori del
reparto questo comportamento equivaleva a un abbandono del bimbo, e questo ha creato una situazione di
scontro e di incomprensione fra gli operatori ospedalieri e i genitori, che quando si sono ripresentati in
ospedale non riuscivano a capire le accuse che venivano loro rivolte. Abbiamo riflettuto nel gruppo sul
fatto che esistono aspetti del nostro ordinamento legislativo che per noi sono vincolanti e non discutibili,
ma che possono essere assolutamente incomprensibili e per alcuni aspetti anche umilianti per persone che
provengono da altri paesi. Per esempio questo padre non capiva perché doveva dimostrare di essere il
padre del bambino e quindi perché dovesse riconoscerlo. Dal suo punto di vista se lui era il marito della
madre del bimbo non c’era la possibilità che il padre fosse un altro, e quindi non doveva esserci la
richiesta di riconoscimento, a meno di sottintendere una infedeltà da parte della moglie, cosa che entrambi
ritenevano offensiva.
Anche la segnalazione di stato di abbandono del bambino, legata alla scarsa presenza dei genitori in
ospedale appariva loro incomprensibile: la situazione ospedale era dal loro punto di vista la migliore
garanzia di protezione per il loro bambino, e non vedevano la necessità di una loro presenza regolare.
La nostra visione della situazione (questi genitori non vengono a vedere il loro bambino, quindi non se ne
interessano, quindi lo stanno abbandonando) non era in alcun modo condivisibile dal punto di vista dei
genitori. In situazioni di questo tipo l’incontro e la condivisione di obiettivi diventano difficilissimi.
II° GRUPPO
Anche in questo gruppo non si è parlato di situazioni legate a mgf, anche perché nessuno dei componenti
del gruppo ha esperienze dirette riguardo a queste situazioni. Abbiamo riflettuto su alcune situazioni
legate alla gravidanza e su tematiche legate all’abuso e violenza sulle donne.
Le difficoltà di comunicazione che tutte le partecipanti sottolineavano sono legate in gran parte alla
lingua: ci troviamo di fronte pazienti che parlano pochissimo la lingua italiana, con le quali diventa
difficile istaurare una comunicazione funzionale, soprattutto quando si deve parlare di procedure che
richiedono l’uso di una terminologia abbastanza specifica.
Le difficoltà aumentano quando l’azione professionale che l’operatore deve svolgere è molto breve, o
quando si vede la paziente una sola volta in un colloquio e poi non lo si vede più. Molte donne lasciano
intuire situazioni molto delicate che andrebbero accolte in un contesto più adeguato e con la possibilità
20
Silvana Quadrino, pedagogista, psicologa, psicoterapeuta, conusellor. È tra i fondatori del metodo formativo di CHANGE
utilizzato nella formazione del counsellor professionale. Oltre all’attività di psicoterapeuta sistemica e di counsellor, svolge
un’attività ricchissima come formatrice specialmente nell’ambito degli operatori sanitari, oltre ad attività redazionali nel
campo dell’informazione sanitaria e dell’educazione dei cittadini. Svolge anche attività editoriale e giornalistica, e ha al suo
attivo numerosissime pubblicazioni sul tema della comunicazione.
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di offrire un percorso di aiuto, cosa che quasi mai è possibile. Quando invece la paziente è già inserita in
un percorso di cura, la possibilità di offrire un intervento comunicativo soddisfacente aumenta.
Sostanzialmente quello che il gruppo avverte è la difficoltà di realizzare interventi nei quali il
professionista si senta sufficientemente certo di avere offerto una situazione comunicativa almeno
minimamente valida.
III° GRUPPO
Nel nostro gruppo ci siamo soffermate a riflettere su situazioni particolarmente difficili:
1- In sala parto, se si determina una situazione di emergenza, ma anche nel corso di un normale travaglio,
come e quanto è possibile assicurare una corretta comunicazione e una adeguata informazione a una
donna straniera che non parla e non capisce la lingua, tenendo conto dell’importanza che ha la
comunicazione in situazioni di questo tipo per costruire una relazione valida? E in seguito, quando è
necessario dare informazioni magari delicate sulle condizioni del neonato, o comunque è necessario dare
informazioni e indicazioni ,o comunicare richieste e regole a nome dell’istituzione di cui facciamo parte,
fino a che punto possiamo sperare di essere comprese?
2 A scuola, nel caso che una bimba scopra la sua diversità dalle compagne perché è stata “tagliata”, come
deve comportarsi il professionista? Come conciliare gli obblighi di legge (segnalazione?) con la
delicatezza della situazione relazionale con la bambina e con la sua famiglia?
IV° GRUPPO
Ci siamo soffermati sulle difficoltà di comunicazione che nascono sia dal linguaggio che dai significati
che vengono attribuiti a ciò che viene detto. Il caso esaminato è descritto da una collega ginecologa: ci
troviamo di fronte a un’ecografia che fa nascere dubbi sulle condizioni del bambino; dovremmo quindi
parlare ai genitori di dubbio diagnostico e di percorsi di accertamento in vista di decisioni future riguardo
alla prosecuzione della gravidanza: comunicazioni in sé difficili anche con una coppia che non ha
problemi di lingua. All’ecografia sono presenti madre e padre, entrambi con difficoltà linguistiche
notevoli: il padre capiva un poco di più l’italiano e traduceva alla moglie.
La difficoltà che abbiamo individuato e condiviso è : come parlare di dubbio diagnostico senza spaventare
e possibilmente rassicurando i genitori?
Inoltre il dubbio diagnostico apre a percorsi differenziati che prevedono accertamenti successivi e
successive decisioni a partire dagli esiti degli accertamenti. Nella realtà di questo caso l’ operatore ha
dedicato più di un’ora a questa coppia, nel tentativo di comunicare la situazione, senza mai essere certa di
quello che i genitori avevano compreso, e sapendo che quello che cercava di dire non era definitivo
perché l’effettiva situazione clinica sarebbe stata chiara solo dopo una seconda fase di approfondimento
diagnostico.
Abbiamo riflettuto sulla sensazione di impotenza dell’operatore quando tenta di comunicare ma non può
sapere quanto ciò che dice viene compreso sia sul piano linguistico che sul piano dei significati. Anche il
silenzio dei genitori in situazioni di questo tipo diventa di difficile interpretazione, e lascia al
professionista il dubbio di non avere fatto tutto il possibile per farsi capire.
V° GRUPPO
Per quello che riguarda più in generale la comunicazione con persone straniere, il primo aspetto su cui
abbiamo ragionato è la questione della lingua intesa in senso ampio: quelle di noi che utilizzano più
abitualmente la mediazione sottolineavano che gli impliciti culturali che rimangono in sottofondo portano
comunque abbastanza spesso alla sensazione di non capirsi o di non condividere totalmente il senso degli
argomenti di cui si parla. Gli argomenti che affrontano i professionisti che lavorano in contesti come i
nostri sono molto delicati: si parla di interruzione di gravidanza, di violenza, di situazioni che richiedono
una particolare delicatezza e attenzione.
Per quanto riguarda più in specifico le MGF ci siamo interrogate molto, sia su come parlarne, ma
soprattutto in quali contesti sia possibile parlarne: ci sono contesti che permettono di parlare di MGF, ma
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altre volte è la struttura e la tipologia del servizio in cui si opera che non permette di affrontare questa
questione. Ci siamo chieste ad esempio se il consultorio , che è un contesto in cui le donne vengono per
essere aiutate e seguite in tutto ciò che ha a che fare con la gravidanza e il parto, sia un contesto adatto ad
affrontare il tema delle MGF, o se ci siano altri contesti più adatti ad affrontare questo tema. Si pensava
ad esempio a una possibile collaborazione con i pediatri, che condividono con i genitori la cura dei
bambini piccoli: potrebbero essere loro i professionisti più indicati per introdurre il tema delle MGF e
cercare di stimolare i genitori a parlarne e a cercare soluzioni non cruente
Ci siamo anche dette che, per quanto tentiamo di ragionare su meccanismi che possono mettere a loro
agio persone di altra cultura continuiamo a commettere degli errori . Nella pratica è risultato abbastanza
utile , quando si deve affrontare un tema delicato con una donna straniera, riflettere prima con le
mediatrici culturali per elaborare alcune strategie ed evitare di incorrere negli errori più grossolani. Ma
naturalmente non è così facile e non tutto si può risolvere in questo modo…
Dott.ssa Quadrino: Se riflettiamo sulla tante e diverse situazioni difficili che i 5 gruppi hanno descritto
rischiamo di spaventarci: è davvero così difficile parlare con persone straniere in situazioni delicate,
complesse, con così poco tempo a disposizione…Il primo passo da fare è di prendere atto di queste
difficoltà senza lasciarsi bloccare da esse. Si tratta anche di definire obiettivi realistici: non siamo
onnipotenti, non possiamo ottenere tutto quello che vorremmo né da noi stessi né dagli altri.
E’ importante ricordare sempre che moltissime delle difficoltà che compaiono nella comunicazione e
nella relazione con pazienti straniere sono potenzialmente presenti anche nella comunicazione con le
donne italiane: semplicemente sono più evidenti, enfatizzate dalla mancanza di condivisione della lingua
e soprattutto dei significati delle parole e dei concetti. Ma in realtà ogni comunicazione tra due persone è
una comunicazione fra due esseri diversi, che hanno appartenenze diverse, valori diversi, e danno
significati diversi alle parole e alle esperienze, indipendentemente dalla diversità di provenienza
geografica o di appartenenza etnica.
Qualcuno ha parlato della frustrazione che nasce quando ci si accorge di non avere né gli strumenti né il
tempo per affrontare a fondo temi delicati: parliamo di MGF ma non solo: pensiamo al significato di
“stato di abbandono del bambino” di cui ha parlato il primo gruppo, praticamente impossibile da
condividere da parte dei genitori a partire dalla loro esperienza e dalle loro abitudini.
In ognuna delle situazioni di cui si è parlato il professionista deve innanzitutto individuare obiettivi
realistici, e questo, lo ripeto, non solo con le donne straniere: tentare di convincere, di argomentare a
proprio favore, di produrre cambiamenti in situazioni in cui la distanza è eccessiva può essere, oltre che
inutile e frustrante, controproducente sul piano della relazione. Se, come nel primo caso, abbiamo di
fronte una coppia che non capisce perché viene accusata di “abbandono” del proprio bambino, il
tentativo di spiegare cosa è considerato abbandono nella legislazione italiana, e magari la nostra
concezione di genitorialità, la nostra convinzione che un bambino in ospedale debba essere affiancato dai
genitori perché la relazione genitori – bambino si consolidi… bè, credo che sia evidente che non ci
saranno mai le parole giuste e il tempo sufficiente per convincerli; semplicemente perché parliamo di due
modi diversi di vedere la stessa situazione.
La relazione con persone di altre lingue e di altre culture ci mette di fronte a una verità di cui non sempre
teniamo conto: la comunicazione ha dei limiti, bisogna avere il coraggio di accettarli. Non tutto si può
fare con le parole, o con la “ragione” . L’idea che la ragione avrà la meglio su tutti i conflitti e su tutte le
differenze è ingenua, e a volte sconfina in una inconsapevole violenza: so di avere ragione, quindi posso
importi la mia ragione!
Tutti i gruppi hanno messo in evidenza che l’interculturalità ci mette a contatto con persone che ci
propongono una visione del mondo diversa dalla nostra. Questo ha delle conseguenza anche su di noi e
sul modo di vedere l’altro “straniero”. Pensiamo al concetto di “cultura”: il dibattito fra l’uso del termine
interculturale o del termine transculturale mette in evidenza una modalità differente di intendere e
affrontare le diversità di cultura. Parlare di transculturalità suppone un progressivo avvicinamento della
cultura altra alla nostra, come se ci fosse un continuum verso una situazione ideale di più o meno totale
57
assimilazione. Se preferiamo parlare di intercultura è perché abbiamo in mente, nel contatto fra culture
diverse, sovrapposizioni, scambi, mediazioni in cui a nessuno è richiesto di rinunciare alla propria storia
e alla propria esperienza.
La definizione di “cultura” che troviamo nei dizionari classici è questa: ‘il complesso delle manifestazioni
della vita materiale, sociale, spirituale di un popolo, di un gruppo etnico’. La cultura appare, in una
definizione di questo tipo, qualcosa di statico e chiuso, qualcosa da osservare con una certa curiosità e
magari, se siamo proprio bravi, da “tollerare . La definizione che usiamo in intercultura è invece : ‘un
insieme di simboli, valori, rappresentazioni, in base a cui la persona spiega e organizza la sua presenza
nel mondo’. Dare senso alla nostra presenza nel mondo è un’esigenza primaria, e per questo il modo con
cui le persone spiegano e organizzano la loro presenza è un valore a cui dobbiamo rispetto.
È chiaro che questo rispetto non può significare che cancelliamo totalmente quelle che sono le nostre
richieste , o che rinunciamo a chiedere a nostra volta rispetto per le regole su cui si fonda la nostra
cultura. Non è casuale che molte delle difficoltà che sono state individuate nei gruppi siano di ordine
organizzativo e legislativo: una cultura si fa organizzazione, ogni organizzazione si dà regole… Ma se
quelle regole non hanno senso per chi viene da una culture diversa?
Trovare una modalità non violenta, una modalità che faciliti la reciproca comprensione e la ricerca di
comportamenti possibili e accettabili per entrambe le parti è la grande scommessa della comunicazione
interculturale all’interno delle istituzioni.
Quello che stiamo cercando molto faticosamente di costruire è un mondo che prima non c’era, un mondo
in cui bisogna interrogarsi non su quale cultura deve prevalere, quale è “migliore”, più avanzata, più
giusta, ma su come rendere possibile la convivenza di persone che aderiscono a principi e valori
differenti.
Un aspetto che emerge dalle situazioni scelte dai gruppi è la difficoltà di collocarsi in quelle che
possiamo definire relazioni senza futuro. Se ho di fronte una persona che vedrò una volta e mai più, la
scelta consapevole e realistica dell’obiettivo si impone: e in casi di questo genere, il massimo che
possiamo offrire è la capacità di ascolto, l’impegno a capire e cercare di capire al di là degli inevitabili
ostacoli linguistici (riesco a farmi capire? ) e cognitivi ( che significato hanno i termini che uso, le
parole che dico, per la persona che ho di fronte?) ;al di là dei pregiudizi reciproci e delle differenti
priorità. E’ la modalità con cui ascoltiamo l’altro, con cui facciamo fronte alle difficoltà reciproche di
comprensione che determina la qualità della relazione di cura , che è l’obiettivo irrinunciabile per ogni
professionista sanitario.
Un altro aspetto che emerge dalle situazioni narrate è la particolare difficoltà che nasce nel confrontarsi di
modalità differenti di intendere la genitorialità. Essere genitore, essere madre è qualcosa di
profondamente collegato alla cultura di appartenenza, e questo non soltanto per i genitori stranieri:
abitudini, convinzioni, esperienze, timori legati a “cosa è bene per un bambino” fanno parte del
patrimonio culturale di ogni madre, di ogni coppia di genitori: certamente alcune modalità ci risultano più
estranee, su altre abbiamo il dovere di intervenire. Ma sempre mantenendo l’obiettivo di non perdere la
qualità della relazione di cura.
Alla domanda ‘ma voi cosa vorreste riuscire a fare in situazioni di questo tipo?’ i professionisti sanitari
rispondono spesso che vorrebbero riuscire a far capire l’importanza delle loro richieste, la validità delle
loro indicazioni. Il tentativo di far capire è però molto spesso alla base di uno scontro senza uscita, una
specie di muro contro muro: da una parte i genitori che pretendono cose che noi non possiamo accettare,
che hanno abitudini diverse e secondo noi sbagliate, o potenzialmente dannose per il bambino; dall’altra
parte c’è il professionista sicuramente bene intenzionato e preoccupato per la salute del bambino, che fa
di tutto per “far capire” all’altro che se qualcuno ha ragione, bè quello è lui, il professionista… Detto così,
risulta chiaro che siamo all’interno di un contesto invisibile 21 di conflitto, di guerra in cui vince uno solo;
21
G. Bert, M. Doglio, S. Quadrino, Le parole del counselling sistemico, Edizioni CHANGE 2011
58
e l’altro perde. Ne consegue che “far capire” a un altro le nostre ragioni non è affatto una azione pacifica:
implica che l’altro ceda, che i adegui, che rinunci alla sua posizione. Che in qualche modo perda.
Se riusciamo a rinunciare all’idea che per il bene delle bambine, per il bene della donna, per il bene di un
paziente dobbiamo riuscire a convincere l’altro, a farlo cambiare , entriamo in un'altra dimensione della
comunicazione, e il problema linguistico si riduce. Se l’obiettivo non è più convincere, ma rendere
possibili all’altro comportamenti differenti da quelli che ha utilizzato finora entriamo nella dimensione
della negoziazione, della facilitazione, della ricerca condivisa di soluzioni possibili.
Si tratta di adottare uno sguardo più ampio: le prime regole base per farlo sono:
- Vedere il problema con gli occhi dell’altro: nessuno di noi sa quali difficoltà, quali ostacoli vede l’altro
di fronte alla proposta di comportamenti che non fanno parte delle sue abitudini, delle sue tradizioni.
- Rinunciare a spiegazioni centrate sulla persona ( lui è) o sul gruppo di appartenenza (“loro” sono): non
tutto quello che una persona fa o chiede deriva dalla sua appartenenza etnica o culturale
- Ridimensionare gli obiettivi professionali: imparare a chiedersi “cosa è veramente indispensabile
ottenere almeno?” ci porta spesso a vedere che è possibile raggiungere un obiettivo per gradi, o limitarsi
a piccoli cambiamenti fondamentali e irrinunciabili
Dal punto di vista della struttura delle comunicazioni, è fondamentale abituarsi a ridurre la quantità di
parole e di informazioni che in genere i professionisti sanitari riversano (a fin di bene…!) sui pazienti. In
questo la presenza dei pazienti stranieri ci aiuta, perché è più facile accorgersi del fatto che le parole si
prestano facilmente a malintesi, e quindi dobbiamo esprimerci con poche parole ben scelte , con frasi che
abbiano un obiettivo semplice e chiaro. La scelta delle informazioni indispensabili è una delle tecniche
fondamentali nelle comunicazioni, soprattutto quando abbiamo a che fare con persone che hanno una
cultura diversa.
Può essere utile a questo proposito ricordare le quattro massime che Paul Grice 22 indica come fondamenti
di quel principio di cooperazione che rende possibile agli esseri umani scambiarsi messaggi in modo tale
da comprendere ed essere compresi
 massima della quantità (dai un contributo appropriato sotto il profilo della quantità di
informazioni, cioè non parlare troppo ma neppure troppo poco);
 massima della qualità (non dire cose che credi false o che non hai ragione per credere vere,
limitati a ciò ci cui sei ragionevolmente sicuro);
 massima della relazione (dai un contributo pertinente ad ogni stadio della comunicazione, non dire
tutto subito, rispetta i turni di parola);
 massima del modo (esprimiti in modo chiaro, breve, ordinato).
Applicare queste massime è particolarmente importante ogni volta che è indispensabile
 dare informazioni comprensibili e accettabili
 dare indicazioni chiare e traducibili in comportamenti
 facilitare la comprensione di chi ci ascolta
 rendergli possibile la partecipazione alla comunicazione (commenti, domande),
come sicuramente avviene per le comunicazioni che hanno a che fare con la salute, la cura, la malattia.
Per quanto possibile, il professionista deve assicurarsi che siano aperti e resi utilizzabili i due canali della
comunicazione, quello “in uscita” ( dal professionisita al paziente: informazioni, spiegazioni, indicazioni)
e quello “in entrata” (dal paziente al professionista: descrizioni, richieste, domande, controproposte).
Dobbiamo ricordare che se per noi è faticoso cercare di spiegarci con una persona che parla una lingua
diversa e comprende poco e male la nostra, per quella persona è altrettanto difficile e faticoso cercare di
esprimere i suoi pensieri, le sue richieste, le sue domande in una lingua che non padroneggia. Per questo
dobbiamo facilitare la comunicazione dell’altro facendo domande semplici, aspettando con calma la
risposta, evitando di parlare al posto suo se la risposta impiega tempo ad arrivare.
22
P. Grice, Logica e conversazione, Il Mulino 1993
59
Il silenzio fa parte della comunicazione, e anche il ritmo di parola ( adesso parlo io, adesso parli tu) ha
un significato; rispettare pause di silenzio può rendere più facile al paziente lo sforzo di esprimersi in una
lingua che conosce poco e male. Allo stesso tempo però, pause di silenzio troppo lunghe possono risultare
imbarazzanti e difficili da tollerare. I momenti in cui ci si sente bene all’interno di uno scambio
comunicativo sono quelli in cui si riesce a creare un equilibrio fra le cose che diciamo, le domande che
facciamo,e le risposte che riusciamo a ottenere; mentre se ci lasciamo trascinare a parlare troppo, a
spiegare troppo, rischiamo di travolgere e ridurre al silenzio il nostro interlocutore, a lo scambio diventa
disequilibrato.
Questo succede anche con le pazienti italiane: con gli stranieri succede magari di più, ma è comunque
qualcosa da evitare sempre. Abituarsi ad ascoltarci mentre parliamo, per imparare a sentire se lo scambio
è sufficientemente equilibrato è un esercizio di buona comunicazione che ogni professionista può mettere
in atto in ogni momento.
Così come è un ottimo esercizio abituarsi a scegliere e ridurre il numero di parole che usiamo: si tratta di
avere molto chiaro cosa vogliamo comunicare (cioè fargli ascoltare e capire) alla persona che abbiamo
davanti, e poi cercare di dirlo col minor numero di parole possibile, con le parole più semplici che
possediamo, costruendo periodi semplici: (soggetto, predicato, complemento) e evitando gli incisi, le frasi
subordinate ecc.
Dopo una comunicazione fatta così, ci vuole ancora un piccolo atto di coraggio: bisogna fermarsi e tacere.
E’ in quel momento che l’altro deve trovare lo spazio per inserirsi, magari per fare una domanda, o per
dirvi che non ha capito. Spesso invece ci viene l’ansia di spiegarci meglio e ricominciamo a parlare, ad
aggiungere spiegazioni, a ripetere ciò che abbiamo già detto. Meglio un po’ di silenzio, e poi, se l’altro
non interviene, meglio provare a fare una domanda ben fatta, chiara, semplice, che lo aiuti a farci capire
qualcosa di più del suo mondo e della sua esperienze, che noi non conosciamo
Un altro aspetto su cui bisogna riflettere è la differenza di priorità. Soprattutto in ambito materno
infantile, molto spesso le priorità dei professionisti non coincidono automaticamente con le priorità dei
genitori: quello che è un obiettivo importante per un professionista sanitario non necessariamente è un
obiettivo importante per un genitore.
Per evitare che questa differenza inevitabile diventi un ostacolo alla comprensione e alla cooperazione nei
percorsi di cura è necessario abituarsi a non dare mai nulla per scontato ; non è scontato che una parola
abbia per l’altro lo stesso significato che ha per noi : pensiamo a tutte le parole di uso corrente in sanità
che hanno per i sanitari un significato diverso da quello che hanno per i pazienti ( condizioni stabili,
esami positivi ecc. 23). Non è scontato neppure che quello per il professionista è importante lo sia per
tutti. E’ frequente che le modalità di accudimento dei bambini di persone di altre culture provochino
indignazione in un professionista sanitario italiano: le mamme cinesi per tradizione non devono fare
sforzi fisici dopo il parto, per cui può succedere che evitino di tenere fra le braccia il neonato: attribuire a
questo comportamento un significato di scarso attaccamento madre-bambino è però del tutto arbitrario e
non ha alcuna utilità nella relazione di cura. Solo se sospendiamo il giudizio morale, se ci abituiamo a
non considerare verità assolute le nostre convinzioni sulle relazione mamma-bambino possiamo entrare
in comunicazione con persone di diversa tradizione e cultura.
Attenzione però a non semplificare in modo eccessivo, a non convincersi troppo presto di aver capito
tutto;non tutto quello che una persona fa o dice è esclusivamente frutto della sua cultura, insomma una
persona non è mai soltanto “una donna cinese”, “una ragazza marocchina” ecc. Far coincidere una
persona con la sua cultura di origine è altrettanto limitativo e poco rispettoso che rifiutarla a causa di essa:
si corre il rischio di assumere un atteggiamento di blanda indulgenza che si trasforma in rassegnazione, in
rinuncia a quel principio di cooperazione di cui parla Grice, che richiede invece il massimo impegno
possibile per cercare di accedere al mondo dell’altro e comprenderne il significato. Incontrare persone di
23
L. Fontanella, La comunicazione diseguale, Il Pensiero Scientifico Editore 2011
60
cultura diversa implica una doverosa scommessa sulla possibilità di capirsi;
una scommessa in cui
dobbiamo credere noi professionisti per primi perché è il professionista che determina il clima e la
qualità della relazione.
La realtà in cui viviamo oggi ci porta e ci porterà sempre di più a contatto con persone che esprimono
valori diversi dai nostri, che fanno scelte che noi non faremmo, che considerano normali comportamenti
che per noi sono inammissibili. E’ necessario uno sforzo per assumere un atteggiamento non giudicante,
per essere disposti a credere che anche comportamenti diversi dai nostri possono avere un senso. Per
farlo dobbiamo innanzitutto essere consapevoli dei nostri (inevitabili) pregiudizi, e poi rinunciare alla
logica giusto-sbagliato per entrare in quella, più complessa, della ricerca di senso. Non esasperare le
contrapposizioni , chiederci sempre cosa non sappiamo del mondo dell’altro sta alla base del metodo
della comunicazione non violenta, del counselling sistemico, della gestione creativa dei conflitti che io
utilizzo sia nella formazione alla comunicazione interculturale che nella formazione alla comunicazione
professionale in genere 24
Solo se usciamo dal clima di contrapposizione ( o è giusto quello che penso io o è giusto quello che pensi
tu) possiamo costruire quel clima di ascolto reciproco che è indispensabile in ogni relazione di cura.
Dobbiamo passare dalla modalità insistere, che è quella che ci viene spontanea - io voglio che l’altro
faccia una cosa, perché sono convinto che è la cosa giusta, e insisto perché lui la faccia - alla modalità
rendere possibile e.
Questo richiede alcuni passaggi. Per prima cosa, dobbiamo sforzarci di vedere la realtà con gli occhi
dell’altro: se mi dice che non può fare qualcosa, o che non gli è possibile rinunciare a un determinato
comportamento, devo provare a chiedermi quali sono gli ostacoli che lui vede, quello che concretamente
gli rende impossibile aderire alle mie richieste. Se ci proviamo, ci accorgiamo che è qualcosa di molto
difficile: semplicemente non sappiamo quasi mai, non possiamo sapere quali sono le difficoltà, i timori,
gli ostacoli che un altro percepisce. E così scopriamo che possiamo chiederlo, che si possono fare
domande esplorative basate sul genuino desiderio di entrare in contatto con la realtà dell’altro; questo è
sufficiente per uscire dal clima di giudizio, di contrapposizione.
Ma per il professionista sanitario ( e non solo per lui) esistono situazioni in cui non è sufficiente sforzarsi
di vedere il mondo dell’altro, di esplorare il senso di comportamenti che l’altro non vuole rinunciare, o di
richieste a cui non può aderire: ha anche obblighi – professionali e istituzionali – che gli impongono di
intervenire, diimpedire o modificare quel comportamento, di rifiutare quella richiesta. E’ possibile farlo
senza esasperare il clima di contrapposizione?
Nel metodo di comunicazione non violenta utilizziamo in questi casi quella che definiamo “la tecnica dei
tre passi” 25
Usiamo come esempio uno dei casi descritti, quello del genitore a cui viene chiesto di ufficializzare il
matrimonio con la sua donna e di riconoscere il proprio bambino. Abbiamo visto che l’uomo si rifiuta,
non ne capisce la ragione, considera quella richiesta offensiva. Anche il professionista però ha la sue
ragioni, dal punto di vista della legge italiana è obbligato a fare questa richiesta e ottenere quegli
adempimenti, non può limitarsi a una saggia riflessione sulle ragioni della cultura dell’altro…. La
modalità spontanea che utilizziamo in situazioni di questo tipo è l’insistenza più o meno (sempre di più)
impaziente : il professionista cercherà di spiegare ancora al padre che deve proprio fare quello che gli
viene chiesto, e poi di spiegarglielo ancora , utilizzando via via tutte le modalità comunicative che il
pedagogista Thomas Gordon 26 ha definito “modalità barriera”: le giustificazioni (non sono io che voglio
questo, è la legge che me lo impone), le minacce (se non lo fate, succederà che…), l’esortazione a essere
ragionevole ( non è possibile che non capisca…) ecc. I risultati di queste modalità non sono mai molto
24
S. Quadrino, Genitori stranieri, Edizioni CHANGE 2010
S. Quadrino Il colloquio di counselling Edizioni CHANGE 2011
25
S. Quadrino Il pediatra e la famiglia Il Pensiero Scientifico editore 2009
26
T. Gordon , Genitori efficaci, Edizioni La meridiana
61
incoraggianti, anzi: lo sappiamo tutti per esperienza (anche nelle comunicazioni con i figli, che sono
quelle di cui parla Gordon… ). Inoltre, nelle comunicazioni fra un professionista sanitario e un paziente
queste modalità influiscono negativamente sulla qualità della relazione e sulle possibilità di arrivare a una
negoziazione-condivisione delle proposte 27
Nella modalità dei “tre passi” il professionista realizza un primo movimento o “passo” caratterizzato dalla
non conflittualità e basato sulla legittimazione delle difficoltà (o delle richieste ) del paziente. E’
importante avere molto chiaro che legittimare non significa dare ragione all’altro: significa segnalare che
ci rendiamo che se l’altro dice di non voler ( o non potere) fare qualcosa questo non significa che è
pazzo o cattivo, ma semplicemente che quello che gli stiamo proponendo è ancora troppo difficile per lui.
Per i professionisti (sanitari, sociali, educativi) imparare ad ammettere che anche le persone che fanno
richieste che suonano irragionevoli o inammissibili, o che hanno convinzioni che contrastano con le loro
non sono necessariamente
pazze o cattive rappresenta un cambiamento profondissimo nello stile
relazionale. Quello che il professionista comunica in questo primo passo non è, ripeto, l’adesione totale
alle richieste o alle convinzioni dell’altro ma la capacità di vedere il senso della posizione dell’altro: frasi
come ‘guardi che mi rendo conto che le stiamo chiedendo delle cose che per lei sono difficilissime da
accettare ’ hanno effetto anche se la lingua non viene totalmente compresa, perché è l’intero
atteggiamento del professionista che segnala che non c’è contrapposizione, non c’è giudizio negativo.
L’effetto di questo primo passo è più sul piano relazionale che su quello della comprensione: il clima di
contesa si riduce, l’altro diventa a sua volta meno rigido e meno contrappositivo, l’ascolto reciproco
diventa possibile.
Parliamo di tre passi perché gli obblighi professionali e istituzionali di un professionista sanitario non gli
permettono di adagiarsi in questo clima non conflittuale: bisogna entrare a questo punto in una fase di
negoziazione che porti a negoziare percorsi e modalità di intervento valide sul piano clinico e
deontologico e sostenibili per il paziente. Con il secondo passo il professionista deve esplicitare in modo
chiaro e assertivo la propria posizione e definire i limiti della negoziazione: 'io sono però costretto a
insistere in questa richiesta, io davvero non posso rinunciare'. Per avere il massimo effetto e segnalare la
fermezza della posizione del professionista è necessario utilizzare poche parole: altrimenti scivoliamo
nuovamente nella modalità barriera, spieghiamo, giustifichiamo, argomentiamo, scivoliamo nuovamente
nel tentativo di convincere l’altro. Il secondo passo segnala l’esigenza di cercare insieme una modalità
che renda possibile aderire alle richieste del professionista, e che questa ricerca sarà fatta insieme. Per
questo è necessario il terzo passo che è una forma di negoziazione guidata: il professionista incoraggia
l’altro a esplorare le possibilità alternative, a individuare le difficoltà più grandi, gli ostacoli che vede.
Questa esplorazione può essere fatta a partire da domande di questo tipo
 In base alle vostre abitudini cosa si dovrebbe fare invece?
 Chi è soprattutto che dice di fare così?
 Qualcuno fra voi dice anche altre cose, fa anche cose diverse?
 Cosa potrebbe succedere se non si facesse ? Cosa temete soprattutto?
 Cosa vi aiuterebbe a fare quello che vi chiediamo?
Per utilizzare bene questa tecnica, soprattutto per guidare in modo efficace la fase che si apre dopo il terzo
passo, che è quella della negoziazione, è necessaria una buona preparazione alla comunicazione in
generale, e una buona esperienza di comunicazione interculturale.
Qualcuno segnalava l’importanza della presenza dei mediatori culturali. Va detto che nella realtà non
possiamo aspettarci un aumento della presenza dei mediatori, non foss’altro per problemi economici;
d’altra parte in Italia sono presenti persone appartenenti a diverse centinaia di culture diverse, e sarebbe
utopistico sperare di poter avere a disposizione una persone che conosca la cultura, la lingua, le abitudini
27
G. Bert, Ma perché non fa quello che le ho detto?, Edizioni CHANGE 2009
62
di ognuna di esse. Quando però il mediatore esiste, è importante utilizzare al massimo la sua presenza,
che come ormai tuti ripetono non è quella del traduttore: al mediatore è importante chiedere
 Quali atteggiamenti o comportamenti è preferibile evitare
 Come viene affrontato abitualmente quel problema o quella situazione
 Cosa è troppo difficile o impossibile ottenere
 Cosa è possibile chiedere e con l’aiuto di chi
 Quali persone possono essere coinvolte per fronteggiare la situazione
 Quale è la modalità più comprensibile per esprimere ciò che vogliamo dire
Per concludere, la possibilità di stabilire una comunicazione e una relazione con persone straniere è legata
in gran parte all’acquisizione di atteggiamenti mentali e relazionali che evitino la contrapposizione fra
mondi diversi e favoriscano la ricerca di comportamenti e modalità di cura accettabili e sostenibili.
63
64
MATERNITÀ E DONNA MIGRANTE
MARIE ROSE MORO 28
La vita dei bambini che vivono l’esperienza della migrazione è fortemente influenzata dall’accoglienza
dei paesi d’arrivo. Con il lavoro e lo studio, nel corso degli anni la direzione che noi abbiamo intrapreso
con l’obiettivo di capire, è stata quella d’integrare le ragioni linguistiche ma anche quelle antropologiche,
ed inoltre quella di modificare la nostra costruzione interiore, che chiamiamo ‘il nostro stesso sguardo
verso gli immigrati’. Certamente, ci sono cose che non possiamo modificare, ma al contrario ciò che
possiamo modificare e ciò che dovremmo dimostrare di saper cambiare è come noi, paese di accoglienza,
guardiamo in una situazione di differenza culturale e cosa possiamo fare per venirci incontro e per aiutare
questi bambini a crescere.
Io penso che dal punto di vista culturale, l’essenziale sia affrontare il nostro atteggiamento interno, dopo
viene tutto il resto, ma questo atteggiamento interno è fondamentale nel nostro lavoro.
Approccio Transcultuale
 Nel 1980, Pr. Lebovici sentì il bisogno di
rendere
un
servizio
migliore
alla
popolazione immigrata che si rivolgeva al
servizio di psichiatria dell ’ infanzia e
dell ’ adolescenza e chiese a Nathan di
iniziare la sua prima seduta transculturale.
 Dal 1989, ho condotto le consultazioni e
sviluppato un lavoro clinico transculturale
per gli immigrati e le famiglia rifugiate. La
mia attenzione è rivolta soprattuto alle
seconde generazioni.
Avete detto nella vostra presentazione che è già da un pezzo che studio questo problema. Ancora prima di
lavorarci, la migrazione è stata la mia stessa esperienza.
Il mio è un nome spagnolo, ho origini spagnole, sono nata in Spagna e cresciuta in Francia, dove sono
arrivata molto giovane, qualche mese dopo la nascita. Perciò sono cresciuta, come molti altri, in una
situazione in cui dentro e fuori casa la realtà non era la stessa, anzi, a volte risultava contraddittoria:
parlare una lingua in casa e apprendere la lingua seconda a scuola.
Inizialmente ho lavorato nella zona nord di Parigi, a Bobigny, che è proprio la zona in cui arrivano nuove
migrazioni, un luogo di arrivo e di passaggio dove chi arriva si sposta e lascia il posto a chi arriverà
successivamente.
L’ultimo gruppo con cui abbiamo lavorato sono stati i Tamil dello Sri Lanka, un gruppo particolarmente
numeroso in quel momento, e quasi completamente inesistente dieci anni fa. Abbiamo perciò creato un
centro culturale all’interno di un ospedale in cui è individuabile la forte componente della colonizzazione
28
Marie Rose Moro, Professor of Child and Adolescent Psychiatry – University of Paris, France Director of the Department of
Adolescent Medicine and Psychopathology of Cochin Hospital, Paris, France, Presidente A.I.E.P. (Association International
d’Ethnopsychanalyse). La prof.ssa Moro si occupa da venticinque anni di clinica transculturale, cercando di adattare le
nostre modalità di occuparci della salute mentale, le nostre tecniche, i nostri setting, i nostri metodi di ricerca, alle famiglie
immigrate e ai loro bambini. Sta lavorando anche ad un nuovo metodo multi disciplinare per prendersi cura degli adolescenti.
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francese nel Maghreb. In questo centro, all’interno di questo ospedale è stato possibile trasformare il
problema coloniale in un problema di migrazione.
Avendo a disposizione un centro culturale per la prima generazione, mi hanno poi chiesto di costruire un
centro d’accoglienza per la seconda generazione: cioè quella dei figli dei migranti. Perciò abbiamo
installato questa struttura all’interno di spazi dell’ospedale universitario, e sono aperti a tutti: è una
struttura su due livelli in cui il secondo è destinato a bambini e adolescenti.
E’ stato il primo dispositivo attivato e anche il più recente, si trova proprio nel centro di Parigi, è in una
grande casa per gli adolescenti. È l’ultimo Servizio di questo Ospedale. Qui abbiamo aperto uno spazio
transculturale accanto alla maternità di Port-Royale, la più grande della città. Ed è questo il luogo in cui
trattiamo con le madri della maternità, trattiamo con gli adolescenti, vediamo i bambini mandati dalle
scuole e dalle famiglie.
Io ho pensato che fosse importante aprire un centro transculturale nel centro di Parigi perché credo che la
questione transculturale non sia solamente circoscritta ad alcune zone, ai sobborghi, alle zone con un più
alto tasso di migranti. E’ una realtà comune, io credo, a tutta la città e a tutte le città, Verona o Parigi che
sia: è una situazione frequente sia nei centri città sia nelle zone più periferiche, ed è per questa ragione
che abbiamo potuto aprire lì un centro di questo tipo.
Vorrei ripercorrere con voi le tappe di questa esperienza per darvi alcuni elementi che mi sembrano
importanti per capire il modo in cui abbiamo potuto accedere a quella situazione di sofferenza.
I L CONCETTO DI CULTURA
La questione su cui abbiamo lavorato di più è la definizione della cultura: è una posizione anche
personale, ma ci tengo ad insistere sul fatto che la nozione di cultura sia al contempo concreta, perché si
tratta di qualcosa di quotidiano, ma anche un concetto filosofico che ha a che fare col proprio rapporto
con il mondo.
Perciò “cultura” è entrambe le cose nello stesso tempo, qualcosa di estremamente pratico e di
estremamente profondo, quindi ci sono diversi livelli sottesi a questo concetto. Allo stesso modo, nella
definizione di cultura ci sono degli elementi dinamici: in altre parole si tratta di una cultura in costante
cambiamento ed evoluzione in riferimento alla migrazione.
Perché spesso la cultura dell'altro è percepita come qualcosa di negativo, parliamo di vincoli, di
negazione, di fardelli, che vediamo come elementi di svalutazione.
Cultura
 Sistema fisolofico e pragmatico
 Composto di linguaggi, rappresentaizoni e
credenze,
strutture
familiari,
sistemi
di
genitorialità e parentela, un corpo di tecniche
e modalità di fare (vestirsi, cucinare, guarire,
essere una madre…)
 Sistema sempre Dinamico che cambia con gli
incroci intergenerazionali.
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La cultura è come l'acqua in cui vive il pesce: il pesce vive immerso nella cultura. E’ nato in questa
cultura, che è allo stesso tempo dentro di lui, ma anche all'esterno, è una dinamica fisica, perciò è
qualcosa di imprescindibile e la cultura degli altri è la mia.
E’ un concetto dinamico sotto molti punti di vista: tra una generazione e l'altra ci sono delle differenze
eppure è la stessa cultura ed è questa la dinamica stessa della cultura. E’ in continuo movimento e
malgrado questo continuo cambiare è qualcosa che resta.
Dunque è molto importante riconoscere l'aspetto dinamico della cultura dell'altro senza imporre la nostra
cultura.
È vero che in ogni cultura ci sono dei parametri strutturanti ma anche altri che uniscono, una sorta di
parametri intermedi: dei mezzi di libertà e creatività: dunque è vero per tutte le culture e non solo per
quella dell'altro. Se rispettiamo e riconosciamo questa dinamica, si dà l'opportunità di sviluppare gli
elementi della cultura, e si può diventare più creativi, la famiglia per esempio può essere il nucleo di
partenza di un'elaborazione creativa. Questi sono solo alcuni aspetti, ma ce me sono molti altri: il primo
elemento è la cultura stessa, il secondo è la migrazione.
L A MIGRAZIONE
Un giorno ho scelto delle foto e le ho proposte ad un gruppo di genitori di bambini con difficoltà di
linguaggio. Erano foto che avevano a che fare con la migrazione. Ce n’erano di diverse: di viaggio, foto
divertenti, ma loro hanno scelto quelle più tristi, più drammatiche per illustrare il tema dell'esilio,
certamente per parlare di qualcosa di difficile.
Sicuramente la migrazione è complessa, ci sono diversi modi di migrare, si migra per sopravvivere, per
garantire ai figli un futuro migliore ecc.
È per questo che faccio ricerca sulla migrazione e ogni volta sono sorpresa per la difficoltà delle cose, ma
anche da questo aspetto della migrazione: che è come fosse una primavera che viene in ritardo; in altre
parole si può spiegare anche in riferimento alla nascita e all'adolescenza dei bambini, momenti in cui
succedono cose importanti e a volte, passaggi che trasformano la famiglia e danno significato alla
migrazione.
Tuttavia può accadere che la migrazione, da possibilità positiva, diventi qualcosa di insopportabile. Si può
migrare per i figli ma può succedere che loro si trovino male e allora tutto l'insieme della famiglia,
genitori compresi, ne risente.
C'è uno studio fatto in Francia, che ha dimostrato che sono state le madri le più colpite dalle difficoltà dei
figli piccoli, mentre i padri sono più colpiti dalle difficoltà dei figli adolescenti.
La migrazione è quindi un evento che fa parte della storia della famiglia. A questo si lega uno dei
problemi più frequenti, cioè quello che riguarda le competenze linguistiche della lingua del paese di
accoglienza. Tramandare ai figli le esperienze dei genitori e delle generazioni precedenti è un evento
problematico, spesso questi racconti avvengono nella lingua seconda, la lingua nuova. Si pone per i
genitori il problema della traduzione dei dispositivi e anche se questa maniera di trasmissione della storia
permetta alle madri di parlare delle vicende pre-migratorie. Per esempio quando facciamo le consultazioni
per gli adolescenti, loro sentono lì queste storie per la prima volta in un contesto esterno e non interno alla
famiglia. È molto importante infatti per i figli venire a conoscenza di queste storie che riguardano le loro
famiglie in modo da poterle collocare e collocarsi al loro interno.
La migrazione certamente è un evento sociologico, politico, storico ma anche è un evento dell'individuo e
quindi psicologico e perciò molto profondo. La migrazione ha perciò delle conseguenze sia per gli
individui che per il gruppo, che si influenzano a vicenda.
La prospettiva transculturale ci induce a guardare l' insieme di questi effetti della migrazione e gli studi
non sono molto vecchi in Francia ed in Inghilterra, infatti c'è ancora la necessità di fare studi più
approfonditi sul tema.
Gli effetti sull'individuo sono di rottura, la migrazione crea uno scarto tra un prima ed un dopo, c'è
sicuramente una componente violenta, di trauma, di ansia, di depressione, ma c'è anche una componente
di libertà. E importante considerare quest'ambiguità degli effetti sull'individuo. E’ una trasformazione
67
dell'esperienza sensoriale, affettiva, emotiva ed è molto importante ricordare che la violenza è qualcosa
che non si può anticipare.
Working with Immigrants’Children
 In sintesi: i bambini immigrati hanno
specifiche vulnerabilità psicologiche
 Possiamo definirle « Rischio Transculturale»
 Le pratiche culturali hanno una effetto
protettivo per i genitori.
 Gli antropologi hanno imparato a riconoscere
la culla culturale e sociale del bambino.
 Ci sono interazioni tra le cornici culturali e le
cornici psichiche.
 I figli degli immigrati devono confrontarsi con
una duplice fragilità: la loro, legata alla
spaccatura nella quale sono strutturati e quella
dei loro genitori, legata all’immigrazione.
Il fatto di conoscere la cultura può aiutare ad anticipare questi eventi, per esempio quelli nati in una data
cultura possono avere delle abitudini diverse rispetto al parto, o rispetto a come funzioni la scuola.
Per esempio la mamma di un bambino che frequenta la scuola materna, ha riscontrato delle difficoltà
poiché suo figlio sembrava essere incapace di tranquillizzarsi a scuola.
All'inizio della consulenza la madre racconta che non sapeva spiegarsi il fatto di essere continuamente
convocata a scuola, faceva fatica a comprendere il motivo della convocazione. Lei infatti non sapeva che
a scuola bisognasse stare seduti, ma una volta rassicurata su questa abitudine francese, ha avuto modo di
spiegarlo al bambino; è molto importante infatti lo sguardo collettivo, e quindi la possibilità in questo
caso di condividere questa regola ed avere una rappresentazione comune della situazione.
Questa è un'esperienza relativa al mondo della scuola, per quanto riguarda il parto per esempio per un
gran numero di donne risulta strano credere che con l'ecografia si possa sapere qualcosa in anticipo sul
bambino. Bisogna sapere qual é il bene del bambino, ma ci sono diversi modi per mettere al mondo un
figlio e non esiste una risposta univoca a queste domande. Che cosa è il bene di un bambino, di un
adolescente?
Non c'è una definizione univoca per il termine adolescenza. Che cos'è l'adolescenza? Che cosa
rappresenta la parola adolescenza? Che cos'è la pubertà ? Esistono lingue e perciò gruppi culturali in cui
questo concetto non è contemplato, prima c'è il bambino, ed ad un determinato momento diviene adulto.
Per rispondere alle domande della popolazione
immigrata occorre concentrarsi su un triplice
interesse.
La cultura delle origini e le sue modifiche
attraverso il processo migratorio.
Le conseguenze psicologiche della migrazione
sui genitori e figli
La situazione, le difficoltà e le sfide che le
famiglie immigrate affrontano individualmente
e collettivamente.
68
Questo passaggio è legato all'acquisizione della libertà, ma la libertà ideologica non corrisponde alla
libertà psicologica ed emotiva. Quindi in queste culture è un rituale a decidere quando un bambino
diventa adulto. Non esiste un termine specifico che definisce l'adolescenza, ma non significa che in queste
culture non vi sia uno scarto netto tra il bambino e l'adulto. Si litiga con i genitori, non si è d'accordo su
nulla, si hanno i propri sogni, elementi che la caratterizzano decisamente come adolescenza anche se non
c'è una parola per definirla.
Una cosa estremamente importante sono le condizioni in cui vengono accolti i migranti, in altre parole
l'accoglienza vera e propria da parte della società: come li vediamo, come li accogliamo.
Un padre ci diceva che, riguardo all’essere genitori, una delle cose più
difficili per lui era legata al passaggio dei figli dall'adolescenza all' età
adulta: momento che, nella sua cultura, coincide con un rituale che egli
stesso aveva attraversato: aveva dovuto prendere delle piante affiancato da
degli adulti, delle figure riconosciute come saggi, custodi del sapere
tradizionale. È stata un'iniziazione difficile, è stato nella foresta, ci sono
state delle prove fisiche ed intellettuali in condizioni difficili. È un momento
di formazione importante per gli adolescenti. Lui mi ha detto “ ecco, in
questo modo sono diventato un uomo forte, coraggioso ed in grado di
provvedere alla famiglia, poi sono arrivato in Francia ed è stato molto
difficile per me, ho avuto paura, volevo tornare ma non potevo, e i sono
detto che la Francia è più difficile del rito di iniziazione. Venire in Francia
é stata l'ultima tappa dell'iniziazione, ma la più dura”.
Ci sono molti migranti che si trovano nella condizione di non sapere nulla, con la sensazione di non
essere riconosciuti.
L'ultima cosa che è stata difficile per questo signore è stato avere tre figli, il primo è nato prematuro, la
madre è stata molto in difficoltà, disorientata, questo bambino ha poi avuto dei problemi di linguaggio.
Ha scelto questa foto che è legata alla difficoltà che ha avuto nel confrontarsi con il mondo medico in
quell'occasione, con la parte più tecnica del parto prematuro. In questa difficoltà di comprensione i medici
hanno sospettato che lui non avesse saputo scegliere per il bene di suo figlio. Nel momento in cui sono
usciti dall'ospedale, i medici gli hanno detto che era molto importante che continuassero a farsi aiutare.
Le conoscenze tradizionali della mamma e del papà, in questo caso erano qualcosa di controproducente
per la salute del bambino ed è stato molto difficile per loro accettarlo. Il nostro servizio per questo ha
preparato un libro per aiutarli.
I migranti si portano un sapere che non sempre può risultare compatibile con quello del paese d'arrivo,
perciò noi siamo in una sorta di posizione di controllo su di loro. In questo caso infatti ci si è confrontati
con una situazione di discriminazione rispetto alla posizione del padre, ma anche di quella della madre,
considerati incapaci di scegliere per il bene di loro figlio, in una situazione di confronto con modelli e
abitudini diverse.
Il problema diventa quindi come da ciascun modello si sceglie ciò che è meglio nel caso specifico. È
importante che gli immigrati si sentano autorizzati a scegliere degli elementi della loro tradizione, della
loro cultura, del loro mondo.
Non si tratta tanto di ciò che loro vogliono utilizzare ma della possibilità stessa di poterlo fare.
M IGRAZIONE E CURA PRIMARIA , ALCUNI ESEMPI DI INCOMPRENSIONI CULTURALI
Per quanto riguarda la cura primaria, in queste circostanze è opportuno che la rappresentazione delle cose
e del mondo che viene proposta sia fatta gradualmente e a piccole dosi affinché non sia troppo conflittuale
con quella che loro portano.
In Italia come in Francia ogni mamma, nel momento in cui nasce il primo figlio, si inscrive in un periodo
di trasmissione: lei come figlia aveva ricevuto un'eredità culturale legata alla propria madre ed al gruppo
di appartenenza, e come madre a sua volta deve trasmetterla al figlio in un ambiente culturale più
complesso.
69
La madre nata in un altro contesto, paese, mondo, passa attraverso la rappresentazione di un mondo di
cui talvolta non conosce la lingua, i codici, e in cui non sempre è del tutto riconosciuta poiché la
migrazione comporta anche questo.
Filiazione
Essere il figlio dei propri
genitori
Inscrizione ad una
discendenza
Atto dei genitori e di
discendenza
Elementi consci ed
inconsci.
Affiliazione
Non scelgono un
gruppo: devono
mescolare, fare le
proprie affiliazioni.
Definire i propri desideri
e aspirazioni di
somiglianza
Aspetti dell’appartenza,
dell’identità e della
creatività.
Per evitare le vulnerabilità abbiamo
bisogno di creare legami tra le
diverse affiliazioni dei bambini.
Dunque il fulcro della questione è costituito dalla rappresentazione del mondo che la madre propone al
figlio in quanto lei stessa a volte non si sente parte di questo nuovo mondo.
Dunque è importante per noi prendere atto della cosa perché questa prospettiva rende più vulnerabili la
madre ed il figlio: se noi non capiamo questo, mal interpretiamo la vulnerabilità come elemento di
dubbio. Infatti nel caso di prima il padre era stato ritenuto un cattivo padre perché secondo i medici non
sapeva scegliere il bene del proprio figlio.
Questa dinamica di mal interpretazione accresce la condizione di vulnerabilità del migrante che abbiamo
di fronte.
Tenuto conto di questi aspetti l'accoglienza può sensibilmente migliorare.
Esiste un termine in francese come in italiano per indicare delle figure che supportano la madre, la
commare. Nella società attuale, più individualista, il termine acquisisce un significato più dispregiativo
nel senso di qualcuno che si impiccia degli affari degli altri.
C'è molta necessità di queste figure per la madre, soprattutto nella migrazione, noi come équipe
acquisiamo il ruolo di commari. È la nostra funzione primaria.
La rappresentazione del mondo è resa molto fragile in una situazione transculturale; dunque è molto
importante per il bambino passare dal mondo della casa a quello esterno. Questa funzione è molto
importante.
Vorrei raccontarvi la storia di Mariama, è una giovane donna che è venuta in Francia per un
ricongiungimento familiare, suo marito era già in Francia da tanto tempo. Ha perduto la sua prima moglie
che era in Francia, poi si è risposato con Mariama, molto più giovane di lui. È un matrimonio combinato,
che lei comunque voleva a condizione di poter andare in Francia.
Arriva in Francia, sapendo un po' di questo paese ma non troppo, è riuscita a stabilire dei legami anche
qualitativamente significativi con i figli di primo letto del marito, e quindi l'arrivo in Francia di Mariama
è stato positivo.
Non ha pressioni per avere dei figli perché lei desidera avere una formazione per essere sarta, infatti
sogna di diventare stilista e quindi prima di avere dei figli vorrebbe imparare il mestiere.
Rimane incinta dopo poco nonostante non fosse nei suoi programmi, non è contenta ma non vuole
abortire perché i musulmani non praticano l'aborto. Si trova quindi a vivere una situazione contraddittoria,
in cui vive forte la difficoltà di questa ambivalenza. Alla fine accetta l'arrivo del bambino, ma la
gravidanza non si rivela facile. I problemi della gravidanza la portano ad incontrare uno psicologo a cui
parla della difficoltà di accettare la gravidanza stessa, frequenta un gruppo per superare questi problemi.
70
Il fatto stesso di poter nominare questa ambivalenza e di poter essere lei stessa a dirla, e non che le
venisse detto dallo psicologo, la aiuta molto e la porta a sentire che la sua contraddittorietà non è qualcosa
che necessariamente fa male al bambino.
Nella sua cultura se accade qualcosa di grave durante la gravidanza dev'essere riflesso nel nome del
bambino, se questo non viene fatto porterà sofferenza al figlio. È una logica molto lineare, ma molto
diversa da quella che abbiamo noi per la scelta del nome del nascituro.
Bisogna quindi mettere nel nome del bambino la storia della gravidanza, questo fa parte dei codici della
cultura.
Se per esempio una gravidanza termina con un aborto spontaneo non bisogna dare al bambino che verrà
concepito successivamente lo stesso nome che si era pensato per il primo.
Al contrario nel mio paese d'origine si usa scegliere proprio quel nome perché è un modo di garantire al
bambino salute.
Bisogna dargli questo nome perché ha una valenza pubblica, questa consuetudine fa parte dei codici
culturali che in qualche modo garantiscono elementi di protezione condivisi.
Questi sono due esempi completamente diversi da parte di due culture di fronte allo stesso fenomeno.
Lavoro Clinico
Un incontro clinico in un contesto transculturale
Un incrocio di riproduzioni
Prendere in considerazione le
specificità psicologiche e
culturali in ogni bambino,
situazione, famiglia…
Perchè? Come?
Dunque per tornare alla storia di Mariama lei riconosce questa situazione di difficile ambivalenza in cui
vive ma nel colloquio ammette che c'è anche un altro elemento.
Mariama ha sognato la nonna materna a cui ha fatto una presentazione della situazione: la nonna l'ha
aiutata a capire che è importante che lei faccia dei rituali per gli spiriti della famiglia.
A quel punto decide di contattare la madre, la quale si reca al villaggio della nonna materna e fa lì un
rituale per garantire protezione al bambino. Questo per Mariama costituisce una tappa fondamentale nella
gravidanza.
Un altro momento difficile e di dubbio è quello della prima ecografia in cui Mariama prende atto della
concretezza della gravidanza e capisce che per essere madre avrebbe bisogno di sua madre per poter
proteggere questo bambino.
Dal momento che la madre le consiglia che è bene non sapere certe cose lei decide di non guardare
l'ecografia. Vuole sapere che va tutto bene ma non vuole guardare l'ecografia .
Lei non ha bisogno di vedere l'immagine del figlio dall'ecografia ma ha piuttosto bisogno di seguire le
modalità di protezione del bambino che le tramanda la sua tradizione, e non ritiene necessario dare
spiegazioni agli specialisti.
La madre di Mariama le dice che in effetti gravidanze simili tendono ad esporre di più i bambini ad
aspetti della vita più problematici e ad avere quindi un comportamento cattivo e negativo.
A maggior ragione la madre deve proteggerlo più di un altro bambino ed inoltre Mariama ritiene
importante prendere elementi da entrambe le culture per poter proteggerlo.
In virtù di queste scelte lei in qualche modo determina la persona che sarà il suo bambino perché ha
vissuto una gravidanza di un certo tipo in quel momento ed in quella situazione; infatti non esiste una
71
formula per essere genitori perfetti ma si può essere ottimi genitori in quella circostanza e in quel
momento.
Nella circostanza dell'ecografia, in cui Mariama si era innervosita ed agitata, io ho fatto da tramite con l'
autorità medica per spiegare che è giusto lasciare che ci siano degli elementi della tradizione di ciascuno
nel modo di vivere la gravidanza.
È legittimo che la donna a cui è fatta l'ecografia abbia una propria idea che non deve per forza essere
uguale a quella degli operatori.
Infatti le ragioni che stanno dietro queste scelte non possiamo sapere quanto siano culturali o
psicologiche, ad ogni modo vanno condivise.
In questo caso la persona che aveva fatto l'ecografia aveva interpretato in maniera completamente
sbagliata l'atteggiamento di Mariama.
La gravidanza é andata avanti senza problemi, lei ha partorito, nel momento del parto tutto si è risolto
perché ha visto che si trattava di un bambino bellissimo.
Mariama ha capito quindi che le protezioni di entrambe le culture sono andate a buon fine, il bambino è
sano. Anche per il momento del parto la madre le aveva mandato degli oggetti di protezione, aveva degli
oggetti al collo e delle cose da stringere, degli amuleti.
Durante il travaglio le hanno tagliato l'amuleto che aveva intorno al ventre. Lei ha cercato di negoziare
per tenerlo comunque vicino, per ragioni igieniche però le hanno detto che non era possibile.
Questo è un ulteriore esempio di incomprensione culturale poiché non è vero che in sala parto non sia
permesso avere oggetti estranei.
Così in alcune culture il cordone ombelicale ha un valore tradizionale e la placenta è considerata come un
"doppio" del bambino.
Per esempio nella cultura marocchina è tradizione bere del latte caldo con qualcosa di molto zuccherato,
come il miele, aggiungendovi un pezzo di placenta o di cordone per compiere il rito grazie al quale si
diventa madri. Per questa ragione è lecito permettere alla partoriente di poterlo fare e c'è pieno di esempi
come questo.
L'ultima cosa che vi volevo raccontare a proposito di Mariama, è che io l'ho vista dopo la nascita di suo
figlio. Il bambino è nato con un labbro leporino, e dal momento che questo l'ha preoccupata e le ha fatto
pensare di non essere stata in grado di proteggere il proprio figlio, lei ha richiesto una consultazione.
A questa consultazione era presente uno psicologo che ha contribuito a rasserenarla non solo riguardo alla
piccola anomalia fisica del bambino ma anche riguardo alla sua presentazione/accoglienza al mondo
francese, un mondo per lei importante perché l'ha scelto, decidendo di sposarsi con qualcuno che fosse già
in Francia. Nonostante questa scelta, ogni volta che lei viveva una situazione di fragilità o di dubbio
riguardo al fatto che il mondo e la cultura francese potessero aiutarla a superarla, in realtà ha trovato
quella forza nella sua cultura d'origine.
Il nuovo mondo francese non riconosceva queste sue competenze e la consultazione le ha permesso di
sentirsi autorizzata a utilizzare tutte queste sue competenze di madre. Lei racconta quello che la farebbe
sentire una madre secondo la sua tradizione affinché noi la possiamo legittimare a farlo nella nostra
tradizione e nella nostra cultura e questo le ha dato modo di essere rassicurata. Quindi lei ha potuto
presentare questo mondo al bambino come un mondo desiderabile in cui lui avrebbe potuto crescere,
vivere, imparare delle cose.
72
Principi base della psichiatria
transculturale
1.
Universalità del funzionamento psicologico
E’ lo stesso per ognuno
Da questo deriva la necessità di dare lo stesso
status (etico e scentifico) a tutti gli esseri umani, ai
loro prodotti psichici e culturali, ai loro modi di
pensare e vivere, ai loro modi di fare con i loro
bambini….anche se sono differenti e qualche volta
sconvolgenti.
Questa dichiarazione può sembrare ovvia ma ciò
che è implicito in molti cosidetti studi scentifici
condotti fino ad oggi ci ricorda che questo principio
non sempre è rispettato.
Codici culturali
2. Tutte le donne, uomini e bambini sono sesseri
culturali (anche noi). Le variazioni culturali
esistono nelle pratiche educative dei bambini,
nelle espressioni e nei significati dati alle
malattie così come nei comportamenti di
coloro che si rivolgono ai servizi sanitari.
La cultura così come il linguaggio è ciò fonda
la nostra umanità e universalità ma sono
differenti.
Raggiungere
l’universalità
non
immediatamente conoscibile, anche se troppo
spesso viene dedotta senza considerare lo
specifico e il singolare
F ATTORI PROTETTIVI PER I BAMBINI
Continuiamo parlando dei fattori protettivi per i bambini e guardando un video di una consultazione
madre-figlio e poi ne discuteremo. Questo video ci aiuta a vedere il passaggio tra il mondo interno della
famiglia e quello della cultura esterna.
Il bambino nasce in un ambiente familiare che impara a conoscere e riconoscere. Se il modello familiare è
diverso dal nostro non significa che sia migliore o peggiore. Quindi all'interno della famiglia c'è una
lingua, una cultura, un gergo.
Per esempio riguardo alle emozioni c'è una grande differenza nel poterle esprimere con una o più parole.
Ogni lingua a seconda delle cose che deve nominare ha più o meno parole per esprimerle, per es. gli
esquimesi hanno moltissime parole per descrivere il bianco della neve.
Ogni cultura ha delle parole che esprimono peculiarità di quella cultura. In spagnolo per esempio ci sono
due verbi per dire essere, uno che indica l'essere transitorio ed uno che indica l'essere permanente. Questo
si traduce in una doppia nozione dell'essere nella permanenza o meno.
Questo è solo un esempio, i linguisti di solito ne fanno un altro, che distingue tra le lingue in cui si usa
sempre il soggetto, l'io, e quelle in cui non si usa.
Questa differenza implica un rapporto con il mondo completamente differente ed è per questo che la
traduzione non deve essere solo linguistica ma anche di concetto.
Su più livelli queste differenze comportano anche una serie di approcci diversi, per esempio esistono
culture dove in famiglia non si guardano gli adulti negli occhi, ma a scuola i bambini imparano a farlo.
Quindi in casa rispettano una regola che hanno appreso in famiglia, fuori imparano a rispettarne un'altra.
Pertanto la realtà in cui vivono i bambini è una doppia realtà in cui c'è questo passaggio tra dentro e fuori
dove le cose appartengono a due mondi diversi e funzionano in modi diversi, come la scuola, la famiglia,
gli amici, le istituzioni eccetera.
Per esemplificare questo ecco un disegno di una bambina
molto intelligente, che parla sia il dialetto arabo del
Marocco che il francese, ma che quando arriva a scuola non
parla. Questa bambina aveva paura dal passaggio da una
lingua all'altra, infatti parlando francese a scuola aveva la
sensazione di perdere la relazione con sua madre. Era molta
vicina a sua madre, la quale aveva vissuto una depressione.
Alla scuola materna lei parlava, ma al momento di entrare
alla scuola elementare aveva paura che usando una lingua
che sua madre non conosceva lei avrebbe perso il rapporto
che avevano. Nel suo disegno disse di aver dimenticato di
rappresentare alcune cose, aveva infatti dimenticato di dire
che rappresentava la Francia ed allo stesso tempo aveva
73
scritto l'indirizzo del Marocco. È stato proprio nella consultazione che sono emersi questi elementi e che
lei ha potuto iniziare a mettere insieme, a mescolare le due realtà. Lei aveva il pensiero che sua mamma
volgesse lo sguardo sempre verso il Marocco, quindi aveva scritto l'indirizzo marocchino per esplicitare
lo sguardo materno. Io credo che quest'idea che aveva fosse per consolare la madre, e alla radice di questa
situazione conflittuale ci fosse un problema linguistico.
I L DISPOSITIVO DI CONSULTAZIONE GRUPPALE
Tenendo conto di tutti questi elementi possiamo introdurre quindi il tema dell'alterità intesa come un
dispositivo individuale d'accoglienza: io sono qui in questo momento ed in questo luogo, ci possono
comunque essere altre lingue, altre culture. Non bisogna partire dall'idea che l'alterità sia una differenza in
negativo, ma considerarla come elemento di inclusione. La diversità deve essere inclusa e permessa
all'interno del dispositivo.
Per questo motivo nelle consultazioni c'è un traduttore ed un mediatore se necessario, e questo permette
di allargare il focus e rappresentare l'alterità e lavorare in una dinamica di gruppo, quindi non lavorare
solo individualmente.
Team multiculturale
Lavorare in gruppo
 Facilita il lavoro su e con le rappresentazioni
culturali
 Fornisce uno specifico posto ai bambini e agli
adolescenti
 Usa la lingua e i linguaggi dei genitori
 Unisce un team m ulticulturale di professionisti
 Usa l’approccio com plem entare di Devereux
 I pazieni possono venire con la famiglia o con
altre persone loro vicine
 Professionisti di riferimento sono invitati a
partecipare.
• I pazienti vedono un gruppo multidisciplinare di
psichiatri, psicologi, operatori sociali e infermieri/e.
Questo gruppo svolge tre funzioni
 E’ composto da diverse rappresentazioni di alterità.
Presa in carico
 Materializza i passaggi da un universo all’altro.
 Alterità: queste parcelle di alterità impersonificate dai
membri del gruppo permettono alla famiglia di
sperimentarsi
con
altre
forme
di
alterità
rappresentabile e creativa.
Il gruppo per le famiglie, per esempio nei paesi del Maghreb dell'ovest, è considerato un elemento di
protezione. Bisogna ideare quindi dei dispositivi in cui il bambino è al centro ed intorno ci sono il
terapeuta principale, la famiglia ed il mediatore, il co-terapeuta . Il grande gruppo permette di lavorare
sull'alleanza, sulla relazione, sulle competenze e di includere nel gruppo, al servizio della comprensione,
le diverse ipotesi.
Il setting del gruppo
Assi strutturanti
(Heidenreich, 2007)
Famiglia e paziente
Interprete
Terapeuta principale
Osservatore o video
Tavolo dei giocattoli
 Alleanza terapeutica
 Mediazione
 Elaborazione e «gioco con le rappresentazioni
culturali »
 Raggiungere le rappresentazioni interne e
agire con le parole e le metafore dei genitori.
 Costruire delle narrative personali (genitori e
bambini)
Co-terapeuta e studenti
74
Contro-transfert (CT)
Sostenere programmi e politiche
transculturali
 Noi facciamo molta attenzione ai
movimenti
individuali,
culturali
e
istituzionali (come reagiamo? Come
vediamo l’alterità e la diversità?)
 La competenza culturale può essere
vista come la capacità di costruire un
dialogo su diversi livelli nel momento in
cui si interagisce con i pazienti.
sul
lavoro
 Ci
sono
molti
fraintendimenti
transculturale: non è esotico, non è iper sofisticato ma
semplicemente necessario in un mondo multiculturale in
continuo cambiamento
 Un chiaro messaggio: per raggiungere l’universalità
dobbiamo considerare la specificità e la diversità
culturale.
 Prendere in considerazione questa singolarità per
comprendere meglio a trattare i bambini e le loro
famiglie, qualsiasi siano i colori delle loro culture…
una necessità clinica ed etica!
Dunque pluralità ed alterità regolano il dispositivo; questo non è necessario per tutte le famiglie, ma ad
ogni modo noi lo proponiamo con anche un traduttore oltre alle altre figure professionali. E’ un
dispositivo di doppio rinforzo, che presenta una nuova figura per le competenze del gruppo.
Vi propongo un filmato sulla consultazione in cui un bambino ha dei problemi di comunicazione: non
parla ed ha più o meno due anni.
Sono tutti invitati alla seduta, la madre ed i due figli. Il bambino è al centro, ci sono la madre ed il padre,
all’inizio della seduta il bambino non parla, è come bloccato, poi dice una parola. Il padre si è arrabbiato
con una persona del gruppo che lui credeva stesse maltrattando il figlio. C’è stato bisogno di rassicurare il
bambino che piangeva.
Domande e richieste di approfondimento dal pubblico

Questo assetto e la molteplicità delle figure professionali presenti alla seduta è difficile da
organizzare in uno dei nostri servizi pubblici….
Dott.ssa Moro:‘Ho capito ciò che intendi.. Il primo gruppo che ho fatto agli inizi, l’ho fatto con il
traduttore ed il co-terapeuta. Facevano parte dell’Università, ad una lezione li ho invitati a partecipare alle
sedute.
Il gruppo di lavoro nel tempo è cresciuto anche perché invitavo a parteciparvi delle persone al fine di
formarle. Alcuni di loro hanno lavorato con me per uno, due o più anni.
75
Ma il gruppo cos’è? Il gruppo non è composto solo da due elementi, perché in questo caso si tratta di
cooperazione. Per avere un gruppo servono 3 persone e non è la stessa tecnica.
Il gruppo deve essere composto da almeno tre elementi perché possa funzionare, e rappresenta una
molteplicità di ipotesi e punti di vista.
Io mi sono basata sulle esperienze canadesi per il mio lavoro. Si tratta di gruppi grandi ma si potrebbero
fare anche gruppi più piccoli, anche se io li preferisco più grandi.
Alla Clinica Universitaria si è formato un bel gruppo di lavoro, e funziona bene. Sicuramente è meglio
questo che non diversi gruppi più piccoli, sul tema c’è molta bibliografia in italiano, francese e inglese.
La molteplicità rappresenta meglio la creatività, la ricchezza del dispositivo gruppo.
Io lavoro meglio con il gruppo piuttosto che da sola, individualmente; mi sono detta che anch’io
appartengo ad un gruppo e nel mio laboratorio lavoro bene nella dimensione del gruppo. Anche i pazienti
lavorano bene in gruppo. Anche i terapeuti lavorano bene nel gruppo, parlano tra di loro o direttamente
con il paziente.
Il gruppo non è una singola persona, è un’entità, è qualcosa di più della storia dei singoli individui, è un
dispositivo gruppale, inoltre noi aggiungiamo l’elemento culturale che rafforza la percezione del gruppo.’

Mi chiedevo se questo tipo di interventi è utilizzato più nei gruppi familiari e se questo caso
clinico che abbiamo visto è stato una scelta o no; se il dispositivo può essere utilizzato con un
individuo senza la propria famiglia.
Dott.ssa Moro: ‘Allora, originariamente questi gruppi così grandi erano nati per un lavoro con le
famiglie, quindi era un lavoro proprio per le famiglie. Dopodiché un po’ alla volta mi hanno segnalato
casi di adulti isolati ai quali era stata indicata una terapia individuale, io ho detto: ma, di solito lavoro con
le famiglie. Come dire.. mi interesso soprattutto di bambini, ed all’inizio mi sono un po’ sottratta, però
qualcuno l’ho iniziato. Ho portato quindi anche degli individui isolati nel gruppo di lavoro ed abbiamo
provato, e devo dire che funziona molto bene comunque in certi casi.
Funziona anche con la fine dell’adolescenza. Funziona davvero quando c’è una codifica culturale
importante. Quando ci sono codifiche culturali complesse allora lì anche individualmente si riesce a
capire meglio, perché la complessità di sguardo aiuta.
Abbiamo quindi inventato dei gruppi che fossero adatti a situazioni particolari, ad esempio i minorenni
isolati.
Io ho avviato dei gruppi apposta per questo target ma non hanno una famiglia dietro, ma si presentano
individualmente. Questi minorenni quando si presentano al centro di salute mentale o vengono recuperati
per strada non hanno riferimenti familiari.
Parliamo della tecnica, con questi costituiamo un gruppo un po’ più piccolo di tre o quattro persone, e poi
dato che non abbiamo i genitori a cui raccontare una serie di cose, immaginiamo molto di più, facciamo
immaginariamente parlare i genitori. Introduciamo qualcosa di più, introduciamo noi cose; abbiamo
quindi adattato questo dispositivo a questi minorenni. Oppure abbiamo fatto gruppi apposta per madri con
bambini piccoli o per le adozioni internazionali, gruppi piccolini molto misti.
La problematica è tutta diversa ma c’è qualcosa di comune per cui abbiamo creato questi gruppi misti. È
la geometria variabile questo dispositivo. Ci sono persone di altre città o di altre regioni che hanno
inventato delle ipotesi sulle basi del nostro dispositivo, non per copiare ma per ispirarsi. Perché è un
motivo di riferimento nella sperimentazione e dopodiché naturalmente ciascuno lo adegua al proprio
contesto.

Grazie di tutte queste informazioni e storie di vita. Volevo chiedere, nella piccola esperienza tra
Università e territorio abbiamo dei nostri dispositivi, e la difficoltà è di come rendere le famiglie e
coloro che seguono le famiglie, partecipi di un percorso. All'interno del dispositivo che abbiamo
sono invitati anche loro e possono invitare chi desiderano oltre alla famiglia, pero c'è sempre uno
scarto tra chi matura un percorso all'interno di un dispositivo con un certo progetto di lavoro e chi
poi accompagna le famiglie. Allora abbiamo anche pensato di accompagnare gli operatori in certi
76
momenti accompagnarli sul percorso proprio di situazioni particolari. Per esempio il gruppo di
lavoro, poi piccolo gruppo. Però rimane questo scarto tra gli utenti e l'accompagnamento degli
operatori. Volevo capire e confrontarmi con la vostra esperienza per capire come lo avete risolto.
Dott.ssa Moro: ‘Il nostro lavoro è in un contesto clinico terapeutico e c'è un accompagnamento sociale, e
sicuramente anche nel lavoro di mediazione con le scuole, diciamo che io parlo soprattutto dal punto di
vista clinico.
La sensazione è che non si faccia abbastanza lavoro clinico per questi pazienti, cioè si fa molto lavoro
sociale indubbiamente però non basta mai sul piano clinico. Ci si danno degli obiettivi più di natura
sociale che clinica, mentre questa madre depressa che avete visto non aveva più bisogno solo
dell'accompagnamento sociale, ma anche clinico. Perché non vi si rinuncia al lavoro clinico, anche se lei
ha ragione, la componente sociale è comunque molto importante, io lavoro molto per esempio per le
scuole o per i Tribunali rispetto a tematiche di giustizia o devianza di tipo penale o meno, ma comunque
mi pare sempre importante sottolineare che non bisogna rinunciare all'aspetto clinico.’

Una precisazione sul lavoro che lei dice di fare con il gruppo sulle adozioni internazionali,
siccome io lavoro al centro adozioni volevo capire meglio che dispositivo è, e che pazienti ha.
Cioè sono i bambini che vanno in adozione, o le famiglie, o chi?
Dott.ssa Moro: ‘Allora, in effetti il dispositivo nelle adozioni internazionali è un po' diverso e non ne ho
parlato nello specifico.
Io ho cominciato a lavorare con le famiglie adottive su richiesta dell'associazione dei genitori. Queste
famiglie mi hanno interpellata data la mia esperienza con migranti perché mi occupassi anche di loro.
Inizialmente ho detto che non me ne sarei occupata perché non conoscevo le problematiche di questi
bambini e perché pensavo se ne sarebbero occupati i servizi. Queste famiglie però mi hanno detto che
c'erano alcuni bambini che avevano delle problematiche legate alla loro alterità, possono essere oggetto di
discriminazioni o andare alla ricerca dei loro genitori biologici. Nella fase adolescenziale alcuni di questi
bambini infatti vogliono ritrovare le loro origini. È come se la dimensione transculturale di questi bambini
non venisse presa abbastanza in considerazione.
Ho deciso di occuparmene a livello individuale piuttosto che gruppale, senza alcun dispositivo specifico
ed in effetti ho rilevato che ci sono delle problematiche legate all'identità individuale culturale ed anche
legate ai rapporti con i genitori adottivi, come si rapportano con quello che c'è qui e con quello che hanno
lasciato.
Quando ho lavorato a Bobigny nella periferia di Parigi, venivano a consultarmi per la mia fama ma io non
ero troppo incline a lavorare con loro perché si tratta di solito di famiglie benestanti che avevano paura di
venire nel mio luogo di lavoro proprio perché in periferia; quando mi sono spostata hanno iniziato a
venire molto più numerose ed a quel punto ho organizzato delle visite con tre terapeuti, alcuni formati alla
psicoanalisi ed al transculturale ed altri invece alla terapia sistemica. Quindi abbiamo tre punti di
riferimento: psicoanalitico, transculturale e sistemico e avendo questa complessità di competenze
abbiamo più o meno coperto tutto. Ed accogliamo le famiglie con i loro figli, se la famiglia ha dei figli
biologici chiediamo a tutti di partecipare in un'ottica transculturale in cui tutti possono partecipare ma
senza obbligo per nessuno. Lavoriamo quando c'è una differenza con il figlio adottivo, cerchiamo di
capire che tipo di legame ci può essere con l'origine in questa dimensione ed anche in altre tematiche.
Facciamo un lavoro solo con il bambino e con la famiglia, se il bambino poi ha bisogno di un lavoro
individuale seguiamo anche una terapia individuale, però la nostra impostazione insiste sul legame tra il
bambino e la famiglia adottiva. Integrando l'idea che questo abbia magari anche un'altra lingua e perciò
ricorriamo ad interpreti quando per es abbiamo voglia di dire loro delle cose nella loro lingua madre. I
primi consulti che abbiamo organizzato riguardavano soltanto adolescenti ed è in quella età che hanno le
maggiori problematiche ma adesso lavoriamo anche con i bambini, su tutta la dinamica.
Abbiamo scritto delle cose quindi trovate riferimenti in letteratura.
77
Utilizziamo delle immagini per lavorare con i bambini: è una tecnica che chiamiamo racconto di lingue. I
bambini con difficoltà di linguaggio dovevano prima di tutto spiegarsi nella loro lingua madre e poi nella
seconda lingua, è molto importante già questo. Abbiamo inventato questa tecnica e poi l'abbiamo validata
nella sperimentazioni. I bambini che hanno problemi espressivi, possono farlo in lingua francese ma
anche nella sua lingua madre, a volte le difficoltà stanno nel passaggio dall'una all'altra lingua. Lavoriamo
molto con i problemi linguistici, infatti esiste una tecnica per i bambini che fanno fatica a passare da una
lingua all'altra
Chiediamo ai genitori di portare un racconto nella loro lingua ed in presenza loro lo traduciamo in
francese, quindi ci sono due versioni quella dei genitori e quella tradotta in francese e a questo punto li
utilizziamo o all'interno di un dispositivo di prevenzione per esempio nel gruppo classe allargato o
all'interno di un dispositivo terapeutico nella terapia individuale.
Per esempio gli si fanno ascoltare entrambe le versioni del racconto e si tratta di una forma di terapia
individuale. Un bambino apparentemente inibito a scuola, e con difficoltà di interazione sia con gli adulti
che con i pari, aveva paure e fobie di vario tipo e parlava molto male in francese o addirittura non
riusciva a parlarlo. Per nascondere questa difficoltà faceva un po' il pagliaccio a livello comportamentale,
e regolarmente si faceva mandare fuori dalla classe. Gli abbiamo fatto un test ed una valutazione ed
abbiamo visto che era in difficoltà linguistica e gli abbiamo proposto questa tecnica e lui ha aderito subito
volentieri.
Un bambino ci ha proposto un disegno che s'intitola l'elefante e la scimmietta: ci sono tre personaggi in
totale in due versioni di colore, uno in bianco e nero e uno colorato. Sono in un luogo molto affollato, la
morale rappresenta la confusione del bambino tra due realtà che non sono uguali ma possono essere
amiche.
Un mondo inventato da un bambino che aveva difficoltà linguistiche e relazionali è veramente profondo e
mette in evidenza proprio la sua problematica. Un senso di alterità che è fonte di sofferenza e di
esclusione e di isolamento, dunque il bambino aveva trovato una personale ma nuova modalità di
conciliare queste due realtà.
Ogni tanto interloquiamo anche con i genitori per dire loro come va la terapia, per esempio quando
abbiamo fatto vedere questo disegno ai genitori ed abbiamo fatto il commento la madre ha pianto a calde
lacrime vedendo come il figlio che veniva rappresentato come inadeguato a scuola e pieno di problemi,
poteva con una semplice tecnica di questo tipo riuscire ad esprimersi.
Una differenza creativa(Pinon-Rousseau, 2005)
Bouba, l’elefante e la scimmietta Golo
« …Non sono uguali, ma possono diventare amici »
(Moussa, 6 anni)
Grazie a tutti per l’attenzione. Se vorrete utilizzare anche voi la tecnica che vi ho proposto, volentieri
tornerò a Verona per supervisionare insieme le vostre sedute.
78
79
LA MEDIAZIONE LINGUISTICO CULTURALE NEI SERVIZI SANITARI
MARA FASOLI 29
Da molti anni lavoro con le donne migranti nello “Spazio donna straniera” dei Consultori Familiari e
negli ultimi tre anni con le mediatrici culturali come referente del servizio di Mediazione Linguistico
Culturale dell’Ulss 20.
La mediazione linguistico culturale dal 2010 è a disposizione di tutti gli operatori sanitari e socio –
sanitari dell’Ulss 20. Oggi sono qui per illustrare come, attraverso una semplice richiesta, si può attivare
il Servizio di Mediazione come strumento per comprendere meglio le situazioni che giornalmente gli
operatori si trovano ad affrontare. Per fare questo, utilizzerò le slides che fanno parte integrante della mia
esposizione.
LA MEDIAZIONE LINGUISTICO
CULTURALE
UOC MATERNO INFANTILE ETÀ EVOLUTIVA E
FAMIGLIA
UFFICIO di MEDIAZIONE LINGUISTICO
INTERCULTURALE
• E’ uno strumento in una strategia di lavoro che ha l’obiettivo di
incrementare l’autonomia degli stranieri superando ostacoli
comunicativi.
• Ha lo scopo di migliorare l’accessibilità dei servizi socio-sanitari per
la popolazione immigrata, favorendo un accesso corretto e
responsabile ai servizi del territorio.
• Va a rispondere contemporaneamente al bisogno
– degli operatori di rendere più efficace ed efficiente la comunicazione con
l’utenza straniera, sia dal punto di vista linguistico che culturale;
– dell’utente straniero di comprendere (diagnosi, terapie) e di veder
riconosciuti i propri diritti di conoscenza di accesso e utilizzo dei servizi
socio sanitari.
Dott.ssa Mara Fasoli – Assistente Sociale
Ulss20, Consultori Familiari, Ufficio di Mediazione Linguistico Culturale, Dott.ssa Mara Fasoli
I SIGNIFICATI DELLA MEDIAZIONE
Il mediatore linguistico culturale non funge solo
da interprete linguistico ma anche da esperto della
cultura di appartenenza dello straniero immigrato,
dove per cultura si intende l'insieme delle norme
sociali e religiose, delle abitudini, delle
consuetudini, dei modelli di vita educativi e
comportamentali.
Ulss20, Consultori Familiari, Ufficio di Mediazione Linguistico Culturale, Dott.ssa Mara Fasoli
Il mediatore facilita la comunicazione
e la comprensione tra operatore e
utente, sia a livello linguistico che
culturale, in modo da favorire gli
scambi tra italiani e stranieri attraverso
un positivo e continuo confronto.
Ulss20, Consultori Familiari, Ufficio di Mediazione Linguistico Culturale, Dott.ssa Mara Fasoli
29
Mara Fasoli, assistente sociale, lavora nei Consultori Familiari dal 1992. Dal 2000 è referente dell’ ambulatorio Donna
Straniera e dal 2010 coordina l’ Ufficio di mediazione linguistico culturale dell’ ULSS 20.
80
Deliberazione del Direttore Generale
N. 615 del 29/09/2010
OBIETTIVI dell’UFFICIO di MEDIAZIONE
LINGUISTICO CULTURALE
1) Coordinare, programmare e verificare la mediazione
linguistico interculturale nelle diverse realtà dell’ULSS
OGGETTO: Istituzione Ufficio di
mediazione linguistico interculturale
nell’azione socio-sanitaria
Ulss20, Consultori Familiari, Ufficio di Mediazione Linguistico Interculturale, Dott.ssa Mara Fasoli
3) Coordinare il Tavolo di lavoro costituito dai
rappresentanti dei Dipartimenti dell’Ulss
•
•
•
•
•
•
•
•
•
•
•
Ospedale San Bonifacio
Distretti Socio-sanitari (n. 1-2-3-4)
Servizio Qualità e Accreditamento
Dip. di Salute Mentale (I-II-III-IV Servizio di Psichiatria)
Dip. delle Dipendenze
Servizio di Neuropsichiatria Infantile e Psicologia dell’età
evolutiva
Dip. Riabilitativo
Area Handicap
Dip. di Prevenzione
Servizio Diabetologia Pediatrica
Consultori Familiari – Area Famiglia
Ulss20, Consultori Familiari, Ufficio di Mediazione Linguistico Interculturale, Dott.ssa Mara Fasoli
FUNZIONI del MEDIATORE
LINGUISTICO-CULTURALE
• Orientamento nel sistema dei servizi sociosanitari e accompagnamento
• Interpretariato linguistico
• Lettura culturale della situazione e del
contesto
• Collaborazione con gli operatori in qualità
di esperto culturale
Ulss20, Consultori Familiari, Ufficio di Mediazione Linguistico Interculturale, Dott.ssa Mara Fasoli
2) Attivare iniziative per:
– Migliorare l’accessibilità ai servizi
– Ridurre le barriere linguistiche e culturali
– Formulare piani clinici assistenziali nel rispetto dei valori e
delle credenze dei pazienti
– Assicurare buona assistenza a gruppi fragili quali immigrati
Ulss20, Consultori Familiari, Ufficio di Mediazione Linguistico Interculturale, Dott.ssa Mara Fasoli
Risultato atteso
Far si che l’assistenza al cittadino straniero
sia parte dell’attività quotidiana all’interno
di ogni servizio e che la stessa non sia
sempre vissuta dagli operatori come
“emergenza”, ma inserita nell’attività già
consolidata
Ulss20, Consultori Familiari, Ufficio di Mediazione Linguistico Interculturale, Dott.ssa Mara Fasoli
FUNZIONI DEL COORDINATORE
DELL’UFFICIO
• Coordinare il servizio di mediazione interculturale
• Coordinare l’inserimento della figura del mediatore, a fianco
delle diverse figure professionali, nei colloqui e nel lavoro
terapeutico con l’utenza straniera
• Attivare un percorso di confronto e formazione sull’uso della
mediazione culturale nei diversi contesti di consultazione,
nell’ambito preventivo e nella presa in carico terapeutica
• Pianificare e monitorare le attività
• Verificare l’efficacia e l’efficienza degli interventi di
mediazione
Ulss20, Consultori Familiari, Ufficio di Mediazione Linguistico Interculturale, Dott.ssa Mara Fasoli
81
L’Ufficio di Mediazione dell’ ULSS20 si avvale del servizio di mediazione linguistico culturale della
cooperativa Azalea.
La domanda di mediazione può riguardare diversi ambiti d’intervento:
- Interventi a chiamata: per favorire la comprensione reciproca tra operatori e immigrati
- Laboratori: per accrescere le conoscenze degli operatori sociali e sanitari circa le caratteristiche e le
specificità di tipo sociale e culturale dei cittadini immigrati
- Sportelli: per promuovere l’accessibilità ai servizi socio-sanitari e accompagnare gli operatori socio –
sanitari nella comunicazione e nella relazione con l’utenza straniera
- Traduzioni: le traduzioni della mediazione riguardano materiali informativi per l’accesso ai servizi e la
presentazione delle attività
- Consulenze: per creare le condizioni per il mediatore per realizzare gli interventi di mediazione; tende
ad orientare e sviluppare le potenzialità dei soggetti nei contesti.
Di seguito i moduli predisposti per usufruire del servizio all’interno della nostra ULSS.
82
LA MEDIAZIONE LINGUISTICO CULTURALE NEI SERVIZI SANITARI
SAFIETOU SAKHO 30
Vengo dal Senegal. Sono in Italia da 16 anni circa e lavoro come mediatrice culturale dal 2000 nei vari
ambiti della scuola, dei servizi sociali e della sanità. Con altre donne abbiamo fondato l’associazione
Terra dei popoli. Sono socia della Cooperativa Azalea e sono impegnata su tematiche sociali e culturali
nella mia comunità a Verona e provincia.
Lo sguardo della mediazione è dettato da due aspetti principali dentro le nostre esperienze e dall’
elaborazione che ciascuna di noi come mediatrice dovrebbe fare e/o cercare di fare.
Il primo aspetto è:
1. L’elaborazione dei nostri percorsi migratori e l’apprendimento del contesto dove siamo arrivati. Un
migrante non e’ un mediatore se non elabora la propria esperienza migratoria.
Il secondo aspetto è:
2. La capacità di elaborare, attraversare e riflettere sui vari aspetti che hanno a che fare con i nostri
mondi culturali (ad esempio temi legati al nostro corpo e alla nostra salute e alle pratiche e tradizioni
come le MGF ecc…).
In tutto questo la mediatrice fa un percorso di studio e di conoscenza e cerca di essere a contatto con
la propria realtà e allo stesso modo si confronta e interagisce con quella italiana.
Quindi il nostro compito principale è quello di osservare, vedere e capire cosa si pensa e come si fa
nei nostri mondi e fare la stessa cosa nella realtà Italiana.
Ciò detto siamo chiamati a stare in relazione sia con i nostri gruppi e comunità sia con le istituzioni
del territorio.
Per il mediatore linguistico culturale è importante avere sempre presente che:
a. non tutte le parole trovano un senso e una collocazione nella relazione tra i due mondi (ad
esempio il termine mutilazione dei genitali femminili..; che nella mia lingua si dice Kharafal –
Djongal che vuol dire circoncisione sia al maschile che al femminile.
b. che non tutto viene detto e percepito nello stesso modo e con la stessa intensità… perché una
cosa che può essere pesante e terribile in un mondo culturale può non esserlo nell’altro in quanto fa
parte della propria vita da generazione in generazione. In molte culture alcune pratiche fanno parte
dei riti di passaggi anche se a volte possono comportare risvolti sul benessere psicofisico delle
persone.
La mediatrice può avere una sua visione ed una esperienza personale su molti temi e su molte
situazioni legate alla cultura e al suo farsi e disfarsi, ma ciò non dovrà condizionare o influenzare la
sua capacità di discernere la situazione - problema - dilemma dell’utente, dei gruppi e della comunità,
così come dovrà fare i conti con la cultura di cui l’operatore è parte.
L’esperienza ci ha permesso di vedere che:
c. La difficoltà, da parte dei migranti, di conoscere e di accedere ai servizi socio sanitari – legate alla
poca conoscenza della lingua, ma anche agli approcci – linguaggi e modelli utilizzati dagli
operatori che molto spesso creano disagi.
Ad esempio negli incontri con le donne sulle MGF una donna ci riportava che durante la sua prima
visita ginecologica un operatore non solo non ha colto il suo disaggio, in quanto lei aveva subito la
pratica MGF, ma in più ha chiamato il gruppo di specializzandi per far vedere sul suo stato… da
30
Safietou Sakho, senegalese, laureata in Economia e Commercio presso l’ Università di Dakar, è in Italia da sedici anni
circa. Lavora come mediatrice linguistico culturale dal 2000 nei vari ambiti della scuola e della sanità. Insieme ad altre donne
migranti ha fondato l’ Associazione Terra dei Popoli ed è impegnata con tematiche sociali e culturali all’interno della sua
comunità
83
allora non ha più voluto tornare dal ginecologo in quanto la sua percezione non era più di cura ma di
curiosità rispetto al suo corpo.
Certamente è un esempio eclatante, ma dobbiamo essere consapevole che siamo molto spesso nella
difficoltà di trovare la misura giusta nella relazione paziente -operatore tra autoctoni - stranieri.
Inoltre :
d. Molti migranti vengono da contesti dove l’accesso ai servizi sanitari è meno frequente e non sempre
disponibile per tutti, ma soprattutto dove si fa ricorso ad altri modi di cura, con altri tempi, altri
approcci ed altre coordinate legate alla conoscenza del proprio corpo e salute. Tutto ciò condiziona e
disorienta la modalità di accedere ai servizi.
Dunque:
- Tutte queste situazioni richiedono un grosso lavoro di informazione e sensibilizzazione, per accedere
ai servizi e poter esercitare il diritto alla salute e alla cura . Il diritto alla salute pone in primo piano la
prevenzione.
Per lavorare sulla prevenzione abbiamo bisogno di costruire modalità e approcci capaci di cogliere
l’essenza di quel che e’ in gioco in quel momento… E cioè, quale consapevolezza ha quell’utente
delle prescrizioni dell’operatore su un determinato percorso (come ad esempio la natalità, la
gravidanza, l’IVG, il Pap - test ecc… ecc… ).
e. Dalla nostra esperienza di mediatori è emerso come sia importante continuare a promuovere e
costruire modalità sia formali che informali con le donne e i gruppi di comunità e realizzare
percorsi mirati sulla salute, creando situazioni e spazi istituzionali dove si possa accogliere,
ascoltare e mediare le differenze per una migliore conoscenza reciproca.
84
MGF: L’ASPETTO CHIRURGICO E RIABILITATIVO
OMAR ABDULCADIR 31
Prima di iniziare il mio discorso voglio dire una cosa molto importante. Anche se oggi finissero le
mutilazioni genitali femminili, avremmo ancora nel mondo milioni di donne che soffrono di tutte le
complicanze. Avremo, quindi, tanto da fare anche nei prossimi decenni! Magari non saremo noi a curare
queste complicanze ma saranno forse i nostri nipoti. Seconda cosa: dobbiamo prendere in considerazione
un presupposto. Noi non possiamo partire dalla nostra cultura: dobbiamo dimenticarla per imparare la
cultura dell’altro. E’ molto importante: se noi cerchiamo di giudicare col nostro metro di giudizio ci
troviamo sempre di fronte a delle difficoltà. Parlare di mutilazioni genitali femminili vuol dire parlare di
religione (anche se la religione non c’entra), di tradizione, di cultura e di identità. Ho sempre detto che la
persona è come un albero, quindi se noi identifichiamo le mutilazioni genitali femminili solo in quel
senso lì e cerchiamo di abbatterle, noi abbattiamo tutti i valori che si porta dietro quella persona. Quindi il
mio lavoro consiste giornalmente soprattutto nella promozione della salute, nel senso del termine inglese
‘care’ cioè prendersi cura della persona. Io infatti non sono quel tipo di medico che siede dietro ad una
scrivania e si trova la paziente di fronte. Quando ricevo queste pazienti io mi siedo davanti a loro perché
le cose importanti sono l’accoglienza, il dialogo, il capire la cultura dell’altro ma soprattutto la
mediazione culturale. Se non capisci la cultura dell’altro non riuscirai mai ad entrare o aprire quella porta
che ti permetterà di dare tutte le cure necessarie di cui questa persona ha bisogno. Molto importante è,
dunque, il rispetto della persona; il rispetto non solo della sua persona ma anche della sua cultura e delle
sue tradizioni. Quando lavoriamo con queste pazienti, non parliamo mai di mutilazioni genitali femminili
perché la donna che incontriamo in ospedale viene sempre per altri motivi. Non sa che il problema sono le
mutilazioni: quella donna infatti non si sente mai mutilata e chiede al medico “chi ti ha detto che io sono
mutilata?”. Quindi la parola mutilazione non viene da noi usata in ospedale. Non affrontiamo subito il
problema ma preferiamo parlare di salute. Vogliamo conoscere la persona. Molto importante è poi
conoscere la geografia: quante volte arrivano nelle nostre strutture donne che provengono dalla Tunisia e
dal Marocco che non sono mutilate? Dobbiamo sapere con chi abbiamo a che fare. Molte donne egiziane
hanno, ad esempio, subìto una qualche forma di mutilazione.
Alcune pazienti sono infibulate, altre portano le complicanze che la dottoressa Catania vi ha già
relazionato. Quello che offriamo loro è la deinfibulazione. La deinfibulazione è un intervento molto
semplice: cerchiamo sempre di creare, se possibile, un ostio vaginalee di ricostruire una parvenza di
piccole labbra. Queste donne, che sono sempre state chiuse, possono vivere come un disagio il riaprirle
completamente. Un disagio non solo personale ma che coinvolge anche il partner. E’ molto importante la
presenza del partner. Mai darlo per scontato. Ultimamente stanno venendo molte ragazze da sole: nel
momento in cui ho a che fare con una di loro chiedo sempre se è accompagnata, se ha un marito e, se ha
un marito, anche se il marito è lontano, se il marito sa dell’iniziativa che ha preso. Tutto questo per non
creare situazioni che possono anche compromettere il matrimonio.
La deinfibulazione, quindi, non è solo l’erogazione di una prestazione perché la donna deve sapere che
percorso l’aspetta quando sceglie questo tipo di intervento. Molte volte la donna ha dei dubbi e delle
resistenze, date dalla sua cultura. E’ quindi molto importante sapere i giudizi che riceverà dalla comunità.
Le prime deinfibulazioni che abbiamo fatto avvenivano di nascosto e la paziente non raccontava niente.
31
Omar Abdulcadir, medico – chirurgo, ginecologo, Impegnato attivamente da 30 anni nelle comunità somale italiane e
internazionali contro le mutilazioni dei genitali. Coordinatore Sanitario immigrati in Toscana- Direttore del Centro di
Riferimento Regionale per la Prevenzione e Cura delle complicanze legate alla mutilazione dei genitali femminili e svolge tale
attività in collaborazione con il Dipartimento di Psicologia della Salute dell’Università di Firenze e, ultimamente anche con il
Dipartimento di Ginecologia, Perinatologia e Riproduzione Umana. Ha rapporti di collaborazione con vari centri nazionali
ed internazionali che si occupano di migranti ed MGF. Anche lui è autore di numerosissime pubblicazione scientifiche sul
tema delle mgf.
85
Le donne si nascondevano e venivano da noi; al massimo, quando si sposava, lo sapeva il marito. E’ una
vergogna perché l’uomo dovrebbe essere in grado di rompere quella cicatrice, quella tradizione che ha
subìto. Quello che facciamo è dunque anche un’attività di educazione.
La deinfibulazione è un intervento semplice, dobbiamo preparare la paziente e dirle quali sono i risultati
che dovremmo ottenere. Ad esempio: riduzione delle infezioni urinarie e vaginali, miglioramento della
propria salute, ecc. Ricordiamo poi a lei ed al marito l’importanza delle cure che dovrà fare dopo
intervento. Elementi importanti sono: l’educazione, l’informazione, spiegare l’anatomia normale e
mostrare la differenza tra una verginità normale e quella artificiale che è stata creata. La norma prevede il
consenso informato ma quello che molto spesso accade, soprattutto negli ambulatori di sterilità di coppia,
è consegnare un malloppo di carte a donne che sono analfabete. Il medico spesso dice alla paziente ‘legga
e firmi’ ma il consenso informato dovrebbe essere chiaro, completo di traduzione e con informazioni
sufficienti per spiegare alla paziente l’intervento, in modo tale che possa veramente capire e così firmare.
Infine c’è il coinvolgimento del partner e, a volte, la valutazione psicologica.
C’è una cartella clinica che noi usiamo prima dell’intervento: viene descritta la deinfibulazione, poi il
consenso informato da far firmare alla paziente e l’anamnesi. I motivi per cui viene fatta la
deinfibulazione possono essere estetici o il rendere possibile le visite di controllo durante una gravidanza.
Di solito, quando arriviamo alla 24°settimana di gravidanza preferiamo aspettare il parto perché non
vogliamo sottoporre la paziente per due volte all’episiotomia, cioè alla deinfibulazione. Preferiamo
sempre farla alla fine. La deinfibulazione è ormai facilissima perché si tratta soltanto di tagliare e rendere
così possibile, a questa donna, un parto naturale. In caso contrario questa paziente avrebbe dovuto
partorire con un taglio cesareo,per motivi però non inerenti alla necessità di un parto cesareo.
Altri motivi per cui fare una deinfibulazione sono quelli ginecologici, come ad esempio: riuscire a fare
una visita ginecologica tranquillamente, un pap-test, un’isteroscopia o qualsiasi ecografia transvaginale o
raschiamenti. Ci possono essere poi problemi di infezioni e quindi di svuotamento di unematocorpo;
infine, problemi sessuali.
Le tecniche che noi usiamo sono due: il raggio laser (maggiormente utilizzato in passato, ora molto meno)
con anestesia locale e la tecnica tradizionale. La prima viene usata in situazioni di infezioni con reinfibulazioni molto serrate oppure in presenza di grosse cisti di ritenzione; la seconda usata anche con
cicatrici attive, dove cerchiamo di costruire una parvenza di piccole labbra a protezione dell’ingresso
vaginale. Le pazienti arrivano spesso in ospedale molto tardi perché alle prime visite ostetriche non si
presentano: in tal caso siamo costretti a fare la deinfibulazione durante il parto. Importante quindi il
colloquio con la paziente per conoscere le sue aspettative, spiegarle le conseguenze e decidere con lei fin
dove deve essere aperta (il consenso informato). Fondamentale, inoltre, considerare le possibili varianti
che possono accadere durante l’intervento. Noi cerchiamo sempre di prevenirle: quando troviamo, ad
esempio, delle cisti di ritenzione, facciamo anche un’ecografia per capire di che tipo di cisti si tratta.
Vi racconterò un caso che è stato visto poi dalla dott.ssa Catania di una ragazza che aveva una cisti da
ritenzione. L’abbiamo operata; dopo due mesi dall’intervento è tornata dicendo che l’avevamo rovinata
perché prima dell’intervento aveva una sessualità molto felice ora invece, dopo averle rimosso la cisti,
non ce l’aveva più. Già prima dell’intervento le avevo mostrato dove fosse la cisti e spiegato che si
trovava nella zona clitoridea. Cosa è successo? Questa ragazza aveva piacere durante il rapporto perché la
cistile serviva da compressione cioè schiacciava i residui clitoridei. Eliminando la cisti, non provava più
piacere. L’ho così mandata dalla dott.ssa Catania per rieducarla al piacere; ora la ragazza sta bene.
Vi illustro un altro caso che spiega perché queste pazienti sono restie a fare la deinfibulazione. La
settimana scorsa ho fatto una deinfibulazione ad una ginecologa. E’ arrivata a 37-38 anni senza mai
deinfibularsi. Alla mia domanda ‘perché’, la sua risposta è stata che fino ad allora doveva studiare, non
aveva un marito e non conosceva il medico che le avrebbe fatto la deinfibulazione, né sapeva se poteva
fidarsi di lui. Stavolta si era decisa ed aveva scelto di venire da me. La cosa incredibile è che aveva una
grossa cisti da ritenzione. Durante la visita - vi ricordo che lei era una ginecologa e che conosce bene
l’anatomia - mi ha detto: “quella non è una cisti ma è il mio clitoride ipertrofico”. Io l’ho visitata e le ho
detto: “no, questa è una cisti!”. Si vedeva molto bene che era una cisti attaccata ad un clitoride ipertrofico.
86
Per cui è stato un intervento molto difficile perché per la prima volta in Italia è stata fatta una
ricostruzione di un clitoride. E’ però un intervento che già fanno in Francia per motivi di identità. Questa
ragazza dovrebbe tornare la prossima settimana per rivalutare l’intervento e vedere come è riuscito. Per
ora ci ha telefonato e ci ha detto che sta benissimo! Speriamo bene.
L’intervento è semplice: disinfezione, anestesia locale, incisione simmetrica e poi bisogna ricucire la
cicatrice. Vengono fatte cure post-partum dopo una settimana, se la persona abita vicino; consigliata
un’igiene accurata con manovre giornaliere di divaricazione dei bordi della ferita; ordiniamo anche creme
anestetiche per il dolore. Non abbiamo mai dato antibiotici: solo in un caso ci è successo! Il primo ed il
secondo giorno la paziente deve urinare in una bacinella per attutire il bruciore dell’urina.
[Vengono mostrate ai partecipanti alcune slides di casi clinici]
Ecco qua una versione schematica: una persona chiusa con assenza del glande del clitoride - si vede
soltanto l’introito vaginale.
La cosa che dobbiamo fare sempre, prima di ogni intervento, è controllare le cicatrici e quanto siano
serrate ed aderenti alle strutture circostanti. Quindi, con un cotton-fioc rialziamo i bordi della cicatrice: se
vi riusciamo, l’intervento sarà molto facile.
Ora vedete un caso che abbiamo trattato: non era facilissimo perché non si riusciva nemmeno ad entrare
con un cotton-fioc. L’incisione deve essere simmetrica; poi si fa la sutura dei bordi, a seconda se
distaccati o continui.
Molte donne sono state trovate con clitoridi intatti. Una persona che infibulava, nella sua vita aveva fatto
20.000 bambine, negli ultimi tempi si era pentita ed aveva deciso di non infibulare più. Continuava però a
ricevere molte richieste e per accontentare i genitori aveva deciso di chiudere solo le piccole labbra,
lasciando intatti i clitoridi. Quindi molte delle giovani ragazze che ora vengono da noi, hanno il clitoride
intatto e così riusciamo ad aprirle, riparando solo la parte esterna.
Ecco qua durante l’intervento: questo è il caso di una ragazza che è venuta da noi.Tre volte sposata, due
volte divorziata; la terza volta è venuta per motivi di sterilità. In quella prima fase le è stata suggerita
un’isteroscopia per comprendere i motivi di sterilità e così l’abbiamo poi convinta a fare la
deinfibulazione.
Ecco la fase di preparazione all’intervento. Bisogna vedere l’ingresso della ferita e se la cicatrice è
elastica, sollevata o altro; poi l’anestesia locale e quindi il bisturi con l’incisione simmetrica. Durante il
taglio, l’esecuzione dell’intervento e l’intervento finito. Questa è una donna sessualmente attiva. Questa è
la sutura definitiva, quindi la ricostruzione.
Questa è un’altra paziente sessualmente attiva che portava problemi dello stesso tipo ed aveva delle
aderenze cicatriziali molto profonde. Non è stato un intervento facile. Questa ragazza, che vive in alta
Italia, è rimasta incinta a 25 anni; è stata seguita in un ospedale importante dove, al termine della
gravidanza, è andata a chiedere un parto senza dolore con puntura lombare. La ginecologa non se ne è
accorta dell’infibulazione. Se ne è accorta l’ostetrica che aveva fatto un corso di formazione e le ha detto:
“dottore, ma questa donna è infibulata!”.Questa povera ragazza ha purtroppo subìto un taglio cesareo non
necessario. Dopo un anno è andata all’ospedale e poi è venuta da noi. Alla visita aveva cicatrici molto
serrate. Lei proviene dal Niger. Abbiamo cercato di vedere l’ingresso dell’uretra con il catetere, per
comprendere la situazione del tratto urinario; abbiamo fatto poi un’incisione a losanga per riuscire a
trovare un pochino di agio, andare dentro e fare così l’intervento. L’intervento è riuscito. Abbiamo
ricreato una parvenza di piccole labbra e quindi l’intervento è finito. Ci ha poi chiamato dopo un mese e
mi ha chiesto se poteva andare nel suo ospedale a farsi vedere ed io le ho detto: “benissimo vai pure a
farti vedere” ed è andata lì.
Questo è un altro caso, dopo tre mesi (lo avete già visto). E’ una donna infibulata alla 16° settimana –
vedete che entra appena appena un cotton-fioc ed anche qui abbiamo fatto una parvenza di piccole labbra
e l’intervento è finito.
Questa è una ragazza di 25 anni.
All’inizio le donne venivano da noi solo perché si erano sposate ed erano d’accordo con il marito per farsi
deinfibulare; dopo tanto tempo di educazione,informazione, dialogo ed accoglienza siamo riusciti a far
87
capire a queste donne che la cosa più importante è la loro salute e non la verginità artificiale. Una delle
prime ragazze è proprio questa di 25 anni che è venuta da noi e ci ha detto: “a me non interessa avere un
marito perché se mio marito mi vuole, mi vuole così come sono e non perché sono chiusa, ma
l’importante è che io stia bene. Ho sofferto fino ad ora”. A questa ragazza abbiamo trovato una cisti; la
cisti è stata tolta e mandata all’istologo.
Abbiamo voluto confrontare i nostri dati con quelli di vari centri in Inghilterra e negli Stati Uniti: i
risultati che abbiamo ottenuto sono uguali a quelli degli altri, nel senso che il 50% dei clitoridi sono
immersi, cioè messi sotto la cicatrice.
Ecco però quali sono gli errori da evitare: questa ragazza è andata all’ospedale. E’ stata seguita durante il
travaglio e le hanno detto che poteva partorire tranquillamente. E’ arrivata ai 4 cm e non andava oltre; le
hanno fatto la deinfibulazione subito ma non riusciva ad andare avanti; le hanno fatto un cesareo. Questa
ragazza dopo il cesareo ha fatto una nuova deinfibulazione.
I tagli sono sempre da evitare: chi si porta questa cicatrice, la vuole poi correggere con la chirurgia
estetica.
Questo è un altro caso, di una donna che lavora in Eritrea, in un ospedale. E’ stata mandata per un mese
all’ospedale di Firenze per fare un corso di formazione. Non avendo avuto figli, la direzione sanitaria ce
l’ha mandata chiedendo se potevamo aiutarla. Le abbiamo fatto una ecografia transvaginale e la prima
cosa che ho notato è stata una grossa cisti da ritenzione. Alla domanda “perché in tutti questi anni,
lavorando pure in ospedale, non è mai riuscita a togliere questa cisti?”, lei mi ha risposto “noi andiamo
dal ginecologo per due motivi: o perché siamo ammalate o perché siamo incinte! Io non sono né l’una né
l’altra”. Per tutto questo tempo lei è rimasta così. Le ho allora chiesto come riuscisse ad avere rapporti e
lei mi ha risposto: “non mi disturba ed i miei rapporti sono normali”. L’ho convinta a fare la
deinfibulazione. Ho dovuto usare il laser perché la cisti era troppo grossa, grande come un mandarino;
occludeva quasi l’introito vaginale. Ecco tutta la massa che vi era dentro.
Questi sono gli “aghi di acacia”. Ora non si usano più nemmeno in Africa. Chi vuole l’infibulazione, va o
nelle strutture o dalle donne ‘maman’: quest’ultime ormai attrezzate, perché a conoscenza di leggi che
temono. In Sudan si continuano a fare le mutilazioni genitali femminili.
Queste sono tutte le cisti che vi ho detto.
Infine c’è la deinfibulazione intra-partum, quando la donna arriva da noi troppo tardi. Cerchiamo allora di
educarla e di capire se questa donna aspetta una bambina. Il nostro intento è non solo di deinfibularla ma
anche di comprendere se questa donna, appena nata la bambina, la farà infibulare a sua volta o meno.
Noi abbiamo dei buoni risultati, anche se ci sono delle popolazioni che desiderano perpetuare ancora
qualche forma di mutilazioni genitali femminili sulle proprie figlie. L’80% delle ragazze che sono qui non
vogliono più fare alcuna forma di mutilazione, ma alla domanda ‘se tuo marito non fosse d’accordo con
te, cosa faresti?’ si creano grossi problemi, come avete visto nel filmato.
Ha molto peso il partner, anche se il partner, tradizionalmente, è sempre stato assente. Nei libri si
riportano casi di bambine mutilate dalla maman, dalla zia, dalla mamma; il marito non c’è mai. Quando
abbiamo interpellato gli uomini, la risposta è stata che sono “cose da donne”. E quando abbiamo detto
loro che le donne non lo vogliono più fare,allora improvvisamente gli uomini sono diventati
presenti!Quindi, quello che abbiamo deciso di fare in questi ultimi anni, è stato confrontare le donne con i
maschi. Importante è quindi il coinvolgimento maschile: nelle prime fasi, se una bambina viene salvata, è
solo per merito del padre che si è opposto.
In Africa si fa una doppia episiotomia, se necessaria medio bilaterale destra e quindi con l’espletamento
del parto.
Alla domanda “farebbe infibulare Sua figlia?”, il 100% ha risposto negativamente, anche se il 33%
desidera fare la sunna. È una parola che cerchiamo di non utilizzare perché ha un connotato religioso.
Tutte le nostre pazienti provengono da paesi a tradizione escissoria. La maggior parte sono donne
egiziane. L’altro giorno avevo di fronte l’imam, la cui moglie è incinta ed alla domanda “hai una figlia, le
faresti una forma di mutilazione?” lui mi ha risposto “il nostro khadi dice di sì”…è un imam! Sto
cercando di coinvolgerlo. La moglie non parla perché è lui che decide. Noi dobbiamo cercare di
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coinvolgere la coppia e la famiglia. Guardate cosa sta succedendo in Egitto. Durante i trent’anni del
regime di Mubarak c’era Susanna Mubarak, la moglie, figlia di un medico, che ha fatto molto attivismo in
Egitto e in altri paesi africani, per lo sviluppo della donna in Africa. Ora che il regime è decaduto, è uscita
la polemica che sia lei che il Mufti (il grande religioso de Il Cairo)erano solo politici, interessati a fare
politica sulle mutilazioni genitali femminili. Mi sono allora fatto raccontare cosa succede in Egitto e mi è
stato detto: “quando la bambina ha un anno, viene portata dalla pediatra o dalla ginecologa che dà il suo
assenso all’infibulazione”. Ho ribattuto dicendo che non è possibile che un medico avalli questa pratica.
Ed invece è proprio così.
Le popolazionisenegalese, somala, eritrea, etiope, del Mali e del Burkina Faso stanno invece uscendo
dalla pratica delle mutilazioni genitali femminili.
In Nigeria, ad esempio, i maschi sono molto restii a continuare tale pratica. Nei nostri ambulatori non
facciamo, dunque, solo informazione o educazione e prevenzione ma soprattutto cerchiamo di salvare le
bambine che nascono in Italia.
Domande e richieste di approfondimento dal pubblico
 Qual è la stima della prevalenza di questo problema tra la popolazione migrante in Italia?
Dott.ssa Catania: Ci sono stati due lavori importanti: uno nel 2008 da parte dell’Istat che aveva portato
la popolazione mutilata in Italia a 93.000persone; l’altro delle Pari Opportunità che aveva ordinato un
censimento all’Istituto Piepoli di Roma e che aveva stimato nel 2009 35.000 donne (di cui 4.600 sotto i
17 anni) con regolare permesso di soggiorno presenti in Italia, che avevano subìto qualche forma di
mutilazione. Questo dato riguarda però solo le donne regolari; ci sfugge così il numero delle irregolari che
entrano ed escono dall’Italia, vengono e poi ripartono. Il numero ufficiale è quindi di 93.000 donne su
135.000 donne provenienti da paesi a tradizione escissoria con mutilazione. Però è un dato astratto in
quanto non hanno visitato ogni donna, ma semplicemente hanno applicato delle percentuali. Ad esempio:
la percentuale in Somalia di donne mutilate ammonta al 90%, in Ciad al 50%. Queste percentuali sono
state poi applicate alle donne provenienti da paesi a tradizione escissoria, regolarmente presenti in Italia.
Il dato reale però ci sfugge.
Dott. Abdulcadir: volevo aggiungere una cosa. L’Italia ha una posizione strana, non solo dal punto di
vista geografico: assieme alla Francia è uno dei due paesi che danno alle donne il maggior servizio
sanitario. Siamo i migliori nel mondo! Molti immigrati che arrivano in Italia non ricevono lo status di
rifugiato e quindi l’Italia è per loro solo una tappa per proseguire il loro viaggio verso i paesi del nord
Europa o del Regno unito. Molte di queste persone, dopo aver preso loro le impronte digitali, vengono
rimandate indietro. L’80% delle persone migranti, dopo tanti anni di lavoro in Italia, decidono di andare
in Inghilterra (lì viene data loro una casa, i sussidi la scuola per i figli…) o in Nord Europa ma quando
hanno problemi di salute ritornano in Italia. Molti migranti conservano il permesso di soggiorno (della
durata di 10 anni), pur vivendo in altri paesi europei, per tornare così in Italia a farsi curare, aumentando
così il numero delle nostre prestazioni sanitarie.

Volevo sapere se per le donne che si sottopongono alla de infibulazione è previsto un supporto
psicologico sia prima che dopo l’intervento?
Dott. Abdulcadir: sì, nel nostro ambulatorio lavorano la dott.ssa Catania, una psicologa ed
un’antropologa. Il problema è però che queste donne non dichiarano di avere problemi psicologici.
Quando arrivano, soprattutto quelle con un’identità forte dei loro paesi, non si vivono come malate e non
si aspettano una deinfibulazione. In questi casi non vi è un supporto psicologico, che invece viene offerto
dopo, quando subentrano i problemi. Io ho avuto due casi. Il primo era una ragazza senegalese, sposata ad
un uomo senegalese. Una vita felice, con un figlio; poi lui l’ha abbandonata quando ha conosciuto una
ragazza africana non mutilata. Alla moglie lui ha rinfacciato che i piaceri che riceveva da quell’altra non
erano uguali a quelli che riceveva da lei. Questa ragazza è rimasta completamente distrutta ed è venuta a
chiedermi un aiuto. Per situazioni come queste o per problemi psicologici familiari prevediamo uno
psicologo. Molte volte la richiesta dell’identità del clitoride è dovuta a questo. Vediamo cosa accadrà con
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la terza generazione, senza identità o con identità molto debole. In Italia il problema non si è ancora
presentato perché siamo alla seconda generazione, che ha però altri problemi.
Alla fine, a questa donna abbiamo offerto un supporto psicologico; l’abbiamo aiutata a superare le diverse
fasi, compresa la sua richiesta di darle un clitoride per la sua felicità. L’abbiamo aiutata a comprendere
che non era un clitoride a farla felice ma un comportamento ed una psicologia labile.
Dott.ssa Catania: aggiungo una cosa visto che ci ho parlato pure io a questa donna. L’uomo, che sia nero
o bianco, nel momento in cui abbandona una donna trova tutte le scuse. Lui aveva trovato questa relativa
all’assenza del clitoride! Se fosse stato viceversa l’avrebbe accusata del fatto che l’aveva! Perché dico
questo?! Perché ho avuto due casi: una donna etiope è venuta a chiedere l’infibulazione. Era figlia di
un’ostetrica che aveva partorito sette maschi ed una femmina; la madre aveva fatto solo circoncidere i
maschi ma non infibulare la figlia. La ragazza è cresciuta felice e contenta in Etiopia,senza essere
mutilata; arriva in Italia e conosce un uomo etiope religioso; si fidanzano e lui, quando scopre che lei non
è mutilata, le dice: “vabbè non ti infibulare ma almeno fatti togliere il clitoride”. Questa ragazza, per
amore, voleva diventare come chiedeva quest’uomo! Io l’ho convinta in tutti i modi: le ho anche detto che
se non voleva farlo, non doveva farlo perché tanto prima o poi il suo uomo l’avrebbe abbandonata
ugualmente. Poi sparì ed io ero molto preoccupata per lei: sapevo che lei era disposta a spendere tutti i
soldi che aveva per poter essere come voleva il suo uomo. Dopo anni l’ho rivista e non aveva fatto alcun
intervento; si era fidanzata con un cugino religioso che le diceva “mi vai bene così”. Al momento di
sposarsi l’uomo le disse che almeno un pezzetto di clitoride lo doveva togliere! Lei gli rispose di no e se
ne andò; rimase così da sola. In quel primo momento però, se non avesse trovato un medico come me, si
sarebbe fatta infibulare per poi essere sicuramente abbandonata!
Importante quindi l’aiuto degli psicologi ma solo se etno-psicologi!
Dott. Abdulcadir: avete letto quel caso di una donna inglese che si è fatta infibulare? E’ andata
all’ospedale, dichiarando di avere il libero arbitrio di scegliere di togliersi il clitoride. Alla fine è stata
escissa. Lei ora è contenta ed ha detto “senza il clitoride mi sento donna”. Interessante questo approccio
della chirurgia estetica alle mutilazioni genitali femminili. E’ un argomento molto dibattuto. Le donne
occidentali vanno a farsi una riduzione delle piccole labbra o altri restringimenti. Negli USA una donna
somala ha detto: “voi donne occidentali volete questo, io invece voglio essere chiusa”. Questo è un
dibattito forte. Anche noi, nei nostri servizi, cerchiamo di aiutare queste donne che, dopo anni di lavoro in
Italia e di soldi mandati al marito rimasto nel paese di origine, scoprono che il marito nel frattempo si è
risposato con un’altra donna. Quando la prima moglie viene a saperlo, decide allora di divorziare, in
nome di tanti anni di lavoro e di risparmi e giovinezza spesi per lui! Incontra magari un altro uomo, che
vuole sposare e per tale motivo chiede al dottore di essere aiutata con la chirurgia estetica. Noi
proponiamo allora, oltreagli esercizi del pavimento pelvico, delle visite con una ginecologa che possa
aiutare queste donne.
Dott.ssa Catania: a Glasgow, al congresso mondiale di ginecologia, c’è stata una grande diatriba tra i
ginecologi che parlavano di deinfibulazione, e che facevano parte del gruppo contro la mutilazione, ed i
ginecologi che praticano invece la chirurgia estetica per le donne occidentali. Si sono accapigliati! I
ginecologi egiziani dicevano: “sono anni ed anni che diciamo che non si devono toccare i genitali, ora
arrivate voi che fate le riduzioni delle piccole labbra, perché sennò non sei bella…col trapianto dei peli
pubici perché sennò, scusate, la vulva spennacchiata non piace al partner…l’inserimento di grasso, preso
da un’altra parte, per far apparire più grosse le grandi e le piccole labbra…”. Insomma c’è tutto un
modello e le mutilazioni sono uguali. Ovviamente non sto parlando delle mutilazioni sulle bambine ma su
donne adulte. Tant’è che i ginecologi austriaci hanno deciso di adottare una regola e stampare delle linee
guida sulla chirurgia correttiva dei genitali. Se lo leggete vi accorgerete che le motivazioni sono identiche
alle motivazioni che vengono portate dalla famiglie e dalle donne dei paesi a tradizione escissoria:
bellezza, purezza,ecc…bisogna veramente mettersi d’accordo!
Le linee guida sono scritte dall’Istituto della Salute Femminile di Vienna dove trovate le descrizioni e le
motivazioni; è inoltre previsto un incontro psicologico prima e dopo per capire il perché di tale scelta.
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Molte adolescenti hanno infatti un problema di modello femminile e non solo fisico (disturbi
dell’alimentazione, ecc) ma anche riguardante i genitali. E’ un problema vero...si parla addirittura di
design della vagina! E’ stato presentato ad un congresso mondiale dove si parla anche della fase
psicologica della donna, che si sviluppa nell’infanzia e nelle prime fasi della vita. Queste immagini dei
genitali perfetti vengono diffusi e poi introiettati ed acquisiti dalle bambine. Poi c’è la costruzione
dell’imene ma quello è un altro discorso ancora.
Dott. Romagnolo 32: volevo portare la mia esperienza, comune soprattutto nelle donne sudamericane in
cui la chirurgia plastica, intesa in tutte le sue forme, è considerata fin una tradizione sia per la qualità ed i
costi (qualità molto alta e costi molti bassi, a differenza nostra). In quei paesi la chirurgia estetica non
viene vista come un capriccio ma come una necessità. Spesso ci capita di avere richieste in questo senso
da donne sudamericane perché per loro, se fossero in Sudamerica, questo sarebbe la normalità. Volevo
però riportarvi, a parer mio, su una grossa differenza relativa al fatto che le mutilazioni genitali femminili
sono imposte dalle persone o dalla cultura; la ricostruzione o chirurgia plastica appartiene ad un ambito
differente. Possono avere aspetti sovrapponibili dal punto di vista pratico ma sono molto diversi.
Mettendo quindi insieme quello che ho sentito stamattina, mi è venuta questa considerazione: è evidente
che c’è un condizionamento importantissimo. Lo scenario che poi noi valutiamo tutti i giorni è: questa
donna con questo condizionamento e la mutilazione fisica o psicologica, si confronta con una struttura
che è sicuramente in grado di fornire sanità ma probabilmente in grosse difficoltà a fornire
comunicazione. Questa donna non parla la nostra lingua, molto spesso non abbiamo mediatori culturali
neanche per comprendere se quello che noi proponiamo come pranzo o cena è di suo gradimento. Quindi
la capacità di relazione, anche per necessità semplici, è molto difficile. E’ chiaro che in questo momento
questa donna è sola ed è sola con tutta la sua tradizione. In quel momento è facile che sola, nella
difficoltà, si senta di riaggrapparsi a quella che è la sua cultura, che per lei è la sua realtà e quindi
prevedere poi qualcosa di simile anche per la sua bambina. Quindi la domanda pratica è: tenendo presente
le nostre realtà, con le possibilità e le difficoltà del nostro attuale sistema sanitario, qual è il punto di
contatto con la paziente in ospedale, prima di rimandarla a casa nei tre giorni che rimane nella nostra
struttura? Perché anche se ho grosse difficoltà di comunicazione linguistica con questa donna, mi rendo
conto che in quel momento lì lei sta comunque scegliendo se nel primo anno di età della bambina la vorrà
sottoporre a mutilazione o meno. Allora è giusto che io introduca un argomento così difficile, tenendo
conto delle mie difficoltà pratiche e di comunicazione? Oppure, qual è l’aggancio che io posso dare a
questa donna quando mi rendo conto che in quel momento quel problema non riesco ad affrontarlo? Voi
in questo caso cosa fate?
Dott. Abdulcadir: volevo premettere una cosa. Nel mio modo di lavorare ho introdotto una novità: se in
genere è la paziente che va verso l’ospedale, io faccio il contrario. Sono io che mi muovo verso la
paziente. Ad esempio: domenica prossima c’è il decimo anniversario di una chiesa anglicana evangelica
dove vanno nigeriani ed altri. Io vado lì, anche se sono musulmano. Assisto alla messa, sto con loro,
partecipo alla festa e poi propongo una formazione per la salute. Molte di queste donne sono irregolari e
le rassicuro dicendo loro che nessuno le denuncia in ospedale. Il venerdì vado in moschea e dopo la
preghiera faccio lo stesso con le donne musulmane. Quando posso contatto il leader religioso che, a sua
volta, permette questo.
Questo mi è d’aiuto perché, anche se io ho una cultura africana, molte volte è difficile entrare nella loro
mentalità, quindi coinvolgo molto spesso i capi religiosi ed i capi delle comunità. Un punto essenziale è
una buona mediazione culturale. Da noi in Italia i mediatori non hanno nemmeno il posto per sedersi.
Stanno lì in portineria ad aspettare una chiamata. Non hanno legislazione ma sono essenziali per le nostre
strutture. Anch’io sono un mediatore…ho fatto pure il corso! Il ginecologo deve necessariamente tener
32
Direttore U.O.C. Ostetricia e Ginecologia, Ospedale di San Bonifacio
91
conto della permanenza in Italia di questa donna: se parla la lingua, se è integrata e l’istruzione che
possiede. Se questi elementi mancano, il medico deve invitare il partner per ricevere delle risposte.
Talvolta la paziente viene accompagnata dal figlio, che magari è grande, già integrato e può dare delle
risposte, oppure da una cugina o da qualcuno che conosce. Ma la cosa più importante è fare rete tra la
ginecologia–ostetricia ed i mediatori culturali, che fanno riferimento alle comunità e che ci facilitano il
nostro percorso.
Dott.ssa Catania: aggiungo, per rispondere alla domanda pratica: da soli non possiamo fare niente,
tempo non ce n’è, la lingua non la sappiamo. Quindi, ricapitolando: contatti con le comunità, mediatori
preparati e quando la donna arriva in ospedale non deve essere digiuna di nozioni. Quando la paziente
arriva per partorire dovrebbe almeno aver già fatto il corso di preparazione al parto.

Prof.ssa Folla: “Ho sentito parlare per la prima volta del dott. Abdulcadir quando è assurto alle
cronache perché i mass-media ne hanno parlato per il rito alternativo che aveva proposto, in
sostituzione della mutilazione. Credo però che ci sia stata della confusione a riguardo, forse dei
fraintendimenti. Avendolo qui oggi mi piacerebbe che ci spiegasse qual era la sua proposta e quale
obiettivo si proponeva”:
Dott. Adbulcadir: il rito alternativo era frutto di un’osservazione. Esistevano infatti tre gruppi di
pazienti: chi diceva “basta alle mutilazioni genitali femminili, non ne vogliamo più sapere!”; un secondo
gruppo che dichiarava “non voglio fare l’infibulazione vera e propria ma vorrei fare quella del I o del II
tipo” e noi pensavamo “ben venga, se hai abbandonato la forma più cruenta…”; il terzo gruppo era,
invece, restio a qualsiasi informazione ed affermava “dottore, può parlare quanto vuole ma io voglio
infibulare la mia bambina”. Non c’era, quindi, alcuna alternativa per aprire quella porta di
comunicazione. Ci è balenata l’idea, che non era nuova perché in altre parti del mondo esisteva già, di
dire alle signore: “bene, visto che tu vuoi infibulare la tua bambina per motivi culturali e tradizionali,
allora io ti offro un'alternativa: facciamo una festa alla bambina!”. Abbiamo parlato coi medici, coi legali,
coi chirurghi, con agli anestesisti per avere un anestetico e con le amministrazioni regionali e locali.
Abbiamo realizzato che era possibile farlo ed abbiamo proposto una puntura simbolica: prendere un ago
sottilissimo (tipo quello da insulina), applicare l’anestetico, pungere e quindi fare uscire, al massimo, una
goccia di sangue. Il mio pensiero era che, se una donna, abituata ad infibulare la propria bambina cioè a
chiuderla ermeticamente,sceglie una puntura simbolica e far uscire una goccia di sangue, vuol dire che
non ha bisogno di nessuna puntura! Io infatti volevo arrivare alla loro mente. Ad una donna che mi dice
“dottore, io non faccio questa mutilazione ma fammi la puntura”, mostro che la puntura non fa
assolutamente niente, ma se arriva a questo pensiero vuol dire che non ha bisogno di altra educazione.
Questo però non è stato compreso: non perché non si sia voluto capirlo ma perché è stato
strumentalizzato. Tutto ciò avveniva, infatti, nel momento delle elezioni politiche ed è stato riportato dai
giornali come la proposta di “infibulazione soft”.
Dott.ssa Catania: Per quanto riguarda il ruolo dei partner, è importante differenziare: quando vengono
donne marocchine con il marito, anche egiziani, sono ragazze giovanissime e velate. Lui ha magari
lavorato in Occidente, facendo il pizzaiolo o il muratore; ha preso un po’ di soldi, torna a casa e si sposa
la ragazzina di paese e non la donna autonoma con titolo di studio. La famiglia concede il matrimonio e ti
arriva in ambulatorio lei, digiuna di informazioni, che vede l’ingerenza del partner non come una
prevaricazione (qui è il problema) ma come una protezione. Per cui quando io chiedo alla ragazzina:
“quando hai avuto l’ultima mestruazione?” e mi risponde lui ed io chiedo a lui: “per favore può chiederlo
a lei e tradurlo in italiano?” lui mi guarda male perché per lui è normale avere gli esami della moglie
sottobraccio e sapere tutto di lei, delle mestruazioni, se sta male o se non sta male. Lei non lo vive come
una prevaricazione ma come amore: l’amore che mio marito mi vuole, quanto mi ama e mi protegge (anzi
mi porta con la macchina) quanto sta attento a me. Viceversa, quando parliamo di paesi a tradizione
escissoria io questa prevaricazione, ad esempio tra i somali, eritrei, etiopi o i sudanesi stessi non la vedo.
Anzi, lì le donne sono agguerrite, più autonome! Comunque tutto il mondo è paese. Anche in Italia io ho
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una paziente, massacrata di botte dal marito ma lei non lo vuole lasciare. La situazione maschio/femmina
è diversa però talvolta, per fortuna, nel rapporto uomo/donna è quasi uguale. Per quanto riguarda la
presenza del partner è importante perché il partner che ha decisione in famiglia viene sensibilizzato:
questi uomini, in Italia, sono stati costretti ad accompagnare la donna dal dottore. Nei loro paesi questi
uomini non si sognerebbero mai di accompagnare la donna dal ginecologo, perché lo farebbe la mamma,
la sorella, l’amica. Qui da noi è obbligato ad accompagnarla e tante volte, essendo costretto a farlo, funge
da mediatore, traduttore, interprete; scopre, così, per la prima volta, che la moglie sta male, che la
mutilazione fa male, che qui è illegale e traduce le sensazioni ed i disturbi della moglie, rendendosi conto
di quanto male stia. Così quando noi gli chiediamo di tradurre i consigli, lui si sensibilizza. Ecco perché è
partito il progetto di sensibilizzare gli uomini! Sarà di aiuto per il loro ruolo di capi della famiglia: loro
sono infatti vicari della famiglia ed è la donna stessa a volerlo! Il loro è un problema di ignoranza…
Dott. Abdulcadir: Ultima considerazione e poi chiudo. Abbiamo fatto un progetto per la prevenzione
oncologica delle donne migrate, rivolto anche alle donne portatrici di mutilazioni genitali femminili. Un
doppio lavoro: quando le sottoponiamo al pap-test, proponiamo loro di uscire dalle mutilazioni genitali
femminili. Essendo un progetto a basso costo, vale la pena approfittarne per fare attività di prevenzione,
soprattutto quando sono donne provenienti da paesi a tradizione escissoria.
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PARTE SECONDA
IL LAVORO
CON LE COMUNITÀ
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CORPO E SALUTE DELLE DONNE TRA TRADIZIONE E CAMBIAMENTO
Percorso sperimentale di scambi e di apprendimenti tra donne operatrici dei servizi socio-sanitari,
mediatrici culturali e donne appartenenti a diverse comunità e gruppi di migranti a Verona.
A cura di “Terra dei Popoli”, Associazione di Mediatori Linguistico Culturali
GRUPPO DI LAVORO:
•
Operatrici Socio – sanitarie: Cristina Barbieri, Psicologa-psicoterapeuta, Consultori
Familiari ULSS 20; Graziella Mortaro, Medico chirurgo, Ginecologa, Consultori Familiari
ULSS 20; Patrizia Rosi, Medico chirurgo, Ginecologa, Consultori Familiari ULSS 20; Mara
Fasoli, Assistente Sociale, Consultori Familiari ULSS 20; Teresa Piazzi, Ostetrica, Consultori
Familiari ULSS 20; Elena Migliavacca, Assistente Sociale, Comune di Verona; Anna Franzon,
Psicologa, Consultori Familiari ULSS 20; Gigliola Bronzato, Psicologa-psicoterapeuta,
Azienda Ospedaliera Universitaria Integrata di Verona; Chiara Bosio, Psicologapsicoterapeuta, Servizio Promozione ed Educazione alla Salute, ULSS 20;
•
Mediatrici culturali: Safietou Sakho (Senegal); Emma Atta – Neizer (Ghana;, Zuweratu
Abasimi (Ghana); Pamela Eziefula (Nigeria); Jennifer Ezenwa (Nigeria); Sandra Jesuorobo
(Nigeria)
•
Animatrici di comunità: Linda Ada (Nigeria); Lizzy Sana (Nigeria); Khadia Diop (Senegal);
Faty Diop (Senegal); Eliane Ngaha (Camerun)
•
Focus Group condotto da: Federica De Cordova, Psicologa Sociale e docente di Psicologia
Transculturale presso l’Università degli Studi di Verona; Dinha Rodrigues, Mediatrice
Culturale di Terra dei Popoli
•
Organizzazione a cura dell’Associazione dei Mediatori linguistico culturali “Terra dei
popoli”. Ioana Dunca e Dinha Rodrigues, coordinamento e facilitazione nel rapporto con le
istituzioni, gruppi e comunità migranti; Laura Martinez, registrazione, verbalizzazione degli
incontri.
Si ringrazia per la collaborazione i gruppi e le comunità di migranti: Associazione “GORE –
ONESTA’ ” Senegalesi di Verona e Provincia, The Ghana Nationals Association of Verona, Centro
Islamico di Verona, Associazione dei cittadini della Guinea Verona, Associazione Nigeriana Unita,
NWA - Nigerian Women Association, Associazione "A.I.G.B.I. - Associazione Immigrati Guinea
Bissau in Italia, Anglophone African Catholic Community - San Giacomo
Esperienze di focus group tra operatrici e mediatrici culturali e di incontri con gruppi e comunità di migranti a Verona.
Percorso a cura dall’Associazione di Mediatori linguistico culturali “Terra dei popoli” - Novembre 2011-luglio 2012.
96
1.
Premessa
“Corpo, ludibrio grigio
Con le tue scarlatte voglie,
fino a quando mi imprigionerai?
Anima circonflessa,
circonfusa e incapace,
anima circoncisa,
che fai distesa nel corpo?”
Alda Merini, Fiore di poesia
Migrazioni al femminile ed incroci di cittadinanza nella società che cambia.
L’associazione di mediatrici Terra dei Popoli, su mandato dell’ ULSS20, ha realizzato dei
focus-group sul tema della salute delle donne e delle “mutilazioni dei genitali femminili MGF”, coinvolgendo un gruppo di operatrici socio-sanitarie (sia della stessa Ulss, che del
Comune di Verona e dell’ Azienda Ospedaliera Universitaria Integrata), un gruppo di mediatrici
culturali ed un gruppo di donne migranti in relazione con le mediatrici, appartenenti ad alcune
Esperienze di focus group tra operatrici e mediatrici culturali e di incontri con gruppi e comunità di migranti a Verona.
Percorso a cura dall’Associazione di Mediatori linguistico culturali “Terra dei popoli” - Novembre 2011-luglio 2012.
97
aree geografiche interessate al fenomeno delle MGF. Tale progettualità aveva l’obiettivo di
entrare nel merito di tali pratiche e conoscere in maniera più approfondita il fenomeno, al fine
di:
- costruire insieme un percorso che consentisse di affrontare queste tematiche in maniera
efficace rispetto alla prevenzione e alla cura della salute globale delle donne di origine straniera;
- aumentare la consapevolezza delle donne native e migranti sull’importanza della prevenzione;
- aumentare la conoscenza da parte di operatori sociali e sanitari delle pratiche di cura
tradizionali di altre culture e sostenere un processo di integrazione basato sulla reciproca
conoscenza tra popolazione nativa e migrante.
In questa prospettiva sono stati realizzati una serie di incontri e laboratori informativi, di
conoscenza e di scambio, con gruppi di donne e comunità migranti di varie nazionalità
(Ghana, Nigeria, Guinea, Camerun, Guinea Bissau, Eritrea e Senegal), al fine di osservare e
costruire linee programmatiche sul tema della cura e della salute delle donne e sulla relazione di
collaborazione con le istituzioni pubbliche (Ulss 20, Ospedali, Comune e Azienda Ospedaliera),
per un maggior coinvolgimento delle comunità, delle associazioni e dei gruppi migranti, e per
promuovere azioni di sensibilizzazione, prevenzione e accesso ai servizi socio-sanitari del
territorio.
Esperienze di focus group tra operatrici e mediatrici culturali e di incontri con gruppi e comunità di migranti a Verona.
Percorso a cura dall’Associazione di Mediatori linguistico culturali “Terra dei popoli” - Novembre 2011-luglio 2012.
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2. Comunità, gruppi di migranti e MGF: soggetti e saperi del percorso
sperimentale.
Con il presente documento si vuole dare un resoconto delle attività realizzate all’interno del
percorso focus group e incontri-scambi con le donne appartenenti a varie comunità e gruppi
migranti a Verona, sia sulla salute delle donne sia sul fenomeno MGF.
Elemento importante è stata la FASE DI PROGETTAZIONE INIZIALE e la costruzione di un
gruppo di lavoro composto da circa 21 persone tra operatori socio-sanitari, della mediazione
linguistico-culturale e animatori delle comunità di migranti del territorio.
Il focus group ha avuto la consulenza di una docente di Psicologia Sociale e Transculturale
dell’Università degli Studi di Verona, al fine di accrescere elementi di analisi del fenomeno e
strumenti per lavorare il tema delle mutilazioni dei genitali femminili. La nostra proposta è stata
quella di un approccio partecipativo al problema, attraverso il coinvolgimento dei componenti
delle Comunità e gruppi interessati. L'esperienza maturata ha dimostrato che le soluzioni per
ridurre o, se non altro, per essere più consapevoli sulla pratica MGF devono essere individuate in
percorsi di informazione, sensibilizzazione e prevenzione. Solo il dialogo e il confronto possono
modificare concretamente quelle pratiche che ledono l'integrità fisica e psicologica di bambine e
adolescenti.
Sono state utilizzate circa 220 ore di laboratorio, al fine di creare le condizioni per coinvolgere
più pienamente le comunità interessate alla tematica in oggetto. Sono stati realizzati 13
laboratori presso le comunità e gruppi migranti, per un totale di 325 ore di incontri
informativi, di approfondimento e di chiarificazione tematica (parole, termini, linguaggio,
tradizione, riferimenti legislativi, mappe fisiche e mentali) tra le mediatrici delle aree
interessate, animatrici di comunità ed operatori socio-sanitari.
Il percorso ha visto la fattiva partecipazione di circa 120 donne immigrate che frequentano i vari
contesti e comunità di migranti nella città, in prevalenza donne del Senegal, Ghana, Nigeria,
Guinea, Guinea Bissau e Costa d’Avorio.
Nella fase di mobilitazione e sensibilizzazione al tema si sono incontrate 13
associazioni/comunità di migranti e 6 rappresentati di varie chiese presenti sul territorio. Da
qui è nata la proposta di realizzare un incontro pubblico (circa 110 persone) con il
coinvolgimento di tutte le istituzioni partner del progetto e aperto alla cittadinanza.
Il progetto/percorso si è inserito all’interno di una articolata rete di relazioni (istituzionali,
culturali e territoriali), con le quali si è costruito:
•
a.
Il calendario del processo.
Costruzione con i vari soggetti della presentazione e inquadramento del progetto;
Esperienze di focus group tra operatrici e mediatrici culturali e di incontri con gruppi e comunità di migranti a Verona.
Percorso a cura dall’Associazione di Mediatori linguistico culturali “Terra dei popoli” - Novembre 2011-luglio 2012.
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b.
Lettura dei bisogni e degli interessi generali e specifici nonché definizione di priorità per
ogni tappa di intervento;
c.
Focus-group di approfondimento per la definizione di strategie programmatiche nei vari
gruppi e comunità di migranti;
d.
Incontri e laboratori di approfondimento e preparazione dei mediatori per la
realizzazione degli interventi nei vari gruppi e comunità di migranti;
e.
Scrittura/registrazione e organizzazione di piani esecutivi di lavoro (considerando le
varie tappe operative);
f.
Programmazioni specifiche per tappe e ambiti tematici di lavoro.
•
Il collegamento tra il calendario del processo e l’agenda operativa:
a.
Ambito applicativo

Accompagnamento iniziale e consulenza ai mediatori e agli operatori nei vari ambiti,
attività e monitoraggio delle azioni;

Presenza attiva nella relazione con le donne/testimoni e le comunità;

Produzione materiali/schede esplicative ed informative per incontri con operatori/utenti e
comunità di migranti;

Documentazione amministrativa del progetto nel suo complesso ;

Collaborazione attiva all’organizzazione del percorso formativo ;

Partecipazione ai vari tavoli istituzionali di progettazione e di monitoraggio/verifiche
intermedie del progetto.
b.
Ambito dei contenuti applicativi di progetto

Accompagnamento mlc e operatori durante i vari incontri del focus group;

Accompagnamento degli operatori e mediatori negli incontri e laboratori con le comunità
di migranti.
c.
Le domande ed eventuali riflessioni
Le donne descrivono un lento passaggio in cui la rappresentazione delle pratiche mutilatorie
subite si trasforma attraverso quella che alcune definiscono una “occasione per vedersi in un
altro modo”. Tale passaggio ha richiesto di affrontare questioni assai complesse che
schematizziamo nelle domande per i partecipanti ai focus con le mediatrici e agli incontri con le
donne:

I valori tradizionali sono ancora validi qui?

Esiste il rischio di mistificare il valore della tradizione per giustificare qualcosa di negativo?

Cambiare significa occidentalizzarsi o esistono altre vie?

Non si può “buttar via tutto”: cosa si può mantenere e cosa non serve delle pratiche
tradizionali di circoncisione?

La situazione è la stessa per adulti e bambini? La posizione dei figli che nascono in Italia è
la stessa dei loro genitori? E’ giusto che essi “credano” nelle stesse cose?
Dentro questa visione, e in una pratica di rete, la scommessa è stata quella di far circolare le
competenze e le risorse presenti sul territorio, inserendo elementi di confronto e
Esperienze di focus group tra operatrici e mediatrici culturali e di incontri con gruppi e comunità di migranti a Verona.
Percorso a cura dall’Associazione di Mediatori linguistico culturali “Terra dei popoli” - Novembre 2011-luglio 2012.
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mediazione/comprensione di mondi spesso sconosciuti (gli stranieri e gli italiani, gli operatori
socio-sanitari e gli utenti…), dove i destinatari stessi delle azioni potevano acquisire modalità
anche proprie ed autonome ed attivare i loro saperi e le loro risorse.
Si riportano qui di seguito alcuni passaggi significativi, alcune parole narrate da operatrici,
mediatrici culturali, donne e animatrici di comunità, sia durante il focus group sia all’interno
dei vari incontri realizzati con gruppi di donne, con il desiderio di impegnarci ad una
restituzione più completa e più narrativa delle esperienze vissute dalle donne all’interno
delle varie comunità incontrate.
“…. Non dobbiamo dimenticarci che noi partiamo da un contesto che, al di là di noi
singole persone, è un contesto che sanziona questo comportamento e giudica questa
pratica come una pratica negativa. Se così non fosse noi non saremmo qui, c'è una
legge che dà le risorse per essere qua, una legge che dà a noi dei vincoli istituzionali
e professionali. Quindi questo è un detto implicito ma è anche un detto e un dato. In
questo dato stiamo introducendo una cosa importante: posto che c'è una
dimensione formale normativa che fa parte di un discorso più ampio e che
costruisce l'altro, che non è neutro, io come operatrice mi pongo in quella
dimensione del mio agio e disagio, e cerco di immedesimarmi in un sforzo empatico,
compassionevole come volete dire. Questa cosa non la conosco può stare in una
dimensione di un disordine, comunque un non noto o comunque che non mi capita
di solito, ha senso che te la proponga in questo momento? Ha senso per la nostra
relazione utente - paziente? Nel qui ed ora della relazione c'è un discorso pubblico
generale che mi vincola come professionista, ma nel qui ed ora come operatore
posso fare la scelta di stare in ascolto e di mettermi in gioco o di non mettermi in
gioco......”
(Diario focus group, febbraio 2012).
Soggetti e saperi all’interno del percorso
Per rendere possibile la conoscenza del fenomeno relativo alle mutilazioni genitali femminili
(MGF) ci si è mossi tenendo uniti due binari: il sapere delle donne operatrici che lavorano
all’interno dei consultori, distretti e ospedali, delle mediatrici culturali provenienti da alcune aree
geografiche interessate a tali fenomeni, e il sapere di donne appartenenti alle varie comunità di
immigrati presenti sul territorio di Verona e Provincia.
Per quanto riguarda il sapere delle mediatrici culturali e il come rendere possibile l’utilizzo del
dispositivo della mediazione all’interno del lavoro, sono state coinvolte mediatrici culturali
provenienti da Nigeria, Ghana, Senegal, Guinea e Costa d’Avorio. Si tratta dei paesi dai quali
provengono la maggioranza degli africani che vivono a Verona. Per ogni paese si è cercato di
coinvolgere più di una mediatrice, tenendo conto dei gruppi etnici di appartenenza, così da
rendere possibile il confronto tra esperienze diverse all’interno dello stesso Stato.
Esperienze di focus group tra operatrici e mediatrici culturali e di incontri con gruppi e comunità di migranti a Verona.
Percorso a cura dall’Associazione di Mediatori linguistico culturali “Terra dei popoli” - Novembre 2011-luglio 2012.
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Le mediatrici avevano già operato all’interno dei servizi dell’ULSS 20, sono figure già conosciute
da alcuni operatori per la loro comprovata esperienza.
Per quanto riguarda la partecipazione delle donne appartenenti a varie comunità di
immigrati, si tratta di donne animatrici di comunità, appartenenti ad aree geografiche quali:
Nigeria, Ghana, Senegal, Eritrea, Somalia, Guinea, Guinea Bissau, Costa d’Avorio.
In alcuni casi si tratta di comunità numerose (come Nigeria, Ghana, Senegal), in altri casi si tratta
di comunità piccole (se noi consideriamo la percentuale di residenti immigrati provenienti da
quelle zone), dove però il fenomeno delle mutilazioni genitali femminili è molto diffuso.
Il coinvolgimento delle donne animatrici di comunità a nostro parere ha risposto a due
bisogni: quello di poterci confrontare con donne che hanno vissuto o sono in possesso di
informazioni su certe pratiche, e quindi hanno potuto permetterci di sentire/ragionare sulle
“motivazioni socio–culturali” e le implicazioni che tali pratiche hanno, e quello di poter lavorare
con le comunità di immigrati, permettendo loro di riflettere su tali fenomeni. Siamo partiti dal
Esperienze di focus group tra operatrici e mediatrici culturali e di incontri con gruppi e comunità di migranti a Verona.
Percorso a cura dall’Associazione di Mediatori linguistico culturali “Terra dei popoli” - Novembre 2011-luglio 2012.
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presupposto che si debba lavorare “con gli immigrati” e non discutere su cose “che riguardano
gli immigrati”. Questo per permettere la riflessione, il confronto, il cambiamento e la diffusione
di campagne di informazione, prevenzione e sensibilizzazione sulle varie tematiche relative alle
salute delle donne e sul fenomeno MGF.
Una mediatrice condivide con il gruppo“…. anche se ci sono dei pregiudizi, se uno
straniero, ad esempio un nigeriano o una nigeriana, ha sempre trovato pregiudizio
o ha sempre visto una cosa in un'altra maniera e quando un giorno arriva qualcuno
che ha voglia di comunicare, che comincia a informarle, vede una luce diversa, noi
posso dire che gli africani sono pronti….noi aspettiamo di vedere qualcuno che dica
sì io voglio conoscerti, darti il mio aiuto, il mio contributo, perché tu sei tu e io sono
io. Quindi noi aspettiamo di vedere qualcuno che arriva, e questo è una forza, un
passo avanti, qualcosa che può aiutare … ma c'è della strada da fare prima di
trattare certi argomenti come questo delle MGF...”
(diario focus group, gennaio
2012).
Per individuare le animatrici di comunità l’Associazione Terra dei Popoli ha
considerato/interagito con: le indicazioni delle singole mediatrici (le quali frequentano le
comunità di appartenenza), i responsabili di gruppi religiosi e centri culturali con i quali siamo in
relazione, in quanto impegnate su altri progetti (alcune comunità di immigrati si riuniscono
attorno a luoghi di culto) ed i responsabili di associazioni di immigrati. Si è trattato di
coinvolgere le associazioni di immigrati considerate idonee e riconosciute nel contesto
territoriale Veronese (in quanto associazioni che operano sul territorio, alcune già iscritte
nell’Albo Regionale delle associazioni di immigrati).
Infine, abbiamo considerato tutte le mappe di relazioni attorno al lavoro con donne migranti
esistenti sul territorio che potevano esserci d’aiuto nella costruzione di una rete di
collaborazione sulla salute delle donne straniere.
Esperienze di focus group tra operatrici e mediatrici culturali e di incontri con gruppi e comunità di migranti a Verona.
Percorso a cura dall’Associazione di Mediatori linguistico culturali “Terra dei popoli” - Novembre 2011-luglio 2012.
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3. Incontri e confronti tra donne: il contributo della mediazione culturale, dei
gruppi e delle comunità di migranti sul tema della salute e delle MGF. Quali
domande? Quali risposte? Quali approcci culturali?
Per aprire una riflessione più approfondita sui processi in campo, è stato di grande interesse e
coinvolgimento ricorrere al dispositivo della mediazione culturale, i cui principi permettono di
ordinare secondo logiche chiare quanto avviene sia nel processo migratorio sia nel mondo di
accoglienza. Il progetto realizzato ha avuto il merito di far conoscere in maniera più
approfondita il fenomeno MGF e costruire insieme un percorso che ha consentito di
affrontare queste tematiche in maniera efficace rispetto alla prevenzione e alla cura. Ha creato
le condizioni per:
a.
La costruzione dell’indice di lavoro e lemmario delle parole per nominarlo
(parole, termini, linguaggio, riferimenti legislativi, mappe fisiche e mentali) 33.
b.
La costruzione di un approccio metodologico-transculturale di lavoro e di incontro con le
donne e le comunità di migranti, affrontando le seguenti tematiche specifiche:
-La mutilazione dei genitali femminili vista dalle donne africane;
-Il ruolo della mediazione culturale e delle leadership nella diaspora africana rispetto alle
mutilazioni dei genitali femminili;
-Le mutilazioni dei genitali femminili fra tradizione e cambiamento: diritti, sessualità, identità;
-Le mutilazioni dei genitali femminili nell’esperienza dei servizi sanitari: interventi, conoscenza e
condivisione.
c.
Il confronto sulle norme culturali e sociali: mutilazioni dei genitali femminili e diritti umani.
Aspetti medico–legali della legge n. 7/2006.
d.
Lavorare su percezioni e sguardi a confronto. Istituzioni Veronesi incontrano le comunità.
e.
Comunicare le tracce del percorso.
Quando diciamo mutilazioni femminili stiamo aprendo non solo una parola ma stiamo aderendo
anche ad una configurazione, perché in realtà riguarda tanto le persone nella loro ricchezza,
nella loro civilizzazione, nel loro modo di essere e di stare nel mondo: all'essere moglie,
compagna al suo desiderio, la sua necessità di mettersi in relazione con altri, alle sue idee.
Vediamo che questa cosa ci porta molto lontano, oltre alla semplice ablazione, in particolare
33
La questione terminologica è stata oggetto di accesi e lunghi dibattiti anche in ambito internazionale. La dizione
“mutilazioni genitali femminili” è quella ufficiale voluta dall’Organizzazione Mondiale della Sanità, insieme all’Inter
African Committee, che rifiuta la dizione di “circoncisione femminile” comunemente adottata nei paesi d’origine della
pratica. Questo è stato uno dei passi compiuti dalla comunità internazionale, attraverso le Nazioni Unite, verso la
condanna e una politica di eliminazione di tali pratiche. (WHO, 1994, “Who leads public health action for the
elimination of female genital mutilation”, Press Release WHA/5; WHO, 1993, “World health assembly calls for the
elimination of harmful traditional practices”, Press Release WHA/10).
Esperienze di focus group tra operatrici e mediatrici culturali e di incontri con gruppi e comunità di migranti a Verona.
Percorso a cura dall’Associazione di Mediatori linguistico culturali “Terra dei popoli” - Novembre 2011-luglio 2012.
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questa pratica costruisce socialmente, quindi è qualcosa di molto profondo in relazione al
mondo esterno.
“… Non ha a che fare unicamente con gli organi genitali o con la sessualità, dice una
mediatrice del gruppo: ma è qualcosa che ha a che vedere con il mio essere. È
qualcosa che compare nel rapporto tra uomo e donna, tra madre e figlie, tra i generi
e le generazioni ..., questa cosa, aggiunge un’operatrice: dal punto di vista degli
operatori credo che sia molto importante, cioè se noi ci stacchiamo dall'idea che
mutilazioni genitali femminili se ci dimentichiamo di questa parola genitali e invece
pensiamo a delle pratiche che definiscono i rapporti tra le generazioni e tra i sessi...ci
può interessare assai...queste pratiche sono fortemente legate a quello che gli
antropologi e gli psicologi sociali definiscono processi di affiliazione, cioè sono
fondamentali nel definire chi sono ma chi sono in relazione ai gruppi in rapporto a
dei contesti simbolici che danno senso …”(diario focus group, febbraio 2012).
Durante l’intero percorso si è davvero potuto notare come i servizi sanitari svolgano un ruolo
fondamentale nella prevenzione delle MGF e nella promozione di momenti informativi e di
confronto sia con il nuovo contesto sociale e culturale, sia con donne provenienti da paesi dove
le MGF sono diffuse.
L’idea è sempre stata quella di mettere in pratica un lavoro svolto a più mani che intrecciasse
operatori socio-sanitari, mediatori culturali, ricercatori, donne italiane e straniere, gruppi,
comunità, associazioni ed istituzioni politiche ed amministrative del territorio.
L’elemento centrale del progetto è stato quello di ricorrere al dispositivo della mediazione
linguistico – culturale (MLC).
“… la questione delle mutilazioni genitali femminili è molto specifica. Serve all’intero
gruppo per osservare ed avere un punto di vista su questioni più ampie quali il
benessere della donna, della famiglia, della coppia ecc… Come diceva una
partecipante del gruppo: … per quanto mi riguarda il tema delle mutilazioni
genitali femminili ci serve per andare oltre, questo non significa eludere, tenerle da
parte, ma anzi, io credo significhi entrare abbastanza nel merito di cosa significa
per noi questo e da lì costruire come dire, o forse reinterpretare, riconfigurare un
po' quello che noi già facciamo, quelle che sono le nostre idee e competenze rispetto
ad un lavoro quotidiano che credo tutte facciamo. In questo caso credo che sia
sommamente fondamentale nei termini che è una risorsa enorme poter lavorare
insieme alle mediatrici, quindi poter lavorare insieme con chi è portatore o
portatrice a prescindere dal fatto che sia poi soggetto di questa pratica che però
porta uno sguardo altro, uno sguardo, un esserci diverso rispetto a questo
fenomeno. La scelta, l’idea è quella di cominciare a lavorare sulla questione
apparentemente più banale e anche più imprescindibile, che è il senso che noi diamo
a queste pratiche, intendendo con senso il più letterale, cioè che parole utilizziamo
Esperienze di focus group tra operatrici e mediatrici culturali e di incontri con gruppi e comunità di migranti a Verona.
Percorso a cura dall’Associazione di Mediatori linguistico culturali “Terra dei popoli” - Novembre 2011-luglio 2012.
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per descriverla e dove questo senso che noi abbiamo e nel quale però aderiamo a
una dizione che non è solo ufficiale ma che ha una storia. La dicitura internazionale
a cui noi siamo tenuti, sta nei documenti ufficiali, nei bandi, nei documenti dell’
OMS, ecc. Questa parola è la parola o le parole che noi usiamo per riferirci e si
potrebbe chiedere a che cosa, partendo da chi non è di madre lingua italiana, di
nominare, aprire le parole nelle rispettive lingue delle MLC che corrispondono al
termine MGF, cioè come lo si traduce? Che cosa significa esattamente?...” (diario
focus group, febbraio 2012).
In quest’ottica, e cioè aprire insieme le parole, cogliere i loro significati, i simboli e il senso del farsi
e dell’accadere delle pratiche nei vari contesti e realtà culturali, svela una dimensione
assolutamente importante capace di “guardare ai fenomeni umani tenendone in considerazione
la natura plurale, reggerne l’ambiguità e la contraddittorietà, mantenendo aperta la potenzialità
di cambiamento dei soggetti e dei contesti” (Federica de Cordova, pg. 113, 2011).
Il gruppo ha fatto emergere una serie si situazioni molto significative a vari livelli: dal pregiudizio
verso l'altro alla fatica di vedere l'altro in quanto persona specifica, al di là poi che sia italiano,
nigeriano, senegalese; la disponibilità a mettersi in rapporto con un altro, che può essere uomo o
donna, adolescente o anziano, ma anche la potenza di queste immagini preconfezionate da tutte
due le parti.
“… la differenza ci crea confusione, ci crea difficoltà e quando siamo in difficoltà non
troviamo le parole per descrivere l'altro, e credo che di questa cosa dobbiamo fare
tesoro perché ci farà arrivare a decidere: no, non ne parlo perché vedo che c'è una
cosa che in questo contesto non è significativa, in questo contesto non porta niente
di significativo per la relazione. Quello che ai miei occhi emerge abbastanza forte è
che comincia ad aprirsi nel momento in cui riusciamo a tenere dentro come
operatori, come mediatori e come utenti, la contraddizione delle nostre pratiche e
saperi sul corpo, sulla maternità, sull’essere donne …”(diario focus group, marzo
2012).
Esperienze di focus group tra operatrici e mediatrici culturali e di incontri con gruppi e comunità di migranti a Verona.
Percorso a cura dall’Associazione di Mediatori linguistico culturali “Terra dei popoli” - Novembre 2011-luglio 2012.
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Detto questo, il punto da cui si è partite all’inizio del percorso è stato: non è molto interessante,
come operatori, e ci limita molto pensare alle mutilazioni genitali femminili come un problema
sanitario e, invece, diventa più interessante pensare a queste pratiche come pratiche sociali
complesse, cioè che coinvolgono diverse dimensioni delle persone, degli uomini e donne che sono
in relazione con noi, e che appartengono a mondi non immediatamente comprensibili.
Come si dice? Quali parole? Come lo si traduce?
“[….Nella mia lingua ibo si dice “ibi ugwu” è l’atto di tagliare. Lì ci sono queste due
parole che vuol dire tagliare, “ugwu” si usa nella circoncisione maschile e per il
femminile si dice “ibi ugu nwayi,” nwayi. Il senso è tagliare le parti...e quindi
tagliare parti dei genitali al femminile o al maschile, quindi può essere anche la
circoncisione per i bambini maschi. ..quindi il veicolo di queste parole
fondamentalmente è il taglio...”
Invece una mediatrice del Senegal, dice che non tutte le parole trovano un senso e
collocazione nella relazione tra i due mondi :ad. esempio il termine mutilazione dei
genitali femminili nella mia lingua wolof si dice Kharafal – Djongal che vuol dire
circoncisione sia al maschile che al femminile. lì si può usare più di una parola per
dire la stessa cosa. Kharafal è più morbida, la parola djongal è un pò volgare... ma
significa, comunque, sempre togliere/ tagliare. Un’altra differenza è che ci sono
altre etnie in cui l’usanza/pratica è solo per gli uomini e in altre è per entrambi i
sessi. Si usa il termine senza esprimere a quale genere si riferisce. Per l’etnia
Toucouleur la parola usata è Hadade - Dioulnouder.
Altra distinzione importante è che quando diciamo la parola “tagliare”nel
linguaggio comune diciamo dague , come tagliare carne, erba...però quando si
parla di tagliare gli organi genitali la parola usata è djongal anche se non viene
nominato il sesso , perché i genitali hanno un nome ma non si dice, non viene quasi
mai nominato per rispetto : E’ un tabu.
In questo scambio si esplicita che normalmente queste parole non vengono dette
perché volgari e allora si dice: “Awra” per rispetto; comunque le mamme dicono:
nascondi quella parte del tuo corpo, i tuoi organi ...
-E quando andate dal medico?
-Quando una donna va dal medico dice: ho un problema nella mia parte bassa , nel
mio davanti…(sama suuf, sama kanam…)
In questo scambio, all’interno del focus group un’operatrice ha condiviso con il
gruppo che quando andava a lavorare in un consultorio che si trovava in una zona
lontana dal centro della città, usavano la parola “natura”.
Un’altra mediatrice dice: “… nella mia lingua del Ghana, non si fa questa pratica in
gran parte del paese, soltanto in alcuni gruppi al nord del paese e quindi non hanno
neanche il nome specifico. Comunque nella lingua nazionale si dice:“circumcison” o
Esperienze di focus group tra operatrici e mediatrici culturali e di incontri con gruppi e comunità di migranti a Verona.
Percorso a cura dall’Associazione di Mediatori linguistico culturali “Terra dei popoli” - Novembre 2011-luglio 2012.
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“practice of female “circumcision” e solo al maschile, nella lingua akan si dice “
twa begnin” e nella lingua Ashanti si dice “twh dua…”.
“…In Camerum si dice sirkeut che vuol dire tagliare una parte dell’ apparato
genitale maschile, tagliare la parte specifica... tagliare il prepuzio.
“…In Guinea la parola che si usa nella lingua Malinké è Kileg-Digitongu Abluzione
o pulizia. Entrambe le parole possono essere usate per descrivere la pratica…”](testi
tratti dal diario focus e dagli incontri di comunità, gennaio-marzo 2012).
Dalla riflessione l'elemento che emerge è quello del taglio, però un taglio speciale perché non è il
taglio che si usa quando si taglia un dito o per tagliare la carne, il pane, ecc… è un taglio che a
volte sottintende proprio una parte del corpo specifica, ma ci si chiede anche che non è tanto
definita in termini di organo. Noi quando parliamo di genitali parliamo di organi del corpo, allora
c'è qualcos'altro che viene espresso in questo tagliare, per esempio come ci risuona in italiano:
questo attiva altri pensieri, mette un po' all’erta perché tagliare non è una cosa piacevole o neutra
è una cosa quanto meno pericolosa. Ci chiediamo sul verbo “tagliare”. “… Subito suona come
pericolosa se riferita al corpo...” Altre dicono “per me tagliare è modificare una situazione”, “…mi
viene in mente tagliare i capelli, non per forza deve essere una cosa negativa …però il più delle volte
le si attribuisce un certo valore, … essere più bello per una situazione... oppure un cambiamento
drastico... o ad esempio un taglio, tagliare con il passato un senso più figurato, quindi un
cambiamento, una modifica di uno spazio, di un oggetto, di una situazione”.
Quel che è insito alla circoncisione femminile è che si interviene direttamente tagliando un
organo (il clitoride) e ledendone la normale funzionalità. Si è visto che le espressioni usate invece
nelle lingue locali africane si riferiscono piuttosto ad altri concetti, quali purezza/purificazione (in
senso religioso), pulizia (nel senso di igiene), il taglio/l’atto del tagliare, il cucire/ridurre nonché
appartenere, coraggio (senso culturale).
Dentro queste parole si è potuto vedere che ci sono tanti aspetti da tenere in considerazione. Ci
sono tante possibilità, e pensiamo alla differenza anche proprio a partire dai nostri punti di vista,
rispetto alla cultura di riferimento dove tematiche così delicate vanno trattate con cura e con
competenza. Sembra quindi che, oltre a conoscere poco o nulla delle MGF, in generale gli/le
operatori/trici dovranno essere preparati/e sufficientemente ad affrontare il delicato compito
della mediazione fra culture diverse.
In tal senso la proposta delle donne è quella di confrontarsi e di mediare i significati, portando
alla luce le conseguenze della pratica per la salute delle proprie figlie. Il tema proposto dunque è
quello dell’educazione, dell’informazione e dei futuri progetti di prevenzione. Le donne negli
incontri di gruppo nelle comunità hanno condiviso:
[“… io quando ero bambina...per fortuna sono venuta via, lo hanno fatto a mia
sorella e avevo quattro anni e mi ricordo che tenevano ferma questa povera ragazza
e lei urlava... Lei aveva circa 20 anni, quando una diventa ragazza da noi i genitori
Esperienze di focus group tra operatrici e mediatrici culturali e di incontri con gruppi e comunità di migranti a Verona.
Percorso a cura dall’Associazione di Mediatori linguistico culturali “Terra dei popoli” - Novembre 2011-luglio 2012.
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devono fare questa “cosa” e poi si fa una festa, ...però è una cosa traumatica... sento
ancora le grida della mia sorella!...”
“…io ricordo il mio giorno...avevo circa 18 anni...è come si fosse oggi...” dice un’altra.
“… siccome sono cresciuta qua non l’ho mai fatta, grazie a Dio, perché sono rimasta
mezza traumatizzata, ho visto mia sorella che è rimasta mezza morta e mi è
rimasto qua...”
“…io sono cresciuta in un'altra parte del mio paese e non sappiamo per certo le cose
che si fanno, ma quando siamo cresciute ci hanno portato giù in un altro villaggio,
io e mia sorella grande e ce l'hanno fatto in un solo giorno e mi è rimasto...fino
adesso...una cosa tremenda perché...”
“...quindi per loro è un fatto importante però io come bambina, non dimenticherò
mai...”
“...io non parlo bene l'italiano, io ho 35 anni e anch'io l’ho fatto ...ma io lo so, mia
mamma quando nasce una bambina fa...c'è una crema, ti fai cosi ..per mesi...(gesto
di un massaggio)…”
“...quando è nata mia figlia ho telefonato a mia mamma...compra quella crema
fresca...prendi l’acqua calda e fai messaggio nella parte intima…” Quindi il problema
è il clitoride, non deve venire fuori… chiede la ginecologa. Sì, è proprio così! ...nel
villaggio dicono alle ragazze che non lo hanno fatto: questa ragazza è una
selvaggia...” ..da me si dice muan che vuol dire una donna fatta, giusta...”](dal diario
incontri con le donne nelle comunità e nei gruppi, aprile/maggio 2012
Le testimonianze raccolte durante gli incontri esprimono non solo posizioni molto precise per sé,
per le figlie e per le donne della famiglia in merito alla pratica, ma anche molte preoccupazioni di
come gestire i cambiamenti in questo contesto migratorio.
Esperienze di focus group tra operatrici e mediatrici culturali e di incontri con gruppi e comunità di migranti a Verona.
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4. La promozione della salute delle donne straniere e la relazione con le
comunità e gruppi di migranti. Un impegno condiviso per nuove progettualità.
I luoghi e i punti di riferimento delle comunità di migranti nel contesto veronese sono multiformi
ed estremamente vitali. Sono spazi per lo più relazionali attorno a progetti di mutuo aiuto, a un
luogo, una chiesa, un progetto di solidarietà con il proprio paese d’origine o ad una persona, un
“referente/leader di comunità”.
«Le comunità hanno una prima funzione aggregativa essendo spazi fisici e simbolici, dove le
persone sanno di potersi incontrare periodicamente, avendo obiettivi, interessi e intenti comuni
[…] diventano luoghi cruciali per la diffusione di informazioni sull’accesso ai servizi e sulla realtà
italiana e i suoi cambiamenti».
Il percorso richiedeva uno sforzo nel cercare di coinvolgere il più possibile tutti i gruppi e le
comunità interessate al fenomeno, non solo per il valore simbolico e diplomatico in processi di
costruzione di una società che sa integrare, ma anche per non far ricadere sulle donne che si
voleva intercettare la responsabilità di comunicare -dialogare da sole con le istituzioni coinvolte
nel progetto. Si trattava, da parte delle mediatrici, di sviluppare relazioni di fiducia e di
collaborazione con i leader delle comunità, per facilitare i processi successivi di relazioni di
scambi con le donne. Si è potuto, inoltre, osservare la qualità del protagonismo delle donne nella
costruzione dei gruppi e delle reti di mutuo-aiuto e come esse sono in relazione con il contesto
veronese.
Le donne immigrate, indipendentemente dalla loro disponibilità e dalla ricerca del
cambiamento, non vivono solo tra due culture, ma sono costrette a fronteggiare ed elaborare i
vincoli e le restrizioni a cui sono sottoposte nei Paesi di origine e a sviluppare delle modalità di
comportamento nuove, che a volte non sono né quelle del Paese di origine né quelle del Paese di
accoglimento. Esse sono chiamate a reinterpretare il ruolo femminile e spesso il loro ruolo
all’interno del nucleo familiare, secondo un processo transculturale.
Sono chiamate a costruire “un ponte” fra il qui del Paese ospitante e il là del Paese d’origine; fra
il qui rappresentato dalla famiglia e da una vita “pubblica” di relazioni nel paese ospitante e il là
della cultura di origine con cui fare i conti, e con tutte le modificazioni possibili che comporta la
migrazione .
Negoziazioni, aggiustamenti, adattamenti che ingenerano situazioni di insicurezza e di
isolamento che possono originare disagi psichici, malattie psico-somatiche, così come è emerso
nel corso delle nostre conversazioni.
Il processo di cambiamento che caratterizza la donna immigrata non investe solo lei, ma tutto il
gruppo, il sistema culturale di riferimento a cui appartiene. Questo processo di cambiamento,
che riguarda in misura diversa tutte le donne della migrazione, sfida in misura specifica la donna
rispetto ad un atteggiamento ambivalente tra salvaguardia della sua personale identità, quella
Esperienze di focus group tra operatrici e mediatrici culturali e di incontri con gruppi e comunità di migranti a Verona.
Percorso a cura dall’Associazione di Mediatori linguistico culturali “Terra dei popoli” - Novembre 2011-luglio 2012.
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del paese di origine e il desiderio di “emancipazione” o quanto meno la possibilità di incontrare
un modo per riposizionarsi nella nuova realtà.
Si è ritenuto di fondamentale importanza coinvolgersi e lavorare non solo con le donne, ma
anche cogliere l’opportunità di interagire in modo più articolato e ampio con i vari gruppi e con
gli uomini nelle comunità. Da qui è nata la proposta di promuovere la partecipazione di tutti i
gruppi ad un incontro pubblico.
Le donne costituiscono una parte importante nel processo dei flussi verso la stabilizzazione.
Prima preparano il terreno, poi contribuiscono al ricongiungimento familiare, poi cominciano a
creare le coppie miste, ad avere i figli e a farli crescere nel contesto italiano. Sin dall’inizio
s’incomincia a fare i conti con le differenze (come si educa, come si cura, gli stili di vita ecc…) con
i modi di dire e di fare di un contesto. Percorsi di questa natura, trattando tematiche così
delicate (come la salute, la sessualità, la maternità, la filiazione …) fanno vedere chiaramente
che se non si è attenti e rigorosi nell’approccio e nella metodologia di lavoro nei vari contesti
socio-sanitari si può arrivare a chiedere alle donne di fare un salto «alla cieca dalla tradizione alla
modernità», senza in compenso rassicurarle, garantendo un accompagnamento in cui farsi
carico del cambiamento sia a livello personale, familiare, culturale e di relazione con la propria
appartenenza.
È innegabile che i principali punti di forza sono stati quelli di poter osservare il movimento
inter-generazionale nell’ambito della salute delle donne e nello specifico sulle MGF, le
migrazioni come sistemi familiari e, di conseguenza, la crescita dei figli nella migrazione come
base dell’esperienza.
Questo percorso ha permesso di creare:
Un luogo e un momento-tempo per costruire narrazioni personali e di gruppo a favore
della salute delle donne;
Un’opportunità di socializzazione all’interno dei gruppi di lavoro, ma anche all’interno
dell’intero gruppo nelle comunità;
Uno stimolo per gli operatori a ripensare l’azione di prevenzione e di produzione della
salute all’interno del gruppo, sia in merito al lavoro metodologico con l’utenza straniera, sia al
lavoro di interazione con l’intero gruppo;
La possibilità di “far imparare” alle donne migranti – ma anche agli operatori - ad esporsi
individualmente o in gruppo, aiutandoli a dare forma alle proprie storie e dare vita ai propri
percorsi, valorizzando la cultura “narrativa” di appartenenza di ogni partecipante;
Stimoli culturali e strumenti d’interpretazione critica nei confronti di ciò che percepiamo
dell’esperienza di relazione e convivenza fra soggetti che appartengono a culture diverse;
L’apprendimento all’ascolto reciproco sia sulle “biografie personali”, sia sui percorsi
migratori dei partecipanti, sulle forme di presa di cura di sé e dei gruppi;
Esperienze di focus group tra operatrici e mediatrici culturali e di incontri con gruppi e comunità di migranti a Verona.
Percorso a cura dall’Associazione di Mediatori linguistico culturali “Terra dei popoli” - Novembre 2011-luglio 2012.
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Esperienze attraverso Il “gioco dello specchio” fra stranieri e italiani sui modi di dire e di
fare delle culture e delle plurime appartenenze sul tema della salute.
E’ assolutamente positivo che la Regione, attraverso le Ulss, abbia promosso programmi in
merito a tematiche così delicate. Certamente è di fondamentale importanza rendere queste
azioni parti integranti dei sistemi socio-sanitari e di cura delle donne, delle famiglie e delle nuove
generazioni (soprattutto per quanto riguarda l’accesso ai servizi). È più che mai necessario,
attraverso campagne di mobilitazione e sensibilizzazione, intercettare i cittadini italiani e
stranieri, all’interno dei contesti territoriali, in percorsi aperti e preposti alla conoscenza e allo
scambio reciproco sul tema della salute.
Il tema dell’accessibilità-fruibilità-riproducibilità delle esperienze resta una scommessa
metodologica, educativa e politica per promuovere salute e benessere per tutti.
È stato possibile, attraverso i gruppi, creare uno spazio significativo di ascolto, da parte delle
donne, delle nostre informazioni e, da parte nostra, dei loro vissuti, di condivisione del valore del
prendersi cura del proprio corpo, della propria sessualità. Il confronto spesso si è allargato ai
temi che riguardano la donna al di là del fenomeno MGF. Si è parlato tanto dei figli già esistenti,
a volte lasciati al paese d’origine, del lavoro, delle relazioni e della sfera della sessualità con i
compagni, della difficile condizione di donne immigrate. È importante sottolineare l’unicità di
questo spazio di incontro fra donne che provengono da realtà e da mondi così diversi, e che si
ritrovano insieme, uguali, semplicemente donne. Un’indicazione importante portata dalle donne
e dalle comunità incontrate sarebbe quella di poter proseguire questa esperienza, ma,
soprattutto, riuscire a estenderla ad altre realtà ospedaliere, comunali, educative. Si tratta di
interventi che possono avere uno scopo preventivo e di empowerment della donna rispetto alla
propria salute, obiettivi che anche il Ministero della Sanità ha posto come fondamentali
nell’ottica di miglioramento della salute pubblica.
Infine il percorso ha reso possibile non solo una maggior comprensione del fenomeno ma
soprattutto ha potuto suggerire, sia dal punto di vista metodologico, sia dal punto di vista delle
politiche socio-sanitarie, l’importanza di collocare le MGF in continuità con il cambiamento o i
cambiamenti della migrazione. Infatti è ampiamente condiviso che «le MGF si fondano su
credenze, valori e consuetudini che fanno riferimento ai paesi di origine; affrontare il tema solo
in riferimento al contesto normativo, culturale e sociale italiano, produce una frattura tra il
prima e il dopo la migrazione e rende la ricomposizione unitaria dell’identità del migrante
difficoltosa». (Federica e Angela Savio, pag. 159, 2011 ). In questo senso è di fondamentale
importanza collocare il discorso sanitario sulle MGF all’interno di un contesto più ampio. Ciò
richiede ai servizi non solo di dotarsi di strumenti specifici (formazione del personale,
mediazione linguistico culturale, traduzioni, produzione di materiali plurilingue, ecc …), ma
anche di imparare a gestire e ad affrontare la comunicazione e la relazione secondo un
approccio interdisciplinare e multi professionale delle MGF, all’interno dei vari servizi sociosanitari così come nelle comunità presenti nel territorio.
Esperienze di focus group tra operatrici e mediatrici culturali e di incontri con gruppi e comunità di migranti a Verona.
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Esperienze di focus group tra operatrici e mediatrici culturali e di incontri con gruppi e comunità di migranti a Verona.
Percorso a cura dall’Associazione di Mediatori linguistico culturali “Terra dei popoli” - Novembre 2011-luglio 2012.
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RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI
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- Amselle, J.- L., Logiche meticce. Antropologia dell’identità in Africa e altrove, Bollati Boringhieri,
Torino 1999.
- Bestetti G., Sguardi a confronto, Collana Politiche e servizio sociali, F.Angeli, 2000
- Castiglioni M., (a cura di), Identità e corpo migrante. Marchi sessuali femminili, Guerini e
Associati, Milano 2011.
- Cristina Mariti, Donna migrante. Franco Angeli 2003.
- De Cordova Federica e Angela Savio, Un approccio metodologico transculturale allo sviluppo di
comunità, Un’esperienza di lavoro sul tema delle MGF- ricerca-azione sister’s care, in Marta C. (a
cura di) Identità e corpo migrante, Milano 2009.
- De Cordova Federica, Il corpo delle donne migranti tra assoggettamento e autodeterminazione,
in questioni sul corpo in Psicologia sociale - giornata di studio Università degli Studi di Milano –
Bicocca, maggio 2010.
- De Micco Virginia, Martelli Pompeo, Passaggi di confine. Etnopsichiatria e migrazione, Liguori
1993.
- Dalal F., Prendere il gruppo sul serio. Raffaello Cortina, Milano 2002.
- Gabriel Maria Sala, (a cura di), Pensare la mediazione. Pratiche ed esperienze formative,
Università degli studi di Verona – Master in Mediazione Culturale, P.12, 2003.
- Jervolino Domenico, Conversazioni corpo a corpo, a proposito del dialogo Ricoeur-Changeux, “Il
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- Mazzara B.M. (a cura di), Prospettive di psicologia culturale. Modelli teorici e contesti d’azione,
Carocci, Roma 2007.
- Moro M. Rose, Maternità e amore. Quello di cui hanno bisogno i bambini per crescere bene qui e
altrove, Frassinelli 2008.
- Morrone A., P. Vulpiani, Corpi e simboli: immigrazione, sessualità e mutilazioni genitali femminili
in Europa , Armando editore, Roma 2004.
- Monzini P., Il mercato delle donne, Saggi Donzelli, Roma, 2002.
- Younis TAWFIK, La straniera, Bompiani, Milano 1999, Liguori editori, Napoli 1993.
Informazioni su www.stopfgm.org
Esperienze di focus group tra operatrici e mediatrici culturali e di incontri con gruppi e comunità di migranti a Verona.
Percorso a cura dall’Associazione di Mediatori linguistico culturali “Terra dei popoli” - Novembre 2011-luglio 2012.
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DIALOGO,
SENSIBILIZZAZIONE E PREVENZIONE DEL DISAGIO SUI TEMI LEGATI
ALLA SESSUALITÀ ATTRAVERSO CORSI DI LINGUA ITALIANA
A cura di Nigerian Woman Association, Associazione di volontariato
Nigerian Women Association è un’ associazione di volontariato, costituta nel Marzo del 2004, da
donne nigeriane provenienti dai vari gruppi etnici della Nigeria, residenti a Verona e provincia, e
nasce per assistere socialmente i cittadini Nigeriani nel territorio. E’ iscritta al registro regionale
L.R 9/1990, art. 7 Registro regionale delle associazioni, enti e organismi che operano con
continuità a favore degli immigrati extracomunitari.
Un obiettivo importante dell'associazione è quello di mantenere viva la cultura d'origine tanto che
ha fatto suo il motto "OUR CULTURE, OUR PRIDE".
Dal 2004 NWA ha promosso, organizzato e partecipato a varie iniziative come la danza tribale delle
varie etnie nigeriane, i laboratori dei giochi tradizionali, la musica tradizionale e moderna da vivo,
cibi e bevande tipiche della Nigeria per favorire lo scambio culturale, la conoscenza della cultura,
delle tradizione e delle usanze della Nigeria
L'associazione NWA promuove valorizzazione della cultura nigeriana e il confronto con quella
italiana favorendo l'inserimento delle donne nigeriane nel tessuto sociale veronese e di conseguenza
anche l'inserimento delle loro famiglie.
Collabora con altre associazioni e con gli enti locali per favorire i processi di integrazione.
Si propone di realizzare le seguenti attività per l'anno:
- accompagnamento ed educazione ai servizi territoriali;
- monitoraggio ed analisi dei bisogni dei cittadini nigeriani;
- fornire supporto ed orientamento alle famiglie ed ai minori in condizioni di disagio;
- fornire supporto e consulenza nell'accesso ai servizi socio-sanitari con particolare riguardo alla
maternità ed alla cura della prima infanzia.
Nel mese di Giugno 2012, ha concluso un’iniziativa nell’ambito del progetto volto alla formazione
e sensibilizzazione sul tema delle mutilazioni genitali femminili, attraverso un lavoro di dialogo,
sensibilizzazione e prevenzione del disagio sui temi legati alla sessualità, utilizzando corsi di lingua
italiana.
Presidente dell'Associazione "NWA"
Ajibola Oluwakemi Victoria
NWA - Nigerian Women Association
(iscritta all’Albo Regionale ai sensi dell’art.7.L.R.9/90 )
Sede legale: Via Belvedere, 78 – 37131 Verona C.F.: 93163470235
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NWA - Nigerian Women Association
(iscritta all’Albo Regionale ai sensi dell’art.7.L.R.9/90 )
Sede legale: Via Belvedere, 78 – 37131 Verona C.F.: 93163470235
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NWA - Nigerian Women Association
(iscritta all’Albo Regionale ai sensi dell’art.7.L.R.9/90 )
Sede legale: Via Belvedere, 78 – 37131 Verona C.F.: 93163470235
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“Era il giorno di carnevale, la festa delle trasgressioni e del dissacrante, quando ci siamo incontrate
per la prima volta a Casa di Ramia per parlare di tradizioni. Eppure, i racconti ci hanno subito
parlato di tagli, un segno proprio del trasgredire. In questo paradosso, di non potere nettamente
identificare e distinguere tra gesti di tradizione e trasgressione, ci siamo soffermate poi lungo tutto il
percorso.
La prima a parlarci di tagli è stata Asma. Nella sua famiglia, in Tunisia, non si usava praticare
questo rituale, il tasfih, ma quando era bambina, un giorno, sua madre l’aveva accompagnata da una
vicina. I suoi genitori erano divorziati e le altre sorelle, nate dal secondo marito, non hanno vissuto
quest’esperienza, però Asma era cresciuta senza un padre. Sua madre aveva paura che potesse
capitarle qualcosa di brutto, per strada o a scuola. Asma aveva bisogno di una protezione in più. Mi
ha fatto questi tre segni sulla gamba con una lama, è uscito il sangue. Ha preso l’uva con il sangue,
per sette volte, ho mangiati tre chicchi e quattro li ho buttati, o al contrario, non ricordo, dicendo
queste parole: io sono muro e l’uomo è il filo. Dopo, non ci ho più pensato. Potevo uscire senza
problemi finalmente, nessun uomo avrebbe potuto farmi del male, i tagli lo avrebbero reso
impotente. E quando ho dovuto essere pronta per sposarmi, sono tornata da questa donna, ha
riaperto i tagli, pronunciando la stessa formula al contrario: io sono il filo e l’uomo è il muro. 34
Siamo partite quel giorno con l’idea che un taglio può proteggere dalla sfortuna e dalla violenza,
rende libera di trasgredire le soglie di casa. Ad ascoltare la storia di Asma eravamo in nove. Oltre a
lei e sua nonna, a Najoua e Jennifer, c’erano Victoria, la presidente della Nigerian Women
Association, ideatrice e responsabile del progetto, Daniela l’ostetrica che da lì in poi ci avrebbe
accompagnate attraverso i dubbi e le paure relative alla gravidanza, al parto e alla contraccezione,
Elena la responsabile di Casa di Ramia, Noura la mediatrice tunisina ed io, che avevo il compito di
curare l’apprendimento della lingua italiana.
Man mano siamo diventate una ventina, e le questioni sempre più complesse e sfaccettate secondo i
punti di vista: tagli ed escissioni, circoncisioni, incisioni che curano, aprono, mutilano, chiudono
vagine, piedi, clitoride, guance, perineo, pance, gambe. Il venerdì pomeriggio il salone del centro
interculturale delle donne si trasformava nello spazio di parola che Victoria ed Elena avevano
immaginato, dove potere nominare il piacere e la paura, il dolore e la rabbia. Senza sentire il peso di
un giudizio. Da febbraio a luglio, sedute o sdraiate sul tappeto di lana nero, tra cuscini e tè, ci siamo
ritrovate: diverse generazioni di donne, dai sessanta ai vent’anni, nigeriane, etiopi, ghanesi, ragazze
di seconda generazione, tunisine, italiane. Tutte meticce per sangue, esperienza, migrazione, amore.
Sapevamo sin dall’inizio che era possibile usare le nostre tante lingue, senza esclusione. Per questo
Janet si sedeva accanto a Patient e al suo pancione, Sandra era pronta a tradurre i discorsi in pidgin
english, Margherita stava vicina a Tedla a leggere e scrivere con lei, per lei.
34
In arabo le formule sono rispettivamente : « Ana h’it’, weld ennas khit’ » e « Ana khit’, weld ennas h’it’ », cfr.
Ibtissem Ben Dridi « Est-ce que ça marche ? » À propos du tasfih, rituel protecteur de la vertu des jeunes filles
tunisiennes in L’Année du Maghreb, Volume VI, Dossier « Sexe et sexualités au
Maghreb : essais d’ethnographies contemporaines », CNRS EDITIONS, pp. 93-116.
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Tra le prime cose, abbiamo imparato che potevamo anche interrompere il flusso del discorso: non
ho capito, puoi ripetere ? era la formula magica. Ci siamo date il tempo di soffermarci sulle parole
ed i significati, ripeterne innumerevoli volte i suoni, esercitando la bocca a movimenti
apparentemente ridicoli, il respiro alla pronuncia, le orecchie all’ascolto. Abbiamo anche cantato,
suonato, giocato, preparato la ceretta con lo zucchero e il limone secondo la ricetta, grazie alla
maestria di Noura. La maggior parte delle volte, però, abbiamo letto ad alta voce e ci siamo
raccontate pezzi delle nostre vite. Le abbiamo immaginate come dei gomitoli di lana, i nodi stretti
indicavano i passaggi. Nascere, vivere il primo mestruo, provare piacere, entrare in relazione con il
sesso, attraverso il sesso, partorire. I testi che ho proposto al gruppo parlavano di questo, articoli di
giornale o estratti di libri femministi e di antropologia. Altri testi abbiamo cercato di comporli noi
stesse perché ci orientassero per attraversare con attenzione le domande che emergevano
costantemente dalle presenti: Fino a che punto conosciamo il nostro corpo? Siamo pronte a
rispettarlo, facendolo rispettare? Avrò mai un figlio? Qual è la sensazione del parto? Quali sono le
pratiche matrimoniali in Italia, in Ghana, in Tunisia? E’ vero che la donna sia solo strumento per
accontentare il piacere dell’uomo? Il piacere è una cosa importante nella vita di ognuna? Cosa per
noi?
Abbiamo dedicato uno spazio di esplorazione intorno ad ogni questione, senza cercare risposte
univoche. Sul piacere ci siamo soffermate diversi incontri. Durante uno di questi abbiamo visto
insieme uno spezzone del film Il canto dello spose (2008), della regista francese-maghrebina Karin
Albou, ambientato a Tunisi nel 1942. In una scena di prima notte di nozze, la giovane coppia fa
l’amore mentre tutti aspettano fuori della stanza la prova della verginità e della forza della
deflorazione: il sangue sulla stoffa. In verità non era la prima volta che gli sposi si amavano. Per
evitare il disonore, il ragazzo con un coltello fa un taglio su un lato del piede di sua moglie.
Macchia una stoffa del sangue ed esce dalla stanza sbandierandola, come un trofeo. Si trasforma
infatti in una festa per tutta la famiglia. Questa scena ha suscitato una discussione intensa perché la
tradizione appare trasgredita e preservata allo stesso tempo. Il taglio al piede la tradisce infatti, ma
non pienamente, perché in apparenza sposa le aspettative di chi la detiene. Istituisce una nuova
complicità tra gli sposi, ma perpetua uno status quo in cui l’uomo è riconosciuto e si riconosce
forte, depositario dell’onore conferitogli dalla verginità della sua sposa. Parlando tra di noi di questa
scena, abbiamo creduto che, in parte, il nodo si sciogliesse qui: nel non credere che trasgredire una
tradizione possa essere in sé la soluzione per sottrarsi al suo potere. Si tratta di coglierne il senso
profondo, le potenzialità, separarla dalla violenza che porta in sé, magari infine rifiutarla,
trasformarla radicalmente”.
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Da questa posizione, abbiamo detto il gusto che sentiamo quando pronunciamo o ascoltiamo le
parole che nominano il nostro sesso. Ne è venuta fuori questa poesia collettiva, che, in chiusura, vi
regaliamo:
“Noce caramellata e salata
mare e ondata
lenzuola macchiate
blood
un’esperienza non dimenticata
tesoro da gestire con cura
speciale amore
muschio umido e sapore
di mare
traboccante libertà
un momento inoubliable:
ho un peperoncino in vagina
oppure la mia vagina è come un peperoncino?”
A cura di Maria Livia Alga
per NIGERIAN WOMAN ASSOCIATION
NWA - Nigerian Women Association
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PARTE TERZA
INCONTRO PUBBLICO
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2 GIUGNO 2012
SALA CONVEGNI – GRAN GUARDIA VERONA
15.00 - Saluti dalle autorità:
· Ulss 20
· Comune di Verona
· AOUI – Azienda Ospedaliera Universitaria Integrata
Salute delle donne migranti: implicazioni socio-sanitarie e risposte del territorio.
15.30 - Vite in cammino: docu-fiction sulla salute delle donne migranti
16.00 - MGF legge n°7/2006: dalla formazione al lavoro sul campo.
16.15 - “Guardare ed essere viste” : parole di donne, parole di salute - apprendimenti di un
percorso e prospettive di genere .
Intervengono:
Operatrici dell’Ulss 20, Mediatrici Culturali e Donne migranti
17.00 - La salute delle donne straniere e comunità di migranti. Un impegno condiviso.
Intervengono:
· The Ghana Nationals Association of Verona;
· Associazione “GORE – ONESTA’ ” Senegalesi di Verona e Provincia
· Centro Islamico di Verona
· Comitato di solidarietà’ con il popolo Eritreo
· Associazione dei cittadini della Guinea Verona
· Associazione Nigeriana Unita
· Associazione "A.I.G.B.I. - Associazione Immigrati Guinea Bissau in Italia
· NWA - Nigerian Women Association
. Coordinamento Migranti di Verona
· Anglophone African Catholic Community - San Giacomo
18.00 - Nuove progettualità per la promozione della salute: la cura attraverso la prevenzione
122
123
SALUTI DELLE AUTORITÀ
35
Maria Scudellari: Buongiorno a tutti, sono qui per dare avvio al lavoro della giornata. E’ un
lavoro organizzato dall’Ulss 20, in collaborazione con l’Azienda Ospedaliera Integrata e col
Comune di Verona, che oggi ha messo a disposizione questo magnifico luogo, così significativo,
collocato al centro della nostra città.
Per il Comune, passo la parola alla dott.ssa Cinzia Albertini, dirigente dell’Ufficio delle Pari
Opportunità e Cultura delle differenze.
Cinzia Albertini: grazie a tutti voi e buongiorno. In questa giornata festiva (è il 2 giugno!) credo
che i complimenti vadano a tutti per la presenza. Io innanzitutto devo portare i saluti del nuovo
Assessore ai Servizi sociali e Pari Opportunità, Anna Leso, che avrebbe voluto essere presente
oggi però purtroppo non ha potuto esserlo per un impegno inderogabile. E’ molto dispiaciuta ma
speriamo possa essere presente per i prossimi incontri.
Stiamo lavorando insieme da molti mesi, anzi credo da più di un anno, su questo progetto così
interessante e significativo. Credo che sia stato molto importante, non solo per le Istituzioni
coinvolte, ma anche per la comunità italiana e le comunità straniere, lavorare insieme per
approfondire tematiche che effettivamente esistono ma che sembrano difficili da avvicinare.
Tematiche che portano ovviamente il peso della tradizione e che effettivamente poi emergono
all’interno delle famiglie. Noi abbiamo creduto opportuno ragionare in particolare sull’aspetto
sanitario e sull’aspetto culturale perché credo che questi aspetti siano effettivamente
imprescindibili. Come Comune di Verona abbiamo anche messo a disposizione gli spazi che
abbiamo, in particolare credo che tutti e tutte conoscano lo spazio di Casa di Ramya, che si trova in
Veronetta, che è effettivamente un punto di incontro, un incrocio di culture diverse dove si fanno
varie attività. Attività organizzate ma anche attività autogestite e io vedo che è diventato uno dei
punti di riferimento della città, per le donne italiane e straniere, ma non solo, anche per i giovani
che attualmente stanno iniziando a lavorare tantissimo a Casa di Ramya. E’ stato uno spazio
utilizzato anche in questo percorso e poi vedremo anche come. Non mi voglio dilungare molto per
lasciare spazio a tutti i numerosi interventi.
Vi ringrazio molto e vi auguro buon lavoro.
Maria Scudellari: adesso do’ la parola al dott. Giovanni Zanconato dell’Azienda Ospedaliera
Universitaria Integrata di Verona, molti lo conosceranno. Il professor Zanconato ha una particolare
sensibilità e formazione, pratica clinica, nell’ambito della salute della donna immigrata. Lascio a
lui quindi la parola.
Giovanni Zanconato: Ringrazio Maria per avermi coinvolto e porto i saluti miei e del
Dipartimento di Scienze della vita e riproduzione dell’Università di Verona e dell’Aziena
Opedaliera Universitaria Integrata. Io sono ostetrico- ginecologo e penso che oggi, che è la festa
della Repubblica, sia quanto meno significativo che ci troviamo a parlare di una parte della nostra
popolazione che ha portato, più o meno di recente, idee nuove, diversità, ma anche nuova energia
nella nostra società. Pensandoci trovo molto appropriato, nonostante molti siano in vacanza, aver
realizzato questo incontro proprio nel giorno della nostra Festa della Repubblica.
Io credo che le donne, di più o meno recente migrazione, portino problemi molto sensibili, ai quali
dobbiamo dedicarci. Quotidianamente lo facciamo in Azienda e nel nostro lavoro siamo anche
35
Nella trascrizione degli interventi, la modalità scelta è volutamente di tipo narrativo per cercare di rendere il più
possibile, nello scritto, il clima comunicativo della giornata
124
molto aiutati per arrivare il più possibile vicino ai problemi delle donne; delle donne in generale e
anche delle donne in gravidanza. Ci si avvale del Servizio importantissimo della Mediazione
Linguistico Culturale che ci aiuta ad andare sempre più vicino, in profondità, nei problemi
complessi della salute ma anche della vita di queste donne. E quindi è un piacere essere qui e
auguro un successo al Convegno. Grazie.
Maria Scudellari: lascio la parola al dott. Luigi Bertinato, Direttore dei Rapporti Internazionali
dell’Ulss 20.
Luigi Bertinato: buon pomeriggio a tutti ma voglio dirlo anche in altre lingue: “bon après midi à
vous tous”, “good afternoon everybody”, “maskati masquera sei” ma non è un esercizio per far
vedere che so le lingue, è per farvi vedere che anche qualche veronese fa lo sforzo per imparare
qualche lingua complicata. Per voi è complicato l’italiano e per noi le vostre lingue.
Porto il saluto del Direttore Generale della Ulss 20, Giuseppina Bonavina, e del Direttore Sanitario
Chiara Bovo. Due donne che governano la nostra Azienda Sanitaria e che hanno voluto essere
partner di questo progetto con il Comune e con l’Azienda Ospedaliera. Due donne che si sono
attivate, conoscendo la loro sensibilità, per far sì che l’Ospedale di San Bonifacio, che ha il 30%
delle nascite di bambini che adesso vengono chiamati stranieri ma che in realtà sono i nuovi
cittadini veronesi, abbia un proprio Servizio per la mediazione Linguistico Culturale per
rispondere a questi nuovi bisogni. Dall’anno 2000, c’è anche un apposito ambulatorio per la donna
straniera senza permesso di soggiorno presso il Consultorio Familiare di Via Poloni. Tutto questo
per farvi capire che, l’Azienda Ulss 20, ha capito le nuove sfide per il nostro sistema sanitario e che
vanno , secondo me , ad inquadrarsi in una questione veramente più generale e più globale per
l’erogazione dei servizi. Oggi come vedete il tema è “salute globale e donne immigrate” e tutte le
questioni legate alla mutilazioni genitali femminili. Salute globale è una questione che noi medici ci
stiamo ponendo per le nuove grandi sfide sanitarie; molti cittadini di questo mondo infatti
viaggiano, si muovono e di conseguenza noi medici non siamo più solo medici italiani, medici
europei, siamo medici globali e quindi medici che debbono essere in grado di capire le sensibilità, le
questioni, le sfide e conoscere le malattie anche di chi magari è cresciuto in un altro continente. E
d’altra parte le questioni delle mutilazioni genitali femminili si inquadrano nel più complesso tema
della salute della donna e del bambino, in particolare per i dati che ci porta l’Unicef, veramente
incredibili perché si stimano 100-140 milioni di donne mutilate. Si parla di 91 milioni di donne in
Africa, si parla in particolare di 6-7 paesi nel mondo, come lo Yemen, l’India, gli Emirati Arabi
Uniti, l’Indonesia, l’Iraq, la Malesia e Israele, che assieme a stati già noti come l’Egitto, l’Eritrea,
Gibutti, la Guinea e il Mali sono paesi dove purtroppo le bambine sono ad altissimo rischio di
mutilazione. Noi vorremmo che per lo meno le bambine che vivono qui, nel territorio di Verona,
non siano più ad altissimo rischio. Ecco perché abbiamo messo a disposizione gli ambulatori, ecco
perché abbiamo messo in piedi il servizio multiculturale. Vorrei che culture che non appartengono
alla nostra società , riescano a capire che noi siamo qui per la salute delle donne e delle bambine e
che tutto questo non è una questione che vuole mettere in crisi modelli culturali ma vuole solo
occuparsi di offrire alle bambine, la possibilità di crescere qui a Verona in buona salute.Una
questione importante è che la collaborazione della donna africana che ha questo problema molto
forte. Da almeno dieci anni grazie, a tutto il movimento creato dalle Nazioni Unite dalla famosa
dichiarazione di Pechino del 1995, la donna africana ha cominciato a risvegliarsi. In particolare oggi
sono più chiari i diritti della donna che valgono in tutto il mondo. Prova ne sia che nel 2011 Premi
Nobel per la pace sono state 3 donne, due africane della Nigeria e una dello Yemen, della
cosiddetta primavera Araba. E’ un segnale molto molto importante per noi che ci occupiamo di
salute perché abbiamo bisogno della collaborazione delle donne africane, perché non possiamo
riuscire da soli a ridurre le MGF. Ecco perché avere tre Premi Nobel, quindi avere queste tre figure
di riferimento , è utile sia per far vedere che la lotta alla violenza contro le donne sta portando a
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casa importanti risultati e anche per le pari opportunità, per ridurre l’oppressione delle donne e per
tutte queste questioni legate alla salute delle mamme e delle bambine, che non sono più delle
grandi tematiche, dei grandi desideri, ma che cominciano ad avere una loro concretezza di risultati.
Ecco perché l’Ulss 20 dà grande importanza a questo lavoro che state facendo, dà grande
importanza a tutto quello che fanno i colleghi che all’interno dell’Ulss 20 si stanno occupando delle
mgf, soprattutto dà merito a tutto il grosso lavoro che sta facendo l’unita coordinata da Maria
Scudellari. E’ per questo, che con grande piacere, auguro il buon lavoro a tutti voi per la
prosecuzione di questo Convegno. Buon lavoro a tutti.
Maria Scudellari: oggi possiamo partire in questo clima di integrazione , che è stato il clima che
abbiamo cercato di creare in tutto il lavoro, sia nel lavoro di formazione che nel lavoro poi con le
comunità straniere perché l’arrivo di tutte queste popolazioni straniere , senz’altro ha provocato
profondi cambiamenti in tutti quanti noi e arricchimenti alla ricerca anche di nuove strategie per
affrontare i problemi che si presentano. Ci ha chiamato tutti a tenere conto, in tutti gli approcci,
dell’importanza fondamentale della componente culturale, sia della cultura nostra che della cultura
dei paesi di provenienza, di tutte le culture. La cultura ha una grossissima influenza su tutti quanti
noi e non dobbiamo dimenticarcelo quando cerchiamo di fare un’operazione di integrazione.
Abbiamo scoperto anche che le strade nei nostri paesi, pur essendo paesi diversi, vanno avanti in
modo parallelo. Prima parlava il dott. Bertinato della dichiarazione di Pechino, non solo. Molti
paesi africani hanno già legiferato la proibizione alle mutilazioni genitali femminili, c’è stata la
Conferenza del Cairo, sono stati fatti passi avanti dappertutto. Siamo nel momento giusto, si sta
andando avanti in modo parallelo anche nel cercare strategie perché questi cambiamenti normativi
comportino anche un cambiamento culturale che è quello più importante. Oggi ci occupiamo di
salute delle donne proprio a partire dalle donne per parlare poi della salute di tutti, perché la donna
in tutti i luoghi del mondo è la protagonista della cura, è la portatrice di salute, è lei che si occupa
della salute dei bambini, degli anziani, è lei che si occupa degli uomini. In tutte le società ha la
funzione sociale di cura. Noi sappiamo che quanto più la donna è coinvolta nelle proposte di salute
che provengono dalle istituzioni, tanto più si farà promotrice di salute. Per questo quando si parla di
salute globale, si deve partire dalla donna per poter promuovere la salute. Prima di iniziare
permettetemi di fare dei ringraziamenti perché questo, come diceva prima Cinzia Albertini, è stato
un lavoro lungo che è cominciato più di un anno fa. Io vorrei ringraziare i nostri partner
nell’iniziativa e quindi il Comune di Verona, l’Assessorato alle pari opportunità e alla cultura delle
differenze che nella persona della dott.ssa Cinzia Albertini ha coprogettato fin dall’inizio tutto il
percorso condividendo oneri e onori. Quindi grazie alla Dott.ssa Cinzia Albertini e grazie anche per
questa sala che ci ha messo a disposizione. Volevo anche ringraziare l’Azienda Ospedaliera
Universitaria Integrata presente anch’essa fin dall’inizio con la dott.ssa Bronzato e con la dott.ssa
Urli. Ringrazio tutte le donne straniere che hanno partecipato con passione al lavoro fatto, dando il
loro prezioso apporto nei focus group e nei momenti di incontro con le comunità. Quindi grazie a
tutte voi. Ringrazio le mediatrici culturali che ormai sono un po’ le “nostre mediatrici” perché con
loro c’è ormai un rapporto molto intenso. Ringrazio Terra dei Popoli, nella persona della sua
presidentessa Dinha Rodrigues che è stata l’anima di questa parte del progetto e la professoressa
Federica de Cordova che oggi è con noi, docente di Psicologia sociale e antropologia all’Università
di Verona, che ha supervisionato il lavoro con le comunità straniere dando valore scientifico proprio
a quanto emergeva nei gruppi che si stavano confrontando. Ringrazio tutti i colleghi dei Consultori
Familiari che hanno lavorato al progetto con passione ed entusiasmo, qualcuno lo sentiremo poi nel
corso del pomeriggio; la dott.ssa Cristina Barbieri coordinatrice del progetto che ha unito alla
competenza e alla passione, il rigore che è sempre necessario per mantenere l’occhio puntato sugli
obiettivi da raggiungere perché a volte ci si può un po’ perdere quando si parte con tanto
entusiasmo. E permettetemi di ringraziare a nome di tutti la dott.ssa Anna Franzon che ha svolto
un’enorme lavoro per questo progetto, magari meno visibile ma importantissimo e Casa di Ramia e
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Nigerian Woman Association, nella persona della sua presidente Victoria Ajibuola, che hanno fatto
con noi un importante pezzo di strada. Ora proietteremo un filmato che si chiama “ Vita in
cammino”, è una docu-fuction dell’ Aidos, associazione italiana per le donne straniere, che racconta
la storia di una coppia di immigrati che stanno per diventare genitori e i loro pensieri sulle
mutilazioni genitali femminili. La particolarità di questo filmato che abbiamo dovuto un po’
ridurre, è che è stato girato con personaggi reali, non con attori, ed è nato come idea all’interno dei
laboratori che l’Aidos ha fatto su questa tematica. Al termine del filmato poi lascerò la parola alla
dott.ssa Cristina Barbieri che terrà le fila della giornata. Buon lavoro a tutti.
MGF LEGGE N°7/2006: DALLA FORMAZIONE AL LAVORO SUL CAMPO
Cristina Barbieri: sono psicologa, lavoro in Consultorio e ho avuto il privilegio di occuparmi in
prima persona della realizzazione di questo percorso.
L’incontro di oggi è una tappa essenziale di un percorso che abbiamo iniziato nel gennaio di
quest’anno ma che avevamo cominciato a pensare più di un anno prima, alla fine del 2010, quando
ci siamo messe attorno ad un tavolo: operatrici socio-sanitarie di Servizi diversi, di istituzioni
diverse, insieme a mediatrici linguistico culturali che da tempo lavorano insieme a noi nei Servizi.
Per pensare insieme. E’ stato un percorso nato da subito quindi come un percorso di gruppo: questo
gruppo di operatrici e mediatrici insieme, nel tempo poi è diventato un incrocio di gruppi: gruppo di
operatrici, gruppo di mediatrici, gruppo di donne della stessa etnia, gruppo di donne di etnie
diverse, gruppo di operatrici mediatrici e donne migranti insieme…gruppi di gruppi…
Tutto questo è stato possibile grazie ad un finanziamento della Regione Veneto che ha affidato
all’Ulss 20 la realizzazione di un progetto formativo su questo territorio,finalizzato alla
sensibilizzazione e alla conoscenza sul tema delle mutilazioni genitali femminili.
La legge n.7 del 2006 infatti, oltre ad una parte repressiva che prevede misure molto severe contro
qualsiasi forma di mutilazione dei genitali femminili, che viene definita come reato e quindi fatto
illecito, prevede anche norme che promuovono la formazione e l’informazione su questa pratica.
Pratica che è tradizione antica. Che coinvolge quindi il rapporto tra i generi, tra i sessi e tra le
generazioni, che richiama protocolli sociali complessi perché coinvolgono diverse dimensioni della
vita delle persone.
Tutto il lavoro che ci ha portato fino qui, all’incontro di oggi, è nato in assenza di una domanda
specifica. Ci ha quindi richiesto da subito di metterci in posizione di ascolto. L’obiettivo ambizioso
e condiviso, era di realizzare un intervento declinato su una presa in carico più complessa e
competente della salute sessuale e riproduttiva delle donne che provengono da altri paesi del mondo
e da altre culture.
Affinando in itinere la capacità di un ascolto attento e competente.
Ne è nato un lavoro molto articolato che ha visto intrecciarsi due percorsi paralleli: da una parte un
percorso di formazione a numero chiuso rivolto a 80 tra operatori socio sanitari delle diverse
strutture e istituzioni del nostro territorio ( ginecologi, ostetriche,psicologi, avvocati, assistenti
sociali, infermieri) e mediatrici linguistico culturali.
E’ stato un corso articolato su 5 giornate, tenuto da docenti esperte di livello nazionale e
internazionale , che hanno saputo metterci in contatto con il tema delle mutilazioni genitali
femminili da differenti punti di vista e sfaccettature: medico, psicologico,sociale,giuridico,
antropologico,dei diritti umani e della psichiatria transculturale. Parallelamente, è partito un
confronto su questo tema con le Comunità e le associazioni di donne migranti presenti nel nostro
territorio, appartenenti a culture interessate in modo diverso alla pratica MGF. E questo grazie al
lavoro delle mediatrici che da anni lavorano nei servizi e con il nostro servizio in particolare.
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Dopo i primissimi contatti con queste Comunità, sono partiti a gennaio i focus group tra mediatrici
linguistico culturali, donne rappresentanti i diversi gruppi di provenienza e 9 operatori appartenenti
per gran parte ai consultori familiari ma anche all’Azienda Ospedaliera, al Comune di Verona e
all’Ufficio di Educazione alla Salute dell’Ulss. Questi incontri ci hanno permesso di entrare nel
merito dei contenuti e del confronto sui temi delle MGF ma più in generale sui temi della salute
sessuale e riproduttiva delle donne. E ci hanno permesso di preparare gli incontri con le Comunità
di donne migranti presenti nel territorio di Verona. Di questo percorso vi racconterà poi meglio la
d.ssa Rodrigues nel suo intervento. Punto di forza è stato il lavoro di donne per le donne, tutte
sostenute dalla voglia di capire, di confrontarsi, di mettersi l’una nei panni dell’altra, di cercare di
vedersi con gli occhi dell’altra, specchiandosi e ritrovando così elementi di continuità, talvolta di
continuità con il proprio passato, talvolta di totale diversità, ma in un clima sempre caldo e spesso
con livelli di confidenza e quasi di intimità, che solo i gruppi di donne sanno creare tra loro. Si sono
incrociate le generazioni nella rivisitazione delle tradizioni, sono state presenti nei pensieri e nelle
parole le nonne, le zie, le figlie, le bambine, le sorelle….
Mi sento di dire che il tema delle MGF è stato un pretesto e un testo:
Un testo perché il corso che abbiamo fatto ci ha permesso di apprendere, affrontando questo tema
da diversi punti di vista, entrando nel merito dell’aspetto antropologico, psicologico, ostetrico
ginecologico, legale.
Ma è stato anche un pretesto, perché è stato un’occasione di incontro, di confronto, nutrito sempre
dalla voglia di capire, non dando nulla per scontato. Del resto la complessità non può mai
accontentarsi dello scontato.
Il percorso fatto fino qui è stato ricco, ma anche impegnativo, ci ha messo di fronte alla complessità
del tema, che richiede sguardi non univoci, al confronto con culture diverse e antiche, alla necessità
di affinare la nostra capacità di guardare e ascoltare. Ci ha permesso di capire che l’unica cosa che
ciascuno di noi può modificare, è il proprio sguardo nei confronti dell’altro. E questo vale
reciprocamente, affinchè nessuno abbia nella propria mente un’immagine scontata dell’altro che ha
di fronte.
Per questo la giornata di oggi è per noi tanto significativa, tanto ricca e complessa.
Cercheremo di stare nei tempi che ci siamo prefissati.
Passo ora la parola a Dinha Rogrigues, Presidente di Terra dei Popoli
“GUARDARE ED ESSERE VISTE”. PAROLE DI DONNE, PAROLE DI SALUTE APPRENDIMENTI DI UN PERCORSO E PROSPETTIVE DI GENERE.
Intervengono: Operatrici dell’Ulss 20, Mediatrici Culturali e Donne migranti
Dinha Rodrigues: vengo dal Brasile. Vorrei condividere con voi alcune riflessioni alcuni pensieri
ed alcune immagini.
Il grande scrittore brasiliano Guimarães Rosa dice: “… raccontare e’ molto, molto difficoltoso./ Non
per gli anni passati, ma per la scaltrezza/ che hanno certe cose passate –di bilanciarsi,/ di muoversi
e riposizionarsi nei luoghi (…)./ sono tante ore, di persone, molte cose in tanti momenti,/ tutto
molto piccolo, riattraversato...”
E la scrittrice Clarice Lispetor, sempre brasiliana, afferma: “La vita ogni tanto mi fa appartenere,/
come se dovesse darmi la misura non appartenendo./ E allora seppi: appartenere è vivere.”
Tutto il nostro lavoro è stato attraversato dalla narrazione, dal racconto ed ha attraversato
l’esperienza di appartenere ad una famiglia, ad un gruppo etnico, ad una comunità, ad un villaggio,
ad un paese. Ciascuna con una propria storia da raccontare e da condividere . Non potremmo mai
raccontare nulla, se non avessimo dei ricordi. Ma la sostanza di ogni ricordo non è per questo
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indifferente al modo con il quale essi vengono raccontati. E’ proprio il racconto che tesse la trama
del ricordo, che lo fa affiorare.
Raccontare un’esperienza di sofferenza, di dolore, di un distacco, di un viaggio raccontare una
storia, un’episodio, un ricordo… chi racconta o canta...ha sempre qualcosa da condividere e lo
spunto può nascere fuori o dentro di sé.
L’importante è riuscire a trasmettere ciò che si vive, ciò che si è vissuto o si vorrebbe vivere, per
trascinare l’ascoltatore nel mondo della propria anima e fargli sentire quel mondo, per il valore che
ha, e che lo contraddistingue da altri mondi.
Lavorare sulla salute delle donne ed in particolare sulle MGF non è stato semplice ma ci ha
permesso di costruire un minimo di relazione di fiducia necessaria per lavorare insieme e mettere a
fuoco alcuni obiettivi quali la Costruzione dell’indice di lavoro e lemmario delle parole per dire
questo fenomeno (parole, termini, linguaggio, riferimenti legislativi, mappe fisiche e mentali)
nonché la costruzione di un approccio metodologico-transculturale di lavoro e di incontro con le
donne e con le comunità di migranti. Ha permesso il confronto tra donne evidenziando i diversi
posizionamenti che implica la lingua, oltre che favorire la consapevolezza di eventuali posizioni
giudicanti o irrispettose veicolate dal linguaggio, anche inconsapevolmente. Il lavoro comune ci ha
suggerito come si può parlare con le donne e non "tradirsi" ma creare, al contempo, lo spazio della
relazione.
Si potrebbe dire che è solo l’inizio. Questa bellissima esperienza, ancora non del tutto chiusa, ha
visto un susseguirsi di incontri, scoperte, conoscenze e vorrei sottolineare il fatto che tutte abbiamo
accettato stare al gioco.
Non è poco! ma soprattutto è una sorta di “miracolo” costruire e mettere insieme un impresa di
questa natura. Brave le donne delle istituzioni – e facciamo loro i nostri complimenti – e brave le
colleghe mediatrici e le donne che hanno accolto l’occasione e hanno mantenuto ritmo del lavoro,
malgrado le difficoltà e rischi (molto di più che per le donne italiane) di stare nell’esposizione nel
gioco, spesso carico di emozioni, nel ricordo delle proprie esperienze personali e familiari.
Sono vecchia ormai e sono atavicamente legata alla pratica di cercare di mettere insieme soggetti e
saperi e, condivido: è stato un bel esercizio. Per voi, amiche ed amici italiani, oggi o nei prossimi
giorni può passare come un traguardo istituzionale raggiunto... ma per noi, migranti, inizia o
continua la danza anche indipendentemente dalle istituzioni.
Toccare temi di questa natura, per chi sta nella migrazione, è aprire una piccola finestra sul mondo
intimo, personale, soggettivo ma anche di gruppo. È capire e lavorare sulle nostre plurime
appartenenze, ed è solo scambiando con altri che si trova il senso dell’essenza di essere al mondo.
In questo mondo.
Prima dicevo: a noi resta la relazione, la “danza” con i gruppi, con le comunità. La nostra
mediazione dovrà continuare la scommessa di stare nella ricerca e nell’apprendimento su come
promuovere la salute delle donne, e degli uomini, anche affrontando tematiche delicate e complesse
come questa delle MGF. In altre parole, l’importante è lavorare, insieme alle istituzioni, in attività
di prevenzione, informazione e sensibilizzazione. Abbiamo potuto notare che le donne migranti dove determinate pratiche sono diffuse- restano protagoniste del percorso. Esse si trovano ad
affrontare direttamente la condizione di essere portatrici della pratica, delle pratiche, ma sono anche
quelle a dover sostenere, le conseguenze della decisione rispetto alle figlie, alle nuove generazioni
nella migrazione. Altrettanto importante però è il coinvolgimento attivo degli uomini, dei mariti,
dei zii che nel contesto della migrazione giocano un ruolo fondamentale nel determinare decisioni
riguardanti la dimensione familiare e di coppia, nonché la dimensione della vita collettiva e
pubblica nella società ospitante.
Lo scrittore D. Pennac dice che la traduzione di un testo letterario (qualsiasi testo e contesto,
aggiungo io) equivale a una nuova nascita e il ruolo che svolgono i traduttori in questa nascita viene
considerato alla stregua di una creazione. La nozione di traduzione è inseparabile da quella di
creazione; la pura e semplice trasposizione linguistica non è un atto di traduzione. Ebbene,
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pensiamo di essere andate oltre alla traduzione in quanto siamo state nel gioco della relazione,
dell’emozione, del pianto ma anche del canto. Molti gruppi di donne che abbiamo incontrato hanno
iniziato la conversazione solo dopo un canto d’auguri e di speranza. Un inno alla vita. E le
ringraziamo vivamente per questo dono.
Le parole, dice Carofiglio nel suo libro La manomissione delle parole nascondono in sé un potere
diverso e superiore rispetto a quello di comunicare, trasmettere messaggi, raccontare storie. Le
parole attraversate hanno il potere di produrre trasformazioni dentro di noi e possano anche essere
lo strumento per cambiare il mondo.
Sottoporre le parole ad una “lettura” attenta, ripristinare la loro forza originaria per trasformarle e
renderle aderenti al cambiamento che ciascuna di noi, non importa se italiane o straniere, sta
vivendo o potrà vivere nel proprio percorso personale, professionale o familiare è un lavoro
importante e da fare, fare incessantemente.
Chiamare le cose con i loro nomi è un gesto rivoluzionario- diceva Rosa Luxemburg. Ed io mi
permetto di aggiungere: ripensare il linguaggio, le pratiche, oggi, dentro le esperienze vissute,
significa immaginare nuove forme di vita. Richiede spazi in cui si svolgono azioni per raggiungere
accordi, negoziazioni, dentro differenze, e costruire possibili intrecci dentro i testi e i contesti. In
questo senso la mediazione è creare spazi concreti (assetti), spazi di “pensabilità dell’altro”, di chi è
l’altro, di quale o quali differenza si tratta; è creare spazi di costruzione di mappe fisiche e mentali.
“È agire tra persone, oggetti, lingue, appartenenze”.
Grazie di cuore alle donne, e agli uomini, che hanno condiviso questa esperienza di incontri con
noi!
Cristina Barbieri: Ringraziamo la Dott.ssa Dinha Rodrigues che è la presidente dell’Associazione
Terra dei Popoli e mediatrice linguistico culturale con la quale lavoriamo da anni. Viene dal
Brasile, quindi come avete sentito dal suo intervento è essa stessa portatrice di un’esperienza
personale di donna migrante. Infatti Dinha è afroamerindia, bianca, combina nella propria
genealogia familiare origini africane, nigeriane e anche indigene tupì guaranì. E’ quello che si
potrebbe dire una meticcia. Noi le siamo tutti molto grati e ci fa piacere poter lavorare con lei.
Invito ora a parlare la dott.ssa Graziella Mortaro, ginecologa che da molto tempo lavora nei
Consultori Familiari dell’Ulss 20 e che ha fatto insieme a noi questa esperienza. Facciamo
accomodare anche Safitou Sako, senegalese, che è in Italia da 16 anni circa, lavora come mediatrice
culturale dal 2000 nei vari ambiti della scuola e della sanità. Con altre donne immigrate ha fondato
l’Associazione Terra dei Popoli ed è impegnata con tematiche sociali e culturali nella sua
Comunità. Poi invitiamo Edidion Moses, residente a Verona, nigeriana. Lavora come operatrice
socio sanitaria, è impegnata con la sua Comunità ed è in Italia da 21 anni. Chiediamo anche alla
Dott.ssa De Cordova di venire al tavolo con noi. La Dott.ssa de Cordova è psicologa sociale e
docente di psicologia transculturale presso l’Università degli Studi di Verona, dipartimento di
filosofia, psicologia e pedagogia. E’ responsabile dell’unità di ricerca sulla prevenzione e contrasto
delle mutilazioni genitali femminili e ci ha accompagnato in tutto questo percorso. Chiamiamo
anche la Dott.ssa Mara Fasoli, assistente sociale, che lavora nei Consultori Familiari dal 1992. Dal
2000 è referente dell’ambulatorio Donna Straniera dei Consultori Familiari e dal 2010 coordina
l’Ufficio di mediazione linguistico culturale dell’Ulss 20.
Dò la parola alla Dott.ssa Mortaro.
Graziella Mortaro: sono ginecologa, lavoro all’interno del Consultorio Familiare, luogo della
famiglia , dove mi viene chiesto di accompagnare , sostenere e aiutare le donne da quando ,
ragazzine , affrontano quelle trasformazioni del corpo , della mente e del cuore che le che transitano
nell’età del corpo adulto e nel mondo della sessualità , da riconoscere da valorizzare e da
proteggere. E’ questo il motivo del perché sono qui oggi, il motivo del perché sono stata coinvolta
in questo lavoro di formazione.
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E incontro gli adolescenti e le adolescenti nelle Scuole , insieme agli altri professionisti del
Consultorio , quando la relazione e il rapporto con l ’altro (maschio e femmina ) è cosi coinvolgente
e predominante nel percorso di crescita affettiva e sessuale .
E poi tutti i giorni mi confronto nel rapporto diretto con le donne e anche con le coppie, che mi
portano i loro problemi e le loro difficoltà nell’affrontare le relazioni , la sessualità , la scelta o la
rinuncia alla gravidanza e al diventare genitori . E vedo le madri quando , alla nascita, i figli le
rendono così vulnerabili e fragili. Con i papà che spesso si sentono solo di accompagnare le loro
mogli e che invece la crisi la sentono quando le figlie crescono e loro si preoccupano della loro
sessualità di adolescenti.
E ancora il quotidiano incontro con le donne nell’età di mezzo quando il corpo è avviato a
trasformazioni più difficili da accettare e da valorizzare , quando la relazione di coppia e familiare
diventa più allargata e complessa ed è necessario ritrovare l’entusiasmo per la cura di sé e della
propria salute . Quando bisogna ridefinire la scala dei valori che ci aveva fin qui sostenuto e che il
nostro corpo , i figli , la famiglia e la realtà attuale ci rappresentano .
In tutto questo scenario , che rappresenta da circa 30 anni il mio lavoro , si sono via via inserite le
donne migranti straniere ,con le loro richieste , i loro problemi ,la loro storia e la loro cultura .E
vengono con i loro figli e i legami con le loro madri e famiglie del paese d’origine così
determinanti per la loro vita qui e le loro scelte . Io oggi volevo rivolgermi proprio alle donne
africane migranti che ho incontrato in questo percorso e parlare con loro di quello che ha voluto
dire per me questa esperienza, il significato per me di questo lavoro.
Sono donne diverse e stare nella relazione con loro ha stimolato inevitabilmente curiosità ed
interesse,voglia di scoprire e comprendere reciprocamente realtà , per loro e per noi , prima solo
immaginate e pensate .
Quanto coraggio e speranza ho incontrato . Ma anche tanta delusione , fatica, tristezza e nostalgia.
C’è sempre il telefono con la grande madre che è là e che rappresenta la radice a cui loro si sentono
molto legate ed è importante per loro.
L’essere stata coinvolta in tutto il percorso formativo sulle MGF, mi ha aperto un mondo, la
conoscenza di una realtà che prima io non immaginavo e che alla scuola di medicina nessuno mi
aveva insegnato o mi aveva anticipato.
Nelle preziose occasioni d’incontro con le donne delle varie Comunità ed etnie di questi ultimi
mesi , abbiamo ascoltato tante storie, condiviso la conoscenza di realtà drammatiche ,difficili o solo
tanto diverse , prima di allora non pensate e abbiamo condiviso la possibilità di nuove risposte a
tematiche così complesse, ci siamo proprio impegnate a discutere insieme , per spiegare e per capire
le storie raccontate, le preoccupazioni e le speranze: ma soprattutto abbiamo capito il bisogno, per
tutte, di essere comprese prima di essere aiutate.
Sono donne diverse ed ecco che giorno per giorno la relazione con loro, lo stare con loro insieme ha
cambiato il mio modo di vedere, di sentire, di lavorare, ha stimolato inevitabilmente la curiosità,
l’interesse, la voglia di scoprire e di conoscere, di comprendere una realtà diversa per loro e per noi.
Prima questa realtà era solo immaginata da loro e da noi e adesso invece è reale, è presente.
Scoprire quanto la lingua è difficile, la nostra voglia di capire la vostra lingua e non riuscire a
capire, aver voglia di capire le sfumature ma poterle raccogliere solo dall’espressione del viso, dai
gesti e quindi per un attimo vivere anche quest’esperienza del non capire quello che si vorrebbe
capire.
Ci siamo potute reciprocamente meravigliare, perché tutte eravamo coinvolte e alcune cose che ci
sembravano ovvie nell’altro, l’altro le scopriva per la prima volta. Alla fine, e non poteva essere che
così, abbiamo condiviso e abbiamo compreso che dietro ad ogni comportamento e ad ogni scelta
c’è lo stesso desiderio di essere felici e di rendere felici, proteggendo le persone che ci stanno vicine
e a cui vogliamo bene .
E la felicità passa attraverso il rispetto di se stessi e degli altri, rispettando regole e valori con
l’obiettivo di contenere e di aiutare le persone e non di dominarle , controllarle e giudicarle. Quando
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noi parliamo di mutilazioni genitali femminili parliamo di esperienze, di situazioni e di pratiche
completamente diverse. Dalle pratiche più dure, più crude, più difficili come l’infibulazione che
comprende proprio la mutilazione dei genitali, alle pratiche più semplici, più leggere, più
simboliche che però la legge mette insieme: l’escissione, l’incisione, quella che le donne nigeriane
anche l’altro giorno dicevano simile alla circoncisione maschile, dicendoci “perché vi preoccupate
tanto di questa che alla fine è la circoncisione al femminile?”. Il poter parlare di tutto questo ci ha
aiutato a capire il significato che queste pratiche hanno, che non è un significato solo biologico e
fisico, è un significato che passa attraverso il cuore delle persone. Tutte siamo d’accordo che non
vogliamo infezioni, non vogliamo malattie, non vogliamo le conseguenze gravi delle mutilazioni
lesive e cruente che vengono ancora oggi purtroppo praticate in vari Paesi con gravi conseguenze.
L’altro giorno, però, una donna mi diceva: “parlare di questo per me è come strappare la pelle del
mio corpo”. E’ solo la vicinanza empatica tra l’una e l’altra e la costante attenzione rispettosa, che
possono aiutare a trovare le modalità per i cambiamenti che auspichiamo e che in parte già
appartengono alle donne africane.
Ora che viviamo insieme, abbiamo l’opportunità di diventare amici , di arricchire e valorizzare le
nostre storie e le nostre vite per impegnarci insieme nel difficile cammino del cambiamento.
Cristina Barbieri: grazie a Graziella. Passo la parola a Safitou.
Safitou Sakho: buongiorno a tutti. Vi ringraziamo tutti quanti per la vostra presenza. Io sono
mediatrice linguistico culturale e sono entrata con altre mie colleghe nigeriane mediatrici, in questo
progetto promosso dall’Ulss20.
Noi mediatrici dentro questo percorso abbiamo avuto uno sguardo particolare: è fondamentale,
infatti, l’elaborazione dei nostri percorsi migratori e l’apprendimento del contesto nel quale siamo
inserite. Si potrebbe pensare che tutti gli immigrati possano essere mediatori, ma noi diciamo che
un migrante non è un mediatore se non elabora la propria esperienza migratoria.
L’altro elemento fondamentale è tenere conto di ciò che ci portiamo dentro come nostra cultura di
provenienza. Per esempio, su questo tema delle mutilazioni genitali femminili e su altri argomenti
inerenti il corpo e la salute, per noi mediatrici non è stato per niente facile, perché quando c’è da
lavorare su alcuni temi o aspetti che toccano il nostro profondo siamo molto in difficoltà perché il
tema delle mutilazioni genitali femminili è complesso e delicato.
Abbiamo già visto da subito, durante i focus group e nell’incontro con le comunità di donne, un
primo problema è rappresentato dal significato delle parole perché non tutte le parole sono portatrici
dello stesso significato all’interno di mondi diversi. Ad esempio nel primo incontro che abbiamo
fatto, quando la Dott.ssa de Cordova chiedeva come si dicesse “mutilazioni genitali femminili” nel
nostro paese, noi eravamo in difficoltà perché nella lingua e cultura del nostro paese d’origine il
termine “mutilazione” non viene usato perché per noi non c’è un termine che definisca la differenza
con la circoncisione maschile. Quando andavamo poi a toccare parole come “sesso” o alcune parti
degli organi genitali, o quando anche nei gruppi la ginecologa nominava il clitoride, alcune donne
erano un po’ in difficoltà perchè effettivamente non sempre si conoscono tutte le parole. L’altra
cosa che abbiamo notato in questi focus group è che alcune questioni non vengono percepite nello
stesso modo. Su questo tema delle mutilazioni, noi operatrici ci siamo accorte che ci sono vari tipi
di mutilazioni e per noi questo non rappresentava un problema e non riuscivamo capire invece dove
fosse il problema per voi. C’è chi ha subito la mutilazione invasiva e chi ha subito quelle
simboliche, come si usa dire. Non in tutti i paesi dell’Africa la mutilazione è la stessa, dipende
anche dalle etnie; ogni etnia ha un proprio modo di praticarla che è diverso dall’altra. Quando si
lavora quindi su un tema così complesso bisogna essere molto delicati. In tutti i paesi africani, dove
il fenomeno esiste, da anni sono in corso campagne di sensibilizzazione, di informazione, di
educazione per abolire queste pratiche ma anche lì non è semplice. Nel mio paese, il Senegal, non
tutti la fanno. L’etnia dominante non la pratica, mentre altre etnie invece soprattutto verso il nord e
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il sud, la praticano.
Il Senegal è stato uno dei primi paesi africani che ha inserito come reato nel codice penale questa
pratica; l’articolo 299 proibisce questa pratica e prevede delle condanne. Quando effettivamente è
uscita la legge, la reazione della popolazione, soprattutto quella di alcuni gruppi minoritari, è stata
molto forte. Lì si è fatto un passo indietro perché quando si ha a che fare con temi così delicati che
entrano nella tradizione e nella cultura, bisogna sempre andarci piano. La prima cosa da fare è
cercare di capire di cosa si tratta e vedere anche l’altro come la pensa e la vede questa cosa. In
questo progetto, noi come gruppo di mediatrici, abbiamo voluto andare nelle comunità, sentire le
donne migrate che vivono qui in Italia con i loro figli, e ascoltare sia le donne che hanno subito la
pratica sia quelle che non l’hanno subita per poter parlare poi più in generale della salute. In questo
ascolto abbiamo potuto raccogliere la difficoltà che queste donne portavano nell’accesso ai Servizi,
difficoltà legate alla lingua per quelle che sono arrivate da poco in Italia. C’e stata qualche donna,
duranti i focus group che diceva che la prima volta che è arrivata in Italia e è andata a fare la prima
visita ginecologica, effettivamente ha trovato un operatore , che non solo non sapeva che lei aveva
subito una mutilazione genitale femminile, ma quando si è accorto.. come dire, non si è spaventato
ma ha avuto un atteggiamento un po’ forte. E’ andato a chiamare gli altri suoi colleghi e
specializzandi che sono venuti a toccarla e a guardarla in un modo che per lei era come rivivere una
seconda volta il trauma perché ci ha raccontato un po’ come lei lo ha vissuto giù. Per lei è stato un
doppio trauma vedere tutte queste persone intorno a lei, toccarla e parlare..a me ha raccontato che
lei va alla visita dal ginecologo solo quando è incinta e se potesse non ci andrebbe neanche. Come
dicevo dunque l’approccio è molto importante, però non è sempre facile perché sappiamo tutti
quanti che si incontrano delle difficoltà nella relazione tra pazienti e operatori, oppure tra italiani e
stranieri, perché la difficoltà che vive lo straniero la può vivere anche l’operatore. Quando ne
abbiamo parlato nei focus group alcune operatrici effettivamente dicevano che anche loro a volte si
trovavano a disagio davanti ad alcune donne immigrate. Alcuni operatori dicono che alle donne
immigrate non interessi la loro salute oppure proprio non si interessano di questo. Alcune donne
dicono che vanno a fare una visita ginecologica soltanto quando sono incinte, non è che sono
abituate ad andare molto spesso sia perché il Sistema Sanitario è quello che è, non prende in carico
tutto quanto, ma a volte anche perché i costi sono difficili da sostenere. Dunque quando arrivano
qui, i primi tempi fanno fatica, oltre proprio ad una questione di difficoltà di lingua fanno fatica
anche proprio a ricorrere ai Servizi. Dalle nostre parti è anche vero che siamo abituati ad altri modi,
altre forme di cura. Dunque mettendo insieme questi disagi e difficoltà che possono venire da
entrambe le parti, noi ci siamo accorte che c’è un grosso lavoro da fare. Un primo lavoro di
informazione e sensibilizzazione, non solo per l’accesso alla cura ma soprattutto per lavorare sulla
prevenzione, perché noi abbiamo fatto presente alle donne che dalla ginecologa non si va solo
quando si è incinte, devono andare più spesso per dei controlli, per effettuare dei paptest. Alcune ci
dicevano che è vero che la lettera dell’Ospedale per il paptest arriva a casa, ma molte volte loro non
sanno quello che devono fare. Ecco che quindi credo che sia gli operatori sanitari che gli altri
operatori devono lavorare sulla prevenzione, dobbiamo costruire un modello di approccio, capace di
cogliere quello che viene chiesto in quel preciso momento. Una donna che partorisce e che ha già 5
figli provoca nell’operatore un senso di curiosità che lo porta a chiedere alla partoriente quando
smetterà di mettere al mondo figli. Questo non è un modo corretto di approcciarsi perché noi non
sappiamo cosa si nasconde nella cultura di appartenenza dell’operatore, perchè nella cultura
dell’utente fare tanti figli potrebbe non essere un problema, anzi essere una ricchezza e porre questa
domanda potrebbe urtarne la sensibilità.
Io credo quindi che invece che porre queste domande sarebbe opportuno spiegare che i metodi
contraccettivi possono salvaguardare la loro salute. Spiegare anziché criticare, senza andare a urtare
la sensibilità di queste donne. Nei gruppi come abbiamo detto prima, abbiamo avuto la possibilità di
confrontarci, ci siamo scambiate vari punti di vista, ma emergevano molto spesso delle domande.
Le donne ci dicevano che effettivamente loro fanno parte di un mondo, che sono anche in un
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periodo migratorio molto ambiguo, e molto spesso questa ambiguità crea loro grande confusione.
Loro non sanno come comportarsi e come prendere decisioni sia che riguardino loro come donne
sia per quello che riguarda i loro figli e le loro figlie. Alcune effettivamente dicono che anche se
hanno preso delle posizioni, davanti ad alcune tematiche importanti, corrono anche il rischio di
rimanere isolate e ci chiedevano cosa potevamo fare per aiutarle. Questa esperienza dei focus group
e questi incontri con le comunità hanno mostrato un grande interesse da parte di tutte le donne, sia
delle donne straniere che italiane perché tutte quante ci siamo sentite coinvolte e partecipi su quello
che ci è di più caro, e cioè sulla nostra salute. Grazie.
Cristina Barbieri: ringraziamo Safitou per questo intervento prezioso e passo la parola ad Edidion
Moses.
Edidion Moses: buon pomeriggio a tutti, sono Edidion, per gli amici Edi. Voglio innanzitutto
ringraziarvi tutti per questa opportunità e anche per questa occasione di incontro. Ringrazio
soprattutto l’Associazione Terra dei Popoli per aver portato questa grande iniziativa nella nostra
Comunità. Vengo dalla Comunità di San Giacomo, comunità africana. Sono nigeriana e vivo in
Italia da 21 anni e più, sono una lavoratrice, una mamma, una moglie ma soprattutto una donna. Il
nostro incontro con l’Associazione è stato molto interessante perché abbiamo toccato il tema molto
delicato e anche molto , diciamo, prezioso delle MGF. Un argomento che purtroppo non è stato
facile da affrontare; però grazie a questa iniziativa adesso le donne si conoscono e si parlano.
L’incontro con la nostra Comunità è stato bellissimo, interessante perché eravamo lì tutte insieme
come amiche . C’era la dott.ssa Mortaro, abbiamo parlato come amiche, come persone che si
conoscevano. Per questo è stato facile per noi entrare nel tema delle mutilazioni genitali femminili
che per noi africane è una cosa un po’ difficile da trattare perché è una cosa un po’ pesante. E’ la
tradizione, è la nostra tradizione che purtroppo non ci sembra una cosa così terribile, perché
comunque noi abbiamo questa tradizione. Però diciamo che diventando donne stiamo anche
capendo che questa non è una cosa da fare, però ci vuole tempo per arrivare a questo, perché le
nostre nonne e le nostre mamme lo hanno fatto. Per noi figlie è un po’ difficile accettare questa
cosa. Io personalmente in quell’incontro ho parlato anche dell’esperienza che io ho vissuto
riguardo a mia sorella, che è stata sottoposta alla pratica: per me vedere quella cosa lì è stato
traumatizzante. Da noi la pratica si fa quando si è grandi purtroppo e non da piccole e io ho vissuto
l’esperienza di mia sorella e all’epoca ero bambina perché avevo 6 anni e questa cosa mi è rimasta
dentro. Abbiamo parlato anche di questo, della possibilità di non farla alle nostre figlie. Abbiamo
anche capito che in Nigeria le cose stanno cambiando. Qualcuno di noi ha detto che in alcuni
ospedali si mette per iscritto che questa cosa è vietata, nelle scuole si educano le ragazze. Posso dire
che voi state facendo un lavoro molto importante che va a toccare la vita della donna perché
purtroppo alcune volte le donne sono sottomesse, devono accettare tutto, stare zitte e quindi questa
cosa è un modo per dire anche “ donna guarda che la tua salute è importante”, la salute dei tuoi figli
è importante. Io vi ringrazio e vi auguro buon lavoro e vi dico che quando la donna sta bene, il
mondo sta bene.
Cristina Barbieri: Grazie Edidion, passo la parola ora alla Professoressa Federica de Cordova che
è stata attrice con noi di questo percorso.
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Federica de Cordova: cercherò di essere molto breve. Io volevo fare due riflessioni sul metodo.
Riflettere sul senso generale da un punto di vista metodologico del lavoro che è stato fatto e allora
mentre ascoltavo le parole delle persone che mi hanno preceduto pensavo a come Dinha aveva
aperto, cioè nel cercare di ricreare il clima che ci ha accompagnato durante tutto questo lavoro. E
poi io mi sono trovata seduta a questo tavolo che è molto significativo di come noi siamo abituate a
comunicare e a parlarci. Lo sforzo di questo gruppo di lavoro è l’idea di coprogettazione di cui
parlavano prima la dott.ssa Scudellari e la dott.ssa Albertini; lo sforzo di prendere sul serio la
complessità: non credo solo del tema delle mutilazioni genitali femminili, ma più in generale la
complessità che mettere la cultura dentro le relazioni comporta. Allora se posso usare questa
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metafora, della scomodità del parlarci per la forma di questo tavolo, che non ci consente di
guardarci in faccia, il tentativo è stato di cambiare la forma a cui siamo abituati per rapportarci in
un una forma più comoda che ci consentisse di poterci sempre guardare in faccia. Per questo la
dott.ssa Barbieri quando ha presentato il lavoro ha molto insistito sulla parola gruppo, sul fatto che
questo è stato un lavoro che si è trasformato in un lavoro di gruppo, di gruppi che lavoravano
insieme, perché credo che sia veramente un po’ il fulcro. Cioè prendere sul serio questa complessità
significa posizionarsi ideologicamente e teoricamente rispetto all’oggetto che si vuole trattare.
Questa era la grande scommessa metodologica che c’era dentro questo progetto. Posizionarsi
quindi significava in qualche modo assumersi la responsabilità dell’incontro e del mettersi a
confronto con una alterità e questa cosa non è scontata. Non è scontata anche se apparteniamo a
Servizi che sono rivolti ad un’utenza straniera, e se a volte abbiamo una formazione specifica... non
basta. Non basta, non è sufficiente la volontà perché i fraintendimenti, le differenze a volte sono
invisibili e quindi possiamo rischiare di mettere comunque l’altro in una categoria, in una forma che
è lontano dalla sua. La letteratura parla di questo come un rischio di maltrattamento teorico, cioè
che le conoscenze tecniche-scientifiche che noi abbiamo, a volte siano poco calate nell’esperienza
degli altri e questo in realtà può provocare un’ulteriore sofferenza, un ulteriore danno. Dunque il
tentativo è stato quello di mettersi in una relazione e creare un gruppo di lavoro. Che cosa voleva
dire creare un gruppo di lavoro? Significava tra operatrici, che pur avevano un’esperienza,
confrontarsi rispetto ai propri posizionamenti. Su questa cosa molto specifica si è aperto un mondo,
si sono aperte tante dimensioni, tanti livelli che ci chiedevano e richiedevano continuamente di
collocarci e di pensare dove stavamo. Questo non era scontato, in questo senso io sono rimasta
colpita dalla disponibilità di tutte le operatrici coinvolte: Graziella diceva bene nel suo intervento:
il piacere di sentire l’ingaggio di trovarsi in un lavoro che ci permette di metterci in gioco, di entrare
nell’esperienza dell’altro e quindi altrettanta disponibilità da parte delle mediatrici per quello che
posso dire io, che è stata sul permettere di entrare in un modo e in un’esperienza altra e questo non
sempre succede e non automaticamente. Se posso dire un’opinione personale, io credo che non sia
un caso che questo venga da una cultura dei Consultori Familiari che in Italia sono dei luoghi che
hanno una storia specifica, una cultura a loro volta specifica che forse prima di altri contesta
permette …e che forse riguarda tutto il mondo che si occupa del materno infantile. Quindi questo ha
consentito l’inizio di un’apertura rispetto a questi posizionamenti. L’esperienza ci ha permesso di
capire che questi posizionamenti sono mobili, sono flessibili. Chiudo dicendo che questo pezzo di
per sé non sarebbe sufficiente e in questo senso io riconosco un grandissimo lavoro che hanno fatto
le operatrici con le mediatrici e le Istituzioni che hanno consentito questa grande scommessa e le
Comunità. Cioè dopo questo passo di rapportarsi col mondo, col mondo fuori, col mondo delle
persone che vivono questa esperienza, dopo l’ascolto, dovrà esserci un secondo passo: quello del
rimettersi in gioco. Oggi, qua, a differenza di quanto capita abbastanza spesso e cioè di essere in
situazioni come questa e il pubblico è tutto italiano; fortunatamente a me oggi invece sembra che
ci siano tante persone che rappresentano l’alterità, che rappresentano punti di vista diversi, voci
diverse, e io veramente mi auguro che da questo momento nasca uno spazio per un confronto che
vada avanti.
Cristina Barbieri: grazie alla Professoressa De Cordova. Passo la parola alla Dott.ssa Mara Fasoli.
Mara Fasoli: sono assistente sociale in Consultorio Familiare, da molti anni lavoro con le donne
straniere nello “Spazio donna straniera” e negli ultimi tre anni con le mediatrici culturali come
referente del servizio di Mediazione Linguistico Culturale dell’Ulss 20.
Il progetto sulle Mutilazioni Genitali Femminili ha dato a me e alle colleghe la possibilità, prima
nell’incontro nei focus group con le mediatrici e alcune donne africane, e poi negli incontri con le
Comunità di donne immigrate, di confrontarci in modo libero, trasparente e vero sulla salute delle
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donne permettendoci così di iniziare ad intuire la presenza di un mondo ricco, nuovo e per molti
aspetti diverso dal nostro.
Nei diversi incontri mi pare di aver intuito come l’esperienza della migrazione richieda a chi arriva
di riposizionarsi rispetto alla questione della salute (per quel che riguarda le necessità, i bisogni di
cura e le pratiche di cura).
Nella migrazione vi siete trovate nella condizione di lasciare nel paese di provenienza la pratica
tradizionale ( e forse per questo si prova una certa nostalgia), mi pare però di poter dire che in questi
anni ho incontrato anche il vostro desiderio di conoscere, di comprendere e la voglia di fare
esperienza di salute con i modi nuovi che il paese di accoglienza vi propone, spesso molto diversi
da quelli conosciuti.
Ho riscontrato un grande interesse ad entrare in relazione con il nostro sistema di cura e assistenza.
Anche nell’esperienza con le diverse Comunità questo aspetto è emerso in modo molto
significativo.
E’ stata espressa però una difficoltà, condivisa dalle diverse comunità incontrate, che riguarda
l’accessibilità ai servizi sanitari e socio-sanitari. Le informazioni sulle modalità di accesso non sono
sempre facilmente fruibili e quando lo sono non sempre sono comunicate in modo comprensibile da
chi non appartiene da sempre da questo mondo dei Servizi.
Per noi operatori diventa quindi prioritario interrogarsi sull’efficacia delle informazioni date e sulle
modalità di accesso alla cura.
Il lavoro con i gruppi di donne ci ha dato inoltre l’opportunità di mettere insieme l’esperienza del
femminile, che ognuna di voi e di noi porta dentro, con i saperi degli operatori.
E’ stata una situazione molto bella trovarsi in un gruppo di donne che si sono confrontate con
grande intimità sui propri bisogni di salute, sulla propria sessualità e sulle relazioni con il partner e
con i figli: è stata un’esperienza per me nuova, forse non apparteneva al mio mondo il poter
condividere in gruppo questo livello di intimità, nella mia realtà infatti il pudore gioca la parte più
rilevante.
A partire da questo ho fatto due riflessioni che mi piace condividere.
Primo: l’intimità condivisa al femminile che voi avete potuto sperimentare nel vostro mondo di
partenza è un sapere così profondo e importante che è da recuperare anche in questa parte di mondo
e da riproporre anche a persone diverse da quelle di stretta appartenenza.
Secondo: forse la migrazione, la distanza dalla terra di origine, permette una maggiore libertà, il
contesto nuovo permette di metter in campo aspetti personali e culturali in modo nuovo e diverso.
Questa, se pur piccola, esperienza d’incontro, scambio e desiderio di conoscere è stata molto
significativa per chi l’ha vissuta, è chiaro che per noi operatori coinvolti, voi mediatrici e voi donne
dell’Africa è stata un’importante opportunità che il progetto MGF ci ha messo a disposizione.
Questa esperienza mi ha aiutato e mi sta aiutando a pensare a dei Servizi che possano essere più
efficaci, servizi dove lo straniero possa sperimentare un approccio che tenga conto di mondi diversi,
perché ognuno possa aumentare la propria consapevolezza di cosa sta perdendo e di cosa sta
guadagnando nel processo di cura, di ricerca di benessere nel percorso della migrazione.
Nella nostra realtà in questi anni, abbiamo sperimentato lo strumento della mediazione linguistico –
culturale per dare la possibilità a saperi diversi di incontrarsi e possa così iniziare, a partire da
situazioni concrete, un confronto e uno scambio tra operatori e stranieri sui bisogni di salute e sulle
pratiche di cura.
La mediazione dal 2010 è a disposizione di tutti gli operatori sanitari e socio – sanitari dell’Ulss 20,
attraverso una semplice richiesta si può attivare per comprendere meglio le situazioni che
giornalmente gli operatori si trovano ad affrontare.
Il lavoro con la mediazione ci permette, sia nel confronto con le mediatrici sia nel lavoro diretto con
l’utenza, di tenere costantemente aperto il dialogo e la curiosità per la conoscenza reciproca.
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Cristina Barbieri: grazie a Mara. Adesso passo il microfono e la conduzione a Ioana Dunca. Ioana
Dunca è di origine rumena, è vicepresidente dell’Associazione Terra dei Popoli, da anni collabora
con il Consultorio Familiare all’interno dell’ambulatorio Donna Straniera. Si occupa di
immigrazione anche all’interno di un sindacato di Verona. Passo la parola a lei anche per la
presentazione dei rappresentanti delle varie Comunità che abbiamo il piacere di avere con noi oggi.
LA SALUTE DELLE DONNE STRANIERE E LE COMUNITÀ DI MIGRANTI.
UN IMPEGNO CONDIVISO
Mi chiamo Ioana Dunca e vengo dalla Romania. Questa giornata pubblica di studio e riflessione
rispetto alla promozione e alla accessibilità della salute da parte di tutte le persone, è stata pensata
per restituire all’intera comunità, quindi anche alle varie comunità di immigrati, non solo le donne
che hanno preso parte ai lavori, il percorso che è stato fatto.
Le associazioni e più in generale le comunità migranti sono state invitate a partecipare a questa
giornata e a intervenire portando le loro riflessioni, pensieri, preoccupazioni e proposte. Le
comunità invitate sono varie, in particolare sono state invitate quelle che radunano cittadini
immigrati provenienti dalle aree geografiche dove le pratiche MGF sono maggiormente diffuse: The
Ghana Nationals Association of Verona; l’Associazione “GORE – ONESTA” che raduna cittadini
Senegalesi di Verona e Provincia; Anglophone African Catholic Community – San Giacomo; NWA
– Nigerian Women Association; Coordinamento Migranti di Veona; Comitato di solidarietà con il
popolo eritreo; Associazione dei cittadini della Guinea di Verona; Associazione Nigeriana Unita;
Associazione A.I.G.B.I. – Associazione Immigrati Guinea Bissau in Italia; Centro Islamico di
Verona.
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Alcune di queste associazioni sono iscritte all’Albo Regionale delle Associazioni di Immigrati, altre
non lo sono, ma sono ugualmente impegnate nel lavoro con gli immigrati, nell’offrire loro mappe
per orientarsi e accompagnamento. Al nostro invito hanno risposto tutti in modo positivo, basta
guardare la sala per notare che apparteniamo a mondi culturali diversi.
A questo punto però vorrei invitare al tavolo i rappresentanti delle associazioni, diciamo quelli che
sono rimasti perché se avete visto c’è stato un po’ un via vai. C’è chi era qui presente ma è dovuto
scappare, come Padre Charles della Comunità Anglofona, quindi il gruppo africano che si riunisce
nella parrocchia di San Giacomo.
Noi lo ringraziamo per essere venuto, però purtroppo è dovuto andare alla messa con il gruppo.
Altre persone come ad esempio nel gruppo della Comunità Senegalese, avevano un’importante
incontro di tipo religioso per cui non sono potuti restare.
Chiederei a chi è rimasto, quindi alle varie Associazioni, se possono accomodarsi al Tavolo:
l’Associazione Nigerian Woman Association, vedo la Presidente, Victoria Ajibuola, che è
mediatrice culturale, e vedo Sandra: accomodatevi. Invito ad accomodarsi l’Associazione Ghanese,
l’Associazione Senegalese. Purtroppo le donne del Centro Islamico non sono potute rimanere
perché avevano un impegno religioso presso la loro Moschea. Speriamo sia potuto rimanere con noi
qualcuno dell’Associazione Nigeriana Unita. Chi è riuscito ad organizzarsi e a rimanere prenderà
mano a mano parola. Io vorrei ringraziare le operatrici dell’Ulss che hanno contribuito con passione
a trasformare questo progetto in un momento importante di incontro e confronto, arricchendo quella
che era la richiesta istituzionale.
Ci tengo in questa occasione a ringraziare pubblicamente le operatrici e gli operatori che da anni, in
silenzio, lavorano nello Spazio Donna Straniera: lì visitano le donne, le accompagnano nel loro
percorso di integrazione e visitano anche i loro bambin, perché purtroppo se una mamma è
irregolare anche il suo bambino è irregolare e quindi non ha diritto ad un pediatra.
Lavorare assieme ci ha permesso di conoscerci, confrontarci e raggiungere risultati fruibili per tutti.
Oggi è un momento importante per restituire tutto questo in modo pubblico, perché le Comunità, le
Associazioni e la cittadinanza tutta ne siano a conoscenza. Quando un immigrato arriva qui non è
solo, un immigrato ha comunque le sue reti di appartenenza e quando incomincia ad avere dei
problemi (di documenti o problemi legati alla salute) si rivolge ad un connazionale che lo orienti. Vi
faccio un brevissimo esempio: l’altro giorno ho incontrato e aiutato un signore originario del Ghana
con dei grossi problemi legati ai documenti. Parlando in italiano e con il mio poco inglese, gli ho
spiegato come muoversi in Questura e mi è sembrato che lui avesse capito bene perchè era uscito
dal mio ufficio annuendo. Il giorno dopo mi ha telefonato il Presidente dell’Associazione dei
cittadini ghanesi di Verona e Provincia, mi dice trattarsi del signore che avevo visto il giorno prima,
per il quale mi chiedeva un appuntamento. Ci siamo incontrati, l’interessato è venuto insieme a suo
figlio, che osservava e tentava di capire cosa significa guidare un’associazione e occuparsi dei
problemi dei propri connazionali, e con il signore che io avevo visto il giorno prima. Quindi
l’immigrato non è solo, ma ha una rete di appartenenza a cui fa riferimento e di cui è importante
tenere conto da parte di chi si relaziona con lui. Quindi io credo che le Associazioni di immigrati,
che sono tantissime sul territorio e che promuovono tantissime iniziative, possano anche essere un
luogo dove trasmettere i messaggi legati alla salute, dove diffondere i temi legati alla prevenzione, a
cosa si può fare e a come procedere. Ecco perché poi, quando abbiamo programmato la giornata di
oggi, abbiamo chiesto a varie Associazioni di prenderne parte chiedendo tre cose: da quando esiste
l’Associazione, quali sono i problemi di salute che i propri connazionali portano e come si muovono
per orientare le persone, per incanalare il bisogno di salute rispetto ai Servizi del territorio. Inizio
quindi con Victoria Ajibuola, Presidente di Nigerian Woman Association.
Victoria Ajibuola: buongiorno a tutti, sono Victoria, mediatrice linguistico culturale. Da circa 14
anni lavoro nel campo della mediazione linguistico culturale, collaborando con vari Enti pubblici.
Dal 2004 rappresento la mia nazione, la Nigeria, all’interno delle Nigerian Woman Association,
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costituita nel 2004. La mia Associazione sta svolgendo una parte di questo piccolo progetto
dell’Ulss 20 in collaborazione con il Comune di Verona, Assessorato alle Pari Opportunità presso
casa di Ramya. Noi abbiamo lavorato tanto, ci siamo sentite proprio rappresentanti non soltanto
delle famiglie nigeriane di Verona e provincia, ma anche delle famiglie africane in generale. Prima
di andare avanti vorrei dedicare una canzoncina della mia etnia proprio a questo momento speciale
per l’Africa in sé, perché questo delle MGF è un argomento, una tradizione che ci tocca proprio nel
cuore. Allora la canzone vorrei dedicarla alle donne, poi vi faccio anche la traduzione. [canta]. Vi
traduco quello che ho cantato: “La mamma è un diamante prezioso, non si può acquistare con il
denaro, mi ha accudito per nove mesi nel suo grembo, mi ha accolta nella sua schiena per tre anni.
La mamma è un diamante prezioso e non si può acquistare con il denaro”.
L’argomento per il quale siamo qui oggi, il tema in sé, riguarda proprio le mamme, perché nella
nostra tradizione africana in generale questo tema è molto molto importante. Ovviamente in questo
periodo moderno è stato definito in un altro modo, però noi che apparteniamo a quella tradizione
sappiamo che cosa è. Perchè è una tradizione che dà i valori, dà i valori alle donne. Come voi sapete
bene le donne spesso in Africa sono sottomesse. L’unica area dove la donna si sente valorizzata è
proprio in questo tema delle mutilazioni genitali femminili. Ovviamente la parola mutilazione è
una parola europea, però almeno per quello che riguarda la Nigeria sarebbe da dire female
circumcision, che vuol dire circoncisione femminile come c’è anche quella maschile. Ecco perché
non la sentiamo come una pratica pericolosa o quello che è. Attraverso questo percorso, questo
progetto che abbiamo portato avanti a casa di Ramya per ben tre mesi, siamo riuscite a vedere
donne africane di varie nazionalità, di varia provenienza, sia donne nigeriane che fanno parte
dell’Associazione, sia donne che non ne fanno parte e che appartengono ad altre etnie della Nigeria.
Poi le donne Ghanesi, della Tunisia, del Marocco, Algeria, Eritrea, infatti con questo bel gruppo di
donne abbiamo iniziato un percorso per confrontarci su questo tema. E siamo uscite da questo tema
dicendo: le donne e mamme africane hanno detto che la circoncisione femminile o le mutilazioni
genitali femminili, come si vuol chiamare, non è una pratica di atrocità come è stata definita in tanti
libri ma è soltanto un’antica tradizione che però va assolutamente cambiata. Alla fine siamo riuscite
ad arrivare ad un accordo, dobbiamo trovare il pieno appoggio e la disponibilità da parte di tutte le
altre donne che non hanno ancora fatto parte di questo gruppo affinché questa pratica cessi, almeno
nel modo in cui è stata attuata fino ad ora. All’interno del nostro percorso cosa abbiamo fatto:
abbiamo contattato, cercando di creare un’alleanza, un altro servizio che lavora già nel campo da
anni. E’ un servizio che si trova a Londra , African Family Service, siamo riusciti ad organizzare
una consulenza da loro e hanno rappresentato il progetto a livello europeo, il progetto Dafne, così
da dare la possibilità a questo progetto che abbiamo iniziato con l’Ulss 20. Perché per noi, per la
prima volta a Verona un Ente pubblico valorizza il benessere delle donne africane. Non è da poco e
infatti siamo molto molto grate per questo. Poi prima di concludere avrei bisogno di ringraziare le
persone che mi hanno aiutato a svolgere questo bel lavoro, partendo da Sandra che è la vice
presidente dell’Associazione, che è con me da quando abbiamo fondato l’Associazione, poi Mabel
che è in mezzo al gruppo che mi ha dato una mano nell’aspetto culturale e anche nella cucina
perché quando si parla di far conoscere la cucina e la danza nigeriana anche Mabel dà il suo
appoggio e il suo contributo all’Associazione. Poi ho avuto anche il contributo e la collaborazione
della dott.ssa Virgili Nora, che è seduta lì in mezzo al gruppo: lei viene dalla Tunisia, è parte di una
coppia mista, che ha dato una collaborazione ottima in questo progetto a partire dalle traduzioni sia
nella lingua araba che francese delle donne che provengono dalla sua area. Janet che è una ragazza
ghanese, molto molto giovane , che ha portato l’esperienza giovanile, perché nel nostro percorso
abbiamo avuto la fortuna di avere una nostra amica islamita, che è sposata con un tunisino e sua
suocera è in Italia in questo momento. Quindi abbiamo iniziato con loro anche l’esperienza della
persona anziana che ci ha raccontato tante cose sulle tradizioni. Vorrei anche ringraziare la dott.ssa
Livia Alga che ha curato l’aspetto della frequentazione delle donne straniere a corsi per imparare
l’italiano, perché sappiamo che non tutte le donne africane sanno la lingua italiana e lei ha lavorato
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tanto, con tanti materiali e oggi è un peccato che non siamo riusciti a proiettarli. Lei ha fatto tutto il
possibile per aiutare queste donne a comprendere e a esprimere quello che hanno da dire sul tema.
Ringrazio tutti per questa opportunità. Grazie a tutti.
Dunca: Bene, dal gruppo della Nigeria passiamo a quello del Ghana.
Olivia Alice Andoh: buonasera, grazie a tutti, grazie al Comune di Verona, grazie alle dottoresse di
Terra dei Popoli, grazie di questa occasione perché abbiamo l’opportunità di essere qua anche noi
come Comunità Ghanese. Grazie a tutti. Dobbiamo ringraziare per prima cosa i dottori e le
dottoresse che hanno fatto gli incontri con le donne ghanesi. Il tema di cui parliamo oggi è molto
molto interessante e abbiamo capito che tanti di noi hanno questo problema delle circoncisioni
femminili. E’ un tema molto pesante da affrontare. Dopo gli incontri con le dottoresse qui presenti
abbiamo incontrato la nostra Ambasciatrice qui in Italia che è una donna, ed è rimasta molto colpita
da questo lavoro e cercherà di fare di tutto per portare questo progetto anche giù nel nostro paese.
Ringrazio tanto anche le mediatrici culturali. Che Dio ci benedica tutti per andare avanti insieme per
realizzare questo sogno per le nostre donne ghanesi che sono rimaste in Ghana. Grazie a tutti.
Dunca: Effettivamente anche noi siamo rimaste un po’ spiazzate dall’essere chiamate al telefono
dall’ambasciatrice del Ghana che voleva sapere cosa si stava facendo sempre per quello che dicevo
prima, che gli immigrati non sono soli e le informazioni girano. Dopo che la Dott.ssa Mortaro era
andata in un gruppo, subito dopo le donne sono andate a riferire. Quello che mi è piaciuto molto è
che hanno riferito più ce altro il rispetto che gli operatori hanno avuto nell’affrontare il tema e
questo è molto importante perché si può non essere d’accordo sulle cose, è normale, però quando si
ha rispetto nel modo di relazionarsi con gli altri l’altro percepisce questo tuo rispetto, questa tua
accoglienza. Per ultimo do ora la parola alla rappresentante dell’Associazione Goreonesta .
Mame Seynabou Fall: buongiorno a tutti. Io vengo dal Senegal. Nella prima parte vi parlerò della
nostra Associazione Gore-Onesta, che è stata creata nel 1994 a Verona. Abbiamo due sedi: una a
Verona e una a San Bonifacio. Nel 1994 nell’Associazione erano presente solo uomini, che
lavoravano da soli, poi dal 2004 sono entrate a fare parte anche donne dell’Associazione, donne che
facevano precedentemente parte di altre Associazioni. Noi senegalesi abbiamo un continuum,
iniziano prima sempre i più grandi, poi quando siamo arrivati io e altre ragazze abbiamo trovato le
donne più anziane che ci hanno mostrato la strada per andare avanti. Fino a questo momento stiamo
lavorando da soli, cercando di tirare avanti contando sulle nostre forze perché abbiamo la cultura
dello stare insieme, del lavorare insieme. Ci sono certe cose di cui parliamo liberamente con altri e
certe di cui discutiamo solo tra di noi. E’ difficile quando uno lascia il suo paese perché a casa
lascia gli affetti, non parla la lingua e quindi se stai male o bene o sei incinta non riesci a
comunicarlo. Io prima di conoscere l’Associazione ho sofferto tanto perché mi sentivo persa, non
sapevo quale strada prendere. Vai da una parte e ti senti dare delle risposte che veramente ti fanno
male, però per fortuna ho incontrato delle donne che mi hanno aiutata e non finirò mai di
ringraziare. Volevamo anche chiedere alle organizzatrici del progetto di continuare sul tema della
salute delle donne perché ci teniamo molto. Se una donna non sta bene, i suoi bambini non possono
stare bene, è sicurissimo questo. La donna è tutto. Chiedo a tutte le donne, straniere e italiane di
stare insieme, di aiutarci tra di noi, solo così i nostri bambini potranno stare bene. A volte esco e
vedo delle bambine della nostra Comunità che non sanno ancora dove mettere i piedi. E’ vero, sono
ancora giovani, ma io ho una bambina e a volte ho certi pensieri che mi turbano. Voglio vedere
crescere mia figlia senza la sofferenza negli occhi. Ci sono certe situazioni che veramente fanno
male. Chiedo quindi a tutte le operatrici che sono venute ad incontrare tutte le donne di continuare
con questo programma perché possiamo trovare altre soluzioni. Nella vita se le donne stanno bene
tutti staranno bene. Grazie.
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Ioana Dunca: le riflessioni che avete condiviso con noi sono molto “intime”, hanno a che fare con i
vostri vissuti, le esperienze personali, i vostri ricordi legati alle pratiche MGF.
I
racconti sono molto significativi, ci permettono di avvicinarci alle cose “cercando di capire” la
rappresentazione delle pratiche mutilatorie subite, e la fatica per le donne immigrate di “vedersi in
un altro modo” e di vedere le loro figlie in altro modo. I vostri racconti ci chiedono di riflettere su
alcune questioni:
• I valori tradizionali delle propria terra d’origine sono ancora validi qui?
• Cambiare significa “occidentalizzarsi” oppure si possono trovare altre vie?
• L’essere “segnati nel corpo” è marchio di appartenenza e di adesione al gruppo, a
quell’insieme di valori, costumi e credenze. Quali sono le scelte fatte oggi dai giovani
per siglare le loro appartenenze?
• Come reinterpretare il ruolo femminile secondo un processo transculturale?
• Quale atteggiamento tenere nella nuova realtà?
Oltre alle riflessioni che facciamo singolarmente credo che gli Enti con i quali abbiamo lavorato in
questo progetto debbano riflettere su quali politiche attivare perché le donne immigrate possano
trovare nei vari servizi sostegno, apertura e possibilità di dialogo sui temi della salute femminile.
L’accoglienza e l’ascolto sono fondamentali per poter prevenire il ripetersi di certe pratiche ed
esperienze traumatiche.
Nel promuovere questo incontro tutti, cittadini italiani e stranieri, operatori delle istituzioni hanno
potuto osservare e percepire quanto sia importante una relazione di reciproca conoscenza per
incontrare forme di collaborazione e di protagonismo attorno al tema della salute globale dei
soggetti stranieri e non.
Si entra infatti a far parte della società d’accoglienza perché se ne condividono le opportunità e le
difficoltà, perché si sperimenta il progetto sociale del paese in cui si vive, attraverso l’esperienza
concreta della relazione tra lo Stato, i suoi servizi, i suoi cittadini.
E’ questo il motivo per il quale l’accesso ai servizi e la loro fruizione divengono espressione
concreta del diritto di cittadinanza, del senso di piena appartenenza alla società civile di
accoglienza. Essere inseriti, però, non deve significare mimetizzarsi, scomparire all’interno di
un’omologazione. Deve invece poter permettere di gestire consapevolmente le appartenenze
culturali, quella del contesto di provenienza e quella del paese di accoglienza. Perché questo
avvenga la strada da creare deve essere percorribile nei due sensi. Da un lato gli stranieri devono
poter conoscere e mettere in pratica i passaggi che regolano l’accesso ai diritti, ai servizi sociosanitari, educativi ecc…, ma anche essere consapevoli dei doveri. Dall’altro la società civile di
accoglienza deve contrastare discriminazioni e marginalità sociale e aprirsi alla ricerca di una
pratica della convivenza con le diversità. Dinanzi a questi nuovi bisogni diventa sostanziale una
politica dell’inclusione che contribuisca tra l’altro ad affinare le tecniche di mediazione tra valori
disomogenei, spesso conflittuali, e ad attivare nuovi strumenti e soggetti che siano in grado di
avvicinare gli stranieri ai propri diritti, facendone comprendere l’esistenza e il senso, ma soprattutto
di renderli protagonisti della nuova cittadinanza nel qui ed ora.
Grazie mille a tutte le donne per il loro contributo. Io restituisco il compito di coordinare i lavori
alla Dott.ssa Barbieri. Ringrazio di cuore tutti quanti e anche tutte le Associazioni che hanno voluto
partecipare.
NUOVE PROGETTUALITÀ PER LA PROMOZIONE DELLA SALUTE:
LA CURA ATTRAVERSO LA PREVENZIONE
Cristina Barbieri: Chiedo che vengano al tavolo Cristina Zuppini e a Lara Simeoni. Cristina
Zuppini è un’ostetrica, un pilastro dei Consultori Familiari di Verona. Da anni si occupa dello
spazio Donna Straniera e in questo momento è referente di un nuovo progetto, che vi presenterà, e
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che ci permetterà di proseguire questo rapporto di scambio con le donne che provengono da altri
paesi del mondo, da altre culture. A seguire la Dott.ssa Lara Simeoni: psicologa psicoterapeuta,
collabora con l’Ufficio Educazione alla Salute dell’Ulss20 e anche lei ci parlerà delle nuove
progettualità per la promozione alla salute.
Cristina Zuppini: Ci sarà un nuovo progetto, e idealmente potrebbe essere la continuazione del
Progetto MGF. Un progetto che si propone di tenere ancora lo sguardo sulla salute delle donne che
arrivano nel nostro paese dalle altre parti del mondo.
Promosso dall’Istituto Superiore di Sanità e dal Centro nazionale per la Prevenzione ed il Controllo
delle Malattie (CCM) dal titolo molto articolato: “Prevenzione IVG e donne straniere” e
sottotitolato “ per una maternità responsabile e la prevenzione dell’aborto, la tutela della maternità e
la prevenzione dell’abbandono del neonato” e ancora “ per facilitare l’accesso e la fruibilità dei
servizi”.
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L’intenzione è quella di poter continuare con la stessa filosofia che ha ispirato il bellissimo lavoro
che oggi è stato presentato, dunque il lavoro con le comunità di migranti, cercando però di fare un
passaggio verso i consultori familiari.
Oggi abbiamo potuto scoprire come le comunità si sono aperte agli operatori , l’intenzione è che i
consultori in questo nuovo progetto si predispongano ad accogliere i gruppi di donne straniere per
un lavoro di confronto sulla salute delle donne e dei loro bambini.
Lara Simeoni: Buonasera a tutti. Ringrazio chi mi ha invitata. Io oggi rappresento il Servizio
Promozione ed Educazione alla Salute che è un servizio dell’Ulss 20 che da sempre si occupa di
promozione della salute.
Chi mi ha preceduto ha parlato di come la promozione della salute in alcune comunità straniere sia
un concetto difficile da comprendere perché nei paesi di origine si accede ai servizi di cura quando
si sta male e non quando si sta bene e si vuole continuare a stare bene. Il Servizio a cui appartengo
quindi ha una doppia sfida:
▪ Promuovere la salute a tutti
▪ Promuovere la salute soprattutto a chi ne ha di meno e a chi può accedere, per diversi
motivi, con più difficoltà alla tutela della propria salute e alle informazioni necessarie per
prendersi cura di sé, della propria famiglia e dei propri bambini.
In particolare, il mio servizio si occupa della Promozione della Salute Materno Infantile con due
progetti che forse avete già sentito.
Uno esiste all’Ospedale di San Bonifacio da 10 anni e si chiama “Baby Friendly Hospital”. E’ un
progetto dell’UNICEF che in tutto il mondo promuove l’allattamento al seno, uno dei primi e
principali atti di salute che noi donne possiamo fare per nostri bambini. Si è detto prima, che nel
nostro territorio ci sono circa il 30% di bambini che nascono da madri straniere e quindi è
obbligatorio che tutti i messaggi di salute, di promozione alla salute vengano utilizzati, spesi
correttamente e indirizzati anche alle persone che non parlano la nostra lingua o che non sono nate
in Italia. Per questo motivo, il materiale informativo prodotto è stato tradotto in varie lingue . C’è un
poster che descrive i dieci passi che un ospedale deve rispettare per essere un ospedale “Amico del
Bambino” e quindi promuovere fortemente l’allattamento al seno.
Un altro progetto che portiamo avanti da circa 6 anni è il Progetto “GenitoriPiù” che promuove otto
azioni semplicissime che noi genitori, mamme e papà, possiamo mettere in atto da prima della
gravidanza fino al primo anno di vita per garantire il migliore stato di salute ai nostri bambini e
proteggerli dai rischi maggiori. La nostra attenzione da sempre e sempre di più è che questi
messaggi di salute arrivino a tutti, e quindi li abbiamo tradotti in 14 lingue. Il nostro obiettivo è che
questo materiale che è cartaceo, video e Web arrivi non solo a chi accede ai Servizi ma anche
prima, in altri contesti. Quindi per noi è importantissima la collaborazione con Mara (Dott.ssa
Fasoli), il Servizio Donna Straniera, in modo che queste informazioni arrivino a chi forse non
conosce queste potenzialità di salute e che devono essere condivise da tutti gli operatori del
Percorso Nascita e dalle persone che imparano a fidarsi di noi.
Infine, vi accenno ad un Progetto che è iniziato un mese fa circa, all’interno dell’Ulss20. Il Progetto
“Salute per Tutti” è molto importante e coinvolge la Direzione Generale, la Direzione Sanitaria, la
Direzione Sociale , il Dipartimento di Prevenzione e il mio Servizio. Si pone l’obiettivo di
contrastare le disuguaglianze in salute, in tutti gli ambiti della salute delle persone svantaggiate,
delle mamme, dei papà, degli anziani e dei bambini. Innanzitutto, vogliamo comprendere come i
diversi servizi, e non solo i Servizi che da anni si occupano di questo come i Consultori Familiari e
il Servizio Donna Straniera, ma anche i servizi dove c’è poca abitudine, poca sensibilità rispetto a
queste tematiche, si approccia a voi e alle vostre connazionali e si occupa dei vostri bisogni di
salute: i distretti, gli sportelli amministrativi, i servizi di cura che incontrano persone con difficoltà
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linguistiche, o che sono irregolari e che offrono talvolta risposte molto diverse. L’obiettivo che
vogliamo darci e che a breve speriamo dia esiti importanti, è che l’Ulss20 in tutti i suoi
Dipartimenti, in tutte le sue espressioni dia un miglior accesso, fruibilità e accoglienza a tutte le
persone e soprattutto alle persone che più difficilmente , per provenienza o per cultura, possono
occuparsi della propria salute.
Chiedo di mandare in onda gli spot multilingue GenitoriPiù e vi ringrazio.
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Barbieri: concludiamo questa giornata già emozionante e festosa, con un coro proposto dalle
donne del Ghana che ringraziamo tantissimo a nome di tutti perché era qualcosa di inatteso, ci
speravamo a dir la verità ma non sapevamo se la cosa alla fine si potesse realizzare. Poi ci aspetta
un buffet etnico fuori dal salone e con questo ci saluteremo. Grazie a tutti per essere stai qui con noi
oggi.
Coro: “Dio ha fatto grandi cose per noi e ne farà tante altre ancora più grandi. Amen”.
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“… E tutti coloro che amano la pace,
Proteggano, sostengano, diano una mano
Alle bambine innocenti, che non fanno male,
Obbedienti ai loro genitori, agli anziani,
E che conoscono soltanto sorrisi.
Iniziatele al mondo dell’amore.
Non al mondo del dolore femminile.”
Dahabo Cilmi Muse
Poetessa somala
(Traduzione Sara Zanghi—AIDOS)
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prevenzione e contrasto delle mutilazioni genitali femminili